IL CAMMINO DELLA
LUCE
ROMA - ASSISI : 6-16 GENNAIO 2010
diario di
RENATO CORAZZINI
Perché ho deciso di fare questo pellegrinaggio?
Non riesco a dare una risposta precisa, ma la decisione nasce da una serie di motivazioni:
- mettermi alla prova nel sostenere per una decina di giorni i ritmi di un cammino con lo zaino in spalla in inverno;
- il desiderio di ritrovare me stesso nel silenzio della natura, con la speranza di camminare sotto la neve;
- ritrovare un nuovo slancio nella fede camminando sui sentieri percorsi da San Francesco;
- raccomandare al Santo la mia famiglia;
- uscire dalle abitudini della vita quotidiana……
A mano a mano che si avvicinava il giorno della partenza, il desiderio di partire cresceva: mi dava una certa carica e si
indirizzava ad approfondire la figura di S. Francesco, che conoscevo -penso come tanti- in modo sommario attraverso
letture occasionali e film.
Questo pellegrinaggio, che è organizzato dalla Confraternita di S. Jacopo di Compostella con sede in Perugia, è il primo
tratto del lungo cammino che in una decina di tappe (ciascuna composta di diversi giorni di cammino) porterà i pellegrini
da Roma (6 gennaio) fino a Santiago di Compostela (24 luglio). In questo modo la Confraternita vuol celebrare l’Anno
Giubilare Compostelano, che ricorre quest’anno in quanto l’anniversario di S. Giacomo (25 luglio) cade nel giorno del
Signore (domenica).
Non conosco la nostra guida: so da Internet che si chiama Giancarlo Guerrini.
Dagli avvisi che ci manda via e-mail mi sembra una persona attenta, motivata e preparata.
Mi ha colpito particolarmente l’impronta che vuol dare al nostro cammino (il pellegrinaggio sulle orme dei Magi, di
Francesco e di Giacomo, ricerca della Sapienza e del volto di Dio, ringraziamento per la bontà del creato e testimonianza
di fede, messaggio di pace e fraternità, servizio ed accoglienza).
Ho rimandato all’ultimo momento la preparazione dello zaino.
Ho seguito le indicazioni di Adele( che si sono poi rivelate eccessive, perché non ho usato quasi la metà della
biancheria): portare tanti cambi, perché la biancheria sudata non può essere lavata in quanto -per il freddo- non potrebbe
asciugare in giornata.
Lo zaino pesa 18 chili: pazienza! Per fortuna le tappe non sono lunghe ed- eventualmente- c’è la possibilità di caricare lo
zaino su una macchina di appoggio.
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MARTEDI’ 5 GENNAIO
Castellanza- Roma
Stamattina, mentre cammino verso la stazione, mi accorgo che la giacca antivento da ciclista non protegge dal freddo. Mi
preoccupo un po’: speriamo di trovare una temperatura più mite a Roma.
Al limite mi metterò due felpe. Sul treno una simpatica famigliola di Aversa e una loquace e gentile signora di Salerno
rendono meno monotone le ore di trasferimento. A Bologna nevica forte, ma a Prato già pioviggina e non c’è traccia di
neve nella campagna.
Arrivo allo spedale di Roma per ultimo, oltre le sette di sera.
I letti a castello delle due camere sono quasi tutti occupati. Delle brande a terra ne è rimasta una libera e lì mi sistemo, di
fianco alla branda di uno spagnolo sulla quarantina, che subito mi stupisce informandomi che è la quinta volta che viene
a Roma e che domani inizierà il suo pellegrinaggio che in 90 giorni lo porterà a Santiago.
Non è per niente preoccupato dei 2.500 km di cammino che lo aspettano. Parla in un discreto italiano e mi dice che ha già
fatto un pellegrinaggio sulla Via della Plata camminando anche per 50 km al giorno.
- Un giorno ho camminato per 58 km, perché prima non sono riuscito a trovare un posto per dormire-...dice
…Però, questi Spagnoli!
Che strano! Per la seconda volta consecutiva che capito in questo spedale mi imbatto in un pellegrino che mi stupisce per
i suoi lunghi itinerari. A dicembre mi aveva accolto Pierluigi, un sessantenne veneto che aveva camminato da solo da
Venezia a Gerusalemme.
Chissà chi incontrerò quando ritornerò qui per la terza volta .
Dicono che non c’è due senza tre……
Intanto arriva Lucia e ci sollecita a raggiungere Giancarlo in sala da pranzo: ci darà le indicazioni per il nostro cammino.
Mi affretto. La nostra guida è un tipo paziente, desideroso di soddisfare tutte le richieste del gruppo, profondo
conoscitore della zona e dei sentieri. E’ affezionato alla sua terra e riesce a trasmettere curiosità e desiderio di conoscere i
luoghi che attraverseremo. Questa simpatica novità mi rasserena.
Fra i partecipanti ritrovo Alfredo, che ho incontrato a Perugia e in questo spedale a fine maggio dell’anno scorso e
Maurizio, che ho conosciuto il mese scorso qui in occasione del primo anniversario dell’apertura dello spedale.
Mercoledì 6 gennaio
Roma- La Storta
Colazione alle sette. I confratelli del Capitolo Romano hanno preparato anche delle torte.
Nel cortiletto interno dello Spedale don Paolo Asolan ci raccoglie per un breve momento di preghiera prima della
partenza.
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Augusto
Ci sono con noi un gruppetto di pellegrini che abitano a Roma , alcuni confratelli che faranno da guida nelle varie tappe
verso Santiago e che ci accompagneranno in questa prima tappa.
Giancarlo ha ottenuto dei biglietti per farci assistere alla Messa in San Pietro celebrata dal Papa.
Ci incamminiamo lungo il Tevere per raggiungere la Basilica di S.Pietro. L’aria del primo mattino è frizzante.
Scendiamo sotto un ponte e camminiamo vicino all’acqua, che per le recenti piogge si è alzata. Arrivati all’Isola Tiberina
dobbiamo risalire e camminare lungo la strada perché l’acqua ha superato l’argine basso, riservato al passaggio dei
pedoni.
Arrivati in Piazza San Pietro attendiamo sotto il colonnato le macchine per depositare gli zaini.
Il prof. Caucci, rettore della Confraternita, ci accompagna in Vaticano. Qui il cardinale Comastri ci accoglie, mentre il
prof. Caucci lo ragguaglia sulle finalità e sull’organizzazione del pellegrinaggio promosso dalla Confraternita. Il
Cardinale, dopo averci invitato ad essere testimoni di fede lungo le vie dell’Europa, benedice il nostro pellegrinaggio. Il
momento è semplice e solenne. Vedo che molti guardano lo stendardo della Confraternita, che passerà fra molte mani e
raggiungerà Santiago il 25 luglio.
La Messa in San Pietro è veramente “pontificale”: i cori, gli acuti e i bassi dei solisti, i riti, la voce del Papa, la santità e
lo stupore che infonde la maestosità della basilica, tutto crea un alone di mistero e di rispetto che predispone lo spirito ad
allargare l’orizzonte nel tempo e nello spazio e a farci sentire veramente parte della Chiesa.
Quando usciamo dalla Basilica siamo inondati dal sole del mezzogiorno. Sembra di essere in primavera e il presepe
vicino all’obelisco sembra proprio un controsenso, come un frutto fuori stagione.
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Alle 13.30 il prof. Caucci formalizza la partenza del Pellegrinaggio Jacopeo 2010 consegnando lo stendardo a Franco
Stagni, responsabile unico, il quale a sua volta lo consegna alla nostra guida: Giancarlo Guerrini, responsabile della
prima tappa: Roma- Assisi.
Attraversiamo Roma, percorriamo in senso opposto la Via Francigena, saliamo sul Monte Mario per ammirare il
Cupolone in un belvedere che ha la stessa funzione del Monte Gozo per i pellegrini che vedono per la prima volta la
Cattedrale di Santiago al termine del loro cammino.
Al termine della salita una breve sosta per ammirare la Città Eterna da una piazzuola delimitata da un corrimano su cui
gli innamorati hanno lasciato i loro lucchetti incatenati.
Intanto il cielo si è coperto, ma sarà clemente con noi.
Un violento temporale si scatenerà per fortuna dopo il nostro arrivo alla Storta. Si procede sempre sull’asfalto ad
andatura piuttosto sostenuta, almeno così pare a me, non ancora abituato al peso dello zaino. A pochi chilometri dalla
meta avverto sotto la pianta di un piede i segnali fastidiosi di una vescica in formazione. Da tanti anni non mi era più
capitato questo inconveniente. Per fortuna domani avrò la possibilità di caricare lo zaino sull’auto di Giancarlo. Si è fatto
buio. Suor Casta, la direttrice della Comunità delle Suore Poverelle di La Storta ci accoglie con un gran sorriso e ci
accompagna al dormitorio, sistemato in un seminterrato in tre stanze dai letti a castello. I locali sono riscaldati. Dopo la
doccia ci riuniamo in una pizzeria. Fuori piove a dirotto.
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Giovedì 7 gennaio
La Storta- Campagnano
Durante la notte Javier-Francisco, lo spagnolo, si è lamentato più volte e ha trafficato nello zaino in cerca forse di
qualche medicina. Ieri sera mi aveva detto che non si sentiva molto bene e che aveva problemi allo stomaco, perché non
si era ancora abituato alla cucina italiana.
Ha un grande zaino capace, identico al mio, ma interamente riempito. Ha portato dalla Spagna una quantità considerevole
di barattoli: sono prodotti che non avrebbe trovato in Italia e in Francia. Mi dice che non è riuscito a dormire. Difatti
appare davvero debilitato. Tutti lo incoraggiano. Giancarlo lo invita a lasciare lo zaino sulla macchina di appoggio, ma
Javier rifiuta.
Io lascio il mio zaino sull’auto. Mi è spuntata una vescica, per fortuna piccola, la medico con un compeed e penso che fra
qualche giorno potrò camminare con lo zaino.
Camminiamo a ritroso sulla Via Francigena, su un tratto che ho percorso quattro anni fa, ma tutto mi appare nuovo.
Poi Giancarlo, che conosce la ragnatela dei sentieri della zona, ci guida fuori dalla via Cassia e ci porta sulla “sua” via,
l’antica Via Amerina ( da Veio ad Amelia) e ci ragguaglia sulla natura del luogo (le forre con il loro tipico
microclima ed ecosistema) e sui popoli che vi si insediarono nel corso dei secoli (falisci, etruschi, romani, goti,
bizantini…..).
Si cammina su strette strade asfaltate, deserte, sotto una fitta bruma fino ad Isola Farnese, che ci sovrasta con la sua
massiccia roccaforte e che lasciamo alla nostra destra per percorrere una carrareccia che arriva ad una antico casolare
disabitato, sede di un vecchio mulino. E’ un angolo caratteristico: resti di grandi macine, una larga cascata che si
raccoglie in tranquillo stagno prima di far precipitare vorticosamente le sue acque da uno stretto canalone, che inizia
subito dopo un ponticello, in una profonda forra. Lo scenario è emozionante e merita di essere ricordato e registrato dalle
fotocamere.
L’area interessata da questo percorso rappresenta uno dei luoghi di maggior interesse del parco, nella quale si coniugano
elementi di considerevole pregio naturalistico e un importante patrimonio archeologico. I cartelli ci informano che siamo
sull’itinerario che parte dalla Mola di Isola di Farnese che sorge nei pressi del Fosso della Mola (cioé del Mulino), detto
più comunemente Fosso Piordo o “Fosso dei Due Fossi”.
Il fabbricato denominato Mola di Isola Farnese fa parte di un sistema di mulini che si estende su gran parte del territorio
del Parco di Veio. Si trova in un punto strategico del Parco lungo il percorso sterrato che collega Portonaccio con il sito
archeologico di Veio. L’epoca di costruzione è incerta, ma si presume che possa essere fatta risalire al principio del ‘900.
Il mulino rimase in uso fino agli anni ‘50.
In questo punto il Fosso Piordo forma una suggestiva doppia cascata superata la quale si raggiunge, proseguendo sulla
destra, un arco moderno che ha dato il nome di "Portonaccio" al complesso templare etrusco (datato VI-V sec. a.C.) della
città di Veio.
Finora ci ha stupito la natura, ma fra qualche minuto ci stupirà la storia.
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Entriamo nel sito archeologico dell’antica Veio.
Subito camminiamo sull’antica Via Amerina, per un lungo tratto su lastroni di basolato rimasti quasi intatti nei secoli .
Giancarlo ci ricorda che già il poeta latino Properzio (Assisi : 50- 15 a.C.) si era stupito quando visitava queste vestigia
del passato:
"Ed anche tu vecchia città di Veio
regno potente fosti un dì, ed allora
fu posto nel tuo Foro un aureo seggio:
oggi suonar tra le tue mura udiamo
del pastor lento il corno e dei tuoi figli
sopra l’ossa vediam mieter le biade."
Siamo in località Portonaccio. Ci sono pannelli che guidano lungo il percorso e che spiegano chiaramente qual era
l’originaria struttura dei reperti che vediamo. Li fotografo tutti per leggermeli con calma più tardi, perché è una pagina di
storia che non ricordo.
Giancarlo ci spiega che Veio fu definita "Troia etrusca", per la lunga resistenza che oppose ai Romani, nonostante la
posizione di isolamento in cui si trovava.
Infatti il territorio di Veio, molto vasto, era l’insediamento più meridionale dell’Etruria, situato su un pianoro triangolare
circondato dagli affluenti del Tevere. Praticamente un cuneo inserito in nell’area romanizzata alle porte dell’Urbe,
protetto da una cinta muraria e da un poderoso contrafforte.
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Dai ritrovamenti archeologici si evince che i suoi più antichi insediamenti, nella zona dell'odierna Isola Farnese,
risalgono all'età del bronzo, anche se solo più tardi assumono connotazione di città ricca e potente, in notevole sviluppo
fin dal VII secolo a.C., tanto da controllare importanti rotte commerciali, in virtù della posizione strategica sulla riva
destra del Tevere. Il suo vasto territorio si estendeva, nel VI secolo, fino al porto di Fregene. I reperti archeologici
mettono in luce una vita economica e culturale piuttosto vivace e gli eventi storici, tramandatici in buona parte da Tito
Livio, pongono in luce la sua potenza e la capacità bellica.
Veio in età arcaica controllava saldamente la sponda destra del Tevere che le fonti latine chiamano significativamente
"ripa Veiens".
Nella lunga contesa fra Roma e Veio nessuna città-stato etrusca venne in soccorso di Veio: solo Falerii, Capena e Fidene
( le città etrusche più meridionali) rimasero sue alleate. La prima sconfitta di Veio risale al 434 a.C., quando il re veiente
Lars Tolumnius fu ucciso dal console romano e le sue armi portate come trofeo nel tempio di Giove a Roma.
Il conflitto finale tra Roma e Veio durò dieci anni (406-396 a.C.), e alla fine la città fu conquistata con l' inganno: i
Romani, comandati dal dittatore Furio Camillo, avevano scoperto l'esistenza di un vecchio pozzo che passava sotto la
città e dopo averlo sgombrato l'utilizzarono per attaccare i nemici alle spalle. Dopo la caduta di Veio il dittatore autorizzò
il saccheggio: furono depredate di ogni bene le case private, i palazzi, i templi e gli edifici pubblici.
Il dittatore fece vendere all'asta tutti i veienti e si impadronì degli oggetti d'oro di notevole pregio, nonché delle pesanti
porte di bronzo della città. Le splendide terrecotte che ornavano il tetto del tempio di Veio (tra cui il famoso Apollo),
furono abbattute o distrutte dai legionari romani, ma risparmiate dal saccheggio perché ritenute di scarso valore
economico.
La caduta di Veio provocò, come scrive Livio, un indicibile entusiasmo nella città di Roma.
Nell' Urbe affluì l'imponente bottino di guerra che servì, poi, a placare l'orda dei Galli che si era riversata a Roma dopo
aver messo in rotta l'esercito romano presso un fiumicello, l'Allia, che scorreva lungo la via Salaria. Con la distruzione
della città di Roma , qualcuno suggerì che sarebbe stato opportuno ritirarsi a Veio, città che era stata saccheggiata ma
sostanzialmente integra per quanto riguarda l'edificato, ma fu la tenacia di Camillo ad impedire l'esodo e ad esortare i
Romani a ricostruire la loro città.
Apollo di Veio
Museo Etrusco Villa Giulia- Roma
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Nella nostra visita al sito vediamo:
-ampi tratti della cinta muraria (sec. V a.C.) in “opera quadrata di tufo” nella quale si aprivano almeno dieci porte;
-la necropoli, esplorata soprattutto in tempi recenti,
- il santuario di Portonaccio, che era il luogo di culto più antico e venerato non solo dai Veienti, ma da tutti gli Etruschi
(una specie di “Lourdes” etrusca).
Il santuario si articola in due settori:
- a ovest: il grande tempio (forse) dedicato ad Apollo ( la cui statua di terracotta fu scoperta nel 1916 assieme ad
altre che decoravano il frontone) a cui era addossata una grande piscina sacra per riti di carattere purificatorio;
- a est: un altare, due portici, un ambiente quasi quadrato (il “sacello”) che era quasi certamente l’edificio sacro a
Minerva ( numerose sono le dediche che portano il suo nome sugli ex-voto ritrovati)
Durante la visita al sito mi accorgo che Franco, un brianzolo, esamina i reperti con la competenza di un costruttore. Penso
che sia un geometra, un architetto, un ingegnere edile….
Intanto siamo usciti dalle pagine della storia e camminiamo, per fortuna sotto il sole, sul pianoro dove sorgeva l’antica
Veio e ci accorgiamo quanto fosse estesa questa città. Gli scarponi affondano nel’argilla e si ricerca fra l’erba un
appoggio stabile al passo.
Ci fermiamo per uno spuntino a Formello. Adesso penso di conoscere il nome di tutti: i due perugini: Sandro e Roberto,
Mauro: ha un braccio ingessato, abita nella zona e alla fine della tappa ritorna a casa, il friulano Gianni sempre attento a
scattare immagini con una videocamera di grosse dimensioni, i due toscani: Augusto e Maurizio, il romano Alfredo e
l’emiliano Paolo che con lo spagnolo Francisco-Javier sono i due più giovani della compagnia. Siamo in dieci, undici con
Mauro che ci lascerà a volte per motivi di lavoro, dodici con la nostra guida quando siamo al completo.
E’ davvero un bel gruppo, circola armonia e cordialità. Mi trovo bene.
Lasciata Formello, percorriamo stradine deserte.
E’ una zona pressoché disabitata, a cavallo tra i due comuni di Campagnano di Roma e Formello, che ha conservato un
paesaggio - in alcuni casi - fortemente naturale e selvaggio. Il luogo è conosciuto sin dal X secolo d.C. come castello;
all'inizio del XV secolo, sulle rovine del castello distrutto viene eretto un monastero ed il luogo assume il toponimo di
Madonna del Sorbo.
Le valli del Sorbo sono attraversate da un affluente del Tevere, con le sue gole e le ampie radure. Suggestivo è lo sperone
di roccia vulcanica alto 40-50 metri su cui sorge il santuario. Attraversiamo estese aree di pascolo in cui sono ancora oggi
allevati allo stato brado mucche e cavalli.
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Passiamo davanti al Santuario della Madonna del Sorbo, che vediamo dal basso (non è aperto per le visite) e
proseguiamo sempre a contatto con la natura fino a Campagnano.
Ci riposiamo un momento nella biblioteca del Centro Parrocchiale di don Renzo prima di trasferirci al piano superiore
dove prepareremo i materassi per la notte. Il salone è riscaldato. Le docce sono comode e l’acqua calda mi libera dal
sudore e dalla fatica.
Una breve visita alla città prima della messa celebrata da don Renzo in una chiesa chiamata “del Gonfalone” prima della
cena, preparata e offertaci dai parrocchiani, nel salone della biblioteca.
Venerdì 8 gennaio
Campagnano - Nepi
Si parte dal Centro Parrocchiale alle 8.30.
Stanotte Francisco non ha dormito con noi. Ha preferito riposare in un albergo, perché il suo disturbo gastro-intestinale
non è passato. Dice di sentirsi meglio e non lascia lo zaino in macchina. Io lo guardo ammirato: la mia vescica mi dà
meno fastidio, ma preferisco camminare senza zaino .
Ci fermiamo alla “Fonte Latrona”, che deve il suo nome ai furti subiti qui dai pellegrini.
Stazione di posta
Superato il Bivio del Pavone ci fermiamo davanti a un’antica chiesetta, che è collegata al passaggio dei pellegrini.
Giancarlo ci dice che ancor oggi i pellegrini di passaggio suonano la campanella in ricordo dei vecchi pellegrini , che così
segnalavano il loro arrivo perché fosse aperto lo spedale.
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Vicino alla chiesetta ci sono i resti, ancora ben conservati, di una stazione di posta per il cambio dei cavalli. C’è anche
un bar a lato della chiesetta e così ci riscaldiamo con un caffè e lasciamo questa località: Sette Vene. suonando la
campanella.
Si cammina sempre con la mantellina per una pioggerella che a tratti si fa sentire.
Resti di monumento funebre, lungo la via
Imbocchiamo una carrareccia a fianco della Via Cassia, che poco dopo abbandoniamo per camminare su un lungo tratto
ben conservato della Via Amerina.
Un cartello ce lo indica chiaramente (“Via Amerina- III sec. A.C.”). Adesso l’antica via si collega a una stradina asfaltata
, ai cui lati si alzano di tanto in tanto dei massicci blocchi di cemento e pozzolana.
Giancarlo ci spiega che sono i resti della struttura interna di monumenti funebri del periodo romano e pre-romano. I
marmi,che ricoprivano la parte esterna, sono state usate dalla gente del posto come materiale di pavimentazione.
Comunque la presenza di questi blocchi ai lati della strada è una testimonianza che la Via Amerina passava proprio qui,
perché era un’usanza degli antichi alzare monumenti funebri ai lati di una strada fuori dai centri abitati.
Passiamo davanti a un vecchio spedale per pellegrini e al termine della discesa, prima del Ponte Romano, deviamo a
destra per arrivare alle Terme dei Gracchi.
Su uno spiazzo ci sono due fonti:
- da una esce un’acqua tiepida, leggermente sulfurea,
- dall’altra dovrebbe uscire una fresca acqua minerale leggermente frizzante. Purtroppo i rubinetti di questa fonte
vengono aperti solo di pomeriggio per consentire agli abitanti della zona di rifornirsi della stessa acqua minerale che
viene imbottigliata nel vicino stabilimento: l’ “Acqua Nepi”.
Lo scenario è davvero impressionante: nella forra l’acqua crea vortici e cascate, colora le pietre con striature rossastre e
tutt’intorno la vegetazione è lussureggiante. Piove a dirotto e diventa problematico scattare qualche foto.
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Quando arriviamo a Nepi , la pioggia è cessata e possiamo ascoltare tranquillamente Giancarlo che ci dà le coordinate
storiche di questa città: dalla preistoria all’era moderna. Vediamo, le mura etrusche, le scuderie e la rocca dei Borgia,
l’imponente acquedotto del ‘700.
Entriamo nella città passando sotto Porta Romana.
Nella chiesina di S. Eleuterio visitiamo un suggestivo presepe. Nel pronao della cattedrale Giancarlo ci mostra lapidi ed
elementi figurativi che testimoniano il transito di pellegrini in questa zona. In particolare si sofferma su una lapide del
1131, incisa in caratteri latini, in cui si menzionano terribili maledizioni e minacce contro chi fosse venuto meno al patto
stretto tra le magistrature cittadine di quel tempo. I traditori avrebbero subito la stesa sorte di Giuda, Caifa, Pilato e di
Gano di Magonza celebre personaggio della chanson de Roland del ciclo carolingio, il traditore del paladino Orlando
nella Leggenda di Roncisvalle (evidentemente diffusa tra la popolazione del luogo dai pellegrini di passaggio diretti
verso Roma, provenienti dalla Provenza o di ritorno da Santiago di Compostela).
Usciamo dal centro storico e su un parcheggio attendiamo l’arrivo del prof. Caucci e di don Paolo Giulietti per la visita
alle catacombe di S. Savinilla. Una guida ci prepara e ci accompagna nella visita. Le catacombe risalgono al IV-V
secolo e sono formate da tre gallerie principali e da alcune diramazioni secondarie interamente scavate nel tufo, nel cui
interno vi sono più di mille sepolture. Oltre a semplici loculi, si possono vedere numerosi arcosoli.
La lunghezza dei corridoi è di soli 35 metri, ma l’apparente “piccolezza” del sito è compensata dalla ricchezza di forme
e contenuti. E’ un impressionante tuffo nella fede, che animò i primi cristiani a sfidare il martirio.
Nel buio e nel silenzio, davanti a un arcosolio,in cui è raffigurato S.Giacomo in veste di pellegrino don Paolo celebra la
messa, che per tutti noi risulta particolarmente intensa.
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Alla fine della messa, il prof. Caucci si sofferma ad analizzare il dipinto di S.Giacomo.
Quando usciamo dalle catacombe, ci accoglie un vero nubifragio.
Il trasferimento in auto ad Amelia
( sede del nostro pernottamento) si protrae
sotto uno scroscio ininterrotto:
il Tevere intanto,uscito dagli argini,
ha allagato la campagna.
Ad Amelia per fortuna l’acquazzone è finito.
Indossiamo gli abiti della Confraternita e partecipiamo
con i membri della Parrocchia e con il Vescovo mons.
Vincenzo Paglia all’inaugurazione del restauro
del dipinto del 1636 della “Madonna della Misericordia”,
che rappresenta la Vergine - che protegge sotto il suo
manto - i membri della “Fraternita” e un pellegrino
che a mani giunte, inginocchiato come gli altri,
si rimette al volere di Maria, deposto a terra
il largo cappello protettivo e il lungo bastone,
mostrando la conchiglia applicata sulla mantellina
e le chiavi, a significare che la sua meta
sono i luoghi santi di Roma.
Su queste note esplicative fornite da un’esperta
di storia dell’arte,
il prof. Caucci aggiungerà delle osservazioni
che danno alla figura del pellegrino un ulteriore significato.
E’ un duetto interessante fra due studiosi di diversa estrazione, giocato con elegante fair-play e in punta di fioretto. Vedo
che anche il Vescovo segue argutamente compiaciuto queste schermaglie prima di dire la sua. Che cioè nei secoli scorsi i
“laici” non aspettavano direttive dall’alto per realizzare una concreta azione solidale e trova questa spinta popolare in
linea con lo spirito della sua lettera pastorale:”Eucaristia e Città”.
Da notare che il restauro si trova nell’antico Ospedale di S. Maria dei Laici
( sede della fondazione per il Cammino della Luce, attiguo alla casa dove abita Giancarlo, la nostra guida).
Finita la cerimonia dell’inaugurazione dell’affresco, ci spostiamo in un antico salone con le autorità locali e i membri del
Consiglio Parrocchiale per ascoltare dal Vescovo l’intervento conclusivo della sua visita pastorale sul tema “Eucarista e
Città”. E’ un invito a permeare di valori cristiani (accoglienza, solidarietà, sussidiarietà…) il tessuto sociale. In questo
discorso il Vescovo trova il modo di inserire con parole toccanti la testimonianza di fede data dai pellegrini con il loro
cammino.
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Raggiungiamo la chiesa di S. Massimiliano Kolbe, sotto la quale in ampio salone riscaldato sistemiamo le brande. La
comunità parrocchiale ha provveduto a fornirci una lauta cena. Non resta che stupirci e ringraziare per tanta ospitalità.
Sabato 9 gennaio
(Nepi) Castel Sant’Elia - Gallese
Con le auto arriviamo alla periferia di Nepi, a Castel Sant’Elia, per visitare l’importante santuario mariano e romitorio
gestito dai Padri Micaeliti polacchi.
La Basilica di S.Elia si erge maestosa in una grande ansa di una gola profonda, immersa tra il verde intenso della
vegetazione e le rupi a strapiombo. Nei primi secoli del Cristianesimo in alcune grotte rupestri della vallata si raccolsero
degli anacoreti che poi abbracciarono la regola di S.Benedetto. Nell’XI sec l’abate Elia costruì sopra la cripta e la basilica
primitiva la basilica, che è un armonioso edificio romanico, che racchiude all’interno preziose serie di affreschi (Cristo
Pantocratore circondato dagli Apostoli nel catino absidale, i dodici agnelli simboli degli Apostoli, le città mistiche:
Gerusalemme e Betlemme, cortei di vergini e martiri, arcangeli, visioni dell’Apocalisse, scene della vita di S. Anastasio,
profeti…….).
Nella cripta ci sono le tombe di due abati del monastero: S. Anastasio e S. Nonnoso.
Scendiamo nella grotta di S. Maria ad Rupes, un santuario scavato nella roccia.
Qui una coincidenza mi sorprende.
Nello scorso mese di dicembre ero stato a Roma per il primo anniversario dell’apertura dello Spedale della Confraternita
dedicato anche a S. Benedetto Giuseppe Labre. Il Capitolo Romano aveva preparato una giornata per illustrare la vita del
Santo e per visitare le chiese e i luoghi e da lui frequentati. Adesso su un cartello leggo che il terziario francescano
Giuseppe Andrea Rodio (1743-1819), amico di S. Benedetto Labre, si fece eremita qui e restaurò a fondo il santuario
scavando da solo, a colpi di piccone per 14 anni ininterrottamente una scala in galleria nella viva roccia per consentire
una maggior comodità d’accesso alla Grotta della Madonna.
Francisco è rimasto davanti al quadro della Vergine
e non mi sento di disturbare la sua concentrazione
e la sua preghiera.
Fa sempre una certa impressione
vedere un uomo immerso nella preghiera.
Intanto il tempo passa
e rimaniamo soli nel Santuario.
Alla fine dico a Francisco che è ora di uscire.
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Per fortuna troviamo Siro, l’autista amico di Giancarlo,
che ci aspetta fuori dal santuario e ci accompagna alle auto.
Arrivati a Nepi riprendiamo il cammino con le mantelline, perché pioviggina. Anche oggi ho lasciato lo zaino in
macchina, perché la vescica mi dà ancora un po’ di fastidio.
Imbocchiamo l’antica Via Amerina .
Davanti a un cartello esplicativo Giancarlo ci spiega che la conquista romana dell’antica Falerii Veteres (Civita
Castellana) del 240 a.C. e la successiva fondazione di Falerii Novi (di cui fra poco vedremo i resti) segna la definitiva
romanizzazione del popolo falisco.
Ne è prova la costruzione di due assi viari che attraversavano l’ex-territorio falisco: la Via Flaminia (220 a.C) e la Via
Amerina (241 a.C.).
Via Amerina
Il percorso della Via Amerina propriamente detta collegava Falerii Novi alla città umbra di Amelia (Ameria), da cui
prendeva il nome, mentre il tratto che-partendo da Mansio ad Vacanas (Baccano- Campagnano Romano) al XXI miglio
della Via Cassia raggiungeva Falerii Novi- era conosciuta come Via Annia.
La distanza totale da Roma ad Amelia era di 56 miglia come riferisce Cicerone nell’ “Orazione Pro Sexto Roscio
Amerino” (80 a. C.). Tale distanza viene pressoché confermata dalla Tavola Peutingeriana che di miglia ne segna 55,
cioè 21 da Roma alla Mansio ad Vacanas sulla Cassia e altre 34 fino ad Amelia.
(Un miglio romano equivale a m.1.478,50) (56x1478,5=83 km circa)
Cicerone, nella sua celebre arringa in difesa dell’amico Sesto Roscio Amerino ricorda che il tratto Roma-Amelia si
poteva percorrere anche in 10 ore. Però: una bella media, anche per un giovane senza zaino! Forse…con l’aiuto di un
cavallo…una media oraria di circa 8/9 km è possibile.
Non si trattava di un normale processo, ma fu il processo del secolo.
Un brivido aveva scosso improvvisamente l’Urbe: nell’80 a. C. un anziano patrizio di Amelia era stato assassinato e il
figlio Sesto Roscio Amerino apparve subito come l’unico possibile mandante dell’orrendo delitto, con l'esito del processo
in apparenza già scritto e con la prospettiva di una condanna a morte per parricidio. L’accusa era sostenuta da Crisogono,
un potente liberto amico del dittatore Silla.
Soltanto un giovane e inesperto oratore di 25 anni quale Marco Tullio Cicerone avrebbe potuto accettare l'incarico di
difendere Sesto Roscio e di attirarsi le inevitabili rivalse di Silla.
E qui Cicerone dimostrò tutta la sua abilità, colmando Silla di lodi in ogni possibile occasione del processo per
inchiodare Crisogono alle sue responsabilità e per allontanare ogni sospetto su Silla a copertura delle manovre di
Crisogono.
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La linea tenuta da Cicerone:
- il padre di Sesto Roscio era stato ucciso su mandato di due suoi parenti, in combutta con Crisogono. Costui poi aveva
fatto inserire il nome dell’ucciso nelle liste di proscrizione allo scopo di poterne acquistare all’asta, a un prezzo irrisorio,
le grandi proprietà terriere.
Cicerone vinse il processo, ma temendo le reazioni di Silla, partì per la Grecia per perfezionare la sua conoscenza della
lingua di Omero e ritornò a Roma dopo la morte di Silla ( 78 a. C.)
L’eco e la fama di Di Pietro è ben poca cosa rispetto a quella che guadagnò Cicerone in quei tempi.
Usciamo dalle pagine di storia e riprendiamo il cammino, nei campi.
Su un breve tratto della Via Amerina ben conservata si possono ancora vedere lastroni di pietra tagliati (come vien fatto
sui nostri marciapiedi per facilitare la salita e la discesa delle carrozzine dei disabili) per consentire l’uscita di un carro
quando ne incontrava un altro proveniente in senso opposto.
Gli scarponi affondano quasi interamente nel terreno. Si entra successivamente su una carrareccia
e- fra il Fosso Tre Ponti e il Fosso Maggiore - la Via Amerina passa ai lati di tombe rupestri davvero suggestive e
impressionanti. Per centinaia di metri procediamo sul basolato del’antica via, che sembra scavata fra alte pareti di tufo,
in cui sono state scavate tombe di diverse forme e ampiezze. E’ la necropoli denominata “Cavo degli Zucchi”
(III sec. a.C.-III sec. d.C.)
Fale
Arriviamo a Falerii Novi, l’insediamento che i Romani costruirono per trasferire la popolazione falisca superstite in una
sede aperta e quindi meno difendibile, dopo la distruzione della loro roccaforte in Falerii Veteres (Civita Castellana).
Più tardi, tra il VI e il VII sec, la popolazione rurale cominciò a riunirsi in villaggi fortificati , i “castri”, sotto la
protezione di un Signore, il quale legava i contadini alle sue proprietà. Tra l’VIII e il IX sec. dai fondi rimasti deserti
nascono le “domuscultae”, aree agricole a coltura mista di una certa estensione, amministrate del Papato, che aveva
incominciato a governare economicamente il territorio dopo la donazione di Sutri.
Lo scopo delle “domuscultae”, fortemente volute dai due papi Zaccaria e Adriano I, era quello di colonizzare
nuovamente le campagne abbandonate e di essere fonte di approvvigionamenti per i poveri di Roma.
Entriamo da Porta Giove, ammiriamo dall’esterno il complesso dell’antico monastero e visitiamo i resti del Foro.
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Dopo una breve sosta in un bar vicino alla stazione di Falerii Novi arriviamo a Gallese in auto perché i sentieri sono
impraticabili.
Sempre in auto, su carrarecce, raggiungiamo-in località “ San Famiano a Lungo”- l’eremo dove S. Famiano visse gli
ultimi mesi della sua vita e compì il suo primo miracolo: fece sgorgare una sorgente da un lastrone di tufo.
Giancarlo ci fa conoscere la storia del Santo, ricordandoci che domattina il parroco di Gallese ci inquadrerà meglio la
figura di questo “pellegrino” quando visiteremo la chiesa in cui è sepolto.
In breve: nato a Colonia nel 1090, venne chiamato Quardo (Gerhard, Gerardo) e più tardi Famiano per la fama
acquistata con i miracoli da lui fatti.
Il 17 luglio del 1150 giunse a Gallese dopo che dal 1108, a diciotto anni, aveva intrapreso un lungo pellegrinaggio
attraverso i Santuari italiani.
Proseguendo quindi per Compostela, Quardo si fermò nel piccolo monastero dei SS. Cosma e Damiano (Oseira, in
Galizia) dove, presi i voti religiosi, rimase per venticinque anni.
Nel 1150 giunse nuovamente in Italia di ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa, ma proprio a Roma, gli Apostoli
Pietro e Paolo in sogno gli indicarono in Gallese la meta del suo ultimo pellegrinaggio.
Il 17 luglio Quardo, giunto nel territorio gallesino, stremato dalla sete, percosse una parete tufacea e ne sgorgò,
miracolosamente, una fonte di acqua. In Gallese, Quardo fu ospitato da Ascaro che venne guarito, per intercessione di
Quardo, da una grave malattia.
Ormai infermo, il monaco espresse il desiderio ultimo di voler trovare sepoltura in una grotta ai piedi della collina e nei
pressi di un corso d'acqua. L'8 agosto 1150, giorno della sua morte, tutto il popolo di Gallese onorò la salma
trasportandola nel luogo indicato dove ebbero inizio le prime guarigioni miracolose. Il corpo poggia ancora oggi sul
tufo dove fu adagiato. Nel 1154 Adriano IV canonizzò Quardo mutando il suo nome in Famiano a testimonianza della
fama dei suoi miracoli.
Ci raccogliamo in preghiera davanti alla cappella, prima di raggiungere il vicino Agriturismo dove pernotteremo.
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Domenica 10 gennaio
Gallese-Orte- Penna in Teverina
Prima di partire, Giancarlo ci indica la forma inconfondibile del Monte Soratte, che si staglia all’orizzonte. Ci fermiamo
volentieri ad ammirare il panorama, anche perché non piove e si vede addirittura qualche squarcio di azzurro.
Ricordo i versi di Orazio:
sua neve abbondante…).
« Vides ut alta stet nive candidum Soracte... » (Guarda come il candido Soratte si nota per la
Qualcuno mi dice che il profilo del monte, visto dall’altra parte, ricorda l’immagine stilizzata del Duce con l’elmetto in
testa, impressa sulle monete nel periodo fascista.
No, sul Soratte non c’è neve, ma i Monti Sibillini e il Terminillo sono ben imbiancati.
Nella chiesa di Gallese, il Parroco ci accoglie e ci parla diffusamente di San Famiano. E’ molto devoto a questo Santo, ne
parla con sincera commozione. Quando hanno sistemato la tomba nell’attuale cripta, non ha voluto ispezionare il corpo
del Santo sotto il suo manto per verificarne lo stato di conservazione, temendo di compiere un gesto di curiosità più che
di devozione.
Ai lati della tomba si legge la frase che S.Famiano pronunciò prima di morire: “ Servate corpus et videbitis magnalia” (
“Conservate il mio corpo e vedrete miracoli”).
Il Parroco
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Strana la vicenda di questo santo: compì due miracoli negli ultimi giorni della sua vita e innumerevoli miracoli subito
dopo la sua morte, tanto che, per la fama che ebbe, il suo nome fu cambiato da Quardo (Gerardo) in Famiano e fu
canonizzato quattro anni dopo la sua morte.
Su un altro cartiglio si legge : “Incorruptus hic jacet divus Famianus” ( Qui giace il corpo incorrotto di S. Famiano).
Dopo una preghiera e confortati dalla benedizione del parroco partiamo.
Sopra la chiesa, sopra la rupe si affacciano le case del centro storico.
La finestra di Ascaro, il nobile che ospitò S. Famiano
e che da lui fu guarito è ancora visibile..
Da lontano possiamo ammirare il colle su cui è arroccato l’antico borgo di Gallese.
Dopo un breve tratto sull’asfalto, procediamo su una strada
bianca.
Su uno spiazzo si erge una stele raffigurante S. Famiano, opera di uno scultore rumeno di una certa fama, Demetrescu,
che si ritirò in queste zone per sfuggire alle persecuzioni nei tempi della dittatura di Ceausescu. Giancarlo ci dice che
quest’opera è stata benedetta da Papa Giovanni Paolo II prima di essere trasportata qui.
Giancarlo ci mostra ai bivi dei sentieri le “mestaiole”, edicole che hanno all’interno affreschi raffiguranti i santi patroni
del luogo o santi particolarmente venerati nei vari periodi oppure la Madonna in trono con Santi: la Maestà, appunto, che
ha dato il suo nome a queste cappelle. Mestaiola significa piccola maestà.
Arriviamo a Castel Bagnolo, un piccolo insediamento,
che conserva tracce di luoghi di accoglienza di antichi
pellegrini e visitiamo il santuario di Santa Maria di Loreto,
addossata all’antico castello dell’XI sec.
La chiesa conserva una bellissima statua in legno d’olivo
della Madonna di Loreto e tracce di affreschi del XVI sec.
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Interno del piccolo santuario mariano
Si cammina su una larga carrareccia su un altopiano, immersi in una zona faunistica (sono in corso varie battute al
cinghiale), archeologica, dove si alternano noccioleti, uliveti, pascoli, segnalazioni di numerosi agriturismi.
Incrociamo vari cacciatori sulle loro jeeps. Giancarlo incontra un suo vecchio collega ,che dopo la pensione, aveva
soggiornato fra le tribù di indiani nel Nord America.
Giancarlo ci mostra la zona in cui ci sono i ruderi dell’eremo di S. Nicolao, in cui S.Francesco sostò 16 giorni di ritorno
da Roma dopo l’approvazione della prima regola da parte del papa Innocenzo III. I campi sono allagati e non possiamo
raggiungere il sito.
Intanto è uscito il sole e ci alleggeriamo delle mantelline e delle felpe. In questo armeggiare di indumenti e zaini, Sandro
si accorge di aver lasciato gli occhiali al ciglio del sentiero. Mentre torna a cercare gli occhiali, noi ci scaldiamo al sole,
ammiriamo dall’alto Orte, la nostra prossima meta intermedia ed ascoltiamo Giancarlo che ci prepara alla visita della
città.
Sandro ritorna brandendo i suoi occhiali. E’ una fortuna che nel gruppo ci sia una persona spontanea e allegra come lui.
Con le sue battute, con le sue barzellette e il suo modo spiritoso di fare diffonde continuamente il buonumore. Ormai lo
chiamiamo Romoletto, perché così lo chiama il suo amico Roberto per il fatto che è vissuto a Roma prima di trasferirsi a
Perugia.
Una lunga discesa ci porta ad Orte. Saliamo en entriamo nella città murata. Dall’alto osserviamo il corso del Tevere, i
resti del ponte romano e la piana che fu teatro di battaglie in epoca romana. Qui gli antichi Romani difendevano l’Urbe
dall’assalto dei nemici, il Tevere era considerato un limite sacro, un confine invalicabile.
Visitiamo il Museo Diocesano (che raccoglie le opere d’arte di varie chiese della città e della zona che altrimenti
rimarrebbero incustodite) situato nell’antica chiesa romanica di S. Silvestro
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dell’XI sec ed ammiriamo, fra l’altro, un prezioso frammento di mosaico con la figura della Madonna (VII sec.) e una
tavola a fondo oro con la figura di S. Francesco della fine del 1.200.
Visitiamo il Museo delle Confraternite, realizzato all’interno della grande sacrestia della Chiesa di Santa Croce (nello
strano complesso che ingloba anche la Chiesa di S.Agostino e l’oratorio di S.Egidio) originariamente ospedale, che
conserva la più bella suppellettile delle Confraternite Ortane. Gli oggetti devozionale esposti sono utilizzati il Venerdì
Santo per la “Processione del Cristo Morto”.Un membro di una Confraternita Ortana, amico di Giancarlo, ci guida nella
visita, che si conclude nella farmacia del vecchio Ospedale.
Salita ad Orte
Alla fine del 1.600 le Confraternite gestivano ben quattro ospedali nella città : uno riservato agli uomini, un altro alle
donne , il terzo per i convalescenti e il quarto per i pellegrini. E’ testimoniato così l’enorme flusso di pellegrini su queste
vie.
Passiamo davanti alla Cattedrale osserviamo nella piazza la Grande Fontana Ipogea, il terminale dell’antico
acquedotto,che per secoli ha fornito la città di acqua potabile.
Dopo uno spuntino, scendiamo da Orte, attraversiamo il Tevere e camminiamo su una provinciale riparati dalle
mantelline perché il cielo si è coperto, tira vento e qualche spruzzata arriva.
Orte da lontano
Arrivo a
Penna
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Camminiamo in una valle su una strada ondulata e con tornantini di moderata pendenza.
Chi ha preso scorciatoie fra queste curve è stato invitato a sostare da compiacenti richiami femminili scanditi in un
dialetto romanesco di importazione…. Le sirene del pellegrino?!
Nel tardo pomeriggio arriviamo a Penna in Teverina, meta dell’odierna tappa. Ci sistemiamo in un’accogliente struttura
della parrocchia: nel piano rialzato ci sono tre dormitori con letti a castello.
I locali sono riscaldati e ho anche una sistemazione comoda: nella piccola stanza di quattro posti siamo soltanto in due: io
e Paolo. Possiamo stendere tranquillamente i vestiti ad asciugare.
Durante la messa il parroco e il vicario vescovile ci presentano ai parrocchiani e si congratulano con noi invitando i fedeli
a seguire il nostro esempio di testimonianza di fede: la cosa mi imbarazza un po’.
Giancarlo, che è conosciuto in questa città,
è invitato dal sacerdote a spiegare
il significato del nostro pellegrinaggio.
Alla fine della messa,
il parroco ci dà la sua benedizione .
Visitiamo il presepe artistico
allestito in un locale vicino alla chiesa
e ci rechiamo nel salone per la cena
assieme ai due sacerdoti, a un gruppo di parrocchiani
e ai ragazzi che frequentano il catechismo.
Più che una cena è un banchetto:
non ci resta che rimanere stupiti di fronte a tale ospitalità.
Durante la cena il parroco ci avvisa
che si sta per realizzare un suo sogno :
allestire un “botafumeiro” sulla piazza del paese
per ricordare i pellegrini del passato
e quanti percorrono ancora queste vie
per visitare i Luoghi Santi.
La giornata è stata piena di eventi. Inoltre mi sento bene.
Domani camminerò con lo zaino.
Maurizio
Parroco di Penna e Vicario Vesc.
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Lunedì 11 gennaio
Penna in Teverina- Amelia
Ho dormito veramente bene e a colazione c’erano le torte offerte dalla comunità parrocchiale.
Il tragitto è breve e si cammina su strade asfaltate sotto una leggera bruma. In basso la vallata è coperta di nebbia: si
riesce solo a immaginare un paesaggio incantevole. Si procede speditamente.
Sandro (Romoletto) trova anche dei funghi ai margini del bosco: li cucinerà stasera. Al culmine del dosso che porta ad
Amelia, Giancarlo ci indica il Montenero, un panettone ricoperto da conifere scure, che danno il nome a questo colle,
riconoscibile e facilmente identificabile in tutto il circondario per la sua forma e il suo colore.
Deviamo su una stradina che immette al Santuario dell’Annunziata, uno stupendo convento immerso nella natura tra i
colli amerini. Il complesso è a tre chilometri da Amelia e venne eretto nel XV secolo su un preesistente eremo.
Nel convento, che appartiene ai francescani, si può ammirare il magnifico Presepe Permanente realizzato in gesso dal
celebre “presepista” spagnolo Juan Marì Oliva, che lo terminò nel 1968.
Non sapevo che nel campo artististico esistessero anche i presepisti.
Veramente merita una visita, perché ha una sua grazia, una sobrietà, un’ambientazione che evoca suggestioni.
A mezzogiorno arriviamo nella struttura della parrocchia di S. Massimiliano Kolbe.
Le solite incombenze: docce, lavaggi biancheria ( c’è chi rischia di lavare sperando che qualcosa asciughi anche con
l’aiuto del phon), sistemazione sulle comode brande militari.
Verso le tre arriva Giancarlo, che ci accompagna nella vista di Amelia, la sua città.
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Osservare vie, palazzi, monumenti, raccontati da chi è nato e vissuto qui e che si batte da anni perché le memorie del
passato non vadano perdute o ignorate è un’esperienza unica perché la storia si unisce alla vita e non si ferma alla mente,
ma entra in un flusso di sensazioni e di emozioni.
Così il viaggio nella storia incomincia dalle mura,
davanti a Porta Romana, su cui campeggia la scritta
“A.P.C.A.”Antiani Populi Civitatis Ameriae”
(Gli anziani del popolo della città di Amelia)
e “Civitas Mariae Virginis” (Città di Maria Vergine) sovrastata
da un’immagine dell’Assunta del XV secolo.
Queste mura monumentali, eccezionali
per estensione e stato di conservazione
risalgono al periodo pre-romano (IV sec. a.C.)
e si estendono ai due lati di Porta Romana ,
per circa 800 metri e sono formate
da blocchi megalitici, detti poligonali
per la loro forma: geometrica, ma non regolare.
Si collegano a queste le mura romane e medievali,
formando una cinta muraria lunga circa due chilometri.
Sorta e sviluppatasi molto prima di Roma,
Amelia conobbe un periodo molto florido nell’era romana,
come dimostrano i resti di mosaici, cisterne,
terme e di numerosi reperti (tra cui una statua di Germanico)
conservati nel locale Museo Archeologico.
Alla fine del III secolo d.C.
durante le persecuzioni contro i cristiani
subirono il martirio i due Patroni della città :
Fermina e Olimpiade.
Olimpiade, un uomo appartenente a un elevato ceto sociale,
aveva tentato di sedurre Fermina, figlia del prefetto romano della città.
La giovane riuscì a convertire il suo seduttore, tanto che questa conversione portò Olimpiade al martirio. Un anno dopo la
stessa sorte capitò a Fermina.
Stemma dei Geraldini
Spedale S. Maria dei Laici
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Varchiamo Porta Romana, Giancarlo ci indica gli Ospedali di varie confraternite, che accoglievano pellegrini. Passiamo
davanti alla casa di Alessandro Geraldini (1455-1525), che abbandonò la carriera militare diplomatica per diventare
sacerdote. Nominato vescovo, divenne confessore della Regina Isabella di Spagna ed educatore delle sue figlie e nipoti.
E proprio questa familiarità con i reali di Spagna consentì a Geraldini di intervenire a favore di Cristoforo Colombo per
il suo viaggio verso le presunte Indie Occidentali. Il richiamo dell’avventura divenne forte anche per un uomo di chiesa
come lui e ottenne dal papa il permesso di partire per il Nuovo Mondo con il titolo di Vescovo di Santo Domingo, ove
approdò soltanto nel 1519, dopo aver svolto varie attività diplomatiche e preparato i lavori per il Concilio per il
Pontefice. Fu il primo vescovo americano.
L'opera evangelizzatrice, unita all'instancabile forza organizzatrice, permearono la vita "americana" del primo vescovo
d'oltreoceano negli anni seguenti e tanto prodigarsi fu stroncato soltanto dalla morte, sopraggiunta improvvisa l'8 marzo
del 1524.
Giancarlo ci dice che la figura di questo vescovo umbro è ancora molto onorata in Santo Domingo.
Sulla sommità del colle che domina Amelia si erge la Torre Civica, che ha rappresentato per la città il simbolo delle
libertà comunali. Per altri è più semplicemente la torre campanaria della cattedrale, fatta erigere dai vescovi della città.
La pianta dodecagonale si riferisce probabilmente ai dodici segni zodiacali, tradotti nell’iconografia cristiana dei dodici
Apostoli. Un’iscrizione la dice eretta nel 1050, in realtà potrebbe essere antecedente. Nella parte bassa della torre sono
inseriti reperti di epoca romana, tra cui una meridiana.
Si dice che da ciascuno dei dodici lati della torre parta un cunicolo sotterraneo, che raggiungerebbe i diversi punti della
città.
La tradizione vuole che i cunicoli fossero costruiti come vie di fuga della popolazione da utilizzare in caso di invasioni.
Giancarlo ci ricorda che il suono delle campane si sente in tutta la vallata in un raggio di oltre 5 chilometri, in alcuni
punti anche a 10 chilometri di distanza, praticamente per quasi tutto il territorio comunale.
Vicino a questa poderosa torre ammiriamo il Duomo, che si è costruito inglobando una precedente chiesa del IX sec. La
costruzione subì vari rifacimenti in seguito ai danni causati da Federico II Barbarossa, incendi, terremoti. Il duomo è
dedicato a S. Fermina.
Entrando, a destra, si vede la colonna che la tradizione collega al martirio della Santa, le cui ceneri sono sotto l’altare
maggiore. In una cappella ci sono due stendardi tolti ai Turchi a Lepanto.
Il nostro stendardo per fortuna è in buone mani.
Sulla parete a sinistra dell’altare è esposta la copia della "Croce dell'Evangelizzazione" che, nel 1514, fu benedetta ed
innalzata da Mons. Alessandro Geraldini, primo Vescovo che arrivò nell'Isola "La Española"-- corrispondente
attualmente alla Repubblica Dominicana e ad Haiti --che Giovanni Paolo II ha consegnato nel 1986 alla Diocesi di
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Amelia. Una copia della stessa è stata collocata a Roma nella Basilica di San Pietro, dove si può vedere a sinistra di chi
entra di fronte alla famosa statua bronzea del “Pescatore” in trono cui i pellegrini baciano il piede.
Nell’abside ci sono tele del XVI sec., tra cui il martirio di S.Fermina e il battesimo di Olimpiade, opera del Pomarancio.
Questa basilica ha un particolare fascino: contiene, avvolge, esalta lo spirito.
Palazzo Nacci
Si è fatto buio ed è giunta l’ora della messa, a cui parteciperemo nella Chiesa di S. Massimiliano Kolbe, che
raggiungiamo lasciando alle spalle Porta Romana.
Il parroco padre Giuseppe ofm ci presenta agli altri fedeli e ci illustra la figura di S. Massimiliano Kolbe, che visse nel
1917 in Amelia, ospite del vescovo. Al termine della messa il parroco ci dà la sua benedizione.
Raggiungiamo il salone, situato proprio sotto la chiesa, in cui passeremo la notte.
I cuochi del gruppo: Franco, Maurizio e Romoletto preparano una cena abbondante e saporita.
Non manca proprio niente: antipasto, dolce, caffè, digestivo……
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Martedì 12 gennaio
Amelia- Castel dell’Aquila
Anche oggi è una breve tappa di trasferimento.
Lasciamo il salone parrocchiale alle 8.30. Alla Porta Romana ci aspetta Giancarlo per proseguire la visita alla città. C’è
nebbia, raffiche di vento gelido, per fortuna non piove: è già una consolazione. Subito dopo la porta rivediamo gli antichi
Ospedali di vari ordini e confraternite(S. Antonio Abate, S. Filippo Neri, S. Vincenzo de’Paoli….)
Giancarlo ci spiega come veniva predisposta l’accoglienza ai pellegrini, raccontando una serie di episodi tratti da
documenti dell’epoca. Entriamo nell’ Ospedale di S. Maria dei Laici e rivisitiamo la mostra di immagini, documenti
che attestano il flusso dei pellegrini in vari secoli. Niente di paragonabile rispetto alla scarna documentazione “ufficiale”
che i posteri potranno disporre sui pellegrinaggi del nostro tempo. Adesso abbondano diari, resoconti, servizi fotografici:
prevale la dimensione personale del pellegrino. Allora era tutta una comunità che si mobilitava intorno al pellegrino, con
tutto quello che comporta: decreti, disposizioni delle autorità locali per regolare la sosta dei pellegrini, forse perché il
pellegrino era considerato una figura non marginale all’interno della città, ma quasi come un cittadino. Almeno così mi
sembra.
Giancarlo apre il portone della sua casa e ci mostra una novità: sta attrezzando in un salone a pianterreno un piccolo
rifugio che potrà ospitare entro un anno o forse meno un piccolo gruppo di pellegrini. Però !…..
Ormai conosciamo un po’ le vicende storiche di Amelia e … siamo quasi pronti e preparati a rispondere alle domande
della nostra guida. Abbiamo imparato che Amelia nel medioevo era una città guelfa, alleata al Papa ( per questo il
Barbarossa la mise a ferro e a fuoco), e che nel corso dei secoli si insediarono rami cadetti della nobiltà romana legata al
Pontefice e numerosi monasteri, seminari, conventi, chiese di vari ordini religiosi. Amelia si è caratterizzata nel corso dei
secoli come centro di vita religiosa, culturale, diplomatica; una specie di succursale dell’Urbe.
Chiesa
S. Agostino
Cisterna romana di
Amelia
Foto di repertorio
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Saliamo alla Piazza Matteotti, sede dell’antico mercato . Su una lastra sono incise le unità di misura del tempo per una
verifica immediata della lunghezza delle stoffe acquistate . Su una loggia una piccola tribuna da cui l’araldo comunicava
gli avvisi e gli ordini dell’autorità comunale. Questa piazza era sede dell’antico foro in epoca romana. Non abbiamo il
tempo per visitare le imponenti cisterne romane, ubicate proprio sotto questa piazza. Si tratta di un complesso impianto di
approvvigionamento delle acque probabilmente pluviali, costituito da dieci grandi ambienti
impermeabili, comunicanti tra di loro per la raccolta e la conservazione dell’acqua da usare per bagni termali,, per fini
potabili, per la fornitura idrica alle fontane.
Passiamo davanti ai palazzi rinascimentali: Palazzo Petrignani, Palazzo Nacci e Palazzo Farattini (opera giovanile di
Antonio di Sangallo), sede di una nobile famiglia che espresse figure di rilievo alla corte papale (tra cui un cardinale) e
che seppe amministrare con oculatezza il patrimonio accumulato, come è inciso sulla facciata.
Palazzo Nacci- sec.XI
Palazzo Farattini-sec.XVI
Palazzo Petrignanisec XVI
Ammiriamo la facciata di alcune basiliche: la chiesa romano-gotica di S.Agostino che ha un pregevole portale gotico, la
chiesa di S. Francesco con la facciata di pietra rossa.
Poco prima di mezzogiorno lasciamo Amelia da Porta Romana e costeggiando le mura scendiamo verso la valle del Rio
Grande. E’ uscito anche il sole e finalmente non sento più le dita intirizzite. Sarà una giornata dai due volti: il momento
storico-culturale nebbioso, ventoso e gelido e il momento naturalistico soleggiato, sereno, distensivo. Un bagno di natura
dopo un bagno di cultura.
All’imbocco della carrareccia ci attendono tre pellegrine di Amelia, amiche di Giancarlo, che ci accompagneranno nella
tappa odierna. Sono contente di camminare con noi per rivivere un po’ il ricordo dei pellegrinaggi passati e questa
presenza femminile fa circolare un’aria di famiglia dopo giorni vissuti in un clima cameratesco.
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Il panorama si ravviva in forme, luci e colori; si attraversa il Rio Grande su ponti di legno nuovi che ancora hanno un
odore di resina, si guardano le cime dei colli animate da casolari, castelli, torri di guardia.
A metà del crinale del Monte Piglio, sostiamo per una visita allo Spedale di S. Giacomo, il più antico dei vari ospedali
per pellegrini esistenti nella zona. Era chiamato S. Giacomo de Redere: il termine “redere “ potrebbe essere tradotto
come: strada carrabile.
Questo è un segno evidente di come l’antica Via Amerina fosse ancora uno dei percorsi privilegiati da quanti si
recavano a Roma o a S. Giacomo di Compostela per venerare le reliquie degli Apostoli .Il primo documento pervenuto è
del 29 marzo 1156, quando venti cittadini di Amelia donarono i loro terreni, posti alle falde del Monte Piglio, a un
gruppo di persone fra cui vi era anche un prete, che gestiva questo luogo di preghiera, “perché vi aprissero un ospedale
che desse alloggio ai pellegrini poveri”. Col passar dei secoli questo”ospitale”andò in disuso finchè nel 1550 fu
acquistato dai Padri Cappuccini, che lo trasformarono nel complesso conventuale in cui tuttora risiedono.
Un frate ci accompagna nella visita, ci illustra brevemente la storia, di cui Giancarlo ci ha in precedenza ampiamente
documentato.
Maurizio, che sa trovare le parole giuste per orientare la nostra preghiera e le nostre intenzioni della giornata ci dispone a
un breve raccoglimento prima di ricevere la benedizione del frate guardiano, che anche lui porta il nome di Maurizio.
Percorrendo vari dossi in uno scenario incantevole, mentre Giancarlo ci incuriosisce raccontando tradizioni, usanze,
leggende del luogo e ci indica i vari agglomerati sorti attorno a torri di guardia e a fortini sparsi sui colli, che
testimoniano le direttrici di antiche vie. Ammiriamo dall’alto la conca in cui il Rio Grande precipita da un’incantevole
cascata prima di formare un piccolo lago, chiamato Lagoscello. E’ uno scenario pittoresco.
In un bar di Sambucetole facciamo una breve sosta e all’incrocio del sentiero con la provinciale passiamo davanti a un
antico ospizio di pellegrini, che è inserito in un’azienda agricola denominata S. Maria in Canale. Di fronte i resti di un
ponte della antica via Amerina.
Da lontano cominciamo a vedere il colle su cui è adagiato Castel dell’Aquila, che si caratterizza con un sottile e
slanciato campanile e un tozzo torrione, entrambi di un color grigio scuro.
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Il parroco ci aspetta e ci accoglie in un ampio salone riscaldato, dotato di cucina. Dai finestroni si ammira la vallata.
Questo locale sembra immerso nel paesaggio, quasi sospeso .
Le docce, caldissime e numerose, si trovano nella vicina palestra comunale. Ho anche il tempo per una breve visita al
borgo e vedere da vicino la torre a base quadrata e i due torrioni rotondi che delimitano l’accesso al bastione, che
costituiscono una parte del castello del XIII sec. La porta è sormontata da un’aquila che artiglia una tovaglia. E’ lo
stemma della città di Todi che evidentemente in passato dominava anche questo paese.
Nel tardo pomeriggio partecipiamo alla messa. Ormai siamo abituati a ricevere complimenti e congratulazioni per il
nostro cammino, anche se si prova un po’ di imbarazzo a sentirci chiamati e additati come testimoni di fede. La chiesa
parrocchiale è dedicata a San Marco e S. Giacomo. Dopo la benedizione, il parroco ci invita a baciare una reliquia di S.
Giacomo.
Sandro, Franco e Maurizio preparano per noi una cena coi fiocchi: risotto alla milanese, polli ruspanti acquistati da una
signora del posto che li alleva in campagna per uso familiare, deliziosi arrostiti con vari aromi e con contorno di verdure,
salumi , formaggi, frutta, dolce…..
Le cene preparate dai nostri chef cominciano a diventare una simpatica caratteristica di fine giornata. Ci ripromettiamo
sempre di essere più sobri, ma tant’è……..
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Mercoledì 13 gennaio
Castel dell’Aquila - Todi
Lasciamo il salone parrocchiale alle 8.30. Percorreremo un tracciato lungo la Via Amerina, quasi interamente delineato
da strade bianche. Il nostro stupore é continuo: si aprono in continuazione davanti a noi scenari toccati dalla grazia e
dall’armonia . C’è una leggera bruma, non vedremo mai il sole se non raramente e in forma di disco opalescente dietro
una cortina lattiginosa. Lo sguardo comunque riesce a spaziare fino all’orizzonte delimitato da cime innevate da una
parte e dalle linee verdi e scure di colli vicini e lontani dall’altra. Le fotografie si sprecano.
Giancarlo ci segnala i vari castelli e fortificazioni del periodo gotico-bizantino sorti lungo il corridoio della Via Amerina
e successivamente divenuti le basi di piccoli insediamenti rurali, in quanto i soldati di guardia avevano fatto confluire le
famiglie e dato vita a comunità agricole, che poi pian piano diversi sono diventati i paesini di oggi .
Passiamo davanti alla massiccia struttura dell’Osteriaccia (sec.XV-XVI), dove il gestore, un certo Romoletto di altri
tempi- secondo una voce tramandata in loco- serviva pasti che i clienti (pellegrini o viaggiatori) avrebbero rifiutato se ne
avessero conosciuto la provenienza. Oltre non scrivo per non urtare l’altrui sensibilità.
Così diventa naturale fotografare Romoletto ( alias Sandro) davanti a questo edificio, ancora ben conservato, nonostante
l’abbandono.
Arrivati alla mestaiola di S.Eurosia, Giancarlo ci propone di scegliere fra due percorsi: il primo lungo l’antica Via
Amerina su un sentiero reso poco praticabile dalle recenti piogge e con un vero guado di un piccolo affluente del fiume
Arnata oppure il percorso lungo la comoda carrareccia, che aggira il guado rimanendo a mezza costa, anche se di circa
due chilometri più lungo.
C’è il rischio di risalire e di percorrere necessariamente la carrareccia se l’acqua del torrente si fosse alzata troppo ed il
guado fosse impraticabile.
Decidiamo di rischiare.
Finora abbiamo camminato su sentieri fangosi, ma abbastanza praticabili. Da qui in avanti sarà solo fango e la creta farà
sentire il suo peso sotto gli scarponi.
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Scendiamo sul tracciato della Via Amerina lungo una ripida discesa, dove l’acqua ha scavato un profondo solco nel
mezzo delle sterrato. Poi lo sterrato si restringe ed il sentiero diventa una sottile traccia o si perde attraverso campi in cui
gli scarponi affondano quasi interamente.
Per fortuna Giancarlo conosce la zona e ci riporta di volta in volta sul vecchio sentiero.
Passiamo sui resti di un vecchio ponte, detto ponte Falcetta o della Falce, che testimonia l’antico tracciato della Via
Amerina.
Arriviamo al guado.
Si pensava di disporre massi e tronchi per facilitare il passaggio, ma questo richiederebbe troppo tempo con un risultato
incerto. Così, dopo che Roberto l’ha attraversato, senza cadere nell’acqua e bagnando interamente soltanto gli scarponi o
poco più, scegliendo il tratto meno profondo, guadiamo tutti con vari tempi e con varie difficoltà. C’è anche chi, come
Alfredo, si diverte a sostare nell’acqua per un prolungato pediluvio.
Attraversiamo un altro ponte medievale, ancora ben conservato, dove sostiamo per uno spuntino.
Resti di antichi spedali e alberghi testimoniano che stiamo percorrendo una via, che anticamente era davvero trafficata.
Verso le 14 tocchiamo per la prima volta l’asfalto, sulla provinciale che porta a Todi, che già da qualche tempo abbiamo
avvistato.
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Una ripida salita di circa un chilometro (le indicazioni danno il 15%) ci conduce davanti alla Porta Amerina
(o Porta Fratta).
Camminando lungo le mura arriviamo a Porta Perugina e saliamo lungo la via che ci porta al luogo del nostro
pernottamento: la casa per ferie del Monastero di S. Annunziata, in cui operano attualmente le suore “ Serve di Maria
Riparatrici”.
Dormiremo in una camera singola, riscaldata e ceneremo in un antico refettorio.
Alle 16 Giancarlo ci guida alla visita della città: il Duomo, Piazza del Popolo (considerata una delle più belle piazze
d’Italia), il Palazzo dei Priori.
Più a lungo sostiamo nel Tempio di S. Fortunato (vescovo di Todi) e patrono della città. Nella cripta si trova la tomba di
marmo di S. Fortunato e quella di Jacopone da Todi.
Alle 17.30 partecipiamo alla Messa in una chiesa vicina.
E’ stata per me una giornata faticosa, non tanto per la lunghezza, ma per il fango che ci ha obbligati a un percorso lento,
misurato, sempre attento a trovare punti d’appoggio sicuri per evitare scivoloni.
Il freddo nelle prime ore di cammino mi ha fatto gelare le dita, ma per fortuna la pioggia ci ha risparmiato anche oggi.
Comunque è stato un percorso memorabile.
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Cripta S. Fortunato
e tomba di Jacopone
da Todi
La cena nell’antico refettorio del convento, ampio, sui seggi secolari, è quasi solenne.
Maurizio, che è un esperto di mobili antichi, è ammirato della qualità e della lavorazione di questi legni.
Giovedì 14 gennaio
Todi- Deruta
Cominciamo bene la giornata con la colazione nel refettorio del convento, prima di recarci alla messa nel Convento delle
Clarisse, subentrate dal 1600 ai Servi di Maria. Il convento è ricco di opere d’arte, che non si possono fotografare.
Partecipando alla messa con la monache, si comprende cosa vuol dire “adorare”, “santificare” il Nome di Dio. Nella
chiesa vi è il grande affresco del “Purgatorio di S. Patrizio”, che è uno dei capolavori della pittura umbra del XIV sec.
L’affresco -datato 1346- raffigura il passaggio delle anime dal Purgatorio al Paradiso, per i meriti di Cristo, con la
mediazione della Madonna e quella del beato Filippo Benizi ( sec.XIII, priore dei Servi di Maria) e accolte da S. Pietro.
Il purgatorio è raffigurato, in maniera dantesca, come una grande montagna vista in sezione dove si aprono caverne poste
su due piani, ognuna corrispondente si sette vizi capitali: Queste e altre cose relative all’affresco ci spiega Sr. Paola dietro
la grata del parlatorio.
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Sr Paola è una clarissa che diffonde una grande vitalità con allegria ed entusiasmo. Il suo sogno è di pellegrinare a piedi
a S. Giacomo di Compostela. Volentieri si fa fotografare impugnando il nostro stendardo. Lasciamo Todi e,dopo una
ripida discesa sull’asfalto, camminiamo su un sentiero.
La giornata è serena. Procediamo di buon passo, perché il percorso si snoda quasi interamente sull’asfalto.
Visitiamo la Chiesa della Madonna dell’Acquasanta, che è collegata a vicende degli antichi pellegrinaggi.
Verso le 16 arriviamo alla periferia di Deruta in una comunità di recupero di giovani con esperienza di varie dipendenze.
La struttura è annessa al Santuario di S. Maria dei Bagni.
La storia di questo santuario è singolare. Alla metà del 1.600 un frate trovò qui ( località “Bagni”) un piatto fondo di
ceramica che recava una raffigurazione della Vergine seduta ,con il Bambino che quasi stava per sfuggirle di mano. Il
frate interpretò il movimento del Bambino come un gesto improvviso per soccorrere qualcuno in pericolo. Raccolse
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questa specie di tazza appiattita e la fissò provvisoriamente fra un intreccio di rami su una giovane quercia. Questo tondo
era venerato dalla gente del posto perché si diceva che avrebbe operato dei miracoli. Un merciaio di nome Cristoforo
provvide a fissarla stabilmente fra i rami di una quercia , perché varie volte era caduta e si era sbrecciata agli orli.
Qualche tempo dopo , nel marzo 1657, la moglie di Cristoforo si ammalò gravemente ed era prossima alla fine. Il
merciaio si recò alla quercia e implorò la grazia per la moglie. Tornato a casa trovò la moglie perfettamente guarita e
occupata nei lavori di casa. Da allora cominciarono i pellegrinaggi alla quercia. Fu costruita dapprima una cappella che
inglobava la quercia e verso la fine del secolo l’imponente Santuario nella forma attuale. Numerosi sono gli ex-voto sulle
pareti: oltre 700 le formelle di ceramica che raccolgono 350 anni di devozione alla Madonna della Quercia o “del
Bagno”. Nel 1980 molte formelle furono rubate e il Santuario rimase chiuso per sette anni. Per fortuna un buon numero
sono state recuperate. Adesso le “mattonelle” sono state fissate alle pareti in modo tale che si frantumano, se si dovessero
staccare.
Prof. Caucci
Giancarlo
Intanto Sandro e Roberto , che abitano a Perugia, ci hanno momentaneamente lasciati: hanno deciso di preparare nelle
loro case una cena per noi. Cenerà con noi anche il prof. Paolo Caucci von Saucken, rettore della Confraternita di S.
Jacopo di Compostella.
La cena è veramente speciale: antipasti vari; prosciutti, salami e formaggi nostrani, una pastasciutta con un sugo
particolarmente gustoso, una frittata agli asparagi, vini locali tra cui un favoloso Sagrantino di Montefalco…….Certo i
due non si sono risparmiati….
Bottiglie di ottimo vino di Benevento ha portato anche un pellegrino della zona, che ha camminato con noi e che è
conosciuto da una parte del gruppo..
Un’altra giornata finita in armonia.
E’ l’ultima serata che passeremo insieme….
Sandro (Romoletto) e Roberto
Franco
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Venerdì 15 gennaio
Deruta-Assisi
Oggi partiamo presto perché dobbiamo incontrare ad Assisi il gruppo di pellegrini della Confraternita del Capitolo di
Ascoli Piceno provenienti da Foligno per compiere insieme l’ultimo tratto da S. Maria degli Angeli fino ad Assisi.
Ci raccogliamo alle sette nel santuario per un momento di preghiera e per raccogliere le intenzioni della giornata.
Oggi cammineremo sempre sull’asfalto. Sostiamo davanti a un vecchio spedale di pellegrini per ascoltare Giancarlo che
ci spiega le varie parti che compongono questo edificio.
Attraversiamo Deruta, in un susseguirsi di saloni con esposizioni di manufatti di ceramica e maiolica, a Torgiano
deviamo per arrivare a Tordandrea per scendere poi nella piana di Assisi.
Cominciamo a vedere nettamente la cupola di S. Maria degli Angeli, che sembra a mezz’ora di cammino, ma la stradina
nei campi si diverte a contorcersi continuamente, tanto che la cupola sembra allontanarsi invece di avvicinarsi. Non so se
è l’effetto di un’illusione ottica o della stanchezza, più mentale che fisica, perché il panorama è anche suggestivo, ma
ormai la motivazione è concentrata soltanto su Assisi.
Poco dopo mezzogiorno arriviamo sul piazzale della Basilica di S. Maria degli Angeli, dove ci attende il prof. Caucci e
dove attendiamo l’arrivo dei confratelli di Ascoli, che nel giro di qualche minuto si uniscono a noi.
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Il prof .Caucci ci guida nella visita della Basilica in modo essenziale, perché si avvicina l’orario della chiusura. Abbiamo
comunque il tempo di raccoglierci nella chiesetta della Porziuncola e nel silenzio lasciarci invadere dal mistero, poi
visitiamo la vicina Cappella del Transito dove S. Francesco lasciò questo mondo.
La piccola struttura, infatti, non era altro che l’infermeria di quel gruppo di capanne in cui San Francesco aveva raccolto
il primo gruppo di frati. Il Santo morì in questo luogo il 3 Ottobre del 1226 dopo aver composto gli ultimi versi del
Cantico delle creature, quelli dedicati a "sora morte", e chiedendo espressamente di essere deposto sulla nuda terra. Sulla
parete sinistra della cappella è rimasta la porta in legno del 1200 e sull’altare, deposto in un reliquario, il cingolo usato
dal Santo; le pareti sono state affrescate intorno al 1520 da Giovanni Spagna con le immagini di alcuni Santi francescani,
e dei primi frati minori, mentre la statua di San Francesco che stringe in mano il Vangelo e la Croce in terracotta bianca
smaltata fu realizzata intorno al 1490 da Andrea della Robbia.
..con il gruppo di Ascoli
Dopo una breve sosta nei bar, riprendiamo uniti il cammino, per raggiungere il Palazzo Comunale, dove saremo ricevuti
dal Sindaco. Lungo la via si unisce a noi Chiara, che abita ed insegna ad Assisi.
Alle 15 entriamo nella Sala Consiliare, ci sediamo sui seggi ed ascoltiamo il Sindaco ed il prof. Caucci. Alla fine il
Sindaco di suo pugno timbra le nostre credenziali.
Il Sindaco di Assisi timbra e firma le credenziali
dei pellegrini
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Il prof. Caucci ci accompagna nella visita all’Oratorio dei Pellegrini, una piccola chiesa lungo la via che porta alla
basilica di S.Francesco. L’Oratorio è una piccola chiesa a forma quadrangolare ed è piuttosto nascosta fra le varie
costruzioni. Non appena si entra , nella sua quiete si ha modo di sostare e di ammirare i magnifici dipinti e gli affreschi
che contiene.
L’Oratorio era in origine la chiesa dell’ostello che ospitava i pellegrini che -sulla via di Roma- volevano rendere omaggio
alle spoglie di Francesco. La cappella è dedicata a Sant’Antonio Abate ed a San Giacomo di Compostela a cui sono
dedicati gli affreschi sulle pareti alla destra e alla sinistra dell’altare. Nell’affresco dedicato a S.Giacomo sono raffigurati
episodi relativi al miracolo di San Domingo de la Calzada (… i polli arrostiti, che si rivestirono di piume e ripresero a
razzolare e a cantare e il giovane pellegrino tedesco ingiustamente impiccato e salvato da San Giacomo…). Dietro
l’altare un pregevole affresco raffigurante la Madonna con il bambino e due santi pellegrini con i loro bastoni.
Il prof. Caucci ci intrattiene indicando negli affreschi i vari simboli presenti, che a noi sfuggono, ma che avevano un
significato ben noto ai pellegrini dei secoli scorsi. Successivamente fa rilevare come la visione di queste scene
rappresentava una lettura “europea” della fede cristiana, in quanto i pellegrini ritrovavano un’iconografia pressoché
identica nei vari ospedali e chiese europee sorte lungo le vie dei “cammini”. Quindi nella pittura si riconoscevano nella
stessa fede , ritrovavano la stessa via e si sentivano nella stessa patria. Senza volerlo, senza saperlo i pellegrini facevano
la loro parte per costruire un’idea di appartenenza alla cittadinanza europea.
Raggiungiamo la basilica di S. Francesco. Il prof. Caucci vorrebbe guidarci in una breve visita, ma un addetto gli ricorda
che questo compito è consentito solo alle guide provviste di regolare autorizzazione. Quindi ognuno cerca di ritrovare
negli affreschi, davanti alla tomba del Santo, chiostro, nella sala che conserva le reliquie quello che cerca e che vuole
trovare alla fine di questo pellegrinaggio. In una cappella della basilica inferiore partecipiamo alla messa.
Infine, sul piazzale delimitato da un ampio colonnato, il prof. Caucci ci consegna in forma ufficiale le credenziali che
sigillano così la fine del nostro pellegrinaggio.
E’ il momento dei saluti e degli addii.
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Francisco decide di rimanere nell’albergo per stare vicino il più possibile alla tomba del santo, di cui è davvero molto
devoto. Rimango con Giancarlo assieme ad Augusto, Gianni e Paolo: stanotte dormiremo nell’ Ospitale di San Giovanni
Battista e Giacomo a Ponte San Giovanni, nella parrocchia di don Paolo Giulietti, il sacerdote che ha celebrato la messa
nelle catacombe di S. Savinilla a Nepi e che sarà la guida della seconda tappa del Cammino verso Santiago (da Assisi a
Siena alla fine di questo mese)
Paolo partirà domani mattina, Gianni domani pomeriggio.
Ho deciso di rimanere ad Assisi un altro giorno, perché voglio conoscere i luoghi in cui ha vissuto S. Francesco e che
ancora non conosco ( S. Damiano, Rivotorto e l’Eremo delle Carceri).
Giancarlo e Roberto ci accompagnano in auto all’Ospitale di don Paolo, che dista una ventina di chilometri da Assisi.
Sabato 16 gennaio
Assisi
Prima delle sei Paolo ha lasciato il rifugio.
Verso le otto arriva Giancarlo e in auto raggiungiamo Assisi. Giancarlo è veramente instancabile: lungo il tragitto compie
continue deviazioni per mostrarci luoghi caratteristici: un vecchio ponte sul Tevere, su cui transitavano i pellegrini, resti
di antichi insediamenti…..
In Assisi ci aspetta Francisco e con lui iniziamo la visita con la casa natale di S.Francesco e la Basilica di Santa
Chiara.
Arriviamo al Santuario di San Damiano. Una scolaresca ha appena terminato la visita e noi siamo gli unici visitatori.
Come dice un libriccino , questo è davvero “ un luogo dello Spirito: chi non ha fretta ma tempo riuscirà a coglierne
l’anima”. Siamo nella condizione ideale per “… vedere e ascoltare. Ascoltare i luoghi e ascoltare le fonti: le povere
mura e i fatti operati dallo Spirito, che qui ardono come brace accesa sotto la cenere….” .
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E così in questo luogo povero iniziò l’avventura di S. Francesco. Come dice un suo biografo Tommaso da Celano:“
Condotto dallo Spirito, entrò a pregare nella chiesa di San Damiano. L’immagine di Cristo Crocifisso gli parlò
chiamandolo per nome: “Francesco, va’, ripara la mia chiesa”.
Giancarlo ci guida in un percorso che ci fa rivivere la vita di S. Francesco e la vita di Santa Chiara.
Uscendo dal Santuario si ha l’impressione di lasciare non un luogo, ma una storia.
In auto scendiamo verso Santa Maria degli Angeli per raggiungere il Santuario di Rivotorto, che protegge nel suo
interno il “Sacro Tugurio”, culla dell’Ordine Francescano. In questo piccolo eremo Francesco rimase per due anni (120911) con i suoi primi compagni di fede e qui dettò la sua Prima Regola, approvata oralmente dal papa Innocenzo III. Qui
Francesco cominciò a chiamare “Minori” i suoi discepoli. Formata così la prima comunità francescana, Francesco iniziò
alla pratica della mortificazione interiore ed esteriore i suoi frati, esortandoli a seguire una vita dedita alla preghiera, al
raccoglimento e al lavoro manuale. Il “Sacro Tugurio” è occupato da un presepe, c’è un certo andirivieni di parrocchiani
all’interno del Santuario, per cui mi riesce difficile concentrarmi e lasciarmi invadere dal mistero.
Saliamo ad Assisi e proseguiamo per qualche chilometro la salita sul Monte Subasio per raggiungere l’Eremo delle
Carceri, incastonato in una secolare selva di lecci secolari che si affaccia ad un burrone.
L'Eremo delle Carceri prende il nome dal fatto che San Francesco ed i suoi seguaci vi si "carceravano"
nella solitudine e nel silenzio per dedicarsi alla contemplazione ed alla in preghiera.
Da notare un episodio importante nella storia francescana che richiama l’Eremo. Nel 1216,
Francesco stando alla Porziuncola, vedendo come il numero dei frati cresceva ogni giorno e
non sapendo scegliere tra “vita contemplativa” e “vita attiva”, chiese consiglio a Chiara
(vivente a S. Damiano) e a frate Silvestro (dimorante in quel tempo all’Eremo).
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Mandò loro frate Masseo con un preciso incarico: chiedere a Dio quale delle due vie
doveva seguire. Dopo un certo tempo, frate Masseo tornò da Francesco con la risposta sia
di Chiara che di Silvestro, divinamente identiche: ….”ha detto il Signore che non devi
preoccuparti solo di te ma anche dei fratelli…” … la Volontà del Signore, dunque,
era che i frati si dedicassero alla predicazione, che andassero per il mondo ad annunziare il
Vangelo.
Francesco accolse con gioia questa scelta del Signore; consigliava però sempre ai frati
mandati per il mondo a predicare il Vangelo, di prepararsi con l’orazione e la
contemplazione, per meritare dal Signore la grazia di testimoniare con la vita, la verità di
quanto annunciavano. Alternavano così predicazione e momenti di solitudine negli eremi.
Francisco è particolarmente preso da questo luogo. Mi meraviglia sempre di più la sua
devozione per S. Francesco. Accarezza i muri e le pietre quando Giancarlo indica i luoghi
dove sicuramente si è fermato il Santo: la cella dove passava le notti, la roccia dove,
sdraiato, indicava la posizione delle stelle ad alcuni frati…..Anche lui si sdraia vicino al
Santo e si fa fotografare trasognato.
- Vorrei morire qui, vicino a Lui- dice,
Forse in questo suo lungo pellegrinaggio (da Roma a Santiago) cerca la forza per resistere
al morbo che l’ha privato di un occhio e sull’altro di quasi tutta la vista. Ha subito una dura
operazione.
Ieri, prima di entrare in un bar posto alla cima di un dosso, da cui in lontananza si vedeva
la distesa delle bianche case di Assisi, qualcuno gli aveva detto:
- Guarda, Francisco! Là è Assisi! Siamo arrivati! Guarda: è là!E lui, semplicemente:- Sì, ma io non vedo!-…tirando fuori dalla tasca una tessera
dell’Associazione dei ciechi di Spagna…
- Guarda, è là!- Ma io non vedo. Se vedo Assisi è un “ milagro”. Come si dice: “milacoro”?
- Miracolo:
- E dunque es miracolo.Un leggero vento, freddo, muove le foglie dei lecci. Camminiamo un po’ nel sentiero della
selva.
E’ inspiegabile come questo luogo evochi suggestioni arcane.
Chissà perché mi ero fatto l’idea di un santo semplice, allegro, amante della natura, pieno
di compassione per gli uomini, ma non immaginavo il rigore e la durezza delle penitenze a
cui volontariamente si sottoponeva . Sotto un’apparente semplicità, evidentemente aveva la
fibra di un “duro”.
Scendendo in città, Giancarlo si ferma davanti a un imponente costruzione (se ben ricordo
ha qualcosa a che fare con una sede vescovile dei secoli passati) in cui sarà sistemato il
nuovo Spedale per Pellegrini a cura della Confraternita di S. Jacopo di Compostella.
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E’ arrivato il momento in cui Gianni ci deve lasciare per prendere il treno, prima però
vuole scattare alcune foto alle reliquie del Santo nella Basilica.
Pranziamo in una simpatica trattoria, accompagniamo Francisco al suo albergo.
Siamo rimasti in tre.
Augusto da domani camminerà con Francisco forse fino in Liguria, io ritornerò in treno a
casa.
Giancarlo ci accompagna allo spedale di don Paolo Giulietti a Ponte San Giovanni.
E’ proprio finita.
Cosa resta…..
-Innanzitutto il desiderio di ritornare su questo cammino, sostando nei luoghi che più mi
hanno colpito.
- Raramente e forse mai, e questo a detta di tutti, ho camminato in un gruppo in cui
veramente si stava così bene insieme.
Merito di chi ha investito più di altri in risorse personali per mantenere alto il livello di
armonia, ma soprattutto va riconosciuto il ruolo insostituibile della nostra guida, che si è
dimostrato paziente, attento, disponile, propositivo, schivo e ricco di inventiva ….
Senza scomodare W.Bion a proposito del “ buon spirito di gruppo”, penso che Giancarlo è
riuscito spontaneamente a interpretare il giusto ruolo di “guida discreta”.
-Ritornando in treno ho letto quasi interamente una biografia su S. Francesco, che mi ha
consigliato Giancarlo: quella di S. Bonaventura, che mi ha consentito di vedere S.
Francesco in una luce più consona e reale.
L’impressione che mi ha lasciato la visita ai Luoghi Santi di Assisi è stata per me
veramente forte. Questa – da sola- può giustificare l’intero cammino.
-----------------------------------------------P. S.-Ho tratto le informazioni sui luoghi dai cartelli esposti nei siti; dagli opuscoli, che di volta in
volta ci hanno consegnato; dai ricordi delle spiegazioni di Giancarlo (spero di aver
ricordato correttamente tutto perché non sempre ho scritto in giornata il diario) e da
Internet.
Non tutte le foto sono mie. Per la pioggia e per la fretta diverse foto non mi sono venute bene
Alcune (relative a opere d’arte che non era consentito fotografare) sono state scaricate
da Internet e molte altre dal DVD di Gianni (Scatto)
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FINE
.
Il Gruppo davanti alla Porziuncola
(da sinistra a destra)
1- Paolo
2- Augusto
3- Maurizio
4- Sandro
5- Corrado (si è unito negli
6- Mauro
7 Francisco Javier
ultimi due giorni)
8- Alfredo
9- Giancarlo
10- Roberto
11- Gianni
12- Franco
13- Renato
e, poi…
…la foto più bella!
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Il gruppo, sotto la pioggia battente, sul basolato della antica via Amerina nella necropoli del “Cavo degli Zucchi”
tra Nepi e Falerii Novi.
Ultreya!
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IL CAMMINO DELLA LUCE