Congresso GISED 2003 L’educazione terapeutica della persona con diabete: dall’analisi di esperienze ed evidenze un nuovo stimolo al cambiamento Villa Erba di Cernobbio (Como) 27-29 novembre 2003 © 2004 Pacini Editore S.p.A., Ospedaletto (Pisa) Realizzato con il contributo di Roche Diagnostics Copia omaggio riservata ai Signori Medici Realizzazione editoriale, fotolito e stampa Pacini Editore S.p.A., Ospedaletto (Pisa) Tel. 050 313011 – Fax 050 3130300 www.pacinionline.it Finito di stampare nel mese di Luglio 2004 presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A. Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • Pisa Telefono 050 313011 • Telefax 050 3130300 Internet: http://www.pacinionline.it Congresso 2003 Sommario Prefazione A. Corsi ............................................................................................................................................ pag. 5 Saluto dei Presidenti SID e AMD G. Vespasiani.................................................................................................................................. » 7 » 9 » 11 » 19 » 21 » 27 » 37 » 41 » 45 » 51 » 55 Introduzione A. Corsi ............................................................................................................................................ L’educazione terapeutica: una testimonianza lunga trent’anni A. Maldonato.................................................................................................................................. Introduzione ai lavori e modalità operative D. Richini.......................................................................................................................................... Elaborazione e restituzione in plenaria del lavoro di autobiografia narrativa “Quella volta che mi sono sentito educatore …” N. Piana............................................................................................................................................ Tavola Rotonda Moderatori: A. Corsi, V. Miselli Professioni ed educazione terapeutica G. Cecchetto, M. Montesi, R. Toniato, G. Vespasiani ...................................................... L’autobiografia come genere educativo e terapeutico D. Demetrio.................................................................................................................................... “La resistenza al cambiamento” L. Clementi...................................................................................................................................... Lettura Evidence Based Medicine ed educazione terapeutica V. Miselli .......................................................................................................................................... Le dimensioni del sentire P. Gentili .......................................................................................................................................... Gran finale: diabetologi a teatro – Riflessioni sul sentire L. Carboni ........................................................................................................................................ 3 Congresso 2003 Modelli operativi in educazione terapeutica La Scuola Formatori AMD N. Musacchio ................................................................................................................................ » 61 » 65 » 67 » 73 » 81 A. Girelli............................................................................................................................................ » 85 Valutazione dell’evento .................................................................................................. » 96 Progetto “Educazione Terapeutica Strutturata” M. Agrusta ...................................................................................................................................... Nuovi Modelli Assistenziali nel Management del diabete tipo 2: Group Care e Progetto Romeo M. Trento.......................................................................................................................................... Il Basic Curriculum del DESG A. Maldonato.................................................................................................................................. Progetto GISED Censimento dell’educazione terapeutica in Italia D. Bruttomesso ............................................................................................................................ Lavoro di gruppo: “L’implementazione dell’educazione terapeutica: quali proposte?” 4 Congresso 2003 Prefazione Dopo due anni ci ritroviamo finalmente ancora a Villa Erba. Questa volta l’occasione è rappresentata dal Congresso del GISED. Quando Daniela Bruttomesso, Luciano Carboni, Lina Clementi, Angela Girelli, Donata Richini ed io ci siamo riuniti le prime volte in qualità di membri del Gruppo di Coordinamento, abbiamo approfonditamente discusso e definito gli obiettivi che volevamo raggiungere. Pensavamo che per prima cosa fosse giusto condividere e, se necessario, ridefinire l’identità del gruppo di studio e, soprattutto darsi poi un regolamento di funzionamento. Questa è stata la prima cosa che abbiamo fatto, sottolineando la “intersocietarietà”, l’interdisciplinarietà storica del gruppo e la sua discendenza e collegamento con il DESG. Il testo che abbiamo elaborato, inviato ai Presidenti SID e AMD e presentato poi pubblicamente al Convegno di Riccione, si ritrova pressoché integralmente nel regolamento dei gruppi di studio intersocietari che Diabete Italia ha recentemente emesso. Abbiamo poi ritenuto che possedere un quadro esauriente della situazione dell’applicazione dell’educazione terapeutica nel nostro Paese, fosse il punto di partenza indispensabile per poter individuare e proporre azioni utili alla diffusione delle migliori metodologie possibili. Per questo abbiamo preparato, e stiamo proprio ora attuando, un’indagine conoscitiva rivolta alle strutture diabetologiche e alle associazioni dei pazienti. Abbiamo ancora pensato di disegnare un percorso culturale che evidenziasse la necessità, di cui siamo fermamente convinti, di condividere con infermieri professionali, dietisti e podologi, la complessità dell’educazione terapeutica e la necessità di analizzare possibili strategie di miglioramento. La condivisione di questi aspetti ci è parsa inoltre massimamente necessaria con le nostre figure istituzionali, i Presidenti Nazionali e Regionali, che più di tutti hanno l’onere dell’attuazione di quelle azioni, specialmente a livello politico, che il gruppo di studio può proporre. Questi temi costituiscono uno dei due assi portanti di questo congresso GISED e si sviluppano attraverso la prima tavola rotonda, cui partecipano proprio i Presidenti delle Società, e attraverso il lavoro di gruppo dell’ultimo giorno da cui scaturiscono proposte concrete. L’altro asse, risponde all’esigenza di proporre innovazioni metodologiche o culturali e sviluppa sostanzialmente il tema dell’autobiografia narrativa. Non voglio tuttavia addentrarmi nei dettagli del programma del Convegno nel quale ci guida sapientemente Donata Richini nel suo intervento. Mi piace invece ricordare come il Gruppo di Coordinamento abbia subito ritenuto la riunione di Villa Erba l’occasione più opportuna per il proprio Congresso. La calorosa e pronta adesione di Massimo Balestri ci ha spronato a dare corpo all’idea che si è realizzata con la preziosa collaborazione di Aldo Maldonato e Valerio Miselli e con l’indispensabile opera di supporto di Guido Niessner. Anche nella progettazione di questo Villa Erba abbiamo deciso di lasciare ampio spazio ai lavori in gruppo come è consolidata tradizione di lavoro del GISED. Abbiamo poi voluto confermare un’altra esperienza che avevamo iniziato nel convegno di San Benedetto del Tronto: l’applicazione esperenziale sotto la guida del maestro Di Bonaventura. Ci siamo presto resi conto che non sarebbe stato facile incastonare il suo lavoro nel convegno scientifico ma siamo sempre stati convinti altresì che non sarebbe stato possibile rinunciare alla forza del suo messaggio. Il costante successo che i suoi interventi avevano raccolto in tutte le occasioni di aggiornamento a cui era stato invitato a partecipare ci confermavano che dovevamo arricchire anche questo Villa Erba con il suo speciale contributo. Il punteggio ECM riconosciutoci e l’analisi dei giudizi espressi dai partecipanti ci fanno ritenere che anche questo Villa Erba abbia colto nel segno. Desidero pertanto ringraziare il 5 Congresso 2003 Comitato Scientifico per la fatica profusa. Un ringraziamento speciale va alle figure Istituzionali che hanno voluto partecipare ed arricchire il convegno con il peso “politico” che le loro cariche comportano. Desidero infine ringraziare Roche Diagnostici per la consueta sensibilità e generosità. Qualche settimana fa è mancato Umberto Di Mario. Anche se queste righe verranno lette con tanto ritardo, voglio esprimere, anche a nome di tutto il Gruppo di Coordinamento e del Comitato Scientifico del convegno, il nostro dolore, ricordandone la profonda umanità oltre che la grande capacità didattica e scientifica. In qualità di Coordinatore del GISED non posso che concludere questo breve preambolo con l’augurio che altri convegni del Gruppo ci vedano ancora riuniti a Villa Erba. ANDREA CORSI Coordinatore Gruppo Italiano di Studio per l’Educazione sul Diabete (GISED), SID-AMD 6 Congresso 2003 Saluto dei Presidenti SID e AMD Sono qui per porgere a tutti voi i saluti di AMD e SID. Come Presidente di AMD vorrei dirvi che quando parlo al GISED mi sento a casa mia; grazie al GISED ho imparato molte cose, ho imparato a conoscere delle persone e successivamente sono stato coinvolto in prima persona nella gestione e nel lavoro di questo gruppo. Dire che si tratta di un gruppo intersocietario è dire poco poiché non è soltanto un gruppo di persone appartenenti alle due società, AMD e SID, ma anche un gruppo che coinvolge altre professionalità, persone che fanno parte del GISED in maniera assolutamente autorevole e giustificata. Sono i fatti quelli che contano e forse, poi, i riconoscimenti amministrativi; i riconoscimenti regolatori possono venire dopo, ma credo che siano meno importanti. All’interno del GISED si è sempre sofferto della mancanza di riconoscimento: vi era il desiderio e insieme la difficoltà di fare molte cose. Era una sede di discussione in cui si parlava, si affrontavano gli argomenti vedendoli da punti di vista diversi. Potrei dire anche che era un laboratorio perché diverse persone con alte capacità, ma diverse provenienze professionali, vi apportavano le loro specifiche esperienze. Quest’integrazione di varie professionalità è un dovere per la diabetologia. La diabetologia italiana ha fatto del concetto di équipe la sua fortuna: curare una persona con una situazione cronica come il diabete richiede l’intervento di più persone e quindi di un’équipe. Averlo intuito e realizzato, almeno in parte, è stata una grande opportunità che le nostre Società e tutti noi diabetologi abbiamo saputo raccogliere e che ci ha aiutato a crescere. Trovare una formula esaustiva per regolamentare e strutturare in maniera definitiva gruppi come questo non è facile perché il modo di pensare è diverso anche solo tra diabetologi. Tuttavia, questo non deve far pensare che i tentativi non siano sempre e costantemente in corso. Si percorre una strada fino ad arrivare ad un certo punto, poi si vede che magari non è la strada migliore per raggiungere la meta fissata e quindi se ne studia un’altra. L’ultima concretizzata consiste nell’aver stilato lo statuto per una nuova struttura cooperativa tra le Società che si chiamerà Diabete Italia. Ormai non è più una parola o una sperimentazione, ma sta per diventare una realtà. Durante il Congresso di Riccione, infatti, lo statuto è stato approvato dalla SID, mentre l’AMD lo ha rivisto all’interno del suo Consiglio direttivo e lo sta condividendo in questo periodo a livello di Consigli direttivi regionali. L’idea è di cercare altri mezzi che aiutino tutti gli attori del mondo diabetologico a collocarsi nel proprio giusto ruolo nell’ambito dell’équipe e di una collaborazione ampia. Se questo accadrà, infatti, sarà tutta la diabetologia a trarne vantaggio. Vorrei quindi ringraziare tutti i presenti per l’attenzione e per il lavoro che faranno con grande passione e anche con divertimento, dato che il GISED è sempre stato poco ortodosso ed ha introdotto meccanismi totalmente nuovi nella realizzazione dei suoi lavori. Vorrei infine ringraziare Roche Diagnostics che ha supportato questo gruppo fin dall’inizio e lo ha fatto con una presenza sempre molto elegante e funzionale al raggiungimento della meta. GIACOMO VESPASIANI Presidente Associazione Medici Diabetologi 7 bianca Congresso 2003 Introduzione Il GISED, gruppo intersocietario di AMD e SID, prende le sue origini dal DESG, il Gruppo della Società Europea di Diabetologia che si occupa di educazione terapeutica. Le finalità che il DESG si propone sono: “migliorare la qualità di vita del paziente diabetico attraverso lo sviluppo e la valutazione di programmi educazionali disegnati per potenziarne l’indipendenza; migliorare la qualità del controllo metabolico; sottolineare l’importanza della prevenzione e della diagnosi precoce della malattia e incoraggiare la ricerca”. Se questi sono gli obiettivi del DESG, il GISED si definisce un “gruppo pluri-professionale orientato ad un lavoro in team che promuove la ricerca e l’applicazione delle metodiche educative di eccellenza idonee a favorire condotte di salute nella persona con diabete e nella sua famiglia”. Il GISED si costituì nel 1981 a Tivoli per volere di Aldo Maldonato che raccolse attorno a sé alcuni pionieri. Nel 1985 questo gruppo, nato come gruppo indipendente di appassionati dell’educazione terapeutica, entrò a far parte dei gruppi di studio della SID e nel 1994 anche dell’AMD, diventando così bi-societario. Il gruppo attuale ha ricevuto il suo mandato dopo il Congresso SID di Verona e si è costituito nella sua composizione definitiva durante la prima riunione del 25 novembre 2002. I risultati di quest’anno di lavoro sono: la stesura di un regolamento; l’avvio di un’indagine conoscitiva sulle attività educative delle strutture diabetologiche e delle associazioni di pazienti; l’organizzazione di questo convegno ed il supporto formale e la collaborazione didattica al corso di implementazione del basic curriculum del DESG, che è recentemente iniziato a Celano e si concluderà in aprile prossimo. Questo corso di formazione di base in educazione terapeutica si modella sui contenuti del basic curriculum del DESG, ed è innovativo per l’Italia, essendo il primo evento nel quale la formazione in educazione terapeutica è fornita in modo così sistematico e completo. In altri paesi sono già stati organizzati corsi di implementazione del basic curriculum. Ritengo che sia opportuno che il GISED, gruppo di studio che ha nella formazione degli educatori un punto forte della sua missione, si faccia formalmente garante dell’organizzazione del corso di implementazione del basic curriculum anche per il futuro. In Italia sono sicuramente molte le Strutture Diabetologiche che svolgono programmi di educazione rivolti alle persone con diabete. Tuttavia poco si sa circa la metodologia di lavoro, il tipo di prestazione effettuato, il ruolo svolto dalle diverse figure professionali. Per facilitare l’uniforme diffusione di una corretta metodologia è indispensabile conoscere da dove si parte e quali sono le risorse esistenti. È per questo che il GISED ha deciso di svolgere un’indagine a livello nazionale che verrà condotta con l’ausilio di questionari specifici che tutti voi riceverete nelle prossime settimane. I risultati che raccoglieremo serviranno per capire in quale direzione muoverci per migliorare l’applicazione dell’educazione terapeutica. D’altro canto questo è anche l’obiettivo finale a cui il Comitato Scientifico, attraverso la condivisione della complessità dell’educazione terapeutica e il coinvolgimento istituzionale delle figure professionali che svolgono un ruolo attivo nell’educazione terapeutica, vuole giungere in questo convegno. La partecipazione di infermieri, dietisti e podologi alle iniziative del GISED è ormai una tradizione, tuttavia in questo convegno essa assume un’importanza speciale, essendosi voluto sottolineare attraverso la presenza delle figure istituzionali delle diverse associazioni, il ruolo che tutte svolgono nella educazione del paziente e la responsabilità che tutte hanno nello sviluppo dell’educazione terapeutica. Dunque desidero ringraziare i rappresentanti istituzionali dell’AMD, della SID, 9 Congresso 2003 dell’OSDI, dell’ANDI e dell’API per la loro presenza, così come ringrazio tutti i convenuti. Altrettanto desidero fin d’ora ringraziare Roche Diagnostics la cui generosità ci consente di ritrovarci in questa splendida sede divenuta ormai sede tradizionale di incontro per gli educatori. ANDREA CORSI Coordinatore Gruppo Italiano di Studio per l’Educazione sul Diabete (GISED), SID-AMD 10 Congresso 2003 L’educazione terapeutica: una testimonianza lunga trent’anni ALDO MALDONATO Presidente, Diabetes Education Study Group (DESG) dell’EASD Per iniziare queste giornate di lavoro vorrei ascoltare insieme a voi un brano musicale. Si tratta del preludio a “La Forza del Destino” di Giuseppe Verdi, che ho scelto perché a mio parere è pertinente con il nostro lavoro. La forza del destino può essere considerata invincibile: molti pensano di non poter far nulla contro il proprio destino. Il nostro lavoro consiste proprio nell’aiutare le persone a modificare il loro destino nel campo della malattia cronica. Noi consigliamo ai nostri pazienti di cambiare alcuni comportamenti. Perché sforzarsi di cambiare se il destino è ineluttabile? Durante questi due giorni di lavoro ci focalizzeremo su questo tema. Prima e poco dopo la mia laurea in medicina, a Roma nel 1971, passavo molti pomeriggi in reparto misurando la glicosuria sulle urine di 24 ore, anche se non mi era chiaro il nesso tra quello che facevo e la terapia del diabete. Le glicemie di solito comunicate dopo uno o due giorni, la glicosuria di 24 ore e la chetonuria non erano le variabili idonee per aggiustare il trattamento. Ciò avveniva piuttosto sulla base dei sintomi. Ero conscio del senso di inutilità di quello che stavo facendo. Il nesso fra glicosuria e terapia insulinica non mi è stato insegnato a quell’epoca. D’altra parte ho imparato molto sulla diagnostica, tanto che il nostro gruppo è stato tra i primi a misurare l’insulinemia e la glucagonemia sia nel diabete sia nelle sindromi ipoglicemiche. Mi piaceva stare in laboratorio e fare ricerca clinica, ma avevo la sensazione di vedere i dettagli di un quadro senza avere idea di come fosse l’insieme. Nel 1972 il mio capo mi ha mandato in un famoso centro di ricerca: l’Institut de Biochimie Clinique dell’Università di Ginevra diretto da Albert Renold. Nessun paziente lì, ma solo ricerca in vitro su ratti e topi. Ho studiato la regolazione della secrezione e della biosintesi dell’insulina e queste sono state le mie sole pubblicazioni in ricerca di base. La visione del quadro si allargava, ma era ancora stretta e frammentaria. Si è ampliata quando JeanPhilippe Assal è tornato dalla Joslin Clinic di Boston e ha aperto nell’Ospedale Cantonale di Ginevra l’Unità di Trattamento e Insegnamento sul Diabete. I dettagli si sono inseriti nell’insieme del quadro: ho passato un anno e mezzo nell’Unità di Assal nel 1974-’75. Lì ho cominciato a imparare la clinica del diabete e ho sentito parlare per la prima volta di educazione sul diabete. Introduzione Per ridurre la “forbice” tra le conoscenze scientifiche e la pratica medica. Ho creduto così tanto nel bisogno di cambiare l’approccio medico tradizionale che da allora in poi ho sempre lavorato in questo campo, nel quale probabilmente ho molto più seminato di quanto non abbia raccolto, come la maggior parte di noi. L’educazione terapeutica aveva allora una storia già lunga: c’era stata un’epoca pionieristica fra gli anni ’20 e gli anni ’60 con persone note come E.P. Joslin a Boston, R.H. Lawrence a Londra, E. Roma in Portogallo e, negli anni ’50, M. Silvestri-Lapenna a Roma e B. Bruni a Perché l’educazione sul diabete? 11 Congresso 2003 Torino. Gli anni ’70 hanno visto l’accettazione dell’educazione terapeutica da parte della medicina ufficiale. È stato dimostrato il grosso vantaggio economico derivato dalla prevenzione delle complicanze acute e sono state fondate l’Associazione Americana degli Educatori sul Diabete (AADE), mentre Jean-Philippe Assal ha fondato in Europa il Diabetes Education Study Group (DESG) della Società Europea di Diabetologia. Gli anni ’80 sono stati all’insegna dell’entusiasmo per la nuova disciplina, con la nascita di riviste scientifiche e la realizzazione di workshop e linee-guida. Sono stati gli anni in cui si è promosso un approccio globale bio-psico-sociale alla persona con diabete. Gli anni ’90 hanno visto l’impegno per migliorare l’efficacia con la motivazione ed è di questi anni anche lo sforzo per migliorare l’organizzazione dell’assistenza. Oggi le principali sfide sono proprio queste: maggiore efficacia, miglioramento della motivazione, diversa organizzazione dell’assistenza. Mai come oggi ci rendiamo conto che l’approccio biomedico, per quanto ampio, non è sufficiente. È necessario tenere conto dell’ambiente familiare, sociale e lavorativo del paziente, oltre che della persona nel suo insieme: dei suoi sentimenti, delle sue credenze sulla salute, del suo locus di controllo, delle sue abitudini e del desiderio di cambiarle, di come percepisce le sue barriere e la sua auto-efficacia. Sono tutti aspetti di cui oggi dobbiamo tener conto nella cura della malattia cronica e in particolare del diabete. 12 Che cos’è l’educazione terapeutica Negli anni le denominazioni sono cambiate: all’inizio si parlava di educazione sul diabete, poi di educazione del paziente e, a un certo punto, in Europa, abbiamo iniziato a chiamarla Educazione Terapeutica del Paziente (ETP, o TPE in inglese). Negli Stati Uniti si usa di preferenza la dizione Diabetes Self Management Education (DSME). Esistono numerose definizione dell’Educazione Terapeutica: tutte hanno in comune il fatto che si tratta di un processo sistematico di lunga durata che dovrebbe accompagnare tutta la cura (e quindi la vita del paziente) ed è volto a migliorarne la qualità di vita e il controllo metabolico. Sue caratteristiche generalmente accettate sono che si tratta di un’attività centrata sul paziente e orientata al paziente, basata sulla moderna teoria pedagogica, parte di un approccio globale bio-psico-sociale, valutata e modificata di conseguenza, e documentata. La valutazione dei risultati si misura in base al raggiungimento degli obiettivi; meglio questi sono definiti, tanto più è facile valutarne il raggiungimento. Per semplicità è opportuno fare una distinzione tra obiettivi educativi e obiettivi terapeutici che vanno controllati con gli strumenti appropriati. Per obiettivi educativi si intende: migliorare la conoscenza della malattia, dei rischi associati e della possibilità di prevenirli; migliorare la capacità pratica di attuare la terapia, il monitoraggio della glicemia, la cura dei piedi, le iniezioni di insulina; indurre i comportamenti atti a integrare la terapia nella vita quotidiana, inclusi un sano stile di vita e l’autogestione. La valutazione deve essere calibrata sugli obiettivi iniziali e non sul miglioramento dell’emoglobina glicata come è stato fatto negli anni ’80. Gli obiettivi terapeutici sono importanti, ed è ormai dimostrato da tempo che un’educazione terapeutica efficace consente di raggiungere importanti risultati biomedici: dagli anni ’70 la prevenzione delle complicanze acute; dagli anni ’80 la prevenzione del piede diabetico; e dagli anni ’90 il miglioramento della qualità di vita. I risultati dell’educazione terapeutica Per valutare il processo dell’educazione terapeutica, è sufficiente considerare i seguenti risultati: la conoscenza acquisita, le abilità pratiche apprese, la motivazione dei pazienti, le modifiche di comportamento ottenute e la loro persistenza nel tempo; per tarare il nostro intervento, dobbiamo inoltre prendere conoscenza dei fattori individuali che influenzano in un senso o nell’altro la motivazione. Congresso 2003 Valutando questi elementi del processo, siamo in grado di sapere se il nostro intervento educativo è più o meno efficace e possiamo modificarlo opportunamente. Un’altra linea di valutazione importante è quella dell’effetto sulla qualità di vita. Si è visto che è possibile ottenere un circolo virtuoso che consente, mediante un’educazione mirante a potenziare l’empowerment e l’abilità di coping, di migliorare la qualità di vita, l’autogestione del diabete e i risultati biomedici. Conoscenza Da tempo la ricerca ha dimostrato che la conoscenza può crescere grazie all’educazione terapeutica e che un rinforzo regolare o la ripetizione allungano la persistenza dell’aumento. Abilità pratiche Per quanto riguarda i risultati in termini di abilità pratiche (per esempio iniezione di insulina, automonitoraggio, stima del peso e del contenuto di calorie o dei carboidrati dei cibi, trattamento dell’ipoglicemia, cura dei piedi ecc.) ci accorgiamo che sono anch’esse necessarie, ma non sufficienti per la maggior parte delle persone. Quando il saper fare cose manuali è un obiettivo di apprendimento concordato, il suo raggiungimento dovrebbe essere valutato con strumenti idonei. È stato infatti dimostrato che le abilità possono essere apprese e che l’apprendimento può durare nel tempo. Il problema nasce dal fatto che raramente le abilità sono state valutate scisse dal comportamento e non è sempre chiaro come interpretare i risultati dei comportamenti in termini di addestramento alle abilità, specie in caso di risultati negativi. Motivazione Nodo cruciale nell’autogestione del diabete è la motivazione. La motivazione è ciò che fa fare alle persone quello che fanno, incluso cambiare o non cambiare un comportamento. È molto difficile influenzarla direttamente, ma possiamo stabilire i fattori individuali che la influenzano (credenze sulla salute, locus di controllo, percezione costo/beneficio, barriere, auto-efficacia ecc.) e possiamo stabilire la motivazione al cambiamento. Un modello sviluppato dal gruppo di Prochaska negli anni ’90 ha individuato cinque fasi nel processo di cambiamento: tre che precedono l’azione (precontemplazione, contemplazione e preparazione) e due relative al cambiamento in atto (azione e mantenimento). In uno studio del 2003 hanno evidenziato che persone con diabete sia di tipo 1 sia di tipo 2 negli stadi di azione avevano abitudini alimentari più sane di quelli che si trovavano negli stadi di preazione. Vari fattori demografici e psico-sociali si associavano con la prontezza a cambiare dieta, p.es. sesso femminile, migliore qualità di vita, maggiore età, magrezza, non-fumo, e aver avuto un’educazione terapeutica. Un altro studio del gruppo di Prochaska, usando un sistema appositamente messo a punto denominato Pathways to change, ha evidenziato un aumento di motivazione per automonitoraggio, mangiar sano e cessazione di fumo in pazienti con Diabete tipo 1 e tipo 2 che erano in uno dei tre stadi di pre-azione. Usando questo strumento, gli stadi pre-azione sono passati ad azione o mantenimento in maniera significativamente maggiore, provando così che anche nella malattia cronica è possibile migliorare la motivazione dei pazienti. Comportamenti I comportamenti sono gli obiettivi educativi più importanti, ma anche i più difficili da valutare, tanto che fino agli anni ’80 si misuravano solo conoscenza teorica e glicemia. Abitudini alimentari, attività fisica regolare e cessazione del fumo sono risultati ottenuti e mantenuti per alcuni mesi fino ad alcuni anni nei trial randomizzati controllati. Più lungo è stato l’intervento più duraturi sono i risultati. È interessante notare che di solito in questi studi, per ragioni 13 Congresso 2003 probabilmente tecniche legate ai trial randomizzati controllati, l’intervento educativo è breve. In genere si limita a una settimana, dopodiché si studia l’effetto ottenuto e la scomparsa dell’effetto in un periodo variabile dai sei mesi ai due anni. Parlando di risultati in termini di comportamenti è utile segnalare che dal 1997 una task force della American Association of Diabetes Educators, guidata dal motto: “dall’educazione guidata dai contenuti all’educazione guidata dai risultati”, ha stabilito che i comportamenti legati alla salute sono i risultati esclusivi e misurabili di un’educazione terapeutica efficace. In particolare, pur non negando l’importanza di obiettivi a largo spettro, hanno considerato come risultati intermedi fondamentali i comportamenti riguardanti sette aree: 1) la scelta dei cibi; 2) l’attività fisica; 3) l’automonitoraggio; 4) i farmaci; 5) la risoluzione di problemi; 6) la riduzione dei rischi cardiovascolari; 7) l’adattamento psicologico. È stato sviluppato uno strumento, denominato National Diabetes Education Outcomes System (NDEOS), a partire da una sorta di questionario (D-smart). Si tratta di uno strumento per un’auto-descrizione da parte dei pazienti centrato su comportamenti, fiducia, intenzioni di cambiare, barriere. Un importante studio sul comportamento è il Dose Adjustment For Normal Eating (DAFNE). Si tratta di un corso su una terapia insulinica intensiva flessibile associata a libertà alimentare. Dopo sei mesi è stato evidenziato un miglioramento dell’emoglobina glicata, un miglioramento della qualità di vita, una non modifica delle ipoglicemie gravi e una non modifica del rischio cardiovascolare (colesterolo, acidi grassi ecc.). In questo studio è stato volutamente evitato un follow-up pro-attivo (richiami, telefonate, ecc.) per valutare l’effetto del solo corso. Lo studio DAFNE è stato pubblicato sul British Medical Journal nel 2002 (DAFNE study group: training in flexible, intensive insulin management to enable dietary freedom in people with type 1 diabetes). Infine ricordiamo che in donne in menopausa con diabete di tipo 2, dopo sei mesi di un breve intervento educativo, si è notata una riduzione dell’emoglobina glicata, un miglioramento della qualità di vita, una riduzione del rischio cardiovascolare (acidi grassi liberi circolanti e body mass index). Un cambiamento comportamentale importante è costituito dall’attività fisica. Alcuni studi non sono riusciti a dimostrare un miglioramento, ma altri hanno rilevato un aumento di breve durata dell’attività fisica. Un recente studio pubblicato nel 2003 da parte del gruppo di Pierpaolo De Feo, ha valutato gli effetti di un counseling di 30 minuti rivolto a sette aspetti: motivazione, auto-efficacia, piacere, sostegno, comprensione, superamento delle barriere, e diario. A due anni di distanza, il 70% delle persone in studio – contro il 18% delle persone di controllo – avevano raggiunto l’obiettivo di attività fisica che corrispondeva a 10 unità metaboliche a settimana (circa mezz’ora di marcia al giorno). Questo studio dimostra che con un intervento di mezz’ora si può influenzare la motivazione su un aspetto così difficile come l’attività fisica quotidiana fino a due anni di tempo. Inoltre, lo studio di De Feo ha dimostrato una riduzione dell’indice di massa corporea e dell’emoglobina glicata. Automonitoraggio Per quanto riguarda l’automonitoraggio, i trial randomizzati controllati hanno dimostrato raramente vantaggi con l’automonitoraggio glicemico nei confronti della glicosuria. I risultati migliori sono associati a un migliore uso dei dati, piuttosto che al numero delle verifiche. Nei vari studi la glicemia risulta più costosa della glicosuria, ma viene preferita dai pazienti. 14 Congresso 2003 Controllo glicemico A proposito del controllo metabolico, invece, esiste una certa controversia perché non sempre il suo miglioramento viene ottenuto, oppure esso è di breve durata. Trial randomizzati controllati nel diabete tipo 2, analizzati in una metanalisi da Norris et al. (Diabetes Care, 2002) hanno dimostrato un miglioramento di piccola entità (una media di riduzione di 0,76 nella HbA1c), ma clinicamente significativo. La riduzione dello 0,76 infatti comporta vantaggi significativi sulla prevenzione delle complicanze; in questo studio l’emoglobina glicosilata si è ridotta di più con il prolungarsi del contatto (1%/23,6 ore aggiuntive di educazione). Serve tuttavia altra ricerca per sviluppare interventi efficaci nel mantenere il controllo glicemico a lungo termine. Nei commenti degli autori appare che interventi prolungati possano essere necessari per mantenere il miglior controllo glicemico ottenuto con l’educazione terapeutica (l’intervento educativo in questi trial era di 5-7 giorni). Gli autori della review che ha valutato 31 trial randomizzati controllati ammettono che “lo studio ha numerosi e importanti limiti tra cui il fatto che siano stati inclusi nella review solo trial randomizzati controllati”, trial che, “in quest’area di ricerca non sono sempre fattibili o desiderabili”. Complicanze acute In merito alle complicanze acute, fin dagli anni ’70-’80 è stata dimostrata una riduzione del 70-80%. Un caso a parte è costituito dalle ipoglicemie gravi, che nel 1993 il DCTT ha indicato come aumentate per effetto del trattamento insulinico intensivo. In realtà già nel 1983 e nel 1987 Muhlauser et al. avevano dimostrato che non si aveva aumento delle ipoglicemie gravi se al trattamento intensivo si affiancava l’educazione terapeutica. Nel 1997 lo stesso gruppo è tornato sul tema e ha dimostrato che effettivamente, con un’educazione mirata, il trattamento intensivo insulinico non comporta un aumento di ipoglicemia. La stessa cosa è stata vista nel 2002 con lo studio DAFNE in cui, con il trattamento insulinico intensivo libero e la dieta libera, le ipoglicemie gravi non si sono modificate: cioè non sono diminuite, ma non sono neanche aumentate. Complicanze croniche Per quanto riguarda le complicanze cardiovascolari, si ritiene oggi che non sia più compito della ricerca in Educazione Terapeutica sul Diabete dimostrare la loro riduzione. Fin dagli anni ’80 è stato invece dimostrato che le lesioni agli arti inferiori dei diabetici si riducono sia in termini di numero (del 50%) che di gravità. Più di recente uno studio che ha valutato 8 trial randomizzati controllati ha evidenziato che, nonostante qualche risultato controverso e metodi di ricerca spesso inadeguati, l’educazione terapeutica può ridurre le lesioni ai piedi e le amputazioni soprattutto nei pazienti ad alto rischio. Qualità della vita La qualità di vita è un risultato fondamentale; c’è chi ritiene che sia il primo risultato della cura del diabete e il più importante. Tanto che gli studi effettuati ogni anno su questo argomento sono in continuo aumento (Fig. 1). La qualità di vita viene definita come “soggettiva percezione di benessere che include una componente cognitiva, per esempio la soddisfazione, e una componente emozionale, per esempio la felicità” (Campbell et al., 1976). Si può influenzare la qualità di vita con l’educazione terapeutica? Un insegnamento volto a rinforzare le capacità di far fronte al diabete sul piano psico-sociale ha migliorato la qualità di vita. Un corso di 5 giorni in ambulatorio mirante a migliorare le qualità, le capacità di far fronte e le abilità di coping, ha migliorato la qualità di vita e lo stesso vale nel caso di un giorno 15 Congresso 2003 Fig. 1 Lavori Medline sulla qualità di vita Fig. 2 Terapia intensiva e qualità di vita DCCT The DCCT, Diabetes Care, 1996 FIT ☺ Langewitz et al., Diab Res Clin Pract, 1997 Patient-selected I.I.T. ☺ Chantelau et al., Pat Educat Counsel, 1997 DAFNE ☺ DAFNE Study Group, BMJ, 2002 fFSR, B, Em, F, I, S, V B, A, D I, S B, S Aree valutate: fF,S,R – funzionamento fisico, sociale, nel ruolo B – benessere generale Em – stato emozionale F – preoccupazioni per futuroI – impatto del trattamento S – soddisfazione per trattamento V – preoccupazioni per vita sociale A – ansia alla settimana per 6 giorni mirante a rinforzare l’empowerment, la capacità di prendere decisioni informate nei confronti della propria malattia. La ricerca sulla qualità di vita è complicata perché in ogni studio vengono valutate variabili diverse. In alcuni studi sono state valutate abilità di coping e stato emozionale; in altri ansia, depressione e autostima; in altri ancora impatto del trattamento, soddisfazione per il trattamento, peso della malattia. 16 Congresso 2003 Un altro aspetto dello stesso argomento riguarda l’effetto della terapia intensiva sulla qualità di vita. Prima del DCCT si temeva che la terapia intensiva peggiorasse la qualità di vita, ma questo non è accaduto. Altri studi sulla terapia intensiva come il FIT del 1997, il Patient-selected Intensive Insuline Treatment, sempre del 1997, e il più recente DAFNE, del 2002, hanno dimostrato un miglioramento della qualità di vita con la terapia insulinica intensiva. Le aree valutate da questi studi sono indicate nella Figura 2. Nella ricerca emergono alcuni problemi. Il primo, dichiarato dagli stessi autori della citata metaanalisi, mette in dubbio che i trial randomizzati controllati siano il solo modo per valutare gli effetti dell’ETP. Vi sono poi problemi di materiali e metodi che devono essere descritti in maniera riproducibile. Nel campo dell’educazione terapeutica elencare gli strumenti non basta; le capacità di operatori sanitari sono fondamentali, ma atteggiamenti, abilità, didattica, capacità di sostegno sono difficili da misurare. I risultati finali, inoltre, non dicono nulla del processo. È infine importante stabilire chi educa. È stata proposta l’introduzione di esperti formatori “laici”, ma il problema è che questi operatori andrebbero a loro volta formati dal punto di vista biomedico. Sono stati inoltre proposti come formatori persone con diabete e i loro famigliari, ma in questo caso avremmo bisogno di due formazioni: una biomedica e una sulle capacità formative perché l’esperienza della propria malattia non è sufficiente. Un altro aspetto consiste nel decidere se i medici debbano essere coinvolti direttamente in tutto il processo educativo. Il DESG, per esempio, sostiene che il medico dovrebbe essere presente in tutto il processo educativo. Ma quale medico? Gli specialisti sono troppo costosi e i medici generici sono troppo occupati e avrebbero comunque bisogno di una formazione educativa e psico-sociale. Per preparare i formatori sono stati sviluppati dagli organismi internazionali diversi tipi di curricula sistematici. Qualche esempio: l’American Association of Diabetes Educators ha proposto un core curriculum, il DESG ha creato un curriculum, così come l’IDF. A Ginevra c’è poi un corso della durata di tre anni e anche la FEND ha un suo corso di formazione. A livello nazionale esistono numerose iniziative in numerosi paesi: le iniziative italiane verranno presentate nel corso di questo congresso. Il mantenimento costituisce un problema. Un’attività che, per definizione, dovrebbe essere integrata nel follow-up abituale, viene studiata in genere mediante interventi brevi, con l’eventuale controllo della scomparsa dell’effetto dopo mesi o anni dall’intervento. È il tipico approccio della “medicina acuta”. È possibile essere più efficaci se l’educazione terapeutica viene integrata nelle cure di tutti i giorni e non solo nell’emergenza. Si tratta di una strategia del mantenimento, che prescinde dall’eroismo, dall’emotività e dalla drammatizzazione, e fa appello all’acquisizione di nuove abitudini e automatismi quotidiani. Esistono grandi differenze nell’attuazione dell’educazione delle persone con diabete nelle varie regioni del mondo. A grandi linee, si possono individuare due approcci principali: a) la American way, secondo cui l’infermiera è essenziale, e l’accento è posto su organizzazione, certificazione e miglioramento continuo della qualità; e b) la European way secondo cui il medico è essenziale, e l’accento è posto sulle competenze degli operatori sanitari e sulla necessità di cambiare atteggiamenti e ruoli professionali. In Europa siamo stati più analitici, mentre in America si sono più concentrati sull’organizzazione. Credo che dovremmo riuscire a integrare queste attività: loro hanno bisogno di qualcosa di più sull’aspetto analitico del cambiamento dei comportamenti, mentre noi abbiamo sicuramente bisogno di potenziare gli aspetti organizzativi e certificativi. Vorrei concludere con un accenno al problema dell’accessibilità a tutti i pazienti, che si è tentato di risolvere in vari modi: facendo fare educazione a livello di primary care, con i lavori di terapia gruppo di Torino del professor Porta e di Marina Trento, che verrà descritto in dettaglio durante questo congresso, e con la telemedicina. Problemi dell’educazione terapeutica 17 Congresso 2003 Conclusione Fig. 3 Ode alla vita Gli anni più recenti ci hanno portato una precisa selezione dei risultati da valutare nel processo educativo e la prova che questi risultati possono essere raggiunti. Appare tuttavia chiaro che nell’educazione terapeutica la variabile che fa la differenza è costituita dai docenti, le cui caratteristiche di empatia, entusiasmo, creatività, sono difficilmente materializzabili in una lista di “materiali e metodi”. L’efficacia dell’educazione dipende però soprattutto da quelle caratteristiche e questo rappresenta un limite riconosciuto degli studi sinora effettuati. Se vogliamo impegnarci per una maggiore efficacia dell’educazione terapeutica non dimentichiamo la formazione professionale e l’organizzazione, ma soprattutto ricordiamoci di essere creativi, di giocare, di inventare, di ignorare la nostra identità professionale, di rischiare, di ridere, di farci coinvolgere, di accettare la sconfitta, di divertirci, “stando insieme” ai nostri pazienti. Siamo consapevoli che cambiare ruoli e comportamenti è molto difficile per tutti come dimostra il fatto che, pur sapendo che il vero aiuto non consiste nel fornire una soluzione ma nel far trovare all’altro la sua, spesso la tentazione di aiutare chi ha un problema è pressoché invincibile. Chi Muore? (Ode alla Vita) Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, il colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle “i” a un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, che fanno di uno sbadiglio un sorriso, che fanno battere il cuore davanti all’errore e ai sentimenti. Lentamente muore chi non capovolge il tavolo quando è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta di sfuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio, chi non si lascia aiutare, chi passa i giorni a lamentarsi della sfortuna o della pioggia incessante.Lentamente muore chi abbandona un progetto prima d’iniziarlo, chi non fa domande su argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice atto di respirare. Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità. Pablo Neruda 18 Congresso 2003 Introduzione ai lavori e modalità operative DONATA RICHINI Comitato scientifico GISED, Esine (BS) Il mio compito consiste nel presentarvi il percorso pensato dal gruppo di coordinamento del GISED per la realizzazione di questo convegno e nel presentarvi gli obiettivi che ci siamo proposti e che vorremmo oggi condividere con voi, sperando di poterli raggiungere nel corso di questi tre giorni che trascorreremo insieme. Quando abbiamo iniziato il percorso di progettazione abbiamo fatto innanzitutto alcune considerazioni sull’educazione terapeutica. L’educazione terapeutica è ormai considerata, dalla maggior parte degli operatori in diabetologia, attività indispensabile per una corretta gestione del diabete. Nella dichiarazione di Saint-Vincent è sottolineato che ogni obiettivo della cura del diabete può essere raggiunto solo se ci si attiva anche con l’educazione terapeutica (ET). Oggi l’interesse per l’ET è in continuo aumento, ma ciò nonostante in numerosi centri sono ancora molte le difficoltà per la sua implementazione e sviluppo. Perché? L’educazione terapeutica è un’attività molto complessa; significa fornire alla persona con diabete conoscenze teoriche, ma anche abilità pratiche e soprattutto significa renderla capace di prendere decisioni relative alla gestione della sua malattia; e questo è solo l’inizio; tutto ciò non è sufficiente se non riusciamo a motivare e, ancora, se non ne scaturisce una modifica del comportamento. Abbiamo poi già avuto modo di sentire poco fa come la modifica del comportamento richieda molti sforzi educativi per poter essere mantenuta nel tempo; un piccolo o grande passo avanti oggi ha un valore solo se il suo mantenimento o il suo miglioramento vengono garantiti con una assidua attività di rinforzo dei messaggi. È un circolo virtuoso che va continuamente ripercorso con efficienza, con efficacia e con tutte le caratteristiche della “qualità”, mettendo in atto sempre una verifica del percorso e dei risultati ottenuti, garantendo la correttezza e la pertinenza di ciò che portiamo in campo educativo. Per fare tutto questo l’operatore sanitario deve sviluppare attitudini, competenze e abilità particolari. Alcuni operatori sanitari possono esserne già dotati, ma anche chi non ha queste doti, se opera in campo diabetologico o comunque nel campo delle malattie croniche, può ed ha l’obbligo di acquisirle. Ecco allora che nella progettazione del nostro percorso qui a Villa Erba abbiamo sentito la necessità di fornire sì un aggiornamento sull’ET, ma abbiamo ritenuto altrettanto fondamentale inserire il momento del confronto per condividere tutta una serie di aspetti e di problemi legati all’educazione. Vi presento alcuni degli obiettivi: condividere significato e complessità dell’educazione terapeutica; identificare i bisogni e le difficoltà di chi opera nell’educazione terapeutica; individuare strategie e risorse. Per raggiungerli abbiamo ritenuto importante la presenza di più professionalità; in questa sede sono presenti i medici, gli infermieri, i dietisti ed i podologi. Contemporaneamente, abbiamo voluto la presenza e quindi il confronto tra i professionisti che operano nella pratica quoti- 19 Congresso 2003 diana in campo educativo ed i rappresentanti delle istituzioni. Anche se questi ultimi non sempre operano attivamente in educazione terapeutica, hanno sicuramente responsabilità, capacità, potere e potenzialità di andare avanti per il raggiungimento degli obiettivi che l’ET si pone. Nella tavola rotonda avremo modo di discutere, sentire e confrontarci sulle difficoltà, i vincoli, le potenzialità, le risorse, le richieste, le aspettative e le eventuali soluzioni proposte. Un altro momento di discussione sarà quello di sabato mattina quando sentiremo raccontare dalla viva voce dei protagonisti alcune esperienze che sono da poco in atto ed altre in fase avanzata di realizzazione. Ascolteremo Nicoletta Musacchio sull’attività della Scuola Formatori dell’AMD, Marina Trento ci racconterà del progetto ROMEO al quale ha prima accennato il professor Maldonato e avremo modo di conoscere da Mariano Agrusta che cosa è stato fatto in campo di educazione terapeutica strutturata dal gruppo ETS; avremo maggiori dettagli sul basic curriculum da Aldo Maldonato. Vi racconteremo anche qual è il progetto con il quale il GISED si propone di fare il punto su quanto esiste in campo educativo in Italia; probabilmente ci sono realtà che conosciamo bene come quelle delle esperienze che sentiremo raccontare, ma ci sono anche altre persone che lavorano in campo educativo e delle quali non abbiamo attualmente conoscenza. La dottoressa Bruttomesso ci racconterà appunto cosa intende fare il GISED attraverso una indagine nazionale. Ci sarà inoltre un lavoro di gruppo che ci vedrà tutti protagonisti, professionisti e rappresentanti delle istituzioni, per studiare cosa è possibile mettere in campo per il futuro in termini di proposte e di impegni per l’attività futura. Il dottor Miselli ci documenterà su cosa c’è fino ad oggi di sicuro in educazione terapeutica e quali sono i risultati ottenuti. C’è un altro obiettivo che il GISED si è posto per questo convegno e che ritiene altrettanto importante per l’attività di aggiornamento e di nuove proposte che è abituato a dare negli incontri che organizza. È quello di proporvi la metodologia dell’autobiografia narrativa, che certamente non si pone come unica metodologia di lavoro in educazione, ma è uno strumento in più che tutti dovremmo avere a disposizione e quindi cominciare a conoscere. Il professor Duccio Demetrio, esperto in questo campo, ci accompagnerà in una riflessione sull’autobiografia professionale relativamente all’educazione terapeutica. Cominceremo con un lavoro di tipo individuale che lo stesso professor Demetrio introdurrà e spiegherà. Faremo poi un altro lavoro di gruppo sull’autobiografia narrativa ed in una fase successiva il professore e la sua collaboratrice Natalia Piana sintetizzeranno i nostri lavori e ce li restituiranno con una sintesi in plenaria fornendoci un quadro di ciò che abbiamo mostrato loro con i nostri scritti. Un altro momento sarà dedicato al problema del cambiamento. Ci porremo una domanda alla quale cercheremo di dare una risposta insieme agli esperti: “come riuscire a favorire il cambiamento?”. In un lavoro di gruppo saremo invitati a fare una riflessione su come, nel proporre il cambiamento, dobbiamo saper considerare ogni punto di vista, sia quello di coloro che sono aperti al cambiamento sia quello di coloro che ad esso sono resistenti. Successivamente cercheremo di rispondere ad un’altra domanda: “come riuscire a coinvolgere per ottenere un cambiamento?”. Affronteremo le dimensioni del sentire con Paolo Gentili del Dipartimento di Scienze psichiatriche dell’Università La Sapienza di Roma per poi incontrare Enzo di Bonaventura, un ottimo artista-attore che alcuni di noi hanno già avuto modo di apprezzare. Dovremo provare “il sentire”, imparare cioè che per poter arrivare ai nostri pazienti e coinvolgerli è indispensabile riuscire a presentarci con un sentimento che loro possano avvertire come veramente provato. 20 Congresso 2003 Elaborazione e restituzione in plenaria del lavoro di autobiografia narrativa “Quella volta che mi sono sentito educatore …” NATALIA PIANA Pedagogista e Dottoranda di Ricerca presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca L’enfasi posta sulla dimensione educativa e l’autoriflessività professionale, come elementi centrali di un approccio di educazione terapeutica, ha orientato il nostro intervento sull’autobiografia come genere educativo e valido strumento di cura. Accanto e a sostegno di alcune considerazioni di carattere teorico sulla metodologia autobiografica, abbiamo coinvolto i partecipanti in un momento di scrittura autobiografica individuale, come spazio di riflessione e di esercitazione pratica, stimolata dalla sollecitazione “Quella volta che mi sono sentito educatore …”. Ad ogni convegnista è stato distribuito un foglio bianco, da riempire e lasciare anonimo, che è stato poi ritirato dopo circa trenta minuti. Le 119 scritture raccolte, non soltanto hanno restituito la ricchezza e la molteplicità degli stili e dei processi mentali generati dalla scrittura, ma hanno stimolato riflessioni in merito alle rappresentazioni individuali sull’educazione terapeutica, rappresentazioni che tenteremo di ricostruire e restituire nella sintesi che segue. Tra i numerosi punti di attenzione messi a fuoco nelle scritture, ne abbiamo privilegiati alcuni ponendo l’accento sulle reazioni dei partecipanti alla scrittura, le caratterizzazioni di genere, gli stili narrativi, i contenuti e riportando infine le diverse metafore emerse in merito all’educazione. Ci soffermeremo innanzitutto sulle tipologie di rimemorazione con uno sguardo attento alle possibili differenze di genere. Dai lavori emerge che le scritture femminili, in tutto settanta, narrano di storie dense e complesse, trame ed emozioni che rivelano sensibilità profonde anche se la professione, il confronto costante con la dimensione della malattia e il rapporto con il sapere medico-scientifico rende le scritture meno fluide, coinvolgenti, più tecniche e “professionali”. È possibile rintracciarne un esempio in questo scritto: “Trovo difficile circoscrivere dei momenti. Sono un medico, dedicato prevalentemente a compiti assistenziali, in un istituto a direzione universitaria e così ho rapporti educativi con i pazienti e con i giovani medici in formazione”. Le quarantanove scritture maschili restano più asciutte, dirette, impudiche, concrete, meno idealizzate. Sono comunque scritture che scendono nel profondo, che attraversano le dimensioni più nascoste della realtà, svelando gli aspetti più veri, teneri e umani allo stesso tempo: “L’ho rivista dopo alcuni anni, aveva una gamba in meno e un figlio cresciuto. Io con una tristezza nel cuore per non aver avuto modo di continuare a sostenerla nella cura del suo diabete. A lei era bastato il suo sogno: avere un figlio”. 21 Congresso 2003 Tutte le scritture, tranne qualche rara eccezione, hanno riportato episodi legati alla vita professionale, al mondo del diabete e alle persone che ne soffrono. Sono ricordi legati per lo più a situazioni di successo. La vita personale riemerge soltanto là dove si legge ad esempio: “Probabilmente la prima volta che mi sono sentito educatore è stato quando ho spiegato ad un mio compagno di giochi come potevamo divertirci meglio con la pista dei tappini”. Per qualcuno il pensiero resta comunque legato alla malattia: “Anno 1998. Dopo tre anni, involontariamente, mi sono trovata a parlare del mio problema con una collega che stava attraversando il mio stesso problema: cancro alla mammella”. C’è chi ha ricordi più lontani come quella penna maschile che scrive: “Un punto di luce, breve, durante il primo anno di università: l’illustrazione del modello del DNA, responsabilizzazione, gratificazione, conoscenza”. Ritroviamo infine episodi di vita quotidiana, come per esempio: “Era primavera e come ogni cambio di stagione mia moglie mi ha chiesto di aiutarla per lavare le tende …”. Emerge dai ricordi un tempo del vissuto che oscilla tra il sentimento costante di chi da sempre percepisce il proprio essere educatore e scrive: “Non c’è una volta particolare in cui mi sono sentito educatore. Mi sono sentito, mi sento e mi sentirò sempre un educatore, è insito nella mia professione di infermiere e nel mio carattere”, e chi, invece, riflette sul fatto che “educatore lo sono stato solo quelle poche volte in cui umilmente ho ammesso i miei errori e i miei fallimenti”. Non una ma tante memorie sono emerse dai testi, così come è stato possibile rilevare una molteplicità di stili narrativi diversi. La lettura si sofferma su memorie episodiche, che ricostruiscono trame narrative, quando si legge: “Mi trovavo in ambulatorio con un collega giovane che aveva scoperto il giorno prima di essere diabetico: era spaventato e atterrito come se non avesse mai sentito parlare di diabete …”. Le memorie riflessive, invece, vagano e poi sostano alla ricerca di un senso in quelle scritture che approfondiscono la riflessione, generando pensieri nuovi e significati ulteriori (“Ritengo che il termine “educatore” abbia un significato ampio, richieda tempi e modi sia d’intervento che di verifica..”). Relativamente alla scelta stilistica, emerge una scrittura più “descrittiva” dove si legge: “È caldo, mi trovo nella stanza del mio servizio diabetologico e ho davanti a me un ragazzo non più tanto giovane ma che non conosco e viene da me per la prima volta […] Lo invito ad accomodarsi sul lettino dopo aver tolto i pantaloni, i calzini, le scarpe”. La scrittura “ritrattistica”, invece, descrive e ritrae: “M. è un tipo tosto. È giovane ma vecchio di diabete. È giovane: va in discoteca, beve birra […] È vecchio: a diciotto mesi gli è venuto il diabete, lui non ricorda una vita senza; ma il diabete va male”. In altri casi si passa da uno stile “elencativo” che scorre veloce su più episodi, a uno stile che abbiamo definito “tecnicoprofessionale” che rappresenta forse il tratto più caratteristico e interessante di alcune scritture e che a volte non si differenzia da una scrittura “scientifica”, come in questo esempio: “P. è un diabetico di 49 anni circa; da circa un anno la moglie è deceduta improvvisamente […] P. entra in una fase depressiva, non pratica più la terapia e non mantiene più un corretto stile di vita …”. Emergono dalle scritture stili “interrogativi”, “epigrammatici”, “riflessivi”, “introspettivi”, per giungere infine a una forma preziosa e unica di poesia, come si legge in questo scritto: “Talvolta nella mia vita si rincorrono pensieri di luce e ricordi di colori e profumi che hanno dato significato e senso al mio quotidiano. Il profumo dell’erba, il colore del cielo turchese, il vento lieve della primavera …”. “Educazione” è stata la parola chiave che – come un filo rosso – ha tenuto insieme le scritture e che desideriamo riproporre, non solo attraverso concetti chiave, ma anche con immagini metaforiche ricavate dai testi dal momento che, la metafora, al di là degli aspetti linguistici e stilistici, è veicolo di schemi cognitivi e affettivi che sono generatori e stipulatori di nuovi significati, indice e quindi simbolo, di un immaginario che ha orientato quelle selezioni nel 22 Congresso 2003 pensiero, nel ricordo, nella rappresentazione, nella percezione, nella coloritura emotiva, nel prelevamento e nella valutazione e che aprono nuove riflessioni e possibilità di intervento a tutti coloro che si occupano di educazione. All’educazione si assegna una molteplicità di significati; educazione è: sfidare il destino (“Quello sguardo, quella luce nuova negli occhi di quel ragazzo […] Ed io finalmente avevo vinto la frustrazione che mi aveva accompagnato da anni per il fatto di essere un medico di malattie croniche che non si curano!”); agire con consapevolezza; ascolto dell’altro nel rispetto dei suoi bisogni e dei suoi tempi; rendere l’altro protagonista della guarigione (“Aumentando la sua autostima, il suo autoconvincimento, il suo prendere in maniera autonoma le proprie decisioni”); entrare in empatia con l’altro; vivere la quotidianità; qualcosa che va al di là del sapere scientifico e che coinvolge anche sentimenti ed emozioni; elaborare nuove strategie (“La mia malattia cronica mi ha portata ad elaborare nuovamente le mie strategie professionali”); cambiare lo sguardo; condivisione di quanto appreso con l’altro; continuo apprendimento e divenire in un percorso di introspezione individuale (“… e ancora una volta mi sento tanto più educatrice quanto più continuo ad imparare anch’io”); un modo di dare amore e far ritrovare all’altro l’amore per se stesso (“A mio avviso lo scopo fondamentale dell’educazione è quello di far ritrovare nelle persone che ti stanno davanti l’amore per se stessi”); un problema etico di morale e di responsabilità (“Educare è un percorso di introspezione individuale poiché pone ogni giorno interrogativi etici e morali, rendendo l’educatore responsabile del futuro individuale e collettivo”); è potere; un’avventura ma è anche la vita (“Il mio paziente è dunque vita e la vita è sacra”); entrare in punta di piedi nella vita dell’altro (“Cerco sempre di entrare in punta di piedi nell’anima del paziente, cerco di coinvolgerlo nell’autocontrollo della propria malattia”); stabilire un contatto; gioco e fantasia; è fatica (“Non sempre riesco ad ascoltare il paziente, non sempre riesco ad ottenere la sua attenzione, a volte sono stanco di …”). Diverse e interessanti sono poi le immagini con cui si “pensa” l’educazione: un varco nel muro di gomma – un combattimento – andare per la prima volta sugli sci e imparare a scendere con sicurezza – abbattere la barriera – travalicare la montagna – superare il diaframma che ci separa dall’altro – se la montagna non va a Maometto … – non più rovesci di nozioni e stillicidi di dati – dissolvere un dubbio, una paura – un processo bi-direzionale tra due attori – un accompagnamento reciproco. L’“educazione fraintesa” è la definizione con cui abbiamo titolato alcune scritture che restituiscono un’immagine dell’educazione caratterizzata negativamente dalla paura e dal pudore di educare, dal timore di fallire e dal sentimento del non rispetto. Questa una testimonianza: “Le prime volte ero quasi l’insegnante con poca partecipazione del paziente e poco coinvolgimento. Mi sentivo proprio un educatore (insoddisfatto). Poi ho cambiato metodo […] Oggi mi sento non un educatore ma un operatore che sta raggiungendo degli obiettivi”. In un’al- 23 Congresso 2003 tra scrittura si legge: “Oggi non mi ritengo un educatore ma, parecchi anni fa, ancora in fase di fanatismo sanitario, mi è capitata una cosa che ricordo ancora …”. In un altro caso: “Ho pensato che forse lo stavo sentendo per alcuni atteggiamenti di tipo scolastico che mi riportavano a un ruolo che mi era stato proposto nel percorso scolastico ma che non avevo vissuto in modo positivo”. L’educazione è poi il timore di fallire, come ci restituisce questa donna: “Il più delle volte quando mi sono sentita fallita nei miei sogni”; ancora, l’educazione è legata a un sentimento di imbarazzo: “Il termine stesso “educatore” mi imbarazza. Per non fare l’educatrice ho rinunciato alla maternità e all’insegnamento”. Successo e gratitudine colorano lo sfondo di quasi tutte le scritture. Sono in molti a rievocare episodi di soddisfazione e gratificazione, di riconoscenza da parte dei pazienti, come si legge in queste righe: “Qualche giorno dopo una piccola scatola colorata e un biglietto di poche parole in cui è raccolta tutta la gratitudine per aver alleviato la loro sofferenza”. In un’altra testimonianza ritroviamo queste parole: “Diverse volte, ripensandoci, mi è accaduto di rivedere queste persone le quali mi hanno detto, non senza la mia sorpresa, di aver fatto quello che avevo loro prescritto solo perché, magari, avevo avuto la pazienza di ascoltarli”. L’educatore aiuta ad accettare la malattia, accompagna nel cambiamento, come in questo caso: “Ricordo una telefonata di un paziente che mi disse grazie perché lo avevo aiutato a capire l’importanza di accettare questo cambiamento che lui riteneva negativo e che si era risolto con un miglioramento della qualità della vita”. Lavorare con la malattia, con un disagio forte, genera inevitabilmente paure, identificazioni, rispecchiamenti, che è possibile rintracciare anche in alcune scritture: “L’incontro con L., una ragazzina di dodici anni diventata diabetica in pochissimo tempo, in lei vedevo mia figlia. La mia più grande preoccupazione era quella di non lasciarmi andare a forti emozioni da genitore”. Emozioni forti e condivise dove si legge: “V. aveva gli occhi lucidi ed io mi sentivo personalmente addolorato, ma in quel caso ancora di più perché V. aveva la stessa età della mia figlia più piccola”. Concludiamo la restituzione di questa prima parte di lavoro riportando i sentimenti che, ogni giorno, con ogni paziente, emergono forti e coinvolgenti e che attraversano emozioni quali la gioia, la gratificazione, il sentirsi utili, la soddisfazione. Un esempio dove si narra: “Ho provato una gioia indescrivibile a rassicurare questa donna e successivamente la bambina, ho avuto la percezione di quanto possa essere importante, utile e gratificante comunicare il proprio sapere per rendere indipendente un essere umano”. L’educazione passa anche attraverso preoccupazioni, paure, timori e incertezze. Un uomo racconta: “Massima era la preoccupazione, il timore di non essere all’altezza di un compito che ritenevo importante e difficile […] per non parlare dell’incertezza e perché no, a volte della noia”. Qualcuno infine ricorda che, a volte, basta un sorriso per restituire il senso del proprio esserci: “Un grazie insieme ad un sorriso per un dubbio o una paura dissolta è ciò che in varie occasioni mi ha fatto sentire educatore”. La seconda proposta di riflessione e scrittura autobiografiche, a cui i partecipanti sono stati invitati il giorno successivo, sollecitava il ricordo alla rievocazione degli episodi di successo e insuccesso in educazione terapeutica. I contenuti emersi dagli scritti sono stati inizialmente condivisi all’interno di un lavoro di gruppo, per essere poi da noi analizzati e restituiti in plenaria. Dall’elaborazione dei testi abbiamo assegnato all’educazione tre ordini di significato diversi, che ricorrono sia nei successi sia negli insuccessi: in primo luogo un’educazione come cura (attraverso l’affettività, l’ascolto, la presenza); successivamente un’educazione come trasmissione di saperi e abilità; infine, un’educazione come presa di coscienza esistenziale. All’interno delle scritture relative ai successi e nella prospettiva di un’educazione intesa come cura, il medico-educatore si fa carico di un mondo di comportamenti e modi di essere, che si riferiscono a: rassicurare; motivare; farsi carico del paziente come persona; conquistarsi 24 Congresso 2003 l’aiuto degli altri; riuscire a far cambiare stile di vita; conquistarsi l’alleanza familiare; offrire opportunità; entrare in empatia e simpatia con il paziente; conquistarsi la partecipazione del paziente; guadagnarsi la fiducia del paziente; essere capaci di dialogo e di ridimensionare il problema; organizzare insieme; provare insieme emozioni e sentimenti di autogratificazione, tenerezza, umiltà e consapevolezza; sentire di fare insieme; essere riusciti a motivare; trasmettere tranquillità; ricevere riconoscenza; usare il diario come strumento di rassicurazione. L’educazione intesa come trasmissione del sapere terapeutico, rappresenta la conoscenza che permette di: guarire un’ulcera; riconoscere la problematica; innovare operativamente; risolvere casi di diabete tipo 1-2; agire tempestivamente; trasmettere abilità operative; addestrare efficacemente. L’educazione terapeutica rappresenta però anche la possibilità di una presa di coscienza esistenziale che permette al paziente e al medico di non fermarsi davanti alla difficoltà e alla fatica, e di ricercare il positivo nella sconfitta. L’educazione diventa lo strumento per imparare ad affrontare la malattia e accettare la terapia, per perseguire gli obiettivi con tenacia e perseveranza. Il sentimento di essere sempre presenti a se stessi diviene la cura, la possibilità di svelare il senso ultimo dell’evento, aiutandosi in questo modo a rifondarsi. L’educazione diviene autoeducazione del paziente che sfida la malattia riscoprendosi capace, in autonomia e indipendenza, di ritrovare l’entusiasmo nella malattia e di interpretare nuovamente la vita. Gli episodi di insuccesso rievocati dalla scrittura mettono in luce la fatica del lavoro educativo e la consapevolezza di confrontarsi quotidianamente con una malattia cronica, irreversibile. L’educazione come cura dunque, a volte non funziona per l’incapacità di relazionarsi, di creare climi sereni e di aiuto nell’autogestione, di un ascolto attento e partecipato, per la carenza di tempo, la leggerezza e la superficialità. Nell’ottica di un’educazione come sapere, gli insuccessi dipendono dall’insufficienza dei mezzi di supporto, dalla mancanza di verifiche, dall’incapacità di analizzare il problema fino in fondo, dalla difficoltà condivisa di scindere il dato numerico dalla qualità della vita. La possibilità di una presa di coscienza esistenziale si scontra invece con il sentimento, condiviso da parte dei medici, di sentirsi inadeguati rispetto al proprio ruolo professionale, di non riuscire a persuadere e incoraggiare il paziente nella cura, aiutandolo quindi ad accettare e affrontare la malattia. Alla luce delle considerazioni e delle riflessioni emerse, possiamo dunque concludere che la riflessività autobiografica professionale rappresenti un valido strumento per un’educazione terapeutica efficace, dal momento che coinvolge significativamente: l’area del me, attraverso la teorizzazione della propria esperienza per comprendersi, interpretarsi, spiegarsi; l’area del noi, per condividere l’esperienza tra colleghi con più trasparenza e problematizzazione: i successi, gli insuccessi, le perplessità, i dubbi, le paure; l’area del paziente, come narratore e come co-narratore per indurre comportamenti autoriflessivi di accettazione, risposta attiva, presa di coscienza, creazione di nuovi racconti. In una prospettiva autobiografica dunque, l’educatore diventa un autobiografo diarista che ascolta e sollecita la narrazione, in grado di leggere, chiarificare, problematizzare storie e promotore di molteplici forme di scrittura personale, siano esse autobiografie, diari, pensieri, memoriali. 25 Congresso 2003 Tavola Rotonda Professioni ed educazione terapeutica G. CECCHETTO, M. MONTESI, R. TONIATO, G. VESPASIANI MODERATORI: A. CORSI E V. MISELLI Le diverse professionalità sono chiamate ad esprimersi su come vedono l’educazione terapeutica nell’ottica della propria professione e ad evidenziare quali sono i problemi, le aspettative e le possibilità. Sono presenti i Presidenti delle Associazioni Professionali dei Podologi, dei Dietisti, degli Infermieri e dei Medici. GIOVANNA CECCHETTO Presidente A.N.D.I.D. La funzione educativa è una parte integrante del profilo professionale del dietista. Questa figura professionale è definita da un decreto ministeriale del ’94 come “l’Operatore Sanitario in possesso del diploma universitario abilitante, competente per tutte le attività finalizzate alla corretta applicazione dell’alimentazione e della nutrizione, ivi compresi gli aspetti educativi e di collaborazione alle politiche alimentari nel rispetto della normativa vigente”. Gli ambiti di intervento che il profilo delinea sono la prevenzione, l’educazione alimentare, la nutrizione dei singoli e della collettività, la ristorazione collettiva, la dietoterapia e la riabilitazione nutrizionale. L’aspetto educazionale applicato alla dietoterapia è andato sviluppandosi e ampliandosi all’interno del bagaglio culturale e professionale del dietista nel corso degli anni. È un’esigenza sentita soprattutto da colleghi che svolgono la loro attività professionale a contatto con le patologie croniche. Il tipo di competenze che riguardano questa funzione educativa applicata alla dietoterapia sono: il superamento dell’approccio prescrittivo verso un approccio educativo; la centralità della persona; la partecipazione; la gestione della complessità alimentare; l’interdisciplinarietà; il lavoro in team. Questo tipo di competenze oggi è assicurato in maniera abbastanza soddisfacente dalla formazione universitaria di base (diploma universitario in passato e attualmente laurea triennale). I settori disciplinari previsti dall’ordinamento didattico in quest’ambito dell’educazione terapeutica prevedono l’antropologia, la pedagogia generale sociale, la didattica e la pedagogia speciale, la psicologia dello sviluppo e dell’educazione, la psicologia sociale generale e clinica del lavoro, la psicometria e la sociologia generale. Il problema di una formazione specifica in questo campo rimane invece aperto per le figure professionali provenienti dai precedenti percorsi didattici dove questo tipo di discipline non era previsto; per queste genera- 27 Congresso 2003 zioni più anziane di dietisti si è sentita già da parecchio tempo la necessità di coprire questo vuoto formativo attraverso iniziative di aggiornamento e di formazione specifiche. L’ANDID ha saputo da tempo interpretare e condividere queste esigenze ed ha cercato di contribuire alla copertura di questo vuoto formativo attraverso le sue iniziative di aggiornamento. Iniziative e convegni si sono succeduti negli anni a partire dal 1988, volti ad approfondire aspetti come: le modificazioni comportamentali; la relazione con il paziente; i nuovi approcci educazionali; il lavoro in team; la comunicazione; il coinvolgimento attivo. In epoca più recente si parla invece di: educazione del paziente ospedalizzato; facilitazione dell’apprendimento; conduzione di percorsi di educazione alimentare; centralità della persona sia rispetto all’educazione alla salute che all’apprendimento di evidence based medicine nella pratica clinica; qualità nell’esercizio della professione; comunicazione e informazione. A fronte degli sforzi di questo impegno, che l’ANDID ed i dietisti italiani hanno posto rispetto all’acquisizione di competenze specifiche nel campo dell’educazione terapeutica, ci sono dei punti critici che riguardano un aspetto più generale ossia la inadeguatezza degli spazi e del tempo dedicato nel servizio di diabetologia. Questi punti critici sono l’assenza di figure professionali, la scarsità in termini numerici, l’insufficienza della formazione del personale (intesa sia come formazione del team che come formazione dei singoli operatori), il mancato riconoscimento della specificità del dietista (l’insostituibilità di questa figura nel team e la sua indispensabilità per quanto riguarda l’educazione alla nutrizione) e da ultimo, il coinvolgimento dei dietisti e dell’ANDID nelle iniziative di formazione in ambito diabetologico. Numerose iniziative gestite da singole Società Scientifiche stentano a coinvolgerci nell’organizzazione e nella definizione dei programmi di formazione, nonostante esistano ormai numerosissimi studi che dimostrano come il dietista sia una figura importante all’interno del team che si occupa di educazione alla nutrizione. L’ADA, American Diabetes Association, raccomandava nel 2002 la presenza nel team di un dietista esperto nella gestione del diabete. Altri trial randomizzati controllati e studi osservazionali evidenziano come l’intervento nutrizionale gestito dal dietista migliori i parametri metabolici nelle persone con diabete. Tra tutti i metodi educativi studiati, l’intervento nutrizionale è quello statisticamente più significativo per quanto riguarda il rapporto tra il compenso glicemico e il calo ponderale. Per quanto riguarda il piano nutrizionale, c’è una definizione del Medical Education Therapy secondo cui il piano nutrizionale dovrebbe essere individualizzato ossia adattato ai bisogni della persona, finalizzato all’autogestione ed adattato alle abitudini di vita. I pazienti affetti da diabete necessitano di raccomandazioni nutrizionali basate sull’evidenza facilmente comprensibili ed applicabili nella quotidianità. Le criticità del trattamento nutrizionale riguardano sia l’aspetto organizzativo, cioè l’insufficiente tempo che viene dedicato nei servizi diabetologici all’intervento educativo in campo nutrizionale sia la separazione tra il momento dietetico nutrizionale e l’intervento educativo. Questa separazione crea una contraddittorietà tra l’aspetto prescrittivo della dieta classica e l’intervento educativo. Quali sono gli elementi di criticità della dieta intesa come schema che prevede grammature 28 Congresso 2003 precise, pasti predeterminati, individuazione di cibi proibiti ecc. e di cui esistono evidenze dell’inefficacia nelle patologie croniche? Gli elementi di criticità maggiore riguardano la rigidità, che contrasta con quel criterio di flessibilità e gradualità tipico dell’intervento educativo, la scarsa applicabilità nelle varie situazioni e quindi la difficile adesione a lungo termine, ed il fatto che non favorisce l’autogestione perché è un atto che viene deciso dall’operatore e non dal paziente e non rispetta le libertà di scelta. Quali possono essere delle possibili alternative a questo strumento classico della dieta? Potrebbero essere per esempio linee guida accompagnate da uno strumento diverso come il diario alimentare; a questo proposito le raccomandazioni dell’American Diabetes Association focalizzano l’attenzione sullo stile di vita, le abitudini, i comportamenti e quindi le modificazioni comportamentali di tipo alimentare. Uno degli obiettivi principali del trattamento nutrizionale è il compenso metabolico. Dal punto di vista comportamentale quali dovrebbero essere allora le attenzioni da porre per conseguire quest’obiettivo? Per quello che riguarda il compenso glicemico i comportamenti importanti da perseguire sono la distribuzione regolare dei pasti nella giornata, il contenuto costante di carboidrati nei pasti, le modalità di consumo di alcool, l’attività fisica e le modalità di consumo dei carboidrati in relazione all’attività fisica. Per quello che riguarda il profilo lipidico l’attenzione dovrebbe essere posta all’alternanza delle fonti proteiche, all’intake proteico giornaliero e alla frequenza di consumo, alla scelta dei condimenti (intesa anche come introduzione nella razione giornaliera di grassi idrogenati attraverso l’uso di alimenti conservati). Per raggiungere invece il controllo della pressione arteriosa i comportamenti importanti riguardano la riduzione dell’apporto di sodio, un consumo limitato di prodotti conservati, l’educazione alla lettura delle etichette, la riduzione di un eventuale sovrappeso o di obesità e l’attività fisica. Per ottenere queste modificazioni comportamentali abbiamo bisogno di strumenti e di messaggi diversi da dare al paziente, di percorsi operativi diversi e di diverse metodologie. Non si deve parlare solo di calorie e di grammi ma anche di funzione nutritiva degli alimenti, di porzioni intese come quantità e di numero di porzioni per gruppo di alimenti nella giornata. Non è necessario parlare di cibi proibiti, ma di corretta abilità di gestione nella razione giornaliera e usare diversi strumenti come il diario alimentare. È necessario seguire diversi percorsi come le modificazioni comportamentali concordate basate sulle reali capacità del paziente, la sperimentazione di questi cambiamenti, la verifica a breve, medio e lungo termine e, in termini di metodologie, la gradualità, la flessibilità, il percorso per obiettivi, la gestione delle situazioni a rischio. Questo tipo di esperienza alternativa rispetto ad una dieta prescrittiva rappresenta un’esperienza consolidata all’interno di un numero piuttosto nutrito di colleghi in Italia. L’intervento nutrizionale acquista efficacia se privato delle caratteristiche della prescrittività ed acquisisce invece tempi, metodologie e strumenti propri dell’intervento educativo. Il dietista esperto in diabetologia è l’operatore sanitario maggiormente qualificato a svolgere l’educazione dei pazienti alla nutrizione. Quanto esposto rappresenta un’esperienza condivisa da un gruppo di colleghe che costituiscono il gruppo di studio ANDID in diabetologia. Il gruppo, costituito da pochi mesi, è composto da Marina Armellini, Antonella Musetti, Giovanna Cecchetto, Claudia Contegiacomo, Lucina Corgiolu, Cetty Latina e prossimamente Paola Accorsi. Gli obiettivi di questo gruppo sono: definire un concetto di dietista esperto in diabetologia; affermare e riconfermare il ruolo del dietista all’interno del team; proporre un modello di percorso nutrizionale ed educativo; organizzare eventi formativi per i dietisti. 29 Congresso 2003 Ci auguriamo che per il futuro questo tipo di lavoro, che verrà espresso in un documento ed ufficializzato a tutto il mondo diabetologico, possa costituire una piattaforma per una migliore e più concreta collaborazione. MAURO MONTESI Presidente Associazione Italiana Podologi Uno dei problemi più gravi per un paziente diabetico è costituito dalle affezioni che colpiscono il piede. Da una nostra indagine risulta che su 680 centri di diabetologia ci sono solo tre podologi in organico perché questo tipo di assistenza non viene erogata dal Servizio Sanitario Nazionale e che, su tutto il territorio nazionale, abbiamo circa 650 operatori che sono altamente insufficienti a fornire quest’assistenza. Secondo la definizione dell’OMS, l’educazione terapeutica consiste nell’aiutare il paziente e la sua famiglia a comprendere la malattia, a collaborare alle cure, a farsi carico del proprio stato di salute, a conservare e migliorare la propria qualità di vita. Nel protocollo di intervento consideriamo la prevenzione primaria, il trattamento e la prevenzione secondaria (Fig. 4). La persona con diabete deve essere informata correttamente delle complicanze che la sua malattia può provocare. È auspicabile la collaborazione tra tutte le figure sanitarie che si interessano del soggetto diabetico in modo che ognuna di esse possa fornire al paziente una corretta informazione dedicata e mirata al proprio campo di azione. Il rapporto tra medico di famiglia, diabetologo e podologo è indispensabile e deve essere un rapporto di costante sinergia per migliorare lo stato di salute del paziente diabetico. Durante la visita diabetologica il medico, oltre ai controlli di routine, deve indicare al paziente le visite di controllo podologico necessarie per monitorare lesioni pericolose esistenti o pregresse e per scongiurarne di nuove. Una corretta strategia preventiva potrebbe essere inoltre costituita dall’utilizzo dello stick glicemico su sangue capillare negli studi podologici su soggetti che non sanno di essere affetti da diabete. Questi pazienti andrebbero così indirizzati precocemente al diabetologo. Fig. 4 Il protocollo d’intervento Educazione PREVENZIONE PRIMARIA Prevenzione delle lesioni Multidisciplinarietà Medicale TRATTAMENTO Ortesico } Calzatura idonea Valutazione ipercarichi PREVENZIONE SECONDARIA Calzatura idonea Ortesi personalizzate 30 Congresso 2003 Vi riporto qui per completezza il protocollo dei controlli podologici per pazienti diabetici (Fig. 5). Nella vita quotidiana il paziente diabetico deve seguire alcune semplici norme di controllo: ispezionare i piedi e le scarpe, assicurarsi della perfetta asciugatura del piede dopo il bagno, utilizzare un asciugamano di tela per le aree interdigitali in maniera da non procurarsi lesioni, verificare che la temperatura dell’acqua sia intorno a 37°C, evitare assolutamente di camminare scalzo o di indossare scarpe senza calze, non utilizzare callifughi o strumenti taglienti in presenza di callosità. Se la pelle è secca utilizzare abbondantemente creme idratanti, ma non nelle aree interdigitali, cambiare quotidianamente le calze, indossare scarpe prive di cuciture, tagliare le unghie in maniera corretta, cioè quadrata all’altezza dei polpastrelli, recarsi subito dal podologo se si formano vesciche, tagli o ferite. Il podologo è un operatore sanitario abilitato a curare le patologie del piede. Grazie alla sua formazione è in grado di prevenire e trattare le complicanze del piede diabetico. Il protocollo di intervento podologico comprende l’approccio diagnostico, il trattamento e la disinfezione. Fa parte dell’approccio diagnostico l’identificazione ezio-patogenetica dell’evento ulcerativo in presenza di vasculopatia periferica ostruttiva, neuropatia distale simmetrica, erronea biomeccanica del piede. Gli strumenti sono la valutazione palpatoria dei polsi arteriosi, l’indice di LIVELLO DI PATOLOGIA CONTROLLI Diabete di breve durata No neuropatia, no vasculopatia Leggere deformità. 1 anno Diabete di lunga durata No neuropatia, no vasculopatia Deformità. 6 mesi Diabete di lunga durata Neuropatico, no vasculopatico Senza deformità 6 mesi Diabete di lunga durata Neuropatico, no vasculopatico Con deformità senza ipercheratosi Diabete di lunga durata Neuropatico, no vasculopatico Con deformità ed ipercheratosi 3 mesi 1 mese Diabete di lunga durata Neuropatico, no vasculopatico Senza deformità senza ipercheratosi 1 mese Diabete di lunga durata Neuropatico, vasculopatico Senza deformità, leggere ipercheratosi Protocollo dei controlli podologici per pazienti diabetici 1 mese Diabete di lunga durata Neuropatico, no vasculopatico Senza deformità con ipercheratosi Con onicopatia Diabete di lunga durata Neuropatico, con pregressa lesione Fig. 5 1 mese 1 mese 31 Congresso 2003 Windsor, la valutazione della sensibilità, l’esame baropodometrico che consente di valutare le zone di ipercarico sia durante la fase statica che durante quella dinamica. Successivamente all’inquadramento diagnostico abbiamo il trattamento e la disinfezione. Una strategia preventiva che includa un’adeguata educazione dei pazienti e dello staff medico, un approccio multidisciplinare al trattamento delle ulcere ed uno stretto monitoraggio dei pazienti a rischio può ridurre del 60% il tasso di amputazione agli arti inferiori. Ricordo che, da un’indagine del Ministero della Salute, nel 2001 le amputazioni agli arti inferiori sono state 1800 e credo che un’amputazione sia l’atto più devastante per l’individuo. In conclusione si può affermare che l’educazione terapeutica deve dare grande rilievo alla figura professionale del podologo. Si tratta di diffondere con grande impegno una cultura che sia rivolta a considerare il podologo indispensabile nell’ambito multidisciplinare della prevenzione e della cura della patologia diabetica. ROSANNA TONIATO Presidente OSDI Negli ultimi anni la figura dell’infermiere professionale è cambiata in maniera notevole, basti solo pensare all’introduzione dei profili professionali e all’annullamento del mansionario che delimitava notevolmente l’attività dell’infermiere ed infine l’approvazione della legge 251, avvenuta nell’agosto del 2000 che rappresenta una grande conquista per tutti gli infermieri. Con questa legge, alla nostra professione viene riconosciuto lo status di professione autonoma, dotata di un proprio ambito disciplinare: quello delle discipline infermieristiche. L’infermiere professionale deve espletare le proprie funzioni seguendo il profilo professionale, i codici deontologici ed il patto infermiere-cittadino. Secondo il profilo professionale l’infermiere è responsabile dell’assistenza infermieristica, ha funzioni proprie nella prevenzione, nell’assistenza e nell’educazione sanitaria. È un professionista perché lavora in maniera autonoma e responsabile. Per tutte queste funzioni, tuttavia, la formazione di base non basta. Chi forma, allora, questi educatori? Questa domanda potrebbe essere rivolta non solo agli infermieri, ma agli educatori dei medici, agli educatori dei dietisti ed a tutte le figure professionali coinvolte nell’educazione. L’OSDI in questi anni ha fatto molto per i propri iscritti, però non esiste ancora in Italia un curriculum formativo del professionista educatore. Sicuramente L’OSDI non potrà da sola colmare questa lacuna; sarebbe quindi opportuno che tutte le associazioni si riunissero per costruire un iter formativo dell’educatore. Ci sono tanti preconcetti nell’educazione; spesso per educazione si intende un semplice trasferimento di conoscenze, ma non è così: questo non vuol dire educare. In tutti i servizi di diabetologia ci sono persone che insegnano ai pazienti, ma questo non vuol dire che siano educatori. Perché educare? Per quanto riguarda l’infermiere educare a volte significa dare la “macchinetta” ed insegnare ad usarla. Questo non vuol dire educare. Educare vuol dire rendere responsabile il paziente di quello che fa e fornirgli gli strumenti che gli consentano di prendere delle corrette decisioni sulla propria malattia. Sicuramente per ottenere questo bisogna cacciar via questi falsi concetti, bisogna provvedere e supportare l’educazione sanitaria sforzandosi di capire soprattutto i bisogni, comprendere le definizioni di educazione sanitaria e quali sono le responsabilità assegnate da questi processi, bisogna essere formati, preparati, avere un addestramento particolare soprattutto per quanto riguarda le tecniche di insegnamento e la scienza del comportamento. Negli Stati Uniti l’infermiere può essere di livello base o di livello avanzato, ma per essere educatore deve fare un corso e per avere l’attestato deve avere almeno 1000 ore di espe- 32 Congresso 2003 rienza educativa. Ogni 5 anni il certificato deve essere rinnovato e gli educatori di diabetologia devono raggiungere e mantenere degli standard di cura (valutazione, diagnosi ed identificazione degli obiettivi). Il ruolo di educatore del paziente diabetico può essere assunto dai vari professionisti sanitari in cui possono essere inclusi, non esclusivamente, gli infermieri, i medici, i dietisti, gli assistenti sociali, i pediatri e i farmacisti. Vorrei infine sottolineare alcuni quesiti relativi all’educazione. Come si può educare con poche risorse? Crediamo veramente nell’educazione? Quali sono gli obiettivi che vogliamo raggiungere con il servizio di diabetologia? Dove vogliamo andare? Chi organizza un servizio lo organizza anche in base a quanto viene pagata una prestazione. Un intervento di educazione individuale costa tanto quanto fare una glicemia. La differenza sta nel tempo: per fare una glicemia occorrono circa due minuti mentre per un intervento educativo individuale serve molto di più. È necessario modificare questi aspetti per quanto ci è possibile. Quali sono le figure responsabili dei processi educativi? Il team esiste davvero? Spesso nel personale dei servizi di diabetologia vengono collocati operatori sanitari che non sono motivati o gratificati da ciò che fanno. Concludo con un punto di forza nell’educazione a favore degli infermieri che di fatto rappresentano i primi interlocutori dei pazienti. Quante volte succede che il paziente che è stato un ora ad ascoltare le spiegazioni del medico esce e chiede all’infermiere: “ma che cosa ha detto?”. L’infermiere parla la stessa lingua del paziente e quindi è più portato a dialogare con lui. L’OSDI, che io rappresento, ha come obiettivi fondamentali la formazione in questi ambiti operativi. GIACOMO VESPASIANI Presidente Associazione Medici Diabetologi La mia presentazione verterà su due aspetti: in una prima fase dirò che cosa fa l’AMD e successivamente qual è lo stato attuale dell’organizzazione della Diabetologia nel mondo della Sanità italiana. AMD è articolata in grossi raggruppamenti per strutture stabili dedicate a temi come la comunicazione, la qualità, la formazione attraverso la Scuola AMD e la ricerca. Questi sono gli argomenti che AMD ha sempre trattato ed intorno ai quali sempre continuerà a lavorare. Nell’ambito della formazione e dell’educazione l’AMD ha due strutture fondamentali: il GISED e la Scuola AMD che rappresenta un’organizzazione di staff permanente che lavora alla metodologia della formazione e della progettazione dei corsi ECM. Ci sono poi i progetti educativi che non riferiscono alla Scuola, ma direttamente al Consiglio Direttivo (progetto di Educazione Terapeutica Strutturata). La Scuola AMD deve essere ricordata come uno strumento che serve a garantire la metodologia della formazione. La scuola ha pubblicato un albo ufficiale di formatori AMD con i quali l’OSDI ha trovato una collaborazione paritetica. Abbiamo molto dibattuto sul fatto se l’albo dei formatori dovesse essere pluridisciplinare o meno; la decisione è stata degli infermieri che hanno detto “saremo formatori infermieri e voi sarete formatori medici”. L’AMD ha quindi messo a disposizione un’organizzazione che permettesse agli infermieri di aver un metodo. La scuola AMD sta per essere accreditata Vision 2000, l’evoluzione dell’Iso 9000, riconoscimento indispensabile che verrà forse presto richiesto dal Ministero a tutte le strutture che vogliono erogare ECM. L’accreditamento ECM sarà basato esclusivamente sul formatore che dimostri di essere certificato, non in maniera autoreferenziale, ma in base a regole sulla qualità riconosciute a livello internazionale. Ogni anno la scuola AMD organizza un corso di formatori. Si tratta di un corso che dura due anni (il primo anno un corso di base e l’anno successivo un corso master). I formatori che 33 Congresso 2003 fanno parte dell’albo devono partecipare nel corso dell’anno ad un certo numero di eventi educativi che servono per rimanere aggiornati e per rimanere iscritti all’albo dei formatori. Ci sono poi dei gruppi come quello che si occupa del counting dei carboidrati, attività svolta in collaborazione con la Scuola e che vede il medico, l’infermiere e la dietista lavorare insieme attorno ad un problema. Infine, abbiamo il gruppo di Educazione Terapeutica Strutturata che costituisce un primo tentativo di tradurre in pratica le teorie enunciate in diversi contesti e anche qui oggi al congresso GISED. Il tentativo è quello di trasportare queste teorie nella pratica di tutti i giorni, offrendo opportunità di formazione ai nostri colleghi che non hanno potuto fare dei corsi. Un altro esempio di pluriprofessionalità e di collaborazione è l’iniziativa DiabeteInForma. Si tratta di collaborare con i farmacisti perché la farmacia è un punto dove la persona diabetica può inizialmente risolvere il suo problema. Sappiamo infatti che non tutti i pazienti diabetici vengono ai centri di diabetologia o vanno dal medico di medicina generale; esiste una nicchia di persone che vogliono autoaddestrarsi e autoinformarsi. Abbiamo inoltre deciso di organizzare un giornale che oggi è soltanto elettronico per ragioni economiche e serve a trasferire informazioni direttamente al paziente diabetico. Abbiamo voluto farlo senza sostituirci alle associazioni ma con l’autorevolezza di una Società Scientifica che possa fornire informazioni accreditate. Su Internet è facile trovare tante informazioni, il problema è trovare informazioni accreditate. Lo scopo è quello di arrivare direttamente al paziente con un giornale per adesso elettronico e, se avrà successo, anche cartaceo. Infine c’è il GISED, il gruppo che ha inventato la parola “Interassociatività”. Da questa intuizione e da questo laboratorio continuo di evoluzione non si possono non vedere applicazioni diverse che non sono e non saranno mai in competizione. Il mondo della comunicazione è un mondo immenso e noi non riusciamo assolutamente a coprirne neanche una minima parte pur facendo tutto quello che siamo in grado di mettere in campo. Il nostro scopo deve essere l’educazione e la formazione del maggior numero di persone. La seconda parte della mia presentazione è una via di mezzo tra un’idea e ciò che sarà il futuro della diabetologia. Da un paio di incontri con il Ministro della Salute è emersa un’idea molto vicina a ciò che noi stiamo proponendo. Fino a ieri intorno alla sindrome di insulino-resistenza esisteva un’organizzazione che vedeva al centro gli specialisti che pur interessandosi di cose diverse producevano comunque vaste aree di sovrapposizione. Oggi c’è un qualcosa in più cioè la nostra équipe in cui è entrato a far parte anche il Medico di Medicina Generale. Domani succederà un’altra cosa e cioè l’area centrale, un tempo occupata dagli specialisti, verrà spostata ai medici di medicina generale. Perché dico questo? Perché nel contratto che si sta per firmare c’è un accordo dei Medici di Medicina Generale che vede la loro attività sempre più organizzata in gruppi collaborativi. Verranno finanziati ambulatori multipli all’interno dei quali i vari medici di medicina generale potranno svolgere l’attività di base, ma anche un’attività ambulatoriale dedicata a specifiche patologie Quest’ipotesi però non può non passare attraverso un momento fondamentale: il passaggio di informazioni tra lo specialista ed il medico di medicina generale attraverso il formatore. Il formatore è l’infermiere, il dietista, il podologo e il medico, ciascuno con le specifiche competenze che deve fare da ponte tra il momento ultraspecialistico del metabolista, il momento di prevenzione legato soprattutto al Medico di Medicina Generale e la gestione quotidiana della malattia cronica. Il formatore o l’educatore dovrà essere la persona che trasmetterà le informazioni più specialistiche al medico di medicina generale motivandolo a svolgere meglio il proprio lavoro, fornendogli opportunità di aggiornamento e coinvolgendolo nella gestione integrata del paziente. Il formatore trasporterà anche verso lo specialista tutte le informazioni che solo chi lavora di fianco al paziente diabetico ha l’opportunità di percepire e di recepire. Cosa può facilitare questo modello d’integrazione? È necessario un coinvolgimento diretto dei medici di medicina generale che passi per un aggiornamento nato dagli specialisti. 34 Congresso 2003 Il riconoscimento del ruolo di formazione e la tariffazione dell’educazione terapeutica sono irrisori. Stiamo per avviare un processo a livello ministeriale proprio per convincere i politici che la tariffazione è importante perché il responsabile di un reparto non può destinare all’educazione la stessa remunerazione di una glicemia. I centri del metabolismo devono essere meno intasati perché se si vuole fare attività specialistica non si può avere una fila di 40 persone dietro la porta. È necessario che ci siano leggi regionali e nazionali che sostengano questo modello e che i medici di medicina generale e i metabolisti siano connessi tra di loro, perché se non c’è uno scambio di informazione tutto il sistema crolla. Mancando infatti anche uno solo dei punti che ho sopra menzionato la realizzazione di un centro di metabolismo potrebbe rappresentare alla fine un peggioramento dell’assistenza. L’ipotesi è quindi valida, ma è necessario che contestualmente si realizzi una serie di condizioni indispensabili a trasformare l’ipotesi di una co-gestione in una realtà pratica. 35 Congresso 2003 L’autobiografia come genere educativo e terapeutico DUCCIO DEMETRIO Docente di Filosofia dell’Educazione e di Educazione degli Adulti presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca e presidente della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Le parole terapia-terapeutico nel testo antico (in Platone e Senofonte ad esempio) non venivano utilizzate soltanto ad indicare una cura o un rimedio di carattere medico. Le troviamo anche come sinonimo dell’arte di educare e di coltivare la terra: il corpo e l’anima nella loro originaria indissociabilità infatti, esigevano di essere al contempo accudite, conformate alle esigenze umane e – se necessario – guarite. In certi passaggi, therapeuein stava persino ad indicare ora un festeggiamento, ora la venerazione di una divinità. Migliaia di anni sono trascorsi ed il sapere medico si è impadronito di uno dei diversi significati del termine, eppure, oggi si tratta di ripristinare gli altri poiché sempre più ci si avvede che una “buona terapia” deve prevedere l’instaurarsi di momenti di apprendimento, sia veicolati da chi è in grado di fornire indicazioni utili alla sopravvivenza e al miglioramento del proprio stato di salute, (in un’accezione ampia, non solo come sradicamento delle cause della sofferenza fisica), sia attivati dal paziente. La terapia in tal modo si presenta nel suo essere un intervento complesso che chiede la partecipazione attiva del soggetto in sofferenza, al quale viene richiesto di educarsi e di “coltivarsi”. Come è noto, il filosofo Martin Heidegger riattualizzò la nozione di cura, facendola coincidere con l’idea stessa di “sentimento e volontà di esistere”. La cura, pur dipendendo da chi ha compiti di aiuto, non può dunque prescindere dalla risposta al desiderio di vita e pertanto, nondimeno, da chi va vivendo lo scoramento e la “caduta”. Ebbene l’autobiografia, la scrittura della propria storia, in quanto manifestazione concreta della volontà di dimostrare a sé stessi e al mondo che si è vissuto e che si è ancora in vita, compendia i vari significati impliciti nella nozione di terapia, specie laddove non promette una guarigione totale e non aspira a risolvere del tutto il danno, ma si pone come metodo o via da seguire per convivere con la patologia. Se l’autobiografia non guarisce di certo “il male di vivere”, allo stesso tempo la terapia nel corso di malattie croniche non guarirà definitivamente il corpo. Saranno allora indispensabili supporti non farmacologici per rendere comunque sopportabile il proprio essere al mondo, pur nel disagio, dischiudendo a nuove scoperte e conoscenze. L’autobiografia non è una panacea, essa collabora anche simbolicamente, laddove la donna o l’uomo desiderino comprendere di più il loro stato, a ristabilire un’alleanza tra la medicina e l’educazione, tra il supporto farmacologico e la disponibilità a prendere coscienza della nuova soglia varcata, che sarà pur sempre un’altra forma di esistenza da svelare e penetrare, grazie al potere terapeutico ed educativo dello scrivere. La scrittura, ormai è risaputo, facilita la sintesi di sostanze immunitarie ed antidepressive pur blande e potenti risorse sul piano dell’autostima, del senso della conquista delle parole per dirsi e spiegarsi e della ricerca di un’energia mentale necessaria a rappresentarsi in altre condizioni e occasioni. Premessa Qualche antefatto L’autobiografia ha cessato di essere un genere di pertinenza per lo più letteraria o storica. Le scienze sociali, antropologiche, psicologiche e psichiatriche da tempo si rivolgono alle “scritture di sé” per indagare la natura del soggetto, dell’individuo nella sua irriducibile unicità. 37 Congresso 2003 Infatti, scrivendo di noi stessi, con mezzi elementari o in stili raffinati, quella singolare raffigurazione del mondo visibile e invisibile intrecciata e comparata a quelle altrui, ci spiega eventi, condotte, modi di essere e di pensare. Come diceva Lieris, ogni autobiografo è attratto dal desiderio di rendersi più visibile, rappresentandosi nello specchio dell’inchiostro. Quando poi le singole storie vengono fra loro avvicinate, pur nella loro incomparabilità ultima, abbiamo la possibilità di comprendere gli atteggiamenti e i comportamenti di intere generazioni e di gruppi umani circoscritti nelle loro differenziazioni sessuali, etniche, cronologiche. Inoltre, la lettura di un testo autobiografico ci aiuta ad accedere alle filosofie personali dei modi di sentire quotidiani, oltre che delle pratiche di vita e a visitare forme del pensiero che altrimenti, nemmeno in una esuberante oralità, potrebbero manifestarsi. È la scrittura, se ancora occorresse ribadirlo, che consente tutto questo, in quanto técne maieutica che permette al soggetto di raccontarsi insolitamente e di pronunciarsi rispetto ad una teoria della vita, della propria innanzitutto e di concettualizzare i vissuti esperienziali, di assegnare a questi un senso e di collocarli all’interno di modelli e mappe, indispensabili alla interpretazione e spiegazione di sé. Se ci attenessimo poi ai risultati che in questi ultimi vent’anni, e non solo in Europa, anche in pedagogia l’approccio autobiografico ha saputo raggiungere (in quanto proposta di valorizzazione del soggetto, in quanto veicolo rispecchiante e occasione di realizzazione), concluderemmo che ci troviamo dinanzi ad un approdo recente, rispetto a quelli altrui. Ma, ad un’analisi più approfondita, potremmo scoprire che in realtà in scienze della formazione (in paideutica, per essere più precisi) l’attenzione per il ruolo educativo della scrittura è ben più antica. Non si tratta di rivendicare una precedenza ed i conseguenti onori da parte di altri campi del sapere, quanto piuttosto di ricordare che, attenendosi alla nozione in senso stretto di autobiografia (scrivere da se stessi la propria storia di vita), ogni atto di scrittura che abbia come soggetto e oggetto nonché come destinatario una stessa persona, produce sapere di sé. Un sapere, questo, attinto alle vicende attraversate che la mente dello scrittore o della scrittrice ricompone non soltanto nell’intenzione di lasciar traccia e testimonianza delle proprie scoperte, delle passioni, delle vicissitudini, delle avventure esperite. Mentre si scrive di sé, prima di farlo, negli intervalli tra una seduta di scrittura e l’altra, nei momenti di gestazione e di ripensamento soltanto a livello di dialogo interiore, l’autore produce pensiero:si pensa, ripensa e getta idee su quel che ha vissuto o va vivendo. Ragioni e senso di una declinazione L’autobiografia riscoperta in tal modo,al di là degli esiti che ci consegna in quanto documento empirico o in quanto storia di un uomo o di una donna che della loro condizione narrano, ovvero al di là di una vicenda anamnestica da valutare in sede clinica, è soprattutto un testo pedagogicamente significativo. Almeno per quattro ragioni: 1) testimonia l’intenzione di un soggetto di raccontarsi per conseguire degli obiettivi potenzialmente educativi: convincere, spiegare, chiedere assoluzione, presentarsi e farsi conoscere maggiormente, ecc.; 2) si presenta come il cammino che una mente compie per raggiungere i risultati precedenti. Infatti possiamo mettere in luce di quali processi o effetti cognitivi il narratore si sia dotato per autorappresentarsi. In tal modo, scopriamo che il lavoro mentale, tra cancellature, ripensamenti, variazioni in corso d’opera si presenta come un’attività di autoformazione. La mente si autoeduca, impegnandosi in riflessioni, in introspezioni, in critiche del mondo ed autocritiche; 3) inoltre l’autobiografia, (nella quale dobbiamo includere però anche il diario, una catena epistolare, un memoriale scritto per documentare qualche evento specifico cui si è partecipato) una volta terminata diventa un prodotto sociale, esponendosi cioè alla circolazione delle idee e delle opinioni altrui. In altri termini, diventa un’occasione e un’opportunità per la condivisione o la discussione, presente o meno l’autore e quindi si dimostra anche un generatore di narrazioni, di apprendimenti, di problematizzazioni; 38 Congresso 2003 4) infine, a livello psicologico la scrittura della propria vita, in forme diaristiche, autobiografiche, memorialistiche, svolge una funzione di autoaiuto e monitoraggio dalle indubbie e ormai accreditate, funzioni autolenitive, terapeutiche e catartiche. Lo scrittore e la scrittrice, specie se adottano questa consuetudine con regolarità e sistematicità esercitano su di sé una sorta di autoanalisi personale ovvero quasi un monitoraggio della loro esperienza interiore e relazionale. Si autoeducano accrescendo la capacità riflessiva, di sopportazione del dolore, di comprensione e accettazione di ciò che la vita ci riserva. Una scrittura privata quando si espone pubblicamente rappresenta un altro stimolo educativo, in tal caso per far parlare gli altri, per farli scrivere ad imitazione dell’autore che li ha sollecitati: tanto quando si tratti di scritture autobiografiche del presente che del passato. Ne consegue che l’autobiografia, per il punto di vista pedagogico, si delinea nel suo essere una vera e propria prospettiva educativa o di formazione che accende subito però eventi di carattere autoformativo in chi se ne avvale. Oltre a questo, permane senz’altro il dato di fatto che essa costituisce una mo dalità creativa tra le più interessanti, non solo per i risultati che arricchiscono le nostre conoscenze dal punto di vista quantitativo, ma anche perché l’ingresso nell’esperienza narrativa dell’autobiografia significa generazione di eventi nuovi, di esperienze nuove che ciascun “autobiografo” improvvisato vive e sperimenta. Cambi F. L’autobiografia come metodo formativo. Roma-Bari: Laterza 2003. Bibliografia Castiglioni M. La ricerca in educazione degli adulti. L’approccio autobiografico. Milano: Unicopli 2002. Demetrio D. Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé. Milano: Cortina 1996. Demetrio D. L’educazione interiore. Milano: Rcs, La Nuova Italia 2000. Demetrio D. Autoanalisi per non pazienti. Inquietudine e scrittura di sé. Milano: Cortina 2003. Formenti L. La formazione autobiografica. Milano: Guerini 1997. Gamelli I (a cura di). Il prisma autobiografico. Milano: Unicopli 2003. 39 Congresso 2003 “La resistenza al cambiamento” LINA CLEMENTI La gestione della malattia cronica necessita che il paziente acquisisca nuove abilità e competenze: la modifica del comportamento è perciò l’obiettivo finale del processo di formazione della persona affetta da diabete mellito. Una delle competenze che l’operatore sanitario coinvolto nel processo di accompagnamento del paziente cronico deve acquisire è la capacità di percepire le difficoltà che il paziente incontra al “cambiamento”. Tale resistenza è motivata da reali ostacoli che la persona incontra. La modalità nell’affrontare un cambiamento è determinata dal “punto di vista” del soggetto (rappresentazioni, conoscenze, abitudini, bisogni, risorse): indispensabile che l’OS sappia ascoltare, comprendere le motivazioni, i diversi punti di vista delle persone a cui chiede un cambiamento. Scopo dell’esercitazione in gruppo è indurre una riflessione su quanto sia importante tener conto della soggettività nell’affrontare un problema (pluralità dei punti di vista di una medesima situazione) e come questo sia indispensabile per favorire una modifica del comportamento. Lavoro di gruppo Obiettivi del lavoro di gruppo: sperimentare, essere consapevoli della pluralità dei punti di vista nell’affrontare la medesima situazione; sperimentare la difficoltà/resistenza che si incontra nell’operare un cambiamento e verificare quindi che non ci sono solo vantaggi nel cambiamento ma che bisogna tener conto anche degli eventuali svantaggi; favorire la riflessione circa la necessità di ascolto/comprensione dei diversi punti di vista al fine di poter stabilire una strategia mirante al cambiamento. SVOLGIMENTO Gestore d’aula: Lina Clementi che spiega il mandato e le modalità di svolgimento. Tempo complessivo: 1 ora e 30 minuti di lavoro in gruppo, 30 minuti di lavoro di presentazione in plenaria. Mandato del lavoro di gruppo: preparare un breve discorso della durata di 3 minuti che esponga le ragioni favorevoli o contrarie ad un cambiamento; presentare gli elaborati alla plenaria sottoforma di “un comizio”. I partecipanti sono stati suddivisi in 10 gruppi: 5 gruppi di “Progressisti”, 5 gruppi di “Conservatori”. Tema da svolgere: “Il cambiamento di città: dalla metropoli al paese. I motivi per cambiare” (Progressisti). “Il cambiamento di città: dalla metropoli al paese. I motivi per non cambiare” (Conservatori). Ai tutor viene suggerito l’utilizzo della tecnica dei bigliettini per lo svolgimento del mandato; si sottolinea l’importanza di chiarire che nell’elaborare il documento ogni partecipante debba abbandonare la propria convinzione personale ma calarsi nell’ottica della posizione del gruppo. Il gruppo identificherà la persona che presenterà in plenaria il documento. Alla fine delle presentazioni la plenaria dovrà esprimere un voto finale (alzata di cartellino colorato) che dovrà invece rispecchiare la propria convinzione personale (abbandonando la posizione del gruppo di appartenenza). 41 Congresso 2003 PRESENTAZIONI IN AULA Progressista 1 Voglio andare a vivere in campagna, voglio la rugiada che mi bagna. Cari elettori voi dovete votare il nostro partito “spostati in campagna” perché i punti nevralgici della vostra vita avranno sicuramente un miglioramento e la qualità della vostra vita sarà incrementata. Troverete tranquillità, sicurezza, serenità, tanti amici, persone con cui condividere i vostri problemi e non vi sentirete mai soli. La vostra salute avrà notevoli benefici: non mangerete cibi modificati, ma sempre cibi sani, coltiverete il vostro orto e avrete vicini di casa che vi aiuteranno. Non avrete stress, tutte le dimensioni della vostra vita saranno positive, non dovrete preoccuparvi per i parcheggi, ma potrete correre per la campagna con la bicicletta. Insomma, avrete tutti gli agi che la città vi nega. Infine, la vostra qualità di vita professionale sarà sicuramente migliore: avrete pochi pazienti, li potrete seguire con accuratezza e conoscerete tutto di loro; non vi negheranno mai nulla, saranno tutti molto sereni e vi aiuteranno con la loro partecipazione, con il loro entusiasmo e voi sarete per loro una guida. Vi invitiamo pertanto con sincerità e con calore a votare la nostra lista. “In campagna la vita ci guadagna”. Conservatore 6 Cari elettori, io sono veramente stanca di sentire questi luoghi comuni sulle bellezze della vita di campagna. Sicuramente è una vita meno stressante, più a dimensione umana ed i figli sono forse più protetti, ma non credo che oggigiorno ci sia un posto in cui l’aria è meno inquinata. Rendiamoci conto poi che la città offre mille opportunità in più: pensate alle scuole per i vostri figli, alla scelta scolastica, alle opportunità di inserimento nel mondo di lavoro con le difficoltà che ci sono oggi. Io sono contenta di lavorare in città e di avere a che fare con i miei 1000 pazienti di cui non mi stanco mai. Forse è vero che la vita di città ti spersonalizza, ti rende un numero, ma quest’anonimato ha anche degli aspetti positivi: vivere nell’anonimato significa non essere giudicati, criticati, esprimersi liberamente e agire liberamente. Ecco perché io voterei per la città. Intoniamo quindi il nostro slogan, la nostra canzone: “com’è bella la città, com’è viva la città, com’è grande la città, com’è allegra la città, piena di strade e di negozi e di vetrine piene di luci con tanta gente che lavora con tanta gente che produce”. Progressista 4 Il cambiamento dalla città alla campagna è un cambiamento positivo perché si vive in modo più sano, si ascolta di più la natura, gli alberi che crescono, il silenzio che ci circonda; si può godere delle bellezze che ci circondano, ci si può riappropriare della vita e dei propri spazi, si può scegliere con chi vivere, chi vedere, con chi dividere il proprio tempo. In campagna si ha più tempo da dedicare agli altri e a se stessi; più tempo per risparmiare risorse da dedicare alle cose che ci piacciono, per potersi riappropriare del valore di sé, per perdere l’anonimato della città, per godere del valore dell’ascolto di sé e degli altri. Cari amici votate per il nostro slogan: “un abete e saprete chi siete”. Conservatore 9 La città è grande. Pensate al cinema, ai teatri, ai concerti … Progressista 5 Noi siamo i progressisti per il paese, votiamo per il paese. Perché? Perché il paese ci dà molto di più della città: aria pura, meno traffico, più verde. I bambini possono uscire, mentre in città non possono far niente: possono andare in bicicletta, con i pattini … C’è più tranquillità: le persone anziane possono trovare i loro spazi, il loro modo di vivere serenamente. Oltretutto 42 Congresso 2003 le persone hanno un’identità, sanno chi sono, si conosce il vicino accanto. In città, invece, nei nostri grandi condomini, molto spesso non ci si conosce neanche. Le persone sono completamente “spersonalizzate”. Nei paesi questo non è vero: ci si conosce, ci si trova al bar a giocare a carte, ci si racconta. Il coinvolgimento della persona che vive in paese oggi è molto più alto: il paese è sicuramente a dimensione uomo, un uomo che si sente ancora tale e dove non esiste solo il lavoro, ma anche la famiglia. In paese la persona diventa protagonista della sua vita. Votate dunque per il paese. Conservatore 7 Siamo qui per sfatare un mito: il mito che la campagna sia meglio. Hanno cercato di imbonirci in questo modo per anni e anni. La città è scelta e solo l’alternativa può dare la scelta; la spersonalizzazione non esiste: si è un numero solo se si vuole essere un numero, ma se si vuole conoscere si ha molta più possibilità. Se si vuole avere un miglioramento culturale e sociale si riesce solo in mezzo alla gente e non lontano dalla gente. La città ti dà questa libertà di scelta della tua vita e della tua persona. Chi vive in paese, poi, come può lasciarsi la città alle spalle? Solo noi della città possiamo perché la città ci protegge. In città mai nessuno verrà a costruire una discarica vicino a casa nostra. Non dobbiamo andare in paese. Progressista 3 Cari amici elettori, i conservatori li conosciamo tutti e non saranno certo le canzoncine che decideranno il vostro voto e il vostro giudizio. Amici, questi sono imbonitori. Sono uscito da un incubo, chi non l’ha mai fatto? Guardi l’orologio, oddio è già tardi, e giù per le scale perché hai 5 minuti e si intasa la strada sotto casa e cominci così a vivere tutta la tua giornata, come sempre: in ritardo sulla vita. Arrivi a casa tardi e stanco e non hai nemmeno il tempo di rilassarti, di pensare cosa avresti voluto fare. Quello che avrei voluto fare oggi lo faccio, amici miei, oggi ho realizzato un sogno e lo realizzeremo insieme questo sogno. Ora vivo in campagna e non sto a dirvi tutte le cose della campagna belle perché le avete già sentite: tempo libero pur facendo la mia attività. La vita costa meno: ho già messo via un bel po’ di soldi (non ci sono le spese di garage o di parcheggi) che destinerò a migliorare la mia qualità di vita. Quest’anno facciamo il viaggio che l’hanno scorso non abbiamo potuto fare. Voi mi direte: “ma la città, la mia bella città, come l’abbandoniamo?” Non l’abbandoniamo, la mia e la vostra città: ci andiamo quando vogliamo, scegliamo i momenti giusti, i quartieri giusti, le ore giuste. Vediamo il bello delle città e ne conserveremo un ricordo certamente migliore rispetto a quella che è la nostra vita in città di cui cogliamo solo gli aspetti più negativi. Vieni in campagna la vita ci guadagna, ma soprattutto, nessuno sa quel che si perde se non ha provato a farlo nemmeno una volta. Provate con me. Conservatore 10 Gentili elettrici, cari elettori non sono qui per farvi cambiare idea, sono qui per cercare di fare uscire dal nostro cuore il sentimento comune e vero sulla mistificazione del concetto di città. La città degli aspetti negativi è un inganno: la città è ricca di risvolti pratici e di risvolti umani di una profondità e di un’importanza senza limiti. I risvolti pratici sono già stati elencati dai miei correlatori in precedenza: i servizi, gli ospedali facilmente raggiungibili, i negozi, la possibilità di fare shopping, di avere tutto sotto mano anche dal punto di vista della crescita culturale dei nostri figli. Prima qualcuno diceva che in campagna i figli vivono meglio, ma poi vanno a scuola in città. In città c’è il lavoro, il lavoro è concentrato tutto nelle grandi città. Voi che abitate in campagna dovete recarvi in città: un’ora e un quarto di tragitto … non vi beccate solo la coda sulla sopraelevata o sulla circonvallazione, ve la trovate pure per entrare dal casello, per uscire dal casello, per accedere all’accesso urbano. Ma la città ha un altro risvolto importante: evita la solitudine, favorisce gli scambi culturali, la crescita del rapporto umano. Un rapporto umano vero, non fatto di pettegolezzi, di basse infamie e di insinuazioni che è presente nella vita di paese. Pensate ai rap- 43 Congresso 2003 porti culturali, pensate ad una scappatella sentimentale: in paese tutti lo sapranno il giorno dopo, mentre la città vi dà modo di avere il contatto umano e, nel contempo, rispetta la vostra privacy. Ricordatelo: la città ha mille aspetti positivi e la campagna ha i suoi lati negativi. La città è nata dalla civiltà, non dimentichiamocelo; le città sono nate dal buio del medioevo come l’antiluce. Non fuggite dalla vita, non fuggite dalla civiltà: rimanete in città. Progressista 2 Avete visto quel “mediasettino” che adesso se n’è andato? Avete notato la differenza tra la sua cravatta e la mia? La sua è grigia e triste, mentre questa è piena di vita. Ma vedo parecchi che sono venuti qui per la città e che applaudono per il paese; mi fa piacere perché vedo che siete convinti. Poi mi ha detto un genovese del mio gruppo che la città costa: lui è esperto, quindi potete star sicuri che la città costa. Noi siamo tutti medici, qualcuno ha fatto molte ricerche … avete visto che i topi, quando stanno in uno spazio piccolo, diventano irritabili? E dove trovate meno spazio che in città? Noi invece siamo calmi, sereni: i migliori filosofi sono stati sempre in campagna, no? Giravano per la campagna perché la campagna ispira; ispira i poeti, gli artisti. Avete mai visto un artista che abbia rappresentato il paradiso come una città? A me sembra di no; come città abbiamo soltanto visto quel famoso film “Inferno di cristallo” in cui tutti muoiono in un palazzo o in una metropolitana. Conservatore 8 Cittadini diabetologi ed educatori, io non voglio convincervi a stare in città. Andate in campagna: ingrasserete di più, userete di più la macchina, inquinerete ancora di più; la vostra già ridotta vita culturale sarà ancora più piatta. Userete certamente meno i telefonini, ma dove sono i cinema? Userete meno i telefonini perché quei benedetti alberi vi daranno schermo, avrete solo la televisione di Mediaset, la vostra vita privata sarà in piazza e i vostri figli? Dove andranno i figli? Sempre in casa oppure in macchina con voi per andare a scuola, in palestra, in piscina. E voi a fare da tassisti. I vostri amici non vi verranno più a cercare perché avrete tutte le stanze piene di ospiti a 2 a 3 a 4 zampe. Rimanete pure in campagna, in città ci stiamo noi. In città avremo meno tasse, più lavoro, più vita. Al termine delle presentazioni la plenaria ha votato e si è registrata la vittoria del partito dei “Progressisti”. La Dott.ssa Clementi ha risottolineato come non fosse questa la parte centrale del lavoro e ha riportato l’attenzione sul senso del lavoro fatto e sul filo conduttore di Villa Erba 2004 (la scrittura come metodo per l’autoanalisi professionale): ad ogni partecipante all’uscita è stato consegnato un foglio dove scrivere la riflessione suscitata dal lavoro svolto. COMMENTO I gruppi hanno lavorato in un clima sereno, giocoso, anche se la dimensione ludica è sempre stata ricondotta alle finalità del lavoro di gruppo. È infatti emerso in maniera eclatante quali e quanti e quanto diversi possano essere gli aspetti, le sfaccettature di una stessa problematica e quanto variabile possa essere il punto di vista di una persona rispetto ad una stessa situazione e quanto, infine, risulti importante il “modo” di esporre la possibilità di una modifica di un comportamento. La brillante e anche divertente “drammatizzazione” ha pure sottolineato come diverse modalità di “presentazione” possano essere più o meno coinvolgenti, riportando la riflessione al problema della comunicazione. Complessivamente, in un clima d’interesse e anche giocoso, l’obiettivo del lavoro è stato raggiunto. 44 Congresso 2003 Lettura Evidence Based Medicine ed educazione terapeutica VALERIO MISELLI U.O. di Diabetologia AUSL di Reggio Emilia, Ospedale di Scandiano (RE) L’evidence based medicine non è mai separata da tutto quello che accade nella quotidianità nostra e del paziente: quando ci sono eventi nella nostra vita oppure in quella del paziente come una complicanza o qualsiasi altra cosa, abbiamo bisogno per un attimo di fermarci. Quante sono le occasioni per riflettere sulla vostra attività? In che modo e quando lo fate? In che misura la riflessione vi aiuta a crescere come persone e come professionisti? Che cosa vi ha insegnato la riflessione? Questa mattina abbiamo incominciato un percorso su questa strada, che parte da cosa chiediamo ai nostri pazienti. Noi chiediamo loro di accettate l’inaccettabile (una malattia cronica); di governare il non governabile (il controllo della glicemia); di cambiare il non cambiabile (le abitudini alimentari); di programmare l’inatteso (le ipoglicemie); di fissare il non fissabile (mangiare agli stessi orari); di divertirsi quando non c’è niente da divertirsi come in una festa quando ci sono troppe limitazioni; di comprendere il non comprensibile (le liste di scambio, il calcolo dei carboidrati) e di vivere con il non curabile, cioè vivere con il diabete. A fronte di questo c’è il tempo che noi dedichiamo loro, così ben esemplificato da Frank Vinicor, Direttore del Centro di Atlanta, che, sottolineando i limiti dell’ambulatorio, ha calcolato per quanto tempo entriamo nella vita dei nostri pazienti. Secondo Vinicor se siamo molto bravi vediamo un paziente con diabete tipo 2 quattro volte all’anno per venti minuti, a cui dobbiamo aggiungere il tempo trascorso con l’infermiera: ogni anno, alla fine di tutto, gli abbiamo concesso lo 0,2% del suo tempo di vita con la malattia, tolto il sonno. I limiti dell’ambulatorio, cioè i limiti del nostro contatto, sono tutti in questi numeri. Fig. 6 La cura della malattia cronica si realizza attraverso il paziente ed i suoi familiari; l’educazione all’autogestione è momento centrale di qualsiasi strategia terapeutica efficace; la realizzazione di strategie terapeutiche efficaci al raggiungimento di outcome clinici è possibile attraverso il coinvolgimento dei pazienti alla gestione della malattia e della cura; nella terapia intensiva è dimostrata l’efficacia di ampi approcci coordinati e di strategie per l’addestramento e la motivazione dei pazienti basate sulla personalizzazione del trattamento, su un costante supporto e contatto con l’equipe curante; l’educazione terapeutica è un processo continuo di formazione e verifica il cui scopo essenziale è quello di facilitare modifiche comportamentali attraverso l’acquisizione di conoscenze ed abilità, di modifica degli atteggiamenti e della capacità di integrarle tra loro per utilizzarle nella pratica quotidiana; l’intervento educativo deve tener conto dei bisogni specifici del paziente e del suo contesto bio-psico-sociale. EBM ed educazione terapeutica 45 Congresso 2003 Fig. 7 Necessità dell’evidenza Il management delle malattie croniche richiede l’effettiva partecipazione del paziente in un sistema organizzato della cura che comprende diversi argomenti integrati ed interdipendenti tra loro, tra cui quello educativo; la maggior parte della spesa sanitaria è dovuta al management della malattia cronica e delle sue complicazioni; la realizzazione degli interventi educativi deve essere basata sull’evidenza dell’efficacia degli stessi; la ricerca in campo educativo è di per sé complessa sia per la numerosità delle variabili in gioco, sia per l’impossibilità di condurre studi perfettamente controllabili; i trial presentano spesso errori metodologici; frequentemente gli interventi educativi realizzati non sono sufficientemente descritti con conseguente impossibilità di valutarne la trasferibilità; la maggior parte della letteratura esistente ha valutato esclusivamente outcome di conoscenze o relativi al controllo glicemico. Fig. 8 Efficacia in letteratura Revisione di 72 RCTs pubblicati dal 1980 al 1999 sull’efficacia di interventi educativi nel DM tipo 2 sottolinea l’estrema disomogeneità degli studi in termini di caratteristiche dei pazienti, interventi, outcome, disegno di studio e metodologia; sono efficaci a breve termine (< 6 mesi) interventi educativi sulle conoscenze, sulla frequenza ed accuratezza dell’autocontrollo, su comportamenti alimentari riferiti e sul controllo glicemico: Livello 2; l’efficacia degli interventi su outcome psicologici, sulla qualità della vita, sull’attività fisica, sul peso, sulla pressione arteriosa varia nei diversi studi; gli interventi che coinvolgono attivamente e con regolari rinforzi il paziente sono più efficaci nel migliorare controllo glicemico, peso, assetto lipidico: Livello 2; gli interventi di gruppo sembrano più efficaci nell’indurre modifiche comportamentali e ugualmente efficaci sulle conoscenze e sull’automonitoraggio rispetto agli interventi individuali: Livello 2; l’interesse principale degli studi è stato sull’outcome glicemico e sulle conoscenze; scarsi i dati su outcome e salute e sugli effetti a lungo termine. (Norris SL, Engelgau MM, et al. Diabetes Care 2001;24:561-587; DARE 2001; ACP Journal Club 2001) Questa revisione di 41 studi (RCT, CBA e ITS) valuta l’efficacia di interventi diversificati sugli operatori sanitari e di interventi organizzativi; l’educazione migliora gli outcome dei pazienti e dei processi di cura se aggiunta ad interventi di formazione professionale e di organizzazione che permettano un regolare e strutturato richiamo dei pazienti; la valorizzazione dell’attività infermieristica negli interventi educativi sui pazienti potenzia tale risultato. (Renders CM, Valk GD, et al. Diabetes Care 2001;24:1821-1833) Le conoscenze migliorano l’abilità all’autogestione ma sono insufficienti a garantire il controllo glicemico nel lungo periodo; il raggiungimento degli obiettivi di modifica del comportamento è possibile solo con il superamento di barriere: caratteristiche del paziente (bisogni, credenze), contesto sociale, tipo di malattia, interazione del paziente con la struttura assistenziale e con gli operatori; gli studi sull’utilizzo dell’educazione come strumento terapeutico per promuovere il self management in diabetici tipo 2 hanno dato risultati non univoci in termini di miglioramento del controllo glicemico nel lungo periodo e nella riduzione del rischio cardiovascolare. (Clement S. Diabetes Care 1995;18:1204-14) 46 Congresso 2003 Nella mia relazione mi servirò dello straordinario lavoro sulla necessità dell’evidenza e sull’efficacia della letteratura che è stato prodotto da Angela Girelli e che è possibile trovare su www.aemmedi.it/thesaurus/educazione (Fig. 6-8). Un aspetto particolarmente nuovo nel campo dell’evidenza è costituito dagli studi sull’efficacia degli interventi di gruppo nella terapia del diabete. Gli interventi di gruppo sembrano più efficaci nell’indurre modifiche comportamentali ed ugualmente efficaci sulle conoscenze e sull’automonitoraggio della glicemia rispetto agli interventi individuali. Viene spontaneo chiedersi di quale educazione stiamo parlando (Fig. 9). Le modifiche comportamentali vengono intaccate soltanto minimamente dagli interventi educativi. È necessario negoziare obiettivi con il paziente (non glieli possiamo solo consigliare caldamente) ed è necessario pensare ad un sistema di cura integrato. Un follow-up va programmato fin dall’inizio, non può essere un caso. In quali realtà organizzative? Evidentemente gli interventi strutturati sono quelli che funzionano di più; è dimostrato in letteratura che interventi che comportano la presenza infermieristica sono molto più efficaci di quelli che non la comportano. Lo stesso discorso vale per la Medical Nutrition Therapy riguardo l’intervento delle dietiste. Ad oggi abbiamo sviluppato ampiamente la ricerca sulle metodologie e quella sugli outcome di tipo clinico, ma non abbiamo ancora ampliato il campo sui comportamenti. È stata dimostrata da tempo l’importanza dei comportamenti alimentari, del livello di attività fisica e della cessazione del fumo nella terapia del diabete. Ci sono dimostrazioni importantissime su come combinare i meccanismi di ricordo che aiutino i pazienti a seguire correttamente la terapia e altrettante sull’autocontrollo della glicemia. È però importante tornare al discorso sull’autoriflessività e sapere se siamo davvero in grado di dare un “significato” alla glicemia, cioè se nella nostra quotidianità riusciamo a includere nei percorsi di cura le figure non mediche oppure se le abbiamo soltanto messe ad insegnare come si fa l’autocontrollo. L’autocontrollo della glicemia è un outcome su cui lavorare, anche se vi sono poche evidenze sulla maggiore efficacia nel migliorare il controllo glicemico medio di un uso intensivo dell’autocontrollo rispetto ad un autocontrollo meno frequente o al controllo delle urine. La mancata evidenza di un effetto diretto dell’autocontrollo sul controllo glicemico medio potrebbe essere dovuta alla mancata accuratezza delle determinazioni, alla non formazione del paziente ad utilizzare l’informazione o alla mancata valutazione da parte dei curanti. Fig. 9 Conoscenze e comportamenti non sono correlati; i comportamenti sono determinati soprattutto da altre componenti legate alla dimensione biopsico-sociale del paziente; interventi educativi tradizionali migliorano le conoscenze del paziente ma non sono in grado di determinare modifiche comportamentali Livello 1A; gli interventi educativi più efficaci sono quelli mirati sulla specificità bio-psico-sociale del paziente e quelli che coinvolgono attivamente nel management della malattia: Livello 2; obiettivi negoziati col paziente, limitati e raggiungibili sono più facilmente ottenuti; un rinforzo continuo nel follow-up è importante per il mantenimento del risultato: Livello 2; gli interventi educativi di gruppo rispetto a quelli individuali hanno pari efficacia per quanto riguarda le conoscenze e il controllo glicemico ma sembrano essere più efficaci nell’indurre modifiche comportamentali: Livello 2. Quale educazione? 47 Congresso 2003 Un intervento educativo strutturato può migliorare la capacità dei pazienti di tipo 2 nell’identificare episodi di iper/ipoglicemia e può contribuire a ristabilire la risposta all’ipoglicemia. Infine, dovrebbero essere valutati altri outcome dell’autocontrollo quali la frequenza delle ipoglicemie, la soddisfazione del paziente, la qualità della vita e la capacità del paziente ad utilizzare l’informazione-glicemia per apportare modifiche alla terapia. Per quanto riguarda il piede, invece, ci sono evidenze importanti sull’efficacia dell’intervento educativo (Fig. 10). L’intervento educativo risulta poi utile nel controllo glicemico in quanto migliora i livelli di HbA1c a breve termine e la durata del tempo di contatto paziente-educatore ne aumenta l’effetto. In tema di qualità della vita, infine, bisogna ancora lavorare molto, anche se cominciano ad esserci alcune evidenze interessanti. Un miglioramento è stato per esempio registrato dopo un intervento educativo intensivo e prolungato sulla dieta e sull’attività fisica, basato sul counseling. Quali sono le tecnologie a disposizione? I sistemi informatici di supporto per l’aggiustamento delle dosi di insulina possono migliorare alcuni outcome nel DM tipo 1 ed i mezzi informatici possono supportare l’approccio educativo migliorando alcuni outcome di comportamento, di salute e qualità della vita. Importanti studi ci hanno ormai confermato che un intervento educativo di altissimo livello è in grado di prevenire o ridurre l’incidenza del diabete in pazienti ad alto rischio e che questo genere di intervento non può essere effettuato da un’unica figura professionale. Una revisione molto semplificata degli outcome su cui dobbiamo lavorare include: l’esercizio, l’attività fisica; l’alimentazione; il medication taking, cioè seguire una prescrizione terapeutica che comporta l’assunzione di medicine; l’automonitoraggio della glicemia; il problem solving, tecnica fondamentale nei percorsi di cura; la riduzione del rischio di complicanze; l’adattamento psico-sociale, cioè la convivenza con il diabete. Gli outcome costituiscono un continuum: vi sono outcome immediati come l’apprendimento, outcome intermedi come i cambiamenti comportamentali, outcome post-intermedi cioè Fig. 10 Quali outcome? Il piede 48 L’intervento educativo è efficace nel migliorare le conoscenze e i comportamenti relativi alla cura del piede nei pazienti di tipo 2 soprattutto a breve termine Livello 1A; l’educazione per la cura del piede riduce l’incidenza di lesioni minori Livello 1A; nei pazienti ad alto rischio l’intervento educativo riduce l’incidenza di infezioni, ulcere, amputazioni Livello 2; l’educazione per la prevenzione delle lesioni del piede è più efficace se realizzata con interventi che coinvolgono attivamente il paziente, sull’addestramento con il coinvolgimento degli operatori sanitari in un sistema integrato Livello 2; le conoscenze e i comportamenti relativi alla cura del piede sono positivamente influenzati dall’intervento a breve termine; dati di maggior evidenza sono necessari per quanto riguarda l’esito principale (prevenzione e amputazione). Da valutarsi su casistiche maggiori (Livello di Rischio); l’introduzione nella routine clinica di metodiche di screening del paziente a rischio è necessaria al fine di realizzare interventi educativi efficaci. Congresso 2003 il miglioramento clinico complessivo ed infine degli outcome a lungo termine che riguardano lo stato di salute. Se, per esempio, scomponiamo un outcome come la nutrizione troviamo un universo (Fig. 11) In conclusione vorrei proporvi alcune riflessioni. Qual è il mondo perfetto per un educatore? È quello in cui il comportamento del paziente ha un senso perfetto; quello in cui medico e paziente lavorano con lo stesso obiettivo, senza alcuna frustrazione e nessun burn out. È quel mondo in cui ogni mattina sei felice di vedere ogni paziente. Ciò che invece tendiamo a fare in campo educativo, sperando che l’evidence dimostri che abbiamo ragione, è istruire il paziente e mandarlo allo sbaraglio, con guanti, pattini a rotelle e ginocchiere per non farsi male, semplicemente mostrandogli la strada da percorrere. Voglio ricordarvi un proverbio giapponese che tutti noi conosciamo, ma ogni tanto dovremmo ripeterci. “Ogni visione senza un’azione è un sognare di giorno, ma ogni azione senza visione è un incubo”. Il nostro è un ruolo di coaching dove fare il coach non vuole necessariamente dire aver giocato lo stesso sport, ma vuol dire avere la capacità di osservare e stare vicino, di intervenire quando è necessario e di sapere prevedere. Vuol dire sapere che esistono alcuni dati fissi su cui potere fare i conti, avere delle linee guida, pianificare degli interventi basati sulla capacità di cambiare del paziente, scegliere i messaggi giusti, usare abilità di comunicazione tutte da imparare, concentrarsi sui cambiamenti comportamentali e adattarsi ai tempi ed alle cose che cambiano. Per concludere ho scelto tre definizioni di EBM. La prima è di Alessandro Liberati, secondo cui l’evidence è un auspicio di una pratica della medicina dove gli atti assistenziali sono tanto più appropriati quanto più legittimati dall’onere della prova. In questa definizione si va oltre il concetto della clinica e si abbraccia l’orizzonte di un impatto sulla salute e sulla qualità di vita. La seconda è stata riferita da P. Vague che, ricevendo il premio alla carriera all’Università di Parigi durante l’International Diabetes Federation Meeting del 2003, ha definito la parola consensus come una cosa che molte persone dicono e concordano in coro, ma che non riescono a fare come individuo. Si tratta di un’altra autoriflessione che ciascuno di noi deve imparare a cogliere rispetto alla nostra quotidianità. L’ultima era scritta nel libretto che Roche ci ha fatto trovare ieri sera ed è una frase di Schopenhauer che ritengo molto significativa: “Ogni verità passa per tre fasi: prima di tutto viene ridicolizzata, poi è violentemente contrastata ed infine è accettata come evidence”. Fig. 11 CONOSCENZA MISURE Effetti del cibo sulla glicemia Fonti di CHO Piano alimentare Tipo di scelte Quantità di cibo Timing Glicemia pre e post Problem solving in situazioni speciali ABILITÀ Programmare i pasti Porzioni CHO counting Lettura etichette OSTACOLI Ambientali Emotivi Culturali Finanziari DSME: Diabetes Self Care Behaviors Outcome nutrizione METODI Self report Osservazione Diario alimentare Diario delle glicemie 24 h recall Questionari 49 Congresso 2003 Le dimensioni del sentire PAOLO GENTILI Dipartimento Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, Università “La Sapienza” di Roma Vi narrerò che cosa ho pensato rispetto a questo stimolo che riguarda le dimensioni ed il sentire. Personalmente mi ritengo una persona molto pragmatica: sento, faccio e penso per essere efficace sia come persona in famiglia, come marito e come padre, che come psichiatra con i pazienti e con i diversi operatori sanitari. Questo per poter arrivare a conclusioni che arricchiscano tutti e che siano traducibili in pratica. Credo che tutti ci poniamo o ci siamo posti questa domanda: è un interrogativo che fa parte del nostro io personale e che in qualche modo riecheggia sempre. Come essere efficaci nel nostro lavoro avendo scoperto l’importanza di ascoltare attivamente? Quante volte abbiamo ascoltato, abbiamo sentito parlare di ascolto, ma ci siamo resi conto che spesso rimane un grosso punto interrogativo: “chissà cosa vorrà dire esattamente”. E anche se mi sforzo di ascoltare spesso questo non è sufficiente perché poi il curare o il prescrivere o il prendersi cura della persona che viene a chiedere aiuto non porta effetti. Molte volte mi sorge una domanda: “ma veramente siamo-siete-sono sicuro di sentire bene?” Ho tanti problemi: dal mutuo alle tasse alle multe da pagare e così via. Osservare spesso non basta per essere efficaci. Quante volte abbiamo osservato, abbiamo raccolto tonnellate di analisi e dati e riempito cartelle e ci siamo resi conto che i dati in mano non ci permettevano di capire come intervenire con la persona che avevamo di fronte e ci chiedeva aiuto. Abbiamo fotografato. Forse alcuni di noi sono più bravi a fotografare il paziente. Abbiamo guardato tutte le sue cellule: da quelle del pancreas a quelle del cervello, eppure a volte ci sembra di trovarci in un corridoio lungo, grigio e senza uscite e noi siamo quell’omino in fondo che continua a camminare solo soletto e vede solo armadi chiusi, forse pieni di scheletri come diceva un mio collega. Sappiamo tutti che il diabete è una sindrome complicatissima ed eterogenea, che i diabetici sono una popolazione multiforme e che esistono resistenze eterogenee alla cura. Come operatori occorre avere molteplici approcci efficaci, non esiste uno schema mitico di cambiamento, ma approcci eterogenei, interscambiabili e molteplici. Quando qualcuno mi chiede “come ti senti, come stai, come va?”, rimango spiazzato perché è una domanda che prendo sul serio. Dire a me stesso e poi all’altro come mi sento è un problema enorme perché vuol dire raccogliere tutta una serie di dati. Sentire è come una parola magica perché “come ti senti” vuol dire riuscire a fare una sintesi di dati passati, presenti e futuri. Vuol dire fare progetti del tipo “cosa farò domani di quello che sono fisicamente, psicologicamente ed emotivamente, di quello che sono nella realtà sociale” e poi arrivare ad una sintesi che secondo gli psicologi il nostro cervello è capace di fare. Una sintesi che è una sorta di un’intuizione totale della massa di dati efficaci a trovare la risposta alle problematiche. Quando rispondo “sto bene”, è una risposta buona? Sentirsi bene è un sentire buono? Diceva un autore che noi continuiamo a vivere senza pensare che dietro c’è una bomba atomica o una valigetta o un kamikaze che ci farà saltare. Esiste un sentire cattivo e lo sperimento quando mi arrabbio con me stesso; esiste un sentire inutile. Il sentire esiste ed è una realtà, anzi sentiamo perché esistiamo. Solo chi esiste 51 Congresso 2003 sente: i morti non sentono, ma i moribondi sentono. E sente il paziente distrutto che grida aiuto e mi fa capire che sono di fronte ad una persona viva che sente. La nostra umanità ci spinge a non essere indifferenti come un dio lontano; siamo immersi nella realtà ed il conoscere e vivere la realtà vuol dire viverla con il cuore, con la testa e con delle persone. La nostra realtà di vita e la nostra conoscenza di realtà è fondata sul sentire. L’intuizione non è soltanto un fatto intellettivo, ma anche un fatto emotivo e passionale. La nostra intelligenza è molto legata al cuore, al sentimento, all’emozione, alla passione, al dolore. Parlando di sentire dobbiamo capire innanzitutto cosa sentiamo. Sentiamo solo quello che vogliamo? Eppure siamo convinti di aver sentito. Ma il nostro sentire è spesso parziale perché più comodo e perché il tempo ci spinge a quest’operazione, ma è anche vero che dentro di noi c’è l’esigenza di sentire tutto per capire e rispondere ai grandi interrogativi della vita, della morte, dell’amore e dell’odio. Cosa vuol dire sentire? Mi viene in mente l’esperienza di essere vicino al fuoco di un vulcano, alle nostre passioni, un vulcano su cui cade la neve, il freddo che ci impedisce di sentire le emozioni e di sentire il paziente. Sentire come? Quando studiavo medicina mi hanno insegnato a sentire con la giusta distanza professionale: il camice serve a questo. Sentire da lontano quel ciclone che si agita nell’altro o sentire come uno scienziato che annota, classifica, interpreta, analizza e pone il sentire come un’arte di raccolta dati? A volte quando senti con il cuore vieni considerato un uccello del malaugurio, come quando devi dare una diagnosi ad un paziente o dirgli che non c’è nulla da fare ed accompagnarlo verso l’impotenza della cura. A volte ci si sente come un grammofono che ripete parole al vento. Sentire è molto complesso; vuol dire anche sentire le idee e sapere che posso parlare, sentirmi annebbiato o fallito, sentirmi solo, inutile, con il gelo nel cuore e infine sentirmi un po’ folle. Tutto questo e molto di più è il sentire. Sentire vuol dire fare una scelta: essere presenti come persone e come professionisti. Significa iniziare un viaggio con una persona che è salita con me su un treno che va verso l’alto, verso lo stare meglio, lo stare bene, il non soffrire. Sentire vuol dire viaggiare con l’altro anche in maniera fantastica. Non so se vi è mai capitato di sognare che il paziente dimagrirà o che a Capodanno non mangerà il tacchino o il cappone con le lenticchie. Esistono delle tappe: tutti sentiamo, ma anche il sentimento per essere efficace deve passare attraverso alcuni momenti. C’è prima un “sentire il sentire”. Significa rendermi conto che sento, dargli un nome. Poi devo pensare questo sentire che nasce come un’intuizione e poi devo progettare quello che sento per comunicarlo a qualcuno ed esprimerlo, perché ciò che sento non deve rimanere solo nel cervello, ma essere tradotto perché l’altro capisca. Devo verificare, sentire come l’altro ha accolto il mio sentire. Avrà sentito che in quel momento gli stavo passando il mio odio? Che abbia sentito la mia preoccupazione? Speriamo che l’abbia sentita. Tutto questo è sentirmi come una persona che non è una macchina o un datore di consigli, ma rimane una persona e come tale ha dei sentimenti. Sorgono allora due domande: se il sentire è un’esperienza relazionale, chi sento? Sento lui, il paziente, che non è mai muto, anche lui si fa sentire sia con comunicazioni verbali che non verbali. Il corpo parla anche se non voglio: con l’abbigliamento, il trucco, una stretta di mano. L’altro mi parla sempre, anche se apparentemente è distratto. Esiste una specie di dogma: io sento sempre e sento sempre l’altro, a meno che non alzo le barriere, mi riempio di altri suoni, di altre persone oppure chiudo gli occhi, le orecchie, il cuore e la testa. Sento l’altro anche se l’altro non mi parla e anche se mette delle barriere. Questo, come tutti i corsi di aggiornamento e di sensibilizzazione, come tutte le occasioni in cui cerco di capire che cosa sta accadendo tra me e l’altro, fa aumentare le mie capacità di oltrepassare la barriera e di conoscere l’altro in trasparenza. Non esiste mai il non sentire. Ogni uomo sente le sue barriere e le sue risorse; si sente malato, impotente, sfiduciato, 52 Congresso 2003 sente perché esiste. Anche quando mi sembra di sentirmi vuoto o di non sentire niente o di sentirmi solo in me, esiste un sentire in profondità che può emergere, che posso riconoscere e che posso far conoscere. Con l’intelligenza del sentire posso scoprire anche quello che in me stesso o nel paziente è nascosto perlopiù per paura di conoscere. Sentire vuol dire che quando mi sento solo in cima ad un monte, in realtà ho dentro di me la mia storia, le mie aspirazioni, i miei maestri, i miei nemici o amici. C’è una folla di persone con me sulla vetta. Persino la solitudine può essere vista come una porta che si apre per scoprire quelli e quello che ho dentro di me. Pensiamo al paziente che dice di non avere nessuno, di essere solo con la sua insulina ed il suo controllo metabolico. Tu stai a guardarlo nella sua solitudine per cercare chi può trovare accanto a sé. Riflettere insieme, riflettere con un collega amico, in casa con una persona che ti stima, riflettere con colleghi che forse sono più esperti nel sentire perché sono andati avanti in questo cammino, aiuta a far emergere quello che sento, a riconoscerlo e a farlo conoscere. Tutto quello che non vedo e non sento ha una matrice che spesso è la paura di scoprire mille mostri che mi stanno dentro; non vedo e non sento perché ho chiuso la porta davanti a mostri che vogliono entrare e distruggermi. Per sentire ci vuole l’aiuto di un compagno di viaggio: lo psicologo, lo psicoterapeuta, lo psichiatra, lo psico-esperto è quel compagno di viaggio che ci aiuta ad entrare nelle paure collegate al metterci in viaggio dentro il nostro mondo per sentirci. Paure e mostri sono una delle radici che compongono il sentire come operatori professionali. Essere attento al proprio sentire allora vuol dire incontrare il paziente con un amico potente che mi aiuta a sentirmi tranquillo e a non avere paura della verità. Nella malattia e nella sofferenza, come nella richiesta di aiuto e cambiamento. Io posso sentire che il mio destino mi spinge ad urlare “perché sono diabetico?”, “perché ho il cancro”? Nel proprio destino, nei propri geni esiste la spinta non a combattere il proprio destino o a rinnegarlo perché questo genera ulteriori sofferenze (dall’ulcera all’ipertensione), ma a portarlo a suo pieno compimento. Credere che sentire sia buono e utile permette di passare dalla cecità psichica su aspetti della relazione di cura a vedere che i pazienti che “ci passano” davanti ci dicono: “non sentirti a terra, naviga con noi: sali su questa barca che è la vita e salpa con noi”. Ora faremo un lavoro esperienziale, proveremo il sentire insieme all’attore Vincenzo Di Bonaventura (vedi pp. 55-59). Potremo farlo perché abbiamo una guida che ci darà una mano, ma qual è lo scopo finale? Guardiamo in alto, cominciamo il viaggio aspirando a cose grandi, a sentire le cose alte che abbiamo dentro e che ci aiutano a passare dalla valle profonda e senza sole alle cime. 53 Congresso 2003 Gran finale: diabetologi a teatro Riflessioni sul sentire LUCIANO CARBONI Ci avevo creduto Più istintivamente che per la consapevolezza che avessi potuto trarre dalla prima lettura del libro di Alberto Pattono e Francesco Dammacco, edito da Roche Diagnostics, “Autobiografia e pensiero narrativo”. E l’avevo proposta al coordinamento GISED. Ne abbiamo avute, difficoltà, ad accettare che potesse essere la colonna portante di questo “Villa Erba”. Anche quando Aldo Maldonato, in modo del tutto indipendente, se ne fece promotore. Nella mia idea rappresentava la parte centrale e il crocevia dell’incontrarsi trasversale dell’apprendere e del “sentire”, e l’ho dimenticata, in un momento importante, come di quelle cose che dai per scontate, ma che forse così scontate non sono ancora neanche per te. Non è priorità che cerco. È vero, ho il vero piacere di riproporvi una sintonia. E soprattutto vorrei trasmettervi il piacere dell’incertezza, il piacere per una “cosa” nuova, diversa, affascinante nelle prospettive, ma ancora non esplorata. Così come ho il piacere di riproporvi lo stupore per l’emozione. Lo stupore e l’emozione sono di Daniela Bruttomesso quando, quasi a bruciapelo, fra una discussione e l’altra, fra un raccontiamoci no e un raccontiamoci sì, le chiedo “Daniela … per piacere, non chiacchieriamoci su … per piacere raccontaci di un episodio della tua vita professionale, del primo che ti viene in mente …”. E Daniela racconta, si emoziona, ricorda, le parole prima si affrettano e poi vanno più lente e lei … diventa rossa. Poi si ferma e … e … Potrebbe raccontarvelo, Daniela. Anzi, quando la incontrerete, chiedeteglielo! Di raccontare. Quella esperienza. Istintiva, bellissima, immediata, coinvolgente. Vera. Teatrale!?!? Che c’entra ora il Teatro? E che c’entra Vincenzo Di Bonaventura? Lui e il Suo Teatro? E con Villa Erba? C’entra. Vincenzo. Lo conosciamo “timidamente” al GISED di San Benedetto del Tronto. È novembre del 2000. È padrone di casa Giacomo Vespasiani. L’anfitrione, l’allora coordinatore del GISED Valerio Miselli. Vincenzo è una scoperta. Ed è una scoperta capire come i tuoi anni di Divina Commedia, il tuo liceo e magari quello dei figli, non siano serviti a molto. Lo senti, lo vedi, lo ascolti quando lui recita l’Inferno. E capisci. Sembra che ci sei dentro. Dentro la Divina Commedia. Ci provi, a recitare, tu. Quei pochi versi che ti propone. E capisci come è difficile interpretare. Parole, senso, atteggiamenti, sentimenti, emozioni … Recitare? 55 Congresso 2003 O interpretare? Fare l’attore? Sei Diabetologo! È GISED! Non è accademia d’Arti. È GISED! Scopri che il Teatro è! Esiste. E ti domandi, un pochino di più, se e perché Grimentz, Jean-Philippe Assal, la sua “mise en scene”, possano avere un senso. Capisci Daniela. È un’altra Daniela. Lei non fa la diabetologa. O anche sì, ma di se stessa. Lei, il diabete, lo ha. “Daniela, ma cosa mai è il Teatro?” – “È tecnica per recitare?” “No, Carboni’” – mi dice. Daniela mi da del tu. Veramente ci diamo del tu. Lo abbiamo provato. Lo abbiamo sperimentato. Il Teatro. Nel GED. Il GED è il nostro laboratorio per l’Educazione in Diabetologia, in Sardegna. È nato da un “uovo”, ha provato ad essere pulcino, ha proposto uova. E anche Teatro. Per esplorare il mondo dell’Educazione. Anche Teatro. Anche con Vincenzo. E anche con Daniela. “Daniela, ma cosa mai è il Teatro?” “È scoprire te stesso. ‘Carboni’. È consapevolezza di te. Puoi lasciarti andare. Essere vero. C’è qualcuno che ti guarda. E che ti aiuta. E che ti permette. Perché non giudica. Ti accetta. Ti aiuta. A scoprire l’animalità che “c’hai” dentro, ad accettare di averla. Per farla venir fuori. È libertà. È disciplina. È discussione costante. Di Te. Dopo è tecnica. È anche padronanza. Della voce, del timbro, del tono. Del corpo. Ma prima devi scoprirlo. Che c’è. Il corpo.” Ma perché in GISED, in DESG, in GED? Perché a Villa Erba? Non per gioco, non per fare diverso, non per uscire dai percorsi “razionali”. No. Per restarci nei percorsi razionali. Dove è Ragione che l’uomo non è solo Ragione. Che è Ragione e Sentimento. Ragione e Emozioni. Ragione e Sentire. O anche, prima è sentire e poi è ragione. O sentire e ragione hanno un essere l’una prima dell’altro in alternanze assolutamente imprevedibili e mai in assoluto prioritarie? E come scoprirlo? Proprio noi! Come scoprirlo. Raccontandoci un po’, proviamoci. E magari scrivendo di noi, e si chiama autobiografia narrativa, o magari ascoltando e scrivendo dell’irrequietezza che “ci abbiamo” dentro, che è ancora autobiografia narrativa. E allora. 56 Congresso 2003 Rieccoci al perché Vincenzo Di Bonaventura e il “suo” teatro nel nostro Villa Erba dal titolo così accattivante: dall’analisi di esperienze ed evidenze un nuovo stimolo al cambiamento. In Educazione Terapeutica. Della Persona con diabete. E il Diabetologo? Dove lo mettiamo? Proviamo a costruire due assi cartesiani che si incrocino e, al termine di ogni asse, una freccia che li prolunghi all’infinito. E proviamo. Sulle ascisse a essere Adulti all’infinito, verso sinistra, o Bambini all’infinito verso destra. Sarà che il nostro apprendere si identifichi con momenti dell’essere Adulti, e qualche volta, momenti dell’essere Bambini? Il gioco, il ridere, la voglia e l’entusiasmo di provare, il credere che sia possibile, la speranza … qualche volta come Adulti, qualche volta come Bambini? Per imparare. E proviamo, sulle ordinate, a essere Razionali all’infinito, verso il basso, e così a entrare nel raziocinante delle 273,33 scuole di pensiero psicologico. E proviamo ancora a osare verso l’alto, ad essere sensibili, sensitivi, emotivi, o anche “di pancia” come qualche volta ci ha detto Vincenzo. A entrare nel teatro, forse? Sì a entrare nel teatro. Provate, a stare lì in mezzo, dove ascisse e ordinate si incrociano, e a spostarvi, con senso e senza senso, nelle quattro direzioni. E quando ritornate indietro, lì all’incrociarsi delle rette infinite, provate a scrivere quello che avete fatto, provato, esplorato, razionalizzato e … sentito. E se proverete a scrivere vi accorgerete di essere Bambini, Razionali, Adulti e …, anche, Teatranti. Tutte queste cose, in un attimo e nella lunghezza di quei secondi infiniti di silenzio che Vincenzo ci fa vivere, accarezzare, soffrire, quando entra in scena e prima di “entrare in scena”. E adesso tocca a lui, Vincenzo: “… noi guitti … di solito … le boiate … Per cercare di attirare l’attenzione …” “… perché quello che conta davvero è trovare davvero una dimensione … e vi assicuro che è un investimento, come quando si gioca a poker – ‘se vuoi vedere, devi pagare!’”. “È un gioco, non è altro … è la parola jeu … Molti la prendono troppo sul serio. Ma neanche deve farvi pensare a uno scherzo. Né farvi pensare a qualcosa di relativo. Noi! Abbiamo scelto questa strada. Per crederci! … magari, qualcuno di voi ha già letto. Ha già sentito. È andato a teatro, sente il teatro, lo vede, lo conosce … Dimenticatevelo! … meglio pensare di ‘investirci’ in qualcosa che ci è ignoto”. E bene. E allora ? Proviamo. Se è un gioco che non è un gioco. E se accettiamo di essere qui per questo. Don Chisciotte, e Amleto, sono la nostra proposta. Sperimentiamoci su Amleto. Prima. È la proposta di questo Villa Erba. Continua Vincenzo … “… la vicenda di Amleto, tutto sommato, la si può ricondurre ad un solo episodio … un figlio … incazzato perché la madre gli fa le corna con suo zio … reo di aver ucciso suo padre. La 57 Congresso 2003 cosa qui diventa tosta … massacrare qualcuno che ci offende nello spirito, farlo fuori perché offende qualcosa che è nostro – diceva August Strindberg – ‘io non son geloso di te perché vai con mia madre, ma sono geloso di qualcosa che è stato mio per cui ti devo massacrare lo stesso anche se non la amo più …’ E questo è Amleto. Per cui è un viziato, è un maledetto, è arrabbiato ma come tutte le rabbie ha bisogno di un momento di sfogo e questo momento dove lo trova? Proprio con sua madre. E perché no? I figli hanno sempre uno sfogo sui più diretti vicini: i genitori. Naturalmente, fino all’ultimo giorno. Non lo leggete. Lo intuite. Come i predatori mentre sono lungo le savane. Che usano il naso, annusano … sentite la presenza della preda … sentite cosa diavolo può dire una parola cadaverica scritta sulla pagina bianca o ingiallita di un testo. La pagina cos’è? Un pezzo di carta. Dove l’autore ha trascritto qualcosa. E accorgersi che queste parole hanno di per sé una vicenda, una storia e una preistoria, un accadimento e insieme una tortura della mente, tortura della mente e del pensiero … allora le cose cominciano a complicarsi … È così … Voi annusatelo il testo! … … e sentite qualcosa … … per ricreare l’identikit … per ritrovare l’accadimento e la tortura, e la preistoria e … vi porto fuori strada? Ma no, c’è una sola cosa che importa: fatelo naturalmente …! … la battuta, la cosa da dire, quella che dovete dire, non preoccupatevi di dirla bene, ditela malissimo, fallite, fate pure schifo, non dovete fare bene assolutamente … … perché dove è il bene del fare? Provate a essere quello che sentite in quel momento, come predatori, che annusano. Non scherzate. Perché ce ne accorgiamo. Perché, se non ci credete voi, pensate che ci dobbiamo credere noi? Non fate “i finti”. Se io vi vedo tremare mi sta molto bene. Se vi vedo balbettare. Bellissimo. Ma non lo negate. Perché se lo negate io vedo la negazione. Per cui è peggio. Allora, state cominciando a intuire che tutto sommato uno scherzo non è? E diventa un gioco. Bellissimo. Perché, dopo, noi vi faremo a pezzi. E non nel senso dello stadio. Nel senso che spezzetteremo il testo, lo frammenteremo. Esattamente come si fa con una torta: ne prendiamo uno spicchio, se è buono quello è buono tutto il resto. È chiaro che dovremo riconoscere tutti gli elementi necessari e vi assicuro che potrebbero essere tantissimi. Sono i registri delle cose che vengono da dentro, ma alla fine, ed è quello che conta, ne emerge solo una. Semplice, irrevocabile: la vostra. E se è la vostra cosa detta attraverso le budella, se è vostra, vi assicuro che non c’è attore al mondo che possa eguagliarla. Non c’è agire al mondo che possa eguagliare il vostro. E quindi la cosa che conta non è agire ma è augere. Prima vi parlavo del predatore, ora vi parlo di sensorialità. Noi abbiamo sempre la sensazione certa che qualcosa può accaderci o può accadere. Il pericolo o la sensazione di allertamento che sperimentiamo nella vita è un addestramento inconscio, ma c’è! Io sono addestrato a guardarvi tutti e a cercare di essere seducente, anche senza riuscirci; a cercare di essere blasfemo quanto basta e a cercare di essere tollerabile, tollerante, piacevole, gradevole … Alla fine il mio gioco lo conosco e non è importante che lo conosciate anche voi, è importante che lo viviate, che la cosa su cui si può cadere avvenga. Si può cadere in uno scherzo come in un atteggiamento abbastanza superficiale: non fa niente, fa parte della vita. 58 Congresso 2003 A volte abbiamo schemi inesorabili. Quante volte abbiamo messo la maschera giusta al posto giusto e poi non funzionava. Come l’abito giusto. È tutto un tentativo. A prova d’errore. Per azzeccare forse la cosa meno giusta, anche quando riteniamo di avere la più giusta … Vi assicuro che nel teatro … ci affidiamo ad un istante … A volte ci buttiamo su quel solo istante. Che resti. Vogliamo che resti. Per sempre, finché dura il tempo … E a volte in tutto lo spettacolo ci affidiamo ad un istante … è quello che palpita e … che conta … “… allora il lavoro è questo: leggete, annusate, ascoltate il compagno o la compagna. Così com’è. Come il predatore annusa qualcosa di particolarmente umano. Lo prenda. Lo assorba. Se lo giochi. Come nella vita. Quante volte vi è capitato di dire a qualcuno: ‘che hai?’ ‘No niente.’ ‘Ma che hai?’ Capita. E voi avete intuito. Perché il corpo, la tensione, il respiro, la dinamica di quel corpo si era irrigidita. C’era un qualcosa che avete avvertito nei sensi, più che nel sapere. Non sapevate. Poi, magari, quando sapete, lo mandate a quel paese … può succedere?” Nella vita? O nel teatro. Può succedere! Nella vita e nel teatro. Consapevolezza o istintualità? Ma perché in GISED, in DESG, in GED? Perché a Villa Erba? Non per gioco, non per fare diverso, non per uscire dai percorsi “razionali”. No. Per restarci nei percorsi razionali. Dove è Ragione che l’uomo non è solo Ragione. Che è Ragione e Sentimento. Ragione e Emozioni. Ragione e Sentire. O anche, prima è sentire e poi è ragione. O sentire e ragione hanno un essere l’una prima dell’altro in alternanze assolutamente imprevedibili e mai in assoluto prioritarie? Come scoprirlo? Teatrando. Teatrando ? Anche. E raccontando. E raccontandosi. Grazie Vincenzo. Vincenzo Di Bonaventura è attore e regista teatrale. È allievo di Maestri prestigiosi: Garrone, Gaulier, Lecoq, Carmelo Bene, sui palchi di Venezia, di Londra, di Bologna, di Parigi … È Maestro, fondatore e direttore di Teatr-Laboratorium 27 Aikot (www.aikot27.it) a San Benedetto del Tronto (AP). È tanto altro. È soprattutto Vincenzo! Lui che di tutto questo non si fa vanto, ma di una cosa sì, di essere un “attore di strada”. E, per me, che poco capisco di teatro, Vincenzo, attore lo è, di vita! 59 bianca Congresso 2003 Modelli operativi in educazione terapeutica La Scuola Formatori AMD NICOLETTA MUSACCHIO Centro di integrazione territoriale di diabetologia, Azienda Ospedaliera “San Gerardo”, Monza (MI) In questi giorni di lavoro insieme abbiamo ascoltato diverse esperienze; in quest’ottica vorrei raccontarvi qual è stata l’idea, la pulsione e la motivazione che ci ha spinto a mettere in piedi un percorso importante, che sta portando alla realizzazione di una scuola riconosciuta e certificata. In futuro, infatti, la scuola AMD potrà avere un ruolo incisivo sulla formazione diabetologica. Ricordo ancora bene quando siamo stati chiamati dal Direttivo Nazionale perché in AMD cominciava a nascere la necessità di darsi una struttura organizzativa. Questo significava davvero cambiare il volto della nostra associazione. Il Direttivo ci ha chiesto di diventare una struttura organizzata e di analizzare il significato che l’associazione poteva avere per il territorio e per tutti noi. Abbiamo allora immediatamente cominciato a ragionare in termini di mission. Mission dell’AMD è il miglioramento continuo della qualità dell’assistenza alle persone con malattie metaboliche e diabete. È evidente che si tratta di una mission molto ampia. Abbiamo quindi pensato di scinderla. Come giungere al miglioramento? Come portare avanti quest’obiettivo? La formazione è sicuramente uno degli elementi fondamentali. Sono convinta che le Associazioni abbiano un compito indispensabile in ambito professionale: sviluppare il senso dell’identità professionale. In quest’ambito la formazione è una delle attività basilari di un’Associazione Scientifica. Quali sono le necessità in ambito di formazione? Sicuramente quella di uniformare e rendere più efficaci i corsi. Durante la pianificazione di questo progetto di scuola abbiamo scoperto che la nostra attività in questi vent’anni era stata immensa, eclettica e brillante, ma poco uniforme e scarsamente coordinata. Sentivamo la necessità di identificare ed attuare le strategie per ottenere dei prodotti che fossero riconosciuti ed accreditati. L’Associazione doveva inoltre supportare, sviluppare e valorizzare tutte le competenze esistenti. Non esistono scuole per la formazione alla cronicità, ma chi ha la nostra età ha sviluppato competenze sul campo che possono diventare una ricchezza da reinvestire per scrivere nuove e utili pagine di medicina. Nasce così la Scuola di Formazione permanente AMD: il tema, il contenuto scientifico e le modalità erano già molto forti, non soltanto nell’ambito della nostra associazione, ma in ambito diabetologico in generale. La nostra associazione, inoltre, è costituita da medici ed operatori sanitari che lavorano praticamente. Non abbiamo un compito universitario, per cui volevamo mirare a qualcosa di molto pratico e utile. Abbiamo pensato che doveva trattarsi di un’organizzazione e come tale avere delle regole che vanno conosciute. Quest’organizzazione sarebbe stata finalizzata a creare un processo legato ad un’istituzione e non alle competenze di un singolo. Tutto nasce dalle idee del singolo, ma queste idee devono diventare qualcosa di concreto e di riproducibile. La mission della Scuola di Formazione permanente AMD è di contribuire al miglioramento conti- 61 Congresso 2003 bianca nuo della qualità dell’assistenza attraverso la promozione, la realizzazione e la diffusione di eventi formativi ed attività di consulenza. La Scuola AMD si basa sul concetto di formazione continua e sceglie una formazione efficace, efficiente e soprattutto appropriata, in grado di prevedere per ogni sua attività strumenti di verifica atti a garantire il miglioramento continuo delle prestazioni erogate. Per prima cosa abbiamo deciso che i valori di fondo che sottendono a tale politica dovevano rispondere ad alcuni criteri tra cui: l’eticità professionale; il miglioramento continuo; lo spirito di partecipazione; il coinvolgimento attivo delle persone; l’orientamento all’eccellenza; la capillarizzazione. Per rispondere a questi criteri abbiamo deciso di stilare un regolamento ed un vero e proprio codice deontologico che si possono trovare sul sito di AMD. È stato inoltre istituito un Albo ed abbiamo investito parecchio tempo nella scelta degli strumenti fondamentali per la realizzazione di un progetto. Tra questi vi segnalo il metodo, i formatori e la certificazione, che ci è servita per mettere in atto dei processi che fossero verificabili. La scelta del metodo AMD ha comportato innanzitutto la scelta delle determinanti: le capacità formative, le competenze educative e l’etica professionale. Cercavamo una metodologia che ci migliorasse da un punto di vista formativo, senza dimenticare che vi è una grande differenza tra la formazione dell’adulto e l’educazione terapeutica. L’adulto a cui insegno come comunicare ha scelto di fare questo percorso, mentre per il paziente non è così. Questa determinante ha fatto sì che i docenti fossimo noi stessi per poter fare da filtro protettivo nell’acquisizione di una metodologia che può diventare manipolatoria se l’etica professionale sottesa non è quella clinica. Per capacità formativa abbiamo scelto una metodologia che rispondesse alla capacità di renderci più attivi e interattivi: la metodologia esperienziale che ci permette di tirare fuori le nostre esperienze, metterle in ordine e riferirle perché gli altri le acquisiscano in maniera strutturata. Volevamo inoltre imparare a progettare, realizzare e verificare un risultato. Definendo le competenze educative lo scopo era dare la possibilità a chi imparava a “giocare” con noi di portarsi a casa qualcosa che era possibile usare con i pazienti. Per esempio, la capacità di saper condividere, la negoziazione, lo sperimentare insieme soluzioni alternative. Poteva servire una corretta gestione dell’errore in positivo e tutto ciò che avrebbe potuto facilitarci il compito di imparare a legittimare e quindi a diventare più bravi in percorsi di empowerment. Terza determinante del metodo è l’etica professionale. Qualunque sia la forma di strumento, soprattutto se acquisiamo strumenti per la gestione delle persone che parlino di pedagogia e di pedagogia clinica, va sempre tenuta presente l’etica professionale. Qual è quindi il metodo? Abbiamo scelto un processo formativo dinamico che ci permette di apprendere e sperimentare la formazione basata sul lavoro di gruppo e l’interazione; di acquisire consapevolezza della trasferibilità della tecnica nel proprio ambito professionale. Il processo formativo permette inoltre di progettare e di realizzare un risultato, verificarlo e sperimentarlo. Il lavoro di gruppo è uno strumento per la gestione delle persone. Insegna a lavorare insieme, permette l’integrazione e la gestione delle diverse attività utilizzando e valorizzando le competenze di ognuno. Un ulteriore valore di fondo della diabetologia che AMD porta avanti da oltre vent’anni, è il team. La diversità delle competenze è risorsa e arricchimento. Il team building è uno strumento di 62 Congresso 2003 elezione perché permette una crescita formativa e la trasformazione da un gruppo di persone ad un team di lavoro. Consente inoltre di avere obiettivi condivisi, di stabilire strategie di intervento a priori, facilita la negoziazione, rende importanti e valorizza norme e ruoli e legittima il team building. Per quanto riguarda l’effetto a cascata, cioè la capillarizzazione, era indispensabile l’Albo dei Formatori. È stato strutturato un percorso in modo che il formatore diventasse un responsabile della formazione, un tutor, un testimone, portatore di esperienze e/o soluzioni adottate. Qual è il percorso che abbiamo identificato? La serietà dell’impegno ci ha obbligato a scegliere un percorso articolato: ad oggi abbiamo effettuato tre corsi base (Sarteano, Artimino, Bosco) e due corsi master. Abbiamo quindi già dei formatori nell’Albo all’interno del quale abbiamo inserito un sistema dinamico, un processo di crescita. È stata istituita la figura di progettista che potrà garantire altre acquisizioni e quindi migliorare l’attività formativa. Sono previste esercitazioni sul campo in modo da allenarsi ed avere un continuo miglioramento ed una verifica con dei rinforzi metodologici. A fronte di tutto ciò è successa una cosa che non ci aspettavamo: due associazioni, quella dei cardiologi e quella degli infermieri, ci hanno chiesto di vedere come funzionava la scuola ed hanno comprato la nostra metodologia. In particolare gli infermieri sono venuti presso la scuola di formazione AMD per seguire i percorsi formativi; avremo Albi separati perché ogni Associazione ha una sua mission, una sua identità e dignità, ma la scuola verrà seguita insieme. Abbiamo appena finito un corso base per il direttivo OSDI che quindi parteciperà con noi al prossimo master e da febbraio 2004 avremo anche dei formatori OSDI che hanno fatto tutto il percorso insieme a noi. La certificazione è stato un altro passo molto importante. Abbiamo deciso di garantire la qualità costante del prodotto e di innescare un processo di miglioramento continuo di qualità. La certificazione serve a questo: è una metodologia rigorosa e riproducibile; permette una verifica continua del processo e dà una visibilità istituzionale. L’Associazione ha il compito di garantire ai soci di essere un’istituzione seria: per questo motivo abbiamo scelto di intraprendere un vero e proprio processo certificativo. È durato un anno, ma ci ha permesso anche di fare scelte più importanti perché il gruppo scuola ha il compito di evolversi e deve farlo. Abbiamo deciso di fare un master up level con esame per garantire ai colleghi che quello che si chiede viene fatto anche da noi. È stato molto duro, ma siamo stati tutti promossi. 63 Congresso 2003 64 Congresso 2003 Progetto “Educazione Terapeutica Strutturata” MARIANO AGRUSTA Reparto di Endocrinologia, Ospedale Cava dei Tirreni (SA) Tutti condividiamo il progetto di educazione terapeutica di cui abbiamo sentito parlare in questi giorni. La terapia educativa è importante nel miglioramento degli outcome clinici e della qualità della vita del paziente. Abbiamo sentito che la strada della ricerca dell’evidence è lunga e che bisognerà cercare outcome diversi che si focalizzino sulla modificazione dei comportamenti, oltre che sulle conoscenze e sulle abilità. Tutto il team va coinvolto nella terapia educazionale, come è stato dimostrato da una serie di lavori che mettono a confronto l’attività del team rispetto a quella del singolo. È importante che l’educazione terapeutica venga rivolta al gruppo e non al singolo paziente. È noto, tuttavia, quanto sia disomogeneo per organizzazione e per operatività il modello dei centri di diabetologia italiani. Da stime approssimative possiamo sapere quanti hanno un’organizzazione terapeutica strutturata e valutabile: solo il 10-15% dei nostri servizi ha strutturato un’organizzazione relativa ai corsi. Il risvolto è che il 90% circa delle strutture svolge un’attività di terapia educativa con un approccio individuale, con una metodologia propria. L’ipotesi quindi è che i servizi di diabetologia possano essere stimolati ad organizzare attività strutturate di educazione terapeutica se dispongono di un modello. Il modello formulato non può essere una linea guida astratta, ma deve essere collegato chiaramente con una realtà pratica. La finalità del nostro progetto è di mettere a disposizione dei team diabetologici uno strumento operativo e dei percorsi ben definiti di educazione incrementando così l’organizzazione strutturata dell’educazione stessa. Alla stessa stregua si propone di organizzare incontri dedicati a formare il personale per renderlo partecipe ed adeguato alla strutturazione dei corsi. Infine, intende applicare degli strumenti di verifica su conoscenze ed abilità dei pazienti sottoposti a educazione. La sensibilità all’educazione terapeutica è cresciuta con l’organizzazione del gruppo. Anno dopo anno ci confrontiamo su metodologie innovative che fanno crescere sempre di più la nostra sensibilità in questo campo. Momento fondamentale e grazie al quale si è sviluppato un forte senso di appartenenza è stato anche quello della scuola di formazione alla quale ho partecipato. Nulla può essere migliorato senza verifica, ma nulla può essere discusso se non alla luce di un percorso di qualità virtuoso. Cosa poteva rappresentare l’Educazione Terapeutica Strutturata? Come si poteva implementare fondendo tutte le risorse culturali con la scelta di un linguaggio didattico semplice, omogeneo e destinato a tutta l’équipe educativa? Era importante raccogliere dei dati con l’obiettivo di raggiungere il maggior numero di strutture per iniziare a lavorare con uno strumento completo. AMD ha inteso percorrere questa strada distinguendo l’implementazione di un corso e la necessità della modifica, di un cambiamento. Gli step del progetto sono: l’istituzione di un gruppo; 65 Congresso 2003 la creazione di strumenti operativi e quindi di opuscoli dedicati a cinque argomenti chiave indirizzati ai team ed ai pazienti; l’edizione a cura della UTET di questi opuscoli; un corso di formazione specifico indirizzato ai formatori di AMD. Non potevamo non utilizzare quella grande forza che era venuta fuori da Sarteano e da Torgiano, questi primi trenta formatori che sono poi diventati cinquanta con il corso di Artimino. Questo primo gruppo doveva costituire la task force da incrementare per portare sul territorio la possibilità di istituire dei corsi di formazione diretti ai team (5-10 team per ogni formatore) nelle sedi di ognuno. Affinché si mantenesse l’omogeneità del contenuto sono stati previsti per tutti gli argomenti trattati negli opuscoli due distinte edizioni: una destinata al team e l’altra destinata al paziente. Nel 2002 l’obiettivo è stato quello di far realizzare corsi strutturati in almeno trecento servizi di diabetologia in Italia, valutare gli outcome di conoscenza e di abilità nella popolazione trattata e valutare degli indicatori di processo e di risultato. È stato presentato il progetto alle aziende, sono stati prodotti degli strumenti e nell’ottobre del 2002 si è tenuto a Vietri un corso di formazione in collaborazione con la scuola di formazione AMD. Nel 2003 sono stati distribuiti gli strumenti, condotti i corsi di formazione periferici per i team e sono stati effettuati, da parte di questi, corsi ai pazienti. Nel 2004 dovremo valutare la distribuzione dei questionari di verifica, fare le prime analisi di risultato e presentare questi dati al prossimo consiglio in un Congresso nazionale. Il ruolo delle aziende partner è stato innovativo perché anche loro hanno partecipato con alcuni rappresentanti direttamente ai lavori di Vietri provando e condividendo la metodologia della Scuola di Formazione. Umberto Valentini e Nicoletta Musacchio si sono occupati della loro formazione facendo conoscere e “toccare con mano” la metodologia di lavoro in team che avevamo impostato. “Un viaggio di migliaia di miglia inizia con il primo passo nella giusta direzione”. La giusta direzione è la centralità del paziente. All’interno dei libretti, curati con la meticolosità e con il rigore di Walter De Bigontina, si trovano delle matrici che possono essere utili per correggere la rotta all’interno del processo operativo. Le migliaia di miglia sono rappresentate dalla ruota del cambiamento di Prochaska: è complicato entrare ed uscire dalla ruota. La fase di pre-contemplazione è quella in cui il problema c’è, ma il paziente non riconosce di averlo o noi stessi non riconosciamo di averlo. La fase della contemplazione è quella in cui guardo o decido, cioè so qual è il problema ma non ho ancora deciso di occuparmene. È difficile modificare un comportamento, al di là di qualsiasi percorso tibetano, se non si coglie in quel momento la necessità e il bisogno del paziente. La disponibilità al cambiamento e le migliaia di miglia che lo attendono dipendono dalla posizione nella ruota del cambiamento. Di una cosa siamo sicuri sia per il paziente, sia, ancora di più, per il diabetologo: gli si deve insegnare a pescare. È necessario dargli degli strumenti che lo mettano nelle condizioni di fare quello che gli viene detto nella fase di sensibilizzazione. In base a quanto detto dal professor Demetrio sull’educazione, esiste un’educazione empatica, ossia esercitata dalla sola presenza. Migliorando le proprie capacità di ascolto è possibile far sentire la propria presenza al paziente: il fatto di essere con lui per andare con lui oltre. Nell’educazione esistenziale, invece, si viene in contatto con la sofferenza e il dolore. In questa fase è necessario stare molto attenti alle emozioni perché bisogna essere in grado di contenerle. I percorsi sono quindi molto lunghi e non ci si deve sostituire ad altre professionalità. 66 Congresso 2003 Nuovi Modelli Assistenziali nel Management del diabete tipo 2: Group Care e Progetto Romeo MARINA TRENTO Dipartimento di Medicina Interna, Università di Torino La natura dell’educazione terapeutica è di modificare gli atteggiamenti e le competenze dei pazienti e dei curanti. Questi aspetti caratterizzano tutte le malattie di lunga durata. Sappiamo che il paziente è uno dei nostri partner principali ed affrontiamo con lui il percorso necessario che porta alla motivazione; lo aiutiamo a diventare un decisore competente e per farlo sono necessarie tecniche, strumenti e metodologie a carattere pedagogico. Campo d’azione della pedagogia è infatti aiutare la persona ad adattarsi e a modificare di continuo la propria percezione di vita nei confronti della malattia. Ogni malattia cronica richiede infatti continui adattamenti di tipo clinico, psicologico e sociale da parte del paziente che ne è affetto. Il riconoscimento della malattia, inoltre, rappresenta un passo importante verso la possibilità di controllarne l’evoluzione, in collaborazione con il medico, piuttosto che subirne fatalisticamente il decorso. La nostra esperienza porta a dire che l’educazione terapeutica, se correttamente inserita nell’attività clinica, può migliorare lo stile e la qualità di vita dei pazienti affetti da malattie croniche. In questi anni abbiamo sviluppato un nuovo modello di gestione del diabete tipo 2, che prevede visite di gruppo strutturate secondo un approccio di tipo sistemico. La definizione che riteniamo migliore per questo modello è quella di Group Care, nel senso che “ci prendiamo cura” quotidianamente dei nostri pazienti sul piano clinico, biomedico, ma anche cognitivo-affettivo-emozionale. Nel nostro ambulatorio seguiamo oltre 36 Group Care e dedichiamo a quest’attività due giorni alla settimana. I risultati, dopo 4 anni di valutazione, dimostrano che questo nuovo modello educativo permette ai pazienti di: ridurre il peso corporeo; aumentare il colesterolo HDL; stabilizzare l’HbA1c; ridurre i dosaggi dei farmaci ipoglicemizzanti orali. Rispetto ad un gruppo di controllo che riceveva visite individuali e supporto educativo tradizionali la retinopatia è progredita meno nei Group Care. La pressione arteriosa diastolica e il relativo rischio cardiovascolare sono diminuiti, rispetto al periodo basale, in modo simile nei Group Care e nei gruppi di controllo (Fig. 12). La valutazione dell’aspetto economico, fatta dopo 52,1 mesi di osservazione, ha rilevato che durante il periodo di osservazione, i pazienti seguiti in gruppo avevano richiesto 196 minuti e 756,54 dollari per ciascuno, rispetto ai 150 minuti e 665,77 dollari per il gruppo di con- 67 Congresso 2003 Fig. 12 Rischio cardiovascolare e progressione della retinopatia Cardiovascolar risk (Framingham score) Progression of diabetic retinopathy trollo, risultando quindi in un costo aggiuntivo di 2,12 dollari per ogni punto guadagnato in termini di miglioramento della qualità di vita. Abbiamo valutato anche come variavano le condotte di salute, le conoscenze riguardo il diabete e la qualità della vita, nel Group Care rispetto al gruppo di controllo. Tutti questi aspetti sono migliorati nel Group Care mentre si è osservato un progressivo peggioramento nel gruppo di controllo (Fig. 13). In particolare le condotte di salute, che peggioravano progressivamente nel gruppo di controllo, sono migliorate nel Group Care già dopo il primo anno ed hanno continuato a migliorare nel tempo. In effetti i pazienti continuano il loro apprendimento nel tempo attraverso un follow-up che dura 5 anni. Questo significa che anche persone anziane con una bassa scolarità possono apprendere. A sostegno di questo, riporto la testimonianza di una paziente che, dopo 5 anni, ha affermato che “la conoscenza da sola non basta […] quello che ci viene chiesto è di avere abitudini diverse per tutti i giorni. Ci sono dei periodi in cui non si ha voglia di fare tutto al meglio ed allora avere degli operatori capaci di ricordare e nuovamente stimolare aiuta a non perdersi …”. Espressioni come queste sono state registrate, così come le visite di gruppo sono state filmate: un modo per rivedere la nostra attività, l’atteggiamento dei pazienti e anche per presentare il nostro modello durante corsi di formazione. Sappiamo che le conoscenze non bastano da sole, ma abbiamo comunque voluto misurarle e abbiamo così evidenziato che le conoscenze sul diabete migliorano solo dopo i primi due anni di intervento, ma continuano a progredire nel corso degli anni. Nel gruppo dei controlli, invece, le conoscenze mostrano una tendenza al peggioramento. I pazienti dunque imparano nel tempo, lentamente, ognuno sulla base del proprio stile di apprendimento. Gli operatori devono sempre avere un punto di riferimento, un inizio ed un obiettivo. Le persone, dal canto loro, continuano a cambiare e ad apprendere e ci dicono che “con la conoscenza è possibile scegliere e decidere come ci si vuole curare” oppure che “in questi anni ho imparato molto, ma nonostante segua i gruppi ed abbia imparato, la glicemia a volte è 68 Congresso 2003 Fig. 13 Risultati: condotte di salute Condotte di salute: nel Group Care migliorano dopo il 1° anno con una tendenza all’ulteriore miglioramento nel corso degli anni, mentre si osserva un progressivo peggioramento nei controlli ballerina, ma ora me ne accorgo e questa è una differenza rispetto a prima […] ora so controllare la mia glicemia e capire perché sta cambiando …”. Ciò che interessa non è che i pazienti sappiano spiegare perfettamente che cos’è il colesterolo HDL, ma che sappiano affrontare la vita e la quotidianità trovando le soluzioni per loro più appropriate. Fig. 14 Risultati: conoscenze Conoscenze sul diabete: nel Group Care migliorano solo dopo i primi 2 anni di intervento continuando a progredire nel corso degli anni. Nel gruppo dei controlli le conoscenze mostrano invece una tendenza al peggioramento 69 Congresso 2003 Fig. 15 Qualità di vita: la qualità di vita si modifica solo dopo 2 anni dall’inizio dell’intervento educativo mentre nel gruppo di controllo si osserva un costante peggioramento Risultati: qualità di vita La qualità di vita migliora dopo due anni dall’inizio dell’intervento educativo nel Group Care, al contrario mostra un costante peggioramento nel gruppo di controllo (Fig. 15). Ecco cosa dice una paziente dopo 5 anni: “quando facevo una visita avevo sempre paura. Il medico parlava, mi domandava come stavo e parlava … io non capivo niente, uscivo dalla visita che non ricordavo e non capivo perché la volta dopo andavo male. Adesso capisco e se non riesco a capire tutto … chiedo, e poi so che viene rispiegato e non sono l’unica a non capire … c’è un’assistenza diversa, ci si sente coccolati … seguiti nella malattia”. Dall’analisi multivariata dei risultati dei questionari nei gruppi di educazione terapeutica emerge che la consistenza del trattamento rimane indipendente rispetto alla scolarità, all’età e alla durata del diabete. Il locus of control è stato studiato mediante due questionari che misurano il controllo interno della malattia, cioè la credenza che sia la fortuna ad influenzarla, e la fiducia negli operatori: il questionario di Peirot e Rubin, specifico per il diabete ed il questionario di Wallston e Wallston, più generico per le malattie croniche. Dai risultati emerge come i pazienti del Group Care modifichino il loro fatalismo e non credano più che sia la fortuna, il fato o il destino a controllare la malattia, ma ritengano di avere essi stessi la capacità di controllarla. Inoltre mostrano una spiccata fiducia negli operatori. Abbiamo osservato che, dopo 5-7 anni di continuo lavoro, l’indice di insulino-resistenza ed il BMI diminuiscono al crescere del controllo interno di malattia. In conclusione, nei pazienti con diabete Tipo 2 non insulino trattati le visite in gruppo di educazione terapeutica: migliorano il controllo metabolico nel medio-lungo termine; rappresentano un’opzione terapeutica alle visite tradizionali con rapporto unidirezionale operatore/paziente, favorendo il lavoro d’équipe; sono realizzabili ed applicabili nella pratica clinica diabetologica; permettono di controllare il rischio cardiovascolare. 70 Congresso 2003 La messa a punto di un adeguato modello educativo clinico/pedagogico permette di costruire dei setting terapeutici ed educativi capaci di modificare il controllo interno di malattia e questo evidentemente favorisce la capacità di far fronte alla malattia, fino al punto da influenzare l’indice di insulino-resistenza. I risultati ottenuti e l’interesse per l’applicabilità del modello assistenziale mediante Group Care hanno permesso la realizzazione di ROMEO, Ripensare l’Organizzazione per Migliorare l’Educazione e gli outcome. ROMEO è uno studio multicentrico, randomizzato, controllato, finalizzato a verificare la trasferibilità della metodica di Group Care, la riproducibilità dei nostri risultati e gli effetti della Group Care su una casistica più ampia. Oggi partecipano a ROMEO 900 pazienti randomizzati a group vs traditional care appartenenti a 15 servizi diabetologici. La durata del follow-up è di 4 anni con un approccio intention-to-treat. Sono stati stabiliti come obiettivi primari le conoscenze, le condotte di salute, la qualità di vita ed il controllo metabolico. Obiettivi secondari sono l’analisi economica e gli eventi cardiovascolari. ROMEO è iniziato nel ’99; sono stati organizzati dei corsi di formazione ed il nostro centro offre una continua supervisore clinico-pedagogica dell’attività dando la possibilità a tutti i servizi di venire da noi e di vedere l’attività. Nell’ottica di valutare il processo di trasferibilità è stato messo a punto un questionario che vaglia l’area della formalizzazione interaziendale, l’area della comunicazione ed analisi delle risorse, l’area della formazione degli operatori e quella della motivazione ottenendo i seguenti risultati: 6 centri hanno avuto un riconoscimento interaziendale, 2 progetti obiettivo ed una delibera-determina. L’attività è nota ai medici di famiglia ed alle altre aziende; è comunicata ai medici di medicina generale e coinvolge anche le associazioni dei pazienti. Vi partecipa l’intera équipe, anche se a volte mancano gli spazi. Alla domanda “Perché interessa questo modello?”, da parte degli operatori abbiamo ottenuto le seguenti risposte: perché è una nuova modalità terapeutica in cui tutti lavorano allo stesso modo con pari dignità; vi è maggior tempo per l’educazione; si condividono obiettivi comuni; vi è maggior senso di appartenenza all’équipe; permette una migliore qualità delle prestazioni; permette migliori esiti di cura; migliora l’organizzazione del lavoro; valorizza la professione; riconosce un ruolo all’educazione. Mentre i pazienti ritengono di: avere la possibilità di comprendere meglio la malattia; avere la possibilità di utilizzare in modo diverso il tempo di attesa. Concludo con questa espressione affinché diventi un augurio per tutti: “Bisogna trovare il proprio sogno perché la strada diventi facile. Ma non esiste un sogno perpetuo. Ogni sogno cede il posto a un sogno nuovo, e non bisogna volerne trattenere alcuno”. H. Hesse 71 Congresso 2003 Bibliografia Anderson L. Health care communication and selected psychosocial correlates of adherence in diabetes management. Diabetes Care 1990;3:66-77. Bandura A. Self-efficacy in changing societies. Cambridge University Press 1995. Knowles MS. The adult learner. A neglected species. Houston: Gulf Publishing Company 1997. Von Korff M, Gruman J, Schaefer J, Curry S, Wagner E. Collaborative management of chronic illness. Ann Internal medicine. 1997;27:1097-102. UKPDS Group. Intensive blood-glucose control with sulphonylureas or insulin compared with conventional treatment and risk of complications in patients with type 2 diabetes (UKPDS 33). Lancet 1998;352:837-53. Guilbert JJ. Guide pédagogique pour les personnels de santé. OMS Publication offset. 35ème édition. Géneve, OMS, 2001. Fontbonne A, Berr C, Ducimetière P, Alpérovitch A. Changes in cognitive abilities over a 4-year period are unfavorably affected in elderly diabetic subjects. Results of the epidemiology of vascular aging study. 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I presupposti hanno guidato l’azione di questo gruppo fin dall’inizio possono essere riassunti nei sei punti che seguono: le persone con diabete non mentono o imbrogliano più di chiunque altro; la responsabilità degli OS include educare i pazienti; per essere efficaci, gli OS devono acquisire numerose abilità nel campo delle scienze umane; inoltre, si richiede un profondo cambiamento nel loro atteggiamento rispetto all’atteggiamento tradizionale della categoria; lo sforzo merita di essere fatto perché è il solo modo per aumentare l’efficacia terapeutica; dato il ruolo terapeutico dell’educazione dei pazienti nella cura delle malattie croniche, i medici devono essere coinvolti nell’intero processo. Quest’ultima posizione del gruppo europeo ci ha distinto dagli anglosassoni che non ritengono che il medico debba essere presente, ma affidano tutto all’infermiere, dalla progettazione all’attuazione. Una caratteristica dell’attività del DESG è stata quel “formato workshop” che negli anni è diventato una specie di marchio di fabbrica gruppo, con meeting a tempo pieno della durata tipica di 5 giorni e con 30-60 partecipanti (ultimamente anche il doppio). In applicazione del principio per cui “si impara facendo”, è stata data la preferenza a metodi interattivi di apprendimento (l’80% del tempo è dedicato ad attività pratiche o a lavori in gruppo). A oggi circa 3.000 operatori hanno frequentato i nostri workshop, molti di loro più di una volta, riproducendo poi attività simili nei rispettivi Paesi. Il lavoro consiste nell’analisi ed elaborazione di pochi aspetti dell’educazione terapeutica, tenuti insieme in modo logico dal titolo generale del workshop, che è ogni volta diverso. Sul sito web c’è l’elenco dei workshop svolti finora. Dopo molti anni tuttavia, pur continuando questa attività di riflessione e approfondimento, si è sentita l’esigenza di una formazione completa e sistematica che coprisse tutte le competenze necessarie all’educazione terapeutica. Nel marzo del 2000 un gruppo costituito da operatori sanitari esperti in educazione terapeutica, medici, infermieri, dietisti e psicologi ha messo a punto il programma dettagliato di un corso di base, proposto come modello per la formazione degli operatori sanitari in tema di educazione terapeutica. L’idea è stata di proporre questo corso non solo ai Paesi occidentali, ma anche a quei Paesi in via di sviluppo, che sentivano il bisogno di iniziare una formazione dei loro operatori sanitari. L’obiettivo era introdurre gli operatori alle competenze di base per un’educazione terapeutica più efficace. Perché introdurre? Perché molte di queste competenze vengono 73 74 MODULO 2 PSICO – A 1. Attegiamenti Spontanei degli OOSS. Ascolto attivo 2. Tecniche di confronto per soluzioni senza vinti (win-win). 3. Capire la mia personalità (es. test Persona) 4. Diversi approcci per diverse personalità Presentazione partecipanti. Difficoltà nell’ETP. Aspettative. Presentazione del Corso Approccio biomedico e biopsico-sociale Medicina acuta/cronica Metodi: non interattivi (lezioni …) e interattivi (Metaplan, role play …) 4. Pratica Credenze sulla salute 3. Costruire il modello 2. Praticare reazioni adeguate a ogni stadio 4. Insegnamento individuale. Comunicazione verbale/non verbale. 3. Scelta dei mezzi adatti agli obiettivi educativi 2. Imparare per obiettivi. 1. Approccio centrato sul discente vs. centrato sul docente. MODULO 4 PEDAGOGIA – A 4. Insegnamento in gruppo – 2 (gestire le dinamiche di gruppo 3. Insegnamento in gruppo – 1 (parlare in pubblico, fare una conferenza) 2. Apprendim. basato su problemi (o problem solving) 1. Meccanismi di apprendimento. Costruire sugli errori. MODULO 5 PEDAGOGIA – B 4. Organizzazione della cura e distinzione responsabilità. (Incluso il paziente [contratto]). 3. Gratificazione (riconoscimento, etc.). 3. Il Locus di Controllo 4. Intelligenza emotiva 2. Team orizzontale o verticale. Multiprofessione o multidisciplinarietà 1. In situazioni acute, e nel follow-up a lungo termine. MODULO 7 TEAM E ASP. ORGANIZZATIVI 2. Ruolo dell’ambiente sulla gestione del diabete 1. Ruolo della malattia sull’ambiente sociale del paziente. MODULO 6 FATTORI PSICOSOCIALI 4. Valutazione di questo corso. 5. Valutazione formativa. 3. Valutazione costo/efficacia. 2. Qualità della vita del paziente 1. Valutazione Raggiungimento di obiettivi predefiniti. MODULO 8 VALUTAZIONE Tabella I Accettazione della malattia 1. Costruire il modello MODULO 3 PSICO – B Schema del basic curriculum del DESG MODULO 1 MESSA IN SCENA Congresso 2003 Congresso 2003 trattate in poche ore, mentre per essere completamente acquisite richiederebbero molto più tempo. La dimensione del corso è stata scelta per venire incontro a due esigenze contrastanti: fattibilità e completezza. La struttura si basa su 8 moduli di un giorno per un totale di 64 ore effettive di corso e può essere realizzata in diversi formati a seconda delle esigenze locali. L’esperienza ci ha insegnato che piuttosto che pensare a un unico corso residenziale di 8 giorni è bene suddividere il programma in vari incontri, separati da intervalli abbastanza lunghi da consentire ai discenti di mettere in pratica le nuove competenze svolgendo piccoli progetti nei rispettivi posti di lavoro. Sia l’ordine che il raggruppamento dei moduli sono facoltativi, anche se vengono dati consigli pratici su come organizzare il corso: è meglio, per esempio, cominciare con 30-35 persone, numero che consente di lavorare in gruppi di 10-15 e, per alcune attività particolari come il problem-solving, anche in sottogruppi di 4-5 persone. La struttura è abbastanza fissa, nel senso che ciascun giorno viene suddiviso in 4 sottomoduli di 2 ore ciascuno. Ogni sessione di 2 ore è solitamente dedicata a un argomento e il suggerimento è che in queste 2 ore non più di 20-30 minuti siano dedicati a lezioni frontali e un’ora e mezza sia dedicata alle attività interattive. L’insegnante ha il compito di presentare gli elementi essenziali di un dato argomento-problema, elementi che saranno utilizzati per il lavoro di gruppo. Si apprende dunque facendo, risolvendo da soli i problemi. L’idea è che non debba esserci un esperto che dice tutto e trova le soluzioni. Ecco perché è spesso meglio trovare l’esperto tra gli organizzatori: la tendenza di chi viene dall’esterno, infatti, è di voler dimostrare di sapere tutto fornendo le soluzioni. La Tabella I rappresenta lo schema completo del Curriculum del DESG, suddiviso in otto giornate, ciascuna costituita da otto ore di lavoro. Questo corso proposto dal DESG è stato effettivamente realizzato in alcuni Paesi, fra cui Austria, Israele, Emirati Arabi (dove è stato fondato il DESG Abu Dhabi ed è stato realizzato un basic curriculum identico). Anche in Italia, il GISED sta realizzando il primo corso ispirato al Curriculum del DESG, grazie al supporto di Roche Diagnostics: il primo modulo è stato realizzato a novembre 2003. Per ogni evento di 2 giorni è prevista una conferenza sulla medicina basata sull’evidenza che fornisce un aggiornamento biomedico e illustra come le linee guida operative vadano tradotte in contenuti di insegnamento. Il programma dettagliato del corso italiano è illustrato in Tabella II. La Tabella III riporta il giudizio dei partecipanti al termine del primo evento. Tabella II Programma (segue) GRUPPO DI STUDIO EDUCAZIONE SID-AMD Corso di Alta Formazione Diabetologica Direttori del corso Andrea Corsi, Aldo Maldonato, Valerio Miselli CORSO IN EDUCAZIONE TERAPEUTICA PER OS DI DIABETOLOGIA Basato sul Curriculum del DESG 75 Congresso 2003 (continua) PROGRAMMA Hotel Le Gole, Celano (AQ) PRIMO EVENTO, 13-15 NOVEMBRE 2003 76 SECONDO EVENTO, 4-6 DICEMBRE 2003 Giovedì, 4 dicembre 2003 14.30 Presentazione dei partecipanti Valutazione di ingresso per ECM GIOVEDÌ, 13 NOVEMBRE 14.30 Saluto dei Presidenti SID e AMD Presentazione dei partecipanti Valutazione di ingresso per ECM 14.50 Lavoro di gruppo: Difficoltà nell’Educazione Terapeutica del Paziente (ETP) Aspettative da questo Corso Presentazione del Corso Organizzatori 17.00 Metodi didattici: non interattivi e interattivi A. Corsi 17.20 Esercitazione 15.00 Insegnamento centrato sul discente, vs. approccio centrato sul docente D. Richini Venerdì, 14 novembre 8.30 Lettura EBM: Automonitoraggio della glicemia e sua efficacia terapeutica L. Lostia 9.00 Approccio bio-medico/approccio bio-psicosociale A. Maldonato Lavoro di gruppo: Medicina acuta/medicina cronica 10.45 Ascolto attivo. Riformulare V. Graziani 11.05 Esercitazione sull’ascolto attivo 11.30 Role Playing 14.30 La bioetica in diabetologia A. Maldonato Lavoro di gruppo: OS: osservatore, giudice o alleato? 16.30 Imparare per obiettivi D. Bloise Lavoro di gruppo: Definizione e analisi di obiettivi a breve termine sul diabete 8.30 Lettura EBM: Quando e quale terapia insulinica nel diabete tipo 2 E. Orsi 9.00 Lavoro di gruppo: Quando il paziente rifiuta l’insulina Sabato, 15 novembre 8.30 Ruolo dell’ambiente sulla gestione del diabete. Ruolo del diabete sull’ambiente sociale del paziente L. Carboni 8.50 Esercitazione 9.30 Role Playing 10.30 Valutazione del raggiungimento di obiettivi didattici prestabiliti D. Bloise 10.50 Lavoro di gruppo: Esercitazione 11.50 Valutazione formativa. Valutazione per ECM. Valutazione dell’incontro Sabato, 6 dicembre 15.20 Lavoro di gruppo: Esperienze negative o positive dei diversi approcci 16.45 Accettazione della malattia P. Gentili 17.05 Lavoro di gruppo: Esercizio sulle reazioni appropriate a ogni stadio di accettazione Venerdì, 5 dicembre 10.30 Quando l’ascolto attivo non serve: la gestione del confronto V. Graziani 10.50 Lavoro di gruppo: Esercizio-ricerca di soluzioni senza vinti né vincitori 15.30 Insegnamento individuale. Comunicazione verbale/non-verbale V. Di Bonaventura 15.50 Lavoro di gruppo: Costruire sull’esperienza 17.45 Insegnamento in gruppo: parlare in pubblico, fare una conferenza A. Maldonato 18.05 Lavoro di gruppo: Esercizio-Uso di PowerPoint 8.30 Caratteristiche del Lavoro in squadra. Il team in situazioni acute vs. accompagnamento a lungo termine V. Miselli 8.50 Lavoro di gruppo: Vantaggi e difficoltà 10.30 La qualità di vita del paziente e l’impatto del trattamento su di essa A. Maldonato 10.50 Lavoro di gruppo: Metaplan Valutazione formativa. Valutazione per ECM Valutazione dell’incontro. Congresso 2003 (continua) TERZO EVENTO, 12-14 FEBBRAIO 2004 QUARTO EVENTO, 22-24 APRILE 2004 Giovedì, 12 febbraio 2004 Giovedì, 22 aprile 2004 14.30 Presentazione dei partecipanti Valutazione di ingresso per ECM 14.30 Presentazione dei partecipanti Facciamo il punto 15.00 Lavoro di gruppo: Effetti di questo corso sulla mia pratica clinica 15.00 L’ET nel sistema “cura” del diabete A. Corsi 16.45 I contenuti dell’educazione terapeutica e la sua storia. Il DESG A. Maldonato 16.45 Credenze sulla salute (Health beliefs) I. Rossi 17.05 Lavoro di gruppo: Come realizzare un’ET efficace Venerdì, 13 febbraio 8.30 9.00 Lettura EBM: Disturbi del Comportamento Alimentare e obesità M. Cuzzolaro Lavoro di gruppo: Casi clinici 10.30 Capire la mia personalità: Diversi approcci per diverse personalità P. Gentili 17.05 Lavoro di gruppo: Empowerment e partecipazione: coesistenza o contraddizione? Venerdì, 23 aprile 8.30 Lettura EBM: Il counting dei carboidrati D. Bruttomesso 9.00 Lavoro di gruppo: Come insegnare gli algoritmi di correzione delle dosi di insulina 10.30 Apprendimento basato su problemi P. Gentili 10.50 Lavoro di gruppo: Dall’automonitoraggio all’autogestione 10.50 Lavoro di gruppo: Diabete, ipertensione e iperlipemia: come facilitare l’adesione alla terapia 15.30 Un nuovo strumento formativo: l’autobiografia N. Piana 15.30 Scelta dei metodi appropriati in funzione degli obiettivi di apprendimento A. Girelli 15.50 LG: Autobiografia ed empowerment 15.50 Lavoro di gruppo: Apprendimento esperienziale 17.45 L’Intelligenza emotiva e la sua importanza nella gestione del diabete A. Maldonato 18.05 Lavoro di gruppo: Autoconsapevolezza e gestione dello stress 17.45 Meccanismi di apprendimento L. Carboni 18.05 Lavoro di gruppo: Costruire sugli errori: come prevenire l’ipoglicemia. Lavoro di gruppo: Apprendimento esperienziale Sabato, 24 aprile 8.30 Organizzazione della cura e ripartizione delle responsabilità (incluso il paziente) V. Miselli 8.50 Lavoro di gruppo: Casi clinici Sabato, 14 febbraio 8.30 8.50 Riconoscimento e strategie di prevenzione del burn-out professionale L. Clementi Lavoro di gruppo: Di fronte a una sconfitta: la scoperta di una complicanza 10.30 Valutazione del rapporto costi/benefici A. Corsi 10.30 Lavoro di gruppo: Cosa posso migliorare da domani nella mia pratica clinica. Progetti di cambiamento e di valutazione 11.50 Valutazione formativa. Valutazione per ECM Valutazione dell’incontro 10.50 Lavoro di gruppo: Esercizio in piccoli gruppi 11.50 Valutazione formativa. Valutazione per ECM Valutazione dell’incontro Gli organizzatori ringraziano Roche Diagnostics per il contributo, non condizionato, alla realizzazione del corso. 77 Congresso 2003 Tabella III Giudizio dei partecipanti al primo evento CORSO IN ETP PER OS DI DIABETOLOGIA BASATO SUL CURRICULUM DEL DESG Celano (AQ), 13-15 Novembre 2003 VALUTAZIONE DELL’EVENTO. GIUDIZI ESPRESSI COME PERCENTUALE DEL MASSIMO POSSIBILE Valutate secondo i seguenti criteri di giudizio Utilità: l’argomento trattato può essere utile, stimolante, per la mia pratica clinica Novità: la materia trattata, l’attività svolta, la metodica, è nuova, originale Efficacia: il metodo usato è stato didatticamente valido Interazione: ho potuto esprimere facilmente la mia opinione ed essa è stata considerata dagli altri usando la Scala di giudizio sottostante 1 = molto insoddisfatto; 2 = insoddisfatto; 4 = soddisfatto; 5 = molto soddisfatto UTILITÀ NOVITÀ Metaplan: Difficoltà nell’educazione terapeutica del Paziente 84,4% 82,1% 85,0% 88,3% Lettura: Metodi didattici: non interattivi e interattivi 85,5% 82,8% 81,4% 80,0% Lettura EBM: Automonitoraggio della glicemia e sua efficacia terapeutica 80,7% 73,3% 78,6% 80,0% Lettura: Approccio bio-medico/approccio bio-psico-sociale 89,3% 88,9% 88,6% 82,5% Metaplan: Medicina acuta/medicina cronica 89,6% 86,4% 85,9% 89,3% Lettura: Ascolto attivo. Riformulare 95,0% 95,0% 90,0% 88,7% Lettura: La bioetica in diabetologia 83,6% 85,7% 81,5% 80,0% Role playing: OS osservatore, giudice o alleato; paziente (in)giustamente (in)soddisfatto 90,7% 90,7% 87,7% 92,6% Lettura: Imparare per obiettivi. 87,1% 87,4% 78,4% 75,7% Metaplan: Definizione e analisi di obiettivi a breve termine sul diabete 86,2% 83,8% 73,8% 83,8% Lettura: Ruolo dell’ambiente sulla gestione del diabete. Ruolo del diabete sull’ambiente sociale del paziente 80,0% 85,9% 79,2% 80,9% Role Playing sul rapporto fra diabete e ambiente 87,9% 90,7% 84,6% 89,3% Lettura: Valutazione del raggiungimento di obiettivi didattici prestabiliti 86,2% 86,4% 80,8% 80,9% Metaplan: Esercitazione sulla valutazione 84,2% 83,3% 82,5% 87,5% 86,5% 85,9% 82,7% 84,2% MEDIA 78 EFFICACIA INTERAZIONE INDICATE QUANTO SIETE D’ACCORDO O MENO CON LE AFFERMAZIONI SOTTOSTANTI (1 /2 /4 /5)*. 1 Gli scopi del corso mi sono sembrati molto pertinenti in rapporto alla mia attività 93,6% 2 I metodi di lavoro utilizzati mi hanno spinto a partecipare attivamente 93,6% 3 Con gli esercizi ho avuto la possibilità di mettere in pratica le nuove conoscenze acquisite nel corso dell’evento 81,5% 4 L’atmosfera dell’evento ha assunto un carattere di serietà soddisfacente 94,3% 5 Gli organizzatori mi hanno dato l’opportunità di esprimere le mie critiche 94,1% 6 Gli organizzatori hanno tenuto conto delle mie critiche nella guida dell’evento 91,7% 7 L’evento è stato guidato nel pieno rispetto dei principi pedagogici in esso trattati 89,3% 8 Il tempo dedicato alle discussioni in piccoli gruppi è stato sufficiente 77,2% 9 Il tempo dedicato agli esercizi applicativi è stato sufficiente 72,4% 10 Il tempo dedicato alle presentazioni in seduta plenaria è stato sufficiente 82,9% 11 L’evento mi ha motivato a mettere in pratica le mie conoscenze dopo il corso 93,8% 12 L’evento mi consentirà di incoraggiare i miei colleghi ad apprendere e utilizzare nuove tecniche pedagogiche 86,4% L’evento ha rafforzato la mia fiducia nel perseguire i miei obiettivi personali a medio termie (entro un anno) 92,1% 14 Ho trovato l’organizzazione logistica soddisfacente 86,2% 15 Ho trovato l’alloggio soddisfacente 97,1% 16 Ho trovato i pasti soddisfacenti 89,2% 13 MEDIA 88,5% * Le cifre si riferiscono alla percentuale di persone che hanno risposto “Molto/Moltissimo” 79 Congresso 2003 Progetto GISED Censimento dell’educazione terapeutica in Italia DANIELA BRUTTOMESSO a nome del GISED La qualità di un programma di “educazione terapeutica” deriva dalla capacità del programma di far acquisire al paziente un certo numero di competenze che gli sono essenziali per vivere al meglio la propria vita con la malattia. Alla qualità del programma contribuiscono la formazione specifica dell’équipe educativa, i supporti e i materiali didattici utilizzati. In Italia vengono attuati programmi di educazione rivolti alle persone con diabete in molte Strutture Diabetologiche, ciononostante poco si sa riguardo il tipo di prestazione effettuato, l’organizzazione della stessa, il ruolo svolto dalle diverse figure professionali. Per chiarire lo stato attuale dell’educazione in Italia e precisare il ruolo svolto dalle associazioni dei pazienti in ambito educativo il GISED ha deciso di svolgere un’indagine a livello Nazionale. L’indagine verrà svolta con l’ausilio di questionari specifici, appositamente formulati: uno, di 41 domande, da inviare ai Responsabili di tutte le Strutture Diabetologiche presenti sul territorio italiano (ambulatori/servizi/reparti), un altro, di 25 domande da inviare ai Responsabili delle Associazioni di pazienti diabetici. I questionari comprendono sia domande di tipo chiuso che aperto. Eventuali risposte poco chiare o non complete verranno integrate da successive interviste telefoniche. Entrambi i questionari mirano a chiarire la natura di ogni supposta attività educativa indagandone gli aspetti generali, ideologici, organizzativi e pedagogici. Dal punto di vista generale l’indagine permetterà di capire a quali persone è rivolta l’educazione (a pazienti adulti e/o pediatrici, a famigliari di pazienti), quali sono gli argomenti trattati e quali gli ostacoli incontrati nello sviluppo e attuazione della stessa. Dal punto di vista ideologico, domande del tipo: “quale o quali sono gli obiettivi dell’educazione del paziente? Quali tipi di sapere vengono presi in considerazione durante la stessa (il sapere, il saper fare o il saper essere)? “mirano a far emergere la concezione di “educazione del paziente” propria di chi svolge l’attività stessa. Per chiarire gli aspetti organizzativi il questionario pone l’attenzione sul tipo di attività educativa svolta (di sensibilizzazione, di informazione, di sostegno, o di educazione all’autogestione), sulla modalità di selezione del paziente da educare, sul luogo e il momento destinati all’attività educativa, sulla durata della stessa, sul numero di persone coinvolte, sulle competenze specifiche delle stesse, sulla fonte e disponibilità di risorse economiche. Infine viene indagata la qualità pedagogica dell’attività educativa. Sono a tal fine previste delle domande volte a chiarire se l’attività educativa eventualmente svolta presso le Strutture Diabetologiche o le Associazioni di pazienti è occasionale o continua, se prevede l’uso di tecniche pedagogiche individuali o di gruppo, se e di quali mezzi e supporti pedagogici si avvale. I risultati dell’indagine potrebbero contribuire a evidenziare quali sono, oggi in Italia, i problemi principali in ambito educativo e quali potrebbero essere le soluzioni più idonee. Dati preliminari sono stati raccolti con un’indagine svolta presso 18 Strutture Diabetologiche del Veneto e 5 del Trentino Alto Adige. L’indagine, che aveva l’intento di chiarire soprattutto 81 Congresso 2003 Fig. 16 Occasioni in cui viene svolta l’educazione del paziente diabetico presso alcune strutture Diabetologiche del Veneto e del Trentino Alto Adige gli aspetti organizzativi, ha dimostrato che, in tali regioni, l’educazione del paziente viene effettuata in molte occasioni, ma soprattutto durante l’attività ambulatoriale di routine o durante incontri specificatamente organizzati (Fig. 16). Questo spiega il fatto che in più del 50% dei casi l’educazione viene svolta sia a livello individuale che di gruppo. Durante l’attività educativa vengono affrontati pressoché tutti gli argomenti educativi, anche se come tema prevalgono la gestione della dieta, la cura dei piedi, l’integrazione tra i vari elementi di cura, cioè tra la dieta, l’attività fisica e i farmaci, la tecnica di iniezione di insulina, il trattamento dell’ipoglicemia e così via. (Fig. 17). A promuovere l’attività educativa sono soprattutto la richiesta da parte dei pazienti, la priorità accordata dalla Struttura all’educazione stessa, l’abitudine al lavoro di équipe (Fig. 18). Fattori che invece ostacolano l’attività sono soprattutto la carenza di tempo, di risorse materiali, di personale e di formazione specifica (Fig. 18). A quest’ultimo proposito nel Veneto e nel Trentino Alto Adige ad occuparsi di educazione sembrano esserci soltanto 1 infermiere Fig. 17 Argomenti affrontati durante l’intervento educativo. Indagine svolta presso alcune Strutture Diabetologiche del Veneto e Trentino Alto Adige 82 Congresso 2003 Fig. 18 Fattori che frenano o promuovono l’attività educativa presso alcune Strutture Diabetologiche del Veneto e Trentino Alto Adige per ogni 1000 persone affette da diabete, 1 medico diabetologo e 1 dietista per ogni 2000 persone. Solo il 60% delle persone coinvolte nell’attività educativa ha ricevuto una “qualche forma” di preparazione specifica, non sempre adeguata. Sarà interessante vedere se questi dati si confermeranno a livello nazionale. In tal caso, sarà opportuno ricercare nuove strategie organizzative, economiche, politiche che permettano di raggiungere e mantenere un’educazione di qualità. d’Ivernois J-F, Gagnayre R. Mettre en œuvre l’éducation thérapeutique. AdSP, n. 36, Septembre, 2001. Bibliografia WHO, Regional Office for Europe. Therapeutic patient education: continuing education programmes for healthcare providers in the field of prevention of chronic diseases. Report of a WHO working group, Copenhagen, 1998. Lecimbre E, Gagnayre R, Deccache A, d’Ivernois J-F. Le role des associations de patients dans le développement de l’éducation thérapeutique en France. Santé Publique 2002 ;14:389-401. 83 Congresso 2003 Lavoro di gruppo “L’implementazione dell’educazione terapeutica: quali proposte?” A. GIRELLI Il percorso svolto durante il congresso si vuole concludere con un momento di raccolta di suggerimenti operativi per la concreta realizzazione dell’educazione terapeutica nelle diverse realtà di lavoro. I partecipanti in veste di operatori sul campo sono chiamati a formulare proposte da rivolgere alle società scientifiche al fine di superare gli ostacoli esistenti all’implementazione dell’ET; a loro volta i partecipanti che ricoprono un ruolo ufficiale nelle società scientifiche delle diverse categorie (AMD, SID, ANDID, OSDI, AIP) sono chiamati a formulare propositi operativi. La Dott.ssa Orsi dando il mandato di lavoro ai gruppi sottolinea l’importanza di avere chiamato non solo gli operatori sanitari coinvolti sul campo ad esprimere le proprie necessità, ma anche e soprattutto coloro che hanno un potere decisionale all’interno delle Società Scientifiche ad “una presa di responsabilità ed impegno” ai fini di una vera e concreta realizzazione dell’ET. Obiettivi del Gruppo di lavoro sono: identificare soluzioni e strategie operative al fine dell’implementazione dell’educazione terapeutica; favorire il confronto e la condivisione delle proposte tra operatori e rappresentanti delle Società Scientifiche; coinvolgere ad un impegno reale le Società Scientifiche nell’ottica dell’implementazione dell’E.T.; fornire al GISED proposte concrete di lavoro. Obiettivi del lavoro di gruppo TEMPO Svolgimento COMPLESSIVO 11.00-12.00 lavoro di gruppo nelle aule 12.00-12.45 presentazione in plenaria/discussione I partecipanti sono stati divisi in 2 tipologie di gruppo: quelli costituiti da persone che operano sul campo e quelli invece che hanno un ruolo “istituzionale” nelle Società Scientifiche delle diverse categorie professionali. CONDUTTORI 3 gruppi “Istituzionali”: Paola Accorsi, Patrizia Richini, Alfonso Gigante 4 gruppi “Operatori”: Felice Strollo, Giovanni Careddu, Patrizia Colapinto, Marina Cossu TEMA DA SVOLGERE Nei gruppi composti dagli operatori: “L’implementazione dell’ET: se avessi un ruolo di rappresentante nelle società scientifiche COSA FAREI?” Nei gruppi composti dai rappresentanti istituzionali: “L’implementazione dell’ET: nel mio ruolo di rappresentante nelle società scientifiche COSA FARO’?” 85 Congresso 2003 M ETODO DI LAVORO SUGGERITO Metaplan (discussione visualizzata) Risultati Gli elaborati dei 4 gruppi di operatori (titolo colore arancio) e dei 3 gruppi di rappresentanti istituzionali (titolo colore verdino), integralmente riportati di seguito, sono stati presentati in plenaria. Il prodotto è ricco di spunti pratici, suggerimenti operativi che rappresentano per il GISED un preziosissimo carnet per la progettualità futura. Nell’ambito dei gruppi costituti da operatori sul campo (“L’implementazione dell’ET: se avessi un ruolo di rappresentante nelle società scientifiche cosa farei?”) le proposte più frequenti sono raggruppabili nelle seguenti aree: istituzionale: cercare di ottenere un riconoscimento istituzionale dell’ET e del team diabetologico educativo, agendo a livello delle Aziende Sanitarie (AS Locali e Aziende Ospedaliere) con interventi di informazione, sensibilizzazione; economica: cercare di ottenere un riconoscimento economico, una tariffazione adeguata della prestazione ET, che deve essere riconosciuta come una vera e propria attività terapeutica specialistica; pedagogica: proporre che ET divenga disciplina universitaria nel corso di specializzazione; migliorare la fruibilità dei percorsi formativi che vengono proposti uniformandoli e integrandoli maggiormente (omogeneità ed integrazione); creare corsi di formazione sul territorio; contatti tra i centri specialistici e la periferia (capillarizzazione: supportare sul territorio anche le strutture più periferiche); fornire protocolli e strumenti operativi già utilizzabili che garantiscano qualità ed uniformità degli interventi di ET; creare strumenti di verifica e raccolta dati; creare la possibilità di “frequentare” centri dove l’ET venga normalmente realizzata; coinvolgere ed integrarsi con altre professionalità (MdMG, pediatri …) attraverso percorsi di gestione integrata che riconoscano e valorizzino la multiprofessionalità; politica: dare visibilità alla problematica dell’ET. Complessivamente dagli operatori viene una forte richiesta di aiuto e supporto per superare le difficoltà presenti attualmente nella realizzazione dell’ET. In pratica essi propongono interventi di sensibilizzazione a livello delle aziende sanitarie, interventi formativi a carico del personale, fornitura di protocolli e materiali educativi omogenei a livello nazionale 86 L’IMPLEMENTAZIONE DELL’ET: se avessi un ruolo di rappresentante nelle società scientifiche COSA FAREI? GRUPPO 8 TUTTI INSIEME RICONOSCIMENTO ISTITUZIONALE Sensibilizzare responsabili distretto AS Definire ore dedicate all’operatore competente “istituzionalizzare” lo spazio “educazione” Solleciterei nell’ambito delle ASL di appartenenza dei servizi di diabetologia attenzione al problema dell’ET (anche economica) Coinvolgimento più operatori (anche MdMG) METODO Riconoscimento ET come lavoro Coinvolgere il personale parasanitario Dare più rilievo negli eventi Protocolli simili in tutta Italia Riorganizzazione dei servizi (formazione di U.O. ecc.) Corsi di psicologia di base o psicopedagogia Proporrei la frequenza nei centri già attivi per le persone interessate ET come corso in specialità FORMAZIONE 87 L’IMPLEMENTAZIONE DELL’ET: se avessi un ruolo di rappresentante nelle società scientifiche COSA FAREI? GRUPPO 7 2 Gestione integrata critica per risorse 1 Maggiori risorse: economiche Spazi Formazione del personale Sensibilizzare i pediatri di base Attivarsi per far conoscere il problema Affermare la NECESSITÀ di affrontarlo Intervenire su DG e DS 5 Sostegno e implementazione delle attività in corso Più risorse economiche e più spazi nelle diverse realtà Maggior valore dell’educazione nel tariffario delle prestazioni Valorizzazione economica educazione Favorirei la presenza nei servizi diabetologici di diverse figure professionali dedicate 6 Creazione di gruppi di lavoro per elaborare nuove proposte Corsi di formazione per creare team utilizzando le poche risorse che abbiamo Illustrare/presentare progetti di ET per il team e per i singoli operatori del team Proporrei incontri per uniformare al massimo visioni, interventi, e conoscenze nel mio ambito specifico 88 Farla realizzare in più strutture possibili Proporrei l’obbligo per corsi di aggiornamento professionale Presentare un budget ed eventualmente le aspettative 3 Supportare i servizi disponibili $ Sollecitare le ASL e le Aziende ad identificare tempi specifici, ruoli e personale da impegnare nell’EDUCAZIONE L’IMPLEMENTAZIONE DELL’ET: se avessi un ruolo di rappresentante nelle società scientifiche COSA FAREI? GRUPPO 6 AMD + CORSI Maggiore impegno per “formare” i formatori (difficile accesso es. AMD) OMOGENEIZZAZIONE DELLE PROPOSTE Omogeneizzazione dell’educazione Omogeneizzazione di alcune delle proposte Integrazione di alcune proposte CONTRATTO ISTITUZIONI Come “istituzionalizzare” il team di educazione terapeutica Uniformare maggiormente i corsi di formazione professionale in educazione terapeutica PAZIENTE DIABETICO Maggior coscienza dei vertici aziendali del ruolo dell’ET (risorse, personale) Definire i “linguaggi” da acquisire per diverse tipologie di pazienti Disponibilità strumenti per richieste organizzative all’azienda sanitaria Cercare di creare una maggiore capillarizzazione dell’ET Maggior attenzione dei “bisogni” del cliente-utente CHE FARE? Ulteriori elementi di praticità da “portare a casa” dopo gli “incontri” Collocazione degli spazi temporali degli argomenti dell’ET CAPILLARIZZAZIONE Fare in modo che su tutto il territorio si sviluppino i progetti Proporrei l’istituzione sul territorio di corsi di formazione per operatori Creare “ponti” di contatto con gli ambulatori periferici dove c’è chi vuole realizzare questi percorsi formativi ed è piuttosto solo Cercare di coinvolgere più operatori paramedici con incontri organizzati da formatori nei luoghi di lavoro Accentuare la condivisione al vissuto del paziente Aumentare il tempo d’ascolto del paziente RACCOLTA DATI Cercare strumenti di verifica o raccolta di dati statistici I.P. Istituzionalizzazione dell’“infermiere dedicato” 89 L’IMPLEMENTAZIONE DELL’ET: se avessi un ruolo di rappresentante nelle società scientifiche COSA FAREI? GRUPPO 5 ANALISI DEI BISOGNI IMPARIAMO INSIEME Valutare i reali bisogni e le potenzialità Formazione degli educatori PZ OS Organizzazione dei corsi per O.S. Cercare i veri bisogni dei pazienti con questionari (?) Coinvolgimento di più ruoli MMG figura specializzata azienda Coinvolgimento della direzione sanitaria Tramite questionario chiederei ai soci gli argomenti su cui programmare l’attività PRE STORIA Omogeneizzare il significato di ET Investire più soldi nella ricerca di metodi per l’ET CONTINUA Motivazione O.S. 90 Istituzionalizzare la presenza di un formatore certificato in ogni equipe Sollecitare le istituzioni a rivalutare E.T. PIANIFICAZIONE Con anticipo di un anno diffonderei le attività programmate dalla società Facilitare partecipazione degli operatori sanitari ai corsi Congresso 2003 Nell’ambito dei gruppi costituti da rappresentanti delle Società Scientifiche (“L’implementazione dell’ET: nel mio ruolo di rappresentante nelle società scientifiche cosa farò?”) le proposte più espresse sono raggruppabili nelle seguenti aree: Istituzionale/economica Realizzare un’indagine/censimento sulla situazione attuale; impegnarsi per ottenere un formale riconoscimento economico dell’attività educativa; coinvolgere e sensibilizzare la propria istituzione (Consiglio Direttivo). Pedagogica Promuovere la diffusione delle attività educative già in atto; cercare un’integrazione tra le diverse società e coinvolgere le associazioni dei pazienti; proseguire il lavoro di realizzazione di gruppi multiprofessionali; proseguire nell’attività di formazione del team; favorire comunicazione integrazione coordinamento di tutte le forze già in campo, possibilmente identificando la struttura (GISED?) che possa essere “tetto di tutti”. Complessivamente dai Rappresentanti delle Società Scientifiche viene dichiarato l'impegno a coinvolgere e sensibilizzare alla realizzazione dell'ET i propri Direttivi ed ad ottenere un riconoscimento formale/economico della stessa. Viene inoltre fortemente espressa l'intenzione di favorire percorsi di integrazione multiprofessionale e di coordinamento delle forze già operanti nell'ambito della formazione alla ET. A seguito della presentazione degli elaboratori la plenaria ha vivacemente dibattuto le tematiche emerse: la discussione è stata aperta dal Dott. Umberto Valentini che ha sottolineato i “punti forti” emersi dai gruppi: necessità di rendere omogenei gli interventi educativi; necessità di coinvolgere negli stessi più figure professionali; necessità di creare una rete con i MdMG per ottenere un “effetto cascata”; necessità di ottenere un riconoscimento ufficiale da parte delle istituzioni sia a livello della propria Azienda sia a livello nazionale (ministeriale). A questo proposito, per ottenere un maggior peso ad un eventuale tavolo di contrattazione sembra indispensabile una supervisione/coordinamento di tutte le forze e risorse in campo. La discussione è proseguita con l’intervento del Dott. Valerio Miselli che ha suggerito come il GISED possa essere la struttura più idonea a proporsi come collettore dei bisogni e coordinatore dei progetti e come il GISED debba perseguire la strada della multiprofessionalità creando un tavolo operativo di lavoro con produzione di strumenti di lavoro/protocolli di ricerca. 91 L’IMPLEMENTAZIONE DELL’ET: nel mio ruolo di rappresentante nelle società scientifiche COSA FARÒ? GRUPPO 1 Istituire un fondo disponibile per progetti verificabili Sviluppare maggiormente l’assistenza e l’educazione terapeutica sul piede diabetico Coinvolgere maggiormente le associazioni di diabetici Mettere a disposizione il mio sapere per migliorare l’assistenza Vorrei implementare un gruppo di studio e lavoro omogeneo a livello regionale Coinvolgere tutti gli operatori nei progetti Favorire la “comunicazione”tra i vari progetti Contenitore comune diabete Italia? GISED gruppo misto che entra in DIABETE ITALIA Incrementare i progetti comuni (entrarci dentro) Identificazione attori e non solo AMD-SID - Tavolo comune dei coordinatori di progetto - Progetto comune-verifica Collaborazione con i rappresentanti delle istituzioni 92 GISED gruppo studio italiano Educazione Diabete dove c’è scritto AMD/SID GISED: tetto di tutti Sfruttare contenitore già esistente Riconoscimento delle diversità e specificità Incrementare/approfo ndire la ET attraverso vissuto esperienziale CONTENITORE Proporrei una alleanza Poter partecipare a questi gruppi di studio attivamente Favorire una maggiore sinergia/coordinament o tra tutte le forze esistenti (compreso l’ANDID) Coinvolgimento degli operatori delle varie associazioni in un unico contenitore GISED GISED quale contenitore delle varie realtà professionali GISED come momento di coordinamento e progettualità Contenitore comune rappresentativo di tutte le categorie coinvolte “GISED” L’IMPLEMENTAZIONE DELL’ET: nel mio ruolo di rappresentante nelle società scientifiche COSA FARÒ? GRUPPO 3 DA DOMANI Coinvolgerò il consiglio direttivo ASSOCIAZIONE PAZIENTI ANDID DOVE SIAMO QUANTI SIAMO “censimento”tra colleghe a livello regionale Conoscere tutte le esperienze in atto SID OSDI PODOLOGI E… UNIAMOCI ET ≠ EXTRATERRESTRE AMD OBIETTIVO QUALITÀ favorire percorsi metodologici comuni tra società Cercherò di migliorare l’attività di ET Sensibilizzare le associazioni di diabetici Verificare modifica della ed. terapeutica Coinvolgere i dietisti Implementare contatti tra figure che appartengono all’associazione PROMUOVIAMOCI Prolungare e sviluppare conoscenze e metodologia su ET Raggiungere gli operatori con messaggi mirati su internet Corsi educativi per equipe Formazione continua del personale sanitario Formare ed addestrare il team con cui lavoro (sull’ET) Rafforzare il lavoro del team Propaganda esperienze in atto FORMIAMOCI Continuerò come da circa 10 anni a fare corsi ai gruppi Porto a conoscenza (pubblicità dell’ET) $ Modificare remunerazione ET Tentativo di supporto per “risorse” $ 93 L’IMPLEMENTAZIONE DELL’ET: nel mio ruolo di rappresentante nelle società scientifiche COSA FARÒ? GRUPPO 2 STATO DELL’ARTE Immagine sullo stato attuale dell’ET A livello informatico un questionario specifico sull’educazione ORGANIZZAZIONE Istituire gruppo di studio specifico su ETS Motivare l’associazione per creare un gruppo di studio permanente per l’educazione terapeutica Porterò in CD alcune proposte operative (per es. sostegno dei team in crisi) CONDIVISIONE CAPILLARE Far conoscere l’importanza dell’ET ai colleghi ed alle istituzioni Collaborazione con le altre associazioni Diffondere ETS Attività di stimolazione e sensibilizzazione Collaborare tra le varie associazioni Sensibilizzare i soci all’importanza dell’ET Alleanze (con altre associazioni o istituti scientifici che si occupano di ET) Diffondere capillarmente gli strumenti per implementare l’ETS Rafforzerò il ruolo dell’ET RICONOSCIMENTO FORMALE ECONOMICO INTERAZIONE Identificare l’iter formativo dell’educatore Solleciterò la sensibilità all’urgenza di promuovere piani educativi Raccordare le società scientifiche di tutti gli OO.SS. per programmi di ETS Condividerò attivamente le decisioni del gruppo istituzionale di cui faccio parte Portare la spinta al cambiamento nella mia realtà regionale Inserire a livello zonale una buona tariffazione per ETS 94 ABBATTIAMO LE BARRIERE Congresso 2003 Il Prof. Domenico Fedele a seguito è intervenuto a ribadire la necessità che il GISED o chi per esso debba creare un vero e proprio gruppo multiprofessionale che produca programmi omogenei da proporre su scala nazionale, un gruppo che sappia interagire con autorità politiche nazionali e regionali al fine di ottenere la certificazione dell’ET e come questo ruolo possa essere svolto dal GISED. Altri successivi interventi hanno ribadito la necessità di identificare innanzi tutto i bisogni reali degli operatori sul campo, senza definire l’entità di chi dovesse svolgere tale compito. La Dott.ssa Girelli e il Dott. Corsi hanno ulteriormente ricordato come la multiprofessionalità sia tra i primi posti nelle priorità che il nuovo coordinamento GISED si è posto. A conclusione si può affermare, tenendo conto sia del lavoro degli operatori che dei rappresentanti istituzionali, che le richieste forti emerse sono: necessità di una struttura che coordini, renda omogenee e uniformi le attività esistenti, sia di formazione in ET che di implementazione dell’ET stessa; multiprofessionalità; riconoscimento formale istituzionale economico dell’ET; gestione integrata; protocolli/strumenti operativi. le forze e risorse in campo al fine di ottenere il maggior peso ad un eventuale tavolo di contrattazione. Queste richieste non potranno non essere considerate la base del proseguimento del lavoro del GISED. 95 Congresso 2003 VALUTAZIONE DELL’EVENTO (GIUDIZIO DEI PARTECIPANTI) GIOVEDÌ, 27 NOVEMBRE 2003 Lettura: L’Educazione Terapeutica: una testimonianza lunga trent’anni Letture ed esercitazioni: Educazione e dimensione autobiografica Tavola rotonda: Professioni ed educazione terapeutica VENERDÌ, 28 NOVEMBRE Lettura: EBM ed Educazione Terapeutica Lettura: Le dimensioni del sentire Lavoro esperienziale: Proviamo il sentire SABATO, 29 NOVEMBRE Tavola rotonda: Modelli operativi in Educazione Terapeutica Lavoro di gruppo: L’implementazione dell’E.T. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 1 2 3 UTILITÀ NOVITÀ EFFICACIA 80%* 71,2% 77,4% 64% 88% 91,4% 84% 80% 63% 56,8% 57% 72% UTILITÀ NOVITÀ 84% 78% 78% 68% 82% 82% 80% 72% 87,2% 90% 88% 88,2% UTILITÀ NOVITÀ 83% 77,2% 78% 67,2% 84,4% 79% 83,4% 81,4% EFFICACIA Gli scopi del corso mi sono sembrati molto pertinenti in rapporto alla mia attività I metodi di lavoro utilizzati mi hanno spinto a partecipare attivamente Con gli esercizi ho avuto la possibilità di mettere in pratica le nuove conoscenze acquisite nel corso dell’evento L’atmosfera dell’evento ha assunto un carattere di serietà soddisfacente Gli organizzatori mi hanno dato l’opportunità di esprimere le mie critiche Gli organizzatori hanno tenuto conto delle mie critiche nella guida dell’evento L’evento è stato guidato nel pieno rispetto dei principi pedagogici in esso trattati Il tempo dedicato alle discussioni in piccoli gruppi è stato sufficiente Il tempo dedicato agli esercizi applicativi è stato sufficiente Il tempo dedicato alle presentazioni in seduta plenaria è stato sufficiente L’evento mi ha motivato a mettere in pratica le mie conoscenze dopo il corso L’evento mi consentirà di incoraggiare i miei colleghi ad apprendere e utilizzare nuove tecniche pedagogiche L’evento ha rafforzato la mia fiducia nel perseguire i miei obiettivi personali a medio termine (entro un anno) Logistica Alloggio Cibo * Le cifre si riferiscono alla percentuale di persone che hanno risposto “Molto/Moltissimo” 96 EFFICACIA INTERAZIONE INTERAZIONE INTERAZIONE 83% 82,6% 78% 85,2% 75% 70,6% 80,60% 73,2% 73% 79,6% 85,8% 77,6% 81,8% 91% 92,8% 87,4%