Fondazione
Il Vittoriale degli Italiani
Gardone Riviera
Musei Civici
d’Arte Storia e Scienze
di Brescia
Fondazione
Ugo Da Como
Lonato
Le vie dell’arte
Percorsi didattici
Unità e identità: 150 anni di storia
Con il patrocinio di
Ministero dell’Istruzione
dell’Università e della Ricerca
Ufficio Scolastico Regionale
per la Lombardia
Con il contributo e la collaborazione di
Regione Lombardia
Culture, Identità e Autonomie della Lombardia
Rappresentanti istituzioni museali:
Giordano Bruno Guerri - Presidente Fondazione Il Vittoriale degli Italiani
Elena Lucchesi Ragni - Dirigente Musei Civici di Arte e Storia di Brescia
Antonio Benedetto Spada - Direttore Fondazione Ugo Da Como
Coordinatore del progetto “Le vie dell’arte”
Giovanna Ciccarelli - Consigliere d’Amministrazione Il Vittoriale degli Italiani
Coordinatore tecnico
Elena Zanini - Didattica museale: Il Vittoriale degli Italiani
Coordinatore amministrativo
Mirella De Santi
Referenti del progetto per i singoli musei
Elena Zanini - Il Vittoriale degli Italiani
Angela Bersotti - Musei Civici di Arte e Storia di Brescia
Stefano Lusardi e Roberta Valbusa- Casa-museo-biblioteca di Ugo Da Como
Realizzazione editoriale
Marco Serra Tarantola editore
isbn 978-88-97107-53-8
www.tarantola.it
[email protected]
Finito di stampare nel maggio 2011
da Color Art, Rodengo Saiano, Brescia
Sommario
PROGETTI DIDATTICI
Scuole primarie
54
progetto 1
RI…SORGImento e OLTRE
Scuola primaria Statale T. Olivelli - Salò
4
Presentazioni istituzionali
Relazioni degli esperti
ai corsi di aggiornamento
14
Giuseppe Parlato
Il processo di unificazione e il problema
della Nazione
59
73
79
Valerio Terraroli
Dal Vittoriano al Vittoriale.
Immagini della Nuova Italia
86
Elisabetta Conti
Brescia e l’unità d’Italia
106
Elena Lucchesi Ragni, Maurizio Mondini
Il Museo del Risorgimento di Brescia.
Dal “padiglione” di Torino (1884) al Palazzo
Martinengo da Barco (1893)
134
Luciano Faverzani
Ugo Da Como. Uomo pubblico e studioso
Sulle tracce del Risorgimento
progetto 4
Due chiacchiere con i protagonisti
dell’Unità d’Italia
Scuola primaria Don Milani - Lonato del Garda
26
48
progetto 3
Scuola primaria Don Milani - Lonato del Garda
Giordano Bruno Guerri
Il Risorgimento e il Brigantaggio
40
Mille e una patria
Scuola primaria Goffredo Mameli - Brescia
24
36
progetto 2
Scuole secondarie
progetto 5 Brescia leonessa d’Italia
Scuola Secondaria Lana Fermi - Brescia
progetto 6 Cantare l’Italia
Scuola secondaria Conservatorio Luca Marenzio- Brescia
progetto 7 Fisionomie del Risorgimento
Scuola secondaria Paola Di Rosa - Lonato del Garda
Scuole superiori
142
progetto 8
La formazione del concetto di Italia
Liceo Scientifico Enrico Fermi - Salò
160
progetto 9
Il lungo Risorgimento: dai moti
carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
Istituto Tecnico Cesare Battisti - Salò
181
progetto 10 L’azione e il dramma
Liceo Scientifico Copernico - Brescia
207
progetto 11 Le donne del Risorgimento
Liceo Sociopsicopedagogico Don Milani - Montichiari
224
progetto 12 La famiglia Da Como nel panorama
del Risorgimento bresciano
Liceo paritario Paola Di Rosa - Lonato del Garda
235
progetto 13 Ugo Da Como collezionista
risorgimentale
Liceo Linguistico Istituto Don Milani - Montichiari
Unità e identità: 150 anni di storia
Progetto di un percorso didattico de “Le vie dell’Arte”
Il 2011 è l’anno dedicato alle celebrazioni per il 150° anniversario dell unificazione dell Italia. Questa data, così importante,
rappresenta un’opportunità per il coinvolgimento del mondo scolastico, come stimolo per i giovani studenti a riflettere
sul passato, a considerare il proprio presente e rivolgersi al futuro in maniera consapevole, al fine di comporre un quadro
dell’identità nazionale fortemente condiviso.
In tal senso viene proposto al mondo dell’istruzione il progetto Unità e identità:150 di storia, inserito nell’ambito del percorso
didattico de Le vie dell’arte, che da sette anni coinvolge docenti e alunni di scuole del nostro territorio in un’esperienza di
collaborazione con tre significative istituzioni museali: il Vittoriale degli Italiani, i Musei Civici di Arte e Storia di Brescia, la
Fondazione Ugo da Como.
A partire dal 2004 l’impegno comune ha portato alla realizzazione di progetti didattici e conseguente pubblicazione di volumi su
argomenti vari, ma sempre legati alla cultura del territorio:
- Percorsi didattici sulla Vittoria
- Sulle orme dei collezionisti
- Futurismo nel territorio bresciano
Quest’anno, il 2011, il tema proposto assume una valenza particolare, duplice, in quanto - nell’ambito di un’analisi storicoartistico-letteraria del processo che ha portato all’unificazione nazionale si inseriscono temi specifici quali il rapporto tra
d’Annunzio e il Risorgimento, la storia del Risorgimento bresciano e del Risorgimento sul territorio, il ruolo infine di uno studioso
qual è Ugo da Como – nell’approfondire, dal punto di vista storico, tali temi.
Il progetto, data la ricorrenza, è legato all’anno scolastico 2010/2011 ed ha richiesto quindi un particolare impegno da parte
dei docenti che, in un solo anno scolastico, hanno affrontato, mi sia consentito dire con entusiasmo e professionalità, corsi di
approfondimento, programmazione, realizzazione dei lavori con gli studenti, verifiche in itinere e conclusioni in tempo utile per
consentire la pubblicazione del volume.
Alcuni dati indicativi sulla partecipazione:
- 12 scuole dalle primarie alle superiori
- 16 classi
- in media 300 studenti
Con l’analisi di eventi e personaggi che hanno portato alla nostra unificazione nazionale si ritiene di essere giunti alla
conclusione di un ciclo di lavoro comune ampiamente documentato e testimoniato.
I ringraziamenti doverosi – ma particolarmente sentiti – sono da rivolgere alla Regione Lombardia che sin dall’inizio ha
sostenuto con il proprio patrocinio e contributo tutti i percorsi didattici de Le vie dell’arte, all’Ufficio Scolastico Regionale ed a
quello Provinciale, promotori sempre dell’iniziativa nel mondo scolastico, all’Assessorato alla cultura del Comune di Brescia, ad
altre realtà tanto significative quali la Fondazione CAB e la Fondazione Comunità Bresciana che hanno ritenuto di riconoscere
validità alla nostra proposta, a tutti i numerosi docenti che in questi anni hanno collaborato, creando un gruppo programmaticooperativo con le tre realtà museali e a tutto il personale dei tre Musei impegnato nell’iniziativa.
Questa esperienza è la riprova di quanto istituzioni museali ed istituzioni scolastiche, unite in un impegno comune, possano
contribuire al conseguimento di un obiettivo prioritario nel processo formativo dei giovani: quello di avvicinarli ai beni culturali,
facendo loro vivere consapevolmente e attivamente il patrimonio storico-artistico del proprio territorio al fine di un futuro
auspicabile impegno per la sua tutela e valorizzazione.
Giovanna Ciccarelli
Consigliere d’amministrazione del Vittoriale
Coordinatrice del progetto
4 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Il percorso Le vie dell’arte sceglie quest’anno di confrontarsi con una tematica molto attuale: i 150 anni dell’Unità d’Italia.
Lo fa, in un panorama variegato di iniziative, con un taglio singolare, non scontato, realizzando un progetto capace di
unire l’attenzione ai fatti, ragioni e senso dell’Unità, all’importanza delle radici e delle testimonianze nel nostro territorio:
un elemento di validità che, come scuola, vogliamo cogliere perché crediamo possa portare frutto per lo sviluppo del
senso di appartenenza ad una comune cittadinanza.
In un momento in cui sentiamo sempre più forte la necessità di ritornare a proporre in modo serio quei contenuti
che sono la base per costruire le competenze dei nostri ragazzi, Le Vie dell’Arte costruiscono importanti momenti
di studio e di approfondimento letterario, storico ed artistico, che non solo offrono un’ulteriore opportunità di
innalzamento culturale della nostra scuola, ma diventano anche occasione per un coinvolgimento attivo della scuola
stessa in forme di ricerca-azione.
Il coinvolgimento diretto degli insegnanti nelle riflessioni e nella costruzione dei percorsi di ricerca costituisce un
ulteriore elemento di qualità perché la ricchezza culturale presente sul territorio, conosciuta, riscoperta, trasmessa,
approfondita, vissuta nell’attività didattica quotidiana, possa rendere i ragazzi protagonisti su questi stessi temi. È noto
che quando i giovani sono coinvolti in prima persona l’apprendimento è certamente migliore e soprattutto più duraturo.
Il fatto che l’aspetto cognitivo venga coniugato alla bellezza, e quindi anche alla valorizzazione di ciò che eleva lo spirito
e ci permette di guardare al mondo in modo meno piatto e meno banale, rende, in ultima istanza, la nostra istruzione
vera educazione.
Con soddisfazione registro la convergenza su questi obiettivi di più Istituzioni e sono quindi grata all’Amministrazione
Comunale di Brescia, alla Fondazione dei Musei Civici di Brescia, alla Fondazione Vittoriale degli Italiani e alla
Fondazione Ugo da Como, che insieme all’Ufficio Scolastico Territoriale della Provincia di Brescia hanno dato vita a
questa sinergia, perché Le Vie dell’Arte offrono ai nostri ragazzi un di più che li renderà più solidi e autentici cittadini di
questa Italia che noi, nonostante tutto, amiamo e che, proprio per tutto ciò che rappresenta, desideriamo cresca nella
consapevolezza delle giovani generazioni per la tradizione storica, i valori che ci uniscono, le bellezze ambientali ed
artistiche, la forza delle volontà per azioni di miglioramento, le speranze condivise di un futuro di concordia e di diffuso
ulteriore sviluppo sociale, culturale, economico, umano.
Maria Rosa Raimondi
Dirigente USP
5 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Sulle vie della ricerca, della conoscenza e del bello
Con l’Unità d’Italia si realizzava il sogno secolare di poeti, politici e intellettuali. L’Italia “una d’arme, di lingua, d’altare, di
memorie, di sangue e di cor”, invocata da Alessandro Manzoni, non era più un’astrazione.
Oggi le celebrazioni dei 150 anni di Unità, sono importanti, per ricordare un’epopea fondante della nostra nazione, purché
si rinunci – almeno in parte – al conformismo retorico e patriottardo: aggettivo che ha poco a che fare con “patriottico”. Si
tratta di mettere il Risorgimento in una luce obiettiva, per recuperarlo – vero e intero – nella coscienza degli italiani di oggi e di
domani; ovvero continuare a considerarlo un atto necessario e benigno della storia d’Italia, pur con tutti gli errori che sempre
accompagnano i grandi eventi epocali.
È anche con questo obiettivo che è stato pensato questo lavoro, realizzato dai ragazzi che, fra mezzo secolo, potranno celebrare
i duecento anni dell’Unità.
Giordano Bruno Guerri
Presidente del Vittoriale degli Italiani
6 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Il tema proposto quest’anno da Le vie dell’arte ha permesso agli studenti di indagare gli interessi di Ugo Da Como rispetto al
Risorgimento.
Tutta la vita del Senatore, gli studi e la passione per il collezionismo furono animati da un profondo sentimento di amor patrio
infusogli dal padre Giuseppe, sottotenente di artiglieria nelle guerre di indipendenza.
Ugo Da Como, secondo una visione storica di ampio respiro, individuava l’avvio del Risorgimento italiano in quei profondi
mutamenti che si maturavano in campo politico e sociale tra il XVIII e il XIX secolo.
Ciò che i giovani studenti hanno potuto verificare all’interno della casa-museo, della Biblioteca e degli archivi di Lonato è quanto
l’attaccamento nei confronti della Storia risorgimentale riuscisse a manifestarsi anche attraverso oggetti che ancora oggi
arredano la dimora del Senatore.
Si tratta di sculture, dipinti, incisioni documenti che divengono cimeli in forza del loro valore storico che travalica l’importanza
del manufatto artistico o artigianale divenendo essi stessi testimonianza, strumenti evocativi di personaggi o fatti.
Ogni oggetto cambia di significato in base al possessore, alle scelte di un collezionista, così come è in grado di offrire
informazioni diverse a seconda del tipo di analisi e lettura storica cui viene sottoposto.
Il positivismo di matrice ottocentesca che formò la cultura di Ugo Da Como prediligeva il dato documentario, le ricerche
archivistiche in grado di fare rivivere le vicende storiche.
Il Senatore volle collocare nella propria camera da letto una piccola lettera che provvide a fare incorniciare. Si trattava di un
importante ricordo di famiglia, di un prezioso cimelio: la lettera che l’Eroe dei due mondi inviò al padre Giuseppe Da Como per
ringraziarlo di una poesia intitolata Trento, composta proprio per Garibaldi.
Questo autografo è stato in grado di risvegliare l’attenzione degli studenti che hanno così compreso le ricchezze di cui la
Fondazione di Lonato è ricca e di quanto possa essere in grado di alimentare gli studi.
Che il Senatore si sentisse partecipe del momento storico in cui viveva lo si comprende molto bene dal fermo impegno quale
Uomo di Stato, e dalla serietà con la quale sempre ebbe a difendere l’interesse della Nazione prima come Deputato e poi come
Senatore del Regno.
Nella casa-museo di Onato il ritratto del re Vittorio Emanuele II e quello di Camillo Benso conte di Cavour sono posti accanto ai
ritratti in miniatura di famiglia, in grado di confortare un profondo senso di italianità.
Sono quindi molto grato alle insegnanti che hanno seguito il progetto Le vie dell’arte di quest’anno e ai loro studenti,
appassionati indagatori della Storia.
Un ringraziamento particolare va alla Professoressa Giovanna Ciccarelli Borrello che con grande tenacia e determinazione
segue anche per la Fondazione Ugo Da Como i progetti de Le vie dell’arte.
Antonio Benedetto Spada
Direttore Generale della Fondazione Ugo Da Como
10 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Le vie dell’arte
Relazioni degli esperti
ai corsi di aggiornamento
Tutti i testi delle relazioni provengono dalla trascrizione delle registrazioni effettuate durante il corso.
Giuseppe Parlato
Il processo di unificazione e il problema della Nazione
Nazione e Stato
Vorrei iniziare ricordando che le celebrazioni per il 150° dell’Unità nazionale si riferiscono, in realtà e più
correttamente, alla costituzione dello Stato unitario. Il 17 marzo 1861 non si compiva l’unità nazionale:
infatti mancavano ancora Veneto, Roma, il Trentino e le terre irredente orientali; quel giorno nasceva, per
la prima volta in Italia, uno Stato destinato a superare le divisioni secolari e le dominazioni straniere cui la
penisola era stata sottoposta dalla fine dell’Impero romano.
Da questo punto di vista, il problema unitario italiano è singolare rispetto ad altre realtà europee come la
Francia, la Spagna o l’Inghilterra. Nel nostro caso, la nazione viene prima, molto prima, dello Stato, mentre
per i Francesi, gli Spagnoli e gli Inglesi lo Stato nasce prima della nazione, anzi, contribuisce a costituirla.
Si tratta tuttavia, per il caso italiano, di una nazione essenzialmente letteraria, priva di implicazioni politiche
o di prospettive statali. E ciò per molti secoli. Tutto ciò ha un valore particolare. Infatti, mentre la Francia,
la Spagna e l’Inghilterra hanno avuto, a partire dal 1100-1300, un esercito, una moneta, una lingua,
delle frontiere, una capitale, insomma una struttura politica e amministrativa che ha creato lo Stato ma
soprattutto ha contribuito a creare il senso dello Stato, l’Italia, giungendo tardi alla unificazione e alla
creazione di uno Stato, ha convissuto per molto tempo con un particolarismo localistico che ha frenato,
una volta unita, il suo sentirsi Stato. È, ancora oggi, l’Italia dei mille campanili, degli attuali 8000 e passa
comuni. Anche dopo la creazione delle Regioni (1970), gli italiani in buona misura ragionano ancora su
base comunale. Scarso è sempre il senso dello Stato, del pubblico, del collettivo, mentre prevalgono
l’individualismo, il particolarismo, la visione di uno Stato come “nemico”.
Eppure, il senso della nazione e dell’appartenenza sono stati presenti per secoli. L’idea che l’Italia non
dovesse più essere soltanto una “espressione geografica” era viva nella mente di molti intellettuali. Basti
pensare al concorso del 1796, il primo attraverso il quale si pensò al futuro assetto dell’Italia; il suo titolo
era: “Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia?”. Il concetto di felicità era molto
“giacobino” e illuminista, e si trattò di un concorso che vide la partecipazione di diversi candidati, segno
che il problema, dopo l’arrivo delle armate napoleoniche in Italia era molto sentito. Si era appena iniziato
il cosiddetto “triennio giacobino” (1796-1799): con i francesi erano giunte in Italia le idee rivoluzionarie e
con esse anche una certa arroganza francese che imponeva, nel migliore spirito del giacobinismo, agli
italiani di essere “liberi” e progressisti. Molto si è scritto di negativo sull’esperienza giacobina, forse il primo
esperimento totalitario in Italia. Pedagogismo politico, volontà di portare la civiltà a chi, si diceva, non ne
aveva, cultura enciclopedica, sradicamento di alcuni elementi obsoleti di tradizionalismo e di assolutismo,
ma anche di spirito cristiano, tutt’altro che obsoleto. Le costituzioni giacobine delle varie repubbliche
costituite dalle armi francesi fecero bene e male contemporaneamente. Da un lato, svecchiarono un
ambiente che aveva bisogno di aria nuova; dall’altro imposero un modello così rigido e così ideologico che
poi neppure Napoleone poté più seguire, soprattutto in ordine ai rapporto con la Chiesa e con la religione.
Tuttavia, riuscirono a fare entrare in Italia l’idea di Costituzione, e cioè la regolamentazione dei rapporti fra
governati e governanti, facendo nascere il moderno stato di diritto in Italia.
Il concorso del 1796 nacque in questo contesto: si trattava di ipotizzare un modello organico di governo
per l’Italia e vinse il filosofo ed economista piacentino Melchiorre Gioia con un progetto in cui si parlava di
un’Italia unitaria e non federale.
Negli anni successivi, costituzioni si promulgarono sotto Napoleone, nel Nord Italia, in Toscana, a Napoli.
Poi dopo la Restaurazione, a Palermo, a Napoli e a Torino, durante i moti del 1820-21. Infine nel 1848,
un po’ in tutta Italia, con quello statuto Albertino che, però, fu l’unico a non essere abrogato dopo la fine
infausta della prima fase della guerra contro l’Austria.
Da allora il Regno di Sardegna rimase per gli intellettuali e per i patrioti italiani l’unica isola di libertà nel
mare di assolutismo ripristinato in tutti gli Stati preunitari.
Se l’idea di nazione si sostanziò soprattutto di reminiscenze storiche e letterarie (dall’antica Roma
14 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Il processo di unificazione e il problema della Nazione
all’umanesimo, da Dante agli “alfieriani-foscoliani” del primo Ottocento), l’idea di Stato si costruì attraverso
le Costituzioni. Questo dato fu importante perché connotò in senso nazionalitario e non nazionalista, in
senso liberale e non dittatoriale il nostro passaggio dalla nazione allo Stato. Il “nesso” risorgimentale fu
rappresentato, un po’ retoricamente ma con grande efficacia, dalle due scritte che campeggiano incise
sull’Altare della Patria: Patriae unitati; Civium libertati. Il monumento a Vittorio Emanuele II è dedicato
all’unità della Patria e alla libertà dei cittadini.
In effetti, il nostro Risorgimento è segnato dall’idea di nazionalità, quella nazionalità altrui che si rispetta
in quanto si pretende il rispetto della propria. È il principio mazziniano della Giovine Europa, ma è anche il
principio cavouriano di libertà economica e di Stato di diritto. Lo Stato unitario è quello che ha permesso
per la prima volta la verifica attraverso il voto dei governi liberali. Si dirà che il suffragio, all’inizio, era molto
ristretto. È vero, ma è anche vero che prima del 1861, negli stati preunitari, non si votava affatto e quelle
volte che era stato fatto, il sistema elettorale era durato quanto gli Statuti. Ricordiamo poi che la nascita
dello Stato ha permesso agli ebrei italiani di riacquistare la libertà, da quando furono aperti i ghetti che li
tenevano prigionieri, a amano a mano che si estendeva a tutta l’Italia lo Statuto Albertino.
Si è detto che il Risorgimento è stato fatto con poca fatica, con poche guerre e con poco popolo. Questa
notazione fu espressa la prima volta da Alfredo Oriani, il quale non contestava il Risorgimento quanto
quello che ne seguì. Il post Risorgimento, lo Stato unitario non avevano la medesima volontà eroica che
aveva distinto il Risorgimento: vi era un po’ di stanchezza, un po’ di delusione dovuta alle difficoltà che
il nuovo Stato incontrava nel proprio cammino. La critica di Oriani fu poi ripresa da Piero Gobetti il quale
parlò di un vero risorgimento, quello “senza eroi”, contrapposto a quello retorico e sabaudo, privo di base
popolare.
Ciò, da un lato, è vero, perché i contadini non presero parte ad alcuna insurrezione nazionale. Dall’altro
lo è un po’ meno perché i contadini non presero parte ad alcun fenomeno politico, né a favore né
contro. In compenso vi furono tanti giovani, volontari, militari, artigiani, intellettuali, professionisti. Fu la
borghesia, quella intellettuale e quella produttiva, a scendere in piazza per manifestare per l’unità del
paese. Se si pensa che solo nei moti costituzionali del 1821 in Piemonte vi furono ben 4.500 persone che
ebbero problemi con la giustizia o con la polizia, la partecipazione popolare, per l’epoca, fu tutt’altro che
marginale. Se poi aggiungiamo a questo dato la partecipazione ai moti mazziniani del 1830-31, a quelli
del 1848, e ancora alla seconda guerra d’indipendenza; poi, ancora i moti mazziniani degli anni Quaranta
e Cinquanta, le imprese garibaldine e se aggiungiamo ancora coloro che andarono a combattere per la
costituzione spagnola o per l’indipendenza greca, il quadro ci pare tutt’altro che marginale in termini di
partecipazione.
Certamente uno dei problemi principali fu la rapidità con la quale il processo unitario si concluse in Italia
rispetto, ad esempio, a quello tedesco. La Germania, infatti, cominciò a pensare e a realizzare l’unione
doganale subito dopo la fine del potere napoleonico; quindi condusse tre guerre (quella dei ducati, quella
contro l’Austria e infine quella contro la Francia) e alla fine si unificò vincendo il suo personale braccio di
ferro con l’Austria, nel predominio degli stati a lingua tedesca. Per quanto riguarda l’Italia, il processo fu
molto più rapido. Il moto unitario tedesco parte nel 1815 e si conclude nel 1870, mentre quello italiano si
risolve in ventidue mesi tra il maggio 1859 e il marzo 1861 con l’aggregazione al Regno di Sardegna dei
preesistenti Stati italiani attraverso un complesso intreccio fra movimento popolare, diplomazia, guerra di
eserciti regolari e di formazioni volontarie e plebisciti.
La fase insurrezionale e la prima guerra d’indipendenza
Il 1849 segnava la fine della strategia insurrezionale. Il Piemonte di Carlo Alberto si era deciso a muovere
guerra all’Austria nella convinzione che quella guerra avrebbe determinato una vasta insurrezione
popolare contro l’Austria e i suoi stati satelliti in Italia. In una prima fase ciò sembrò avverarsi: il Pontefice,
Pio IX, aveva fatto ampie aperture al problema italiano, mentre i moti del ’48 avevano determinato in tutta
Italia la concessione degli Statuti. Nel gennaio 1848 era insorta Palermo in un moto liberale e separatista,
contro i Borboni che si concluse con il ripristino della Costituzione siciliana del 1812. L’estensione della
rivolta a Napoli costrinse Ferdinando II a promulgare una costituzione, imitato in questo da altri sovrani
italiani: tra il febbraio 1848 e il marzo anche Carlo Alberto nel Regno di Sardegna, Leopoldo in Toscana
e il Papa Pio IX fecero altrettanto. Si trattava di Statuti molto moderati, che in genere si rifacevano alla
costituzione francese del 1830. Mentre in Italia il processo costituzionale pareva controllato dai sovrani,
in Francia una rivoluzione popolare rovesciava Luigi Filippo e proclamava la seconda repubblica, dalle
forti tinte socialiste. Ma pochi mesi dopo, Luigi Napoleone Bonaparte sarà nominato presidente della
15 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Giuseppe Parlato
Repubblica e indirizzerà la Francia verso il secondo impero. Anche il pericolo della evoluzione socialista
della rivoluzione europea preoccupò non poco i liberali, i quali volevano certamente la costituzione ma non
volevano concedere il potere nelle mani del proletariato, come la Francia aveva rischiato. Questo elemento
fu decisivo nel convincere i sovrani più illuminati a procedere con le riforme prima che il socialismo d’oltre
Alpe determinasse cambiamenti troppo radicali.
L’eco dei fatti parigini si diffuse in Germania e in Austria, facendo una prima vittima illustre, il principe di
Metternich, che fu allontanato dall’imperatore austriaco dopo un trentennio di governo. A Venezia il 17
marzo e a Milano il 18 scoppiavano due importanti insurrezioni; a Milano si chiedono riforme, si scende
in piazza e dopo cinque giorni il comandante austriaco Radetzky abbandona la città lasciandola in
mano degli insorti. A Venezia Daniele Manin e Niccolò Tommaseo cacciano gli austriaci e proclamano la
Repubblica di San Marco.
Appare evidente, tenendo conto anche di quel che accade nei ducati di Modena e di Parma, dove gli
insorti fanno fuggire i sovrani e in Toscana, dove scoppiano a Firenze e a Livorno altre insurrezioni, che
il processo unitario si sta formando attraverso il metodo insurrezionale. La disponibilità del Pontefice a
guardare con attenzione e simpatia alle manifestazioni di italianità appare come una garanzia per il futuro.
Carlo Alberto ritiene così sia giunta l’ora della guerra contro l’Austria, la quale sembra sconvolta dalle
insurrezioni anche interne e non appare così solida. In più, il re di Sardegna spera che la guerra possa
unire tutti gli stati italiani nella lotta contro Vienna e portare alla unificazione. Molti dei rivoluzionari che
erano stati condannati all’esilio dopo i moti del 1821 in Piemonte o che erano fuggiti per non essere
incarcerati, tornano a Torino per unirsi alla guerra contro l’Austria, che corona le loro più profonde
aspirazioni.
Ma le cose non vanno esattamente così. La guerra comincia il 26 marzo 1848 e dopo i primi successi,
anche significativi, a Goito, a Valeggio e a Monzambano, le truppe piemontesi si arrestano permettendo
agli austriaci di organizzarsi. Tra l’altro, la vittoria di Goito fu determinata dal sacrificio degli studenti toscani
(pisani e senesi) i quali impegnarono il 29 maggio gli Austriaci a Curtatone e a Montanara nonostante
fossero inferiori di numero e male addestrati. Gli studenti e i loro professori resistettero strenuamente
bloccando gli Austriaci e permettendo ai Piemontesi di sfruttare l’occasione e battere il nemico a Goito. Si
trattò di uno degli episodi più significativi del Risorgimento, al quale furono dedicate molte opere artistiche,
a cominciare dal famoso quadro del Fattori. Da allora, il 29 maggio è giorno festivo all’Università di Pisa.
Inspiegabilmente, invece di sfruttare il momento favorevole (Vienna era ancor impegnata a risolvere
i problemi interni determinati dalle insurrezioni nell’Impero), Carlo Alberto si arresta per due mesi a
Peschiera, una delle città del famoso quadrilatero e a Custoza, nel luglio successivo il riorganizzato
esercito austriaco batte duramente quello piemontese, l’intera Lombardia viene abbandonata. Nel
frattempo i principi italiani abbandonano il Piemonte: il Papa si ritira dalla guerra abbastanza presto, già ad
aprile, seguito dalla Toscana e da Napoli. Ferdinando II con un colpo di Stato revoca lo Statuto e reprime
duramente i moti liberali.
Dopo l’armistizio dell’agosto 1848, l’iniziativa passa ai democratici. In Toscana Montanelli lancia l’idea
della Costituente italiana; il Granduca lascia Firenze e nel febbraio ’49 anche la Toscana e il governo
provvisorio viene assunto da Montanelli e Mazzoni. A fine gennaio a Roma i rivoluzionari uccidono il
ministro riformista Pellegrino Rossi e il Papa fugge dalla città rifugiandosi a Gaeta, lasciando un vuoto
di potere subito riempito da una Costituente repubblicana con a capo Mazzini, Armellini e Saffi. La
Repubblica romana durò dal febbraio al luglio 1849 e costituì il punto più alto della fase rivoluzionaria
nel Risorgimento. Sembrò, anzi, che nonostante la sconfitta militare, il movimento insurrezionale potesse
riprendersi e realizzare una grande rivoluzione democratica. In effetti, a Venezia, a Roma e a Brescia
(insorta il 23 marzo 1849, in concomitanza con la ripresa delle ostilità da parte di Carlo Alberto) la
rivoluzione era ancora viva. La seconda fase della guerra avrebbe dovuto dare ai moti insurrezionali
l’aiuto definitivo, anche se l’atteggiamento di tutti i principi italiani lasciava poco spazio alle illusioni. Ma la
ripresa del conflitto fu disastrosa e in una settimana la sconfitta di Novara tolse ogni speranza. Mal diretto,
l’esercito piemontese si lasciò circondare da Radetzky e fu battuto definitivamente. Brescia cadde il 1°
aprile, Roma il 4 luglio, il giorno dopo la proclamazione della Costituzione della Repubblica, una sorta di
viatico per il futuro, e Venezia il 24 agosto, piegata dalla fame e dalla carestia.
Con la resa di Venezia sembra che tutto sia finito. Il processo unitario italiano sembra fallito. I democratici,
accusati dai moderati di avere spaventato i sovrani e il Papa con le loro costituzioni e con i loro progetti
rivoluzionari, ripiegano sulla linea mazziniana: l’insurrezione come momento pedagogico, al di là dell’esito.
Mazzini è l’unico a credere ancora nella possibilità di una rivoluzione ed è anche l’unico a pensare a un
16 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Il processo di unificazione e il problema della Nazione
partito politico, in quel momento. La Giovane Italia, nata nel 1831, diventa sempre più un partito nazionale.
Mazzini ha ormai rotto da tempo con le conventicole massoniche o carbonare e punta alla creazione di un
movimento di opinione nazionale, repubblicano e unitario che possa coinvolgere sempre strati più ampi
della popolazione. In effetti, con il 1849 avevano fallito un po’ tutti, non solo Mazzini. Avevano fallito tutti i
democratici di varia osservanza, dal Gioberti neoguelfo prima ed estremista democratico nell’ultima fase
della guerra del Piemonte contro l’Austria, fino al Cattaneo e al Ferrari che propugnavano una repubblica
basata sul federalismo. Era rimasta in pedi soltanto l’opzione politica del liberale Cavour, con alcune
correzioni rispetto al moderatismo piemontese di Balbo e d’Azeglio, a cominciare dal ruolo di Roma e dalla
capacità del Conte di cogliere l’importanza del messaggio mazziniano, non tanto nei suoi aspetti ideologici,
che poco gli interessavano, quanto nella loro capacità di essere momento trainante del fenomeno
popolare unitario. Tuttavia, il mazzinianesimo andò in crisi qualche anno dopo, ed esattamente nel 1853,
con i moti milanesi, anche questi falliti. Per Mazzini il fallimento era dovuto essenzialmente al fatto che
l’insurrezione non aveva avuto un solo centro di coordinamento a livello nazionale; nello stesso periodo il
federalista Cattaneo pensava che dovesse diventare federale anche la rivoluzione, ipotizzando la necessità
di otto centri diversi di coordinamento, uno per ciascuno degli Stati nei quali l’Italia allora si divideva.
Ma nonostante la lucidità dell’analisi, per Mazzini si avvicinava la fine politica: con il fallimento dei moti
milanesi del 1851-52, il mazzinianesimo andò in crisi. E dire che quello milanese era stato un moto, per
la prima volta, con una chiara connotazione sociale, avendo visto anche la partecipazione di elementi
provenienti dalle classi sociali più umili. Fu anche questo elemento a disorientare e a preoccupare i ceti
borghesi della capitale lombarda, i quali fino ad allora avevano dato il proprio contributo all’idea nazionale.
e anche fra gli stessi mazziniani ci fu chi disapprovò quella virata in senso socialista.
Nell’opuscolo Agli Italiani, scritto da Mazzini nel marzo 1853, si ribadiva, in una sorta di descrizione
giustificatoria, la bontà della sua strategia; se i moti non erano riusciti, ciò era dipeso dalla codardia delle
classi dirigenti della penisola, che non avevano avuto il coraggio di appoggiare i moti. Tuttavia, il nuovo
fallimento, l’anno successivo, dei moti in Lunigiana, guidati da quel Felice Orsini che qualche anno dopo
avrebbe attentato alla vita di Napoleone III, mettendo in seria discussione la politica di alleanza che Cavour
stava tessendo con l’imperatore francese, dimostrò come il “Partito d’Azione” fosse riuscito ad avere
grande visibilità anche a livello europeo ma contemporaneamente risultasse alla fine del tutto marginale
nell’ambito del processo unitario. Per altro, proprio in quel periodo, alcuni mazziniani decidevano di iniziare
una forma latente ma efficace di collaborazione con il Piemonte cavouriano: l’esempio più significativo fu
senza dubbio quello di Manin.
Ciò indusse Mazzini a prendere delle contromisure per evitare l’isolamento proprio nel mondo
democratico. E la soluzione fu quella di avvicinarsi anch’egli a Cavour. La strategia dei due personaggi fu
complessa ma tutto sommato utile ad entrambi. Per Mazzini, come si è detto, si trattava di evitare il rischio
di un isolamento politico; in secondo luogo egli pensava che se fosse riuscita una delle tante insurrezioni
(vi fu addirittura un quarto tentativo insurrezionale in Lunigiana, finito come i precedenti), avrebbe potuto
trattare con Cavour in condizioni di forza, sperando di bloccare sul nascere quella che sembrava la
prospettiva più evidente, e cioè un incontrastato dominio cavouriano nel processo di unificazione.
Per Cavour il discorso era evidentemente diverso: il Conte voleva collaborare sotto traccia con Mazzini
principalmente per controllare le spinte eversive che si venivano preparando; inoltre riteneva che se
uno dei tentativi mazziniani avesse avuto successo, avrebbe determinato la reazione austriaca e quindi
avrebbe imposto un intervento piemontese contro l’Austria, che alla fine era il vero obiettivo del Conte.
Se invece i tentativi mazziniani non fossero andati a buon fine (ed era l’ipotesi più probabile), Cavour si
sarebbe servito proprio della eco che tali conati insurrezionali avrebbero avuto in Europa per convincere
le diplomazie che la strada da battere era quella del sostegno diplomatico alla causa italiana diretta da
Torino, onde evitare il dilagare dei fermenti rivoluzionari in Europa.
In questo senso va vista l’impresa di Pisacane, l’ultimo tentativo di Mazzini per ribaltare una situazione
che gli era diventata gravosa sotto ogni punto di vista. Per Mazzini la spedizione di Sapri aveva più di
un elemento di interesse: in primo luogo essa coinvolgeva un indirizzo fortemente sociale e il Genovese
pensava che questo taglio politico avrebbe avuto successo nel Sud. Inoltre, una insurrezione nel meridione
(ma con due “varianti” che non ebbero successo, a Genova e a Livorno) avrebbe spiazzato Cavour,
spostando il centro di interesse insurrezionale dalla Lombardia a una zona, il Sud, appunto, nella quale il
liberalismo piemontese non sarebbe potuto arrivare. Infine, con questa azione, Mazzini puntava a tagliare
la strada a un probabile tentativo insurrezionale condotto dal cugino di Napoleone III, Lucien Murat, il figlio
di Gioacchino, sempre per cercare di porre nuovi ostacoli alla strategia cavouriana.
17 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Giuseppe Parlato
L’ondata di critiche di cui Mazzini fu oggetto dopo l’impresa di Pisacane fu pesantissima. Molti mazziniani
decisero di passare con Cavour: oltre al già citato Manin, vi erano La Farina e, soprattutto, Garibaldi, il
quale non condivise per nulla l’ostinazione di Mazzini e il suo non volere cogliere quei segnali che da
Torino giungevano in vista di una soluzione diplomatica della questione nazionale.
La fase diplomatica, la guerra del ’59 e la conclusione del processo unitario
Quella che invece emerse come via principale, anche se molto difficile, fu quella di Cavour che si fondava
sul difficile ma non impossibile coinvolgimento delle diplomazie europee per suscitare l’interesse nel
problema italiano. Com’è noto, tutto inizia con la guerra di Crimea, dalla quale il Piemonte di Cavour non
ha, e non vuole avere, vantaggi territoriali ma semplicemente partecipare alle trattative del Congresso
di Parigi sottolineando la grave condizione dell’Italia e il rischio che una volta o l’altra una insurrezione
faccia andare il processo unitario verso lidi rivoluzionari e non verso più rassicuranti sponde moderate.
L’operazione è un successo e per dimostrarlo basterebbe vedere le reazioni del mondo germanico, che
vedeva nel Piemonte l’omologo della Prussia e nella liberazione dall’influenza austriaca il primo passo per
l’unificazione tedesca. Da Parigi a Plombières il passo è breve, anche se l’azione di Cavour non fu mai
del tutto scontata e semplice. A Plombières, con Napoleone III, Cavour disegna l’ipotesi di una divisione
dell’Italia in tre Stati: il nord ai Savoia, il centro a un principe francese, il sud, forse, al figlio di Murat. Il tutto
con il Papa presidente di una Confederazione italiana con il Lazio indipendente come Stato pontificio.
L’accordo avviene poche settimane dopo l’attentato di Felice Orsini contro l’imperatore francese: è il colpo
di coda dei mazziniani: dopo i fratelli Bandiera (1844), dopo i moti milanesi (1851 e 1853), dopo i martiri
di Belfiore (1852), dopo Pisacane (1857), Orsini rappresenta l’ultimo tentativo di Mazzini di mettersi di
traverso rispetto alla strategia di Cavour. Una strategia pericolosissima, per Mazzini, in quanto si sottrae
all’Italia l’iniziativa autonoma di indipendenza. Rivolgersi ad altre potenze straniere – come in questo
caso la Francia – significa perpetuare la condizione di sudditanza dell’Italia e non realizzare la rivoluzione
nazionale contro lo straniero. Per fortuna Cavour è molto abile nel condurre anche l’episodio Orsini alle
sue strategie: convince Napoleone che l’attentato conferma che o si fa l’Italia con la diplomazia e il
moderatismo, oppure si farà lo stesso con i rivoluzionari.
Nello stesso tempo, i reiterati fallimenti mazziniani provocano una revisione critica nel movimento
democratico: a cominciare da Garibaldi, molti esponenti del partito d’azione incominciano a prendere le
distanze dall’atteggiamento intransigente di Mazzini e si avvicinano lentamente ma sempre più a Cavour,
accettando il metodo diplomatico ma cercando di non perdere i valori democratici espressi in precedenza.
Quando nel 1857 si costituisce la Società Nazionale per opera di Daniele Manin, il primo ad abbandonare
la metodologia mazziniana, vi è l’adesione di Garibaldi e di molti democratici ma vi è anche la silenziosa
adesione di Cavour che utilizzerà gli aderenti alla Società nazionale come emissari nei vari stati italiani per
essere edotto sempre con precisione della situazione politica locale.
Non è facile per Cavour arrivare al casus belli con Vienna. Gli accordi con Napoleone erano chiari:
l’appoggio francese ci sarebbe stato solo se l’Austria avesse attaccato il Piemonte. Di qui il lungo lavorìo di
Cavour per indurre gli austriaci ad attaccare Torino. Intanto si mobilita l’esercito e affluiscono centinaia di
volontari provenienti da tutta Italia, guidati da Garibaldi, in attesa della guerra all’Austria. La Russia si rende
conto del pericolo e propone una conferenza europea per risolvere la questione italiana; l’Austria, che non
vuole la conferenza, propone il disarmo al Piemonte e Napoleone, inopinatamente, si trova d’accordo.
Per Cavour sembra franare tutto. Si oppone al disarmo e questa mossa, quasi disperata, fa precipitare la
situazione. Vienna manda un ultimatum a Torino per indurre il Piemonte a cedere; ma con l’ultimatum il
Piemonte figura come aggredito e Cavour ha buon gioco nel fare scattare le clausole dell’alleanza con la
Francia.
La guerra inizia a fine aprile del 1859 e si conclude due mesi più tardi con le due battaglie di Solferino e
San Martino (24 giugno), ben prima di quanto avessero previsto gli accordi con Napoleone III. I francesi
infatti pagano un tasso altissimo in termini di vite umane: fu in quella occasione che a Henry Dunant
venne l’idea di creare la Croce Rossa internazionale, in considerazione dell’altissimo numero di caduti
in battaglia (circa trentamila nei tre eserciti che vi parteciparono) e della confusione nei soccorsi. Dopo
quella battaglia che i franco-piemontesi vinsero nettamente, gli austriaci furono cacciati al di là del Mincio
e Napoleone III pensò bene di iniziare le trattative con Vienna per raggiungere un accordo. Il 12 luglio, con
l’armistizio di Villafranca, la guerra era di fatto conclusa con l’acquisizione al Regno di Sardegna della sola
Lombardia. Una scelta questa che Cavour non condivise assolutamente: i patti a Plombières non erano
questi. Perciò si dimise.
18 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Il processo di unificazione e il problema della Nazione
Tuttavia, la fortuna aiutò il processo unitario italiano. Nella successiva Pace di Zurigo (novembre 1859),
che sancì la conclusione di un conflitto durato meno di tre mesi, si prevedeva che l’Austria cedesse
alla Francia la Lombardia (che poi Parigi cedette al Regno di Sardegna), che i sovrani dei ducati italiani,
cacciati dalle insurrezioni popolari che si verificarono durante la guerra, venissero reintegrati nei loro Stati,
che si creasse una confederazione italiana presieduta dal Pontefice, sulla base di una vecchia idea di
Gioberti che non si era attuata dieci anni prima.
Tale soluzione risultava sgradita a molti, a cominciare dai francesi, in quanto garantiva in sostanza la
presenza austriaca in Italia; le popolazioni dei ducati italiani non furono di massima d’accordo sul ritorno
dei sovrani già spodestati; pertanto, i liberali dei ducati emiliani e della Toscana preferirono procedere
subito all’annessione al Regno di Sardegna pur di evitare il ritorno dei duchi sui rispettivi troni. A questo
punto Cavour capì di avere di nuovo il gioco in mano. Tranquillizzati i francesi, ai quali andarono Nizza e
Savoia, le terre cioè promesse a Plombières ma non ancora date dal Piemonte a causa dell’interruzione
del conflitto a Villafranca, annessi i ducati emiliani e la Toscana, la situazione appariva di nuovo favorevole
al Regno di Sardegna e a Cavour, il quale era assolutamente deciso a realizzare, a questo punto più
rapidamente, la creazione di uno Stato italiano nella parte settentrionale e centrale della penisola. Cavour,
che si era dimesso nel luglio 1859 a causa della interruzione della seconda guerra d’indipendenza, ritorna
nel gennaio 1860 alla guida del governo di Torino e indice i plebisciti in Toscana e in Emilia, che danno un
voto nettamente favorevole all’annessione al Regno di Sardegna. Ad aprile, un altro referendum sanciva il
passaggio di Nizza e della Savoia alla Francia.
Solo a questo punto si realizza un clima internazionale favorevole all’unificazione italiana. Londra, che
pragmaticamente era rimasta scettica sull’esito del processo unitario italiano, si decide a manifestare
un atteggiamento favorevole alla politica del Cavour, anche perché il capo del governo piemontese si
affretta a chiarire alle potenze europee che l’iniziativa piemontese era l’unica che potesse garantire
una evoluzione moderata della situazione italiana, evitando il prevalere dei rivoluzionari alla Mazzini e
alla Garibaldi. Anche la Prussia risultava favorevole all’unificazione italiana, assimilando la sua azione
presso la Confederazione germanica a quella di Cavour: l’ostilità contro l’Austria era tale che i tedeschi
preferirono rischiare un aumento dell’influenza francese in Italia pur di diminuire l’influenza austriaca nella
Confederazione.
La rapidità con la quale l’unificazione italiana fu compiuta suscitò nei liberali tedeschi più avanzati e
progressisti una grande curiosità e una forte invidia; nei conservatori invece suscitò preoccupazione,
perché la sconfitta dell’Austria e, soprattutto, il coinvolgimento della Francia potevano preludere a un
nuovo e più massiccio impegno francese in Italia. Insomma, non piaceva un’Italia colonizzata dalla Francia.
Ma non era finita. Nell’aprile 1860 la insurrezione di Palermo contro i Borboni, sapientemente tenuta
desta dall’azione di Rosolino Pilo e di Crispi, induce Garibaldi a intervenire in appoggio agli insorti. Il 5
maggio il “Piemonte” e il “Lombardo” salpavano da Quarto e sei giorni dopo sbarcavano a Marsala. La
rapida conquista della Sicilia induceva Cavour ad assecondare l’azione di Garibaldi, dopo averla invano
osteggiata nelle sue fasi iniziali. A settembre il generale entrava in Napoli e il problema di Cavour diventava
un altro: impedire a Garibaldi di continuare la sua corsa verso Roma, bloccandolo a Napoli. A questo
punto si poneva il problema di inviare un esercito nel Sud per mostrare come la strada di Roma fosse
preclusa, pena la reale possibilità di un intervento francese a difesa di Roma. Il che avrebbe vanificato
completamente ogni progetto piemontese. Il Papa non dava il consenso al passaggio delle truppe
piemontesi dirette a Sud e i generali Cialdini e Fanti venivano incaricati di attaccare le truppe pontificie
a Castelfidardo. Caduta Ancona, la strada per il Sud era aperta: nel novembre il re si incontrava con
Garibaldi a Teano e il generale rimetteva il potere delle province meridionali nelle mani di Vittorio Emanuele
II. Cavour nell’ottobre-novembre procedeva ai nuovi plebisciti nel Regno delle Due Sicilie, nelle Marche
e nell’Umbria. Il 17 marzo successivo veniva proclamato il Regno d’Italia e dieci giorni dopo Roma era
proclamata capitale d’Italia pur essendo ancora sotto il dominio papale.
Una evoluzione assai rapida, in buona parte casuale: se l’Austria non fosse caduta nella trappola delle
provocazioni piemontesi e non avesse dichiarato guerra a Torino nell’aprile 1859, tutta la costruzione
di Cavour sarebbe stata vana. Se dopo Villafranca, nella pace di Zurigo, l’Austria non fosse stata così
esplicita nel prevedere la restaurazione dei duchi nei rispettivi stati; se Garibaldi avesse trovato una forte
resistenza in Sicilia e in Calabria; se il Papa non si fosse opposto al passaggio delle truppe nelle Marche
e nell’Umbria, probabilmente il processo unitario italiano si sarebbe realizzato diversamente e con tempi
assolutamente più lunghi.
19 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Giuseppe Parlato
I problemi del nuovo Stato e le interpretazioni degli storici
L’unificazione italiana, quindi, è avvenuta molto tardi e, nello stesso tempo, molto rapidamente. L’Italia
è diventata uno Stato molto tardi rispetto agli altri Stati europei, quasi fuori tempo massimo, nel senso
che la seconda metà dell’Ottocento è già l’epoca dell’imperialismo e i processi unitari sono già finiti da
un pezzo nelle grandi potenze. Molto rapidamente perché, come si è già detto, rispetto, ad esempio, alla
unificazione tedesca, l’Italia ha avuto molto meno tempo per metabolizzare l’unificazione, per decidere
quale tipo di organizzazione statale potesse meglio servire per unificare un territorio che da secoli era
diviso e che non aveva che un’idea letteraria e culturale dell’unità.
Inoltre, la morte prematura di Cavour a poche settimane dalla proclamazione del Regno complicò molto la
questione. L’imprevista dipartita del geniale realizzatore dell’unità nazionale determinò un grave vuoto di
potere in Italia, mentre gli errori fatti dalla classe dirigente sul brigantaggio (sottovalutazione del fenomeno,
in un primo momento, e durezza nella repressione successivamente) condizionarono i primi anni del
nuovo Stato. Sicuramente influì anche il fatto che il brigantaggio fosse sostenuto dallo Stato pontificio
e questo sostegno era finalizzato a una restaurazione borbonica nell’Italia meridionale. La soluzione
federalista, che lo stesso Cavour non aveva affatto escluso e che aveva in Minghetti il suo più deciso
sostenitore, partiva proprio dalle tante diversità del giovanissimo Stato e dalla considerazione che fosse
impossibile gestire con una struttura fortemente centralizzata un sistema politico e amministrativo che
da secoli si basava su un modello municipalistico. Storicamente, prevaleva ancora la vecchia struttura
comunale che aveva lasciato in eredità una grande autonomia delle città. Non a caso, Minghetti aveva
preso a modello il suo decentramento amministrativo dalle esperienze belga e svizzera.
Ma le ragioni che si son dette, e cioè il timore che l’azione dei briganti potesse determinare spinte
centrifughe e vanificare il processo risorgimentale, consigliarono, quasi imposero, una struttura “alla
francese”, fortemente legata al centro che, allora, era Torino, non ancora Firenze o Roma.
Di qui le incomprensioni, la durezza della repressione, in una lotta senza esclusione di colpi da parte
dei briganti contro lo Stato e da parte dello Stato contro i briganti. Sul fenomeno si è detto poco e male
nel corso dei decenni successivi, come se tenere nascoste le cose com’erano andate potesse evitare
al nuovo Stato altri problemi. In realtà, su questa necessità di verità si sono inserite analisi che invece
portavano alla condanna senza appello delle strutture del nuovo Stato e ci fu chi, anche successivamente,
pensò che l’intero processo risorgimentale, a cominciare dall’avvenuta unità, dovesse essere messo in
discussione.
In realtà, fin dall’immediato post-Risorgimento vi fu chi pensò di sottolineare come da un mondo eroico
e combattentistico si era passati a una politica meramente amministrativa: già Oriani, come si è già
ricordato, aveva posto l’accento sulle deficienze di un Risorgimento poco combattuto, poco glorioso, fatto
senza, se non contro il popolo. Questa tesi, che poi finì a costituire una delle basi della interpretazione del
Risorgimento pensata dal fascismo (e in particolare dalla sinistra fascista), era stata fatta propria dopo la
prima guerra mondiale da Piero Gobetti il quale si pose il problema di come era stato possibile l’avvento
del fascismo in uno Stato che era stato segnato dal Risorgimento. Gobetti non avrebbe mai accettato
la tesi crociana della parentesi e della improvvisa malattia morale di un corpo precedentemente sano;
piuttosto egli si pose il problema se non vi fossero già delle deficienze in nuce nel processo risorgimentale.
Questa interpretazione è stata quella più diffusa e anche oggi tutte le tesi neoborboniche (anche proposte
da ambienti di destra) o quelle leghiste, o quelle cattolico-tradizionaliste, costituiscono delle inconsapevoli
(per lo più) volgarizzazioni della vecchia tesi gobettiana.
Contemporaneamente emerse anche una tesi fascista, quella soprattutto che si deve a Giovanni Gentile,
la quale vedeva nel fascismo l’inveramento del Risorgimento. Anche per Gentile (e ancor di più nella
sinistra fascista, quella che valorizzò Mazzini e la Repubblica romana in funzione anticonservatrice
e antisabauda fino all’epoca della Rsi) il Risorgimento, ma soprattutto lo Stato liberale da esso nato,
era stato incapace di procedere alla nazionalizzazione delle masse e pertanto soffriva di pecche
quali l’eccessiva democrazia, la debolezza dell’esecutivo, l’incapacità di pensare a una forte politica
internazionale. Il fascismo avrebbe realizzato quello che lo Stato liberale non era riuscito a fare.
Nella sua interpretazione essenzialmente filosofica, Gobetti volle interpretare le difficoltà del Risorgimento
attraverso la mancata riforma religiosa in Italia; la controriforma cattolica, infatti, avrebbe impedito
la creazione di un valido senso dello Stato, avrebbe impedito l’affermarsi della laicità, del progresso
e della vera rivoluzione sociale, che Gobetti vide nei Consigli di Fabbrica nel biennio rosso e in certi
aspetti della rivoluzione d’ottobre. Per cui il Risorgimento era stato il primo momento negativo dell’Italia
contemporanea. Poi sarebbero venuti il trasformismo, le velleità coloniali, il giolittismo, corrotto e
20 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Il processo di unificazione e il problema della Nazione
corruttore, infine il nazionalismo (interpretato da Salvatorelli come nazionalfascismo) e infine il fascismo,
inteso come autobiografia (negativa) della nazione.
Dopo la seconda guerra mondiale, la ovvia damnatio memoriae subita dal fascismo, trascinò con sé
anche la stessa idea di nazione. L’idea di considerare la nazione come momento essenziale dell’identità
di un popolo veniva scartata in luogo delle grandi culture ideologiche affermatesi nel dopoguerra. Se
la cultura politica liberale e laica di matrice risorgimentale aveva comunque operato una distinzione fra
nazione e nazionalismo, era passata, anche mediaticamente, l’idea opposta, e cioè che fosse proprio
il soffermarsi sul concetto di nazione ad impedire il vero progresso del paese, che invece avveniva
attraverso la visione marxista della società ovvero attraverso la concezione cattolica del rapporto fra
politica e società. Quest’ultima, per la verità, non era contraria al processo risorgimentale, avendo i cattolici
compiuto un percorso che dall’Opera dei Congressi, ancora segnata dall’intransigentismo cattolico
antiunitario, li aveva portati all’accettazione dello Stato liberale e alla conciliazione con il Risorgimento, anzi,
riscoprendo filoni filounitari nello stesso mondo cattolico.
Per altro, proprio dalla scuola economico-giuridica venne il passaggio della interpretazione marxista del
Risorgimento nella storiografia del dopoguerra. Gramsci ne fu il principale esponente, anche se con la
scuola di Volpe e Salvemini ruppe quasi immediatamente.
Il discorso di Gramsci è sintetizzabile nella polemica fra Mazzini e Marx in ordine alla rivoluzione
dell’Ottocento, per il primo condotta in nome della nazione e per il secondo in nome della classe; una
classe che superava la nazione come veicolo rivoluzionario e come capacità di mobilitare le masse. Da
una parte il popolo e dall’altro il proletariato; da una parte la rivoluzione nazionale che comprende e fa
propria le istanze sociali del popolo, dall’altra la rivoluzione sociale che annulla le differenze nazionali in
un’ottica internazionalista.
Per Gramsci il modello è la rivoluzione francese, nella sua valenza giacobina: come i giacobini avevano
saldato il popolo tra Parigi e masse contadine, così il Risorgimento per essere efficacemente rivoluzionario,
avrebbe dovuto suscitare una vera rivoluzione sociale unendo gli intellettuali e i borghesi alle masse
contadine e operaie dell’Ottocento. Diversamente il Risorgimento è una rivoluzione fallita.
In Gramsci la dualità tra città e campagna (di fatto tra Nord e Sud), non risolta attraverso la mancata
rivoluzione sociale, permane nel tempo a segnare l’impossibilità di una vera rivoluzione in grado di
mutare il modello di sviluppo. La colpa di Mazzini e del partito d’azione è stata quella di non avere imitato
i giacobini: se ci fosse stata una saldatura fra elemento cittadino (industriale e operaio) ed elemento
contadino, la rivoluzione si sarebbe fatta contro l’Austria e contro i proprietari terrieri: la guerra civile non
avrebbe depotenziato il moto risorgimentale ma lo avrebbe incanalato verso una rivoluzione sociale.
Anche la tesi di Gramsci, spesso inconsapevolmente, è richiamata nelle critiche attuali al Risorgimento,
soprattutto da parte della produzione meridionalistica, quella che vede il Risorgimento come mera
conquista piemontese.
L’interpretazione di Gramsci è stata considerata troppo “a tesi” e ideologica da molti storici, da Galasso a
Chabod, da Croce a Romeo: l’Italia non era la Francia; il processo di industrializzazione francese e di presa
di coscienza di una borghesia non era affatto come quello francese; e, per altro, neppure in Francia la tesi
di Gramsci finisce con l’avere un valore, posto che la vera rivoluzione, quella liberale, come ha dimostrato
Furet, non l’hanno fatta i giacobini, ma i moderati della Gironda e, soprattutto, i conservatori del Termidoro.
In particolare, la critica di Romeo alla tesi di Gramsci, portata sul terreno della storia economica, ha
costituito un punto di riferimento, anche etico-politico, per quanti si sono riconosciuti in una accettazione,
pur con le molte contraddizioni dello Stato risorgimentale. Dopo avere contestato la questione della
rivoluzione sociale in luogo di quella nazionale, impossibile per Romeo a causa delle condizioni sociali
dell’Italia preunitaria, Romeo non nega che l’industrializzazione del Nord sia stata fatta a scapito
dell’agricoltura del Sud, ma afferma che si trattò di una scelta necessaria per raggiungere un buon livello
di industrializzazione; per altro lo Stato unitario non era riuscito a realizzare una effettiva nazionalizzazione
delle masse, che si ebbe soltanto con la prima guerra mondiale e, seppure in un’ottica illiberale, con il
fascismo.
Secondo Romeo, che è stato sicuramente, anche attraverso la biografia di Cavour, lo studioso più
completo nell’analisi dell’Italia liberale, il nuovo Stato unitario risultò sicuramente assai diverso dalle culture
politiche che lo avevano ispirato: in luogo della “Roma del Popolo” di mazziniana memoria, vi era uno
Stato incapace di risolvere la questione religiosa; in luogo di un’Italia che fosse la patria di tutti gli Italiani,
vi era uno Stato che consacrava il privilegio di una minoranza e che lasciava fuori dalla società le masse
contadine; in luogo della vera unità nazionale, due Italie, Nord e Sud, che a molti daranno il senso del
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Giuseppe Parlato
fallimento del processo risorgimentale. Se a tutto questo aggiungiamo le difficoltà e le incertezze in politica
estera – dimostrate in maniera evidente con la terza guerra d’indipendenza – e i limiti di un progresso
economico lento e destinato a lasciare in eredità mille problemi, appare evidente che si possa essere
autorizzati a parlare di un fallimento sostanziale del Risorgimento, o di un Risorgimento tradito; comunque
di un’eredità improponibile per il futuro.
In realtà il discorso è più complesso e sfumato: molte delle critiche qui sopra esposte nascono dalla
persuasione che il cammino del nuovo Stato dovesse essere rapido, almeno quanto il processo militare.
Invece si dovette prendere atto, a un certo punto, che il cammino sociale, economico e civile della nuova
Italia era più lento del previsto. Lento ma reale, questo cammino, sul quale è bene ricordare alcuni aspetti
senza i quali diventa difficile, se non impossibile, tentare una interpretazione storiografica del Risorgimento
e dello Stato che da esso nacque.
In primo luogo va sottolineato che l’Italia nasceva dal risultato dello sforzo e dell’opera delle forze politiche
e sociali più mature del paese, specialmente della piccola borghesia settentrionale; in realtà, un blocco
sociale vi era, ed era costituito da quei ceti emergenti che si affacciavano allo sviluppo e che si erano
formati in periodo napoleonico; si trattava soprattutto di professionisti e di proprietari terrieri, votati però
non già al mantenimento improduttivo della proprietà, come nella struttura latifondistica, ma piuttosto
spinti alla necessità di sviluppare in termini capitalistici la produzione agricola. Assieme a questo, vi era
il ceto colto di tutte le regioni (e soprattutto di quelle meridionali) che mirava a costruire una religione
della nazione, e cioè a realizzare quel “fare gli Italiani” – secondo la famosa frase attribuita a d’Azeglio
– che costituiva il punto di riferimento costante della cultura, dell’arte e della scuola della seconda metà
dell’Ottocento. In questo contesto, appare evidente che le ambizioni della destra e, ancor di più, della
sinistra storiche in questo volere “fare gli italiani” si scontravano su un primo problema, che era quello
dell’esigua base di suffragio consentito. In altri termini, è vero che nel 1861, e per un ventennio, solo il
2% aveva diritto al voto, mentre metà della popolazione non andava a votare. Come poteva giungere a
buon fine il progetto di “fare gli italiani” se il 99% della popolazione era esclusa di fatto dalla possibilità di
esprimere un parere? Se tutto ciò è assolutamente vero, è altrettanto vero che tra quell’1% che andava
a votare e il nulla a livello di diritti civili e di possibilità di voto negli Stati preunitari, vi era un abisso in
termini costituzionali. Lo Stato italiano aveva realizzato un passo avanti rispetto al passato e il nuovo
Stato si qualificava come erede effettivo di quel Regno di Sardegna che nel 1849 aveva confermato lo
Statuto Albertino quando tutti gli Stati italiani lo stavano abrogando. Quell’uno per cento, in altri termini, è il
segnale di un già esistente, anche se da sviluppare, Stato di diritto.
Se vogliamo comprendere il senso che la tradizione risorgimentale ebbe nella nuova vita italiana, segnata
dalla presenza unificante della monarchia dei Savoia, divenuti ben presto simbolo di unità condiviso da
molti uomini politici e di Stato della sinistra, e se vogliamo intendere il vero senso della coincidenza dello
Stato liberale con quello risorgimentale, dobbiamo guardare al modo in cui le idee che avevano fatto la
nuova Italia si tradussero in valori fermamente e stabilmente posseduti e in principi direttivi della condotta
politica e del sentimento civile. Si deve in altri termini tenere conto di quel sentimento di orgoglio, di
quell’alto sentimento di sé che motivò gli Italiani dopo secoli di emarginazione e di sottomissione.
Le pur varie differenze di culture politiche del Risorgimento si ritrovarono nello Stato liberale con una
base comune di riferimento, resa molto bene nel binomio “nazione-libertà” che regge la coscienza
politica degli italiani dal 1861 al 1919. Pur nella vistosa carenza di rappresentanza politica, pur nelle sue
molte contraddizioni, l’Italia liberale riuscì a determinare la creazione di un importante ceto di servitori
dello Stato, magistrati, militari, insegnanti, funzionari dotati di spirito di sacrificio, di sobrietà, di religione
della patria, di spiccato senso dello Stato inteso come momento collettivo della comunità nazionale. E,
contemporaneamente, si formò anche una borghesia composta di professionisti, di tecnici, di dirigenti
economici impegnati a modernizzare la società per recuperare secoli di decadenza.
Le due tesi, quella gobettiana e quella gramsciana, sono due tesi molto suggestive, di grande impatto
emotivo e ideologico, che la storiografia, soprattutto con Rosario Romeo, si è incaricata di confutare. Due
tesi che, tradotte su un piano più politico, comunque hanno avuto una funzione nel secondo dopoguerra:
affossare definitivamente l’idea di nazione, la quale, travolta dalla caduta del fascismo che su di essa
aveva costruito le proprie fortune, non entrò mai nel lessico politico della prima repubblica. D’altra parte,
i due partiti di massa, il Pci e la Dc, non soltanto per molto tempo si erano considerati fuori del percorso
risorgimentale, ma soprattutto erano stati formati a visioni internazionalistiche, nel caso del partito di
Togliatti, o ecumeniche, nel caso di quello di De Gasperi.
Dopo una fortuna storiografica notevole, soprattutto dopo il 1989 con la fine dello Stato sovietico, le
22 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Il processo di unificazione e il problema della Nazione
tesi gobettiana e gramsciana furono progressivamente abbandonate dalla sinistra storiografica che, in
occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità, si è manifestata molto patriottica e molto sensibile
al tema della nazione. Le due tesi sul Risorgimento sono state invece recuperate e rispolverate dagli
attuali fautori della buona causa dei Borboni, dei principi preunitari, del Pontefice o dell’Austria; sono
state riprese da coloro, cioè, che contestano non solo il processo unitario ma addirittura il fatto che oggi
possa esistere uno Stato italiano. A destra più che a sinistra, a Nord come a Sud. Il legittimismo cattolico,
oggi abbandonato dalla stessa Chiesa che considera il 20 settembre quella data provvidenziale, avendo
permesso al Magistero di Pietro di liberarsi dei condizionamenti amministrativi che ogni potere temporale
si porta appresso, si lega quindi con il vecchio marxismo internazionalistico e con il vecchio radicalismo
gobettiano nella contestazione dell’unità nazionale.
Vi è una forte differenza fra chi ha voluto mettere in rilievo i ritardi della storiografia sul brigantaggio e
le vulgate che si sono passate nei vari decenni agli studenti (come ha fatto con la capacità che gli è
propria Giordano Bruno Guerri ne Il sangue del Sud), e chi ha preso pretesto da ciò per reimpostare una
anacronistica difesa del borbonismo e del potere temporale della Chiesa.
Garibaldi e D’Annunzio
Uno dei primi ad avere delle perplessità sul Risorgimento fu proprio Gabriele d’Annunzio. Non certamente
sul processo risorgimentale, quanto sulla sua gestione e soprattutto sul tasso di eroismo che lo Stato
liberale si porta appresso dall’esperienza risorgimentale. D’Annunzio è senza dubbio affascinato
dalla figura di Garibaldi. Il fatto che nel 1915 il Vate vada a Quarto a spingere l’Italia verso l’intervento
costituisce il migliore riconoscimento al ruolo di Garibaldi del quale, in qualche modo, d’Annunzio si
sente continuatore. La sera del 5 maggio, d’Annunzio inaugura ufficialmente il monumento ai Mille e si
pone come colui che interpreta una missione. Come Garibaldi ha da Quarto inaugurato la nuova Italia di
volontari e dei combattenti, così d’Annunzio da Quarto mira a creare le condizioni affinché l’Italia, entrando
in guerra, diventi finalmente grande.
In questo, d’Annunzio è selettivo: non prende a riferimento Mazzini, Gioberti o Cattaneo, ma neppure il Re,
quel Re che non doveva stargli così antipatico. Prende a riferimento Garibaldi, l’uomo del volontarismo,
il comandante che si ribella agli ordini e va per la sua strada, l’uomo che con il suo carisma raccoglie
un migliaio di volontari e si pone contro gli ordini dello Stato. Come non vedere in questa scelta una
anticipazione dell’impresa fiumana? Una sorta di giustificazione dei famosi versi cantati dai legionari: “Se
non ci conoscete, guardateci sul petto. Noi siamo i disertori, ma non di Caporetto”.
Tutto ciò è chiaro, ma la scelta di Garibaldi, a mio avviso, comporta anche un’altra conseguenza, che fa
parte del modo di pensare di D’Annunzio. Che Garibaldi sia la scelta preferita, per d’Annunzio significa
anche privilegiare uno dei più famosi “vinti” del Risorgimento. Garibaldi è l’uomo dei vani tentativi di
arrivare a Roma prima delle diplomazie, dell’Aspromonte, di Mentana, della Repubblica Romana, dell’
“Obbedisco” di Bezzecca. Insomma, Garibaldi è stato quello che più di altri ha mobilitato la gioventù
ma la politica lo ha frenato, l’Italietta liberale non lo ha compreso e ha preferito gestirne la memoria,
non l’esempio. Garibaldi è l’uomo che accetta, per amore della nazione, la monarchia, che sopporta
la cessione di Nizza alla Francia; è il condottiero che conquista tutto il Sud ma poi lo cede al Re. È il
rivoluzionario e d’Annunzio lo sente vicino soprattutto quando decise, in Parlamento, di lasciare la destra
per la sinistra annunciando che andava “verso la vita”. D’Annunzio si sente figlio di quel Risorgimento
“tradito” che Garibaldi rappresenta. All’ “Obbedisco!” di Bezzecca, il Vate contrappone il “Disobbedisco!”
di Fiume. Anzi, il gesto di Fiume, proprio perché non ha suscitato una reazione dura dallo Stato, conferma
la necessità della scelta eversiva contro uno Stato che non merita di essere rispettato. Uno Stato serio
e consapevole avrebbe trattato i legionari di Fiume come dei disertori, che con la loro impresa avevano
messo in difficoltà il governo. In uno Stato serio il generale Pittaluga alle porte di Fiume avrebbe trovato
il coraggio di aprire il fuoco contro D’Annunzio, così come Garibaldi sull’Aspromonte aveva trovato un
colonnello dei bersaglieri, Emilio Pallavicini, pronto ad aprire il fuoco contro i volontari in marcia verso
Roma.
D’Annunzio rappresenta, in questo senso, la continuità del filone del volontarismo risorgimentale e il suo
scopo non è quello di combattere il Risorgimento quanto piuttosto di denunciare le debolezze dell’Italia
liberale e di sostituire le fragili strutture dello Stato liberale con uno Stato più rappresentativo come quello
ipotizzato dalla Reggenza del Carnaro.
23 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Giordano Bruno Guerri
Il Risorgimento e il Brigantaggio
Nel mondo della scuola il tema del brigantaggio viene spesso liquidato con queste poche righe: il
brigantaggio fu la ribellione insufflata dai Borboni e dalla Chiesa in alcune genti del nostro Mezzogiorno
che fu, alla fine, giustamente stroncata.
In realtà le cose non andarono così. Già Franco Molfese, nel suo importante volume Storia del
brigantaggio dopo l’Unità, pubblicato nel 1966 e di fatto controcorrente nei confronti della storiografia
dell’epoca, sostiene che i cosiddetti plebisciti furono in realtà riservati a una stretta minoranza della
popolazione e, per di più, i risultati spesso vennero sfalsati. È ormai noto che l’Unità d’Italia nacque
più che da una precisa volontà, da una serie di circostanze fortuite e favorevoli. Questi fondamentali
aspetti, purtroppo, vengono spesso dimenticati o sfumati nell’insegnamento scolastico e questo è
un male perché la trasmissione del sapere, la conoscenza dei fatti storici che stanno all’origine di
problematiche attuali, deve avvenire sempre in maniera corretta; questa è la funzione della storiografia
e la missione degli storici.
In particolare sembra che sia stata addirittura cancellata la lotta al brigantaggio che fu invece una vera e
propria guerra civile, della quale paghiamo ancora oggi le conseguenze nefaste.
Premettendo che l’Unità d’Italia fu indiscutibilmente un bene, un’azione opportuna, necessaria e
indispensabile, dalla quale anche il nostro Sud si è avvantaggiato, è da criticare aspramente il modo con
cui venne realizzata e applicata, soprattutto nei primi anni, al Sud. La lotta al brigantaggio, si è detto, fu
una guerra civile.
Si parla spesso della scarsa partecipazione di popolo al Risorgimento e questo è un fatto
incontestabile se per popolo intendiamo tutte le classi sociali compresi i contadini e gli operai. ll
brigantaggio meridionale fu, invece, un movimento fatto sostanzialmente da contadini e dalle classi
più umili, certamente istigate, e all’inizio sostenute e armate, dai Borboni che volevano tornare sul
loro trono e dal Papa che voleva un’Italia divisa, come già asseriva Machiavelli nel Cinquecento,
per conservare il proprio potere temporale. Ma il fenomeno del brigantaggio non si può spiegare
solo in questo modo. Quando si parla di ribellione di popolo si deve necessariamente affrontare
la questione sociale che era il problema più grave presente nel Regno delle Due Sicilie. Una parte
dell’attuale storiografia tende a enfatizzare eccessivamente le innovazioni tecnologiche presenti
nel Regno delle Due Sicilie – la prima ferrovia, la luce elettrica, il gas – fenomeni questi limitati,
però, alla sola città di Napoli e all’area vesuviana. Inoltre se è un dato storicamente accertato che
nelle casse del Regno delle Due Sicilie era disponibile una grande quantità di oro, di gran lunga
superiore alla somma di tutti gli altri Stati pre-unitari messi insieme, è pur vero che quella era una
ricchezza inerte, non veniva cioè investita in opere pubbliche. E ancora, esistevano sì industrie al
Sud che vennero poi smantellate, ma l’aspetto più importante e delicato sul quale si giocò e si
perse la partita dell’Unità fu un altro. Garibaldi durante la sua avanzata in un discorso, divenuto poi
celebre, ebbe a promettere terre ai contadini: la spartizione dei grandi latifondi per dare le terre a
chi le lavorava. Queste parole infuocarono le popolazioni provocando un afflusso enorme di volontari
che andarono ad accrescere le sue file e che combatterono per l’Italia unita. Ma quando gli stessi si
resero conto che le terre non sarebbero state a loro assegnate e che, sciolto l’esercito garibaldino,
addirittura non erano graditi nell’esercito regolare capirono di essere stati raggirati. Il nuovo stato
unitario si presentava loro sotto forma di gendarme, di uomo delle tasse, imponendo nuove misure,
nuovi pesi, addirittura una nuova lingua, l’italiano; tutte cose sostanzialmente giuste e indispensabili
in un moderno stato, ma la rapidità e la violenza con cui tutto questo venne attuato diede
l’impressione più di una nuova occupazione coloniale che di una fusione tra fratelli. Nell’opinione
pubblica, come nel ceto dirigente sabaudo, si mantenne una distinzione fra il Nord, civilizzato, ricco,
moderno e perbene e un sud arretrato, povero, ignorante e da redimere.
Questi sono i motivi principali per i quali attecchì e si diffuse nel Sud un movimento quale il brigantaggio.
24 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Il Risorgimento e il Brigantaggio
Moltissimi contadini, già appartenenti all’esercito garibaldino, godendo dell’aiuto dei parroci e
dall’organizzazione dei Borbone, si unirono in bande arrivando a rappresentare una minaccia palese
per la nuova Italia unita; infatti pur essendo complessivamente poche decine di migliaia, godettero
dell’appoggio incondizionato di tutta la popolazione del Mezzogiorno: dietro ogni brigante c’era non
solo la sua famiglia ma una rete stabile di relazioni e quasi tutto il suo paese. Non è un caso che
mentre nel Risorgimento ufficiale, quello del nord per intenderci, compaiano solo due donne, la
duchessa di Castiglione, spia nota per le sue prestazioni amorose, e Anita Garibaldi, madre e sposa
esemplare ed eroina lei stessa, nel “Risorgimento del Sud”, quello del brigantaggio, ci sono decine e
decine di donne che abbandonano non solo la famiglia, il paese, quel poco di sicurezza economica,
ma addirittura una tradizione millenaria di sudditanza, per abbracciare il fucile, salire sui monti e
combattere insieme ai propri uomini.
È dunque indubbio che si trattò di guerra civile anche se non si è avuto mai il coraggio di
chiamarla come tale.
In certi passi del volume Cristo si è fermato a Eboli, Carlo Levi testimonia , nelle vicende tristi
del confino, come ancora negli anni Venti del ‘900 non ci fosse famiglia di meridionali non ferita
e insanguinata da lutti e dolori di quella guerra civile che fu il brigantaggio. Gli scontri, è noto,
furono di una durezza inaudita, come in tutte le guerre civili, la lotta cruenta e sanguinosissima da
entrambe le parti: le cronache e i documenti dell’epoca ci parlano di soldati squartati, di donne
incinte sventrate, di stupri, di briganti che tagliavano la testa a soldati e soldati che tagliavano la
testa a briganti, di decine di paesi incendiati e rasi al suolo. Ma il dato forse più eclatante è che
questa guerra costò al neonato esercito italiano più morti di tutte le tre Guerre d’Indipendenza
messe insieme. Ad oggi non si sa quanto costò in termini di morti alla popolazione meridionale:
appaiono esagerate le cifre ipotizzate dai neoborbonici, che arrivano ad asserire addirittura un
milione di caduti, ma tra caduti in combattimento, fucilati, morti per malattie e stenti, sicuramente si
può parlare di almeno 100.000 persone.
Sono cifre che lasciano ovviamente il segno nella storia di un paese appena nato, così come lasciano
il segno le modalità con le quali si pose fine alla guerra: la ribellione infatti venne stroncata non con
la forza militare o con la amministrazione di un buon governo, ma solo grazie a una vera e propria
dittatura militare.
La legge Pica del 1863, legge assolutamente liberticida e che venne ampiamente applicata, infatti
consentiva ai tribunali militari di dare un solo grado di giudizio, inappellabile e di eseguire immediatamente
la condanna a morte. Non solo, fu anche la prima legge sui pentiti (che non è quindi una invenzione
recente) che permise di sgominare il brigantaggio che altrimenti sarebbe durato ancora per molto, con i
suoi eroi, quali Carmine Crocco, Chiavone, che erano ormai figure mitizzate in tutto il Sud.
Credo che aver taciuto tutto questo per decenni, trasformando il Risorgimento in un’epopea eroica, filtrata
attraverso la lente sabauda, sia necessariamente servito per creare un senso dello Stato in genti che non
percepivano questo senso di appartenenza, di popolo, di Nazione. Ma nella realtà dei fatti per il popolo
questa unità era artificiosa, non percepita, decisa sulla carta e non il risultato di una volontà di forte e
condivisa autodeterminazione.
La coesione vera arriverà con la prima guerra mondiale e ancora di più, nel secondo dopoguerra con
il boom economico, il benessere, la televisione e, finalmente, un generale e vistoso miglioramento
delle condizioni economiche e sociali del nostro Sud. Quel Sud che pagò, fino almeno agli anni Dieci
del Novecento, la bellezza di nove milioni di emigranti, di certo non tutti imputabili al brigantaggio, alla
guerra civile, ma più in generale anche alla grave crisi economica che a fine Ottocento colpì l’Italia e tutta
l’Europa, e che i rapidissimi processi di unificazione territoriale e monetaria post-risorgimentali avevano
enormemente acuito.
Il processo di unificazione, così come realizzato, si è detto ebbe fra le conseguenze negative la nascita del
brigantaggio. Ma anche la mafia e la camorra, che esistevano già all’epoca risorgimentale, crebbero di
importanza come fenomeno sociale perché nel Sud si acuì un senso di opposizione allo Stato unitamente
alla convinzione che occorresse creare uno stato nello stato cioè un contro-stato, un contro-potere
capillarmente organizzato, del quale ancora oggi si pagano le conseguenze.
Allo stesso modo si pagano ancora le conseguenze di un regionalismo, di una contrapposizione
del noi e voi, amplificato dai giornali, dalla televisione e dai palazzi del potere, incredibile e per certi
versi antistorico a 150 anni dalla riunificazione di un unico popolo, avvenuta sì tardivamente e con
gravissimi errori, ma necessaria.
25 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Valerio Terraroli
Dal Vittoriano al Vittoriale. Immagini della Nuova Italia
Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia è un appuntamento molto importante per una serie di ragioni che
sono proprio inerenti al nostro concetto di Nazione e, soprattutto, rispetto a quello che è stato un processo di
aggregazione di stati diversi, indipendenti per secoli, per arrivare allo Stato unitario a cui noi apparteniamo.
Questa unità, che fu prima di tutto unità militare e unità politica, ha fatto moltissima fatica a diventare unità
culturale e unità linguistica e soprattutto non è ancora unità psicologica. Molti non si sentono ancora italiani in
senso complessivo, si sentono italiani di una parte d’Italia e guardano gli altri come se fossero degli stranieri,
questa è una delle follie del nostro paese.
Credo che valga ancora la famosissima frase di Cavour “l’Italia è fatta e adesso bisogna fare gli italiani”. In
effetti quella frase segnava un punto rispetto all’argomento di cui mi è stato chiesto di parlare cioè quanto
l’immagine o le immagini sono state, della cultura di tardo Ottocento e del primo Novecento, utilizzate con
lo scopo di dare agli italiani una consapevolezza di appartenenza ad un paese unitario, cioè come è nata
l’immagine della nuova Italia?
Io ovviamente intendo parlarne non dal punto di vista retorico e nemmeno celebrativo, ma al contrario
cercherò di evidenziare quali sian stati gli strumenti o almeno i punti nodali attraverso i quali questa scelta,
diciamo di politica culturale, si è mossa e si è svolta.
Il titolo che ho dato al mio intervento è un titolo un po’ che gioca con la radice comune dei due termini,“Dal
Vittoriano al Vittoriale”, per la verità la radice comune è “vittoria”, ma nel primo caso è un nome proprio,
Vittorio Emanuele II padre della Patria, e nel secondo caso è la “vittoria”, intesa proprio come sostantivo, cioè
vittoria dopo una lunga guerra e in una tormentata battaglia. In realtà l’assonanza dei due termini è anche
un’assonanza di intendimenti, come alla fine intenderò dimostrare.Tra l’altro molte persone confondono le
due parole: pensano al Vittoriale come al Vittoriano e al Vittoriano come al Vittoriale e poi al Vittoriano pensano
come all’Altare della Patria, cioè al monumento che tutti conosciamo, ma l’insieme è il Vittoriano, l’Altare della
Patria è solamente il basamento che corre sotto la statua del re. Ci tengo a questa distinzione perchè non
solo le due parti,Vittoriano e Altare della Patria sono stati costruiti in momenti diversi, ma hanno due significati
molto diversi ed è quindi importante distinguerli.
In realtà se il Vittoriano è la sintesi di quella nuova idea di Patria, una sintesi che si esemplifica attraverso una
serie di immagini a cui agganciare un’idea di Nazione che ancora non c’è e quindi con l’obiettivo di forgiare
nella mente di tutti un pantheon di immagini unitarie: il Vittoriale è l’atto conclusivo di questo percorso.
Partirò proprio dal problema di apertura cioè questo: quello che vedete è un dipinto di grandi dimensioni,
è un grande dipinto di storia lungo circa 6 metri e alto 4 metri, dipinto da Michele Cammarano nel 1871,
cioè esattamente l’anno dopo dell’avvenimento che rappresenta. Quello che si vede sono i bersaglieri
che entrano a Porta Pia. Tra l’altro il dipinto realizzato in pochi mesi nell’anno 1871 fu esposto anche a
Vienna negli anni Ottanta con grande successo decretato dal pubblico internazionale, ma è interessante
sapere che nel 1872, cioè nell’anno successivo all’esposizione a Napoli dove fu esposto la prima volta, il
re Vittorio Emanuele II lo acquistò per lo Stato e lo donò ai Musei di Capodimonte, dove oggi si trova. Ora
quello che voi vedete è chiaramente un’immagine che oggi potremmo definire di tipo cinematografico
perchè naturalmente la macchina da presa, cioè noi, siamo davanti all’impeto, all’onda dei bersaglieri
che entrano a Porta Pia. Sappiamo benissimo che storicamente l’avvenimento non si svolse nei termini
da “Ombre rosse” che vedete qui, in realtà fu una scaramuccia e poi ci furono degli accordi presi con
le guardie pontificie. Insomma, in realtà Cammarano da artista, perchè questo è il compito dell’arte,
trasfigura un avvenimento storico e un avvenimento politico più simbolico che militare, in un’epopea che
serve a consolidare il senso di appartenenza di tutti a quell’ avvenimento. È chiaro che qui dentro, cioè
in questa composizione pittorica, c’è un ricordo fortissimo di un’altra opera d’arte che riveste grande
significato storico/iallegorico, cioè La libertà che guida il popolo di Delacroix. Il dipinto, che Eugene
Delacroix realizza nel 1830 proprio a ridosso delle giornate di luglio della rivoluzione borghese a Parigi, era
perfettamente conosciuto da Cammarano perchè era esposto al Palais du Luxembourg e Cammarano
26 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Dal Vittoriano al Vittoriale. Immagini della Nuova Italia
nel 1870 era a Parigi da almeno un anno a studiare i dipinti del Louvre e del Musée du Luxembourg,
quindi è chiaramente Delacroix che ha in testa. Solo che, al posto delle barricate, dei caduti e della Libertà
personificata, che anche là aveva il compito di rappresentare la Nazione e la Rivoluzione Francese che
ritornava a vivere, qui diventa invece una specie di fotogramma che fissa l’impeto dei bersaglieri, che
sono poi i giovani italiani vestiti con la divisa da bersaglieri, i quali attraverso questo polverone entrano
nella storia ed entrano attraverso il pubblico che ogni volta viene coinvolto dall’immagine. Allora è chiaro
che subito a ridosso non dell’Unità, perchè è chiaro che l’Unità avviene nel 1861, ma con la presa di
Porta Pia, cioè con il compimento del Risorgimento secondo i disegni cavouriani, garibaldini, mazziniani,
si iniziano ad elborare i simboli della Patria, in questo caso Roma, strappata al potere pontificio che la
tiene da secoli, diventa capitale del nuovo Regno, cioè del nuovo Stato. Allora Roma inevitabilmente da
quel momento diventa il luogo in cui si devono forgiare le immagini della nuova Italia e ciò naturalmente
avviene proprio in corrispondenza della morte di quello che a questo punto è diventato, volente o nolente,
Vittorio Emanuele II ovvero il Padre della Patria. Il re muore il 9 gennaio del 1878 nel palazzo del Quirinale,
da poco diventato palazzo reale dove i Savoia si erano trasferiti da Firenze che fu capitale d’Italia fino al
1870, e viene seppellito al Pantheon, cioè nel luogo considerato più simbolicamente significativo per la
nuova Nazione: i re non possono essere seppelliti in San Pietro, per evidenti motivi di contrapposizione
con lo Stato della Chiesa a cui al basilica appartiene, quindi il Pantheon è la chiesa che meglio si adatta
per diventare il mausoleo della dinastia sabauda in sostituzione della basilica torinese di Superga. Dopo
poche settimane, in marzo, Giuseppe Zanardelli bresciano, Ministo dell’Interno, chiese al Parlamento, e
ottenne ovviamente all’unanimità, di costruire un monumento dedicato al re, da cui il nome di Vittoriano,
ma che al contempo il monumento evidenziasse la storia e i valori della nuova Nazione, perchè questo
era l’intendimento profondo. Nel 1880 venne bandito un concorso, 14 nazionalità diverse vi parteciparono
e vennero presentati 315 progetti. I progetti dovevano essere progetti di massima con vedute disegnate,
ma anche maquettes fatte in gesso, in cartapesta, in plastilina ecc. perchè poi dovevano essere esposti e
sottoposti al giudizio del pubblico. Naturalmente il primo concorso diede vita alle follie più straordinarie, il
concorso era molto largo, non si diceva dove il monumento avrebbe dovuto essere costruito, non si diceva
come doveva essere, c’era solamente un titolo che poi sarà ripetuto nel secondo concorso che era Da
Porta Palatina a Porta Pia. Ricordo che porta Palatina è la porta romana di età augustea, poi trasformata
attraverso il tempo, che si trova vicino a Palazzo Reale a Torino. Quindi da Torino a Roma, da Porta Palatina
a Porta Pia. È chiaro che l’intendimento di chi ha stilato i punti del bando di concorso era che questo
monumento dovesse riassumere tutta la storia recente d’Italia: a partire dalla prima capitale del Regno,
Torino, poi Firenze, poi Roma, ma anche tutta l’epopea risorgimentale con gli eroi del Risorgimento, molti
dei quali erano ancora vivi.
Presento per tutti i 315 monumenti uno dei più curiosi perchè questo sembra una torta nuziale, con
sulla cima Vittorio Emanuele II a cavallo ed è un’opera però interessante perchè la parte scultorea è stata
modellata da Ettore Ximenes, l’artista che ha più volte ritratto Zanardelli, abbiamo anche a Brescia un
monumento realizzato da Ximenes che diventerà un artista importante delle nuova Italia degli anni Ottanta
e Novanta, ma che qui è proprio agli esordi della carriera. L’idea prende un po’ in prestito modelli antichi,
immaginate la colonna di Traiano espansa, cioè una specie di colonna coclide che diventa anche una specie
di piramide tutta ricoperta di sculture, tra l’altro il progettista aveva pensato a delle scalee che permettessero
al pubblico di salire e di seguire tutte le sculture e di arrivare fino al basamento della statua equestre del
re che sta in cima e tutta questa ridda di personaggi doveva essere o sarebbe stata una mescolanza
di allegorie, la Patria, l’Orgoglio, il Diritto, la Civiltà italiana ecc e i personaggi del Risorgimento con la
ricostruzione simbolica parziale di Porta Pia, di Porta Palatina e così via.
Naturalmente la commissione giudicatrice si trova davanti a opere come questa che al di là della follia
estetica, cioè della non soluzione del problema, portava con sé dei costi mostruosi per cui viene azzerato il
primo concorso. Immediatamente se ne promuove un secondo, siamo quindi nel 1883 e questa volta però
il bando di concorso è preciso e ci fa capire anche gli intendimenti dei legislatori perchè si dice che i progetti
dovranno appartenere a una di queste tre possibilità che adesso vi elenco e soprattutto che il monumento
sarà collocato, e questa era l’idea iniziale, nella zona della stazione Termini.
Quindi l’intendimento del legislatore inizialmente era quello di pensare a un monumento, che poi viene
descritto come forma base, costituito da un grande colonnato con scalee e terrazze e giardini e fontane,
collocato vicino alla stazione Termini dove allora non c’era Roma, perchè la Roma papalina arrivava
praticamente a Santa Maria degli Angeli, alle Terme di Diocleziano, dove aveva lavorato Michelangelo. Quindi
il monumento a Vittorio Emanuele doveva essere il nucleo di partenza della nuova Roma che si sarebbe
27 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Valerio Terraroli
espansa da lì nelle campagna romana, divenendo un luogo di aggregazione, un luogo panoramico, perchè
sopraelevato, verso la città antica e un luogo di passeggiate. Quindi un monumento che fosse il punto
nevralgico e l’origine di un impianto urbanistico. L’idea non era male come partenza.
Quali sono i tre temi che gli artisti potevano scegliere?
Sempre ci doveva essere la figura di Roma personificata, questa era la novità, cioè ci doveva essere una
figura che impersonasse la nuova capitale e che rappresentasse simbolicamente l’Italia, la nazione riunificata
e l’antichità, quindi il legame della nuova nazione con l’Impero, con la tradizione di Roma.
Quindi Roma e i protagonisti del Risorgimento, Roma e la storia del Risorgimento attraverso gli episodi e le
battaglie, Roma e le allegorie della Nazione.
Vengono presentati progetti diversi. Nel 1884 viene scelto il progetto di Giuseppe Sacconi, il quale aveva
risposto più di altri alla necessità di una grande struttura architettonica costituita da un incastro di scalee,
terrazzamenti, balconate e loggiati.
Ora proprio nel momento di passaggio dalla vittoria dell’idea di Sacconi alla sua esecuzione, il governo,
decide di mutare la collocazione del monumento e decide di collocarlo a fianco del Campidoglio. È una
decisione grave da un certo punto di vista e significativa dall’altro; grave per noi, cioè per gli storici dell’arte,
perchè abbiamo perduto un intero quartiere medievale e rinascimentale per questo monumento e una
parte dei Fori Imperiali. Però dall’altra il senso della collocazione chiarisce che cosa doveva essere davvero
il Vittoriano e che cosa si investe su questo monumento sia in termini economici, il costo è mostruoso, sia
in termini tecnici. Potete solo immaginare cosa abbia voluto dire demolire i quartieri medievali e le vestigia
romane e poi le costruzioni necessarie per sorreggere la quantità di materiale con il quale fu costruito ma
soprattutto è significativo che quel luogo, il Campidoglio, che da secoli è il punto simbolico della città di
Roma e della storia di Roma e dell’Italia, non può non essere coinvolto nel monumento al padre della Patria,
cioè la giovane Nazione non può non essere attaccata, simbolicamente e fisicamente, e quindi in modo
chiaramente simbolico, alla sua storia. Per cui la scelta di collocarlo al Campidoglio, a ridosso dell’Aracoeli,
è inevitabile tant’è che viene collocato in asse con via del Corso, che è una via settecentesca poi risistemata
nell’Ottocento, e con piazza del Popolo per cui il monumento ha delle direttrici visive necessarie per esser
visto all’ingresso di Roma. Quando si entrava da porta del Popolo dalla campagna romana, in fondo si vedeva
il monumento e poi via via ci si avvicinava il monumento aumentava di grandezza.
La scelta, ripeto, è una scelta dolorosa che produce danni irreversibili al patrimonio
architettonico-urbanistico e archeologico della città però dall’altro punto di vista questo
monumento segna una presenza nuova nella città antica che non è soltanto la presenza politica
dei Savoia e di una nuova Nazione, ma è anche la presenza di molti artisti italiani; tutti gli scultori
italiani operosi negli anni dell’unificazione del Regno e proprio a ridosso di questa impresa
partecipano alla realizzazione del monumento che, esasperando un po’, potremmo definire il
museo della scultura italiana tra il 1880 e il 1925.
Tutti vi partecipano, tutti vogliono partecipare perchè essere lì significa avere una medaglia al merito che ti
permette di avere un prestigio internazionale.
Sacconi si mette subito al lavoro: innanzitutto nella prima versione non esiste l’Altare della Patria cioè
il monumento è solo per il padre della Patria,Vittorio Emanuele II, quindi si era deciso che ci fosse un
monumento equestre legato all’antica tradizione dei condottieri, collocato al centro su un basamento
sopraelevato e il grande colonnato che doveva chiudere come una quinta scenografica il monumento, le
grandi terrazze che permettevano di creare un belvedere sui Fori Imperiali e su piazza Venezia, le scalee,
le fontane con i mari d’Italia e alcuni gruppi statuari, pochi all’inizio, rappresentanti simbolicamente il
Risorgimento. Sotto il basamento in una nicchia avrebbe dovuto essere collocata la dea Roma cioè la
personificazione dell’Italia.
In un secondo disegno, un secondo progetto poi realizzato in un modello di gesso, la struttura si articola
meglio, nasce l’idea di un fregio sottostante che accompagna la nicchia della dea Roma, quello che diventerà
l’Altare della Patria, e si cominciano a moltiplicare le sculture che vanno a collocarsi lungo le scalee, gli
alti basamenti e lungo la scalinata centrale. Perchè c’è questo aumento della parte plastica? Perchè
naturalmente lo stesso architetto si rende conto che inevitabilmente un grande monumento architettonico
costruito in quel luogo che si confronta con l’antichità, con la grande colonna di Traiano che sta lì vicino, ha
inevitabilmente bisogno di figure per fissare idee e principi, non si può dire soltanto questo è il Vittoriano,
quella che vedete lì sotto è l’Italia, Roma personificata e l’altro Vittorio Emanuele II e il resto te lo immagini,
in realtà te lo devo raccontare come siamo arrivati qui.Te lo racconto attraverso un fregio all’antica che
rappresenta le grandi battaglie del Risorgimento, te lo racconto con la personificazione delle regioni italiane
28 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Dal Vittoriano al Vittoriale. Immagini della Nuova Italia
che rendono omaggio al re, te lo racconto attraverso delle allegorie dei mari d’Italia, dall’Adriatico al Tirreno, e
te lo racconto attraverso le allegorie simboliche della gloria della Patria, del Diritto ecc..
Quindi è chiaro che a questo punto è necessario fare una serie di concorsi per avere dei bozzetti dei
monumenti e in effetti questo avviene perchè viene convocata una commissione costituita, guarda caso,
dal più grande scultore vivente che è Leonardo Bistolfi, il quale diventa veramente il patriarca della scultura
italiana e controlla chi lavora lì e naturalmente fa lavorare scultori che si muovono sulla sua idea di scultura
cioè nell’ambito della scultura simbolista, una scultura di tipo pittorico che poi farò vedere, e gli altri due
membri sono uno storico dell’arte, questo è abbastanza significativo, Corrado Ricci che era il direttore
della Galleria Nazionale di Roma e poi Benedetto Croce, il grande filosofo. Quindi in realtà la commissione
è costituita da un professionista, uno scultore, Bistolfi, da uno storico dell’arte che rappresenta anche il
Ministero e da un intellettuale come Benedetto Croce. È chiaro che le sculture devono avere una qualità
tecnica, devono corrispondere ad una qualità estetica, ma soprattutto devono rappresentare dei valori che
sono quelli che Benedetto Croce deve identificare all’interno dei bozzetti che vengono presentati.
Contemporaneamente però il cantiere comincia con delle grandi difficoltà, per capire che cosa ha voluto dire
l’inserimento di quel monumento gigantesco nel tessuto di Roma, c’è una planimetria tracciata prima degli
abbattimenti, qui vedete che è già segnata la struttura in pianta del grande colonnato a ridosso dell’Aracoeli,
qui c’era il convento dell’Aracoeli che viene abbattuto per primo e qui si vedono gli sporti del resto del
monumento, questa è tutta la parte che viene abbattuta dove ci sono, tra l’altro, importanti edifici come la
torre di Papa Paolo III e palazzo Torlonia.
L’attività procede celermente da un lato, con difficoltà tecniche dall’altro, però succede che nel 1905 Sacconi
muore, è malato di tumore e sa da tempo che morirà, quindi lascia tutti i disegni esecutivi tuttavia quando
muore nessuno pare in grado di condurre il cantiere. Per cui viene deciso dal governo in carica di affidare
la terminazione del monumento a un gruppo di tre architetti: Koch, Manfredi e Piacentini. Quest’ultimo sarà
poi l’architetto di regime, come è noto gli dobbiamo piazza della Vittoria a Brescia, e questa è una delle sue
prime esperienze in un cantiere pubblico. Gli architetti che prendono in mano il progetto di Sacconi apportano
alcune modifiche al progetto originario, in qualche modo lo snelliscono, vedete che spariscono le grandi
muraglie che per Sacconi evocavano Porta Palatina e Porta Pia, cioè le città turrite d’Italia e il simbolico
passaggio da Torino a Roma. Manfredi, Koch e Piacentini snelliscono la struttura in modo da dare una grande
apertura alle scalee e alle terrazze spostando le sculture sui lati e dando molta enfasi alla parte centrale di
quello che è il sottobasamento della statua equestre di Vittorio Emanuele II.
Per quale motivo? Addirittura c’è stato un momento in cui si è pensato che la statua del re anziché stare
nel Vittoriano potesse essere collocata al centro di piazza Venezia, ricavata dallo sventramento di quella
parte della città, e che quindi il Vittoriano fosse solo semplicemente una scenografia, una specie di apparato
funebre di pietra che chiudeva simbolicamente l’avanzata del re a cavallo verso la città. Poi si pensò
nuovamente di collocarlo in alto, ma di ricavare un grandissimo spazio sotto, quello che in quel momento
cominciava a essere chiamato Altare della Patria, proprio con lo scopo esplicito di dare un grande spazio ai
fregi laterali perchè quello diventasse il sacrario della Nazione con al centro la dea Roma, con ai lati l’epopea
risorgimentale con delle immagini che il pubblico che avrebbe potuto percorrere le scalinate avrebbe fissato
nella propria memoria: una specie di grande ara all’aperto, di grande altare all’antica in cui si bruciavano
simbolicamente incensi alla nuova Nazione.
La complessità dei lavori ve la mostro solamente con un’immagine: questa è l’Aracoeli, questi sono i resti
delle case abbattute, vedete che questa parte del colonnato che sembra finita in realtà è una gigantesca
struttura di gesso tenuta da un’impalcatura che è stata realizzata per vedere, per giudicare dal vero, quelle
colonne che dal vero sono alte 12 metri, per vedere a distanza come poi avrebbe funzionato il monumento
finito.A noi può sembrare strano, ma tutto il monumento è stato fatto in gesso prima e poi via via smontato e
sostituito dalla parte in muratura e dalla parte in pietra. Ciò succederà anche per l’Altare della Patria.
Questo è un bozzetto vergato da Sacconi a ridosso del 1905, tra l’altro qui c’è un commento di Manfredi
dell’anno dopo, 1906, della prima idea del suo monumento a Vittorio Emanuele II che prevedeva un
basamento molto semplice con trofei militari e il re che avanza con la spada sguainata e niente di più, un
monumento abbastanza tradizionale.
Che cosa accade invece nella redazione finale? Innanzitutto che il re non sguaina la spada e soprattutto non
porta la feluca ma porta una specie di elmo da cavaliere medievale, tiene le briglie del cavallo che lievemente
piega la testa, ma soprattutto il basamento si è articolato ed è diventato un immenso altorilievo in cui sono
inserite le personificazioni delle regioni italiane.
Vedete nel dettaglio come queste figure, che sono opere di artisti diversi, siano perfettamente in linea con
29 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Valerio Terraroli
quel gusto neo medievale che appartiene alla cultura italiana tardo risorgimentale che va avanti fino al primo
Novecento, vedete qui ad esempio la Romagna impersonata dall’imperatrice Teodora, così come è raffigurata
nei mosaici di San Vitale a Ravenna. Quindi vedete che viene messa in campo tutta un’iconografia che va
a raccogliere dal Medioevo, dall’Antichità, dalla civiltà paleocristiana e rinascimentale, quello che in qualche
modo dovrebbero essere le radici di questa Nazione che non è mai esistita come tale e che si coagula
proprio intorno a questo monumento.
Ora i punti nodali diventano, oltre alla statua centrale di Vittorio Emanuele II, quattro gruppi collocati
lungo la scalinata, il più importante dei quali è quello che vi mostro, cioè quello realizzato dallo stesso
Leonardo Bistolfi nel 1910 e e rappresenta il Diritto e ve lo mostro perchè vi sia chiaro che cosa sia la
poetica bistolfiana. Rispetto alle regioni italiane cioè rispetto a una rappresentazione molto descrittiva
e storicista della tradizione storica del nostro paese, Bistolfi essendo uno scultore di matrice simbolista
punta l’accento sull’allegoria, sulla forma poetica, sulla forma di una scultura appunto di tipo pittorico,
vedete che addirittura restano indistinguibili le varie figure che compongono il gruppo. In realtà ciò
che interessa allo scultore è rendere il movimento, rendere l’avvolgente vortice che avvolge queste
figure come interiorità, come energia e come aria che le delimita. Rappresenta naturalmente delle
figure maschili e femminili riprese dai modelli michelangioleschi che portano sulle spalle una figura
abbandonata che rappresenta appunto il Diritto della Nazione che viene portato in vita come una
specie di novello Lazzaro perchè gli italiani appunto richiamano in vita il Diritto alla libertà, quindi vanno
a combattere, il Risorgimento, e uniscono il paese.
Questa è una scultura di Ximenes, se vedete come è diverso, più narrativo, più descrittivo ed è l’Italia che
sguaina la spada accompagnata dalle figure allegoriche dello spirito della Nazione che vuole liberarsi
dalle catene degli invasori. Si coglie immediatamente la diversità di dettato e di impostazione rispetto alla
linea bistolfiana che è più letteraria, più suadente, ma meno immediata, meno leggibile per un pubblico
indifferenziato.
Questa è invece la Gloria della Nazione che è una scultura in bronzo di Calandra e qui si vede bene come il
prestito dalla scultura francese ottocentesca sia evidente, vedete addirittura i garibaldini con le camicie rosse
che portano la bandiera, c’è addirittura l’Italia che viene presa da un garibaldino e sollevata mentre tiene un
fascio littorio che ovviamente non si riferisce al Fascismo, che deve ancora venire, ma rappresenta la città di
Roma, i littori erano quelli che accompagnavano i rappresentanti dell’Urbe e quindi qui evidentemente Roma
e Italia sono nuovamente personificate.
A chiusura e terminazione dell’attico ci sono delle gigantesche quadrighe con le vittorie alate e derivano
naturalmente dalla grande quadriga di bronzo dell’Arco della pace di Milano progettato ai tempi di Napoleone
Bonaparte, poi in realtà realizzato sotto il dominio austriaco.
Qual’è il problema a ridosso del 1910-1911, cioè a ridosso di quella data che riguarda anche noi, cioè il
cinquantesimo anniversario dell’unità del Regno.
Nel 1911 Umberto è morto a Monza dieci anni prima, ucciso dallo sparo dell’anarchico Bresci, il giovane re è
Vittorio Emanuele III. La monarchia non brilla, ma ha bisogno di stringere nuovamente le redini della Nazione,
trovare una forma di aggregazione, tra l’altro si odono già i venti di guerra che girano per l’Europa. Quindi
viene organizzata una grande esposizione a Roma per il 50° anniversario, una serie di padiglioni, come era
tradizione, dei quali l’unico che è rimasto in piedi oggi è la Galleria Nazionale d’Arte Moderna dove appunto
vengono esposte le opere d’arte della nuova Nazione, però c’è il problema che il monumento non sia ancora
concluso.
Cosa manca? Manca il fregio dell’Altare della Patria. Il concorso che viene indetto nel 1909 vede la
partecipazione di una serie di artisti importanti e vincono due scultori,,Arturo Dazzi che conoscete perchè è
quello scultore che poi negli anni Trenta ebbe la disgrazia di fare quell’orrenda scultura che stava in piazza
della Vittoria, l’Era fascista, una scultura orrenda al di là di ogni valore simbolico, lui stesso non l’amava, e
l’altro è Angelo Zanelli che è bresciano, ma che in realtà ha studiato a Firenze e a Roma e lavora a Roma
. La commissione conferisce la vittoria ad ambedue gli scultori che hanno proposto cose diverse: il primo,
Dazzi, ha dato soluzione al tema con la dea Roma nella nicchia famosa che era stata stabilita da Sacconi
accompagnata ai lati da un grande altorilievo che rappresenta l’epopea del Risorgimento con gli eroi del
Risorgimento.
L’altro, Zanelli, ha scelto una dea Roma diversa e un fregio che rappresenta l’allegoria del lavoro e l’allegoria
dello spirito della Nazione. Quindi uno sceglie una strada diciamo più bistolfiana, Zanelli, cioè più simbolista,
mentre l’altro, Dazzi, più verista, più legata a una tradizione appunto ottocentesca.
Come si fa a stabilire a chi dare il compito poi di realizzare effettivamente l’Altare della Patria? Poi c’è
30 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Dal Vittoriano al Vittoriale. Immagini della Nuova Italia
l’urgenza che il 1911 è lì, a ridosso. L’idea è questa: i due scultori hanno a disposizione, pagati dallo Stato,
due grandi capannoni fuori Roma dove con una serie di collaboratori stipendiati realizzano grande al vero il
fregio e la statua della dea Roma in gesso montati su carrelli. Le due versioni vengono montate una davanti
all’altra in modo che si possano aprire e chiudere facendo sì che il pubblico possa vederle e decidere quale
far realizzare.
Si tratta, come potete immaginare, di una impresa notevole. Quella che vedete è la collocazione del grande
fregio in gesso di Dazzi, qui si vedono proprio le scale appena terminate, vedete che ci sono ancora le
impalcature intorno al basamento della statua di Vittorio Emanuele II perchè stanno collocando le ultime
figure delle regioni, mentre già l’attico è terminato e anche i dipinti della parte del loggiato sono già pronti.
Ora Zanelli, questo è un bozzetto in carta velina che apparteneva al suo archivio, che ha come prima idea,
esattamente come quella del Dazzi, questa: la dea Roma era pensata come una specie di divinità seduta su
un trono che regge da un lato uno scettro e dall’altro questo rotulo delle leggi, che quindi rappresenta le leggi
dello Stato, e porta sulla testa un cimiero come la dea Atena perchè naturalmente nella figura di Roma-Italia
si fonde anche la figura di Minerva-Atena, l’idea dell’Italia con la corona con le torri viene dopo, qui ancora
è l’insieme di tutte le immagini femminili che rappresentino la dea della guerra, la dea della sapienza AtenaMinerva, Roma e Italia. Nella versione di Zanelli, vedete che ci sono ancora gli operai che lavorano, questa
parte sembra in pietra ma è gesso, vedete che la sua idea è di immaginare un fregio contino, in altorilievo,
che riprende da un lato i fregi di Fidia, l’idea e il modello è il Partenone, anche quello era stato pensato come
un luogo di aggregazione iconografica di una Nazione e i marmi del Partenone si studiavano sui calchi in
tutte le accademie, ma poi dentro qui c’è ovviamente Michelangelo in tutte le salse possibili, dal Michelangelo
pittore al Michelangelo scultore, ma quale scultore non guarda Michelangelo, è inevitabile, ma c’è anche però
la presenza di altri due scultori un po’ più vicini al nostro Zanelli, uno è Rodin, il grande scultore francese che
aveva segnato il cambio di rotta della scultura europea moderna in una chiave nuova, michelangiolesca sì,
ma aperta alle novità dell’arte contemporanea in una monumentalità vistosa, e l’altro ovviamente è Bistolfi a
cui Zanelli guarda moltissimo. Infatti non a caso il piatto della bilancia penderà a favore dello Zanelli perchè
Bistolfi si impegnerà fino in fondo perchè Zanelli vinca, perchè è quello che corrisponde alla sua idea di
poetica. Perchè a Bistolfi? Guardate il movimento ritmico delle figure, questo andamento ritmato che rimanda
proprio a quel gusto Art Nouveau che ormai è parte integrante della cultura europea di quegli anni, anzi
siamo in ritardo se volete, negli anni Dieci del Novecento. Quindi questa specie di neo-atticità cioè di scultura
neo-greca, neo-fidiaca imbevuta di michelangiolismo ma modellata con la forza di Rodin e con la grazia e la
leggerezza di Bistolfi. Questa è la formula vincente di Zanelli. E in effetti il successo gli arride.
Questa è una fotografia che vi mostra la situazione dell’Altare della Patria i giorni dell’inaugurazione quando
il re Vittorio Emanuele III, esattamente il 4 giugno 1911 inaugura il monumento del Vittoriano e dell’Altare
della Patria. Collocata qui si intravede la parte in gesso di Zanelli, la sua dea Roma che poi non sarà quella
che c’è adesso, il monumento nel suo insieme e guardate cosa si vede qua, questa parte è rimasta, tutta
questa non esiste più perchè poi naturalmente Mussolini pensò bene che se c’era il Vittoriano lì, la nuova
nuova Italia cioè l’Italia dell’impero non poteva non avere come dire una presenza significante lì e quindi l’idea
fu quella di collegare piazza Venezia con il Colosseo abbattendo tutto questo quartiere che esisteva su quelli
che erano i Fori Imperiali per farne riemergere le vestigia, in realtà anche quelle in gran parte distrutte. quindi
l’antica Roma e la nuova nuova Roma insieme, vedere il Colosseo in relazione al Vittoriano quindi era come
dire il Fascismo è l’atto conclusivo del Risorgimento, l’unità della Nazione si conclude con l’era fascista e
l’Italia Nazione diventa Italia imperiale. Poi ci costruiscono pure la strada sopra quindi immaginate che cosa
significhi per questo quartiere che viene totalmente massacrato.
Ma ritorniamo a noi, questi sono due dettagli del fregio realizzato in Botticino, questa è una fotografia scattata
dallo stesso Zanelli nel suo laboratorio, questo è il modello in argilla prima poi il gesso grande al vero del
cocchio della gloria della Patria che poi serve agli operai che con il pantografo riportano il modello sui massi
di marmo di Botticino. Io credo si capisca molto bene qui il prestito da Michelangelo, si coglie perfettamente,
come si coglie qui il prestito dall’antichità greca. Quindi è proprio questa fusione di linguaggi che funziona,
il pubblico percepisce in questo fregio un’antichità che non c’è perchè è un’opera d’arte contemporanea,
un’antichità che non c’è e quindi una gloria che si riallaccia al passato, delle formule narrative grandiose e
magniloquenti che sono quelle di Michelangelo però con un taglio e una ritmicità che è tutta narrativa, legata
alla modernità. Questa è la formula che funziona per far passare dei valori simbolici.
Questo è ciò che resta, perchè non esiste più, è una fotografia del modello in gesso grande al vero della
dea Roma collocata nel monumento per l’inaugurazione. Qui Zanelli che cosa ha fatto? Ha ricostruito in
chiave moderna, anzi addirittura in chiave viennese, secessionista mi viene da dire, l’Atena crisoelefantina di
31 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Valerio Terraroli
Fidia, quella che le fonti antiche descrivono nel Partenone di Atene cioè una grande figura femminile in piedi
vestita con un ampio chitone, con le spalle coperte dalla pelle del serpente Pitone, che tiene tra le mani la
Nike e la grande lancia ed è pronta ad uscire dal Partenone per difendere l’Attica. Qui Atena diventa Roma
e diventa l’Italia che tiene in mano la Vittoria, che ha l’elmo con i paraorecchi sollevati perchè naturalmente
non è in battaglia però tiene una grande lancia ed è abbigliata come una dea antica che si rigenera, che
risorge appunto dal Vittoriano e che avanza verso la nuova Nazione.Tuttavia la tipologia femminile, il modo
di raccontare così come vedete in modo decorativo tutte le pieghe del tessuto plissettato è la tipica donna, la
tipica figura femminile, della Secessione Viennese. Questo per dirvi come il gusto contemporaneo influenzi
perfino argomenti e temi che sono legati a tutt’altro. Se voi andate a vedere alcune donne dipinte da Koloman
Moser o quelle incise per esempio dallo stesso Klimt, trovate tipologie femminili identiche, ma là esse sono la
modernità e qui sono la storia, ma funzionano allo stesso modo, il linguaggio è quello lì.
Però che cosa succede tra questa statua e quello che noi abbiamo oggi? Nel 1911 il monumento è
inaugurato, si decide che Zanelli avrà ed ha il contratto per fare tutto, quindi partono carri ferroviari da Brescia,
con il marmo di Botticino, per Roma con i massi che costituiscono il Vittoriano e il fregio dell’Altare della
Patria, secondo l’input iniziale di Giusepp Zanardelli, e quindi figuratevi se l’Altare della Patria lo realizzano con
un materiale diverso rispetto al monumento che era già in Botticino, infine parte anche l’ultimo marmo, quello
per la dea Roma, che ovviamente è un marmo monolitico tagliato dalla ditta Lombardi.
Ora però l’esecuzione del monumento si interrompe perchè scoppia la guerra e ovviamente l’Italia ha
altro a cui pensare che non iall’Altare della Patria. Tra l’altro alla fine della guerra succede un’altra cosa
importante che segna il destino del monumento: nel 1918 una madre che ha perso un figlio sul fronte
bellico si reca ad Aquileia, simbolica la scelta, dove vengono collocate aperte otto bare di militi ignoti,
cioè di uomini trovati nelle trincee, ma di cui non si sa nulla. Davanti al sagrato della grande cattedrale, e
vi ricordo che il patriarcato di Aquileia è l’origine fondamentale della Chiesa d’Occidente tant’è che ogni
Papa prima o poi si reca ad Aquileia, il patriarcato di Aquileia è l’origine statutaria del Cristianesimo in
Occidente, quindi davanti alla basilica di Aquileia una madre sceglie una bara. Questa bara viene portata
attraverso l’Italia, anche lì c’è tutta una scenografia che serve a ricucire un paese lacerato, e la regina
accoglie il milite ignoto a Roma dove viene tumulato nell’Altare: sotto i piedi della dea Roma c’è questo
giovane che rappresenta tutti i caduti di tutte le guerre.
A quel punto il Vittoriano, ossia il monumneto a Vittorio Enmanuele II, diventa tout court il Vittoriano, cioè il
monumento alla Vittoria perchè vi è il milite ignoto che rappresenta la Nazione e non è un caso che ancora
oggi ci sia una guardia d’onore permanente e un fuoco eterno, perchè quel luogo rappresenta lo spirito della
Nazione, quello che alla fine questo monumento voleva essere.
Nel 1922 ricominciano i lavori da parte di Zanelli per finire il fregio, ma il gusto è cambiato, è cambiato tutto.
La dea Roma, rispetto alla precedente che era una specie di dea arcaica, moderna e antica insieme, diventa
una specie di gigantesco guerriero in forme femminili che ha una possanza monumentale, una grandiosità
che è più recitata che non monumentale, addirittura il manto che la ricopre non è un tessuto, ma una
corazza di metallo, i tratti del volto sono quei tratti chiaramente Art Déco/anni Venti che sarà poi prototipo per
moltissima scultura degli anni Venti e Trenta in pieno regime fascista. La tipologia diciamo simbolica dell’Italia
diventa questa, cioè una figura che è insieme maschile e femminile, ma che soprattutto è l’Italia guerriera,
non è la madre, non è la dea, è appunto l’Italia della guerra.
Questo è il valore che ha assunto il monumento oggi, in realtà il giudizio che noi possiamo dare su questo
monumento non può essere un giudizio estetico, voi sapete che ancora negli anni Settanta ci furono aspre
polemiche per abbatterlo.
Uno storico dell’arte avveduto, ma totalmente incapace di leggere la contemporaneità come Federico
Zeri, aveva detto più volte anche attraverso i mezzi televisivi che questo monumento andava abbattuto per
riportare alla luce le vestigia romane e al limite, se proprio si voleva mantenerne il ricordo, se ne sarebbe
potuto abbartene metà e l’altra metà trasformarlo in una terrazza per vedere i Fori imperiali. Questo per
dire come poi nel tempo si cambia, per fortuna. Oggi il monumento lo si deve leggere criticamente, è
sostanzialmente un brutto monumento, siamo tutti d’accordo, è un brutto monumento perchè contiene
un’accozzaglia di situazioni e di scelte.Tuttavia il suo valore, al di là della retorica, è un valore così aggregante
e così in qualche modo profondamente radicato ed è quello ciò che significa ed è ormai integrato nella
struttura della città, inevitabilmente, e quindi è ormai parte della nostra storia e quindi la sua funzione la
assolve perfettamente, al di là di qualsiasi altra considerazione di carattere ideale o morale.
Nel frattempo però succede qualche altra cosa, cioè viene eretto un altro monumento che segna un
passaggio. Si tratta di nuovo di Leonardo Bistolfi e quello che vedete è un bozzetto di un monumento che
32 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Dal Vittoriano al Vittoriale. Immagini della Nuova Italia
si trova a Savona: Il fantasma di Garibaldi. Dal monumento celebrativo come il Vittoriano, negli anni Dieci si
passa definitivamente al monumento simbolico. Pensate cosa succederà con i monumenti ai caduti dopo la
prima guerra mondiale.
Bistolfi si immagina, e lo fa sulla scorta di una poesia di Carducci e tra l’altro su una poesia dello stesso
D’Annunzio, Le Laudi, che l’eroe del Risorgimento riappaia alla Nazione ormai unificata come un fantasma
che cavalca un prode destriero che si muove sulle nuvole e sulle fiamme e che porta di nuovo l’Italia verso la
gloria, cioè abbiamo bisogno del fantasma di Garibaldi per ritrovare l’orgoglio di appartenenza alla Nazione.
Questo schema è quello che viene utilizzato in un altro monumento simbolo fondamentale per la nostra
Nazione che è il monumento a Quarto dei Mille vicino a Genova, il luogo dal quale partirono i Mille di Garibaldi.
Il monumento è un monumento assolutamente significativo perchè innanzitutto è un bellissimo monumento
dal punto di vista plastico, ma poi perchè c’è di mezzo d’Annunzio e qui arrivo a chiarire sul perchè parliamo
anche del Vittoriale.
Il monumento si deve a Eugenio Baroni che è uno scultore genovese, questo è il bozzetto che
ha vinto il concorso che fu bandito nel 1903 e poi fu rimesso in gioco nel 1914 e finalmente fu
realizzato per il 1915.
Il monumento ha delle vicissitudini che vi risparmio, ma cosa rappresenta e perchè si discute molto su
questo monumento? Perchè Baroni rappresenta Garibaldi nudo.Anche Canova aveva ritratto Napoleone
nudo, ma era in piena cultura neoclassica, il nudo aveva il valore di rappresentare l’eroicità del personaggio,
il Napoleone di Brera non è nudo in quanto è Napoleone che è uscito dalla vasca da bagno, ma è nudo in
quanto è l’eroe della storia e quindi è perfetto in ogni sua forma, sia morale sia fisica ed è nudo e perfetto
come una divinità antica.
Ma nell’Italia del governo Salandra, Garibaldi nudo è un po’ “forte” perchè siamo in una cultura
provinciale che ancora fa fatica a chiamarsi Italia, a chiamarsi Nazione, che non è ancora uscita dalle
difficoltà di una politica sempre altalenante, soprattutto in una situazione di tensione europea come
quella che vede i tedeschi e i francesi l’uno contro l’altro armati e noi non sappiamo ancora cosa fare.
Il monumento è un’allegoria dello spirito di Garibaldi quindi l’idea è quella di Bistolfi, che riemerge dagli
Inferi, non dall’inferno, dal mondo dei morti, incoronato dalla Vittoria e tutti quei corpi che vedete così
michelangioleschi sono i garibaldini morti per il Risorgimento, morti per l’Unità della Nazione che ritornano
in vita per dire “non ce la fate voi a liberare il paese dagli stranieri, ritorniamo a vivere noi per obbligarvi a
farlo”. È l’idea dello spirito della Nazione che ritorna ad emergere.
A chi viene in mente di chiamare d’Annunzio per questa cosa? Ad un certo Ettore Cozzani che è
animatore di una rivista di poesia e arte, ma soprattutto è uno che è animato anche da uno spirito
rivoluzionario, che è legato a un circolo di personaggi che da tempo, non solo a Genova, ma in tutta Italia
spingono perchè il governo decida di prender posizione contro l’Austria Ungheria perchè già la Francia è
entrata in guerra contro la Germania.
Chiamano d’Annunzio che in questo momento è in Francia esule per sua scelta perchè è scappato dai
debitori. Nel maggio del 1915 vanno a mettersi insieme, come tal volta accade nella storia un po’ per caso
un po’ per volontà, tutta una serie di interessi reciproci; Cozzani perchè vuole diventare una delle figure
dominanti di questa spinta contro il governo, Baroni perchè deve inaugurare il monumento, d’Annunzio che
accetta l’invito perchè trasforma la propria immagine. D’Annunzio è stato il primo intellettuale in assoluto che
ha costruito tutta la propria fortuna sull’immagine. Egli era uscito ignominiosamente da questo paese qualche
anno prima come transfuga e come debitore, cioè con una marea di debiti, era fuggito scappato come una
specie di Casanova un po’ in ritardo, con le donne che piangevano, quindi non proprio una bella figura.
Come ritorna in Italia? Ritorna come guerriero.Trova il modo di essere lui chiamato dall’Italia arrivando
in questa Nazione proponendo ed essendo creduto, perchè questo è il bello, tutti ci credono, di essere
veramente lo spirito della Nazione, una specie di monumento, di Vittoriano trasformato in persona.
Vi leggo soltanto due passi dei Taccuini: il 24 luglio del ‘14 riceve l’invito e dice: “cerco le fotografie
del monumento di Eugenio Baroni ai Mille inviatomi da Ettore Cozzani. È un monumento marino
decorato dal flutto decumano, gli eroi risorgono con un ritmo di marea, mi ricordo di non aver
ancora aperta la lettera che l’accompagna, la cerco, la apro, la leggo e tutto ecco che si rischiara.
Vi è certo una provvidenza apollinea, quel che mi è offerto è tal cosa che risolve tutti i dubbi e tutte
le perplessità, ci salva da ogni errore, da ogni deformazione, dai contrattempi, dai dissensi, dai moti
intempestivi. Il municipio di Genova mi chiama e mi chiede di parlare al popolo d’Italia il 5 maggio
all’inaugurazione del monumento nel giorno dell’anniversario della dipartita meravigliosa. Quale più
grande occasione? Andrò, condurrò meco la legione garibaldina”, lui addirittura aveva pensato di
33 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Valerio Terraroli
arrivare da Marsiglia a Quarto dei Mille con una nave con sopra un centinaio di personaggi pagati
vestiti da garibaldini anche se poi non glielo lasciano fare. E ancora: “da ogni parte d’Italia tutti gli
spiriti rossi potranno accorrere, una forza impetuosa si accalcherà intorno al bronzo perenne, dove
i Mille salparono quivi i nuovi Mille approderranno. Il movimento sarà irresistibile. Dallo scoglio di
Quarto l’esercito d’Italia muoverà verso i suoi confini...”.
Cosa vuol dire questo, che il monumento di Quarto dei Mille è il secondo punto di arrivo della forma di una
nuova immagine dell’Italia. Ciò che serve in questo momento alla Nazione, siamo nel 1915, non è più il
grande apparato funebre per il padre della Patria, ma serve un’immagine, che in questo caso è il monumento
di Baroni, che rappresenti in modo simbolico e quindi non in modo descrittivo, lo spirito eroico della Nazione.
D’Annunzio arriverà tranquillamente in treno, poi il 5 maggio fa il discorso, un discorso ben preparato. Il re
non si presenta all’inaugurazione e questa cosa d’Annunzio la stigmatizza volutamente, è contentissimo
perchè il fatto che non ci sia il re rende lui il protagonista, e recita questo suo discorso abbarbicato alle gambe
di Garibaldi con una massa di gente sotto. Il giorno dopo ci sono dei moti a Genova fermati dalla polizia, il
giorno successivo a Milano e a Bologna, cominciano dei fuochi di proteste per andare in guerra; il 24 maggio
il governo Salandra dichiara guerra all’Austria-Ungheria. È una specie di cascata, certo retorica, ma è di
nuovo un’immagine che catalizza gli spiriti di una Nazione.
E poi si arriva all’atto conclusivo cioè al Vittoriale degli Italiani. In realtà il percorso del Risorgimento è finito,
ma non per tutti perchè la guerra si è conclusa, c’è stato il Trattato di Versailles, come sapete d’Annunzio
non è d’accordo con ciò che è accaduto e poi lui, lo sappiamo tutti, il gioco di guerriero durante la guerra
l’ha esercitato alla grande anche se in realtà fa delle imprese di tipo strategico, di carattere simbolico, certo
anche pericolose, nel volo su Vienna poteva morire, però è più propaganda che non azione di guerra, non è
che sia andato nelle trincee a combattere, la Beffa di Buccari uguale. Però in questo modo il poeta-soldato
diventa per l’intera Nazione il ricettacolo del concetto di Nazione. Quando la guerra finisce e l’Italia ridisegna
i propri confini lascia fuori come è noto Fiume e l’Istria. D’Annunzio che sa benissimo che finita la guerra
è finito il suo ruolo da guerriero, inventa un’operazione, l’eroe soldato d’Annunzio non può assolutamente
andare a casa quindi raccoglie un gruppo di legionari fedeli e conquista, si fa per dire, in realtà entra e prende
possesso delle città di Fiume e dell’Istria ed è il momento famoso di contrasto con il governo italiano che si
concluderà in modo drammatico nel Natale del 1920 con il bombardamento di Fiume.
La ragione ufficiale che d’Annunzio utilizza per andare a Fiume con i legionari è che il Risorgimento non
è finito se l’Italia non ritorna in possesso delle terre che sono italiane, abitate da italiani. Quindi egli dice
“io che sono quello che fondamentalmente ha fatto partire la guerra da Quarto dei Mille, concludo il
Risorgimento portando a casa Fiume e l’Istria”.
D’Annunzio non può dopo il Natale del 1920 tornare in Italia, ad esempio a Roma o recarsi all’estero, ma si
cerca un luogo che sia un luogo significativo e simbolico perchè ha in mente di fare un’operazione. Il luogo
è Gardone Riviera, quello che diventerà il Vittoriale degli italiani, a cui lui comincia a pensare già dal 1921
quando va ad abitare in una casa settecentesca con un po’ di oliveti e niente più. Lì comincia a progettare
qualcosa che chiamerà il Vittoriale che si riferisce come è noto a un poema spagnolo che si intitola in questo
modo e che è citato all’ingresso della cittadella, ma quello che ci interessa è che lui immagina di trasformare
questo suo luogo di residenza definitiva (all’inizio non pensa sia definitiva perchè pensa di essere chiamato
a Roma a ricoprire ruoli ben più alti di quelli che copre lì, poi con la marcia su Roma di Mussolini e le leggi
fasciste del ‘24 capisce che due galli in un pollaio non ci stanno) e gioca le sue carte trasformando quel
luogo in un sacrario che è una specie di Vittoriano trasformato in Vittoriale, dove le reliquie della Patria sono
gestite come simboli che per i cittadini hanno un valore religioso. Costruisce una sorte di Sacro Monte,
utilizza lo schema dei Sacri Monti inventati nella cultura borromaica, quindi nel cattolicesimo riformato, posti
a margine simbolico lungo le valli alpine contro la riforma protestante che dilagava dalle Alpi, i Sacri Monti
sono dei percorsi fisici e spirituali sulle montagne costituti da una serie di cappelle, la via Crucis, e che hanno
compimento nella cappella più alta dove c’è ovviamente il sepolcro di Cristo.
Il Vittoriale è un Sacro Monte laico, è pensato esattamente come un percorso fisico, simbolico e spirituale,
che va da un punto iniziale a un punto finale. Il punto finale è il sacrario degli eroi con al centro il monumento
funebre di D’Annunzio. Il Vittoriale non è solo la casa di D’Annunzio, anzi la casa si chiama Prioria, il Vittoriale
è tutto l’insieme e il percorso di questo Sacro Monte inizia dalla grande piazza di adunanza, il portale di
ingresso, il percorso dei Pili della Vittoria, l’arrivo nella grande piazzetta Dalmata sulla quale si affacciano la
Prioria e Schifamondo, poi il percorso di nuovo in salita arriva ai cannoni della guerra, al MAS che diventa
esso stesso una reliquia (fa costruire un edificio che è un reliquiario per il motoscafo) e poi naturalmente la
nave Puglia che è la reliquia delle reliquie incastonata nella montagna e per concludere il visitatore arriva nel
34 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Dal Vittoriano al Vittoriale. Immagini della Nuova Italia
sacrario degli eroi, una specie di collina sacra circondata da un triplice giro di mura dove i legionari sepolti
guardano al Comandante, quello che per antonomasia e per sempre resterà il Comandante.
Ecco il portale d’ingresso, qui non c’è ancora la fontana che è stata realizzata negli anni Trenta, ci sono
gli incipit del poema e c’è questa scritta, uno dei motti dannunziani più noti che è “Io ho quel che ho
donato” che è una risposta alla Nazione perchè lui dona immediatamente il Vittoriale alla Nazione, lo fa
perchè in questo modo collega il suo progetto alla Nazione italiana, il suo Vittoriale è come il Vittoriano,
deve essere mantenuto dallo Stato.
Nei percorsi uno dei punti nodali è il Pilo della Vittoria che simula una specie di albero maestro di una nave
di pietra, sopra viene eretta nel 1935 una scultura del 1916 di Arrigo Minerbi che è La Vittoria del Piave. La
Vittoria di Minerbi ha i piedi incatenati, è una figura femminile che si alza fremente con le ali che appena si
muovono, è l’Italia-Roma Minerva-Atena che diventa lo spirito della Nazione umiliata che vede la sconfitta di
Caporetto, vede l’esercito italiano sconfitto dall’esercito austriaco, una sconfitta che quasi portava alla fine
della guerra però proprio da quel momento l’Italia, come in questa iconografia, freme, si libera dalle catene
e inizia la propria riscossa, dalla sconfitta di Caporetto si arriverà alla vittoria finale. Quindi è tutto un gioco di
simboli legati a un avvenimento bellico che riunisce una formulazione iconografica che mette insieme tutte
quelle tipologie femminili di cui abbiamo detto.
Il Mausoleo che vediamo oggi è stato realizzato dopo la morte di d’Annunzio su progetto
dell’architetto Maroni, progetto approvato da d’Annunzio che però muore nel 1938 e non lo vede
realizzato. Ai suoi tempi le arche erano antiche arche romane regalate dal comune di Vicenza e
come vedete sono abbinate a dei cannoni della guerra mondiale, c’è di nuovo l’abbinamento anticomoderno, la guerra appena finita e l’idea dell’eroe all’antica. E poi naturalmente c’è la nave Puglia,
guardate il collegamento visivo visto dall’alto tra la Prioria, la casa privata, qui ci sono i giardini
segreti, la nave Puglia, questo è il MAS e questa è la collina degli eroi. La nave Puglia ha sulla prua
di nuovo una Vittoria che è la Vittoria angolare di Renato Brozzi che si erge su un fascio di lance
e che domina la prua di una nave che è una nave vera, anche questa è una follia se ci pensate
perchè metà della nave è quella vera in acciaio, l’altra metà è muratura costruita da Maroni come
se fosse di pietra, ma è l’idea che la nave sia ancorata alle reliquie della guerra; la prua è infatti
orientata verso Fiume ed è pronta a ripartire con gli eroi morti per riportare Fiume all’Italia. Quindi
un Risorgimento che non finisce mai, con una retorica che viene continuamente ribadita.
Ho messo per finire due immagini dell’interno perchè nell’interno della Prioria ci sono tantissime reliquie,
questa non a caso è la Stanza delle Reliquie e c’è il leone che i genovesi gli hanno regalato per il discorso
di Quarto, ci sono le medaglie di guerra e i proiettili, e c’è soprattutto il Leone Marciano dipinto da Guido
Marussig con il proiettile che entrò nella finestra da parte della corazzata italiana che sparò i primi colpi e colpì
il dipinto sopra la testa di D’Annunzio.
Nei giardini segreti c’è un reliquiario costituito dai massi presi nei monti dove i soldati italiani hanno versato
il loro sangue, Monte Grappa, Monte Cimone ecc. e poi per chiudere c’è un Arengario, cioè una specie di
luogo magico in mezzo a una foresta di magnolie costituita da una foresta di colonne tante quante furono le
battaglie della prima guerra mondiale, dove c’è una specie di leggio perchè qui venivano lette ad alta voce
nella notte che ricordava l’abbandono di Fiume i nomi dei legionari caduti durante l’abbandono della città e
soprattutto c’è il trono del poeta-soldato affiancato dalla Vittoria di Napoleone Martinuzzi che molto assomiglia
alla dea Roma di Zanelli.
In realtà in questo percorso simbolico, in questo Sacro Monte degli italiani che è il Vittoriale il cui
titolo corretto è il Vittoriale degli italiani proprio perchè è della Nazione, d’Annunzio aveva anche
pensato ad un percorso intimo dove lui stesso diventa reliquia ed è la stanza dei Sonni Puri, la
cosiddetta Stanza del Lebbroso che aveva previsto che la sua salma fosse esposta alla Nazione.
L’idea è di nuovo una scalea, il letto è una bara come quella del milite ignoto, tutti i simboli in
questa stanza sono legati alle Laudi di San Francesco, tutto è legato al mito del sole e della luce
e su questo cataletto l’eroe-soldato-poeta sarebbe diventato tutt’uno con la Nazione. In quel
momento il Risorgimento che era partito da Porta Palatina a Torino si chiudeva simbolicamente:
era il marzo del 1938.
35 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Elisabetta Conti
Brescia e l’unità d’Italia
L’unità d’Italia è frutto di una lunga conquista che si dipana attraverso diverse fasi: le Società
segrete e i Moti carbonari del 1820-21 e del 1830-31, la propaganda di Mazzini e le rivoluzioni del
1848-49.
Brescia dal 1815, dopo il Congresso di Vienna quindi, fa parte integrante dell’austriaco Regno
lombardo-veneto. La città vive questo momento di status quo legato alla Restaurazione con
una certa difficoltà e diviene, a poco a poco, una delle capitali della Carboneria, originatasi dal
sostrato borghese della nostra società cittadina. Ricordiamo alcuni personaggi molto noti che
parteciperanno ai moti carbonari: Ludovico Ducco, Antonio Dossi, Giovita Scalvini, i fratelli
Camillo e Filippo Ugoni e Silvio Moretti, che morirà nel carcere dello Spielberg nel 1832.
Nel 1848 si sviluppa appieno la nuova coscienza nazionale, e l’ambiente è pronto ad accogliere,
anche a Brescia, il pensiero politico neo-guelfo di Gioberti.
Il nuovo Papa “liberale”, Pio IX, al secolo il cardinale Mastai-Ferretti, per cui risuonano gli
“osanna” anche nel nostro Teatro Grande, rappresenta il Papa che entusiasma gli animi patriottici e
diffonde le idee di libertà ed indipendenza. Nello stesso 1848 il Re delle Due Sicilie, Ferdinando II
di Borbone, concede la Costituzione e sarà seguito, a breve, del Granduca di Toscana, Leopoldo II
di Lorena.
Il 1848 è l’anno delle grandi rivoluzioni: Parigi e Vienna insorgono, e a Milano scoppiano le
Cinque Giornate contro il dominio austriaco.
Col vento dell’indipendenza il rapporto con gli Austriaci si inasprisce anche a Brescia, dove si
decide di istituire una Guardia Civica per la Pubblica Sicurezza. A questo proposito, ho avuto
modo di esaminare un’interessante documentazione inedita costituita dal carteggio di Gianbattista
Lucchini dal titolo Guardia Civica del 1848, di cui egli stesso è un comandante in quanto uomo
probo. Lucchini riporta i nomi ed i cognomi della Guardia della IV Compagnia: sono tutti nomi
bresciani di uomini di estrazione borghese o popolare, ma anche nobiliare, che abitano nelle
contrade del Quartiere della Pallata, e si aggirano per la città e per “le più remote stradelle” per
mantenere la pubblica sicurezza. È annotato il giro che devono fare le Pattuglie nelle sere di
Domenica nei quartieri della città con le antiche denominazioni delle vie e delle piazza: Contrada
Bruttanome, Corso Mercanzia, Arco Vecchio, Contrada Rossovera, Mercato Nuovo e Piazza
dell’Albera, lungo cui si snoda il percorso della città vecchia.
Giambattista Lucchini è esempio di quel folto gruppo di intellettuali che sentono, a partire dal
1848, l’esigenza di Unità nazionale ed è fortemente cattolico. È esponente dunque del Risorgimento
bresciano moderato, libero, cattolico-giobertiano di ispirazione conciliatorista. Lucchini si può
contemplare come anticipato esempio dell’uomo cattolico che, dal 1848 al 1870 e poi fino al
1912, vive il dramma di non essere cittadino italiano a tutti gli effetti, ma vuole conciliare la fede
cattolica con le esigenze dell’ Unità nazionale. Lucchini nelle sue Considerazioni, che fanno parte
del menzionato carteggio, auspica che Brescia sia parte viva ed integrante dell’Italia “una, forte,
indipendente, rispettata e temuta”, secondo il dettato giobertiano. Accusa l’Italia di disamore
davanti al nemico in armi, perché “rinuncia all’exequatur e al placet”, notando la presenza di un
“governo nel governo”. Aggiunge che “l’impulso alla grande opera dell’educazione nazionale
è già dato in Italia dal Risorgimento medesimo, nel quale il santo entusiasmo per la libertà e
l’indipendenza è partito dai migliori, ma ha purificato anche le plebi ed ha disposto all’opera
dell’educazione regolare, degna di uno stato libero”.
E proprio Achille Lucchini, figlio di Giambattista, sarà il continuatore dello spirito risorgimentale e
patriottico del padre: nel 1859 combatte come volontario e fante del X Reggimento nella Campagna
per l’Indipendenza e l’Unità d’Italia. Achille diviene poi sergente della Guardia Nazionale di Brescia
nel 1860, è nominato da Vittorio Emanuele II Portabandiera del II Battaglione, è volontario nel 1866
36 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Brescia e l’unità d’Italia
e partecipa alla presa di Porta Pia nel 1870, compiendo in tal modo tutto il percorso risorgimentale
verso l’Italia unita con Roma capitale.
Gli ideali di indipendenza e libertà diffusi nel 1848 rimbalzano anche nei versi dialettali di un
anonimo poeta occasionale che prende parte, come Lucchini, ai fatti di Brescia del 1848 e poi alle
Dieci Giornate.
I cento sonetti composti in dialetto bresciano vengono affidati dall’anonimo poeta ad Eugenio
Paroli, che li stampa nel 1902, presso la tipografia Apollonio, con il titolo Lé dés zornade del
Quarantanöf.
È utile leggerne almeno una per avere ben presente la preoccupazione del popolo bresciano ed
italiano nel 1849 durante i combattimenti per l’indipendenza dell’Italia:
L’Italia nel 1848-49
Ah, póera Italia!… Nel Quarantanöf
Come t’endàet drét drét al preçepésse!
A Venessia l’assedio; a Trì, stöf
D’ésser ligàcc da chél tal armestésse
I pensàa de tacà guera de nöf;
a Milà i era pié de pregiödésse
– Con gran piaçér dei noss Padrù martöf! –
A Nàpoli’l Burbù coi sòlicc vésse;
Róma e Forense ‘n bras à la discordia…
Póera Italia!… En prençépe, – engulusida,
Encoragiada a far guera a l’Impero –
Tè ghé vinçìt fin che gh’è stat concordia;
Ma dopo quater més, l’ niù sparida,
Tè ghiet amò söl còl el pé straniero!
E ben sono state illustrate anche dal noto pittore Faustino Joli le vicende della Guardia Civica e dei
moti del 1848-49. Joli è testimone diretto del Risorgimento bresciano e, in alcuni disegni inediti,
offre impressioni del volto storico della città in battaglia alla metà del XIX Secolo.
Ne riportiamo due nei quali si leggono l’entusiasmo e la viva partecipazione ai fatti del 1848-49.
Nel primo disegno osserviamo un soldato che sale sul carro militare e nel secondo l’immagine di
una carica di cavalleria.
Lo spirito che ne esce è quello antieroico dello Joli cronista, che ci lascia testimonianza partecipe
e viva dei moti patriottici bresciani.
37 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Elisabetta Conti
Il popolo scende in piazza a Brescia nel marzo del 1848, gli Austriaci si ritirano dalla città e si
costituisce un governo provvisorio, presieduto da Luigi Lechi.
Il 23 marzo 1848 il Piemonte dichiara guerra all’Austria e le avanguardie piemontesi entrano nel
territorio bresciano. Gli Austriaci nell’agosto del ’48 vincono i Piemontesi a Custoza e occupano
Milano. Il generale Salasco firma l’armistizio.
Gli Austriaci rientrano a Brescia e nel ’49 il maresciallo Haynau, soprannominato “la iena”, impone
al nostro territorio una pesante multa.
In quegli anni è attivo a Brescia un comitato insurrezionale filopiemontese che si occupa di
raccogliere armi per i patrioti.
Tra il 23 marzo ed il 1° aprile 1849 Brescia vive l’eroica stagione delle Dieci Giornate per
l’indipendenza dagli Austriaci, magistralmente fissate nei dipinti di Faustino Joli.
Sono dieci giorni di combattimento feroce contro gli Austriaci asserragliati in Castello, che
bombardano la città dall’alto agli ordini del capitano Loeschke.
Il generale austriaco Giovanni Nugent giunge a Brescia al comando di nuove truppe e per tre ore
viene fermato a S. Eufemia dai patrioti bresciani guidati da Tito Speri. Si combatte fieramente a
Largo Torrelunga, al Rebuffone e a S. Francesco di Paola.
Poi giungono i rinforzi austriaci del generale Haynau che conduce i suoi soldati in Castello,
passando per la Via del Soccorso e attacca contemporaneamente le porte della città dall’esterno.
Queste tattiche austriache ricordano nelle modalità l’attacco e la difesa della città al tempo del
Sacco di Brescia da parte di Gaston de Foix nel lontano 1512.
Va ricordata inoltre la gloriosa salita in Castello del padre francescano Maurizio Malvestiti con la
bandiera bianca per trattare con Haynau la resa della città: egli è costretto suo malgrado solamente
a vedere la città dall’alto messa a ferro e fuoco.
Durante la decima giornata, il 1° Aprile 1849, gli Austriaci sferrano l’attacco finale, dilagano in
tutta la città, saccheggiano le case e fanno strage di uomini e donne. Sulla Loggia sventola la
bandiera della resa. L’Austria ha vinto.
Nel 1851 giunge a Brescia il giovane imperatore Francesco Giuseppe che, comprensibilmente,
viene accolto dalla città con molta freddezza.
Nel 1852 viene arrestato l’eroe delle Dieci Giornate, Tito Speri, che salirà sul patibolo a Belfiore
(Mantova) il 3 marzo del 1853 insieme ad altri patrioti.
Ma in città si alimenta ulteriormente lo spirito risorgimentale ed il desiderio di indipendenza
anche attraverso la costituzione del “Gabinetto letterario”, istituto nel 1857 dal giovane avvocato
Giuseppe Zanardelli, che diviene centro di cultura liberale.
Sullo scacchiere europeo gli accordi di Plombières del 1858 tra il Primo Ministro piemontese
Camillo Benso Conte di Cavour, abile ed estremamente capace di gestire poi il successivo
percorso nazionale, e Napoleone III di Francia, portano felicemente ad una alleanza che
strategicamente sarà determinante per lo sviluppo dell’Unità nazionale.
È la prima volta, forse, che Cavour o comunque gli italiani pensano ad un’alleanza con
un’importante nazione europea come la Francia che, in caso di attacco dell’Impero Asburgico al
Piemonte, sarebbe entrata in guerra a fianco di Vittorio Emanuele II. Il conflitto scoppia nell’aprile
del 1859 e vede le vittorie, una dietro l’altra, dei Franco-piemontesi a Montebello, Magenta,
Solferino e San Martino.
Brescia il 13 giugno 1859 viene finalmente liberata dagli Austriaci e il patriota Giuseppe Ragazzoni
innalza in castello la bandiera tricolore. Il 17 giugno entrerà in città il re Vittorio Emanuele II,
accolto come liberatore, e arriverà a Brescia anche Garibaldi, salutato da una folla esultante. Il 20
giugno in Castello c’è l’ incontro tra Vittorio Emanuele II e Napoleone III.
Ma il 24 giugno del 1859 si svolge la più terribile battaglia del Risorgimento: la battaglia di
Solferino e San Martino tra gli Austriaci e i Franco-piemontesi. Lo scontro dura tutta la giornata
e alla sera gli Austriaci si ritirano: sul campo restano quasi 30.000 uomini, tra morti e feriti di
entrambi gli schieramenti.
Va ricordato l’esempio di grande solidarietà che in tale occasione sanno dimostrare Brescia e
provincia e la zona di Castiglione delle Stiviere (Mantova): si aprono gli ospedali, le case private,
le chiese ed i conventi per diventare ricovero delle migliaia di feriti di ogni esercito.
Si trova in quelle zone anche Enrico Dunant, famoso e importante banchiere svizzero, che è giunto
a Brescia per parlare con Napoleone III di alcuni affari di lavoro. Di fronte a tanta sofferenza e
38 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Brescia e l’unità d’Italia
morte causate dalla violenta battaglia rimane colpito e commosso, vede però la solidarietà della
popolazione e la capacità, in gran parte delle donne, di soccorrere i feriti. Nasce in lui l’idea di
costituire il Movimento Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa che è la più
grande organizzazione umanitaria del mondo. Nel 1862 Dunant, insieme ad altri quattro cittadini
svizzeri (il giurista Gustave Moynier, il generale Henry Dufour e i medici Louis Appia e Theodore
Maunoir) crea il Comitato ginevrino di soccorso dei militari feriti comunemente chiamato Comitato
dei cinque che promuove le idee di Henry Dunant proposte nel libro Un ricordo di Solferino
ed il 26 ottobre 1863 organizza, a Ginevra, una Conferenza Internazionale con l’adesione di
18 rappresentanti di 14 Paesi che firmeranno, il 29 ottobre dello stesso anno, la Prima Carta
Fondamentale contenente dieci risoluzioni che definiscono le funzioni ed i mezzi dei Comitati di
soccorso.
La battaglia di Solferino e San Martino termina l’11 luglio, con l’armistizio di Villafranca, voluto
dallo stesso Napoleone III: la Lombardia è libera e verrà annessa al Piemonte il 10 novembre.
Il 25 marzo 1860 si svolgono le prime libere elezioni per tutti gli uomini, maschi, che hanno 25
anni compiuti, che sanno leggere, scrivere e pagano tasse per oltre 40 lire.
Brescia e Provincia vota nei 16 collegi elettorali e, in continuità con la spirito risorgimentale,
elegge tra i deputati Filippo Ugoni, Giuseppe Zanardelli e Federico Odorici.
Giuseppe Zanardelli raccoglie intorno a sé i liberali progressisti che hanno come organo ufficiale
“La Gazzetta di Brescia”, mentre i liberali moderati e filo piemontesi si radunano intorno al conte
Diogene Valotti ed hanno come organo di comunicazione “La Sentinella”.
Per compiere l’Unità d’Italia Garibaldi parte da Quarto il 5 maggio 1860 e, in seguito all’impresa
garibaldina, votano l’annessione al Regno di Sardegna: il Meridione, la Sicilia, le Marche e
l’Umbria. Con Garibaldi partono da Quarto anche molti bresciani.
Il 17 marzo 1861 si proclama a Torino il Regno d’Italia.Il 18 febbraio 1861 viene inaugurato il
Parlamento con la prima legislatura del nuovo Stato unitario: Vittorio Emanuele II assume il titolo
di Re d’Italia.
A Brescia viene eletto G.B. Nicolini presidente della provincia e avvia da subito, con grande
impegno, l’opera di sviluppo dell’agricoltura, dell’industria e delle comunicazioni, mentre il
nuovo sindaco è il conte Diogene Valotti, esponente di quei liberali moderati che domineranno
la scena politica bresciana nel primo decennio dell’unità. Ad essi si avvicenderanno poi i liberali
progressisti guidati da Giuseppe Zanardelli che condurranno le sorti di Brescia per un quarto di
secolo.
Il movimento cattolico inizierà il suo percorso che sfocerà con l’elezione in consiglio comunale del
primo rappresentante cattolico: Giuseppe Tovini, ma sarà ormai l’anno 1882
39 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Elena Lucchesi Ragni, Maurizio Mondini
Il Museo del Risorgimento di Brescia.
Dal “padiglione” di Torino (1884) al Palazzo Martinengo da Barco (1893)
Manifesto della
Commissione municipale
per la Mostra storica del
Risorgimento Nazionale.
Il civico Museo del Risorgimento fu istituito nel 1887 allo scopo di raccogliere
e conservare la memoria delle vicende storiche e dei personaggi che avevano
segnato il processo di formazione dello Stato unitario. Il suo patrimonio
comprende un insieme assai eterogeneo (quanto numericamente rilevante)
d’oggetti, in maggioranza stampe e documenti a stampa, fotografie, armi
e uniformi, dipinti, medaglie, databili dall’età napoleonica alle due guerre
mondiali.
Come si verifica in altre simili istituzioni coeve, le origini del museo
bresciano riflettono il clima politico e culturale degli ultimi decenni
dell’Ottocento, quando la fase “eroica” del Risorgimento da poco conclusa,
è assunta, in particolare dalla Sinistra liberale e filomonarchica, come
valore legittimante del nuovo stato unitario e della sua classe dirigente.
I musei dovevano così contribuire al formarsi di una coscienza e di una
tradizione nazionale con modalità pedagogiche e celebrative tali da
coinvolgere, anche “emotivamente”, un pubblico vasto e indifferenziato,
in gran parte analfabeta. La dimensione del sacro e del mito attribuita
all’epopea risorgimentale e ai suoi protagonisti si trasfonde negli stessi
musei, a loro volta considerati “templi laici del patriottismo”, dove
era possibile venerare le “sacre reliquie della patria” (G. D’Annunzio).
Motivazioni analoghe sottendono ai pellegrinaggi sulle tombe dei martiri e
alle commemorazioni solenni, così come alla diffusione delle lapidi e dei
monumenti nelle strade e nelle piazze delle città italiane.
Se la nascita di questa particolare tipologia di museo (che non trova confronti in Europa) rientra nella
“mitizzazione” del Risorgimento avviata in età umbertina, rimane il problema della sua attuale funzione
e, di conseguenza, del suo rinnovamento. Senza entrare nel merito della questione, basterà ricordare
che alla consapevolezza (acquisita almeno nell’ambito degli studi) del suo “valore” di testimonianza
ormai storicizzata, corrispondono tuttavia esiti museografici alquanto diversi: a titolo esemplificativo sono
da segnalare, almeno in ambito lombardo, oltre alle perduranti chiusure (Cremona, Mantova), nuovi
percorsi espositivi che, pur mantenendo la sequenza cronologica e tematica tipica delle sistemazioni
novecentesche (Milano), hanno talvolta assunto più esplicite valenze didattiche, conservando la
titolazione originaria (Pavia), oppure sostituendola (come il “museo storico della città” di Bergamo).
Brescia rientra, piuttosto precocemente, nel novero (una ventina) dei musei del Risorgimento aperti in
Italia settentrionale negli ultimi due decenni Ottocento. Tra le circostanze che ne favorirono l’istituzione
emerge, come modello esemplare, la mostra dedicata alla “Storia del Risorgimento nazionale”, allestita
nel 1884 in un grande padiglione (in stile neorinascimentale con al centro la statua di Vittorio Emanuele
II) dell’Esposizione Generale Italiana di Torino. All’esibizione del progresso civile della nuova Italia nei
diversi ambiti (scienza, tecnica, industria, economia), si affiancava l’evocazione delle vicende, da poco
trascorse, sulle quali si andava fondando tale sviluppo e l’identità stessa della Nazione. Il richiamo
al patriottismo dei padri poteva conciliare, oltre alle contrapposizioni del passato, le delusioni e le
contraddizioni del presente.
Gli organizzatori torinesi, nel gennaio dello stesso anno, interpellarono le amministrazioni di numerose
città italiane, al fine di raccogliere “tutte le memorie, i documenti, i quadri, le statue, gli emblemi ed
ogni altra cosa che valga a ricordare qualche episodio della storia del Risorgimento italiano, e sia
quindi diretta a manifestare l’indefessa costanza e la poderosa attività degli Italiani alla conquista
dell’unità e della libertà della Patria. (…) In ogni Comune vi sono memorie sacre al culto di ogni Italiano,
ogni Comune ha dato il suo generoso contingente a qualche falange di martiri e soldati che hanno
40 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Il Museo del Risorgimento di Brescia
combattuto per la patria”. La celebrazione delle glorie locali, che nel percorso espositivo si risolse nel
riservare ad ogni città un proprio settore, ritorna poi, con sotteso orgoglio municipalistico, nell’istituzione
di gran parte dei musei del Risorgimento che, tranne i casi “nazionali” di Torino e di Roma, hanno, di
fatto, mantenuto l’originaria pertinenza civica.
All’appello risposero quasi tutti i capoluoghi delle province venete, emiliane e lombarde, mentre l’Italia
centrale e meridionale era unicamente rappresentata, sia pure in modo cospicuo, da Roma, oltre che da
Perugia e da Messina.
L’inedita documentazione archivistica (conservata presso lo stesso museo), integrando quella già nota,
consente di meglio valutare la partecipazione di Brescia all’esposizione torinese e le circostanze che,
pochi anni dopo, motivarono la costituzione del Museo del Risorgimento. In entrambe le occasioni, nelle
“commissioni esecutive”, si nota la presenza degli stessi personaggi, così come rimasero pressoché
invariate le modalità espositive e la tipologia dei materiali.
Con la sconfitta della Destra nel 1876, nella città e nella provincia prevale l’egemonia politica del
“partito” zanardelliano, d’orientamento liberal - democratico e anticlericale. Ciò si riflette pure nella
composizione della commissione municipale, nominata dal sindaco zanardelliano Giuseppe Bonardi.
Allo stesso Giuseppe Zanardelli, allora deputato al Parlamento,
si aggiunsero l’imprenditore armiero Francesco Glisenti,
pure deputato zanardelliano, Carlo Cassola, che fu alla testa
dell’insurrezione del 1849, Gabriele Rosa e Antonio Frigerio,
esponenti del mazzinianesimo locale. Non potevano quindi
mancare alcuni veterani delle guerre risorgimentali: Paolo Peroni,
Pietro Amadio, Eligio Battagia; Giuseppe Capuzzi, sbarcato a
Marsala con i Mille, assunse la carica di segretario.
L’iniziativa fu pubblicizzata da un manifesto (7 febbraio), dove si
ricordava come Brescia avesse “scritto una pagina memoranda
della storia nazionale ed ha quindi diritto di prendere parte a questa
Mostra destinata ad illustrare le varie fortune del movimento che
raccolse in una sola fede, in un solo patto, la grande Famiglia
Italiana. (…) Il periodo che siamo chiamati ad illustrare comincia
41 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Allestimento di una sala
della Mostra storica del
Risorgimento Nazionale,
fotografia storica.
In basso, catalogo
della sezione bresciana
della Mostra storica del
Risorgimento Nazionale,
frontespizio.
Elena Lucchesi Ragni, Maurizio Mondini
Rilievi del Monumento
alle Dieci Giornate.
Sotto, album inviato dalle
signore di Torino a quelle di
Brescia per la cura dei feriti
nel 1859, esposto a Torino.
con i moti del 1821 e 1831; segue col risveglio che maturò la rivoluzione e la guerra del 1848,
procede colla lotta titanica del 1849; continua colla resistenza di dieci anni alla dominazione straniera,
colle guerre del 1859, 1860, 1866, e si chiude coll’entrata delle truppe nazionali in Roma. Si tratta di
promuovere un’opera altamente nazionale destinata ad offrire gli elementi necessari a chi, in tempi
più tranquilli, vorrà accingersi a scrivere la storia della rivoluzione italiana. Confidiamo quindi che a
questo appello vorrà rispondere volonteroso chiunque ami il decoro e la grandezza della Patria, facendo
pervenire alla Commissione che risiede nel Palazzo municipale della Loggia, entro il 15 aprile, gli scritti,
gli stampati, le memorie e tutto quanto può accrescere l’importanza della Mostra Bresciana.” Oltre al
manifesto, fu stampata una lettera (9 febbraio) che invitava un centinaio di “benemeriti”, selezionati
nella città e della provincia, a collaborare alla raccolta dei materiali. A questo fine si dedicò pure un
“comitato consultivo”, composto da tredici autorevoli cittadini (nobili, commendatori o professori) che
supportassero la stessa commissione, per accelerare i tempi e superare le resistenze talvolta frapposte
alla concessione, sia pure temporanea, di preziosi ricordi famigliari.
La risposta corrispose certamente alle attese, considerando la quantità e l’importanza delle
testimonianze concesse dai prestatori privati. Solo pochi oggetti pervennero poi al Museo del
Risorgimento; molti altri sono andati dispersi o sono difficilmente reperibili. In particolare, sarebbero da
ritrovare alcune testimonianze figurative, come l’“album di schizzi a matita delle battaglie del 1859”
(prestato ed eseguito da Federico Odorici), il “bozzetto di Federico Odorici tolto dalla battaglia di San
Martino il giorno 25 giugno 1859” (conte Trecagni), l’“album della guerra del 1848, in 48 pagine di testo
con 12 vignette del pittore bresciano Tommaso Castellini e
tre schizzi a matita dello stesso” (conte Francesco Caprioli),
i ritratti dei fratelli Camillo e Filippo Ugoni, il dipinto di
Angelo Inganni raffigurante “la battaglia del 31 marzo
1849 fra i sollevati bresciani e le truppe austriache nella
via di San Barnaba” (Bernardo Salvadego). Si identificano
invece facilmente i quattro dipinti eseguiti da Faustino
Joli, con episodi delle Dieci giornate, allora concessi dalla
contessa Maria Ghisi Pellegrini, ora nei Civici musei.
La commissione si rivolse pure alla Biblioteca Queriniana
e alla “Fabbrica del Camposanto” cittadino. La prima
rese disponibile una decina tra opuscoli, proclami e
manoscritti, mentre la seconda cercò e trascrisse 56
lapidi che, anche indirettamente, ricordavano fatti d’armi,
militari caduti, personaggi esiliati o carcerati. In pochi mesi
furono inoltre selezionati nell’archivio municipale numerosi
42 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Il Museo del Risorgimento di Brescia
Gruppo di compagni di
Carlo Zima durante le
Dieci Giornate, fotografia
esposta a Torino.
Sotto, ritratto di Giacinto
Monpiani, miniatura
di Adelaide Bianchi
Camplani esposta a
Torino.
documenti, compilati elenchi di patrioti, trascritte lapidi commemorative e commissionate fotografie dei
principali monumenti cittadini. Tale attività emerge dal catalogo generale dell’Esposizione e, in modo più
esaustivo, dal raro opuscolo pubblicato per l’occasione a Brescia, con l’elenco dettagliato degli “oggetti,
memorie e documenti” inviati a Torino. Dal testo si desumono poche indicazioni sull’allestimento che,
nell’’insieme, dovette tuttavia assumere un aspetto
simile a quello delle altre città: alcune fotografie
restituiscono l’accumulo quasi scenografico dei
materiali, finalizzato a coinvolgere emotivamente
il visitatore, anche se l’obiettivo primario restava
quello di proporre una prima ricognizione delle
fonti storiche e storiografiche del Risorgimento.
Secondo il catalogo, il settore espositivo riservato
a Brescia si apriva con la commemorazione
delle vicende del 1848-1849: alle bandiere della
legione italiana combattente nel 1849 in Ungheria
e quella del battaglione bresciano che, l’anno
precedente, si era distinto in Trentino, erano
accostate le sciabole dei rispettivi comandanti, il
colonnello Alessandro Monti e il maggiore Nicola
43 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Elena Lucchesi Ragni, Maurizio Mondini
Sciarpa e guanti presi
ad un ufficiale austriaco
durante le Dieci giornate,
esposti a Torino
In basso, ritratto di Tito
Speri, dagherrotipo,
esposto a Torino
Sedaboni. Seguivano i cimeli delle Dieci giornate,
della carcerazione di Tito Speri e i quattro dipinti
citati di Faustino Joli. Oltre alle testimonianze della
prima e della seconda guerra d’Indipendenza, si
potevano osservare numerosi ritratti, in gran parte
fotografici, di patrioti e di militari, così come alcune
fotografie di luoghi e di monumenti cittadini legati alla
memoria del Risorgimento. L’elencazione dei circa 80
“oggetti” non segue un preciso ordine cronologico
che, al contrario, appare rigorosamente mantenuto
nel paragrafo successivo. Agli elenchi di “bresciani
condannati per titolo di alto tradimento” nel 1821 e nel
1836, seguono proclami, lettere, memorie, biografie,
giornali e pubblicazioni (stampate anche dopo i fatti)
che documentano l’attività del governo provvisorio del
1848 e lo svolgimento delle Dieci giornate. L’elenco
nominativo del “comitato d’insurrezione” del 1850
precede quindi la seconda guerra d’Indipendenza
(dove prevale la “Brescia ospitaliera”) e l’ “elenco dei
bresciani che presero parte alla spedizione dei Mille”.
Gli anni posteriori sono testimoniati, in particolare,
dai contributi finanziari accordati dalla municipalità
a favore di Garibaldi (1860), degli “emigrati delle
province venete” (1861), delle “famiglie bisognose” per la guerra (1866) e dei “combattenti dell’agro
romano” (1867). Merita tuttavia notare l’assenza d’ogni riferimento alla sanguinosa repressione dei
tumulti determinati a Brescia dall’arresto di Francesco Nullo e d altri garibaldini nel 1862. Il catalogo
termina con la trascrizione delle epigrafi che evocavano episodi cruenti delle Dieci giornate (in alcuni casi
oggi scomparse) e con le numerose lapidi funerarie pertinenti a patrioti e caduti in battaglia.
Tre anni dopo la conclusione della mostra torinese, che ebbe un clamoroso successo di pubblico, il
Consiglio comunale di Brescia (10 giugno 1887) approvò, quasi all’unanimità. l’istituzione del Museo del
Risorgimento Nazionale. La decisione era stata certamente favorita dagli esempi pionieristici di Torino
(progettato fin dal 1878), di Milano (inaugurato nel 1885) e di Pavia (deliberato nel 1885). D’altra parte,
la sella donata (non è noto in quale occasione) da Garibaldi a Tito Speri, costituiva già un’ammiratissima
44 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Il Museo del Risorgimento di Brescia
attrattiva del nuovo Museo dell’Età Cristiana, aperto nel
1882 nella chiesa di Santa Giulia. Nella commissione
esecutiva (costituita il 15 luglio), presieduta dal sindaco
Bonardi, furono nominati Carlo Cassola, Gabriele Rosa,
Pietro Amadio, Eligio Battagia, Francesco Caprioli e
Giuseppe Capuzzi. Rispetto alla commissione del 1884
le uniche varianti riscontrabili sono la diminuzione dei
membri e la presenza del conte Caprioli. Com’era
accaduto pochi anni prima, in occasione del
monumento ad Arnaldo da Brescia, l’istituzione del
Museo è stata giustamente considerata tra le iniziative
del “partito” zanardelliano volte a consolidare il carattere
laico della Città nei confronti del moderatismo cattolico,
avverso al nuovo Stato nato dalle lotte risorgimentali.
L’attività della commissione, non vincolata da scadenze ravvicinate, fu soggetta a ritardi, probabilmente
dovuti alla preparazione della sede e alla raccolta dei materiali. Un nuovo impulso traspare dai due
manifesti, sottoscritti dallo stesso sindaco Bonardi, datati 21 novembre 1888 e 25 marzo 1890: se il
testo rimane identico, si registrano tuttavia alcune variazioni nei membri della commissione che, rispetto
alla precedente, appaiamo aumentati di numero e con qualche cambiamenti nei nominativi.
Ancora una volta, si rivolgeva un pressante appello ai “corpi morali e ai privati perché vogliano consentire
che le collezioni, i documenti, e tutto ciò che può ricordare le varie vicende della Patria venga in loro
nome consegnato o come dono, o come semplice deposito al Museo del Risorgimento. (…) A quale pro
e con quale titolo tenere nascoste e disperse così preziose reliquie, quando il raccoglierle in un sacrario
tornerà decoro di tutti ?”. Il museo doveva esporre “le memorie dei nostri entusiasmi, dei nostri dolori,
di ciò che abbiamo operato, di ciò che nobilmente abbiamo amato. Questo museo sarà il ricordo più
prezioso che la generazione fattrice della libera Italia possa lasciare alle generazioni avvenire, degno
di essere visitato in ogni tempo ad incremento delle cittadine virtù ed a soddisfazione di generosi
sentimenti.”
Il Museo fu solennemente inaugurato il 17 agosto 1893 in cinque sale al piano terra di Palazzo
Martinengo da Barco, dove avevano trovato sede, negli stessi anni dopo impegnativi lavori di
sistemazione interna ed esterna, altre istituzioni culturali cittadine: il museo di Scienze Naturali,
45 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Berretto di velluto di Tito
Speri, esposto a Torino
In basso, Città di Brescia.
Museo del Risorgimento
Nazionale, manifesto
a destra, album delle
firme degli ospiti
dell’inaugurazione del
Museo nel 1893.
Elena Lucchesi Ragni, Maurizio Mondini
Da sinistra: interno della
sala del 1848-49 del
Museo del Risorgimento,
al centro, l’interno della
sala del 1859 del Museo
del Risorgimento, a
destra, interno della sala
di Garibaldi del Museo del
Risorgimento.
In basso, ritratto di Cesare
Quarenghi sotto il portico
di palazzo Martinengo da
Barco
l’archivio storico municipale, l’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti e, al piano superiore, la Pinacoteca
Martinengo. All’apertura del nuovo museo contribuì certamente la nomina a direttore, avvenuta solo
alcuni mesi prima, di Cesare Quarenghi: capitano della riserva ed enciclopedico esperto di bibliografia
risorgimentale, aveva collaborato all’organizzazione della mostra torinese su incarico del Ministero
della guerra. Come scrive un contemporaneo “egli si mise all’opera con meravigliosa attività (…)
depositando egli stesso, tutto ciò che aveva raccolto (…) ottenendo dai privati anche più restii che si
privassero di documenti e di ricordi per loro preziosi; accettando anche il gingillo che, ai più, poteva
sembrare di nessun valore, ma che poteva essere contributo ed elemento utile a chi facesse ampie
indagini storiche (…)”.
L’aspetto del museo, nel suo allestimento iniziale, è testimoniato da alcune straordinarie fotografie
d’epoca, recentemente rintracciate, insieme ad una presentazione, quasi una guida, pubblicata da
Agostino Zanelli sulla “Rivista storica del Risorgimento” nel 1897.
Nella prima sala erano presentati i materiali dall’età napoleonica fino al 1848: oltre a proclami, ritratti di
carbonari (anche in riproduzione fotografica), erano conservate numerose lettere di Federico Gonfalonieri
a Gabriele Rosa (dal 1840 al 1844); un certo rilievo era conferito ai frammenti (riassemblati) della
forca, utilizzata per le impiccagioni, recuperati dai sotterrai del palazzo di Broletto, sede delle carceri
austriache (in seguito l’oggetto è andato perduto). La sala seguente era interamente dedicata ai “ricordi”
delle vicende del 1848 e del 1849. Come si nota nella fotografia, al centro era collocata la statua (in
cartapesta gessata) di Brescia libera che, eseguita dal bresciano Giuseppe Luzzuiardi, ornava la sommità
del carro funebre che trasportò i resti dei caduti delle Dieci giornate al cimitero Vantiniano nel 1861
(anche questa è da ritenersi perduta); ai piedi del basamento si nota il noto “cannone” quattrocentesco
utilizzata dagli insorti nel 1849. La “bella vetrina” sul fondo conteneva “armi, diversi ventagli, ombrellini
da signora allegorici, medaglie commemorative”. Un’altra vetrina esponeva i numerosi cimeli (il
berretto, i guanti, la cravatta) e gli autografi di Tito Speri, donati dalla sorella del patriota bresciano
Santina. La terza sala, documentata anch’essa in una fotografia, era dedicata a Garibaldi e a Mazzini:
sotto il busto di Garibaldi, nella vetrina era riposta la giacca rossa del maggiore Giuseppe Guerzoni,
sbarcato a Marsala con i Mille. A sinistra si notano
la sella “americana” (già esposta nel Museo
Cristiano) e, sul fondo, la carrozza utilizzata dallo
stesso Generale in Trentino nel 1866. Mazzini
era ricordato in due “quadri” da numerose e
interessanti lettere autografe, in gran parte
indirizzate al donatore, Antonio Frigerio. Come
ancora testimonia la fotografia, il quarto ambiente
era riservato a Vittorio Emanuele II e alla guerra
del 1859: al centro campeggiava, sopra l’elegante
divano a borne, il busto dello stesso Re; a destra si
46 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Il Museo del Risorgimento di Brescia
riconosce la grande tela dell’Inganni con Gli zuiavi accampati
sugli spalti di Brescia e sul fondo il modello, eseguito ancora
dal Luzziardi, del monumento (non realizzato) ai caduti della
seconda Guerra d’Indipendenza. Si aggiungevano altri oggetti
che, diversamente da quest’ultimo, sono ancora conservati
nella raccolta bresciana, come la farmacia da campo e
la cassetta di ferri chirurgici, lasciati a Brescia dai medici
militari francesi. Nella sala erano inoltre riposti l’epistolario di
Giacinto Mompiani e gli autografi di numerosi protagonisti del
Risorgimento non solo locale, che furono tutti trasferiti presso
la Biblioteca Queriniana nel 1920. L’ultima sala comprendeva
il medagliere e la “bibliografia e la letteratura storica del
Risorgimento”, compreso lo “schedario” alfabetico di notizie
biografiche, redatto e depositato dallo stesso direttore
Quarenghi. In accordo con i criteri adottati per la prima volta
nel Padiglione dell’esposizione di Torino il ruolo del museo era, soprattutto, luogo di documentazione e
di studio per imparare e per “scrivere” la storia: funzione che si è mantenuta fino ad oggi solo nel caso
milanese e nelle istituzioni nazionali di Roma e Torino.
Non è possibile seguire, in dettaglio, le complesse
vicende che coinvolsero il museo nel secolo
successivo, ad iniziare dal suo trasferimento nel
Mastio del Castello nel 1904, probabilmente
determinato dall’ampliamento della Pinacoteca civica
che, nello stesso anno, accolse i dipinti della collezione
Tosio, rimasti fino allora nel palazzo omonimo.
Nota bibliografica.
Sull’esposizione del 1884 e i musei del Risorgimento si veda
il saggio, con approfonditi riferimenti anche al caso bresciano,
di M. Baioni, La religione della Patria: musei e istituti di culto
risorgimentale, Quinto di Treviso, 1994; sulle vicende del
museo si vedano, in particolare: G. Panazza, I musei bresciani,
in AA.VV. Brescia postromantica e liberty, catalogo della mostra,
Brescia, 1985; AA.VV., L’età zanardelliana, catalogo della
mostra, Brescia, 1984.
47 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Sella “americana”
appartenuta a Giuseppe
Garibaldi, sotto, la
carrozza utilizzata da
Garibaldi in Trentino nel
1866. In basso, farmacia
da campo lasciata da
un medico francese a
Brescia nel 1859
Luciano Faverzani
Ugo Da Como. Uomo pubblico e studioso
1
Per la figura del padre
Giuseppe si veda: L.
FAVERZANI, Ugo Da Como
e l’Ateneo di Brescia, in
Commentari dell’Ateneo di
Brescia per l’anno 2001,
Brescia, 2002, pp. 45-49
2
La carica di Presidente
Onorario non era stata prima di
allora mai conferita
3
Si veda: L. FAVERZANI, Ugo
Da Como e l’Ateneo di Brescia,
in Commentari dell’Ateneo
di Brescia per l’anno 2001,
Brescia, 2002, pp. 45-61
A quasi settant’anni dalla morte del senatore Ugo Da Como ricordarne la figura significa aprire una
pagina di storia bresciana e nazionale su di un personaggio che tanto ha dato all’Italia con il suo
impegno civile e politico ma anche come uomo di cultura e la Fondazione che ne porta il nome, da
lui voluta, ne è l’esempio più evidente.
Ugo Da Como nacque a Brescia nel 1869. Se dal punto di vista professionale e politico un ruolo
predominante nella vita di Ugo Da Como fu svolto da Giuseppe Zanardelli sicuramente in campo
culturale questo ruolo fu svolto dal padre Giuseppe che gli permise di entrare, ancora bambino, in
contatto con alcune delle maggiori personalità bresciane del tempo: Filippo Ugoni, Giuseppe Cesare
Abba, Gabriele Rosa.
Ritengo quindi necessario prima di avvicinarmi alla figura di Ugo Da Como, spendere alcune parole
per il padre Giuseppe.
L’ingegnere Giuseppe Da Como, nato a Brescia nel 1842 insegnava scienze esatte presso l’istituto
tecnico cittadino; dopo aver partecipato alle guerre risorgimentali, nel 1866 si arruolò volontario
nelle file del neonato esercito italiano per partecipare alla terza guerra d’Indipendenza. Di idee
socialiste, nonostante si definisse simpatizzante di Giuseppe Zanardelli, Giuseppe Da Como
collaborò con Gabriele Rosa, Cacciamali e Filippo Turati al giornale “La Squilla”; cultore di letteratura
fu scrittore di ispirazione idealista-positivista e poeta carducciano.
Per le sue qualità professionali e per le sue qualità letterarie Giuseppe Da Como fu chiamato a far
parte dell’Ateneo di Brescia il 10 agosto 1868, venendo ascritto nel libro dei soci al numero 692.
Gli interventi di Giuseppe Da Como in Ateneo possiamo dividerli in due sezioni: la prima
tecnica nella quale l’ingegnere Da Como diede il meglio di sé facendosi apprezzare per la
competenza professionale; la seconda letteraria nella quale presentò le proprie composizioni
liriche che in un secondo tempo il figlio Ugo raccolse e fece pubblicare dalla Casa Editrice
Zanichelli di Bologna.
Giuseppe Da Como morì dopo breve malattia nel giugno del 18861.
Nonostante la brevità del rapporto tra padre e figlio, Ugo Da Como attinse dal padre l’amore per la
cultura e per l’Accademia cittadina della quale divenne Socio effettivo il 5 marzo del 1893, venendo
iscritto nel libro dei soci al numero 881.
Ugo Da Como, socio effettivo dell’Ateneo di Brescia per quarantotto anni, ricoprì per ben tre volte
la carica di Presidente dell’Accademia: fra il 1908 e il 1911; fra il 1916 e il 1919; e fra il 1923
e il 1926. Infine, per il grande prestigio del quale godeva, nel 1933 su proposta del Consiglio di
Presidenza, gli fu conferita la carica di Presidente Onorario2.
Prima di accedere alla più alta carica dell’Accademia bresciana, Ugo Da Como ebbe modo di farsi
conoscere anche attraverso alcuni interventi3.
Nella sua qualità di Presidente Ugo Da Como ebbe l’onore e l’onere di svolgere i discorsi ufficiali
di apertura degli anni accademici durante le tre tornate di presidenza anche se nell’ultima svolse
solamente quella dell’anno 1926.
Fra i discorsi ufficiali tenuti da Da Como vorrei ricordare quelli del 1908 e del 1911.
Il 2 febbraio 1908, in apertura del suo discorso Da Como ebbe modo di ricordare Giosuè
Carducci, morto nel febbraio dell’anno precedente. Dopo questo sentito omaggio ringraziò
“quanti m’onorarono del loro suffragio” e dopo aver ricordato Giuliano Fenaroli, che lo aveva
preceduto nella più alta carica dell’Ateneo disse di lui “Una nota costante, vivida, inesauribile,
è l’intima animatrice delle sue carte che rimangono: l’augurio alla concordia dei migliori nelle
opere del bene, l’incitamento a far penetrare, nelle azioni della vita, una parola gentile di amore.
A questa idealità serberemo fede: nella scienza come nella vita amara è comprendere e, dove
regna serena fraternità di opere e di intenti, le forze d’ognuno si centuplicano: è questo pensiero
che mi rende l’animo più sicuro nel cammino che si prepara, nel quale l’opera del Presidente
48 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Ugo Da Como. Uomo pubblico e studioso
è, per fortuna, assistita dai preziosi aiuti dei Consigli accademici, e dall’azione eminente del
Segretario, custode delle memorie e delle tradizioni, che tramanda alla nuova età”4.
Successivamente pose l’accento sul fatto che “In questi discorsi augurali fu quasi sempre costume
riguardare la via percorsa” a tal proposito ricordò le figure di Gabriele Rosa, Aleardo Aleardi,
Giuseppe Zanardelli, Massimo Bonardi. Specchio dell’attività dell’Ateneo sono i “Commentari” che
proprio nel 1908 festeggiavano il centenario della loro prima pubblicazione. Ricordando l’evento
Da Como annunciò la prossima pubblicazione degli Indici dei Commentari e riguardo ad essi
ebbe a dire: “Se noi guarderemo, con spirito d’osservazione, l’opera secolare dell’Accademia,
riassunta nei Commentari, ci apparirà a nostro conforto, la graduale tendenza di orientamento ai
nuovi destini” e ricorderà come in ogni momento della sua vita l’attività scientifica dell’Accademia
sia stata caratterizzata da una particolare attenzione ai principali mutamenti politici, sociali e
economici della città e del territorio bresciano prima e della nazione poi. Poco più innanzi disse:
“L’Indice dei Commentari dell’Ateneo ci richiamerà alla sua origine ed ai primi atti dell’Accademia”
e ricorderà come proprio un secolo prima “l’Abate Bighelli leggesse ai consoci uno scritto per
destare l’emulazione, dar vita ai talenti, nutrire e mantenere il buon gusto nelle scienze e nelle arti,
procacciare al pubblico i vantaggi possibili relativamente all’industria, al commercio, al Governo, ed
attendere alla perfezione di tutti gli oggetti che possono contribuire alla comune felicità”5. Da Como
parla dei ricorsi storici, parla “del progresso indefinito ed indefinibile, che noi vedremo anche col
raffronto dell’opera accademica con quella del secolo XIX, che dà vita alle più alte energie umane”.
Più avanti ebbe a dire: “Il tempo della morta erudizione pesante, soverchiante non è più: entro
devono alitarvi intenzioni creatrici. – Con ciò non ci stacchiamo dal passato: ognuno si sente
legato da fili invisibili coi predecessori, come ai presenti ed ai futuri: eredi dei primi, associati
ai vivi, dobbiamo però, su tutto, essere la provvidenza di coloro che verranno. Gli antecessori ci
tramandarono dei doveri verso la posterità, e noi, pur legati all’antico ceppo, dobbiamo volgerci a
rinvigorire i nuovi virgulti”6 e poche righe dopo continuava “La nostra Accademia, per mantenere
la fama che il tempo le creò d’intorno, deve tener fermi quei cardini che le consentono di svolgersi
lontana dalle passioni, dalle affannose cupidigie, dai materiali interessi”. Ricorda gli innumerevoli
lavori che non avevano ancora avuto una degna pubblicazione. Accenna alle memorie del
risorgimento, agli innumerevoli carteggi custoditi dal Museo cittadino del Risorgimento7.
Dagli studi storici volge l’attenzione a quelli scientifici “che – come ebbe a dire – debbono avere
il loro degno posto. Esse sono la più vera preparazione di ogni moto civile”; fra gli studi scientifici
ricorda quelli miranti ad un avanzamento delle tecniche agricole.
Avviandosi alla conclusione di questo suo discorso inaugurale Da Como dedicò un pensiero
all’istruzione “perché non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte ai milioni di analfabeti” e poche
righe dopo aggiunge “non camminino gli uomini senza la luce dell’intelletto. Questo fu e dev’essere
uno degli intenti fondamentali dell’Accademia”. Ritiene necessaria la diffusione delle biblioteche
popolari8 “per creare anche un elemento operaio giovane, più accessibile all’azione della scuola
professionale” e poche righe dopo aggiunse “Benefica sarà la nostra opera se varrà a dimostrare
che la scuola del lavoro deve ascendere, e diventare cooperatrice preziosa di ricchezza, di moralità
e di pace sociale; che non bastano le scuole di coltura generale, le umanistiche e le scientifiche,
alla evoluzione della civiltà, mentre abbiamo da seguire il risveglio della economia de nostro paese,
che dev’essere sapientemente sorretto, nelle grandi lotte per la produzione”9. In modo polemico
contro le continue accuse di immobilismo e di realtà fuori dal tempo rivolte all’Ateneo in quegli
anni Da Como rispose dicendo: “Ciò ho amato ripetere qui, perché non si dica che non abbiamo
acquistato il sentimento della responsabilità sociale, che siamo rimasti apatici, indifferenti, e che lo
spirito scientifico non ci ha posti sulla nuova via, mentre l’accrescimento della ricchezza generale,
la facilità delle comunicazioni e degli scambi internazionali stimolarono le forze vive dei popoli, e le
scoperte della fisica e della chimica crearono una energica evoluzione dell’arte industriale; ed un
inno concorde s’eleva all’industria che è civiltà, perché dove prospera, è la libertà, e con la libertà
del lavoro industriale si consolida la libertà civile, bene inestimabile ed eterno”10.
Il discorso inaugurale per l’anno 1911 il Presidente Da Como lo dedicò alla “scuola popolare”.
Nell’accomiatarsi dai soci, alla fine del suo primo mandato, Da Como volle porre nuovamente
l’accento sul problema della scuola compiacendosi del fatto che le problematiche dell’istruzione
fossero assurte al primo posto sulla stampa, nei pubblici dibattiti e nelle aule del parlamento,
ma lamentava che al contrario tale primaria questione non aveva trovato alcune eco nei dibattiti
49 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
4
Commentari dell’Ateneo
di Brescia per l’anno 1908,
Brescia 1909, p 6
5
idem, p 9-10
6
idem, p
7
idem, p 15-16; oggi questi
preziosi carteggi sono presso la
Civica Biblioteca Queriniana e
l’Archivio Civico
8
Dobbiamo ricordare che il
Senatore Da Como si fece
promotore in Lonato della
costituzione di una biblioteca
popolare che egli volle titolata
al padre Giuseppe e che ebbe
sede in una stanza posta
nel giardino della casa del
Bibliotecario.
9
idem, p 19
10
idem, p 22
Luciano Faverzani
11
Commentari dell’Ateneo
di Brescia per l’anno 1911,
Brescia 1911, p 6-35
12
idem, p 12
13
idem, p
14
Commentari dell’Ateneo
di Brescia per l’anno 1926,
Brescia 1927, pp III-XII
15
idem, p III
16
Commentari dell’Ateneo di
Brescia per il triennio 19401941-1942, Brescia 1943,
pp 45-62
17
Si veda: L. FAVERZANI, La
vita pubblica di Ugo Da Como,
in I Quaderni della Fondazione
Ugo Da Como, anno IV, numero
7, novembre 2002, pp. 27-33;
G. NADDEO, Ugo Da Como:
l’attività nel Parlamento e
nel Governo, in Commentari
dell’Ateneo di Brescia per l’anno
2007 (in corso di stampa).
dell’Ateneo; lamentava anche il fatto che fosse passato completamente inascoltato l’appello che
aveva ricolto tre anni prima ai giovani perché partecipassero alle attività dell’Ateneo. Da Como
affermava che doveva essere dovere di ognuno appoggiare lo Stato in tutte quelle iniziative che
mirino al miglioramento della società in ogni settore della vita; lamentava però come “questa
invocata collaborazione di tutti, disinteressata e concorde – non vi sia – neppure nel campo
educativo”11. Per Da Como l’educazione “è più che un fatto sociale … è una condizione d’esistenza
della Società”. Questo compito deve partire dall’insegnamento primario e Da Como afferma che
il fanciullo che trae dalla scuola i primi elementi del vivere civile “sarà domani il padre che vorrà
uguale o miglior educazione pei figli suoi”. Da Como continuava “Miriamo dunque a rendere più
generale e completa e più alta l’educazione popolare, in questa epoca segnalata pei due fatti
concomitanti della supremazia delle scienze e dell’avvento della democrazia”12; è nella scuola che
vi deve essere una educazione sociale ed è in essa che l’idea della solidarietà deve germogliare. In
tale compito, Da Como affermava, è il maestro che ha il ruolo principale.
Il Presidente analizzava poi le vicende scolastiche di altre nazioni e quando giunse a trattare della
situazione scolastica italiana disse che dopo la riforma Casati non si ebbe più alcuna altra riforma
“così organica e sostanziale”. Da Como ricordava anche che l’Italia fu la prima nazione “a pensare
all’assistenza ed alla educazione dell’infanzia” e aggiungeva “Noi dobbiamo seguire il figlio del
lavoratore dai tre anni fino alla leva militare, senza lasciarlo disarmato a mezza via, con quella
assistenza scolastica che ne formi un degno cittadino”13. Concluse questo primo quadriennio di
presidenza ricordando, in occasione del cinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia,
come Re Vittorio Emanuele II aprendo i lavori del primo parlamento italiano esortasse tutti a dare
all’Italia unita istituti comuni e solidità economica e sociale. L’istruzione diveniva quindi il principale
strumento per dare alla nazione giovani preparati al lavoro e pronti a guidare la cosa pubblica.
Il secondo quadriennio di presidenza dell’Accademia cittadina (1916-1919) coincise con uno dei
momenti più difficili della nostra storia nazionale e cioè con gli anni della prima guerra mondiale e,
se nel primo quadriennio Da Como pose tutta la sua attenzione sul valore educativo e sociale che
l’Ateneo doveva svolgere nella società, ora tutti i suoi sforzi sono indirizzati verso argomentazioni
che tengano alto il morale e desta l’attenzione della società verso i gravi problemi che la Nazione
stava attraversando.
Nell’ultimo quadriennio di Presidenza, dal 1923 al 1926, Da Como ebbe a presiedere solamente
l’adunanza solenne del 5 aprile 1926.
Quella del 192614 la si può ritenere il testamento culturale di Ugo Da Como che lasciando per
l’ultima volta la Presidenza volle indicare quali dovevano essere i compiti dell’Accademia per il
futuro. Il Senatore infatti, come ebbe a dire, ambiva a “vedere, almeno, tracciata ed iniziata la via per
quella Storia di Brescia, che deve essere documento degno di una secolare nobiltà”. Lamentava la
mancanza di “una edizione critica del Codice diplomatico”; di una bibliografia completa della Storia
bresciana; di una edizione critica degli Statuti Comunali; di uno studio completo sulla toponomastica
bresciana. Nella seconda parte il discorso è centrato sull’importanza che riveste la storia e conclude
affermando “Ricordare: ecco il viatico della vita, degli uomini e dei popoli”.
Esemplificativo dello spirito di Ugo Da Como verso l’Ateneo di Brescia, vorrei ricordare infine due
passi di discorsi, uno dello stesso Senatore, l’altro di Vincenzo Lonati, che rendono secondo me
l’idea di cosa doveva essere l’Ateneo per il Senatore.
Nel discorso inaugurale del 5 aprile 1926 Da Como ebbe a dire: “Considero come la mia famiglia
questo antico istituto, nel quale mio padre conduceva me ancora fanciullo attonito alle voci degli
uomini, che, usciti dai sacrifici e dalle battaglie del risorgimento, additavano le nuove vie alla
Patria”15.
Il secondo brano è preso dalla commemorazione che Vincenzo Lonati fece di Ugo Da Como subito
dopo la sua morte; parlando del rapporto del Senatore con l’Ateneo, Lonati ebbe a dire: “Così Gli era
caro trovare in questo Ateneo un centro dove tacevano e si dimenticavano le competizioni di parte, e
gli uomini migliori si sentivano amici anche nella diversità delle idee”16.
L’impegno politico amministrativo del Senatore Da Como17 aveva avuto inizio molto presto, fu
infatti nell’ultimo decennio del XIX secolo che venne eletto Consigliere comunale prima di Lonato
e poi di Brescia e successivamente nell’amministrazione provinciale. Dopo questa esperienza
amministrativa locale avvenne il grande salto; nel 1904 fu eletto deputato per il collegio di Lonato al
Parlamento nazionale. Distintosi per le sue qualità fu nominato sottosegretario alle Finanze nel primo
50 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Ugo Da Como. Uomo pubblico e studioso
governo Salandra (marzo 1914) e nel novembre dello stesso anno divenne, nel secondo governo
Salandra, sottosegretario al Tesoro; questa carica la mantenne anche nel successivo governo
Boselli. Nel 1919 entrò a far parte del Governo Nitti con la carica di Ministro per l’assistenza militare
e le pensioni di guerra. Con le elezioni conseguenti la caduta del governo Nitti, Da Como non venne
rieletto al Parlamento ma, nell’ottobre del 1920, come segno di stima e riconoscenza per il suo
impegno politico fu nominato da re Vittorio Emanuele III Senatore.
Dopo l’ottobre del 1922 Da Como fu nominato Presidente del Comitato Centrale per la liquidazione
e l’immediato pagamento dei risarcimenti dei danni di guerra; nell’aprile dello stesso anno assunse
la carica di Vice Presidente della Commissione Censuaria Centrale; nel luglio divenne il primo
presidente della Camera Nazionale per le Assicurazioni Sociali (l’attuale INPS), carica che rivestì
sino al 1925; il 10 gennaio del 1924 è nominato Presidente della Commissione Centrale delle
Imposte Dirette ed alcuni giorni dopo fu chiamato a far parte del Consiglio Superiore dell’Economia
Nazionale.
Con l’avvento del fascismo il suo impegno politico si poté dire concluso anche se a riprova del
prestigio del quale godeva, dopo le elezioni del 1924 gli fu offerta la carica di Ministro dell’Economia
Nazionale nel governo Mussolini, offerta che Da Como rifiutò ritirandosi gradualmente a Lonato dove
trascorse gli ultimi anni della sua vita.
Se il ruolo pubblico ha rappresentato la parte preponderante della vita del Senatore Da Como, di
non minore importanza riveste quello di studioso. Nel campo degli studi di prevalente suo interesse
sono state le origini del Risorgimento, anche se come si può vedere scorrendo l’elenco dei titoli
delle sue pubblicazioni non trascurò alcuni momenti del risorgimento italiano come per esempio le
bresciane Dieci Giornate o i moti liberali del 1820-21 e i processi conseguenti.
Suo convincimento era, innovatore per l’epoca, che il processo unitario italiano aveva avuto la sua
origine nelle vicende politiche e militari della fine del XVIII secolo che con le rivoluzioni avevano
posto fine all’Ancien Régime. In una lettera del 1934 indirizzata al conte Teodoro Lechi, nipote
dell’omonimo generale napoleonico, Da Como scriveva “i seguaci di Bonaparte ritornano in tutte
le tappe per la redenzione: i loro nomi, quelli dei figli e congiunti popolano il firmamento del
patriottismo italiano”. Parole che evidenziano senza ombra di dubbio come per Da Como vi fosse
una precisa continuità fra i protagonisti di quegli anni così lontani e quelli del Risorgimento vero e
proprio. Continuità che per Da Como era già chiara negli anni precedenti la lettera del ’34; infatti
egli evidenziò come il Risorgimento abbia avuto le proprie “albe”, come in più occasioni le definì,
negli eventi di fine XVIII secolo. In tali termini parla nel 1921 in occasione del discorso inaugurale
dell’anno accademico presso la Scuola superiore di studi sociali dal titolo “Albe bresciane di
redenzioni sociali alla fine del secolo XVIII” e nel 1924 nel saggio “Brixia ad libertatem nata” dove
scrive: “Dopo che i bresciani videro la luce delle albe redentrici, alla fine del secolo XVIII, ne troviamo
sempre alcuni mescolati in ogni moto”.
Rigorosissimo era il metodo di lavoro perseguito da Da Como che possiamo riassumere in una
frase estrapolata da una lettera del 1927 nella quale scriveva: “per far bene, occorre rileggere
tutto, controllare tutto, rivedere tutti i documenti”, ed in un’altra lettera scriveva: “Se non si
controllano i testi ed i documenti si ricopiano continuamente errori”. Quindi si può concludere che
era assillante in lui la necessità di poter effettuare costanti controlli su documenti e testi al fine di
compilare uno studio storico privo di errori. Suo grande affanno era la ricerca di notizie biografiche
ed iconografiche sui protagonisti di quei fatti; affanno che emerge con grande forza dalle lettere
che egli scrive all’amico Lechi ma anche a molti altri corrispondenti. In una lettera del 25 marzo
1933 Da Como scriveva “Avrò scritto tremila lettere per il lavoro che sto facendo, ed è malinconico
aver dato tante noie agli altri, tante fatiche a sé, senza poter dire la parola fine”. Questa costante
ed affannosa ricerca di notizie lo porteranno in un’altra lettera del 28 settembre 1939 a scrivere:
“Nel mandare a Roma, giorni fa, le ultime seste bozze delle faticate biografie, vi scrissi sopra, come
facevano i nostri padri, un ‘Laus Deo’”.
Così come scrive il professor Biglione Di Viarigi18, dalla lettura di queste lettere si evince come
“il Senatore Da Como possedeva due delle qualità che si possono ritenere fondamentali per uno
storico: il rigore della ricerca e la consapevolezza che lo studioso delle vicende del passato faccia da
cerniera fra le diverse generazioni”, e più avanti ricorda il discorso inaugurale dell’anno accademico
dell’Ateneo di Brescia del 1926, nel quale Da Como disse: “La Storia risponde ad un bisogno
profondo, distinto dalla curiosità estetica e dalla curiosità propriamente scientifica; soddisfa ad una
51 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
18
L.A. BIGLIONE DI VIARIGI, Il
rigore e il metodo di Ugo Da
Como storico, in I Quaderni della
Fondazione Ugo Da Como, anno
IV, numero 7, novembre 2002,
pp. 71-77.
Luciano Faverzani
19
U. DA COMO, Per
l’inaugurazione dell’anno
accademico dell’Ateneo
di Brescia, in Commentari
dell’Ateneo di scienze, lettere ed
arti in Brescia per l’anno 1926,
Scuola Tipografica Istituto Figli
di Maria Immacolata, Brescia
1927, pp.VIII-XI.
20
L.A. BIGLIONE DI VIARIGI,
Idem, p. 77.
21 U. DA COMO, Per il
Capoluogo del Dipartimento
del Benaco, in “Commentari
dell’Ateneo di Brescia per l’anno
1916”, Stab. Unione TipoLitografica Bresciana, Brescia
1917, pp. 179-197.
22 U. DA COMO, Contributo
alla storia delle origini del
Risorgimento. Note su
manoscritti inediti, in “Nuova
Antologia” del 16 aprile 1922,
Roma 1922.
23
U. DA COMO, Il Bresciano
Conte Girolamo Fenaroli
deportato politico nel 1800, in
“Rivista d’Italia”, vol. I, fasc. III,
1922, Milano 1922
24
U. DA COMO, Brixia ad
libertatem nata. Note e ricordi
per la commemorazione del
1821, in I cospiratori bresciani
del ’21 nel primo centenario
dei loro processi,“Miscellanea
di studi a cura dell’Ateneo di
Brescia M.CM.XXIV”, Scuola
Tipografica Editrice Istituto Figli
di Maria Imm., Brescia 1924,
pp. (1)-46.
25
U. DA COMO, Napoleone e
la Consulta di Lione, in “Nuova
Antologia” del 1 marzo 1925,
Roma 1925
26
U. DA COMO, La Repubblica
Bresciana, Zanichelli, Bologna
1926
27
U. DA COMO, Lettere inedite di
G. Mazzini, in “Nuova Antologia”
del 16 giugno 1928, Roma
1928
28
U. DA COMO, Documenti sulle
X Giornate, in Rivista mensile
illustrata “Brescia”, n. 3, marzo
1929, Brescia 1929.
29
U. DA COMO, La città delle X
Giornate, in “Ateneo di Brescia
supplemento ai Commentari
del 1933, Miscellanea di studi
su Brescia nel Risorgimento
per il XXI Congresso della
Società Nazionale per la Storia
del Risorgimento Italiano”,
Stabilimenti Tipografici Ditta F.
Apollonio, Brescia 1933, pp.
9-39
specie di istinto vitale comune agli individui ed ai popoli, e tende perpetuare il loro essere morale; la
ricostituzione di una realtà svanita aiuta a vivere. È mezzo di vivere, di sopravvivere di immortalare
[…] Dobbiamo avere la vera storia, senza aggettivi, che rifletta le reali vibrazioni della vita, che
abbia il pregio in sé di risolvere le storie particolari del diritto, dell’economia, della politica, della
cultura.”19.
Sempre il professor Biglione Di Viarigi riassume con queste parole il pensiero di Da Como storico:
“Una storia, dunque, intesa come mezzo per la trasmissione di valori e di “verità” e capace, di
conseguenza, di compendiare i molti aspetti in cui si possono manifestare il pensiero e le vicende
dell’uomo.”20.
Ma ricordiamo ora i titoli dei lavori che fra il 1916 e il 1939 furono realizzati dal Da Como: nel
1916 fu pubblicato il saggio “Per il Capoluogo del Dipartimento del Benaco”21, nel 1922 in
Nuova Antologia fu pubblicato lo studio “Contributo alla storia delle origini del Risorgimento. Note
su manoscritti inediti”22, nel medesimo anno pubblicò nella Rivista d’Italia il saggio dal titolo “Il
Bresciano Conte Girolamo Fenaroli deportato politico nel 1800”23, nel 1924 in occasione della
commemorazione del centenario dei processi politici del 1821 pubblicò nella miscellanea di studi
promossa dall’Ateneo lo studio “Brixia ad libertatem nata”24, nel 1925 nuovamente in Nuova
Antologia vide la luce un primo studio dal titolo “Napoleone e la Consulta di Lione”25, l’anno
successivo Da Como diede alle stampe quello che ancora oggi rappresenta lo studio fondamentale
per la conoscenza di quegli eventi e cioè il volume “La Repubblica Bresciana”26, nel 1928 ancora
una volta per Nuova Antologia pubblicò il saggio “Lettere inedite di G. Mazzini”27, nel 1929 nella
rivista “Brescia” Da Como pubblicò un breve studio dal titolo “Documenti sulle X Giornate”28, nel
1933 in occasione del XXI Congresso della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento Italiano,
svoltosi a Brescia e Torino, pubblicò negli atti del Congresso, editi dall’Ateneo di Brescia, il saggio
“La città delle X Giornate”29, infine fra il 1934 e il 1940 Da Como diede alle stampe la sua opera
principale dal titolo “I Comizi nazionali di Lione per la costituzione della repubblica italiana”30, opera
in cinque volumi.
Vorrei qui anche ricordare altri tre studi di Da Como che ci fanno capire come i suoi interessi
spaziassero in varie epoche, lavori questi ultimi che nascono anche dalla sua grande passione di
bibliofilo, e cioè: le “Lettere inedite di Ugo Foscolo”31 pubblicato su Nuova Antologia nel 1927, lo
studio dal titolo “Umanisti del secolo XVI. Pier Francesco Zini”32 del 1928, e il volume “Girolamo
Muziano, 1528-1592”33, edito nel 1930.
30
Regia Accademia dei Lincei,
Commissione per gli Atti delle
Assemblee Costituzionali Italiane,
I Comizi nazionali in Lione per
la costituzione della repubblica
italiana, a cura di Ugo Da Como,
voll.V, Zanichelli, Bologna 19341940.
31
U. DA COMO, Lettere inedite
di Ugo Foscolo, in “Nuova
Antologia” del 1 giugno 1927,
Roma 1927
32
U. DA COMO, Umanisti del
secolo XVI. Pier Francesco
Zini suoi amici e congiunti nei
ricordi di Lonato sacro e ameno
recesso su la Riviera del Benaco,
Zanichelli, Bologna 1928.
33 U. DA COMO, Girolamo
Muziano, 1528-1592. Note
e documenti, Istituto d’Arti
Grafiche, Bergamo 1930.
52 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Percorsi didattici
Unità e identità: 150 anni di storia
Scuole primarie
Chi e dove
Classi coinvolte
Docente referente
Scuola primaria Statale T. Olivelli - Salò
Terza C
Rimoldi Carla
progetto 1
RI…SORGImento e OLTRE
Le date
1848
s Moti insurrezionali (Milano Brescia,
Venezia)
* I guerra d’indipendenza
(Garibaldi guida un gruppo di volontari )
1849
s La repubblica romana
(Garibaldi partecipa al suo governo )
1859
s II guerra d’indipendenza
(Garibaldi comanda un gruppo di volontari:
i Cacciatori delle Alpi )
s Conquista della Lombardia
s Annessione dell’Emilia-Romagna e della
Toscana mediante plebiscito
1860
s Spedizione dei MILLE al comando di
Garibaldi
s Conquista dell’Italia meridionale e della
Sicilia
s Annessione delle Marche e dell’Umbria
mediante plebiscito (fine anno)
54 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
1861
Proclamazione regno del regno
d’Italia
s III guerra d’indipendenza ( Garibaldi è a
capo di un gruppo di volontari)
s Conquista del Veneto
1870
s Breccia di Porta Pia: conquista di Roma
I protagonisti
s Giuseppe Mazzini
Idealista e repubblicano, fondatore della
Giovane Italia.
s Giuseppe Garbaldi
Condottiero, figura carismatica, uomo di
pensiero ed azione.
s Camillo Benso Conte di Cavour
Abile politico e diplomatico, tesseva
nell’ombra le sue trame
s Vittorio Emanuele II di Savoia
Principe del Regno di Sardegna, contribuì
all’Unità d’Italia e primo re d’Italia
progetto 1 RI…SORGImento e OLTRE
RISORGIMENTO
Garibaldi Garibaldi nacque a Nizza il 4 luglio 1807 e morì a Caprera il 2 giugno 1882.
La sua vita testimonia come la realtà possa superare l’immaginazione e divenire un avventuroso
romanzo.
Coloro che lo incontrarono in diverse circostanze e in varie fasi della sua vita concordano nel
definirlo di media corporatura,di atteggiamento pacato, con vivi e penetranti occhi castani, con
capelli biondi di media lunghezza e barba rossiccia: l’aspetto di un eroe.
Se si credesse alle date che influenzano il destino quello di Garibaldi era di rivoluzionario che
aspira a libertà e indipendenza.
Da ragazzo si iscrisse alla Giovane Italia, fondata da Mazzini, e, nonostante in seguito
si fosse sempre messo al servizio della dinastia monarchica dei Savoia, rimase sempre
convinto repubblicano. Per i suoi ideali dovette fuggire e si rifugiò nell’ America del sud. Là fu
protagonista di imprese audaci, azioni di guerriglia fulminea fra Brasile ed Uruguay.
Tornato in Italia offrì i suoi servigi ai Savoia in occasione sia della I che della II e della III guerra
d’Indipendenza; partecipò alla Repubblica Romana, ma memorabile e sempre presente
nell’immaginario collettivo fu la spedizione dei Mille che guidò alla conquista del Regno delle
Due Sicilie.
Egli non fu mai amato, solo tollerato dal re, dai suoi collaboratori e dalla destra politica; per
contro fu seguito e adorato dal borghesi e dai nobili più progressisti e da parte delle classi più
umili. Fedele a sé stesso non ricercò mai il proprio tornaconto.
Negli ultimi anni della sua vita gli fu riconosciuto il merito per aver contribuito alla Unità d’Italia
e gi tributarono gli onori.
I Mille I Mille hanno sempre colpito la fantasia popolare, sono entrati a far parte della
leggenda. Da uomini quali erano con ideali, passioni e debolezze sono divenuti “personaggi” di
una straordinaria epopea, non quindi reali e storici ma mitici.
Erano attirati dal miraggio della libertà, dalla speranza dell’autodeterminazione dei popoli,
credevano fermamente nell’idea di repubblica sognavano l ‘Italia unita.
Provenivano da diverse regioni italiane soprattutto dal nord, ma alcuni giungevano dalla Europa,
altri dall’Africa, altri ancora dalla lontana America. Tutti seguivano il loro comandante con cui
molti avevano già combattuto. Appartevano a quella schiera di maschi di diverse età: giovani,
uomini maturi, vecchi e ragazzi.
Il loro abbigliamento,come ci è stato raccontato, era emblematico: quella camicia rossa simbolo
di passione,di sangue o come ci insegna la Storia dovuto solo alle scarse finanze e visibilissima
in caso di combattimento. Quella divisa non era indossata da tutti, poiché lo indumento così
caratterizzante non era in numero sufficiente e molti volontari partirono con abiti più disparati.
Le cronache del tempo hanno narrato la loro impresa, ci hanno trasmesso le loro gesta e la loro
vittoria; la Storia ci ha edotto sugli accordi diplomatici segreti e sulle vicende di spionaggio.
Il loro coraggio, il loro idealismo, la fiducia in Garibaldi, loro condottiero o usando le parole di
D’Annunzio, DUCE, non sono da porre in discussione.
OLTRE
Il Monumento ai Mille Antefatto L’dea di celebrare l’impresa dei Mille con un monumento
da porsi sullo scoglio di Quarto, il luogo dove si erano imbarcati e da cui erano partiti i volontari,
nacque il 5 maggio 1862, quando la Confederazione Operaia Genovese, ispirata ai principi
mazziniani e legata ai reduci garibaldini, pose una stele ricordo.
Passarono gli anni le iniziative si susseguirono:furono stesi progetti,si ricercarono finanziamenti,
si sollecitarono i politici anche a livello nazionale e… finalmente nel novembre del 1909 fu
bandito il concorso definitivo per la realizzazione dell’opera scultorea. I progetti presentati
furono cinquantaquattro, furono visionati e giudicati da una commissione di esperti.
Risultò vincitore il progetto di Eugenio Baroni, scultore genovese presentato con il titolo:
55 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 1 RI…SORGImento e OLTRE
“Si scopron le tombe,si levano i morti”
primi due versi dell’inno di Mercantini dedicato a Garibaldi.
L’opera definitiva risultò modificata rispetto al
progetto iniziale: la piramide tronca di marmo
da cui dovevano sorgere Garibaldi e i suoi eroi,
sovrastati dalla Vittoria Alata, fu ridotta, ma la
proporzione delle figure e l’ impatto visivo del tutto
non risultò modificato.
Garibaldi è ritto, le braccia lungo i fianchi nell’atto
di alzarle, le mani socchiuse,il capo leggermente
all’indietro ornato dalla barba, i capelli lunghi dietro
le orecchie; il corpo atletico privo di indumenti,i
muscoli guizzanti ed evidenti. Lo sovrasta, con le
braccia chiuse a cerchio sopra il suo capo, simili
ad un’aureola, l’unica figura femminile presente: la Vittoria Alata, protesa a tergo, munita di enormi
ali sotto cui riparano i guerrieri in procinto di risvegliarsi e di sorgere dalle loro tombe. La posizione
degli arti superiori degli eroi, colti prima di librarsi nell’aria, e la postura di quelli inferiori ancora flessi
rendono evidente l’uscita da un lungo sonno.
Il monumento fu inaugurato il 5 maggio 1915 alla presenza di d’Annunzio chiamato per essere oratore
ufficiale. In quel periodo l’Italia era attraversata dal vento dell’interventismo.
L’Europa era in guerra. Parte dell’opinione pubblica voleva la discesa in campo dell’ Italia per ottenere
i territori di lingua italiana, trentini e giuliani, dominati ancora dall’Austria e indispensabili per coronare
il sogno di un’Italia unita per cui Garibaldi e i suoi uomini avevano combattuto molte battaglie, versato
sangue e perso compagni.
L’inaugurazione divenne quasi un presagio: la forza evocativa del monumento, il discorso dannunziano,
l’epigrafe della medaglia commemorativa, la data stessa, anniversario della partenza dei Mille, tutto
contribuì ad infiammare gli animi e poco dopo il 24 maggio l’Italia entrò tra le nazioni belligeranti della I
Guerra Mondiale.
D’ANNUNZIO E BARONI
La cerimonia di Quarto segnò l’incontro e i successivi contatti fra d’Annunzio e Baroni,
uomini per alcuni versi simili
Entrambi erano artisti, pur in campi diversi: il primo famoso letterato, il secondo
giovane scultore con alcune opere al suo attivo; entrambi auspicavano l’entrata
in guerra dell’ Italia poiché la sua unificazione divenisse realtà e non fosse solo
un’irraggiungibile chimera.
Entrambi esulavano dall’uomo Garibaldi per riconoscere in lui il mito, il simbolo.
D’Annunzio lo aveva ricordato nei suoi scritti di impegno civile e patriottico e
nell’ode “La notte di Caprera” distingueva la sua parte umana da quella eroica
per definirlo un eroe dallo sguardo veggente, la cui sola presenza suscitava
entusiasmo, portatore di pace il condottiero valoroso come i grandi guerrieri greci:
i suoi Mille erano menzionati in un aurea magica, Baroni lo confermò nel ritratto
che ne fece nel monumento ai Mille e con il suo stesso pensiero in un’epistola
conservata negli archivi del Vittoriale:
…la significazione della sua figura che si ricollega a quella di tutto il gruppo, è
qualcosa altresì che esorbita dalla sua stessa personalità, per divenire l’eroe di tutti
i tempi, che rinasce ogni qual volta in patria pericolerà la libertà e l’onore.
56 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 1 RI…SORGImento e OLTRE
La loro personalità era diversissima: Baroni, figlio di un uomo che era stato condannato al carcere
duro per le proprie idee unitarie, riservato e, secondo alcune descrizioni, con lo sguardo intenso
spesso malinconico; d’Annunzio conscio del proprio ego, deciso a vivere lontano dalla mediocrità
e dalla normalità; teso a divenire l’eroe con azioni dimostrative di grande impatto, il vate con le
opere; sempre pronto a porsi per suscitare plauso o sdegno.
La loro idea di arte aveva sfaccettature diverse, ma collimava in alcuni punti: d’Annunzio riteneva
che essa fosse superiore a qualsiasi altro tipo di esperienza, doveva esser compresa e fruita
dalla collettività non perdendo la propria peculiarità e non divenire massificata e volgare; Baroni
pensava che essa non dovesse essere realista, ma simbolica, socialmente impegnata, ma non
didascalica o decorativa; d’Annunzio credeva nel potere evocativo della parola, nella potenza
delle onomatopee, nel conio di nuovi termini; Baroni sosteneva che la scultura dovesse essere
movimento, grafismo sinuoso, dovesse offrire diversi punti di vista. I due artisti auspicavano l’
opera aperta, pura creazione d’ arte.
Per mezzo di Cozzani, amico di Baroni, d’Annunzio aveva potuto ricevere la descrizione del
monumento e alcune fotografie del modello in gesso e, in data 9 marzo, aveva espresso le sue
impressioni in una lettera indirizzata allo stesso Cozzani:
…è invero un monumento marino che par modellato “dal flutto decumano”. Gli eroi risorgono con
un ritmo di alta marea… Peccato che il bronzo non sia fisso sullo scoglio, al frangente, sì che il flutto
salga di tratto in tratto su per la piramide tronca e schiumeggi contro le ginocchia gigantesche. Se
da queste immagini non ho mal divinato il sentimento ritmico dell’ opera, la forza attiva e l’assidua
ansia del Tirreno, dell’Infero, mi sembrano necessarie alla compiuta vita del gruppo sovraumano.
Cozzani fece partecipe l’amico del contenuto della missiva e Baroni capì che il giorno fatidico tutta
l’attenzione sarebbe stata rivolta al poeta, alla sua oratoria e la scultura, per la quale egli aveva
duramente lavorato, cessava di essere propria. Pronunciò alcune emblematiche parole che il suo
interlocutore raccolse:
…Tu capisci,è vero? Io sacrifico la mia opera. Nessuno avrà per essa una parola: né per
l’artista: tutta l’attenzione sarà assorbita da lui e da quello che dirà lui. Questo è necessario.
Prima di tutto c’è l’Italia.
Si nota in modo evidente la differenza dei due uomini: uno schivo, capace di rinunciare al successo,
l’altro sempre in cerca di visibilità e di gloria.
D’Annunzio capì l’atteggiamento di Baroni, ne fu consapevole,e il giorno fatidico, lo colmò di attenzioni e
lo volle accanto a sé nelle cerimonie ufficiali.
Il poeta seppe parlare ai cuori in ogni evento a cui partecipò durante la sua permanenza a Genova;
memorabile fu il suo discorso alla caduta del drappo che nascondeva il gruppo scultoreo e all’incontro
con i reduci garibaldini.
Recitano le sue parole:
Ma questa figura ecco sopra la fugace e vorace storia culmina come espugnabile fiore nella novità
perenne del mito... Il duce nel bronzo eccolo ha la statua e la posa di Teseo…E gli altri eroi tornati
pel Tirreno dal sepolcrati di Sicilia… diranno “lode a Dio. Gli Italiani hanno riacceso il fuoco sull’
ara Italia”– continua – I resuscitati eroi sollevano con uno sforzo titanico dalla morte perché il loro
creatore fiè sì in immortabilità… Verso quella, verso quella risorgono gli eroi dalle loro tombe dalle
loro carni lacerate… dalle loro bende furali noi rifaremo il bianco delle nostre bandiere.
Nel discorso serale rivolto ai reduci garibaldini così si espresse:
Sembra che da stamani noi respiriamo non so che ardore di miracolo dove s’avvicendano in una
sorte di balenio la verità, il sogno, la vita attuale e la più lontana favola...
57 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 1 RI…SORGImento e OLTRE
Proseguì narrando con il suo stile la battaglia di Calatafimi, cita le imprese di Genova prima romana e poi
repubblica marinara, le città da cui proveniva i volontari e ritorna al presente:
Essi dormirono nei campi di grano, laggiù dopo la vittoria; e sembra che si siano risvegliati in
quest’alba coperti di rugiada sembra che ridesti respirano tuttavia il vento della Vittoria.
Continuò paragonando i Mille ai guerrieri di Maratona, cita Garibaldi con il titolo di duce infine:
Tutto il passato confluisce verso l’avvenire. L’unità sublime si forma.
Si evidenzia come sia chiaro il riferimento alla posizione delle figure monumentali.
La realizzazione di Barone fu definita “un comandamento innalzato sul mare” e l’autore fu salutato
come colui che “ha ereditato la terribilità di Michelangelo”, colpì D’Annunzio, non soddisfò i reduci come
lo scultore confermerà in una sua missiva scritta anni dopo in cui ribadì il motivo di quella sua scelta
estetica:
Se io avessi veduto e vissuto i tempi dei Mille, mai avrei fatto l’opera destinata ad esaltarne
la grandezza usando il nudo, ossia non avrei sentito il bisogno di spogliare, idealizzare… il
loro prodigio. La realtà vera mi avrebbe preso e null’altro. Ma l’impresa leggendaria di Quarto
era ed è per me così lontana che era ed è in me come un sogno di morti ridesti, di colossi
da favola… Ben so che il monumento di Quarto dispiacque proprio ai gloriosi superstiti delle
gesta… o ne provai dolore, pur avendolo presentito. Ma l’opera non era fatta per loro, era per
la generazione presente e più ancora per quelle future che ne comprenderanno più il senso di
sogno e di ammonimento e di profezia.
Riecheggiano qui le frasi dannunziane.
La medaglia commemorativa dell’evento vede l’opera di entrambi; Baroni la plasma e d’Annunzio
stende l’epigrafe, fornendo precise indicazioni sul numero delle righe, la loro lunghezza e la posizione
delle parole:
AI FATTI INVITTI
AI FLUTTI AUSPICATI
E AI SUPERSTISTI ESTREMI
DELLA GESTA LIBERATRICE
RESPIRANTI CON LA PATRIA INTERA
LA IMMORTALITÀ DEL DUCE
SOPRAVVENIENTE
GENOVA CONSACRA IN FEDE
ORA E SEMPRE
Baroni regalerà al poeta la sua opera
“l’Abbraccio” e questi la porterà con
sé nei suoi celebri voli.
58 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Chi e dove
Classi coinvolte
Docente referente
Scuola primaria Goffredo Mameli - Brescia
Terza A
Laffranchi Giancarla
progetto 2
Mille e una patria
La storia del Risorgimento italiano non poteva essere raccontata come una fiaba da “Mille e
una notte”, neppure ai bambini, di soli otto anni, della classe terza del Plesso Mameli. Anche
se l avventura dei Mille è affascinante e coinvolgente, il lungo processo che ha portato
all’unificazione d’Italia è estremamente complesso e richiede conoscenze storiche assai
approfondite.
Inoltre i forti ideali del Risorgimento non sono vicini all’esperienza dei bambini di oggi, che
vivono in un Paese con tanti problemi, tante contraddizioni, ma fortunatamente libero.
Per questi motivi la programmazione del lavoro, condivisa da tutto il team d’insegnanti, non è
stata semplice.
Abbiamo scelto di finalizzarla alla conoscenza del nostro territorio, alla capacità dei bambini
di condurre ricerche e di acquisire un pensiero critico, capace di valutare cause, fatti e
conseguenze. Abbiamo cercato di approfondire importanti aspetti valoriali legati ai concetti di
libertà, uguaglianza, fratellanza, patria e coraggio eroico.
I nostri alunni frequentano una scuola che porta il nome di Goffredo Mameli e in gran parte
abitano nel Quartiere Giuseppe Cesare Abba, ciò si è configurato come stimolo ideale per
cominciare una ricerca di gruppo che li ha portati a vivere questa scoperta proprio con
l’entusiasmo di un’avventura.
UN MONUMENTO DEL NOSTRO QUARTIERE
Partendo dall’osservazione di spazi e servizi del nostro quartiere, i bambini hanno puntato
la loro attenzione sul busto di Cesare Abba,
posizionato nel parchetto tra Via Prima e Via
Trav. Quarta, recentemente ripulito dalla nostra
Amministrazione. Sulla lapide è riportata la seguente
scritta: ”Giuseppe Cesare Abba, soldato, poeta e
maestro”.
Ci siamo quindi chiesti:
s Chi era Giuseppe Cesare Abba?
s Quando è vissuto?
s Che cosa ha fatto di importante?
s Perché viene ricordato a Brescia?
s Che tipo di uomo era?
59 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 2 Mille e una patria
Per rispondere abbiamo svolto alcune ricerche.
Chi era
Abba era uno scrittore che partecipò alla spedizione dei Mille con Garibaldi
per unificare l’Italia. Fece anche il sindaco, il senatore, l’insegnante e il
preside.
Quando è vissuto
Abba nacque a Cairo Montenotte in provincia di Savona, sulle montagne
della Liguria, nel 1838 e morì a Brescia nel 1910 (cento anni fa).
Cosa ha fatto di importante
Abba ha scritto un diario per raccontare giorno per giorno l’impresa di
Garibaldi. Il suo diario si intitola “Da Quarto al Volturno”.
Perchè viene ricordato a Brescia?
Viene ricordato perché è stato a lungo insegnante e poi preside dell’Istituto
Tecnico Tartaglia di Brescia. La sua famiglia abitava nella nostra zona e negli anni ‘60
cedette un vasto terreno per la costruzione del quartiere che si stava espandendo. La
famiglia volle che il nuovo insediamento portasse il nome dell’eroico avo garibaldino.
Che tipo di uomo era?
Abba era un uomo onesto, un bravo educatore ed un cittadino virtuoso. Era un uomo molto
intelligente e generoso, disposto a combattere e anche a morire per i propri ideali. Lui voleva
che l’Italia fosse libera ed unita.
Come l’anello di una lunga catena, il sapere doveva ora essere approfondito,
seppur con semplici parole e chiari concetti
comprensibili ai bambini.
Perchè Abba voleva unificare l’Italia?
Abba era un uomo istruito; perciò soffriva nel vedere che
l’Italia era sotto il dominio di molti oppressori, soprattutto
dell’Austria. Decise quindi di seguire Garibaldi, un valoroso
generale e di combattere per unire la sua patria. L’Italia era
tutta divisa, non come la divisione delle regioni di oggi, ma
in stati diversi in lotta l’uno contro l’altro.
Verso l’unificazione d’Italia
L’Italia era tutta divisa in tanti regni. In questi territori il
popolo non aveva una vita felice. Alcuni giovani si riunivano di nascosto formando delle
società segrete. Erano soprattutto intellettuali e studenti (tra loro c’era Mazzini). Il popolo,
però, non poteva partecipare. Solo alcune città riuscirono ad insorgere, come Milano, che
resistette per cinque giorni contro gli austriaci, e Brescia, che resistette per dieci giorni.
60 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 2 Mille e una patria
Trecento soldati austriaci erano rimasti chiusi nelle mura del nostro Castello, mentre i
cittadini bresciani combattevano e si riunivano sotto la Loggia e nel Teatro Grande.
Gli insorti furono così coraggiosi da far meritare alla città di Brescia il titolo di “Leonessa
d’Italia”. Ma alla fine l’Austria riprese i suoi territori.
Questa è la nostra città durante le Dieci Giornate di Brescia
Intanto in Piemonte il re Carlo Alberto voleva un governo moderno che pensasse allo sviluppo
sociale e politico del suo Paese.
Con l’aiuto del suo Primo Ministro Cavour decise di combattere contro gli austriaci, facendosi
appoggiare dai francesi. Riuscì così a conquistare la nostra zona della Lombardia.
A S. Martino e Solferino avvenne uno
scontro terribile; ancora oggi sono
conservate le ossa di centinaia di giovani
italiani, francesi e austriaci che morirono
in quelle battaglie.
61 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 2 Mille e una patria
L’anno dopo Carlo Alberto chiese aiuto a Garibaldi. Lui sbarcò in Sicilia insieme a mille
volontari per conquistare tutta l’Italia, partendo dal Regno delle Due Sicilie dei Borboni.
Garibaldi era coraggioso e i suoi volontari avevano forti ideali ed erano disposti a morire pur
di unire e liberare l’Italia.
Garibaldi conquistò gran parte dell’Italia meridionale; mancavano ancora lo Stato Pontificio
e il Veneto.
I piccoli regni in Emilia e in Toscana si unirono al re. Perciò nel 1861 Vittorio Emanuele II di
Savoia, successore di Carlo Alberto, fu proclamato Re d’Italia.
L’Italia era fatta!
Alcuni anni dopo anche il Veneto e Roma ne fecero parte.
Sapete chi proteggeva tutti quei territori?
I carabinieri! Esattamente i Bersaglieri, che rappresentavano l’ordine pubblico!
A questo punto i bambini, ormai incuriositi dalle avventure dell’intrepido eroe Garibaldi,
portavano a scuola immagini e ricerche di approfondimento. La figura dell’eroe dei due
mondi doveva essere sviluppata.
Nel frattempo la classe ha avuto l’opportunità di visitare il Museo del Risorgimento di Brescia e
di assistere ad un’interessante lezione che prendeva spunto proprio dai diari di due Garibaldini:
Giuseppe Cesare Abba e Giuseppe Capuzzi, autori entrambi di veri reportage dalla spedizione dei
Mille.
Presso il Museo, accompagnati dalle parole scritte nei due diari e dalla guida, i bambini hanno
osservato gli oggetti usati in battaglia, le armi, le curiose divise, le stampe e i quadri che davano
prova e testimonianza di quanto era accaduto.
GIUSEPPE GARIBALDI
Una famosa filastrocca:
“Garibaldi fu ferito,
fu ferito ad una gamba,
Garibaldi che comanda,
che comanda i bersaglier”
Una canzoncina :
“Bella bambina,
capricciosa garibaldina,
tu sei la stella,
tu sei la bella di noi soldà”.
62 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 2 Mille e una patria
Nel Museo del Risorgimento di Brescia abbiamo scoperto che Garibaldi veniva chiamato
l’Eroe dei due mondi perché aveva combattuto in America ( in Brasile ed in Argentina) e poi
in Italia.
In America aveva acquistato a buon prezzo le camicie rosse dei macellai che aveva utilizzato
come divisa per i suoi soldati.
Sempre in America aveva conosciuto Anita, che poi sposò. Da lei aveva imparato a cavalcare.
Anita morì nelle paludi di Comacchio dopo aver sempre combattuto a fianco di Garibaldi.
Quella signora che vedete in fotografia si chiama Anita Garibaldi. È la pronipote dell’eroe e
ancor oggi lo ricorda partecipando a numerose commemorazioni (nella foto è a Bezzeccaluglio 2010).
In Italia, durante la spedizione dei Mille, la maggior parte dei giovani si fece cucire dalla
mamma la camicia rossa.
I Mille erano partiti male armati: avevano solo vecchi fucili arrugginiti e baionette.
Avevano anche scarpe poco adatte: una volta se le fecero regalare dagli abitanti di un
paesino.
Non combattevano per guadagnare soldi, ma per l’ideale di libertà. Perciò i Mille vinsero solo
63 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 2 Mille e una patria
Troviamo su internet:
In molti criticano questo testo: troppo retorico, pomposo, di maniera, con parole arcaiche,
dell’Ottocento…
BÈ, che le parole siano molto “Ottocentesche” non c’è dubbio, ma come poteva scrivere un
giovane studente romantico e patriota nel 1847?
“Siam pronti alla morte” suona eccessivo per noi. Ma questo grido fu scritto da uno che poi è
morto a 22 anni combattendo per le sue idee, mi pare che non sia così retorico.
Goffredo Mameli e Michele Novaro
LA SIGNORA ITALIA
Ma i garibaldini intonarono spesso anche altri canti… occasione per scoprire informazioni
sulla nostra bandiera.
Impariamo:
LA BANDIERA TRICOLORE
E la bandiera di tre colori
È sempre stata la più bella:
noi vogliamo sempre quella,
noi vogliamo la libertà…
66 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 2 Mille e una patria
SECONDO CRUCIVERBA PATRIOTTICO
Il nostro lavoro di ricerca era terminato, ma avevamo avvicinato grandi ideali molto lontani
dall’esperienza dei bambini. Gli atti eroici li avevano decisamente affascinati, ma serviva un
tramite più compatibile con la loro età. Infatti, messi alla prova in un momento diverso dalle
ore di ricerca che avevamo dedicato all’argomento, alla domanda: ”Chi è, secondo voi un
eroe”, ecco cosa rispondevano.
Chi sono gli eroi?
Risposte:
SUPERMAN
SPIDER MAN
CAT WOMAN
I FANTASTICI 4
HARRY POTTER
BLUE DRAGON
WONDER WOMAN
IRONMAN
HULK
WOLVERINE
DRAGON BALL
POKEMON
CAPPELLO DI PAGLIA
IL CANE VOLANTE
BATMAN
PAPERINIK
BEN 10
GORMITI
I DOMINATORI DELL’ARIA
SONIC X
TOTALY SPIE
L’elenco sembrava non avere termine, ma erano tutti super eroi fantastici, anche loro assai
lontani dall’esperienza umana. Serviva guidare la riflessione.
Qual è il tuo supereroe preferito?
s È Wolverine perché dalle mani gli escono tre artigli di ferro e ha
l’olfatto da lupo
s Sonic X, perché è il porcospino più veloce di tutti; si difende
correndo e facendo impazzire il cattivo
s È Batman perché la sua macchina può andare da sola e sparare
missili bombe
s È Harry Potter perché fa magie
s È il re degli stregoni di Angmar perché ha una spada bellissima,
una mazza rotante e cavalca un drago che fa un urlo terrificante
s Il mio supereroe è il Cane volante perché vola, scava buche in
modo fantastico e ha poteri bellissimi
s È Ben 10, cioè Benjamin Tennison perché ha un orologio che lo
trasforma in 10 alieni e molti altri
69 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Definizioni
1. La risposta di Garibaldi al re a
Bezzecca
2. Il colore delle divise dei
garibaldini
3. Vi morì Mameli
4. Nazione dove Garibaldi
conobbe Anita
5. Le loro camicie divennero
quelle dei garibaldini
6. Lo insegnò Anita a Garibaldi
7. Parte del corpo in cui fu ferito
Garibaldi
8. Isola sulla quale sbarcarono
i Mille
9. Regione mancante
all’unificazione
10. Il successore di Carlo Alberto
11. L’ideale dei garibaldini
12. L’animale che fu chiamato
“Caffaro”
13. La sposa di Garibaldi
14. Vi morì Garibaldi
15. Una qualità di Garibaldi
16. Così veniva chiamato
Garibaldi
17. Vi nacque il brigantaggio
18. Paese da cui Garibaldi
rispose “Obbedisco”
19. Lo era l’Italia prima
dell’unificazione
20. Resistette agli austriaci per
cinque giorni
21. Così fu detta Brescia
22. Lo era Vittorio Emanuele
23. Lo scrisse Goffredo Mameli
24. Musicò “Fratelli d’Italia”
progetto 2 Mille e una patria
Che cosa fanno questi personaggi per essere degli eroi?
Gli eroi sono personaggi buoni, disposti a morire.
Chi è per te un eroe?
s È un personaggio che salva tutta l’umanità e combatte per la giustizia
s È una persona fantastica
s È un personaggio che ha poteri che nessuno ha e combatte contro i cattivi
s È un personaggio che ha un vestito molto particolare con tutti gli accessori
s È una persona molto gentile, brava, senza paure
s È una persona coraggiosa, che non ha paura di niente e si impegna tantissimo
s È una persona che salva la gente in pericolo
s È una persona che pensa solo a salvare il mondo
s Per me è qualcuno che sa volare e gli altri no, che ha poteri e gli altri no
s È una persona che sa fare miracoli e salva la gente
Alla domanda”Ci sono eroi reali, uomini o donne che non hanno poteri magici, ma che sono
disposti a qualsiasi prezzo per il bene di altri uomini?”, i bambini hanno risposto come segue.
Quali sono gli eroi che conosci?
s Per me un eroe è Garibaldi perché ha unificato l’Italia insieme a Giuseppe Cesare Abba
s I poliziotti che arrestano i ladri e i pompieri che spengono gli incendi
s I medici che curano le ferite gravi
s La polizia che cattura i ladri che rubano nelle vetrine, i pompieri che salvano la gente dagli
incendi, i militari che vanno nei paesi lontani a fermare la guerra, i carabinieri che fermano le
macchine che vanno troppo veloci
s I veri eroi sono Garibaldi, Abba, Dio e Gesù. Garibaldi e Abba hanno salvato l’Italia, Dio e
Gesù hanno creato il mondo
s I pompieri che salvano dalle orribili fiamme fumiganti
s Gli eroi che conosco, oltre a pensare a loro, pensano anche alle persone
indifese
s L’ambulanza, la protezione civile, la protezione animali e la guardia forestale
s I vigili urbani che sono vicino alle scuole perché fermano le macchine per far
passare i bambini o proteggono i passanti quando ci sono i lavori in corso
s Gli alpini, i soldati, chi ha dovuto combattere per la patria
s i carabinieri, la polizia… loro proteggono il mondo
Finalmente i bambini avevano raggiunto esempi vicini all’esperienza di tutti. Per consolidare
l’idea raggiunta riguardo all’atto altruistico ed eroico, possibile anche al più piccolo
uomo, senza alcun super potere, abbiamo deciso di leggere un racconto che vede come
protagonisti proprio dei ragazzini e torniamo così alla vicenda del Risorgimento, alla sua
epopea, con le storie de ”La piccola vedetta lombarda”
e “Il piccolo tamburino sardo”, narrate nel libro Cuore di
Edmondo De Amicis.
Tra tutti i momenti che hanno accompagnato questa
esperienza, è stato proprio questo il più straordinario per
noi insegnanti: scoprire che una vicenda così lontana anche
per noi, con quel suo inconfondibile sapore ottocentesco,
colpiva con grande ed inaspettata intensità la sensibilità ed
il “Cuore” dei nostri alunni.
Il percorso intrapreso continuerà durante la seconda parte
dell’anno scolastico con lo studio geografico della città di
Brescia. Appena i bambini hanno avuto tra le mani una
70 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 2 Mille e una patria
pianta della città di Brescia, hanno subito ritrovato tanti personaggi conosciuti
durante la scoperta del Risorgimento: Via dei Mille, Via Garibaldi, Via Mazzini,
Via Cavour…
Gli alunni della classe avranno anche l’opportunità di visitare il Teatro Grande
di Brescia, sede del primo arruolamento del Comitato di difesa pubblica,
prima delle Dieci Giornate.
Nel loro percorso, preparato dall’Università Cattolica nell’ambito del Progetto
“Architettura per i bambini”, saranno seguiti da un architetto che li renderà
consapevoli della splendida armonia del Teatro cittadino.
L’approfondimento servirà anche a capire il ruolo del melodramma e della
musica di Giuseppe Verdi al momento entusiasmante dell’unificazione d’Italia,
quando il teatro era il mezzo artistico ideale per incidere sulla società e per
muovere gli animi, con la sua musica viva, intensa e passionale.
Noi insegnanti ci rendiamo conto che non sarà più possibile terminare questo
argomento che ha preso spunto dall’anniversario dell’unificazione d’Italia: 150
anni sono pochi anche per la nostra società in corsa; tutto ciò che ci circonda porta traccia
di ciò che è stato ed ora i nostri ragazzi ne intuiscono l’importanza.
Soluzioni dei cruciverba (noi ci siamo riusciti tutti!)
PRIMO
1-Canto degli italiani
2-Genova
3-Sottomessi
4-Africa
5-Brigantaggio
6- Vittorio Emanuele
7-Marsala
8-Quarto
9-Preside
10-Dieci
11-Cairo Montenotte
12- Re
13- Baionette
14- Ledro
15-Mamme
16- Tartaglia
17-Da Quarto al Volturno
18-Genova
19-Brescia
20- Scrittore
21- Musicista
22-Camicia
23-Mameli
71 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
SECONDO
1-Obbedisco
2-Rosse
3-Roma
4- Brasile
5-Macellai
6-Cavalcare
7-Gamba
8-Sicilia
9-Veneto
10-Vittorio Emanuele
11-Libertà
12-Cane
13-Anita
14-Caprera
15-Coraggio
16-Eroe dei due mondi
17-Sud
18-Bezzecca
19-Divisa
20-Milano
21-Leonessa
22-Re
23-Inno
24-Novaro
72 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 3 Sulle tracce del Risorgimento
PER RICORDARE…
s Corso Garibaldi
s Via Cavour - Via Mazzini
Piazza Vittorio Emanuele II
s Via Silvio Pellico (17891854) Patriota, scrittore, poeta
italiano. “Chi mente, se anche non
scoperto, ha la punizione in se
medesimo: egli sente che tradisce
un dovere e si degrada”
s Via X Giornate Le Dieci
Giornate di Brescia furono
un movimento di rivolta popolare della popolazione bresciana contro
l’oppressione austriaca che ebbe luogo dal 23 marzo al 1° aprile 1849.
La fierezza dimostrata dagli insorti nei combattimenti valse alla città di
Brescia il titolo di “Leonessa d’Italia”
s Via Verdi (1813-1901) Compositore che esprime nelle sue opere
il suo sincero amore patriottico e il suo dolore per un popolo oppresso e
soggiogato.
s Portico Municipio: lapide a Garibaldi
La lapide dedicata
a Garibaldi, posta
sotto il portico del
Comune a Lonato
Veduta di Corso
Garibaldi a Lonato,
disegno tratto da
una fotografia del
1920
PARLIAMO DEL “RISORGIMENTO”
Come è stato affrontato l’argomento in classe
Non essendo argomento di studio nella classe V, ho preparato una scheda nella quale sono stati
messi in rilievo i protagonisti, le idee ispiratrici, la situazione italiana, le lotte che con la Spedizione dei
Mille hanno portato all’Unità d’Italia.
Analisi dell’Inno di Mameli.
Sulle tracce del Risorgimento: ricerca nel centro storico di Lonato e nella Casa del Podestà.
Progettazione e realizzazione delle pagine che compongono l’opuscolo “Le Vie dell’Arte”.
Riflessioni degli alunni sul Risorgimento
“Il Risorgimento è un momento storico splendido perché ha fatto rinascere la voglia italiana di essere
uniti e combattere per chi verrà dopo”.
“Il Risorgimento mi ha trasmesso un senso di dovere verso l’Italia e un senso di devozione verso tutte
quelle persone che hanno combattuto per la mia libertà”.
“Mi ha emozionato sentire quante persone sono morte per noi”.
“Mi è piaciuto conoscere il Risorgimento perché ho capito che lottare fino in fondo per una cosa che
si vuole è molto importante e anche faticoso”.
“Gli attori del Risorgimento hanno riunito l’Italia. Hanno avuto una grande forza di volontà talmente
forte che alla fine sono stati premiati”.
Ins. Daniela Carassai
Classe Quinta D Scuola Primaria “don Milani”
Antonuzzi Alessandra, Miglioranzi Andrea, Bordiga Aurora, Mor Luca, Brambillasca Nicole,
Papa Davide, Dipping Gianluca, Petrillo Enrico, Docera Kevin, Prandini Alessia, Ferrari
Rebecca, Raimondi Gabriele, Franceschini Arianna, Rizzetti Linda, Garulli Silvia, Salihi Sendi,
Giuliano Riccardo, Sarabotani Anna, Imberti Asia, Tosadori Estefania, Locantore Federico,
Zagaria Marco
78 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 4 …Due chiacchiere con i protagonisti dell’Unità d’Italia
Ritratto di Giuseppe
Garibaldi, conservato nelle
raccolte di Ugo Da Como
– Affronto i Napoletani nel 9 maggio e vinco a Palestrina il 19 maggio, sempre contro i Napoletani, e
a Velletri –.
– Quando muore sua moglie Anita? –
– Anita purtroppo è morta il 4 agosto alla fattoria Guiccioli presso Ravenna e subito dopo ho cominciato
la stesura delle mie memorie autobiografiche –.
– Tra il 1848 e il 1854 cosa le successe? –
– Nel settembre del 1849 sono stato arrestato a Chiavare e portato a Genova.
Mi sono imbarcato per Tunisi, a Tangeri dove ho soggiornato per sei mesi.
Mi sono recato a New York dove sono stato accolto dalla Comunità italiana, dai francesi e dagli inglesi.
Ho lavorato nella fabbrica di candele di Antonio Meucci.
Ho viaggiato a lungo l’America centrale, in Estremo Oriente sino in Cina e in Australia.
Sono arrivato in Italia, mi sono fermato a Londra, lì ho incontrato Mazzini– Ha una casa? –
– L’ho costruita a Caprera nel 1855 –.
– Dove incontra Cavour per la prima volta? –.
– L’ho visto a Torino e ho appoggiato la Società Nazionale che ha per motto “Italia e Vittorio Emanuele” –.
– Cosa le conferisce Cavour? –.
– Cavour mi conferisce l’incarico di organizzare l’esercito dei volontari; in caso Camozzi è
nato il mio inno –.
80 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 4 …Due chiacchiere con i protagonisti dell’Unità d’Italia
–
– Ha conosciuto altre compagne? –.
– Si, mi sono innamorato di Giuseppina Raimondi, l’ho sposata il 24 giugno 1860, ma il mio
matrimonio è stato annullato nel 1879.
– Chi ha organizzato la Spedizione dei Mille? –
– Questa Spedizione è stata organizzata da Cavour –
– I volontari erano mille o erano di più? –
– I volontari erano millequattrocentoventidue, Bixio mi suggerì di chiamarla “la
Spedizione dei Mille” –
– Da dove siete partiti e dove siete arrivati? –
– Ci siamo imbarcati sulle navi a Quarto e siamo arrivati a
Marsala –.
– Com’è andata? –
– Prima ho combattuto contro all’esercito borbonico e ho
conquistato Calatafimi, Palermo e Milazzo –
– Quanto sono costate tutte le armi? –
– Le armi sono costate tantissimo, ogni volontario poi
indossava una camicia rossa e i volontari sono stati
denominati Garibaldini –
– Che origini avevano i Garibaldini? –
– La maggior parte di loro erano bergamaschi, alcuni
venivano da Milano e altri da Padova –.
– i Garibaldini sono partiti il 5 maggio del 1860 e sono giunti
a Marsala l’11 maggio 1860 –.
– Signor Garibaldi potrebbe raccontare come si è svolta la
Spedizione dei Mille? –
– All’inizio a Calatafimi, il 15 maggio è scoppiata una battaglia e ho
conquistato la città. A Paleremo, dal 27 al 30 maggio, ho combattuto
un’altra battaglia molto dura alla fine anche questa città è caduta.
Ritratto di Camillo Benso,
conservato nelle raccolte di
Ho lottato una battaglia a Milazzo nei pressi di Messina, il 20 luglio.
Ugo Da Como
I Napoletani, il 25 luglio hanno evacuato la Sicilia, io ho oltrepassato lo stretto di Messina, quindi ho
risalito la Calabria e sono entrato a Napoli il 7 settembre, mentre i Barboni sono ritornati a Gaeta.
La battaglia finale l’ho vinta sul Volturno l’1 ottobre 1860.
– Desideri pormi altre domande?- mi chiede con gentilezza.
– Cosa è successo dopo? –
– Ho incontrato Vittorio Emanuele II e gli ho affidato tutte le mie conquiste, lui invece di ringraziarmi
mi ha colpito alla gamba e mi ha ferito –.
– Ultime domande sui suoi affetti –.
– La mia famiglia mi sta vicino, sono molto contento per mio figlio Menotti perché è entrato a fare
parte della spedizione dei Mille.
Adesso abito in sud America con mia moglie e spero di vivere gli ultimi anni con i miei figli –.
Lui versa un altro bicchiere di vino, ne offre anche a me. Socchiude un attimo le palpebre quasi voglia
rivedere la sua vita come la proiezione un film.
Io mi alzo, in silenzio, non voglio distoglierlo dai suoi pensieri, sono fortunato e orgoglioso: ho
incontrato un eroe valoroso che ha donato la sua vita alla mia patria. Lo racconterò agli Italiani: loro
devono continuare a credere in questi ideali, in questi valori per cui tanti sono morti: libertà, unità,
democrazia.
DUE CHIACCHERE CON GIUSEPPE CAPUZZI
Oggi ho un importantissimo appuntamento per un’intervista esclusiva a Giuseppe Capuzzi.
Quando sono arrivato a casa sua mi ha accolto con grazia facendomi accomodare su una
soffice poltrona. All’inizio ho cominciato a vergognarmi, ma poi ho preso coraggio e ho
incominciato la mia intervista in esclusiva.
81 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 4 …Due chiacchiere con i protagonisti dell’Unità d’Italia
Lui ha un aspetto maestoso: indossa una camicia rossa come un tempo, forse me la vuole mostrare .
Ha folta barba e dei lunghi baffi, di moda in questo tempo.
I suoi capelli grigi lasciano libera la fronte.
– Potrei porle qualche domanda riguardo al suo passato, quando l’Italia doveva ancora unificarsi? –
– Sarebbe un grande onore risponderle –.
– Dove e quando è nato? –
– Io sono nato a Bedizzole in provincia di Brescia il 27 novembre del 1825 –.
– Perché è stato nominato ufficiale quando si è arrabbiato nell’esercito? –
– Sono stato nominato ufficiale per gli atti eroici che ho visto e che ho vissuto a Palermo e a
Calatafimi –.
– Come la ricorda la spedizione dei mille? –
– L’esercito guidato da Garibaldi era il fiore dell’intelligenza italiana, lui è stato un grande personaggio
e un amico fidato che rimarrà nel mio cuore –.
– Come è andata la guerra a Calatafimi? –
– Dopo la guerra nessuno possedeva né calze né scarpe, ma per fortuna gli abitanti ci hanno offerto
delle scarpe anche se non erano adatte alle lunghe marce della guerra.– Cosa mangiavate durante la guerra? –
– Ad esempio, quando ero a Borghetto, gli abitanti ci offrivano del pane e una scodella di minestra –.
– Come dormivate la notte? –
– Ci riposavamo sdraiati sul pavimento della celle funerarie, però l’aria che usciva dalle tombe ci
dava fastidio e danneggiava il nostro corpo –.
– Mentre attraversavate il mare non vi annoiavate? –
– Non proprio, ci piaceva tanto osservare i delfini che saltavano e spruzzavano nell’acqua –.
– Eravate così ostinati e determinati a continuare la guerra? –
– Chiedevo sempre aiuto a Dio con la preghiera. Credevo ardentemente nel progetto di Garibaldi:
ossia unificare l’Italia a ogni costo –.
Mentre lo ascoltavo il tempo volava.
– Com’è stata accolta l’entrata in Sicilia? –
– All’entrata in Sicilia, la gioia degli uomini era in contrasto con le grida delle donne che ci
mostravano la rovina delle loro case –.
– Dopo la guerra che lavoro ha svolto? –
– Dopo la guerra sono diventato un importante giornalista –.
Lo ringrazio per le notizie che mi ha fornito e lascio la sua casa soddisfatto.
Ormai è sera devo tornare a casa, saremo in grado, noi giovani di un impegno sociale così forte che
a molti è costato la vita?
Vittorio Emanuele II
Quest’ anno si festeggiano i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia. Avveniva nel periodo che gli
storici hanno chiamato Risorgimento, ovvero il movimento sviluppatosi nei secoli XVIII e XIX (fine
del’700 al 1870), nel quadro di una generale tendenza europea all’affermazione nazionale,
inteso a realizzare la libertà politica, l’indipendenza e l’unità d’Italia. Fra i protagonisti di questo
periodo vi fu Vittorio Emanuele II di Savoia,nato a Torino il 14 marzo 1820.
Vittorio Emanuele II, non apparteneva ai Savoia, ma ad un suo ramo cadetto, i Carignano. Da
piccolo fu salvato dalle fiamme grazie ad un gesto eroico della sua nutrice. Salito al trono del
regno di Sardegna il 23 marzo 1849,in seguito all’ abdicazione del padre Carlo Alberto, avvenuta
sul campo di battaglia di Novara dopo la sconfitta piemontese nella I guerra d’indipendenza.
Mantenne e difese con vigore lo statuto Albertino, rispettò i limiti concessi al sovrano della
carta costituzionale e si guadagnò l’appellativo di re galantuomo. Pur essendo di sincera
fede cattolica, sostenne negli anni Cinquanta la politica antiecclesiastica del governo
piemontese e, nonostante i cattivi rapporti personali, assecondò la politica interna ed estera
di Cavour.
82 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 4 …Due chiacchiere con i protagonisti dell’Unità d’Italia
Ritratto di Vittorio Emanuele
II, conservato nelle raccolte
di Ugo Da Como
Nel marzo del 1861, fu proclamato primo re d’Italia, all’età di 41 anni. Era precocemente
invecchiato e ingrassato, aveva cominciato a tingersi i capelli e mostrava enormi baffi
arricciati all’insù. Come tutti gli uomini mediocri era geloso e ombroso. Dietro questa
personalità molto debole si nascondeva un uomo scaltro, con un carattere semplice non
spregevole, di buon cuore, ma rozzo. Trasferitosi con le carte da Torino a Firenze nel 1864,
nel 1870 dopo la fine dello stato Pontificio, si insediò nel palazzo del Quirinale, a Roma.
Vedovo dal 1855 della regina Maria Adelaide di Asburgo-Lorena (con la quale si era sposato
nel 1842), sposò la popolana Rosina Vercellana, dopo averla creata contessa di Mirafiori.
Dopo una breve malattia (diagnosticata dai medici di corte come una pleura polmonite con
probabili complicazioni malariche), Vittorio Emanuele II morì a Roma il 9 gennaio 1878.
INTERVISTA A VITTORIO EMANUELE II
Un giorno passeggiando tra le vie di un paesino della provincia di Brescia, un gruppo di amici
incontrarono un personaggio ancora illustrato sui libri. Era un personaggio con baffi alla
francese e barba lunga, indossava vestiti reali, aveva un portamento eretto.
Il genio del gruppo lo riconobbe e urlò – MA LUI è… è… VITTORIO EMANUELE II –.
Nonostante le notizie del suo comportamento non molto gentile, gli amici riuscirono a strappargli
delle notizie più vere.
83 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 4 …Due chiacchiere con i protagonisti dell’Unità d’Italia
Ritratto di Vittorio
Emanuele II, conservato
nelle raccolte di Ugo Da
Como
Corsero da lui e gli chiesero: – Potremmo porle delle domande? –.
Vittorio gli rispose: – Con piacere –.
Uno di loro si fece avanti: – Qual è il suo vero nome? –.
Il mio vero nome è Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso –.
Poi tutti gli altri si fecero avanti: – Perché si trova da queste parti? –.
– Perché sono venuto a trovare un vecchio amico, ma mi sono perso –.
– Dove e quando è nato? –
– Sono nato il 14 marzo 1820 a Torino –.
– A quale dinastia appartiene? –
– Appartengo alla casa reale dei Savoia –.
– Durante la sua carriera politica quali cariche pubbliche ha ricoperto? –.
– Ho ricoperto le cariche pubbliche di primo re d’Italia, ultimo re di Sardegna e principe di
Piemonte –.
– A quanti anni divenne re d’Italia? –.
– Divenni re a giovane età –.
– È stato un buon re? Perchè la chiamavano Re Galantuomo? –.
– Sono stato un re molto saggio, mi chiamavano Re Galantuomo perché ero
leale, combattente e schietto.
– Quali furono i suoi nemici? –.
– I miei nemici furono gli austriaci.
– Quante guerre ha combattuto? Perché?
– Ho combattuto 3 guerre –.
– Quante terre ha conquistato? –.
– Ho conquistato le tre Venezie, lo Stato Pontificio, il
Regno Delle due Sicilie –.
– In che anno hanno stampato la sua immagine sulla
moneta italiana?
– Durante il periodo del 1900 –.
– Lei ha contribuito a unificare l’Italia? Era d’accordo? –.
– Sì, ho contribuito, ma all’inizio non ero molto
d’accordo –.
– Perché si è guadagnato l’appellativo di “Padre della
patria”?
– Mi sono guadagnato l’appellativo di “PADRE della PATRIA”,
perché sono stato il primo re del Regno Unito. Infatti dopo
la mia morte è stato eretto un monumento in mio onore per
ricordare le vittorie.
– Dove si trova questo monumento?
– Questo monumento o vittoriano si trova a Roma, in piazza Venezia, di fronte vi è
una mia statua.
– Quale fu la capitale d’Italia? Perchè? –.
– All’inizio fu Torino, dopo Firenze ma infine diventò Roma.
– Quando separò lo stato dalla chiesa? –.
– Durante il mio “Discorso della Corona”, il 27 novembre 1871, dopo che spostai a Roma la
Capitale, decisi che la chiesa non
comandasse più lo Stato. Ma proclamai Roma “Sede del Pontefice”.
– Da chi è stato coadiuvato durante il regno d’Italia? –.
– Sono stato aiutato da Cavour.
– Dove si trovano i suoi monumenti?
– Dunque, se non mi sbaglio uno è a Torino l’altro invece a Milano, a Verbania, Perugia, Firenze,
Genova, Roma, Verona, Napoli ed un altro a Rovigo.
I ragazzi ringraziarono il re Vittorio per l’intervista, infine lo salutarono ringraziandolo ancora.
84 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Percorsi didattici
Unità e identità: 150 anni di storia
Scuole secondarie
Chi e dove
Classi coinvolte
Docenti referenti
Scuola Secondaria di primo grado Lana Fermi - Brescia
Terza A
Dora Tartaglia con Daniela Caffagni e Daniela Cantarella
progetto 5
Brescia leonessa d’Italia
Parlano gli insegnanti
Quando abbiamo scelto l’argomento per presentare il contributo dato da Brescia all’Unità d’Italia
non pensavamo di mettere al centro le Dieci Giornate: ci sembravano un argomento un po’
abusato e sicuramente già approfondito da persone molto più esperte di noi.
Poi, dopo aver accostato testi storici e poetici, dopo aver girato nella nostra città, dopo aver
visitato la mostra con cui Roma ha, alle Scuderie del Quirinale, aperto le celebrazioni del
Centocinquantenario, ci siamo accorti che Brescia nel Risorgimento è per tutti la Leonessa d’Italia,
così chiamata per l’eroica resistenza all’Austriaco straniero durante l’insurrezione del ’49.
In mostra a Roma i quadri dell’Induno con Brescia protagonista mostravamo episodi delle Dieci
Giornate, i poeti – da Carducci a Mercantini, all’Aleardi – celebrano gli avvenimenti di quei giorni, per
le vie della nostra città sono numerose le lapidi che ricordano quei fatti insieme luttuosi ed eroici.
Sotto la Loggia sono scolpiti nel marmo i nomi dei Bresciani caduti per l’Italia nelle battaglie del
Risorgimento: colpisce l’enorme sproporzione tra i morti dei diversi teatri di guerra e gli uomini,
donne, giovani che hanno perso la vita durante le “gloriose giornate”. Luigi Mercantini, cantore
delle lotta italiana, dedica a Tito Speri un intero poemetto.
D’altra parte, in contrasto con questa visibilità durante tutto il periodo risorgimentale ed oltre,
ormai le Dieci Giornate sono scomparse dai libri di storia della scuola media. Non c’è più pericolo,
quindi, che si rinnovi, parlandone, un rito stanco. Occorre invece, per i nostri ragazzi, salvarle
dall’oblio e ridare loro il compito che l’Italia ormai unita aveva loro attribuito: ricordare che la libertà
conquistata con i sacrifici dai nostri avi deve suscitare in noi le ‘’cittadine virtù’’.
Alla ricerca dunque dell’eroismo degli avi noi siamo andati nei luoghi già frequentati nelle
precedenti esperienze delle “Vie dell’arte”: la scuola, il museo, la città.
86 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 5 Brescia leonessa d’Italia
Lavoriamo in classe
Per conoscere gli avvenimenti, i protagonisti, lo spirito delle Dieci Giornate abbiamo utilizzato
i testi di alcuni memorialisti e li abbiamo confrontati con quadri e incisioni dei nostri
musei che illustrano episodi delle “epiche gesta”. Abbiamo anche accostato ai testi che
documentano questo evento storico i versi con i quali Angelo Canossi, più di mezzo secolo
dopo, ricorda e canta in dialetto bresciano l’inizio dell’insurrezione.
L’inizio dell’insurrezione, il 23 marzo, ci viene raccontata qui dal conte Luigi Lechi., presente
agli avvenimenti: siamo davanti alla Loggia, dove si presentano il comandante della Piazza
ed il commissario del vettovagliamento per reclamare 130.000 lire dell’epoca, parte di una
multa che la città deve pagare per la sua partecipazione alla prima guerra d’Indipendenza.
La folla presente in piazza non è di questa
intenzione.
“… Allora la turba, lanciandosi dietro loro prorompea
nella sala strepitando e serrandosi loro addosso,
e minacciava di farli mal capitare se alcuni del
Municipio non si fossero frapposti, e se un Maraffio,
caporione dei beccai, di ciò pregato, non fosse
accorso a cavargli dalla mala peste e a rispondere
delle loro vite sulla sua testa. Li prese il Maraffio
sotto il braccio, e passando franco e imperioso per
mezzo della calca, li trasse seco in sicuro fuori di
città…”1
Il gustoso episodio del trasporto dei due malcapitati sui Ronchi, presso la banda del Boifava,
è ricordato in questo modo da Angelo Canossi.
Èl j-ha ciapacc sòt bras come do sporte
(chè chi gha vést, gha vést ön bel quadrèt:
lu ‘n faciù rós e lur dò ghigne smórte,
lur dù ‘n pelanda e lü sènza zachèt),
e ‘l j-ha menaci sót bras fin’ a le Porte
e po’ per la Posterla sö al Golet,
en dô gh’éra Boifava e la sò Córte
Marziale e i sò, campacc én d’ön ronchèt.
Armacc dè cadenas, dè furche e pai,
chèi dè Sèrle i ghia vòja dè tacàla,
e, apéna véscc sté du, i vulìa ‘nsöcai.
Òho! – dis èl prét- Gh’è argü chè gha la bala?
I prizunér sè üsa a rispetài! –
E fai serà sót ciav èn d’öna stala.
Li ha presi sotto braccio come due sporte / (che chi l’ha visto, ha visto un bel quadretto /
lui un faccione rosso e loro due ghigne smorte,/ loro due in divisa e lui senza giacchetta),
/ e li ha portati sotto braccio fino alle Porte, / e poi su per la Pusterla fino al Goletto, /
dove c’era Boifava con i suoi luogotenenti, / ed i suoi uomini, accampati in un ronchetto.
/ Armati di fucilacci, di forconi e di pali, / quelli di Serle avevano voglia di menare le
mani, / e, appena visti i due, volevano prenderli a cazzotti. / – Oho! – dice il prete – c’è
qualcuno sbronzo? I prigionieri si usa rispettarli! – E li fa mettere sotto chiave in una
stalla. (La traduzione è nostra)
87 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
1
L. LECHI, Avvenimenti
accaduti in Brescia nel marzo
1849, in Memorialistica
bresciana delle Dieci
Giornate, ed. Giornale di
Brescia, 1999.
progetto 5 Brescia leonessa d’Italia
Cesare Correnti ci racconta che cosa accadeva nelle vicinanze della piazza.
“In quell’ora volle il caso che avessero a passare proprio in sugli occhi dell’indignata
moltitudine certe carra di viveri e di legna che in mezzo a soldati s’avviava al castello.
Non ci volle molto altro. I più impazienti dier mano a quelle scheggie da ardere e
palleggiandole a modo di clava in un attimo disarmarono la scorta, predarono il
convoglio, e corsero per le vie mettendo in caccia soldati e gendarmi, strappando e
calpestando quante insegne austriache loro venivano vedute, e levando il grido di viva il
Piemonte! e morte ai barbari!”2
Non possiamo fare qui la cronaca delle Dieci giornate: abbiamo scelto perciò un episodio
centrale, forse il momento più felice dell’insurrezione. Sempre il conte Luigi Lechi ci parla di
quel 27 marzo.
“La pioggia cade a dirotto. Alle due pomeridiane le campane di S. Maria Calchera danno
il segno dell’allarme… Al segnale delle campane di Calchera tutte le altre rispondono
suonando a stormo. Al loro martellare si unisce il suono dei tamburi, a questo il grido: a
Torrelunga, a Torrelunga! ed ogni armato corre dove il pericolo è maggiore. Non guidati,
non comandati da alcuno, tutti sono concordi, non è in tutti che un solo pensiero, quello
di misurarsi col nemico che baldo si avanza da S. Eufemia…
…Nostra fu la vittoria: Il nemico si ritirò acquartierandosi di bel nuovo a S. Eufemia e il
comandante del Castello fece cessare la sinfonia delle sue artiglierie…
…all’avvicinarsi della sera uno stuolo di prodi infiammati d’amor patrio, sortirono di
città, assalirono improvvisamente
l’avanguardia nemica a Rebuffone
e scambiato un vivissimo fuoco la
ricacciarono dietro le barricate di S.
Eufemia. Tornati indietro trovarono
Brescia tutta illuminata e giuliva, e i
cittadini intenti a visitarne le rovine,
a cantare inni patitici e ad innalzare
ringraziamenti a Dio.” 3
FUORI I LUMI è il titolo di questo
acquarello che rende bene la gioia
di quella sera
La conclusione delle nostre Giornate non è però felice come speravano i Bresciani, convinti
che la ripresa della guerra portasse Carlo Alberto vittorioso a liberare la città. Sono gli
Austriaci del generale Haynau a giungere alle porte di Brescia e ad approfittare della notte
nebbiosa per penetrare in castello dalla strada del Soccorso.
Il generale Haynau, chiamato la “iena di Brescia”, inferocito per il rifiuto bresciano di
arrendersi, nella notte del 31 marzo e nel giorno successivo scatena le sue truppe che
saccheggiano, devastano, uccidono.
Le fonti che presentano gli opposti punti di vista, quello bresciano e quello austriaco, ci
offrono la stessa scena.
2
C. CORRENTI, I dieci giorni
dell’insurrezione di Brescia
nel 1849, in Memorialistica
bresciana delle Dieci
Giornate, ed. Giornale di
Brescia, 1999.
3
L. LECHI, ibidem.
Questa la drammatica testimonianza di Giuseppe Nicolini:
“…nei quartieri già invasi, di Torrelunga, Sant’Urbano, Sant’Alessandro, l’incendio, il
saccheggio, gli orrori di una città presa d’assalto incominciarono con le tenebre: senza
pietà, senza freno imperversavano i Croati, sconfiggevano porte, scalavano finestre,
88 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 5 Brescia leonessa d’Italia
facevano brecce nei muri, dalle quali passando da una casa all’altra, comparivano
inaspettati, assalivano, inseguivano, rubavano, stupravano, ammazzavano. Portavano
seco bitume, acqua ragia, e non so quali altre pesti incendiarie, con le quali tingevano o
spruzzavano le porte, le masserizie, le letta, le biancherie, e financo le persone perché
prendessero fuoco e ardessero come torcie. Le tenebre che accrescevano lo spavento,
le fiamme che rompeano le tenebre, le faville e le vampe di fuoco che uscivano dalle
finestre e dai tetti, le strida dè fuggenti, le grida degli inseguiti, i gemiti dei morenti
facevano di quei miseri quartieri un baratro di disperazione e di strazio.” 4
Meno epici e commossi i ricordi del generale Haynau:
“…feci aprire subito un terribile bombardamento sulla città e ricominciare l’assalto.
Attesa la grave perdita che avevamo di già sofferta, l’ostinazione ed il furore del nemico,
si dovette procedere alla più rigorosa misura; comandai perciò che non si facessero
prigionieri, e fossero immediatamente massacrati tutti coloro che venissero colti
coll’arma in mano; le case da cui venisse sparato, incendiate, e così avvenne che il fuoco
già incominciato parte ad opera delle truppe, e parte dal bombardamento si appiccò in
parecchi luoghi.” 5
Questo quadro, sempre dello Joli, mostra il terribile spettacolo della vendetta degli Austriaci.
Il piazzale di Porta Torrelunga nella notte del 31 marzo: il fuoco divampa dalle case e si
confonde con il fumo ed il rosseggiare delle case incendiate sui Ronchi che fanno da
sfondo. Qualcuno cerca di fuggire, i soldati minacciano donne e bambini. Alcuni cadaveri
giacciono per terra, circondati dai resti di mobili e di oggetti rubati dalle case e distrutti.
In primo piano, in mezzo a tanta disperazione, i soldati austriaci sbevazzano alticci il vino
frutto dei saccheggi.
Dopo i fatti e i protagonisti, abbiamo puntato l’attenzione sui luoghi degli avvenimenti, anche
in preparazione all’uscita sul territorio. Ci è stata data una pianta della città di Brescia che
risale ai tempi delle Dieci Giornate La città è ancora chiusa nella cerchia muraria, le strade
hanno nomi diversi, alcune non sono ancora state aperte, ma il tessuto cittadino è ben
riconoscibile.
89 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
4
G. NICOLINI, Continuazione
del Ragionamento sulla storia
di Brescia dal 1848 al 1849,
in Memorialistica bresciana
delle Dieci Giornate, ed.
Giornale di Brescia, 1999.
5
FIORENTINI, Le Dieci
Giornate di Brescia del 1849,
reminiscenze, Roma, Fratelli
Bocca, 1899.
progetto 5 Brescia leonessa d’Italia
Abbiamo allora segnato i luoghi principali degli avvenimenti.
Questa pianta è stata pubblicata in calce alla carta della provincia del 1826 e dedicata
all’Arciduca Ranieri
A Loggia
B piazza della Loggia
C Castello
D teatro Grande
E palazzo Bargnani
F porta Torrelunga
G torre del Pegol
H strada del Soccorso
I piazzetta dell’Albera
L Porta Sant’Alessandro
M contrada Bruttanome
N Broletto
O porta Bruciata
Prima di uscire in città resta solo da fissare i fatti, i protagonisti ed i luoghi con due semplici
questionari, utili per un ripasso generale
90 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 5 Brescia leonessa d’Italia
Andiamo in città
Lo scopo della nostra uscita non è soltanto
quello di visitare i luoghi degli eventi,
magari confrontandoli con le immagini
dei quadri e delle incisioni per constatare
quanto sono cambiati. È un percorso nei
luoghi della memoria, per prepararci alla
fase finale del nostro lavoro: fare da guida
a compagni e – perché no? – a genitori e
nonni per trasmettere loro quanto abbiamo
conosciuto.
Questa pianta riporta il percorso che
abbiamo seguito provenendo dalla nostra
scuola, che si trova a nord del centro
storico.
(A) Siamo partiti da palazzo Bargnani in corso Matteotti: oggi è sede
del liceo artistico e qui, nell’Ottocento, è stato a lungo professore
Cesare Abba.
In questo luogo, durante le Dieci Giornate, si trasferì dal Teatro
Grande il Comitato di Difesa: probabilmente si sentiva più al sicuro
dai colpi di artiglieria provenienti dal Castello, riparato come era dalla
torre della Pallata e dalla cupola della vicina chiesa della Pace. Era
anche in prossimità della porta occidentale della città, dalla quale
si sperava sarebbe entrato il vittorioso esercito di Carlo Alberto. La
lapide ricorda i duumviri Contratti e Cassola che vengono descritti
come “imperterriti e saggi”, forse per far tacere le critiche di parte
moderata, che giudicavano troppo azzardata la loro condotta durante l’insurrezione. Ci ha
colpito soprattutto il fregio della lapide che vede riuniti tre simboli: l’aquila che vola in alto,
l’alloro simbolo classico di vittoria e la palma simbolo cristiano del martirio.
91 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 5 Brescia leonessa d’Italia
(B) Piazza della Vittoria non è un luogo degli avvenimenti, ma soltanto della memoria. Il
nome ricorda l’ultimo atto dell’unificazione italiana, la vittoriosa Prima guerra mondiale, ma
durante le Dieci Giornate qui sorgeva il popolare ed affollato quartiere delle Pescherie. Nella
piazza moderna è stato costruito in posizione dominante l’Arengario, specie di pergamo laico
utilizzato in epoca fascista nelle cerimonie patriottiche. Lungo i suoi lati sono state scolpite
dal Maraini scene che rappresentano i momenti più significativi della storia della nostra città.
Al leone rampante, simbolo della città, sono
affiancati i due epiteti di Brescia: il primo,
BRIXIA FIDELIS, le è stato attribuito per la
secolare fedeltà alla Repubblica Veneta. Il
secondo, LEONESSA D’ITALIA, testimonia il
suo valore durante le Dieci Giornate.
Un Austriaco che fugge davanti all’incalzare
degli insorti, guidati dall’incitamento di Tito
Speri, è l’immagine scelta per rappresentare
la gloriosa insurrezione del ’49.
(C) Il Palazzo e la Piazza della Loggia sono il fulcro degli avvenimenti. Qui inizia
l’insurrezione, qui viene decisa la resa. Questo è il palazzo municipale rappresentato dallo
Joli il 23 marzo 1849. Se si toglie la sommità della Loggia nulla ci sembra diverso. Oggi,
però, sotto il porticato sono murate le lapidi che commemorano gli eventi decisivi della
nostra storia cittadina e patria.
92 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 5 Brescia leonessa d’Italia
Saliamo per lo scalone, sotto lo sguardo di Cavour scolpito nel marmo, per raggiungere il
salone vanvitelliano.
Sulla parete uno squarcio vistoso indica i
danni provocati dalle artiglierie del Castello.
Colpi simili hanno colpito il Teatro, il Duomo,
la cupola della Pace.
Sulla parete del salone sono dipinti a grandi
lettere dei versi sicuramente forti, ma ad una
prima lettura oscuri: la nostra insegnante ci
ha detto che sono del Carducci e con un po’
di impegno ne siamo venuti a capo.
Questi versi, rivolti a Brescia,sono tratti
da una poesia di Carducci, “Sicilia e la
rivoluzione”, composta nel 1860.
…rammenta i tuoi pargoli infranti
Sulle soglie i tuoi vecchi scannati
Ed i petti materni frugati
Dalle spade e l’irriso dolor
Subito ci hanno riportato alla memoria una
litografia che riassume simbolicamente il
martirio delle Dieci Giornate
Questi versi, sempre del Carducci, sono
ancora più oscuri dei precedenti. Abbiamo
poi scoperto che a parlare è la Vittoria
alata, simbolo della nostra città. Questa
statua di bronzo romana, rimasta per secoli
nascosta, fu ritrovata nel 1826 e divenne per
i patrioti il simbolo della vittoria romana che,
nascosta e calpestata mentre per secoli sul
suolo italiano dilagano gli eserciti stranieri,
ricompare nei giorni voluti dal fato perché la
patria celebri la sua rinascita, il Risorgimento
appunto.
Spetta a Brescia l’onore di riscoprirla e
raccoglierla, “a Brescia la forte, a Brescia la
ferrea, Brescia leonessa d’Italia, beverata nel
sangue nemico’’
93 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 5 Brescia leonessa d’Italia
(E) La salita al castello è fiancheggiata da case che conservano tuttora l’aspetto di quei
giorni: allora si chiamava piazza dell’Albera, ora è stata dedicata a Tito Speri. Il quadro dello
Joli ci mostra l’ultimo combattimento vittorioso dei Bresciani, che riescono ancora una
volta, il 31 marzo, a ricacciare i fanti nemici. Una lapide, all’interno della fortezza, ricorda
l’ingloriosa ritirata del battaglione badese.
Sui muri delle case un’epigrafe collega l’eroica resistenza dei patrioti a quella che quattro
secoli prima i Bresciani opposero ai Francesi , penetrati anch’essi in castello e di là scesi per
fare strage.
Nel centenario dell’insurrezione sono gli abitanti del rione che, su una lapide vicina, vogliono
incidere “con orgogliosa fierezza il ricordo degli avi”.
Dieci anni più tardi e qualche passo più avanti, un’altra epigrafe, dal tono meno eroico e
più dolente, ricorda le stragi della tristissima domenica delle Palme, divenuta per i Bresciani
domenica di Passione: “Il primo aprile 1849 nelle case saccheggiate ed in fiamme di questo
rione gli austriaci trucidarono inermi popolani…”. Seguono i nomi di persone diverse per età
e professione dalla vedova anziana al giovane
garzone, dallo studente all’oste del Frate,
l’osteria lì vicina.
(F) Sulla strada che ci porta alla fortezza,
incontriamo fra le piante un busto dedicato a
padre Maurizio Malvestiti. Venuto in castello per
chiedere ad Haynau di risparmiare la città, è
stato ritratto in una litografia mentre fronteggia
il militare. Il generale è impettito e severo, ma
anche nell’atteggiamento del frate c’è dignità e
fierezza.
L’incisione sul basamento ricorda il suo
coraggio nel salire l’erta sotto il fuoco
nemico. La resa non è vista come un atto di
vigliaccheria, ma come una condizione per
salvare “con Brescia la speranza di salutare un
giorno l’Italia libera e grande”.
(G) lI Castello sarà pure chiamato “falcone
d’Italia” ma nei Bresciani suscita ricordi storici dolorosi, a cominciare dal lontano 1512,
quando Gastone di Foix, comandante delle truppe francesi, riuscì come Haynau a penetrare
nella fortezza per poi scendere in città a far strage degli abitanti.
95 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 5 Brescia leonessa d’Italia
Dalla strada del Soccorso per ben due volte, come
è scritto sulla lapide lì accanto, entrarono truppe
straniere (nel 1512 i Francesi di Gastone di Foix,
nella notte del 31 marzo 1849 le truppe di Haynau)
“contro l’insorgere del popolo bresciano sdegnoso
di ogni dominazione straniera” e discesero in città a portare sterminio e desolazione.
“1° Aprile, E muoiono intrepidi ispirando vendetta” è la didascalia in questa litografia
che mostra le fucilazioni degli insorti cominciate dopo la presa della città e proseguite nei
giorni successivi. È evidente l’atteggiamento impavido e fiero dei patrioti di fronte alla morte.
Questa scena è stata scolpita nel basamento della “Bella Italia” in piazza Loggia.
I corpi degli insorti venivano ammassati in fosse comuni. Recuperati dopo il ’59, i resti
vennero solennemente trasportati al cimitero Vantiniano.
Sulla torre dei Prigionieri una lapide ricorda patrioti qui rinchiusi prima dell’arrivo di
Napoleone, definiti anticipatori del riscatto italiano. In seguito divenne anche prigione per i
partigiani che combattevano nella lotta di Liberazione.
Nella fossa dei Martiri, una spianata che si affaccia a nord sulla città, vennero fucilati in
epoche successive patrioti del ’49 e partigiani delle Fiamme Verdi, tutti in lotta contro la
tirannide straniera.
96 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 5 Brescia leonessa d’Italia
Ormai l’incisione si legge a malapena, ma i nostri nonni conoscevano bene
questo monumento funebre: qui era stato sepolto, prima di essere riportato
in patria, il generale Nugent, avversario cavalleresco e rispettato. I suoi
commilitoni hanno ricordato sulla lapide che egli è caduto per la difesa del
trono e dell’ordine pubblico.
Sotto i Bresciani hanno posto la scritta: “Oltre il rogo non vive ira nemica”.
I caduti delle Dieci Giornate riposano qui circondati da altri combattenti
nelle lotte del Risorgimento. I nomi dei caduti nelle sanguinose battaglie
di San Martino e Solferino sono mescolati a quelli dei loro alleati francesi.
Alcune tombe raccontano storie avventurose e forse ancora per poco
leggibili: abbiamo saputo di un giovane che, sceso giovanissimo dalla valle
per combattere con Garibaldi, ha percorso un lungo cammino con lui dalle
battaglie italiane a quelle sudamericane.
Di nuovo in classe
Rientrati dalla città abbiamo fatto insieme una ricerca su come le eroiche Dieci Giornate
sono state ricordate e celebrate da contemporanei e posteri.
Privati e nascosti, dopo il ritorno degli Austriaci, il ricordo e l’omaggio ai caduti.
“La preoccupazione dei seppellitori dei cimiteri di S. Eufemia e della Volta da preservare
le fosse comuni in cui sono stati gettati i patrioti uccisi nei combattimenti fuori le mura, il
dolente pellegrinaggio di una madre sul luogo dove era stato fucilato il figlio, le messe in
suffragio fatte celebrare “furtivamente” ogni anno dagli amici di Tito Speri…”.6
Nei primi tempi dopo l’unificazione la memoria è stata condivisa con lo stesso spirito da
moderati e mazziniani, cattolici e liberali.
Ci è piaciuta molto la cronaca della Gazzetta Provinciale che descrive il corteo
commemorativo del l2 aprile 1960 che si snoda per le vie cittadine “al funerale passo del
tamburo”.
“Precedevano i bersaglieri; seguivano le società artiere, coll’ordine, e sui gonfaloni
tricolori in gramaglia coi motti che veniamo indicando. 1. Tipografi, sopra una zona nera
di tela cerata in bianchi colori: Libertade è il primiero dei diritti .2. Portagerla: Quando
il popolo si desta, Dio combatte alla sua testa. 3. Facchini: Pensando a voi sperammo.
4. Venditori di fiammiferi: Sei nata tra i patiboli. 5. Calzolai: È questa la bandiera di
chi combatte e spera. 6. Mastri muratori: Brescia sdegnosa d’ogni vil pensiero. 7.
Falegnami: Venezia e Roma. 8. Prestinai: Sacriam l’avel dei martiri. 9. Fabbri e armaioli:
Ricchi d’onor, di ferro e di coraggio. 10. Conciatori: 18 e 22 Marzo. 11. Ramai: Vinse
perché il martirio, È una battaglia vinta. 12. Sarti: Segno ai redenti popoli. 13. Cappellai:
99 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
6
G. PORTA, L’insurrezione
di Brescia: cent’anni di uso
pubblico della storia, in Le
Dieci giornate di Brescia – Le
ricorrenze della memoria,
Brescia, Grafo, 2000.
progetto 5 Brescia leonessa d’Italia
Associazione e lavoro. 14. Orefici: Tutti son teco. 15. Pittori e imbiancatori: Dall’Alpi al
Lilibeo, Dall’uno all’altro mar. 16. Studenti, questi bellissimi versi di Mameli: Qui presso
all’ossa, o giovani/ che all’avvenir vivete,/ la sanguinosa pagina/ qui del dover leggete.
17. Presso loro il corpo dei professori senza motto. 18. Circolo Nazionale in un verso
la sua professione di fede all’Italia: Una, potente e libera, e finalmente il drappello degli
Emigrati la cui bandiera portata da un vecchio e venerando popolano della Laguna e
scortata da due donne in gramaglie, quanto ha di più commovente la sventura, recava
sul suo drappo il commovente richiamo alla schiavitù italiana: Ti aspettan frementi le
oppresse città. Dietro a questa schiera proseguivano il governatore, il sindaco…”.
Nell’anno successivo un manifesto della giunta comunale invitava
i Bresciani alla “mestissima festività, patriottica e pur religiosa,
nostra e pur italiana” di sepoltura dei resti delle vittime della
repressione austriaca riesumati in Castello. Dopo il rito in Duomo,
una interminabile processione segue il carro funebre per le vie
parate a lutto fino al cimitero Vantiniano. Ancora più folla accorre
spontaneamente il 15 giugno 1867 alla cerimonia di sepoltura dei
resti di Tito Speri, riesumati a Belfiore. 7
Diversamente vanno le cose dopo la presa di Roma, nel 1870. I due
schieramenti cattolici e anticlericali si fronteggiano con particolare
animosità nella nostra città e, tra roventi scambi di accuse,
rivendicano alle proprie idee fatti, ideali ed eroi: a seconda degli
schieramenti si sottolineava di Tito Speri l’animo laico e mazziniano o
la morte, preceduta sul patibolo da parole e gesti della pietà cristiana.
Per presentare le ragioni degli avversari potremmo utilizzare le due figure simbolo che si
fronteggiano, ignorando lo scarto temporale, negli ultimi decenni del secolo: Padre Maurizio
Malvestiti ed Arnaldo da Brescia. Il primo lo abbiamo già incontrato durante il nostro lavoro;
il secondo, monaco medievale rigoroso e ribelle, lo abbiamo visto scolpito sull’Arengario,
dove rappresenta la rivolta contro i poteri tirannici del Barbarossa, soffocatore delle libertà
comunali, e del Papato corrotto.
Per celebrare il nostro Risorgimento sono stati costruiti in luoghi e tempi diversi monumenti,
ma nessuno ha comportato la ricerca di fondi su tutto il territorio nazionale, il susseguirsi di
progetti, le feroci polemiche che ha invece suscitato il”monumento della discordia” dedicato
ad Arnaldo da Brescia. Questo fu voluto e realizzato, in polemica anticlericale e massonica,
dai liberali zanardelliani, che volevano sottolineare il carattere laico del Risorgimento ed
accomunare il papa ai sovrani tirannici della Restaurazione.
“Che cosa c’entra Arnaldo con l’unità d’Italia?” era la domanda del popolo incolto. Chi
sapeva più di storia si divideva in due schieramenti contrapposti.
Da parte cattolica padre Maurizio veniva esaltato come il salvatore della città, “virtuoso
frate, umile, esemplare, santo, modesto, dotto, senza ostentazione rumore” e contrapposto
a quell’altro frate, “presuntuoso, superbo, disobbediente ai suoi superiori, scandaloso,
ambizioso, innovatore e strombazzatore delle sue dottrine ardite, fanatico, petulante” 8
“Ipocriti” dicevano in sostanza gli altri, ricordando il rifiuto del vescovo di firmare la supplica
per salvare la vita a Tito Speri. “E poi” sono parole nostre, ma il concetto è loro “bell’eroe chi
alza bandiera bianca!”
7
G. GUERZONI,
Commemorazione alle
Dieci Giornate del 1849,
in Gazzetta Provinciale di
Brescia, 3 aprile 1860.
8
Autocronografia di Ser
Bagola, in Il Frustino, 2 aprile
1882.
Queste polemiche persero vigore all’inizio del Novecento, quando in occasione degli
anniversari si richiama l’esigenza di coronare l’opera di indipendenza liberando Trento e
Trieste e l’opposizione agli accordi della Triplice Alleanza accomuna le diverse anime del
patriottismo bresciano. Comune ai diversi schieramenti è sempre l’orgoglio municipale per
le Dieci Giornate, “fatto singolarissimo di guerra popolare”. La sua memoria va tramandata
100 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 5 Brescia leonessa d’Italia
alle nuove generazioni: nel cinquantenario
era uscita l’opera di Eugenio Paroli, “Le Dieci
Giornate narrate ai ragazzi da un tamburino”.
Il quadro dell’Inganni, di cui riportiamo un
particolare, mostra l’ammirazione dei ragazzi
per il veterano delle patrie battaglie.
Più vicina ai giorni nostri abbiamo notato
la cura, dopo la fine della seconda guerra
mondiale e la caduta del fascismo,
nel presentare la Resistenza come la
prosecuzione ideale delle Dieci Giornate.
Lapidi che ricordano gli avvenimenti si
fronteggiano sotto la Loggia, nel cimitero il
monumento ai caduti della Resistenza viene
posto simmetricamente a quello
dei prodi Bresciani ai lati del Panteon.
Quando, nel marzo del 1949, viene scoperta la lapide posta in corso Magenta il sindaco
Bruno Boni collega “agli epici ricordi della barricata di via Bruttanome, il recente episodio del
partigiano bresciano”, ucciso nella adiacente via Crispi.
Terminata la carrellata su come sia stata trasmessa ai posteri la memoria dell’insurrezione
bresciana, abbiamo fatto un semplice lavoro per evidenziare come la città attuale abbia
conservato e celebrato nelle sue strade il ricordo dell’Italia unita. Abbiamo colorato con
il tricolore, limitandoci al centro storico, le vie che hanno nomi risorgimentali: Brescia è
letteralmente circondata e attraversata da personaggi e battaglie patriottiche. La lettere
dell’alfabeto indicano quattro monumenti commemorativi, fotografati da noi ma commentati
qui di seguito da sonetti del Canossi, scritti in un’epoca in cui l’attenzione ai monumenti da
parte dei passanti era certo più viva della nostra.
101 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Chi e dove
Classi coinvolte
Docenti referenti
Scuola secondaria di primo grado annessa al Conservatorio Luca Marenzio - Brescia
Seconda A
Patrizia Donati, Silena Malagutti e Dora Tartaglia
progetto 6
Cantare l’Italia
E tu onor di pianti, Ettore, avrai
ove sia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finchè il sole
risplenderà sulle sciagure umane.
Ugo Foscolo
Senza guardare a partiti o princìpi
diversi, io ho celebrato la virtù.
Il mio partito è l’Italia.
Luigi Mercantini
Poiché ci troviamo presso il Conservatorio musicale, avevamo in un primo tempo deciso di
limitare il nostro lavoro al contributo che la musica “alta”, soprattutto il melodramma, ha dato al
Risorgimento italiano: ”VIVA VERDI”, dunque, in senso politico e musicale. Poi ci siamo accorti
che non è semplice usare il linguaggio verbale per comunicare la musica. Alla fine, rimanevano
in evidenza soltanto parole.
Allora abbiamo inteso “cantare l’Italia” in senso più ampio e abbiamo aggiunto ai testi di inni,
romanze, cori anche poesie e dipinti, immagini ed epigrafi che avevano tutti uno scopo comune:
ispirare sentimenti patriottici e suscitare passioni ideali.
I materiali che abbiamo raccolto solo in piccola parte avevano lo scopo di ricordare, documentare o
educare; volevano invece spronare uomini e donne, giovani e non solo, persone colte e non solo a
dare il loro contributo e spesso la loro vita perché l’Italia fosse “una dall’Alpi al mar”.
Che cosa c’è di nostro nella modesta raccolta che segue? Prima di tutto la scelta tra le numerose
proposte che avevamo a disposizione. Abbiamo privilegiato i testi meno noti e quelli che sono per noi
i più significativi. E poi l’organizzazione dei materiali in sezioni, la traduzione dal dialetto, il commento,
la scelta dei titoli: quello che, in definitiva, fa il curatore delle nostre antologie scolastiche.
Abbiamo inoltre illustrato i diversi temi scegliendo, dove era possibile, quadri, litografie, oggetti che
provengono dai nostri Musei di Arte e Storia.
106 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
ALL’ALBA DEL RISORGIMENTO
Anche a Brescia gli ideali della Rivoluzione Francese, giunti in Italia al seguito delle armi di
Napoleone, avevano suscitato speranze: ormai i legami con Venezia, così saldi in passato, non
erano più sentiti e la Repubblica veneta rappresentava per molti quell’Antico Regime da abbattere
per conquistare la libertà.
Anche in città dunque, cacciati i Veneziani e nata la Repubblica giacobina Bresciana, vennero
abbattuti i simboli del passato ed in piazza della Loggia, al posto della colonna con il leone di
S. Marco, si era innalzato festosamente l’albero della libertà.
Nel museo del Risorgimento è conservato
questo fazzoletto di seta: raffigura episodi dell’età
napoleonica e al centro è ben evidente l’albero
della libertà.
In questo periodo è nato questo canto giacobino
che riportiamo perché è poco conosciuto: era
molto amato da Giuseppe Mazzini che ne
apprezzava, oltre alle parole, la musica lenta e
solenne.
Or che innalzato è l’albero
si abbassino i tiranni,
dai lor superbi scranni
scenda la nobiltà.
L’indegno aristocratico
non osi alzar la testa;
se l’alza allor la festa
tragica si farà.
Già reso uguale e libero,
ma suddito alla legge
è il popolo che regge:
sovrano ei sol sarà.
Un dolce amor di patria
si sparga in ogni lido.
Formiam comune il grido:
viva la libertà.
Un dolce amor di patria
si sparga in ogni lido.
Formiam comune il grido:
viva la libertà.
Un dolce amor di patria
si sparga in ogni lido.
Formiam comune il grido.
viva la libertà.
“Di questo canto, dalle parole un po’ fredde e dalla musica lenta e un po’ monotona, ci piace
soprattutto il ritornello che invita tutti ad unirsi nel desiderio di libertà e definisce “dolce”
l’amore per la patria.”
Nel cimitero Vantiniano di Brescia abbiamo
trovato il monumento funebre di Teodoro
Lechi. Patriota come i suoi fratelli, combatté
a fianco di Napoleone nella Legione Italica
contro gli Austriaci. Quando nel 1815 questi
riconquistarono la Lombardia, egli conservò le
Aquile che ornavano le bandiere del reggimento
e nel 1848 le donò a Carlo Alberto. Arrestato,
condannato a morte, graziato, dopo mesi di
carcere partecipò alle Cinque Giornate di Milano
e guidò come generale in capo le forze di
Lombardia nella Prima Guerra d’Indipendenza.
107 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Le opere liriche riuscivano a “travestire” i temi patriottici, spostandoli in realtà cronologicamente e
geograficamente lontane. Agli spettatori, e a noi, le allusioni sembrano chiarissime e ci domandiamo
se la censura austriaca fosse poi così efficiente.
I motivi cantati da cori e solisti sono di due tipi: il lamento per la schiavitù della patria e l’invito a
combattere per liberarla.
Al primo gruppo appartiene il celebre “O mia patria sì bella e perduta’’ del Nabucco di Verdi, che tutti
conosciamo. Meno famoso, ma molto suggestivo, è il coro “Patria oppressa’’, tratto dal Macbeth,
sempre di Verdi.
Patria oppressa! il dolce nome
no, di madre aver non puoi,
or che tutta a figli tuoi
sei conversa in un avel.
D’orfanelli e di piangenti
chi lo sposo e chi la prole
al venir del nuovo Sole
s’alza un grido e fere il Ciel.
A quel grido il Ciel risponde
quasi voglia impietosito
propagar per l’infinito,
Patria oppressa, il tuo dolor.
Suona a morto ognor la squilla,
ma nessuno audace è tanto
che pur doni un vano pianto
a chi soffre ed a chi muor
A cantare sono profughi scozzesi, ma non sfuggiva a nessuno che qui si parlava d’Italia. Anche
nella pittura, d’altra parte, era necessario il travestimento. Alla nostra pinacoteca Tosio Martinengo
appartiene questa tela di Hayez, I profughi di Parga.
109 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Gli abitanti di questo villaggio albanese, ceduto dagli Inglesi ai Turchi, abbandonano la loro patria.
“Nel gruppo centrale uomini, donne e bambini si sostengono l’un l’altro in questo momento doloroso.
In primo piano una giovane saluta per l’ultima volta le tombe dei padri; un uomo raccoglie un pugno
di terra da portare con sé, una donna disperata si aggrappa ad un albero cresciuto sul suolo natio.
Il sacerdote è pensieroso, il giovane al centro del quadro sembra interrogare il cielo. Le braccia e
gli sguardi di molti partenti sono rivolti alle case che stanno abbandonando. Sullo sfondo il mare in
tempesta rappresenta le difficoltà che tutti incontreranno in terra d’esilio.”
Non solo pianti, però, nel melodramma italiano. Nei Puritani di Bellini la tromba chiama al
combattimento:
Suoni la tromba, e intrepido
io pugnerò da forte,
bello è affrontar la morte
gridando libertà!
Amor di patria impavido
mieta i sanguigni allori;
poi terga i bei sudori
e i pianti la pietà.
L’invito a combattere è evidente anche nel coro dell’Ernani di Verdi. Ai patrioti italiani era semplice
sostituire all’Iberia l’Italia, ai Mori oppressori gli odiati Austriaci.
Si ridesti il Leon di Castiglia
e d’Iberia ogni monte, ogni lito
eco formi al tremendo ruggito,
come un dì contro i Mori oppressor.
Siamo tutti una sola famiglia,
pugnerem colle braccia, co’ petti;
schiavi inulti più a lungo e negletti
non sarem finché vita abbia il cor.
Morte colga o n’arrida vittoria,
pugnerem, ed il sangue dè spenti
nuovo ardir ai figliuoli viventi,
forze nuove al pugnare darà.
Sorga alfine radiante di gloria,
sorga un giorno a brillare su noi...
sarà Iberia feconda d’eroi,
dal servaggio redenta sarà.
“Non ci riesce difficile capire l’entusiasmo degli spettatori quando, nel mezzo del melodramma,
il coro intonava ad una voce “siamo tutti una sola famiglia”. I temi sono quelli ricorrenti nei
canti e nelle poesie risorgimentali: la redenzione della patria dalla schiavitù, la disponibilità a
combattere per ottenerlo, l’accettazione coraggiosa della morte, sicuri che il posto del caduto
verrà preso da molti altri “
Ancora più esplicito il momento, dal terzo atto della Battaglia di Legnano di Verdi, nel quale, prima di
partire per affrontare il Barbarossa,i soldati intonano il solenne giuramento:
Giuriam d’Italia por fine ai danni
cacciando oltr’Alpe i suoi tiranni.
Pria che ritrarci, pria ch’esser vinti,
cader giuriamo nel campo estinti.
110 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Per quello che ne sappiamo, nella nostra città
non si sono verificati, nel teatro Grande (foto
a sinistra) episodi di contestazione aperta agli
Austriaci occupanti. Anche a Brescia, però,
erano uscite ordinanze che vietavano di portare
cappelli “alla calabrese, alla Puritana, all’Ernani”
e minacciavano l’immediato arresto. Un’altra
disposizione avvertiva che “l’applaudire o il
fischiare certi passi di un’azione drammatica”
assumeva il carattere di dimostrazione politica
illegale.
ADDIO MIA BELLA ADDIO
Quando si parla di volontari risorgimentali in
partenza per i campi di battaglia viene alla mente
il famosissimo Bacio di Hayez, anche se nulla
individua l’appassionato protagonista come
in procinto di andare a combattere. Anche la
lettura simbolica dell’abbraccio come l’alleanza
fra Italia e Francia, per sconfiggere insieme
l’Austria nella seconda guerra d’Indipendenza
non ci sembra così evidente, poiché i colori della
bandiera italiana e di quella francese non sono
facilissimi da individuare. Dal momento della sua
esposizione, però, il dipinto è diventato il modello
per moltissime illustrazioni di soldati in partenza.
In questa cartolina,
stampata per la
guerra del ‘15-’18,
si è aggiunto il treno
militare, ma è rimasta
la passione del bacio,
la penna sul cappello e,
simile al modello, la posizione
della giovane donna.
Senza dubbio il canto d’addio più famoso è quello dei volontari toscani in partenza per i campi di
Lombardia nella Prima guerra d’Indipendenza:
Addio, mia bella, addio / l’armata se ne va / e se non partissi anch’io / sarebbe
una viltà… Il sacco è preparato / il fucile l’ho con me / e allo spuntar del sole /
io partirò da te.
Le parole cambiano leggermente nelle diverse versioni, come in molti canti popolari, ma i motivi
presenti faranno scuola per i canti successivi: la partenza all’alba, il rischio della morte messo
serenamente in conto, il binomio uomo e soldato. Abbiamo preferito riportare per intero un canto,
sempre di origine popolare, che pare risalga alla guerra del ’66, che difficilmente compare in raccolte
ed antologie. Noi l’abbiamo trovato solo in un vecchio disco.
111 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
SORGE IL SOLE ALLA COLLINA
Sorge il sole alla collina
il tamburo, il tamburo già suo
deh, non pianger, mia carina
che glorioso che glorioso tornerò.
Pria che io fossi innamorato
una patria, una patria Dio mi diè;
della patria io son soldato
mano e core, mano e cor consacro a te.
Dammi un riccio di capelli
che sul core, che sul cor mi poserà,
e per campi e per castelli
notte e dì, notte e dì mi accosterà.
Fatti un nastro cilestrino,
sia memoria, sia memoria del mio amor,
te lo annoda al corpettino
ove palpita, ove palpita il tuo cor.
Addio cara, in mare e in terra
nel pensiero, nel pensier sempre ti avrò:
sarò tuo, se muoio in guerra,
tuo se illeso, tuo se illeso tornerò.
E allorchè sul fido core
la tua testa, la tua testa poserà,
la medaglia del valore
le tue guance, le tue guance sfiorerà.
“Non assomiglia ad un inno di guerra, veloce e incalzante, ma piuttosto ad una romanza dedicata alla
donna amata, questo canto del soldato in partenza. Nella seconda strofa vengono messe in chiaro le
precedenze: sono figlio della mia patria prima che tuo sposo – dice l’uomo –, anche se poi tutte le
strofe successive sono un canto di fedeltà alla donna. Perfino l’idea della morte è un accenno lieve,
una delle due alternative possibili. L’altra è il ritorno tra le braccia della sposa con una medaglia del
valore al petto.”
Nelle locandine originali dei due canti risorgimentali – li abbiamo ritrovati
nella copertina del vecchio 33 giri – sono numerose le somiglianze
tra i due soldati in partenza, entrambi bersaglieri che accorrono al
segnale di guerra, uno del tamburo, l altro della tromba. Lo spirito è però
profondamente diverso: tanto è serio e fedele il soldato del secondo,
tanto è temerario e scanzonato il protagonista maschile della Bella
Gigogìn, nome con il quale è più conosciuta la canzone. La guerra è per
lui una bella avventura:
Rataplan! Tamburo io sento
che mi chiama alla bandiera.
Oh che gioia o che contento,
io vado a guerreggiar!
112 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Rataplan! Non ho paura
delle bombe e dei cannoni,
io vado alla ventura,
sarà quel che sarà.
progetto 6 Cantare l’Italia
TROMBE, TAMBURI E CAMPANE
Da sempre trombe e tamburi hanno segnato con la loro voce i vari momenti della guerra. A questi
aggiungiamo le campane, che da laiche torri e da campanili di chiesa hanno chiamato a raccolta i
cittadini nei momenti più importanti nella vita della comunità. Nel nostro Risorgimento le campane
hanno accompagnato l’insurrezione contro l’oppressore.
Questa incisione, che abbiamo trovato sulla copertina di un vecchio disco,
rappresenta Luigi Mercantini mentre canta, accompagnato dalla moglie al
pianoforte, l’inno a lui richiesto dallo stesso Garibaldi, che gli darà il nome.
E il coro di uomini, donne e bambini che lo accompagnano diventa un
piccolo esercito in marcia.
Scopo di canzoni, inni e poesie, tra le quali abbiamo scelto pochi esempi
significativi, non era tanto quello di ricordare e di celebrare, quanto quello di
chiamare alle armi.
Patrioti, all’Alpi andiamo,
patrioti, andiamo al Po:
perderem, se più tardiamo,
gia il Tedesco c’insultò.
Il tambur, la tromba suoni;
noi sul campo marcerem:
mille e più sieno i cannoni,
Noi le micce allumerem.
E sol verde, bianca e rossa
la bandiera s’innalzò.
E sol verde, bianca e rossa
la bandiera s’innalzò.
Tre colori, tre colori,
l’Italian cantando va;
e cantando i tre colori
il fucile imposterà.
Foco, foco, foco, foco!
S’ha da vincere o morir:
foco, foco, foco, foco!
Ma il Tedesco ha da morir.
E sol verde, bianca e rossa
la bandiera s’innalzò.
E sol verde, bianca e rossa
la bandiera s’innalzò.
Lo stesso Mercantini dice che questo suo inno, messo in musica per accompagnare la guerra
del1848-49 “vale niente”; eppure apre la sua raccolta di poesie. Il perché ce lo spiega lo stesso
autore:” Quando in Corfù (mi si consenta questa dolce rimembranza) io fui a visitare Daniele Manin,
da una stanza vicina si udiva cantare: Tre colori, tre colori! – Ecco,mi disse commovendosi, ecco il
canto col quale abbiamo combattuto insino all’ultima ora sulle nostre lagune –. E in quella si affacciò
un biondo e ardito giovanotto. – Ed ecco qua il mio Giorgio, seguitò il padre affettuoso, che spera e
canta –.
Tra i numerosi inni che invitano al combattimento, riportiamo qui i due che ci sono piaciuti di più.
“Suona la tromba” è l’ultimo canto di Goffredo Mameli, composto prima di morire, ad appena 23
anni, per difendere la Repubblica Romana, e mostra ciò che egli provava per la sua patria, che
amava da morire.
Suona la tromba, ondeggiano
le insegne gialle e nere.
Fuoco, per Dio, sui barbari
sulle vendute schiere.
Già ferve la battaglia
al Dio dei forti, osanna,
al Dio dei forti osanna
Già ferve la battaglia
è l’ora del pugnar.
Non deporrem la spada,
non deporrem la spada,
finchè sia schiavo un angolo
dell’itala contrada.
Non deporrem la spada,
finchè sia schiavo un angolo
dell’itala contrada,
finchè non sia l’Italia
una dall’Alpi al mar.
113 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
GIURIAM! GIURIAM!
“In questo inno si sente uno slancio, un’atmosfera di euforia patriottica, sottolineata da una
musica molto coinvolgente e la frequente ripetizione delle parole più importanti Ciò che mi ha
colpito maggiormente nel testo è l’entusiastico desiderio di vedere un’Italia unita senza distinzioni
campanilistiche. So che questo obiettivo è stato raggiunto con grandi sacrifici.”
L’altra canzone che ci è piaciuta particolarmente è “A ferro freddo”, chiamata anche “La Garibaldina”,
grido di guerra dei volontari italiani, di cui riportiamo la prima strofa e il ritornello.
Il dado è tratto: di terra in terra
suona l’allegro grido di guerra;
l’Italia è sorta dall’Alpi al Faro,
e vuol col sangue che l’è più caro
segnar la traccia dei suoi confini.
Al nostro posto, Garibaldini!
A ferro freddo, Garibaldini
Avanti, urrah! L’Italia va!
Fuori, stranieri,fuori di qua!
Questa incisione, conservata nel museo del
Risorgimento,mostra un combattimento avvenuto nei
pressi della nostra città. I soldati sono cacciatori delle
Alpi, i volontari guidati da Garibaldi, che combattevano a
fianco dell’esercito piemontese.
Il loro inno faceva così:
Noi siamo i Cacciatori delle Alpi,
il nostro Generale è Garibaldi.
Savoia, Savoia, si vinca e poi si muoia
finché l’Italia unita la sarà.
Ai Cacciatori delle Alpi è dedicata una poesia di Mercantini scritta nel 1859, con l’intenzione di
suscitare volontari per la nuova guerra contro l’Austria. Comincia con un ritornello, come una
canzone, che si ripete più volte e fa così:
Volontario ho abbandonato
la mia casa ed il mio amor:
or che son di qua passato
son dell’Alpi cacciator.
”Nelle dodici strofe, tra un ritornello e l’altro, vengono ricordati i sacrifici che dovettero sostenere i
volontari agli ordini di Garibaldi: per amor di patria abbandonavano le proprie famiglie ed i loro cari:
”Madre mia, te l’ho giurato/ per la patria vo’ a morir”; essi provenivano da tutta la penisola e avevano
affrontato viaggi lunghi e disagevoli. Trovo particolarmente commovente il fatto che i giovani di
allora, ma anche le loro madri e innamorate, abbiano avuto ideali così alti ed abbiano creduto così
profondamente in ciò che facevano da sacrificare la propria vita per questo”
Non è possibile, a questo punto, non ricordare il canto di guerra più famoso del Risorgimento, il
già citato “Inno di Garibaldi”. Riportiamo le prime tre strofe, anche se nella versione definitiva, con
un’aggiunta successiva dell’autore, la versione completa arriva a sei.
114 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Si scopron le tombe, si levano i morti
I martiri nostri son tutti risorti!
Le spade nel pugno, gli allori alle chiome,
la fiamma ed il nome – d’Italia nel cor!
Veniamo! Veniamo! su, o giovani schiere!
Su al vento per tutto le nostre bandiere!
Su tutti col ferro, su tutti col foco,
su tutti col foco – d’Italia nel cor.
Va’ fuora d’Italia, va fuora ch’è ora,
va’ fuora d’Italia, va’ fuora, o stranier.
La terra dei fiori, dei suoni e dei carmi
ritorni qual era, la terra dell’armi!
Di cento catene ci avvinser la mano,
ma ancor di Legnano – sa i ferri brandir!
Bastone tedesco l’Italia non doma,
non crescon al giogo le stirpi di Roma
più Italia non vuole stranieri tiranni,
già troppi son gli anni – che dura il servir.
Va’ fuora d’Italia, va’ fuora ch’è ora,
va’ fuora d’Italia, va fuori o stranier.
Le case d’Italia son fatte per noi,
è là sul Danubio la casa dè tuoi:
tu i campi ci guasti, tu il pane c’involi,
i nostri figlioli – per noi li vogliam.
Son l’Alpi e i due mari d’Italia i confini,
col carro di fuoco rompiam gli Appennini:
distrutto ogni segno di vecchia frontiera,
la nostra bandiera – per tutto innalziam.
Va’ fuora d’italia, va fuora ch’è ora,
va’ fuora d’Italia, va’ fuora, o stranier.
“Questo inno è adatto ai soldati che lo cantavano nella loro grande impresa di liberazione dell’Italia.
È il mio preferito, perché il ritmo è incalzante e le parole invitano tutti ad innalzare il tricolore, ad
imbracciare le armi ed a cacciare lo straniero, perché la nostra patria torni libera dopo secoli di
dominazione straniera. Mi è
piaciuta soprattutto la strofa ,
AGOSTINO LOMBARDI
nella quale si afferma che le
MAGGIORE
GARIBALDINO
case d’Italia sono fatte per il
UNICO
DI
VALORE
DI
PATRIOTTISMO
DI BONTÀ
popolo italiano, come il suo pane
CADDE A CIMEGO
ed i suoi figli, e che gli Austriaci
IL GIORNO XVI DI LUGLIO MDCCCLXVI
devono tornare a casa loro sul
COMBATTÈ GIOVINETTO
Danubio.”
LE PATRIE BATTAGLIE
Nel cimitero Vantiniano abbiamo
trovato questo monumento
funebre, dalla scritta ormai
illeggibile, ma da noi recuperata
usando prevalentemente il tatto,
che testimonia una vita spesa
combattendo per la patria e
Garibaldi.
115 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
FRA LE RETICHE BALZE NEL MDCCCXLVIII
A ROMA NEL MDCCCXLIX
RIPORTÒ GLORIOSE FERITE
PUGNÒ A VARESE A SAN FERMO
A MILAZZO E AL VOLTURNO
ALL’EROICO SOLDATO DI LIBERTÀ
ALL’INTEGERRIMO CITTADINO
NELL’ESILIO COSPIRATORE INDOMITO
QUESTA MODESTA LAPIDE
POSERO GLI AMICI
progetto 6 Cantare l’Italia
GLI EROI
È fama
che abiti la Virtù su impervie rupi
e che di ninfe veloci la circondi
un coro: ad occhi mortali cela il volto.
Solo appare all’eroe cui, nell’attesa
– fin che alla vetta giunga –
l’animo morda l’ansia della meta.
Simonide
Dulce et decorum est pro patria mori
Orazio
Questo dagherrotipo, conservato nel nostro museo del Risorgimento,
rappresenta Tito Speri, il più bresciano tra gli eroi del Risorgimento e il
più eroe tra i Bresciani, almeno a sentire Angelo Canossi, che lo definisce
“ il più bello e il più grande bressiano che ci fu”.
Accanto abbiamo messo le sue pantofole,
sempre donate al museo, conservate quasi
con la venerazione dovuta ad una reliquia.
Eroe delle Dieci Giornate, è morto impiccato
sugli spalti di Belfiore a soli 27 anni.
“Hai mai visto davanti a te innalzarsi
una cima che tutta risplende nel
sole, lontana così da sembrare
inaccessibile? Ecco… anche il giovane capitano Speri, ha
cominciato a salire verso una vetta lontana e splendente. E non si
ferma. Sale ancora e giungerà fin lassù…”
Così parla ai ragazzi Ottavia Bonafin, in un suo libretto pubblicato nel 1949, centenario
dell’insurrezione bresciana. Dalla poesia di Simonide sono passati duemila anni, ma uguale è
il cammino dell’eroe. Ed il morire per la patria è ancora onorevole e dolce, come speriamo che
appaia dopo aver letto questi due sonetti in dialetto bresciano, nei quali Canossi racconta gli ultimi
momenti di vita di Tito Speri.
I
– Èl mè scüse! – èl gh’ha dit, secónd l’üsanza,
èl bòja ‘n dèl mitiga al còl èl las.
– Tratèm dè amico, e mèt èl cör èn pas –
èl ghè rispónd; pò ‘l varda ‘n lontananza
come chi spète argü che ria da ‘n viaz
e ‘l slónga j-öcc e ‘l cönta la distanza
e finalmènt èl vèd chè la speranza
chè ‘l ghia ‘n dèl cör l’è dré pèr averàs.
cos’âràl vést?… L’Italia liberada?…
o fórse la sò póera Fortünina
chè la vignìa a compagnàl dè là?
116 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
gh’éra miga dè sul chèla matina,
ma sö la bèla fàcia ilüminada
gh’éra sö ‘l sul dè la felicità.
“Mi scusi!” gli ha detto, secondo l’usanza / il boia nel mettergli il cappio al collo. / “trattatemi da
amico, e mettete il cuore in pace”/ lui gli risponde; poi guarda in lontananza / come chi aspetti
qualcuno che arrivi da un viaggio / e allunga gli occhi e misura la distanza / e finalmente vede che la
speranza / che aveva nel cuore sta per avverarsi. / Cosa avrà visto?... L’Italia liberata?... / o forse la
sua povera Fortunina [la sua fidanzata morta] / che veniva per accompagnarlo nell’aldilà? / Non c’era
il sole quella mattina, / ma sopra la bella faccia illuminata / c’era su il sole della felicità. (La traduzione
è nostra)
II
Pò ‘l-ha basat i précc, èl s’è lussat
i guancc, e ‘l-è montat söl traböchèl
co’ la grazia d’ön spus inamorat
chè va a ‘l-altar a benedì ‘l-anèl.
E, ‘ntat chè ‘l boja ‘l ghè leàa ‘l sgabèl:
“Signur, vègne con Vó – ‘l-ha sospirat –
èn Paradis…”, e ‘n dèl mancàga ‘l fiat
‘l-ha serat j-öcc e ‘l-è dientat piö bèl.
La sèra, nat zó ‘l sul, gh’è ignit du òm
e i ‘l-ha sotrat cói àlter lé pèr tèra
senza crus, senza cassa e senza nòm.
Po’ i gha cargat le furche, èl sgabelòt,
le trè córde, la vanga e la leéra,
e j-è turnacc a Màntoa… e buna nòt!!!
Poi ha baciato i preti, si è allacciato / i guanti, ed è salito sopra il trabocchetto / con la grazia di uno
sposo innamorato / che va all’altare a benedire l’anello. / E, intanto che il boia gli levava di sotto lo
sgabello…/ “Signore, vengo con Voi – ha sospirato – / in Paradiso…”, e mentre gli mancava il
fiato / ha chiuso gli occhi ed è diventato più bello. / La sera, calato il sole, sono venuti due uomini / e
l’hanno sepolto con gli altri lì per terra / senza croce, senza cassa e sena nome. / Poi hanno caricato
le forche, lo sgabello, / le tre corde, la vanga e la leva, / e sono tornati a Mantova… e buona notte!!!
(la traduzione è nostra)
“Mi è piaciuta molto la seconda parte della poesia, quando Tito Speri si sistema i guanti come uno
sposo che sale all’altare, ed anche quando Canossi dice che, nel momento della morte, l’eroe diventa
più bello. Questa poesia mi ha trasmesso, più di altre pagine, il desiderio di libertà dei Bresciani”
Anche Tito Speri, come ogni eroe che si rispetti, è giovane e bello. Il più famoso eroe patriota è però,
fuori dai confini bresciani, Carlo Pisacane. Mercantini, nella sua conosciutissima Spigolatrice di Sapri,
ce lo presenta così:
Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro
un giovin camminava innanzi a loro;
mi feci ardita, e presolo per la mano,
gli chiesi: – Dove vai, bel capitano?
Guardommi, e mi rispose: – O mia sorella,
vado a morir per la mia Patria bella! –
117 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Bello e coraggioso, dunque; eppure a Brescia abbiamo un eroe delle Dieci Giornate che non
corrisponde a questo tipo ideale: Carlo Zima. Così lo descrive Mercantini, mettendo le parole nella
bocca di Tito Speri che, allo scopo di rallegrare la sua innamorata preoccupata, le recita a tempo di
danza.
Dove nacque Carlo Zima
non si muore da codardi,
fin morendo si è gagliardi
per uccider l’uccisor.
…
Carlo Zima popolano
scarno il volto e il corpo avea,
mal su l’anche si volgea
e contorto aveva il piè;
ma in difesa di sua terra
alma ardente e forti braccia,
ne l’ardir de la sua faccia
si leggea del cor la fè.
Il particolare di questa litografia
mostra la morte di Carlo Zima, tra
le fiamme insieme al Croato.
La storia era notissima ai nostri bisnonni: cosparso di pece, durante la feroce repressione seguita
all’insurrezione bresciana, Carlo Zima avvinghiò il soldato che gli aveva dato fuoco e lo tenne
stretto fino alla fine di entrambi.
GLI ATTI EROICI
Di quelli che caddero alle Termopili
famosa è la ventura, bella la sorte
e la tomba un’ara. Ad essi memoria
e non lamenti, ed elogio il compianto.
Non il muschio, né il tempo che devasta
ogni cosa, potrà su questa morte.
Con gli eroi, sotto la stessa pietra
Abita ora la gloria della Grecia.
Simonide
Le Dieci Giornate di Brescia, da noi scelte per illustrare gli “atti eroici” del Risorgimento, sono stati
definiti “le Termopili d’Italia” e noi ne siamo orgogliosi. Sicuramente Simonide non si rivolterà nella
tomba se gli accostiamo il nostro poeta dialettale Angelo Canossi ed il suo “Esordio” dedicato all’inizio
dell’insurrezione. Sono otto pezzi in forma di sonetto, il dialetto è linguaggio non aulico; lo spirito è
però pudicamente commosso e inaspettatamente epico.
Nella prima notte dopo la sollevazione popolare piovono sulla città i colpi di artiglieria sparati dal
Castello: il capitano della guarnigione voleva in questo modo far immediatamente cessare i disordini.
”A parlà co’ la bóca dèl canù / èl Capitane ‘ l ghia cridit chè Bressa / la sé sarès bötada ‘n zünüciù /
ma ‘-ha duit capì piö prèst chè ‘n frèssa / chè la pégora adès la faa debù / e ché la ghia dèi dèncc dè
leonèssa.” Traduciamo per chi non avesse capito, come il capitano Leshke, “che la pecora [Brescia]
adesso fa sul serio / e che aveva dei denti di leonessa”.
118 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Riportiamo ora per esteso il sonetto finale:
Fin tò màder, chè l’éra ‘na colómba,
‘na culumbina chè tremàa pèr gnènt,
nèl sènter a s.ciopà söi cóp ‘na bómba
la gha hit cör dè nó ciapà spaènt.
E mé cögnat, chè ‘l-hia ciapat ‘na piómba
dèl göst d’hì ötat a disarmà ‘n sergènt,
lèa sö mèz ciòc, tö föra ‘na sò trómba
e va söi cóp a strombetàga dènt.
Tremàa nüssü: gna braghe, gna sotane,
gna drécc, gna svergolacc, gna züegn, gna vècc;
parìa vignicc i dèncc anche a le rane;
e piö s.ciopàa le bómbe sura i tècc,
e piö sunàa dè léna le campane,
e chè tiràa le córde j-éra i s.cècc.
Perfino tua madre, che era una colomba,/ una colombin che tremava per niente,/ nel sentir
scoppiare sul tetto una bomba/ ha avuto il coraggio di non spaventarsi.
E mio cognato, che si era preso una sbronza/ dal piacere di aver aiutato a disarmare un sergente,/
s’alza dal letto mezzo ubriaco, tira fuori una sua tromba/ va sul tetto e ci dà dentro a strombettare.
Non tremava nessuno: né pantaloni, né sottane,/ né dritti, né storti, né giovani, né vecchi;/ parevan
cresciuti i denti anche alle rane;/ e più scoppiavano le bombe sopra i tetti,/ e più suonavano con forza
le campane,/ e chi tirava le corde erano i ragazzi. (la traduzione è nostra)
“I protagonisti di queste strofe sono due familiari del narratore, che sta raccontando al figlio, allora
non ancora nato, le vicende di cui è stato protagonista. La moglie, in altri momenti preoccupata e
impaurita, ritrova sotto le bombe un insospettato coraggio ed il cognato, incredulo e soddisfatto per
aver compiuto un gesto di coraggio, suona la carica dal tetto esposto ai colpi. E accanto a loro tutti, “il
popolo unanime” della lapide sotto la Loggia, partecipa all’impresa: donne e uomini, giovani e vecchi,
sani e acciaccati. Ed al cannone rispondono le campane suonate instancabilmente dai ragazzini”
Nei “capitoli” precedenti, il compito di “cantare”la patria – come dice il titolo del nostro lavoro – era
affidato al testo di canti poesie;abbiamo però cercato di leggere anche i testi delle lapidi nelle vie
della città, e dipinti, disegni e incisioni del nostro museo del Risorgimento.
“La scena è ambientata davanti a porta Torrelunga, dove gli
insorti sostennero l’attacco dei nemici dieci volte più numerosi.
Gli uomini ancora illesi combattono e innalzano il tricolore; le
donne soccorrono i feriti. La scena vuole narrare un evento, ma
anche celebrarlo. I personaggi sembrano essere messi in posa,
in una composizione piramidale che culmina con la bandiera
tricolore. Gli uomini rispondono al fuoco nemico con fucili, ma il
ferito in primo piano impugna una spada, “la spada nel pugno”
dell’Inno di Garibaldi . I personaggi centrali riportano alla mente
la scena della Deposizione, forse per sottolineare che il patriota
morente è una vittima innocente che dà la sua vita per gli altri.”
119 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
“Questo schizzo del pittore Angelo Inganni illustra la difesa
di porta Bruciata, per impedire ai nemici, ormai padroni della
città, di arrivare in piazza Loggia. Abituati ai quadri ad olio di
questo artista, accurati e sereni, ci ha sorpreso la modernità e
l’efficacia del disegno, che ci comunica con forza la violenza e
l’impeto disperato del combattimento corpo a corpo.”
“Scene di violenza e terrore a Torrelunga, nell’aria densa di
fumo e rosseggiante per le fiamme che escono dalle case
incendiate. Il dipinto dello Joli racconta la notte del 31 marzo.
Alcuni Bresciani fuggono spaventati, una donna cerca invano
di opporsi alla violenza nemica, mentre il figlio si aggrappa
alle sue gambe. In primo piano, tra cadaveri e oggetti
fracassati, materassi sventrati e mobili distrutti, i soldati
nemici sbevazzano con vino rubato nelle case saccheggiate.
Sullo sfondo i Ronchi con le abitazioni in fiamme.”
“Questa incisione è diversa dalle
altre che abbiamo visto, poiché
rappresenta le Dieci giornate in
modo allegorico. Gli Austriaci, in
divisa, sono cruenti e crudeli e
vengono ritratti come assassini di
bambini e donne. Nella stampa è
riconoscibile Carlo Zima avvinghiato all’Austriaco che gli ha dato fuoco.
Il patriota morente strappa con i denti, e le ultime forze, una bandiera
austriaca, mentre il tricolore con la scritta W L’ITALIA sventola sopra tutti.
Al centro un Bresciano pugnala l’Austriaco come si faceva con i tiranni.”
Dopo un’uscita in città alla ricerca dei luoghi degli avvenimenti e della memoria, le insegnanti ci
hanno chiesto di scegliere le iscrizioni che ci erano piaciute di più. Per la sua semplicità è piaciuta
quella posta sul monumento alle Dieci Giornate in piazza Loggia.
Il popolo insorto
contro l’austriaca tirannide
dieci giorni pugnava.
Molte preferenze hanno ricevuto due epigrafi brevi, poste rispettivamente in piazzetta Tito Speri, ed in
Castello, sulla palazzina Haynau (quest’ultima è ora quasi illeggibile)
Nel 1512 e nel 1849
in questa piazza fumante di strage
i Bresciani
respinsero più volte il feroce nemico
irrompente dal Castello
a sterminio della città
Ad Haynau
comandante le truppe imperiali
che minacciando esterminio
da questa casa
intimava alla città di arrendersi
il popolo intrepido
rispondeva combattendo
120 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Quella che meglio interpreta il senso della lotta è posta in piazzale Arnaldo.
Allorché Brescia
negando fede alla sconfitta di Novara
insegnò che il soccombere
può essere più glorioso e fecondo del vincere
fu qui la resistenza più sanguinosa
LE CITTÀ SORELLE
1849-1949
Centenario delle Dieci Giornate
Qui
dove il popolo unanime
alzò con impeto eroico
il grido di guerra
e lo ripetè
nella disperata difesa
come voto di morte
Brescia
sorella di Venezia e di Roma
nell’indomita fede
incide il ricordo dell’epica gesta
La libertà raggiunta col martirio
sia conquista non peritura
Abbiamo affiancato a questa epigrafe, posta sotto la Loggia, una litografia, trovata sempre
insieme ad un vecchio disco di canti patriottici, che rappresenta la popolazione veneziana sotto
il bombardamento austriaco. Nel 1849 tre città resistevano, unite nell’eroismo, nella speranza e
nell’”indomita fede”. L’ultima ad arrendersi, nel mese di agosto, sarà Venezia, bombardata, assediata,
vinta dalla fame e dal colera. “L’ultima ora di Venezia” è cantata da Arnaldo Fusinato, anch’egli, come
Luigi Mercantini, poeta, patriota, esule.
Il testo è lungo, facilmente rintracciabile, noi abbiamo isolato alcune strofe:
L’INCIPIT
È fosco l’aere,
il cielo è muto,
ed io sul tacito
veron seduto,
in solitaria
malinconia
ti guardo e lagrimo,
Venezia mia.
…
LA VICENDA
Passa una gondola
della città:
– Ehi, della gondola,
qual novità? –
– Il morbo infuria
il pan ci manca,
sul ponte sventola
bandiera bianca!…
LA MALEDIZIONE
Su le tue pagine
scolpisci, o storia,
l’altrui nequizie
e la sua gloria,
e grida ai posteri:
– Tre volte infame
chi vuol Venezia
morta di fame –
…
L’ESILIO
Ramingo ed esule
in suol straniero,
vivrai,Venezia,
nel mio pensiero;
vivrai nel tempio
qui del mio core
come l’immagine
del primo amore
…
Il tono della poesia è mesto, da collocare – per usare l’espressione del secondo capitolo – più tra i
pianti che tra gli squilli di tromba. Al secondo gruppo appartiene questa composizione di Mercantini,
composta nel 1857, dal titolo “Le anime degli italiani caduti alla difesa di Roma nel 1849”. Questo
inno, dal ritornello al doppio senario dei versi, riprende i modi della canzone di guerra, perché i morti
di Roma vogliono spronare i vivi a riprendere le armi per continuare la loro battaglia. Tra i morti di
Roma c’è Goffredo Mameli, l’autore del nostro inno nazionale. Il testo poetico inizia e si chiude così.
121 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Col brando alla destra, con l’elmo alla chioma,
lasciammo festosi le case paterne;
da tutta l’Italia sui valli di Roma
per tutti venimmo pugnando a morir.
E morti noi siamo. Tenemmo il gran giuro!
Ogn’anno al ritorno dei tempi giulivi
sui valli di Roma di nuovo siam vivi,
di nuovo le spade brandiamo a ferir.
Viventi d’Italia, ma voi dove siete
che a noi sulla fossa correste a giurar?
Viventi d’Italia, ma voi non sorgete?
La voce dei morti vi viene a chiamar!
Metro poetico e temi ricordano da vicino l’altro famoso canto di guerra, l’inno di Garibaldi: i morti che
risorgono, con la spada in pugno, per spronare e guidare i vivi.
Al nostro museo del Risorgimento appartiene questo olio su
tela, di Pietro Bouvier, che rappresenta Garibaldi che sostiene
Anita morente nelle valli di Comacchio. Sconfitta la Repubblica
Romana, Garibaldi aveva cercato, inutilmente, di raggiungere
Venezia che ancora resisteva in armi. In questo territorio
paludoso ed ostile della Romagna pontificia, si consuma il
dramma di Garibaldi che perde la donna amata e la compagna
di tante battaglie.
Abbiamo trovato una canzone , “O Venezia che sei la più bella” che unisce quattro città che, dopo
la Seconda guerra d’Indipendenza, erano ancore in schiavitù. Questo canto popolare, che abbiamo
trovato su Youtube ha una musica lenta e parole che un po’ ci hanno fatto sorridere, ma è molto
significativa. Non garantiamo sulla punteggiatura, perché non abbiamo trovato il testo scritto.
O Venezia che sei la più bella,
e tu, o Mantova, che sei la più forte
gira l’acqua intorno alle porte,
sarà difficile poterti pigliar.
Un bel giorno entrando in Venezia
vedevo il sangue scorreva per terra,
e i feriti sul campo di guerra
e tutto il popolo gridava “pietà!”
O Venezia ti vuoi maritare,
ma per marito ti daremo Ancona
e per dote le chiavi di Roma
e per anello le onde del mar.
E per anello le onde del mar.
L’immagine a fianco, una cartolina di guerra del ‘15-18, rappresenta
le ultime città sorelle, Trento e Trieste, finalmente riunite alla madre.
LE MADRI D’ITALIA
Passando per la città abbiamo notato che, fra le vie dai nomi patriottici, più d’una è dedicata a fratelli
caduti nelle battaglie risorgimentali: i fratelli Bandiera, i fratelli Bronzetti, i fratelli Cairoli…
E dietro, anzi avanti questi fratelli d‘Italia ci sono le loro madri, che li hanno visti partire, che li hanno
incoraggiati o che comunque hanno accettato la loro partenza.
122 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Bene esprime ciò l’inizio di una poesia dedicata da Mercantini alla madre dei fratelli Salvo, caduti nelle
battaglie italiane, Alfredo ad Ancona ed Emilio a Gaeta. Siamo nel salotto di una casa
piemontese, pieno di “riso e canto e suono e poesia”.
Due giovinetti, l’uno e l’altro armato,
con la divisa dal color turchino,
io vidi entrando che sedeanti a lato,
e ai quindici anni mi parean vicino:
tu, presili per mano, oh! ancor li vedo,
- Questo Emilio si chiama e questo Alfredo,
a me dicesti, e son figliuoli miei,
ma li vuole la Patria, e sian per lei -.
Abbiamo scelto ed accostato due diverse madri italiane, protagoniste in due poesie di diverso
autore e di diversa epoca: la prima – di Mercantini – si svolge sul campo di battaglia di S. Martino,
la seconda – di Piero Jahier – nella casa contadina di una valle, durante la Prima guerra Mondiale.
Posto all’ingresso del Museo del Risorgimento, questo quadro dell’Inganni mostra gli Zuavi sugli
spalti di san Giovanni a Brescia. Venuti dalla Francia come alleati,sono ripresi in un momento
di sosta. La scena è serena, quasi allegra: i Bresciani visitano l’accampamento, offrono vino,
fraternizzano. Grande è il contrasto con la battaglia che di lì a poco si scatenerà sui vicini colli di S.
Martino e Solferino. La violenza del combattimento e le migliaia di morti e feriti trasformarono la
nostra città in un immenso ospedale e convinsero Napoleone III a firmare l’armistizio di Villafranca,
che lasciava il Veneto in mano all’Austria. Questa dolorosa realtà fa da cornice alla storia che
segue, che ha per protagonista una madre veneziana e i suoi due figli combattenti.
123 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
LA MADRE VENETA
AL CAMPO DI SAN MARTINO
La sera del 12 luglio1859
Si fece bianca e le si chiuser gli occhi,
ma non poté mandar grida o lamento;
piegò davanti alla croce i ginocchi,
e così stava senza movimento:
di San Martino i flebili rintocchi
salutarono il dì ch’era ormai spento;
ella a quel suono in un gran pianto uscìo,
e giù cadde chiamando: – Attilio mio!
“Or che la tenda vostra è in sul confino,
perché, o figliuoli, niun di voi mi scrive?
Palestro alla Venezia è men vicino,
pur mi fu detto: – Attilio, Emilio vive –.
Dio! Chi sa quante madri a San Martino
fatte avrà il piombo dei lor figli prive!
Chi sa ch’una di quelle io pur non sia!...”
Così dicea la povera Maria.
Attilio mio, partendo mi dicesti:
“Ti porterò un bel fior di Lombardia…”
E tu, mio primo fior, tu qui cadesti,
né più verrai dov’io ti partorìa.
Venezia sarà tutta in gaie vesti,
e il bruno avrà la povera Maria;
ma io porrò sul bruno il tricolore,
ci porrò il nome tuo, mio santo amore.
Aspettò un giorno, aspettò un altro ancora,
né mai le venne lettera o imbasciata.
Alfin d’un bel mattin alla prim’ora
si mise in via la donna sconsolata
e camminò più dì senza dimora
in forma di mendica abbandonata.
Al dodici di luglio innanzi sera
passò Maria del Mincio la riviera.
Il nome ch’io ti posi hai ben portato,
ch’io per la patria ti nomava Attilio:
ma, dimmi, il tuo fratel dov’è restato?
S’ei fosse vivo, sarìa teco Emilio.
Oh, almen dentro a Venezia entrar soldato
vedessi lui sul ponte o col navilio!
Bella Venezia come non fu mai
sarà quel dì… ma tu non la vedrai…
– Chi sei, povera donna, e qua che vuoi? –
– Son veneziana e cerco i figli miei – .
– Che nome hanno e che schiera i figli tuoi?–
– Attilio, Emilio han nome, e son nel sei –.
– Mi duole, o donna, ma non son con noi –.
– Quanto ancor, per trovarli, andar dovrei?– Vedi: là quell’altura è San Martino,
ei son là dietro – e le insegnò il cammino.
“Bella né tu né io la rivedremo,
ché già Venezia nostra è sentenziata:
la regina del mar ritorna al remo,
e per maggior dolor sola è lasciata.
Povera madre! in sul confine estremo
per riveder noi due sei qui volata:
morto di ferro sta qui sotto Attilio,
io di dolore morirò in esilio”.
Tremò sentendo a nominar quel colle,
ed: – Ei son vivi?– dimandar volea;
ma la voce di subito mancolle,
e a stento su per l’erta il piè movea.
Col gomito al fucile e il ciglio molle
la scolta a riguardarla si volgea;
la poveretta come più saliva
più si sentia tremare, e impallidiva.
Così piangendo della madre in seno
Emilio si gittò tutto improvviso.
Ella, in vederlo, fu per venir meno,
ma al duro annunzio colorossi in viso:
gli occhi d’ira mandarono un baleno,
e in quei del figlio li teneva fiso;
presa la destra gli gridò: – Qui giura
che terrai l’arme fin che il cor ti dura.
E quando fu arrivata a quell’altura,
si chinò per guardar l’altro pendio,
e tutto le sembrò una sepoltura;
le sembrò udir gridare: – O madre, addio! –
E, vista ad una fossa una figura,
le braccia aperse e disse: – O figlio mio! –
Giurami qui del tuo fratel sull’ossa,
che te giammai non vincerà il dolore:
farà l’Italia nuovo sangue rossa,
e sarò lieta s’anco Emilio muore;
ma nel veneto suol sia la tua fossa:
così due terre unito avrà il mio cuore –.
124 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Ma giunta ove suonata avea la voce
vide segnato “Attilio” ad una croce.
Senza figli restiam, venete madri,
ma non resti Venezia in man dei ladri.
La seconda storia, raccontata in versi da Piero Jahier, poeta e volontario come tenente degli alpini
nella Prima guerra Mondiale, ha sempre per protagonista una madre che vede i suoi figli partire per il
fronte, nell’ultima guerra del Risorgimento . Diverse per sentimenti ed accenti, le due madri hanno in
comune forza d’animo e dignità.
MARE
Hanno preso il suo figliolo, ànno preso,
quello che l’era appena rilevato
e per andà non può essere andato
che nel posto più brutto indifeso.
E per restà non può essere restato
che dove tronca vita le granate
e quando ànno finito di troncare
scendono le valanghe a sotterrare.
E se non scrive è che vuol tornare
e queste notti è camminato e camminato
per chiedere una muta alla sua mare:
la muta era ben pronta al davanzale
e alla finestra mare lo ha aspettato.
L’ha aspettato infino alla mattina
quando squilla la tromba repentina
alla sua casa non può più rivare.
Hanno preso il suo figliolo alla mare.
Hanno preso il suo tosàt, ànno preso
quel c’era così tanto delicato
si ritrova lontano trasportato
nel bastimento sopra l’acqua acceso.
Di giorno il bastimento gli cammina
ma nella notte è sempre arrestato
e tutte l’acque bussan per entrare
dove al suo tosatèl sta addormentato.
Hanno preso il tosàt alla mare.
Hanno preso il suo omo, ànno preso
quello che la doveva accompagnare
che aveva giurato davanti all’altare
di non lasciarla sola a questo peso.
“Lui coi suoi bòcia è contento di andare”.
Non si è quasi voltato a salutare.
Hanno peso il suo uomo alla mare.
Questa cartolina di guerra vuole
consolidare il legame tra il soldato
e la sua famiglia che a casa pensa
a lui, ma ci dice anche che qui,
a mandare avanti il lavoro
quotidiano erano le donne,
rimaste sole con i vecchi e i
bambini.
E la mattina si è levata a solo
e à messo tutte le sue filigrane
à beverato le sue armente chiare
à steso tutti i suoi panni a asciugare
à agganciato il più grande suo paiolo
à apparecchiato il più bel fuoco acceso
e dopo si è seduta al focolare.
Anche se tornano non si può più alzare
ànno preso ànno preso anche la mare.
“Con una lingua che sta tra l’italiano popolare ed il dialetto, il poeta ci parla di una madre delle
sue valli, a cui la guerra ha arruolato non solo i due figli, ma anche il marito. Il figlio grande è in
125 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
montagna, tra i pericoli di granate e di valanghe; il piccolo è in marina e la madre immagina che,
di notte, il mare cerchi di impadronirsi della nave. Ma è soprattutto la partenza del suo uomo,
quello che doveva dividere con lei tutti i pesi di una vita faticosa, quello che ha seguito i figli
contento, senza quasi girarsi indietro, che pesa sulla vita della “mare”. La solitudine, più grande
delle fatiche quotidiane, non le toglie però coraggio e dignità. Non sappiamo se la vita della donna
finisce davvero o solo in modo metaforico, ma certo la mare se ne va solo dopo aver sistemato la
casa, aver acceso il fuoco, aver accudito il bestiame, essersi vestita con decoro”.
CAMICIE ROSSE
La spedizione dei Mille è il cuore, al museo del Risorgimento, dell’allestimento dedicato in questo
periodo a “L’Italia degli Italiani”. Siamo stati guidati nella visita dalle parole di due camicie rosse, il
bresciano di nascita Giuseppe Capuzzi e quello di adozione Giuseppe Cesare Abba, che ci hanno,
con le loro opere, mandato un “reportage dalla spedizione dei Mille”. I brani sono stati scelti da chi ha
curato il percorso tematico per noi alunni, organizzato proprio per i 150 anni d’Italia.
Chi sono i soldati dei Mille?
“Si odono tutti i dialetti dell’alta Italia, però i Genovesi e i Lombardi
devono essere i più: all’aspetto, ai modi e anche ai discorsi la maggior
parte sono gente colta. Vi sono alcuni che indossano divise da soldato:
in generale veggo facce fresche, capelli biondi o neri, gioventù e vigore.
Teste grigie ve ne sono parecchie; ne vidi anche cinque o sei affatto
canute; ho notato sin da stamane qualche mutilato. Certo sono vecchi
patriotti, stati a tutti i moti da trent’anni in qua”.
A fianco delle parole di Cesare Abba, scritte in “Da Quarto al Volturno”, ci sono, ben i posa, i nostri
concittadini in camicia rossa.
Tra i Mille c’era anche una donna padovana, Tonina Marinello, che, vestita come un uomo, ha
combattuto a fianco al marito, ricevendo una promozione sul campo. Morta nel 1862, fu sepolta nel
cimitero fiorentino di San Miniato, come racconta la canzone a lei dedicata.
L’abbiam deposta la garibaldina
all’ombra della torre a San Miniato.
Con la faccia rivolta alla marina
perché pensi a Venezia e al lido amato.
Era bella, era bionda, era piccina,
ma avea un cor di leone e da soldato
di leone e da soldato!
L’abbiam deposta la garibaldina
all’ombra della torre a San Miniato.
E se non fosse che era nata donna
or sarìa scolpita sulla tomba
e poserebbe sul funereo letto
con la medaglia del valor sul petto
con la medaglia del valor sul petto.
126 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Ma che val, ma che vale tutto il resto…
pugnò con Garibaldi…
pugnò con Garibaldi…
e basti questo…
e basti questo!
L’abbiam deposta alla garibaldina
all’ombra della torre a San Miniato.
Come erano equipaggiati i Mille? È sempre cesare Abba a parlare:
“Intanto che si aspetta l’acqua, fanno la distribuzione delle armi. Ne ho avuta una anch’io, uno
schioppo rugginoso che, Dio mio! E m’hanno dato un cinturino che pare d’un birro, una giberna,
una baionetta e venti cartucce: Ma non si diceva a Genova che avremmo avuto delle carabine
nuovissime? C’è di peggio.”
Nella vetrina ci sono i fucili, le pistole, le sciabole e le giberne, ma la nostra attenzione è attirata dalle
camicie rosse. A loro è dedicato il canto, che si intitola appunto “Camicia rossa”, che abbiamo scelto
fra tanti. Ci sono diverse versioni, che variano per numero di strofe e nelle parole: noi riportiamo qui la
versione che preferiamo.
Quando all’appello di Garibaldi
Tutti i suoi figli, suoi figli baldi
daranno insieme fuoco alla mina
camicia rossa garibaldina.
E ti svegliasti nel sol d’aprile
e dimostravi che non sei vile
per questo, appunto, mi sei più cara
camicia rossa, camicia rara.
Porti l’impronta di mia ferita,
sei tutta lacera, tutta scucita:
per questo, appunto, mi sei più cara
camicia rossa, camicia rara.
Lodi la gloria dell’ardimento,
il tuo colore mette spavento;
vedersi a Roma, poi nella fossa
cadremo insieme, camicia rossa.
In una vetrina del museo abbiamo visto un abbigliamento un po’ diverso: è il
poncho di Garibaldi che, come la sella, sono un ricordo del periodo passato in
Uruguay. Eroe avventuroso o avventuriero, Garibaldi riportò comunque da quel
periodo, oltre all’amata moglie Anita, fama di condottiero in grado di portare
alla vittoria i “suoi figli baldi”, come dice la canzone.
Dice di lui Capuzzi:”Io mi trovavo a bordo del Piemonte, quando un uomo di
belle forme, collo sguardo dolce ed arido, vestito modestamente ed avvolto in un mantello, comparve
al posto del capitano, era Garibaldi, l’antico condottiero di mare che a Montevideo aveva mostrato la
sua valentia, era il nostro generale che guidava sulle acque del Mediterraneo la sua schiera. La fama
di tanta perizia ci fece benedire la presenza di quell’uomo…”
127 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Inizia con Garibaldi, partito “per difendere il confine uruguaiano, / con un esercito che parla italiano”,
una canzone diversa dalle altre ascoltate durante il nostro lavoro: “Camicie rosse”, di Massimo
Bubola, è infatti dei giorni nostri e noi l’abbiamo ascoltata, cantata da Fiorella Mannoia.
Quando la luna arriva a Genova
e la mia lettera da te
lì sarà quasi estate mentre qui l’inverno arriverà
e con l’inverno un altro anno passerà.
A Torino si dice che sei un bandito
e che stai andando alla deriva
su un battello, a difendere il confine uruguaiano
con un esercito che parla in italiano.
Camicie rosse alla ventura
in un tripudio di bandiere,
Camicie rosse, così nessuna
delle ferite si può vedere.
A volte il coraggio è come la fame,
che parti randagio per terre lontane,
e mangi pane e lacrime, e le lacrime sono acqua salata,
che più ne bevi e meno ti disseta.
E a volte il coraggio è di ritornare,
senza aver fatto fortuna dall’altra parte del mare
per inseguire una stella che gira gira ti porterà
a menare le mani per la libertà.
Camicie rosse alla ventura
in un tripudio di bandiere,
camicie rosse, così nessuna
delle ferite si può vedere.
Signora fortuna che brilli di notte,
che ci mostri la strada e ci insegni le rotte
proteggi questo esercito di studenti e di sognatori,
aggiungi al firmamento i nostri mille cuori.
“Questa canzone racconta la storia di Garibaldi e dei suoi uomini e ci ricorda la loro lotta per la libertà,
di qua e di là dal mare. Mi è piaciuto molto il ritornello, dove si dice che le camicie sono rosse per
nascondere il sangue delle ferite; molto bella è anche l’ultima strofa, nella quale si chiede alla fortuna
di proteggere i mille cuori dei sognatori che hanno seguito Garibaldi nella sua impresa temeraria.”
Nel museo la nostra guida ci ha spiegato che Garibaldi aveva portato con sé dal Sudamerica le
camicie rosse, là usate dai macellai per nascondere le macchie di sangue. Nella canzone, dietro il
gioioso sventolio delle bandiere, le ferite di questi uomini vengono nascoste non solo dal panno rosso,
ma soprattutto dal loro coraggio.
IL CUORE DEGLI ITALIANI
Raggio perenne di libertà
nel sangue dei martiri
fecondi cittadine virtù
(dal monumento agli insorti bresciani in Castello)
128 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Fatta l’Italia, dobbiamo fare gli Italiani
Massimo D’Azeglio
E per fare gli Italiani, per educarli alle cittadine virtù, oltre che per vincere
un diffusissimo analfabetismo era stata istituita la scuola elementare.
Edmondo De Amicis, l’autore del famosissimo libro “Cuore”, aveva notato
come i libri di testo usati fossero di scarsa qualità ed inadatti allo scopo di
liberare dall’ignoranza e di rendere buoni cittadini i piccoli Italiani di fine
Ottocento. Per loro scrisse questo libro, alternando sapientemente, come si
direbbe oggi, tre diverse tipologie testuali: il diario, la lettera ed il racconto.
Ancora oggi il libro viene ristampato e letto, ma l’insegnante ci ha portato
in classe una copia del 1920, appartenuta a suo suocero che lo aveva
ricevuto in dono ad otto anni. Trentaquattro anni dopo, sulla prima pagina,
aveva scritto una dedica al figlio, che compiva in quel giorno gli anni: “A
Robertino, nel bel giorno del suo ottavo compleanno, perché riponga nel
suo piccolo cuore i tesori di bontà che offre questo grande “Cuore”! Papà”.
Questo ci ha fatto capire come questo libro sia passato di generazione in
generazione, per educare i piccoli a seguire le orme dei padri nella via delle
cittadine virtù.
In che modo, negli anni successivi alla proclamazione del Regno d’Italia, si
considerava e si celebrava la patria?
A pagina 7 della nostra edizione, è riportato un brano dal titolo “Il ragazzo calabrese”.
Ieri… entrò il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con
gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte… che guardava noi con quegli occhioni neri, come
spaurito. Allora il maestro gli prese una mano, e disse alla classe: – Voi dovete essere contenti. Oggi
entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria a più di cinquecento miglia di qui.
Vogliate bene al vostro fratello venuto da lontano. Egli è nato in una terra gloriosa, che diede all’Italia
degli uomini illustri, e le dà dei forti lavoratori e dei bravi soldati; in una delle più belle terre della
nostra patria, dove son grandi foreste e grandi montagne, abitate da un popolo pieno d’ingegno e di
coraggio. Vogliategli bene, in maniera che non s’accorga di essere lontano
dalla città dove è nato; fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque
scuola italiana metta piede, ci trova dei fratelli –.
… Il maestro gli assegnò il posto e lo accompagnò al banco. Poi disse
ancora: – Ricordatevi bene di quello che vi dico. Perché questo fatto
potesse accadere, che un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a
Torino, e che un ragazzo di Torino fosse come a casa propria a Reggio
di Calabria, il nostro paese lottò per cinquant’anni e trentamila Italiani
morirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti fra voi; ma chi di voi offendesse
questo compagno perché non è nato nella nostra provincia, si renderebbe
indegno di alzare mai più gli occhi da terra quando passa una bandiera
tricolore –.
Appena il calabrese fu seduto al suo posto,i suoi vicini gli regalarono delle
penne e una stampa, e un altro ragazzo, dell’ultimo banco, gli mandò un
francobollo di Svezia.
Più avanti, nel mese di Gennaio, la patria ricompare in una lettera del padre
di Enrico, il protagonista.
Le parole del padre di Enrico sono, per noi che viviamo più di un secolo
dopo, distanti solo nel tono un po’ enfatico, nelle immagini scelte, o
addirittura nel senso?
129 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Certo il padre che ripudia il figlio, qualora abbandonasse i suoi compagni sul campo di battaglia, ci ha
colpito, ma forse meno della madre veneta che, al figlio sopravvissuto alla carneficina della battaglia,
chiede di morire piuttosto che accettare la sconfitta della patria.
Prima di leggere questo brano, l’insegnante ci aveva chiesto di scrivere, di getto ed in maniera
anonima, alcune righe che esprimessero la nostra idea di patria.
Solo una persona ha risposto con un punto di domanda, alcuni hanno sottolineato il legame di lingua,
tradizioni, affetti ed ideali comuni, alcuni hanno collegato la patria alla lotta, ai sacrifici, alla libertà
ottenuta combattendo.
Ci siamo chiesti cosa significasse, all’inizio, il riferimento al Tamburino. Abbiamo così visto che nel
libro sono presenti dei racconti mensili, che hanno insieme lo scopo di interessare ed educare gli
alunni. I protagonisti sono ragazzi di diverse regioni italiane, che si sono comportati da eroi.
La piccola vedetta lombarda muore sotto il fuoco austriaco, perché si espone, sulla cima di un albero,
per comunicare ai soldati italiani la presenza dei nemici. Il tamburino sardo salva la vita a molti soldati
attaccati dagli Austriaci, portando un messaggio sotto le pallottole, senza fermarsi nonostante una
ferita alla gamba, che gli verrà amputata. Il protagonista di Naufragio cede il suo posto sulla scialuppa
di una nave che sta affondando ad una giovane amica. Il Piccolo scrivano fiorentino passa notti
vegliando per aiutare, di nascosto , il padre oppresso da pochi soldi e troppo
lavoro. In Sangue romagnolo un ragazzo un po’ monello muore pugnalato, facendo da scudo alla
nonna che aveva riconosciuto un ladro penetrato in casa di notte. C’è chi, come Marco, compie un
lungo, avventuroso e un po’ inverosimile viaggio Dagli Appennini alle Ande per ritrovare la madre
emigrante che non dà più notizie, chi assiste uno sconosciuto gravemente ammalato – è l’Infermiere
di Tata – e chi, ragazzo affamato, selvatico e ignorante, ceduto dai poveri genitori a saltimbanchi
girovaghi, rifiuta i soldi che gli sono stati donati da alcuni compagni di viaggio stranieri, perché li
sente sparlare del suo paese: è il Piccolo patriotta padovano. Appare quasi ordinaria amministrazione
il gesto del ragazzo che riceve una medaglia al Valor civile per aver coraggiosamente salvato un
compagno che stava per annegare.
Davvero una volta storie narrate in modo così semplice, piene di grandi sentimenti, ma senza
nessun “effetto speciale”costituivano un appuntamento desiderato, un evento che suscitava tanto
entusiasmo, più dell’inizio delle vacanze?
L’illustrazione, tratta
dal vecchio “Cuore”
del 1920, ci mostra
la piccola vedetta
lombarda coperta
dai fiori lanciati dai
bersaglieri italiani in
marcia.
130 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
FRATELLI D’ITALIA
Abbastanza concordemente gli storici ritengono che l’unità d’Italia si sia compiuta con la Grande
Guerra del ’15-’18. Non soltanto perché sono state conquistate Trento e Trieste, le terre “irredente”,
ma soprattutto perché sui campi di battaglia insanguinati e nelle trincee fangose si sono trovati fianco
a fianco soldati provenienti da ogni parte d’Italia, che hanno condiviso sacrifici, paure, sangue.
Le voci che cantano queste imprese belliche e questa vittoria poche volte hanno il tono eroico delle
canzoni di guerra del Risorgimento: gli squilli di tromba che celebrano la vittoria sono quasi soffocati
dalle parole dolenti e prive di retorica di chi ha vissuto la guerra come un’inimmaginabile strage.
Giustamente però un tono “trionfante” di orgogliosa soddisfazione caratterizza il bollettino di guerra,
inviato dal generale Diaz il 4 novembre 1918:
La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S. M. il Re, duce supremo, l’Esercito
Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e
tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta.
…
I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza
le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.
Agli “squilli di tromba” appartiene anche la famosissima Leggenda del Piave, che fa parlare il fiume
sul quale resistettero le truppe italiane dopo la disastrosa rotta di Caporetto.
La partenza delle truppe per il fronte:
Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il 24 maggio,
l’esercito marciava per raggiunger la frontiera
per far contro il nemico una barriera!
La disfatta di Caporetto:
Ma in una notte triste si parlò di tradimento
e il Piave udiva l’ira e lo sgomento.
Ahi, quanta gente ha visto venir giù, lasciare il tetto
per l’onta consumata a Caporetto.
La resistenza e la vittoria
Fu sacro il patto antico, tra le schiere furon visti
risorgere Oberdan, Sauro e Battisti!
Infranse alfin l’italico valore
le forche e l’armi dell’Impiccatore!
Sicure l’Alpi, libere le sponde,
e tacque il Piave, si placaron l’onde.
Sul patrio suolo, vinti i torvi imperi,
la Pace non trovò né oppressi, né stranieri!
In tutte le circostanze il Piave partecipa alle vicende belliche e parla, alternando parole di
rassicurazione ad altre di sprone e incoraggiamento.
Ma le voci che più commuovono sono quelle di poeti, che partiti tutti volontari e, immaginiamo, pieni
di entusiasmo patriottico, si sono scontrati ben presto con una realtà brutale e inumana.
131 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Questo è solo una parte del grande dipinto, Messa al campo di
Emilio Rizzi, che è visibile nei pressi dell’ingresso al museo del
Risorgimento. La moltitudine dei soldati è a capo chino per motivi
religiosi, ma noi possiamo vedere in modo simbolico la stanchezza
dei soldati in grigioverde.
Abbiamo scelto, per rappresentare la tragedia della guerra, due
poesie: una è di un autore famoso, Ungaretti, l’altra è meno
conosciuta, ma forse persino più bella nella sua crudezza.
Clemente Rebora
VIATICO
O ferito laggiù nel valloncello,
Tanto invocasti
Se tre compagni interi
Cadder per te che quasi più non eri,
Tra melma e sangue
Tronco senza gambe
E il tuo lamento ancora,
Pietà di noi rimasti
A rantolarci e non ha fine l’ora,
Affretta l’agonia,
Tu puoi finire,
E conforto ti sia
Nella demenza che non sa impazzire,
Il sonno sul cervello.
Lasciaci in silenzioGrazie, fratello.
I sopravvissuti alla battaglia, davanti alle grida del compagno senza gambe, che urla nella “terra di
nessuno”, sono i più disperati del moribondo, perché la loro agonia non è destinata a finire.
Questa e la prossima poesia sono accomunate dalla parola “fratelli”:
Giuseppe Ungaretti
FRATELLI
Mariano il 15 luglio 1916
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
132 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 6 Cantare l’Italia
Non è però con questa poesia, pur bellissima, che vogliamo concludere il nostro lavoro. Ci sono i
fratelli, ma non c’è l’Italia. Che invece è presente nella terza poesia della sezione: Piero Jahier senza
retorica presenta la sua idea di patria.
Piero Jahier
DICHIARAZIONE
Altri morirà per la Storia d’Italia volentieri
e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita.
Ma io per far compagnia a questo popolo digiuno
che non sa perché va a morire
popolo che muore in guerra perché “mi vuol bene”
“per me“ nei suoi sessanta uomini comandati
siccome è il giorno che tocca morire.
Altri morirà per le medaglie e le ovazioni
ma io per questo popolo illetterato
che non prepara guerra perché di miseria ha campato
la miseria che non fa guerre, ma semmai rivoluzioni.
Altri morrà per la sua vita
ma io per questo popolo che fa i suoi figlioli
perché sotto coperte non si conosce miseria
popolo che accende il fuoco solo a mattina
popolo che di osteria fa scuola
popolo non guidato, sublime materia.
Altri morirà solo, ma io sempre accompagnato:
eccomi, come davo alla ruota la mia spalla facchina
e ora, invece, la vita.
Sotto, ragazzi
se non si muore
si riposerà, allo spedale.
Ma se si dovesse morire
basterà un giorno di sole
e tutta Italia ricomincia a cantare.
Termina così, senza retorica, ma con un’idea alta della Patria, il nostro lavoro per “cantare l’Italia”.
E l’ultima immagine parla ancora di canti. Qui un po’ di sana retorica c’è, ma ci sta bene su
un’epigrafe.
Li ho visti i ragazzi del ‘99
andavano in prima linea cantando.
Li ho visti tornare in esigua schiera
cantavano ancora
il generale Diaz
Note
I testi che sono tra virgolette sono stati scritti da particolari alunni; in tondo normale, invece, le parti scritte in comune e
rielaborate con l’insegnante.
133 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 7 Fisionomie del Risorgimento
135 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 7 Fisionomie del Risorgimento
A seguito di questa prima visita gli studenti si sono dedicati
all’attività più significativa del progetto: dopo aver rielaborato
i concetti appresi e dopo aver steso delle copie di studio
degli oggetti da loro scelti, si sono recati una seconda volta
in visita al museo. Qui hanno potuto prendere una maggior
confidenza con le opere da riprodurre, osservarle con
attenzione ed analizzarle, arrivando in tal modo a realizzarne
delle copie dal vero accompagnate da schedature di
commento.
La copia dal vero
Sotto la guida dell’insegnante di arte i ragazzi si sono dedicati
alla realizzazione di copie dal vero di alcuni oggetti contenuti
all’interno della casa-museo.
Mediante l’impiego di semplici regole è stato possibile cogliere l’equilibrio, l’armonia e le proporzioni
nelle relazioni anatomiche e morfologiche degli oggetti di studio.
Non solo sono stati ottenuti risultati interessanti dal punto di vista della resa ma, tramite la
rielaborazione personale delle opere, è stato possibile assimilare la capacità di riconoscere le
espressioni di emozioni e sentimenti.
La riproduzione di immagini nella copia dal vero ha quindi rappresentato un momento di formazione
per le potenzialità creativo-razionali dei ragazzi.
Il punto di vista dei ragazzi
Fra tutti gli oggetti presi in visione nella casa lonatese di Ugo Da Como ne
abbiamo scelti alcuni per realizzarne delle copie con diverse tecniche (matita,
matite colorate, tratto pen). La selezione è avvenuta dando maggiore interesse
a quei personaggi che giocarono un ruolo di rilievo nel periodo risorgimentale
e che in una qualche maniera furono collegate con la figura di Ugo Da Como.
Innanzitutto abbiamo preso in considerazione la figura di Giuseppe Da Como,
padre di Ugo, del quale abbiamo analizzato una fotografia: egli infatti fu un
personaggio importante per il suo ruolo nelle Guerre di Indipendenza e perché
credeva fortemente negli ideali patriottici e risorgimentali, che trasmise con
profonda convinzione anche al figlio. Proprio per l’influenza paterna, Ugo Da
Como fu sempre appassionato studioso del periodo, al quale dedicò moltissimi
lavori, circondandosi anche di diversi oggetti dell’epoca. In una delle stanze
della casa-museo, ad esempio, si trova una parete arredata con diverse
fotografie e ritratti di famiglia, tra i quali abbiamo potuto scorgere anche quelli di personaggi del
calibro di Cavour e di Vittorio Emanuele II: ciò testimonia l’importanza che Ugo Da Como attribuiva
a tali personaggi, una sorta di ideali familiari. Per la scelta degli altri oggetti da studiare, quindi,
ci siamo basati principalmente sulle “indicazioni” che lo stesso Senatore, attraverso i cimeli di
sua proprietà, fornisce riguardo all’importanza da lui data ai vari personaggi che vi compaiono. Di
conseguenza, abbiamo fatto diverse copie dal vero di alcuni oggetti (statue, medaglie, fotografie)
raffiguranti Camillo Benso Conte di Cavour e Vittorio Emanuele II.
Infine, abbiamo rivolto un’attenzione particolare ad una medaglia raffigurante Giuseppe Garibaldi:
nella casa museo sono presenti infatti diversi riferimenti alla sua persona, il più importante dei
quali è una lettera inviata da Garibaldi stesso a Giuseppe Da Como, per ringraziarlo di un’opera da
quest’ultimo scritta e all’eroe del Risorgimento dedicata.
Abbiamo intrapreso con entusiasmo queste attività, che si sono rivelate per noi studenti un’ottima
occasione per prendere confidenza con l’ambiente del museo, per mettere a frutto le nostre
conoscenze e abilità artistiche e manuali, e al contempo abbiamo avuto la possibilità di affrontare
in modo attraente e inusuale lo studio e l’approfondimento di un periodo fondamentale per la
nostra Storia.
136 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Percorsi didattici
Unità e identità: 150 anni di storia
Scuole superiori
Chi e dove
Classi coinvolte
Docenti referenti
progetto 8
Liceo Scientifico Enrico Fermi - Salò
Terza C, Terza H
Gianluca Chiodini, Laura Truzzi
La formazione del concetto
di Italia
Nella Romanità e nella letteratura latina
e la sua persistenza nella letteratura
italiana delle origini attraverso l’opera
di Dante e Petrarca
1.1 ITALIA: origine ed estensione geografica del nome
L’etimologia, e quindi il significato del nome “Italia” è tuttora controverso.
Numerosi sono stati i tentativi da parte non solo di linguisti, ma anche di storici, di ricostruzioni
e spiegazioni etimologiche che con il tempo hanno costituito un ampio corpus di soluzioni, tra le
quali numerose sono quelle che si riferiscono a tradizioni non dimostrate o comunque fortemente
problematiche, come l’esistenza di un mitico re Italo o il riferimento alla vite.
Già nel 1899, Malgeri avvertiva che la questione relativa al significato del nome restava la più difficile
ed era in definitiva irrisolvibile perché nessuno poteva sapere a quale lingua fosse appartenuto il
nome “Italia” (E. Malgeri, Sul nome Italia. Nuove osservazioni, Messina, 1899).
Nella ridda di ipotesi (si sono proposte origini africane, etrusche, greche e perfino semitiche) quella
che rimane più probabile è la sua derivazione dall’osco “viteliu”, che a sua volta passò al latino con la
caduta della “V” iniziale.
Si ritiene che Víteliú significasse “terra di bovini giovani” (cfr. latino vitulus, umbro vitlo), nel senso che
il territorio fosse ricco di bovini o che il vitello vi rappresentasse un animale sacro. Questa tradizione,
attestata in numerosi autori romani quali Varrone, Gellio, Festo, poggia anche sul fatto che il toro è
stato un simbolo molto diffuso presso quelle genti della penisola che, al centro-sud, si opponevano
all’avanzata della cultura romana, tanto da essere spesso eloquentemente raffigurato sulle monete
italiche nell’atto di incornare una lupa.
Per quanto riguarda invece l’estensione territoriale del termine parrebbe abbastanza sicuro che il nome
“Italia” inizialmente indicasse solo la parte posta nell’estremo meridione della penisola (ossia l’odierna
Calabria): pur se anche su questo punto si registrano posizioni discordi da parte degli studiosi moderni,
le fonti antiche sembrerebbero invece abbastanza concordi.
Infatti Erodoto, storico greco del IV a.C., con tale nome indicava la parte meridionale della penisola,
l’antico Bruttium (attuale Calabria), poi il nome si estese ad indicare i connazionali della Magna Grecia,
che venivano detti Italiótai.
Il nome “Italia” è comunque tramandato fin dal V secolo a. C., quando già prevaleva su una pletora di
nomi corrispondenti, di varia origine (Espéria,Ausónia, Enótria, ecc.). Esso designava allora la penisola
calabrese e la vicina costa ionica del Metaponto, ma all’inizio doveva limitarsi a quell’estrema parte della
Calabria, che giace a sud dei Golfi di S. Eufemia e di Squillace.
142 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 8 La formazione del concetto di Italia
Antioco di Siracusa nel V secolo a. C. così scriveva:
“L’intera terra fra i due golfi di mari, il Nepetinico [S. Eufemia] e lo Scilletinico [Squillace],
fu ridotta sotto il potere di un uomo buono e saggio,che convinse i vicini, gli uni con le parole, gli altri
con la forza. Questo uomo si chiamò Italo che denominò per primo questa terra Italia.
E quando Italo si fu impadronito di questa terra dell’istmo, ed aveva molte genti che gli erano
sottomesse, subito pretese anche i territori confinanti e pose sotto la sua dominazione molte città”.
Questa tradizione, in verità piuttosto leggendaria e non dimostrabile storicamente, fu ripresa anche da
Dionigi di Alicarnasso (I Secolo a.C.) e Aristotele (IV Secolo a.C.).
“Antioco, figlio di Senofane, ha raccolto e scritto queste cose sull’Italia trascegliendo dagli
antichi racconti le informazioni più affidabili e sicure; quella che oggi si chiama Italìa, in antico la
possedevano gli Enotri”. (Dionigi di Alicarnasso,Antichità romane, I, 11-12).
“Antica sembra essere anche l’istituzione dei sissizi, quelli di Creta risalendo al regno di Minosse,
ad epoca molto più antica invece quelli d’Italia. Dicono infatti gli esperti delle popolazioni che vivono
lì, che divenne re dell’Enotria un certo Italo, dal quale si
sarebbero chiamati, cambiando nome, Itali invece che
Enotri. Dicono anche che questo Italo abbia trasformato
gli Enotri, da nomadi che erano, in agricoltori e che
abbia anche dato ad essi altre leggi, e per primo istituito
i sissizi. Per questa ragione ancora oggi alcune delle
popolazioni che discendono da lui praticano i sissizi e
osservano alcune sue leggi”. (Aristotele, Politica,VII, 9, 2)
Tra il IV e II secolo a. C. il nome Italia progressivamente si estese
includendo prima il Mezzogiorno continentale a Sud di Paestum,
sulla costa tirrenica, poi la Campania; dopo la Prima Guerra Punica,
comprendeva quasi l’intera Penisola, fino all’Arno e all’Esino, allora limiti
del dominio romano.
1.2 Il concetto di Italia romana
L’Italia non solo fu il teatro di buona parte degli eventi della storia romana, in particolare nella sua prima
fase, ma fu anche la principale base della potenza di Roma: fu principalmente grazie al potenziale
umano e alle risorse dell’Italia che Roma riuscì a conquistare un impero.
La consapevolezza di questo fatto emerge chiaramente in un celebre passo di Polibio (II Secolo a.C.), nel
quale lo storico registra gli effettivi che Roma poteva mobilitare nel 225 a.C., per fronteggiare l’ultima
grande invasione della penisola da parte dei Galli e li confronta con l’esiguo esercito col quale Annibale
avrebbe attaccato Roma appena qualche anno più tardi.
“Perché risulti chiaro, solo sulla base dei fatti, quanto era grande la potenza che Annibale osò
attaccare e quanto grande l’impero che egli affrontò temerariamente, raggiungendo il suo proposito
fino al punto di precipitare i Romani in gravissime sventure, bisognerà dire i mezzi e le quantità
delle forze che erano allora a loro disposizione. Con i consoli dunque, erano uscite in spedizione
quattro legioni romane, ciascuna comprendente 5.200 fanti e 300 cavalieri. Gli alleati schierati
con tutti e due gli eserciti erano complessivamente 30.000 fanti e 2.000 cavalieri. Dei Sabini e dei
Tirreni venuti in soccorso di Roma in tutta fretta erano circa 4.000 cavalieri e oltre 50.000 fanti. …
Gli Umbri e i Sarsinati abitanti dell’Appennino furono radunati in circa 20.000 e con loro 20.000
Veneti e Cenomani. …Queste, dunque, le truppe che presidiavano il territorio.A Roma, invece,
stazionavano, preparati per le evenienze della guerra, nel ruolo di corpo di riserva, degli stessi
Romani 20.000 fanti e con loro 1.500 cavalieri, e degli alleati 30.000 fanti e 2.000 cavalieri. Le liste
d’arruolamento furono così presentate: dei Latini 80.000 fanti e 5.000 cavalieri, dei Sanniti 70.000
143 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 8 La formazione del concetto di Italia
fanti e, con questi, 7.000 cavalieri, degli Iapigi e dei Messapi, poi, complessivamente, 50.000 fanti
e 12.000 cavalieri, dei Lucani 30.000 fanti e 3.000 cavalieri, dei Marsi, Marrucini, Frentani e Vestini
20.000 fanti e 4.000 cavalieri. Inoltre, in Sicilia e a Taranto stavano di riserva due legioni, ciascuna
delle quali era di 4.200 fanti e 200 cavalieri. Fra Romani e Campani fu registrata una massa di circa
250.000 fanti e c’erano poi 23.000 cavalieri, mentre la quantità complessiva di quelli in grado di
portare le armi era di oltre 700.000 fanti e di circa 70.000 cavalieri. Contro di loro,Annibale invase
l’Italia con meno di 20.000 uomini” [Polibio. Storie II, 24,1-17] .
Il passo dello storico greco, discutibile in merito all’attendibilità delle cifre tramandate e alla possibilità
che esse si riferissero a tutti i maschi adulti o piuttosto solamente alle persone che effettivamente
potevano essere reclutate per il servizio militare attivo, è comunque di notevole interesse per rilevare il
ruolo fondamentale che gli alleati e i Latini avevano nelle forze armate romane, rappresentando ben oltre
la metà degli effettivi a disposizione.
Inoltre tale passo, in cui gli Italici si identificano con gli alleati di Roma, mostra come il concetto di Italia
si definisca in rapporto con Roma. Questo rapporto emerge regolarmente nelle fonti sull’Italia antica in
età romana: la regione, che di fatto era un mosaico di popoli e comunità con culture, lingue, strutture
politiche, economiche e sociali assai differenti, ritrova la sua unità con Roma, oppure contro Roma.
Proprio Annibale, dopo le vittorie sui fiumi Ticino e Trebbia e prima del grande scontro sul lago
Trasimeno, aveva cercato di sfruttare la tensione esistente tra Roma e i suoi alleati italici.
Ancora Polibio ci fa da guida a questo proposito:
“Annibale, svernando in Gallia, teneva sotto severa sorveglianza i Romani fatti prigionieri in
battaglia, facendo loro somministrare solo i viveri strettamente necessari, trattava invece con
grande mitezza i loro alleati; infine riunì tutti insieme questi ultimi, per rivolgere loro un’allocuzione
e dichiarare che non era venuto per combatterli, ma per combattere in loro difesa contro i
Romani. Se conoscevano il loro interesse, egli disse, dovevano assolutamente abbracciare la
sua causa. Egli era lì infatti prima di tutto per ristabilire l’indipendenza degli Italici e insieme per
recuperare le città e il territorio di cui ognuno era stato privato ad opera dei Romani. Detto questo,
lasciò che tutti ritornassero senza riscatto alle proprie case, volendo così da una parte accattivarsi
gli abitanti dell’Italia, dall’altra alienare gli animi dai Romani e incitare alla ribellione quanti
stimavano che le loro città o i loro porti avessero subito qualche danno a causa del dominio
romano” [Polibio. Storie III, 77, 3-7].
Durante il periodo repubblicano l’Italia si configurava come una federazione di territori con diversi
status amministrativi: le città erano distinguibili in municipia aventi una certa indipendenza e
autonomia politico-amministrativa, e in coloniae, città di nuova fondazione che i romani avevano
creato allo scopo di antropizzare un territorio non abitato o come avamposto militare per controllare le
zone di frontiera politicamente instabile.
Le colonie a loro volta si distinguevano tra colonie di diritto latino e colonie di diritto romano (colonia
civium romanorum), le prime costituite da cittadini romani che si trasferivano in esse, perdendo la
cittadinanza e acquisendo una autonomia amministrativa locale; le seconde invece costituite da
romani che mantenevano la propria cittadinanza. Oltre a queste realtà civiche riconosciute a livello
amministrativo, il territorio italico presentava una moltitudine di altri aggregati e agglomerati che non
costituivano tuttavia dei referenti per la politica né per l’amministrazione, e di cui ci dà testimonianza
la Lex Rubria de Gallia Cisalpina (49 a.C.): fora, conciliabula, oppida, vici, castella.
Anche dopo la fine delle guerre puniche e la conseguente espansione romana nel Mediterraneo, le
tensioni tra Romani e alleati non si placarono, soprattutto a causa del rifiuto da parte del Senato della
concessione del beneficio della piena cittadinanza romana agli Italici (ottenuta solo nell’88 a.C.).
Si giunse così alla guerra sociale del 91-89 a.C., quando gli alleati (socii) italici si ribellarono alla città
egemone e coniarono un’interessante serie di monete nella quale è evidente la contrapposizione
ideologica tra Roma e l’Italia.
144 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 8 La formazione del concetto di Italia
Nell’esemplare mostrato, un
denario che venne coniato
nel 90 a.C., la figura di Italia,
identificata dalla legenda,
appare seduta su di una pila
di scudi, con la lancia nella
destra; dietro di lei la Vittoria,
che le pone una corona sul
capo.
Altri esempi di monete
risalenti alla guerra sociale
del 91-89 a.C.
Il concetto di Italia, che, come si è detto, dapprima era ristretto all’estremo sud della penisola, si andò
dunque ampliando, man mano che la conquista romana progrediva e la cittadinanza veniva estesa ai
popoli sottomessi da Roma, finché, con la concessione della piena civitas anche agli abitanti della Gallia
Cisalpina (in particolare a quelli della Transpadana, la regione a nord del Po, con un provvedimento preso
da Cesare nel 49 a.C.), l’Italia romana venne a coincidere, grosso modo, con i limiti geografici della
regione italiana, segnati dallo spartiacque delle Alpi.
L’ampliamento del concetto di Italia fu quindi determinato non tanto da considerazioni di carattere
geografico, quanto per un cambiamento delle condizioni politiche e dello statuto giuridico degli abitanti
della regione.
Tale ampliamento, e il suo legame con il fattore politico, è riscontrabile nel passo di apertura della
descrizione dell’Italia che troviamo nell’opera di Strabone, geografo che scrisse tra l’età augustea e
quella tiberiana:
“Alle falde delle Alpi inizia quella che ora si chiama Italia. Gli antichi infatti chiamavano col nome di
Italìa l’Enotria, che si estendeva dallo Stretto di Sicilia fino al Golfo di Taranto e di Posidonia; poi il
nome prevalse e si estese fino alle falde delle Alpi.Arrivò a comprendere anche la parte della Liguria
che va dai confini della Tirrenia fino al fiume Varo e la parte dell’Istria che arriva fino a Pola. Si può
supporre che i primi a chiamarsi Itali, grazie alla loro prosperità, fecero partecipi di questo nome
anche i popoli confinanti e continuarono ad estenderlo fino all’epoca della conquista romana. Più
L’ampliamento territoriale del
tardi poi, dopo che i Romani ebbero concesso il diritto di cittadinanza agli Italici, essi decisero di
concetto di Italia tra V secolo
concedere lo stesso onore anche ai Galli Cisalpini ed ai Veneti e di chiamare tutti Italici e Romani “
a.C. e III d.C.
[Strabone, Geografia,V, 1, 1].
È tuttavia importante sottolineare ancora una volta come i confini della
regione siano definiti in base allo statuto amministrativo delle comunità
che la compongono e alla condizione giuridica dei suoi abitanti, non
in base ad un criterio puramente geografico: Strabone in effetti non
afferma semplicemente che l’Italia giungeva fino alle Alpi, come ci
attenderemmo se la definizione avesse una carattere puramente
geografico, ma precisa che essa arrivava sino “alle falde delle Alpi”;
la zona propriamente montuosa è dunque apparentemente al di fuori
dell’Italia romana.
1.3. La suddivisione regionale augustea
L’Italia romana era sostanzialmente un mosaico composto da
numerosissime comunità di diverso status giuridico, che, con termine
riassuntivo, vengono genericamente chiamate municipi. L’ampiezza dei
145 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 8 La formazione del concetto di Italia
Le 11 regioni della
Penisola sotto Augusto
(senza il territorio insulare
– Sicilia, Sardegna,
Corsica – considerato extra
metropolitano) erano le
seguenti:
(I) LAZIO e CAMPANIA;
(II) PUGLIA e CALABRIA
quest’ultima indicava allora
solo il Salentino); (III) LUCANIA
e BRUZZIO (cioè Basilicata e
Calabria attuali);
(IV) SANNIO; V PICENO; (VI)
Umbria; VII ETRURIA; (VIII)
GALLIA CISPADANA
(Emilia); (IX) LIGURIA (l’attuale,
fino al di qua del Po a partire
dalla sorgente); (X) VENECIA
e ISTRIA; (XI) GALLIA
TRASPADANA (l’attuale
Lombardia con l’attuale Val
D’Aosta e Piemonte al di là
del Po)
loro territori poteva variare anche di molto, ma per richiamarci ad un ordine di grandezza ben noto,
possiamo affermare che essa corrispondeva ad un grado intermedio fra quello dei comuni e quello delle
province dell’Italia odierna.
Augusto, verosimilmente negli stessi anni in cui procedeva alla suddivisione della città di Roma in 14
quartieri, detti regiones, dunque intorno al 7 a.C., procedette a raggruppare i tanti municipi dell’Italia
romana in unità più ampie, anch’esse chiamate regiones.
Non si hanno certezze riguardo alla finalità dell’organizzazione dell’Italia in tali regiones; tra le ipotesi più
probabili c’è che esse dovessero costituire il nuovo quadro per i censimenti o per il sistema fiscale.
Il testo fondamentale a questo proposito è un passaggio di Plinio il Vecchio, l’enciclopedista vissuto
tra l’età giulio-claudia e quella flavia, che nel III libro della sua monumentale Storia naturale descrive
brevemente il territorio dell’Italia:
“Nunc ambitum eius urbesque enumerabimus, qua in re praefari necessarium est auctorem nos
Divum Augustum secuturos discriptionemque ab eo factam Italiae totius in regiones XI, sed ordine
eo, qui litorum tractu fiet; urbium quidem vicinitates oratione utique praepropera servari non posse,
itaque interiore parte digestionem in litteras eiusdem nos secuturos, coloniarum mentione signata,
quas ille in eo prodidit numero”.
(Passerò ora in rassegna il territorio e le città dell’Italia.A questo proposito devo premettere che
seguirò come autore il divino Augusto e la suddivisione, fatta da lui, dell’Italia in undici regioni,
procedendo però secondo il tracciato della costa. Quanto ai rapporti di vicinanza tra le singole
città, ritengo impossibile mantenerli inalterati, almeno in un discorso affrettato come il mio; perciò,
riguardo alle città dell’interno, mi atterrò all’indicazione per ordine alfabetico fatta dallo stesso
Augusto, segnalando le varie colonie, come fece lui). [Plinio il Vecchio, Storia Naturale, III, 46]
Plinio afferma dunque che, nella propria descrizione dell’Italia si atterrà alla divisione dell’Italia in 11
regioni, operata da Augusto. Dalle fonti letterarie, e principalmente dallo stesso Plinio, sappiamo che le
regioni erano contraddistinte da un numero e da un nome, generalmente ricalcato su quello dell’etnia
prevalente nella regione: fanno eccezione la regio
VIII Aemilia, che prendeva il nome dalla strada
che, da Rimini a Piacenza, la attraversava per tutta
la sua lunghezza, e la regio XI Transpadana, che
presenta invece un nome di carattere geografico,
designante i territori al di là del fiume Po.
I dati di Plinio fanno evincere come non facessero
parte dell’Italia augustea due importanti regioni
dell’Italia attuale, la Sicilia e la Sardegna, le prime
due province create da Roma.
Inoltre i limiti settentrionali non corrispondono
esattamente ai confini geografici, in
corrispondenza dello spartiacque alpino, e
presentano dunque alcune divergenze rispetto
agli attuali confini della nostra nazione: le più
significative riguardano l’inclusione di un lembo di
quella che oggi è la Costa Azzurra francese, fino
all’antica Nicaea (oggi Nizza) e al fiume Varo e, di
converso, l’esclusione del corso superiore dei fiumi
piemontesi (tra quali la Stura di Demonte, il Maira
e lo stesso Po), che un tempo facevano parte delle
province delle Alpi Marittime e delle Alpi Cozie. Nel
settore centrale colpisce in particolare l’inclusione,
nella regione della Transpadana, dell’alta valle del
Ticino (oggi Canton Ticino, in Svizzera), mentre la
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progetto 8 La formazione del concetto di Italia
Val Venosta, la valle dell’Isarco e la Val Pusteria erano comprese nelle province di Rezia (le prime due)
e del Norico (la terza). Nelle Alpi orientali i limiti dell’Italia romana ricalcano sostanzialmente i confini
geografici e linguistici odierni, giungendo sino alle spartiacque delle Alpi Giulie e comprendendo buona
parte dell’Istria, ma si discostano in modo significativo dall’attuale confine politico dell’Italia, che in
questo settore è molto più arretrato.
L’Italia settentrionale in età augustea
Il carattere più evidente di questa Italia romana è dato dal fatto che tutti i suoi abitanti di libera condizione
possiedono la cittadinanza romana (va comunque ricordato che vi sono cittadini romani che risiedono al
di fuori dell’Italia, nelle province).
Dal punto di vista giuridico l’Italia non è una provincia e i suoi abitanti, a differenza dei provinciali, non
sono sottoposti ad una tassazione diretta sulle loro proprietà e sulle loro persone; la giurisdizione non
è affidata ad un governatore inviato da Roma, ma è nelle mani degli stessi magistrati locali eletti nelle
singole comunità; infine in Italia non sono stanziate le truppe di guarnigione, composte da legioni di
cittadini romani e da reparti ausiliari forniti dagli alleati, che vigilano sulle province (per la verità l’Italia
non è comunque completamente indifesa, ma le truppe che vi sono stazionate hanno un carattere
sostanzialmente differente da quelle che sono presenti nelle province: si tratta delle coorti pretoriane,
propriamente la guardia del corpo dell’imperatore, accasermate a Roma, e delle due squadre della
flotta imperiale che hanno base rispettivamente a Classe, nei pressi di Ravenna, e a Miseno, sul golfo di
Napoli).
Inoltre ai cittadini dell’Italia sono riservati alcuni privilegi, come per esempio quello di potere esercitare
le vecchie magistrature repubblicane di Roma, almeno fino all’età di Claudio (dal momento che in età
tardo repubblicana conosciamo qualche senatore di origine provinciale, è probabile che questo privilegio
sia stato introdotto da Augusto). In età augustea ricordiamo inoltre la creazione di seggi distaccati nei
municipi dell’Italia, che consentiva ai consiglieri municipali di votare nelle loro città, invece di recarsi
a Roma, come di regola.Agli italici inoltre era riservato, almeno per la prima età imperiale, il diritto
di essere iscritti negli elenchi da cui venivano tratti i membri delle giurie dei tribunali permanenti, le
quaestiones perpetuae, e di entrare a far parte del corpo d’élite dell’esercito romano, le già ricordate
coorti pretoriane.
Senza dubbio la posizione privilegiata dell’Italia nell’ambito dell’organizzazione dell’impero è da porre in
connessione all’uso politico che Augusto, allora ancora Ottaviano, aveva fatto di essa nelle guerre civili:
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progetto 8 La formazione del concetto di Italia
ricordiamo infatti che al momento dello scoppio della guerra contro Cleopatra e Antonio, Ottaviano aveva
richiesto e ottenuto che tutte le città dell’Italia gli giurassero fedeltà: iuravit in mea verba tota Italia sponte
sua (“l’Italia intera giurò nel mio nome spontaneamente”), afferma l’imperatore in un passaggio delle
sue Res Gestae (25, 2).
La divisone in regiones della penisola ebbe comunque vita breve: alla fine del II sec. d.C., a partire da
Marco Aurelio, in effetti, l’Italia venne suddivisa in distretti, in ciascuno dei quali l’amministrazione della
giustizia venne affidata ad un funzionario, detto iuridicus, nominato dall’imperatore; un’anticipazione di
questo provvedimento si era peraltro avuta già sotto Adriano, che aveva incaricato della giurisdizione
sull’Italia quattro ex-consoli. Certo non si tratta di una vera provincializzazione dell’Italia, di cui si può forse
parlare, per il III sec. d.C., quando l’imperatore poté affidare, seppure temporaneamente, il governo di
una regione italica ad un corrector, e certamente a partire da Diocleziano (292 d.C.), che istituzionalizza
la divisione dell’Italia in 12 province (tra le quali sono ormai comprese la Sicilia, la Sardegna e la
Corsica ed anche la Rezia, corrispondente all’odierno Tirolo e alla Baviera), raggruppate in un’unità
amministrativa più ampia, la diocesi italiciana. La riforma dioclezianea affonda comunque le sue radici
nei provvedimenti di Marco Aurelio e trova fondamento anche nel fatto che, dopo la concessione della
cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero nel 212 d.C., era venuta a cadere una delle ragioni del
privilegio dell’Italia.
Dopo ulteriori modifiche le province in cui era divisa l’Italia alla fine dell’impero Romano (V secolo d.
C.) erano le seguenti: (1) Lazio e Campania; (2) Tuscia e Umbria; (3) Piceno; (4) Valeria (il Rietino); (5)
Sannio; (6) Puglia e Calabria (la Puglia odierna); (7) Lucania e Bruzzio (la Basilicata e la Calabria attuale);
(8) Venezia e Istria; (9) Emilia, (10) Flaminia (parte dell’attuale Emilia e parte delle Marche); (11) Liguria
(Lombardia e buona parte del Piemonte); (12) Alpi Cozie (la Liguria odierna più il Nizzardo); (13) Rezia
Prima (Trentino e Alto Adige attuale); (14) Corsica; (15) Sardegna e Sicilia. Inoltre: (16) La Rezia Seconda
che però era estranea all’Italia e comprendeva l’attuale Tirolo austriaco).
1.4 Descrizioni dell’Italia nella letteratura Latina
Fin dai versi iniziali dell’Eneide di Virgilio è presente l’idea geografica di “Italia”:
Arma virumque cano,Troiae qui primus ab oris
Italiam fato profugus Laviniaque venit
(Eneide, Libro I, vv1,2)
L’immagine dell’Italia che si evince dalle fonti letterarie risalenti al periodo tra I secolo a.C. e I secolo
d.C. è piuttosto positiva e celebra la penisola come terra ricca di risorse economiche (legname, prodotti
agricoli, ricchezza e numero dei corsi d’acqua, pascoli, bestiame, miniere), favorita dal clima mite e
temperato.Tale situazione viene puntualmente descritta nei passi che seguono.
Virgilio, Georgiche, II, 136-174: la lode dell’Italia
“Sed neque Medorum siluae, ditissima terra, / nec pulcher Ganges atque auro turbidus Hermus
/ laudibus Italiae certent, non Bactra neque Indi / totaque turiferis Panchaia pinguis harenis. /
haec loca non tauri spirantes naribus ignem / inuertere satis immanis dentibus hydri, / nec galeis
densisque uirum seges horruit hastis; / sed grauidae fruges et Bacchi Massicus umor / impleuere;
tenent oleae armentaque laeta. / hinc bellator equus campo sese arduus infert, / hinc albi, Clitumne,
greges et maxima taurus / uictima, saepe tuo perfusi flumine sacro, / Romanos ad templa deum
duxere triumphos. / hic uer adsiduum atque alienis mensibus aestas: / bis grauidae pecudes, bis
pomis utilis arbos. / at rabidae tigres absunt et saeua leonum / semina, nec miseros fallunt aconita
legentis, / nec rapit immensos orbis per humum neque tanto / squameus in spiram tractu se colligit
anguis. / adde tot egregias urbes operumque laborem, / tot congesta manu praeruptis oppida saxis
/ fluminaque antiquos subter labentia muros. / an mare quod supra memorem, quodque adluit
infra? / anne lacus tantos? te, Lari maxime, teque, / fluctibus et fremitu adsurgens Benace marino?
/ an memorem portus Lucrinoque addita claustra / atque indignatum magnis stridoribus aequor,
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progetto 8 La formazione del concetto di Italia
/ Iulia qua ponto longe sonat unda refuso / Tyrrhenusque fretis immittitur aestus Auernis? / haec
eadem argenti riuos aerisque metalla / ostendit uenis atque auro plurima fluxit. / haec genus acre
uirum, Marsos pubemque Sabellam / adsuetumque malo Ligurem Volscosque uerutos / extulit,
haec Decios Marios magnosque Camillos, / Scipiadas duros bello et te, maxime Caesar, / qui nunc
extremis Asiae iam uictor in oris / imbellem auertis Romanis arcibus Indum. / salue, magna parens
frugum, Saturnia tellus, / magna uirum…”
(Ma la terra dei Medi ricchissima di vegetazione boschiva, e il maestoso Gange e l’Ermo opaco
d’oro non gareggiano con le glorie dell’Italia, e neanche Battra e l’India e la Pancaia ricca di sabbie
sature d’incenso. Il suolo italico non fu sconvolto da tori spiranti fuoco dalla narici, seminati i denti
del mostruoso drago, né vi spuntò una messe di guerrieri irta di elmi e di fitte lance, ma traboccò
di pregne biade e del massico umore di Bacco: lo occupavano oliveti e floridi armenti. Di qui
avanza in campo eretto il cavallo da guerra, di qui, o Clitunno, le bianche greggi e il toro, solenne
vittima, molte volte aspersi dalle tue acque sacre, guidarono i trionfi romani ai templi degli dèi. Qui
è sempre primavera e, in mesi non suoi, estate; duplice è la fecondità del bestiame, duplice la
fruttuosità degli alberi. Non vi sono furiose tigri, né la feroce stirpe dei leoni, l’aconìto non inganna gli
sventurati raccoglitori, non trascina immense volute sulla terra lo squamoso serpente, né con tanta
lunghezza si raccoglie nelle sue spire.Aggiungi tante egregie città e fervore di opere, le numerose
rocche costruite dall’uomo su scoscese montagne, i fiumi che scorrono ai piedi di antiche mura.
A chi ricordare il mare che lo bagna in alto e in basso? e gli ampi laghi? e te, vastissimo Lario, e te
Benaco che sorgi in flutti e fremito marino? A che ricordare i porti e la diga sul Lucrino e la distesa
marina che irata vi si frange con alto fragore, laddove l’onda Giulia risuona del riflusso delle acque e
il ribollire del Tirreno penetra nel lago d’Averno? Sempre il medesimo suolo mostra vene d’argento,
miniere di rame e copiosi fiumi d’oro. Questo generò i Marsi, stirpe di duri guerrieri e la gagliardia
dei Sabelli, e i Liguri resistenti alla sventura, e i Volsci armati di spiedi, e i Decii, i Marii, i gloriosi
Camilli, gli Scipìadi aspri in guerra, e te, grandissimo Cesare, che ora, già vittorioso nelle estreme
regioni d’Asia, tieni lontano l’imbelle Indo dalle rocche romane. Salve, grande genitrice di messi,
terra Saturnia, grande madre di ero... )
Varrone, Sull’agricoltura, I, 2, 3-4: la mitezza del clima dell’Italia
“Cum consedissemus,Agrasius:Vos, qui multas perambulastis terras, ecquam cultiorem Italia
vidistis? inquit. Ego vero,Agrius, nullam arbitror esse quae tam tota sit culta. Primum cum orbis
terrae divisus sit in duas partes ab Eratosthene maxume secundum naturam, ad meridiem versus et
ad septemtriones, (4) et sine dubio quoniam salubrior pars septemtrionalis est quam meridiana, et,
quae salubriora, illa fructuosiora, ibique Italia, dicendum magis eam fuisse opportunam ad colendum
quam Asiam, primum quod est in Europa, secundo quod haec temperatior pars quam interior. Nam
intus paene sempiternae hiemes, neque mirum, quod sunt regiones inter circulum septemtrionalem
et inter cardinem caeli, ubi sol etiam sex mensibus continuis non videtur. Itaque in oceano in ea
parte ne navigari quidem posse dicunt propter mare congelatum.“
(Seduti che fummo,Agrasio disse:“Voi che avete viaggiato per molti paesi, ne avete mai visto uno
coltivato meglio dell’Italia? “Io invero”, disse Agrio,“penso che non ce ne sia nessuno che sia così
ben coltivato in tutte le sue parti. Per prima cose l’orbe terrestre è stato diviso da Eratostene in due
emisferi, uno dei quali - in maniera del tutto conforme all’ordine naturale - esposto a sud, l’altro a
nord. (4) Ora poiché, senza dubbio, la parte settentrionale è più salubre di quella meridionale ed è
pur vero che i luoghi più salubri sono anche i più fertili, e in questa parte vi è l’Italia, bisogna dire che
essa fu sempre più adatta alla coltivazione che non l’Asia. Prima di tutto perché è situata in Europa,
secondariamente perché ha un clima più temperato delle regioni al centro di questo continente.
Nell’interno dell’Europa infatti vi è quasi un continuo inverno. Né deve far meraviglia, per esservi
regioni situate fra il circolo polare artico e il polo nord, dove il sole non si vede anche per sei mesi
consecutivi. Pertanto dicono che in tale parte non si può nemmeno navigare nell’Oceano perché il
mare è ghiacciato.)
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progetto 8 La formazione del concetto di Italia
Plinio il Vecchio, Storia naturale, XXXVII, 201: il clima dell’Italia
“In toto orbe, quacumque caeli convexitas vergit, pulcherrima omnium est iis rebus, quae
merito principatum naturae optinent, Italia É iam situ ac salubritate caeli atque temperie,
accessu cunctarum gentium facili, portuosis litoribus, benigno ventorum adflatu; quod
contingit positione procurrentis in partem utilissimam et inter ortus occasusque mediam.”
(In tutto il mondo, per quanto si estende la volta celeste, la regione fra tutte più bella per
quei prodotti che giustamente occupano il primo posto nella natura è l’Italia ... per la sua
posizione geografica e la salubrità del suo clima temperato, il facile accesso offerto a tutti
i popoli, le coste ricche di porti, il soffio benigno dei venti; pregi dovuti al suo orientamento
dato che l’Italia di estende nella direzione più favorevole e a metà fra oriente e occidente. )
Varrone, Sull’agricoltura, I, 2, 6-7: la straordinaria produttività dell’Italia
“Quid in Italia utensile non modo non nascitur, sed etiam non egregium fit? quod far
conferam Campano? quod triticum Apulo? quod vinum Falerno? quod oleum Venafro? non
arboribus consita Italia, ut tota pomarium videatur? ... in qua terra iugerum unum denos et
quinos denos culleos fert vini, quot quaedam in Italia regiones? an non M. Cato scribit in
libro Originum sic: “ager Gallicus Romanus vocatur, qui viritim cis Ariminum datus est ultra
agrum Picentium. in eo agro aliquotfariam in singula iugera dena cullea vini fiunt”? nonne
item in agro Faventino, a quo ibi trecenariae appellantur vites, quod iugerum trecenas
amphoras reddat?”
(In Italia cosa vi è di utile che non solo nasca ma non venga anche bene. Quale farro si
potrebbe mai paragonare a quello della Campania? Quale frumento a quello dell’Apulia?
Quale vino al Falerno? Quale olio a quello di Venafro? Non è l’Italia piantata ad alberi in
modo da sembrare tutta un frutteto?... In quale parte del mondo uno iugero [1/4 di ettaro
circa] produce 10 o anche 15 cullei di vino [rispettivamente 52 e 78 hl circa], quanto ne
producono alcune regioni d’Italia? O non scrive forse Marco Catone nelle Origini le seguenti
parole? “Si chiama Gallico Romano quel territorio situato fra Rimini e il Piceno che fu
ripartito individualmente. In alcuni punti di questo territorio si ricavano 10 cullei di vino per
ogni iugero”. Non avviene analogamente nella campagna di Faenza? Là ogni iugero rende
300 anfore di vino [circa 78 hl.] e per questo ivi le viti sono chiamate trecenarie.)
Res Gestae divi Augusti, 8: le cifre dei censimenti di età augustea
“Lustrum post annum alterum et quadrangensimum fec[i]. Quo lustro civium Romanorum
censa sunt capita quadragiens centum milia et sexaginta tria millia. Tum i[teru]m consulari
cum imperio lustrum [s]olus feci C(aio) Censorin[o et C(aio)] Asinio co(n)s(ulibus), quo lustro
censa sunt civium Romanoru[m capita] quadragiens centum millia et ducenta triginta tria
m[illia. Et] t[er]tium consulari cum imperio lustrum conlega Tib(erio) Cae[sare filio meo feci]
Sex(to) Pompeio et Sex Appuleio co(n)s(ulibus); quo lustro ce[nsa sunt civium Ro]manorum
capitum quadragiens centum mill[ia et nongenta tr]iginta et septem millia.”
(Celebrai il lustrum dopo 42 anni (28 a.C.). In occasione di quel lustrum vennero censiti
4.063.000 cittadini romani. E per una seconda volta celebrai, da solo e dotato di poteri
consolari, il lustrum, sotto il consolato di Caio Censorino e di Caio Asinio (8 a.C.), in
occasione del quale vennero censiti 4.233.000 cittadini romani. E per una una terza
volta, dotato di poteri consolari e avendo come collega mio figlio Tiberio Cesare, celebrai il
lustrum, sotto il consolato di Sesto Pompeo e di Sesto Appuleio (14 d.C.); in occasione di
quel lustrum vennero censiti 4.937.000 cittadini romani.)
Solo alla fine del I secolo a.C. tale visione felice dell’Italia (per altro confermata dagli autori greci coevi
come Dionigi di Alicarnasso,Antichità romane, I, 36, 2 - 37, 4, in cui si descrive l’Italia come “la
150 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 8 La formazione del concetto di Italia
migliore delle terre” o Strabone, Geografia,VI, 4, 1, il quale celebra la ricchezza e la varietà delle risorse
economiche dell’Italia) comincia a venire meno per l’incipiente crisi economica del nostro territorio, come
si può efficacemente arguire dal seguente brano di Tacito.
Tacito, Annali, III, 54, 4: l’Italia dipende dalla province per il proprio sostentamento
“At hercule nemo refert, quod Italiae externae opis indiget, quod vita populi Romani per incerta
maris et tempestatum cotidie volvitur; ac nisi provinciarum copiae et dominis et servitiis et agris
subvenerint, nostra nos scilicet nemora nostraeque villae tuebuntur.”
(Nessuno, per Ercole, leva la voce a dire che l’Italia ha bisogno dell’assistenza straniera, che la vita
del popolo romano dipende ogni giorno dai capricci del mare e delle stagioni: e se le risorse delle
province non sovvenissero alle necessità dei padroni e degli schiavi e delle terre, saranno proprio i
nostri parchi e le nostre ville a sostentarci!)
Saturnia Tellus nell’Ara Pacis
1.5 Persistenza del nome Italia nel Medioevo
Il fatto che la “diocesi italiciana” fu divisa da Diocleziano fra un
vicarius Italiae, residente a Milano, e un vicarius Urbis, residente a
Roma, ebbe un effetto negativo sulla fortuna del nome Italia, che
venne limitato solo alla parte settentrionale del Paese, escludendo
Roma e quelle regioni del Sud, in cui il nome paradossalmente era
nato. L’unione politica della regione geografica italiana, come è noto,
terminò nel 476 d.C. con la fine dell’Impero romano d’Occidente,
quando Odoacre, il re degli Eruli, ultimo di una schiera di condottieri
germanici che nel periodo di decadenza dell’Impero romano
d’Occidente avevano condotto le proprie orde in territorio italico,
depone l’ultimo imperatore d’occidente, Romolo Augusto.
A partire dal 493, il regno ostrogoto di Teodorico realizzò nuovamente l’unità politica dell’Italia; questo
regno, di effimera durata, rappresentò la prima di tante occasioni mancate nel Medioevo per
affermare, anche nella regione geografica italiana, un processo di formazione della coscienza nazionale
come avvenne in altri Paesi europei.
Dal 535 al 553, il territorio italiano divenne teatro della guerra gotica, che vide l’imperatore d’Oriente
Giustiniano deciso ad assoggettare il regno ostrogoto: la conquista italiana venne completata nel 553
con la sconfitta definitiva degli Ostrogoti e l’annessione di tutto il regno all’Impero romano d’Oriente.
Giustiniano affermò:“Italia non provincia sed Domina provinciarum” (“L’Italia non è una provincia ma
è la Signora delle province”). Il conflitto, protrattosi per quasi un ventennio, devastò l’intero territorio,
portando ad una grave crisi demografica, economica, politica e sociale. Gli anni della dominazione
dell’Impero romano d’Oriente furono funestati da un aggravamento delle condizioni di vita dei contadini
a causa della forte pressione fiscale e da una terribile pestilenza che spopolò ulteriormente il territorio tra
il 559 e il 562. La regione, indebolita e impoverita, non ebbe la forza di opporsi a una nuova invasione
germanica, quella dei Longobardi capeggiati da Alboino.Tra il 568 e il 569 i Longobardi, spesso
appoggiati dalla popolazione esasperata dalla fiscalità bizantina, occuparono gran parte dell’Italia:
entrando dal Friuli, conquistarono gran parte dell’Italia centro-settentrionale, che prese il nome di
Langobardia Maior, e poi dell’Italia meridionale, che chiamarono Langobardia Minor.
L’Italia così perse la sua unità territoriale e nei decenni successivi si ritrovò spezzettata tra Bizantini (con
capitale Ravenna) e Longobardi (con capitale Pavia). Rimasero possedimenti bizantini la Romagna,
l’Istria, le Marche, la zona di Roma, gran parte del Sud, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. Diventarono
invece Longobarde la maggior parte del nord (tranne la Romagna e l’Istria), la Toscana, il Ducato di
Spoleto e il Ducato di Benevento (quest’ultimo comprendente l’Abruzzo, la parte interna della Campania
e la Lucania).
Il regno dei Longobardi si protrasse per circa due secoli, fino alla sconfitta a nord da Carlo Magno nel
774, e a sud, più tardi, dai Normanni. Da allora la penisola perse definitivamente la sua unità politica che
non ritroverà fino al 1861.
151 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 8 La formazione del concetto di Italia
Anche il nome Italia seguì la decadenza politica della penisola: all’inizio del Medioevo questa involuzione
si manifestò nel titolo di Regnum Italiae al dominio di Odoacre, corrispondente in effetti alla sola Italia
Settentrionale. L’insidia dei nuovi nomi che si vennero plasmando a seguito di secoli di invasioni rischiò
poi di eliminare la denominazione Italia.
Se infatti la forma Gozia ebbe una vita effimera, ben più vigorosa fu quella di Longobardia, che dal VII
al X secolo sostituì molto spesso il nome Italia o lo ridusse a singole parti del territorio, come il “Ducato
d’Italia” nel Mezzogiorno (poi di Benevento) o la Marca d’Italia in Piemonte. Si giunse così perfino a
nominare più Italie, al plurale, come fecero gli storici Paolo Diacono e Ottone di Frisinga. II nome classico,
comunque, resistette grazie alla forza della tradizione e alla formazione del Regno d’Italia voluto da
Carlo Magno nell’ambito del Sacro Romano Impero, acquistando dopo il Mille un significato linguistico e
culturale, oltre che territoriale, che trova la sua felice espressione in Dante.
2. 1 Dante e l’Unità d’Italia
Nonostante il frazionamento politico verificatosi nell’Alto Medioevo, come
si è visto nel paragrafo precedente, il concetto di Italia, dopo il Mille,
assunse un significato linguistico e culturale, oltre che territoriale.
È abbastanza semplice ritrovare tale espressione nell’opera di Dante
Alighieri, in cui è possibile verificare puntualmente l’estensione e la
percezione del concetto d’Italia che aveva il grande fiorentino:
“Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ha nome Benaco”
(Inferno, XX, 61-63)
In questo passo Dante vuole dirci che la posizione del lago di Garda è
situata ai piedi delle Alpi che fan da confine con la Germania, in quel
tratto che si trova all’altezza del Tirolo.
Inoltre si evidenzia con chiarezza l’estremo confine nordorientale
geografico dell’Italia posto presso il Golfo del Quarnaro o Quarnero,
formato dall’Adriatico tra L’Istria e la Dalmazia:
L’Italia nell’anno 1000.
Sotto, ritratto di Dante,
Gustave Dorè
“Si com’ad Arli ove Rodano stagna,
si com’a Pola presso del Quarnaro,
che Italia chiude e suoi termini bagna”
(Inferno III, 113-4)
Da questi versi dell’Inferno si evince che Dante ha
un’idea d’Italia che corrisponde ai confini stabiliti
dalla riforma di Diocleziano con la diocesi italiciana
del III secolo d.C. piuttosto che alle XI regioni della
divisone augustea.
Infatti nel De vulgari eloquentia il poeta inserisce a
pieno diritto nel territorio italiano anche la Sardegna
e la Sicilia:
“Per prima cosa diciamo dunque che l’Italia è
divisa in due parti, una destra e una sinistra.
E se qualcuno vuol sapere qual è la linea
divisoria, rispondiamo in breve che è il giogo
dell’Appennino: il quale, come la cima di una
grondaia sgronda da una parte e dall’altra le
152 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 8 La formazione del concetto di Italia
acque che sgocciolano in opposte direzioni, sgocciola per lunghi condotti, da una parte e dall’altra,
verso i contrapposti litorali, giusta la descrizione di Lucano nel secondo libro: e la parte destra ha
per sgrondatoio il Mar Tirreno, mentre la sinistra scende nell’Adriatico.
Le regioni di destra sono l’Apulia, non tutta però, Roma, il Ducato, la Toscana e la Marca Genovese;
quelle di sinistra invece parte dell’Apulia, la Marca Anconitana, la Romagna, la Lombardia, la Marca
Trevigiana con Venezia. Quanto al Friuli e all’Istria, non possono appartenere che all’Italia di sinistra,
mentre le isole del Mar Tirreno, cioè la Sicilia e la Sardegna, appartengono senza dubbio all’Italia di
destra, o piuttosto vanno associate ad essa.
Ora in entrambe queste due metà, e relative appendici, le lingue degli abitanti variano: così i Siciliani
si diversificano dagli Apuli, gli Apuli dai Romani, i Romani dagli Spoletini, questi dai Toscani, i Toscani
L’Italia al Tempo di Dante
dai Genovesi e i Genovesi dai Sardi; e allo stesso modo i Calabri dagli Anconitani, costoro dai
Romagnoli, i Romagnoli dai Lombardi, i Lombardi dai Trevigiani e Veneziani, costoro dagli Aquileiesi
e questi ultimi dagli Istriani. Sul che pensiamo che nessun italiano dissenta da noi.” (De vulgari
eloquentia, I, X, 7-8)
Dante avverte poi la coscienza dell’Italia come un’unica nazione e un unico popolo in questi suoi famosi
versi indignati:
“surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo:“O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!”; e l’un l’altro abbracciava.
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Quell’ anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.”
(Purgatorio, Canto VI)
153 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 8 La formazione del concetto di Italia
Sordello da Goito sente Virgilio che risponde a Dante e dall’inflessione della voce riconosce la
parlata regionale che li accomuna e si compiace della caratteristica che non muore, neppure dopo
la vita, dell’appartenenza alla medesima terra. Da qui la nota invettiva di Dante che sottolinea il
triste contrasto dei suoi tempi ove la guerra tra città ha sostituito la concordia tra i cittadini.
Infatti l’imprevisto abbraccio tra Sordello e Virgilio, nato dalla sola consapevolezza di venire dalla
stessa terra, suscita nel poeta un’energica ed amara apostrofe all’Italia del presente (definita serva,
luogo di dolore, nave senza guida, bordello): in essa dominano guerre e contese anche fra gli abitanti
di una stessa città.
Nucleo fondante di tutto il sesto canto del Purgatorio l’invettiva all’Italia, la più lunga della Commedia
nelle sue venticinque terzine, paragona la penisola ad una nave priva di guida e ad un cavallo privo di
cavaliere, in quanto l’Imperatore non si cura di essa e per questo motivo sulla stirpe imperiale deve
scendere la pena divina.
Dante coglie anche l’occasione per attaccare anche la Chiesa, che interferisce nelle vicende politiche
più che occuparsi della materia spirituale che dovrebbe competerle e, alla fine dell’invettiva, la stessa
Firenze viene citata come esempio di corruzione e povertà morale.
Incontro tra Sordello e Virgilio,
Gustave Dorè
2.2 Il De Vulgari Eloquentia
In effetti tra i letterati in volgare delle Origini,
nonostante la divisione tra Comuni e varie entità
politiche, l’Italia era una realtà unitaria nella coscienza
culturale.
Proprio alla “lingua” comune, nella cosiddetta
“questione della lingua”, fu affidato per secoli il
compito di mantenere viva la tensione verso l’unità
territoriale, storica e politica di un Paese che non fu
tale se non dopo il 1861.
Forse l’Italia è l’unica nazione al mondo attraversata
da un’eterna “questione della lingua”, proprio
perché principalmente la penisola italiana non
ha mai avuto un centro culturale veramente
predominante, come per esempio Parigi in Francia.
Basta pensare alle Repubbliche marinare (Venezia,
Genova, Pisa e Amalfi) e ai Comuni (Firenze, Lucca,
Milano, Napoli e Bologna, dove ebbe origine la
prima Università), per rendersi conto a che punto
di ricchezza, di bellezza e di cultura giunse l’Italia tra i secoli XII e XIV, pur non disponendo di una
compagine statale unitaria.
Ancora una volta è il padre Dante ad originare il dibattito con il De Vulgari Eloquentia che
riprendeva l’allora comunemente accettata teoria della monogenesi di tutte le lingue del mondo
che sarebbero derivate dall’idioma di Adamo: l’ebraico, la lingua delle Sacre Scritture. La lingua
volgare era identificata con lo sviluppo delle varietà plebee locali già parlate nell’antichità a seguito
dell’episodio della Torre di Babele, in cui Dio avrebbe punito gli uomini facendo sì che le lingue
parlate si differenziassero tra loro.Il De Vulgari Eloquentia, scritto in esilio, a più riprese, dal 13045 sino al 1308, in latino, è rivolto ai letterati di professione, di estrazione borghese (gli intellettuali
in genere, abituati a leggere in latino i trattati filosofici o i rimatori forniti di cultura e d’ingegno): è
quindi un’opera specialistica. Doveva essere in quattro libri ma si interrompe al cap. XIV del libro II,
probabilmente a causa della composizione della Commedia.
In esso Dante si rifà a quell’esigenza di unità linguistica, culturale e nazionale che molti intellettuali,
anche prima di lui, sentivano in varie parti d’Italia. Lo scopo del trattato è quello di definire un idioma
volgare che possa conseguire un’alta dignità letteraria, elevandosi al di sopra delle varie parlate regionali
e sottraendosi all’egemonia del latino. Dante era convinto che i tempi fossero maturi per trattare temi di
alta cultura e di alta poesia anche in lingua volgare.
In tal senso possiamo dire ch’egli fu il primo in Italia a interessarsi di linguistica.
154 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 8 La formazione del concetto di Italia
Il poeta non si limitò a dimostrare con i fatti, attraverso le sue opere in poesia e in prosa scritte in volgare
fiorentino, che il volgare poteva essere usato per fini d’arte senza che sfigurasse rispetto al latino;
volle anche teorizzare questa persuasione scrivendo un trattato di retorica e di filosofia del linguaggio
interamente dedicato al volgare italiano.
Dante definisce la lingua volgare quella che il bambino impara dalla balia, a differenza della grammatica
(termine con cui Dante indica il latino) vista come lingua immutabile e, erroneamente, ritenuta un
prodotto artificiale delle élites. L’autore afferma, dunque, la maggiore nobiltà della lingua volgare, perché
è la lingua naturale, la prima ad essere pronunciata nella vita sua e dei suoi lettori: la novità dantesca
sta poi anche nell’individuare gli strumenti del volgare come adatti ad occuparsi di qualsiasi argomento,
dall’amore alla moralità e alla religione.
Certo il latino, poiché era una lingua perfetta, artificiale e immutabile, ancora era più sofisticato del
volgare; ma ormai esso era conosciuto soltanto da pochi privilegiati. Il volgare, invece, era conosciuto da
tutti, e tutti avrebbero potuto contribuire a migliorarlo: presto, secondo Dante, esso sarebbe diventato un
“sole nuovo” capace di oscurare il latino, destinato a un tramonto inarrestabile.
Il tema principale del II libro (o meglio della parte che Dante ha effettivamente scritto) è il
volgare illustre da usare in poesia. Dante si occupa degli autori che possono adoperarlo, e poi
dei temi, della forma metrica e dello stile che gli si confanno. Il volgare illustre non è una lingua
adatta a tutti e a tutti gli argomenti. Possono usarlo solo i migliori fra i poeti e i prosatori, e
solo per parlare di argomenti legati alle esperienze più alte dell’uomo: virtù politiche e militari,
amore, qualità morali. Chi voglia scrivere poesie nello stile più alto (detto “tragico” o “sublime”)
dovrà scegliere con accortezza le forme metriche, i tipi di versi, le costruzioni sintattiche e
perfino i vocaboli da adoperare.
Tuttavia qual è il volgare più colto e illustre d’Italia? A questa domanda Dante cerca di rispondere, dopo
aver distinto i 14 gruppi principali di volgare (i dialetti) in due gruppi secondo i due versanti tirrenico e
adriatico dell’Appennino. Di sicuro non il romano, che è “il più turpe”, essendo i romani, per i costumi,
“sopra a tutte le genti corrottissimi”.
Senza dar troppe spiegazioni, Dante liquida subito anche i milanesi e i bergamaschi, gli aquileiensi e gli
istriani, nonché tutte le loquele “montanine e rusticane”, e anche i sardi “che non sono italici”, in quanto
“privi di un loro proprio volgare e imitatori di grammatica”
Quanti volgari restano? Anzitutto quello siciliano, importantissimo perché qui è nata la rima poetica (la
canzone, il sonetto, la tenzone).Tuttavia – dice Dante – se questo volgare fu illustre al tempo di Federico
II di Svevia e di Manfredi, a partire da Carlo d’Angiò s’è imbarbarito; senza poi considerare - prosegue
Dante - che qui si parla di volgare scritto, quello degli intellettuali di corte (p.es. Guido delle Colonne
e Giacomo da Lentini), poiché quello degli isolani
è sempre stato barbaro.Anche i pugliesi, quando
parlano, sono barbari, seppure nello scritto abbiano
tradizioni illustri.
Anche fra i toscani vi sono stati eccellenti letterati in
volgare (Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia
e Dante stesso).Tuttavia la loro parlata non è certo
illustre, anzi è turpiloquium, e “infroniti” (dissennati)
sono coloro che, solo perché parlanti, lo ritenevano il
dialetto migliore. E la parlata dei genovesi, dominata
dalla zeta, è anche peggio.
Sul volgare romagnolo il giudizio è opposto: contiene
aspetti troppo femminili e altri talmente rudi da far
pensare che le donne siano in realtà degli uomini.
Giudizio altrettanto negativo è per tutti i dialetti veneti.
Dante fa l’elogio del bolognese: una “leggiadra
loquela”, lo definisce, poiché si è formato come
sintesi dei volgari delle città confinanti: Ferrara,
Modena, Imola ecc. Tuttavia il bolognese non è
aulico né illustre, tant’è che nessuno lo usa per
155 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Ritratto di Dante, Sandro
Botticelli
progetto 8 La formazione del concetto di Italia
poetare: vi si sono allontanati i più grandi poeti di quella terra, da Guido Guinizzelli a Guido
Ghislieri, da Fabruzzo a Onesto.
E meno ancora sono illustri le parlate delle città confinanti con paesi stranieri, come Trento,Torino,
Alessandria, troppo influenzate da idiomi non italici, e quindi impure.
Dante insomma ritiene che nessuno dei volgari italici possa aspirare a diventare il linguaggio
eletto, illustre, comune a tutti i letterati italiani, e tuttavia bisogna avere sul piano linguistico un
punto di riferimento comune, onde permettere ad ogni lingua di confrontarsi. Anche il migliore dei
volgari locali (il bolognese) resta uno strumento adatto alla comunicazione quotidiana, non certo la
lingua ornata ed elegante da adoperare nell’alta letteratura. Gli unici che, secondo Dante, si sono
avvicinati al volgare illustre sono i migliori poeti italiani della sua generazione e delle precedenti:
i poeti della già ricordata scuola siciliana e gli esponenti del cosiddetto “Dolce Stil Nuovo” (un
movimento poetico che si sviluppò soprattutto a Bologna e a Firenze tra la fine del Duecento
e l’inizio del Trecento, di cui fece parte lo stesso Dante). La lingua nazionale si sarebbe potuta
facilmente avere in Italia – secondo Dante – se ci fosse stata l’unificazione nazionale: in questo
caso, alla corte del sovrano si sarebbero riuniti gli ingegni migliori di tutta la nazione, e dal loro
contatto quotidiano sarebbe nata una lingua che, senza identificarsi con un dialetto particolare,
avrebbe ritenuto il meglio di tutti. Non essendo politicamente possibile l’unità, in quanto i molti
regni non riuscivano a fare un unico reame, il volgare illustre non poteva essere il prodotto di
fattori storici e naturali, ma solo una costruzione artificiale di scrittori, poeti, ecc., appoggiati dai
loro rispettivi governi: una lingua scritta, non parlata, o parlata solo in ambienti molto ristretti, da
persone di rango elevato.
Si badi, Dante avrebbe voluto un volgare illustre non come sintesi suprema delle espressioni e delle
parole più raffinate dei vari dialetti, ma come risultato di una progressiva liberazione dai limiti municipali
delle varie parlate, dalle necessità pratiche e contingenti che rendono i vari volgari di scarsa dignità
letteraria. Il volgare illustre doveva diventare il prodotto di un processo di depurazione delle forme rozze
dialettali che ciascun poeta e scrittore doveva compiere nei confronti del proprio dialetto, al punto da
determinare, nelle varie regioni, risultati abbastanza simili.
Il limite di Dante in questa opera è quello di aver pensato a una “unificazione linguistica” come
prodotto non di quella “sociale” delle varie popolazioni, che avrebbero dovuto politicamente liberarsi
delle barriere artificiali che le dividevano, ma come prodotto di quella del ceto intellettuale, che
avrebbe deciso del tutto autonomamente a quale volgare dare la canonicità: operazione questa che,
senza un contestuale rivolgimento politico che unificasse la penisola, sarebbe stata assolutamente
irrealizzabile: anche quando fu resa possibile alla fine dell’Ottocento, essa si concluse in maniera del
tutto arbitraria, penalizzando le parlate di origine non fiorentina, trasformando così il neonato italiano
in un figlio privilegiato del vecchio latino.
Un’altra cosa curiosa del trattato è che da un lato Dante vuol far l’apologia del volgare illustre (con cui
sostituire il latino), dall’altro sottopone a critica serrata tutti i volgari della penisola, senza salvarne alcuno
in particolare. Cioè, invece di mostrare agli intellettuali i meriti, i pregi di questo e quel volgare, li squalifica
nella loro totalità, mettendo una seria ipoteca sull’utilità del trattato stesso. Persino il toscano (cioè la
sua stessa lingua, quella che aveva usato per cantare le lodi di Beatrice) viene definita col termine di
turpiloquium. Dunque perché atteggiamenti così contraddittori?
Qui si ha l’impressione che Dante misurasse il valore di tutti i volgari italiani col metro del proprio volgare.
Egli infatti riteneva sì il toscano un turpiloquium, ma da esso ovviamente escludeva la produzione
letteraria degli stilnovisti e, in particolare, la propria (anche se poi si cela dietro la falsa modestia di non
citarsi mai per nome o citarsi come amico di Cino da Pistoia).
Probabilmente il trattato non era rivolto, in astratto, al ceto degli intellettuali, ma, in concreto, a qualche
corte principesca che, politicamente forte, sapesse poi far valere su un territorio abbastanza grande, il
più grande possibile, la superiorità del volgare letterario di Dante.
“La bilancia capace di soppesare [le azioni da compiere] – egli afferma – si trova d’abitudine solo nelle
curie più eccelse”.A suo giudizio, infatti, occorreva scegliere un volgare piuttosto che un altro rispettando
le condizioni “politiche” della “curialità” e “aulicità”.
In sostanza, Dante, in quest’opera, non sembra voler discutere con gli intellettuali su quale volgare meriti
l’onore di sedersi sul trono delle letterarietà; si chiede soltanto in che modo sia possibile che il volgare
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illustre usato dagli stilnovisti e, in particolare, da lui, possa sedere su questo trono, visto e considerato
che sul piano politico non esiste alcuna condizione per poterlo permettere.
Mancando tali condizioni, un’opera come il De Vulgari non poteva che finire interrotta.
2.3 De Monarchia
Dante non era solo un letterato, ma anche un politico e se, come letterato, gli era a cuore il problema
dell’unificazione linguistica (che il latino da tempo non era più in grado di garantire, se non appunto a
livello di ceti intellettuali molto ristretti), come politico aspirava all’unificazione territoriale sotto l’egida
imperiale (l’unica che secondo lui avrebbe potuto far superare gli antagonismi e le divisioni comunali).
Il problema dell’unità nazionale nell’ambito dell’impero universale è esposto nell’opera De monarchia:
con questo testo il poeta volle intervenire in uno dei temi più “caldi” della sua epoca: il rapporto tra
l’autorità laica (rappresentata dall’Imperatore) e l’autorità religiosa (rappresentata dal Papa ).
Secondo la cronologia più accreditata, il De Monarchia fu composto negli anni tra il 1310 e 1313, cioè
al tempo della discesa di Enrico (o Arrigo) VII di Lussemburgo in Italia.
L’opera si articola in tre libri, ma il più importante è sicuramente il terzo, quello in cui Dante affronta più
espressamente il tema dei rapporti tra il Papa e l’Imperatore.
Dante, anzitutto, condanna la concezione ierocratica del potere solennemente ribadita attraverso la bolla
Unam Sanctam del 1302 da Bonifazio VIII.
La concezione teocratica assegnava la pienezza dei poteri al papa, la cui autorità era superiore anche
a quella dell’imperatore: questo significava che il papa era legittimato ad intervenire anche negli affari
che di norma competevano all’autorità laica.A questa concezione Dante oppone l’idea che l’uomo
persegue essenzialmente due fini: la felicità della vita terrena e quella della vita eterna. Mentre al papa
spetta la conduzione degli uomini alla vita eterna (in cui Dante riconosce comunque il fine più alto),
all’imperatore spetta, invece, il compito di guidarli alla felicità terrena. Ne deriva perciò l’autonomia della
sfera temporale, di competenza dell’Imperatore, rispetto alla sfera spirituale, di competenza del Papa.
Per esemplificare tale concezione il poeta sostituisce alla teocratica similitudine del sole, simbolo del
potere spirituale e del Papa, e della luna, che come simbolo dell’Imperatore, brilla di luce riflessa del
sole, il nuovo parallelismo dei due soli che brillano di luce propria.
Per Dante l’Imperatore non era in alcun modo soggetto al Pontefice, in quanto la sua autorità gli veniva
conferita da Dio.
Pur in questa visione utopica (già ormai anacronistica ai suoi tempi) di un recupero delle due autorità
universalistiche, il Papato e l’Impero, Dante assegna, nella monarchia universale, una particolare
importanza all’Italia come il giardin dello imperio (Purgatorio,VI 105) e quindi con una funzione di
preminenza nel mondo (anche per la presenza sul suo suolo della città di Roma origine dell’Impero
e centro della cristianità come sede di Pietro), per il quale egli proponeva come ideali la romanità e il
cristianesimo, valori ancor oggi comuni all’Europa.
Nelle opere del poeta fiorentino vi è, quindi, una
continua attenzione all’Italia e uno sforzo costante
per scuotere l’inerzia e l’ignoranza degli Italiani e per
destare in loro il sentimento delle passate origini.
Affermò, perciò, la necessità di una lingua nazionale,
riconoscendo l’affinità dei popoli d’Italia, pur così
distinti, da regione a regione, nei loro dialetti e
ponendo, con l’unità linguistica, la prima determinante
forza coesiva che, attraverso varie vicende di secoli,
giungerà alle lotte che faranno di tanti staterelli, di
quella espressione geografica del Metternich, una
grande nazione con un presente edificato su immortali
basi consolidate sul passato.
Dunque Dante è stato il poeta-profeta dell’unità
d’Italia: per questo motivo nell’Ottocento il suo culto
veniva proibito da certi governi tirannici della Penisola,
specialmente da quelli facenti capo all’Austria, tanto
157 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Statua di Dante, Piazza Santa
Croce, Firenze
progetto 8 La formazione del concetto di Italia
che diversi patrioti furono arrestati e incarcerati solo perché in casa possedevano ed esponevano
qualche suo ritratto.
Enrico Bianchi aveva scritto nell’introduzione del suo fortunato commento dantesco:
“Fra i grandi genii che mostrarono al mondo attonito di che cosa la mente umana sia capace, Dante
è senza dubbio il più grande. Egli è la più pura gloria dell’Italia; gloria che nessuno ci può togliere, per
passar di tempo o mutare d’eventi. Egli è stato e sarà sempre segnacolo d’italianità; e intorno a lui e nel
suo nome si raduneranno gl’Italiani ogni volta che l’amore della patria fiammeggerà nei loro cuori; e lo
sentiranno lontano da sé, solitario e sdegnoso, quando per torti raggiri o con arti indegne vorranno far
male a quell’Italia ch’egli tanto amò.”
Ritratto di Francesco
Petrarca,Altichiero circa
1376, Padova
3.1 Petrarca e l’Italia: la Canzone Italia Mia
La poesia politica di Petrarca, non frequente nel Canzoniere, nasce da uno stato d’animo simile a quello
della poesia amorosa.
Nella canzone politica “Italia mia”, infatti, si ritrovano i sentimenti dominanti del Petrarca: la tenera vena di
affetto; la malinconia che colora di sé tutta la storia del suo amore; quel pensiero della vanità e fugacità
terrena che nelle rime del Canzoniere affatica sempre più l’animo del Petrarca.
Si colgono due temi centrali: la deprecazione delle lotte civili tra i signori italiani e la condanna
dell’impiego di milizie mercenarie germaniche.
Gli interlocutori del poeta sono i signori: Petrarca si rapporta ormai alla nuova realtà signorile che si
è affermata nella penisola, e, come grande intellettuale, si propone, al di sopra delle parti, nelle vesti
di colui che ammonisce, esorta, guida e indirizza al bene chi ha la responsabilità del potere. Si può
misurare qui la lontananza da Dante, che, pur già inserito anch’egli, nel periodo dell’esilio, nella nascente
realtà signorile, ha ancora essenzialmente come riferimento la dimensione municipale e comunale, o
dall’altro lato, quella dei grandi poteri universali, Impero e Chiesa. Inoltre, mentre Dante, di fronte alla
realtà politica dei suoi tempi, ha l’atteggiamento apocalittico del profeta che si erge a giudicare in nome
del giudizio finale di Dio e minaccia terribili castighi
dal cielo sulla corruzione contemporanea, Petrarca
sceglie un tono diverso, commosso e in certi punti
persino dolente ed elegiaco. (Si veda nelle ultime
due strofe l’equazione patria-madre, v. 85, e si noti
l’immagine affettuosa del “nido” v.81).
Le motivazioni dell’appello ai signori non sono
soltanto politiche (l’esigenza di concordia e
di pace), ma anche di tipo esistenziale: nella
penultima strofa, il poeta richiama i temi a lui
cari della fuga del tempo, della labilità della vita,
della morte incombente; in nome di questo, del
“dubbioso calle” che attende anche i potenti,
egli li invita a deporre odi ed ire, a dedicarsi a più
degne imprese, per aprirsi la strada del cielo.
Il secondo motivo è quello delle milizie mercenarie germaniche, che invadono il suolo italiano e
combattono non per ragioni ideali, ma solo per interesse, passando da un campo a quello avverso
a seconda delle migliori offerte (è un tema politico che avrà poi grande rilevanza nel pensiero di
Machiavelli).
Il motivo si specifica nella contrapposizione tra la nobiltà del sangue latino da un lato e la rozza crudeltà
dei costumi tedeschi dall’altro.
Su questo contrasto, riferito al presente, si innesta quello riferito al passato, tra la potenza romana e i
popoli germanici, che appare come opposizione tra civiltà e barbarie. Se i Germani di oggi sono barbari
e feroci come quelli antichi, gli Italiani appaiono gli eredi diretti dei Latini.Vi è per Petrarca una continuità
tra civiltà romana e italiana; egli ha il culto di un passato glorioso di grandezza politica e di virtù guerriera,
che vorrebbe perpetuato nel presente.
Depreca quindi la decadenza italica, ed invita ad una rinascita dello spirito antico, a ritrovare la “virtù”
romana lottando contro i “barbari”. L’appello si concreta nei versi vibranti e lapidari, divenuti famosi, e
158 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 8 La formazione del concetto di Italia
Statua di Francesco Petrarca,
ripresi da Machiavelli in chiusura del Principe:
Uffizi -Firenze
“vertù contra furore / prenderà l’arme, e fia ‘1
combatter corto: / che l’antiquo valore / ne l’italici cor’
non è ancor morto” vv. 93-96.
Tutta la canzone, col suo mito di Roma e della rinascita
italica, avrà in seguito grande risonanza e fortuna, fino
ai patrioti del Risorgimento. Bisogna precisare però
che la nozione petrarchesca di “Italia” è diversa da
quella che sarà poi propria dell’Ottocento. Non è per lui
un’entità nazionale e politica (non c’è l’idea di un’unità
statale), ma culturale, come erede di una tradizione di
civiltà che ha le sue radici in Roma e nella sua cultura.
La ragione della straordinaria celebrità della
canzone all’Italia e del fascino che essa ha
esercitato sulla fantasia di tanti poeti dal ‘500
all’800, è in quella commozione, in quel palpito di
affetto, in quella voce suadente che per lo più si
eleva ad un ammonimento solenne pieno di carità
o si addolcisce quasi fino alle lacrime. Questa nota
comincia subito nell’invocazione iniziale; continua
nella rappresentazione dell’Italia, adombrata qua
e là con l’ammirazione e l’affetto che si hanno per
una persona cara
“le piaghe mortali / che nel bel corpo tuo sí spesse
veggio” vv. 2-3
il “tuo diletto almo paese”, v. 9 “le belle contrade” v.18 , “per inondari nostri dolci campi” v. 30
e con le parole semplici e scarne che nascono dai sentimenti profondi; culmina in quella
definizione domestica della patria che fa una cosa sola della nostra vita e della terra su cui la
trascorriamo:
“Non è questo ‘l terren ch’i’ toccai pria?” v. 81
Lo stile è elevato: e l’ultimo periodo ha quell’andamento grave, quel tono contemplativo che è
costante in tutto il Canzoniere e che solleva in un’alta sfera anche i motivi più umili:
“Non è questa la patria in ch’io mi fido, / madre benigna e pia, /che copre l’un e l’altro mio
parente?” v. 84-86.
Tuttavia il sentimento del Canzoniere non si è mai accostato al suo oggetto come qui. Questo è
il solo punto del Canzoniere in cui si stabilisca fra il poeta e il lettore una comunanza di affetti,
perché qui il poeta che parla, non è l’uomo che s’è creato un suo mondo aristocratico e romito,
ma il fanciullo. Al tocco delle sue parole, in cui vibrano brevemente e profondamente i ricordi dei
suoi primi anni, si ridesta nel lettore il mondo dei suoi primi affetti; e il lettore rivede nel Petrarca
che cresce al sentimento della patria, la propria vita che si forma, e insieme con essa, inseparabile
da essa, la terra da cui questa ha preso significato e colore.
La canzone è tutta piena d’una dignitosa speranza, ma in un punto ( già citato in precedenza)
questa speranza nel risorgere dell’Italia si fa impeto: “Vertú contra furore / prenderà l’arme...”
vv.93-94
È questo il solo punto della canzone in cui il Petrarca si avvicina a Dante e l’esortazione cede quasi
all’azione. Ma tutto il resto si svolge in una sfera di alta e religiosa malinconia.
La disperazione politica è un sentimento che muore con Dante e risorge solo con l’Alfieri; per
Petrarca la politica non è più un argomento vitale come per Dante: nel senso che Dante lo
possiamo rappresentare come poeta politico, tanta è l’altezza che ha in lui questo sentimento;
Petrarca no. Petrarca rimane un elegiaco, un contemplativo, un solitario anche quando fa poesia
politica.
159 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
17 Marzo 2011, 150 anni dell’Unità d’Italia
Quest’anno festeggiamo l’anniversario dell’unificazione d’Italia. Un avvenimento di
fondamentale importanza che ha portato il nostro Paese ad essere unito ed indivisibile. Per
ricordare questo importante momento della nostra storia la classe 5° A Turistico dell’I.T.C.G.
“Cesare Battisti” di Salò ha partecipato al progetto per dimostrare che le nuove generazioni
sono orgogliose e consapevoli del sacrificio e dell’eroismo di chi è morto per “regalare” a noi
Libertà e Democrazia.
Autori del progetto
Balzarini Elisa, Balzo Irene, Bertoia Alessandro, Busi Alessandra, Dolcini Deborah, Fusco
Davide, Hermanovich Diana, Maccarinelli Silvia, Moise Dana, Perini Federica, Rodolfi Andrea,
Serra Francesca, Suppi Debora, Stabile Jessica, Venin Mirel, Zanardi Stefano
La ricerca è stata guidata dalla prof.ssa Amalia Bigi e dal prof. Antonio Arigoni.
Tutti noi abbiamo accolto con entusiasmo l’idea di percorrere e di ricordare le tappe della
storia del risorgimento italiano. La nostra ricerca è iniziata con una visita ai luoghi, sul Lago
di Garda, che hanno segnato il percorso nel raggiungimento dell’Unità d’Italia. La nostra
“gita” vuol essere anche un Itinerario da suggerire ai turisti, italiani e stranieri, appassionati
di Storia.
La nostra ricerca è proseguita concentrandoci su alcune figure importanti come Giuseppe
Mazzini e Giuseppe Zanardelli, personaggi che hanno illuminato il cammino verso
l’indipendenza, che con le loro idee hanno influenzato le imprese rivoluzionarie lungo tutta la
penisola.
Come conclusione di questo viaggio nella storia dell’Unità d’Italia abbiamo voluto rendere
omaggio anche al contributo e alle azioni intraprese da Gabriele d’Annunzio che “a modo
suo” e “da indipendente” ha voluto portare a termine “il Programma Risorgimentale”
conquistando le terre di Trieste e Fiume. Ringraziamo tutti quelli che hanno voluto questo
Progetto, perché ci ha fatto sentire parte della storia italiana.
L’età del Risorgimento
Nella prima metà dell’800 l’Italia conobbe un processo di graduale riscoperta e sempre
più netta rivendicazione della propria
identità nazionale. Questo processo, noto
come Risorgimento, portò alla formazione
dello Stato unitario Italiano, ovvero fece
della penisola un organismo politico
e indipendente a base nazionale. La
corsa all’unità fu lunga e complicata, vi
proponiamo gli avvenimenti principali che
hanno segnato questo periodo storico.
“Il Congresso di Vienna fu convocato il
22 settembre del 1814 dalle potenze
(Austria, Gran Bretagna, Prussia e Russia)
che sconfissero Napoleone Bonaparte
con l’obiettivo di ripristinare l’assetto
politico europeo presente prima delle
campagne napoleoniche. A questo
congresso parteciparono ben 216 delegazioni provenienti da tutta Europa. Il congresso
si prefiggeva anche l’obiettivo di dare all’Europa un assetto stabile per impedire le mire
espansionistiche della Francia. Vi era un solo modo per garantire la pace duratura in
Europa: limitare il potere di ciascuna potenza in modo che nessuna di esse risultasse
troppo rafforzata rispetto alle altre.
161 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
Due furono i principi alla base del lavoro del Congresso:
1. Il principio di equilibrio, volto ad impedire che uno Stato potesse imporsi sugli altri;
2. Il principio di legittimità con il quale si restaurarono sui troni le dinastie regnanti prima
delle campagne napoleoniche.
La tendenza del Congresso fu quella di rafforzare
l’assolutismo monarchico e di impedire la diffusione
delle idee francesi. Lo spirito della restaurazione fu
perciò antiliberale e volto alla negazione del principio di
nazionalità (popolo sovrano).
L’Austria ottenne in Italia, oltre al Lombardo-Veneto,
anche il controllo indiretto del Ducato di Parma
assegnato a Maria Luisa d’Austria, del Granducato di
Toscana e del Ducato di Modena e Reggio. Il Regno
di Napoli tornò a Ferdinando IV di Borbone e nel
1817, con l’acquisizione della Sicilia, andò a formare il Regno delle Due Sicilie; lo Stato Pontificio
fu restituito a papa Pio VII.
Dopo aver riorganizzato l’assetto politico europeo bisognava preservarlo il più a lungo possibile. Nel
settembre 1815, su iniziativa dello zar Alessandro I, Russia. Prussia ed Austria firmarono il documento
istitutivo della Santa Alleanza, patto questo che non vincolava i contraenti ad alcun obbligo preciso e
concreto. Il testo affermava che i sovrani si sarebbero prestato aiuto e soccorso in ogni luogo e in ogni
occasione. In un secondo tempo aderirono alla Santa Alleanza anche altre potenze europee, tra le quali
la Francia. Nel novembre del 1815, su iniziativa britannica, fu stipulata la Quadruplice Alleanza tra Gran
Bretagna, Russia, Prussia ed Austria, volta ad impedire che l’assetto e l’ordine delineati dal Congresso
potessero essere rotti. La risposta alla politica antiliberale del Congresso non si fece attendere I gruppi
liberali, che chiedevano l’instaurazione di governi costituzionali, erano una minoranza politica e sociale
che faceva capo principalmente ad esponenti intellettuali e della borghesia imprenditoriale. Questi
gruppi non potendo operare alla luce del sole si organizzarono in società segrete con attività cospirativa
clandestina. In Italia la società segreta più famosa era la Carboneria che aveva filiali in tutta la penisola.
Negli anni 1820-1821, in Spagna, in Portogallo e in Italia scoppiarono dei moti insurrezionali promossi
da gruppi liberali i quali, però, non ottennero l’appoggio delle masse popolari. Nella penisola iberica
questi moti costrinsero i regnanti a promulgare delle Costituzioni. In Italia il 1 luglio 1820 scoppiarono dei
moti insurrezionali che interessarono il Regno delle Due Sicilie. I moti furono promossi da Michele Morelli
e Giuseppe Silvati, due ufficiali carbonari, e ben presto dilagarono in tutto il napoletano.Alla rivolta si unì
anche Guglielmo Pepe, ex ufficiale napoleonico, assumendone il comando. Il re Ferdinando I fu costretto
a concedere la Costituzione. Il 15 luglio 1820 la rivolta esplose anche in Sicilia dove il moto assunse,
oltre al carattere costituzionale, soprattutto quello separatista. Il governo di Napoli inviò Florestano Pepe
il quale, per reprimere il moto, cercò di trattare con i rivoltosi, ma invano. Fu inviato quindi Pietro Colletta
il quale sedò la rivolta nel sangue (settembre 1820).Animati dagli eventi accaduti in Spagna e nell’Italia
meridionale, le società segrete lombarde e quelle del regno di Sardegna intensificarono la propria
attività cospirativa, ma nell’ottobre del 1820 la polizia austriaca arrestò alcuni carbonari tra i quali Pietro
Maroncelli e Silvio Pellico. Federico Confalonieri, capo della setta segreta dei federati di Lombardia,
decise di passare all’azione pensando di poter contare sull’appoggio di Carlo Alberto, principe di
Carignano, il quale nutriva simpatie per i gruppi liberali. Il moto piemontese fu guidato dal conte Santorre
di Santarosa. In Piemonte la guarnigione militare dei rivoltosi raggiunse Torino il 12 marzo.Vittorio
Emanuele I abdicò in favore di Carlo Felice il quale, trovandosi a Modena, affidò la reggenza a Carlo
Alberto. Questi concesse la Costituzione che sarebbe entrata in vigore a seguito dell’approvazione di
Carlo Felice. Il re sconfessò l’iniziativa di Carlo Alberto e minacciò di unirsi alle truppe di Novara, fedeli alla
Corona. In Lombardia, invece, i piani di Confalonieri furono scoperti dalla polizia austriaca e l’insurrezione
saltò. In aprile Carlo Alberto al capo di un esercito piemontese e austriaco sconfisse i rivoltosi di Santorre
di Santarosa a Novara; così si conclusero i moti rivoluzionari del 1820-21.
162 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
L’Austria che era la più interessata, a reprimere i moti fece convocare a Troppau un congresso dove
Austria, Russia e Prussia proclamarono il principio d’intervento. In un Congresso a Lubiana fu deciso
l’intervento armato nel napoletano. Il 23 marzo 1821 le truppe austriache abbatterono il regime
costituzionale napoletano.
Con il Congresso di Verona fu dato mandato alla Francia
di reprimere il regime costituzionale spagnolo che,
nonostante l’accanita resistenza dei gruppi liberali,
cadde nell’ottobre del 1823. In Portogallo, invece, il
regime costituzionale fu soppresso dalle forze assolutiste
interne, riorganizzatesi nel frattempo.
Nel 1830 scoppiarono in Europa nuove rivolte che
determinarono in Francia e in Belgio una prima rottura
negli assetti stabiliti dal Congresso di Vienna. In Francia
scoppiò una rivolta popolare contro Carlo X il quale era
intenzionato a ripristinare totalmente l’antico regime. La
“rivoluzione di luglio” portò sul trono francese il conte
Luigi Filippo d’Orleans. La Francia divenne così una
monarchia costituzionale. In Belgio il 23 agosto 1830
a Bruxelles la popolazione insorse chiedendo l’indipendenza dall’Olanda. L’intervento dell’Alleanza a
difesa del re Guglielmo I fu impedito da Luigi Filippo d’Orleans il quale affermò che per garantire la pace
in Europa era necessario non intervenire. Il Belgio divenne così uno Stato indipendente e poté dotarsi
di una Costituzione liberale. In Italia l’attività cospirativa della carboneria non si era arrestata, ma era
rimasta vitale soprattutto nell’Italia centrale.
Gli eventi parigini spronarono i gruppi liberali all’azione. La carboneria, grazie ad Enrico Misley
aveva preso contatti con Francesco IV duca di Modena il quale era intenzionato a costruire uno
Stato nell’Italia centro-settentrionale sfruttando i moti liberali. Nella rivolta diretta da Ciro Menotti
furono coinvolte l’Emilia, la Romagna e le Marche. L’improvviso cambiamento dell’atteggiamento
di Francesco IV portò, però, all’arresto di Ciro Menotti ma non impedì lo scoppio della rivolta.
Grazie a questi moti, nei ducati di Parma e Toscana e in alcuni territori pontifici furono instaurati
dei governi provvisori; l’esercito dei rivoluzionari, però, non riuscì a resistere alla reazione
austriaca. Nell’Italia centrale furono così ristabiliti i sovrani preesistenti. Le cause principali
dell’insuccesso di questi moti furono il mancato appoggio sia delle masse popolari che di una
grande potenza.
L’insuccesso dei moti carbonari fu dovuto da una parte al metodo di lotta e dall’altra al mancato
appoggio popolare . Uno dei protagonisti del movimento nazionale italiano fu Giuseppe Mazzini,
membro della carboneria, il quale puntava alla costituzione di un’Italia “una, libera, indipendente e
repubblicana”.
Mazzini rifiutava l’idea di un’Italia federale; era convinto che uno Stato centralizzato avrebbe meglio
rappresentato l’unità nazionale. Secondo Mazzini il popolo aveva come missione quella di portare a
termine l’unità nazionale che non doveva essere realizzata da un sovrano italiano né con l’aiuto di una
potenza straniera ma attraverso un’insurrezione popolare.
Nel 1831 Mazzini fondò la Giovine Italia, un’organizzazione clandestina nazionale che doveva incitare
alla lotta popolare. La visione mazziniana, però, andava di là dei confini nazionali: da ciò la nascita della
Giovine Europa che fu fondata dallo stesso Mazzini nel 1838.
Il metodo scelto da Mazzini per la lotta fu quello del ricorso ai moti insurrezionali che avrebbero innescato
poi una sollevazione delle masse popolari preparate all’azione per mezzo della propaganda. I tentativi
insurrezionali promossi dai mazziniani si trasformarono tutti in pesanti sconfitte. I motivi di tali insuccessi
vanno principalmente ricercati nella propaganda di obiettivi che le masse popolari non recepivano come
propri e nell’incapacità di “convincere” le masse.
Gli obiettivi indicati da Mazzini non coinvolgevano la stragrande maggioranza della popolazione costituita
da contadini (Mazzini, ad esempio, non affrontava il problema della terra per loro fondamentale).
Tra i tentativi insurrezionali falliti vi è quello dei fratelli Bandiera che, non avendo ottenuto l’appoggio dei
contadini calabresi, furono catturati e fucilati dai Borboni.
163 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
In Italia, mentre i mazziniani “perdevano colpi” anche a causa del fallimento dei moti insurrezionali, si
andavano affermando, guadagnando consensi, i liberali moderati la cui visione prevedeva un processo
d’unificazione lento e senza spargimento di sangue: tale processo si sarebbe concluso con la nascita di
uno Stato federale.
Nel 1848 l’Europa fu nuovamente investita da un’ondata di moti insurrezionali. In Francia la situazione
politica ed economica era estremamente precaria a causa dell’atteggiamento di stampo conservatore
assunto da Luigi Filippo d’Orleans. Gli oppositori del sovrano diedero vita alla “campagna dei
banchetti”, chiamata così perchè i comizi politici venivano camuffati con banchetti offerti da esponenti
antigovernativi. Il tentativo da parte del ministro Guizot di impedire uno di questi banchetti sfociò in una
rivolta popolare che portò alla nascita della repubblica. Fu proclamato il diritto al lavoro e furono creati gli
opifici nazionali volti ad eliminare la disoccupazione. Fu anche introdotto il suffragio universale maschile.
Gli opifici nazionali, improduttivi e troppo costosi, furono ben presto chiusi dalla borghesia moderata,
salita al potere, dopo aver fatto sedare nel sangue dalla guardia nazionale una rivolta operaia.
Fu così varata una Costituzione moderata e la Francia divenne una Repubblica Presidenziale. Come
primo presidente della Repubblica fu nominato Luigi Napoleone.
I moti insurrezionali interessarono anche l’impero asburgico dove, promossa da studenti e insegnanti,
scoppiò nel 1848 una rivolta che da Vienna si diffuse in tutto l’impero per il passaggio all’offensiva dei
vari movimenti democratici.Tale offensiva ebbe come conseguenza l’abbandono di Vienna da parte di
Metternich prima e di Ferdinando I dopo e la costituzione di governi provvisori a Budapest e a Praga.
Insurrezioni scoppiarono nel 1848 anche in Germania dove si sollevò una rivolta che da Berlino si diffuse
nelle altre città tedesche. Fu quindi convocata un’assemblea costituente a Francoforte con lo scopo di
scrivere la Costituzione per la Germania unificata.
In Italia la rivolta scoppiò inizialmente a Venezia e a Milano che si ribellarono alla dominazione asburgica.
Anche l’Italia meridionale fu investita da moti insurrezionali.A Palermo scoppiò una rivolta che costrinse
Ferdinando II a concedere la Costituzione. La rivolta si propagò anche in altre città italiane costringendo i
sovrani a concedere anch’essi la Costituzione.
A Venezia, la rivolta fu guidata da Daniele Manin e Nicolò Tommaseo e portò alla proclamazione della
Repubblica di San Marco (17-03-1848).
La rivolta milanese (conosciuta anche come le cinque giornate di Milano) fu guidata da Carlo Cattaneo e
portò all’instaurazione di un governo provvisorio costituto dagli insorti.
La vittoria milanese spinse Carlo Alberto (sul trono dal 1831) a dichiarare guerra all’Austria. A lui si
unirono anche Pio IX, Leopoldo II e Ferdinando II; la guerra contro l’Austria divenne quindi una guerra
nazionale (I Guerra d’Indipendenza 1848-1849). Per i personali interessi di Carlo Alberto l’intesa
si ruppe presto. Il regno sabaudo, dopo qualche successo contro l’Austria, fu costretto a firmare
l’armistizio con gli austriaci.
Nel 1849 nell’impero asburgico, grazie all’esercito fedele alla corona, fu restaurata la vecchia
monarchia.
In Germania Federico Guglielmo IV rifiutò la corona offertagli dall’assemblea di Francoforte e ripristinò
con le armi la monarchia abbattuta dagli insorti.
In Italia la fine della “guerra regia” diede inizio alla guerra del popolo. Purtroppo la guerra dei democratici
ebbe dimensioni di gran lunga inferiori a quelle sperate da Mazzini.
Nel regno delle due Sicilie i Borboni e liquidarono la Costituzione prima concessa.
Nello Stato pontificio, a seguito della mobilitazione dei democratici e dei liberali, sorse nel 1849 la
Repubblica Romana governata da un triunvirato: Mazzini, Saffi ed Armellini, che intraprese una politica di
laicizzazione dell’ex Stato pontificio.
In Toscana, i democratici costrinsero Leopoldo II a fuggire a Gaeta dove già si era rifugiato Pio IX.Anche
la Toscana fu governata da un triunvirato: Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni.
Mazzini, a seguito della situazione favorevole determinatasi, voleva accelerare il processo di unificazione,
ma trovò l’opposizione di Guerrazzi.
Carlo Alberto, timoroso per la caduta di prestigio della monarchia sabauda, piuttosto che sottostare alle
pesanti condizioni austriache imposte con la pace, decise di continuare la guerra. Una nuova sconfitta lo
portò ad abdicare a favore di Vittorio Emanuele II.
Intanto l’esercito austriaco occupò la Toscana consentendo a Leopoldo II di riprendere il potere.
164 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
La repubblica Romana cadde per l’intervento di Luigi Napoleone erettosi a difensore dei cattolici per
accaparrarsene l’appoggio.
L’ultima a cadere, dopo una lunga resistenza all’assedio degli austriaci, fu la Repubblica di Venezia.
L’unico stato italiano che non subì moti rivoluzionari fu lo Stato sabaudo.Alla guida del governo
sabaudo vi era Camillo Benso di Cavour, per il quale il regno di Sardegna, stringendo alleanze con
potenze straniere, doveva cacciare l’Austria dalla penisola per poter costituire un vasto regno dell’Italia
Settentrionale.Tale convinzione portò Cavour ad inviare in Crimea un contingente sardo; ciò consentì al
regno sabaudo di partecipare al Congresso di Parigi dove Cavour sollevò la questione italiana.
Di fronte all’ennesimo insuccesso dei mazziniani nella spedizione di Sapri, Cavour, nell’incontro segreto
di Plombieres, decise di allearsi con la Francia. Secondo gli accordi stipulati, Napoleone III (Luigi
Napoleone diviene imperatore nel 1852 con tale nome) sarebbe entrato in guerra a fianco del regno
sabaudo solo se quest’ultimo fosse stato attaccato dall’Austria. In cambio la Francia avrebbe ricevuto
Nizza e la Savoia. Cavour, per provocare l’Austria, fece disporre truppe sabaude lungo il confine con i
territori austriaci.
Dopo un ultimatum austriaco respinto da Vittorio Emanuele II, l’Austria attaccò il regno di
Sardegna (II Guerra d’Indipendenza). Come da patti la Francia si schierò con Vittorio Emanuele
II. Dopo una serie di vittorie delle truppe sardo-francesi, Napoleone III propose all’Austria un
armistizio in quanto nell’Italia centrale esponenti filopiemontesi, saliti al potere, chiedevano
l’annessione al regno sabaudo. Il 12 luglio 1859 a Villafranca fu siglata la pace tra Francia ed
Austria. La pace prevedeva la cessione della Lombardia da parte dell’Austria alla Francia, la quale
successivamente la consegnò all’Italia, e la restaurazione dell’ordine nell’Italia centrale. Nel 1860
nell’Italia centrale si tennero dei plebisciti con esito favorevole all’annessione al regno sabaudo.
Terminava così la prima fase dell’unificazione pensata da Cavour.
A questo punto entrarono in scena i mazziniani con l’organizzazione di una spedizione di mille volontari
guidati da Giuseppe Garibaldi, avente lo scopo di fare insorgere le masse popolari meridionali. La
spedizione partì da Quarto il 5 maggio 1860.
Garibaldi, sbarcato in Sicilia, piegò subito la resistenza delle male armate truppe borboniche e, in nome
di Vittorio Emanuele II, vi proclamò la dittatura. Dopo aver sedato nel sangue un moto contadino contro
i proprietari terrieri iniziò la risalita verso Napoli. Garibaldi sbarcò in Calabria in località Rumbolo di Melito
di Porto Salvo (19 agosto 1860) che costituisce la parte più a sud dell’Italia continentale. Nelle acque
del mar Ionio, antistanti la dimora che scelse per le proprie truppe (oggi denominata Casina dei mille e
che al tempo apparteneva ai marchesi Ramirez), era visibile sino a poco tempo fa la nave garibaldina
“Torino” arenatasi durante lo sbarco frettoloso delle truppe, avvenuto sotto il fuoco nemico delle navi
borboniche e la resistenza di uno sparuto gruppo di fedeli ai Borboni prontamente messo a tacere. Nella
Casina dei mille Garibaldi dimorò un paio di giorni per far riprendere fiato alle sue truppe, sopportando
anche l’attacco delle navi borboniche che non ebbe però alcun esito. Di tale attacco è testimonianza una
palla di cannone ancora oggi visibile sul muro di un balcone della casina, mentre lo sbarco di Rumbolo è
ricordato da una stele eretta nel punto esatto dello sbarco.
Da Melito di Porto Salvo i mille risalirono attraverso l’Aspromonte sino a Napoli dove entrarono il 7
settembre 1860.
Intanto, per paura che Garibaldi potesse giungere a Roma, Cavour inviò truppe piemontesi in
Umbria e nelle Marche, occupandole. Le truppe quindi si misero in marcia verso Napoli pronte
a scontrarsi con Garibaldi il quale però non era interessato a combattere contro di esse. Questi
preferì attendere l’arrivo del re.
Nel frattempo nell’Italia meridionale si tennero dei
plebisciti per l’annessione al regno sabaudo, che ebbero
esito favorevole.
Il 26 ottobre 1860, con lo storico incontro di Teano,
Garibaldi consegnò a Vittorio Emanuele II tutti i territori da
lui liberati. In epoca immediatamente successiva anche
le Marche e l’Umbria furono annesse al regno sabaudo
165 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
per mezzo di plebisciti. L’unificazione nazionale prendeva così corpo, anche se essa non era ancora
completa perché il Lazio rimaneva territorio papale e il Veneto era in mano austriaca. Il 17 marzo 1861
Vittorio Emanuele II era proclamato re d’Italia.
Con lo scoppio della guerra austro-prussiana del 1866, l’Italia si schierò con la Prussia con il
premeditato intento di sottrarre il Veneto all’Austria (III Guerra d’Indipendenza). La guerra ebbe esito
negativo per l’Italia, ma, grazie alle vittorie prussiane e alla pace di Vienna, il Veneto fu annesso al
regno d’Italia.
Per il completamento del processo d’unificazione mancava soltanto l’annessione dello Stato pontificio,
operazione questa di difficile attuazione in quanto Pio IX non era in alcun modo intenzionato a rinunciare
al potere temporale. Di fronte a questo rifiuto del papa, Garibaldi e i suoi volontari tentarono per due
volte di occupare Roma ma Napoleone III, protettore dello Stato pontificio, glielo impedì. Con la caduta
di Napoleone III a seguito della guerra franco-prussiana, truppe italiane guidate dal generale Cadorna
entrarono a Roma dopo essersi aperte un varco presso Porta Pia (20 settembre 1870), ponendo fine al
potere temporale del papa. Nel luglio 1871 Roma divenne la capitale del regno d’Italia.
L’unità d’Italia si era finalmente realizzata.
“Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”
Questa frase, coniata da Ferdinando Martini nel 1896 per sintetizzare un concetto di Massimo D’Azeglio
(predecessore di Cavour alla guida del governo sabaudo), intendeva mettere in evidenza l’importante e
difficile compito che spettava al nuovo governo del Regno d’Italia. L’Italia unita era un paese di 22 milioni
di abitanti ed era molto arretrata sia socialmente che economicamente. L’80% della popolazione era
analfabeta, l’economia si basava ancora sull’agricoltura e vi era un enorme divario tra Nord e Sud che
originò la questione meridionale. Il nuovo governo, quindi, oltre a risolvere i problemi economici dell’Italia,
doveva anche cementare un’identità nazionale ancora inesistente. Questa assenza di identità nazionale
si manifestò nell’Italia meridionale con il brigantaggio e con rivolte popolari per la mancata distribuzione
delle terre ancora nelle mani dei latifondisti.A questi problemi vanno aggiunti la maggiore pressione
fiscale del nuovo governo italiano rispetto al precedente borbonico e l’introduzione della leva obbligatoria
sconosciuta nell’Italia meridionale.
Nei primi quindici anni successivi all’unità , dal 1861 al 1876, l’Italia fu guidata da un raggruppamento
politico, la cosiddetta Destra storica, che era espressione dell’aristocrazia e della borghesia liberale
moderata del Centro-Nord del paese. Furono questi uomini (a cominciare da Bettino Ricasoli, capo del
governo dopo l’improvvisa morte di Cavour, 6 giugno 1861) ad affrontare l’insieme di problemi che la
vita del nuovo stato italiano presentava. Il primo di tali problemi era il compimento dell’unità , cui
mancavano ancora il Veneto, dominio austriaco, e Roma, soggetta al potere temporale del papa, che
aveva rifiutato di riconoscere il nuovo stato. E se l’annessione del Veneto fu ottenuta abbastanza
facilmente, grazie all’alleanza con la Prussia nella guerra contro l’Austria del 1866, assai più spinosa era
la questione romana, perché agire con la forza avrebbe significato mettersi in urto con Napoleone III,
tradizionale difensore del papato. Solo dopo la caduta dell’imperatore francese il governo italiano si
decise all’azione: il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono in Roma, che fu annessa allo stato italiano.
Un secondo ordine di problemi riguardava l’aspetto istituzionale e amministrativo: quali istituzioni avrebbe
avuto il nuovo stato unitario? L’alternativa che si pose alla classe dirigente fu quella fra accentramento e
federalismo. Fu seguita la prima via.
Il governo della Destra realizzò in primo luogo l’unificazione monetaria e finanziaria, trasformando la lira
piemontese nella moneta nazionale. Poi sviluppò una robusta politica di investimenti pubblici, soprattutto
nel settore ferroviario, ottenendo risultati di rilievo. Questa politica fu resa possibile in parte ricorrendo a
prestiti esteri, ma soprattutto grazie a un pesante inasprimento del prelievo fiscale.
La Destra non seguì certo una politica favorevole alle popolazioni meridionali. Sono queste le condizioni
sociali in cui si colloca il grave fenomeno del brigantaggio, che insanguinò il Mezzogiorno sino al 1865.
Le bande dei cosiddetti briganti prendevano di mira i politici locali, assaltando le loro fattorie, devastando
e uccidendo; incendiavano gli archivi comunali per distruggere i documenti fiscali e di leva. La risposta
del governo fu la repressione militare.
Il ceto politico della Destra omogeneo, ma espressione di una base sociale estremamente esigua. La
legge elettorale sarda, adottata anche in Italia, prevedeva un suffragio molto ristretto in base al censo:
166 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
solo l’1,9 per cento degli italiani aveva diritto di voto.Anche in Italia si pose l’esigenza di un ampliamento
del diritto di voto: ed era questo il primo punto del programma elettorale che la Sinistra presentò nel
1875. Gli altri erano il decentramento amministrativo, l’istruzione obbligatoria, una maggiore giustizia
fiscale. Su questo programma la Sinistra vinse le elezioni del 1876 e andò alla guida del paese. Nel
raggruppamento politico denominato Sinistra confluivano in realtà uomini di diversa provenienza e
orientamento: vi erano liberali riformatori, come il nuovo capo del Governo Agostino Depretis;
rappresentati della borghesia settentrionale, terrieri meridionali; vi erano ex garibaldini e mazziniani,
come Francesco Crispi; professionisti e intellettuali meridionali, come Francesco De Sanctis. Questi
ultimi finirono tuttavia col ridursi in pratica alla riforma elettorale del 1882 che portò gli elettori da
seicentomila e oltre due milioni, corrispondenti al 7% della popolazione. Nel gennaio del 1878 era morto
Vittorio Emanuele II e gli era succeduto il figlio Umberto I (1878-1900). Gli ambiziosi programmi del
governo cozzarono contro una situazione internazionale sfavorevole e, per quanto durante l’età di
Depretis (1876-87) si registrasse un inizio di industrializzazione, lo sviluppo economico generale
dell’Italia fu inferiore alle speranze e coincise con la grave crisi agricola degli anni Ottanta. Inoltre, per
assicurarsi di volta in volta una maggioranza in parlamento, egli accentuò il cosiddetto trasformismo,
contribuendo a rendere ancora più incerta la linea di demarcazione tra destra e sinistra e tra i vari gruppi
basati su antagonismi regionali e clientelari. Per adeguare la politica estera italiana a quelle delle potenze
europee venne iniziata un’azione coloniale che nel 1885, dopo la forzata rinuncia della Tunisia, si
indirizzò verso la conquista dell’Eritrea. La mancanza di riguardi della Francia verso gli interessi
mediterranei dell’Italia provocò un deterioramento nei rapporti italo-francesi, favorendo l’orientamento
della diplomazia italiana verso Berlino e Vienna, così da portare nel 1882 alla stipulazione della Triplice
Alleanza. Questo indirizzo politico ebbe il suo più intransigente sostenitore in Francesco Crispi. Dopo aver
abbandonato la sinistra, egli era entrato nel gioco del trasformismo che nel 1887 gli consentì di
succedere a Depretis. Crispi accentuò il protezionismo economico in chiave essenzialmente
antifrancese, provocando una guerra doganale e che ebbe effetti disastrosi sulla produzione agricola,
soprattutto meridionale. Egli cercò inoltre di instaurare un regime forte non privo di aperture riformatrici,
ma soprattutto teso alla ricerca di una nuova grandezza coloniale che avrebbe definitivamente travolto
nel disastro di Adua (marzo 1896). La notizia della disfatta di Adua giunse in un’Italia in preda al timore di
una rivoluzione sociale, sollevato dal dilagare degli scioperi agrari e dall’occupazione violenta delle terre
culminata nelle imponenti rivolte siciliane dei fasci.Vi fu un tentativo di reazione autoritaria che vide la
militarizzazione dei pubblici dipendenti, la chiusura delle principali università, lo scioglimento delle
principali università , lo scioglimento di associazioni operaie e filantropiche, la soppressione di vari
giornali, l’arresto e la condanna di tutti i leaders di sinistra.Al di là della fallimentare impresa coloniale, il
governo di Francesco Crispi indirizzò il sistema politico italiano in direzione di un rafforzamento dello stato
e di un marcato autoritarismo. Crispi realizzò importanti riforme (miglioramento dell’efficienza della
burocrazia; ampliamento del diritto di voto nelle elezioni locali; eleggibilità dei sindaci; riforma della sanità
e della pubblica assistenza).
Fra il 1896 e il 1908 l’economia italiana conobbe una fase di crescita e di profonde trasformazioni: è in
quell’epoca che si situa il decollo industriale italiano. Grazie alla protezione doganale il settore tessile,
l’industria saccarifera, l’industria siderurgica e l’industria idroelettrica conobbero una forte crescita.
L’industria meccanica crebbe, specie nella produzione di materiale ferroviario, turbine e caldaie,
utensili di precisione, macchine da cucire, macchine per scrivere e, soprattutto, automobili: nel 1899
nacque la FIAT, Fabbrica italiana automobili Torino. Il decollo industriale di fine Ottocento avviò la
trasformazione in società industriale in grado di competere sui mercati internazionali. Tuttavia questo
sviluppo fu caratterizzato sin dall’inizio da pesanti squilibri: il protezionismo ebbe l’effetto di
approfondire il divario fra la produttività dell’agricoltura settentrionale, già sviluppata e capace di
rinnovarsi tecnicamente, e quella meridionale, che al riparo della tariffa doganale poté sopravvivere
senza rinnovarsi.
Giolitti, ministro dell’interno nel 1901-03 e poi presidente del consiglio, con brevi interruzioni, sino al
1914, mirò a unire sviluppo economico e libertà politica. Modificando un atteggiamento repressivo
abituale sin dall’unità , lo statista piemontese mantenne il governo in posizione di neutralità . L’altro polo
della strategia giolittiana era rappresentato dalle riforme sociali ed economiche, quali tutela del lavoro di
donne e fanciulli, miglioramenti dell’assistenza infortunistica e pensionistica, obbligatorietà del riposo
167 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
settimanale e la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita (1912) attraverso l’istituzione di un
apposito ente, l’Ina (Istituto Nazionale Assicurazioni).
Il primo atto della storia coloniale italiana fu l’acquisto della baia di Assab nel mar Rosso, nel 1869.
Peraltro si capì ben presto che gli interessi economici erano ben limitati. Nel 1885 seguì la facile
occupazione di Massaua andata a buon fine più per la rinuncia a difendersi decisa dai capi abissini
impegnati nel contrasto con i sudanesi che minacciavano di occupare la parte settentrionale dell’Etiopia,
che per il puro merito dell’azione orchestrata da Roma.
La conquista della Libia (1911-12) comportò spese ingentissime, provocò oltre 3000 caduti e costrinse
l’Italia a fronteggiare l’endemica guerriglia islamica. La Libia non aveva al momento grande rilievo
economico, né come fonte di materie prime, né come occasione di impiego per i lavoratori italiani. Nel
luglio del 1912 la marina italiana occupava, dopo quattro secoli, Rodi e le isole del Dodecaneso
appartenenti alla Turchia. Quest’azione era il risultato indiretto dell’intervento in Libia per cui Giovanni
Giolitti, presidente del Consiglio dei Ministri del Governo Italiano aveva intessuto una abile ragnatela
diplomatica. Egli infatti prese accordi con la Francia, concordando anche un’eventuale espansione
francese nel Marocco in cambio del consenso ad una eventuale penetrazione italiana in Tripolitana e
Cirenaica, territori ormai solo debolmente controllati dalla Turchia. Nel 1913 si tennero le prime elezioni a
suffragio maschile della storia italiana........”
150° Anniversario Unità d’Italia
L’Unità d’Italia (1861-1918)
“Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo
quanto segue:
Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia.
Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del
Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
Da Torino addì 17 marzo 1861”.
Con queste parole che costituiscono parte del testo della legge n. 4671 del Regno di Sardegna
aveva luogo la proclamazione ufficiale del Regno d’Italia, facendo seguito alla seduta del 14
marzo 1861 in occasione della quale il Parlamento aveva votato il relativo disegno di legge.
Il 21 aprile 1861 quella legge diviene la prima del neocostituito Regno d’Italia. Quest’ultimo è
il risultato di un percorso iniziato con un’Italia divisa in sette Stati, attraverso la Prima guerra
d’indipendenza (1848-49), la Seconda guerra d’indipendenza (1859- 1861) e la spedizione dei
mille (1860) e conclusosi con la proclamazione di Vittorio Emanuele II Re d’Italia.
Il processo di unificazione continuò con la Terza guerra d’indipendenza (1866), la seconda
spedizione di Garibaldi verso Roma (1867) e l’annessione di Roma (1870). Con la Prima guerra
mondiale (1915-1918) si concluse il processo di unificazione nazionale che portò all’Italia dei
giorni nostri.”… (tratto da pagine web del sito del Ministero della Difesa)
168 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
composta da nazioni libere, democratiche e repubblicane. Ispirato da questi princìpi, ampliò
il proprio obiettivo e unendosi ad altri rivoluzionari stranieri fondò la Giovine Europa (1834).
Alla fine del 1836 dovette lasciare la Svizzera, dove si era rifugiato, e si trasferì a Londra,
dedicandosi a studi letterari, all’attività di giornalista e organizzando scuole per i figli degli
emigrati italiani. Il soggiorno londinese fu decisivo nella maturazione del suo pensiero
politico, si assunse così i diritti dei lavoratori tra i punti di forza della sua lotta.
Nel biennio rivoluzionario 1848-49 Mazzini, dopo un soggiorno in Francia, fece ritorno in
Italia per partecipare insieme con Carlo Cattaneo al movimento patriottico di Milano, quindi
per dar vita a un governo democratico a Firenze e dirigere poi la breve esperienza della
Repubblica Romana. Diede il suo appoggio all’insurrezione antiaustriaca scoppiata nel Regno
Lombardo-Veneto tra la fine del 1852 e l’inizio del 1853, il cui fallimento costò la vita a molti
patrioti: a questa ennesima sconfitta Mazzini reagì fondando il Partito d’azione, tramite il
quale ispirò e appoggiò alcuni tentativi insurrezionali, tra cui la spedizione di Carlo Pisacane
in Campania.
Nel 1857, a Genova, cercò con un colpo di mano di impadronirsi di un deposito di armi,
ma l’azione venne scoperta e gli fruttò una seconda condanna in contumacia. Mazzini
tornò nuovamente a Londra e allo scoppio della seconda guerra d’indipendenza invitò il
popolo a combattere contro l’Austria. Nel 1860 raggiunse Giuseppe Garibaldi a Napoli con il
tentativo di spingerlo a continuare l’impresa dei Mille per liberare Venezia e Roma. Nel 1870
organizzò e condusse personalmente una spedizione militare per liberare Roma, che nelle
sue intenzioni doveva partire dalla Sicilia: fermato a Palermo, venne incarcerato a Gaeta;
uscì poco dopo grazie a un’amnistia, ma fu di nuovo costretto all’esilio, prima a Londra e poi
a Lugano. Stabilitosi in Italia nel 1872 sotto il falso nome di dottor Brown, trascorse i suoi
ultimi giorni a Pisa, circondato dagli amici a lui più vicini.
Sintesi del pensiero
Come molto acutamente è stato osservato, “le concezioni di Rosmini e Gioberti sono
dominate dall’idea di tradizione; il pensiero di Mazzini è dominato dall’idea di progresso. Ma
l’apparente antitesi delle due concezioni, e l’aspra polemica che su di essa s’impernia, non
riescono a celare la loro identità d’ispirazione: il progresso stesso è la tradizione ininterrotta
del genere umano, come la tradizione non è che il suo progresso incessante. Tuttavia
accentuare, come fa Mazzini, il concetto di progresso implica una differenza importante dal
punto di vista pratico-politico; giacché significa far servire l’idea della tradizione al fine della
trasformazione della società e delle istituzioni anzicché al fine della loro conservazione”
(N. Abbagnano). Giuseppe Mazzini (1805-1872) è stato definito appunto “apostolo di una
nuova era”, nuova sia dal punto di vista storico-politico che da quello religioso. Su quali
presupposti filosofici egli fonda il suo ideale? “Dio è Dio e l’umanità è il suo profeta”. Tra
Dio e l’umanità non c’è abisso: l’umanità è l’“incarnazione” di Dio, incarnazione continua,
incessante. Essa, nel suo sviluppo, manifesta e compie la legge di Dio, la legge divina del
progresso storico, al di là degli obiettivi immediati delle volontà individuali. Essa, insomma,
è la vera “testimone” di Dio e “la sola interprete della legge di Dio sulla terra”. La Storia,
pertanto, non è solo storia umana, ma anche, e soprattutto, storia divina: è il progressivo
compimento del regno di Dio sulla terra attraverso l’opera dell’uomo. Il compito dell’uomo,
pertanto, è di secondare consapevolmente l’azione che attraverso di lui la Divina Provvidenza
attua nel corso degli eventi. Come può l’uomo attingere la verità, cioè conoscere la direzione,
individuare gli obiettivi della sua azione? Ricorrendo alla “coscienza” e alla “tradizione”. Infatti
nella coscienza si può cogliere la volontà divina e nella tradizione si può riscontrare già il
suo parziale compimento. Esse sono quindi i soli criteri per la verità, purché usati in modo
coordinato: infatti la coscienza individuale, isolata in se stessa, porta all’anarchia, mentre la
tradizione, da sola, induce all’immobilismo e al dispotismo. E che cosa indicano coscienza
e tradizione? La Rivoluzione Francese ha concluso quel moto storico verso l’affermazione
dei “diritti dell’uomo” in quanto individuo. L’epoca post-rivoluzionaria apre ora il discorso,
secondo il Mazzini, dei “doveri dell’uomo” cioè quelli connessi al fatto che l’individuo, reso
171 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
ormai sovrano, per progredire ulteriormente deve “aprire” la sua esistenza, allargare il suo
essere fino ad identificarsi con la realtà mistica dell’umanità. Se dunque finora egli ha
conquistato la sua libertà, ora deve lottare per la “libertà” e per il “progresso” dell’Umanità.
Ciò egli può fare agendo all’interno delle “sfere” della “famiglia” e della “nazione”, entro
cui solo l’individuo può perseguire “il perfezionamento morale di se stesso e d’altrui”,
o, per dirla in modo diverso, “il perfezionamento di se stesso attraverso gli altri e per gli
altri”. Chi concepisca la vita in tal modo, sentirà evidentemente d’avere una missione da
svolgere. “La vita è una missione”; essa dev’essere guidata da una sola legge, quella del
“dovere”, che indica, quale scopo degli individui come dei popoli, l’impegno costante al
loro riscatto da ogni schiavitú, alla realizzazione cioè della libertà, con la quale si compie il
progresso dell’umanità verso una nuova società umana che realizzi in sé il Regno di Dio.
La costituzione dell’unità politica dell’Italia è per Mazzini, dunque, un dovere “religioso”,
un obiettivo prossimo perché gli italiani vivano come nazione, superando ogni oppressione
e divisione e realizzando la loro libertà; ossia è una tappa imprescindibile nel cammino
verso la realizzazione dell’Umanità. Bisogna che gli individui rinuncino alla loro sovranità
per riconoscersi in quella della Nazione, realtà super-individuale che sola può dare senso
e direzione “superiore” all’azione individuale. Il vero sovrano dunque deve essere il Popolo,
che, in quanto realtà collettiva, è il luogo d’azione della forza della Provvidenza con cui Dio
guida e regola il corso del mondo. Solo
identificandosi col Popolo l’individuo acquista
coscienza del Fine religioso della storia, e
del compito che egli, insieme agli altri, ha
da realizzare concretamente, in un dato
momento storico, per l’attuazione di quel
Fine. In quanto caratterizzato da un compito
“religioso” il Popolo è realtà religiosa.
E lo Stato, ossia la sua organizzazione
politica, non può non avere una funzione
religiosa. Una politica senza una religione
è un assurdo. Sicché assurdo è il concetto
di Stato laico, o addirittura di Stato ateo.
Lo Stato deve infatti assumersi l’onere di
unificare il Popolo intorno alla sua missione e
di promuovere cosí l’educazione progressiva
verso la perfezione individuale e collettiva.
In tal senso esso deve essere una Chiesa.
Dati questi presupposti, era inevitabile
che Mazzini si opponesse alla visione
materialistica della storia quale delineata
da Marx e da Engels, e contestasse l’azione
della Prima Internazionale. Quella visione, a
suo giudizio, negava proprio i tre elementi
fondamentali della sua concezione: Dio,
patria e proprietà. Senza Dio, l’umanità,
a suo giudizio, procederebbe senza una
legge, e pertanto non potrebbe attuare
alcun progresso; i popoli non avrebbero un
disegno complessivo in cui inscrivere la loro
opera, e gli individui sarebbero abbandonati
ai loro impulsi sensibili, che sono variabili e
incoerenti, preda del loro arbitrio, fiduciosi
solo nella loro forza, e senza timore per
alcuna sanzione. Negare la patria, poi,
172 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
significherebbe privarsi di un imprescindibile “punto d’appoggio” per il compimento del
progresso, per il perfezionamento dell’uomo. Senza patria non v’è modo di rendere concreto
il progresso, di assumerlo come fine individuale e collettivo. Sopprimere infine la proprietà
individuale implicherebbe estinguere ogni incentivo alla produzione. L’uomo tenderebbe
solo alla sua sopravvivenza, e non mirerebbe al suo benessere, né a quello della collettività
in cui vive. La proprietà, sostiene Mazzini, è legittimata dal lavoro che la produce; essa è “il
segno visibile della nostra parte nella trasformazione del mondo materiale, come le nostre
idee, i nostri diritti di libertà e di inviolabilità della coscienza, sono il segno della nostra parte
nella trasformazione del mondo morale”. Se la società capitalistica, fondata sulla proprietà,
ha prodotto e produce danni all’umanità, non per questo la proprietà perde il carattere di
elemento stimolatore del progresso. La stortura delle società capitalistiche sta nel fatto che
la proprietà è privilegio di pochi; camminare sulla via del progresso, allora, significa renderla
sempre piú accessibile a un numero sempre maggiore di uomini attraverso il lavoro che essi
compiono. Anche con Mazzini dunque si compie il recupero della tradizione spiritualistica
italiana; anche per lui esso diventa il fondamento ideale per una visione complessiva della
storia in cui si inscriva l’impegno politico dell’uomo dei suoi tempi per la soluzione, in senso
“rivoluzionario”, dei problemi da cui erano afflitte l’Italia e l’intera Europa. Per lui, quindi, la
tradizione religiosa offre la base salda per l’unificazione e il progresso della società, delle
nazioni e dell’umanità intera. L’uomo nuovo sarà, allora, l’uomo cosciente del suo destino
e del suo compito; cioè sarà un uomo che si fa strumento consapevole – ma nel segno
del progresso, non della conservazione – del disegno provvidenziale di Dio, trascendenteimmanente.
173 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
messo in minoranza dalla sinistra con 242 voti contro 181 è costretto a dimettersi; il re affida la
formazione del nuovo governo al leader della sinistra Agostino Depretis.
Il 25 marzo 1876, nasce il primo ministero della sinistra, presieduto da Depretis; Zanardelli vi entra
come ministro dei Lavori Pubblici, ma si dimette il 7 novembre del 1877 non volendo firmare la legge
sulle convenzioni ferroviarie, convinto che questa data ai privati (gruppi industriali e finanziari, con la solita
scusa di difendere l’industria e il lavoro) non tuteli sufficientemente l’interesse pubblico.
Il 24 marzo 1878 entrato nel primo gabinetto Cairoli, Zanardelli è chiamato a reggere l’Interno, ma in
dicembre, a seguito dell’attentato al Re di Passanante, Zanardelli è travolto dalla crisi che ne scaturisce
e che trae origine essenzialmente dal giudizio che l’opposizione dà alla sua azione politica. Dimessosi
riprende con successo l’attività forense nella città natale e pubblica il volume su L’avvocatura.
Il 29 maggio 1881 è ministro di Grazia e Giustizia nel IV governo Depretis, fino al 12-19 maggio 1883
quando si apre la crisi sulla validità del trasformismo (che Felice Cavallotti “suppone di putredine”).
Zanardelli si dimette perché anche lui è contrario alla politica del trasformismo.
Il 25 novembre entra a far parte della cosiddetta Pentarchia che si propone di rappresentare
un’alternativa costituzionale al trasformismo di Depretis. Ne fanno parte Benedetto Cairoli, Giovanni
Nicotera,Alfredo Baccanini, e Francesco Crispi. Il programma definito di “pura sinistra”, insiste sulla
libertà di parola e di riunioni, non garantiti dal governo in carica. La Pentarchia resta unita fino al 1887,
poi Zanardelli e Crispi accettano di far parte dell’ultimo ministero Depretis.
Zanardelli torna ad essere responsabile della Giustizia per quasi quattro anni: dal 4 aprile 1887 al
febbraio 1891 (prima con Depretis e poi con Crispi) varando una serie d’importanti provvedimenti: il
nuovo Codice Penale. Il codice unifica la legislazione penale a livello nazionale e sostituisce il Codice
Sardo che era stato esteso dopo l’unificazione alla quasi totalità dell’Italia. (fra i tanti articoli compaiono
l’abolizione della pena di morte; non contenendo articoli diretti a vietarlo, sanciva la libertà di sciopero; la
punizione degli ecclesiastici che incitassero disubbidienza delle leggi dello Stato; sulla liberà di riunione e
manifestazioni, non erano proibite ma erano obbligati i promotori a darne preavviso ventiquatt’ore prima
alle autorità alle quali era attribuita la facoltà di consentirle o impedirle.
Altri provvedimenti, il nuovo Codice di Commercio, la Cassazione Unica Penale e la normativa sul
lavoro femminile e minorile.
Dopo le elezioni generali, dal 24 novembre 1892 al 22 febbraio 1894 Zanardelli è presidente della
Camera, è rieletto il 6 aprile 1897 e resta in carica sino al 26 gennaio 1898 (ma dal dicembre
1897 al maggio 1898 è ancora ministro della Giustizia nel gabinetto Di Rudinì).
È per la terza ed ultima volta alla presidenza del Parlamento dal 17 novembre 1898 al 30 maggio
1899, quando si dimette per manifestare l’opposizione della sinistra alle spese militari e ai
provvedimenti politici.
Il 29 luglio 1900, viene ucciso a Monza Umberto I, sale al trono Vittorio Emanuele III, che guarda con
simpatia a uomini come Zanardelli e Giolitti, prima osteggiati dal padre. C’è una evoluzione in senso
progressista del governo italiano.
Alle dimissioni del governo Saracco (per i fatti di Genova – scioglimento della Camera del Lavoro per
ordine del prefetto, seguito da una ondata di scioperi) il Re consapevole della necessità di una svolta in
senso liberale assegna proprio a Zanardelli l’incarico di costituire il nuovo governo.
Il 15 febbraio 1901 è nuovamente a capo del Governo con Giolitti. La sua scelta determinò la fine
dell’indirizzo autoritario di fine secolo e l’avvio della svolta liberale alla politica governativa nei conflitti di
lavoro, che si sviluppano con intensità crescente nell’agricoltura e nell’industria, favorendo la crescita e
l’organizzazione del movimento sindacale.
Alcuni grossi problemi: la questione meridionale; l’abolizione dei dazi di consumo, ricevono molte
attenzioni nel governo e fra l’opinione pubblica.
Nel settembre 1902 proprio sulla questione meridionale, Zanardelli viaggia in meridione, in Basilicata,
per rendersi conto direttamente dei gravi problemi che assillano una delle regioni più povere d’Italia.
L’11 giugno 1903 dopo le polemiche dimissioni di Giolitti come ministro degli interni (bocciatura di
una mozione della sinistra su una inchiesta parlamentare per far luce su alcuni illeciti del ministro della
marina) Zanardelli non accoglie la richiesta di aprire una crisi di governo, ma si limita ad assumere a
interim questo ministero e assegnare quello della marina a interim al ministro degli esteri.
Pochi mesi dopo scoppiano le tensioni dell’Italia con l’Austria, in ottobre manifestazioni irredentistiche.
175 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
Il 21 agosto in seguito alle critiche mosse al comportamento del governo, sia da destra che
da sinistra, Zanardelli, ormai anziano (77enne) e stanco il 21 ottobre del 1903 rassegna le
dimissioni dal ministero al Re, che dà l’incarico per costituire il nuovo a Giolitti.
Due mesi dopo, ritiratosi a Maderno, Zanardelli il 26 dicembre muore.
Estratti dal codice penale Zanardelli, del 1889:
ARTICOLO 140 Chiunque per offendere uno dei culti ammessi nello Stato, impedisce
o turba l’esercizio di funzioni o cerimonie religiose è punito con la detenzione sino a tre
mesi e con la multa da lire cinquanta a cinquecento.
Se il fatto sia accompagnato da violenza, minaccia o contumelia, il colpevole è punito con
la detenzione da tre a trenta mesi e con la multa da lire cento a millecinquecento.
ARTICOLO 141 Chiunque, per offendere uno dei culti ammessi nello Stato,
pubblicamente vilipende chi lo professa, è punito, a querela di parte, con la detenzione
sino ad un anno o con la multa da lire cento a lire tremila.
ARTICOLO 142 Chiunque, per disprezzo di uno dei culti ammessi nello Stato,
distrugge, guasta, o in altro modo vilipende in luogo pubblico cose destinate al culto,
ovvero usa violenza contro il ministro di un culto o lo vilipende, è punito con la detenzione
da tre a trenta mesi e con la multa da lire cinquanta a millecinquecento. Qualora si tratti
di altro delitto commesso contro il ministro di un culto nell’esercizio o a causa delle sue
funzioni, la pena stabilita per tale delitto è aumentata di un sesto.
Il Lago di Garda tra natura e battaglie risorgimentali
Le colline moreniche, tra la sponda meridionale del Lago
di Garda e la Pianura mantovana, rappresentano un luogo
di suggestivo incanto. Tra una lussureggiante natura,
borghi rurali di mulini. Ma questo stesso paesaggio fece da
palcoscenico a cruente battaglie delle Guerre d’Indipendenza.
Sono stati creati molti percorsi sui luoghi delle battaglie
percorribili a piedi o in bicicletta. Nelle campagne tra
Sommacampagna e Custoza si trova il percorso del
Tamburino Sardo assieme a quello storico della battaglia
di Custoza del 1848/49 , il “CamminaCustoza”: un invito ai
visitatori a riscoprire un intero patrimonio di valori storici,
naturali ed enogastronomici.
L’itinerario che vi proponiamo è lungo circa 60 km, con
partenza e rientro a Peschiera. Si raggiunge Custoza, dove si
può visitare l’Ossario che si eleva su di un colle e raccoglie
le salme di 4.600 combattenti delle varie battaglie. A
Villafranca, prescelta come sede per la firma dell’armistizio
del 1859 sottoscritto da Napoleone III e da Francesco
Giuseppe, si può vedere la Villa Gandini-Moreni dove
avvenne la firma e il Museo del Risorgimento, ospitato nei
locali del castello, che raccoglie cimeli, armi e documenti.
In paese si trova il Monumento al Quadrato, che ricorda
l’accanita resistenza di un reggimento di fanteria costretto
nel “quadrato” durante la III guerra d’Indipendenza.
A Valeggio si può sostare al palazzo che fu dei Maffei,
sede del quartier generale di Carlo Alberto nel 1848 e di
Napoleone III nel 1859, dopo la battaglia di Solferino.
In località Borghetto si erge il magnifico Ponte Visconteo
che protegge il Mincio con i lunghi muraglioni e il castello
scaligero; anche a Monzambano un castello del XII secolo
176 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
L’UNITÀ D’ITALIA AI TEMPI DI D’ANNUNZIO
Il “viaggio” continua… ed arriviamo a…:
Gabriele d’Annunzio, è stato uno scrittore, poeta, militare e politico italiano, simbolo del Decadentismo
ed eroe di guerra. Soprannominato il Vate cioè “il profeta”, occupò una posizione preminente nella
letteratura italiana dal 1889 al 1910 circa e nella vita politica dal 1914 al 1924. Sia in letteratura che in
politica lasciò il segno ed ebbe un influsso sugli eventi che gli sarebbero succeduti.
Biografia
Gabriele d’Annunzio nacque a Pescara il 12 marzo 1863.
Terzo di cinque fratelli, visse un’infanzia felice, distinguendosi
per intelligenza e vivacità. Della madre, Luisa de Benedictis,
erediterà la fine sensibilità, del padre, Francesco D’Annunzio,
il temperamento sanguigno, la passione per le donne e la
disinvoltura nel contrarre debiti, cosa che portò la famiglia da
una condizione agiata ad una difficile situazione economica.
Non tardò a manifestare una personalità ambiziosa, priva di
complessi e inibizioni, portata al confronto competitivo con
la realtà. Egli frequenta il liceo al prestigioso istituto Convitto
Cicognini di Prato. Dopo aver concluso gli studi liceali giunse a
Roma, con una notorietà che andava crescendo e si iscrisse
alla Facoltà di Lettere.
D’Annunzio intraprende una carriera giornalistica soprattutto
per esigenze economiche, ma attratto alla frequentazione
della Roma “bene” dal suo gusto per l’esibizione della bellezza e del lusso, nel 1883 sposò, con un
matrimonio “di riparazione”, nella cappella di Palazzo Altemps a Roma, Maria Hardouin duchessa di
Gallese, da cui ebbe tre figli.Tuttavia, le esperienze per lui decisive furono quelle trasfigurate negli
eleganti e ricercati resoconti giornalistici.
Tra il 1891 e il 1893 d’Annunzio visse a Napoli. In questo periodo ebbe il suo primo approccio agli scritti
di Nietzsche che vennero in buona parte fraintesi, sebbene ebbero l’effetto di liberare la produzione
letteraria di d’Annunzio da certi residui moralistici ed etici.Tra il 1893 e il 1897 d’Annunzio intraprese
un’esistenza più movimentata che lo condusse dapprima nella sua terra d’origine e poi ad un lungo
viaggio in Grecia.
Nel 1897 volle provare l’esperienza politica, vivendo anch’essa, come tutto il resto, in un modo bizzarro
e clamoroso: eletto deputato della destra, passò quasi subito nelle file della sinistra, giustificandosi con la
celebre affermazione “vado verso la vita”.
Sempre nel 1897 iniziò una relazione con la celebre attrice Eleonora Duse, con la quale ebbe inizio la
stagione centrale della sua vita. Per vivere accanto alla sua nuova compagna, d’Annunzio si trasferì a
Firenze, nella zona di Settignano dove affittò la villa “La Capponcina”, trasformandola in un monumento
del gusto estetico decadente. È in questo periodo che si situa gran parte della drammaturgia
dannunziana che è piuttosto innovativa rispetto ai canoni del dramma borghese o del teatro dominanti in
Italia e che non di rado ha come punto di riferimento la figura attoriale della Duse.
La relazione con Eleonora Duse si incrinò nel 1904. Nel 1910 d’Annunzio si trasferì in Francia:
già da tempo aveva accumulato una serie di debiti e per evitare i creditori aveva preferito
allontanarsi dal proprio Paese. L’arredamento della villa fu messo all’asta e d’Annunzio per
cinque anni non rientrò in Italia.
A Parigi era un personaggio noto. Ciò gli permise di mantenere inalterato il suo dissipato stile di vita
fatto di debiti e frequentazioni mondane. Pur lontano dall’Italia collaborò al dibattito politico prebellico,
pubblicando versi in celebrazione della guerra di Libia o editoriali per diversi giornali nazionali (in
particolare per il Corriere) che a loro volta gli concedevano altri prestiti.
Nel 1910 d’Annunzio aderì al progetto di Corradini.
Dopo il periodo parigino si ritirò ad Arcachon, sulla costa Atlantica, dove si dedicò all’attività letteraria.
Nel 1915 ritornò in Italia, dove rifiutò la cattedra di letteratura italiana che era stata di Pascoli; condusse
178 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio
immediatamente una intensa propaganda
interventista. Il discorso celebrativo che
d’Annunzio pronunciò a Quarto il 5 maggio
1915 (in occasione della sagra dei Mille) suscitò
entusiastiche manifestazioni interventiste. Con
l’entrata in Guerra dell’Italia, il 24 maggio 1915
(il cosiddetto “maggio radioso”), d’Annunzio si
arruolò volontario e partecipò ad alcune azioni
dimostrative navali ed aeree.
Nel gennaio del 1916 fu costretto a un atterraggio
d’emergenza e ciò lo portò alla perdita di un occhio.Visse così un periodo di convalescenza, durante
il quale fu assistito dalla figlia Renata.Tuttavia, ben presto tornò in guerra e continuò a partecipare ad
azioni belliche aeree e di terra.
Al volgere della guerra, d’Annunzio trovò ben presto un sostenitore in Benito Mussolini, che di qui al
1922 avrebbe portato all’ascesa del fascismo in Italia.
Partecipò all’impresa di Fiume nel 1919, per far sì che l’Italia rivendicasse i propri diritti.
Deluso dall’esperienza di Fiume, nel febbraio 1921 si ritirò in un’esistenza solitaria nella villa di
Cargnacco (comune di Gardone Riviera) che pochi mesi più tardi acquistò. Ribattezzata il Vittoriale degli
Italiani fu ampliata e successivamente aperta al pubblico. Qui lavorò e visse fino alla morte.
Morì nella sua villa il 1º marzo 1938 per un’emorragia cerebrale.
Fu sepolto nel mausoleo del Vittoriale.
L’impresa di Fiume
“Mio caro compagno, il dado è tratto! Parto ora. Domattina prenderò
Fiume con le armi. Il Dio d’Italia ci assista. Mi levo, febbricitante. Ma non
è possibile differire.Anche una volta lo spirito domerà la carne miserabile.
Sostenete la causa vigorosamente, durante il contatto Vi abbraccio.”
Questo è l’inizio della lettera scritta da d’Annunzio a Mussolini per
annunciargli l’inizio dell’impresa di Fiume. D’Annunzio, insieme ad un gruppo
di ufficiali e ad un contingente di circa mille uomini, arrivò a Fiume il 12
settembre 1919. Il 20 settembre dello stesso anno d’Annunzio ottenne i
pieni poteri e venne qualificato come “comandante della città di Fiume. Sul successo di questa impresa,
egli annunciò a Mussolini un nuovo progetto: marciare su Roma e prendere il potere.Alla vigilia delle
elezioni, d’Annunzio riprende la sua attività espansionistica. Così occupò Zara, poi Sebenico
e Spalato. Le elezioni del 1919 vedono la sconfitta dei fascisti e subentra Giolitti
come Presidente del Consiglio. Nel 1920 finisce l’avventura fiumana di Gabriele
d’Annunzio e lo stato di Fiume viene dichiarato indipendente. La Dalmazia passa
alla Jugoslavia, ma la città di Zara all’Italia. D’Annunzio deve andarsene da Fiume.
Vittoriale degli italiani
Il Vittoriale degli Italiani è la cittadella monumentale costruita a Gardone Riviera (BS) sulle
rive del lago di Garda dal poeta Gabriele d’Annunzio assieme
all’architetto Giancarlo Maroni dal 1921 al 1938.
Il Vittoriale è, dunque, un complesso di edifici, vie, piazze, teatri,
un museo, giardini, e corsi d’acqua eretto a memoria della propria
vita d’eccezione e delle imprese eroiche degli italiani durante la
Grande Guerra. Fra i mediterranei alberi d’olivo e gli svelti cipressi
sono collocati i cimeli delle imprese più audaci: il MAS della Beffa
di Buccari, l’aereo Ansaldo S.V.A. del volo su Vienna, fino alla prua
dell’incrociatore Puglia rimontata su uno sperone roccioso al centro
del parco.
179 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Chi e dove
Classi coinvolte
Docenti referenti
progetto 10
Liceo Scientifico Copernico - Brescia
Terza H, Quinta F, Quinta B
Rossana Cerretti
L’azione e il dramma.
D’Annunzio e il Risorgimento
tra Garibaldi e Verdi
Metodologia e didattica del progetto
Il lavoro di ricerca, svolto da un gruppo di studio formato da alunni del Liceo Scientifico
Copernico di Brescia appartenenti a classi diverse, ha preso in considerazione il rapporto
tra Gabriele d’Annunzio e le grandi personalità del Risorgimento, allo scopo di evidenziare in
che modo tale periodo storico e le posizioni politiche espresse in quel contesto, avessero poi
influenzato lo scrittore abruzzese, e, più in generale, alcuni orientamenti ideologici della fine
dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento. Gli alunni hanno innanzitutto analizzato le
canzoni, tratte dal Libro di Elettra, dedicate a Garibaldi e Verdi, per poi ampliare il loro orizzonte
attraverso la ricerca, anche presso la biblioteca del Vittoriale, di altri riferimenti a queste due
grandi personalità all’interno dell’opera dannunziana, studiando il contesto in cui essi erano
inseriti e gli aspetti che il Vate privilegiava sia a proposito delle diverse imprese garibaldine
e dei loro protagonisti sia del melodramma verdiano, inteso come sintesi delle arti. Sono
state consultate, sempre presso la biblioteca del Vittoriale, le opere biografiche in possesso
di d’Annunzio relative a Garibaldi, soprattutto per ricostruire il suo metodo di lavoro sulle
fonti; mentre per quanto riguarda Verdi, si è fatto riferimento alle Prose di Ricerca, agli Scritti
giornalistici e ai romanzi (in particolare Il fuoco e Le vergini delle rocce). Si è inoltre tenuto
conto dei possibili riferimenti anche agli arredi della Prioria e ad altri monumenti presenti nel
parco del Vittoriale. Sono state attentamente studiate alcune canzoni dal libro di Merope, per gli
importanti riferimenti politici, e i volumi di scritti e discorsi: Il libro ascetico della giovane Italia,
Per la più grande Italia, e Il sudore di sangue, nonché Il compagno dagli occhi senza cigli.
Il gruppo di ricerca è composto dagli alunni:
Davide Bassini, Laura Macaluso, Sara Faroni, Alice Omassi classe Terza H
Francesco Corti e Francesca Gallarotti classe Quinta F
Martina Tosi classe Quinta B
La referente del progetto Rossana Cerretti
181 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
La Danza di Gaetano
Previati, forse ispirata
alle Vergini delle rocce. Il
quadro si trova nella Sala
dei Calchi al Vittoriale
Il primo era bello, biondo, dalla chioma leonina,
passava sempre calmo in mezzo alle battaglie, come
se i proiettili non osassero sfiorarlo, non aveva fatto
altro che combattere per tutta la vita, per terre e per
mari a qualunque latitudine. L’altro, era un uomo
solitario e carismatico, anche lui con quella chioma
indomabile, sempre scarmigliato come se un vento
l’agitasse, un gigante della terra, nato dal suolo stesso
della patria, come i suoi monti, i suoi fiumi, i suoi
vulcani. Nella mente di entrambi, Garibaldi e Verdi,
risiedeva la potenza oceanica dell’atto creativo e la
vampa improvvisa del fuoco, la forza di un grande
pensiero in realizzazione.
Se la personalità eclettica di D’Annunzio, è sempre
capace di trovare inesauribili connessioni con
qualunque periodo storico, poiché ogni precedente
rappresenta per lui una tappa o un punto di
riferimento della civiltà italiana e della sua cultura, a
maggior ragione ciò è vero per quanto riguarda i suoi
grandi “antenati” ottocenteschi.Tanto più che per lui il prototipo
dell’eroe è sempre unito a quello dell’artista militante sul modello
dell’Alighieri: i poeti, infatti, come afferma nelle Vergini delle
rocce, devono uscire dai loro studioli e devono difendere la
poesia e la bellezza, perché esse sono alla base dell’Italia e della
sua identità culturale:
“Difendete il Pensiero ch’essi minacciano, la Bellezza ch’essi
oltraggiano! Verrà un giorno in cui essi tenteranno di ardere i
libri, di spezzare le statue, di lacerare le tele. Difendete 1’antica
liberale opera dei vostri maestri e quella futura dei vostri
discepoli, contro la rabbia degli schiavi ubriachi. Non disperate,
essendo pochi.Voi possedete la suprema scienza e la suprema
forza del mondo: il Verbo.”
Per le idealità nazionali si erano battuti i grandi del Risorgimento,
ma ora, alla fine dell’Ottocento, esse apparivano tradite e
offuscate dalla delusione presente; quel senso di vuoto istituzionale che, sempre nelle Vergini delle
rocce fa ipotizzare al protagonista Claudio Cantelmo la nascita di un nuovo re di Roma e compiangere
– sentendosi in questo caso, scrittore dell’ex Regno delle due Sicilie – la dinastia borbonica e la sua
drammatica distruzione, ricordata attraverso le accorate parole del principe Luzio:“Ma la voce del
principe, assidua risvegliatrìce di memorie, trasmutava l’incanto.Tutti tacevano con rispetto, quando egli
parlava; e non s’udiva se non la profonda voce senile che a tratti diventava rauca di collera soffocata o
tremava dì cordoglio e di rammarico. Era quello un giorno nefasto per il vecchio: era l’anniversario della
partenza del Re da Gaeta. Compivasi in quel giorno il ventunesimo anno di esilio”.
Ebbene – egli diceva, rivolto a me, accendendosi nella sua fede, mentre la bella barba candida gli
dava quasi una sembianza profetica – ebbene, Claudio, quando un Re cade come cadde Francesco
di Borbone a Gaeta, da martire e da eroe, non è possibile che Iddio non lo risollevi e non gli restituisca
il regno.Ascolta la mia parola, figlio di Massenzio Cantelmo, e non dimenticarla. Il Re delle Due Sicilie
finirà i suoi giorni in gloria sul suo trono legittimo. E mi conceda Iddio che questo si compia prima ch’io
chiuda gli occhi! Ecco l’unico mio voto.” Egli componeva al pallido fantasma regale un’apoteosi di
fiamme e di sangue su le rovine della città forte.“Ammirabile fede!„ io pensava scorgendo le faville che
ancora potevano accendersi nell’azzurro cinereo di quegli occhi indeboliti.“Ammirabile fede e vana! La
virtù dei Borboni dorme a San Dionigi” (cioè a Saint Denis a Parigi chiesa-mausoleo dei re di Francia, tra
i quali il borbone Enrico di Navarra, particolarmente ammirato da D’Annunzio).
E più oltre lo scrittore abruzzese ricorda la figura di Francesco di Borbone, nel momento della partenza
182 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
da Napoli:“Mai sangue fu più timido in vene giovenili e mai sensualità fu più torpida.”
Eppure la stessa bellezza di quella terra che stava abbandonando doveva almeno
comunicargli “un impeto selvaggio di vita”. E invece era rimasta solo “la desolazione di
quella partenza nel crepuscolo (…) e infine al sorgere del sole la rupe di Gaeta, l’ultimo
rifugio destinato all’ultima ruina, dove la dignità regale doveva sottomettersi ai patti di un
soldato millantatore!”.
In questo romanzo tali prese di posizione vengono adottate esplicitamente contro
la massa che ha creato un regime corrotto e parassitario, indegno della grande
tradizione della civiltà latina. Questi concetti saranno, però, successivamente modificati,
teorizzando, invece, una nuova rinascenza popolare italiana, verso paternalistici ideali
eroici di massa, nel tentativo di unificare il popolo sotto il pensiero e il comando di un
“tribuno”.Tentativo peraltro fin troppo riuscito, considerando che del suo linguaggio e
della sua retorica, sebbene in maniera assai trita, si impossesserà in seguito il fascismo,
basando su di esso la sua propaganda. Questa concezione del potere, però, a ben
guardare, non è affatto estranea al Risorgimento, poiché anche tra i liberali italiani sia
anticlericali sia cattolici si era già profilata a più riprese una visione politica di questo tipo,
anche perché spesso, per il loro gusto storicistico, facevano riferimento a personalità del
passato medievale e rinascimentale, come per esempio, Cola di Rienzo. Non a caso,
infatti, lo stesso d’Annunzio ha scritto una Vita di Cola di Rienzo, nella quale rimprovera al famoso tribuno
di Roma l’eccessiva clemenza nei confronti dei
nobili, e l’incapacità di ben usare “della bestia e
dell’uomo” secondo il consiglio del Machiavelli.
I punti di svolta nella visione politica di
d’Annunzio sembrano essere il libro di Elettra e
il romanzo il Fuoco, nel quale troviamo il celebre
discorso di Stelio Effrena alla folla in palazzo
Ducale ripreso poi, come elemento a sé stante,
in Allegoria dell’autunno. Da quel momento
niente in d’Annunzio appare più vero del motto
“Fatta l’Italia bisogna fare gli Italiani” coniato da
Ferdinando Martini sulla falsariga del d’Azeglio.
Ma ciò che scrive il d’Azeglio, nei Miei ricordi merita di essere riletto ancora oggi:“Gl’Italiani hanno voluto
far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che
furono ab antico la loro rovina; perché pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirvi
bisogna prima riformare sé stesso; perché l’Italia, come tutt’i popoli, non potrà divenir nazione, non potrà
esser ordinata, ben amministrata, forte così contro lo straniero come contro i settari dell’interno, libera e
di propria ragione, finché, grandi piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere e non
lo faccia bene, od il meglio che può. (…) Il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e
forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non
si fanno gl’Italiani.”
D’altra parte, la sensazione di incompiutezza che prende il lettore
giunto alla fine dell’Ettore Fieramosca, forse si giustifica proprio
con questa incertezza e con la delusione che d’Azeglio manifesta
anche dopo la raggiunta unità.
Anche per D’Annunzio, alla fine dell’Ottocento, la formazione
della coscienza popolare della nuova nazione era ancora tutta
da costruire perché, a suo giudizio, i governi parlamentari erano
stati deludenti su tutta la linea, quando non erano stati addirittura
“traditori” degli ideali risorgimentali. Convinzione che sostenevano
in molti, primo fra tutti il Carducci – come ebbe a scrivere proprio
nel suo discorso commemorativo per la morte di Garibaldi – e
che d’Annunzio riprende con forza, non certo per lasciarsi
abbattere, come altri, dalla miseria presente, ma per aprire un
183 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Francesco II di Borbone.
A sinistra, Cola di Rienzo
interpretato da un artista
di strada sullo sfondo
della Torre dei Conti.
In basso, Il frontespizio
dell’Ettore Fieramosca
con un ritratto di Massimo
d’Azeglio
progetto 10 L’azione e il dramma
Incisione con il celebre
motto dannunziano.
Sotto, Napoleone durante
la Prima Campagna
d’Italia
periodo di “ricordanza e aspettazione” che rinnovando i miti
del passato e la loro componente epica avrebbe portato
ad un’autocoscienza popolare e ad un nuovo eroismo,
estremizzando, però, l’elemento nazionalistico di ultimo slancio
di conquista, secondo il quale si sarebbe dovuto fare “di tutti gli
oceani il Mare Nostro”. Gli ideali patriottici ottocenteschi vanno
fatti rinascere e prolungati indefinitamente, per giungere ad
un’azione di massa continua e incessante che mobiliti il popolo
e nell’agire lo educhi: ora bisogna battersi ancora ma “per
la più grande Italia”, e per questo bisogna creare una nuova
Giovane Italia, ascetica e misticheggiante sul modello degli eroi
wagneriani, orientando decisamente l’azione verso una visione
imperialistica della nuova nazione, creando ragioni di coesione
popolare attraverso la lotta e la guerra. Ovviamente, viene
esaltata al massimo la figura mitica del condottiero eroico che
afferra da solo le redini della storia e guida il popolo alla vittoria,
galvanizzandolo con la sua carismatica presenza fatta di azione e parola.
Alle origini Napoleone
Il modello di partenza, come per molti patrioti ottocenteschi, soprattutto
mazziniani, è Napoleone delle gesta del quale d’Annunzio si nutre fin
dalla prima giovinezza. Mazzini, in particolare, esalta la sua figura come
continuatore della Rivoluzione del 1789 e promotore della diffusione
dei suoi ideali, sebbene operando un distinguo, poi ripreso anche da
Francesco Domenico Guerrazzi, tra la prima parte del suo governo e
la seconda, nella quale volle farsi imperatore (anche perché ciò aveva
comportato il ripristino del potere papale). Interessante a riguardo è, però,
anche l’opinione del Guerrazzi nei suoi Scritti, il quale giudica il fallimento
del blocco continentale e la caduta di Napoleone come il risultato della
corruzione della borghesia che non aveva saputo seguire gli alti ideali
rivoluzionari. D’Annunzio, da parte sua, non opera queste distinzioni, per
lui Bonaparte è un personaggio eroico, circondato da un’aura di assoluta
grandezza e malinconia:“Adolescente il Corso non era scarnito soltanto
dalla sua malinconia ma dalla verace fame. Console conobbe l’opulenza
e l’ossequio. Capitano di ventura avventurato, dominò il mondo, improntò di sé l’impero (…) Tanta
passione, tanta audacia, tanta potenza, tanta sapienza per finire nell’isola deserta”. (Messaggio del
convalescente agli uomini di pena). Nella Sala del Mappamondo – una delle più ricche di cimeli politici
della Prioria, interamente dedicata all’irredentesmo dalmata, a Wagner, al ricordo della Repubblica di
Venezia – appesa alla libreria, si trova la maschera funebre del
grande generale al quale d’Annunzio ha dedicato Il compagno
dagli occhi senza cigli: in quest’opera Napoleone è visto in
relazione alla sua tragica fine e alla sua eroica esistenza che è
stata segnata dagli sfortunati rivolgimenti del destino. Inoltre,
per un tipico fenomeno di sovrapposizione e materializzazione
simbolica dannunziana, Bonaparte ricorda a d’Annunzio
il suo amico d’infanzia (probabilmente il fiorentino Dario
Biondi) con il quale aveva frequentato il collegio Cicognini di
Prato, il “compagno dagli occhi senza cigli”, appunto, il quale
assomigliava fisicamente all’imperatore francese, e che, infine,
era morto consumato dalla tisi.
Così viene ricordata la figura di Napoleone attraverso quella
dell’amico Dario:“Come nella parabola evangelica, io e il
mio amico dovevamo andare incontro al nostro Signore; e il
184 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
Napoleone a Sant’Elena.
In basso
nostro Signore si chiamava Napoleone Bonaparte. (…) Dario era più fervente di me, tanto che pareva
posseduto da una vera mania. (…) Non so se egli fosse nato con quel viso e se glie lo avesse forgiato
la sua passione stessa. Forse la mania gli era sorta dal fondo dello specchio, tanto egli rassomigliava
al giovinetto d’Aiaccio che le stampe mostrano in meditazione dentro la grotta di Milleli: pallore quasi
diafano, labbra arcuate, occhi grigi senza cigli e con scarsi sopraccigli, mento robusto, gote scarne,
capelli fini e lisci sopra un’alta fronte solcata da vene cerulee…”.
L’anonimato sulla vera identità del compagno, comunque, non è casuale, ma volutamente ricercato per
esaltare, come vedremo anche in seguito a proposito di A uno dei Mille, le attribuzioni mitiche e quindi
universali della sua figura.
Nel personaggio di Napoleone convivono, infatti, per d’Annunzio più miti: la gloria, ma anche la fine
repentina e l’esilio nel quale il poeta stesso si identifica. Spesso la figura del grande generale evoca
immagini di morte e dissoluzione, forse proprio perché l’antico valore della guerra gli sembra ormai
irrimediabilmente perduto. È però una continua fonte di ispirazione perché, per una serie di date
coincidenti, viene ricordato spesso il giorno della sua morte: infatti, poiché la partenza dei Mille da Quarto
era avvenuta il 5 maggio 1860, d’Annunzio aveva pronunciato il famoso discorso interventista di Quarto
lo stesso giorno del 1915, per poi ricordarlo a più riprese quando già si trovava al Vittoriale, sempre nella
stessa data, in anni diversi.
Una grande biografia di Napoleone era stata donata a d’Annunzio da suo padre quando, ancora
ragazzo, si trovava appunto al Cicognini. La figura del padre, vista dal poeta abruzzese come
una presenza austera, talvolta violenta o distante, segna in qualche modo il suo destino
come una sorta di Anchise virgiliano che sembra esortare alla guerra e al combattimento,
come un super-io che lo avrebbe spronato e destinato fin dall’infanzia alla lotta, indicandogli
gli exempla dei grandi eroi del passato:“E sopraggiunse allora il mio padre il violento,
l’irrefrenabile. L’ansito del gran torace poteva più d’ogni grido.Aveva la bocca tumida di
rimproccio. Il primo suo impeto era di percuotere. Il suo amore e il suo terrore si atteggiavano
al castigo.” (Libro segreto)
Questo padre, che fisicamente sovrastava il poeta come una mole gigantesca e vendicatrice,
appare come “destinatore” verso grandi imprese, proprio attraverso il dono degli otto volumi
del Memorial de Sainte-Helene:
“Che vi piace fare stasera?” chiese mio padre che sapeva esser dolce. Gli risposi:“Dammi il
libro!”
Egli sorrideva dè nostri occhi sfavillanti, mentre apriva la valigia con lentezza studiata.
Impaziente, io cacciai la mano nell’apertura a frugare; e scopersi al tasto non un solo volume,
185 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
La maschera funebre di
Napoleone nella Sala del
Mappamondo, e sotto
una copia del Mémorial
sulla quale è posta la
tabacchiera appartenuta
al grande generale corso.
A destra, Napoleone
attraversa le Alpi di
Jacques Louis David
ma cinque, sei, sette, forse più (…) le mie
dita agili trascorsero come sopra una tastiera
“Sono otto?” gridai “Dario, sono otto!” Mio padre
rideva, il mio compagno era diventato pallido
(…) gli occhi mi dicevano ch’egli sapeva, ch’egli
aveva indovinato. (…) “Il Memoriale?” Balbettò
egli, scolorandosi ancor di più come se avesse
veduto aprirsi la porta e apparire nel vano il
cappotto grigio dell’Imperatore.”
Sempre nella Sala del Mappamondo, al di sotto
della maschera funebre del grande generale
francese, si trovano il simbolo dell’Impero,
l’aquila infranta, nonché diversi oggetti
appartenuti a Napoleone stesso, regalati a
d’Annunzio da alcuni amici: uno splendido sigillo
in agata che riporta incisa una sfinge egizia a ricordo della spedizione in Egitto, la tabacchiera (regalatagli
da uno dei suoi legionari fiumani), una clessidra, ad indicare che la gloria del mondo non è eterna, ed un
volume del Memorial de Sainte-Helene.
Della tabacchiera ricorda il poeta nel Libro segreto:“È una scatola ovale tagliata nel duro legno di una
noce di cocco, annerita com’ebano, in due valve che serra una lista d’argento.V’è incisa la Trinità nel
coperchio tondo, a mezzo dell’ovale. E di sotto,in un altro tondo corrispondente, è incisa la Madre dalle
sette spade, l’Addolorata. E il segno rivela la mano di ottimo artefice… Di questa triste tabacchiera usò
l’Imperatore nell’Isola di Santa Elena.”
Vediamo qui una tipica tendenza dannunziana
ad immedesimarsi ed “interpretare” nella propria
storia personale tutti i grandi personaggi del
passato, in questo caso, al Vittoriale, egli si
identificava nel condottiero esule, come farà
anche con l’immagine di Garibaldi a Caprera. È
indubbio, però, che l’interpretazione dannunziana
della figura di Napoleone non derivi solo dalla
lettura delle sue biografie e memorie, ma
anche dalle diffuse convinzioni dell’epoca:
il modello di riferimento è il Cinque maggio
del Manzoni, quello di una “più vasta orma”
stampata da Dio nella storia attraverso una
personalità superiore. In quest’ode manzoniana
sono già presenti tutti quei concetti che poi
ritroveremo molto enfatizzati in d’Annunzio:
l’idea dell’eletto per ragioni imperscrutabili che
solo Dio conosce e che lo hanno reso grande e motore della storia, l’ambigua e insidiosa ammirazione
per il condottiero – dittatore, il riferimento perfino ovvio ai prototipi del mondo latino come Giulio Cesare
(dall’Alpi alle Piramidi Dal Manzanarre al Reno) l’investitura divina che mescola amor di patria, potere
e religione soprattutto nell’immaginario collettivo del popolo. D’Annunzio appare nutrito di questa
mitologia del grande che permette l’avanzare della storia, con la sua azione rivoluzionaria, frutto di
una volontà superiore, lungimirante, addirittura visionaria e “veggente”. Questo lo attrae di Napoleone
con una netta esaltazione soprattutto delle virtù guerriere e di condottiero, ma anche del drammatico
chiaroscuro dell’esule in una piccola terra sperduta in mezzo all’oceano. Per il poeta abruzzese questo
sembra l’unico modo di vivere degno di essere vissuto, perciò i morti, la scia di sangue che personalità
del genere hanno portato con sé nel corso dei secoli, risultano semplicemente inevitabili, e anzi, in
fondo, auspicabili, per forgiare un popolo forte. Inoltre non c’è, ovviamente, il “salvataggio” manzoniano
nell’aldilà, dove sarà la vera gloria; la gloria dannunziana è ben più terrena e immanente.
186 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
Si scopron le tombe si levano i morti: l’eterno ritorno degli eroi
La Repubblica fiorentina
Nell’elaborazione del mito eroico dannunziano e
della retorica ad esso collegata, non è mancata,
però, certamente anche l’influenza dell’Assedio
di Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi,
romanzo-“tormentone” del Risorgimento,
soprattutto presso i liberali mazziniani per quel
riferimento alla Repubblica fiorentina fonte
inesauribile di miti patriottici: Maramaldo,
Francesco Ferrucci e un’intera galleria di
personaggi dai caratteri superomisitici nel
bene e nel male: Machiavelli,Andrea Doria, il
giovane Michelangelo da un lato e dall’altro papa
Clemente VII e l’imperatore Carlo V intenti ad ordire
quell’alleanza sanguinosa tra trono e altare che
nel periodo della Restaurazione era ancora una
drammatica realtà:“Clemente VII e Carlo V insieme ristretti s’ingegnano a ordire un patto che valga a
costringere le generazioni per sempre dentro un cerchio fatato, dentro una rete di diamante; si affaticano
a rinnovare l’esempio di Prometeo, apparecchiando all’umano intendimento catene eterne e l’avoltoio
divoratore.” (L’assedio di Firenze)
Il riferimento al Ferrucci è un topos (presente, come è noto, anche nel nostro inno nazionale) al punto
che anche Giovanni Pascoli nell’inno A Verdi, per il trigesimo del suo transito lo cita:
“Morto? Né prima né dopo,
mai, Fabrizi Maramaldi!
Cadde il Ferruccio nel sangue,
ma si chiamò Garibaldi,
quando rosso, da quel sangue,
fu in pié sorto.”
Nel caso di d’Annunzio colpisce, tra l’altro, la notevole somiglianza
tra il suo linguaggio e quello arcaico e neorinascimentale usato dal
Guerrazzi (forse anche influenzato dalle fonti dell’epoca, come, per
esempio, Benedetto Varchi) sia nei contenuti sia nell’andamento
sintattico. Ecco un esempio molto significativo tratto dalla prefazione
all’Assedio di Firenze, scritta dal Guerrazzi stesso:
“Non confidate nella speranza: ella è la meretrice della vita.
Dunque un destino inesorato ci condanna, come il serpente antico, a
nudrirci per sempre di cenere, a traversare il futuro non movendo altro
suono che quello del tergo percosso dalle verghe e del piede avvinto dalle catene?
Chi disse questo! (…) Iddio sta co’ forti! La vostra misura di abiezione è già colma:
scendere più oltre non potete: la vita consiste nel moto, dunque sorgerete. Ma intanto
abbiate l’ira nel cuore, la minaccia su i labbri, nella destra la morte; tutti i vostri dii
caschino in pezzi, non adorate altro Dio che Sabaoth, lo spirito delle battaglie.Voi
sorgerete, cadrete, tornerete a sorgere: la vendetta e l’ira vi renderanno immortali. La
mano del demonio settentrionale, che osò stoltamente cacciarsi tra le ruote del carro
del tempo per arrestarlo, indebolita vacilla e sarà infranta.”
L’andamento della prosa risulta talmente simile che quasi non si potrebbe
distinguere, soprattutto confrontandolo con lo stile dei discorsi politici di d’Annunzio.
Ma il Guerrazzi introduce anche un concetto decisamente insidioso che può
aprire la via alle peggiori interpretazioni autoritarie: l’idea, cioè, che se il popolo
non è capace di battersi per l’unità d’Italia, allora è necessario imporgliela anche
attraverso un dittatore. “Sovente dall’amore più e meglio conseguiamo che dalla
paura; ma se l’amore non basta, vi si adoperi il ferro; abbia il popolo a forza il
187 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Il Monumento ai Mille
a Quarto, opera di
Eugenio Baroni. A
sinistra, il francobollo
commemorativo del
quarto centenario della
morte di Francesco
Ferrucci (1530-1930) con
l’annullo dalla Tripolitania.
In basso, Ritratto di
Francesco Domenico
Guerrazzi
progetto 10 L’azione e il dramma
Ritratto di Niccolò
Machiavelli di Ridolfo del
Ghirlandaio. Sotto, Ritratto
di Lazzaro Mocenigo e, a
destra, Umberto Cagni
proprio bene: a forza il tiranno gli mette la mannaia sul collo; sarà misfatto
dunque mettergli a forza la corona della libertà sul capo?”. E ancora:
“L’uomo che si reca sopra le spalle il carico tremendo di porsi a capo dei
tumulti dei popoli e indirizzarli al risorgimento” deve assommare in sé
molte qualità diverse e, se costretto dalla necessità, deve essere disposto
anche ad ordinare con calma fermezza: “Anche ventimila capi recisi, e la
repubblica è salva!”.
E a proposito dei motivi per cui la Repubblica fiorentina era caduta
Guerrazzi imputa interamente la responsabilità all’inettitudine del
gonfaloniere Nicolò Capponi: “Nicolò Capponi non ebbe la mano
forte da cacciarla nei capelli di un popolo assopito e squassarlo
ferocemente affinchè si svegliasse (…) Correva pertanto a Nicolò
Capponi strettissimo l’obbligo di togliere la vita ai nemici dello stato.”
Concetto che, infatti, gli fa rivalutare la figura del Machiavelli, non
a caso presentato all’inizio del romanzo. L’idea dell’uomo forte che
deve assumersi il comando dei moti rivoluzionari e imporre la sua
volontà lungimirante, ben lungi dall’essere esclusivamente un’idea
dannunziana, come si vede, in realtà viene da lontano…
Altra opera del Guerrazzi dalla quale d’Annunzio ha tratto molte sollecitazioni e notizie (anche per la Notte
di Caprera) è L’assedio di Roma, dedicato alla Repubblica romana.
La Repubblica di Venezia
La tendenza ottocentesca a riferirsi continuamente a precedenti soprattutto medievali e rinascimentali
per sostenere posizioni politiche o discutere e in qualche modo interpretare situazioni attuali è tipica
anche di D’Annunzio. Nel libro di Merope molti sono i riferimenti alle glorie delle antiche repubbliche
marinare e a personalità del Risorgimento per sostenere scelte politiche contemporanee. Nella
Canzone dei Dardanelli d’Annunzio passa in rassegna una quantità di episodi legati alla Repubblica
veneziana, mantenendo costante il parallelo tra passato e presente (per esempio paragona l’ammiraglio
e esploratore Umberto Cagni (eroe della guerra di Libia) all’ammiraglio della Repubblica di Venezia
Lazaro Mocenigo vincitore delle battaglie nelle
tre spedizioni dei Dardanelli nel XVII secolo) in
questo alimentarsi continuo del suo immaginario
attraverso la memoria delle grandi famiglie e
personalità veneziane: i Giustiniani, i Tiepolo, i
Michiel, i Dandolo, i luoghi dei trattati, il Corno d’oro
di Istanbul, abitato da veneziani e genovesi, le isole
segnate dalla presenza antica degli italiani.
“Ecco un Sagredo principe di Paro,
a Sèrifo un Michiel, ad Andro un Dandolo,
a Candia un Tiepolo. Ogni nome è un faro.”
E appare chiara qui, attraverso la rivendicazione
della memoria storica, la presa di posizione di
d’Annunzio sulla questione del Dodecaneso.
La Repubblica di Genova dai crociati ai Mille
Se Venezia è evocata per le sue isole e la questione dalmata, Genova è a sua volta celebrata nella Sagra
dei Mille in Per la più grande Italia, per la sua antichissima tradizione repubblicana:
“Genova, che dantescamente fece ala a sé per traversare i secoli con un battito assiduo di potenza (…)
per portare nell’Atlantico le costumanze del Mediterraneo, per instituire con incomparabile sapienza
di leggi il primo Consolato del Mare, per iniziare nel Breve della Compagna il primo Contratto sociale;
la razza assuefatta all’avversità, secondo l’eterna parola di Vergilio, indomita in resistere, cercare,
durare.” Genova è degna di risollevare il famoso catino del Graal – portato dai Guglielmo Embriaco da
Gerusalemme dopo la prima crociata, conservato in San Lorenzo – e giurare ora come allora “Credo”.
188 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
“Ora e sempre risponderà da Staglieno una voce sola e sublime“ I
morti, dunque, si uniscono ai vivi in questo desiderio di giurare fede
alla patria attraverso la partecipazione ad un’altra grande impresa
(cioè la prima guerra mondiale) per liberare le terre irredente.Tutta la
Sagra dei Mille si basa sul concetto che il Duce, cioè Garibaldi, non è
morto, ma è pronto a tornare a combattere al fianco dei suoi.Tanto più
che i sopravvissuti delle sue grandi battaglie sono lì ad assistere alla
cerimonia di inaugurazione del monumento a lui dedicato a Quarto, il
suo volto è ancora impresso nei loro occhi e nella loro mente.
Recita il testo della medaglia commemorativa coniata per l’occasione:
AI FATI INVITTI
AI FLUTTI AUSPICATI
E AI SUPERSTITI ESTREMI
DELLA GESTA LIBERATRICE
RESPIRANTI CON LA PATRIA INTERA
LA IMMORTALITA’ DEL DUCE
SOPRAVVENIENTE
GENOVA CONSACRA IN FEDE
ORA E SEMPRE
Per d’Annunzio, come per Nietzsche “utto ciò che è stato sarà” e quindi, se l’istante è eterno, nulla è
veramente morto, ma prima o poi tornerà, perché è parte delle energie della Natura. Ciò vale anche
per gli eroi, si deve solo aspettare:“E i messaggeri aerei ci annunziano che la Notte di Michelangelo s’è
desta e che l’Aurora di Michelangelo, pontando sul sasso il piede e il cubito, scuote da sé la sua doglia
ed ecco già balza in cielo dall’Alpe d’oriente.
Verso quella, verso quella risorgono gli eroi dalle loro tombe, delle loro carni lacerate si rifasciano,
dell’arme onde perirono si riarmano, della forza che vinse si ricingono: per quella che subito dai grandi
omeri sprigiona le penne della vittoria.
(…) I Mille! E in noi la luce è fatta. Il verbo è splendore, la parola sfolgora.
I Mille! Ed ecco nel mezzo dell’anima nostra, aperta una sorgente di vita perpetua.”
Come se si trattasse di un atto di fede religiosa (perché di fatto è così che il poeta lo vive)
vengono citati i testimoni oculari che abbiano assistito ai fatti più
significativi della vita di Garibaldi o che, semplicemente, abbiano avuto
l’occasione di vederlo da vicino:
“Uomo egli fu uomo fra gli uomini e voi lo vedeste santissimi vecchi, lo
vedeste da presso come la Veronica il Cristo in passione. Il suo volto vero
è impresso nella vostra anima come nel sudario il volto del Salvatore.
Ma quale di voi gli era vicino quando parve ch’èi volesse morire sopra
uno dei sette cerchi disperati? [Calatafimi n.d.r.] Udiste allora la sua voce
d’arcangelo?
Disse: Qui si fa l’Italia o si muore”
Viene poi ricordato il più bello dei sei fratelli suoi nipoti, morto sulle
Argonne, andato a combattere contro i tedeschi ancor prima che
l’Italia entrasse in guerra: “Quando nella selva epica dell’Argonna
cadde il più bello tra i sei fratelli della stirpe leonina, furono resi gli
onori funebri al suo giovine corpo che fuor della trincea il coraggio
aveva fatto numeroso come il numero ostile.”
In realtà i fratelli morti sulle Argonne alla fine furono due: Bruno nel ’14
e Costante nel ’15. Ultima testimonianza, secondo d’Annunzio di ciò che
il vero spirito garibaldino richiede ora, nel 1915, al popolo italiano, cioè
di partecipare alla guerra contro lo straniero e liberare il resto dell’Italia
ancora nelle mani degli austriaci.
189 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Disegno per il ritratto di
Guglielmo Embriaco nel
Palazzo di San Giorgio
a Genova. A sinistra, la
medaglia commemorativa
disegnata dal Baroni nel
1915 per l’inaugurazione
del monumento ai Mille
a Quarto. In basso, la
partenza da Quarto e
la lapide che ricorda
l’eroismo di Bruno e
Costante Garibaldi nelle
Argonne (viale Argonne
Milano)
progetto 10 L’azione e il dramma
Garibaldi e Bixio durante
la battaglia di Calatafimi
“Meglio che riprendere la parola io vorrei
riprendere il fucile o compagni!” racconta che
abbia esclamato un ex garibaldino di fronte
alle eccessive esitazioni di molti.
D’Annunzio, insomma, utilizzando un
procedimento tipico del gusto storicistico
ottocentesco, usa alcune vicende storiche del
passato per discutere o rivendicare istanze
del presente. Lo stesso procedimento attuato
da Manzoni, Scott e altri nel romanzo storico
e da Giuseppe Verdi nel melodramma.
Neogaribaldini per sempre
Questa memoria mitica, tipica anche della retorica risorgimentale, rappresenterebbe per d’Annunzio
il punto di partenza per un cambiamento profondo dell’Italia e una sua “redenzione” o riscossa, in cui
impegnare le energie stesse di tutto il popolo. La politica, quindi, non si dovrà fare in Parlamento, ma
sul campo, sull’esempio degli antichi Comuni medievali, della rinascimentale Repubblica fiorentina, e
della dittatura di Garibaldi, appunto, impegnando il popolo in azioni
collettive; il luogo di discussione è un Arengo improvvisato, perché
la democrazia rappresentativa deve essere il più possibile ridotta,
e le decisioni, assembleari e plebiscitarie, devono essere assunte
rivolgendosi direttamente al popolo, la mente del quale sarà stata
prima adeguatamente “forgiata” dal “Verbo” dell’eroe tribuno.Al
Vittoriale, infatti, l’idea di inserire l’Arengo all’aperto non è casuale
perché ricorda l’uso dannunziano di tenere i propri discorsi in una
situazione analoga anche a Fiume, come egli stesso testimonia:
“ieri sera, come nei più bei giorni della nostra resistenza, fu fatto
parlamento all’aria aperta.Anche una volta fu ripreso il costume
dell’antico arengo.” (Prose di ricerca, di lotta di comando)
Ciò che scrive poco prima della partenza per l’impresa di Fiume è in
questo senso illuminante:
“Abbiamo lottato e penato perché in perpetuo l’Italia resti una terra di
sorgenti infette e di cuori disperati? (…) È necessario che la nuova
fede popolare prevalga con ogni mezzo contro la casta politica che con ogni mezzo tenta di prolungare
forme di vita menomate e dispregiate. Lo spirito di rivolta fin da quando nacque ha il privilegio di rimaner
sempre puro sopra ogni mezzo, di là da ogni mezzo. (…) Il comando oggi passa al popolo vivente a
quello cui la Patria può dire la parola sacra:“Voi siete nettati, ma non tutti”
L’ordine nuovo non può sorgere se non dal tumulto del fervore e dalla lotta, misurato dal battito di tutti i
cuori fraterni. E dico senza tema dello sciocco sorriso altrui, che sarà un ordine lirico, nel senso vigoroso
e impetuoso della parola.
Ogni vita nuova d’una gente nobile è uno sforzo lirico. Ogni sentimento unanime e creatore è una
potenza lirica. Per ciò è buono ed è giusto che ne sia interprete un poeta armato” (Il sudore di sangue)
L’azione deve essere popolare, ma alla base c’è il mito dello sparuto gruppo di ardimentosi che cambia
le sorti del mondo come nella Canzone dedicata all’ammiraglio Umberto Cagni:
“E la virtù dei quattro uomini inermi
fu per un’ora il vertice del mondo.”
Nell’immaginario dannunziano le personalità risorgimentali, gli eroi delle battaglie per la libertà italiana,
devono essere emulati a qualunque costo e fatti rivivere nei loro ideali che sono stati temporaneamente
sconfitti dalla corruzione, dalla stupidità e dall’inerzia del parlamentarismo e dei suoi avvilenti rituali.
Come poter essere governati da un “cagoia” come il Nitti dopo aver idealmente militato con Garibaldi,
ripercorrendo tutte le sue vittorie e gli atti di valore delle sue camicie rosse, dopo aver vagheggiato la
patria sulle note di Verdi, e aver cantato la sua religione corale dal Nabucco ai Lombardi? Ecco, in fondo,
da dove nasce lo spirito “neogaribaldino” di cui d’Annunzio si sente investito, quello che lo farà essere
190 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
interventista prima e fiumano poi. Il riferimento ai Mille e alle imprese di Garibaldi nella sua opera è
costante in tutti gli episodi che sottolineino il valore coraggioso e disperato del popolo italiano. I riferimenti
all’Eroe dei due mondi e ai suoi coraggiosi compagni si trovano anche per esempio in Per i marinai
morti in Cina e nella Canzone di Mario Bianco (guardiamarina, il primo caduto nello sbarco a Bengasi
nel 1911) dove viene citato il garibaldino Francesco Nullo come esempio estremo di valore, e come
emblema della gioventù che cade in battaglia, ma per questo è resa eterna viene paragonato a Mameli.
O Giovine, se mai nel cor t’apparsi
creato dalla pagina commossa
e del gran fuoco mio l’anima t’arsi,
odimi, qual ti vedo su la fossa
della trincera mentre ancor spirante
bevi l’odore della terra smossa,
odimi. Non morrai. Sei nell’istante
e nell’eternità. Colui che viene
e non colui che parte sei.
In questa canzone vengono introdotti alcuni elementi tipici della propaganda di guerra dannunziana, cioè
il concetto della “morte – non morte” poiché si tratterebbe soltanto di un passaggio sublime verso una
condizione superiore, l’idea che i morti sul campo di battaglia continuino a combattere risvegliati dagli
atti di valore dei vivi:
“I morti si drizzavan nel coraggio
moltiplicato dei viventi”
e della bellezza della guerra vista futuristicamente quasi come una
celebrazione giocosa:
“Ardeva a Tripoli, a Bengasi, a Derna
la festa del mortaio e del cannone”
Vediamo quindi come gli elementi risorgimentali vengano manipolati da
d’Annunzio e forzati ad un livello estremo, ribadendo ancora una volta
le mire espansionistiche e imperialistiche di questo suo preteso neoRisorgimento:
“Ché l’Africa non è se non la cote
ove affilammo il ferro, per l’acquisto
supremo, contra le fortune ignote;”
Proprio perché si oppongono alle mire espansionistiche dell’Italia,
tedeschi e austriaci sono attaccati duramente da D’Annunzio, sempre a
partire da riferimenti risorgimentali, nella Canzone dei Dardanelli: sono
accusati di essere spietati uccisori di civili, in riferimento alle atrocità
compiute a Milano dopo il fallimento delle Cinque giornate nel 1848:
“E quei che verso il Reno ora digrigna
ed or sorride livido di bile
col ceffo nella sua birra sanguigna,
l’invasor che sconobbe ogni gentile
virtù, l’atroce lanzo che percosse
vecchi e donne col calcio del fucile”
Alla viltà degli invasori d’Annunzio contrappone il valore e la memoria
dei martiri di Belfiore; addirittura immagina che gli aguzzini del popolo
di Milano come di Mantova siano perseguitati in sogno di notte dagli strumenti stessi che hanno usato
per infierire sulle loro vittime. Naturalmente anche qui, i riferimenti antiaustrici al Risorgimento servono a
d’Annunzio nel contesto attuale di rivendicazione del Dodecaneso.
Nella canzone Alla memoria di Narciso e di Pilade Bronzetti d’Annunzio si riferisce a Trento,
191 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Umberto Cagni e i suoi
compagni durante la
spedizione al Polo. In
basso, cartolina dello
sbarco a Bengasi
1911 con medaglia
commemorativa e Tito
Speri con alcuni dei
martiri di Belfiore detenuti
a Mantova
progetto 10 L’azione e il dramma
Uno dei rilievi raffigurante
i soldati italiani,
appartenente all’arco dei
Fileni, oggi distrutto, che
divideva la Tripolitania
dalla Cirenaica. Sotto,
la lapide che ricorda la
battaglia di Treponti. In
basso, Cose garibaldine di
G. C. Abba, alla biblioteca
del Vittoriale con segni di
lettura e segnalibri apposti
da D’Annunzio
che ancora stretta dal capestro austriaco,
continua a chiamare la madre Italia. In questo
caso l’esempio risorgimentale garibaldino è
funzionale per introdurre riferimenti alle terre
irredente anche attraverso le spedizioni di
Garibaldi nell’alto Garda, tanto più che i due
fratelli di origine trentina avevano preso parte a
molte imprese garibaldine. Entrambi avevano
partecipato alla prima guerra di indipendenza
e dieci anni dopo, nel ‘59, Narciso era morto
a Treponti militando tra i Cacciatori delle Alpi;
Pilade, invece, dopo aver prestato servizio tra i
Cacciatori, aveva fatto parte della spedizione dei Mille ed era morto nel ‘60
a Castel Morrone sul Volturno, al comando di un battaglione di soli 200
bersaglieri contro 4000 fanti nemici, respingendoli a lungo. Per questo suo
atto di coraggio estremo d’Annunzio lo definisce “l’emulo del re di Sparta
con i suoi trecento”.
D’Annunzio e le fonti garibaldine
Per capire la logica con la quale il poeta utilizzava la storia delle
imprese garibaldine ci vengono in aiuto i libri su questo argomento
a lui appartenuti e ancora oggi conservati nella biblioteca del Vittoriale. Innanzitutto, come è
già stato notato, d’Annunzio utilizzava una matita rosso-blu per segnare a margine le parti
che catalizzavano il suo interesse; inoltre talvolta poneva dei segnalibri autografi recanti
in alto nella parte sporgente l’argomento trattato nella pagina. In alcuni casi commentava
anche a margine. Molto interessante per capire il suo metodo di lavoro si è rivelato, per
esempio, il libro Cose garibaldine di Giuseppe Cesare Abba, nel quale alcune parti non sono
state per nulla consultate al punto che le pagine risultano intonse; altri capitoli, invece,
soprattutto quelli riguardanti le azioni eroiche dei singoli garibaldini Cacciatori delle Alpi,
in particolare trentini, sono state attentamente lette e sottolineate. Vengono privilegiati gli
aneddoti legati al valore solitario come quello incredibile della presa del fortino d’Ampola
da parte di un uomo solo, Emilio Blenio che cattura in un folle blitz il comandante della
postazione costringendolo alla resa, perché “il Generale” stava per arrivare e aveva bisogno
di quella postazione: “Il Blenio si stizzì: - commenta Abba - “Perché il fortino non doveva
ubbidire?””
Altro garibaldino dalla fede incrollabile che attira d’Annunzio è Egisto Bezzi il quale - ricorda Abba pareva “nel profilo, nell’atto delle labbra, fin nel portar del capo un po’ chino” il solito Francesco Ferrucci
redivivo, come se la sua figura ammonitrice si fosse staccata da un quadro del Cinquecento ed egli
fosse tornato a combattere per l’Italia.
Di lui racconta d’Annunzio nel Libro ascetico della
Giovane Italia:“Ma Ergisto Bezzi, il Trentino dei
Mille, mi aveva consacrato col suo crisma prima
di morire, aveva detto a uno dei miei capitani, a
Battista Adami di Trento:“Come noi guardavamo
al Duce vedendo in lui la certezza della vittoria,
così voi dovete affisarvi nel vostro Comandante
sapendo che egli vuole la salvezza della Patria””
Una investitura in piena regola, insomma, dal più
fedele seguace di Garibaldi.
Oppure d’Annunzio sottolinea un altro episodio ai
limiti dell’incredibile, in cui Attilio Zanolli non volle
abbandonare la propria postazione oltre il Caffaro
dopo il famoso “Obbedisco” e costrinse due
192 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
ufficiali austriaci a scortarlo in Veneto, perché non era possibile
abbandonare in ventiquattr’ore una postazione acquistata con
tanto sangue.
A riguardo della famosa missiva inviata al generale La
Marmora da Bezzecca, sempre nella canzone dedicata ai
fratelli Bronzetti, d’Annunzio ricorda la disperazione di Garibaldi
nel vedere il Trentino perduto senza poter fare nulla:
“Ei ti vide
perduta, ei vide tanto sangue
invano sparso, tanto fiore
di libere vite
invano reciso,
Trieste come te perduta,
come te perduta
l’Istria, alla mercé del nemico
le porte d’Italia, ottenuta
Venezia con man di mendico,
laggiù laggiù sola su l’Adria
la macchia di Lissa, l’infamia,
tutta l’onta; e disse:“Obbedisco”.
(…) Ei disse:“Ah ch’io venga
ch’io venga anche all’ultima guerra!
Legatemi sul mio cavallo.
Ch’io veda brillare le stelle
su la Verruca, oda al Quarnaro
cantare i marinai d’Italia!
Legatemi sul mio cavallo”.”
Versi che appaiono come una trascrizione poetica di un passo della biografia di Garibaldi del Guerzoni,
opera che fa parte dei libri presenti nella Prioria, appartenuti a D’Annunzio, ampiamente consultata
e sottolineata. Si noti che in questo passo emerge tra l’altro l’idea dannunziana della unità d’Italia
incompiuta e dell’onta di aver ottenuto il Veneto ingloriosamente nella guerra del 1866 solo in virtù
delle vittorie tedesche contro gli austriaci.Vediamo poi come d’Annunzio attribuisca a Garibaldi stesso il
pensiero di riconquistare anche le terre dalmate.
Il poeta immagina che lo spirito di Garibaldi “verrà, verrà sul suo cavallo,
con giovine chioma” e strapperà il vessillo giallo e nero degli Asburgo per porre sulla rocca quello
di Roma e udrà anche dal Quarnaro i canti d’Italia giungergli sul vento. L’eroe, oltre ad essere un
exemplum che assomma in sé mito, azione, epica è anche capace di anticipare i tempi e indicare altre
azioni che proseguano la sua e si spingano “più oltre”. Egli anche da morto resta un baluardo eretto in
difesa della patria: d’Annunzio ricorda, infatti, la statua in bronzo di Dante che i trentini hanno
eretto di fronte alle Alpi contro l’invasore austriaco come la più incrollabile delle difese.
L’ultimo esito di questa mitizzazione garibaldina culmina, ad esempio, in testi tipo L’apoteosi
di Garibaldi di Mario Mocci ex legionario fiumano, autore nel 1927 in piena dittatura fascista,
di questo libro, conservato al Vittoriale con significativa dedica a D’Annunzio:“A Gabriele
d’Annunzio nel giorno della “beffa” gloriosa di Vienna omaggio d’una testa di ferro devotamente
ed affettuosamente ed augurando
Tirteo Mario Mocci nel porto di Roma (Civitavecchia) 1927”
Un libro che raccontava “i riti di Caprera” svolti per commemorare il grande generale,
e rilanciare l’idea dell’azione di nuove camicie rosse da affiancare alle camicie nere. In
quest’opera Garibaldi è utilizzato contro “le vecchie cariatidi del liberalume parolaio e del
socialdemocraticume patriottardo”, ma tutto ciò che in d’Annunzio doveva tradursi in azione
dinamica risulta, invece, raggelato in una fredda celebrazione che segue i canoni rigorosi e
193 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Garibaldi con i Cacciatori
delle Alpi (parte del dipinto
“Panorama Garibaldi”di
1,40x83 m conservato
presso la Brown University
di Providence). A sinistra,
Il telegramma del famoso
“Obbedisco” inviato da
Bezzecca al Comando
in capo da parte di
Garibaldi. In basso, la
dedica a d’Annunzio sul
frontespizio del volumetto
Apoteosi garibaldina di
Mario Mocci
progetto 10 L’azione e il dramma
ostentati della religione della patria della propaganda fascista.
Naturalmente, oltre ai testi citati in precedenza, attentamente
studiati dal poeta, egli dimostra di averne consultati anche
parecchi altri, che mostrano vari segni di lettura: Garibaldi in
Toscana nel 1848 di Giovanni Sforza, Il secondo battaglione
bersaglieri volontari di Garibaldi nella campagna del 1866 di
Ottone Brentari, Aneddoti garibaldini raccolti da Giacomo Emilio
Curatolo, La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi narrate da Jack
la Bolina (Vittorio Vecchi), Dal Molino di Certosa a Cala Martina.
Notizie inedite sulla vita di Giuseppe Garibaldi a cura di Guelfo
Guelfi.
La scelta di aneddoti e simboli
L’eroe risorgimentale è raccontato da d’Annunzio alla maniera
di Tito Livio, con aneddoti della vita quotidiana che diventano
esemplari e si mescolano alle grandi azioni e battaglie: come,
La copia appartenuta a
per esempio, il famoso episodio del cacio stantio e dell’acqua infetta che un contadino diede da
d’Annunzio de La Vita
mangiare a Garibaldi dopo l’incontro di Teano, quando il generale, anziché seguire il re, non essendo
e le gesta di Giuseppe
stato invitato a pranzo, se ne era andato per la campagna solo, episodio che mira a sottolineare, da un
Garibaldi di Jack la Bolina
lato l’affronto incredibile ricevuto da Vittorio Emanuele II, e dall’altro la capacità del condottiero di donare
(Vittorio Vecchi)
senza pretendere nulla in cambio per sé, pensando solo al bene della patria, proprio come un vero
antico romano.
Particolari realistici che assumono valore fortemente simbolico, come
talvolta troviamo in Omero; d’altra parte, il richiamo al mitico aedo
dell’antichità non è casuale, visto che d’Annunzio ripristina anche l’uso
dell’epiteto, dell’immagine metaforica che distingue l’eroe, del riferimento
fisso che richiama per antonomasia la sua personalità sia nell’aspetto e
nella gestualità sia nei tratti caratteristici della psicologia.
Talvolta ci si ritrova così immersi in una vera foresta di simboli di
baudeleriana memoria nella quale, per esempio, la figura del leone è sì
peculiare della Repubblica di Venezia, ma rappresenta anche Garibaldi
a causa della bionda chioma leonina; d’altra parte “la cervice del leon
proteso” è il promontorio della Versilia sul quale, secondo il poeta, Byron
eresse la pira funeraria per Shelley con il fasciame della barca naufragata,
ma proprio per questo, è anche collegato alla figura perennemente arsa dell’Ulisse dantesco. Ecco
come nell’immaginario dannunziano un solo simbolo trova le sue molteplici stratificazioni, mettendo
insieme l’eroismo antico di Eracle,Alessandro, Ulisse con le immagini dell’antica Repubblica marinara
e il mito ottocentesco dell’eroe condottiero uomo di azione e “artiere” inventore, artigiano di bottega, e
talvolta anche poeta.
Garibaldi e Verdi si somigliano
Tra i grandi dell’Ottocento risorgimentale che spiccano come
punti di riferimento per chiunque voglia fare nuovamente
grande l’Italia troviamo su tutti Garibaldi e Verdi, in qualche
modo uniti, non divisi; il loro spirito è quello che vive nelle
città italiche testimoniato dalle grandi vestigia di un passato
dormiente, ma che il veggente moderno, ovvero d’Annunzio
stesso, presagisce nella sua rinascita, attraversando le strade
silenziose nei suoi frequenti viaggi, diligentemente annotati nei
Taccuini e riproposti nelle Città del Silenzio di Elettra. L’eroismo
deve rivivere sebbene il popolo, ancora una volta riprendendo
un’immagine manzoniana, dorma, incosciente del suo
valore e della sua vocazione eroica. Garibaldi e Verdi, infatti,
194 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
rappresentano quella forza inconscia che ormai farà parte per sempre del popolo italiano. Entrambi
per d’Annunzio sono destinati a sopravvivere dopo la morte, entrambi attingono all’assoluto: il loro
spirito è espressione delle forze primigenie dell’universo e della terra, fa parte della “Natura” universale,
la loro anima è l’oceano, dentro di loro si muove questo spirito immortale che è il mare, mobile e
perennemente inquieto e, proprio per questo, in un divenire continuo capace di concepire grandi azioni
e pensieri. Come si può notare in tutto il parco del Vittoriale, dal mausoleo, all’Arengo, alla nave Puglia,
l’eroismo vive nella natura e ne è parte integrante, è emanazione della sua energia vitale originaria, da
essa attinge e ad essa tornerà in un ciclo perenne di immortalità.
Garibaldi il marinaio artiere di ogni arte
In questo senso, soprattutto in A uno dei Mille, lo spirito di Garibaldi
è modellato sulla figura dell’Ulisse della Laus vitae, un vegliardo
perennemente in viaggio sul mare. D’Annunzio, seguendo uno stilema
omerico, gli si rivolge, interrogandolo, in seconda persona, come ad un
ignoto marinaio compagno di Garibaldi nelle sue imprese, uno dei veterani
che avevano fatto parte della spedizione fin dall’inizio, provenienti dalla
sua Liguria, piuttosto numerosi, come è testimoniato dalle fonti; uno
di quelli che ancora oggi continua, ormai vecchio, a seguire sempre la
medesima rotta tra la Sardegna e il porto di Genova. Egli resta volutamente
senza nome, perché il “milite ignoto” per il suo stesso anonimato incarna
Il monumento a Garibaldi
a La Spezia. Sotto, Ritratto
l’eroismo di tutto il popolo, potrebbe essere tutti o nessuno o Garibaldi stesso. Un uomo che, come
di Garibaldi marinaio
tutti gli eroi senza nome, così cari a d’Annunzio, è “adusto”, arso, dalle fatiche, porta i segni profondi
delle guerre combattute, ma è forte ancora come l’“usto” cioè la corda massiccia che tiene l’ancora
al fondo. I suoi modi sono rudi , tipici dei marinai dell’epoca, come dimostra l’immagine realistica del
“masticaticcio”, cioè il tabacco masticato e successivamente sputato (notiamo ancora il tipico metodo di
creazione epica dannunziana, utilizzando il dettaglio realistico, all’interno di un contesto mitico). Questo è
il vero spirito garibaldino che non è certo imprigionato a Caprera, sotto quel pesante macigno di granito
che non gli appartiene perché non può contenere il suo spirito libero. Come si può leggere nella già
citata canzone dedicata ai fratelli Bronzetti, Garibaldi voleva essere cremato e le sue ceneri dovevano
essere sparse sul mare.A maggior ragione, quindi, ora è perennemente girovago, come lo sono sempre
nell’opera dannunziana le grandi figure eroiche e mitiche.
Naviga dall’isola di Sardi nel mare dal “sale amaro” (ribadito due volte all’interno della lirica), eco
dantesca per introdurre l’immagine del grande uomo che, essendosi battuto per la patria, è costretto
all’esilio dai detentori del potere, un pensiero fisso in d’Annunzio, poiché vi presagisce il proprio destino.
Il volto bruciato dal sole è sì splendente di gloria, ma sarà in grado di “campar suo legno cercando il
faro” ora che tutti i punti di riferimenti sono perduti?
Egli cerca di scorgere il fiammeggiare del “suo” leone sulla punta
di Caprera, e quando giunge nella città dei Capitani del mare per
definizione, i Doria, in vista di Quarto, il vecchio marinaio con lo
sguardo cerca la piccola colonna che lì ha eretto la “modestia del
popolo risorto” (prima che fosse poi sostituita dall’attuale monumento
a Garibaldi inaugurato, come dicevamo, proprio il 5 maggio 1915
con il famoso discorso interventista di d’Annunzio). Il poeta abruzzese
sottolinea con enfasi l’aspetto dell’ingratitudine popolare che accentua
il senso di solitudine dello spirito dell’eroe, ma anche questo omaggio
così inadeguato non potrà cancellare l’immagine della Vittoria che
stilnovisticamente in tutte le battaglie parea gli sorridesse come sua
donna. Quando d’Annunzio deve elevare la propria materia poetica il
suo linguaggio si fa sempre più arcaico e nello stesso tempo eclettico
tanto da non essere ascrivibile ad alcun periodo storico preciso, per risultare quindi universale, eppure
prezioso e variegato come uno smalto bizantino o una decorazione di Gustav Klimt.
Il vecchio eroe non risponde alle domande, ma comunica solo con i suoi simili, cioè con le forze naturali
di cui è parte integrante: ascolta i venti, dialoga concitatamente con la tempesta, perché soltanto
195 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
gli elementi hanno la grandezza necessaria per contenere i suoi pensieri. La sua vita si svolge tra la
bonaccia e il fortunale, così come la sua mente eternamente abitata dall’oceano calmo o in tempesta.
Le sue gesta latinamente intese, sono scolpite sul suo volto come cicatrici.
Nel contemplarlo d’Annunzio viene preso dal
timore che i suoi versi non siano all’altezza
di un simile eroismo: infatti sostiene di aver
inutilmente pregato il mare affinché incidesse
esso stesso “strofe giganti” nel granito della
sua tomba. Il poeta non è stato capace di
tanto, ma dentro le sue rime egli potrà udire
elevarsi attraverso il rosso caos della strage
l’odore salmastro, il rumore del frangente
come una schiera nemica, l’impeto del mare
e della battaglia.Vi potrà riconoscere la
versatilità di colui che fu “artiere di ogni arte”,
dando grande risalto e importanza alle sue
abilità manuali d’artigiano, oltre a quelle, ben
più celebri, di condottiero. L’artigianato è un
elemento fondamentale della cultura del popolo,
considerato come la culla dell’arte, e tipica espressione del genio popolare e della sua tradizione come
Cartolina del primo
centenario della nascita
d’Annunzio spiega lungamente nel romanzo Il fuoco a proposito del maestri vetrai veneziani. Garibaldi
di Garibaldi 4 luglio 1907. eccelleva in queste abilità pratiche e tale caratteristica lo identifica ancora di più come eroe del popolo,
A destra, incisione dal
vicino alla massa e sua espressione, che agisce non per fini egoistici di potere personale, ma per il
volume Dal Molino di
bene della Nazione. L’espressione “buon calafato e mastro d’ascia” è volutamente anticheggiante,
Certosa a Cala Martina.
Notizie inedite sulla vita
medievale, riferita alle straordinarie abilità dei carpentieri delle Repubbliche marinare. L’utilizzo di termini
di Giuseppe Garibaldi a
appartenenti al passato accentua il senso di continuità storica della figura di Garibaldi, che ha ereditato
cura di Guelfo Guelfi. In
le sue capacità dalle antiche abilità tecniche dei Tirreni.
basso, “Tutt’altra Italia
Negli occhi tristi del vecchio marinaio d’Annunzio legge le
io sognavo... ” (dalla
mostra Garibaldi a Castel critiche al governo per aver tradito l’opera di Garibaldi e il
Sant’Angelo)
sacrificio dei garibaldini, per l’esclusione della figura del generale
dalla costruzione del neonato Stato italiano, per giungere,
infine, ad una drammatica conclusione: nonostante egli sia lì a
presiedere a tutte le operazioni per ripristinare il cordame, con
tutti gli attrezzi necessari, il suo pensiero è che:
“Il torticcio dell’àncora s’è rotto.
Rinnovarlo non giova. Orvia, tralascia!
Per flagelli e capestri, o cordaio, l’acre
canape torci.”
È inutile riparare la corda dell’ancora, tanto più che, ormai, i
cordai lavorano solo per corde da capestri, perché l’ancora che
teneva salda la nave al fondale era l’eroe insostituibile che oggi non c’è più. La conclusione è scioccante:
sotto le querce sacre del Gianicolo, dove, tra l’altro c’era il quartier generale di Garibaldi
nel ’49, pascolano i porci e l’Italia è ridotta ormai ad una baldracca che si giace sotto
qualunque puttaniere. L’Italia è una prostituta disposta a vendersi un’imbarcazione che
va alla deriva, priva del sostegno di Garibaldi e in mano ad un gruppo di potere corrotto e
senza scrupoli che ha distrutto qualunque ideale risorgimentale. D’Annunzio inserisce la
riuscita immagine dell’“ombra delle querci”, in riferimento all’antichità, e la metafora del
pascolo dei porci, citazione evangelica: qui abbiamo un ottimo esempio di genesi della sua
retorica e della sapiente commistione di citazioni e simboli di varie epoche, con presenza
quasi costante di metafore religiose. L’ultima condanna si riferisce ancora allo stato italiano,
che ospita la grande cultura latina con i suoi valori e la intorbida adesso con il decadimento
del Parlamento, la disonestà dei governanti e la contaminazione dei meriti su cui si basava
l’Impero romano.
196 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
Tra gli elementi che colpiscono molto D’Annunzio, sottolineati con la sua
immancabile matita rosso-blu, soprattutto nel Garibaldi del Guerzoni, ci
sono gli aneddoti che aprono squarci di verità talvolta anche inaspettate sul
carattere del grande generale Sempre in relazione allo spirito pratico per
esempio, sottolinea un interessante episodio avvenuto nel 1862: durante la
sua visita a Milano il generale “dalla terrazza della villa saluta “il popolo delle
cinque giornate capace di venticinque” raccomanda la carabina: promette
al solito Roma e Venezia. Inaugurando con pompa solenne il bersaglio
provinciale, spara egli il primo colpo, che giornali trovano stupendo”.Vediamo,
quindi, lo spirito pratico con cui l’Eroe dei due mondi mostra di apprezzare la
novità del momento in fatto di armi, già progettando altre azioni per liberare
Roma e il Veneto. Poi si reca a far visita ad Alessandro Manzoni salutandolo
con queste parole:“Permettete ch’io venga a prestare omaggio a un uomo
che tanto onora l’ Italia”. Ma l’autore dei Promessi Sposi si schermisce:
“Sono io che devo prestare omaggio a voi: io che mi trovo ben piccolo dinanzi all’ultimo dei Mille, e più
ancora dinanzi al loro Duce, che ha redento tanta parte d’Italia e nel modo migliore, offrendola a Vittorio
Emanuele”. Ma lo spirito semplice e imprevedibile di Garibaldi colpisce lo scrittore, quando, in segno
di amicizia, gli porge un mazzolino di viole:“Lo conserverò, esclama il poeta, lo conserverò in memoria
d’uno dei giorni più belli della mia vita”
Nella canzone la Notte di Caprera di Garibaldi
(suo modello costante durante la prima guerra
mondiale e l’impresa di Fiume) d’Annunzio
racconta minuziosamente alcune battaglie,
lo sprezzo del pericolo, la calma inossidabile
dell’uomo pronto a tutto, abituato a guardare la
morte negli occhi tenendola perennemente in
scacco.Arcangelo Ghisleri, basandosi soprattutto
sulle opere di Alberto Mario, autore delle note
testimonianze garibaldine come La camicia
rossa e I mille, scrisse un commento alla Notte di
Caprera (La canzone di Garibaldi del d’Annunzio documentata) per dimostrare che in essa d’Annunzio
non aveva affatto falsato la realtà storica modificandola in funzione poetica, ma che, nonostante lo stile
fortemente immaginoso, aveva utilizzato in modo puntuale e fedele le notizie provenienti da diverse
biografie del grande generale. Riprova questa, della mole di documenti che d’Annunzio era solito
consultare e che il mito si basava, secondo il suo stile, sulla verità storica dei fatti e degli aneddoti più
che sulla fantasia. Naturalmente vengono evidenziati, alla maniera sempre di Livio, gli episodi simbolici,
con dettagli minuziosi, spesso che sottolineano l’anima schietta e popolare di Garibaldi
Se in A uno dei Mille lo spirito di Garibaldi appartiene al mare, nella Notte di Caprera l’Eroe dei due
mondi è il “Dittatore” che “sul far dell’alba, con i suoi pochi, sen viene alla
marina che la nave attende”. Il paragone con l’eroe romano Cincinnato che,
dopo aver servito valorosamente la patria, si ritira a vita privata senza sfarzo e
senza onori, risponde al concetto dannunziano di “umile eroismo”, secondo
cui il grande uomo trova la sua felicità nel semplice atto di donare. Di qui
l’esaltazione di Garibaldi come “donatore di regni”, la cui bellezza supera
persino lo splendore dei raggi del sole:“Bello non è come il raggiante volto
del donatore di regni il nuovo Sole”.A tal proposito si vede come il Nostro
accosti all’epiteto con cui nomina Garibaldi brevi cenni sulla sua fisionomia
e sul suo carattere, sempre allegro e sorridente. Ribadendo il concetto già
espresso in A uno dei Mille dirà in un altro passo:“Fu maestro d’ascia,
artiere d’ogni arte, pronto ei sempre alla diversa necessità con volto sorridente”. In queste poche righe
si concentrano alcuni dei punti fondamentali per la comprensione del pensiero dannunziano sull’eroe.
Innanzitutto Garibaldi viene raffigurato, oltre che sorridente, anche come uomo sempre pronto all’azione
instancabile perché nella concezione dannunziana l’eroe è in costante movimento. In secondo luogo,
197 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Particolare del
monumento di Garibaldi
al Gianicolo. A sinistra,
lo storico incontro tra
Garibaldi e Manzoni nel
1862 (Milano, Museo del
Risorgimento). In basso,
Garibaldi a Caprera
progetto 10 L’azione e il dramma
si nota l’insistenza del Vate, sul multiforme ingegno di Garibaldi poiché egli
ritiene che l’eroe in quanto tale non possa eccellere solo nell’arte militare, ma
debba possedere, comunque, un estro creativo, essere un ingegno poliedrico.
Ricco di iniziative e proposte, Garibaldi, come ogni eroe, è una personalità
irrequieta, che concepisce continuamente nuove imprese anche quando
“ancora dorme la città che ululò d’amor selvaggio all’apparito eroe”,
immagine che ci mostra però anche l’amarezza e il rimprovero nei confronti
del popolo incapace di difendere il suo eroe e rivendicarlo per sé. Il suo spirito
indomito viene reso ancor più tangibile da quel “crin selvaggio”, proprio di tutti
i grandi eroi, sapientemente accostato da d’Annunzio alle “criniere ondose
che sanno ancor d’ariccio” dei suoi cavalli, i quali portano i nomi delle sue
più belle vittorie, come Calatafimi e Marsala. La passione dannunziana per
questi animali, che hanno come unico obiettivo la velocità e il superamento
del limite, e possiedono un’indole irrequieta e desiderosa di libertà, si traduce
in elogio di chi come loro lotta, sfidando ogni ostacolo per la libertà del suo
popolo. Queste focose e maestose creature vengono dipinte come cavalli
“di vittoria”,“recalcitranti al vento che riscuote il Golfo” ed ecco che questa
immagine del Libeccio che spira vigorosamente sul porto di Napoli diventa lo
specchio della forza stessa che contraddistingue “l’uomo del mare” il quale
prova profonda devozione verso il “dominato Oceano”.
Questa reverenza quasi mistica viene ben descritta dal poeta nel momento in
cui, partendo per Caprera, il Generale “scioglie l’ultimo capo all’ormeggio allor
con atto che par santo al devoto stuolo” decidendo che lascerà i suoi cavalli
liberi per l’isola perché volino come Pegaso verso la
libertà e anche le sue greggi non sono segnate con la robbia perché devono
restare anch’esse parte integrante della Natura che le ha generate. L’alto
connubio tra natura ed eroe innalza la descrizione ad un livello quasi sacro
nel momento in cui “l’anima già per l’acque si diffonde simile al dì” e quindi il
poeta, riprendendo l’immagine biblica dello Spirito Santo che vaga per l’orbe
terracqueo al fine di creare e illuminare, la paragona all’animo garibaldino che
si diffonde attraverso le acque in ogni luogo. Il suo spirito non cessa mai di
cercare altre mete così come aveva detto accomiatandosi dai suoi sulla riva:
“A Roma, a Roma ci rivedremo! A Roma!” Il definitivo sposalizio tra Garibaldi
e la natura avviene però a Caprera. Qui infatti :“Apre così le braccia la Natura
subitamente al buono figliuolo suo per riposarlo, sopra il suo petto ignudo,
di tanto sangue e di tanta ventura. E il figlio a lei così volge dischiusa la sua
divina anima di fanciullo”.
Garibaldi è uno spirito antico, dalle molte vite, vissute in questa sua lunga
esistenza, e in molte altre, fin dalla notte dei tempi: artigiano, ma anche
pastore di chissà quale tribù dei suoi avi perduta nel tempo. L’“isola solitaria”
non è motivo di sconforto per il Dittatore poiché essa “serba il silenzio ch’è
bevanda al pugnace”, attraverso il momento privilegiato della meditazione
(come sottolineerà anche a proposito di Verdi) che precede e guida l’azione.
In alto, M. Lorusso
Garibaldi è il leone dalla chioma bionda che si aggira tra i soldati e talmente
Garibaldi nel 1849 (Roma
venerato anche dai nemici che si dice abbia vinto la battaglia di Sovera
Museo Nazionale del
con la sola presenza sul campo. Garibaldi è il paladino della libertà colui
Risorgimento). Sotto,
Garibaldi visto da Silvano che anche da morto si erge sulla rupe di Quarto, risorto come spirito di
Campeggi. A destra,il
vittoria, proteso come polena di nave verso il mare, accompagnato e
grande albero presso
sorretto in quello sforzo di tensione dal popolo dei suoi che mai lo hanno
la casa di Garibaldi a
abbandonato. Il paladino della libertà e quasi l’anarchico, il populista sul
Caprera
quale d’Annunzio si conformerà anche per scrivere la costituzione fiumana
e per elaborare la propria immagine di reggente dittatore. L’immagine
è sempre quella liviana di Cincinnato, che porta la semente perché in
198 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
futuro ritornino i tempi eroici. La semente, quindi, è metaforica e sta ad indicare il desiderio di attendere
l’avvento di una nuova rinascita. Non a caso d’Annunzio assume la Reggenza del Carnaro come
Garibaldi aveva assunto quella della Sicilia proclamando, tra l’altro, il Regno d’Italia prima dello stesso
Vittorio Emanuele II.
La canzone è costruita alternando il ricordo delle grandi battaglie alla
quiete pastorale del presente a Caprera. Nella mente del grande generale
appare nitido il ricordo di Quarto, quando le navi dei volontari sembravano
“sospinte dal respiro stesso dei petti eroici”, con la “prora diritta a gloria
e a morte”, navi piene di “melodia e di ruggito”, perché esiste anche una
melodia della guerra, come spesso si sottolinea in questa canzone, una
melodia che nasce dall’anima stessa del popolo, eroica e nello stesso
tempo pastorale, derivata dalla poesia della patria. I garibaldini partono
accompagnati dai delfini e, evocando un’immagine dantesca, dalla virtù
delle stelle: presenza del cosmo che sembra partecipare alle azioni di
Garibaldi anche in altri passi della canzone.
La prima tappa del loro viaggio suggerisce importanti presagi:
come il luogo dell’argonauta Telamone (ovvero Talamone), e poi la
Maremma dove il generale romano Mario liberò gli schiavi dalle loro catene.
Come già abbiamo sottolineato a proposito di Mario Bianco, anche in questa canzone, d’Annunzio
ritiene beato il primo morto caduto tra le spighe perché ha visto l’eroismo del grande generale negli
occhi e la sua vita, quindi, è destinata rinascere. Si crea così intorno a Garibaldi un’aura di misticismo,
come se si trattasse di una figura salvifica, per la quale il poeta ricorre alle immagini evangeliche del
Salvatore cristiano: prima di Calatafimi, ad esempio, Garibaldi spezza il pane sotto un ulivo con i suoi
(metafora eucaristica della Passione), perché dopo si deve affrontare il colle “aspro di sette cerchi”, il
“balzo di Dante”, sacro e difficile come la salita della montagna del Purgatorio, tanto da imporre una
battaglia per ogni balza. In questo
contesto si introducono atti di valore dei
singoli che devono esprimere, da un lato
l’individualità, ma dall’altro l’idea della
coralità popolare dell’azione, sempre
importanti, perché costituiscono esempi
concreti che devono spingere chi legge a
emularli: Francesco Nullo sul suo cavallo,
sembra una figura umana e insieme
ferina per la forza e l’audacia, al punto
da essere simile ad un centauro, perché
appare fuso con l’animale che cavalca.
Bixio, paragonato a Giovanni dalle
Bande Nere (si noti ancora il riferimento
rinascimentale) si strappa da solo dalla
carne il proiettile che lo ha colpito. E d’Annunzio evoca gli incendi e i morti soprattutto a Palermo, come
una fornace purificatrice dalla quale la città rinasce come la Fenice, finalmente libera. Su tutto domina il
sorriso calmo e divino di Garibaldi che non teme la morte, quasi non fosse umano.
Ma dopo l’esaltazione, nella mente del generale compaiono anche i presagi negativi, quell’acqua
putrida offertagli da un contadino a Teano diviene il simbolo delle future amarezze come l’Aspromonte
e Mentana, delle incomprensioni e degli scontri col governo italiano. E poi tornano le immagini di morte
dei cari compagni, sempre a Calatafimi, e le parole di Bixio:“Dunque così voi volete morire?”. Parole che
riecheggiano nella mente del generale quando vede il suo “doppio” Deodato Schiaffino da Camogli, il
marinaio che gli somiglia, riverso sul declivio della collina, nel proprio sangue; Garibaldi lo guarda come
se osservasse in uno specchio la morte che vorrebbe per sé.
E infine, ritorna nella sua mente il pensiero dominante, il più doloroso: quello di Roma nel 1849,
dell’agro e della città conquistata un giorno e poi perduta, contesa a borbonici e francesi palmo a palmo,
con incredibili atti di valore: Luciano Manara che balla davanti al nemico sotto il fuoco delle artiglierie
199 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
L’incorruttibile triumvirato
della storia: Cincinnato,
Garibaldi e Washington.
A sinistra, calendario del
1863 con Garibaldi santo
martire e gli ex voto delle
sue imprese. In basso,
Francesco Nullo
progetto 10 L’azione e il dramma
presso il Colle dei Cappuccini a Velletri, Garibaldi stesso che, in precedenza, nella stessa battaglia,
travolto dai lancieri del Masina in fuga (impauriti dalle forze molto superiori dei borbonici), sebbene
pesto e sanguinante, bacia la terra di Roma e viene salvato da un gruppo di giovinetti, di sedici anni o
meno, guidati dal capitano Airoldi, i quali dimostrano infinito valore. Bixio colpito all’inguine che ancora
schernisce la sua ferita, Masina che, pur ferito, torna al quarto assalto di villa Corsini e cade morto
senza un lamento, con le braccia in croce come Cristo. Mameli, scrittore di inni come Simonide, muore
sorridendo. Gerolamo Induno, il pittore lombardo, scampa miracolosamente alla morte, nonostante
numerosi proiettili lo abbiano colpito.Viene ricordato, poi, il quinto assalto disperato del bresciano Emilio
Dandolo che, dopo aver perduto suo fratello Enrico, decide di sacrificarsi (rimanendo gravemente
ferito) per riprendere villa Corsini, ma inutilmente, perché Villa Corsini, riconquistata ai francesi, verrà
pesantemente bombardata e quindi nuovamente perduta poco dopo.
Mai, commenta D’Annunzio, lo spirito si è
mostrato così forte come in quei soldati nel
trascendere la debolezza della carne, al punto che
i moribondi si sfasciavano le piaghe per lasciare
un ricordo tangibile del loro martirio e spronare
così i compagni a continuare la lotta. Erano venuti
da tutte le parti d’Italia, perché questa è stata
l’insurrezione di un intero popolo per la libertà della
patria, e quello che si sparge sul suolo romano è
il sangue repubblicano del venerato nome veneto
dei Dandolo e dei Morosini. D’Annunzio sottolinea
l’angoscia e la ferrea volontà che guida Garibaldi
quando continua a gridare ai suoi “Avanti”, pur sapendo che li sta mandando verso una morte quasi
Garibaldi alla difesa di
Roma (parte del dipinto
certa. Ma, conclude D’Annunzio, quel giorno “chi morì, morì vittorioso” perché fu ripresa la zona di Porta
“Panorama Garibaldi”di
San Pancrazio (battaglia del Vascello).
1,40x83 m conservato
presso la Brown University Ora, nel ricordo di quella disperata difesa del ’49, Garibaldi esclama:
“Non invano moriste, o dolci figli” E promette :“Verrò, verrò, là donde
di Providence). A destra,
Garibaldi nei panni del
mi partii ritornerò (…) ritornerò, Madre, per ben morire”. E mentre il
Redentore in una stampa maestrale porta l’eco del suo saluto sulla Città Eterna, ode il belato
popolare dell’800. In
di un agnello perduto e, proprio come il buon pastore, lo prende in
basso, il monumento a
braccio per portarlo alla madre; giungendo, il cane lo riconosce come
Giuseppe Verdi a Parma
Argo con Ulisse, nonostante le pene sofferte, poi, dopo aver ricontato
le sue pecore, guida il gregge verso il mare zufolando una melodia
della pampa, per sempre pastore dei suoi…
Verdi il gigante della Terra
Se la patria e l’eroismo hanno una loro musica, in Italia essa ha un
solo nome: Giuseppe Verdi. Il grande compositore è per d’Annunzio
un titano, nato dalla terra d’Italia, per la sua figura il poeta nutre una
vera e propria venerazione, come un nume tutelare della patria e lo
chiama “il re della melodia”:
“Una voce mancò alla Città: quella [cioè Giuseppe Giacosa, n.d.r.]
che seppe dire il cordoglio di tutti quando il vecchio re della melodia
si ricongiunse al mistero della sorgente” (Della malattia e dell’arte
musica da Il Compagno dagli occhi senza cigli)
Un elemento particolarmente sottolineato da d’Annunzio è il religioso
rispetto dei milanesi quando il grande musicista stava combattendo
la sua ultima battaglia con la morte:
“Nella città che in giorni memorabili, interrotta la ressa delle cure
consuete sospesa l’ansia della cotidiana gara in una tregua di
contemplazione e di meraviglia, stette intenta con animo religioso
alla stupenda lotta che il trovatore di cento melodie combatteva con
200 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
la morte e fu tocca e segnata dalla bellezza.”(Orazione ai Milanesi, In
morte di Giosué Carducci)
Ma la musica, non è, dal suo punto di vista, l’unico elemento che fa
di Verdi una personalità pari a Dante o Michelangelo: ci sono altre
componenti fondamentali come i libretti, le brillanti soluzioni teatrali,
la coralità popolare, la religione della patria. Nell’Orazione ai giovani
che venne declamata presso l’Aula Magna dell’Istituto fiorentino
di Studi superiori, nel trentesimo giorno dalla morte del grande
musicista, come introduzione alla canzone (poi inserita nel Libro
ascetico della Giovane Italia con il titolo Esempio italico del Genio
vittorioso esposto ai giovani d’Italia), D’Annunzio, infatti, afferma
esplicitamente che l’arte musicale è soggetta ad un cambiamento
repentino, come se già considerasse la produzione verdiana quasi
“datata”, musicalmente non più adeguata ai tempi.
Questo, però, in fondo, è un aspetto marginale per D’Annunzio, perché Verdi è soprattutto il grande
maestro che ha rivoluzionato il dramma in musica, operando la sintesi di tutte le arti del teatro e della
tragedia, divenendo espressione della coscienza popolare e sua stessa autoco-scienza. Il concetto
della sintesi delle arti attraverso il melodramma è ampiamente sostenuto da d’Annunzio nel romanzo
Il fuoco e solo considerando questo aspetto si può spiegare per quale motivo il poeta abruzzese nella
canzone immagini che siano addirittura Dante, Leonardo e Michelangelo a tessere l’elogio funebre del
grande musicista, poiché essi rappresentano le figure esemplari
e le presenze ispiratrici di tutta la produzione dannunziana. I
riferimenti a Dante nell’opera del Vate sono costanti, perché nel
suo immaginario l’autore della Divina Commedia si identifica
totalmente con l’Italia e con la figura dell’artista militante animato
dall’amor di patria.A Leonardo d’Annunzio ha dedicato, come
maestro di ispirazione, tutto il romanzo Le vergini delle rocce
e per lui rappresenta il genio creativo di cui si sente discepolo,
paragonandolo a Socrate per le sue doti “maieutiche” nel trarre
fuori la verità dalla natura ed esplorare realtà nuove. Per quanto
riguarda Michelangelo, poi, oltre ad essere un uomo che non si
piegava di fronte a nulla, scolpito nel suo stesso marmo per la
sua invincibile volontà, capace come nessun altro di dare forma ai
moti interni dello spirito, possedeva prodigiose qualità di artefice
quasi fosse guidato direttamente da mano divina nell’esecuzione,
come d’Annunzio spiega ampiamente a proposito degli affreschi della Sistina completamente eseguiti
direttamente sul muro a fresco senza cartoni:“Non aveva egli la guida dei cartoni. E con che s’aiutava
egli dunque?” Si chiede ammirato il poeta nel Notturno.
Come Dante, Giuseppe Verdi è un personaggio decisivo per la costi-tuzione dello Stato italiano e della
sua identità culturale: l’amor di patria, la religione laica, la convinzione
che la poesia sia veicolo di valori civili e umani sono tutti elementi che
lo legano al grande poeta fiorentino; ma non dobbiamo dimenticare
anche la serrata concitazione dei suoi libretti e la sintesi mirabile
del verso che racchiude tutto un mondo in poche immagini figurali,
divenute nel melodramma “parola scenica”, determinando la potenza
dei campi semantici nei libretti verdiani dai molti simboli e significati,
alla quale lo stesso d’Annunzio spesso si ispirò.Verdi, inoltre, come già
notavamo per Dante, incarna l’ideale dannunziano dell’artista militante
costantemente in lotta per affermare idealità alte, scevre da ogni
mediocrità.
Verdi è il patriota, talvolta incompreso nel proprio secolo per la vasta
lungimiranza del suo pensiero. La sua opera ha tutta l’energia solenne
e viscerale di un rito di popolo, simile ad un’antica tragedia, come
201 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Una suggestiva immagine
del coro del Nabucco. A
sinistra, particolare del
monumento di Dante a
Trento. In basso, Giuseppe
Verdi ritratto da Vincenzo
Gemito
progetto 10 L’azione e il dramma
Giovanni Boldini Ritratto
di Giuseppe Verdi. Sotto,
Antifona amatoria di
Basiliola tratta dalla
Nave di G. d’Annunzio
musica di Ildebrando
Pizzetti (soprannominato
dal poeta Ildebrando da
Parma)
d’Annunzio spiega nell’Orazione ai giovani. In
questo contesto la paragona all’“ellenica arte”
dello scultore Vincenzo Gemito che ritrasse Verdi
meditabondo eppure fiammeggiante del suo
irrefrenabile ingegno creativo. Proprio nell’Orazione
d’Annunzio afferma che lo spirito di Verdi fa parte
dell’Italia come i suoi fiumi, i suoi monti, i suoi
vulcani e la sua immagine del Genio vive ormai
nella mente di ogni italiano come una componente
costitutiva, una parte della coscienza comune.
A d’Annunzio non interessa l’opera verista di un
Puccini o di un Mascagni sul quale si ricorda la
sprezzante definizione di “capobanda” a proposito
della Cavalleria Rusticana (e il loro successivo
travagliato rapporto per l’orchestrazione di
Parisina) ma il mito, come ben spiega parlando di
Verdi ai giovani. E il mito per costruirsi ha bisogno
di profondità storica, che viene ottenuta anche
attraverso la scelta del linguaggio volutamente
arcaizzante.
Ciò che del grande musicista bussetano gli italiani
devono seguire ed emulare è l’atto creativo, teso
continuamente verso il nuovo e verso il futuro,
come egli fece fino alla fine della sua veneranda
vecchiaia.Anche in questo accomunato agli
altri tre grandi del passato che lo vegliano nel
suo trapasso, i quali ricercarono la bellezza
e l’arte fino agli ultimi giorni della loro vita,
instancabili. L’elemento dell’energia creativa che
si presenta come un’aura che avvolge il Genio,
viene sottolineato nella sua commemorazione
del 11 maggio 1913 anche dal musicista e
musicologo bresciano Luigi Tebaldini, grande
ammiratore e amico di Verdi, già direttore del
Conservatorio del Regio di Parma. Il Tebaldini
infatti, ricordava la profonda impressione che
la visione della maestosa figura di Verdi aveva
suscitato nel giovane Ildebrando Pizzetti, (il compositore delle musiche delle opere dannunziane La
Nave, Pisanelle, Fedra) il quale poi attribuì l’origine della sua passione per la musica a quell’incontro
che misteriosamente lo aveva illuminato sul suo destino di artista:“apriva così gli occhi dell’anima alla
Luce e alla Vita e li apriva per virtù di una visione di sogno che il Genio di Verdi doveva rendere sempre
più luminosa e sfolgorante”. Già seguendo per proprio conto il motto “Ideale Genio” poi coniato dal
Tebaldini, d’Annunzio non intende perciò ricordare né citare le opere verdiane come cimeli del passato
(a parte un fugace riferimento ad Aida per l’epoca in cui era stato realizzato il ritratto di Gemito), ma
vuole evocare il suo spirito come una presenza che deve animare i giovani oggi.Verdi non è morto
perché la sua mente è come l’oceano, mobile ed eterna, distesa sull’Italia e nelle menti degli italiani
protesi verso il futuro. Come hanno notato Vincenzo Borghetti e Riccardo Pecci ne Il bacio della sfinge
il teatro di d’Annunzio e il melodramma, al melodramma verdiano d’Annunzio deve molto, soprattutto
ai libretti, sebbene non l’abbia mai apertamente ammesso, non a caso la sua è un tipo di poesia che
si presta bene alla stesura di testi per opere in musica. D’Annunzio fa uso di un linguaggio che con
evidenza deriva dal melodramma: un linguaggio arcaico e continuamente sovrabbondante e teatrale,
innaturale perché costantemente portato all’eccesso, di evidente origine rinascimentale con ripetizioni
e ridondanze. L’arcaismo è funzionale a suggerire la profonda appartenenza ad una cultura comune,
202 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
esaltando la sensazione che quelle immagini vengano da un passato lontano
che ci attraversa come nei drammi storici verdiani.Anche la componente
fortemente visionaria, in cui il passato viene rivissuto all’interno di ambienti
antichi come una sorta di scenografia teatrale nella quale ambientare
una storia rivisitata nei più minuti e immaginosi dettagli, può essere fatta
derivare senz’altro dall’uso tipico del melodramma verdiano e donizettiano,
soprattutto, di ridare vita a fatti e personaggi storici e di percepire i loro spiriti
ancora presenti e operanti nel luogo che li aveva visti protagonisti (si pensi, ad
esempio, al ruolo del Palazzo Ducale di Mantova, nel Forse che sì forse che
no o dell’intera città di Venezia nel Fuoco).
Anche la lingua di Verdi è ispirata a quella rinascimentale (Petrarca e i
petrarcheschi - Tasso) costantemente aulica e volta ad esprimere passioni
estreme come d’altra parte avviene in D’Annunzio, portando la tensione
fino al parossismo. Le parole utilizzate nei libretti verdiani di Piave, Boito, ma
anche Cammarano sono spesso le stesse usate poi dal poeta abruzzese,
il quale esalta la ricercatezza del linguaggio epico rendendolo ancora più
composito con il gusto del termine raro e prezioso (si veda a riguardo G.
L. Passerini Il vocabolario carducciano con due appendici ai vocabolarii
dannunziani e al pascoliano dello stesso autore). Per le eroine, invece, potrebbe essersi ispirato alla
regina Elisabetta del Devereux di Donizetti, ad esempio, alla Lucrezia Borgia o all’Anna Bolena, sempre
opere del compositore bergamasco. Il tema ossessivo della “maledizione” tipica di molti soggetti verdiani
come la Forza del destino, Rigoletto, Boccanegra ritorna, per esempio, in modo esasperante e non certo
casuale nella Figlia di Iorio e nella Fiaccola sotto il moggio.Anche il “Ripeti giuro” del Boccanegra ricorda
i motti fiumani, mentre le continue ripetizioni delle battute, tese a drammatizzare al massimo i dialoghi si
trovano un po’ dappertutto nell’opera dannunziana.
Di diverso, però, rispetto a Verdi, d’Annunzio mostra la sua sensibilità decadente nel creare arte dall’arte
sulla falsariga, per esempio, di Liszt, grande rielaboratore di capolavori del passato.
Verdi è, invece, un originale inventore, come Leonardo che era dotato dello spirito della creazione degno
della Natura stessa e per questo capace di sognare “Soli ignoti”. Come Leonardo egli ha indagato mondi
inesplorati, quelli dell’interiorità umana, nei quali, al pari di Shakespeare e sull’onda del grande Bardo,
è stato maestro, anticipando perfino la psicanalisi, come possiamo notare nei risvolti psicologici studiati
fino all’ossessione dei rapporti familiari o amorosi in una continua e lacerante dialettica.
Le opere di Verdi, infatti, non sono semplicemente politiche o patriottiche, ma per d’Annunzio sono un
organismo vivente nato dalla terra, così come l’artista-titano che le ha generate. Lo spirito del genio,
infatti, si fonde in esse con lo spirito della natura, perché alla sua energia
universale appartengono. Misteriosamente tali opere indagano sui moventi
più intimi dell’animo umano, sull’idea stessa di tragedia dove si muovono i
sentimenti estremi allo stato puro e dove l’imperativo morale di un Sofocle si
unisce e si scontra con l’irrefrenabile passione euripidea, in una complessa
sintesi di motivi privati e civili.Verdi è maestro nell’indagine di moventi
nascosti, nel sottintendere e nel suggerire allo spettatore inusitate prospettive
di visione sul destino e sui rapporti umani con quelle ossessioni per il padre,
le sorelle, le rivalità mortali tra fratelli, tutti elementi che di sicuro hanno
affascinato d’Annunzio ideatore a sua volta di complesse costruzioni mentali
e simmetriche: si veda, ad esempio, nel Forse che sì forse che no, le gelosie
morbose che si scatenano tra Vana e Isabella per Paolo e, allo stesso tempo,
l’amore incestuoso di Aldo per Isabella; ma anche nel Fuoco troviamo la
polarità sdoppiata di Foscarina e Donatella, dove la Foscarina ricorda ad
Effrena la sorella Sofia e così nel Piacere dove, addirittura, Elena trova il
suo perfetto doppio fisico, ma non psicologico in Maria Ferres. Lo scrittore
abruzzese appare affascinato dai nascosti legami incestuosi, ma anche dalla
rivalità, fatta di timore e attrazione, nei confronti della figura paterna. Da fine
interprete d’Annunzio ha intuito che nelle opere più riuscite di Verdi la tragedia
203 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
La copia dello spartito
del Trovatore in francese
appartenuto a d’Annunzio
(Biblioteca del Vittoriale)
progetto 10 L’azione e il dramma
non nasce dalla tragica fatalità, ma dalla dissociazione della coscienza che
spesso si rifiuta di vedere ciò che a tutti è evidente (come, per esempio, la
quasi inspiegabile incapacità di riconoscersi dei due fratelli nel Trovatore);
oppure, altro elemento molto interessante e tipico dei libretti verdiani, la
ricerca disperata di ritrovare anche in un nemico una figura paterna che non
si è mai avuta (Traviata, Simon Boccanegra,Vespri siciliani).Tutti elementi
questi, che di sicuro hanno avuto presa su D’Annunzio, costantemente
attratto da situazioni mentali complesse e, come dicevamo, dal suo morboso
rapporto con la madre e la sorella Elvira riassunte nel suo immaginario dalla
figura della Duse.
Il prigione morente nella
Nelle opere di Verdi, come in quelle di D’Annunzio, c’è sempre una intenzionale ambiguità, un ampio
Sala della Leda, emblema margine di non-detto che spesso lascia volutamente il lettore/ascoltatore in un labirinto di significati
del teatro. A destra,
da esplicare. Sempre con il riferimento alla Duse si spiegano, tra l’altro, le connessioni tra Verdi e
il monumento a Verdi
Michelangelo: nel Fuoco, infatti, le sue statue, soprattutto quelle dei Prigioni, vengono messe in diretta
a Busseto. In basso, i
funerali di Giuseppe Verdi relazione con il teatro per le loro pose plastiche cariche di energie compresse. D’Annunzio paragonava
spesso le movenze della Duse agli Schiavi michelangioleschi, soprattutto al Prigione morente a lui
particolarmente caro, come possiamo constatare dai calchi inseriti sia nella Sala dei Calchi nello
Schifamondo sia nella Sala della Leda di fronte al suo letto. Quel gesto del braccio sollevato dietro
la testa era l’elemento più teatrale e sensuale
della grande attrice tragica, l’emblema stesso
del teatro, che il poeta amava particolarmente
al punto di dorare personalmente alcune parti
della statua. Michelangelo creatore di eroi ribelli
simili a lui, continuamente in lotta con la materia
grezza, rappresenta l’anima stessa della tragedia,
la lotta delle due necessità opposte, l’ansia della
liberazione. L’arte di Verdi nasce, quindi, dal
cuore della terra, dalla roccia: nella sua arte pulsa
l’idealità e la sanguigna forza del popolo, l’orma di
tutti quei grandi del passato di cui si pone come erede nella sintesi perfetta del melodramma.
Gli eroi di Verdi sono letteralmente scolpiti, così come spesso in d’Annunzio emerge il paragone tra
scultura e musica, perché la sinfonia musicale appare scavata nella pietra, resa tridimensionale dalla
sua forza vitale.
Nella canzone a lui dedicata, la spaziosa fronte di Verdi viene descritta come la cima delle Alpi, pura,
enorme e isolata, egli ha stampato sulla terra vaste orme della forza creatrice, simili a quelle dei suoi
grandi predecessori. L’orma di Verdi, impressa nella “materna zolla” (un altro riferimento all’energia
“terrestre” della sua musica) è pari a quella degli antichi eroi, proprio come quella del Bonaparte
manzoniano. La visione dannunziana di Verdi è isolata nella sua grandezza “leonina”, come Garibaldi,
con la sua chioma ribelle che incornicia il volto severo e dai lineamenti scolpiti.
Come Garibaldi, anche lo spirito di Verdi non può
morire, è semplicemente tornato nel mistero
della “sorgente”, essendo parte delle energie
primigenie della Natura: per questo il poeta lo
descrive come una nuvola di “titanica mole” che,
sopra il cielo, continua a splendere anche durante
la notte la quale “non ha contro a lei possa”.
L’anima dell’eroe rimane sospesa alla soglia
della morte, e nell’attesa si sprigiona la “melodia
suprema”. Ritorna ancora l’idea della ricordanza
e dell’aspettazione soprattutto nell’Orazione ai
Giovani per esprimere il concetto di eternità dello
spirito eroico che perennemente sopravvive
per animare un nuovo condottiero in futuro. Per
204 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 10 L’azione e il dramma
d’Annunzio, come già aveva scritto a proposito di Wagner nel romanzo Il fuoco, ad accompagnare verso
la morte il musicista è sempre la melodia sognata da giovane e mai scritta. Così, nel caso di Verdi, quella
melodia unica e irripetibile è formata da “un immenso coro di popoli” che si estende su tutta l’Italia e
accompagna l’anima del musicista in cielo. Come al solito, il poeta si ispira alla realtà, poiché la salma
di Verdi era stata accompagnata alla tomba dal famoso “Va’, pensiero” dal Nabucco. Quello stesso coro
che lo aveva spinto a ritornare alla musica dopo un periodo di sfiducia e scoraggiamento: l’immagine di
un popolo unito che sa superare ogni sventura e ogni ostacolo. La creazione di una nuova coesione e
autocoscienza popolare è, infatti, in Verdi una preoccupazione fondamentale alla quale d’Annunzio non
può non associarsi: il grande musicista bussetano ha saputo dare voce all’anima nazionale, ai suoi lutti,
ma anche a ciò che la Patria ha di più sacro.
Proprio per la loro funzione didascalica, in molte opere verdiane troviamo una critica al
popolo ancora incosciente che è dubbioso nelle sue scelte e crede a chiunque sappia
in qualche modo persuaderlo con la demagogia. Altre volte il popolo è “dormiente”,
incapace di prendere in mano le redini del proprio destino, come quello del celebre coro
manzoniano Dagli atrii muscosi dai fori cadenti: nel Simon Boccanegra, scritto in relazione
alla sfortunata spedizione di Carlo Pisacane nel Regno delle due Sicilie, il popolo riesce ad
imporre un doge di origine popolare ai nobili genovesi, ma poi le controversie interne e le
divisioni per interessi privati o per scarsa capacità di valutare i fatti, fanno sì che il potere
così faticosamente conquistato torni alla fazione nobiliare dei guelfi, che, invece, sanno
essere ben decisi e granitici nel rivendicare i loro privilegi. Al contrario, nel Nabucco la
forza del popolo unito non solo è capace anche di battere un re, ma di smuovere la stessa
volontà divina portandola dalla propria parte fino alla riconquista della patria e addirittura
alla conversione del nemico. Nei Vespri Siciliani, invece, Verdi sottolinea la sua profonda
convinzione che nulla sia superiore alla religione della patria, neppure l’amore che si
deve ad un padre se questi è in realtà un nemico e un invasore che opprime la nazione
(coerentemente con il mito di alcune personalità antiche quali, ad esempio, Lucio Giunio
Bruto che aveva anteposto il bene della patria anche all’amore per un figlio). Per questo
con gli invasori non c’è alcuna possibilità di conciliazione, ma il popolo siciliano, guidato da
Giovanni da Procida, si riprenderà la propria isola. Tragica è, invece, la presa di posizione di
Verdi nell’Attila dove la gente italica è imbelle e inconsapevole, il generale romano Ezio si
limita a venire vergognosamente a patti con i barbari e si deve contare sul coraggio di una
donna per liberare l’Italia dal suo oppressore.
La lotta di Verdi per la libertà non è stata meno eroica di quella dell’Eroe dei due mondi,
sfidando quasi sempre la censura: la sua
meditazione politica sulle sorti dell’Italia ha
determinato la diffusione degli ideali liberali
e la presa di coscienza del popolo, che in
alcune opere, come nel Boccanegra, viene
spronato proprio a evitare le controversie
interne e a riconoscere l’identità della
nazione italiana (“Adria e Liguria hanno patria
comune”). Alcuni motti verdiani, espunti
anche dal contesto per cui erano stati scritti,
nel corso del Risorgimento erano diventati
proverbiali come il “resti l’Italia a me” del
generale Ezio nell’Attila. Un artista militante
in piena regola, quindi, che metteva in scena
un regicidio realmente accaduto come nel
Ballo in maschera, andando incontro alle ire
della censura borbonica. Nelle sue opere
i nobili sono spesso caratterizzati da un
disprezzo orgoglioso e protervo dei diritti
altrui e pretendono amore approfittando
205 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
L’uccisione di Carlo
Pisacane e dei suoi
compagni da parte dei
contadini a Sanza.
Sotto, la scena del
Consiglio del Simon
Boccanegra emblema
delle discordie tra gli
italiani e all’interno delle
cittadinanze (Teatro alla
Scala 2010, edizione con
Placido Domingo)
progetto 10 L’azione e il dramma
Bozzetto per I lombardi
alla prima crociata
della loro posizione di superiorità, come nella
Luisa Miller o nel Trovatore.
Ciò che più entusiasma d’Annunzio sono
soprattutto i soggetti storici che fanno
rivivere le corti del Rinascimento o le vicende
delle antiche Repubbliche del Medioevo.
Le storie come I due Foscari ambientata a
Venezia, il Simon Boccanegra di Genova,
I Vespri siciliani di Palermo, il Rigoletto di
Mantova. Non a caso d’Annunzio pare non
amasse particolarmente la Traviata (anche
se ne possedeva lo spartito), perché opera
di argomento contemporaneo e per questo priva del suo valore di exemplum mitico. Gli altri
spartiti che si trovano nella Prioria, sono invece di opere ambientate nel passato più caro al
poeta: Ernani, Rigoletto, Trovatore, Aida.
Naturalmente in d’Annunzio troviamo di Verdi anche gli aspetti più nazionalistici e, di
conseguenza, retorici e deteriori. Nuovamente si deve far riferimento all’entourage del
Manzoni, per quanto riguarda la storia dei Lombardi alla prima crociata raccontata in versi
da Tommaso Grossi e citata in uno scritto dal Manzoni stesso. Ripresa da Verdi, tale vicenda
costituirà la trama dell’opera omonima: in essa appare molto evidente un nazionalismo a
sfondo religioso (che tra l’altro non troviamo più in Jerusalem, versione per i teatri francesi
dell’opera) sulla scorta anche del Tasso della Gerusalemme liberata. Nei Lombardi si assiste
ad un vero e proprio scontro di civiltà e i
musulmani possono giungere sì in paradiso,
ma solo se convertiti alla vera fede e solo
dopo aver perso il regno ed essere diventati
dei martiri, perché dalla schiatta degli
“oppressor discesi”, coerentemente con il
pensiero del Manzoni delle tragedie. Perciò
anche il pensiero di Verdi è già venato di quel
nazionalismo in cui amor di patria e religione
si confondono; pensiero che sarà poi tipico
anche di d’Annunzio e che contribuirà alla
visione dello straniero come un nemico da
combattere.
Ma il messaggio di coesione e positività
supera senz’altro anche gli aspetti negativi.
d’Annunzio paragona la miriade di persone
che Verdi aveva unito attraverso la sua
musica per combattere “la santa guerra”
(quella contro gli straneri che si opponevano
all’Unità italiana) alla moltitudine che si era
radunata per rendere omaggio alla salma del
Maestro: la speranza di un’Italia unita che
lo aveva animato fin da giovane si realizza
nella silenziosa e dolente comunione degli
Italiani davanti “ai troni ed ai vetusti altari ove l’Italia fu regina e iddìa” in occasione del suo
funerale. Questa immagine del popolo è il vero simbolo della nuova Italia: cittadini uniti sotto
una cultura comune, dalle virtù condivise, che non si fanno abbindolare dalla propaganda,
che non sono divisi da conflitti interni, che insieme conquistano la libertà del loro Paese.
Questo è l’auspicio di Verdi, di d’Annunzio, e anche il nostro, ricordando i travagliati, eroici e
drammatici 150 anni della nostra storia.
206 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 11 Le donne del Risorgimento
LA PARTENZA DEL GARIBALDINO
Autore Gerolamo Induno
Fu pittore e patriota italiano , nato e vissuto per lo
più a Milano, dal 1827 al 1890. Ritrattista, autore di
quadri di genere e allegorici, frequentò l’Accademia
di Brera e fu allievo di Luigi Sabatelli e Hayez.
Partecipò alla guerra d’indipendenza del 1848 e
ferito, fuggì in Svizzera col fratello Domenico, pure
patriota e pittore.
Data dell’opera 1860
Tipo Olio su tela
Dimensioni cm 59,8 x 45,3
Firma Firmato in basso a destra “Ger.mo Induno”
Provenienza Biella, Collezione Famiglia Fila (fino al
1989)
Collocazione attuale Piacenza, Galleria Arte
Moderna Ricci Oddi (altre due versioni sono al Museo
del Risorgimento di Milano)
Fonti Archivio Cariplo, Atti 879 R 807
Descrizione Come gran parte della produzione
patriottica di Gerolamo Induno, anche questa tela
è caratterizzata da una retorica intimista piuttosto
accentuata, collegata all’evocazione dei risvolti più
nascosti e drammatici dell’epopea risorgimentale e
alle sue ripercussioni sulle realtà familiari. Fa parte
del repertorio realistico-sentimentale. Caratterizzata
dall’uso di raffinati accordi tonali, l’immagine
restituisce con straordinaria abilità i dettagli
ambientali che accrescono il tono di intimità domestica della composizione.
Il soggetto rappresentato è un garibaldino nel momento in cui saluta la madre.
Recentemente è stato sottoposto ad un intervento di restauro, eseguito da Pier Lorenzo
Ranieri Trenti.
Fonti www.edixxon.com/fondcariplo/arte_800/02_opere/1132.html; it.wikipedia.org/wiki/Gerolamo_Induno;
digilander.libero.it/trombealvento/induno/induno.htm; Catalogo Bolaffi della pittura italiana dell’Ottocento,
G.Bolaffi ed. 1970
LA PARTENZA DEL GARIBALDINO
Autore Ignazio Affanni
Nacque a Parma nel 1828. Studiò all’Accademia parmense di Belle Arti e nel 1859 si trasferì
a Firenze. Tornato a Parma, ebbe numerose cariche ed onorificenze. Fu fatto, tra l’altro,
accademico d’onore a Napoli, vinse premi di pittura e mandò i suoi quadri anche all’estero
(Gerolamo Savonarola in carcere all’Esposizione universale di Vienna del 1869). I suoi quadri
di soggetto storico sono in linea con la moda dei pittori risorgimentali del tempo,come ad
esempio Hayez. In molte sue opere è evidente il gusto accademico volto ad esaltare un
mondo d’affetti e vita quotidiana che gli avvenimenti bellici stanno per spezzare per sempre,
come nel dipinto La partenza del garibaldino.
Data dell’opera 1861
Collocazione attuale Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna
Descrizione La partenza del garibaldino è una delle tante opere del pittore Ignazio Affanni
209 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Copia di un particolare
significativo dell’opera La
partenza del Garibaldino di
G.Induno
progetto 11 Le donne del Risorgimento
Copia di un particolare
significativo dell’opera La
partenza del Garibaldino di
I.Affanni
dipinte durante le guerre d’Indipendenza.
Il soggetto del dipinto rappresenta un
giovane uomo con la camicia rossa
tipica dei garibaldini nell’atto di salutare
presumibilmente la madre e la sorellina
prima di partire con Garibaldi. E`
rappresentato mentre porge una mano alla
madre e tiene nell’altra il suo fucile; sul
fianco porta una bisaccia grigia. Sua madre
è seduta su un masso al crocicchio di una
strada ed è vestita poveramente come le
donne contadine dell’epoca. Gli occhi della
donna cercano quelli del figlio, che però
guardano altrove con una tristezza che non
vuole che la madre noti, forse pensando al
suo futuro e se riuscirà mai a tornare a casa
dalla sua famiglia. Dietro madre e figlio c’è
una ragazza, la sorellina del garibaldino;
guarda il fratello con occhi tristi e si asciuga
le lacrime con un fazzoletto di stoffa. In primo
piano in basso a sinistra, è stato appoggiato
accanto ad una roccia un fagotto di stracci,
forse contenente viveri preparati dalla madre
per il figlio in viaggio.
La scena si svolge in campagna, come si
può dedurre dai sassi sul lato della strada, dal muretto in pietra da cui spuntano le piante più
alte e dal modo di vestire della madre e della sorella.
Fonti
biblioteche2.comune.parma.it; iltirreno.gelocal.it/livorno
CUCITRICI DI CAMICIE ROSSE
Autore Odoardo Borrani
Nacque a Pisa nel 1833, trasferitosi a Firenze studiò sotto il Bezzuoli e divenne allievo
dell’Accademia. Aderì al gruppo dei Macchiaioli partecipando alla “Scuola di Pergentina” e divenne
famoso per la ricerca di effetti luministici ottenuti dipingendo all’aperto. Si occupò di restauri delle
pitture fiorentine di Giotto, di Paolo Uccello e del Ghirlandaio e la sua arte ne rimase influenzata per
i contrasti luminosi, per la narrazione compositiva e per la precisione dei contorni. Nel 1859 partì
volontario per le guerre di unificazione d’Italia.
Data dell’opera 1863
Tipo Dipinto ad olio
Dimensioni cm 66x54
Collocazione attuale Torino, Palazzo Bricherasio
Descrizione L’opera Le cucitrici di camicie rosse è stata realizzata da Borrani in un clima di
intensa partecipazione emotiva alle prime crisi politiche dell’Italia Unita.
Il fascino dell’opera è dato dall’intimità della narrazione e dai simboli che devono essere letti in
funzione della storia. L’opera mostra una stanza della casa ottocentesca con quattro donne dedite
alla confezione delle giubbe di tela rossa. Il lavoro per queste donne sembra quasi una preghiera, o
meglio il loro rito di partecipazione alle vicende risorgimentali. Apparentemente la scena si presenta
tranquilla. La donna a destra è completamente presa dal suo lavoro. Le due donne a sinistra, in piedi,
indossano una cuffia tipica dell’ambiente domestico, che sottolinea l’ovale del viso, che così risulta
candido e composto,così come deve essere la donna della nuova borghesia. L’artista non trascura
210 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 11 Le donne del Risorgimento
nessun dettaglio e ci narra con meticolosità dei
costumi dell’epoca, delle mode delle acconciature
e ci riporta i canoni e il gusto di quel tempo. Nella
stanza troviamo inoltre una conchiglia che è simbolo
di rinascita; un’alzata di cristallo con delle rose,
simbolo d’amore e forse dello scorrere del tempo.
Questa composizione rappresenta una realtà ricca di
emozioni per gli avvenimenti che stavano cambiando
la storia d’Italia.
Fonti www.wikipedia.it; Catalogo Bolaffi della pittura italiana
dell’Ottocento. G.Bolaffi ed. 1970
26 APRILE 1859
Autore Odoardo Borrani
Tipo olio su tela
Dimensioni cm 75x58
Collocazione attuale collezione privata
Descrizione In questo dipinto, presentato
da Borrani alla Prima Esposizione Nazionale del
1861, si riflette il clima di fervore democratico
che accompagnò gli avvenimenti del 1859; la
celebrazione non è legata però a un episodio
particolare bensì è interiorizzata nella compostezza
di una giovane donna intenta a cucire il tricolore.
L’opera costituisce anche un momento molto significativo nello sviluppo del realismo in Toscana,
infatti conserva la tradizione dei quadri storici, con accesa fantasia romantica, ma se ne distacca
perchè tutto viene rappresentato tramite l’esperienza quotidiana
e familiare tipica del realismo. Il quadro ottenne un grande
successo durante la sua prima apparizione. Solo recentemente
è riapparso sul mercato, permettendo di apprezzare l’ apporto
che il giovane Borrani dette alla trasformazione del quadro di
genere in Toscana. Il motivo di questo dipinto fu ripreso nel
capolavoro: Le cucitrici di camicie rosse.
Fonti www.artesuarte.it; F. Dini Fattori e i macchiaioli, da”Igrandi maestri
dell’arte” IL sole 24 ore 2008
211 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
Copia di un particolare
dell’opera Cucitrici di
camicie rosse di Odoardo
Borrani. In basso, copia di
un particolare dell’opera
26 aprile 1859 di Odoardo
Borrani
progetto 11 Le donne del Risorgimento
UNA DONNA PER LE DONNE
“Ma perchè l’originalità dev’essere una virtù per l’uomo e un difetto per la donna?”
La principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso, con il suo carattere estroverso, le particolari idee, lo spirito
rivoluzionario e una assai singolare visione del mondo attirò l’attenzione del popolo italiano, ma anche di
molti europei, innalzando e valorizzando la figura femminile.
Ella fu un personaggio notevole, lungimirante e combattivo. Dedicò tutta la sua vita per esaltare i
valori ed il rispetto delle donne.Visitò l’Europa e l’Asia Minore, esponendo le sue idee e diffondendo la
cultura, ospitando nei vari salotti diverse figure illustri appartenenti al mondo dell’arte, della politica e del
giornalismo.
La principessa, nata a Milano il 28 giugno 1808, ebbe una vita travagliata: suo padre morì
prematuramente quando Cristina era ancora bambina; sua madre si risposò con il marchese Alessandro
d’Aragona dal quale ebbe tre figli.All’età di sedici anni si sposò con Emilio di Belgiojoso, ma dopo
qualche anno venne a conoscenza dei numerosi tradimenti da parte del marito, trovando il coraggio di
farsi rispettare senza scendere a compromessi.
A causa delle sue idee politiche gli Austriaci la volevano catturare; quindi si rifugiò a Nizza e si stabilì in
una villa a Carqueiranne, dove ideò un piano di insurrezione.
Nel 1831 fu costretta a trovare un nuovo rifugio a Parigi, avendo contribuito ad un’azione contro
l’Austria. Divenne una figura importante nell’alta società parigina anche grazie all’aiuto di Lafayette, il
quale le permise di affermarsi come giornalista e scrittrice.Tra le sue opere citiamo i Ricordi nell’esilio,
che riportano le lettere scambiate tra lei e l’amica Caroline Jaubert riguardanti l’esilio della principessa
nelle terre d’Oriente. Una seconda opera, intitolata Un principe curdo, narra le vicende amorose di un
nobile ragazzo molto innamorato della moglie, la quale però rifiuta sia i suoi doni che il suo amore. In
questo romanzo viene evidenziata inoltre la capacità delle donne di agire e di scegliere, lottando contro
gli ostacoli interni ed esterni che in entrambe le società, quella occidentale e quella orientale, ne limitano
la libertà di scelta.
Nel maggio 1832 si trasferì nel palazzo del duca de Plaisance, dove aprì un suo salotto che ospitava
i patrioti italiani liberati dal carcere, bisognosi di sostegno morale e fisico. In Cristina si sviluppò
l’essenziale bisogno di dedicarsi agli altri e il salotto divenne presto uno dei più frequentati e rinomati di
Parigi. Entrando in contatto con molte persone, imparò a imporsi per non essere dominata e a contare
solo su se stessa. Dal 1934 iniziò per lei un periodo difficile contrassegnato dai lutti delle persone a lei
più care, tra cui il marchese Lafayette e la madre. Sconvolta da quest’ultima perdita, decise di chiudere il
salotto, rimanendo in contatto solo con gli amici più intimi. L’unica consolazione per lei fu la nascita della
figlia Maria, avuta da Emilio quando si ritrovarono a Parigi.
Nel 1840 ritornò a Milano, sua città natale dove aprì un asilo e una scuola, insegnando anche alle
giovani mamme la puericultura. Ma negli anni seguenti fu di nuovo afflitta dalla mestizia a causa della
morte della sua amica Giulia Beccaria, madre di Alessandro Manzoni, e dalla definitiva separazione dal
marito Emilio.
Nel 1844 ideò il progetto della Gazzetta Italiana, per richiamare l’attenzione del popolo sul problema
sociale e diede vita alla rivista l’Ausonio. Dopo alcuni anni si unì a Mazzini e in seguito alla prima battaglia
militare a Roma si preoccupò di trovare locali nei quali accogliere e curare i feriti, creando “ospedali” che
vennero purtroppo distrutti dai francesi. Perciò Cristina decise di allontanarsi dalla città essendo anche
accusata di furti e malversazione nell’amministrazione delle ambulanze. Dopo numerosi viaggi tornò a
Milano, dove morì nel 1871, sola e abbandonata da tutti.
Per trenta anni nessuno parlò più di lei, fino a quando, all’inizio del Novecento, alcuni autori decisero di
narrare le sue illustri gesta.
La figura dell’eroina compare nel film Noi credevamo di Mario Martone, interpretata da Francesca Inaudi
(nella parte giovanile) e da Anna Bonaiuto (in quella matura).
Il film narra la storia di tre giovani, Domenico, Salvatore e Angelo, che giurano di consacrare la
propria vita per la libertà e l’indipendenza del Paese affiliandosi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini.
Raggiungono Parigi, dove hanno modo di conoscere l’affascinante principessa Cristina di Belgiojoso ed
infine partecipano al tentativo di assassinare Re Carlo Alberto e ai moti savoiardi del 1834. Il fallimento
di entrambe le missioni marca una profonda crisi nei tre giovani patrioti, facendo spiccare le differenze
212 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 11 Le donne del Risorgimento
di classe che già in partenza rendevano diversi Angelo e Domenico, di ceto nobiliare, da Salvatore, umile
figlio del popolo.
Mentre Domenico riprende l’attività cospiratoria,Angelo, accecato dalla violenza della rivoluzione, uccide
Salvatore, accusato di essere diventato una spia.
Passano gli anni, passa il ’48, cade la Repubblica romana. Domenico, caduto in un’imboscata
borbonica, viene condannato a una lunga pena detentiva. In carcere, l’amicizia di alcuni compagni di
prigionia, soprattutto quella del sensibile Duca Sigismondo di Castromediano, lo aiuta a sopravvivere al
sadismo delle guardie e al rimpianto della perduta libertà. Egli, da sempre repubblicano, è costretto ad
assistere in disparte, con amara rassegnazione, al giuramento di fedeltà alla causa monarchica.Angelo,
ossessionato dalla violenza, si distacca da Mazzini ed entra in contatto con Felice Orsini, al quale si lega.
Le bombe di un fallito attentato a Napoleone III, pianificato da Orsini e da Angelo, provocano una strage
che causa la morte di otto innocenti e centocinquanta feriti. Catturato e processato,Angelo muore sul
patibolo con Orsini; ad assistere all’esecuzione è presente, tra la folla sbigottita, Domenico, appena
uscito dal carcere. Egli, nonostante la premura e le raccomandazioni di Cristina Belgiojoso, non riesce
a placare la sua irrequietezza e perciò torna al Sud unendosi a Garibaldi. Qui ha modo di conoscere
Saverio, figlio di Salvatore, che ha intenzione di partecipare alla spedizione con lui. Ma con grande
disperazione Domenico non potrà impedire, fallita l’impresa sulle montagne dell’Aspromonte, che il
giovane Saverio perda la vita per mano della brutale repressione piemontese.
Da allora in poi Domenico non farà altro che pensare con rammarico alla sanguinosa nascita dell’Italia
contemporanea.
La Belgiojoso viene citata anche in canzoni patriottiche, come La bella Gigogin, creata da Paolo Giorza
ispirato da varie strofe di diversi canti.
La canzone ebbe un tale successo che le bande militari austriache avevano imparano a suonare La
Bella Gigogin e quando a Magenta si trovarono di fronte i francesi intonarono le note della canzone in
segno di attacco. Il fatto divertente è che i francesi risposero col ritornello “Daghela avanti un passo” e
quindi al suono della stessa canzone i due eserciti si affrontarono.
La parola Gigogin è un termine piemontese utilizzato come diminutivo di Teresa (uno dei dodici nomi
della Principessa). La canzone fu ufficialmente cantata in pubblico il 31 dicembre del 1858 nel Teatro
Carcano di Milano durante un concerto offerto dalla Banda Civica, diretta dal maestro Rossari.
Di seguito mostriamo il testo che ha entusiasmato l’animo dei nostri combattenti:
O la bella Gigogin trallerillerilellera,
la vas a spas col su sposin trallerillerillellà.
A quindici anni facevo l’amore
dàghela avanti un passo delizia del mio cuore!
A sedici anni ho preso marito:
dàghela avanti un passo delizia del mio cuore!
A diciassette mi sono spartita:
dàghela avanti un passo delizia del mio cuor.
La ven, la ven, la ven alla finestra,
l è tutta, l è tutta, l è tutta cipriada.
La dis, la dis, la dis che l è malada,
per non per non, per non mangiar polenta,
bisogna, bisogna, bisogna aver pazienza
lassàla, lassàla, lassàla maridà.
O la bella Gigogin trallerillerilellera,
la vas a spas col su sposin trallerillerillellà.
La ven, la ven, la ven alla finestra,
la dis, la dis, la dis che l è malada,
bisogna, bisogna, bisogna aver pazienza
lassàla, lassàla, lassàla maridà.
O la bella Gigogin trallerillerilellera,
la vas a spas col su sposin trallerillerillellà.
213 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 11 Le donne del Risorgimento
Questo brano è stato inserito, insieme al canto popolare La rondinella pellegrina, nello opera
teatrale Cristina di Belgiojoso: dodici nomi, cinque vite ideato dal regista Fabrizio Foccoli con
Franca Ferrari nel ruolo della nostra Principessa e con la musica dal vivo del compositore
Davide Bonetti.
Questo spettacolo sottolinea, con testi scelti, le contraddizioni risorgimentali derivate
dall’egemonia politica moderata, alleata dei ceti intermedi, che emarginava il mondo
popolare ma anche le donne, seppur nobili, colte, preparate e con spiccato intelletto.
Tra le frasi che catturano maggiormente l’attenzione troviamo:
“La condizione della donna non è tollerabile se non nella gioventù.”
“… Le poche voci femminili che si levano per chiedere agli uomini il riconoscimento
della loro uguaglianza hanno una maggioranza di avversari femminili anche più grande di
quella maschile.”
“Mentre la morte si aggira per le nostra strade, la maggior parte degli uomini che
abbiamo nominato badava a spartirsi le cariche e ad assicurarsi la sua parte di potere.”
“Noi non siamo i primi d’Europa, ma gli ultimi.”
Come spiegato precedentemente, La rondinella pellegrina è presente nello spettacolo ed era
anch’esso un canto patriottico che consolava gli spiriti dei soldati.
Questa splendida ballata, scritta nel 1834 da Tommaso Grossi, canta la nostalgia di un
patriota prigioniero per la Patria. Il brano divenne molto popolare soprattutto in Toscana.
Ecco di seguito il testo:
Rondinella pellegrina
che ti posi in sul verone
ricantando ogni mattina
quella flebile canzone
che vuoi dirmi in tua favella
pellegrina rondinella?
Solitaria nell’oblio
dal tuo sposo abbandonata
piangi forse al pianto mio
vedovetta sconsolata?
Piangi piangi in tua favella
pellegrina rondinella.
Pur di me manco infelice
tu alle penne almen t’affidi
scorri il lago e la pendice
empi l’aria dÈ tuoi gridi
tutto il giorno in tua favella
lui chiamando o rondinella.
Oh se anch’io... Ma lo contende
questa bassa e angusta volta
dove sole non risplende
Bibliografia:
www.wikipedia.it
Adriano Bassi, Le eroine del risorgimento, Zanetti 1996.
cronologia.leonardo.it
angolotesti.it
www.laboratooimmaginedonna.it
214 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
dove l’aria ancor m’è tolta
donde a te la mia favella
giunge appena, o rondinella.
Il settembre innanzi viene
e a lasciarmi ti prepari:
tu vedrai lontane arene,
nuovi monti, nuovi mari
salutando in tua favella
pellegrina rondinella.
Ed io tutte le mattine
riaprendo gli occhi al pianto
fra le nevi e fra le brine
crederò d’udir quel canto,
onde par che in tua favella
mi compianga, o rondinella.
Una croce a primavera
troverai su questo suolo:
rondinella in su la sera
sovra lei raccogli il volo:
dimmi pace in tua favella
pellegrina rondinella.
progetto 11 Le donne del Risorgimento
ERMINIA FUÀ FUSINATO
Patriota, poetessa, educatrice
“Esultate, fratelli! Oh non è questa
Fallace larva che il desio colora!
Dal suo letargo qual leon s’è desta
Italia nostra ancora,
E intorno a un vessillo unico a santo
Segno del suo riscatto,
Quanti han sperato e pianto
Si strinser tutti in un fraterno patto.”
Botturi Irene, Ritratto di
Erminia Fuà Fusinato,
L’animo della poetessa si effonde
carboncino
con tanto abbandono nei canti
patriottici. I versi delle poesie di
Erminia Fuà Fusinato celebrano reali dolori e un inno di esultanza per l’inattesa liberazione.
Nata il 5 ottobre 1834 a Rovigo da genitori ebrei, Erminia si trasferì giovanissima a Padova. Non
frequentò scuole, né ebbe un’istruzione sistematica, ma la sua formazione fu guidata dallo zio
Benedetto, fratello del padre, e venne integrata dall’ascolto delle conversazioni tenute in casa sua
da illustri poeti e artisti di stampo liberale.
All’età di 13 anni il meraviglioso risvegliarsi d’Italia e i sacri entusiasmi che precedono le prime
battaglie nazionali la commossero tanto da farle scrivere canti patriottici, ma la sua formazione
poetica assumerà dimensione più compiuta solo dopo l’incontro con Arnaldo Fusinato, all’età di 17
anni, attratta dai suoi versi.
L’amore tra la fanciulla e il poeta sbocciò improvvisamente con grande disagio da parte dei
genitori di Erminia, poiché l’uomo, oltre ad essere vedovo, era anche molto anziano e le differenze
religiose, lei ebrea e lui cattolico, per la famiglia Fuà costituivano un ostacolo che ponevano al loro
matrimonio.
Ma il 7 maggio 1856 Erminia abbandonò la casa paterna alla volta di Venezia, dove il 6 agosto
si sposò; nonostante si fosse convertita al cattolicesimo, accontentando così il marito, dopo poco
tempo si riconciliò con i genitori.
Appena sposata, andò a vivere a Castelfranco Veneto presso la suocera del marito, con la quale
instaurò un legame quasi materno tanto da dare in suo onore alla figlia minore il suo nome,
Teresita.
Nella casa di Castelfranco Erminia è attiva sia al fianco del marito e del cognato nell’organizzazione
della resistenza antiaustriaca, sia come autrice di versi patriottici nei quali incita i Savoia all’azione.
Nell’autunno del 1856 sono ospiti di Ippolito Nievo a Colloredo, in Friuli. Sarà Erminia, dopo la morte
dello scrittore, a cercare ostinatamente un editore per le Confessioni di un italiano, che usciranno
presso Le Monnier nel 1867 con alcuni suoi versi di accompagnamento e il titolo Le confessioni di
un ottuagenario.
L’arresto del fratello nel 1864 e il sospetto di cospirazione antiaustriaca costringono Arnaldo ad
abbandonare il Veneto e a trasferirsi a Firenze, dove apre il Teatro delle Logge e si dedica con
alterne fortune a speculazioni edilizie. Nel 1866 Erminia lo raggiunge e si inserisce presto negli
ambienti letterari della città, frequentando Tommaseo, Capponi, Mamiani, Carducci e altri illustri
personaggi.
Nel 1870, essendo divenuta molto precaria la situazione economica familiare a causa di alcune
operazioni finanziarie mal riuscite di Arnaldo, a Erminia fu offerto da Cesare Correnti, ministro
della pubblica istruzione, un lavoro alle scuole e ai collegi femminili della provincia napoletana. Fu
così nota a molti come istitutrice e si aprì per lei una nuova vita culturale, nata dall’ammirazione
che aveva suscitato nei suoi prestigiosi amici. In seguito accettò la cattedra di lettere nella scuola
governativa di Roma; nel 1873 fu invitata a dirigere la scuola superiore femminile e in seguito fondò
215 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 11 Le donne del Risorgimento
Calco in gesso
raffigurante Erminia Fuà
Fusinato, Fondazione Ugo
Da Como, Lonato
la Società per l’istruzione superiore della
donna.
Nominata quindi a ricoprire una funzione
pubblica, lei che era stata fino ad allora
una tenera sposa e madre e che aveva
allacciato rapporti sociali basati solo
sull’amicizia e sulla reciproca stima, si
trovò proiettata in un ruolo professionale di
ispettrice, insegnante, direttrice, incarichi
che le richiesero di rifondare sia la sua vita
privata sia quella pubblica.
Sarà in questa nuova situazione che
ella richiamerà il conflitto tra il dovere
dell’educazione dei figli e il dovere del
lavoro, nel timore che quest’ultimo potesse
negativamente influire sul loro sereno
sviluppo. In questo momento matura
anche la sua impostazione dell’educazione
femminile come richiamo ad una sintesi
che concili l’impegno familiare con quello
lavorativo.
Secondo Erminia nella società dei tempi
nuovi la donna si doveva occupare dei lavori domestici senza però tralasciare l’istruzione. Infatti ella
scrive: “ Emancipazione non già dai sacri doveri, dagli affetti soavi della famiglia, bensì da quella
inerte ignoranza che è fonte perenne, e fonte unica, d’ogni materiale e morale miseria. Se mi piace
mille volte più la donna prettamente massaia che quella dedita prettamente al dolce far nulla,
preferirò a tutte colei che, pur rimanendo devota a quella cerchia di attribuzioni meglio confacendo
all’indole sua, trova modo di vegliare la famiglia e di accrescere il decoro e il benessere con l’opera
propria”.
La sua strada prese una nuova direzione che ha lasciato segni profondi nella sua vita, come è
testimoniato negli Scritti educativi, raccolti in un volume e successivamente pubblicati da Ghivizzani,
che sono la fonte più ricca per avvicinare il suo pensiero pedagogico.
Per la donna l’educazione non è l’adattamento a una norma, ma la ricerca di motivazioni interiori
che regolino le proprie scelte, è il rapporto tra il proprio modo di essere e di sentire e un ideale
riferimento che ci si è proposti, è la volontà di costruire in modo autonomo e consapevole il proprio
ideali di vita: “Studiamo noi stessi ed i nostri simili, cerchiamo nella realtà della vita e negli esempi
offertici dai libri dei saggi, un esemplare, un ideale cui sarebbe bello assomigliare ed esercitiamo
quindi tutta la forza della volontà nel cercare di avvicinarci moralmente e intellettualmente alla
perfezione vagheggiata ”.
In poche pagine dei Ricordi ( opera pubblicata nel 1887 ) sono documentate le ansie, i timori,
gli affanni e i dubbi che la tormentavano sulla sua capacità di assolvere il nuovo impegno di
insegnante; ella, che non aveva mai avuto insegnanti, decise di prendere lezioni private che le
dessero una preparazione più organica. Non trascurò conferenze e dissertazioni, di leggere molto,
di scambiarsi lettere con importanti amici e di rivolgere il suo pensiero al marito e ai figli lontani, uno
in collegio a Venezia, l’altro a Mantova presso dei parenti e Teresita a Firenze con Arnaldo, che nel
1874 si trasferirono a Roma da Erminia.
Rassegnò le dimissioni da maestra della Scuola normale nel 1873 e pochi giorni dopo fu nominata
direttrice della futura Scuola superiore femminile: “ La Palombella”.
Nel 1875-76 ricevette molte soddisfazioni da alcune lezioni morali tenute alle sue studentesse
della Scuola superiore normale femminile di Roma. A luglio andò a Padova dove rivide il figlio Gino
che partiva con il suo reggimento per Cividale, poi fu a Venezia dal figlio Guido che aveva appena
superato gli esami di licenza liceale.
Ammalatasi non poté partire per Levico e per Roncegno e si fermò ad Arsiè tutta l’estate, ritornando a
216 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 11 Le donne del Risorgimento
Roma a fine settembre. Passando per Padova, nei Ricordi del 22 settembre 1876 annotava :“Saluto
questi luoghi, questi esseri diletti, come fosse per ultima volta che li rivedo!”. Otto giorni dopo, il 30
Settembre 1876, morì a Roma di tubercolosi.
L’intervento educativo della Fusinato si presenta come uno sforzo di migliorarsi, un ideale per cui valga
la pena di impegnarsi nella propria vita. La sua concezione è costantemente attenta alla realtà in cui
l’educazione si svolge e offre una proposta al fine di renderne i contenuti e i principi morali atteggiamenti
volontari e sostanziali dell’agire umano.
L’educazione della donna è stata una tematica riguardo la quale la Fusinato ha dedicato
ampio spazio nei suoi scritti educativi, nei quali la donna assume la dimensione di una
persona con una propria dignità, essenza autonoma e ricca di future realizzazioni in campo
umano e professionale. Infatti secondo il suo pensiero le donne, oltre al ruolo di spose e madri
dovrebbero anche sentire la propria dignità e sostenerla con il proprio lavoro. L’educazione è da
lei quindi intesa come raggiungimento di armonia interiore, come superamento dell’armonia tra
l’essere e l’agire, attraverso un impegno personale che ciascuno dirige verso mete migliorative
consapevolmente scelte. Il lavoro femminile extradomestico come impegno della donna nella
società, e l’educazione familiare in rapporto di interscambio con quella scolastica sono i temi
centrali del pensiero educativo della Fusinato. Le esigenze dei nuovi tempi (l’Italia unita, la
rivoluzione industriale, la diffusione dell’alfabetismo, la partecipazione alla vita pubblica di
strati sempre più ampi) postulano una ridefinizione del ruolo dell’uomo nella società nuova
che va delineandosi. Secondo la Fuà anche la donna deve farsi partecipe di questo processo
innovatore, inserendosi attivamente con la sua opera, calibrata tra l’ambito della famiglia
e quello del proprio lavoro, per proporre una sintesi ideale di interiorità ed esteriorità, con
l’obiettivo di realizzare il superamento della propria emarginazione.
Leggendo le sue opere si capisce immediatamente che l’autrice è una donna, poiché in ogni
componimento si trova sempre una strofa, un verso, che solo una donna potrebbe scrivere in quel
modo. Il suo essere donna ha dato maggiore rilievo alle sue qualità e l’ha condotta a rilevare con
predilezione le cose più umili, tanto nel mondo fisico quanto in quello morale.
Negli scritti pedagogici di Erminia troviamo idee anticonformiste, lontane dal modello femminile
dell’ epoca.
Erminia non sembra essere consapevole dell’aspetto innovativo del suo comportamento e delle
sue scelte di vita.
Nel periodo nel quale è vissuta Erminia Fuà Fusinato alle donne era permesso di coltivare interessi
soltanto in ambito domestico: le attività predilette erano il ricamo, il disegno, la scrittura. L’educazione
ricevuta dallo zio Benedetto e la assidua frequentazione della biblioteca del padre, che le trasmise
la passione per la botanica, permisero ad Erminia di sviluppare una concezione della donna molto
innovativa.A quel tempo era inconcepibile per la gran parte degli uomini borghesi che le donne
potessero avere opinioni pertinenti su questioni politiche, eppure Erminia le aveva. Con il marito Arnaldo
ella condivideva, oltre alla passione per la poesia, anche un certo patriottismo antiasburgico.
Il matrimonio non approvato dalla famiglia è sicuramente un aspetto che denota grande emancipazione
da parte di Erminia. In un tempo in cui è ancora forte la tradizione di gestire da parte dei genitori i
matrimoni dei figli, possiamo notare come la libera decisione di Erminia anticipa di oltre un secolo forme
di emancipazione femminile.
Possiamo definire il suo un femminismo liberale, moderato e non radicale, in quanto ella non rivendica
per le donne diritti ulteriori se non quello di istruirsi di più e meglio; inoltre non troviamo nei suoi scritti
intenti di rovesciamento dell’ordine patriarcale vigente.
“Fu detto che i versi sono fiori, che la stagione dei fiori è la primavera e che quanto più un popolo
s’inoltra in una vigorosa state o s’avvicina ad un fruttifero autunno tanto più i versi, queste leggiadre
e fragili creazioni di un’ora, debbono cedere il luogo ai forti concetti, agli studi profondi ed esatti. Sta
bene; ma quando i versi non si fanno la sterile interpretazione di una personalità, per illustre che sia;
quando non sono l’eco di ciance sonore, o non si perdono in un mondo fantastico, straniero affatto
alle dure necessità del presente, ma anzi cantano reali dolori, tentano destare coll’armonia delle
forme la compassione verso gli afflitti, o, meglio ancora, fanno suonare alto lo strepito delle catene
217 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 11 Le donne del Risorgimento
e il lamento dei lunghi martirii a conforto degli oppressi, a cruccio pauroso degli oppressori, allora
quei versi sono fiori d’ogni stagione, e acquistano la natura immarcescibile dei semprevivi, più la
fragranza.
Ora appunto i pochi ma vaghi fiori, che mi tengo onorato di presentarvi hanno quest’ultimo
carattere; un grido e un sospiro, una tacita lagrima e uno stridore di denti, un ardente ma velato
desiderio ed una forte protesta, una voce di conforto per tutte le nazioni, che gemono in servitù,
ed un inno di esultanza per l’inaspettata liberazione. Così fatti, essi hanno diritto ad essere accolti
favorevolmente dal pubblico al pari dei più gagliardi concetti, degli studi più positivi e severi. Sono
idee dell’oggi, sentimenti dell’oggi; rispondono ad un bisogno dell’intelletto e del cuore; furono
il lampo, che rompeva le tenebre d’una lunga e tempestosa notte, sono il sole, che saluta una
campagna guasta dalla gragnuola, a cui promette una seconda e più vivace vegetazione. [...]”
È questa l’introduzione del libro “A Venezia” scritto da Erminia nel 1867 dove sono racchiuse
innumerevoli poesie, tra cui “Viva l’Italia Unita”, che parla dell’unità d’Italia, avvenuta 150 anni fa, della
quale abbiamo citato i primi versi all’inizio del saggio.
“Viva l’Italia unita! Il grido è questo
che fra gli artigli della rea nemica
l’ultimo anello infrangerà ben presto
della catena antica;
ed all’amplesso della gran famiglia
Che le braccia le stende,
Ridonerà la figlia,
Che guarda in volto a’suoi tiranni e attende!”
GIUDITTA BELLERIO SIDOLI
Ritratto di Giuditta Sidoli
Negli anni tormentati del nostro Risorgimento, molte sono le figure di donne che hanno lavorato al
raggiungimento dell’unità italiana, al fianco di ben più noti illustri personaggi della nostra storia. L’oscurità
e il silenzio che sono calati su tante donne che hanno messo la propria vita a disposizione della lotta
risorgimentale, rappresentano uno di quei buchi neri che continuano a inghiottire le presenze femminili
della nostra cultura, passata e contemporanea.
È giunto il momento di restituire visibilità almeno a una di queste.
Giuditta Bellerio Sidoli (Milano, 16 gennaio 1804-Torino, 28 marzo 1871) è stata una patriota
italiana.
Suo padre era Andrea Bellerio, magistrato nel “Regno Italico”.
Fu una donna piuttosto indipendente per l’epoca in cui viveva.
Sposò a sedici anni Giovanni Sidoli, ricco possidente terriero di Montecchio Emilia ed iscritto
alla carboneria modenese con lo pseudonimo di “Decade”. Per sfuggire agli arresti ordinati da
Francesco IV d’Asburgo-Este, che avrebbero portato al “processo di Rubiera”, Giovanni Sidoli
si riparò in Svizzera nel 1821 e la moglie lo seguì non appena nata la figlia Maria. Nel marzo
dell’anno dopo la situazione in Italia non era migliorata, anzi, l’Austria intervenne militarmente
ai moti di Napoli. A causa di questo fatto il regime di polizia elesse norme molto severe: si può
essere accusati di qualunque cosa, come pena la morte. In questo periodo pronunciarono
una sentenza di morte contro Sidoli, per questo la famiglia è costretta a restare in Svizzera,
dove muore Giovanni nel 1828. Durante l’esilio, i coniugi misero al mondo altri tre figli: Elvira,
Corinna e Achille. Alla morte del padre, i quattro figli furono tolti a Giuditta dal suocero che,
fedele a Francesco IV, rifiutò di far allevare la sua discendenza da una “ribelle” all’autorità
legittima. Nonostante i periodici tentativi, la madre non riuscì a rivederli per otto lunghi anni.
Giuditta rientrò in Italia, su invito di Ciro Menotti, per partecipare ai moti di Reggio Emilia del 1831.
Anche se ancora scossa per la morte del marito, Giuditta porta in cuore un ardito desiderio: la
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progetto 11 Le donne del Risorgimento
battaglia per il riscatto dell’Italia. A Modena il 3 febbraio di questo stesso anno, scatta una congiura
contro il duca Francesco IV, ma i congiurati sono catturati. Tra loro è Ciro Menotti, da tempo in
corrispondenza con Giuditta. Quest’ultima è stata protagonista della rivoluzione modenese, anzi è
scesa in piazza a manifestare contro il potere a capo di un gruppo di rivoluzionari, indossando un
abito tricolore. La gioia è breve. Giuditta è obbligata a lasciare il ducato di Modena e prende ancora
la via della Svizzera. Stringe amicizia con il principe Emilio Barbiano di Belgioioso a Lugano e dopo
essersi spostata a Ginevra, prende contatti con i rivoluzionari emiliani rifugiati a Marsiglia. Dove vi si
stabilisce in seguito alle sue peregrinazioni.
In casa sua dava asilo a molti connazionali, come lei cacciati dalla patria, perseguitati dalla
polizia di mezza Europa. Qui conosce Giuseppe Mazzini. Sono loro i due personaggi eminenti
della consorteria di rue de Féréol, i cui adepti si propongono di liberare l’Italia dallo straniero
per farne uno Stato unitario, libero e repubblicano. Fondano così la Giovine Italia e Giuditta ne
è la responsabile e la contabile. I due ben presto divengono amanti: è lei la collaboratrice e la
consigliera più ascoltata di Pippo (Mazzini). Verso la fine del giugno di quell’anno abbandona
Marsiglia, recandosi insieme a Mazzini a Ginevra. Egli versa in pessime condizioni di salute, ma
lascia comunque la Francia per non essere catturato dalla polizia. La vicenda sentimentale che
lega i due era altalenante: ella pensa solo a riabbracciare i suoi figli, vuole assolutamente tornare
in Italia e non è ossessionata come lui dall’idea della patria da liberare.
Giuditta prima di tornare in Italia, passa per Montpellier sulle orme del marito scomparso.
Segretamente si imbarca da Marsiglia verso Livorno, ma a causa di una tempesta
l’imbarcazione cambia rotta e rientra in Francia. Riesce poco tempo dopo a giungere a Livorno
e da lì misteriosamente si trasferisce alla Locanda Svizzera di Firenze sotto falso nome. Proprio
in quei giorni la polizia segreta austriaca ha emanato un mandato di cattura per una pericolosa
rivoluzionaria a Firenze, tracciandone una descrizione fisica corrispondente a quella di Giuditta.
Ella allora volle incontrare il Bologna, poliziotto che conduce le indagini, con l’intento di portarlo
fuori strada. Durante l’interrogatorio la Sidoli piange nel raccontare le sue vicende e alla fine il
Bologna la congeda, ma si sta per accingere a tenderle una trappola. La polizia non ha ancora
scoperto molto sul suo conto; sanno che Giuditta non è una buona cristiana, non osserva i
precetti della chiesa e durante i giorni di quaresima mangia carne. La mattina del Natale dello
stesso anno, è convocata ancora dalla polizia e ancora in lacrime proclama la sua innocenza:
non rinnega il suo passato, ma per il presente non ha altro in mente se non riabbracciare i
suoi figli. Il Bologna le suggerisce di lasciare la città di Firenze.Essendo diventata amica del
console inglese nella capitale toscana, lo implora perché l’aiutasse a fuggire. Riuscì nel suo
intento e con l’aiuto di Gino Capponi scappa, ma la polizia la rintraccia alla dogana di Lucca e
Giuditta è infine espulsa, prima accompagnata a Livorno per essere imbarcata verso Napoli. La
destinazione è stata da lei decisa sotto precise istruzioni di Mazzini.Lì dimora per poco, infine
si reca a Roma. A Roma entra a far parte di una setta mazziniana, ma uno dei capi, Michele
Accursi, che era una spia, inizia a seguirla, a controllarne la corrispondenza. La Sidoli è quindi
costretta a lasciare la città e a recarsi a Bologna, con la speranza di poter tornare a Modena
per riabbracciare i figli. Entra a Modena segretamente e da poco ha stretto a sé i figli, che viene
scovata e riportata alla frontiera.Giuditta invecchia, ma porta pur sempre un certo fascino. È
ancora una donna piacente, ed è frequentata dai più nobili personaggi del tempo ed ogni sera
dà un ricevimento nel suo ambìto salotto ai quali partecipa anche Mazzini. Il 28 marzo 1871
spira, a Torino, stroncata da una polmonite.
“Sorridimi sempre! È il solo sorriso che mi venga dalla vita”.
Così Giuseppe Mazzini si rivolgeva a Giuditta Bellerio in una delle lettere più intime della loro lunga
corrispondenza, e con queste parole le offre, come un innamorato “qualsiasi”, il tributo di un amore
pienamente accolto e condiviso. E qualche anno dopo, ancora le scrive:
“è impossibile che io faccia un romanzo su di te. V’è troppa storia per me nell’amore che ti ho portato
e in tutto quanto ho sentito per te”.
Ma della tanta “troppa storia” che Mazzini riconosce alla intensa relazione che lo ha legato a Giuditta,
oggi resta soprattutto l’aurea d’un amore romantico che, se da una parte “scalda” la figura del
patriota Mazzini, altrimenti interamente dedito alla causa risorgimentale, dall’altra vela e riconduce
219 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 11 Le donne del Risorgimento
lei al ruolo di donna amata da un “grand’uomo” e per questo illuminata di una luce non propria.
Ma Giuditta Bellerio non può in nessun modo essere ridotta a una figura di contorno dell’epopea
mazziniana; l’affascinante, colta e bellissima, è una delle protagoniste dei momenti più accesi della
storia dell’indipendenza italiana, avendone attraversato le fasi più significative insieme a personaggi
che trovano sicuro rilievo nei libri di storia.
Tantissime altre furono le poesie dedicate da Mazzini alla giovane donna, eccone alcune:
La mia esistenza è in te...
(25 ottobre 1834)
… Tu sai ch’io t’amo.Te l’ho manifestato nelle mie gioie, e, ancor più, nei miei dolori. Sei dunque
sicura del mio amore, più ancora che del tuo.
Ormai non mi restano che delle idee e una fonte di emozioni, e questa fonte è in te: ogni moto
dell’anima mi viene da te; in te è il segreto della mia futura esistenza, dato ch’io debba averne una.
Sai ancora ch’io ho maledetto cento volte le mie idee perché non ti andavano a genio, e che sempre
ti ho benedetto, anche quando mi davi dolore. Non posso pensare al tuo paese senza vedere la tua
immagine come un simbolo della tua anima negli antichi tempi.
…Una delle tue lettere non solo mi rende felice, ma mi fa migliore agli occhi miei; poiché, se tu
m’ami, debbo pur avere in me qualche buona qualità, cosa di cui cominciavo a dubitare. La mia
esistenza – ora lo so – è in te…
Giuseppe Mazzini (a Giuditta Sidoli)
Oltre il vento: Lettere di Mazzini a Giuditta Sidoli
Tu sei IL mio angelo, il mio angelo adorato. Che posso dirti di più? Prendi questa parola com’io
La prendo; come L’hanno presa i primi esseri che hanno creduto agli angeli; come se nessuno
L’avesse pronunciata mai questa parola, prima di me; come se io stesso La pronunciassi qui,
per la prima volta.Tuo per sempre, io non vivrò che per te: il mio cuore non batterà che per te; e
quando esso batterà per La mia patria, sarà ancora per te, poiché in essa – sopra tutta La sua vasta
superficie io non amo e non amerò che te…”
‘Giuditta, La mia Giuditta – che io possa dirti una volta nella mia lingua, nella tua Lingua che mi sei
cara, che ti amo disperatamente, che ti amo ogni giorno di più, che né tempo né altro farà mai che
io t’ami meno, che penso a te sempre, sempre, che sogno di te – che vivo per te – che ti ricordo
come un prigioniero in patria, e La Libertà, che da te sola mi vien gioia, e dolore; – che t’ho amata, e
ti amo come né posso dirti, nè tu, perdonami, puoi intendere, nè forse è bene che tu intenda. – Cara
tanto,Angiolo mio, di’ m’ami tu ancora? – potresti dirmelo ancora con vera gioia? un mio bacio ti
farebbe piacere, e tu dandomi un bacio, un Lungo bacio vedresti sfumar tutto, tutto dimenticheresti
Il giornale La Repubblica la descrive così:
Archivio la Repubblica 1984, 28 agosto 2007, p. 11 sezione:TORINO
Giuditta, una ‘passionaria’ tra amori e cospirazioni
Torino I’ha ricordata con una targa, posta sulla facciata dell’edificio al numero 20 di via Mazzini,
e con I’intitolazione di una strada tra via Passo Buole e corso Traiano. Ma il suo nome, il nome di
Giuditta Sidoli, oggi dice qualcosa forse soltanto agli studiosi del Risorgimento. Eppure questa donna,
oltre che affascinante, colta e bellissima, fu una delle fulgide eroine risorgimentali, perseguitata e
incarcerata da austriaci e borbonici, militante fervente della Giovine Italia, amante appassionata e
ascoltata collaboratrice di Giuseppe Mazzini nei giorni felici di Marsiglia.Visse esule a Torino, in quel
palazzo, per quasi vent’anni, dal 1852, tenendovi un salotto alla moda, frequentato da patrioti e
profughi come Francesco Crispi, che vi fu ospitato per qualche tempo. E sempre in quell’abitazione
e in quella via, che sarebbe poi stata intitolata proprio al suo Pippo Mazzini, morì sessantasettenne di
polmonite, nel 1871. Negli ultimi anni era stata spesso assistita da Gustavo Modena, il grande attore
drammatico deceduto nel 1851, che fu a sua volta compagno di lotta e di ideali del rivoluzionario
genovese. La Sidoli spirò rifiutando i sacramenti della Chiesa, dopo avere detto di credere solo nel
Dio degli esuli e dei vinti. Era nata a Milano, figlia del barone Andrea Belleri, magistrato nel Regno
220 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 11 Le donne del Risorgimento
italico.A sedici anni aveva sposato a Reggio Emilia il carbonaro Giovanni Sidoli, con il quale condivise
da subito la fede nell’ indipendenza e nella libertà dell’ Italia. Il naufragio dei moti costituzionali
del 1821, la condanna a morte di Giovanni da parte del Duca di Modena, costrinsero la coppia a
fuggire in Svizzera e in Francia. Qui, a Montpellier, Giovanni mori nel febbraio del 1828. Da quel
momento la vita di Giuditta fu scandita da altre fughe e da nuove cospirazioni, una vera odissea.
In prima linea nella sollevazione di Modena del febbraio 1831 contro il reazionario Francesco IV,
amica di Ciro Menotti (che venne impiccato), dopo il fallimento della rivolta la giovane donna trovò
riparo a Marsiglia. In una casa di rue Féreol, in cui dava asilo agli esiliati italiani, conobbe Mazzini.
Tra i due s’ accese la passione. Fu grande, intensa, travagliata.Tanto che il capo della Giovine Italia,
qualche anno dopo, le avrebbe ancora scritto:“è impossibile che io faccia un romanzo su dite.
V’è troppa storia per me nell’ amore che ti ho portato e in tutto quanto ho sentito per te”. Quando
Mazzini fu espulso dalla Francia e si stabilì in Svizzera, Giuditta volle rientrare in Italia per rivedere
i figli che aveva avuto da Giovanni Sidoli. Il suo peregrinare la portò a Firenze, a Roma, a Modena,
a Lucca, a Parma, a Milano, sempre controllata a vista dalle varie polizie e ogni tanto imprigionata.
Nella capitale del Lombardo-Veneto fu messa ai ferri nel carcere di Santa Margherita, ma Ferencz
Gyulai, comandante della prigione, la liberò.Allora, attraverso la Svizzera, raggiunse Torino, che
all’ epoca pullulava di esuli da tutti gli stati italiani e dalle altre contrade d’Europa insorte contro gli
austriaci nella “primavera dei popoli” del 1848. E a Torino, nel 1853, Giuditta rivide Mazzini, che
vi era giunto clandestinamente dato che su di lui pendeva una condanna a morte firmata dalle
autorità dello Stato sabaudo. Fu I’ultima volta che si incontrarono. Mazzini le voleva sempre bene,
sebbene I’amore fosse tramontato. Giuditta, invece, I’amava ancora. Il ricordo doveroso di questa
donna d’eccezione si unisce, partendo dalla sua casa a pochi passi da piazza Bodoni, a quello
degli altri patrioti del Risorgimento, non solamente italiano, che dimorarono nei pressi. In via dei
Mille, al numero 22, visse Lajos Kossuth, protagonista della rivoluzione ungherese del 1848. E
nell’attigua Aiuola Balbo campeggiano i busti e i monumenti dedicati ad altre figure risorgimentali:
dallo stesso Kossuth a Gustavo Modena, da Bava a Balbo, fino a Daniele Manin. Poco oltre, quindi,
in via della Rocca, fu ospitato Giuseppe Garibaldi al numero 33, ed ebbe casa la Bela Rosin, moglie
morganatica di Vittorio Emanuele Il. Senza dimenticare, infine, il monumento a Mazzini tra via Andrea
Doria e via dei Mille, da poco restaurato ma di nuovo imbrattato dai giovani vandali del sabato sera,
e quelli a Cavour, in piazza Carlina, e a Guglielmo Pepe, in piazza Maria Teresa.
Massimo Novelli
Bibliografia
www.url.it/donnestoria/testi/trame/sidoli.htm; www.wikipedia.it; www.viaggionelventoblogspot.com; www.repubblica.it
SARA NATHAN
“Associate ad ogni vostra opera intellettuale e morale la donna”. Questa è una affermazione che stupì
molto, nell’Ottocento, un periodo nel quale le donne non erano molto considerate dalla società, tuttavia
alcune di esse, come Sara Levi Nathan, riuscirono a far valere le loro idee e i loro diritti.
Sara fu una donna molto importante per quell’epoca: partecipò alla vita politica e sociale costruendo
scuole per persone in difficoltà economica, poiché lei credeva che l’istruzione era necessaria per crearsi
un futuro.
Vennero fondati due istituti di cui uno, a Roma nel quartiere di Trastevere, dedicato a Mazzini e sotto la
sua direzione.
Sara lo creò con l’intento di insegnare alle bambine, non solo materie di studio, ma anche lavori
professionali quali sarta, cucitrice e ricamatrice; spesso le seguì anche concluso il corso di studi, che
era costituito da scuole elementari e superiori, procurando loro un lavoro presso sarte già affermate e
talvolta assumendole lei stessa nella propria scuola.
Nonostante la sua severità, seppe farsi amare dalle alunne che tendevano a sostituirla alla madre.
La sua scuola venne molto contestata dai sacerdoti del quartiere, perché essendo laica sostituì
221 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 11 Le donne del Risorgimento
all’insegnamento della dottrina cattolica quello dei “Doveri dell’uomo”, documento scritto da Mazzini che
lei trasformò in un fascicoletto per facilitare lo studio alle bambine.
Sara si impegnò nell’educazione delle fanciulle, come in quella dei suoi dodici figli avuti dal
matrimonio con Moses Nathan, sposato nel 1836 all’età di sedici anni.
Conobbe Mazzini, poiché suo marito sosteneva il Partito d’Azione, ed ebbe con lui molte
conversazioni tramite corrispondenza.
“Mia cara signora Nathan, com’Ella avrà già udito da Angelino Rosselli, parecchie
signore inglesi hanno cominciato una Penny Subscription, in aiuto del nostro Fondo
Nazionale. Pretendono raccogliere nientemeno che la somma di L.1000. Il metodo
con cui procedono è semplicemente quello: 1) di raccogliere un penny da tutte le loro
conoscenze, 2) di scegliere, fra i più intimi amici, Collettori che facciano lo stesso nel loro
cerchio, e di pregarli di scegliere qui o in provincia altri Collettori colla stessa istruzione.
Purché si sostenga il disegno con instancabile attività, si va così all’infinito. Vuol Ella
esser Colletrice? e cercare qualche altra Signora che voglia farsi tale? Le cose stringono
abbastanza per noi: l’insurrezione di Sicilia, se riesce, sarà secondata da qualche
moto napoletano; e il moto napoletano trascinerà l’intervento Austriaco. Questo sarà il
momento per noi”.
Questa fu una delle prime lettere che Mazzini inviò a Sara, in cui le chiese una donazione per il Fondo
Nazionale, proponendole di diffondere la notizia anche ad altre persone.
Successivamente il rapporto tra i due divenne più profondo, poiché egli incominciò a frequentare
anche la casa londinese dei Nathan, che diventò luogo d’incontro degli esuli politici italiani.
Mazzini inviò molto spesso lettere di questo genere, nelle quali le chiedeva piccoli favori:
“Volete comprare per me una scatola di qualunque forma, di dolci, principalmente di frutti canditi
e chocolate-drops? […] vorrei poi che il signor Nathan mi facesse il piacere di comprare per
me nella City cinque o sei pacchetti di cigarettes per donne: di diversa specie e forma, ma dei
migliori. E me li mandereste insieme ai dolci. Mandatemi, vi prego, unito il conto della spesa.
Sono regali e mi sentirei degradato se non li pagassi”.
Dopo la morte improvvisa del marito avvenuta nell’estate del 1859, Sara interrupe temporaneamente la
corrispondenza con Mazzini che riprenderà nel febbraio dell’anno seguente.
Questa donna durante la sua vita fu costretta a superare molte difficoltà, tra cui la sua grave malattia,
tanto pericolosa che portò gli amici a temere la sua morte; nonostante il lento recupero a causa della
stagione invernale, riuscì a riprendersi potendo continuare così le sue attività quotidiane.
Purtroppo si ammalò nuovamente, ma continuò a occuparsi della scuola finché le condizioni glielo
permisero, trasferendosi anche a Londra, dove, in seguito a un’operazione che tenne nascosta ai figli,
morì il 19 febbraio 1882.
Una figlia ricorda così l’intervento segreto della madre:
“Per timore di non poter essere utile, fosse di peso agli altri, volle subire un’operazione, senza
neppure darne avviso ai figli. Preparò tutto come se fosse l’ultima ora e con un testamento di poche
righe, fece capire alla famiglia quali furono i suoi desideri. Non poté pronunciarli a voce giacché un
improvviso cambiamento, conseguenza di un operazione difficilissima, le tolse la parola prima che i
suoi potessero vederla né udire le sue ultime dolci parole d’amore”.
Il desiderio di Sara fu quello di essere sepolta a Roma, al Verano, così un suo vecchio amico si
preoccupò di ottenerne l’autorizzazione del governo.
La salma entrò senza rito religioso e venne deposta a poca distanza da quella dell’amico Maurizio
Quadrio. Oggi, come racconta Amelia Rosselli, in una sua lettera, giorno dell’anniversario della sua
morte, tutti i suoi parenti si riuniscono intorno alla sua tomba:
222 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 11 Le donne del Risorgimento
“Donna di grande volontà, di grande intelligenza, la sua figura sempre grandeggiò nel ricordo
dei figli, offuscando del tutto quella del padre, anche dopo morta. Per lunghissimi anni nel
giorno anniversario della sua morte, il 19 febbraio, i figli e le figlie di Sara Nathan convenivano
dai punti più lontani di Europa e si riunivano intorno alla sua tomba, a Campo Verano, a Roma.
Il 20 febbraio, altra riunione, alla Scuola Mazzini nel popolare quartiere di Trastevere, fondata
dalla famiglia Nathan in omaggio alla memoria di Giuseppe Mazzini: scuola a-religiosa, dove
l’insegnamento religioso era sostituito alla lettura e commento dei Doveri dell’Uomo. La
scuola era frequentata dalle ragazze del popolo, e oltre allo studio le iniziava a diversi mestieri.
Insegnavano, per lo studio, alcune delle sorelle Nathan, e più tardi anche le nipoti, cioè la nuova
generazione che cresceva e veniva educata agli stessi ideali”.
Dopo la morte di Sara la responsabilità della scuola e dell’insegnamento passò ai figli che decisero di
spostare la sede in un edificio più ampio e comodo con aule, spogliatoi, laboratori e un giardinetto dove
far giocare le bambine.
Nonostante le difficoltà finanziarie che dovettero sostenere, i fratelli cercarono al meglio di mantenere
un alto livello di istruzione nella loro scuola, riuscendo a fare giungere a noi l’unica iniziativa educativa di
stampo mazziniano, anche se trasformata ai giorni nostri.
Oggi molte persone ricordano ancora Sara.
Aurelio Saffi, un grande patriota mazziniano che le volle dedicare una via a Pesaro, la ricorda così:
“Esemplificò in vita il tipo della Madre nella sua più alta significazione, educando la numerosa
famiglia ad una verace coscienza del bene e ad una ferma volontà di recarlo in atto nell’opera della
vita. Sentì profondamente col Grande che le fu Amico e Maestro, che il problema dé nostri destini
era problema di educazione e che primo fondamento dell’educazione di un popolo era la redenzione
morale e il rispetto della donna – si che, sorella, sposa o madre s’elevi con senso della propria
dignità, a quello dé suoi doveri e natura, essa per prima, nella famiglia, la coscienza dei fini morali e
delle responsabilità della vita nella società domestica, base alla grandezza delle Nazioni. Del quale
sentire furono degni interpreti i figli suoi – né v’ha tra noi chi non ricordi e rimpiega con memore
riconoscenza e devoto affetto il suo Giuseppe, milite della libertà e ad un tempo apostolo dei grandi
principii della pubblica moralità e della dignità della persona umana”.
Jessie White la considera:
“modesta … cordiale … amena … nulla v’era di tetro, di pedante, di vano in lei! Intensamente
credente in Dio e nell’immortalità dell’anima pregava operando – predicava (sorridendo) il dovere di
tutti di vivere per gli altri quaggiù”.
Bibliografia
www.laprimaweb.it/2011/01/10/donne-e-democrazia-nel-risorgimento-saralevi-nathan/
www.radicalsocialismo.it/index.php?Itemid=91&id=59&option=com_
content&task=view
www.archiviorosselli.it/User.it/index.php?PAGE=Sito_it/archivio
www.monarchia.it/news_polito_ebrei.html
www.regione.piemonte.it/cultura/risorgimento/sala8.htm
molly.pisa.sbn.it:3000/it/news/notizie/isastia/
www.url.it/donnestoria/testi/trame/whitenathan.htm
www.dialogare.ch/Dialo_Newsletter/13donne_esilio.pdf
www2.dm.unito.it/~benenti/Unipop/NATHAN-Copertina.pdf
www.enciclopediadelledonne.it/index.php?azione=pagina&id=361
www.archiviorosselli.it/User.it/index.php?PAGE=Sito_it/archivio_
inventario2&start=0&arch_id=1547
223 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
www.pesaro0914.comune.pesaro.pu.it/index.php?id=9334&tx_
ttnews%5Btt_news%5D=11309&tx_ttnews%5BbackPid%5D=10100&cH
ash=f92d0ad4df
pocobello.blogspot.com/2010/02/ebrei-e-il-risorgimento.html
www.laprimaweb.it/tag/sara-levi-nathan/
www.hls-dhs-dss.ch/textes/i/I27479.php
Libro:Anna Maria Isastia, Storia di una famiglia del risorgimento. Sarina,
Giuseppe, Ernesto Nathan. Università popolare di Torino Ed.
Ringraziamo per la disponibilità e collaborazione:
La dott.ssa Anna Maria Isastia che ci ha fornito molte informazioni utili
riguardo alla donna per la miglior svolta del lavoro;
Mimmo Franzinelli per averci fornito il contatto con l’Istituto romano di storia
della resistenza.
progetto 12 La famiglia Da Como nel panorama del Risorgimento bresciano
1. UGO DA COMO E IL RISORGIMENTO BRESCIANO
Il tema del Risorgimento italiano fu caro al senatore Ugo Da Como (nato a Brescia nel 1869,
laureato brillantemente a Roma in Giurisprudenza, amico e collega di Giuseppe Zanardelli),
che tra i molti interessi annovera anche quello per la storia d’Italia e in particolare per la storia
bresciana, cui dedicò studi importanti.
A tale interesse non è certo estranea la frequentazione, fin da fanciullo, con personalità della
cultura risorgimentale bresciana, come Filippo Ugoni, Gabriele Rosa, Giuseppe Cesare Abba,
ma soprattutto il clima respirato in famiglia.
Ripercorrendo l’albero genealogico le sorprese infatti non mancano. Si viene a sapere che il
nonno Filippo partecipò alla barricate delle Dieci Giornate e che il padre Giuseppe, matematico
illustre amante della poesia, si infiammò di ardore risorgimentale per le imprese garibaldine,
combattendo nella guerra del 1866 e componendo un carme dedicato a Garibaldi e intitolato
alla città di Trento per auspicarne l’unione al Regno italiano.
Formato a una tale scuola famigliare, il Senatore ebbe sempre a cuore la causa italiana,
che egli servì sia attraverso una intensa attività politica a favore del Regno, sia nello studio
appassionato degli eventi cruciali del Risorgimento, allo scopo di lasciarne ai posteri una
memoria feconda. A tale riguardo condusse una serie di indagini sul ruolo di Brescia nella
storia del Risorgimento, offrendo nel 1922 al Comitato nazionale per la Storia del Risorgimento
una raccolta di manoscritti inediti da lui rinvenuti (carte ingiallite e diari) risalenti ai tempi della
Repubblica Cisalpina relativi a condanne e persecuzioni avvenute nella primavera del 1799.
Nel 1933, in occasione del Congresso dei maggiori studiosi del Risorgimento italiano organizzato
dall’Ateneo bresciano, Da Como ospitò nella sua casa lonatese i partecipanti. Di quell’evento resta
memoria in una fotografia scattata nel cortile davanti all’ingresso della dimora.
Lo stesso Da Como contribuì poi al volume, edito dall’Ateneo, Brescia nel Risorgimento con
il saggio iniziale sulle X Giornate di Brescia. L’intervento del Senatore riassume i fatti di quei
gloriosi giorni, che lo stesso re Vittorio Emanuele II ammirò donando alla città il monumento
raffigurante l’Italia che incorona di allori i caduti. Brescia si distinse per l’ampiezza della
partecipazione, per l’impeto e il valore che supplirono alla mancanza di organizzazione. Il 23
marzo 1849 i patrioti bresciani, tra cui Tito Speri, organizzarono la rivolta contro il presidio
militare austriaco ritiratosi in castello, da dove iniziarono a scagliare bombe sulla città. I
bresciani, continuando a rifornirsi di armi da Torino e sottraendole agli Austriaci, resistettero
valorosamente all’esercito di Nugent presso Sant’Eufemia, ma furono alla fine sopraffatti
dall’esercito imperiale comandato da Haynau il 1° aprile. “Così cadeva Brescia, gloriosa e
vendicata, dopo aver durato dieci giorni in armi”. Da allora Brescia, per l’eroismo dimostrato dai
combattenti e il martirio fecondo degli uccisi, fu conosciuta come la città delle Dieci Giornate.
Interessante è ricordare che l’ancora giovanissimo Ugo, nel secondo anno di Liceo, aveva vinto
un premio di poesia per un carme ai caduti della patria da recitare in una commemorazione
delle Dieci Giornate al cimitero Vantiniano.
E nella Casa-Museo di Lonato molti sono i cimeli storici sparsi qua e là che testimoniano
ancora il legame della famiglia con il Risorgimento, dalla raccolta di medaglie alle fotografie,
dai bronzetti alla ricca serie di ritratti in miniatura esposti nel salottino della moglie Maria
Glisenti. Qui ai ritratti di famiglia appesi alle pareti, tra i quali quelli del padre Giuseppe e del
nonno Filippo, sono affiancati, secondo la moda delle famiglie borghesi del tempo, i ritratti di
personaggi storici significativi quali Cavour e Vittorio Emanuele II.
2. GIUSEPPE DA COMO POETA E PATRIOTA
2.1 L’uomo e il poeta
Collocabile nel pieno fermento degli scontri risorgimentali, Giuseppe Da Como (Brescia
1842-1886) fu un protagonista a tutto tondo del periodo storico in cui visse. Si arruolò presto
nell’esercito come sottotenente di artiglieria e partecipò alla cosiddetta III guerra d’Indipendenza
225 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 12 La famiglia Da Como nel panorama del Risorgimento bresciano
2.2 Diploma della Società di Solferino e San Martino
al Prof. Ing. Giuseppe Da Como
Dimensioni 37,7cm x 24,6cm
Il documento, stampa a colori realizzata dall’Unione tipo-litografica bresciana, conferisce a
Giuseppe Da Como la carica di Socio Perpetuo della Società Solferino e San Martino, ente
morale nato nel 1871 dalla volontà del conte
Luigi Torelli, senatore del Regno, per onorare
la memoria dei caduti nella battaglia del 24
giugno 1859 e di tutti coloro che combatterono
per l’Unità e l’Indipendenza d’Italia, col fine
di mantenere vivi gli ideali e i valori del
Risorgimento.
L’attestato, vivacemente colorato, presenta
un motivo floreale lungo il lato superiore
sinistro, all’interno del quale sono rappresentati
importati monumenti del Risorgimento legati
alle città di Solferino e di San Martino della
Battaglia, con la celebre Torre (ora custodita
dalla Società stessa) e gli Ossari di entrambe le
località.
Il testo, collocato nella parte centrale della
stampa, è incorniciato da una decorazione
che termina nella parte superiore con il
richiamo alle date significative delle guerre di
indipendenza(1848-49 e 1859) conclusesi
con la proclamazione dell’Unità (1861). Le due
indicazioni di “Eritrea” e “Libia”, che concludono
la cornice, rimandano alle campagne di
colonizzazione dei territori africani.
Nella parte destra, come appoggiate sul
documento, sono rappresentate due medaglie
che ritraggono Vittorio Emanuele II e Umberto I.
Il certificato è firmato dal presidente della
Società Solferino e San Martino, V. Giusti, e dal
segretario.
L’attestato testimonia la passione e l’interesse che Giuseppe Da Como rivolse al Risorgimento
italiano, durante il quale tanti valorosi sacrificarono la vita per ottenere l’Indipendenza e l’Unità
della loro patria.
3. IL CANTO TRENTO DI GIUSEPPE DA COMO
3.1 Presentazione
L’opera di Giuseppe Da Como del 1876 intitolata Trento è un lungo canto in endecasillabi che
presenta echi letterari e rimandi alla ricca produzione ottocentesca di carattere risorgimentale.
Evidenti sono i richiami alle note poesie di Carducci e di Aleardi per le molte immagini retoriche
e la tensione emotiva che percorre l’intero testo.
Amore per la patria, desiderio di libertà, ansia di vendicare un torto subito imprimono all’opera
una intonazione eroica, attraverso la quale si intende promuovere nei lettori quegli stessi
sentimenti che animarono i Mille e i valorosi caduti per la causa italiana.
Lo stesso verso latino posto in epigrafe, Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor (ripreso da
Virgilio IV, 625, rimanda all’imprecazione di Didone che, uccidendosi perché abbandonata
da Enea, invoca su di lui una futura vendetta) si augura che, un giorno non lontano, possa
227 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 12 La famiglia Da Como nel panorama del Risorgimento bresciano
Allora gli austriaci ritirarono su Vienna uno dei tre corpi di armata schierati in Italia e diedero priorità alla
difesa del Trentino e dell’Isonzo.
Il 5 luglio giunse notizia di un telegramma dell’imperatore di Francia Napoleone III, il quale prometteva
una mediazione, che avrebbe permesso all’Austria di ottenere condizioni onorevoli e all’Italia di annettere
Venezia. Il governo italiano volle però guadagnare tempo, per ottenere migliori condizioni di pace.
La guerra proseguì con l’attacco navale presso l’isola di Lissa in Dalmazia, dove il 20 luglio la marina
italiana subì una clamorosa sconfitta con l’affondamento delle navi Palestro e Re d’Italia da parte della
flotta austriaca, comandata dall’ammiraglio Tegetthoff .
Alla guerra prese parte anche Garibaldi con l’esercito dei suoi volontari, i Cacciatori delle Alpi. Brescia
contribuì con molti uomini alle operazioni belliche che si svolsero tra la Val Sabbia e il Trentino.
L’importante successo riportato a Bezzecca aprì la strada verso Trento, ma proprio allora giunse l’ordine
della ritirata. Garibaldi rispose il 9 agosto con il celebre “Obbedisco”.
L’armistizio tra Prussia e Austria firmato a Cormons il 12 agosto 1866, seguito il 3 ottobre dalla pace
di Vienna, stabilì che soltanto il Veneto passasse all’Italia.Trento e Trieste rimasero sotto il dominio
asburgico, rimandando alla Prima Guerra Mondiale la loro unione alla patria italiana.
3.4 Un vaticinio patriottico in un canto di Giuseppe Da Como
Il canto di Giuseppe Da Como fu pubblicato, all’indomani della sua stesura, sul giornale cittadino La
Sentinella, pubblicazione politico-letteraria trisettimanale attiva dal 1 settembre 1859 al 31 dicembre del
1925. Il giornale era allora diretto dal prof.Angelo Gallottini, reduce garibaldino ferito a Bezzecca.
A distanza di ben 39 anni, e precisamente l’1 maggio 1915, quando l’Italia era infiammata dai dibattiti
sulla possibile entrata in guerra, il giornale, vicino alle posizioni degli interventisti, esce con un articolo
che ripropone il canto del Da Como come un “auspicio prossimo al compimento” ben augurante per
quei giorni di attesa.
Il Canto, definito “della buona tradizione romantica, la quale ha dato alla nostra letteratura tanta copia
di sentimenti delicati e gentili e tanto ardore di patria”, risulta particolarmente attuale nel momento in
cui si devono decidere le sorti della nazione. La data del 1° maggio non è casuale; infatti solo pochi
giorni dopo a Quarto dei Mille si sarebbe tenuta la commemorazione dei garibaldini, durante la quale
d’Annunzio infiammò gli animi alla guerra con un suo celebre discorso.
E così i versi di Da Como possono dire davvero “la parola del conforto e
della speranza” rievocando l’eroismo di tanti trentini morti per la patria:
“la costanza e la fede che li ha resi invitti per tanti anni alle persecuzioni
dell’Austria, li ha fatti degni di tutto il nostro amore”.
3.5 Fotografia e Lettera di Garibaldi
Tra i molti cimeli storici conservati nella Casa di Ugo Da Como, alcuni
rivestono una particolare importanza per lo stretto legame con la causa
risorgimentale.
Si tratta di una fotografia con firma autografa di Garibaldi e di una
sua lettera inviata al padre del Senatore, Giuseppe, in ringraziamento.
La fotografia, conservata nello studio privato del Senatore, raffigura
Garibaldi in abiti comuni, con la giubba rossa dei garibaldini. In
formato carte de visite, ingiallita dal tempo, ritrae l’eroe dei due mondi
nell’atteggiamento che più era caro agli italiani, nella semplicità cioè del suo
mostrarsi vicino a tanti eroi anonimi uniti dallo stesso slancio patriottico e
dagli stessi ideali di libertà.
È probabile che la fotografia già appartenesse alla famiglia Da Como,
in particolare al padre Giuseppe, attivo garibaldino, autore del carme
risorgimentale intitolato a Trento e indirizzato allo stesso Garibaldi.
Il secondo documento di rilievo è la Lettera autografa di Garibaldi,
incorniciata e conservata nella camera da letto del Senatore al primo piano
della Casa Museo. La lettera è datata Caprera 10 ottobre 1876 e in essa il
Generale ringrazia il Prof. Giuseppe Da Como per la dedica del “bellissimo
230 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 12 La famiglia Da Como nel panorama del Risorgimento bresciano
canto” invitandolo a “rimettere il ricavo “delle vendite
(80 centesimi per copia) al Colonnello Egisto Bezzi a
Milano.
La firma, identica a quella della fotografia, chiude
la lettera. Dal congedo “sempre vostro” traspare la
passione viva e l’appoggio morale di Garibaldi al
Professore, cui va il ringraziamento per l’aiuto dato alla
causa trentina.
3.6 Trento: un canto alla nazione
Il 9 agosto del 1866 Garibaldi rispondeva con il
celebre telegramma “Obbedisco” all’ordine del
Generale La Marmora di sgomberare il Trentino
entro 24 ore a seguito dell’ormai prossimo armistizio
con l’Austria. Si infrangevano, così, in pochi istanti,
le speranze di Garibaldi, dei suoi uomini e dell’intera
nazione di riuscire ad annettere il Trentino al territorio
del Regno d’Italia. Questa sconfitta, se da una parte
provoca una dolorosa delusione, dall’altra genera la
speranza di poter disporre di una nuova possibilità di
unificare il territorio italiano; essa si realizzerà però
soltanto con la Prima Guerra Mondiale.
Il fallimento dell’impresa del 1866 è sentita soprattutto da quei civili che credevano fortemente
nella causa garibaldina: Giuseppe Da Como, padre di Ugo, è fra questi.
Egli scriverà, infatti, il carme intitolato Trento con lo scopo di devolvere il ricavato della vendita (80
centesimi a copia) al colonnello Bezzi, affinché il denaro potesse contribuire alla realizzazione di una
nuova impresa contro lo straniero. Giuseppe dedicò la sua opera a Garibaldi in persona, il quale lo
ringraziò calorosamente con una lettera autografa.
Il carme ben esprime il forte sentimento patriottico di numerosi intellettuali italiani, che sentivano vicina
questa causa; tanti sono gli echi della valorosa spedizione dei Mille richiamati nei versi.
Il componimento è introdotto da una lunga strofa di carattere descrittivo: il poeta attraverso una
sapiente inquadratura quasi cinematografica, descrive il paesaggio dal generale al particolare, dalle
vette delle Dolomiti al fondovalle. Le montagne color porpora al tramonto incorniciano la città tanto
sognata e il vespro ispira una malinconia che sollecita gli affetti. La luce rossastra è talmente brillante
che ravviverebbe anche la “gota d’una vergine morente”; lo sguardo scende progressivamente verso i
boschi su cui calano le ombre della notte, mentre rimbomba nel silenzio la “spaventosa onda” del Sarca
che “mugge”, ricordando il frastuono della guerra. Sullo
sfondo si staglia la figura di un cacciatore che, seduto
al margine di un sentiero se ne sta in atteggiamento
pensoso con il capo fra le mani, come se gravi pensieri
lo affliggessero. È uno dei Mille, reduce anche dalla
guerra del 1866: “Echi tacete!” così ha inizio la serie
di endecasillabi sciolti densi di retorica, nei quali, per
antitesi, si contrappongono i giorni gloriosi che portarono
alla conquista delle terre italiane strappate allo straniero,
quali la Sicilia e la Lombardia, all’infelicità della sconfitta
riportata nell’impresa trentina: il sangue degli italiani
morti in battaglia non fu fecondo per la terra trentina, e
nemmeno lo furono i canti di vittoria, cantati, invece, in
altre occasioni. Dal verso 37, infatti, Giuseppe Da Como
richiama esplicitamente la gloriosa spedizione dei Mille:
“Eravam mille, ed eravam leoni:/La patria in petto, la
fidanza in Dio, noi sbarcammo e vincemmo”. Con la
231 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 12 La famiglia Da Como nel panorama del Risorgimento bresciano
speranza, l’ardimento, il coraggio, la speranza
dell’eternità, l’amore per la patria e la fiducia in
Dio si può fare qualunque cosa: Dio, infatti, non
può non sostenere un’impresa fatta a fin di bene
per liberare le terre soggiogate da dominatori
indegni. I Mille non erano vestiti di semplici abiti
da combattimento: indossavano un “rosso saio”,
che conferisce a loro e all’impresa una sorta di
sacralità.
Giuseppe Da Como utilizza immagini e suoni
suggestivi, capaci di rievocare la guerra,
il duello corpo a corpo e la sensazione di
immortalità conquistata con la patria nel cuore:
“il sonito stridente” delle armi, il “grido di
Savoia”, il “fragore degli acciai”, il “canto della
vittoria” e la successiva “quiete di sepolcreto”.
Ma nulla di tutto ciò è servito, perché la “ragion
di Stato” ha avuto la meglio sulla passione,
sull’impeto e il valore dei soldati. L’Armistizio
di Cormons del 1866 sancì infatti che Trento
e Trieste restassero domini austriaci: a nulla
servì il sangue degli italiani morti per la patria.
Il poeta esprime sapientemente mediante
una personificazione la pietà di Trento: essa
è una “vergin” come Andromeda destinata a
soffrire e a patire. Perfino “l’Angel d’Italia” versa
l’ennesima lacrima per la sua terra irredenta,
dopo la perdita di Nizza e Savoia. Infine, i versi
finali alludono metaforicamente all’unione
di Trento al territorio del Regno d’Italia: il
cacciatore vede in sogno la “vergine tridentina”
abbracciare le sorelle, le altre regioni italiane, augurandosi di assistere in un prossimo futuro alle
tanto attese nozze con l’Italia.
3.7 Trento di Giuseppe Da Como: inno all’Italia e canto di libertà
Con il termine irredentismo si indica la volontà di un popolo di completare la propria unità territoriale,
sottraendo terre soggette all’occupazione straniera, in ragione di un’identità etnica o di un legame
storico-culturale precedente.
Il patriottismo alla base dell’irredentismo trentino ispirò nel 1876 Giuseppe Da Como a stendere un
canto intitolato Trento, per finanziare la lotta per l’indipendenza. Il ricavato, 80 centesimi a copia, venne
donato a sostegno della causa trentina (come si può leggere in copertina).
Tutta l’opera risuona come un grido di guerra indirizzato ai combattenti trentini, un’esortazione perché
non perdano la speranza e si oppongano instancabili alla dominazione del nemico. Secondo il Da Como
infatti, il Trentino sarebbe entrato a far parte dell’Italia seguendo un corso naturale e certo, Italia che egli
intende come famiglia risorta: un popolo unito da tradizioni secolari e valori preziosi. Esso risulta la patria
di filosofi illustri come Antonio Rosmini (1797-1855), e combattenti valorosi caduti per difendere un
ideale di libertà. L’epigrafe latina posta a introduzione del canto muove a seguire esempi coraggiosi e
ripone la fiducia in un vendicatore, che nascendo dalle ceneri del popolo italiano, possa mantenere vivo il
ricordo dei “fratelli” sacrificati alla causa trentina.
Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor risulta un chiaro omaggio a Virgilio che nella sua Eneide così
scrive in un’imprecazione che Didone rivolge a Enea, prima del suicidio. Il canto è dedicato a Giuseppe
Garibaldi, l’Eroe dei due mondi, emblema delle lotte per l’indipendenza dell’Italia. La sua breve lettera
di risposta alla dedica è riportata nel frontespizio del canto.A lui si ispira il cacciatore, ex giubba rossa,
232 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 12 La famiglia Da Como nel panorama del Risorgimento bresciano
si riferisca a Trieste) immediatamente rimanda agli ultimi versi del Canto Trento di Giuseppe Da
Como: la terra irredenta geme e spera pensando all’abbraccio delle sue sorelle già unite.
Sul verso della medaglia si trova, cinta da un ramo d’ulivo, una fascia su cui è incisa a chiari caratteri
la scritta “Commemorando il patto a guarentigia della libertà d’Italia voluto dal popolo e dal re Trieste
attende”. Sopra questa un libro, lo Statuto Albertino, reca la data 1848.
La medaglia infatti, a cinquant’anni dalla promulgazione dello Statuto, commemora la volontà del
sovrano e del popolo italiano di istituire un nuovo governo che garantisca la libertà dei suoi cittadini,
ricordando allo stesso tempo le terre che, ancora sottomesse agli Austriaci, non potevano godere di
questo diritto.
È facile intuire l’importanza che questa medaglia assume;
essa non poteva mancare tra i cimeli di Ugo Da Como, la
cui famiglia aveva particolarmente a cuore la causa delle
terre irredente di Trento e Trieste.
Progetto Lunario lonatese 2011
CELEBRANDO L’UNITÁ D’ITALIA. VOLTI PER UN
TRICOLORE
1861-2011: 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
Le guerre d’indipendenza non bastarono a creare
un paese unito; parafrasando D’Azeglio, bisognava
“fare” gli italiani.
Proprio da quest’affermazione
trae ispirazione il calendario 2011:
una collezione di francobolli che
ripropone personaggi storici del territorio bresciano e gardesano, rivisitati alla
luce dei valori morali lasciatici in eredità.
Un percorso storico attraverso 150 anni di storia locale, dai campi di battaglia
di metà Ottocento alla nascita della Croce Rossa, dalle prime sedute della
Camera alla carica senatoriale di Ugo Da Como ottenuta nel 1920.
La storia di un popolo e delle sue virtù espressa da volti noti impegnati nel
sociale. Santa Maria Crocifissa Di Rosa, Don Lorenzo Barzizza, Gaetano
Bonoris, don Daniele Comboni furono modelli di carità e di fede; non solo
prestarono soccorso ai feriti durante le guerre d’indipendenza, ma avviarono
anche un’intensa attività caritativa ed educativa, che lasciò segni indelebili nei
primi decenni del regno italiano.
Allo stesso modo il coraggio e l’intraprendenza sono espressi nel Calendario
attraverso personaggi quali Gabriele D’Annunzio, il garibaldino Giuseppe
Cesare Abba e il generale Achille Papa, che infiammati da amore per la patria
si batterono per la conquista dell’unità territoriale.
E poi uomini impegnati nella politica, a Roma e a livello locale: dal bresciano
Giuseppe Zanardelli, a Pompeo Molmenti, Ludovico Mortara, Giovanni
Rambotti sindaco di Desenzano, fino a Laura Bianchini, eletta nel 1946 alla
Costituente, una fra le prime donne deputato: tutti contribuirono a gettare
le basi dello Stato moderno, attraverso l’elaborazione di una legislazione
giuridico-sociale-economica capace di rispondere alle esigenze del nuovo
popolo italiano.
Così il Tricolore diventa simbolo di una nazione unita, territorialmente ma
soprattutto moralmente, capace di rievocare in noi quella scala di valori e
principi, su cui si è costruito il nostro passato: amor di patria, generosità,
impegno politico, carità, tensione educativa. Eredità preziosa da custodire,
coltivare e trasmettere alle nuove generazioni.
234 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 13 Ugo Da Como collezionista risorgimentale
CAMILLO BENSO CONTE DI CAVOUR
Camillo nasce il 10 agosto 1810 a Torino da Michele Benso di Cavour, membro della nobiltà
piemontese, e Adele de Sellon, appartenente ad una ricca famiglia borghese di Ginevra.
Formatosi alla Regia Accademia Militare di Torino, abbandona la carriera militare e si interessa a studi
di economia e politica e stabilisce contatti studiando da vicino le trasformazioni avvenute in seguito alla
rivoluzione industriale.
Cavour collabora inoltre con numerose riviste per le quali scrive di argomenti in questo periodo molto
attuali; nel 1847 fonda insieme a Cesare Balbo il periodico “Risorgimento” e, nel 1850 vien con il quale
si schiera apertamente a favore di una costituzione.
Già promotore dello Statuto Albertino e della prima guerra d’indipendenza viene designato come
ministro dell’agricoltura e del commercio.
Un anno dopo gli viene affidato il ministero delle finanze e grazie alla sua abilità e ai suoi contatti riesce
ad ottenere i prestiti necessari a gestire la delicata situazione del bilancio in seguito alla prima guerra di
indipendenza.
Dopo i successi politici ottenuti, il Re Vittorio Emanuele II gli chiede di formare il nuovo governo (2
novembre 1852), durante il quale si pone come obbiettivo il risanamento delle finanze e promuove
la partecipazione alla guerra di Crimea che ha fine con il congresso di Parigi del 1856 durante il
quale Cavour ottiene finalmente la discussione del problema italiano a livello europeo.
In seguito agli accordi segreti di Plombières (1858) presi con Napoleone III, riesce a
costringere l’Austria a dichiarare quella che sarà la seconda guerra d’indipendenza al
Piemonte ma dopo la liberazione della Lombardia e i movimenti annessionistici sorti nella
penisola, Napoleone sigla un armistizio con l’Austria (Villafranca 1859) Cavour si dimette
dal suo secondo governo salvo poi tornare ad occupare la carica, persuadendo l’imperatore
francese a riconoscere i plebisciti che in Emilia e Toscana chiedono l’unificazione al
Piemonte, in cambio concede Nizza e la Savoia. Sostiene la campagna per l’occupazione di
Marche e Umbria e raccoglie i frutti della spedizione Garibaldina, alla quale aveva guardato
con diffidenza per timore che i rapporti con la Francia ne venissero compromessi.
Dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia viene eletto come primo presidente del consiglio, carica che
ricoprirà fino alla sua morte avvenuta solo tre mesi più tardi.
Bibliografia Giovanna Zaglio, Foscolo a Brescia le lettere a Marzia, le miniature di Gigola, approfondimento tesina di maturità;
Microsoft ® Encarta ® 2008 © 1993-2007 Microsoft Corporation; Alberto Mario Banti, il Risorgimento italiano, editori Laterza;
Denis Mack Smith, Cavuor il grande tessitore dell’unità d’Italia, il Giornale biblioteca storica.
Sitografia www.wikipedia.it, www.7doc.it
MINIATURA Camillo Benso Conte di
Cavour
Oggetto Miniatura di Camillo Benso
conte di Cavour.
Descrizione Cavour è ritratto a
mezzo busto, di tre quarti, rivolto nel
verso opposto rispetto alla raffigurazione
ufficiale realizzata da Francesco Hayez.
Nonostante nelle due opere la fisionomia e
l’abbigliamento coincidano, nella miniatura
analizzata il Conte appare più giovane e
meno accigliato che nel dipinto di Hayez:
presumibilmente l’intento era quello di
rendere un’immagine più “familiare” di
Cavour senza però perdere l’austerità
ufficiale, richiamata anche dallo sfondo
monocromo in tinte scure.
236 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 13 Ugo Da Como collezionista risorgimentale
fotografico) venne eseguita dopo la nomina di Vittorio Emanuele a primo re d’Italia: il sovrano è in alta
uniforme con diverse onorificenze. Egli è rappresentato con i baffi che lo caratterizzavano ed ha un
espressione austera, assorta e corrucciata. In basso sotto il ritratto, compaiono i nomi dell’artista e degli
incisori, in grande il nome del re.
STATUETTA di Vittorio Emanuele II
Oggetto Statuetta equestre di Vittorio Emanuele
Data 1890 circa
Tecnica La statuetta è realizzata in antimonio, lega molto in uso nella
seconda metà del secolo costituita da una forte componente di piombo, ma
meno pregiata.
Questo semimetallo si può combinare con lo zolfo e con alcuni metalli pesanti
come l’argento, il rame e il piombo.
Per realizzare questo tipo di statuetta il metallo veniva fuso e poi versato in
due stampi diversi. Una volta asciutte, le due parti venivano unite e saldate
insieme fondando la scultura a tutto tondo. In seguito poi l’artista rifiniva le
imperfezioni della saldatura.
Dimensioni 28 x 27 cm
Collocazione Museale Raccolte della Fondazione Ugo Da Como a
Lonato del Garda, Brescia (Sala Luigi Nocivelli).
Descrizione Questa statuetta rappresenta Vittorio Emanuele a cavallo con la spada tratta.
L’abbigliamento indossato consiste in una veste militare e un cappello piumato. Con la mano destra
regge la spada, mentre la sinistra è ripiegata sul ventre.Vittorio Emanuele è descritto nell’atto di guidare
l’armata all’assalto del nemico. Il busto del re presenta una leggera torsione tanto da presentarsi in
modo frontale, mentre il cavallo si trova in posizione laterale.
Il cavallo, dotato di un sottosella ricamato, risulta poco dettagliato e ciò lo si può notare anche dalla
rigidità della coda.
Lo stato di conservazione della statuetta è complessivamente buono anche se in alcune zone il metallo è
meno patinato ed emerge il grigio del piombo.
Aderenza a modelli precedenti Questa statuetta si ispira alle sculture monumentali tipiche di alcune
piazze piemontesi e forse anche ad una litografia della battaglia di S. Martino.
GENERALE ALFONSO LA MARMORA
Alfonso Ferrero marchese de La Marmora nacque a Torino nel 1804. Fu uno dei più
importanti generali e uomini politici del risorgimento. Entrato nell’esercito piemontese
riorganizzò un moderno corpo d’artiglieria, con il quale prese parte alla prima Guerra
d’Indipendenza. Fu ministro della guerra nel 1848 con Pinelli e Gioberti e, dopo i
motti di Genova durante i ministeri di Cavour, ebbe l’incarico di riorganizzare l’esercito
piemontese. Comandante del corpo di spedizione in Crimea (1855) partecipò anche alla
Seconda Guerra d’Indipendenza. Dopo l’armistizio di Villafranca (1859) divenne primo
ministro in sostituzione di Cavour, che si era dimesso per protesta. Nel 1860 fu nominato
prefetto di Napoli, dove si segnalò per l’energica repressione del brigantaggio. Fu ancora
presidente del Consiglio nel 1864-66 con il merito di aver stretto l’alleanza con la Prussia
che portò alla Terza Guerra d’Indipendenza. Le sconfitte di Custoza e Lissa (1866) lo
costrinsero a dimettersi . Dopo la presa di Roma fu luogotenente del Re negli ex territori
pontifici , infine si ritirò a vita privata. Morì a Firenze nel 1878.
Sitografia: wikipedia.org, libero.it, www.lombardiabeniculturali.it
240 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 13 Ugo Da Como collezionista risorgimentale
RITRATTO di Alfonso La Marmora
Oggetto Ritratto di Alfonso La Marmora
Data 1870 ca.
Dimensioni 27,5 x 14,2 cm circa
Tecnica incisione in acquaforte milanese (stampa con matrice in rame) Autore dell’Incisore Buccinelli e stampa calcografica di Crivelli
Collocazione Museale Raccolte della Fondazione Ugo Da Como a
Lonato del Garda, Brescia.
Descrizione La stampa illustrava il volume Storia della guerra d’oriente (Luigi
Pagnone Editore a Milano,1870).
Il soggetto è rappresentato a mezzobusto, in posizione di tre quarti. È
raffigurato con un’espressione fiera e lungimirante, in abito da generale e
con numerose medaglie al valor militare sul petto. La Marmora si trova in
primo piano, alle sue spalle un morbido tendaggio lo separa dal paesaggio
retrostante. Sullo sfondo si può notare una rocca, sul mastio è rappresentata
la bandiera Italiana, simbolo dell’Unità d’Italia. Il contorno del campo
stampato è finemente decorato da una doppia cornice. Sono rappresentate
nell’incisione le seguenti medaglie militari (in ordine orario): medaglia Inglese
della Guerra di Crimea; médaille Commemorative de la Campagne d’Italie de
1859; Cavaliere di Gran Croce dell’ordine militare di Savoia.
Sotto la scritta:ALFONSO DELLA MARMORA GENERALE IN CAPO DELLE
TRUPPE SARDE IN ORIENTE
Sitografia: wikipedia.org, mare magnum.com
SCULTURA EQUESTRE del Generale Alfonso La Marmora
Oggetto Statuetta di Alfonso La Marmora
Data Seconda metà dell’800
Dimensioni 18x23 cm circa
Collocazione Museale Raccolte della Fondazione Ugo Da
Como a Lonato del Garda, Brescia (Sala Luigi Nocivelli).
Descrizione Il generale è rappresentato a cavallo durante una
battaglia e rivolge lo sguardo di lato; ha il viso girato in tre quarti, sul
capo porta il cappello piumato dei bersaglieri, veste una palandrana
stretta da una cintura in vita e dei pantaloni alla zuava infilati negli
stivali da cavallerizzo. Il generale ha il braccio destro eretto verso
l’alto, poiché dovrebbe brandire una spada, però andata perduta.
La posizione del cavallo si rifà ai modelli della scultura classica,
riprendendo le sculture ufficiali dei condottieri e degli imperatori.
Il cavallo infatti appoggia sul terreno tre zampe e una è sollevata,
come già nel Monumento equestre del Gattamelata di Donatello e
in altri esempi di epoca antecedente .
Materiale La scultura è in antimonio, una lega che simula il bronzo
ma con una forte componente di piombo.
Tecnica Veniva realizzato ‘a tutto tondo’, secondo la tecnica
della fusione. La scultura è infatti vuota all’interno, poiché la parte
posteriore e la parte anteriore della scultura venivano realizzate
separatamente attraverso l’uso di uno stampo e poi saldate con metallo fuso e patinate per imitare il
finto bronzo.
Sitografia: wikipedia.org
241 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 13 Ugo Da Como collezionista risorgimentale
GENERALE GIUSEPPE GARIBALDI
Nacque a Nizza nel 1807, dopo aver aderito alla Giovine Italia, prese parte a moti insurrezionali in Italia
e partecipò al governo provvisorio di Milano.Accondiscendendo a divenire sostenitore della monarchia
sabauda assunse la guida dell’esercito sardo contro l’Austria. Dopo l’annessione da parte del Piemonte
di Lombardia, Emilia,Toscana e Romagna, Garibaldi riavviò il processo di unificazione d’Italia.
Durante la giovinezza si avvicinò alla vita politica e coltivò la sua passione per la navigazione.Accolto
freddamente dal governo sardo, nel corso della prima guerra d’indipendenza al comando di un gruppo
di volontari si batté a Luino e conquistò Varese.Tornato a Nizza, il 24 ottobre ripartì con alcune centinaia
di volontari per la Sicilia, si fermò in Toscana e offrì alla Repubblica Romana la sua spada. In seguito
a un colloquio segreto con Cavour il 13 agosto 1856, pubblicamente dichiarò di voler mettere a base
dell’unità italiana la monarchia.Alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza, il 2 marzo 1859
s’incontrò con Cavour per accordarsi sull’organizzazione dei volontari e in quell’occasione conobbe
Vittorio Emanuele. Gli avvenimenti che seguirono alla pace di Villafranca raffreddarono i rapporti fra
Garibaldi e il governo sardo. Giuntagli nell’aprile del 1860 notizia della rivolta scoppiata a Palermo, col
consenso almeno tacito del governo si pose a capo della missione nota come spedizione dei Mille
che partì da Quarto nella notte dal 5 al 6 maggio 1860. Il 7 novembre entrò con Vittorio Emanuele a
Napoli, gli consegnò i risultati del plebiscito e il 9 ripartì per Caprera, rifiutando la nomina a generale
e le ricompense concessegli. L’impresa che univa il Mezzogiorno al Piemonte per formare di lì a poco
il Regno d’Italia apparve subito come l’azione politicamente risolutiva del processo risorgimentale.
Intanto la morte di Cavour parve allontanare il giorno del compimento dell’unità italiana. Scoppiata la
terza guerra d’indipendenza nel 1866, accettò il comando dei volontari; entrò con essi nel Trentino e li
condusse alla vittoria. Dopo l’annessione del Veneto, Garibaldi sentì ancor più urgente la conquista di
Roma.Arrestato e condotto nella fortezza del Varignano, il 25 novembre fu imbarcato per Caprera da
dove salpò solo per partecipare alla difesa della Francia. Negli ultimi anni della sua vita inclinò sempre
più a un socialismo di tipo umanitario e aderì all’Internazionale. In questo periodo aggiornò le sue
Memorie autobiografiche. Morì a Caprera nel 1882.
Sitografia: www.treccani.it
FOTOGRAFIA di Giuseppe Garibaldi
Oggetto Ritratto fotografico di Giuseppe Garibaldi.
Data La fotografia è stata scattata a metà dell’800.
Descrizione Giuseppe Garibaldi in posa frontale a mezzo busto indossa
una camicia rossa, il berretto e il tabarro tipici dell’abbigliamento popolare.
Questa diviene poi una “posa ufficiale” in quanto Garibaldi riteneva fosse
importante rendere noto il proprio volto per l’adesione del popolo. Sotto
la fotografia è presente la firma di Garibaldi, non è però accertata la sua
autenticità.
Tecnica Quest’immagine è stata stampata sul profilo interno di uno
strato di carta sottile e successivamente incollato su un cartoncino. Il
bordo maggiore rispetto al campo fotografico permetteva all’immagine di
conservarsi meglio in quanto l’osservatore, tenendo in mano il ritratto, non
veniva a contatto direttamente con la fotografia.
Dimensioni Misura circa 7x5 cm secondo il formato canonico della
“carte de visite”. Queste dimensioni ridotte avevano riscosso molto
successo all’epoca perchè permettevano una maggiore diffusione tra la
popolazione.
Collocazione Museale Raccolte della Fondazione Ugo Da Como a
Lonato del Garda, Brescia (Archivio fotografico).
242 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 13 Ugo Da Como collezionista risorgimentale
di Goethe, Shakespeare e Foscolo, restando così colpito dallo Jacopo Ortis da volersi vestire
sempre di nero. Iniziò ad esercitare la professione nello studio di un avvocato, ma l’attività che lo
impegnava maggiormente era quella di giornalista presso l’Indicatore genovese, sul quale Mazzini
iniziò a pubblicare recensioni di libri patriottici; la censura lasciò fare per un po’ ma poi soppresse il
giornale.
Nel 1826 scrisse il primo saggio letterario, Dell’amor patrio di Dante, pubblicato poi nel 1837. Il 6
aprile del 1827 ottenne la laurea in diritto civile e in diritto canonico.
Nello stesso anno divenne membro della carboneria, della quale divenne segretario in Valtellina.
La sua attività rivoluzionaria lo costrinse a rifugiarsi in Francia, a Marsiglia, dove organizzò
nel 1831 un nuovo movimento politico chiamato Giovine Italia. Il motto dell’associazione era Dio
e popolo e il suo scopo era l’unione degli stati italiani in un’unica repubblica con un governo
centrale quale sola condizione possibile per la liberazione del popolo italiano dagli invasori stranieri.
Il progetto federalista infatti, secondo Mazzini, poiché senza unità non c’è forza, avrebbe fatto
dell’Italia una nazione debole, naturalmente destinata a essere soggetta ai potenti stati unitari a
lei vicini: il federalismo inoltre avrebbe reso inefficace il progetto risorgimentale, facendo rinascere
quelle rivalità municipali, ancora vive, che avevano caratterizzato la peggiore storia dell’Italia
medioevale.
L’obiettivo repubblicano e unitario avrebbe dovuto essere raggiunto con un’insurrezione popolare
condotta attraverso una guerra per bande.
Durante l’esilio in Francia, ebbe una relazione con la nobildonna mazziniana e repubblicana Giuditta
Bellerio Sidoli, vedova del patriota Giovanni Sidoli.
Mazzini fondò altri movimenti politici per la liberazione e l’unificazione di altri stati europei: la Giovine
Germania, la Giovine Polonia e infine la Giovine Europa.
Mazzini continuò a perseguire il suo obiettivo dall’esilio ed in mezzo alle avversità con inflessibile
costanza. Tuttavia, nonostante la sua perseveranza, l’importanza delle sue azioni fu più ideologica
che pratica.
Fonte: Wikipedia
RITRATTI FOTOGRAFICI di Giuseppe Mazzini
Oggetto Ritratti fotografici di Giuseppe Mazzini.
Dimensioni Ambedue circa cm 7x5, secondo il formato canonico della “Carte de Visite”.
Descrizione Nell’ immagine di destra Giuseppe Mazzini è colto in posizione frontale, seduto su una
sedia, con le gambe accavallate e le mani
appoggiate su di esse. Il suo vestiario appare
semplice ed elegante. Lo sguardo è fisso verso
il fotografo, secondo la moda del ritratto ufficiale
dell’epoca. Nella fotografia di sinistra Mazzini
viene raffigurato a mezzo busto all’interno di
una forma ovale; per ricavare una corretta
focalizzazione del volto il tempo di posa era
molto lungo, infatti si usavano poltrone e sedie
dove il personaggio poteva rimanere fermo il più
possibile.
Data Presumibilmente metà del XIX secolo.
Studio Fotografico Ignoto.
Collocazione Museale Raccolte della
Fondazione Ugo Da Como a Lonato del Garda,
Brescia (Archivio fotografico).
244 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
progetto 13 Ugo Da Como collezionista risorgimentale
Contesto storico Le Dieci Giornate di Brescia furono un movimento di rivolta popolare della
popolazione Bresciana contro l’oppressione austriaca che ebbe luogo dal 23 marzo (il giorno della
sconfitta piemontese a Novara) al primo aprile 1849.
FOTOGRAFIA di Garibaldi ferito sull’Aspromonte
Data seconda metà del XIX secolo
Autore C. Gallino Genova
Dimensioni 13 x 8.5 cm
Collocazione Museale Raccolte della Fondazione Ugo Da Como a
Lonato del Garda, Brescia (Archivio fotografico).
Tecnica Fotografia
Descrizione Questa fotografia descrive Garibaldi ferito
sull’Aspromonte , evento molto significativo durante la famosa
spedizione dei Mille. In questa fotografia Garibaldi, che viene ferito sia
alla coscia sinistra sia al piede destro, è posto al centro ed è sorretto e
circondato dai suoi soldati che accorrono ad aiutarlo e che occupano
la parte centrale dell’immagine. Sullo sfondo si riconoscono i monti
dell’Aspromonte e sul lato sinistro si può notare la
riva di un fiume
Approfondimento Guardando solamente la fotografia non si può cogliere a
pieno la bellezza dell’immagine; conviene perciò rifarsi all’opera originale Garibaldi
ferito sull’Aspromonte di Gerolamo Induno ( olio su tela, Museo Revoltella Trieste)
nella quale i colori descrivono con maggior pienezza l’evento. Nel dipinto infatti, oltre
a Garibaldi, la figura che attira lo sguardo è il personaggio in primo piano a sinistra,
con la tipica camicia rossa dei Mille con la quale sono vestiti molti altri personaggi
del dipinto.
L’INGRESSO DI VITTORIO EMANUELE A BRESCIA
Oggetto Litografia a colori dell’ingresso a Brescia di Vittorio Emanuele.
Data 1860
Tecnica stampa litografica.
Con un pennello ad inchiostro grasso veniva abbozzato il disegno su una
pietra molto spessa. Una volta asciugato l’inchiostro restava la forma che
veniva poi utilizzata come stampo.
Dimensioni 35 X 25 cm
Autore Ferdinando Perrin
Editore Torino editore C. Perrin
Collocazione Museale Raccolte della Fondazione Ugo Da Como a
Lonato del Garda, Brescia.
Descrizione In questa litografia viene rappresentato l’ingresso di Vittorio
Emanuele II in corso Garibaldi a Brescia.Al centro del corso è raffigurato
Vittorio Emanuele a cavallo seguito dal suo esercito di soldati. Sullo sfondo
sono presenti dei caselli poi smontati e sostituiti dalla statua di Garibaldi. In
basso è raffigurata una folla di persone, donne, uomini, bambini che sono
probabilmente appartenenti alla borghesia del tempo, ciò è intuibile dai vestiti
indossati che richiamano gli abiti tipici di quella classe sociale. Sul suolo sono
inoltre presenti fiori forse rose lanciati dagli spettatori dai balconi che ospitano
molta gente. Questa folla che osserva dall’alto il sovrano regge inoltre una
moltitudine di bandiere tricolori, simbolo dell’Italia unita.
247 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia
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Percorsi didattici Unità e identità: 150 anni di storia