Fondazione Il Vittoriale degli Italiani Gardone Riviera Musei Civici d’Arte Storia e Scienze di Brescia Fondazione Ugo Da Como Lonato Le vie dell’arte Percorsi didattici Unità e identità: 150 anni di storia Con il patrocinio di Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Con il contributo e la collaborazione di Regione Lombardia Culture, Identità e Autonomie della Lombardia Rappresentanti istituzioni museali: Giordano Bruno Guerri - Presidente Fondazione Il Vittoriale degli Italiani Elena Lucchesi Ragni - Dirigente Musei Civici di Arte e Storia di Brescia Antonio Benedetto Spada - Direttore Fondazione Ugo Da Como Coordinatore del progetto “Le vie dell’arte” Giovanna Ciccarelli - Consigliere d’Amministrazione Il Vittoriale degli Italiani Coordinatore tecnico Elena Zanini - Didattica museale: Il Vittoriale degli Italiani Coordinatore amministrativo Mirella De Santi Referenti del progetto per i singoli musei Elena Zanini - Il Vittoriale degli Italiani Angela Bersotti - Musei Civici di Arte e Storia di Brescia Stefano Lusardi e Roberta Valbusa- Casa-museo-biblioteca di Ugo Da Como Realizzazione editoriale Marco Serra Tarantola editore isbn 978-88-97107-53-8 www.tarantola.it [email protected] Finito di stampare nel maggio 2011 da Color Art, Rodengo Saiano, Brescia Sommario PROGETTI DIDATTICI Scuole primarie 54 progetto 1 RI…SORGImento e OLTRE Scuola primaria Statale T. Olivelli - Salò 4 Presentazioni istituzionali Relazioni degli esperti ai corsi di aggiornamento 14 Giuseppe Parlato Il processo di unificazione e il problema della Nazione 59 73 79 Valerio Terraroli Dal Vittoriano al Vittoriale. Immagini della Nuova Italia 86 Elisabetta Conti Brescia e l’unità d’Italia 106 Elena Lucchesi Ragni, Maurizio Mondini Il Museo del Risorgimento di Brescia. Dal “padiglione” di Torino (1884) al Palazzo Martinengo da Barco (1893) 134 Luciano Faverzani Ugo Da Como. Uomo pubblico e studioso Sulle tracce del Risorgimento progetto 4 Due chiacchiere con i protagonisti dell’Unità d’Italia Scuola primaria Don Milani - Lonato del Garda 26 48 progetto 3 Scuola primaria Don Milani - Lonato del Garda Giordano Bruno Guerri Il Risorgimento e il Brigantaggio 40 Mille e una patria Scuola primaria Goffredo Mameli - Brescia 24 36 progetto 2 Scuole secondarie progetto 5 Brescia leonessa d’Italia Scuola Secondaria Lana Fermi - Brescia progetto 6 Cantare l’Italia Scuola secondaria Conservatorio Luca Marenzio- Brescia progetto 7 Fisionomie del Risorgimento Scuola secondaria Paola Di Rosa - Lonato del Garda Scuole superiori 142 progetto 8 La formazione del concetto di Italia Liceo Scientifico Enrico Fermi - Salò 160 progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio Istituto Tecnico Cesare Battisti - Salò 181 progetto 10 L’azione e il dramma Liceo Scientifico Copernico - Brescia 207 progetto 11 Le donne del Risorgimento Liceo Sociopsicopedagogico Don Milani - Montichiari 224 progetto 12 La famiglia Da Como nel panorama del Risorgimento bresciano Liceo paritario Paola Di Rosa - Lonato del Garda 235 progetto 13 Ugo Da Como collezionista risorgimentale Liceo Linguistico Istituto Don Milani - Montichiari Unità e identità: 150 anni di storia Progetto di un percorso didattico de “Le vie dell’Arte” Il 2011 è l’anno dedicato alle celebrazioni per il 150° anniversario dell unificazione dell Italia. Questa data, così importante, rappresenta un’opportunità per il coinvolgimento del mondo scolastico, come stimolo per i giovani studenti a riflettere sul passato, a considerare il proprio presente e rivolgersi al futuro in maniera consapevole, al fine di comporre un quadro dell’identità nazionale fortemente condiviso. In tal senso viene proposto al mondo dell’istruzione il progetto Unità e identità:150 di storia, inserito nell’ambito del percorso didattico de Le vie dell’arte, che da sette anni coinvolge docenti e alunni di scuole del nostro territorio in un’esperienza di collaborazione con tre significative istituzioni museali: il Vittoriale degli Italiani, i Musei Civici di Arte e Storia di Brescia, la Fondazione Ugo da Como. A partire dal 2004 l’impegno comune ha portato alla realizzazione di progetti didattici e conseguente pubblicazione di volumi su argomenti vari, ma sempre legati alla cultura del territorio: - Percorsi didattici sulla Vittoria - Sulle orme dei collezionisti - Futurismo nel territorio bresciano Quest’anno, il 2011, il tema proposto assume una valenza particolare, duplice, in quanto - nell’ambito di un’analisi storicoartistico-letteraria del processo che ha portato all’unificazione nazionale si inseriscono temi specifici quali il rapporto tra d’Annunzio e il Risorgimento, la storia del Risorgimento bresciano e del Risorgimento sul territorio, il ruolo infine di uno studioso qual è Ugo da Como – nell’approfondire, dal punto di vista storico, tali temi. Il progetto, data la ricorrenza, è legato all’anno scolastico 2010/2011 ed ha richiesto quindi un particolare impegno da parte dei docenti che, in un solo anno scolastico, hanno affrontato, mi sia consentito dire con entusiasmo e professionalità, corsi di approfondimento, programmazione, realizzazione dei lavori con gli studenti, verifiche in itinere e conclusioni in tempo utile per consentire la pubblicazione del volume. Alcuni dati indicativi sulla partecipazione: - 12 scuole dalle primarie alle superiori - 16 classi - in media 300 studenti Con l’analisi di eventi e personaggi che hanno portato alla nostra unificazione nazionale si ritiene di essere giunti alla conclusione di un ciclo di lavoro comune ampiamente documentato e testimoniato. I ringraziamenti doverosi – ma particolarmente sentiti – sono da rivolgere alla Regione Lombardia che sin dall’inizio ha sostenuto con il proprio patrocinio e contributo tutti i percorsi didattici de Le vie dell’arte, all’Ufficio Scolastico Regionale ed a quello Provinciale, promotori sempre dell’iniziativa nel mondo scolastico, all’Assessorato alla cultura del Comune di Brescia, ad altre realtà tanto significative quali la Fondazione CAB e la Fondazione Comunità Bresciana che hanno ritenuto di riconoscere validità alla nostra proposta, a tutti i numerosi docenti che in questi anni hanno collaborato, creando un gruppo programmaticooperativo con le tre realtà museali e a tutto il personale dei tre Musei impegnato nell’iniziativa. Questa esperienza è la riprova di quanto istituzioni museali ed istituzioni scolastiche, unite in un impegno comune, possano contribuire al conseguimento di un obiettivo prioritario nel processo formativo dei giovani: quello di avvicinarli ai beni culturali, facendo loro vivere consapevolmente e attivamente il patrimonio storico-artistico del proprio territorio al fine di un futuro auspicabile impegno per la sua tutela e valorizzazione. Giovanna Ciccarelli Consigliere d’amministrazione del Vittoriale Coordinatrice del progetto 4 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Il percorso Le vie dell’arte sceglie quest’anno di confrontarsi con una tematica molto attuale: i 150 anni dell’Unità d’Italia. Lo fa, in un panorama variegato di iniziative, con un taglio singolare, non scontato, realizzando un progetto capace di unire l’attenzione ai fatti, ragioni e senso dell’Unità, all’importanza delle radici e delle testimonianze nel nostro territorio: un elemento di validità che, come scuola, vogliamo cogliere perché crediamo possa portare frutto per lo sviluppo del senso di appartenenza ad una comune cittadinanza. In un momento in cui sentiamo sempre più forte la necessità di ritornare a proporre in modo serio quei contenuti che sono la base per costruire le competenze dei nostri ragazzi, Le Vie dell’Arte costruiscono importanti momenti di studio e di approfondimento letterario, storico ed artistico, che non solo offrono un’ulteriore opportunità di innalzamento culturale della nostra scuola, ma diventano anche occasione per un coinvolgimento attivo della scuola stessa in forme di ricerca-azione. Il coinvolgimento diretto degli insegnanti nelle riflessioni e nella costruzione dei percorsi di ricerca costituisce un ulteriore elemento di qualità perché la ricchezza culturale presente sul territorio, conosciuta, riscoperta, trasmessa, approfondita, vissuta nell’attività didattica quotidiana, possa rendere i ragazzi protagonisti su questi stessi temi. È noto che quando i giovani sono coinvolti in prima persona l’apprendimento è certamente migliore e soprattutto più duraturo. Il fatto che l’aspetto cognitivo venga coniugato alla bellezza, e quindi anche alla valorizzazione di ciò che eleva lo spirito e ci permette di guardare al mondo in modo meno piatto e meno banale, rende, in ultima istanza, la nostra istruzione vera educazione. Con soddisfazione registro la convergenza su questi obiettivi di più Istituzioni e sono quindi grata all’Amministrazione Comunale di Brescia, alla Fondazione dei Musei Civici di Brescia, alla Fondazione Vittoriale degli Italiani e alla Fondazione Ugo da Como, che insieme all’Ufficio Scolastico Territoriale della Provincia di Brescia hanno dato vita a questa sinergia, perché Le Vie dell’Arte offrono ai nostri ragazzi un di più che li renderà più solidi e autentici cittadini di questa Italia che noi, nonostante tutto, amiamo e che, proprio per tutto ciò che rappresenta, desideriamo cresca nella consapevolezza delle giovani generazioni per la tradizione storica, i valori che ci uniscono, le bellezze ambientali ed artistiche, la forza delle volontà per azioni di miglioramento, le speranze condivise di un futuro di concordia e di diffuso ulteriore sviluppo sociale, culturale, economico, umano. Maria Rosa Raimondi Dirigente USP 5 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Sulle vie della ricerca, della conoscenza e del bello Con l’Unità d’Italia si realizzava il sogno secolare di poeti, politici e intellettuali. L’Italia “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”, invocata da Alessandro Manzoni, non era più un’astrazione. Oggi le celebrazioni dei 150 anni di Unità, sono importanti, per ricordare un’epopea fondante della nostra nazione, purché si rinunci – almeno in parte – al conformismo retorico e patriottardo: aggettivo che ha poco a che fare con “patriottico”. Si tratta di mettere il Risorgimento in una luce obiettiva, per recuperarlo – vero e intero – nella coscienza degli italiani di oggi e di domani; ovvero continuare a considerarlo un atto necessario e benigno della storia d’Italia, pur con tutti gli errori che sempre accompagnano i grandi eventi epocali. È anche con questo obiettivo che è stato pensato questo lavoro, realizzato dai ragazzi che, fra mezzo secolo, potranno celebrare i duecento anni dell’Unità. Giordano Bruno Guerri Presidente del Vittoriale degli Italiani 6 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Il tema proposto quest’anno da Le vie dell’arte ha permesso agli studenti di indagare gli interessi di Ugo Da Como rispetto al Risorgimento. Tutta la vita del Senatore, gli studi e la passione per il collezionismo furono animati da un profondo sentimento di amor patrio infusogli dal padre Giuseppe, sottotenente di artiglieria nelle guerre di indipendenza. Ugo Da Como, secondo una visione storica di ampio respiro, individuava l’avvio del Risorgimento italiano in quei profondi mutamenti che si maturavano in campo politico e sociale tra il XVIII e il XIX secolo. Ciò che i giovani studenti hanno potuto verificare all’interno della casa-museo, della Biblioteca e degli archivi di Lonato è quanto l’attaccamento nei confronti della Storia risorgimentale riuscisse a manifestarsi anche attraverso oggetti che ancora oggi arredano la dimora del Senatore. Si tratta di sculture, dipinti, incisioni documenti che divengono cimeli in forza del loro valore storico che travalica l’importanza del manufatto artistico o artigianale divenendo essi stessi testimonianza, strumenti evocativi di personaggi o fatti. Ogni oggetto cambia di significato in base al possessore, alle scelte di un collezionista, così come è in grado di offrire informazioni diverse a seconda del tipo di analisi e lettura storica cui viene sottoposto. Il positivismo di matrice ottocentesca che formò la cultura di Ugo Da Como prediligeva il dato documentario, le ricerche archivistiche in grado di fare rivivere le vicende storiche. Il Senatore volle collocare nella propria camera da letto una piccola lettera che provvide a fare incorniciare. Si trattava di un importante ricordo di famiglia, di un prezioso cimelio: la lettera che l’Eroe dei due mondi inviò al padre Giuseppe Da Como per ringraziarlo di una poesia intitolata Trento, composta proprio per Garibaldi. Questo autografo è stato in grado di risvegliare l’attenzione degli studenti che hanno così compreso le ricchezze di cui la Fondazione di Lonato è ricca e di quanto possa essere in grado di alimentare gli studi. Che il Senatore si sentisse partecipe del momento storico in cui viveva lo si comprende molto bene dal fermo impegno quale Uomo di Stato, e dalla serietà con la quale sempre ebbe a difendere l’interesse della Nazione prima come Deputato e poi come Senatore del Regno. Nella casa-museo di Onato il ritratto del re Vittorio Emanuele II e quello di Camillo Benso conte di Cavour sono posti accanto ai ritratti in miniatura di famiglia, in grado di confortare un profondo senso di italianità. Sono quindi molto grato alle insegnanti che hanno seguito il progetto Le vie dell’arte di quest’anno e ai loro studenti, appassionati indagatori della Storia. Un ringraziamento particolare va alla Professoressa Giovanna Ciccarelli Borrello che con grande tenacia e determinazione segue anche per la Fondazione Ugo Da Como i progetti de Le vie dell’arte. Antonio Benedetto Spada Direttore Generale della Fondazione Ugo Da Como 10 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Le vie dell’arte Relazioni degli esperti ai corsi di aggiornamento Tutti i testi delle relazioni provengono dalla trascrizione delle registrazioni effettuate durante il corso. Giuseppe Parlato Il processo di unificazione e il problema della Nazione Nazione e Stato Vorrei iniziare ricordando che le celebrazioni per il 150° dell’Unità nazionale si riferiscono, in realtà e più correttamente, alla costituzione dello Stato unitario. Il 17 marzo 1861 non si compiva l’unità nazionale: infatti mancavano ancora Veneto, Roma, il Trentino e le terre irredente orientali; quel giorno nasceva, per la prima volta in Italia, uno Stato destinato a superare le divisioni secolari e le dominazioni straniere cui la penisola era stata sottoposta dalla fine dell’Impero romano. Da questo punto di vista, il problema unitario italiano è singolare rispetto ad altre realtà europee come la Francia, la Spagna o l’Inghilterra. Nel nostro caso, la nazione viene prima, molto prima, dello Stato, mentre per i Francesi, gli Spagnoli e gli Inglesi lo Stato nasce prima della nazione, anzi, contribuisce a costituirla. Si tratta tuttavia, per il caso italiano, di una nazione essenzialmente letteraria, priva di implicazioni politiche o di prospettive statali. E ciò per molti secoli. Tutto ciò ha un valore particolare. Infatti, mentre la Francia, la Spagna e l’Inghilterra hanno avuto, a partire dal 1100-1300, un esercito, una moneta, una lingua, delle frontiere, una capitale, insomma una struttura politica e amministrativa che ha creato lo Stato ma soprattutto ha contribuito a creare il senso dello Stato, l’Italia, giungendo tardi alla unificazione e alla creazione di uno Stato, ha convissuto per molto tempo con un particolarismo localistico che ha frenato, una volta unita, il suo sentirsi Stato. È, ancora oggi, l’Italia dei mille campanili, degli attuali 8000 e passa comuni. Anche dopo la creazione delle Regioni (1970), gli italiani in buona misura ragionano ancora su base comunale. Scarso è sempre il senso dello Stato, del pubblico, del collettivo, mentre prevalgono l’individualismo, il particolarismo, la visione di uno Stato come “nemico”. Eppure, il senso della nazione e dell’appartenenza sono stati presenti per secoli. L’idea che l’Italia non dovesse più essere soltanto una “espressione geografica” era viva nella mente di molti intellettuali. Basti pensare al concorso del 1796, il primo attraverso il quale si pensò al futuro assetto dell’Italia; il suo titolo era: “Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia?”. Il concetto di felicità era molto “giacobino” e illuminista, e si trattò di un concorso che vide la partecipazione di diversi candidati, segno che il problema, dopo l’arrivo delle armate napoleoniche in Italia era molto sentito. Si era appena iniziato il cosiddetto “triennio giacobino” (1796-1799): con i francesi erano giunte in Italia le idee rivoluzionarie e con esse anche una certa arroganza francese che imponeva, nel migliore spirito del giacobinismo, agli italiani di essere “liberi” e progressisti. Molto si è scritto di negativo sull’esperienza giacobina, forse il primo esperimento totalitario in Italia. Pedagogismo politico, volontà di portare la civiltà a chi, si diceva, non ne aveva, cultura enciclopedica, sradicamento di alcuni elementi obsoleti di tradizionalismo e di assolutismo, ma anche di spirito cristiano, tutt’altro che obsoleto. Le costituzioni giacobine delle varie repubbliche costituite dalle armi francesi fecero bene e male contemporaneamente. Da un lato, svecchiarono un ambiente che aveva bisogno di aria nuova; dall’altro imposero un modello così rigido e così ideologico che poi neppure Napoleone poté più seguire, soprattutto in ordine ai rapporto con la Chiesa e con la religione. Tuttavia, riuscirono a fare entrare in Italia l’idea di Costituzione, e cioè la regolamentazione dei rapporti fra governati e governanti, facendo nascere il moderno stato di diritto in Italia. Il concorso del 1796 nacque in questo contesto: si trattava di ipotizzare un modello organico di governo per l’Italia e vinse il filosofo ed economista piacentino Melchiorre Gioia con un progetto in cui si parlava di un’Italia unitaria e non federale. Negli anni successivi, costituzioni si promulgarono sotto Napoleone, nel Nord Italia, in Toscana, a Napoli. Poi dopo la Restaurazione, a Palermo, a Napoli e a Torino, durante i moti del 1820-21. Infine nel 1848, un po’ in tutta Italia, con quello statuto Albertino che, però, fu l’unico a non essere abrogato dopo la fine infausta della prima fase della guerra contro l’Austria. Da allora il Regno di Sardegna rimase per gli intellettuali e per i patrioti italiani l’unica isola di libertà nel mare di assolutismo ripristinato in tutti gli Stati preunitari. Se l’idea di nazione si sostanziò soprattutto di reminiscenze storiche e letterarie (dall’antica Roma 14 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Il processo di unificazione e il problema della Nazione all’umanesimo, da Dante agli “alfieriani-foscoliani” del primo Ottocento), l’idea di Stato si costruì attraverso le Costituzioni. Questo dato fu importante perché connotò in senso nazionalitario e non nazionalista, in senso liberale e non dittatoriale il nostro passaggio dalla nazione allo Stato. Il “nesso” risorgimentale fu rappresentato, un po’ retoricamente ma con grande efficacia, dalle due scritte che campeggiano incise sull’Altare della Patria: Patriae unitati; Civium libertati. Il monumento a Vittorio Emanuele II è dedicato all’unità della Patria e alla libertà dei cittadini. In effetti, il nostro Risorgimento è segnato dall’idea di nazionalità, quella nazionalità altrui che si rispetta in quanto si pretende il rispetto della propria. È il principio mazziniano della Giovine Europa, ma è anche il principio cavouriano di libertà economica e di Stato di diritto. Lo Stato unitario è quello che ha permesso per la prima volta la verifica attraverso il voto dei governi liberali. Si dirà che il suffragio, all’inizio, era molto ristretto. È vero, ma è anche vero che prima del 1861, negli stati preunitari, non si votava affatto e quelle volte che era stato fatto, il sistema elettorale era durato quanto gli Statuti. Ricordiamo poi che la nascita dello Stato ha permesso agli ebrei italiani di riacquistare la libertà, da quando furono aperti i ghetti che li tenevano prigionieri, a amano a mano che si estendeva a tutta l’Italia lo Statuto Albertino. Si è detto che il Risorgimento è stato fatto con poca fatica, con poche guerre e con poco popolo. Questa notazione fu espressa la prima volta da Alfredo Oriani, il quale non contestava il Risorgimento quanto quello che ne seguì. Il post Risorgimento, lo Stato unitario non avevano la medesima volontà eroica che aveva distinto il Risorgimento: vi era un po’ di stanchezza, un po’ di delusione dovuta alle difficoltà che il nuovo Stato incontrava nel proprio cammino. La critica di Oriani fu poi ripresa da Piero Gobetti il quale parlò di un vero risorgimento, quello “senza eroi”, contrapposto a quello retorico e sabaudo, privo di base popolare. Ciò, da un lato, è vero, perché i contadini non presero parte ad alcuna insurrezione nazionale. Dall’altro lo è un po’ meno perché i contadini non presero parte ad alcun fenomeno politico, né a favore né contro. In compenso vi furono tanti giovani, volontari, militari, artigiani, intellettuali, professionisti. Fu la borghesia, quella intellettuale e quella produttiva, a scendere in piazza per manifestare per l’unità del paese. Se si pensa che solo nei moti costituzionali del 1821 in Piemonte vi furono ben 4.500 persone che ebbero problemi con la giustizia o con la polizia, la partecipazione popolare, per l’epoca, fu tutt’altro che marginale. Se poi aggiungiamo a questo dato la partecipazione ai moti mazziniani del 1830-31, a quelli del 1848, e ancora alla seconda guerra d’indipendenza; poi, ancora i moti mazziniani degli anni Quaranta e Cinquanta, le imprese garibaldine e se aggiungiamo ancora coloro che andarono a combattere per la costituzione spagnola o per l’indipendenza greca, il quadro ci pare tutt’altro che marginale in termini di partecipazione. Certamente uno dei problemi principali fu la rapidità con la quale il processo unitario si concluse in Italia rispetto, ad esempio, a quello tedesco. La Germania, infatti, cominciò a pensare e a realizzare l’unione doganale subito dopo la fine del potere napoleonico; quindi condusse tre guerre (quella dei ducati, quella contro l’Austria e infine quella contro la Francia) e alla fine si unificò vincendo il suo personale braccio di ferro con l’Austria, nel predominio degli stati a lingua tedesca. Per quanto riguarda l’Italia, il processo fu molto più rapido. Il moto unitario tedesco parte nel 1815 e si conclude nel 1870, mentre quello italiano si risolve in ventidue mesi tra il maggio 1859 e il marzo 1861 con l’aggregazione al Regno di Sardegna dei preesistenti Stati italiani attraverso un complesso intreccio fra movimento popolare, diplomazia, guerra di eserciti regolari e di formazioni volontarie e plebisciti. La fase insurrezionale e la prima guerra d’indipendenza Il 1849 segnava la fine della strategia insurrezionale. Il Piemonte di Carlo Alberto si era deciso a muovere guerra all’Austria nella convinzione che quella guerra avrebbe determinato una vasta insurrezione popolare contro l’Austria e i suoi stati satelliti in Italia. In una prima fase ciò sembrò avverarsi: il Pontefice, Pio IX, aveva fatto ampie aperture al problema italiano, mentre i moti del ’48 avevano determinato in tutta Italia la concessione degli Statuti. Nel gennaio 1848 era insorta Palermo in un moto liberale e separatista, contro i Borboni che si concluse con il ripristino della Costituzione siciliana del 1812. L’estensione della rivolta a Napoli costrinse Ferdinando II a promulgare una costituzione, imitato in questo da altri sovrani italiani: tra il febbraio 1848 e il marzo anche Carlo Alberto nel Regno di Sardegna, Leopoldo in Toscana e il Papa Pio IX fecero altrettanto. Si trattava di Statuti molto moderati, che in genere si rifacevano alla costituzione francese del 1830. Mentre in Italia il processo costituzionale pareva controllato dai sovrani, in Francia una rivoluzione popolare rovesciava Luigi Filippo e proclamava la seconda repubblica, dalle forti tinte socialiste. Ma pochi mesi dopo, Luigi Napoleone Bonaparte sarà nominato presidente della 15 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Giuseppe Parlato Repubblica e indirizzerà la Francia verso il secondo impero. Anche il pericolo della evoluzione socialista della rivoluzione europea preoccupò non poco i liberali, i quali volevano certamente la costituzione ma non volevano concedere il potere nelle mani del proletariato, come la Francia aveva rischiato. Questo elemento fu decisivo nel convincere i sovrani più illuminati a procedere con le riforme prima che il socialismo d’oltre Alpe determinasse cambiamenti troppo radicali. L’eco dei fatti parigini si diffuse in Germania e in Austria, facendo una prima vittima illustre, il principe di Metternich, che fu allontanato dall’imperatore austriaco dopo un trentennio di governo. A Venezia il 17 marzo e a Milano il 18 scoppiavano due importanti insurrezioni; a Milano si chiedono riforme, si scende in piazza e dopo cinque giorni il comandante austriaco Radetzky abbandona la città lasciandola in mano degli insorti. A Venezia Daniele Manin e Niccolò Tommaseo cacciano gli austriaci e proclamano la Repubblica di San Marco. Appare evidente, tenendo conto anche di quel che accade nei ducati di Modena e di Parma, dove gli insorti fanno fuggire i sovrani e in Toscana, dove scoppiano a Firenze e a Livorno altre insurrezioni, che il processo unitario si sta formando attraverso il metodo insurrezionale. La disponibilità del Pontefice a guardare con attenzione e simpatia alle manifestazioni di italianità appare come una garanzia per il futuro. Carlo Alberto ritiene così sia giunta l’ora della guerra contro l’Austria, la quale sembra sconvolta dalle insurrezioni anche interne e non appare così solida. In più, il re di Sardegna spera che la guerra possa unire tutti gli stati italiani nella lotta contro Vienna e portare alla unificazione. Molti dei rivoluzionari che erano stati condannati all’esilio dopo i moti del 1821 in Piemonte o che erano fuggiti per non essere incarcerati, tornano a Torino per unirsi alla guerra contro l’Austria, che corona le loro più profonde aspirazioni. Ma le cose non vanno esattamente così. La guerra comincia il 26 marzo 1848 e dopo i primi successi, anche significativi, a Goito, a Valeggio e a Monzambano, le truppe piemontesi si arrestano permettendo agli austriaci di organizzarsi. Tra l’altro, la vittoria di Goito fu determinata dal sacrificio degli studenti toscani (pisani e senesi) i quali impegnarono il 29 maggio gli Austriaci a Curtatone e a Montanara nonostante fossero inferiori di numero e male addestrati. Gli studenti e i loro professori resistettero strenuamente bloccando gli Austriaci e permettendo ai Piemontesi di sfruttare l’occasione e battere il nemico a Goito. Si trattò di uno degli episodi più significativi del Risorgimento, al quale furono dedicate molte opere artistiche, a cominciare dal famoso quadro del Fattori. Da allora, il 29 maggio è giorno festivo all’Università di Pisa. Inspiegabilmente, invece di sfruttare il momento favorevole (Vienna era ancor impegnata a risolvere i problemi interni determinati dalle insurrezioni nell’Impero), Carlo Alberto si arresta per due mesi a Peschiera, una delle città del famoso quadrilatero e a Custoza, nel luglio successivo il riorganizzato esercito austriaco batte duramente quello piemontese, l’intera Lombardia viene abbandonata. Nel frattempo i principi italiani abbandonano il Piemonte: il Papa si ritira dalla guerra abbastanza presto, già ad aprile, seguito dalla Toscana e da Napoli. Ferdinando II con un colpo di Stato revoca lo Statuto e reprime duramente i moti liberali. Dopo l’armistizio dell’agosto 1848, l’iniziativa passa ai democratici. In Toscana Montanelli lancia l’idea della Costituente italiana; il Granduca lascia Firenze e nel febbraio ’49 anche la Toscana e il governo provvisorio viene assunto da Montanelli e Mazzoni. A fine gennaio a Roma i rivoluzionari uccidono il ministro riformista Pellegrino Rossi e il Papa fugge dalla città rifugiandosi a Gaeta, lasciando un vuoto di potere subito riempito da una Costituente repubblicana con a capo Mazzini, Armellini e Saffi. La Repubblica romana durò dal febbraio al luglio 1849 e costituì il punto più alto della fase rivoluzionaria nel Risorgimento. Sembrò, anzi, che nonostante la sconfitta militare, il movimento insurrezionale potesse riprendersi e realizzare una grande rivoluzione democratica. In effetti, a Venezia, a Roma e a Brescia (insorta il 23 marzo 1849, in concomitanza con la ripresa delle ostilità da parte di Carlo Alberto) la rivoluzione era ancora viva. La seconda fase della guerra avrebbe dovuto dare ai moti insurrezionali l’aiuto definitivo, anche se l’atteggiamento di tutti i principi italiani lasciava poco spazio alle illusioni. Ma la ripresa del conflitto fu disastrosa e in una settimana la sconfitta di Novara tolse ogni speranza. Mal diretto, l’esercito piemontese si lasciò circondare da Radetzky e fu battuto definitivamente. Brescia cadde il 1° aprile, Roma il 4 luglio, il giorno dopo la proclamazione della Costituzione della Repubblica, una sorta di viatico per il futuro, e Venezia il 24 agosto, piegata dalla fame e dalla carestia. Con la resa di Venezia sembra che tutto sia finito. Il processo unitario italiano sembra fallito. I democratici, accusati dai moderati di avere spaventato i sovrani e il Papa con le loro costituzioni e con i loro progetti rivoluzionari, ripiegano sulla linea mazziniana: l’insurrezione come momento pedagogico, al di là dell’esito. Mazzini è l’unico a credere ancora nella possibilità di una rivoluzione ed è anche l’unico a pensare a un 16 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Il processo di unificazione e il problema della Nazione partito politico, in quel momento. La Giovane Italia, nata nel 1831, diventa sempre più un partito nazionale. Mazzini ha ormai rotto da tempo con le conventicole massoniche o carbonare e punta alla creazione di un movimento di opinione nazionale, repubblicano e unitario che possa coinvolgere sempre strati più ampi della popolazione. In effetti, con il 1849 avevano fallito un po’ tutti, non solo Mazzini. Avevano fallito tutti i democratici di varia osservanza, dal Gioberti neoguelfo prima ed estremista democratico nell’ultima fase della guerra del Piemonte contro l’Austria, fino al Cattaneo e al Ferrari che propugnavano una repubblica basata sul federalismo. Era rimasta in pedi soltanto l’opzione politica del liberale Cavour, con alcune correzioni rispetto al moderatismo piemontese di Balbo e d’Azeglio, a cominciare dal ruolo di Roma e dalla capacità del Conte di cogliere l’importanza del messaggio mazziniano, non tanto nei suoi aspetti ideologici, che poco gli interessavano, quanto nella loro capacità di essere momento trainante del fenomeno popolare unitario. Tuttavia, il mazzinianesimo andò in crisi qualche anno dopo, ed esattamente nel 1853, con i moti milanesi, anche questi falliti. Per Mazzini il fallimento era dovuto essenzialmente al fatto che l’insurrezione non aveva avuto un solo centro di coordinamento a livello nazionale; nello stesso periodo il federalista Cattaneo pensava che dovesse diventare federale anche la rivoluzione, ipotizzando la necessità di otto centri diversi di coordinamento, uno per ciascuno degli Stati nei quali l’Italia allora si divideva. Ma nonostante la lucidità dell’analisi, per Mazzini si avvicinava la fine politica: con il fallimento dei moti milanesi del 1851-52, il mazzinianesimo andò in crisi. E dire che quello milanese era stato un moto, per la prima volta, con una chiara connotazione sociale, avendo visto anche la partecipazione di elementi provenienti dalle classi sociali più umili. Fu anche questo elemento a disorientare e a preoccupare i ceti borghesi della capitale lombarda, i quali fino ad allora avevano dato il proprio contributo all’idea nazionale. e anche fra gli stessi mazziniani ci fu chi disapprovò quella virata in senso socialista. Nell’opuscolo Agli Italiani, scritto da Mazzini nel marzo 1853, si ribadiva, in una sorta di descrizione giustificatoria, la bontà della sua strategia; se i moti non erano riusciti, ciò era dipeso dalla codardia delle classi dirigenti della penisola, che non avevano avuto il coraggio di appoggiare i moti. Tuttavia, il nuovo fallimento, l’anno successivo, dei moti in Lunigiana, guidati da quel Felice Orsini che qualche anno dopo avrebbe attentato alla vita di Napoleone III, mettendo in seria discussione la politica di alleanza che Cavour stava tessendo con l’imperatore francese, dimostrò come il “Partito d’Azione” fosse riuscito ad avere grande visibilità anche a livello europeo ma contemporaneamente risultasse alla fine del tutto marginale nell’ambito del processo unitario. Per altro, proprio in quel periodo, alcuni mazziniani decidevano di iniziare una forma latente ma efficace di collaborazione con il Piemonte cavouriano: l’esempio più significativo fu senza dubbio quello di Manin. Ciò indusse Mazzini a prendere delle contromisure per evitare l’isolamento proprio nel mondo democratico. E la soluzione fu quella di avvicinarsi anch’egli a Cavour. La strategia dei due personaggi fu complessa ma tutto sommato utile ad entrambi. Per Mazzini, come si è detto, si trattava di evitare il rischio di un isolamento politico; in secondo luogo egli pensava che se fosse riuscita una delle tante insurrezioni (vi fu addirittura un quarto tentativo insurrezionale in Lunigiana, finito come i precedenti), avrebbe potuto trattare con Cavour in condizioni di forza, sperando di bloccare sul nascere quella che sembrava la prospettiva più evidente, e cioè un incontrastato dominio cavouriano nel processo di unificazione. Per Cavour il discorso era evidentemente diverso: il Conte voleva collaborare sotto traccia con Mazzini principalmente per controllare le spinte eversive che si venivano preparando; inoltre riteneva che se uno dei tentativi mazziniani avesse avuto successo, avrebbe determinato la reazione austriaca e quindi avrebbe imposto un intervento piemontese contro l’Austria, che alla fine era il vero obiettivo del Conte. Se invece i tentativi mazziniani non fossero andati a buon fine (ed era l’ipotesi più probabile), Cavour si sarebbe servito proprio della eco che tali conati insurrezionali avrebbero avuto in Europa per convincere le diplomazie che la strada da battere era quella del sostegno diplomatico alla causa italiana diretta da Torino, onde evitare il dilagare dei fermenti rivoluzionari in Europa. In questo senso va vista l’impresa di Pisacane, l’ultimo tentativo di Mazzini per ribaltare una situazione che gli era diventata gravosa sotto ogni punto di vista. Per Mazzini la spedizione di Sapri aveva più di un elemento di interesse: in primo luogo essa coinvolgeva un indirizzo fortemente sociale e il Genovese pensava che questo taglio politico avrebbe avuto successo nel Sud. Inoltre, una insurrezione nel meridione (ma con due “varianti” che non ebbero successo, a Genova e a Livorno) avrebbe spiazzato Cavour, spostando il centro di interesse insurrezionale dalla Lombardia a una zona, il Sud, appunto, nella quale il liberalismo piemontese non sarebbe potuto arrivare. Infine, con questa azione, Mazzini puntava a tagliare la strada a un probabile tentativo insurrezionale condotto dal cugino di Napoleone III, Lucien Murat, il figlio di Gioacchino, sempre per cercare di porre nuovi ostacoli alla strategia cavouriana. 17 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Giuseppe Parlato L’ondata di critiche di cui Mazzini fu oggetto dopo l’impresa di Pisacane fu pesantissima. Molti mazziniani decisero di passare con Cavour: oltre al già citato Manin, vi erano La Farina e, soprattutto, Garibaldi, il quale non condivise per nulla l’ostinazione di Mazzini e il suo non volere cogliere quei segnali che da Torino giungevano in vista di una soluzione diplomatica della questione nazionale. La fase diplomatica, la guerra del ’59 e la conclusione del processo unitario Quella che invece emerse come via principale, anche se molto difficile, fu quella di Cavour che si fondava sul difficile ma non impossibile coinvolgimento delle diplomazie europee per suscitare l’interesse nel problema italiano. Com’è noto, tutto inizia con la guerra di Crimea, dalla quale il Piemonte di Cavour non ha, e non vuole avere, vantaggi territoriali ma semplicemente partecipare alle trattative del Congresso di Parigi sottolineando la grave condizione dell’Italia e il rischio che una volta o l’altra una insurrezione faccia andare il processo unitario verso lidi rivoluzionari e non verso più rassicuranti sponde moderate. L’operazione è un successo e per dimostrarlo basterebbe vedere le reazioni del mondo germanico, che vedeva nel Piemonte l’omologo della Prussia e nella liberazione dall’influenza austriaca il primo passo per l’unificazione tedesca. Da Parigi a Plombières il passo è breve, anche se l’azione di Cavour non fu mai del tutto scontata e semplice. A Plombières, con Napoleone III, Cavour disegna l’ipotesi di una divisione dell’Italia in tre Stati: il nord ai Savoia, il centro a un principe francese, il sud, forse, al figlio di Murat. Il tutto con il Papa presidente di una Confederazione italiana con il Lazio indipendente come Stato pontificio. L’accordo avviene poche settimane dopo l’attentato di Felice Orsini contro l’imperatore francese: è il colpo di coda dei mazziniani: dopo i fratelli Bandiera (1844), dopo i moti milanesi (1851 e 1853), dopo i martiri di Belfiore (1852), dopo Pisacane (1857), Orsini rappresenta l’ultimo tentativo di Mazzini di mettersi di traverso rispetto alla strategia di Cavour. Una strategia pericolosissima, per Mazzini, in quanto si sottrae all’Italia l’iniziativa autonoma di indipendenza. Rivolgersi ad altre potenze straniere – come in questo caso la Francia – significa perpetuare la condizione di sudditanza dell’Italia e non realizzare la rivoluzione nazionale contro lo straniero. Per fortuna Cavour è molto abile nel condurre anche l’episodio Orsini alle sue strategie: convince Napoleone che l’attentato conferma che o si fa l’Italia con la diplomazia e il moderatismo, oppure si farà lo stesso con i rivoluzionari. Nello stesso tempo, i reiterati fallimenti mazziniani provocano una revisione critica nel movimento democratico: a cominciare da Garibaldi, molti esponenti del partito d’azione incominciano a prendere le distanze dall’atteggiamento intransigente di Mazzini e si avvicinano lentamente ma sempre più a Cavour, accettando il metodo diplomatico ma cercando di non perdere i valori democratici espressi in precedenza. Quando nel 1857 si costituisce la Società Nazionale per opera di Daniele Manin, il primo ad abbandonare la metodologia mazziniana, vi è l’adesione di Garibaldi e di molti democratici ma vi è anche la silenziosa adesione di Cavour che utilizzerà gli aderenti alla Società nazionale come emissari nei vari stati italiani per essere edotto sempre con precisione della situazione politica locale. Non è facile per Cavour arrivare al casus belli con Vienna. Gli accordi con Napoleone erano chiari: l’appoggio francese ci sarebbe stato solo se l’Austria avesse attaccato il Piemonte. Di qui il lungo lavorìo di Cavour per indurre gli austriaci ad attaccare Torino. Intanto si mobilita l’esercito e affluiscono centinaia di volontari provenienti da tutta Italia, guidati da Garibaldi, in attesa della guerra all’Austria. La Russia si rende conto del pericolo e propone una conferenza europea per risolvere la questione italiana; l’Austria, che non vuole la conferenza, propone il disarmo al Piemonte e Napoleone, inopinatamente, si trova d’accordo. Per Cavour sembra franare tutto. Si oppone al disarmo e questa mossa, quasi disperata, fa precipitare la situazione. Vienna manda un ultimatum a Torino per indurre il Piemonte a cedere; ma con l’ultimatum il Piemonte figura come aggredito e Cavour ha buon gioco nel fare scattare le clausole dell’alleanza con la Francia. La guerra inizia a fine aprile del 1859 e si conclude due mesi più tardi con le due battaglie di Solferino e San Martino (24 giugno), ben prima di quanto avessero previsto gli accordi con Napoleone III. I francesi infatti pagano un tasso altissimo in termini di vite umane: fu in quella occasione che a Henry Dunant venne l’idea di creare la Croce Rossa internazionale, in considerazione dell’altissimo numero di caduti in battaglia (circa trentamila nei tre eserciti che vi parteciparono) e della confusione nei soccorsi. Dopo quella battaglia che i franco-piemontesi vinsero nettamente, gli austriaci furono cacciati al di là del Mincio e Napoleone III pensò bene di iniziare le trattative con Vienna per raggiungere un accordo. Il 12 luglio, con l’armistizio di Villafranca, la guerra era di fatto conclusa con l’acquisizione al Regno di Sardegna della sola Lombardia. Una scelta questa che Cavour non condivise assolutamente: i patti a Plombières non erano questi. Perciò si dimise. 18 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Il processo di unificazione e il problema della Nazione Tuttavia, la fortuna aiutò il processo unitario italiano. Nella successiva Pace di Zurigo (novembre 1859), che sancì la conclusione di un conflitto durato meno di tre mesi, si prevedeva che l’Austria cedesse alla Francia la Lombardia (che poi Parigi cedette al Regno di Sardegna), che i sovrani dei ducati italiani, cacciati dalle insurrezioni popolari che si verificarono durante la guerra, venissero reintegrati nei loro Stati, che si creasse una confederazione italiana presieduta dal Pontefice, sulla base di una vecchia idea di Gioberti che non si era attuata dieci anni prima. Tale soluzione risultava sgradita a molti, a cominciare dai francesi, in quanto garantiva in sostanza la presenza austriaca in Italia; le popolazioni dei ducati italiani non furono di massima d’accordo sul ritorno dei sovrani già spodestati; pertanto, i liberali dei ducati emiliani e della Toscana preferirono procedere subito all’annessione al Regno di Sardegna pur di evitare il ritorno dei duchi sui rispettivi troni. A questo punto Cavour capì di avere di nuovo il gioco in mano. Tranquillizzati i francesi, ai quali andarono Nizza e Savoia, le terre cioè promesse a Plombières ma non ancora date dal Piemonte a causa dell’interruzione del conflitto a Villafranca, annessi i ducati emiliani e la Toscana, la situazione appariva di nuovo favorevole al Regno di Sardegna e a Cavour, il quale era assolutamente deciso a realizzare, a questo punto più rapidamente, la creazione di uno Stato italiano nella parte settentrionale e centrale della penisola. Cavour, che si era dimesso nel luglio 1859 a causa della interruzione della seconda guerra d’indipendenza, ritorna nel gennaio 1860 alla guida del governo di Torino e indice i plebisciti in Toscana e in Emilia, che danno un voto nettamente favorevole all’annessione al Regno di Sardegna. Ad aprile, un altro referendum sanciva il passaggio di Nizza e della Savoia alla Francia. Solo a questo punto si realizza un clima internazionale favorevole all’unificazione italiana. Londra, che pragmaticamente era rimasta scettica sull’esito del processo unitario italiano, si decide a manifestare un atteggiamento favorevole alla politica del Cavour, anche perché il capo del governo piemontese si affretta a chiarire alle potenze europee che l’iniziativa piemontese era l’unica che potesse garantire una evoluzione moderata della situazione italiana, evitando il prevalere dei rivoluzionari alla Mazzini e alla Garibaldi. Anche la Prussia risultava favorevole all’unificazione italiana, assimilando la sua azione presso la Confederazione germanica a quella di Cavour: l’ostilità contro l’Austria era tale che i tedeschi preferirono rischiare un aumento dell’influenza francese in Italia pur di diminuire l’influenza austriaca nella Confederazione. La rapidità con la quale l’unificazione italiana fu compiuta suscitò nei liberali tedeschi più avanzati e progressisti una grande curiosità e una forte invidia; nei conservatori invece suscitò preoccupazione, perché la sconfitta dell’Austria e, soprattutto, il coinvolgimento della Francia potevano preludere a un nuovo e più massiccio impegno francese in Italia. Insomma, non piaceva un’Italia colonizzata dalla Francia. Ma non era finita. Nell’aprile 1860 la insurrezione di Palermo contro i Borboni, sapientemente tenuta desta dall’azione di Rosolino Pilo e di Crispi, induce Garibaldi a intervenire in appoggio agli insorti. Il 5 maggio il “Piemonte” e il “Lombardo” salpavano da Quarto e sei giorni dopo sbarcavano a Marsala. La rapida conquista della Sicilia induceva Cavour ad assecondare l’azione di Garibaldi, dopo averla invano osteggiata nelle sue fasi iniziali. A settembre il generale entrava in Napoli e il problema di Cavour diventava un altro: impedire a Garibaldi di continuare la sua corsa verso Roma, bloccandolo a Napoli. A questo punto si poneva il problema di inviare un esercito nel Sud per mostrare come la strada di Roma fosse preclusa, pena la reale possibilità di un intervento francese a difesa di Roma. Il che avrebbe vanificato completamente ogni progetto piemontese. Il Papa non dava il consenso al passaggio delle truppe piemontesi dirette a Sud e i generali Cialdini e Fanti venivano incaricati di attaccare le truppe pontificie a Castelfidardo. Caduta Ancona, la strada per il Sud era aperta: nel novembre il re si incontrava con Garibaldi a Teano e il generale rimetteva il potere delle province meridionali nelle mani di Vittorio Emanuele II. Cavour nell’ottobre-novembre procedeva ai nuovi plebisciti nel Regno delle Due Sicilie, nelle Marche e nell’Umbria. Il 17 marzo successivo veniva proclamato il Regno d’Italia e dieci giorni dopo Roma era proclamata capitale d’Italia pur essendo ancora sotto il dominio papale. Una evoluzione assai rapida, in buona parte casuale: se l’Austria non fosse caduta nella trappola delle provocazioni piemontesi e non avesse dichiarato guerra a Torino nell’aprile 1859, tutta la costruzione di Cavour sarebbe stata vana. Se dopo Villafranca, nella pace di Zurigo, l’Austria non fosse stata così esplicita nel prevedere la restaurazione dei duchi nei rispettivi stati; se Garibaldi avesse trovato una forte resistenza in Sicilia e in Calabria; se il Papa non si fosse opposto al passaggio delle truppe nelle Marche e nell’Umbria, probabilmente il processo unitario italiano si sarebbe realizzato diversamente e con tempi assolutamente più lunghi. 19 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Giuseppe Parlato I problemi del nuovo Stato e le interpretazioni degli storici L’unificazione italiana, quindi, è avvenuta molto tardi e, nello stesso tempo, molto rapidamente. L’Italia è diventata uno Stato molto tardi rispetto agli altri Stati europei, quasi fuori tempo massimo, nel senso che la seconda metà dell’Ottocento è già l’epoca dell’imperialismo e i processi unitari sono già finiti da un pezzo nelle grandi potenze. Molto rapidamente perché, come si è già detto, rispetto, ad esempio, alla unificazione tedesca, l’Italia ha avuto molto meno tempo per metabolizzare l’unificazione, per decidere quale tipo di organizzazione statale potesse meglio servire per unificare un territorio che da secoli era diviso e che non aveva che un’idea letteraria e culturale dell’unità. Inoltre, la morte prematura di Cavour a poche settimane dalla proclamazione del Regno complicò molto la questione. L’imprevista dipartita del geniale realizzatore dell’unità nazionale determinò un grave vuoto di potere in Italia, mentre gli errori fatti dalla classe dirigente sul brigantaggio (sottovalutazione del fenomeno, in un primo momento, e durezza nella repressione successivamente) condizionarono i primi anni del nuovo Stato. Sicuramente influì anche il fatto che il brigantaggio fosse sostenuto dallo Stato pontificio e questo sostegno era finalizzato a una restaurazione borbonica nell’Italia meridionale. La soluzione federalista, che lo stesso Cavour non aveva affatto escluso e che aveva in Minghetti il suo più deciso sostenitore, partiva proprio dalle tante diversità del giovanissimo Stato e dalla considerazione che fosse impossibile gestire con una struttura fortemente centralizzata un sistema politico e amministrativo che da secoli si basava su un modello municipalistico. Storicamente, prevaleva ancora la vecchia struttura comunale che aveva lasciato in eredità una grande autonomia delle città. Non a caso, Minghetti aveva preso a modello il suo decentramento amministrativo dalle esperienze belga e svizzera. Ma le ragioni che si son dette, e cioè il timore che l’azione dei briganti potesse determinare spinte centrifughe e vanificare il processo risorgimentale, consigliarono, quasi imposero, una struttura “alla francese”, fortemente legata al centro che, allora, era Torino, non ancora Firenze o Roma. Di qui le incomprensioni, la durezza della repressione, in una lotta senza esclusione di colpi da parte dei briganti contro lo Stato e da parte dello Stato contro i briganti. Sul fenomeno si è detto poco e male nel corso dei decenni successivi, come se tenere nascoste le cose com’erano andate potesse evitare al nuovo Stato altri problemi. In realtà, su questa necessità di verità si sono inserite analisi che invece portavano alla condanna senza appello delle strutture del nuovo Stato e ci fu chi, anche successivamente, pensò che l’intero processo risorgimentale, a cominciare dall’avvenuta unità, dovesse essere messo in discussione. In realtà, fin dall’immediato post-Risorgimento vi fu chi pensò di sottolineare come da un mondo eroico e combattentistico si era passati a una politica meramente amministrativa: già Oriani, come si è già ricordato, aveva posto l’accento sulle deficienze di un Risorgimento poco combattuto, poco glorioso, fatto senza, se non contro il popolo. Questa tesi, che poi finì a costituire una delle basi della interpretazione del Risorgimento pensata dal fascismo (e in particolare dalla sinistra fascista), era stata fatta propria dopo la prima guerra mondiale da Piero Gobetti il quale si pose il problema di come era stato possibile l’avvento del fascismo in uno Stato che era stato segnato dal Risorgimento. Gobetti non avrebbe mai accettato la tesi crociana della parentesi e della improvvisa malattia morale di un corpo precedentemente sano; piuttosto egli si pose il problema se non vi fossero già delle deficienze in nuce nel processo risorgimentale. Questa interpretazione è stata quella più diffusa e anche oggi tutte le tesi neoborboniche (anche proposte da ambienti di destra) o quelle leghiste, o quelle cattolico-tradizionaliste, costituiscono delle inconsapevoli (per lo più) volgarizzazioni della vecchia tesi gobettiana. Contemporaneamente emerse anche una tesi fascista, quella soprattutto che si deve a Giovanni Gentile, la quale vedeva nel fascismo l’inveramento del Risorgimento. Anche per Gentile (e ancor di più nella sinistra fascista, quella che valorizzò Mazzini e la Repubblica romana in funzione anticonservatrice e antisabauda fino all’epoca della Rsi) il Risorgimento, ma soprattutto lo Stato liberale da esso nato, era stato incapace di procedere alla nazionalizzazione delle masse e pertanto soffriva di pecche quali l’eccessiva democrazia, la debolezza dell’esecutivo, l’incapacità di pensare a una forte politica internazionale. Il fascismo avrebbe realizzato quello che lo Stato liberale non era riuscito a fare. Nella sua interpretazione essenzialmente filosofica, Gobetti volle interpretare le difficoltà del Risorgimento attraverso la mancata riforma religiosa in Italia; la controriforma cattolica, infatti, avrebbe impedito la creazione di un valido senso dello Stato, avrebbe impedito l’affermarsi della laicità, del progresso e della vera rivoluzione sociale, che Gobetti vide nei Consigli di Fabbrica nel biennio rosso e in certi aspetti della rivoluzione d’ottobre. Per cui il Risorgimento era stato il primo momento negativo dell’Italia contemporanea. Poi sarebbero venuti il trasformismo, le velleità coloniali, il giolittismo, corrotto e 20 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Il processo di unificazione e il problema della Nazione corruttore, infine il nazionalismo (interpretato da Salvatorelli come nazionalfascismo) e infine il fascismo, inteso come autobiografia (negativa) della nazione. Dopo la seconda guerra mondiale, la ovvia damnatio memoriae subita dal fascismo, trascinò con sé anche la stessa idea di nazione. L’idea di considerare la nazione come momento essenziale dell’identità di un popolo veniva scartata in luogo delle grandi culture ideologiche affermatesi nel dopoguerra. Se la cultura politica liberale e laica di matrice risorgimentale aveva comunque operato una distinzione fra nazione e nazionalismo, era passata, anche mediaticamente, l’idea opposta, e cioè che fosse proprio il soffermarsi sul concetto di nazione ad impedire il vero progresso del paese, che invece avveniva attraverso la visione marxista della società ovvero attraverso la concezione cattolica del rapporto fra politica e società. Quest’ultima, per la verità, non era contraria al processo risorgimentale, avendo i cattolici compiuto un percorso che dall’Opera dei Congressi, ancora segnata dall’intransigentismo cattolico antiunitario, li aveva portati all’accettazione dello Stato liberale e alla conciliazione con il Risorgimento, anzi, riscoprendo filoni filounitari nello stesso mondo cattolico. Per altro, proprio dalla scuola economico-giuridica venne il passaggio della interpretazione marxista del Risorgimento nella storiografia del dopoguerra. Gramsci ne fu il principale esponente, anche se con la scuola di Volpe e Salvemini ruppe quasi immediatamente. Il discorso di Gramsci è sintetizzabile nella polemica fra Mazzini e Marx in ordine alla rivoluzione dell’Ottocento, per il primo condotta in nome della nazione e per il secondo in nome della classe; una classe che superava la nazione come veicolo rivoluzionario e come capacità di mobilitare le masse. Da una parte il popolo e dall’altro il proletariato; da una parte la rivoluzione nazionale che comprende e fa propria le istanze sociali del popolo, dall’altra la rivoluzione sociale che annulla le differenze nazionali in un’ottica internazionalista. Per Gramsci il modello è la rivoluzione francese, nella sua valenza giacobina: come i giacobini avevano saldato il popolo tra Parigi e masse contadine, così il Risorgimento per essere efficacemente rivoluzionario, avrebbe dovuto suscitare una vera rivoluzione sociale unendo gli intellettuali e i borghesi alle masse contadine e operaie dell’Ottocento. Diversamente il Risorgimento è una rivoluzione fallita. In Gramsci la dualità tra città e campagna (di fatto tra Nord e Sud), non risolta attraverso la mancata rivoluzione sociale, permane nel tempo a segnare l’impossibilità di una vera rivoluzione in grado di mutare il modello di sviluppo. La colpa di Mazzini e del partito d’azione è stata quella di non avere imitato i giacobini: se ci fosse stata una saldatura fra elemento cittadino (industriale e operaio) ed elemento contadino, la rivoluzione si sarebbe fatta contro l’Austria e contro i proprietari terrieri: la guerra civile non avrebbe depotenziato il moto risorgimentale ma lo avrebbe incanalato verso una rivoluzione sociale. Anche la tesi di Gramsci, spesso inconsapevolmente, è richiamata nelle critiche attuali al Risorgimento, soprattutto da parte della produzione meridionalistica, quella che vede il Risorgimento come mera conquista piemontese. L’interpretazione di Gramsci è stata considerata troppo “a tesi” e ideologica da molti storici, da Galasso a Chabod, da Croce a Romeo: l’Italia non era la Francia; il processo di industrializzazione francese e di presa di coscienza di una borghesia non era affatto come quello francese; e, per altro, neppure in Francia la tesi di Gramsci finisce con l’avere un valore, posto che la vera rivoluzione, quella liberale, come ha dimostrato Furet, non l’hanno fatta i giacobini, ma i moderati della Gironda e, soprattutto, i conservatori del Termidoro. In particolare, la critica di Romeo alla tesi di Gramsci, portata sul terreno della storia economica, ha costituito un punto di riferimento, anche etico-politico, per quanti si sono riconosciuti in una accettazione, pur con le molte contraddizioni dello Stato risorgimentale. Dopo avere contestato la questione della rivoluzione sociale in luogo di quella nazionale, impossibile per Romeo a causa delle condizioni sociali dell’Italia preunitaria, Romeo non nega che l’industrializzazione del Nord sia stata fatta a scapito dell’agricoltura del Sud, ma afferma che si trattò di una scelta necessaria per raggiungere un buon livello di industrializzazione; per altro lo Stato unitario non era riuscito a realizzare una effettiva nazionalizzazione delle masse, che si ebbe soltanto con la prima guerra mondiale e, seppure in un’ottica illiberale, con il fascismo. Secondo Romeo, che è stato sicuramente, anche attraverso la biografia di Cavour, lo studioso più completo nell’analisi dell’Italia liberale, il nuovo Stato unitario risultò sicuramente assai diverso dalle culture politiche che lo avevano ispirato: in luogo della “Roma del Popolo” di mazziniana memoria, vi era uno Stato incapace di risolvere la questione religiosa; in luogo di un’Italia che fosse la patria di tutti gli Italiani, vi era uno Stato che consacrava il privilegio di una minoranza e che lasciava fuori dalla società le masse contadine; in luogo della vera unità nazionale, due Italie, Nord e Sud, che a molti daranno il senso del 21 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Giuseppe Parlato fallimento del processo risorgimentale. Se a tutto questo aggiungiamo le difficoltà e le incertezze in politica estera – dimostrate in maniera evidente con la terza guerra d’indipendenza – e i limiti di un progresso economico lento e destinato a lasciare in eredità mille problemi, appare evidente che si possa essere autorizzati a parlare di un fallimento sostanziale del Risorgimento, o di un Risorgimento tradito; comunque di un’eredità improponibile per il futuro. In realtà il discorso è più complesso e sfumato: molte delle critiche qui sopra esposte nascono dalla persuasione che il cammino del nuovo Stato dovesse essere rapido, almeno quanto il processo militare. Invece si dovette prendere atto, a un certo punto, che il cammino sociale, economico e civile della nuova Italia era più lento del previsto. Lento ma reale, questo cammino, sul quale è bene ricordare alcuni aspetti senza i quali diventa difficile, se non impossibile, tentare una interpretazione storiografica del Risorgimento e dello Stato che da esso nacque. In primo luogo va sottolineato che l’Italia nasceva dal risultato dello sforzo e dell’opera delle forze politiche e sociali più mature del paese, specialmente della piccola borghesia settentrionale; in realtà, un blocco sociale vi era, ed era costituito da quei ceti emergenti che si affacciavano allo sviluppo e che si erano formati in periodo napoleonico; si trattava soprattutto di professionisti e di proprietari terrieri, votati però non già al mantenimento improduttivo della proprietà, come nella struttura latifondistica, ma piuttosto spinti alla necessità di sviluppare in termini capitalistici la produzione agricola. Assieme a questo, vi era il ceto colto di tutte le regioni (e soprattutto di quelle meridionali) che mirava a costruire una religione della nazione, e cioè a realizzare quel “fare gli Italiani” – secondo la famosa frase attribuita a d’Azeglio – che costituiva il punto di riferimento costante della cultura, dell’arte e della scuola della seconda metà dell’Ottocento. In questo contesto, appare evidente che le ambizioni della destra e, ancor di più, della sinistra storiche in questo volere “fare gli italiani” si scontravano su un primo problema, che era quello dell’esigua base di suffragio consentito. In altri termini, è vero che nel 1861, e per un ventennio, solo il 2% aveva diritto al voto, mentre metà della popolazione non andava a votare. Come poteva giungere a buon fine il progetto di “fare gli italiani” se il 99% della popolazione era esclusa di fatto dalla possibilità di esprimere un parere? Se tutto ciò è assolutamente vero, è altrettanto vero che tra quell’1% che andava a votare e il nulla a livello di diritti civili e di possibilità di voto negli Stati preunitari, vi era un abisso in termini costituzionali. Lo Stato italiano aveva realizzato un passo avanti rispetto al passato e il nuovo Stato si qualificava come erede effettivo di quel Regno di Sardegna che nel 1849 aveva confermato lo Statuto Albertino quando tutti gli Stati italiani lo stavano abrogando. Quell’uno per cento, in altri termini, è il segnale di un già esistente, anche se da sviluppare, Stato di diritto. Se vogliamo comprendere il senso che la tradizione risorgimentale ebbe nella nuova vita italiana, segnata dalla presenza unificante della monarchia dei Savoia, divenuti ben presto simbolo di unità condiviso da molti uomini politici e di Stato della sinistra, e se vogliamo intendere il vero senso della coincidenza dello Stato liberale con quello risorgimentale, dobbiamo guardare al modo in cui le idee che avevano fatto la nuova Italia si tradussero in valori fermamente e stabilmente posseduti e in principi direttivi della condotta politica e del sentimento civile. Si deve in altri termini tenere conto di quel sentimento di orgoglio, di quell’alto sentimento di sé che motivò gli Italiani dopo secoli di emarginazione e di sottomissione. Le pur varie differenze di culture politiche del Risorgimento si ritrovarono nello Stato liberale con una base comune di riferimento, resa molto bene nel binomio “nazione-libertà” che regge la coscienza politica degli italiani dal 1861 al 1919. Pur nella vistosa carenza di rappresentanza politica, pur nelle sue molte contraddizioni, l’Italia liberale riuscì a determinare la creazione di un importante ceto di servitori dello Stato, magistrati, militari, insegnanti, funzionari dotati di spirito di sacrificio, di sobrietà, di religione della patria, di spiccato senso dello Stato inteso come momento collettivo della comunità nazionale. E, contemporaneamente, si formò anche una borghesia composta di professionisti, di tecnici, di dirigenti economici impegnati a modernizzare la società per recuperare secoli di decadenza. Le due tesi, quella gobettiana e quella gramsciana, sono due tesi molto suggestive, di grande impatto emotivo e ideologico, che la storiografia, soprattutto con Rosario Romeo, si è incaricata di confutare. Due tesi che, tradotte su un piano più politico, comunque hanno avuto una funzione nel secondo dopoguerra: affossare definitivamente l’idea di nazione, la quale, travolta dalla caduta del fascismo che su di essa aveva costruito le proprie fortune, non entrò mai nel lessico politico della prima repubblica. D’altra parte, i due partiti di massa, il Pci e la Dc, non soltanto per molto tempo si erano considerati fuori del percorso risorgimentale, ma soprattutto erano stati formati a visioni internazionalistiche, nel caso del partito di Togliatti, o ecumeniche, nel caso di quello di De Gasperi. Dopo una fortuna storiografica notevole, soprattutto dopo il 1989 con la fine dello Stato sovietico, le 22 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Il processo di unificazione e il problema della Nazione tesi gobettiana e gramsciana furono progressivamente abbandonate dalla sinistra storiografica che, in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità, si è manifestata molto patriottica e molto sensibile al tema della nazione. Le due tesi sul Risorgimento sono state invece recuperate e rispolverate dagli attuali fautori della buona causa dei Borboni, dei principi preunitari, del Pontefice o dell’Austria; sono state riprese da coloro, cioè, che contestano non solo il processo unitario ma addirittura il fatto che oggi possa esistere uno Stato italiano. A destra più che a sinistra, a Nord come a Sud. Il legittimismo cattolico, oggi abbandonato dalla stessa Chiesa che considera il 20 settembre quella data provvidenziale, avendo permesso al Magistero di Pietro di liberarsi dei condizionamenti amministrativi che ogni potere temporale si porta appresso, si lega quindi con il vecchio marxismo internazionalistico e con il vecchio radicalismo gobettiano nella contestazione dell’unità nazionale. Vi è una forte differenza fra chi ha voluto mettere in rilievo i ritardi della storiografia sul brigantaggio e le vulgate che si sono passate nei vari decenni agli studenti (come ha fatto con la capacità che gli è propria Giordano Bruno Guerri ne Il sangue del Sud), e chi ha preso pretesto da ciò per reimpostare una anacronistica difesa del borbonismo e del potere temporale della Chiesa. Garibaldi e D’Annunzio Uno dei primi ad avere delle perplessità sul Risorgimento fu proprio Gabriele d’Annunzio. Non certamente sul processo risorgimentale, quanto sulla sua gestione e soprattutto sul tasso di eroismo che lo Stato liberale si porta appresso dall’esperienza risorgimentale. D’Annunzio è senza dubbio affascinato dalla figura di Garibaldi. Il fatto che nel 1915 il Vate vada a Quarto a spingere l’Italia verso l’intervento costituisce il migliore riconoscimento al ruolo di Garibaldi del quale, in qualche modo, d’Annunzio si sente continuatore. La sera del 5 maggio, d’Annunzio inaugura ufficialmente il monumento ai Mille e si pone come colui che interpreta una missione. Come Garibaldi ha da Quarto inaugurato la nuova Italia di volontari e dei combattenti, così d’Annunzio da Quarto mira a creare le condizioni affinché l’Italia, entrando in guerra, diventi finalmente grande. In questo, d’Annunzio è selettivo: non prende a riferimento Mazzini, Gioberti o Cattaneo, ma neppure il Re, quel Re che non doveva stargli così antipatico. Prende a riferimento Garibaldi, l’uomo del volontarismo, il comandante che si ribella agli ordini e va per la sua strada, l’uomo che con il suo carisma raccoglie un migliaio di volontari e si pone contro gli ordini dello Stato. Come non vedere in questa scelta una anticipazione dell’impresa fiumana? Una sorta di giustificazione dei famosi versi cantati dai legionari: “Se non ci conoscete, guardateci sul petto. Noi siamo i disertori, ma non di Caporetto”. Tutto ciò è chiaro, ma la scelta di Garibaldi, a mio avviso, comporta anche un’altra conseguenza, che fa parte del modo di pensare di D’Annunzio. Che Garibaldi sia la scelta preferita, per d’Annunzio significa anche privilegiare uno dei più famosi “vinti” del Risorgimento. Garibaldi è l’uomo dei vani tentativi di arrivare a Roma prima delle diplomazie, dell’Aspromonte, di Mentana, della Repubblica Romana, dell’ “Obbedisco” di Bezzecca. Insomma, Garibaldi è stato quello che più di altri ha mobilitato la gioventù ma la politica lo ha frenato, l’Italietta liberale non lo ha compreso e ha preferito gestirne la memoria, non l’esempio. Garibaldi è l’uomo che accetta, per amore della nazione, la monarchia, che sopporta la cessione di Nizza alla Francia; è il condottiero che conquista tutto il Sud ma poi lo cede al Re. È il rivoluzionario e d’Annunzio lo sente vicino soprattutto quando decise, in Parlamento, di lasciare la destra per la sinistra annunciando che andava “verso la vita”. D’Annunzio si sente figlio di quel Risorgimento “tradito” che Garibaldi rappresenta. All’ “Obbedisco!” di Bezzecca, il Vate contrappone il “Disobbedisco!” di Fiume. Anzi, il gesto di Fiume, proprio perché non ha suscitato una reazione dura dallo Stato, conferma la necessità della scelta eversiva contro uno Stato che non merita di essere rispettato. Uno Stato serio e consapevole avrebbe trattato i legionari di Fiume come dei disertori, che con la loro impresa avevano messo in difficoltà il governo. In uno Stato serio il generale Pittaluga alle porte di Fiume avrebbe trovato il coraggio di aprire il fuoco contro D’Annunzio, così come Garibaldi sull’Aspromonte aveva trovato un colonnello dei bersaglieri, Emilio Pallavicini, pronto ad aprire il fuoco contro i volontari in marcia verso Roma. D’Annunzio rappresenta, in questo senso, la continuità del filone del volontarismo risorgimentale e il suo scopo non è quello di combattere il Risorgimento quanto piuttosto di denunciare le debolezze dell’Italia liberale e di sostituire le fragili strutture dello Stato liberale con uno Stato più rappresentativo come quello ipotizzato dalla Reggenza del Carnaro. 23 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Giordano Bruno Guerri Il Risorgimento e il Brigantaggio Nel mondo della scuola il tema del brigantaggio viene spesso liquidato con queste poche righe: il brigantaggio fu la ribellione insufflata dai Borboni e dalla Chiesa in alcune genti del nostro Mezzogiorno che fu, alla fine, giustamente stroncata. In realtà le cose non andarono così. Già Franco Molfese, nel suo importante volume Storia del brigantaggio dopo l’Unità, pubblicato nel 1966 e di fatto controcorrente nei confronti della storiografia dell’epoca, sostiene che i cosiddetti plebisciti furono in realtà riservati a una stretta minoranza della popolazione e, per di più, i risultati spesso vennero sfalsati. È ormai noto che l’Unità d’Italia nacque più che da una precisa volontà, da una serie di circostanze fortuite e favorevoli. Questi fondamentali aspetti, purtroppo, vengono spesso dimenticati o sfumati nell’insegnamento scolastico e questo è un male perché la trasmissione del sapere, la conoscenza dei fatti storici che stanno all’origine di problematiche attuali, deve avvenire sempre in maniera corretta; questa è la funzione della storiografia e la missione degli storici. In particolare sembra che sia stata addirittura cancellata la lotta al brigantaggio che fu invece una vera e propria guerra civile, della quale paghiamo ancora oggi le conseguenze nefaste. Premettendo che l’Unità d’Italia fu indiscutibilmente un bene, un’azione opportuna, necessaria e indispensabile, dalla quale anche il nostro Sud si è avvantaggiato, è da criticare aspramente il modo con cui venne realizzata e applicata, soprattutto nei primi anni, al Sud. La lotta al brigantaggio, si è detto, fu una guerra civile. Si parla spesso della scarsa partecipazione di popolo al Risorgimento e questo è un fatto incontestabile se per popolo intendiamo tutte le classi sociali compresi i contadini e gli operai. ll brigantaggio meridionale fu, invece, un movimento fatto sostanzialmente da contadini e dalle classi più umili, certamente istigate, e all’inizio sostenute e armate, dai Borboni che volevano tornare sul loro trono e dal Papa che voleva un’Italia divisa, come già asseriva Machiavelli nel Cinquecento, per conservare il proprio potere temporale. Ma il fenomeno del brigantaggio non si può spiegare solo in questo modo. Quando si parla di ribellione di popolo si deve necessariamente affrontare la questione sociale che era il problema più grave presente nel Regno delle Due Sicilie. Una parte dell’attuale storiografia tende a enfatizzare eccessivamente le innovazioni tecnologiche presenti nel Regno delle Due Sicilie – la prima ferrovia, la luce elettrica, il gas – fenomeni questi limitati, però, alla sola città di Napoli e all’area vesuviana. Inoltre se è un dato storicamente accertato che nelle casse del Regno delle Due Sicilie era disponibile una grande quantità di oro, di gran lunga superiore alla somma di tutti gli altri Stati pre-unitari messi insieme, è pur vero che quella era una ricchezza inerte, non veniva cioè investita in opere pubbliche. E ancora, esistevano sì industrie al Sud che vennero poi smantellate, ma l’aspetto più importante e delicato sul quale si giocò e si perse la partita dell’Unità fu un altro. Garibaldi durante la sua avanzata in un discorso, divenuto poi celebre, ebbe a promettere terre ai contadini: la spartizione dei grandi latifondi per dare le terre a chi le lavorava. Queste parole infuocarono le popolazioni provocando un afflusso enorme di volontari che andarono ad accrescere le sue file e che combatterono per l’Italia unita. Ma quando gli stessi si resero conto che le terre non sarebbero state a loro assegnate e che, sciolto l’esercito garibaldino, addirittura non erano graditi nell’esercito regolare capirono di essere stati raggirati. Il nuovo stato unitario si presentava loro sotto forma di gendarme, di uomo delle tasse, imponendo nuove misure, nuovi pesi, addirittura una nuova lingua, l’italiano; tutte cose sostanzialmente giuste e indispensabili in un moderno stato, ma la rapidità e la violenza con cui tutto questo venne attuato diede l’impressione più di una nuova occupazione coloniale che di una fusione tra fratelli. Nell’opinione pubblica, come nel ceto dirigente sabaudo, si mantenne una distinzione fra il Nord, civilizzato, ricco, moderno e perbene e un sud arretrato, povero, ignorante e da redimere. Questi sono i motivi principali per i quali attecchì e si diffuse nel Sud un movimento quale il brigantaggio. 24 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Il Risorgimento e il Brigantaggio Moltissimi contadini, già appartenenti all’esercito garibaldino, godendo dell’aiuto dei parroci e dall’organizzazione dei Borbone, si unirono in bande arrivando a rappresentare una minaccia palese per la nuova Italia unita; infatti pur essendo complessivamente poche decine di migliaia, godettero dell’appoggio incondizionato di tutta la popolazione del Mezzogiorno: dietro ogni brigante c’era non solo la sua famiglia ma una rete stabile di relazioni e quasi tutto il suo paese. Non è un caso che mentre nel Risorgimento ufficiale, quello del nord per intenderci, compaiano solo due donne, la duchessa di Castiglione, spia nota per le sue prestazioni amorose, e Anita Garibaldi, madre e sposa esemplare ed eroina lei stessa, nel “Risorgimento del Sud”, quello del brigantaggio, ci sono decine e decine di donne che abbandonano non solo la famiglia, il paese, quel poco di sicurezza economica, ma addirittura una tradizione millenaria di sudditanza, per abbracciare il fucile, salire sui monti e combattere insieme ai propri uomini. È dunque indubbio che si trattò di guerra civile anche se non si è avuto mai il coraggio di chiamarla come tale. In certi passi del volume Cristo si è fermato a Eboli, Carlo Levi testimonia , nelle vicende tristi del confino, come ancora negli anni Venti del ‘900 non ci fosse famiglia di meridionali non ferita e insanguinata da lutti e dolori di quella guerra civile che fu il brigantaggio. Gli scontri, è noto, furono di una durezza inaudita, come in tutte le guerre civili, la lotta cruenta e sanguinosissima da entrambe le parti: le cronache e i documenti dell’epoca ci parlano di soldati squartati, di donne incinte sventrate, di stupri, di briganti che tagliavano la testa a soldati e soldati che tagliavano la testa a briganti, di decine di paesi incendiati e rasi al suolo. Ma il dato forse più eclatante è che questa guerra costò al neonato esercito italiano più morti di tutte le tre Guerre d’Indipendenza messe insieme. Ad oggi non si sa quanto costò in termini di morti alla popolazione meridionale: appaiono esagerate le cifre ipotizzate dai neoborbonici, che arrivano ad asserire addirittura un milione di caduti, ma tra caduti in combattimento, fucilati, morti per malattie e stenti, sicuramente si può parlare di almeno 100.000 persone. Sono cifre che lasciano ovviamente il segno nella storia di un paese appena nato, così come lasciano il segno le modalità con le quali si pose fine alla guerra: la ribellione infatti venne stroncata non con la forza militare o con la amministrazione di un buon governo, ma solo grazie a una vera e propria dittatura militare. La legge Pica del 1863, legge assolutamente liberticida e che venne ampiamente applicata, infatti consentiva ai tribunali militari di dare un solo grado di giudizio, inappellabile e di eseguire immediatamente la condanna a morte. Non solo, fu anche la prima legge sui pentiti (che non è quindi una invenzione recente) che permise di sgominare il brigantaggio che altrimenti sarebbe durato ancora per molto, con i suoi eroi, quali Carmine Crocco, Chiavone, che erano ormai figure mitizzate in tutto il Sud. Credo che aver taciuto tutto questo per decenni, trasformando il Risorgimento in un’epopea eroica, filtrata attraverso la lente sabauda, sia necessariamente servito per creare un senso dello Stato in genti che non percepivano questo senso di appartenenza, di popolo, di Nazione. Ma nella realtà dei fatti per il popolo questa unità era artificiosa, non percepita, decisa sulla carta e non il risultato di una volontà di forte e condivisa autodeterminazione. La coesione vera arriverà con la prima guerra mondiale e ancora di più, nel secondo dopoguerra con il boom economico, il benessere, la televisione e, finalmente, un generale e vistoso miglioramento delle condizioni economiche e sociali del nostro Sud. Quel Sud che pagò, fino almeno agli anni Dieci del Novecento, la bellezza di nove milioni di emigranti, di certo non tutti imputabili al brigantaggio, alla guerra civile, ma più in generale anche alla grave crisi economica che a fine Ottocento colpì l’Italia e tutta l’Europa, e che i rapidissimi processi di unificazione territoriale e monetaria post-risorgimentali avevano enormemente acuito. Il processo di unificazione, così come realizzato, si è detto ebbe fra le conseguenze negative la nascita del brigantaggio. Ma anche la mafia e la camorra, che esistevano già all’epoca risorgimentale, crebbero di importanza come fenomeno sociale perché nel Sud si acuì un senso di opposizione allo Stato unitamente alla convinzione che occorresse creare uno stato nello stato cioè un contro-stato, un contro-potere capillarmente organizzato, del quale ancora oggi si pagano le conseguenze. Allo stesso modo si pagano ancora le conseguenze di un regionalismo, di una contrapposizione del noi e voi, amplificato dai giornali, dalla televisione e dai palazzi del potere, incredibile e per certi versi antistorico a 150 anni dalla riunificazione di un unico popolo, avvenuta sì tardivamente e con gravissimi errori, ma necessaria. 25 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Valerio Terraroli Dal Vittoriano al Vittoriale. Immagini della Nuova Italia Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia è un appuntamento molto importante per una serie di ragioni che sono proprio inerenti al nostro concetto di Nazione e, soprattutto, rispetto a quello che è stato un processo di aggregazione di stati diversi, indipendenti per secoli, per arrivare allo Stato unitario a cui noi apparteniamo. Questa unità, che fu prima di tutto unità militare e unità politica, ha fatto moltissima fatica a diventare unità culturale e unità linguistica e soprattutto non è ancora unità psicologica. Molti non si sentono ancora italiani in senso complessivo, si sentono italiani di una parte d’Italia e guardano gli altri come se fossero degli stranieri, questa è una delle follie del nostro paese. Credo che valga ancora la famosissima frase di Cavour “l’Italia è fatta e adesso bisogna fare gli italiani”. In effetti quella frase segnava un punto rispetto all’argomento di cui mi è stato chiesto di parlare cioè quanto l’immagine o le immagini sono state, della cultura di tardo Ottocento e del primo Novecento, utilizzate con lo scopo di dare agli italiani una consapevolezza di appartenenza ad un paese unitario, cioè come è nata l’immagine della nuova Italia? Io ovviamente intendo parlarne non dal punto di vista retorico e nemmeno celebrativo, ma al contrario cercherò di evidenziare quali sian stati gli strumenti o almeno i punti nodali attraverso i quali questa scelta, diciamo di politica culturale, si è mossa e si è svolta. Il titolo che ho dato al mio intervento è un titolo un po’ che gioca con la radice comune dei due termini,“Dal Vittoriano al Vittoriale”, per la verità la radice comune è “vittoria”, ma nel primo caso è un nome proprio, Vittorio Emanuele II padre della Patria, e nel secondo caso è la “vittoria”, intesa proprio come sostantivo, cioè vittoria dopo una lunga guerra e in una tormentata battaglia. In realtà l’assonanza dei due termini è anche un’assonanza di intendimenti, come alla fine intenderò dimostrare.Tra l’altro molte persone confondono le due parole: pensano al Vittoriale come al Vittoriano e al Vittoriano come al Vittoriale e poi al Vittoriano pensano come all’Altare della Patria, cioè al monumento che tutti conosciamo, ma l’insieme è il Vittoriano, l’Altare della Patria è solamente il basamento che corre sotto la statua del re. Ci tengo a questa distinzione perchè non solo le due parti,Vittoriano e Altare della Patria sono stati costruiti in momenti diversi, ma hanno due significati molto diversi ed è quindi importante distinguerli. In realtà se il Vittoriano è la sintesi di quella nuova idea di Patria, una sintesi che si esemplifica attraverso una serie di immagini a cui agganciare un’idea di Nazione che ancora non c’è e quindi con l’obiettivo di forgiare nella mente di tutti un pantheon di immagini unitarie: il Vittoriale è l’atto conclusivo di questo percorso. Partirò proprio dal problema di apertura cioè questo: quello che vedete è un dipinto di grandi dimensioni, è un grande dipinto di storia lungo circa 6 metri e alto 4 metri, dipinto da Michele Cammarano nel 1871, cioè esattamente l’anno dopo dell’avvenimento che rappresenta. Quello che si vede sono i bersaglieri che entrano a Porta Pia. Tra l’altro il dipinto realizzato in pochi mesi nell’anno 1871 fu esposto anche a Vienna negli anni Ottanta con grande successo decretato dal pubblico internazionale, ma è interessante sapere che nel 1872, cioè nell’anno successivo all’esposizione a Napoli dove fu esposto la prima volta, il re Vittorio Emanuele II lo acquistò per lo Stato e lo donò ai Musei di Capodimonte, dove oggi si trova. Ora quello che voi vedete è chiaramente un’immagine che oggi potremmo definire di tipo cinematografico perchè naturalmente la macchina da presa, cioè noi, siamo davanti all’impeto, all’onda dei bersaglieri che entrano a Porta Pia. Sappiamo benissimo che storicamente l’avvenimento non si svolse nei termini da “Ombre rosse” che vedete qui, in realtà fu una scaramuccia e poi ci furono degli accordi presi con le guardie pontificie. Insomma, in realtà Cammarano da artista, perchè questo è il compito dell’arte, trasfigura un avvenimento storico e un avvenimento politico più simbolico che militare, in un’epopea che serve a consolidare il senso di appartenenza di tutti a quell’ avvenimento. È chiaro che qui dentro, cioè in questa composizione pittorica, c’è un ricordo fortissimo di un’altra opera d’arte che riveste grande significato storico/iallegorico, cioè La libertà che guida il popolo di Delacroix. Il dipinto, che Eugene Delacroix realizza nel 1830 proprio a ridosso delle giornate di luglio della rivoluzione borghese a Parigi, era perfettamente conosciuto da Cammarano perchè era esposto al Palais du Luxembourg e Cammarano 26 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Dal Vittoriano al Vittoriale. Immagini della Nuova Italia nel 1870 era a Parigi da almeno un anno a studiare i dipinti del Louvre e del Musée du Luxembourg, quindi è chiaramente Delacroix che ha in testa. Solo che, al posto delle barricate, dei caduti e della Libertà personificata, che anche là aveva il compito di rappresentare la Nazione e la Rivoluzione Francese che ritornava a vivere, qui diventa invece una specie di fotogramma che fissa l’impeto dei bersaglieri, che sono poi i giovani italiani vestiti con la divisa da bersaglieri, i quali attraverso questo polverone entrano nella storia ed entrano attraverso il pubblico che ogni volta viene coinvolto dall’immagine. Allora è chiaro che subito a ridosso non dell’Unità, perchè è chiaro che l’Unità avviene nel 1861, ma con la presa di Porta Pia, cioè con il compimento del Risorgimento secondo i disegni cavouriani, garibaldini, mazziniani, si iniziano ad elborare i simboli della Patria, in questo caso Roma, strappata al potere pontificio che la tiene da secoli, diventa capitale del nuovo Regno, cioè del nuovo Stato. Allora Roma inevitabilmente da quel momento diventa il luogo in cui si devono forgiare le immagini della nuova Italia e ciò naturalmente avviene proprio in corrispondenza della morte di quello che a questo punto è diventato, volente o nolente, Vittorio Emanuele II ovvero il Padre della Patria. Il re muore il 9 gennaio del 1878 nel palazzo del Quirinale, da poco diventato palazzo reale dove i Savoia si erano trasferiti da Firenze che fu capitale d’Italia fino al 1870, e viene seppellito al Pantheon, cioè nel luogo considerato più simbolicamente significativo per la nuova Nazione: i re non possono essere seppelliti in San Pietro, per evidenti motivi di contrapposizione con lo Stato della Chiesa a cui al basilica appartiene, quindi il Pantheon è la chiesa che meglio si adatta per diventare il mausoleo della dinastia sabauda in sostituzione della basilica torinese di Superga. Dopo poche settimane, in marzo, Giuseppe Zanardelli bresciano, Ministo dell’Interno, chiese al Parlamento, e ottenne ovviamente all’unanimità, di costruire un monumento dedicato al re, da cui il nome di Vittoriano, ma che al contempo il monumento evidenziasse la storia e i valori della nuova Nazione, perchè questo era l’intendimento profondo. Nel 1880 venne bandito un concorso, 14 nazionalità diverse vi parteciparono e vennero presentati 315 progetti. I progetti dovevano essere progetti di massima con vedute disegnate, ma anche maquettes fatte in gesso, in cartapesta, in plastilina ecc. perchè poi dovevano essere esposti e sottoposti al giudizio del pubblico. Naturalmente il primo concorso diede vita alle follie più straordinarie, il concorso era molto largo, non si diceva dove il monumento avrebbe dovuto essere costruito, non si diceva come doveva essere, c’era solamente un titolo che poi sarà ripetuto nel secondo concorso che era Da Porta Palatina a Porta Pia. Ricordo che porta Palatina è la porta romana di età augustea, poi trasformata attraverso il tempo, che si trova vicino a Palazzo Reale a Torino. Quindi da Torino a Roma, da Porta Palatina a Porta Pia. È chiaro che l’intendimento di chi ha stilato i punti del bando di concorso era che questo monumento dovesse riassumere tutta la storia recente d’Italia: a partire dalla prima capitale del Regno, Torino, poi Firenze, poi Roma, ma anche tutta l’epopea risorgimentale con gli eroi del Risorgimento, molti dei quali erano ancora vivi. Presento per tutti i 315 monumenti uno dei più curiosi perchè questo sembra una torta nuziale, con sulla cima Vittorio Emanuele II a cavallo ed è un’opera però interessante perchè la parte scultorea è stata modellata da Ettore Ximenes, l’artista che ha più volte ritratto Zanardelli, abbiamo anche a Brescia un monumento realizzato da Ximenes che diventerà un artista importante delle nuova Italia degli anni Ottanta e Novanta, ma che qui è proprio agli esordi della carriera. L’idea prende un po’ in prestito modelli antichi, immaginate la colonna di Traiano espansa, cioè una specie di colonna coclide che diventa anche una specie di piramide tutta ricoperta di sculture, tra l’altro il progettista aveva pensato a delle scalee che permettessero al pubblico di salire e di seguire tutte le sculture e di arrivare fino al basamento della statua equestre del re che sta in cima e tutta questa ridda di personaggi doveva essere o sarebbe stata una mescolanza di allegorie, la Patria, l’Orgoglio, il Diritto, la Civiltà italiana ecc e i personaggi del Risorgimento con la ricostruzione simbolica parziale di Porta Pia, di Porta Palatina e così via. Naturalmente la commissione giudicatrice si trova davanti a opere come questa che al di là della follia estetica, cioè della non soluzione del problema, portava con sé dei costi mostruosi per cui viene azzerato il primo concorso. Immediatamente se ne promuove un secondo, siamo quindi nel 1883 e questa volta però il bando di concorso è preciso e ci fa capire anche gli intendimenti dei legislatori perchè si dice che i progetti dovranno appartenere a una di queste tre possibilità che adesso vi elenco e soprattutto che il monumento sarà collocato, e questa era l’idea iniziale, nella zona della stazione Termini. Quindi l’intendimento del legislatore inizialmente era quello di pensare a un monumento, che poi viene descritto come forma base, costituito da un grande colonnato con scalee e terrazze e giardini e fontane, collocato vicino alla stazione Termini dove allora non c’era Roma, perchè la Roma papalina arrivava praticamente a Santa Maria degli Angeli, alle Terme di Diocleziano, dove aveva lavorato Michelangelo. Quindi il monumento a Vittorio Emanuele doveva essere il nucleo di partenza della nuova Roma che si sarebbe 27 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Valerio Terraroli espansa da lì nelle campagna romana, divenendo un luogo di aggregazione, un luogo panoramico, perchè sopraelevato, verso la città antica e un luogo di passeggiate. Quindi un monumento che fosse il punto nevralgico e l’origine di un impianto urbanistico. L’idea non era male come partenza. Quali sono i tre temi che gli artisti potevano scegliere? Sempre ci doveva essere la figura di Roma personificata, questa era la novità, cioè ci doveva essere una figura che impersonasse la nuova capitale e che rappresentasse simbolicamente l’Italia, la nazione riunificata e l’antichità, quindi il legame della nuova nazione con l’Impero, con la tradizione di Roma. Quindi Roma e i protagonisti del Risorgimento, Roma e la storia del Risorgimento attraverso gli episodi e le battaglie, Roma e le allegorie della Nazione. Vengono presentati progetti diversi. Nel 1884 viene scelto il progetto di Giuseppe Sacconi, il quale aveva risposto più di altri alla necessità di una grande struttura architettonica costituita da un incastro di scalee, terrazzamenti, balconate e loggiati. Ora proprio nel momento di passaggio dalla vittoria dell’idea di Sacconi alla sua esecuzione, il governo, decide di mutare la collocazione del monumento e decide di collocarlo a fianco del Campidoglio. È una decisione grave da un certo punto di vista e significativa dall’altro; grave per noi, cioè per gli storici dell’arte, perchè abbiamo perduto un intero quartiere medievale e rinascimentale per questo monumento e una parte dei Fori Imperiali. Però dall’altra il senso della collocazione chiarisce che cosa doveva essere davvero il Vittoriano e che cosa si investe su questo monumento sia in termini economici, il costo è mostruoso, sia in termini tecnici. Potete solo immaginare cosa abbia voluto dire demolire i quartieri medievali e le vestigia romane e poi le costruzioni necessarie per sorreggere la quantità di materiale con il quale fu costruito ma soprattutto è significativo che quel luogo, il Campidoglio, che da secoli è il punto simbolico della città di Roma e della storia di Roma e dell’Italia, non può non essere coinvolto nel monumento al padre della Patria, cioè la giovane Nazione non può non essere attaccata, simbolicamente e fisicamente, e quindi in modo chiaramente simbolico, alla sua storia. Per cui la scelta di collocarlo al Campidoglio, a ridosso dell’Aracoeli, è inevitabile tant’è che viene collocato in asse con via del Corso, che è una via settecentesca poi risistemata nell’Ottocento, e con piazza del Popolo per cui il monumento ha delle direttrici visive necessarie per esser visto all’ingresso di Roma. Quando si entrava da porta del Popolo dalla campagna romana, in fondo si vedeva il monumento e poi via via ci si avvicinava il monumento aumentava di grandezza. La scelta, ripeto, è una scelta dolorosa che produce danni irreversibili al patrimonio architettonico-urbanistico e archeologico della città però dall’altro punto di vista questo monumento segna una presenza nuova nella città antica che non è soltanto la presenza politica dei Savoia e di una nuova Nazione, ma è anche la presenza di molti artisti italiani; tutti gli scultori italiani operosi negli anni dell’unificazione del Regno e proprio a ridosso di questa impresa partecipano alla realizzazione del monumento che, esasperando un po’, potremmo definire il museo della scultura italiana tra il 1880 e il 1925. Tutti vi partecipano, tutti vogliono partecipare perchè essere lì significa avere una medaglia al merito che ti permette di avere un prestigio internazionale. Sacconi si mette subito al lavoro: innanzitutto nella prima versione non esiste l’Altare della Patria cioè il monumento è solo per il padre della Patria,Vittorio Emanuele II, quindi si era deciso che ci fosse un monumento equestre legato all’antica tradizione dei condottieri, collocato al centro su un basamento sopraelevato e il grande colonnato che doveva chiudere come una quinta scenografica il monumento, le grandi terrazze che permettevano di creare un belvedere sui Fori Imperiali e su piazza Venezia, le scalee, le fontane con i mari d’Italia e alcuni gruppi statuari, pochi all’inizio, rappresentanti simbolicamente il Risorgimento. Sotto il basamento in una nicchia avrebbe dovuto essere collocata la dea Roma cioè la personificazione dell’Italia. In un secondo disegno, un secondo progetto poi realizzato in un modello di gesso, la struttura si articola meglio, nasce l’idea di un fregio sottostante che accompagna la nicchia della dea Roma, quello che diventerà l’Altare della Patria, e si cominciano a moltiplicare le sculture che vanno a collocarsi lungo le scalee, gli alti basamenti e lungo la scalinata centrale. Perchè c’è questo aumento della parte plastica? Perchè naturalmente lo stesso architetto si rende conto che inevitabilmente un grande monumento architettonico costruito in quel luogo che si confronta con l’antichità, con la grande colonna di Traiano che sta lì vicino, ha inevitabilmente bisogno di figure per fissare idee e principi, non si può dire soltanto questo è il Vittoriano, quella che vedete lì sotto è l’Italia, Roma personificata e l’altro Vittorio Emanuele II e il resto te lo immagini, in realtà te lo devo raccontare come siamo arrivati qui.Te lo racconto attraverso un fregio all’antica che rappresenta le grandi battaglie del Risorgimento, te lo racconto con la personificazione delle regioni italiane 28 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Dal Vittoriano al Vittoriale. Immagini della Nuova Italia che rendono omaggio al re, te lo racconto attraverso delle allegorie dei mari d’Italia, dall’Adriatico al Tirreno, e te lo racconto attraverso le allegorie simboliche della gloria della Patria, del Diritto ecc.. Quindi è chiaro che a questo punto è necessario fare una serie di concorsi per avere dei bozzetti dei monumenti e in effetti questo avviene perchè viene convocata una commissione costituita, guarda caso, dal più grande scultore vivente che è Leonardo Bistolfi, il quale diventa veramente il patriarca della scultura italiana e controlla chi lavora lì e naturalmente fa lavorare scultori che si muovono sulla sua idea di scultura cioè nell’ambito della scultura simbolista, una scultura di tipo pittorico che poi farò vedere, e gli altri due membri sono uno storico dell’arte, questo è abbastanza significativo, Corrado Ricci che era il direttore della Galleria Nazionale di Roma e poi Benedetto Croce, il grande filosofo. Quindi in realtà la commissione è costituita da un professionista, uno scultore, Bistolfi, da uno storico dell’arte che rappresenta anche il Ministero e da un intellettuale come Benedetto Croce. È chiaro che le sculture devono avere una qualità tecnica, devono corrispondere ad una qualità estetica, ma soprattutto devono rappresentare dei valori che sono quelli che Benedetto Croce deve identificare all’interno dei bozzetti che vengono presentati. Contemporaneamente però il cantiere comincia con delle grandi difficoltà, per capire che cosa ha voluto dire l’inserimento di quel monumento gigantesco nel tessuto di Roma, c’è una planimetria tracciata prima degli abbattimenti, qui vedete che è già segnata la struttura in pianta del grande colonnato a ridosso dell’Aracoeli, qui c’era il convento dell’Aracoeli che viene abbattuto per primo e qui si vedono gli sporti del resto del monumento, questa è tutta la parte che viene abbattuta dove ci sono, tra l’altro, importanti edifici come la torre di Papa Paolo III e palazzo Torlonia. L’attività procede celermente da un lato, con difficoltà tecniche dall’altro, però succede che nel 1905 Sacconi muore, è malato di tumore e sa da tempo che morirà, quindi lascia tutti i disegni esecutivi tuttavia quando muore nessuno pare in grado di condurre il cantiere. Per cui viene deciso dal governo in carica di affidare la terminazione del monumento a un gruppo di tre architetti: Koch, Manfredi e Piacentini. Quest’ultimo sarà poi l’architetto di regime, come è noto gli dobbiamo piazza della Vittoria a Brescia, e questa è una delle sue prime esperienze in un cantiere pubblico. Gli architetti che prendono in mano il progetto di Sacconi apportano alcune modifiche al progetto originario, in qualche modo lo snelliscono, vedete che spariscono le grandi muraglie che per Sacconi evocavano Porta Palatina e Porta Pia, cioè le città turrite d’Italia e il simbolico passaggio da Torino a Roma. Manfredi, Koch e Piacentini snelliscono la struttura in modo da dare una grande apertura alle scalee e alle terrazze spostando le sculture sui lati e dando molta enfasi alla parte centrale di quello che è il sottobasamento della statua equestre di Vittorio Emanuele II. Per quale motivo? Addirittura c’è stato un momento in cui si è pensato che la statua del re anziché stare nel Vittoriano potesse essere collocata al centro di piazza Venezia, ricavata dallo sventramento di quella parte della città, e che quindi il Vittoriano fosse solo semplicemente una scenografia, una specie di apparato funebre di pietra che chiudeva simbolicamente l’avanzata del re a cavallo verso la città. Poi si pensò nuovamente di collocarlo in alto, ma di ricavare un grandissimo spazio sotto, quello che in quel momento cominciava a essere chiamato Altare della Patria, proprio con lo scopo esplicito di dare un grande spazio ai fregi laterali perchè quello diventasse il sacrario della Nazione con al centro la dea Roma, con ai lati l’epopea risorgimentale con delle immagini che il pubblico che avrebbe potuto percorrere le scalinate avrebbe fissato nella propria memoria: una specie di grande ara all’aperto, di grande altare all’antica in cui si bruciavano simbolicamente incensi alla nuova Nazione. La complessità dei lavori ve la mostro solamente con un’immagine: questa è l’Aracoeli, questi sono i resti delle case abbattute, vedete che questa parte del colonnato che sembra finita in realtà è una gigantesca struttura di gesso tenuta da un’impalcatura che è stata realizzata per vedere, per giudicare dal vero, quelle colonne che dal vero sono alte 12 metri, per vedere a distanza come poi avrebbe funzionato il monumento finito.A noi può sembrare strano, ma tutto il monumento è stato fatto in gesso prima e poi via via smontato e sostituito dalla parte in muratura e dalla parte in pietra. Ciò succederà anche per l’Altare della Patria. Questo è un bozzetto vergato da Sacconi a ridosso del 1905, tra l’altro qui c’è un commento di Manfredi dell’anno dopo, 1906, della prima idea del suo monumento a Vittorio Emanuele II che prevedeva un basamento molto semplice con trofei militari e il re che avanza con la spada sguainata e niente di più, un monumento abbastanza tradizionale. Che cosa accade invece nella redazione finale? Innanzitutto che il re non sguaina la spada e soprattutto non porta la feluca ma porta una specie di elmo da cavaliere medievale, tiene le briglie del cavallo che lievemente piega la testa, ma soprattutto il basamento si è articolato ed è diventato un immenso altorilievo in cui sono inserite le personificazioni delle regioni italiane. Vedete nel dettaglio come queste figure, che sono opere di artisti diversi, siano perfettamente in linea con 29 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Valerio Terraroli quel gusto neo medievale che appartiene alla cultura italiana tardo risorgimentale che va avanti fino al primo Novecento, vedete qui ad esempio la Romagna impersonata dall’imperatrice Teodora, così come è raffigurata nei mosaici di San Vitale a Ravenna. Quindi vedete che viene messa in campo tutta un’iconografia che va a raccogliere dal Medioevo, dall’Antichità, dalla civiltà paleocristiana e rinascimentale, quello che in qualche modo dovrebbero essere le radici di questa Nazione che non è mai esistita come tale e che si coagula proprio intorno a questo monumento. Ora i punti nodali diventano, oltre alla statua centrale di Vittorio Emanuele II, quattro gruppi collocati lungo la scalinata, il più importante dei quali è quello che vi mostro, cioè quello realizzato dallo stesso Leonardo Bistolfi nel 1910 e e rappresenta il Diritto e ve lo mostro perchè vi sia chiaro che cosa sia la poetica bistolfiana. Rispetto alle regioni italiane cioè rispetto a una rappresentazione molto descrittiva e storicista della tradizione storica del nostro paese, Bistolfi essendo uno scultore di matrice simbolista punta l’accento sull’allegoria, sulla forma poetica, sulla forma di una scultura appunto di tipo pittorico, vedete che addirittura restano indistinguibili le varie figure che compongono il gruppo. In realtà ciò che interessa allo scultore è rendere il movimento, rendere l’avvolgente vortice che avvolge queste figure come interiorità, come energia e come aria che le delimita. Rappresenta naturalmente delle figure maschili e femminili riprese dai modelli michelangioleschi che portano sulle spalle una figura abbandonata che rappresenta appunto il Diritto della Nazione che viene portato in vita come una specie di novello Lazzaro perchè gli italiani appunto richiamano in vita il Diritto alla libertà, quindi vanno a combattere, il Risorgimento, e uniscono il paese. Questa è una scultura di Ximenes, se vedete come è diverso, più narrativo, più descrittivo ed è l’Italia che sguaina la spada accompagnata dalle figure allegoriche dello spirito della Nazione che vuole liberarsi dalle catene degli invasori. Si coglie immediatamente la diversità di dettato e di impostazione rispetto alla linea bistolfiana che è più letteraria, più suadente, ma meno immediata, meno leggibile per un pubblico indifferenziato. Questa è invece la Gloria della Nazione che è una scultura in bronzo di Calandra e qui si vede bene come il prestito dalla scultura francese ottocentesca sia evidente, vedete addirittura i garibaldini con le camicie rosse che portano la bandiera, c’è addirittura l’Italia che viene presa da un garibaldino e sollevata mentre tiene un fascio littorio che ovviamente non si riferisce al Fascismo, che deve ancora venire, ma rappresenta la città di Roma, i littori erano quelli che accompagnavano i rappresentanti dell’Urbe e quindi qui evidentemente Roma e Italia sono nuovamente personificate. A chiusura e terminazione dell’attico ci sono delle gigantesche quadrighe con le vittorie alate e derivano naturalmente dalla grande quadriga di bronzo dell’Arco della pace di Milano progettato ai tempi di Napoleone Bonaparte, poi in realtà realizzato sotto il dominio austriaco. Qual’è il problema a ridosso del 1910-1911, cioè a ridosso di quella data che riguarda anche noi, cioè il cinquantesimo anniversario dell’unità del Regno. Nel 1911 Umberto è morto a Monza dieci anni prima, ucciso dallo sparo dell’anarchico Bresci, il giovane re è Vittorio Emanuele III. La monarchia non brilla, ma ha bisogno di stringere nuovamente le redini della Nazione, trovare una forma di aggregazione, tra l’altro si odono già i venti di guerra che girano per l’Europa. Quindi viene organizzata una grande esposizione a Roma per il 50° anniversario, una serie di padiglioni, come era tradizione, dei quali l’unico che è rimasto in piedi oggi è la Galleria Nazionale d’Arte Moderna dove appunto vengono esposte le opere d’arte della nuova Nazione, però c’è il problema che il monumento non sia ancora concluso. Cosa manca? Manca il fregio dell’Altare della Patria. Il concorso che viene indetto nel 1909 vede la partecipazione di una serie di artisti importanti e vincono due scultori,,Arturo Dazzi che conoscete perchè è quello scultore che poi negli anni Trenta ebbe la disgrazia di fare quell’orrenda scultura che stava in piazza della Vittoria, l’Era fascista, una scultura orrenda al di là di ogni valore simbolico, lui stesso non l’amava, e l’altro è Angelo Zanelli che è bresciano, ma che in realtà ha studiato a Firenze e a Roma e lavora a Roma . La commissione conferisce la vittoria ad ambedue gli scultori che hanno proposto cose diverse: il primo, Dazzi, ha dato soluzione al tema con la dea Roma nella nicchia famosa che era stata stabilita da Sacconi accompagnata ai lati da un grande altorilievo che rappresenta l’epopea del Risorgimento con gli eroi del Risorgimento. L’altro, Zanelli, ha scelto una dea Roma diversa e un fregio che rappresenta l’allegoria del lavoro e l’allegoria dello spirito della Nazione. Quindi uno sceglie una strada diciamo più bistolfiana, Zanelli, cioè più simbolista, mentre l’altro, Dazzi, più verista, più legata a una tradizione appunto ottocentesca. Come si fa a stabilire a chi dare il compito poi di realizzare effettivamente l’Altare della Patria? Poi c’è 30 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Dal Vittoriano al Vittoriale. Immagini della Nuova Italia l’urgenza che il 1911 è lì, a ridosso. L’idea è questa: i due scultori hanno a disposizione, pagati dallo Stato, due grandi capannoni fuori Roma dove con una serie di collaboratori stipendiati realizzano grande al vero il fregio e la statua della dea Roma in gesso montati su carrelli. Le due versioni vengono montate una davanti all’altra in modo che si possano aprire e chiudere facendo sì che il pubblico possa vederle e decidere quale far realizzare. Si tratta, come potete immaginare, di una impresa notevole. Quella che vedete è la collocazione del grande fregio in gesso di Dazzi, qui si vedono proprio le scale appena terminate, vedete che ci sono ancora le impalcature intorno al basamento della statua di Vittorio Emanuele II perchè stanno collocando le ultime figure delle regioni, mentre già l’attico è terminato e anche i dipinti della parte del loggiato sono già pronti. Ora Zanelli, questo è un bozzetto in carta velina che apparteneva al suo archivio, che ha come prima idea, esattamente come quella del Dazzi, questa: la dea Roma era pensata come una specie di divinità seduta su un trono che regge da un lato uno scettro e dall’altro questo rotulo delle leggi, che quindi rappresenta le leggi dello Stato, e porta sulla testa un cimiero come la dea Atena perchè naturalmente nella figura di Roma-Italia si fonde anche la figura di Minerva-Atena, l’idea dell’Italia con la corona con le torri viene dopo, qui ancora è l’insieme di tutte le immagini femminili che rappresentino la dea della guerra, la dea della sapienza AtenaMinerva, Roma e Italia. Nella versione di Zanelli, vedete che ci sono ancora gli operai che lavorano, questa parte sembra in pietra ma è gesso, vedete che la sua idea è di immaginare un fregio contino, in altorilievo, che riprende da un lato i fregi di Fidia, l’idea e il modello è il Partenone, anche quello era stato pensato come un luogo di aggregazione iconografica di una Nazione e i marmi del Partenone si studiavano sui calchi in tutte le accademie, ma poi dentro qui c’è ovviamente Michelangelo in tutte le salse possibili, dal Michelangelo pittore al Michelangelo scultore, ma quale scultore non guarda Michelangelo, è inevitabile, ma c’è anche però la presenza di altri due scultori un po’ più vicini al nostro Zanelli, uno è Rodin, il grande scultore francese che aveva segnato il cambio di rotta della scultura europea moderna in una chiave nuova, michelangiolesca sì, ma aperta alle novità dell’arte contemporanea in una monumentalità vistosa, e l’altro ovviamente è Bistolfi a cui Zanelli guarda moltissimo. Infatti non a caso il piatto della bilancia penderà a favore dello Zanelli perchè Bistolfi si impegnerà fino in fondo perchè Zanelli vinca, perchè è quello che corrisponde alla sua idea di poetica. Perchè a Bistolfi? Guardate il movimento ritmico delle figure, questo andamento ritmato che rimanda proprio a quel gusto Art Nouveau che ormai è parte integrante della cultura europea di quegli anni, anzi siamo in ritardo se volete, negli anni Dieci del Novecento. Quindi questa specie di neo-atticità cioè di scultura neo-greca, neo-fidiaca imbevuta di michelangiolismo ma modellata con la forza di Rodin e con la grazia e la leggerezza di Bistolfi. Questa è la formula vincente di Zanelli. E in effetti il successo gli arride. Questa è una fotografia che vi mostra la situazione dell’Altare della Patria i giorni dell’inaugurazione quando il re Vittorio Emanuele III, esattamente il 4 giugno 1911 inaugura il monumento del Vittoriano e dell’Altare della Patria. Collocata qui si intravede la parte in gesso di Zanelli, la sua dea Roma che poi non sarà quella che c’è adesso, il monumento nel suo insieme e guardate cosa si vede qua, questa parte è rimasta, tutta questa non esiste più perchè poi naturalmente Mussolini pensò bene che se c’era il Vittoriano lì, la nuova nuova Italia cioè l’Italia dell’impero non poteva non avere come dire una presenza significante lì e quindi l’idea fu quella di collegare piazza Venezia con il Colosseo abbattendo tutto questo quartiere che esisteva su quelli che erano i Fori Imperiali per farne riemergere le vestigia, in realtà anche quelle in gran parte distrutte. quindi l’antica Roma e la nuova nuova Roma insieme, vedere il Colosseo in relazione al Vittoriano quindi era come dire il Fascismo è l’atto conclusivo del Risorgimento, l’unità della Nazione si conclude con l’era fascista e l’Italia Nazione diventa Italia imperiale. Poi ci costruiscono pure la strada sopra quindi immaginate che cosa significhi per questo quartiere che viene totalmente massacrato. Ma ritorniamo a noi, questi sono due dettagli del fregio realizzato in Botticino, questa è una fotografia scattata dallo stesso Zanelli nel suo laboratorio, questo è il modello in argilla prima poi il gesso grande al vero del cocchio della gloria della Patria che poi serve agli operai che con il pantografo riportano il modello sui massi di marmo di Botticino. Io credo si capisca molto bene qui il prestito da Michelangelo, si coglie perfettamente, come si coglie qui il prestito dall’antichità greca. Quindi è proprio questa fusione di linguaggi che funziona, il pubblico percepisce in questo fregio un’antichità che non c’è perchè è un’opera d’arte contemporanea, un’antichità che non c’è e quindi una gloria che si riallaccia al passato, delle formule narrative grandiose e magniloquenti che sono quelle di Michelangelo però con un taglio e una ritmicità che è tutta narrativa, legata alla modernità. Questa è la formula che funziona per far passare dei valori simbolici. Questo è ciò che resta, perchè non esiste più, è una fotografia del modello in gesso grande al vero della dea Roma collocata nel monumento per l’inaugurazione. Qui Zanelli che cosa ha fatto? Ha ricostruito in chiave moderna, anzi addirittura in chiave viennese, secessionista mi viene da dire, l’Atena crisoelefantina di 31 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Valerio Terraroli Fidia, quella che le fonti antiche descrivono nel Partenone di Atene cioè una grande figura femminile in piedi vestita con un ampio chitone, con le spalle coperte dalla pelle del serpente Pitone, che tiene tra le mani la Nike e la grande lancia ed è pronta ad uscire dal Partenone per difendere l’Attica. Qui Atena diventa Roma e diventa l’Italia che tiene in mano la Vittoria, che ha l’elmo con i paraorecchi sollevati perchè naturalmente non è in battaglia però tiene una grande lancia ed è abbigliata come una dea antica che si rigenera, che risorge appunto dal Vittoriano e che avanza verso la nuova Nazione.Tuttavia la tipologia femminile, il modo di raccontare così come vedete in modo decorativo tutte le pieghe del tessuto plissettato è la tipica donna, la tipica figura femminile, della Secessione Viennese. Questo per dirvi come il gusto contemporaneo influenzi perfino argomenti e temi che sono legati a tutt’altro. Se voi andate a vedere alcune donne dipinte da Koloman Moser o quelle incise per esempio dallo stesso Klimt, trovate tipologie femminili identiche, ma là esse sono la modernità e qui sono la storia, ma funzionano allo stesso modo, il linguaggio è quello lì. Però che cosa succede tra questa statua e quello che noi abbiamo oggi? Nel 1911 il monumento è inaugurato, si decide che Zanelli avrà ed ha il contratto per fare tutto, quindi partono carri ferroviari da Brescia, con il marmo di Botticino, per Roma con i massi che costituiscono il Vittoriano e il fregio dell’Altare della Patria, secondo l’input iniziale di Giusepp Zanardelli, e quindi figuratevi se l’Altare della Patria lo realizzano con un materiale diverso rispetto al monumento che era già in Botticino, infine parte anche l’ultimo marmo, quello per la dea Roma, che ovviamente è un marmo monolitico tagliato dalla ditta Lombardi. Ora però l’esecuzione del monumento si interrompe perchè scoppia la guerra e ovviamente l’Italia ha altro a cui pensare che non iall’Altare della Patria. Tra l’altro alla fine della guerra succede un’altra cosa importante che segna il destino del monumento: nel 1918 una madre che ha perso un figlio sul fronte bellico si reca ad Aquileia, simbolica la scelta, dove vengono collocate aperte otto bare di militi ignoti, cioè di uomini trovati nelle trincee, ma di cui non si sa nulla. Davanti al sagrato della grande cattedrale, e vi ricordo che il patriarcato di Aquileia è l’origine fondamentale della Chiesa d’Occidente tant’è che ogni Papa prima o poi si reca ad Aquileia, il patriarcato di Aquileia è l’origine statutaria del Cristianesimo in Occidente, quindi davanti alla basilica di Aquileia una madre sceglie una bara. Questa bara viene portata attraverso l’Italia, anche lì c’è tutta una scenografia che serve a ricucire un paese lacerato, e la regina accoglie il milite ignoto a Roma dove viene tumulato nell’Altare: sotto i piedi della dea Roma c’è questo giovane che rappresenta tutti i caduti di tutte le guerre. A quel punto il Vittoriano, ossia il monumneto a Vittorio Enmanuele II, diventa tout court il Vittoriano, cioè il monumento alla Vittoria perchè vi è il milite ignoto che rappresenta la Nazione e non è un caso che ancora oggi ci sia una guardia d’onore permanente e un fuoco eterno, perchè quel luogo rappresenta lo spirito della Nazione, quello che alla fine questo monumento voleva essere. Nel 1922 ricominciano i lavori da parte di Zanelli per finire il fregio, ma il gusto è cambiato, è cambiato tutto. La dea Roma, rispetto alla precedente che era una specie di dea arcaica, moderna e antica insieme, diventa una specie di gigantesco guerriero in forme femminili che ha una possanza monumentale, una grandiosità che è più recitata che non monumentale, addirittura il manto che la ricopre non è un tessuto, ma una corazza di metallo, i tratti del volto sono quei tratti chiaramente Art Déco/anni Venti che sarà poi prototipo per moltissima scultura degli anni Venti e Trenta in pieno regime fascista. La tipologia diciamo simbolica dell’Italia diventa questa, cioè una figura che è insieme maschile e femminile, ma che soprattutto è l’Italia guerriera, non è la madre, non è la dea, è appunto l’Italia della guerra. Questo è il valore che ha assunto il monumento oggi, in realtà il giudizio che noi possiamo dare su questo monumento non può essere un giudizio estetico, voi sapete che ancora negli anni Settanta ci furono aspre polemiche per abbatterlo. Uno storico dell’arte avveduto, ma totalmente incapace di leggere la contemporaneità come Federico Zeri, aveva detto più volte anche attraverso i mezzi televisivi che questo monumento andava abbattuto per riportare alla luce le vestigia romane e al limite, se proprio si voleva mantenerne il ricordo, se ne sarebbe potuto abbartene metà e l’altra metà trasformarlo in una terrazza per vedere i Fori imperiali. Questo per dire come poi nel tempo si cambia, per fortuna. Oggi il monumento lo si deve leggere criticamente, è sostanzialmente un brutto monumento, siamo tutti d’accordo, è un brutto monumento perchè contiene un’accozzaglia di situazioni e di scelte.Tuttavia il suo valore, al di là della retorica, è un valore così aggregante e così in qualche modo profondamente radicato ed è quello ciò che significa ed è ormai integrato nella struttura della città, inevitabilmente, e quindi è ormai parte della nostra storia e quindi la sua funzione la assolve perfettamente, al di là di qualsiasi altra considerazione di carattere ideale o morale. Nel frattempo però succede qualche altra cosa, cioè viene eretto un altro monumento che segna un passaggio. Si tratta di nuovo di Leonardo Bistolfi e quello che vedete è un bozzetto di un monumento che 32 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Dal Vittoriano al Vittoriale. Immagini della Nuova Italia si trova a Savona: Il fantasma di Garibaldi. Dal monumento celebrativo come il Vittoriano, negli anni Dieci si passa definitivamente al monumento simbolico. Pensate cosa succederà con i monumenti ai caduti dopo la prima guerra mondiale. Bistolfi si immagina, e lo fa sulla scorta di una poesia di Carducci e tra l’altro su una poesia dello stesso D’Annunzio, Le Laudi, che l’eroe del Risorgimento riappaia alla Nazione ormai unificata come un fantasma che cavalca un prode destriero che si muove sulle nuvole e sulle fiamme e che porta di nuovo l’Italia verso la gloria, cioè abbiamo bisogno del fantasma di Garibaldi per ritrovare l’orgoglio di appartenenza alla Nazione. Questo schema è quello che viene utilizzato in un altro monumento simbolo fondamentale per la nostra Nazione che è il monumento a Quarto dei Mille vicino a Genova, il luogo dal quale partirono i Mille di Garibaldi. Il monumento è un monumento assolutamente significativo perchè innanzitutto è un bellissimo monumento dal punto di vista plastico, ma poi perchè c’è di mezzo d’Annunzio e qui arrivo a chiarire sul perchè parliamo anche del Vittoriale. Il monumento si deve a Eugenio Baroni che è uno scultore genovese, questo è il bozzetto che ha vinto il concorso che fu bandito nel 1903 e poi fu rimesso in gioco nel 1914 e finalmente fu realizzato per il 1915. Il monumento ha delle vicissitudini che vi risparmio, ma cosa rappresenta e perchè si discute molto su questo monumento? Perchè Baroni rappresenta Garibaldi nudo.Anche Canova aveva ritratto Napoleone nudo, ma era in piena cultura neoclassica, il nudo aveva il valore di rappresentare l’eroicità del personaggio, il Napoleone di Brera non è nudo in quanto è Napoleone che è uscito dalla vasca da bagno, ma è nudo in quanto è l’eroe della storia e quindi è perfetto in ogni sua forma, sia morale sia fisica ed è nudo e perfetto come una divinità antica. Ma nell’Italia del governo Salandra, Garibaldi nudo è un po’ “forte” perchè siamo in una cultura provinciale che ancora fa fatica a chiamarsi Italia, a chiamarsi Nazione, che non è ancora uscita dalle difficoltà di una politica sempre altalenante, soprattutto in una situazione di tensione europea come quella che vede i tedeschi e i francesi l’uno contro l’altro armati e noi non sappiamo ancora cosa fare. Il monumento è un’allegoria dello spirito di Garibaldi quindi l’idea è quella di Bistolfi, che riemerge dagli Inferi, non dall’inferno, dal mondo dei morti, incoronato dalla Vittoria e tutti quei corpi che vedete così michelangioleschi sono i garibaldini morti per il Risorgimento, morti per l’Unità della Nazione che ritornano in vita per dire “non ce la fate voi a liberare il paese dagli stranieri, ritorniamo a vivere noi per obbligarvi a farlo”. È l’idea dello spirito della Nazione che ritorna ad emergere. A chi viene in mente di chiamare d’Annunzio per questa cosa? Ad un certo Ettore Cozzani che è animatore di una rivista di poesia e arte, ma soprattutto è uno che è animato anche da uno spirito rivoluzionario, che è legato a un circolo di personaggi che da tempo, non solo a Genova, ma in tutta Italia spingono perchè il governo decida di prender posizione contro l’Austria Ungheria perchè già la Francia è entrata in guerra contro la Germania. Chiamano d’Annunzio che in questo momento è in Francia esule per sua scelta perchè è scappato dai debitori. Nel maggio del 1915 vanno a mettersi insieme, come tal volta accade nella storia un po’ per caso un po’ per volontà, tutta una serie di interessi reciproci; Cozzani perchè vuole diventare una delle figure dominanti di questa spinta contro il governo, Baroni perchè deve inaugurare il monumento, d’Annunzio che accetta l’invito perchè trasforma la propria immagine. D’Annunzio è stato il primo intellettuale in assoluto che ha costruito tutta la propria fortuna sull’immagine. Egli era uscito ignominiosamente da questo paese qualche anno prima come transfuga e come debitore, cioè con una marea di debiti, era fuggito scappato come una specie di Casanova un po’ in ritardo, con le donne che piangevano, quindi non proprio una bella figura. Come ritorna in Italia? Ritorna come guerriero.Trova il modo di essere lui chiamato dall’Italia arrivando in questa Nazione proponendo ed essendo creduto, perchè questo è il bello, tutti ci credono, di essere veramente lo spirito della Nazione, una specie di monumento, di Vittoriano trasformato in persona. Vi leggo soltanto due passi dei Taccuini: il 24 luglio del ‘14 riceve l’invito e dice: “cerco le fotografie del monumento di Eugenio Baroni ai Mille inviatomi da Ettore Cozzani. È un monumento marino decorato dal flutto decumano, gli eroi risorgono con un ritmo di marea, mi ricordo di non aver ancora aperta la lettera che l’accompagna, la cerco, la apro, la leggo e tutto ecco che si rischiara. Vi è certo una provvidenza apollinea, quel che mi è offerto è tal cosa che risolve tutti i dubbi e tutte le perplessità, ci salva da ogni errore, da ogni deformazione, dai contrattempi, dai dissensi, dai moti intempestivi. Il municipio di Genova mi chiama e mi chiede di parlare al popolo d’Italia il 5 maggio all’inaugurazione del monumento nel giorno dell’anniversario della dipartita meravigliosa. Quale più grande occasione? Andrò, condurrò meco la legione garibaldina”, lui addirittura aveva pensato di 33 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Valerio Terraroli arrivare da Marsiglia a Quarto dei Mille con una nave con sopra un centinaio di personaggi pagati vestiti da garibaldini anche se poi non glielo lasciano fare. E ancora: “da ogni parte d’Italia tutti gli spiriti rossi potranno accorrere, una forza impetuosa si accalcherà intorno al bronzo perenne, dove i Mille salparono quivi i nuovi Mille approderranno. Il movimento sarà irresistibile. Dallo scoglio di Quarto l’esercito d’Italia muoverà verso i suoi confini...”. Cosa vuol dire questo, che il monumento di Quarto dei Mille è il secondo punto di arrivo della forma di una nuova immagine dell’Italia. Ciò che serve in questo momento alla Nazione, siamo nel 1915, non è più il grande apparato funebre per il padre della Patria, ma serve un’immagine, che in questo caso è il monumento di Baroni, che rappresenti in modo simbolico e quindi non in modo descrittivo, lo spirito eroico della Nazione. D’Annunzio arriverà tranquillamente in treno, poi il 5 maggio fa il discorso, un discorso ben preparato. Il re non si presenta all’inaugurazione e questa cosa d’Annunzio la stigmatizza volutamente, è contentissimo perchè il fatto che non ci sia il re rende lui il protagonista, e recita questo suo discorso abbarbicato alle gambe di Garibaldi con una massa di gente sotto. Il giorno dopo ci sono dei moti a Genova fermati dalla polizia, il giorno successivo a Milano e a Bologna, cominciano dei fuochi di proteste per andare in guerra; il 24 maggio il governo Salandra dichiara guerra all’Austria-Ungheria. È una specie di cascata, certo retorica, ma è di nuovo un’immagine che catalizza gli spiriti di una Nazione. E poi si arriva all’atto conclusivo cioè al Vittoriale degli Italiani. In realtà il percorso del Risorgimento è finito, ma non per tutti perchè la guerra si è conclusa, c’è stato il Trattato di Versailles, come sapete d’Annunzio non è d’accordo con ciò che è accaduto e poi lui, lo sappiamo tutti, il gioco di guerriero durante la guerra l’ha esercitato alla grande anche se in realtà fa delle imprese di tipo strategico, di carattere simbolico, certo anche pericolose, nel volo su Vienna poteva morire, però è più propaganda che non azione di guerra, non è che sia andato nelle trincee a combattere, la Beffa di Buccari uguale. Però in questo modo il poeta-soldato diventa per l’intera Nazione il ricettacolo del concetto di Nazione. Quando la guerra finisce e l’Italia ridisegna i propri confini lascia fuori come è noto Fiume e l’Istria. D’Annunzio che sa benissimo che finita la guerra è finito il suo ruolo da guerriero, inventa un’operazione, l’eroe soldato d’Annunzio non può assolutamente andare a casa quindi raccoglie un gruppo di legionari fedeli e conquista, si fa per dire, in realtà entra e prende possesso delle città di Fiume e dell’Istria ed è il momento famoso di contrasto con il governo italiano che si concluderà in modo drammatico nel Natale del 1920 con il bombardamento di Fiume. La ragione ufficiale che d’Annunzio utilizza per andare a Fiume con i legionari è che il Risorgimento non è finito se l’Italia non ritorna in possesso delle terre che sono italiane, abitate da italiani. Quindi egli dice “io che sono quello che fondamentalmente ha fatto partire la guerra da Quarto dei Mille, concludo il Risorgimento portando a casa Fiume e l’Istria”. D’Annunzio non può dopo il Natale del 1920 tornare in Italia, ad esempio a Roma o recarsi all’estero, ma si cerca un luogo che sia un luogo significativo e simbolico perchè ha in mente di fare un’operazione. Il luogo è Gardone Riviera, quello che diventerà il Vittoriale degli italiani, a cui lui comincia a pensare già dal 1921 quando va ad abitare in una casa settecentesca con un po’ di oliveti e niente più. Lì comincia a progettare qualcosa che chiamerà il Vittoriale che si riferisce come è noto a un poema spagnolo che si intitola in questo modo e che è citato all’ingresso della cittadella, ma quello che ci interessa è che lui immagina di trasformare questo suo luogo di residenza definitiva (all’inizio non pensa sia definitiva perchè pensa di essere chiamato a Roma a ricoprire ruoli ben più alti di quelli che copre lì, poi con la marcia su Roma di Mussolini e le leggi fasciste del ‘24 capisce che due galli in un pollaio non ci stanno) e gioca le sue carte trasformando quel luogo in un sacrario che è una specie di Vittoriano trasformato in Vittoriale, dove le reliquie della Patria sono gestite come simboli che per i cittadini hanno un valore religioso. Costruisce una sorte di Sacro Monte, utilizza lo schema dei Sacri Monti inventati nella cultura borromaica, quindi nel cattolicesimo riformato, posti a margine simbolico lungo le valli alpine contro la riforma protestante che dilagava dalle Alpi, i Sacri Monti sono dei percorsi fisici e spirituali sulle montagne costituti da una serie di cappelle, la via Crucis, e che hanno compimento nella cappella più alta dove c’è ovviamente il sepolcro di Cristo. Il Vittoriale è un Sacro Monte laico, è pensato esattamente come un percorso fisico, simbolico e spirituale, che va da un punto iniziale a un punto finale. Il punto finale è il sacrario degli eroi con al centro il monumento funebre di D’Annunzio. Il Vittoriale non è solo la casa di D’Annunzio, anzi la casa si chiama Prioria, il Vittoriale è tutto l’insieme e il percorso di questo Sacro Monte inizia dalla grande piazza di adunanza, il portale di ingresso, il percorso dei Pili della Vittoria, l’arrivo nella grande piazzetta Dalmata sulla quale si affacciano la Prioria e Schifamondo, poi il percorso di nuovo in salita arriva ai cannoni della guerra, al MAS che diventa esso stesso una reliquia (fa costruire un edificio che è un reliquiario per il motoscafo) e poi naturalmente la nave Puglia che è la reliquia delle reliquie incastonata nella montagna e per concludere il visitatore arriva nel 34 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Dal Vittoriano al Vittoriale. Immagini della Nuova Italia sacrario degli eroi, una specie di collina sacra circondata da un triplice giro di mura dove i legionari sepolti guardano al Comandante, quello che per antonomasia e per sempre resterà il Comandante. Ecco il portale d’ingresso, qui non c’è ancora la fontana che è stata realizzata negli anni Trenta, ci sono gli incipit del poema e c’è questa scritta, uno dei motti dannunziani più noti che è “Io ho quel che ho donato” che è una risposta alla Nazione perchè lui dona immediatamente il Vittoriale alla Nazione, lo fa perchè in questo modo collega il suo progetto alla Nazione italiana, il suo Vittoriale è come il Vittoriano, deve essere mantenuto dallo Stato. Nei percorsi uno dei punti nodali è il Pilo della Vittoria che simula una specie di albero maestro di una nave di pietra, sopra viene eretta nel 1935 una scultura del 1916 di Arrigo Minerbi che è La Vittoria del Piave. La Vittoria di Minerbi ha i piedi incatenati, è una figura femminile che si alza fremente con le ali che appena si muovono, è l’Italia-Roma Minerva-Atena che diventa lo spirito della Nazione umiliata che vede la sconfitta di Caporetto, vede l’esercito italiano sconfitto dall’esercito austriaco, una sconfitta che quasi portava alla fine della guerra però proprio da quel momento l’Italia, come in questa iconografia, freme, si libera dalle catene e inizia la propria riscossa, dalla sconfitta di Caporetto si arriverà alla vittoria finale. Quindi è tutto un gioco di simboli legati a un avvenimento bellico che riunisce una formulazione iconografica che mette insieme tutte quelle tipologie femminili di cui abbiamo detto. Il Mausoleo che vediamo oggi è stato realizzato dopo la morte di d’Annunzio su progetto dell’architetto Maroni, progetto approvato da d’Annunzio che però muore nel 1938 e non lo vede realizzato. Ai suoi tempi le arche erano antiche arche romane regalate dal comune di Vicenza e come vedete sono abbinate a dei cannoni della guerra mondiale, c’è di nuovo l’abbinamento anticomoderno, la guerra appena finita e l’idea dell’eroe all’antica. E poi naturalmente c’è la nave Puglia, guardate il collegamento visivo visto dall’alto tra la Prioria, la casa privata, qui ci sono i giardini segreti, la nave Puglia, questo è il MAS e questa è la collina degli eroi. La nave Puglia ha sulla prua di nuovo una Vittoria che è la Vittoria angolare di Renato Brozzi che si erge su un fascio di lance e che domina la prua di una nave che è una nave vera, anche questa è una follia se ci pensate perchè metà della nave è quella vera in acciaio, l’altra metà è muratura costruita da Maroni come se fosse di pietra, ma è l’idea che la nave sia ancorata alle reliquie della guerra; la prua è infatti orientata verso Fiume ed è pronta a ripartire con gli eroi morti per riportare Fiume all’Italia. Quindi un Risorgimento che non finisce mai, con una retorica che viene continuamente ribadita. Ho messo per finire due immagini dell’interno perchè nell’interno della Prioria ci sono tantissime reliquie, questa non a caso è la Stanza delle Reliquie e c’è il leone che i genovesi gli hanno regalato per il discorso di Quarto, ci sono le medaglie di guerra e i proiettili, e c’è soprattutto il Leone Marciano dipinto da Guido Marussig con il proiettile che entrò nella finestra da parte della corazzata italiana che sparò i primi colpi e colpì il dipinto sopra la testa di D’Annunzio. Nei giardini segreti c’è un reliquiario costituito dai massi presi nei monti dove i soldati italiani hanno versato il loro sangue, Monte Grappa, Monte Cimone ecc. e poi per chiudere c’è un Arengario, cioè una specie di luogo magico in mezzo a una foresta di magnolie costituita da una foresta di colonne tante quante furono le battaglie della prima guerra mondiale, dove c’è una specie di leggio perchè qui venivano lette ad alta voce nella notte che ricordava l’abbandono di Fiume i nomi dei legionari caduti durante l’abbandono della città e soprattutto c’è il trono del poeta-soldato affiancato dalla Vittoria di Napoleone Martinuzzi che molto assomiglia alla dea Roma di Zanelli. In realtà in questo percorso simbolico, in questo Sacro Monte degli italiani che è il Vittoriale il cui titolo corretto è il Vittoriale degli italiani proprio perchè è della Nazione, d’Annunzio aveva anche pensato ad un percorso intimo dove lui stesso diventa reliquia ed è la stanza dei Sonni Puri, la cosiddetta Stanza del Lebbroso che aveva previsto che la sua salma fosse esposta alla Nazione. L’idea è di nuovo una scalea, il letto è una bara come quella del milite ignoto, tutti i simboli in questa stanza sono legati alle Laudi di San Francesco, tutto è legato al mito del sole e della luce e su questo cataletto l’eroe-soldato-poeta sarebbe diventato tutt’uno con la Nazione. In quel momento il Risorgimento che era partito da Porta Palatina a Torino si chiudeva simbolicamente: era il marzo del 1938. 35 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Elisabetta Conti Brescia e l’unità d’Italia L’unità d’Italia è frutto di una lunga conquista che si dipana attraverso diverse fasi: le Società segrete e i Moti carbonari del 1820-21 e del 1830-31, la propaganda di Mazzini e le rivoluzioni del 1848-49. Brescia dal 1815, dopo il Congresso di Vienna quindi, fa parte integrante dell’austriaco Regno lombardo-veneto. La città vive questo momento di status quo legato alla Restaurazione con una certa difficoltà e diviene, a poco a poco, una delle capitali della Carboneria, originatasi dal sostrato borghese della nostra società cittadina. Ricordiamo alcuni personaggi molto noti che parteciperanno ai moti carbonari: Ludovico Ducco, Antonio Dossi, Giovita Scalvini, i fratelli Camillo e Filippo Ugoni e Silvio Moretti, che morirà nel carcere dello Spielberg nel 1832. Nel 1848 si sviluppa appieno la nuova coscienza nazionale, e l’ambiente è pronto ad accogliere, anche a Brescia, il pensiero politico neo-guelfo di Gioberti. Il nuovo Papa “liberale”, Pio IX, al secolo il cardinale Mastai-Ferretti, per cui risuonano gli “osanna” anche nel nostro Teatro Grande, rappresenta il Papa che entusiasma gli animi patriottici e diffonde le idee di libertà ed indipendenza. Nello stesso 1848 il Re delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone, concede la Costituzione e sarà seguito, a breve, del Granduca di Toscana, Leopoldo II di Lorena. Il 1848 è l’anno delle grandi rivoluzioni: Parigi e Vienna insorgono, e a Milano scoppiano le Cinque Giornate contro il dominio austriaco. Col vento dell’indipendenza il rapporto con gli Austriaci si inasprisce anche a Brescia, dove si decide di istituire una Guardia Civica per la Pubblica Sicurezza. A questo proposito, ho avuto modo di esaminare un’interessante documentazione inedita costituita dal carteggio di Gianbattista Lucchini dal titolo Guardia Civica del 1848, di cui egli stesso è un comandante in quanto uomo probo. Lucchini riporta i nomi ed i cognomi della Guardia della IV Compagnia: sono tutti nomi bresciani di uomini di estrazione borghese o popolare, ma anche nobiliare, che abitano nelle contrade del Quartiere della Pallata, e si aggirano per la città e per “le più remote stradelle” per mantenere la pubblica sicurezza. È annotato il giro che devono fare le Pattuglie nelle sere di Domenica nei quartieri della città con le antiche denominazioni delle vie e delle piazza: Contrada Bruttanome, Corso Mercanzia, Arco Vecchio, Contrada Rossovera, Mercato Nuovo e Piazza dell’Albera, lungo cui si snoda il percorso della città vecchia. Giambattista Lucchini è esempio di quel folto gruppo di intellettuali che sentono, a partire dal 1848, l’esigenza di Unità nazionale ed è fortemente cattolico. È esponente dunque del Risorgimento bresciano moderato, libero, cattolico-giobertiano di ispirazione conciliatorista. Lucchini si può contemplare come anticipato esempio dell’uomo cattolico che, dal 1848 al 1870 e poi fino al 1912, vive il dramma di non essere cittadino italiano a tutti gli effetti, ma vuole conciliare la fede cattolica con le esigenze dell’ Unità nazionale. Lucchini nelle sue Considerazioni, che fanno parte del menzionato carteggio, auspica che Brescia sia parte viva ed integrante dell’Italia “una, forte, indipendente, rispettata e temuta”, secondo il dettato giobertiano. Accusa l’Italia di disamore davanti al nemico in armi, perché “rinuncia all’exequatur e al placet”, notando la presenza di un “governo nel governo”. Aggiunge che “l’impulso alla grande opera dell’educazione nazionale è già dato in Italia dal Risorgimento medesimo, nel quale il santo entusiasmo per la libertà e l’indipendenza è partito dai migliori, ma ha purificato anche le plebi ed ha disposto all’opera dell’educazione regolare, degna di uno stato libero”. E proprio Achille Lucchini, figlio di Giambattista, sarà il continuatore dello spirito risorgimentale e patriottico del padre: nel 1859 combatte come volontario e fante del X Reggimento nella Campagna per l’Indipendenza e l’Unità d’Italia. Achille diviene poi sergente della Guardia Nazionale di Brescia nel 1860, è nominato da Vittorio Emanuele II Portabandiera del II Battaglione, è volontario nel 1866 36 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Brescia e l’unità d’Italia e partecipa alla presa di Porta Pia nel 1870, compiendo in tal modo tutto il percorso risorgimentale verso l’Italia unita con Roma capitale. Gli ideali di indipendenza e libertà diffusi nel 1848 rimbalzano anche nei versi dialettali di un anonimo poeta occasionale che prende parte, come Lucchini, ai fatti di Brescia del 1848 e poi alle Dieci Giornate. I cento sonetti composti in dialetto bresciano vengono affidati dall’anonimo poeta ad Eugenio Paroli, che li stampa nel 1902, presso la tipografia Apollonio, con il titolo Lé dés zornade del Quarantanöf. È utile leggerne almeno una per avere ben presente la preoccupazione del popolo bresciano ed italiano nel 1849 durante i combattimenti per l’indipendenza dell’Italia: L’Italia nel 1848-49 Ah, póera Italia!… Nel Quarantanöf Come t’endàet drét drét al preçepésse! A Venessia l’assedio; a Trì, stöf D’ésser ligàcc da chél tal armestésse I pensàa de tacà guera de nöf; a Milà i era pié de pregiödésse – Con gran piaçér dei noss Padrù martöf! – A Nàpoli’l Burbù coi sòlicc vésse; Róma e Forense ‘n bras à la discordia… Póera Italia!… En prençépe, – engulusida, Encoragiada a far guera a l’Impero – Tè ghé vinçìt fin che gh’è stat concordia; Ma dopo quater més, l’ niù sparida, Tè ghiet amò söl còl el pé straniero! E ben sono state illustrate anche dal noto pittore Faustino Joli le vicende della Guardia Civica e dei moti del 1848-49. Joli è testimone diretto del Risorgimento bresciano e, in alcuni disegni inediti, offre impressioni del volto storico della città in battaglia alla metà del XIX Secolo. Ne riportiamo due nei quali si leggono l’entusiasmo e la viva partecipazione ai fatti del 1848-49. Nel primo disegno osserviamo un soldato che sale sul carro militare e nel secondo l’immagine di una carica di cavalleria. Lo spirito che ne esce è quello antieroico dello Joli cronista, che ci lascia testimonianza partecipe e viva dei moti patriottici bresciani. 37 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Elisabetta Conti Il popolo scende in piazza a Brescia nel marzo del 1848, gli Austriaci si ritirano dalla città e si costituisce un governo provvisorio, presieduto da Luigi Lechi. Il 23 marzo 1848 il Piemonte dichiara guerra all’Austria e le avanguardie piemontesi entrano nel territorio bresciano. Gli Austriaci nell’agosto del ’48 vincono i Piemontesi a Custoza e occupano Milano. Il generale Salasco firma l’armistizio. Gli Austriaci rientrano a Brescia e nel ’49 il maresciallo Haynau, soprannominato “la iena”, impone al nostro territorio una pesante multa. In quegli anni è attivo a Brescia un comitato insurrezionale filopiemontese che si occupa di raccogliere armi per i patrioti. Tra il 23 marzo ed il 1° aprile 1849 Brescia vive l’eroica stagione delle Dieci Giornate per l’indipendenza dagli Austriaci, magistralmente fissate nei dipinti di Faustino Joli. Sono dieci giorni di combattimento feroce contro gli Austriaci asserragliati in Castello, che bombardano la città dall’alto agli ordini del capitano Loeschke. Il generale austriaco Giovanni Nugent giunge a Brescia al comando di nuove truppe e per tre ore viene fermato a S. Eufemia dai patrioti bresciani guidati da Tito Speri. Si combatte fieramente a Largo Torrelunga, al Rebuffone e a S. Francesco di Paola. Poi giungono i rinforzi austriaci del generale Haynau che conduce i suoi soldati in Castello, passando per la Via del Soccorso e attacca contemporaneamente le porte della città dall’esterno. Queste tattiche austriache ricordano nelle modalità l’attacco e la difesa della città al tempo del Sacco di Brescia da parte di Gaston de Foix nel lontano 1512. Va ricordata inoltre la gloriosa salita in Castello del padre francescano Maurizio Malvestiti con la bandiera bianca per trattare con Haynau la resa della città: egli è costretto suo malgrado solamente a vedere la città dall’alto messa a ferro e fuoco. Durante la decima giornata, il 1° Aprile 1849, gli Austriaci sferrano l’attacco finale, dilagano in tutta la città, saccheggiano le case e fanno strage di uomini e donne. Sulla Loggia sventola la bandiera della resa. L’Austria ha vinto. Nel 1851 giunge a Brescia il giovane imperatore Francesco Giuseppe che, comprensibilmente, viene accolto dalla città con molta freddezza. Nel 1852 viene arrestato l’eroe delle Dieci Giornate, Tito Speri, che salirà sul patibolo a Belfiore (Mantova) il 3 marzo del 1853 insieme ad altri patrioti. Ma in città si alimenta ulteriormente lo spirito risorgimentale ed il desiderio di indipendenza anche attraverso la costituzione del “Gabinetto letterario”, istituto nel 1857 dal giovane avvocato Giuseppe Zanardelli, che diviene centro di cultura liberale. Sullo scacchiere europeo gli accordi di Plombières del 1858 tra il Primo Ministro piemontese Camillo Benso Conte di Cavour, abile ed estremamente capace di gestire poi il successivo percorso nazionale, e Napoleone III di Francia, portano felicemente ad una alleanza che strategicamente sarà determinante per lo sviluppo dell’Unità nazionale. È la prima volta, forse, che Cavour o comunque gli italiani pensano ad un’alleanza con un’importante nazione europea come la Francia che, in caso di attacco dell’Impero Asburgico al Piemonte, sarebbe entrata in guerra a fianco di Vittorio Emanuele II. Il conflitto scoppia nell’aprile del 1859 e vede le vittorie, una dietro l’altra, dei Franco-piemontesi a Montebello, Magenta, Solferino e San Martino. Brescia il 13 giugno 1859 viene finalmente liberata dagli Austriaci e il patriota Giuseppe Ragazzoni innalza in castello la bandiera tricolore. Il 17 giugno entrerà in città il re Vittorio Emanuele II, accolto come liberatore, e arriverà a Brescia anche Garibaldi, salutato da una folla esultante. Il 20 giugno in Castello c’è l’ incontro tra Vittorio Emanuele II e Napoleone III. Ma il 24 giugno del 1859 si svolge la più terribile battaglia del Risorgimento: la battaglia di Solferino e San Martino tra gli Austriaci e i Franco-piemontesi. Lo scontro dura tutta la giornata e alla sera gli Austriaci si ritirano: sul campo restano quasi 30.000 uomini, tra morti e feriti di entrambi gli schieramenti. Va ricordato l’esempio di grande solidarietà che in tale occasione sanno dimostrare Brescia e provincia e la zona di Castiglione delle Stiviere (Mantova): si aprono gli ospedali, le case private, le chiese ed i conventi per diventare ricovero delle migliaia di feriti di ogni esercito. Si trova in quelle zone anche Enrico Dunant, famoso e importante banchiere svizzero, che è giunto a Brescia per parlare con Napoleone III di alcuni affari di lavoro. Di fronte a tanta sofferenza e 38 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Brescia e l’unità d’Italia morte causate dalla violenta battaglia rimane colpito e commosso, vede però la solidarietà della popolazione e la capacità, in gran parte delle donne, di soccorrere i feriti. Nasce in lui l’idea di costituire il Movimento Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa che è la più grande organizzazione umanitaria del mondo. Nel 1862 Dunant, insieme ad altri quattro cittadini svizzeri (il giurista Gustave Moynier, il generale Henry Dufour e i medici Louis Appia e Theodore Maunoir) crea il Comitato ginevrino di soccorso dei militari feriti comunemente chiamato Comitato dei cinque che promuove le idee di Henry Dunant proposte nel libro Un ricordo di Solferino ed il 26 ottobre 1863 organizza, a Ginevra, una Conferenza Internazionale con l’adesione di 18 rappresentanti di 14 Paesi che firmeranno, il 29 ottobre dello stesso anno, la Prima Carta Fondamentale contenente dieci risoluzioni che definiscono le funzioni ed i mezzi dei Comitati di soccorso. La battaglia di Solferino e San Martino termina l’11 luglio, con l’armistizio di Villafranca, voluto dallo stesso Napoleone III: la Lombardia è libera e verrà annessa al Piemonte il 10 novembre. Il 25 marzo 1860 si svolgono le prime libere elezioni per tutti gli uomini, maschi, che hanno 25 anni compiuti, che sanno leggere, scrivere e pagano tasse per oltre 40 lire. Brescia e Provincia vota nei 16 collegi elettorali e, in continuità con la spirito risorgimentale, elegge tra i deputati Filippo Ugoni, Giuseppe Zanardelli e Federico Odorici. Giuseppe Zanardelli raccoglie intorno a sé i liberali progressisti che hanno come organo ufficiale “La Gazzetta di Brescia”, mentre i liberali moderati e filo piemontesi si radunano intorno al conte Diogene Valotti ed hanno come organo di comunicazione “La Sentinella”. Per compiere l’Unità d’Italia Garibaldi parte da Quarto il 5 maggio 1860 e, in seguito all’impresa garibaldina, votano l’annessione al Regno di Sardegna: il Meridione, la Sicilia, le Marche e l’Umbria. Con Garibaldi partono da Quarto anche molti bresciani. Il 17 marzo 1861 si proclama a Torino il Regno d’Italia.Il 18 febbraio 1861 viene inaugurato il Parlamento con la prima legislatura del nuovo Stato unitario: Vittorio Emanuele II assume il titolo di Re d’Italia. A Brescia viene eletto G.B. Nicolini presidente della provincia e avvia da subito, con grande impegno, l’opera di sviluppo dell’agricoltura, dell’industria e delle comunicazioni, mentre il nuovo sindaco è il conte Diogene Valotti, esponente di quei liberali moderati che domineranno la scena politica bresciana nel primo decennio dell’unità. Ad essi si avvicenderanno poi i liberali progressisti guidati da Giuseppe Zanardelli che condurranno le sorti di Brescia per un quarto di secolo. Il movimento cattolico inizierà il suo percorso che sfocerà con l’elezione in consiglio comunale del primo rappresentante cattolico: Giuseppe Tovini, ma sarà ormai l’anno 1882 39 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Elena Lucchesi Ragni, Maurizio Mondini Il Museo del Risorgimento di Brescia. Dal “padiglione” di Torino (1884) al Palazzo Martinengo da Barco (1893) Manifesto della Commissione municipale per la Mostra storica del Risorgimento Nazionale. Il civico Museo del Risorgimento fu istituito nel 1887 allo scopo di raccogliere e conservare la memoria delle vicende storiche e dei personaggi che avevano segnato il processo di formazione dello Stato unitario. Il suo patrimonio comprende un insieme assai eterogeneo (quanto numericamente rilevante) d’oggetti, in maggioranza stampe e documenti a stampa, fotografie, armi e uniformi, dipinti, medaglie, databili dall’età napoleonica alle due guerre mondiali. Come si verifica in altre simili istituzioni coeve, le origini del museo bresciano riflettono il clima politico e culturale degli ultimi decenni dell’Ottocento, quando la fase “eroica” del Risorgimento da poco conclusa, è assunta, in particolare dalla Sinistra liberale e filomonarchica, come valore legittimante del nuovo stato unitario e della sua classe dirigente. I musei dovevano così contribuire al formarsi di una coscienza e di una tradizione nazionale con modalità pedagogiche e celebrative tali da coinvolgere, anche “emotivamente”, un pubblico vasto e indifferenziato, in gran parte analfabeta. La dimensione del sacro e del mito attribuita all’epopea risorgimentale e ai suoi protagonisti si trasfonde negli stessi musei, a loro volta considerati “templi laici del patriottismo”, dove era possibile venerare le “sacre reliquie della patria” (G. D’Annunzio). Motivazioni analoghe sottendono ai pellegrinaggi sulle tombe dei martiri e alle commemorazioni solenni, così come alla diffusione delle lapidi e dei monumenti nelle strade e nelle piazze delle città italiane. Se la nascita di questa particolare tipologia di museo (che non trova confronti in Europa) rientra nella “mitizzazione” del Risorgimento avviata in età umbertina, rimane il problema della sua attuale funzione e, di conseguenza, del suo rinnovamento. Senza entrare nel merito della questione, basterà ricordare che alla consapevolezza (acquisita almeno nell’ambito degli studi) del suo “valore” di testimonianza ormai storicizzata, corrispondono tuttavia esiti museografici alquanto diversi: a titolo esemplificativo sono da segnalare, almeno in ambito lombardo, oltre alle perduranti chiusure (Cremona, Mantova), nuovi percorsi espositivi che, pur mantenendo la sequenza cronologica e tematica tipica delle sistemazioni novecentesche (Milano), hanno talvolta assunto più esplicite valenze didattiche, conservando la titolazione originaria (Pavia), oppure sostituendola (come il “museo storico della città” di Bergamo). Brescia rientra, piuttosto precocemente, nel novero (una ventina) dei musei del Risorgimento aperti in Italia settentrionale negli ultimi due decenni Ottocento. Tra le circostanze che ne favorirono l’istituzione emerge, come modello esemplare, la mostra dedicata alla “Storia del Risorgimento nazionale”, allestita nel 1884 in un grande padiglione (in stile neorinascimentale con al centro la statua di Vittorio Emanuele II) dell’Esposizione Generale Italiana di Torino. All’esibizione del progresso civile della nuova Italia nei diversi ambiti (scienza, tecnica, industria, economia), si affiancava l’evocazione delle vicende, da poco trascorse, sulle quali si andava fondando tale sviluppo e l’identità stessa della Nazione. Il richiamo al patriottismo dei padri poteva conciliare, oltre alle contrapposizioni del passato, le delusioni e le contraddizioni del presente. Gli organizzatori torinesi, nel gennaio dello stesso anno, interpellarono le amministrazioni di numerose città italiane, al fine di raccogliere “tutte le memorie, i documenti, i quadri, le statue, gli emblemi ed ogni altra cosa che valga a ricordare qualche episodio della storia del Risorgimento italiano, e sia quindi diretta a manifestare l’indefessa costanza e la poderosa attività degli Italiani alla conquista dell’unità e della libertà della Patria. (…) In ogni Comune vi sono memorie sacre al culto di ogni Italiano, ogni Comune ha dato il suo generoso contingente a qualche falange di martiri e soldati che hanno 40 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Il Museo del Risorgimento di Brescia combattuto per la patria”. La celebrazione delle glorie locali, che nel percorso espositivo si risolse nel riservare ad ogni città un proprio settore, ritorna poi, con sotteso orgoglio municipalistico, nell’istituzione di gran parte dei musei del Risorgimento che, tranne i casi “nazionali” di Torino e di Roma, hanno, di fatto, mantenuto l’originaria pertinenza civica. All’appello risposero quasi tutti i capoluoghi delle province venete, emiliane e lombarde, mentre l’Italia centrale e meridionale era unicamente rappresentata, sia pure in modo cospicuo, da Roma, oltre che da Perugia e da Messina. L’inedita documentazione archivistica (conservata presso lo stesso museo), integrando quella già nota, consente di meglio valutare la partecipazione di Brescia all’esposizione torinese e le circostanze che, pochi anni dopo, motivarono la costituzione del Museo del Risorgimento. In entrambe le occasioni, nelle “commissioni esecutive”, si nota la presenza degli stessi personaggi, così come rimasero pressoché invariate le modalità espositive e la tipologia dei materiali. Con la sconfitta della Destra nel 1876, nella città e nella provincia prevale l’egemonia politica del “partito” zanardelliano, d’orientamento liberal - democratico e anticlericale. Ciò si riflette pure nella composizione della commissione municipale, nominata dal sindaco zanardelliano Giuseppe Bonardi. Allo stesso Giuseppe Zanardelli, allora deputato al Parlamento, si aggiunsero l’imprenditore armiero Francesco Glisenti, pure deputato zanardelliano, Carlo Cassola, che fu alla testa dell’insurrezione del 1849, Gabriele Rosa e Antonio Frigerio, esponenti del mazzinianesimo locale. Non potevano quindi mancare alcuni veterani delle guerre risorgimentali: Paolo Peroni, Pietro Amadio, Eligio Battagia; Giuseppe Capuzzi, sbarcato a Marsala con i Mille, assunse la carica di segretario. L’iniziativa fu pubblicizzata da un manifesto (7 febbraio), dove si ricordava come Brescia avesse “scritto una pagina memoranda della storia nazionale ed ha quindi diritto di prendere parte a questa Mostra destinata ad illustrare le varie fortune del movimento che raccolse in una sola fede, in un solo patto, la grande Famiglia Italiana. (…) Il periodo che siamo chiamati ad illustrare comincia 41 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Allestimento di una sala della Mostra storica del Risorgimento Nazionale, fotografia storica. In basso, catalogo della sezione bresciana della Mostra storica del Risorgimento Nazionale, frontespizio. Elena Lucchesi Ragni, Maurizio Mondini Rilievi del Monumento alle Dieci Giornate. Sotto, album inviato dalle signore di Torino a quelle di Brescia per la cura dei feriti nel 1859, esposto a Torino. con i moti del 1821 e 1831; segue col risveglio che maturò la rivoluzione e la guerra del 1848, procede colla lotta titanica del 1849; continua colla resistenza di dieci anni alla dominazione straniera, colle guerre del 1859, 1860, 1866, e si chiude coll’entrata delle truppe nazionali in Roma. Si tratta di promuovere un’opera altamente nazionale destinata ad offrire gli elementi necessari a chi, in tempi più tranquilli, vorrà accingersi a scrivere la storia della rivoluzione italiana. Confidiamo quindi che a questo appello vorrà rispondere volonteroso chiunque ami il decoro e la grandezza della Patria, facendo pervenire alla Commissione che risiede nel Palazzo municipale della Loggia, entro il 15 aprile, gli scritti, gli stampati, le memorie e tutto quanto può accrescere l’importanza della Mostra Bresciana.” Oltre al manifesto, fu stampata una lettera (9 febbraio) che invitava un centinaio di “benemeriti”, selezionati nella città e della provincia, a collaborare alla raccolta dei materiali. A questo fine si dedicò pure un “comitato consultivo”, composto da tredici autorevoli cittadini (nobili, commendatori o professori) che supportassero la stessa commissione, per accelerare i tempi e superare le resistenze talvolta frapposte alla concessione, sia pure temporanea, di preziosi ricordi famigliari. La risposta corrispose certamente alle attese, considerando la quantità e l’importanza delle testimonianze concesse dai prestatori privati. Solo pochi oggetti pervennero poi al Museo del Risorgimento; molti altri sono andati dispersi o sono difficilmente reperibili. In particolare, sarebbero da ritrovare alcune testimonianze figurative, come l’“album di schizzi a matita delle battaglie del 1859” (prestato ed eseguito da Federico Odorici), il “bozzetto di Federico Odorici tolto dalla battaglia di San Martino il giorno 25 giugno 1859” (conte Trecagni), l’“album della guerra del 1848, in 48 pagine di testo con 12 vignette del pittore bresciano Tommaso Castellini e tre schizzi a matita dello stesso” (conte Francesco Caprioli), i ritratti dei fratelli Camillo e Filippo Ugoni, il dipinto di Angelo Inganni raffigurante “la battaglia del 31 marzo 1849 fra i sollevati bresciani e le truppe austriache nella via di San Barnaba” (Bernardo Salvadego). Si identificano invece facilmente i quattro dipinti eseguiti da Faustino Joli, con episodi delle Dieci giornate, allora concessi dalla contessa Maria Ghisi Pellegrini, ora nei Civici musei. La commissione si rivolse pure alla Biblioteca Queriniana e alla “Fabbrica del Camposanto” cittadino. La prima rese disponibile una decina tra opuscoli, proclami e manoscritti, mentre la seconda cercò e trascrisse 56 lapidi che, anche indirettamente, ricordavano fatti d’armi, militari caduti, personaggi esiliati o carcerati. In pochi mesi furono inoltre selezionati nell’archivio municipale numerosi 42 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Il Museo del Risorgimento di Brescia Gruppo di compagni di Carlo Zima durante le Dieci Giornate, fotografia esposta a Torino. Sotto, ritratto di Giacinto Monpiani, miniatura di Adelaide Bianchi Camplani esposta a Torino. documenti, compilati elenchi di patrioti, trascritte lapidi commemorative e commissionate fotografie dei principali monumenti cittadini. Tale attività emerge dal catalogo generale dell’Esposizione e, in modo più esaustivo, dal raro opuscolo pubblicato per l’occasione a Brescia, con l’elenco dettagliato degli “oggetti, memorie e documenti” inviati a Torino. Dal testo si desumono poche indicazioni sull’allestimento che, nell’’insieme, dovette tuttavia assumere un aspetto simile a quello delle altre città: alcune fotografie restituiscono l’accumulo quasi scenografico dei materiali, finalizzato a coinvolgere emotivamente il visitatore, anche se l’obiettivo primario restava quello di proporre una prima ricognizione delle fonti storiche e storiografiche del Risorgimento. Secondo il catalogo, il settore espositivo riservato a Brescia si apriva con la commemorazione delle vicende del 1848-1849: alle bandiere della legione italiana combattente nel 1849 in Ungheria e quella del battaglione bresciano che, l’anno precedente, si era distinto in Trentino, erano accostate le sciabole dei rispettivi comandanti, il colonnello Alessandro Monti e il maggiore Nicola 43 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Elena Lucchesi Ragni, Maurizio Mondini Sciarpa e guanti presi ad un ufficiale austriaco durante le Dieci giornate, esposti a Torino In basso, ritratto di Tito Speri, dagherrotipo, esposto a Torino Sedaboni. Seguivano i cimeli delle Dieci giornate, della carcerazione di Tito Speri e i quattro dipinti citati di Faustino Joli. Oltre alle testimonianze della prima e della seconda guerra d’Indipendenza, si potevano osservare numerosi ritratti, in gran parte fotografici, di patrioti e di militari, così come alcune fotografie di luoghi e di monumenti cittadini legati alla memoria del Risorgimento. L’elencazione dei circa 80 “oggetti” non segue un preciso ordine cronologico che, al contrario, appare rigorosamente mantenuto nel paragrafo successivo. Agli elenchi di “bresciani condannati per titolo di alto tradimento” nel 1821 e nel 1836, seguono proclami, lettere, memorie, biografie, giornali e pubblicazioni (stampate anche dopo i fatti) che documentano l’attività del governo provvisorio del 1848 e lo svolgimento delle Dieci giornate. L’elenco nominativo del “comitato d’insurrezione” del 1850 precede quindi la seconda guerra d’Indipendenza (dove prevale la “Brescia ospitaliera”) e l’ “elenco dei bresciani che presero parte alla spedizione dei Mille”. Gli anni posteriori sono testimoniati, in particolare, dai contributi finanziari accordati dalla municipalità a favore di Garibaldi (1860), degli “emigrati delle province venete” (1861), delle “famiglie bisognose” per la guerra (1866) e dei “combattenti dell’agro romano” (1867). Merita tuttavia notare l’assenza d’ogni riferimento alla sanguinosa repressione dei tumulti determinati a Brescia dall’arresto di Francesco Nullo e d altri garibaldini nel 1862. Il catalogo termina con la trascrizione delle epigrafi che evocavano episodi cruenti delle Dieci giornate (in alcuni casi oggi scomparse) e con le numerose lapidi funerarie pertinenti a patrioti e caduti in battaglia. Tre anni dopo la conclusione della mostra torinese, che ebbe un clamoroso successo di pubblico, il Consiglio comunale di Brescia (10 giugno 1887) approvò, quasi all’unanimità. l’istituzione del Museo del Risorgimento Nazionale. La decisione era stata certamente favorita dagli esempi pionieristici di Torino (progettato fin dal 1878), di Milano (inaugurato nel 1885) e di Pavia (deliberato nel 1885). D’altra parte, la sella donata (non è noto in quale occasione) da Garibaldi a Tito Speri, costituiva già un’ammiratissima 44 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Il Museo del Risorgimento di Brescia attrattiva del nuovo Museo dell’Età Cristiana, aperto nel 1882 nella chiesa di Santa Giulia. Nella commissione esecutiva (costituita il 15 luglio), presieduta dal sindaco Bonardi, furono nominati Carlo Cassola, Gabriele Rosa, Pietro Amadio, Eligio Battagia, Francesco Caprioli e Giuseppe Capuzzi. Rispetto alla commissione del 1884 le uniche varianti riscontrabili sono la diminuzione dei membri e la presenza del conte Caprioli. Com’era accaduto pochi anni prima, in occasione del monumento ad Arnaldo da Brescia, l’istituzione del Museo è stata giustamente considerata tra le iniziative del “partito” zanardelliano volte a consolidare il carattere laico della Città nei confronti del moderatismo cattolico, avverso al nuovo Stato nato dalle lotte risorgimentali. L’attività della commissione, non vincolata da scadenze ravvicinate, fu soggetta a ritardi, probabilmente dovuti alla preparazione della sede e alla raccolta dei materiali. Un nuovo impulso traspare dai due manifesti, sottoscritti dallo stesso sindaco Bonardi, datati 21 novembre 1888 e 25 marzo 1890: se il testo rimane identico, si registrano tuttavia alcune variazioni nei membri della commissione che, rispetto alla precedente, appaiamo aumentati di numero e con qualche cambiamenti nei nominativi. Ancora una volta, si rivolgeva un pressante appello ai “corpi morali e ai privati perché vogliano consentire che le collezioni, i documenti, e tutto ciò che può ricordare le varie vicende della Patria venga in loro nome consegnato o come dono, o come semplice deposito al Museo del Risorgimento. (…) A quale pro e con quale titolo tenere nascoste e disperse così preziose reliquie, quando il raccoglierle in un sacrario tornerà decoro di tutti ?”. Il museo doveva esporre “le memorie dei nostri entusiasmi, dei nostri dolori, di ciò che abbiamo operato, di ciò che nobilmente abbiamo amato. Questo museo sarà il ricordo più prezioso che la generazione fattrice della libera Italia possa lasciare alle generazioni avvenire, degno di essere visitato in ogni tempo ad incremento delle cittadine virtù ed a soddisfazione di generosi sentimenti.” Il Museo fu solennemente inaugurato il 17 agosto 1893 in cinque sale al piano terra di Palazzo Martinengo da Barco, dove avevano trovato sede, negli stessi anni dopo impegnativi lavori di sistemazione interna ed esterna, altre istituzioni culturali cittadine: il museo di Scienze Naturali, 45 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Berretto di velluto di Tito Speri, esposto a Torino In basso, Città di Brescia. Museo del Risorgimento Nazionale, manifesto a destra, album delle firme degli ospiti dell’inaugurazione del Museo nel 1893. Elena Lucchesi Ragni, Maurizio Mondini Da sinistra: interno della sala del 1848-49 del Museo del Risorgimento, al centro, l’interno della sala del 1859 del Museo del Risorgimento, a destra, interno della sala di Garibaldi del Museo del Risorgimento. In basso, ritratto di Cesare Quarenghi sotto il portico di palazzo Martinengo da Barco l’archivio storico municipale, l’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti e, al piano superiore, la Pinacoteca Martinengo. All’apertura del nuovo museo contribuì certamente la nomina a direttore, avvenuta solo alcuni mesi prima, di Cesare Quarenghi: capitano della riserva ed enciclopedico esperto di bibliografia risorgimentale, aveva collaborato all’organizzazione della mostra torinese su incarico del Ministero della guerra. Come scrive un contemporaneo “egli si mise all’opera con meravigliosa attività (…) depositando egli stesso, tutto ciò che aveva raccolto (…) ottenendo dai privati anche più restii che si privassero di documenti e di ricordi per loro preziosi; accettando anche il gingillo che, ai più, poteva sembrare di nessun valore, ma che poteva essere contributo ed elemento utile a chi facesse ampie indagini storiche (…)”. L’aspetto del museo, nel suo allestimento iniziale, è testimoniato da alcune straordinarie fotografie d’epoca, recentemente rintracciate, insieme ad una presentazione, quasi una guida, pubblicata da Agostino Zanelli sulla “Rivista storica del Risorgimento” nel 1897. Nella prima sala erano presentati i materiali dall’età napoleonica fino al 1848: oltre a proclami, ritratti di carbonari (anche in riproduzione fotografica), erano conservate numerose lettere di Federico Gonfalonieri a Gabriele Rosa (dal 1840 al 1844); un certo rilievo era conferito ai frammenti (riassemblati) della forca, utilizzata per le impiccagioni, recuperati dai sotterrai del palazzo di Broletto, sede delle carceri austriache (in seguito l’oggetto è andato perduto). La sala seguente era interamente dedicata ai “ricordi” delle vicende del 1848 e del 1849. Come si nota nella fotografia, al centro era collocata la statua (in cartapesta gessata) di Brescia libera che, eseguita dal bresciano Giuseppe Luzzuiardi, ornava la sommità del carro funebre che trasportò i resti dei caduti delle Dieci giornate al cimitero Vantiniano nel 1861 (anche questa è da ritenersi perduta); ai piedi del basamento si nota il noto “cannone” quattrocentesco utilizzata dagli insorti nel 1849. La “bella vetrina” sul fondo conteneva “armi, diversi ventagli, ombrellini da signora allegorici, medaglie commemorative”. Un’altra vetrina esponeva i numerosi cimeli (il berretto, i guanti, la cravatta) e gli autografi di Tito Speri, donati dalla sorella del patriota bresciano Santina. La terza sala, documentata anch’essa in una fotografia, era dedicata a Garibaldi e a Mazzini: sotto il busto di Garibaldi, nella vetrina era riposta la giacca rossa del maggiore Giuseppe Guerzoni, sbarcato a Marsala con i Mille. A sinistra si notano la sella “americana” (già esposta nel Museo Cristiano) e, sul fondo, la carrozza utilizzata dallo stesso Generale in Trentino nel 1866. Mazzini era ricordato in due “quadri” da numerose e interessanti lettere autografe, in gran parte indirizzate al donatore, Antonio Frigerio. Come ancora testimonia la fotografia, il quarto ambiente era riservato a Vittorio Emanuele II e alla guerra del 1859: al centro campeggiava, sopra l’elegante divano a borne, il busto dello stesso Re; a destra si 46 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Il Museo del Risorgimento di Brescia riconosce la grande tela dell’Inganni con Gli zuiavi accampati sugli spalti di Brescia e sul fondo il modello, eseguito ancora dal Luzziardi, del monumento (non realizzato) ai caduti della seconda Guerra d’Indipendenza. Si aggiungevano altri oggetti che, diversamente da quest’ultimo, sono ancora conservati nella raccolta bresciana, come la farmacia da campo e la cassetta di ferri chirurgici, lasciati a Brescia dai medici militari francesi. Nella sala erano inoltre riposti l’epistolario di Giacinto Mompiani e gli autografi di numerosi protagonisti del Risorgimento non solo locale, che furono tutti trasferiti presso la Biblioteca Queriniana nel 1920. L’ultima sala comprendeva il medagliere e la “bibliografia e la letteratura storica del Risorgimento”, compreso lo “schedario” alfabetico di notizie biografiche, redatto e depositato dallo stesso direttore Quarenghi. In accordo con i criteri adottati per la prima volta nel Padiglione dell’esposizione di Torino il ruolo del museo era, soprattutto, luogo di documentazione e di studio per imparare e per “scrivere” la storia: funzione che si è mantenuta fino ad oggi solo nel caso milanese e nelle istituzioni nazionali di Roma e Torino. Non è possibile seguire, in dettaglio, le complesse vicende che coinvolsero il museo nel secolo successivo, ad iniziare dal suo trasferimento nel Mastio del Castello nel 1904, probabilmente determinato dall’ampliamento della Pinacoteca civica che, nello stesso anno, accolse i dipinti della collezione Tosio, rimasti fino allora nel palazzo omonimo. Nota bibliografica. Sull’esposizione del 1884 e i musei del Risorgimento si veda il saggio, con approfonditi riferimenti anche al caso bresciano, di M. Baioni, La religione della Patria: musei e istituti di culto risorgimentale, Quinto di Treviso, 1994; sulle vicende del museo si vedano, in particolare: G. Panazza, I musei bresciani, in AA.VV. Brescia postromantica e liberty, catalogo della mostra, Brescia, 1985; AA.VV., L’età zanardelliana, catalogo della mostra, Brescia, 1984. 47 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Sella “americana” appartenuta a Giuseppe Garibaldi, sotto, la carrozza utilizzata da Garibaldi in Trentino nel 1866. In basso, farmacia da campo lasciata da un medico francese a Brescia nel 1859 Luciano Faverzani Ugo Da Como. Uomo pubblico e studioso 1 Per la figura del padre Giuseppe si veda: L. FAVERZANI, Ugo Da Como e l’Ateneo di Brescia, in Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 2001, Brescia, 2002, pp. 45-49 2 La carica di Presidente Onorario non era stata prima di allora mai conferita 3 Si veda: L. FAVERZANI, Ugo Da Como e l’Ateneo di Brescia, in Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 2001, Brescia, 2002, pp. 45-61 A quasi settant’anni dalla morte del senatore Ugo Da Como ricordarne la figura significa aprire una pagina di storia bresciana e nazionale su di un personaggio che tanto ha dato all’Italia con il suo impegno civile e politico ma anche come uomo di cultura e la Fondazione che ne porta il nome, da lui voluta, ne è l’esempio più evidente. Ugo Da Como nacque a Brescia nel 1869. Se dal punto di vista professionale e politico un ruolo predominante nella vita di Ugo Da Como fu svolto da Giuseppe Zanardelli sicuramente in campo culturale questo ruolo fu svolto dal padre Giuseppe che gli permise di entrare, ancora bambino, in contatto con alcune delle maggiori personalità bresciane del tempo: Filippo Ugoni, Giuseppe Cesare Abba, Gabriele Rosa. Ritengo quindi necessario prima di avvicinarmi alla figura di Ugo Da Como, spendere alcune parole per il padre Giuseppe. L’ingegnere Giuseppe Da Como, nato a Brescia nel 1842 insegnava scienze esatte presso l’istituto tecnico cittadino; dopo aver partecipato alle guerre risorgimentali, nel 1866 si arruolò volontario nelle file del neonato esercito italiano per partecipare alla terza guerra d’Indipendenza. Di idee socialiste, nonostante si definisse simpatizzante di Giuseppe Zanardelli, Giuseppe Da Como collaborò con Gabriele Rosa, Cacciamali e Filippo Turati al giornale “La Squilla”; cultore di letteratura fu scrittore di ispirazione idealista-positivista e poeta carducciano. Per le sue qualità professionali e per le sue qualità letterarie Giuseppe Da Como fu chiamato a far parte dell’Ateneo di Brescia il 10 agosto 1868, venendo ascritto nel libro dei soci al numero 692. Gli interventi di Giuseppe Da Como in Ateneo possiamo dividerli in due sezioni: la prima tecnica nella quale l’ingegnere Da Como diede il meglio di sé facendosi apprezzare per la competenza professionale; la seconda letteraria nella quale presentò le proprie composizioni liriche che in un secondo tempo il figlio Ugo raccolse e fece pubblicare dalla Casa Editrice Zanichelli di Bologna. Giuseppe Da Como morì dopo breve malattia nel giugno del 18861. Nonostante la brevità del rapporto tra padre e figlio, Ugo Da Como attinse dal padre l’amore per la cultura e per l’Accademia cittadina della quale divenne Socio effettivo il 5 marzo del 1893, venendo iscritto nel libro dei soci al numero 881. Ugo Da Como, socio effettivo dell’Ateneo di Brescia per quarantotto anni, ricoprì per ben tre volte la carica di Presidente dell’Accademia: fra il 1908 e il 1911; fra il 1916 e il 1919; e fra il 1923 e il 1926. Infine, per il grande prestigio del quale godeva, nel 1933 su proposta del Consiglio di Presidenza, gli fu conferita la carica di Presidente Onorario2. Prima di accedere alla più alta carica dell’Accademia bresciana, Ugo Da Como ebbe modo di farsi conoscere anche attraverso alcuni interventi3. Nella sua qualità di Presidente Ugo Da Como ebbe l’onore e l’onere di svolgere i discorsi ufficiali di apertura degli anni accademici durante le tre tornate di presidenza anche se nell’ultima svolse solamente quella dell’anno 1926. Fra i discorsi ufficiali tenuti da Da Como vorrei ricordare quelli del 1908 e del 1911. Il 2 febbraio 1908, in apertura del suo discorso Da Como ebbe modo di ricordare Giosuè Carducci, morto nel febbraio dell’anno precedente. Dopo questo sentito omaggio ringraziò “quanti m’onorarono del loro suffragio” e dopo aver ricordato Giuliano Fenaroli, che lo aveva preceduto nella più alta carica dell’Ateneo disse di lui “Una nota costante, vivida, inesauribile, è l’intima animatrice delle sue carte che rimangono: l’augurio alla concordia dei migliori nelle opere del bene, l’incitamento a far penetrare, nelle azioni della vita, una parola gentile di amore. A questa idealità serberemo fede: nella scienza come nella vita amara è comprendere e, dove regna serena fraternità di opere e di intenti, le forze d’ognuno si centuplicano: è questo pensiero che mi rende l’animo più sicuro nel cammino che si prepara, nel quale l’opera del Presidente 48 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Ugo Da Como. Uomo pubblico e studioso è, per fortuna, assistita dai preziosi aiuti dei Consigli accademici, e dall’azione eminente del Segretario, custode delle memorie e delle tradizioni, che tramanda alla nuova età”4. Successivamente pose l’accento sul fatto che “In questi discorsi augurali fu quasi sempre costume riguardare la via percorsa” a tal proposito ricordò le figure di Gabriele Rosa, Aleardo Aleardi, Giuseppe Zanardelli, Massimo Bonardi. Specchio dell’attività dell’Ateneo sono i “Commentari” che proprio nel 1908 festeggiavano il centenario della loro prima pubblicazione. Ricordando l’evento Da Como annunciò la prossima pubblicazione degli Indici dei Commentari e riguardo ad essi ebbe a dire: “Se noi guarderemo, con spirito d’osservazione, l’opera secolare dell’Accademia, riassunta nei Commentari, ci apparirà a nostro conforto, la graduale tendenza di orientamento ai nuovi destini” e ricorderà come in ogni momento della sua vita l’attività scientifica dell’Accademia sia stata caratterizzata da una particolare attenzione ai principali mutamenti politici, sociali e economici della città e del territorio bresciano prima e della nazione poi. Poco più innanzi disse: “L’Indice dei Commentari dell’Ateneo ci richiamerà alla sua origine ed ai primi atti dell’Accademia” e ricorderà come proprio un secolo prima “l’Abate Bighelli leggesse ai consoci uno scritto per destare l’emulazione, dar vita ai talenti, nutrire e mantenere il buon gusto nelle scienze e nelle arti, procacciare al pubblico i vantaggi possibili relativamente all’industria, al commercio, al Governo, ed attendere alla perfezione di tutti gli oggetti che possono contribuire alla comune felicità”5. Da Como parla dei ricorsi storici, parla “del progresso indefinito ed indefinibile, che noi vedremo anche col raffronto dell’opera accademica con quella del secolo XIX, che dà vita alle più alte energie umane”. Più avanti ebbe a dire: “Il tempo della morta erudizione pesante, soverchiante non è più: entro devono alitarvi intenzioni creatrici. – Con ciò non ci stacchiamo dal passato: ognuno si sente legato da fili invisibili coi predecessori, come ai presenti ed ai futuri: eredi dei primi, associati ai vivi, dobbiamo però, su tutto, essere la provvidenza di coloro che verranno. Gli antecessori ci tramandarono dei doveri verso la posterità, e noi, pur legati all’antico ceppo, dobbiamo volgerci a rinvigorire i nuovi virgulti”6 e poche righe dopo continuava “La nostra Accademia, per mantenere la fama che il tempo le creò d’intorno, deve tener fermi quei cardini che le consentono di svolgersi lontana dalle passioni, dalle affannose cupidigie, dai materiali interessi”. Ricorda gli innumerevoli lavori che non avevano ancora avuto una degna pubblicazione. Accenna alle memorie del risorgimento, agli innumerevoli carteggi custoditi dal Museo cittadino del Risorgimento7. Dagli studi storici volge l’attenzione a quelli scientifici “che – come ebbe a dire – debbono avere il loro degno posto. Esse sono la più vera preparazione di ogni moto civile”; fra gli studi scientifici ricorda quelli miranti ad un avanzamento delle tecniche agricole. Avviandosi alla conclusione di questo suo discorso inaugurale Da Como dedicò un pensiero all’istruzione “perché non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte ai milioni di analfabeti” e poche righe dopo aggiunge “non camminino gli uomini senza la luce dell’intelletto. Questo fu e dev’essere uno degli intenti fondamentali dell’Accademia”. Ritiene necessaria la diffusione delle biblioteche popolari8 “per creare anche un elemento operaio giovane, più accessibile all’azione della scuola professionale” e poche righe dopo aggiunse “Benefica sarà la nostra opera se varrà a dimostrare che la scuola del lavoro deve ascendere, e diventare cooperatrice preziosa di ricchezza, di moralità e di pace sociale; che non bastano le scuole di coltura generale, le umanistiche e le scientifiche, alla evoluzione della civiltà, mentre abbiamo da seguire il risveglio della economia de nostro paese, che dev’essere sapientemente sorretto, nelle grandi lotte per la produzione”9. In modo polemico contro le continue accuse di immobilismo e di realtà fuori dal tempo rivolte all’Ateneo in quegli anni Da Como rispose dicendo: “Ciò ho amato ripetere qui, perché non si dica che non abbiamo acquistato il sentimento della responsabilità sociale, che siamo rimasti apatici, indifferenti, e che lo spirito scientifico non ci ha posti sulla nuova via, mentre l’accrescimento della ricchezza generale, la facilità delle comunicazioni e degli scambi internazionali stimolarono le forze vive dei popoli, e le scoperte della fisica e della chimica crearono una energica evoluzione dell’arte industriale; ed un inno concorde s’eleva all’industria che è civiltà, perché dove prospera, è la libertà, e con la libertà del lavoro industriale si consolida la libertà civile, bene inestimabile ed eterno”10. Il discorso inaugurale per l’anno 1911 il Presidente Da Como lo dedicò alla “scuola popolare”. Nell’accomiatarsi dai soci, alla fine del suo primo mandato, Da Como volle porre nuovamente l’accento sul problema della scuola compiacendosi del fatto che le problematiche dell’istruzione fossero assurte al primo posto sulla stampa, nei pubblici dibattiti e nelle aule del parlamento, ma lamentava che al contrario tale primaria questione non aveva trovato alcune eco nei dibattiti 49 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia 4 Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1908, Brescia 1909, p 6 5 idem, p 9-10 6 idem, p 7 idem, p 15-16; oggi questi preziosi carteggi sono presso la Civica Biblioteca Queriniana e l’Archivio Civico 8 Dobbiamo ricordare che il Senatore Da Como si fece promotore in Lonato della costituzione di una biblioteca popolare che egli volle titolata al padre Giuseppe e che ebbe sede in una stanza posta nel giardino della casa del Bibliotecario. 9 idem, p 19 10 idem, p 22 Luciano Faverzani 11 Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1911, Brescia 1911, p 6-35 12 idem, p 12 13 idem, p 14 Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1926, Brescia 1927, pp III-XII 15 idem, p III 16 Commentari dell’Ateneo di Brescia per il triennio 19401941-1942, Brescia 1943, pp 45-62 17 Si veda: L. FAVERZANI, La vita pubblica di Ugo Da Como, in I Quaderni della Fondazione Ugo Da Como, anno IV, numero 7, novembre 2002, pp. 27-33; G. NADDEO, Ugo Da Como: l’attività nel Parlamento e nel Governo, in Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 2007 (in corso di stampa). dell’Ateneo; lamentava anche il fatto che fosse passato completamente inascoltato l’appello che aveva ricolto tre anni prima ai giovani perché partecipassero alle attività dell’Ateneo. Da Como affermava che doveva essere dovere di ognuno appoggiare lo Stato in tutte quelle iniziative che mirino al miglioramento della società in ogni settore della vita; lamentava però come “questa invocata collaborazione di tutti, disinteressata e concorde – non vi sia – neppure nel campo educativo”11. Per Da Como l’educazione “è più che un fatto sociale … è una condizione d’esistenza della Società”. Questo compito deve partire dall’insegnamento primario e Da Como afferma che il fanciullo che trae dalla scuola i primi elementi del vivere civile “sarà domani il padre che vorrà uguale o miglior educazione pei figli suoi”. Da Como continuava “Miriamo dunque a rendere più generale e completa e più alta l’educazione popolare, in questa epoca segnalata pei due fatti concomitanti della supremazia delle scienze e dell’avvento della democrazia”12; è nella scuola che vi deve essere una educazione sociale ed è in essa che l’idea della solidarietà deve germogliare. In tale compito, Da Como affermava, è il maestro che ha il ruolo principale. Il Presidente analizzava poi le vicende scolastiche di altre nazioni e quando giunse a trattare della situazione scolastica italiana disse che dopo la riforma Casati non si ebbe più alcuna altra riforma “così organica e sostanziale”. Da Como ricordava anche che l’Italia fu la prima nazione “a pensare all’assistenza ed alla educazione dell’infanzia” e aggiungeva “Noi dobbiamo seguire il figlio del lavoratore dai tre anni fino alla leva militare, senza lasciarlo disarmato a mezza via, con quella assistenza scolastica che ne formi un degno cittadino”13. Concluse questo primo quadriennio di presidenza ricordando, in occasione del cinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia, come Re Vittorio Emanuele II aprendo i lavori del primo parlamento italiano esortasse tutti a dare all’Italia unita istituti comuni e solidità economica e sociale. L’istruzione diveniva quindi il principale strumento per dare alla nazione giovani preparati al lavoro e pronti a guidare la cosa pubblica. Il secondo quadriennio di presidenza dell’Accademia cittadina (1916-1919) coincise con uno dei momenti più difficili della nostra storia nazionale e cioè con gli anni della prima guerra mondiale e, se nel primo quadriennio Da Como pose tutta la sua attenzione sul valore educativo e sociale che l’Ateneo doveva svolgere nella società, ora tutti i suoi sforzi sono indirizzati verso argomentazioni che tengano alto il morale e desta l’attenzione della società verso i gravi problemi che la Nazione stava attraversando. Nell’ultimo quadriennio di Presidenza, dal 1923 al 1926, Da Como ebbe a presiedere solamente l’adunanza solenne del 5 aprile 1926. Quella del 192614 la si può ritenere il testamento culturale di Ugo Da Como che lasciando per l’ultima volta la Presidenza volle indicare quali dovevano essere i compiti dell’Accademia per il futuro. Il Senatore infatti, come ebbe a dire, ambiva a “vedere, almeno, tracciata ed iniziata la via per quella Storia di Brescia, che deve essere documento degno di una secolare nobiltà”. Lamentava la mancanza di “una edizione critica del Codice diplomatico”; di una bibliografia completa della Storia bresciana; di una edizione critica degli Statuti Comunali; di uno studio completo sulla toponomastica bresciana. Nella seconda parte il discorso è centrato sull’importanza che riveste la storia e conclude affermando “Ricordare: ecco il viatico della vita, degli uomini e dei popoli”. Esemplificativo dello spirito di Ugo Da Como verso l’Ateneo di Brescia, vorrei ricordare infine due passi di discorsi, uno dello stesso Senatore, l’altro di Vincenzo Lonati, che rendono secondo me l’idea di cosa doveva essere l’Ateneo per il Senatore. Nel discorso inaugurale del 5 aprile 1926 Da Como ebbe a dire: “Considero come la mia famiglia questo antico istituto, nel quale mio padre conduceva me ancora fanciullo attonito alle voci degli uomini, che, usciti dai sacrifici e dalle battaglie del risorgimento, additavano le nuove vie alla Patria”15. Il secondo brano è preso dalla commemorazione che Vincenzo Lonati fece di Ugo Da Como subito dopo la sua morte; parlando del rapporto del Senatore con l’Ateneo, Lonati ebbe a dire: “Così Gli era caro trovare in questo Ateneo un centro dove tacevano e si dimenticavano le competizioni di parte, e gli uomini migliori si sentivano amici anche nella diversità delle idee”16. L’impegno politico amministrativo del Senatore Da Como17 aveva avuto inizio molto presto, fu infatti nell’ultimo decennio del XIX secolo che venne eletto Consigliere comunale prima di Lonato e poi di Brescia e successivamente nell’amministrazione provinciale. Dopo questa esperienza amministrativa locale avvenne il grande salto; nel 1904 fu eletto deputato per il collegio di Lonato al Parlamento nazionale. Distintosi per le sue qualità fu nominato sottosegretario alle Finanze nel primo 50 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Ugo Da Como. Uomo pubblico e studioso governo Salandra (marzo 1914) e nel novembre dello stesso anno divenne, nel secondo governo Salandra, sottosegretario al Tesoro; questa carica la mantenne anche nel successivo governo Boselli. Nel 1919 entrò a far parte del Governo Nitti con la carica di Ministro per l’assistenza militare e le pensioni di guerra. Con le elezioni conseguenti la caduta del governo Nitti, Da Como non venne rieletto al Parlamento ma, nell’ottobre del 1920, come segno di stima e riconoscenza per il suo impegno politico fu nominato da re Vittorio Emanuele III Senatore. Dopo l’ottobre del 1922 Da Como fu nominato Presidente del Comitato Centrale per la liquidazione e l’immediato pagamento dei risarcimenti dei danni di guerra; nell’aprile dello stesso anno assunse la carica di Vice Presidente della Commissione Censuaria Centrale; nel luglio divenne il primo presidente della Camera Nazionale per le Assicurazioni Sociali (l’attuale INPS), carica che rivestì sino al 1925; il 10 gennaio del 1924 è nominato Presidente della Commissione Centrale delle Imposte Dirette ed alcuni giorni dopo fu chiamato a far parte del Consiglio Superiore dell’Economia Nazionale. Con l’avvento del fascismo il suo impegno politico si poté dire concluso anche se a riprova del prestigio del quale godeva, dopo le elezioni del 1924 gli fu offerta la carica di Ministro dell’Economia Nazionale nel governo Mussolini, offerta che Da Como rifiutò ritirandosi gradualmente a Lonato dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Se il ruolo pubblico ha rappresentato la parte preponderante della vita del Senatore Da Como, di non minore importanza riveste quello di studioso. Nel campo degli studi di prevalente suo interesse sono state le origini del Risorgimento, anche se come si può vedere scorrendo l’elenco dei titoli delle sue pubblicazioni non trascurò alcuni momenti del risorgimento italiano come per esempio le bresciane Dieci Giornate o i moti liberali del 1820-21 e i processi conseguenti. Suo convincimento era, innovatore per l’epoca, che il processo unitario italiano aveva avuto la sua origine nelle vicende politiche e militari della fine del XVIII secolo che con le rivoluzioni avevano posto fine all’Ancien Régime. In una lettera del 1934 indirizzata al conte Teodoro Lechi, nipote dell’omonimo generale napoleonico, Da Como scriveva “i seguaci di Bonaparte ritornano in tutte le tappe per la redenzione: i loro nomi, quelli dei figli e congiunti popolano il firmamento del patriottismo italiano”. Parole che evidenziano senza ombra di dubbio come per Da Como vi fosse una precisa continuità fra i protagonisti di quegli anni così lontani e quelli del Risorgimento vero e proprio. Continuità che per Da Como era già chiara negli anni precedenti la lettera del ’34; infatti egli evidenziò come il Risorgimento abbia avuto le proprie “albe”, come in più occasioni le definì, negli eventi di fine XVIII secolo. In tali termini parla nel 1921 in occasione del discorso inaugurale dell’anno accademico presso la Scuola superiore di studi sociali dal titolo “Albe bresciane di redenzioni sociali alla fine del secolo XVIII” e nel 1924 nel saggio “Brixia ad libertatem nata” dove scrive: “Dopo che i bresciani videro la luce delle albe redentrici, alla fine del secolo XVIII, ne troviamo sempre alcuni mescolati in ogni moto”. Rigorosissimo era il metodo di lavoro perseguito da Da Como che possiamo riassumere in una frase estrapolata da una lettera del 1927 nella quale scriveva: “per far bene, occorre rileggere tutto, controllare tutto, rivedere tutti i documenti”, ed in un’altra lettera scriveva: “Se non si controllano i testi ed i documenti si ricopiano continuamente errori”. Quindi si può concludere che era assillante in lui la necessità di poter effettuare costanti controlli su documenti e testi al fine di compilare uno studio storico privo di errori. Suo grande affanno era la ricerca di notizie biografiche ed iconografiche sui protagonisti di quei fatti; affanno che emerge con grande forza dalle lettere che egli scrive all’amico Lechi ma anche a molti altri corrispondenti. In una lettera del 25 marzo 1933 Da Como scriveva “Avrò scritto tremila lettere per il lavoro che sto facendo, ed è malinconico aver dato tante noie agli altri, tante fatiche a sé, senza poter dire la parola fine”. Questa costante ed affannosa ricerca di notizie lo porteranno in un’altra lettera del 28 settembre 1939 a scrivere: “Nel mandare a Roma, giorni fa, le ultime seste bozze delle faticate biografie, vi scrissi sopra, come facevano i nostri padri, un ‘Laus Deo’”. Così come scrive il professor Biglione Di Viarigi18, dalla lettura di queste lettere si evince come “il Senatore Da Como possedeva due delle qualità che si possono ritenere fondamentali per uno storico: il rigore della ricerca e la consapevolezza che lo studioso delle vicende del passato faccia da cerniera fra le diverse generazioni”, e più avanti ricorda il discorso inaugurale dell’anno accademico dell’Ateneo di Brescia del 1926, nel quale Da Como disse: “La Storia risponde ad un bisogno profondo, distinto dalla curiosità estetica e dalla curiosità propriamente scientifica; soddisfa ad una 51 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia 18 L.A. BIGLIONE DI VIARIGI, Il rigore e il metodo di Ugo Da Como storico, in I Quaderni della Fondazione Ugo Da Como, anno IV, numero 7, novembre 2002, pp. 71-77. Luciano Faverzani 19 U. DA COMO, Per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Ateneo di Brescia, in Commentari dell’Ateneo di scienze, lettere ed arti in Brescia per l’anno 1926, Scuola Tipografica Istituto Figli di Maria Immacolata, Brescia 1927, pp.VIII-XI. 20 L.A. BIGLIONE DI VIARIGI, Idem, p. 77. 21 U. DA COMO, Per il Capoluogo del Dipartimento del Benaco, in “Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1916”, Stab. Unione TipoLitografica Bresciana, Brescia 1917, pp. 179-197. 22 U. DA COMO, Contributo alla storia delle origini del Risorgimento. Note su manoscritti inediti, in “Nuova Antologia” del 16 aprile 1922, Roma 1922. 23 U. DA COMO, Il Bresciano Conte Girolamo Fenaroli deportato politico nel 1800, in “Rivista d’Italia”, vol. I, fasc. III, 1922, Milano 1922 24 U. DA COMO, Brixia ad libertatem nata. Note e ricordi per la commemorazione del 1821, in I cospiratori bresciani del ’21 nel primo centenario dei loro processi,“Miscellanea di studi a cura dell’Ateneo di Brescia M.CM.XXIV”, Scuola Tipografica Editrice Istituto Figli di Maria Imm., Brescia 1924, pp. (1)-46. 25 U. DA COMO, Napoleone e la Consulta di Lione, in “Nuova Antologia” del 1 marzo 1925, Roma 1925 26 U. DA COMO, La Repubblica Bresciana, Zanichelli, Bologna 1926 27 U. DA COMO, Lettere inedite di G. Mazzini, in “Nuova Antologia” del 16 giugno 1928, Roma 1928 28 U. DA COMO, Documenti sulle X Giornate, in Rivista mensile illustrata “Brescia”, n. 3, marzo 1929, Brescia 1929. 29 U. DA COMO, La città delle X Giornate, in “Ateneo di Brescia supplemento ai Commentari del 1933, Miscellanea di studi su Brescia nel Risorgimento per il XXI Congresso della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento Italiano”, Stabilimenti Tipografici Ditta F. Apollonio, Brescia 1933, pp. 9-39 specie di istinto vitale comune agli individui ed ai popoli, e tende perpetuare il loro essere morale; la ricostituzione di una realtà svanita aiuta a vivere. È mezzo di vivere, di sopravvivere di immortalare […] Dobbiamo avere la vera storia, senza aggettivi, che rifletta le reali vibrazioni della vita, che abbia il pregio in sé di risolvere le storie particolari del diritto, dell’economia, della politica, della cultura.”19. Sempre il professor Biglione Di Viarigi riassume con queste parole il pensiero di Da Como storico: “Una storia, dunque, intesa come mezzo per la trasmissione di valori e di “verità” e capace, di conseguenza, di compendiare i molti aspetti in cui si possono manifestare il pensiero e le vicende dell’uomo.”20. Ma ricordiamo ora i titoli dei lavori che fra il 1916 e il 1939 furono realizzati dal Da Como: nel 1916 fu pubblicato il saggio “Per il Capoluogo del Dipartimento del Benaco”21, nel 1922 in Nuova Antologia fu pubblicato lo studio “Contributo alla storia delle origini del Risorgimento. Note su manoscritti inediti”22, nel medesimo anno pubblicò nella Rivista d’Italia il saggio dal titolo “Il Bresciano Conte Girolamo Fenaroli deportato politico nel 1800”23, nel 1924 in occasione della commemorazione del centenario dei processi politici del 1821 pubblicò nella miscellanea di studi promossa dall’Ateneo lo studio “Brixia ad libertatem nata”24, nel 1925 nuovamente in Nuova Antologia vide la luce un primo studio dal titolo “Napoleone e la Consulta di Lione”25, l’anno successivo Da Como diede alle stampe quello che ancora oggi rappresenta lo studio fondamentale per la conoscenza di quegli eventi e cioè il volume “La Repubblica Bresciana”26, nel 1928 ancora una volta per Nuova Antologia pubblicò il saggio “Lettere inedite di G. Mazzini”27, nel 1929 nella rivista “Brescia” Da Como pubblicò un breve studio dal titolo “Documenti sulle X Giornate”28, nel 1933 in occasione del XXI Congresso della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento Italiano, svoltosi a Brescia e Torino, pubblicò negli atti del Congresso, editi dall’Ateneo di Brescia, il saggio “La città delle X Giornate”29, infine fra il 1934 e il 1940 Da Como diede alle stampe la sua opera principale dal titolo “I Comizi nazionali di Lione per la costituzione della repubblica italiana”30, opera in cinque volumi. Vorrei qui anche ricordare altri tre studi di Da Como che ci fanno capire come i suoi interessi spaziassero in varie epoche, lavori questi ultimi che nascono anche dalla sua grande passione di bibliofilo, e cioè: le “Lettere inedite di Ugo Foscolo”31 pubblicato su Nuova Antologia nel 1927, lo studio dal titolo “Umanisti del secolo XVI. Pier Francesco Zini”32 del 1928, e il volume “Girolamo Muziano, 1528-1592”33, edito nel 1930. 30 Regia Accademia dei Lincei, Commissione per gli Atti delle Assemblee Costituzionali Italiane, I Comizi nazionali in Lione per la costituzione della repubblica italiana, a cura di Ugo Da Como, voll.V, Zanichelli, Bologna 19341940. 31 U. DA COMO, Lettere inedite di Ugo Foscolo, in “Nuova Antologia” del 1 giugno 1927, Roma 1927 32 U. DA COMO, Umanisti del secolo XVI. Pier Francesco Zini suoi amici e congiunti nei ricordi di Lonato sacro e ameno recesso su la Riviera del Benaco, Zanichelli, Bologna 1928. 33 U. DA COMO, Girolamo Muziano, 1528-1592. Note e documenti, Istituto d’Arti Grafiche, Bergamo 1930. 52 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Percorsi didattici Unità e identità: 150 anni di storia Scuole primarie Chi e dove Classi coinvolte Docente referente Scuola primaria Statale T. Olivelli - Salò Terza C Rimoldi Carla progetto 1 RI…SORGImento e OLTRE Le date 1848 s Moti insurrezionali (Milano Brescia, Venezia) * I guerra d’indipendenza (Garibaldi guida un gruppo di volontari ) 1849 s La repubblica romana (Garibaldi partecipa al suo governo ) 1859 s II guerra d’indipendenza (Garibaldi comanda un gruppo di volontari: i Cacciatori delle Alpi ) s Conquista della Lombardia s Annessione dell’Emilia-Romagna e della Toscana mediante plebiscito 1860 s Spedizione dei MILLE al comando di Garibaldi s Conquista dell’Italia meridionale e della Sicilia s Annessione delle Marche e dell’Umbria mediante plebiscito (fine anno) 54 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia 1861 Proclamazione regno del regno d’Italia s III guerra d’indipendenza ( Garibaldi è a capo di un gruppo di volontari) s Conquista del Veneto 1870 s Breccia di Porta Pia: conquista di Roma I protagonisti s Giuseppe Mazzini Idealista e repubblicano, fondatore della Giovane Italia. s Giuseppe Garbaldi Condottiero, figura carismatica, uomo di pensiero ed azione. s Camillo Benso Conte di Cavour Abile politico e diplomatico, tesseva nell’ombra le sue trame s Vittorio Emanuele II di Savoia Principe del Regno di Sardegna, contribuì all’Unità d’Italia e primo re d’Italia progetto 1 RI…SORGImento e OLTRE RISORGIMENTO Garibaldi Garibaldi nacque a Nizza il 4 luglio 1807 e morì a Caprera il 2 giugno 1882. La sua vita testimonia come la realtà possa superare l’immaginazione e divenire un avventuroso romanzo. Coloro che lo incontrarono in diverse circostanze e in varie fasi della sua vita concordano nel definirlo di media corporatura,di atteggiamento pacato, con vivi e penetranti occhi castani, con capelli biondi di media lunghezza e barba rossiccia: l’aspetto di un eroe. Se si credesse alle date che influenzano il destino quello di Garibaldi era di rivoluzionario che aspira a libertà e indipendenza. Da ragazzo si iscrisse alla Giovane Italia, fondata da Mazzini, e, nonostante in seguito si fosse sempre messo al servizio della dinastia monarchica dei Savoia, rimase sempre convinto repubblicano. Per i suoi ideali dovette fuggire e si rifugiò nell’ America del sud. Là fu protagonista di imprese audaci, azioni di guerriglia fulminea fra Brasile ed Uruguay. Tornato in Italia offrì i suoi servigi ai Savoia in occasione sia della I che della II e della III guerra d’Indipendenza; partecipò alla Repubblica Romana, ma memorabile e sempre presente nell’immaginario collettivo fu la spedizione dei Mille che guidò alla conquista del Regno delle Due Sicilie. Egli non fu mai amato, solo tollerato dal re, dai suoi collaboratori e dalla destra politica; per contro fu seguito e adorato dal borghesi e dai nobili più progressisti e da parte delle classi più umili. Fedele a sé stesso non ricercò mai il proprio tornaconto. Negli ultimi anni della sua vita gli fu riconosciuto il merito per aver contribuito alla Unità d’Italia e gi tributarono gli onori. I Mille I Mille hanno sempre colpito la fantasia popolare, sono entrati a far parte della leggenda. Da uomini quali erano con ideali, passioni e debolezze sono divenuti “personaggi” di una straordinaria epopea, non quindi reali e storici ma mitici. Erano attirati dal miraggio della libertà, dalla speranza dell’autodeterminazione dei popoli, credevano fermamente nell’idea di repubblica sognavano l ‘Italia unita. Provenivano da diverse regioni italiane soprattutto dal nord, ma alcuni giungevano dalla Europa, altri dall’Africa, altri ancora dalla lontana America. Tutti seguivano il loro comandante con cui molti avevano già combattuto. Appartevano a quella schiera di maschi di diverse età: giovani, uomini maturi, vecchi e ragazzi. Il loro abbigliamento,come ci è stato raccontato, era emblematico: quella camicia rossa simbolo di passione,di sangue o come ci insegna la Storia dovuto solo alle scarse finanze e visibilissima in caso di combattimento. Quella divisa non era indossata da tutti, poiché lo indumento così caratterizzante non era in numero sufficiente e molti volontari partirono con abiti più disparati. Le cronache del tempo hanno narrato la loro impresa, ci hanno trasmesso le loro gesta e la loro vittoria; la Storia ci ha edotto sugli accordi diplomatici segreti e sulle vicende di spionaggio. Il loro coraggio, il loro idealismo, la fiducia in Garibaldi, loro condottiero o usando le parole di D’Annunzio, DUCE, non sono da porre in discussione. OLTRE Il Monumento ai Mille Antefatto L’dea di celebrare l’impresa dei Mille con un monumento da porsi sullo scoglio di Quarto, il luogo dove si erano imbarcati e da cui erano partiti i volontari, nacque il 5 maggio 1862, quando la Confederazione Operaia Genovese, ispirata ai principi mazziniani e legata ai reduci garibaldini, pose una stele ricordo. Passarono gli anni le iniziative si susseguirono:furono stesi progetti,si ricercarono finanziamenti, si sollecitarono i politici anche a livello nazionale e… finalmente nel novembre del 1909 fu bandito il concorso definitivo per la realizzazione dell’opera scultorea. I progetti presentati furono cinquantaquattro, furono visionati e giudicati da una commissione di esperti. Risultò vincitore il progetto di Eugenio Baroni, scultore genovese presentato con il titolo: 55 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 1 RI…SORGImento e OLTRE “Si scopron le tombe,si levano i morti” primi due versi dell’inno di Mercantini dedicato a Garibaldi. L’opera definitiva risultò modificata rispetto al progetto iniziale: la piramide tronca di marmo da cui dovevano sorgere Garibaldi e i suoi eroi, sovrastati dalla Vittoria Alata, fu ridotta, ma la proporzione delle figure e l’ impatto visivo del tutto non risultò modificato. Garibaldi è ritto, le braccia lungo i fianchi nell’atto di alzarle, le mani socchiuse,il capo leggermente all’indietro ornato dalla barba, i capelli lunghi dietro le orecchie; il corpo atletico privo di indumenti,i muscoli guizzanti ed evidenti. Lo sovrasta, con le braccia chiuse a cerchio sopra il suo capo, simili ad un’aureola, l’unica figura femminile presente: la Vittoria Alata, protesa a tergo, munita di enormi ali sotto cui riparano i guerrieri in procinto di risvegliarsi e di sorgere dalle loro tombe. La posizione degli arti superiori degli eroi, colti prima di librarsi nell’aria, e la postura di quelli inferiori ancora flessi rendono evidente l’uscita da un lungo sonno. Il monumento fu inaugurato il 5 maggio 1915 alla presenza di d’Annunzio chiamato per essere oratore ufficiale. In quel periodo l’Italia era attraversata dal vento dell’interventismo. L’Europa era in guerra. Parte dell’opinione pubblica voleva la discesa in campo dell’ Italia per ottenere i territori di lingua italiana, trentini e giuliani, dominati ancora dall’Austria e indispensabili per coronare il sogno di un’Italia unita per cui Garibaldi e i suoi uomini avevano combattuto molte battaglie, versato sangue e perso compagni. L’inaugurazione divenne quasi un presagio: la forza evocativa del monumento, il discorso dannunziano, l’epigrafe della medaglia commemorativa, la data stessa, anniversario della partenza dei Mille, tutto contribuì ad infiammare gli animi e poco dopo il 24 maggio l’Italia entrò tra le nazioni belligeranti della I Guerra Mondiale. D’ANNUNZIO E BARONI La cerimonia di Quarto segnò l’incontro e i successivi contatti fra d’Annunzio e Baroni, uomini per alcuni versi simili Entrambi erano artisti, pur in campi diversi: il primo famoso letterato, il secondo giovane scultore con alcune opere al suo attivo; entrambi auspicavano l’entrata in guerra dell’ Italia poiché la sua unificazione divenisse realtà e non fosse solo un’irraggiungibile chimera. Entrambi esulavano dall’uomo Garibaldi per riconoscere in lui il mito, il simbolo. D’Annunzio lo aveva ricordato nei suoi scritti di impegno civile e patriottico e nell’ode “La notte di Caprera” distingueva la sua parte umana da quella eroica per definirlo un eroe dallo sguardo veggente, la cui sola presenza suscitava entusiasmo, portatore di pace il condottiero valoroso come i grandi guerrieri greci: i suoi Mille erano menzionati in un aurea magica, Baroni lo confermò nel ritratto che ne fece nel monumento ai Mille e con il suo stesso pensiero in un’epistola conservata negli archivi del Vittoriale: …la significazione della sua figura che si ricollega a quella di tutto il gruppo, è qualcosa altresì che esorbita dalla sua stessa personalità, per divenire l’eroe di tutti i tempi, che rinasce ogni qual volta in patria pericolerà la libertà e l’onore. 56 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 1 RI…SORGImento e OLTRE La loro personalità era diversissima: Baroni, figlio di un uomo che era stato condannato al carcere duro per le proprie idee unitarie, riservato e, secondo alcune descrizioni, con lo sguardo intenso spesso malinconico; d’Annunzio conscio del proprio ego, deciso a vivere lontano dalla mediocrità e dalla normalità; teso a divenire l’eroe con azioni dimostrative di grande impatto, il vate con le opere; sempre pronto a porsi per suscitare plauso o sdegno. La loro idea di arte aveva sfaccettature diverse, ma collimava in alcuni punti: d’Annunzio riteneva che essa fosse superiore a qualsiasi altro tipo di esperienza, doveva esser compresa e fruita dalla collettività non perdendo la propria peculiarità e non divenire massificata e volgare; Baroni pensava che essa non dovesse essere realista, ma simbolica, socialmente impegnata, ma non didascalica o decorativa; d’Annunzio credeva nel potere evocativo della parola, nella potenza delle onomatopee, nel conio di nuovi termini; Baroni sosteneva che la scultura dovesse essere movimento, grafismo sinuoso, dovesse offrire diversi punti di vista. I due artisti auspicavano l’ opera aperta, pura creazione d’ arte. Per mezzo di Cozzani, amico di Baroni, d’Annunzio aveva potuto ricevere la descrizione del monumento e alcune fotografie del modello in gesso e, in data 9 marzo, aveva espresso le sue impressioni in una lettera indirizzata allo stesso Cozzani: …è invero un monumento marino che par modellato “dal flutto decumano”. Gli eroi risorgono con un ritmo di alta marea… Peccato che il bronzo non sia fisso sullo scoglio, al frangente, sì che il flutto salga di tratto in tratto su per la piramide tronca e schiumeggi contro le ginocchia gigantesche. Se da queste immagini non ho mal divinato il sentimento ritmico dell’ opera, la forza attiva e l’assidua ansia del Tirreno, dell’Infero, mi sembrano necessarie alla compiuta vita del gruppo sovraumano. Cozzani fece partecipe l’amico del contenuto della missiva e Baroni capì che il giorno fatidico tutta l’attenzione sarebbe stata rivolta al poeta, alla sua oratoria e la scultura, per la quale egli aveva duramente lavorato, cessava di essere propria. Pronunciò alcune emblematiche parole che il suo interlocutore raccolse: …Tu capisci,è vero? Io sacrifico la mia opera. Nessuno avrà per essa una parola: né per l’artista: tutta l’attenzione sarà assorbita da lui e da quello che dirà lui. Questo è necessario. Prima di tutto c’è l’Italia. Si nota in modo evidente la differenza dei due uomini: uno schivo, capace di rinunciare al successo, l’altro sempre in cerca di visibilità e di gloria. D’Annunzio capì l’atteggiamento di Baroni, ne fu consapevole,e il giorno fatidico, lo colmò di attenzioni e lo volle accanto a sé nelle cerimonie ufficiali. Il poeta seppe parlare ai cuori in ogni evento a cui partecipò durante la sua permanenza a Genova; memorabile fu il suo discorso alla caduta del drappo che nascondeva il gruppo scultoreo e all’incontro con i reduci garibaldini. Recitano le sue parole: Ma questa figura ecco sopra la fugace e vorace storia culmina come espugnabile fiore nella novità perenne del mito... Il duce nel bronzo eccolo ha la statua e la posa di Teseo…E gli altri eroi tornati pel Tirreno dal sepolcrati di Sicilia… diranno “lode a Dio. Gli Italiani hanno riacceso il fuoco sull’ ara Italia”– continua – I resuscitati eroi sollevano con uno sforzo titanico dalla morte perché il loro creatore fiè sì in immortabilità… Verso quella, verso quella risorgono gli eroi dalle loro tombe dalle loro carni lacerate… dalle loro bende furali noi rifaremo il bianco delle nostre bandiere. Nel discorso serale rivolto ai reduci garibaldini così si espresse: Sembra che da stamani noi respiriamo non so che ardore di miracolo dove s’avvicendano in una sorte di balenio la verità, il sogno, la vita attuale e la più lontana favola... 57 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 1 RI…SORGImento e OLTRE Proseguì narrando con il suo stile la battaglia di Calatafimi, cita le imprese di Genova prima romana e poi repubblica marinara, le città da cui proveniva i volontari e ritorna al presente: Essi dormirono nei campi di grano, laggiù dopo la vittoria; e sembra che si siano risvegliati in quest’alba coperti di rugiada sembra che ridesti respirano tuttavia il vento della Vittoria. Continuò paragonando i Mille ai guerrieri di Maratona, cita Garibaldi con il titolo di duce infine: Tutto il passato confluisce verso l’avvenire. L’unità sublime si forma. Si evidenzia come sia chiaro il riferimento alla posizione delle figure monumentali. La realizzazione di Barone fu definita “un comandamento innalzato sul mare” e l’autore fu salutato come colui che “ha ereditato la terribilità di Michelangelo”, colpì D’Annunzio, non soddisfò i reduci come lo scultore confermerà in una sua missiva scritta anni dopo in cui ribadì il motivo di quella sua scelta estetica: Se io avessi veduto e vissuto i tempi dei Mille, mai avrei fatto l’opera destinata ad esaltarne la grandezza usando il nudo, ossia non avrei sentito il bisogno di spogliare, idealizzare… il loro prodigio. La realtà vera mi avrebbe preso e null’altro. Ma l’impresa leggendaria di Quarto era ed è per me così lontana che era ed è in me come un sogno di morti ridesti, di colossi da favola… Ben so che il monumento di Quarto dispiacque proprio ai gloriosi superstiti delle gesta… o ne provai dolore, pur avendolo presentito. Ma l’opera non era fatta per loro, era per la generazione presente e più ancora per quelle future che ne comprenderanno più il senso di sogno e di ammonimento e di profezia. Riecheggiano qui le frasi dannunziane. La medaglia commemorativa dell’evento vede l’opera di entrambi; Baroni la plasma e d’Annunzio stende l’epigrafe, fornendo precise indicazioni sul numero delle righe, la loro lunghezza e la posizione delle parole: AI FATTI INVITTI AI FLUTTI AUSPICATI E AI SUPERSTISTI ESTREMI DELLA GESTA LIBERATRICE RESPIRANTI CON LA PATRIA INTERA LA IMMORTALITÀ DEL DUCE SOPRAVVENIENTE GENOVA CONSACRA IN FEDE ORA E SEMPRE Baroni regalerà al poeta la sua opera “l’Abbraccio” e questi la porterà con sé nei suoi celebri voli. 58 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Chi e dove Classi coinvolte Docente referente Scuola primaria Goffredo Mameli - Brescia Terza A Laffranchi Giancarla progetto 2 Mille e una patria La storia del Risorgimento italiano non poteva essere raccontata come una fiaba da “Mille e una notte”, neppure ai bambini, di soli otto anni, della classe terza del Plesso Mameli. Anche se l avventura dei Mille è affascinante e coinvolgente, il lungo processo che ha portato all’unificazione d’Italia è estremamente complesso e richiede conoscenze storiche assai approfondite. Inoltre i forti ideali del Risorgimento non sono vicini all’esperienza dei bambini di oggi, che vivono in un Paese con tanti problemi, tante contraddizioni, ma fortunatamente libero. Per questi motivi la programmazione del lavoro, condivisa da tutto il team d’insegnanti, non è stata semplice. Abbiamo scelto di finalizzarla alla conoscenza del nostro territorio, alla capacità dei bambini di condurre ricerche e di acquisire un pensiero critico, capace di valutare cause, fatti e conseguenze. Abbiamo cercato di approfondire importanti aspetti valoriali legati ai concetti di libertà, uguaglianza, fratellanza, patria e coraggio eroico. I nostri alunni frequentano una scuola che porta il nome di Goffredo Mameli e in gran parte abitano nel Quartiere Giuseppe Cesare Abba, ciò si è configurato come stimolo ideale per cominciare una ricerca di gruppo che li ha portati a vivere questa scoperta proprio con l’entusiasmo di un’avventura. UN MONUMENTO DEL NOSTRO QUARTIERE Partendo dall’osservazione di spazi e servizi del nostro quartiere, i bambini hanno puntato la loro attenzione sul busto di Cesare Abba, posizionato nel parchetto tra Via Prima e Via Trav. Quarta, recentemente ripulito dalla nostra Amministrazione. Sulla lapide è riportata la seguente scritta: ”Giuseppe Cesare Abba, soldato, poeta e maestro”. Ci siamo quindi chiesti: s Chi era Giuseppe Cesare Abba? s Quando è vissuto? s Che cosa ha fatto di importante? s Perché viene ricordato a Brescia? s Che tipo di uomo era? 59 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 2 Mille e una patria Per rispondere abbiamo svolto alcune ricerche. Chi era Abba era uno scrittore che partecipò alla spedizione dei Mille con Garibaldi per unificare l’Italia. Fece anche il sindaco, il senatore, l’insegnante e il preside. Quando è vissuto Abba nacque a Cairo Montenotte in provincia di Savona, sulle montagne della Liguria, nel 1838 e morì a Brescia nel 1910 (cento anni fa). Cosa ha fatto di importante Abba ha scritto un diario per raccontare giorno per giorno l’impresa di Garibaldi. Il suo diario si intitola “Da Quarto al Volturno”. Perchè viene ricordato a Brescia? Viene ricordato perché è stato a lungo insegnante e poi preside dell’Istituto Tecnico Tartaglia di Brescia. La sua famiglia abitava nella nostra zona e negli anni ‘60 cedette un vasto terreno per la costruzione del quartiere che si stava espandendo. La famiglia volle che il nuovo insediamento portasse il nome dell’eroico avo garibaldino. Che tipo di uomo era? Abba era un uomo onesto, un bravo educatore ed un cittadino virtuoso. Era un uomo molto intelligente e generoso, disposto a combattere e anche a morire per i propri ideali. Lui voleva che l’Italia fosse libera ed unita. Come l’anello di una lunga catena, il sapere doveva ora essere approfondito, seppur con semplici parole e chiari concetti comprensibili ai bambini. Perchè Abba voleva unificare l’Italia? Abba era un uomo istruito; perciò soffriva nel vedere che l’Italia era sotto il dominio di molti oppressori, soprattutto dell’Austria. Decise quindi di seguire Garibaldi, un valoroso generale e di combattere per unire la sua patria. L’Italia era tutta divisa, non come la divisione delle regioni di oggi, ma in stati diversi in lotta l’uno contro l’altro. Verso l’unificazione d’Italia L’Italia era tutta divisa in tanti regni. In questi territori il popolo non aveva una vita felice. Alcuni giovani si riunivano di nascosto formando delle società segrete. Erano soprattutto intellettuali e studenti (tra loro c’era Mazzini). Il popolo, però, non poteva partecipare. Solo alcune città riuscirono ad insorgere, come Milano, che resistette per cinque giorni contro gli austriaci, e Brescia, che resistette per dieci giorni. 60 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 2 Mille e una patria Trecento soldati austriaci erano rimasti chiusi nelle mura del nostro Castello, mentre i cittadini bresciani combattevano e si riunivano sotto la Loggia e nel Teatro Grande. Gli insorti furono così coraggiosi da far meritare alla città di Brescia il titolo di “Leonessa d’Italia”. Ma alla fine l’Austria riprese i suoi territori. Questa è la nostra città durante le Dieci Giornate di Brescia Intanto in Piemonte il re Carlo Alberto voleva un governo moderno che pensasse allo sviluppo sociale e politico del suo Paese. Con l’aiuto del suo Primo Ministro Cavour decise di combattere contro gli austriaci, facendosi appoggiare dai francesi. Riuscì così a conquistare la nostra zona della Lombardia. A S. Martino e Solferino avvenne uno scontro terribile; ancora oggi sono conservate le ossa di centinaia di giovani italiani, francesi e austriaci che morirono in quelle battaglie. 61 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 2 Mille e una patria L’anno dopo Carlo Alberto chiese aiuto a Garibaldi. Lui sbarcò in Sicilia insieme a mille volontari per conquistare tutta l’Italia, partendo dal Regno delle Due Sicilie dei Borboni. Garibaldi era coraggioso e i suoi volontari avevano forti ideali ed erano disposti a morire pur di unire e liberare l’Italia. Garibaldi conquistò gran parte dell’Italia meridionale; mancavano ancora lo Stato Pontificio e il Veneto. I piccoli regni in Emilia e in Toscana si unirono al re. Perciò nel 1861 Vittorio Emanuele II di Savoia, successore di Carlo Alberto, fu proclamato Re d’Italia. L’Italia era fatta! Alcuni anni dopo anche il Veneto e Roma ne fecero parte. Sapete chi proteggeva tutti quei territori? I carabinieri! Esattamente i Bersaglieri, che rappresentavano l’ordine pubblico! A questo punto i bambini, ormai incuriositi dalle avventure dell’intrepido eroe Garibaldi, portavano a scuola immagini e ricerche di approfondimento. La figura dell’eroe dei due mondi doveva essere sviluppata. Nel frattempo la classe ha avuto l’opportunità di visitare il Museo del Risorgimento di Brescia e di assistere ad un’interessante lezione che prendeva spunto proprio dai diari di due Garibaldini: Giuseppe Cesare Abba e Giuseppe Capuzzi, autori entrambi di veri reportage dalla spedizione dei Mille. Presso il Museo, accompagnati dalle parole scritte nei due diari e dalla guida, i bambini hanno osservato gli oggetti usati in battaglia, le armi, le curiose divise, le stampe e i quadri che davano prova e testimonianza di quanto era accaduto. GIUSEPPE GARIBALDI Una famosa filastrocca: “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda i bersaglier” Una canzoncina : “Bella bambina, capricciosa garibaldina, tu sei la stella, tu sei la bella di noi soldà”. 62 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 2 Mille e una patria Nel Museo del Risorgimento di Brescia abbiamo scoperto che Garibaldi veniva chiamato l’Eroe dei due mondi perché aveva combattuto in America ( in Brasile ed in Argentina) e poi in Italia. In America aveva acquistato a buon prezzo le camicie rosse dei macellai che aveva utilizzato come divisa per i suoi soldati. Sempre in America aveva conosciuto Anita, che poi sposò. Da lei aveva imparato a cavalcare. Anita morì nelle paludi di Comacchio dopo aver sempre combattuto a fianco di Garibaldi. Quella signora che vedete in fotografia si chiama Anita Garibaldi. È la pronipote dell’eroe e ancor oggi lo ricorda partecipando a numerose commemorazioni (nella foto è a Bezzeccaluglio 2010). In Italia, durante la spedizione dei Mille, la maggior parte dei giovani si fece cucire dalla mamma la camicia rossa. I Mille erano partiti male armati: avevano solo vecchi fucili arrugginiti e baionette. Avevano anche scarpe poco adatte: una volta se le fecero regalare dagli abitanti di un paesino. Non combattevano per guadagnare soldi, ma per l’ideale di libertà. Perciò i Mille vinsero solo 63 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 2 Mille e una patria Troviamo su internet: In molti criticano questo testo: troppo retorico, pomposo, di maniera, con parole arcaiche, dell’Ottocento… BÈ, che le parole siano molto “Ottocentesche” non c’è dubbio, ma come poteva scrivere un giovane studente romantico e patriota nel 1847? “Siam pronti alla morte” suona eccessivo per noi. Ma questo grido fu scritto da uno che poi è morto a 22 anni combattendo per le sue idee, mi pare che non sia così retorico. Goffredo Mameli e Michele Novaro LA SIGNORA ITALIA Ma i garibaldini intonarono spesso anche altri canti… occasione per scoprire informazioni sulla nostra bandiera. Impariamo: LA BANDIERA TRICOLORE E la bandiera di tre colori È sempre stata la più bella: noi vogliamo sempre quella, noi vogliamo la libertà… 66 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 2 Mille e una patria SECONDO CRUCIVERBA PATRIOTTICO Il nostro lavoro di ricerca era terminato, ma avevamo avvicinato grandi ideali molto lontani dall’esperienza dei bambini. Gli atti eroici li avevano decisamente affascinati, ma serviva un tramite più compatibile con la loro età. Infatti, messi alla prova in un momento diverso dalle ore di ricerca che avevamo dedicato all’argomento, alla domanda: ”Chi è, secondo voi un eroe”, ecco cosa rispondevano. Chi sono gli eroi? Risposte: SUPERMAN SPIDER MAN CAT WOMAN I FANTASTICI 4 HARRY POTTER BLUE DRAGON WONDER WOMAN IRONMAN HULK WOLVERINE DRAGON BALL POKEMON CAPPELLO DI PAGLIA IL CANE VOLANTE BATMAN PAPERINIK BEN 10 GORMITI I DOMINATORI DELL’ARIA SONIC X TOTALY SPIE L’elenco sembrava non avere termine, ma erano tutti super eroi fantastici, anche loro assai lontani dall’esperienza umana. Serviva guidare la riflessione. Qual è il tuo supereroe preferito? s È Wolverine perché dalle mani gli escono tre artigli di ferro e ha l’olfatto da lupo s Sonic X, perché è il porcospino più veloce di tutti; si difende correndo e facendo impazzire il cattivo s È Batman perché la sua macchina può andare da sola e sparare missili bombe s È Harry Potter perché fa magie s È il re degli stregoni di Angmar perché ha una spada bellissima, una mazza rotante e cavalca un drago che fa un urlo terrificante s Il mio supereroe è il Cane volante perché vola, scava buche in modo fantastico e ha poteri bellissimi s È Ben 10, cioè Benjamin Tennison perché ha un orologio che lo trasforma in 10 alieni e molti altri 69 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Definizioni 1. La risposta di Garibaldi al re a Bezzecca 2. Il colore delle divise dei garibaldini 3. Vi morì Mameli 4. Nazione dove Garibaldi conobbe Anita 5. Le loro camicie divennero quelle dei garibaldini 6. Lo insegnò Anita a Garibaldi 7. Parte del corpo in cui fu ferito Garibaldi 8. Isola sulla quale sbarcarono i Mille 9. Regione mancante all’unificazione 10. Il successore di Carlo Alberto 11. L’ideale dei garibaldini 12. L’animale che fu chiamato “Caffaro” 13. La sposa di Garibaldi 14. Vi morì Garibaldi 15. Una qualità di Garibaldi 16. Così veniva chiamato Garibaldi 17. Vi nacque il brigantaggio 18. Paese da cui Garibaldi rispose “Obbedisco” 19. Lo era l’Italia prima dell’unificazione 20. Resistette agli austriaci per cinque giorni 21. Così fu detta Brescia 22. Lo era Vittorio Emanuele 23. Lo scrisse Goffredo Mameli 24. Musicò “Fratelli d’Italia” progetto 2 Mille e una patria Che cosa fanno questi personaggi per essere degli eroi? Gli eroi sono personaggi buoni, disposti a morire. Chi è per te un eroe? s È un personaggio che salva tutta l’umanità e combatte per la giustizia s È una persona fantastica s È un personaggio che ha poteri che nessuno ha e combatte contro i cattivi s È un personaggio che ha un vestito molto particolare con tutti gli accessori s È una persona molto gentile, brava, senza paure s È una persona coraggiosa, che non ha paura di niente e si impegna tantissimo s È una persona che salva la gente in pericolo s È una persona che pensa solo a salvare il mondo s Per me è qualcuno che sa volare e gli altri no, che ha poteri e gli altri no s È una persona che sa fare miracoli e salva la gente Alla domanda”Ci sono eroi reali, uomini o donne che non hanno poteri magici, ma che sono disposti a qualsiasi prezzo per il bene di altri uomini?”, i bambini hanno risposto come segue. Quali sono gli eroi che conosci? s Per me un eroe è Garibaldi perché ha unificato l’Italia insieme a Giuseppe Cesare Abba s I poliziotti che arrestano i ladri e i pompieri che spengono gli incendi s I medici che curano le ferite gravi s La polizia che cattura i ladri che rubano nelle vetrine, i pompieri che salvano la gente dagli incendi, i militari che vanno nei paesi lontani a fermare la guerra, i carabinieri che fermano le macchine che vanno troppo veloci s I veri eroi sono Garibaldi, Abba, Dio e Gesù. Garibaldi e Abba hanno salvato l’Italia, Dio e Gesù hanno creato il mondo s I pompieri che salvano dalle orribili fiamme fumiganti s Gli eroi che conosco, oltre a pensare a loro, pensano anche alle persone indifese s L’ambulanza, la protezione civile, la protezione animali e la guardia forestale s I vigili urbani che sono vicino alle scuole perché fermano le macchine per far passare i bambini o proteggono i passanti quando ci sono i lavori in corso s Gli alpini, i soldati, chi ha dovuto combattere per la patria s i carabinieri, la polizia… loro proteggono il mondo Finalmente i bambini avevano raggiunto esempi vicini all’esperienza di tutti. Per consolidare l’idea raggiunta riguardo all’atto altruistico ed eroico, possibile anche al più piccolo uomo, senza alcun super potere, abbiamo deciso di leggere un racconto che vede come protagonisti proprio dei ragazzini e torniamo così alla vicenda del Risorgimento, alla sua epopea, con le storie de ”La piccola vedetta lombarda” e “Il piccolo tamburino sardo”, narrate nel libro Cuore di Edmondo De Amicis. Tra tutti i momenti che hanno accompagnato questa esperienza, è stato proprio questo il più straordinario per noi insegnanti: scoprire che una vicenda così lontana anche per noi, con quel suo inconfondibile sapore ottocentesco, colpiva con grande ed inaspettata intensità la sensibilità ed il “Cuore” dei nostri alunni. Il percorso intrapreso continuerà durante la seconda parte dell’anno scolastico con lo studio geografico della città di Brescia. Appena i bambini hanno avuto tra le mani una 70 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 2 Mille e una patria pianta della città di Brescia, hanno subito ritrovato tanti personaggi conosciuti durante la scoperta del Risorgimento: Via dei Mille, Via Garibaldi, Via Mazzini, Via Cavour… Gli alunni della classe avranno anche l’opportunità di visitare il Teatro Grande di Brescia, sede del primo arruolamento del Comitato di difesa pubblica, prima delle Dieci Giornate. Nel loro percorso, preparato dall’Università Cattolica nell’ambito del Progetto “Architettura per i bambini”, saranno seguiti da un architetto che li renderà consapevoli della splendida armonia del Teatro cittadino. L’approfondimento servirà anche a capire il ruolo del melodramma e della musica di Giuseppe Verdi al momento entusiasmante dell’unificazione d’Italia, quando il teatro era il mezzo artistico ideale per incidere sulla società e per muovere gli animi, con la sua musica viva, intensa e passionale. Noi insegnanti ci rendiamo conto che non sarà più possibile terminare questo argomento che ha preso spunto dall’anniversario dell’unificazione d’Italia: 150 anni sono pochi anche per la nostra società in corsa; tutto ciò che ci circonda porta traccia di ciò che è stato ed ora i nostri ragazzi ne intuiscono l’importanza. Soluzioni dei cruciverba (noi ci siamo riusciti tutti!) PRIMO 1-Canto degli italiani 2-Genova 3-Sottomessi 4-Africa 5-Brigantaggio 6- Vittorio Emanuele 7-Marsala 8-Quarto 9-Preside 10-Dieci 11-Cairo Montenotte 12- Re 13- Baionette 14- Ledro 15-Mamme 16- Tartaglia 17-Da Quarto al Volturno 18-Genova 19-Brescia 20- Scrittore 21- Musicista 22-Camicia 23-Mameli 71 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia SECONDO 1-Obbedisco 2-Rosse 3-Roma 4- Brasile 5-Macellai 6-Cavalcare 7-Gamba 8-Sicilia 9-Veneto 10-Vittorio Emanuele 11-Libertà 12-Cane 13-Anita 14-Caprera 15-Coraggio 16-Eroe dei due mondi 17-Sud 18-Bezzecca 19-Divisa 20-Milano 21-Leonessa 22-Re 23-Inno 24-Novaro 72 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 3 Sulle tracce del Risorgimento PER RICORDARE… s Corso Garibaldi s Via Cavour - Via Mazzini Piazza Vittorio Emanuele II s Via Silvio Pellico (17891854) Patriota, scrittore, poeta italiano. “Chi mente, se anche non scoperto, ha la punizione in se medesimo: egli sente che tradisce un dovere e si degrada” s Via X Giornate Le Dieci Giornate di Brescia furono un movimento di rivolta popolare della popolazione bresciana contro l’oppressione austriaca che ebbe luogo dal 23 marzo al 1° aprile 1849. La fierezza dimostrata dagli insorti nei combattimenti valse alla città di Brescia il titolo di “Leonessa d’Italia” s Via Verdi (1813-1901) Compositore che esprime nelle sue opere il suo sincero amore patriottico e il suo dolore per un popolo oppresso e soggiogato. s Portico Municipio: lapide a Garibaldi La lapide dedicata a Garibaldi, posta sotto il portico del Comune a Lonato Veduta di Corso Garibaldi a Lonato, disegno tratto da una fotografia del 1920 PARLIAMO DEL “RISORGIMENTO” Come è stato affrontato l’argomento in classe Non essendo argomento di studio nella classe V, ho preparato una scheda nella quale sono stati messi in rilievo i protagonisti, le idee ispiratrici, la situazione italiana, le lotte che con la Spedizione dei Mille hanno portato all’Unità d’Italia. Analisi dell’Inno di Mameli. Sulle tracce del Risorgimento: ricerca nel centro storico di Lonato e nella Casa del Podestà. Progettazione e realizzazione delle pagine che compongono l’opuscolo “Le Vie dell’Arte”. Riflessioni degli alunni sul Risorgimento “Il Risorgimento è un momento storico splendido perché ha fatto rinascere la voglia italiana di essere uniti e combattere per chi verrà dopo”. “Il Risorgimento mi ha trasmesso un senso di dovere verso l’Italia e un senso di devozione verso tutte quelle persone che hanno combattuto per la mia libertà”. “Mi ha emozionato sentire quante persone sono morte per noi”. “Mi è piaciuto conoscere il Risorgimento perché ho capito che lottare fino in fondo per una cosa che si vuole è molto importante e anche faticoso”. “Gli attori del Risorgimento hanno riunito l’Italia. Hanno avuto una grande forza di volontà talmente forte che alla fine sono stati premiati”. Ins. Daniela Carassai Classe Quinta D Scuola Primaria “don Milani” Antonuzzi Alessandra, Miglioranzi Andrea, Bordiga Aurora, Mor Luca, Brambillasca Nicole, Papa Davide, Dipping Gianluca, Petrillo Enrico, Docera Kevin, Prandini Alessia, Ferrari Rebecca, Raimondi Gabriele, Franceschini Arianna, Rizzetti Linda, Garulli Silvia, Salihi Sendi, Giuliano Riccardo, Sarabotani Anna, Imberti Asia, Tosadori Estefania, Locantore Federico, Zagaria Marco 78 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 4 …Due chiacchiere con i protagonisti dell’Unità d’Italia Ritratto di Giuseppe Garibaldi, conservato nelle raccolte di Ugo Da Como – Affronto i Napoletani nel 9 maggio e vinco a Palestrina il 19 maggio, sempre contro i Napoletani, e a Velletri –. – Quando muore sua moglie Anita? – – Anita purtroppo è morta il 4 agosto alla fattoria Guiccioli presso Ravenna e subito dopo ho cominciato la stesura delle mie memorie autobiografiche –. – Tra il 1848 e il 1854 cosa le successe? – – Nel settembre del 1849 sono stato arrestato a Chiavare e portato a Genova. Mi sono imbarcato per Tunisi, a Tangeri dove ho soggiornato per sei mesi. Mi sono recato a New York dove sono stato accolto dalla Comunità italiana, dai francesi e dagli inglesi. Ho lavorato nella fabbrica di candele di Antonio Meucci. Ho viaggiato a lungo l’America centrale, in Estremo Oriente sino in Cina e in Australia. Sono arrivato in Italia, mi sono fermato a Londra, lì ho incontrato Mazzini– Ha una casa? – – L’ho costruita a Caprera nel 1855 –. – Dove incontra Cavour per la prima volta? –. – L’ho visto a Torino e ho appoggiato la Società Nazionale che ha per motto “Italia e Vittorio Emanuele” –. – Cosa le conferisce Cavour? –. – Cavour mi conferisce l’incarico di organizzare l’esercito dei volontari; in caso Camozzi è nato il mio inno –. 80 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 4 …Due chiacchiere con i protagonisti dell’Unità d’Italia – – Ha conosciuto altre compagne? –. – Si, mi sono innamorato di Giuseppina Raimondi, l’ho sposata il 24 giugno 1860, ma il mio matrimonio è stato annullato nel 1879. – Chi ha organizzato la Spedizione dei Mille? – – Questa Spedizione è stata organizzata da Cavour – – I volontari erano mille o erano di più? – – I volontari erano millequattrocentoventidue, Bixio mi suggerì di chiamarla “la Spedizione dei Mille” – – Da dove siete partiti e dove siete arrivati? – – Ci siamo imbarcati sulle navi a Quarto e siamo arrivati a Marsala –. – Com’è andata? – – Prima ho combattuto contro all’esercito borbonico e ho conquistato Calatafimi, Palermo e Milazzo – – Quanto sono costate tutte le armi? – – Le armi sono costate tantissimo, ogni volontario poi indossava una camicia rossa e i volontari sono stati denominati Garibaldini – – Che origini avevano i Garibaldini? – – La maggior parte di loro erano bergamaschi, alcuni venivano da Milano e altri da Padova –. – i Garibaldini sono partiti il 5 maggio del 1860 e sono giunti a Marsala l’11 maggio 1860 –. – Signor Garibaldi potrebbe raccontare come si è svolta la Spedizione dei Mille? – – All’inizio a Calatafimi, il 15 maggio è scoppiata una battaglia e ho conquistato la città. A Paleremo, dal 27 al 30 maggio, ho combattuto un’altra battaglia molto dura alla fine anche questa città è caduta. Ritratto di Camillo Benso, conservato nelle raccolte di Ho lottato una battaglia a Milazzo nei pressi di Messina, il 20 luglio. Ugo Da Como I Napoletani, il 25 luglio hanno evacuato la Sicilia, io ho oltrepassato lo stretto di Messina, quindi ho risalito la Calabria e sono entrato a Napoli il 7 settembre, mentre i Barboni sono ritornati a Gaeta. La battaglia finale l’ho vinta sul Volturno l’1 ottobre 1860. – Desideri pormi altre domande?- mi chiede con gentilezza. – Cosa è successo dopo? – – Ho incontrato Vittorio Emanuele II e gli ho affidato tutte le mie conquiste, lui invece di ringraziarmi mi ha colpito alla gamba e mi ha ferito –. – Ultime domande sui suoi affetti –. – La mia famiglia mi sta vicino, sono molto contento per mio figlio Menotti perché è entrato a fare parte della spedizione dei Mille. Adesso abito in sud America con mia moglie e spero di vivere gli ultimi anni con i miei figli –. Lui versa un altro bicchiere di vino, ne offre anche a me. Socchiude un attimo le palpebre quasi voglia rivedere la sua vita come la proiezione un film. Io mi alzo, in silenzio, non voglio distoglierlo dai suoi pensieri, sono fortunato e orgoglioso: ho incontrato un eroe valoroso che ha donato la sua vita alla mia patria. Lo racconterò agli Italiani: loro devono continuare a credere in questi ideali, in questi valori per cui tanti sono morti: libertà, unità, democrazia. DUE CHIACCHERE CON GIUSEPPE CAPUZZI Oggi ho un importantissimo appuntamento per un’intervista esclusiva a Giuseppe Capuzzi. Quando sono arrivato a casa sua mi ha accolto con grazia facendomi accomodare su una soffice poltrona. All’inizio ho cominciato a vergognarmi, ma poi ho preso coraggio e ho incominciato la mia intervista in esclusiva. 81 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 4 …Due chiacchiere con i protagonisti dell’Unità d’Italia Lui ha un aspetto maestoso: indossa una camicia rossa come un tempo, forse me la vuole mostrare . Ha folta barba e dei lunghi baffi, di moda in questo tempo. I suoi capelli grigi lasciano libera la fronte. – Potrei porle qualche domanda riguardo al suo passato, quando l’Italia doveva ancora unificarsi? – – Sarebbe un grande onore risponderle –. – Dove e quando è nato? – – Io sono nato a Bedizzole in provincia di Brescia il 27 novembre del 1825 –. – Perché è stato nominato ufficiale quando si è arrabbiato nell’esercito? – – Sono stato nominato ufficiale per gli atti eroici che ho visto e che ho vissuto a Palermo e a Calatafimi –. – Come la ricorda la spedizione dei mille? – – L’esercito guidato da Garibaldi era il fiore dell’intelligenza italiana, lui è stato un grande personaggio e un amico fidato che rimarrà nel mio cuore –. – Come è andata la guerra a Calatafimi? – – Dopo la guerra nessuno possedeva né calze né scarpe, ma per fortuna gli abitanti ci hanno offerto delle scarpe anche se non erano adatte alle lunghe marce della guerra.– Cosa mangiavate durante la guerra? – – Ad esempio, quando ero a Borghetto, gli abitanti ci offrivano del pane e una scodella di minestra –. – Come dormivate la notte? – – Ci riposavamo sdraiati sul pavimento della celle funerarie, però l’aria che usciva dalle tombe ci dava fastidio e danneggiava il nostro corpo –. – Mentre attraversavate il mare non vi annoiavate? – – Non proprio, ci piaceva tanto osservare i delfini che saltavano e spruzzavano nell’acqua –. – Eravate così ostinati e determinati a continuare la guerra? – – Chiedevo sempre aiuto a Dio con la preghiera. Credevo ardentemente nel progetto di Garibaldi: ossia unificare l’Italia a ogni costo –. Mentre lo ascoltavo il tempo volava. – Com’è stata accolta l’entrata in Sicilia? – – All’entrata in Sicilia, la gioia degli uomini era in contrasto con le grida delle donne che ci mostravano la rovina delle loro case –. – Dopo la guerra che lavoro ha svolto? – – Dopo la guerra sono diventato un importante giornalista –. Lo ringrazio per le notizie che mi ha fornito e lascio la sua casa soddisfatto. Ormai è sera devo tornare a casa, saremo in grado, noi giovani di un impegno sociale così forte che a molti è costato la vita? Vittorio Emanuele II Quest’ anno si festeggiano i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia. Avveniva nel periodo che gli storici hanno chiamato Risorgimento, ovvero il movimento sviluppatosi nei secoli XVIII e XIX (fine del’700 al 1870), nel quadro di una generale tendenza europea all’affermazione nazionale, inteso a realizzare la libertà politica, l’indipendenza e l’unità d’Italia. Fra i protagonisti di questo periodo vi fu Vittorio Emanuele II di Savoia,nato a Torino il 14 marzo 1820. Vittorio Emanuele II, non apparteneva ai Savoia, ma ad un suo ramo cadetto, i Carignano. Da piccolo fu salvato dalle fiamme grazie ad un gesto eroico della sua nutrice. Salito al trono del regno di Sardegna il 23 marzo 1849,in seguito all’ abdicazione del padre Carlo Alberto, avvenuta sul campo di battaglia di Novara dopo la sconfitta piemontese nella I guerra d’indipendenza. Mantenne e difese con vigore lo statuto Albertino, rispettò i limiti concessi al sovrano della carta costituzionale e si guadagnò l’appellativo di re galantuomo. Pur essendo di sincera fede cattolica, sostenne negli anni Cinquanta la politica antiecclesiastica del governo piemontese e, nonostante i cattivi rapporti personali, assecondò la politica interna ed estera di Cavour. 82 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 4 …Due chiacchiere con i protagonisti dell’Unità d’Italia Ritratto di Vittorio Emanuele II, conservato nelle raccolte di Ugo Da Como Nel marzo del 1861, fu proclamato primo re d’Italia, all’età di 41 anni. Era precocemente invecchiato e ingrassato, aveva cominciato a tingersi i capelli e mostrava enormi baffi arricciati all’insù. Come tutti gli uomini mediocri era geloso e ombroso. Dietro questa personalità molto debole si nascondeva un uomo scaltro, con un carattere semplice non spregevole, di buon cuore, ma rozzo. Trasferitosi con le carte da Torino a Firenze nel 1864, nel 1870 dopo la fine dello stato Pontificio, si insediò nel palazzo del Quirinale, a Roma. Vedovo dal 1855 della regina Maria Adelaide di Asburgo-Lorena (con la quale si era sposato nel 1842), sposò la popolana Rosina Vercellana, dopo averla creata contessa di Mirafiori. Dopo una breve malattia (diagnosticata dai medici di corte come una pleura polmonite con probabili complicazioni malariche), Vittorio Emanuele II morì a Roma il 9 gennaio 1878. INTERVISTA A VITTORIO EMANUELE II Un giorno passeggiando tra le vie di un paesino della provincia di Brescia, un gruppo di amici incontrarono un personaggio ancora illustrato sui libri. Era un personaggio con baffi alla francese e barba lunga, indossava vestiti reali, aveva un portamento eretto. Il genio del gruppo lo riconobbe e urlò – MA LUI è… è… VITTORIO EMANUELE II –. Nonostante le notizie del suo comportamento non molto gentile, gli amici riuscirono a strappargli delle notizie più vere. 83 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 4 …Due chiacchiere con i protagonisti dell’Unità d’Italia Ritratto di Vittorio Emanuele II, conservato nelle raccolte di Ugo Da Como Corsero da lui e gli chiesero: – Potremmo porle delle domande? –. Vittorio gli rispose: – Con piacere –. Uno di loro si fece avanti: – Qual è il suo vero nome? –. Il mio vero nome è Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso –. Poi tutti gli altri si fecero avanti: – Perché si trova da queste parti? –. – Perché sono venuto a trovare un vecchio amico, ma mi sono perso –. – Dove e quando è nato? – – Sono nato il 14 marzo 1820 a Torino –. – A quale dinastia appartiene? – – Appartengo alla casa reale dei Savoia –. – Durante la sua carriera politica quali cariche pubbliche ha ricoperto? –. – Ho ricoperto le cariche pubbliche di primo re d’Italia, ultimo re di Sardegna e principe di Piemonte –. – A quanti anni divenne re d’Italia? –. – Divenni re a giovane età –. – È stato un buon re? Perchè la chiamavano Re Galantuomo? –. – Sono stato un re molto saggio, mi chiamavano Re Galantuomo perché ero leale, combattente e schietto. – Quali furono i suoi nemici? –. – I miei nemici furono gli austriaci. – Quante guerre ha combattuto? Perché? – Ho combattuto 3 guerre –. – Quante terre ha conquistato? –. – Ho conquistato le tre Venezie, lo Stato Pontificio, il Regno Delle due Sicilie –. – In che anno hanno stampato la sua immagine sulla moneta italiana? – Durante il periodo del 1900 –. – Lei ha contribuito a unificare l’Italia? Era d’accordo? –. – Sì, ho contribuito, ma all’inizio non ero molto d’accordo –. – Perché si è guadagnato l’appellativo di “Padre della patria”? – Mi sono guadagnato l’appellativo di “PADRE della PATRIA”, perché sono stato il primo re del Regno Unito. Infatti dopo la mia morte è stato eretto un monumento in mio onore per ricordare le vittorie. – Dove si trova questo monumento? – Questo monumento o vittoriano si trova a Roma, in piazza Venezia, di fronte vi è una mia statua. – Quale fu la capitale d’Italia? Perchè? –. – All’inizio fu Torino, dopo Firenze ma infine diventò Roma. – Quando separò lo stato dalla chiesa? –. – Durante il mio “Discorso della Corona”, il 27 novembre 1871, dopo che spostai a Roma la Capitale, decisi che la chiesa non comandasse più lo Stato. Ma proclamai Roma “Sede del Pontefice”. – Da chi è stato coadiuvato durante il regno d’Italia? –. – Sono stato aiutato da Cavour. – Dove si trovano i suoi monumenti? – Dunque, se non mi sbaglio uno è a Torino l’altro invece a Milano, a Verbania, Perugia, Firenze, Genova, Roma, Verona, Napoli ed un altro a Rovigo. I ragazzi ringraziarono il re Vittorio per l’intervista, infine lo salutarono ringraziandolo ancora. 84 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Percorsi didattici Unità e identità: 150 anni di storia Scuole secondarie Chi e dove Classi coinvolte Docenti referenti Scuola Secondaria di primo grado Lana Fermi - Brescia Terza A Dora Tartaglia con Daniela Caffagni e Daniela Cantarella progetto 5 Brescia leonessa d’Italia Parlano gli insegnanti Quando abbiamo scelto l’argomento per presentare il contributo dato da Brescia all’Unità d’Italia non pensavamo di mettere al centro le Dieci Giornate: ci sembravano un argomento un po’ abusato e sicuramente già approfondito da persone molto più esperte di noi. Poi, dopo aver accostato testi storici e poetici, dopo aver girato nella nostra città, dopo aver visitato la mostra con cui Roma ha, alle Scuderie del Quirinale, aperto le celebrazioni del Centocinquantenario, ci siamo accorti che Brescia nel Risorgimento è per tutti la Leonessa d’Italia, così chiamata per l’eroica resistenza all’Austriaco straniero durante l’insurrezione del ’49. In mostra a Roma i quadri dell’Induno con Brescia protagonista mostravamo episodi delle Dieci Giornate, i poeti – da Carducci a Mercantini, all’Aleardi – celebrano gli avvenimenti di quei giorni, per le vie della nostra città sono numerose le lapidi che ricordano quei fatti insieme luttuosi ed eroici. Sotto la Loggia sono scolpiti nel marmo i nomi dei Bresciani caduti per l’Italia nelle battaglie del Risorgimento: colpisce l’enorme sproporzione tra i morti dei diversi teatri di guerra e gli uomini, donne, giovani che hanno perso la vita durante le “gloriose giornate”. Luigi Mercantini, cantore delle lotta italiana, dedica a Tito Speri un intero poemetto. D’altra parte, in contrasto con questa visibilità durante tutto il periodo risorgimentale ed oltre, ormai le Dieci Giornate sono scomparse dai libri di storia della scuola media. Non c’è più pericolo, quindi, che si rinnovi, parlandone, un rito stanco. Occorre invece, per i nostri ragazzi, salvarle dall’oblio e ridare loro il compito che l’Italia ormai unita aveva loro attribuito: ricordare che la libertà conquistata con i sacrifici dai nostri avi deve suscitare in noi le ‘’cittadine virtù’’. Alla ricerca dunque dell’eroismo degli avi noi siamo andati nei luoghi già frequentati nelle precedenti esperienze delle “Vie dell’arte”: la scuola, il museo, la città. 86 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 5 Brescia leonessa d’Italia Lavoriamo in classe Per conoscere gli avvenimenti, i protagonisti, lo spirito delle Dieci Giornate abbiamo utilizzato i testi di alcuni memorialisti e li abbiamo confrontati con quadri e incisioni dei nostri musei che illustrano episodi delle “epiche gesta”. Abbiamo anche accostato ai testi che documentano questo evento storico i versi con i quali Angelo Canossi, più di mezzo secolo dopo, ricorda e canta in dialetto bresciano l’inizio dell’insurrezione. L’inizio dell’insurrezione, il 23 marzo, ci viene raccontata qui dal conte Luigi Lechi., presente agli avvenimenti: siamo davanti alla Loggia, dove si presentano il comandante della Piazza ed il commissario del vettovagliamento per reclamare 130.000 lire dell’epoca, parte di una multa che la città deve pagare per la sua partecipazione alla prima guerra d’Indipendenza. La folla presente in piazza non è di questa intenzione. “… Allora la turba, lanciandosi dietro loro prorompea nella sala strepitando e serrandosi loro addosso, e minacciava di farli mal capitare se alcuni del Municipio non si fossero frapposti, e se un Maraffio, caporione dei beccai, di ciò pregato, non fosse accorso a cavargli dalla mala peste e a rispondere delle loro vite sulla sua testa. Li prese il Maraffio sotto il braccio, e passando franco e imperioso per mezzo della calca, li trasse seco in sicuro fuori di città…”1 Il gustoso episodio del trasporto dei due malcapitati sui Ronchi, presso la banda del Boifava, è ricordato in questo modo da Angelo Canossi. Èl j-ha ciapacc sòt bras come do sporte (chè chi gha vést, gha vést ön bel quadrèt: lu ‘n faciù rós e lur dò ghigne smórte, lur dù ‘n pelanda e lü sènza zachèt), e ‘l j-ha menaci sót bras fin’ a le Porte e po’ per la Posterla sö al Golet, en dô gh’éra Boifava e la sò Córte Marziale e i sò, campacc én d’ön ronchèt. Armacc dè cadenas, dè furche e pai, chèi dè Sèrle i ghia vòja dè tacàla, e, apéna véscc sté du, i vulìa ‘nsöcai. Òho! – dis èl prét- Gh’è argü chè gha la bala? I prizunér sè üsa a rispetài! – E fai serà sót ciav èn d’öna stala. Li ha presi sotto braccio come due sporte / (che chi l’ha visto, ha visto un bel quadretto / lui un faccione rosso e loro due ghigne smorte,/ loro due in divisa e lui senza giacchetta), / e li ha portati sotto braccio fino alle Porte, / e poi su per la Pusterla fino al Goletto, / dove c’era Boifava con i suoi luogotenenti, / ed i suoi uomini, accampati in un ronchetto. / Armati di fucilacci, di forconi e di pali, / quelli di Serle avevano voglia di menare le mani, / e, appena visti i due, volevano prenderli a cazzotti. / – Oho! – dice il prete – c’è qualcuno sbronzo? I prigionieri si usa rispettarli! – E li fa mettere sotto chiave in una stalla. (La traduzione è nostra) 87 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia 1 L. LECHI, Avvenimenti accaduti in Brescia nel marzo 1849, in Memorialistica bresciana delle Dieci Giornate, ed. Giornale di Brescia, 1999. progetto 5 Brescia leonessa d’Italia Cesare Correnti ci racconta che cosa accadeva nelle vicinanze della piazza. “In quell’ora volle il caso che avessero a passare proprio in sugli occhi dell’indignata moltitudine certe carra di viveri e di legna che in mezzo a soldati s’avviava al castello. Non ci volle molto altro. I più impazienti dier mano a quelle scheggie da ardere e palleggiandole a modo di clava in un attimo disarmarono la scorta, predarono il convoglio, e corsero per le vie mettendo in caccia soldati e gendarmi, strappando e calpestando quante insegne austriache loro venivano vedute, e levando il grido di viva il Piemonte! e morte ai barbari!”2 Non possiamo fare qui la cronaca delle Dieci giornate: abbiamo scelto perciò un episodio centrale, forse il momento più felice dell’insurrezione. Sempre il conte Luigi Lechi ci parla di quel 27 marzo. “La pioggia cade a dirotto. Alle due pomeridiane le campane di S. Maria Calchera danno il segno dell’allarme… Al segnale delle campane di Calchera tutte le altre rispondono suonando a stormo. Al loro martellare si unisce il suono dei tamburi, a questo il grido: a Torrelunga, a Torrelunga! ed ogni armato corre dove il pericolo è maggiore. Non guidati, non comandati da alcuno, tutti sono concordi, non è in tutti che un solo pensiero, quello di misurarsi col nemico che baldo si avanza da S. Eufemia… …Nostra fu la vittoria: Il nemico si ritirò acquartierandosi di bel nuovo a S. Eufemia e il comandante del Castello fece cessare la sinfonia delle sue artiglierie… …all’avvicinarsi della sera uno stuolo di prodi infiammati d’amor patrio, sortirono di città, assalirono improvvisamente l’avanguardia nemica a Rebuffone e scambiato un vivissimo fuoco la ricacciarono dietro le barricate di S. Eufemia. Tornati indietro trovarono Brescia tutta illuminata e giuliva, e i cittadini intenti a visitarne le rovine, a cantare inni patitici e ad innalzare ringraziamenti a Dio.” 3 FUORI I LUMI è il titolo di questo acquarello che rende bene la gioia di quella sera La conclusione delle nostre Giornate non è però felice come speravano i Bresciani, convinti che la ripresa della guerra portasse Carlo Alberto vittorioso a liberare la città. Sono gli Austriaci del generale Haynau a giungere alle porte di Brescia e ad approfittare della notte nebbiosa per penetrare in castello dalla strada del Soccorso. Il generale Haynau, chiamato la “iena di Brescia”, inferocito per il rifiuto bresciano di arrendersi, nella notte del 31 marzo e nel giorno successivo scatena le sue truppe che saccheggiano, devastano, uccidono. Le fonti che presentano gli opposti punti di vista, quello bresciano e quello austriaco, ci offrono la stessa scena. 2 C. CORRENTI, I dieci giorni dell’insurrezione di Brescia nel 1849, in Memorialistica bresciana delle Dieci Giornate, ed. Giornale di Brescia, 1999. 3 L. LECHI, ibidem. Questa la drammatica testimonianza di Giuseppe Nicolini: “…nei quartieri già invasi, di Torrelunga, Sant’Urbano, Sant’Alessandro, l’incendio, il saccheggio, gli orrori di una città presa d’assalto incominciarono con le tenebre: senza pietà, senza freno imperversavano i Croati, sconfiggevano porte, scalavano finestre, 88 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 5 Brescia leonessa d’Italia facevano brecce nei muri, dalle quali passando da una casa all’altra, comparivano inaspettati, assalivano, inseguivano, rubavano, stupravano, ammazzavano. Portavano seco bitume, acqua ragia, e non so quali altre pesti incendiarie, con le quali tingevano o spruzzavano le porte, le masserizie, le letta, le biancherie, e financo le persone perché prendessero fuoco e ardessero come torcie. Le tenebre che accrescevano lo spavento, le fiamme che rompeano le tenebre, le faville e le vampe di fuoco che uscivano dalle finestre e dai tetti, le strida dè fuggenti, le grida degli inseguiti, i gemiti dei morenti facevano di quei miseri quartieri un baratro di disperazione e di strazio.” 4 Meno epici e commossi i ricordi del generale Haynau: “…feci aprire subito un terribile bombardamento sulla città e ricominciare l’assalto. Attesa la grave perdita che avevamo di già sofferta, l’ostinazione ed il furore del nemico, si dovette procedere alla più rigorosa misura; comandai perciò che non si facessero prigionieri, e fossero immediatamente massacrati tutti coloro che venissero colti coll’arma in mano; le case da cui venisse sparato, incendiate, e così avvenne che il fuoco già incominciato parte ad opera delle truppe, e parte dal bombardamento si appiccò in parecchi luoghi.” 5 Questo quadro, sempre dello Joli, mostra il terribile spettacolo della vendetta degli Austriaci. Il piazzale di Porta Torrelunga nella notte del 31 marzo: il fuoco divampa dalle case e si confonde con il fumo ed il rosseggiare delle case incendiate sui Ronchi che fanno da sfondo. Qualcuno cerca di fuggire, i soldati minacciano donne e bambini. Alcuni cadaveri giacciono per terra, circondati dai resti di mobili e di oggetti rubati dalle case e distrutti. In primo piano, in mezzo a tanta disperazione, i soldati austriaci sbevazzano alticci il vino frutto dei saccheggi. Dopo i fatti e i protagonisti, abbiamo puntato l’attenzione sui luoghi degli avvenimenti, anche in preparazione all’uscita sul territorio. Ci è stata data una pianta della città di Brescia che risale ai tempi delle Dieci Giornate La città è ancora chiusa nella cerchia muraria, le strade hanno nomi diversi, alcune non sono ancora state aperte, ma il tessuto cittadino è ben riconoscibile. 89 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia 4 G. NICOLINI, Continuazione del Ragionamento sulla storia di Brescia dal 1848 al 1849, in Memorialistica bresciana delle Dieci Giornate, ed. Giornale di Brescia, 1999. 5 FIORENTINI, Le Dieci Giornate di Brescia del 1849, reminiscenze, Roma, Fratelli Bocca, 1899. progetto 5 Brescia leonessa d’Italia Abbiamo allora segnato i luoghi principali degli avvenimenti. Questa pianta è stata pubblicata in calce alla carta della provincia del 1826 e dedicata all’Arciduca Ranieri A Loggia B piazza della Loggia C Castello D teatro Grande E palazzo Bargnani F porta Torrelunga G torre del Pegol H strada del Soccorso I piazzetta dell’Albera L Porta Sant’Alessandro M contrada Bruttanome N Broletto O porta Bruciata Prima di uscire in città resta solo da fissare i fatti, i protagonisti ed i luoghi con due semplici questionari, utili per un ripasso generale 90 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 5 Brescia leonessa d’Italia Andiamo in città Lo scopo della nostra uscita non è soltanto quello di visitare i luoghi degli eventi, magari confrontandoli con le immagini dei quadri e delle incisioni per constatare quanto sono cambiati. È un percorso nei luoghi della memoria, per prepararci alla fase finale del nostro lavoro: fare da guida a compagni e – perché no? – a genitori e nonni per trasmettere loro quanto abbiamo conosciuto. Questa pianta riporta il percorso che abbiamo seguito provenendo dalla nostra scuola, che si trova a nord del centro storico. (A) Siamo partiti da palazzo Bargnani in corso Matteotti: oggi è sede del liceo artistico e qui, nell’Ottocento, è stato a lungo professore Cesare Abba. In questo luogo, durante le Dieci Giornate, si trasferì dal Teatro Grande il Comitato di Difesa: probabilmente si sentiva più al sicuro dai colpi di artiglieria provenienti dal Castello, riparato come era dalla torre della Pallata e dalla cupola della vicina chiesa della Pace. Era anche in prossimità della porta occidentale della città, dalla quale si sperava sarebbe entrato il vittorioso esercito di Carlo Alberto. La lapide ricorda i duumviri Contratti e Cassola che vengono descritti come “imperterriti e saggi”, forse per far tacere le critiche di parte moderata, che giudicavano troppo azzardata la loro condotta durante l’insurrezione. Ci ha colpito soprattutto il fregio della lapide che vede riuniti tre simboli: l’aquila che vola in alto, l’alloro simbolo classico di vittoria e la palma simbolo cristiano del martirio. 91 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 5 Brescia leonessa d’Italia (B) Piazza della Vittoria non è un luogo degli avvenimenti, ma soltanto della memoria. Il nome ricorda l’ultimo atto dell’unificazione italiana, la vittoriosa Prima guerra mondiale, ma durante le Dieci Giornate qui sorgeva il popolare ed affollato quartiere delle Pescherie. Nella piazza moderna è stato costruito in posizione dominante l’Arengario, specie di pergamo laico utilizzato in epoca fascista nelle cerimonie patriottiche. Lungo i suoi lati sono state scolpite dal Maraini scene che rappresentano i momenti più significativi della storia della nostra città. Al leone rampante, simbolo della città, sono affiancati i due epiteti di Brescia: il primo, BRIXIA FIDELIS, le è stato attribuito per la secolare fedeltà alla Repubblica Veneta. Il secondo, LEONESSA D’ITALIA, testimonia il suo valore durante le Dieci Giornate. Un Austriaco che fugge davanti all’incalzare degli insorti, guidati dall’incitamento di Tito Speri, è l’immagine scelta per rappresentare la gloriosa insurrezione del ’49. (C) Il Palazzo e la Piazza della Loggia sono il fulcro degli avvenimenti. Qui inizia l’insurrezione, qui viene decisa la resa. Questo è il palazzo municipale rappresentato dallo Joli il 23 marzo 1849. Se si toglie la sommità della Loggia nulla ci sembra diverso. Oggi, però, sotto il porticato sono murate le lapidi che commemorano gli eventi decisivi della nostra storia cittadina e patria. 92 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 5 Brescia leonessa d’Italia Saliamo per lo scalone, sotto lo sguardo di Cavour scolpito nel marmo, per raggiungere il salone vanvitelliano. Sulla parete uno squarcio vistoso indica i danni provocati dalle artiglierie del Castello. Colpi simili hanno colpito il Teatro, il Duomo, la cupola della Pace. Sulla parete del salone sono dipinti a grandi lettere dei versi sicuramente forti, ma ad una prima lettura oscuri: la nostra insegnante ci ha detto che sono del Carducci e con un po’ di impegno ne siamo venuti a capo. Questi versi, rivolti a Brescia,sono tratti da una poesia di Carducci, “Sicilia e la rivoluzione”, composta nel 1860. …rammenta i tuoi pargoli infranti Sulle soglie i tuoi vecchi scannati Ed i petti materni frugati Dalle spade e l’irriso dolor Subito ci hanno riportato alla memoria una litografia che riassume simbolicamente il martirio delle Dieci Giornate Questi versi, sempre del Carducci, sono ancora più oscuri dei precedenti. Abbiamo poi scoperto che a parlare è la Vittoria alata, simbolo della nostra città. Questa statua di bronzo romana, rimasta per secoli nascosta, fu ritrovata nel 1826 e divenne per i patrioti il simbolo della vittoria romana che, nascosta e calpestata mentre per secoli sul suolo italiano dilagano gli eserciti stranieri, ricompare nei giorni voluti dal fato perché la patria celebri la sua rinascita, il Risorgimento appunto. Spetta a Brescia l’onore di riscoprirla e raccoglierla, “a Brescia la forte, a Brescia la ferrea, Brescia leonessa d’Italia, beverata nel sangue nemico’’ 93 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 5 Brescia leonessa d’Italia (E) La salita al castello è fiancheggiata da case che conservano tuttora l’aspetto di quei giorni: allora si chiamava piazza dell’Albera, ora è stata dedicata a Tito Speri. Il quadro dello Joli ci mostra l’ultimo combattimento vittorioso dei Bresciani, che riescono ancora una volta, il 31 marzo, a ricacciare i fanti nemici. Una lapide, all’interno della fortezza, ricorda l’ingloriosa ritirata del battaglione badese. Sui muri delle case un’epigrafe collega l’eroica resistenza dei patrioti a quella che quattro secoli prima i Bresciani opposero ai Francesi , penetrati anch’essi in castello e di là scesi per fare strage. Nel centenario dell’insurrezione sono gli abitanti del rione che, su una lapide vicina, vogliono incidere “con orgogliosa fierezza il ricordo degli avi”. Dieci anni più tardi e qualche passo più avanti, un’altra epigrafe, dal tono meno eroico e più dolente, ricorda le stragi della tristissima domenica delle Palme, divenuta per i Bresciani domenica di Passione: “Il primo aprile 1849 nelle case saccheggiate ed in fiamme di questo rione gli austriaci trucidarono inermi popolani…”. Seguono i nomi di persone diverse per età e professione dalla vedova anziana al giovane garzone, dallo studente all’oste del Frate, l’osteria lì vicina. (F) Sulla strada che ci porta alla fortezza, incontriamo fra le piante un busto dedicato a padre Maurizio Malvestiti. Venuto in castello per chiedere ad Haynau di risparmiare la città, è stato ritratto in una litografia mentre fronteggia il militare. Il generale è impettito e severo, ma anche nell’atteggiamento del frate c’è dignità e fierezza. L’incisione sul basamento ricorda il suo coraggio nel salire l’erta sotto il fuoco nemico. La resa non è vista come un atto di vigliaccheria, ma come una condizione per salvare “con Brescia la speranza di salutare un giorno l’Italia libera e grande”. (G) lI Castello sarà pure chiamato “falcone d’Italia” ma nei Bresciani suscita ricordi storici dolorosi, a cominciare dal lontano 1512, quando Gastone di Foix, comandante delle truppe francesi, riuscì come Haynau a penetrare nella fortezza per poi scendere in città a far strage degli abitanti. 95 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 5 Brescia leonessa d’Italia Dalla strada del Soccorso per ben due volte, come è scritto sulla lapide lì accanto, entrarono truppe straniere (nel 1512 i Francesi di Gastone di Foix, nella notte del 31 marzo 1849 le truppe di Haynau) “contro l’insorgere del popolo bresciano sdegnoso di ogni dominazione straniera” e discesero in città a portare sterminio e desolazione. “1° Aprile, E muoiono intrepidi ispirando vendetta” è la didascalia in questa litografia che mostra le fucilazioni degli insorti cominciate dopo la presa della città e proseguite nei giorni successivi. È evidente l’atteggiamento impavido e fiero dei patrioti di fronte alla morte. Questa scena è stata scolpita nel basamento della “Bella Italia” in piazza Loggia. I corpi degli insorti venivano ammassati in fosse comuni. Recuperati dopo il ’59, i resti vennero solennemente trasportati al cimitero Vantiniano. Sulla torre dei Prigionieri una lapide ricorda patrioti qui rinchiusi prima dell’arrivo di Napoleone, definiti anticipatori del riscatto italiano. In seguito divenne anche prigione per i partigiani che combattevano nella lotta di Liberazione. Nella fossa dei Martiri, una spianata che si affaccia a nord sulla città, vennero fucilati in epoche successive patrioti del ’49 e partigiani delle Fiamme Verdi, tutti in lotta contro la tirannide straniera. 96 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 5 Brescia leonessa d’Italia Ormai l’incisione si legge a malapena, ma i nostri nonni conoscevano bene questo monumento funebre: qui era stato sepolto, prima di essere riportato in patria, il generale Nugent, avversario cavalleresco e rispettato. I suoi commilitoni hanno ricordato sulla lapide che egli è caduto per la difesa del trono e dell’ordine pubblico. Sotto i Bresciani hanno posto la scritta: “Oltre il rogo non vive ira nemica”. I caduti delle Dieci Giornate riposano qui circondati da altri combattenti nelle lotte del Risorgimento. I nomi dei caduti nelle sanguinose battaglie di San Martino e Solferino sono mescolati a quelli dei loro alleati francesi. Alcune tombe raccontano storie avventurose e forse ancora per poco leggibili: abbiamo saputo di un giovane che, sceso giovanissimo dalla valle per combattere con Garibaldi, ha percorso un lungo cammino con lui dalle battaglie italiane a quelle sudamericane. Di nuovo in classe Rientrati dalla città abbiamo fatto insieme una ricerca su come le eroiche Dieci Giornate sono state ricordate e celebrate da contemporanei e posteri. Privati e nascosti, dopo il ritorno degli Austriaci, il ricordo e l’omaggio ai caduti. “La preoccupazione dei seppellitori dei cimiteri di S. Eufemia e della Volta da preservare le fosse comuni in cui sono stati gettati i patrioti uccisi nei combattimenti fuori le mura, il dolente pellegrinaggio di una madre sul luogo dove era stato fucilato il figlio, le messe in suffragio fatte celebrare “furtivamente” ogni anno dagli amici di Tito Speri…”.6 Nei primi tempi dopo l’unificazione la memoria è stata condivisa con lo stesso spirito da moderati e mazziniani, cattolici e liberali. Ci è piaciuta molto la cronaca della Gazzetta Provinciale che descrive il corteo commemorativo del l2 aprile 1960 che si snoda per le vie cittadine “al funerale passo del tamburo”. “Precedevano i bersaglieri; seguivano le società artiere, coll’ordine, e sui gonfaloni tricolori in gramaglia coi motti che veniamo indicando. 1. Tipografi, sopra una zona nera di tela cerata in bianchi colori: Libertade è il primiero dei diritti .2. Portagerla: Quando il popolo si desta, Dio combatte alla sua testa. 3. Facchini: Pensando a voi sperammo. 4. Venditori di fiammiferi: Sei nata tra i patiboli. 5. Calzolai: È questa la bandiera di chi combatte e spera. 6. Mastri muratori: Brescia sdegnosa d’ogni vil pensiero. 7. Falegnami: Venezia e Roma. 8. Prestinai: Sacriam l’avel dei martiri. 9. Fabbri e armaioli: Ricchi d’onor, di ferro e di coraggio. 10. Conciatori: 18 e 22 Marzo. 11. Ramai: Vinse perché il martirio, È una battaglia vinta. 12. Sarti: Segno ai redenti popoli. 13. Cappellai: 99 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia 6 G. PORTA, L’insurrezione di Brescia: cent’anni di uso pubblico della storia, in Le Dieci giornate di Brescia – Le ricorrenze della memoria, Brescia, Grafo, 2000. progetto 5 Brescia leonessa d’Italia Associazione e lavoro. 14. Orefici: Tutti son teco. 15. Pittori e imbiancatori: Dall’Alpi al Lilibeo, Dall’uno all’altro mar. 16. Studenti, questi bellissimi versi di Mameli: Qui presso all’ossa, o giovani/ che all’avvenir vivete,/ la sanguinosa pagina/ qui del dover leggete. 17. Presso loro il corpo dei professori senza motto. 18. Circolo Nazionale in un verso la sua professione di fede all’Italia: Una, potente e libera, e finalmente il drappello degli Emigrati la cui bandiera portata da un vecchio e venerando popolano della Laguna e scortata da due donne in gramaglie, quanto ha di più commovente la sventura, recava sul suo drappo il commovente richiamo alla schiavitù italiana: Ti aspettan frementi le oppresse città. Dietro a questa schiera proseguivano il governatore, il sindaco…”. Nell’anno successivo un manifesto della giunta comunale invitava i Bresciani alla “mestissima festività, patriottica e pur religiosa, nostra e pur italiana” di sepoltura dei resti delle vittime della repressione austriaca riesumati in Castello. Dopo il rito in Duomo, una interminabile processione segue il carro funebre per le vie parate a lutto fino al cimitero Vantiniano. Ancora più folla accorre spontaneamente il 15 giugno 1867 alla cerimonia di sepoltura dei resti di Tito Speri, riesumati a Belfiore. 7 Diversamente vanno le cose dopo la presa di Roma, nel 1870. I due schieramenti cattolici e anticlericali si fronteggiano con particolare animosità nella nostra città e, tra roventi scambi di accuse, rivendicano alle proprie idee fatti, ideali ed eroi: a seconda degli schieramenti si sottolineava di Tito Speri l’animo laico e mazziniano o la morte, preceduta sul patibolo da parole e gesti della pietà cristiana. Per presentare le ragioni degli avversari potremmo utilizzare le due figure simbolo che si fronteggiano, ignorando lo scarto temporale, negli ultimi decenni del secolo: Padre Maurizio Malvestiti ed Arnaldo da Brescia. Il primo lo abbiamo già incontrato durante il nostro lavoro; il secondo, monaco medievale rigoroso e ribelle, lo abbiamo visto scolpito sull’Arengario, dove rappresenta la rivolta contro i poteri tirannici del Barbarossa, soffocatore delle libertà comunali, e del Papato corrotto. Per celebrare il nostro Risorgimento sono stati costruiti in luoghi e tempi diversi monumenti, ma nessuno ha comportato la ricerca di fondi su tutto il territorio nazionale, il susseguirsi di progetti, le feroci polemiche che ha invece suscitato il”monumento della discordia” dedicato ad Arnaldo da Brescia. Questo fu voluto e realizzato, in polemica anticlericale e massonica, dai liberali zanardelliani, che volevano sottolineare il carattere laico del Risorgimento ed accomunare il papa ai sovrani tirannici della Restaurazione. “Che cosa c’entra Arnaldo con l’unità d’Italia?” era la domanda del popolo incolto. Chi sapeva più di storia si divideva in due schieramenti contrapposti. Da parte cattolica padre Maurizio veniva esaltato come il salvatore della città, “virtuoso frate, umile, esemplare, santo, modesto, dotto, senza ostentazione rumore” e contrapposto a quell’altro frate, “presuntuoso, superbo, disobbediente ai suoi superiori, scandaloso, ambizioso, innovatore e strombazzatore delle sue dottrine ardite, fanatico, petulante” 8 “Ipocriti” dicevano in sostanza gli altri, ricordando il rifiuto del vescovo di firmare la supplica per salvare la vita a Tito Speri. “E poi” sono parole nostre, ma il concetto è loro “bell’eroe chi alza bandiera bianca!” 7 G. GUERZONI, Commemorazione alle Dieci Giornate del 1849, in Gazzetta Provinciale di Brescia, 3 aprile 1860. 8 Autocronografia di Ser Bagola, in Il Frustino, 2 aprile 1882. Queste polemiche persero vigore all’inizio del Novecento, quando in occasione degli anniversari si richiama l’esigenza di coronare l’opera di indipendenza liberando Trento e Trieste e l’opposizione agli accordi della Triplice Alleanza accomuna le diverse anime del patriottismo bresciano. Comune ai diversi schieramenti è sempre l’orgoglio municipale per le Dieci Giornate, “fatto singolarissimo di guerra popolare”. La sua memoria va tramandata 100 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 5 Brescia leonessa d’Italia alle nuove generazioni: nel cinquantenario era uscita l’opera di Eugenio Paroli, “Le Dieci Giornate narrate ai ragazzi da un tamburino”. Il quadro dell’Inganni, di cui riportiamo un particolare, mostra l’ammirazione dei ragazzi per il veterano delle patrie battaglie. Più vicina ai giorni nostri abbiamo notato la cura, dopo la fine della seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo, nel presentare la Resistenza come la prosecuzione ideale delle Dieci Giornate. Lapidi che ricordano gli avvenimenti si fronteggiano sotto la Loggia, nel cimitero il monumento ai caduti della Resistenza viene posto simmetricamente a quello dei prodi Bresciani ai lati del Panteon. Quando, nel marzo del 1949, viene scoperta la lapide posta in corso Magenta il sindaco Bruno Boni collega “agli epici ricordi della barricata di via Bruttanome, il recente episodio del partigiano bresciano”, ucciso nella adiacente via Crispi. Terminata la carrellata su come sia stata trasmessa ai posteri la memoria dell’insurrezione bresciana, abbiamo fatto un semplice lavoro per evidenziare come la città attuale abbia conservato e celebrato nelle sue strade il ricordo dell’Italia unita. Abbiamo colorato con il tricolore, limitandoci al centro storico, le vie che hanno nomi risorgimentali: Brescia è letteralmente circondata e attraversata da personaggi e battaglie patriottiche. La lettere dell’alfabeto indicano quattro monumenti commemorativi, fotografati da noi ma commentati qui di seguito da sonetti del Canossi, scritti in un’epoca in cui l’attenzione ai monumenti da parte dei passanti era certo più viva della nostra. 101 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Chi e dove Classi coinvolte Docenti referenti Scuola secondaria di primo grado annessa al Conservatorio Luca Marenzio - Brescia Seconda A Patrizia Donati, Silena Malagutti e Dora Tartaglia progetto 6 Cantare l’Italia E tu onor di pianti, Ettore, avrai ove sia santo e lagrimato il sangue per la patria versato, e finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane. Ugo Foscolo Senza guardare a partiti o princìpi diversi, io ho celebrato la virtù. Il mio partito è l’Italia. Luigi Mercantini Poiché ci troviamo presso il Conservatorio musicale, avevamo in un primo tempo deciso di limitare il nostro lavoro al contributo che la musica “alta”, soprattutto il melodramma, ha dato al Risorgimento italiano: ”VIVA VERDI”, dunque, in senso politico e musicale. Poi ci siamo accorti che non è semplice usare il linguaggio verbale per comunicare la musica. Alla fine, rimanevano in evidenza soltanto parole. Allora abbiamo inteso “cantare l’Italia” in senso più ampio e abbiamo aggiunto ai testi di inni, romanze, cori anche poesie e dipinti, immagini ed epigrafi che avevano tutti uno scopo comune: ispirare sentimenti patriottici e suscitare passioni ideali. I materiali che abbiamo raccolto solo in piccola parte avevano lo scopo di ricordare, documentare o educare; volevano invece spronare uomini e donne, giovani e non solo, persone colte e non solo a dare il loro contributo e spesso la loro vita perché l’Italia fosse “una dall’Alpi al mar”. Che cosa c’è di nostro nella modesta raccolta che segue? Prima di tutto la scelta tra le numerose proposte che avevamo a disposizione. Abbiamo privilegiato i testi meno noti e quelli che sono per noi i più significativi. E poi l’organizzazione dei materiali in sezioni, la traduzione dal dialetto, il commento, la scelta dei titoli: quello che, in definitiva, fa il curatore delle nostre antologie scolastiche. Abbiamo inoltre illustrato i diversi temi scegliendo, dove era possibile, quadri, litografie, oggetti che provengono dai nostri Musei di Arte e Storia. 106 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia ALL’ALBA DEL RISORGIMENTO Anche a Brescia gli ideali della Rivoluzione Francese, giunti in Italia al seguito delle armi di Napoleone, avevano suscitato speranze: ormai i legami con Venezia, così saldi in passato, non erano più sentiti e la Repubblica veneta rappresentava per molti quell’Antico Regime da abbattere per conquistare la libertà. Anche in città dunque, cacciati i Veneziani e nata la Repubblica giacobina Bresciana, vennero abbattuti i simboli del passato ed in piazza della Loggia, al posto della colonna con il leone di S. Marco, si era innalzato festosamente l’albero della libertà. Nel museo del Risorgimento è conservato questo fazzoletto di seta: raffigura episodi dell’età napoleonica e al centro è ben evidente l’albero della libertà. In questo periodo è nato questo canto giacobino che riportiamo perché è poco conosciuto: era molto amato da Giuseppe Mazzini che ne apprezzava, oltre alle parole, la musica lenta e solenne. Or che innalzato è l’albero si abbassino i tiranni, dai lor superbi scranni scenda la nobiltà. L’indegno aristocratico non osi alzar la testa; se l’alza allor la festa tragica si farà. Già reso uguale e libero, ma suddito alla legge è il popolo che regge: sovrano ei sol sarà. Un dolce amor di patria si sparga in ogni lido. Formiam comune il grido: viva la libertà. Un dolce amor di patria si sparga in ogni lido. Formiam comune il grido: viva la libertà. Un dolce amor di patria si sparga in ogni lido. Formiam comune il grido. viva la libertà. “Di questo canto, dalle parole un po’ fredde e dalla musica lenta e un po’ monotona, ci piace soprattutto il ritornello che invita tutti ad unirsi nel desiderio di libertà e definisce “dolce” l’amore per la patria.” Nel cimitero Vantiniano di Brescia abbiamo trovato il monumento funebre di Teodoro Lechi. Patriota come i suoi fratelli, combatté a fianco di Napoleone nella Legione Italica contro gli Austriaci. Quando nel 1815 questi riconquistarono la Lombardia, egli conservò le Aquile che ornavano le bandiere del reggimento e nel 1848 le donò a Carlo Alberto. Arrestato, condannato a morte, graziato, dopo mesi di carcere partecipò alle Cinque Giornate di Milano e guidò come generale in capo le forze di Lombardia nella Prima Guerra d’Indipendenza. 107 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Le opere liriche riuscivano a “travestire” i temi patriottici, spostandoli in realtà cronologicamente e geograficamente lontane. Agli spettatori, e a noi, le allusioni sembrano chiarissime e ci domandiamo se la censura austriaca fosse poi così efficiente. I motivi cantati da cori e solisti sono di due tipi: il lamento per la schiavitù della patria e l’invito a combattere per liberarla. Al primo gruppo appartiene il celebre “O mia patria sì bella e perduta’’ del Nabucco di Verdi, che tutti conosciamo. Meno famoso, ma molto suggestivo, è il coro “Patria oppressa’’, tratto dal Macbeth, sempre di Verdi. Patria oppressa! il dolce nome no, di madre aver non puoi, or che tutta a figli tuoi sei conversa in un avel. D’orfanelli e di piangenti chi lo sposo e chi la prole al venir del nuovo Sole s’alza un grido e fere il Ciel. A quel grido il Ciel risponde quasi voglia impietosito propagar per l’infinito, Patria oppressa, il tuo dolor. Suona a morto ognor la squilla, ma nessuno audace è tanto che pur doni un vano pianto a chi soffre ed a chi muor A cantare sono profughi scozzesi, ma non sfuggiva a nessuno che qui si parlava d’Italia. Anche nella pittura, d’altra parte, era necessario il travestimento. Alla nostra pinacoteca Tosio Martinengo appartiene questa tela di Hayez, I profughi di Parga. 109 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Gli abitanti di questo villaggio albanese, ceduto dagli Inglesi ai Turchi, abbandonano la loro patria. “Nel gruppo centrale uomini, donne e bambini si sostengono l’un l’altro in questo momento doloroso. In primo piano una giovane saluta per l’ultima volta le tombe dei padri; un uomo raccoglie un pugno di terra da portare con sé, una donna disperata si aggrappa ad un albero cresciuto sul suolo natio. Il sacerdote è pensieroso, il giovane al centro del quadro sembra interrogare il cielo. Le braccia e gli sguardi di molti partenti sono rivolti alle case che stanno abbandonando. Sullo sfondo il mare in tempesta rappresenta le difficoltà che tutti incontreranno in terra d’esilio.” Non solo pianti, però, nel melodramma italiano. Nei Puritani di Bellini la tromba chiama al combattimento: Suoni la tromba, e intrepido io pugnerò da forte, bello è affrontar la morte gridando libertà! Amor di patria impavido mieta i sanguigni allori; poi terga i bei sudori e i pianti la pietà. L’invito a combattere è evidente anche nel coro dell’Ernani di Verdi. Ai patrioti italiani era semplice sostituire all’Iberia l’Italia, ai Mori oppressori gli odiati Austriaci. Si ridesti il Leon di Castiglia e d’Iberia ogni monte, ogni lito eco formi al tremendo ruggito, come un dì contro i Mori oppressor. Siamo tutti una sola famiglia, pugnerem colle braccia, co’ petti; schiavi inulti più a lungo e negletti non sarem finché vita abbia il cor. Morte colga o n’arrida vittoria, pugnerem, ed il sangue dè spenti nuovo ardir ai figliuoli viventi, forze nuove al pugnare darà. Sorga alfine radiante di gloria, sorga un giorno a brillare su noi... sarà Iberia feconda d’eroi, dal servaggio redenta sarà. “Non ci riesce difficile capire l’entusiasmo degli spettatori quando, nel mezzo del melodramma, il coro intonava ad una voce “siamo tutti una sola famiglia”. I temi sono quelli ricorrenti nei canti e nelle poesie risorgimentali: la redenzione della patria dalla schiavitù, la disponibilità a combattere per ottenerlo, l’accettazione coraggiosa della morte, sicuri che il posto del caduto verrà preso da molti altri “ Ancora più esplicito il momento, dal terzo atto della Battaglia di Legnano di Verdi, nel quale, prima di partire per affrontare il Barbarossa,i soldati intonano il solenne giuramento: Giuriam d’Italia por fine ai danni cacciando oltr’Alpe i suoi tiranni. Pria che ritrarci, pria ch’esser vinti, cader giuriamo nel campo estinti. 110 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Per quello che ne sappiamo, nella nostra città non si sono verificati, nel teatro Grande (foto a sinistra) episodi di contestazione aperta agli Austriaci occupanti. Anche a Brescia, però, erano uscite ordinanze che vietavano di portare cappelli “alla calabrese, alla Puritana, all’Ernani” e minacciavano l’immediato arresto. Un’altra disposizione avvertiva che “l’applaudire o il fischiare certi passi di un’azione drammatica” assumeva il carattere di dimostrazione politica illegale. ADDIO MIA BELLA ADDIO Quando si parla di volontari risorgimentali in partenza per i campi di battaglia viene alla mente il famosissimo Bacio di Hayez, anche se nulla individua l’appassionato protagonista come in procinto di andare a combattere. Anche la lettura simbolica dell’abbraccio come l’alleanza fra Italia e Francia, per sconfiggere insieme l’Austria nella seconda guerra d’Indipendenza non ci sembra così evidente, poiché i colori della bandiera italiana e di quella francese non sono facilissimi da individuare. Dal momento della sua esposizione, però, il dipinto è diventato il modello per moltissime illustrazioni di soldati in partenza. In questa cartolina, stampata per la guerra del ‘15-’18, si è aggiunto il treno militare, ma è rimasta la passione del bacio, la penna sul cappello e, simile al modello, la posizione della giovane donna. Senza dubbio il canto d’addio più famoso è quello dei volontari toscani in partenza per i campi di Lombardia nella Prima guerra d’Indipendenza: Addio, mia bella, addio / l’armata se ne va / e se non partissi anch’io / sarebbe una viltà… Il sacco è preparato / il fucile l’ho con me / e allo spuntar del sole / io partirò da te. Le parole cambiano leggermente nelle diverse versioni, come in molti canti popolari, ma i motivi presenti faranno scuola per i canti successivi: la partenza all’alba, il rischio della morte messo serenamente in conto, il binomio uomo e soldato. Abbiamo preferito riportare per intero un canto, sempre di origine popolare, che pare risalga alla guerra del ’66, che difficilmente compare in raccolte ed antologie. Noi l’abbiamo trovato solo in un vecchio disco. 111 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia SORGE IL SOLE ALLA COLLINA Sorge il sole alla collina il tamburo, il tamburo già suo deh, non pianger, mia carina che glorioso che glorioso tornerò. Pria che io fossi innamorato una patria, una patria Dio mi diè; della patria io son soldato mano e core, mano e cor consacro a te. Dammi un riccio di capelli che sul core, che sul cor mi poserà, e per campi e per castelli notte e dì, notte e dì mi accosterà. Fatti un nastro cilestrino, sia memoria, sia memoria del mio amor, te lo annoda al corpettino ove palpita, ove palpita il tuo cor. Addio cara, in mare e in terra nel pensiero, nel pensier sempre ti avrò: sarò tuo, se muoio in guerra, tuo se illeso, tuo se illeso tornerò. E allorchè sul fido core la tua testa, la tua testa poserà, la medaglia del valore le tue guance, le tue guance sfiorerà. “Non assomiglia ad un inno di guerra, veloce e incalzante, ma piuttosto ad una romanza dedicata alla donna amata, questo canto del soldato in partenza. Nella seconda strofa vengono messe in chiaro le precedenze: sono figlio della mia patria prima che tuo sposo – dice l’uomo –, anche se poi tutte le strofe successive sono un canto di fedeltà alla donna. Perfino l’idea della morte è un accenno lieve, una delle due alternative possibili. L’altra è il ritorno tra le braccia della sposa con una medaglia del valore al petto.” Nelle locandine originali dei due canti risorgimentali – li abbiamo ritrovati nella copertina del vecchio 33 giri – sono numerose le somiglianze tra i due soldati in partenza, entrambi bersaglieri che accorrono al segnale di guerra, uno del tamburo, l altro della tromba. Lo spirito è però profondamente diverso: tanto è serio e fedele il soldato del secondo, tanto è temerario e scanzonato il protagonista maschile della Bella Gigogìn, nome con il quale è più conosciuta la canzone. La guerra è per lui una bella avventura: Rataplan! Tamburo io sento che mi chiama alla bandiera. Oh che gioia o che contento, io vado a guerreggiar! 112 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Rataplan! Non ho paura delle bombe e dei cannoni, io vado alla ventura, sarà quel che sarà. progetto 6 Cantare l’Italia TROMBE, TAMBURI E CAMPANE Da sempre trombe e tamburi hanno segnato con la loro voce i vari momenti della guerra. A questi aggiungiamo le campane, che da laiche torri e da campanili di chiesa hanno chiamato a raccolta i cittadini nei momenti più importanti nella vita della comunità. Nel nostro Risorgimento le campane hanno accompagnato l’insurrezione contro l’oppressore. Questa incisione, che abbiamo trovato sulla copertina di un vecchio disco, rappresenta Luigi Mercantini mentre canta, accompagnato dalla moglie al pianoforte, l’inno a lui richiesto dallo stesso Garibaldi, che gli darà il nome. E il coro di uomini, donne e bambini che lo accompagnano diventa un piccolo esercito in marcia. Scopo di canzoni, inni e poesie, tra le quali abbiamo scelto pochi esempi significativi, non era tanto quello di ricordare e di celebrare, quanto quello di chiamare alle armi. Patrioti, all’Alpi andiamo, patrioti, andiamo al Po: perderem, se più tardiamo, gia il Tedesco c’insultò. Il tambur, la tromba suoni; noi sul campo marcerem: mille e più sieno i cannoni, Noi le micce allumerem. E sol verde, bianca e rossa la bandiera s’innalzò. E sol verde, bianca e rossa la bandiera s’innalzò. Tre colori, tre colori, l’Italian cantando va; e cantando i tre colori il fucile imposterà. Foco, foco, foco, foco! S’ha da vincere o morir: foco, foco, foco, foco! Ma il Tedesco ha da morir. E sol verde, bianca e rossa la bandiera s’innalzò. E sol verde, bianca e rossa la bandiera s’innalzò. Lo stesso Mercantini dice che questo suo inno, messo in musica per accompagnare la guerra del1848-49 “vale niente”; eppure apre la sua raccolta di poesie. Il perché ce lo spiega lo stesso autore:” Quando in Corfù (mi si consenta questa dolce rimembranza) io fui a visitare Daniele Manin, da una stanza vicina si udiva cantare: Tre colori, tre colori! – Ecco,mi disse commovendosi, ecco il canto col quale abbiamo combattuto insino all’ultima ora sulle nostre lagune –. E in quella si affacciò un biondo e ardito giovanotto. – Ed ecco qua il mio Giorgio, seguitò il padre affettuoso, che spera e canta –. Tra i numerosi inni che invitano al combattimento, riportiamo qui i due che ci sono piaciuti di più. “Suona la tromba” è l’ultimo canto di Goffredo Mameli, composto prima di morire, ad appena 23 anni, per difendere la Repubblica Romana, e mostra ciò che egli provava per la sua patria, che amava da morire. Suona la tromba, ondeggiano le insegne gialle e nere. Fuoco, per Dio, sui barbari sulle vendute schiere. Già ferve la battaglia al Dio dei forti, osanna, al Dio dei forti osanna Già ferve la battaglia è l’ora del pugnar. Non deporrem la spada, non deporrem la spada, finchè sia schiavo un angolo dell’itala contrada. Non deporrem la spada, finchè sia schiavo un angolo dell’itala contrada, finchè non sia l’Italia una dall’Alpi al mar. 113 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia GIURIAM! GIURIAM! “In questo inno si sente uno slancio, un’atmosfera di euforia patriottica, sottolineata da una musica molto coinvolgente e la frequente ripetizione delle parole più importanti Ciò che mi ha colpito maggiormente nel testo è l’entusiastico desiderio di vedere un’Italia unita senza distinzioni campanilistiche. So che questo obiettivo è stato raggiunto con grandi sacrifici.” L’altra canzone che ci è piaciuta particolarmente è “A ferro freddo”, chiamata anche “La Garibaldina”, grido di guerra dei volontari italiani, di cui riportiamo la prima strofa e il ritornello. Il dado è tratto: di terra in terra suona l’allegro grido di guerra; l’Italia è sorta dall’Alpi al Faro, e vuol col sangue che l’è più caro segnar la traccia dei suoi confini. Al nostro posto, Garibaldini! A ferro freddo, Garibaldini Avanti, urrah! L’Italia va! Fuori, stranieri,fuori di qua! Questa incisione, conservata nel museo del Risorgimento,mostra un combattimento avvenuto nei pressi della nostra città. I soldati sono cacciatori delle Alpi, i volontari guidati da Garibaldi, che combattevano a fianco dell’esercito piemontese. Il loro inno faceva così: Noi siamo i Cacciatori delle Alpi, il nostro Generale è Garibaldi. Savoia, Savoia, si vinca e poi si muoia finché l’Italia unita la sarà. Ai Cacciatori delle Alpi è dedicata una poesia di Mercantini scritta nel 1859, con l’intenzione di suscitare volontari per la nuova guerra contro l’Austria. Comincia con un ritornello, come una canzone, che si ripete più volte e fa così: Volontario ho abbandonato la mia casa ed il mio amor: or che son di qua passato son dell’Alpi cacciator. ”Nelle dodici strofe, tra un ritornello e l’altro, vengono ricordati i sacrifici che dovettero sostenere i volontari agli ordini di Garibaldi: per amor di patria abbandonavano le proprie famiglie ed i loro cari: ”Madre mia, te l’ho giurato/ per la patria vo’ a morir”; essi provenivano da tutta la penisola e avevano affrontato viaggi lunghi e disagevoli. Trovo particolarmente commovente il fatto che i giovani di allora, ma anche le loro madri e innamorate, abbiano avuto ideali così alti ed abbiano creduto così profondamente in ciò che facevano da sacrificare la propria vita per questo” Non è possibile, a questo punto, non ricordare il canto di guerra più famoso del Risorgimento, il già citato “Inno di Garibaldi”. Riportiamo le prime tre strofe, anche se nella versione definitiva, con un’aggiunta successiva dell’autore, la versione completa arriva a sei. 114 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Si scopron le tombe, si levano i morti I martiri nostri son tutti risorti! Le spade nel pugno, gli allori alle chiome, la fiamma ed il nome – d’Italia nel cor! Veniamo! Veniamo! su, o giovani schiere! Su al vento per tutto le nostre bandiere! Su tutti col ferro, su tutti col foco, su tutti col foco – d’Italia nel cor. Va’ fuora d’Italia, va fuora ch’è ora, va’ fuora d’Italia, va’ fuora, o stranier. La terra dei fiori, dei suoni e dei carmi ritorni qual era, la terra dell’armi! Di cento catene ci avvinser la mano, ma ancor di Legnano – sa i ferri brandir! Bastone tedesco l’Italia non doma, non crescon al giogo le stirpi di Roma più Italia non vuole stranieri tiranni, già troppi son gli anni – che dura il servir. Va’ fuora d’Italia, va’ fuora ch’è ora, va’ fuora d’Italia, va fuori o stranier. Le case d’Italia son fatte per noi, è là sul Danubio la casa dè tuoi: tu i campi ci guasti, tu il pane c’involi, i nostri figlioli – per noi li vogliam. Son l’Alpi e i due mari d’Italia i confini, col carro di fuoco rompiam gli Appennini: distrutto ogni segno di vecchia frontiera, la nostra bandiera – per tutto innalziam. Va’ fuora d’italia, va fuora ch’è ora, va’ fuora d’Italia, va’ fuora, o stranier. “Questo inno è adatto ai soldati che lo cantavano nella loro grande impresa di liberazione dell’Italia. È il mio preferito, perché il ritmo è incalzante e le parole invitano tutti ad innalzare il tricolore, ad imbracciare le armi ed a cacciare lo straniero, perché la nostra patria torni libera dopo secoli di dominazione straniera. Mi è piaciuta soprattutto la strofa , AGOSTINO LOMBARDI nella quale si afferma che le MAGGIORE GARIBALDINO case d’Italia sono fatte per il UNICO DI VALORE DI PATRIOTTISMO DI BONTÀ popolo italiano, come il suo pane CADDE A CIMEGO ed i suoi figli, e che gli Austriaci IL GIORNO XVI DI LUGLIO MDCCCLXVI devono tornare a casa loro sul COMBATTÈ GIOVINETTO Danubio.” LE PATRIE BATTAGLIE Nel cimitero Vantiniano abbiamo trovato questo monumento funebre, dalla scritta ormai illeggibile, ma da noi recuperata usando prevalentemente il tatto, che testimonia una vita spesa combattendo per la patria e Garibaldi. 115 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia FRA LE RETICHE BALZE NEL MDCCCXLVIII A ROMA NEL MDCCCXLIX RIPORTÒ GLORIOSE FERITE PUGNÒ A VARESE A SAN FERMO A MILAZZO E AL VOLTURNO ALL’EROICO SOLDATO DI LIBERTÀ ALL’INTEGERRIMO CITTADINO NELL’ESILIO COSPIRATORE INDOMITO QUESTA MODESTA LAPIDE POSERO GLI AMICI progetto 6 Cantare l’Italia GLI EROI È fama che abiti la Virtù su impervie rupi e che di ninfe veloci la circondi un coro: ad occhi mortali cela il volto. Solo appare all’eroe cui, nell’attesa – fin che alla vetta giunga – l’animo morda l’ansia della meta. Simonide Dulce et decorum est pro patria mori Orazio Questo dagherrotipo, conservato nel nostro museo del Risorgimento, rappresenta Tito Speri, il più bresciano tra gli eroi del Risorgimento e il più eroe tra i Bresciani, almeno a sentire Angelo Canossi, che lo definisce “ il più bello e il più grande bressiano che ci fu”. Accanto abbiamo messo le sue pantofole, sempre donate al museo, conservate quasi con la venerazione dovuta ad una reliquia. Eroe delle Dieci Giornate, è morto impiccato sugli spalti di Belfiore a soli 27 anni. “Hai mai visto davanti a te innalzarsi una cima che tutta risplende nel sole, lontana così da sembrare inaccessibile? Ecco… anche il giovane capitano Speri, ha cominciato a salire verso una vetta lontana e splendente. E non si ferma. Sale ancora e giungerà fin lassù…” Così parla ai ragazzi Ottavia Bonafin, in un suo libretto pubblicato nel 1949, centenario dell’insurrezione bresciana. Dalla poesia di Simonide sono passati duemila anni, ma uguale è il cammino dell’eroe. Ed il morire per la patria è ancora onorevole e dolce, come speriamo che appaia dopo aver letto questi due sonetti in dialetto bresciano, nei quali Canossi racconta gli ultimi momenti di vita di Tito Speri. I – Èl mè scüse! – èl gh’ha dit, secónd l’üsanza, èl bòja ‘n dèl mitiga al còl èl las. – Tratèm dè amico, e mèt èl cör èn pas – èl ghè rispónd; pò ‘l varda ‘n lontananza come chi spète argü che ria da ‘n viaz e ‘l slónga j-öcc e ‘l cönta la distanza e finalmènt èl vèd chè la speranza chè ‘l ghia ‘n dèl cör l’è dré pèr averàs. cos’âràl vést?… L’Italia liberada?… o fórse la sò póera Fortünina chè la vignìa a compagnàl dè là? 116 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia gh’éra miga dè sul chèla matina, ma sö la bèla fàcia ilüminada gh’éra sö ‘l sul dè la felicità. “Mi scusi!” gli ha detto, secondo l’usanza / il boia nel mettergli il cappio al collo. / “trattatemi da amico, e mettete il cuore in pace”/ lui gli risponde; poi guarda in lontananza / come chi aspetti qualcuno che arrivi da un viaggio / e allunga gli occhi e misura la distanza / e finalmente vede che la speranza / che aveva nel cuore sta per avverarsi. / Cosa avrà visto?... L’Italia liberata?... / o forse la sua povera Fortunina [la sua fidanzata morta] / che veniva per accompagnarlo nell’aldilà? / Non c’era il sole quella mattina, / ma sopra la bella faccia illuminata / c’era su il sole della felicità. (La traduzione è nostra) II Pò ‘l-ha basat i précc, èl s’è lussat i guancc, e ‘l-è montat söl traböchèl co’ la grazia d’ön spus inamorat chè va a ‘l-altar a benedì ‘l-anèl. E, ‘ntat chè ‘l boja ‘l ghè leàa ‘l sgabèl: “Signur, vègne con Vó – ‘l-ha sospirat – èn Paradis…”, e ‘n dèl mancàga ‘l fiat ‘l-ha serat j-öcc e ‘l-è dientat piö bèl. La sèra, nat zó ‘l sul, gh’è ignit du òm e i ‘l-ha sotrat cói àlter lé pèr tèra senza crus, senza cassa e senza nòm. Po’ i gha cargat le furche, èl sgabelòt, le trè córde, la vanga e la leéra, e j-è turnacc a Màntoa… e buna nòt!!! Poi ha baciato i preti, si è allacciato / i guanti, ed è salito sopra il trabocchetto / con la grazia di uno sposo innamorato / che va all’altare a benedire l’anello. / E, intanto che il boia gli levava di sotto lo sgabello…/ “Signore, vengo con Voi – ha sospirato – / in Paradiso…”, e mentre gli mancava il fiato / ha chiuso gli occhi ed è diventato più bello. / La sera, calato il sole, sono venuti due uomini / e l’hanno sepolto con gli altri lì per terra / senza croce, senza cassa e sena nome. / Poi hanno caricato le forche, lo sgabello, / le tre corde, la vanga e la leva, / e sono tornati a Mantova… e buona notte!!! (la traduzione è nostra) “Mi è piaciuta molto la seconda parte della poesia, quando Tito Speri si sistema i guanti come uno sposo che sale all’altare, ed anche quando Canossi dice che, nel momento della morte, l’eroe diventa più bello. Questa poesia mi ha trasmesso, più di altre pagine, il desiderio di libertà dei Bresciani” Anche Tito Speri, come ogni eroe che si rispetti, è giovane e bello. Il più famoso eroe patriota è però, fuori dai confini bresciani, Carlo Pisacane. Mercantini, nella sua conosciutissima Spigolatrice di Sapri, ce lo presenta così: Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro un giovin camminava innanzi a loro; mi feci ardita, e presolo per la mano, gli chiesi: – Dove vai, bel capitano? Guardommi, e mi rispose: – O mia sorella, vado a morir per la mia Patria bella! – 117 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Bello e coraggioso, dunque; eppure a Brescia abbiamo un eroe delle Dieci Giornate che non corrisponde a questo tipo ideale: Carlo Zima. Così lo descrive Mercantini, mettendo le parole nella bocca di Tito Speri che, allo scopo di rallegrare la sua innamorata preoccupata, le recita a tempo di danza. Dove nacque Carlo Zima non si muore da codardi, fin morendo si è gagliardi per uccider l’uccisor. … Carlo Zima popolano scarno il volto e il corpo avea, mal su l’anche si volgea e contorto aveva il piè; ma in difesa di sua terra alma ardente e forti braccia, ne l’ardir de la sua faccia si leggea del cor la fè. Il particolare di questa litografia mostra la morte di Carlo Zima, tra le fiamme insieme al Croato. La storia era notissima ai nostri bisnonni: cosparso di pece, durante la feroce repressione seguita all’insurrezione bresciana, Carlo Zima avvinghiò il soldato che gli aveva dato fuoco e lo tenne stretto fino alla fine di entrambi. GLI ATTI EROICI Di quelli che caddero alle Termopili famosa è la ventura, bella la sorte e la tomba un’ara. Ad essi memoria e non lamenti, ed elogio il compianto. Non il muschio, né il tempo che devasta ogni cosa, potrà su questa morte. Con gli eroi, sotto la stessa pietra Abita ora la gloria della Grecia. Simonide Le Dieci Giornate di Brescia, da noi scelte per illustrare gli “atti eroici” del Risorgimento, sono stati definiti “le Termopili d’Italia” e noi ne siamo orgogliosi. Sicuramente Simonide non si rivolterà nella tomba se gli accostiamo il nostro poeta dialettale Angelo Canossi ed il suo “Esordio” dedicato all’inizio dell’insurrezione. Sono otto pezzi in forma di sonetto, il dialetto è linguaggio non aulico; lo spirito è però pudicamente commosso e inaspettatamente epico. Nella prima notte dopo la sollevazione popolare piovono sulla città i colpi di artiglieria sparati dal Castello: il capitano della guarnigione voleva in questo modo far immediatamente cessare i disordini. ”A parlà co’ la bóca dèl canù / èl Capitane ‘ l ghia cridit chè Bressa / la sé sarès bötada ‘n zünüciù / ma ‘-ha duit capì piö prèst chè ‘n frèssa / chè la pégora adès la faa debù / e ché la ghia dèi dèncc dè leonèssa.” Traduciamo per chi non avesse capito, come il capitano Leshke, “che la pecora [Brescia] adesso fa sul serio / e che aveva dei denti di leonessa”. 118 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Riportiamo ora per esteso il sonetto finale: Fin tò màder, chè l’éra ‘na colómba, ‘na culumbina chè tremàa pèr gnènt, nèl sènter a s.ciopà söi cóp ‘na bómba la gha hit cör dè nó ciapà spaènt. E mé cögnat, chè ‘l-hia ciapat ‘na piómba dèl göst d’hì ötat a disarmà ‘n sergènt, lèa sö mèz ciòc, tö föra ‘na sò trómba e va söi cóp a strombetàga dènt. Tremàa nüssü: gna braghe, gna sotane, gna drécc, gna svergolacc, gna züegn, gna vècc; parìa vignicc i dèncc anche a le rane; e piö s.ciopàa le bómbe sura i tècc, e piö sunàa dè léna le campane, e chè tiràa le córde j-éra i s.cècc. Perfino tua madre, che era una colomba,/ una colombin che tremava per niente,/ nel sentir scoppiare sul tetto una bomba/ ha avuto il coraggio di non spaventarsi. E mio cognato, che si era preso una sbronza/ dal piacere di aver aiutato a disarmare un sergente,/ s’alza dal letto mezzo ubriaco, tira fuori una sua tromba/ va sul tetto e ci dà dentro a strombettare. Non tremava nessuno: né pantaloni, né sottane,/ né dritti, né storti, né giovani, né vecchi;/ parevan cresciuti i denti anche alle rane;/ e più scoppiavano le bombe sopra i tetti,/ e più suonavano con forza le campane,/ e chi tirava le corde erano i ragazzi. (la traduzione è nostra) “I protagonisti di queste strofe sono due familiari del narratore, che sta raccontando al figlio, allora non ancora nato, le vicende di cui è stato protagonista. La moglie, in altri momenti preoccupata e impaurita, ritrova sotto le bombe un insospettato coraggio ed il cognato, incredulo e soddisfatto per aver compiuto un gesto di coraggio, suona la carica dal tetto esposto ai colpi. E accanto a loro tutti, “il popolo unanime” della lapide sotto la Loggia, partecipa all’impresa: donne e uomini, giovani e vecchi, sani e acciaccati. Ed al cannone rispondono le campane suonate instancabilmente dai ragazzini” Nei “capitoli” precedenti, il compito di “cantare”la patria – come dice il titolo del nostro lavoro – era affidato al testo di canti poesie;abbiamo però cercato di leggere anche i testi delle lapidi nelle vie della città, e dipinti, disegni e incisioni del nostro museo del Risorgimento. “La scena è ambientata davanti a porta Torrelunga, dove gli insorti sostennero l’attacco dei nemici dieci volte più numerosi. Gli uomini ancora illesi combattono e innalzano il tricolore; le donne soccorrono i feriti. La scena vuole narrare un evento, ma anche celebrarlo. I personaggi sembrano essere messi in posa, in una composizione piramidale che culmina con la bandiera tricolore. Gli uomini rispondono al fuoco nemico con fucili, ma il ferito in primo piano impugna una spada, “la spada nel pugno” dell’Inno di Garibaldi . I personaggi centrali riportano alla mente la scena della Deposizione, forse per sottolineare che il patriota morente è una vittima innocente che dà la sua vita per gli altri.” 119 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia “Questo schizzo del pittore Angelo Inganni illustra la difesa di porta Bruciata, per impedire ai nemici, ormai padroni della città, di arrivare in piazza Loggia. Abituati ai quadri ad olio di questo artista, accurati e sereni, ci ha sorpreso la modernità e l’efficacia del disegno, che ci comunica con forza la violenza e l’impeto disperato del combattimento corpo a corpo.” “Scene di violenza e terrore a Torrelunga, nell’aria densa di fumo e rosseggiante per le fiamme che escono dalle case incendiate. Il dipinto dello Joli racconta la notte del 31 marzo. Alcuni Bresciani fuggono spaventati, una donna cerca invano di opporsi alla violenza nemica, mentre il figlio si aggrappa alle sue gambe. In primo piano, tra cadaveri e oggetti fracassati, materassi sventrati e mobili distrutti, i soldati nemici sbevazzano con vino rubato nelle case saccheggiate. Sullo sfondo i Ronchi con le abitazioni in fiamme.” “Questa incisione è diversa dalle altre che abbiamo visto, poiché rappresenta le Dieci giornate in modo allegorico. Gli Austriaci, in divisa, sono cruenti e crudeli e vengono ritratti come assassini di bambini e donne. Nella stampa è riconoscibile Carlo Zima avvinghiato all’Austriaco che gli ha dato fuoco. Il patriota morente strappa con i denti, e le ultime forze, una bandiera austriaca, mentre il tricolore con la scritta W L’ITALIA sventola sopra tutti. Al centro un Bresciano pugnala l’Austriaco come si faceva con i tiranni.” Dopo un’uscita in città alla ricerca dei luoghi degli avvenimenti e della memoria, le insegnanti ci hanno chiesto di scegliere le iscrizioni che ci erano piaciute di più. Per la sua semplicità è piaciuta quella posta sul monumento alle Dieci Giornate in piazza Loggia. Il popolo insorto contro l’austriaca tirannide dieci giorni pugnava. Molte preferenze hanno ricevuto due epigrafi brevi, poste rispettivamente in piazzetta Tito Speri, ed in Castello, sulla palazzina Haynau (quest’ultima è ora quasi illeggibile) Nel 1512 e nel 1849 in questa piazza fumante di strage i Bresciani respinsero più volte il feroce nemico irrompente dal Castello a sterminio della città Ad Haynau comandante le truppe imperiali che minacciando esterminio da questa casa intimava alla città di arrendersi il popolo intrepido rispondeva combattendo 120 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Quella che meglio interpreta il senso della lotta è posta in piazzale Arnaldo. Allorché Brescia negando fede alla sconfitta di Novara insegnò che il soccombere può essere più glorioso e fecondo del vincere fu qui la resistenza più sanguinosa LE CITTÀ SORELLE 1849-1949 Centenario delle Dieci Giornate Qui dove il popolo unanime alzò con impeto eroico il grido di guerra e lo ripetè nella disperata difesa come voto di morte Brescia sorella di Venezia e di Roma nell’indomita fede incide il ricordo dell’epica gesta La libertà raggiunta col martirio sia conquista non peritura Abbiamo affiancato a questa epigrafe, posta sotto la Loggia, una litografia, trovata sempre insieme ad un vecchio disco di canti patriottici, che rappresenta la popolazione veneziana sotto il bombardamento austriaco. Nel 1849 tre città resistevano, unite nell’eroismo, nella speranza e nell’”indomita fede”. L’ultima ad arrendersi, nel mese di agosto, sarà Venezia, bombardata, assediata, vinta dalla fame e dal colera. “L’ultima ora di Venezia” è cantata da Arnaldo Fusinato, anch’egli, come Luigi Mercantini, poeta, patriota, esule. Il testo è lungo, facilmente rintracciabile, noi abbiamo isolato alcune strofe: L’INCIPIT È fosco l’aere, il cielo è muto, ed io sul tacito veron seduto, in solitaria malinconia ti guardo e lagrimo, Venezia mia. … LA VICENDA Passa una gondola della città: – Ehi, della gondola, qual novità? – – Il morbo infuria il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca!… LA MALEDIZIONE Su le tue pagine scolpisci, o storia, l’altrui nequizie e la sua gloria, e grida ai posteri: – Tre volte infame chi vuol Venezia morta di fame – … L’ESILIO Ramingo ed esule in suol straniero, vivrai,Venezia, nel mio pensiero; vivrai nel tempio qui del mio core come l’immagine del primo amore … Il tono della poesia è mesto, da collocare – per usare l’espressione del secondo capitolo – più tra i pianti che tra gli squilli di tromba. Al secondo gruppo appartiene questa composizione di Mercantini, composta nel 1857, dal titolo “Le anime degli italiani caduti alla difesa di Roma nel 1849”. Questo inno, dal ritornello al doppio senario dei versi, riprende i modi della canzone di guerra, perché i morti di Roma vogliono spronare i vivi a riprendere le armi per continuare la loro battaglia. Tra i morti di Roma c’è Goffredo Mameli, l’autore del nostro inno nazionale. Il testo poetico inizia e si chiude così. 121 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Col brando alla destra, con l’elmo alla chioma, lasciammo festosi le case paterne; da tutta l’Italia sui valli di Roma per tutti venimmo pugnando a morir. E morti noi siamo. Tenemmo il gran giuro! Ogn’anno al ritorno dei tempi giulivi sui valli di Roma di nuovo siam vivi, di nuovo le spade brandiamo a ferir. Viventi d’Italia, ma voi dove siete che a noi sulla fossa correste a giurar? Viventi d’Italia, ma voi non sorgete? La voce dei morti vi viene a chiamar! Metro poetico e temi ricordano da vicino l’altro famoso canto di guerra, l’inno di Garibaldi: i morti che risorgono, con la spada in pugno, per spronare e guidare i vivi. Al nostro museo del Risorgimento appartiene questo olio su tela, di Pietro Bouvier, che rappresenta Garibaldi che sostiene Anita morente nelle valli di Comacchio. Sconfitta la Repubblica Romana, Garibaldi aveva cercato, inutilmente, di raggiungere Venezia che ancora resisteva in armi. In questo territorio paludoso ed ostile della Romagna pontificia, si consuma il dramma di Garibaldi che perde la donna amata e la compagna di tante battaglie. Abbiamo trovato una canzone , “O Venezia che sei la più bella” che unisce quattro città che, dopo la Seconda guerra d’Indipendenza, erano ancore in schiavitù. Questo canto popolare, che abbiamo trovato su Youtube ha una musica lenta e parole che un po’ ci hanno fatto sorridere, ma è molto significativa. Non garantiamo sulla punteggiatura, perché non abbiamo trovato il testo scritto. O Venezia che sei la più bella, e tu, o Mantova, che sei la più forte gira l’acqua intorno alle porte, sarà difficile poterti pigliar. Un bel giorno entrando in Venezia vedevo il sangue scorreva per terra, e i feriti sul campo di guerra e tutto il popolo gridava “pietà!” O Venezia ti vuoi maritare, ma per marito ti daremo Ancona e per dote le chiavi di Roma e per anello le onde del mar. E per anello le onde del mar. L’immagine a fianco, una cartolina di guerra del ‘15-18, rappresenta le ultime città sorelle, Trento e Trieste, finalmente riunite alla madre. LE MADRI D’ITALIA Passando per la città abbiamo notato che, fra le vie dai nomi patriottici, più d’una è dedicata a fratelli caduti nelle battaglie risorgimentali: i fratelli Bandiera, i fratelli Bronzetti, i fratelli Cairoli… E dietro, anzi avanti questi fratelli d‘Italia ci sono le loro madri, che li hanno visti partire, che li hanno incoraggiati o che comunque hanno accettato la loro partenza. 122 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Bene esprime ciò l’inizio di una poesia dedicata da Mercantini alla madre dei fratelli Salvo, caduti nelle battaglie italiane, Alfredo ad Ancona ed Emilio a Gaeta. Siamo nel salotto di una casa piemontese, pieno di “riso e canto e suono e poesia”. Due giovinetti, l’uno e l’altro armato, con la divisa dal color turchino, io vidi entrando che sedeanti a lato, e ai quindici anni mi parean vicino: tu, presili per mano, oh! ancor li vedo, - Questo Emilio si chiama e questo Alfredo, a me dicesti, e son figliuoli miei, ma li vuole la Patria, e sian per lei -. Abbiamo scelto ed accostato due diverse madri italiane, protagoniste in due poesie di diverso autore e di diversa epoca: la prima – di Mercantini – si svolge sul campo di battaglia di S. Martino, la seconda – di Piero Jahier – nella casa contadina di una valle, durante la Prima guerra Mondiale. Posto all’ingresso del Museo del Risorgimento, questo quadro dell’Inganni mostra gli Zuavi sugli spalti di san Giovanni a Brescia. Venuti dalla Francia come alleati,sono ripresi in un momento di sosta. La scena è serena, quasi allegra: i Bresciani visitano l’accampamento, offrono vino, fraternizzano. Grande è il contrasto con la battaglia che di lì a poco si scatenerà sui vicini colli di S. Martino e Solferino. La violenza del combattimento e le migliaia di morti e feriti trasformarono la nostra città in un immenso ospedale e convinsero Napoleone III a firmare l’armistizio di Villafranca, che lasciava il Veneto in mano all’Austria. Questa dolorosa realtà fa da cornice alla storia che segue, che ha per protagonista una madre veneziana e i suoi due figli combattenti. 123 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia LA MADRE VENETA AL CAMPO DI SAN MARTINO La sera del 12 luglio1859 Si fece bianca e le si chiuser gli occhi, ma non poté mandar grida o lamento; piegò davanti alla croce i ginocchi, e così stava senza movimento: di San Martino i flebili rintocchi salutarono il dì ch’era ormai spento; ella a quel suono in un gran pianto uscìo, e giù cadde chiamando: – Attilio mio! “Or che la tenda vostra è in sul confino, perché, o figliuoli, niun di voi mi scrive? Palestro alla Venezia è men vicino, pur mi fu detto: – Attilio, Emilio vive –. Dio! Chi sa quante madri a San Martino fatte avrà il piombo dei lor figli prive! Chi sa ch’una di quelle io pur non sia!...” Così dicea la povera Maria. Attilio mio, partendo mi dicesti: “Ti porterò un bel fior di Lombardia…” E tu, mio primo fior, tu qui cadesti, né più verrai dov’io ti partorìa. Venezia sarà tutta in gaie vesti, e il bruno avrà la povera Maria; ma io porrò sul bruno il tricolore, ci porrò il nome tuo, mio santo amore. Aspettò un giorno, aspettò un altro ancora, né mai le venne lettera o imbasciata. Alfin d’un bel mattin alla prim’ora si mise in via la donna sconsolata e camminò più dì senza dimora in forma di mendica abbandonata. Al dodici di luglio innanzi sera passò Maria del Mincio la riviera. Il nome ch’io ti posi hai ben portato, ch’io per la patria ti nomava Attilio: ma, dimmi, il tuo fratel dov’è restato? S’ei fosse vivo, sarìa teco Emilio. Oh, almen dentro a Venezia entrar soldato vedessi lui sul ponte o col navilio! Bella Venezia come non fu mai sarà quel dì… ma tu non la vedrai… – Chi sei, povera donna, e qua che vuoi? – – Son veneziana e cerco i figli miei – . – Che nome hanno e che schiera i figli tuoi?– – Attilio, Emilio han nome, e son nel sei –. – Mi duole, o donna, ma non son con noi –. – Quanto ancor, per trovarli, andar dovrei?– Vedi: là quell’altura è San Martino, ei son là dietro – e le insegnò il cammino. “Bella né tu né io la rivedremo, ché già Venezia nostra è sentenziata: la regina del mar ritorna al remo, e per maggior dolor sola è lasciata. Povera madre! in sul confine estremo per riveder noi due sei qui volata: morto di ferro sta qui sotto Attilio, io di dolore morirò in esilio”. Tremò sentendo a nominar quel colle, ed: – Ei son vivi?– dimandar volea; ma la voce di subito mancolle, e a stento su per l’erta il piè movea. Col gomito al fucile e il ciglio molle la scolta a riguardarla si volgea; la poveretta come più saliva più si sentia tremare, e impallidiva. Così piangendo della madre in seno Emilio si gittò tutto improvviso. Ella, in vederlo, fu per venir meno, ma al duro annunzio colorossi in viso: gli occhi d’ira mandarono un baleno, e in quei del figlio li teneva fiso; presa la destra gli gridò: – Qui giura che terrai l’arme fin che il cor ti dura. E quando fu arrivata a quell’altura, si chinò per guardar l’altro pendio, e tutto le sembrò una sepoltura; le sembrò udir gridare: – O madre, addio! – E, vista ad una fossa una figura, le braccia aperse e disse: – O figlio mio! – Giurami qui del tuo fratel sull’ossa, che te giammai non vincerà il dolore: farà l’Italia nuovo sangue rossa, e sarò lieta s’anco Emilio muore; ma nel veneto suol sia la tua fossa: così due terre unito avrà il mio cuore –. 124 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Ma giunta ove suonata avea la voce vide segnato “Attilio” ad una croce. Senza figli restiam, venete madri, ma non resti Venezia in man dei ladri. La seconda storia, raccontata in versi da Piero Jahier, poeta e volontario come tenente degli alpini nella Prima guerra Mondiale, ha sempre per protagonista una madre che vede i suoi figli partire per il fronte, nell’ultima guerra del Risorgimento . Diverse per sentimenti ed accenti, le due madri hanno in comune forza d’animo e dignità. MARE Hanno preso il suo figliolo, ànno preso, quello che l’era appena rilevato e per andà non può essere andato che nel posto più brutto indifeso. E per restà non può essere restato che dove tronca vita le granate e quando ànno finito di troncare scendono le valanghe a sotterrare. E se non scrive è che vuol tornare e queste notti è camminato e camminato per chiedere una muta alla sua mare: la muta era ben pronta al davanzale e alla finestra mare lo ha aspettato. L’ha aspettato infino alla mattina quando squilla la tromba repentina alla sua casa non può più rivare. Hanno preso il suo figliolo alla mare. Hanno preso il suo tosàt, ànno preso quel c’era così tanto delicato si ritrova lontano trasportato nel bastimento sopra l’acqua acceso. Di giorno il bastimento gli cammina ma nella notte è sempre arrestato e tutte l’acque bussan per entrare dove al suo tosatèl sta addormentato. Hanno preso il tosàt alla mare. Hanno preso il suo omo, ànno preso quello che la doveva accompagnare che aveva giurato davanti all’altare di non lasciarla sola a questo peso. “Lui coi suoi bòcia è contento di andare”. Non si è quasi voltato a salutare. Hanno peso il suo uomo alla mare. Questa cartolina di guerra vuole consolidare il legame tra il soldato e la sua famiglia che a casa pensa a lui, ma ci dice anche che qui, a mandare avanti il lavoro quotidiano erano le donne, rimaste sole con i vecchi e i bambini. E la mattina si è levata a solo e à messo tutte le sue filigrane à beverato le sue armente chiare à steso tutti i suoi panni a asciugare à agganciato il più grande suo paiolo à apparecchiato il più bel fuoco acceso e dopo si è seduta al focolare. Anche se tornano non si può più alzare ànno preso ànno preso anche la mare. “Con una lingua che sta tra l’italiano popolare ed il dialetto, il poeta ci parla di una madre delle sue valli, a cui la guerra ha arruolato non solo i due figli, ma anche il marito. Il figlio grande è in 125 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia montagna, tra i pericoli di granate e di valanghe; il piccolo è in marina e la madre immagina che, di notte, il mare cerchi di impadronirsi della nave. Ma è soprattutto la partenza del suo uomo, quello che doveva dividere con lei tutti i pesi di una vita faticosa, quello che ha seguito i figli contento, senza quasi girarsi indietro, che pesa sulla vita della “mare”. La solitudine, più grande delle fatiche quotidiane, non le toglie però coraggio e dignità. Non sappiamo se la vita della donna finisce davvero o solo in modo metaforico, ma certo la mare se ne va solo dopo aver sistemato la casa, aver acceso il fuoco, aver accudito il bestiame, essersi vestita con decoro”. CAMICIE ROSSE La spedizione dei Mille è il cuore, al museo del Risorgimento, dell’allestimento dedicato in questo periodo a “L’Italia degli Italiani”. Siamo stati guidati nella visita dalle parole di due camicie rosse, il bresciano di nascita Giuseppe Capuzzi e quello di adozione Giuseppe Cesare Abba, che ci hanno, con le loro opere, mandato un “reportage dalla spedizione dei Mille”. I brani sono stati scelti da chi ha curato il percorso tematico per noi alunni, organizzato proprio per i 150 anni d’Italia. Chi sono i soldati dei Mille? “Si odono tutti i dialetti dell’alta Italia, però i Genovesi e i Lombardi devono essere i più: all’aspetto, ai modi e anche ai discorsi la maggior parte sono gente colta. Vi sono alcuni che indossano divise da soldato: in generale veggo facce fresche, capelli biondi o neri, gioventù e vigore. Teste grigie ve ne sono parecchie; ne vidi anche cinque o sei affatto canute; ho notato sin da stamane qualche mutilato. Certo sono vecchi patriotti, stati a tutti i moti da trent’anni in qua”. A fianco delle parole di Cesare Abba, scritte in “Da Quarto al Volturno”, ci sono, ben i posa, i nostri concittadini in camicia rossa. Tra i Mille c’era anche una donna padovana, Tonina Marinello, che, vestita come un uomo, ha combattuto a fianco al marito, ricevendo una promozione sul campo. Morta nel 1862, fu sepolta nel cimitero fiorentino di San Miniato, come racconta la canzone a lei dedicata. L’abbiam deposta la garibaldina all’ombra della torre a San Miniato. Con la faccia rivolta alla marina perché pensi a Venezia e al lido amato. Era bella, era bionda, era piccina, ma avea un cor di leone e da soldato di leone e da soldato! L’abbiam deposta la garibaldina all’ombra della torre a San Miniato. E se non fosse che era nata donna or sarìa scolpita sulla tomba e poserebbe sul funereo letto con la medaglia del valor sul petto con la medaglia del valor sul petto. 126 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Ma che val, ma che vale tutto il resto… pugnò con Garibaldi… pugnò con Garibaldi… e basti questo… e basti questo! L’abbiam deposta alla garibaldina all’ombra della torre a San Miniato. Come erano equipaggiati i Mille? È sempre cesare Abba a parlare: “Intanto che si aspetta l’acqua, fanno la distribuzione delle armi. Ne ho avuta una anch’io, uno schioppo rugginoso che, Dio mio! E m’hanno dato un cinturino che pare d’un birro, una giberna, una baionetta e venti cartucce: Ma non si diceva a Genova che avremmo avuto delle carabine nuovissime? C’è di peggio.” Nella vetrina ci sono i fucili, le pistole, le sciabole e le giberne, ma la nostra attenzione è attirata dalle camicie rosse. A loro è dedicato il canto, che si intitola appunto “Camicia rossa”, che abbiamo scelto fra tanti. Ci sono diverse versioni, che variano per numero di strofe e nelle parole: noi riportiamo qui la versione che preferiamo. Quando all’appello di Garibaldi Tutti i suoi figli, suoi figli baldi daranno insieme fuoco alla mina camicia rossa garibaldina. E ti svegliasti nel sol d’aprile e dimostravi che non sei vile per questo, appunto, mi sei più cara camicia rossa, camicia rara. Porti l’impronta di mia ferita, sei tutta lacera, tutta scucita: per questo, appunto, mi sei più cara camicia rossa, camicia rara. Lodi la gloria dell’ardimento, il tuo colore mette spavento; vedersi a Roma, poi nella fossa cadremo insieme, camicia rossa. In una vetrina del museo abbiamo visto un abbigliamento un po’ diverso: è il poncho di Garibaldi che, come la sella, sono un ricordo del periodo passato in Uruguay. Eroe avventuroso o avventuriero, Garibaldi riportò comunque da quel periodo, oltre all’amata moglie Anita, fama di condottiero in grado di portare alla vittoria i “suoi figli baldi”, come dice la canzone. Dice di lui Capuzzi:”Io mi trovavo a bordo del Piemonte, quando un uomo di belle forme, collo sguardo dolce ed arido, vestito modestamente ed avvolto in un mantello, comparve al posto del capitano, era Garibaldi, l’antico condottiero di mare che a Montevideo aveva mostrato la sua valentia, era il nostro generale che guidava sulle acque del Mediterraneo la sua schiera. La fama di tanta perizia ci fece benedire la presenza di quell’uomo…” 127 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Inizia con Garibaldi, partito “per difendere il confine uruguaiano, / con un esercito che parla italiano”, una canzone diversa dalle altre ascoltate durante il nostro lavoro: “Camicie rosse”, di Massimo Bubola, è infatti dei giorni nostri e noi l’abbiamo ascoltata, cantata da Fiorella Mannoia. Quando la luna arriva a Genova e la mia lettera da te lì sarà quasi estate mentre qui l’inverno arriverà e con l’inverno un altro anno passerà. A Torino si dice che sei un bandito e che stai andando alla deriva su un battello, a difendere il confine uruguaiano con un esercito che parla in italiano. Camicie rosse alla ventura in un tripudio di bandiere, Camicie rosse, così nessuna delle ferite si può vedere. A volte il coraggio è come la fame, che parti randagio per terre lontane, e mangi pane e lacrime, e le lacrime sono acqua salata, che più ne bevi e meno ti disseta. E a volte il coraggio è di ritornare, senza aver fatto fortuna dall’altra parte del mare per inseguire una stella che gira gira ti porterà a menare le mani per la libertà. Camicie rosse alla ventura in un tripudio di bandiere, camicie rosse, così nessuna delle ferite si può vedere. Signora fortuna che brilli di notte, che ci mostri la strada e ci insegni le rotte proteggi questo esercito di studenti e di sognatori, aggiungi al firmamento i nostri mille cuori. “Questa canzone racconta la storia di Garibaldi e dei suoi uomini e ci ricorda la loro lotta per la libertà, di qua e di là dal mare. Mi è piaciuto molto il ritornello, dove si dice che le camicie sono rosse per nascondere il sangue delle ferite; molto bella è anche l’ultima strofa, nella quale si chiede alla fortuna di proteggere i mille cuori dei sognatori che hanno seguito Garibaldi nella sua impresa temeraria.” Nel museo la nostra guida ci ha spiegato che Garibaldi aveva portato con sé dal Sudamerica le camicie rosse, là usate dai macellai per nascondere le macchie di sangue. Nella canzone, dietro il gioioso sventolio delle bandiere, le ferite di questi uomini vengono nascoste non solo dal panno rosso, ma soprattutto dal loro coraggio. IL CUORE DEGLI ITALIANI Raggio perenne di libertà nel sangue dei martiri fecondi cittadine virtù (dal monumento agli insorti bresciani in Castello) 128 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Fatta l’Italia, dobbiamo fare gli Italiani Massimo D’Azeglio E per fare gli Italiani, per educarli alle cittadine virtù, oltre che per vincere un diffusissimo analfabetismo era stata istituita la scuola elementare. Edmondo De Amicis, l’autore del famosissimo libro “Cuore”, aveva notato come i libri di testo usati fossero di scarsa qualità ed inadatti allo scopo di liberare dall’ignoranza e di rendere buoni cittadini i piccoli Italiani di fine Ottocento. Per loro scrisse questo libro, alternando sapientemente, come si direbbe oggi, tre diverse tipologie testuali: il diario, la lettera ed il racconto. Ancora oggi il libro viene ristampato e letto, ma l’insegnante ci ha portato in classe una copia del 1920, appartenuta a suo suocero che lo aveva ricevuto in dono ad otto anni. Trentaquattro anni dopo, sulla prima pagina, aveva scritto una dedica al figlio, che compiva in quel giorno gli anni: “A Robertino, nel bel giorno del suo ottavo compleanno, perché riponga nel suo piccolo cuore i tesori di bontà che offre questo grande “Cuore”! Papà”. Questo ci ha fatto capire come questo libro sia passato di generazione in generazione, per educare i piccoli a seguire le orme dei padri nella via delle cittadine virtù. In che modo, negli anni successivi alla proclamazione del Regno d’Italia, si considerava e si celebrava la patria? A pagina 7 della nostra edizione, è riportato un brano dal titolo “Il ragazzo calabrese”. Ieri… entrò il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte… che guardava noi con quegli occhioni neri, come spaurito. Allora il maestro gli prese una mano, e disse alla classe: – Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria a più di cinquecento miglia di qui. Vogliate bene al vostro fratello venuto da lontano. Egli è nato in una terra gloriosa, che diede all’Italia degli uomini illustri, e le dà dei forti lavoratori e dei bravi soldati; in una delle più belle terre della nostra patria, dove son grandi foreste e grandi montagne, abitate da un popolo pieno d’ingegno e di coraggio. Vogliategli bene, in maniera che non s’accorga di essere lontano dalla città dove è nato; fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola italiana metta piede, ci trova dei fratelli –. … Il maestro gli assegnò il posto e lo accompagnò al banco. Poi disse ancora: – Ricordatevi bene di quello che vi dico. Perché questo fatto potesse accadere, che un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a Torino, e che un ragazzo di Torino fosse come a casa propria a Reggio di Calabria, il nostro paese lottò per cinquant’anni e trentamila Italiani morirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti fra voi; ma chi di voi offendesse questo compagno perché non è nato nella nostra provincia, si renderebbe indegno di alzare mai più gli occhi da terra quando passa una bandiera tricolore –. Appena il calabrese fu seduto al suo posto,i suoi vicini gli regalarono delle penne e una stampa, e un altro ragazzo, dell’ultimo banco, gli mandò un francobollo di Svezia. Più avanti, nel mese di Gennaio, la patria ricompare in una lettera del padre di Enrico, il protagonista. Le parole del padre di Enrico sono, per noi che viviamo più di un secolo dopo, distanti solo nel tono un po’ enfatico, nelle immagini scelte, o addirittura nel senso? 129 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Certo il padre che ripudia il figlio, qualora abbandonasse i suoi compagni sul campo di battaglia, ci ha colpito, ma forse meno della madre veneta che, al figlio sopravvissuto alla carneficina della battaglia, chiede di morire piuttosto che accettare la sconfitta della patria. Prima di leggere questo brano, l’insegnante ci aveva chiesto di scrivere, di getto ed in maniera anonima, alcune righe che esprimessero la nostra idea di patria. Solo una persona ha risposto con un punto di domanda, alcuni hanno sottolineato il legame di lingua, tradizioni, affetti ed ideali comuni, alcuni hanno collegato la patria alla lotta, ai sacrifici, alla libertà ottenuta combattendo. Ci siamo chiesti cosa significasse, all’inizio, il riferimento al Tamburino. Abbiamo così visto che nel libro sono presenti dei racconti mensili, che hanno insieme lo scopo di interessare ed educare gli alunni. I protagonisti sono ragazzi di diverse regioni italiane, che si sono comportati da eroi. La piccola vedetta lombarda muore sotto il fuoco austriaco, perché si espone, sulla cima di un albero, per comunicare ai soldati italiani la presenza dei nemici. Il tamburino sardo salva la vita a molti soldati attaccati dagli Austriaci, portando un messaggio sotto le pallottole, senza fermarsi nonostante una ferita alla gamba, che gli verrà amputata. Il protagonista di Naufragio cede il suo posto sulla scialuppa di una nave che sta affondando ad una giovane amica. Il Piccolo scrivano fiorentino passa notti vegliando per aiutare, di nascosto , il padre oppresso da pochi soldi e troppo lavoro. In Sangue romagnolo un ragazzo un po’ monello muore pugnalato, facendo da scudo alla nonna che aveva riconosciuto un ladro penetrato in casa di notte. C’è chi, come Marco, compie un lungo, avventuroso e un po’ inverosimile viaggio Dagli Appennini alle Ande per ritrovare la madre emigrante che non dà più notizie, chi assiste uno sconosciuto gravemente ammalato – è l’Infermiere di Tata – e chi, ragazzo affamato, selvatico e ignorante, ceduto dai poveri genitori a saltimbanchi girovaghi, rifiuta i soldi che gli sono stati donati da alcuni compagni di viaggio stranieri, perché li sente sparlare del suo paese: è il Piccolo patriotta padovano. Appare quasi ordinaria amministrazione il gesto del ragazzo che riceve una medaglia al Valor civile per aver coraggiosamente salvato un compagno che stava per annegare. Davvero una volta storie narrate in modo così semplice, piene di grandi sentimenti, ma senza nessun “effetto speciale”costituivano un appuntamento desiderato, un evento che suscitava tanto entusiasmo, più dell’inizio delle vacanze? L’illustrazione, tratta dal vecchio “Cuore” del 1920, ci mostra la piccola vedetta lombarda coperta dai fiori lanciati dai bersaglieri italiani in marcia. 130 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia FRATELLI D’ITALIA Abbastanza concordemente gli storici ritengono che l’unità d’Italia si sia compiuta con la Grande Guerra del ’15-’18. Non soltanto perché sono state conquistate Trento e Trieste, le terre “irredente”, ma soprattutto perché sui campi di battaglia insanguinati e nelle trincee fangose si sono trovati fianco a fianco soldati provenienti da ogni parte d’Italia, che hanno condiviso sacrifici, paure, sangue. Le voci che cantano queste imprese belliche e questa vittoria poche volte hanno il tono eroico delle canzoni di guerra del Risorgimento: gli squilli di tromba che celebrano la vittoria sono quasi soffocati dalle parole dolenti e prive di retorica di chi ha vissuto la guerra come un’inimmaginabile strage. Giustamente però un tono “trionfante” di orgogliosa soddisfazione caratterizza il bollettino di guerra, inviato dal generale Diaz il 4 novembre 1918: La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S. M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. … I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Agli “squilli di tromba” appartiene anche la famosissima Leggenda del Piave, che fa parlare il fiume sul quale resistettero le truppe italiane dopo la disastrosa rotta di Caporetto. La partenza delle truppe per il fronte: Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio, l’esercito marciava per raggiunger la frontiera per far contro il nemico una barriera! La disfatta di Caporetto: Ma in una notte triste si parlò di tradimento e il Piave udiva l’ira e lo sgomento. Ahi, quanta gente ha visto venir giù, lasciare il tetto per l’onta consumata a Caporetto. La resistenza e la vittoria Fu sacro il patto antico, tra le schiere furon visti risorgere Oberdan, Sauro e Battisti! Infranse alfin l’italico valore le forche e l’armi dell’Impiccatore! Sicure l’Alpi, libere le sponde, e tacque il Piave, si placaron l’onde. Sul patrio suolo, vinti i torvi imperi, la Pace non trovò né oppressi, né stranieri! In tutte le circostanze il Piave partecipa alle vicende belliche e parla, alternando parole di rassicurazione ad altre di sprone e incoraggiamento. Ma le voci che più commuovono sono quelle di poeti, che partiti tutti volontari e, immaginiamo, pieni di entusiasmo patriottico, si sono scontrati ben presto con una realtà brutale e inumana. 131 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Questo è solo una parte del grande dipinto, Messa al campo di Emilio Rizzi, che è visibile nei pressi dell’ingresso al museo del Risorgimento. La moltitudine dei soldati è a capo chino per motivi religiosi, ma noi possiamo vedere in modo simbolico la stanchezza dei soldati in grigioverde. Abbiamo scelto, per rappresentare la tragedia della guerra, due poesie: una è di un autore famoso, Ungaretti, l’altra è meno conosciuta, ma forse persino più bella nella sua crudezza. Clemente Rebora VIATICO O ferito laggiù nel valloncello, Tanto invocasti Se tre compagni interi Cadder per te che quasi più non eri, Tra melma e sangue Tronco senza gambe E il tuo lamento ancora, Pietà di noi rimasti A rantolarci e non ha fine l’ora, Affretta l’agonia, Tu puoi finire, E conforto ti sia Nella demenza che non sa impazzire, Il sonno sul cervello. Lasciaci in silenzioGrazie, fratello. I sopravvissuti alla battaglia, davanti alle grida del compagno senza gambe, che urla nella “terra di nessuno”, sono i più disperati del moribondo, perché la loro agonia non è destinata a finire. Questa e la prossima poesia sono accomunate dalla parola “fratelli”: Giuseppe Ungaretti FRATELLI Mariano il 15 luglio 1916 Di che reggimento siete fratelli? Parola tremante nella notte Foglia appena nata Nell’aria spasimante involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità Fratelli 132 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 6 Cantare l’Italia Non è però con questa poesia, pur bellissima, che vogliamo concludere il nostro lavoro. Ci sono i fratelli, ma non c’è l’Italia. Che invece è presente nella terza poesia della sezione: Piero Jahier senza retorica presenta la sua idea di patria. Piero Jahier DICHIARAZIONE Altri morirà per la Storia d’Italia volentieri e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita. Ma io per far compagnia a questo popolo digiuno che non sa perché va a morire popolo che muore in guerra perché “mi vuol bene” “per me“ nei suoi sessanta uomini comandati siccome è il giorno che tocca morire. Altri morirà per le medaglie e le ovazioni ma io per questo popolo illetterato che non prepara guerra perché di miseria ha campato la miseria che non fa guerre, ma semmai rivoluzioni. Altri morrà per la sua vita ma io per questo popolo che fa i suoi figlioli perché sotto coperte non si conosce miseria popolo che accende il fuoco solo a mattina popolo che di osteria fa scuola popolo non guidato, sublime materia. Altri morirà solo, ma io sempre accompagnato: eccomi, come davo alla ruota la mia spalla facchina e ora, invece, la vita. Sotto, ragazzi se non si muore si riposerà, allo spedale. Ma se si dovesse morire basterà un giorno di sole e tutta Italia ricomincia a cantare. Termina così, senza retorica, ma con un’idea alta della Patria, il nostro lavoro per “cantare l’Italia”. E l’ultima immagine parla ancora di canti. Qui un po’ di sana retorica c’è, ma ci sta bene su un’epigrafe. Li ho visti i ragazzi del ‘99 andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera cantavano ancora il generale Diaz Note I testi che sono tra virgolette sono stati scritti da particolari alunni; in tondo normale, invece, le parti scritte in comune e rielaborate con l’insegnante. 133 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 7 Fisionomie del Risorgimento 135 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 7 Fisionomie del Risorgimento A seguito di questa prima visita gli studenti si sono dedicati all’attività più significativa del progetto: dopo aver rielaborato i concetti appresi e dopo aver steso delle copie di studio degli oggetti da loro scelti, si sono recati una seconda volta in visita al museo. Qui hanno potuto prendere una maggior confidenza con le opere da riprodurre, osservarle con attenzione ed analizzarle, arrivando in tal modo a realizzarne delle copie dal vero accompagnate da schedature di commento. La copia dal vero Sotto la guida dell’insegnante di arte i ragazzi si sono dedicati alla realizzazione di copie dal vero di alcuni oggetti contenuti all’interno della casa-museo. Mediante l’impiego di semplici regole è stato possibile cogliere l’equilibrio, l’armonia e le proporzioni nelle relazioni anatomiche e morfologiche degli oggetti di studio. Non solo sono stati ottenuti risultati interessanti dal punto di vista della resa ma, tramite la rielaborazione personale delle opere, è stato possibile assimilare la capacità di riconoscere le espressioni di emozioni e sentimenti. La riproduzione di immagini nella copia dal vero ha quindi rappresentato un momento di formazione per le potenzialità creativo-razionali dei ragazzi. Il punto di vista dei ragazzi Fra tutti gli oggetti presi in visione nella casa lonatese di Ugo Da Como ne abbiamo scelti alcuni per realizzarne delle copie con diverse tecniche (matita, matite colorate, tratto pen). La selezione è avvenuta dando maggiore interesse a quei personaggi che giocarono un ruolo di rilievo nel periodo risorgimentale e che in una qualche maniera furono collegate con la figura di Ugo Da Como. Innanzitutto abbiamo preso in considerazione la figura di Giuseppe Da Como, padre di Ugo, del quale abbiamo analizzato una fotografia: egli infatti fu un personaggio importante per il suo ruolo nelle Guerre di Indipendenza e perché credeva fortemente negli ideali patriottici e risorgimentali, che trasmise con profonda convinzione anche al figlio. Proprio per l’influenza paterna, Ugo Da Como fu sempre appassionato studioso del periodo, al quale dedicò moltissimi lavori, circondandosi anche di diversi oggetti dell’epoca. In una delle stanze della casa-museo, ad esempio, si trova una parete arredata con diverse fotografie e ritratti di famiglia, tra i quali abbiamo potuto scorgere anche quelli di personaggi del calibro di Cavour e di Vittorio Emanuele II: ciò testimonia l’importanza che Ugo Da Como attribuiva a tali personaggi, una sorta di ideali familiari. Per la scelta degli altri oggetti da studiare, quindi, ci siamo basati principalmente sulle “indicazioni” che lo stesso Senatore, attraverso i cimeli di sua proprietà, fornisce riguardo all’importanza da lui data ai vari personaggi che vi compaiono. Di conseguenza, abbiamo fatto diverse copie dal vero di alcuni oggetti (statue, medaglie, fotografie) raffiguranti Camillo Benso Conte di Cavour e Vittorio Emanuele II. Infine, abbiamo rivolto un’attenzione particolare ad una medaglia raffigurante Giuseppe Garibaldi: nella casa museo sono presenti infatti diversi riferimenti alla sua persona, il più importante dei quali è una lettera inviata da Garibaldi stesso a Giuseppe Da Como, per ringraziarlo di un’opera da quest’ultimo scritta e all’eroe del Risorgimento dedicata. Abbiamo intrapreso con entusiasmo queste attività, che si sono rivelate per noi studenti un’ottima occasione per prendere confidenza con l’ambiente del museo, per mettere a frutto le nostre conoscenze e abilità artistiche e manuali, e al contempo abbiamo avuto la possibilità di affrontare in modo attraente e inusuale lo studio e l’approfondimento di un periodo fondamentale per la nostra Storia. 136 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Percorsi didattici Unità e identità: 150 anni di storia Scuole superiori Chi e dove Classi coinvolte Docenti referenti progetto 8 Liceo Scientifico Enrico Fermi - Salò Terza C, Terza H Gianluca Chiodini, Laura Truzzi La formazione del concetto di Italia Nella Romanità e nella letteratura latina e la sua persistenza nella letteratura italiana delle origini attraverso l’opera di Dante e Petrarca 1.1 ITALIA: origine ed estensione geografica del nome L’etimologia, e quindi il significato del nome “Italia” è tuttora controverso. Numerosi sono stati i tentativi da parte non solo di linguisti, ma anche di storici, di ricostruzioni e spiegazioni etimologiche che con il tempo hanno costituito un ampio corpus di soluzioni, tra le quali numerose sono quelle che si riferiscono a tradizioni non dimostrate o comunque fortemente problematiche, come l’esistenza di un mitico re Italo o il riferimento alla vite. Già nel 1899, Malgeri avvertiva che la questione relativa al significato del nome restava la più difficile ed era in definitiva irrisolvibile perché nessuno poteva sapere a quale lingua fosse appartenuto il nome “Italia” (E. Malgeri, Sul nome Italia. Nuove osservazioni, Messina, 1899). Nella ridda di ipotesi (si sono proposte origini africane, etrusche, greche e perfino semitiche) quella che rimane più probabile è la sua derivazione dall’osco “viteliu”, che a sua volta passò al latino con la caduta della “V” iniziale. Si ritiene che Víteliú significasse “terra di bovini giovani” (cfr. latino vitulus, umbro vitlo), nel senso che il territorio fosse ricco di bovini o che il vitello vi rappresentasse un animale sacro. Questa tradizione, attestata in numerosi autori romani quali Varrone, Gellio, Festo, poggia anche sul fatto che il toro è stato un simbolo molto diffuso presso quelle genti della penisola che, al centro-sud, si opponevano all’avanzata della cultura romana, tanto da essere spesso eloquentemente raffigurato sulle monete italiche nell’atto di incornare una lupa. Per quanto riguarda invece l’estensione territoriale del termine parrebbe abbastanza sicuro che il nome “Italia” inizialmente indicasse solo la parte posta nell’estremo meridione della penisola (ossia l’odierna Calabria): pur se anche su questo punto si registrano posizioni discordi da parte degli studiosi moderni, le fonti antiche sembrerebbero invece abbastanza concordi. Infatti Erodoto, storico greco del IV a.C., con tale nome indicava la parte meridionale della penisola, l’antico Bruttium (attuale Calabria), poi il nome si estese ad indicare i connazionali della Magna Grecia, che venivano detti Italiótai. Il nome “Italia” è comunque tramandato fin dal V secolo a. C., quando già prevaleva su una pletora di nomi corrispondenti, di varia origine (Espéria,Ausónia, Enótria, ecc.). Esso designava allora la penisola calabrese e la vicina costa ionica del Metaponto, ma all’inizio doveva limitarsi a quell’estrema parte della Calabria, che giace a sud dei Golfi di S. Eufemia e di Squillace. 142 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia Antioco di Siracusa nel V secolo a. C. così scriveva: “L’intera terra fra i due golfi di mari, il Nepetinico [S. Eufemia] e lo Scilletinico [Squillace], fu ridotta sotto il potere di un uomo buono e saggio,che convinse i vicini, gli uni con le parole, gli altri con la forza. Questo uomo si chiamò Italo che denominò per primo questa terra Italia. E quando Italo si fu impadronito di questa terra dell’istmo, ed aveva molte genti che gli erano sottomesse, subito pretese anche i territori confinanti e pose sotto la sua dominazione molte città”. Questa tradizione, in verità piuttosto leggendaria e non dimostrabile storicamente, fu ripresa anche da Dionigi di Alicarnasso (I Secolo a.C.) e Aristotele (IV Secolo a.C.). “Antioco, figlio di Senofane, ha raccolto e scritto queste cose sull’Italia trascegliendo dagli antichi racconti le informazioni più affidabili e sicure; quella che oggi si chiama Italìa, in antico la possedevano gli Enotri”. (Dionigi di Alicarnasso,Antichità romane, I, 11-12). “Antica sembra essere anche l’istituzione dei sissizi, quelli di Creta risalendo al regno di Minosse, ad epoca molto più antica invece quelli d’Italia. Dicono infatti gli esperti delle popolazioni che vivono lì, che divenne re dell’Enotria un certo Italo, dal quale si sarebbero chiamati, cambiando nome, Itali invece che Enotri. Dicono anche che questo Italo abbia trasformato gli Enotri, da nomadi che erano, in agricoltori e che abbia anche dato ad essi altre leggi, e per primo istituito i sissizi. Per questa ragione ancora oggi alcune delle popolazioni che discendono da lui praticano i sissizi e osservano alcune sue leggi”. (Aristotele, Politica,VII, 9, 2) Tra il IV e II secolo a. C. il nome Italia progressivamente si estese includendo prima il Mezzogiorno continentale a Sud di Paestum, sulla costa tirrenica, poi la Campania; dopo la Prima Guerra Punica, comprendeva quasi l’intera Penisola, fino all’Arno e all’Esino, allora limiti del dominio romano. 1.2 Il concetto di Italia romana L’Italia non solo fu il teatro di buona parte degli eventi della storia romana, in particolare nella sua prima fase, ma fu anche la principale base della potenza di Roma: fu principalmente grazie al potenziale umano e alle risorse dell’Italia che Roma riuscì a conquistare un impero. La consapevolezza di questo fatto emerge chiaramente in un celebre passo di Polibio (II Secolo a.C.), nel quale lo storico registra gli effettivi che Roma poteva mobilitare nel 225 a.C., per fronteggiare l’ultima grande invasione della penisola da parte dei Galli e li confronta con l’esiguo esercito col quale Annibale avrebbe attaccato Roma appena qualche anno più tardi. “Perché risulti chiaro, solo sulla base dei fatti, quanto era grande la potenza che Annibale osò attaccare e quanto grande l’impero che egli affrontò temerariamente, raggiungendo il suo proposito fino al punto di precipitare i Romani in gravissime sventure, bisognerà dire i mezzi e le quantità delle forze che erano allora a loro disposizione. Con i consoli dunque, erano uscite in spedizione quattro legioni romane, ciascuna comprendente 5.200 fanti e 300 cavalieri. Gli alleati schierati con tutti e due gli eserciti erano complessivamente 30.000 fanti e 2.000 cavalieri. Dei Sabini e dei Tirreni venuti in soccorso di Roma in tutta fretta erano circa 4.000 cavalieri e oltre 50.000 fanti. … Gli Umbri e i Sarsinati abitanti dell’Appennino furono radunati in circa 20.000 e con loro 20.000 Veneti e Cenomani. …Queste, dunque, le truppe che presidiavano il territorio.A Roma, invece, stazionavano, preparati per le evenienze della guerra, nel ruolo di corpo di riserva, degli stessi Romani 20.000 fanti e con loro 1.500 cavalieri, e degli alleati 30.000 fanti e 2.000 cavalieri. Le liste d’arruolamento furono così presentate: dei Latini 80.000 fanti e 5.000 cavalieri, dei Sanniti 70.000 143 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia fanti e, con questi, 7.000 cavalieri, degli Iapigi e dei Messapi, poi, complessivamente, 50.000 fanti e 12.000 cavalieri, dei Lucani 30.000 fanti e 3.000 cavalieri, dei Marsi, Marrucini, Frentani e Vestini 20.000 fanti e 4.000 cavalieri. Inoltre, in Sicilia e a Taranto stavano di riserva due legioni, ciascuna delle quali era di 4.200 fanti e 200 cavalieri. Fra Romani e Campani fu registrata una massa di circa 250.000 fanti e c’erano poi 23.000 cavalieri, mentre la quantità complessiva di quelli in grado di portare le armi era di oltre 700.000 fanti e di circa 70.000 cavalieri. Contro di loro,Annibale invase l’Italia con meno di 20.000 uomini” [Polibio. Storie II, 24,1-17] . Il passo dello storico greco, discutibile in merito all’attendibilità delle cifre tramandate e alla possibilità che esse si riferissero a tutti i maschi adulti o piuttosto solamente alle persone che effettivamente potevano essere reclutate per il servizio militare attivo, è comunque di notevole interesse per rilevare il ruolo fondamentale che gli alleati e i Latini avevano nelle forze armate romane, rappresentando ben oltre la metà degli effettivi a disposizione. Inoltre tale passo, in cui gli Italici si identificano con gli alleati di Roma, mostra come il concetto di Italia si definisca in rapporto con Roma. Questo rapporto emerge regolarmente nelle fonti sull’Italia antica in età romana: la regione, che di fatto era un mosaico di popoli e comunità con culture, lingue, strutture politiche, economiche e sociali assai differenti, ritrova la sua unità con Roma, oppure contro Roma. Proprio Annibale, dopo le vittorie sui fiumi Ticino e Trebbia e prima del grande scontro sul lago Trasimeno, aveva cercato di sfruttare la tensione esistente tra Roma e i suoi alleati italici. Ancora Polibio ci fa da guida a questo proposito: “Annibale, svernando in Gallia, teneva sotto severa sorveglianza i Romani fatti prigionieri in battaglia, facendo loro somministrare solo i viveri strettamente necessari, trattava invece con grande mitezza i loro alleati; infine riunì tutti insieme questi ultimi, per rivolgere loro un’allocuzione e dichiarare che non era venuto per combatterli, ma per combattere in loro difesa contro i Romani. Se conoscevano il loro interesse, egli disse, dovevano assolutamente abbracciare la sua causa. Egli era lì infatti prima di tutto per ristabilire l’indipendenza degli Italici e insieme per recuperare le città e il territorio di cui ognuno era stato privato ad opera dei Romani. Detto questo, lasciò che tutti ritornassero senza riscatto alle proprie case, volendo così da una parte accattivarsi gli abitanti dell’Italia, dall’altra alienare gli animi dai Romani e incitare alla ribellione quanti stimavano che le loro città o i loro porti avessero subito qualche danno a causa del dominio romano” [Polibio. Storie III, 77, 3-7]. Durante il periodo repubblicano l’Italia si configurava come una federazione di territori con diversi status amministrativi: le città erano distinguibili in municipia aventi una certa indipendenza e autonomia politico-amministrativa, e in coloniae, città di nuova fondazione che i romani avevano creato allo scopo di antropizzare un territorio non abitato o come avamposto militare per controllare le zone di frontiera politicamente instabile. Le colonie a loro volta si distinguevano tra colonie di diritto latino e colonie di diritto romano (colonia civium romanorum), le prime costituite da cittadini romani che si trasferivano in esse, perdendo la cittadinanza e acquisendo una autonomia amministrativa locale; le seconde invece costituite da romani che mantenevano la propria cittadinanza. Oltre a queste realtà civiche riconosciute a livello amministrativo, il territorio italico presentava una moltitudine di altri aggregati e agglomerati che non costituivano tuttavia dei referenti per la politica né per l’amministrazione, e di cui ci dà testimonianza la Lex Rubria de Gallia Cisalpina (49 a.C.): fora, conciliabula, oppida, vici, castella. Anche dopo la fine delle guerre puniche e la conseguente espansione romana nel Mediterraneo, le tensioni tra Romani e alleati non si placarono, soprattutto a causa del rifiuto da parte del Senato della concessione del beneficio della piena cittadinanza romana agli Italici (ottenuta solo nell’88 a.C.). Si giunse così alla guerra sociale del 91-89 a.C., quando gli alleati (socii) italici si ribellarono alla città egemone e coniarono un’interessante serie di monete nella quale è evidente la contrapposizione ideologica tra Roma e l’Italia. 144 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia Nell’esemplare mostrato, un denario che venne coniato nel 90 a.C., la figura di Italia, identificata dalla legenda, appare seduta su di una pila di scudi, con la lancia nella destra; dietro di lei la Vittoria, che le pone una corona sul capo. Altri esempi di monete risalenti alla guerra sociale del 91-89 a.C. Il concetto di Italia, che, come si è detto, dapprima era ristretto all’estremo sud della penisola, si andò dunque ampliando, man mano che la conquista romana progrediva e la cittadinanza veniva estesa ai popoli sottomessi da Roma, finché, con la concessione della piena civitas anche agli abitanti della Gallia Cisalpina (in particolare a quelli della Transpadana, la regione a nord del Po, con un provvedimento preso da Cesare nel 49 a.C.), l’Italia romana venne a coincidere, grosso modo, con i limiti geografici della regione italiana, segnati dallo spartiacque delle Alpi. L’ampliamento del concetto di Italia fu quindi determinato non tanto da considerazioni di carattere geografico, quanto per un cambiamento delle condizioni politiche e dello statuto giuridico degli abitanti della regione. Tale ampliamento, e il suo legame con il fattore politico, è riscontrabile nel passo di apertura della descrizione dell’Italia che troviamo nell’opera di Strabone, geografo che scrisse tra l’età augustea e quella tiberiana: “Alle falde delle Alpi inizia quella che ora si chiama Italia. Gli antichi infatti chiamavano col nome di Italìa l’Enotria, che si estendeva dallo Stretto di Sicilia fino al Golfo di Taranto e di Posidonia; poi il nome prevalse e si estese fino alle falde delle Alpi.Arrivò a comprendere anche la parte della Liguria che va dai confini della Tirrenia fino al fiume Varo e la parte dell’Istria che arriva fino a Pola. Si può supporre che i primi a chiamarsi Itali, grazie alla loro prosperità, fecero partecipi di questo nome anche i popoli confinanti e continuarono ad estenderlo fino all’epoca della conquista romana. Più L’ampliamento territoriale del tardi poi, dopo che i Romani ebbero concesso il diritto di cittadinanza agli Italici, essi decisero di concetto di Italia tra V secolo concedere lo stesso onore anche ai Galli Cisalpini ed ai Veneti e di chiamare tutti Italici e Romani “ a.C. e III d.C. [Strabone, Geografia,V, 1, 1]. È tuttavia importante sottolineare ancora una volta come i confini della regione siano definiti in base allo statuto amministrativo delle comunità che la compongono e alla condizione giuridica dei suoi abitanti, non in base ad un criterio puramente geografico: Strabone in effetti non afferma semplicemente che l’Italia giungeva fino alle Alpi, come ci attenderemmo se la definizione avesse una carattere puramente geografico, ma precisa che essa arrivava sino “alle falde delle Alpi”; la zona propriamente montuosa è dunque apparentemente al di fuori dell’Italia romana. 1.3. La suddivisione regionale augustea L’Italia romana era sostanzialmente un mosaico composto da numerosissime comunità di diverso status giuridico, che, con termine riassuntivo, vengono genericamente chiamate municipi. L’ampiezza dei 145 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia Le 11 regioni della Penisola sotto Augusto (senza il territorio insulare – Sicilia, Sardegna, Corsica – considerato extra metropolitano) erano le seguenti: (I) LAZIO e CAMPANIA; (II) PUGLIA e CALABRIA quest’ultima indicava allora solo il Salentino); (III) LUCANIA e BRUZZIO (cioè Basilicata e Calabria attuali); (IV) SANNIO; V PICENO; (VI) Umbria; VII ETRURIA; (VIII) GALLIA CISPADANA (Emilia); (IX) LIGURIA (l’attuale, fino al di qua del Po a partire dalla sorgente); (X) VENECIA e ISTRIA; (XI) GALLIA TRASPADANA (l’attuale Lombardia con l’attuale Val D’Aosta e Piemonte al di là del Po) loro territori poteva variare anche di molto, ma per richiamarci ad un ordine di grandezza ben noto, possiamo affermare che essa corrispondeva ad un grado intermedio fra quello dei comuni e quello delle province dell’Italia odierna. Augusto, verosimilmente negli stessi anni in cui procedeva alla suddivisione della città di Roma in 14 quartieri, detti regiones, dunque intorno al 7 a.C., procedette a raggruppare i tanti municipi dell’Italia romana in unità più ampie, anch’esse chiamate regiones. Non si hanno certezze riguardo alla finalità dell’organizzazione dell’Italia in tali regiones; tra le ipotesi più probabili c’è che esse dovessero costituire il nuovo quadro per i censimenti o per il sistema fiscale. Il testo fondamentale a questo proposito è un passaggio di Plinio il Vecchio, l’enciclopedista vissuto tra l’età giulio-claudia e quella flavia, che nel III libro della sua monumentale Storia naturale descrive brevemente il territorio dell’Italia: “Nunc ambitum eius urbesque enumerabimus, qua in re praefari necessarium est auctorem nos Divum Augustum secuturos discriptionemque ab eo factam Italiae totius in regiones XI, sed ordine eo, qui litorum tractu fiet; urbium quidem vicinitates oratione utique praepropera servari non posse, itaque interiore parte digestionem in litteras eiusdem nos secuturos, coloniarum mentione signata, quas ille in eo prodidit numero”. (Passerò ora in rassegna il territorio e le città dell’Italia.A questo proposito devo premettere che seguirò come autore il divino Augusto e la suddivisione, fatta da lui, dell’Italia in undici regioni, procedendo però secondo il tracciato della costa. Quanto ai rapporti di vicinanza tra le singole città, ritengo impossibile mantenerli inalterati, almeno in un discorso affrettato come il mio; perciò, riguardo alle città dell’interno, mi atterrò all’indicazione per ordine alfabetico fatta dallo stesso Augusto, segnalando le varie colonie, come fece lui). [Plinio il Vecchio, Storia Naturale, III, 46] Plinio afferma dunque che, nella propria descrizione dell’Italia si atterrà alla divisione dell’Italia in 11 regioni, operata da Augusto. Dalle fonti letterarie, e principalmente dallo stesso Plinio, sappiamo che le regioni erano contraddistinte da un numero e da un nome, generalmente ricalcato su quello dell’etnia prevalente nella regione: fanno eccezione la regio VIII Aemilia, che prendeva il nome dalla strada che, da Rimini a Piacenza, la attraversava per tutta la sua lunghezza, e la regio XI Transpadana, che presenta invece un nome di carattere geografico, designante i territori al di là del fiume Po. I dati di Plinio fanno evincere come non facessero parte dell’Italia augustea due importanti regioni dell’Italia attuale, la Sicilia e la Sardegna, le prime due province create da Roma. Inoltre i limiti settentrionali non corrispondono esattamente ai confini geografici, in corrispondenza dello spartiacque alpino, e presentano dunque alcune divergenze rispetto agli attuali confini della nostra nazione: le più significative riguardano l’inclusione di un lembo di quella che oggi è la Costa Azzurra francese, fino all’antica Nicaea (oggi Nizza) e al fiume Varo e, di converso, l’esclusione del corso superiore dei fiumi piemontesi (tra quali la Stura di Demonte, il Maira e lo stesso Po), che un tempo facevano parte delle province delle Alpi Marittime e delle Alpi Cozie. Nel settore centrale colpisce in particolare l’inclusione, nella regione della Transpadana, dell’alta valle del Ticino (oggi Canton Ticino, in Svizzera), mentre la 146 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia Val Venosta, la valle dell’Isarco e la Val Pusteria erano comprese nelle province di Rezia (le prime due) e del Norico (la terza). Nelle Alpi orientali i limiti dell’Italia romana ricalcano sostanzialmente i confini geografici e linguistici odierni, giungendo sino alle spartiacque delle Alpi Giulie e comprendendo buona parte dell’Istria, ma si discostano in modo significativo dall’attuale confine politico dell’Italia, che in questo settore è molto più arretrato. L’Italia settentrionale in età augustea Il carattere più evidente di questa Italia romana è dato dal fatto che tutti i suoi abitanti di libera condizione possiedono la cittadinanza romana (va comunque ricordato che vi sono cittadini romani che risiedono al di fuori dell’Italia, nelle province). Dal punto di vista giuridico l’Italia non è una provincia e i suoi abitanti, a differenza dei provinciali, non sono sottoposti ad una tassazione diretta sulle loro proprietà e sulle loro persone; la giurisdizione non è affidata ad un governatore inviato da Roma, ma è nelle mani degli stessi magistrati locali eletti nelle singole comunità; infine in Italia non sono stanziate le truppe di guarnigione, composte da legioni di cittadini romani e da reparti ausiliari forniti dagli alleati, che vigilano sulle province (per la verità l’Italia non è comunque completamente indifesa, ma le truppe che vi sono stazionate hanno un carattere sostanzialmente differente da quelle che sono presenti nelle province: si tratta delle coorti pretoriane, propriamente la guardia del corpo dell’imperatore, accasermate a Roma, e delle due squadre della flotta imperiale che hanno base rispettivamente a Classe, nei pressi di Ravenna, e a Miseno, sul golfo di Napoli). Inoltre ai cittadini dell’Italia sono riservati alcuni privilegi, come per esempio quello di potere esercitare le vecchie magistrature repubblicane di Roma, almeno fino all’età di Claudio (dal momento che in età tardo repubblicana conosciamo qualche senatore di origine provinciale, è probabile che questo privilegio sia stato introdotto da Augusto). In età augustea ricordiamo inoltre la creazione di seggi distaccati nei municipi dell’Italia, che consentiva ai consiglieri municipali di votare nelle loro città, invece di recarsi a Roma, come di regola.Agli italici inoltre era riservato, almeno per la prima età imperiale, il diritto di essere iscritti negli elenchi da cui venivano tratti i membri delle giurie dei tribunali permanenti, le quaestiones perpetuae, e di entrare a far parte del corpo d’élite dell’esercito romano, le già ricordate coorti pretoriane. Senza dubbio la posizione privilegiata dell’Italia nell’ambito dell’organizzazione dell’impero è da porre in connessione all’uso politico che Augusto, allora ancora Ottaviano, aveva fatto di essa nelle guerre civili: 147 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia ricordiamo infatti che al momento dello scoppio della guerra contro Cleopatra e Antonio, Ottaviano aveva richiesto e ottenuto che tutte le città dell’Italia gli giurassero fedeltà: iuravit in mea verba tota Italia sponte sua (“l’Italia intera giurò nel mio nome spontaneamente”), afferma l’imperatore in un passaggio delle sue Res Gestae (25, 2). La divisone in regiones della penisola ebbe comunque vita breve: alla fine del II sec. d.C., a partire da Marco Aurelio, in effetti, l’Italia venne suddivisa in distretti, in ciascuno dei quali l’amministrazione della giustizia venne affidata ad un funzionario, detto iuridicus, nominato dall’imperatore; un’anticipazione di questo provvedimento si era peraltro avuta già sotto Adriano, che aveva incaricato della giurisdizione sull’Italia quattro ex-consoli. Certo non si tratta di una vera provincializzazione dell’Italia, di cui si può forse parlare, per il III sec. d.C., quando l’imperatore poté affidare, seppure temporaneamente, il governo di una regione italica ad un corrector, e certamente a partire da Diocleziano (292 d.C.), che istituzionalizza la divisione dell’Italia in 12 province (tra le quali sono ormai comprese la Sicilia, la Sardegna e la Corsica ed anche la Rezia, corrispondente all’odierno Tirolo e alla Baviera), raggruppate in un’unità amministrativa più ampia, la diocesi italiciana. La riforma dioclezianea affonda comunque le sue radici nei provvedimenti di Marco Aurelio e trova fondamento anche nel fatto che, dopo la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero nel 212 d.C., era venuta a cadere una delle ragioni del privilegio dell’Italia. Dopo ulteriori modifiche le province in cui era divisa l’Italia alla fine dell’impero Romano (V secolo d. C.) erano le seguenti: (1) Lazio e Campania; (2) Tuscia e Umbria; (3) Piceno; (4) Valeria (il Rietino); (5) Sannio; (6) Puglia e Calabria (la Puglia odierna); (7) Lucania e Bruzzio (la Basilicata e la Calabria attuale); (8) Venezia e Istria; (9) Emilia, (10) Flaminia (parte dell’attuale Emilia e parte delle Marche); (11) Liguria (Lombardia e buona parte del Piemonte); (12) Alpi Cozie (la Liguria odierna più il Nizzardo); (13) Rezia Prima (Trentino e Alto Adige attuale); (14) Corsica; (15) Sardegna e Sicilia. Inoltre: (16) La Rezia Seconda che però era estranea all’Italia e comprendeva l’attuale Tirolo austriaco). 1.4 Descrizioni dell’Italia nella letteratura Latina Fin dai versi iniziali dell’Eneide di Virgilio è presente l’idea geografica di “Italia”: Arma virumque cano,Troiae qui primus ab oris Italiam fato profugus Laviniaque venit (Eneide, Libro I, vv1,2) L’immagine dell’Italia che si evince dalle fonti letterarie risalenti al periodo tra I secolo a.C. e I secolo d.C. è piuttosto positiva e celebra la penisola come terra ricca di risorse economiche (legname, prodotti agricoli, ricchezza e numero dei corsi d’acqua, pascoli, bestiame, miniere), favorita dal clima mite e temperato.Tale situazione viene puntualmente descritta nei passi che seguono. Virgilio, Georgiche, II, 136-174: la lode dell’Italia “Sed neque Medorum siluae, ditissima terra, / nec pulcher Ganges atque auro turbidus Hermus / laudibus Italiae certent, non Bactra neque Indi / totaque turiferis Panchaia pinguis harenis. / haec loca non tauri spirantes naribus ignem / inuertere satis immanis dentibus hydri, / nec galeis densisque uirum seges horruit hastis; / sed grauidae fruges et Bacchi Massicus umor / impleuere; tenent oleae armentaque laeta. / hinc bellator equus campo sese arduus infert, / hinc albi, Clitumne, greges et maxima taurus / uictima, saepe tuo perfusi flumine sacro, / Romanos ad templa deum duxere triumphos. / hic uer adsiduum atque alienis mensibus aestas: / bis grauidae pecudes, bis pomis utilis arbos. / at rabidae tigres absunt et saeua leonum / semina, nec miseros fallunt aconita legentis, / nec rapit immensos orbis per humum neque tanto / squameus in spiram tractu se colligit anguis. / adde tot egregias urbes operumque laborem, / tot congesta manu praeruptis oppida saxis / fluminaque antiquos subter labentia muros. / an mare quod supra memorem, quodque adluit infra? / anne lacus tantos? te, Lari maxime, teque, / fluctibus et fremitu adsurgens Benace marino? / an memorem portus Lucrinoque addita claustra / atque indignatum magnis stridoribus aequor, 148 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia / Iulia qua ponto longe sonat unda refuso / Tyrrhenusque fretis immittitur aestus Auernis? / haec eadem argenti riuos aerisque metalla / ostendit uenis atque auro plurima fluxit. / haec genus acre uirum, Marsos pubemque Sabellam / adsuetumque malo Ligurem Volscosque uerutos / extulit, haec Decios Marios magnosque Camillos, / Scipiadas duros bello et te, maxime Caesar, / qui nunc extremis Asiae iam uictor in oris / imbellem auertis Romanis arcibus Indum. / salue, magna parens frugum, Saturnia tellus, / magna uirum…” (Ma la terra dei Medi ricchissima di vegetazione boschiva, e il maestoso Gange e l’Ermo opaco d’oro non gareggiano con le glorie dell’Italia, e neanche Battra e l’India e la Pancaia ricca di sabbie sature d’incenso. Il suolo italico non fu sconvolto da tori spiranti fuoco dalla narici, seminati i denti del mostruoso drago, né vi spuntò una messe di guerrieri irta di elmi e di fitte lance, ma traboccò di pregne biade e del massico umore di Bacco: lo occupavano oliveti e floridi armenti. Di qui avanza in campo eretto il cavallo da guerra, di qui, o Clitunno, le bianche greggi e il toro, solenne vittima, molte volte aspersi dalle tue acque sacre, guidarono i trionfi romani ai templi degli dèi. Qui è sempre primavera e, in mesi non suoi, estate; duplice è la fecondità del bestiame, duplice la fruttuosità degli alberi. Non vi sono furiose tigri, né la feroce stirpe dei leoni, l’aconìto non inganna gli sventurati raccoglitori, non trascina immense volute sulla terra lo squamoso serpente, né con tanta lunghezza si raccoglie nelle sue spire.Aggiungi tante egregie città e fervore di opere, le numerose rocche costruite dall’uomo su scoscese montagne, i fiumi che scorrono ai piedi di antiche mura. A chi ricordare il mare che lo bagna in alto e in basso? e gli ampi laghi? e te, vastissimo Lario, e te Benaco che sorgi in flutti e fremito marino? A che ricordare i porti e la diga sul Lucrino e la distesa marina che irata vi si frange con alto fragore, laddove l’onda Giulia risuona del riflusso delle acque e il ribollire del Tirreno penetra nel lago d’Averno? Sempre il medesimo suolo mostra vene d’argento, miniere di rame e copiosi fiumi d’oro. Questo generò i Marsi, stirpe di duri guerrieri e la gagliardia dei Sabelli, e i Liguri resistenti alla sventura, e i Volsci armati di spiedi, e i Decii, i Marii, i gloriosi Camilli, gli Scipìadi aspri in guerra, e te, grandissimo Cesare, che ora, già vittorioso nelle estreme regioni d’Asia, tieni lontano l’imbelle Indo dalle rocche romane. Salve, grande genitrice di messi, terra Saturnia, grande madre di ero... ) Varrone, Sull’agricoltura, I, 2, 3-4: la mitezza del clima dell’Italia “Cum consedissemus,Agrasius:Vos, qui multas perambulastis terras, ecquam cultiorem Italia vidistis? inquit. Ego vero,Agrius, nullam arbitror esse quae tam tota sit culta. Primum cum orbis terrae divisus sit in duas partes ab Eratosthene maxume secundum naturam, ad meridiem versus et ad septemtriones, (4) et sine dubio quoniam salubrior pars septemtrionalis est quam meridiana, et, quae salubriora, illa fructuosiora, ibique Italia, dicendum magis eam fuisse opportunam ad colendum quam Asiam, primum quod est in Europa, secundo quod haec temperatior pars quam interior. Nam intus paene sempiternae hiemes, neque mirum, quod sunt regiones inter circulum septemtrionalem et inter cardinem caeli, ubi sol etiam sex mensibus continuis non videtur. Itaque in oceano in ea parte ne navigari quidem posse dicunt propter mare congelatum.“ (Seduti che fummo,Agrasio disse:“Voi che avete viaggiato per molti paesi, ne avete mai visto uno coltivato meglio dell’Italia? “Io invero”, disse Agrio,“penso che non ce ne sia nessuno che sia così ben coltivato in tutte le sue parti. Per prima cose l’orbe terrestre è stato diviso da Eratostene in due emisferi, uno dei quali - in maniera del tutto conforme all’ordine naturale - esposto a sud, l’altro a nord. (4) Ora poiché, senza dubbio, la parte settentrionale è più salubre di quella meridionale ed è pur vero che i luoghi più salubri sono anche i più fertili, e in questa parte vi è l’Italia, bisogna dire che essa fu sempre più adatta alla coltivazione che non l’Asia. Prima di tutto perché è situata in Europa, secondariamente perché ha un clima più temperato delle regioni al centro di questo continente. Nell’interno dell’Europa infatti vi è quasi un continuo inverno. Né deve far meraviglia, per esservi regioni situate fra il circolo polare artico e il polo nord, dove il sole non si vede anche per sei mesi consecutivi. Pertanto dicono che in tale parte non si può nemmeno navigare nell’Oceano perché il mare è ghiacciato.) 149 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia Plinio il Vecchio, Storia naturale, XXXVII, 201: il clima dell’Italia “In toto orbe, quacumque caeli convexitas vergit, pulcherrima omnium est iis rebus, quae merito principatum naturae optinent, Italia É iam situ ac salubritate caeli atque temperie, accessu cunctarum gentium facili, portuosis litoribus, benigno ventorum adflatu; quod contingit positione procurrentis in partem utilissimam et inter ortus occasusque mediam.” (In tutto il mondo, per quanto si estende la volta celeste, la regione fra tutte più bella per quei prodotti che giustamente occupano il primo posto nella natura è l’Italia ... per la sua posizione geografica e la salubrità del suo clima temperato, il facile accesso offerto a tutti i popoli, le coste ricche di porti, il soffio benigno dei venti; pregi dovuti al suo orientamento dato che l’Italia di estende nella direzione più favorevole e a metà fra oriente e occidente. ) Varrone, Sull’agricoltura, I, 2, 6-7: la straordinaria produttività dell’Italia “Quid in Italia utensile non modo non nascitur, sed etiam non egregium fit? quod far conferam Campano? quod triticum Apulo? quod vinum Falerno? quod oleum Venafro? non arboribus consita Italia, ut tota pomarium videatur? ... in qua terra iugerum unum denos et quinos denos culleos fert vini, quot quaedam in Italia regiones? an non M. Cato scribit in libro Originum sic: “ager Gallicus Romanus vocatur, qui viritim cis Ariminum datus est ultra agrum Picentium. in eo agro aliquotfariam in singula iugera dena cullea vini fiunt”? nonne item in agro Faventino, a quo ibi trecenariae appellantur vites, quod iugerum trecenas amphoras reddat?” (In Italia cosa vi è di utile che non solo nasca ma non venga anche bene. Quale farro si potrebbe mai paragonare a quello della Campania? Quale frumento a quello dell’Apulia? Quale vino al Falerno? Quale olio a quello di Venafro? Non è l’Italia piantata ad alberi in modo da sembrare tutta un frutteto?... In quale parte del mondo uno iugero [1/4 di ettaro circa] produce 10 o anche 15 cullei di vino [rispettivamente 52 e 78 hl circa], quanto ne producono alcune regioni d’Italia? O non scrive forse Marco Catone nelle Origini le seguenti parole? “Si chiama Gallico Romano quel territorio situato fra Rimini e il Piceno che fu ripartito individualmente. In alcuni punti di questo territorio si ricavano 10 cullei di vino per ogni iugero”. Non avviene analogamente nella campagna di Faenza? Là ogni iugero rende 300 anfore di vino [circa 78 hl.] e per questo ivi le viti sono chiamate trecenarie.) Res Gestae divi Augusti, 8: le cifre dei censimenti di età augustea “Lustrum post annum alterum et quadrangensimum fec[i]. Quo lustro civium Romanorum censa sunt capita quadragiens centum milia et sexaginta tria millia. Tum i[teru]m consulari cum imperio lustrum [s]olus feci C(aio) Censorin[o et C(aio)] Asinio co(n)s(ulibus), quo lustro censa sunt civium Romanoru[m capita] quadragiens centum millia et ducenta triginta tria m[illia. Et] t[er]tium consulari cum imperio lustrum conlega Tib(erio) Cae[sare filio meo feci] Sex(to) Pompeio et Sex Appuleio co(n)s(ulibus); quo lustro ce[nsa sunt civium Ro]manorum capitum quadragiens centum mill[ia et nongenta tr]iginta et septem millia.” (Celebrai il lustrum dopo 42 anni (28 a.C.). In occasione di quel lustrum vennero censiti 4.063.000 cittadini romani. E per una seconda volta celebrai, da solo e dotato di poteri consolari, il lustrum, sotto il consolato di Caio Censorino e di Caio Asinio (8 a.C.), in occasione del quale vennero censiti 4.233.000 cittadini romani. E per una una terza volta, dotato di poteri consolari e avendo come collega mio figlio Tiberio Cesare, celebrai il lustrum, sotto il consolato di Sesto Pompeo e di Sesto Appuleio (14 d.C.); in occasione di quel lustrum vennero censiti 4.937.000 cittadini romani.) Solo alla fine del I secolo a.C. tale visione felice dell’Italia (per altro confermata dagli autori greci coevi come Dionigi di Alicarnasso,Antichità romane, I, 36, 2 - 37, 4, in cui si descrive l’Italia come “la 150 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia migliore delle terre” o Strabone, Geografia,VI, 4, 1, il quale celebra la ricchezza e la varietà delle risorse economiche dell’Italia) comincia a venire meno per l’incipiente crisi economica del nostro territorio, come si può efficacemente arguire dal seguente brano di Tacito. Tacito, Annali, III, 54, 4: l’Italia dipende dalla province per il proprio sostentamento “At hercule nemo refert, quod Italiae externae opis indiget, quod vita populi Romani per incerta maris et tempestatum cotidie volvitur; ac nisi provinciarum copiae et dominis et servitiis et agris subvenerint, nostra nos scilicet nemora nostraeque villae tuebuntur.” (Nessuno, per Ercole, leva la voce a dire che l’Italia ha bisogno dell’assistenza straniera, che la vita del popolo romano dipende ogni giorno dai capricci del mare e delle stagioni: e se le risorse delle province non sovvenissero alle necessità dei padroni e degli schiavi e delle terre, saranno proprio i nostri parchi e le nostre ville a sostentarci!) Saturnia Tellus nell’Ara Pacis 1.5 Persistenza del nome Italia nel Medioevo Il fatto che la “diocesi italiciana” fu divisa da Diocleziano fra un vicarius Italiae, residente a Milano, e un vicarius Urbis, residente a Roma, ebbe un effetto negativo sulla fortuna del nome Italia, che venne limitato solo alla parte settentrionale del Paese, escludendo Roma e quelle regioni del Sud, in cui il nome paradossalmente era nato. L’unione politica della regione geografica italiana, come è noto, terminò nel 476 d.C. con la fine dell’Impero romano d’Occidente, quando Odoacre, il re degli Eruli, ultimo di una schiera di condottieri germanici che nel periodo di decadenza dell’Impero romano d’Occidente avevano condotto le proprie orde in territorio italico, depone l’ultimo imperatore d’occidente, Romolo Augusto. A partire dal 493, il regno ostrogoto di Teodorico realizzò nuovamente l’unità politica dell’Italia; questo regno, di effimera durata, rappresentò la prima di tante occasioni mancate nel Medioevo per affermare, anche nella regione geografica italiana, un processo di formazione della coscienza nazionale come avvenne in altri Paesi europei. Dal 535 al 553, il territorio italiano divenne teatro della guerra gotica, che vide l’imperatore d’Oriente Giustiniano deciso ad assoggettare il regno ostrogoto: la conquista italiana venne completata nel 553 con la sconfitta definitiva degli Ostrogoti e l’annessione di tutto il regno all’Impero romano d’Oriente. Giustiniano affermò:“Italia non provincia sed Domina provinciarum” (“L’Italia non è una provincia ma è la Signora delle province”). Il conflitto, protrattosi per quasi un ventennio, devastò l’intero territorio, portando ad una grave crisi demografica, economica, politica e sociale. Gli anni della dominazione dell’Impero romano d’Oriente furono funestati da un aggravamento delle condizioni di vita dei contadini a causa della forte pressione fiscale e da una terribile pestilenza che spopolò ulteriormente il territorio tra il 559 e il 562. La regione, indebolita e impoverita, non ebbe la forza di opporsi a una nuova invasione germanica, quella dei Longobardi capeggiati da Alboino.Tra il 568 e il 569 i Longobardi, spesso appoggiati dalla popolazione esasperata dalla fiscalità bizantina, occuparono gran parte dell’Italia: entrando dal Friuli, conquistarono gran parte dell’Italia centro-settentrionale, che prese il nome di Langobardia Maior, e poi dell’Italia meridionale, che chiamarono Langobardia Minor. L’Italia così perse la sua unità territoriale e nei decenni successivi si ritrovò spezzettata tra Bizantini (con capitale Ravenna) e Longobardi (con capitale Pavia). Rimasero possedimenti bizantini la Romagna, l’Istria, le Marche, la zona di Roma, gran parte del Sud, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. Diventarono invece Longobarde la maggior parte del nord (tranne la Romagna e l’Istria), la Toscana, il Ducato di Spoleto e il Ducato di Benevento (quest’ultimo comprendente l’Abruzzo, la parte interna della Campania e la Lucania). Il regno dei Longobardi si protrasse per circa due secoli, fino alla sconfitta a nord da Carlo Magno nel 774, e a sud, più tardi, dai Normanni. Da allora la penisola perse definitivamente la sua unità politica che non ritroverà fino al 1861. 151 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia Anche il nome Italia seguì la decadenza politica della penisola: all’inizio del Medioevo questa involuzione si manifestò nel titolo di Regnum Italiae al dominio di Odoacre, corrispondente in effetti alla sola Italia Settentrionale. L’insidia dei nuovi nomi che si vennero plasmando a seguito di secoli di invasioni rischiò poi di eliminare la denominazione Italia. Se infatti la forma Gozia ebbe una vita effimera, ben più vigorosa fu quella di Longobardia, che dal VII al X secolo sostituì molto spesso il nome Italia o lo ridusse a singole parti del territorio, come il “Ducato d’Italia” nel Mezzogiorno (poi di Benevento) o la Marca d’Italia in Piemonte. Si giunse così perfino a nominare più Italie, al plurale, come fecero gli storici Paolo Diacono e Ottone di Frisinga. II nome classico, comunque, resistette grazie alla forza della tradizione e alla formazione del Regno d’Italia voluto da Carlo Magno nell’ambito del Sacro Romano Impero, acquistando dopo il Mille un significato linguistico e culturale, oltre che territoriale, che trova la sua felice espressione in Dante. 2. 1 Dante e l’Unità d’Italia Nonostante il frazionamento politico verificatosi nell’Alto Medioevo, come si è visto nel paragrafo precedente, il concetto di Italia, dopo il Mille, assunse un significato linguistico e culturale, oltre che territoriale. È abbastanza semplice ritrovare tale espressione nell’opera di Dante Alighieri, in cui è possibile verificare puntualmente l’estensione e la percezione del concetto d’Italia che aveva il grande fiorentino: “Suso in Italia bella giace un laco, a piè de l’Alpe che serra Lamagna sovra Tiralli, c’ha nome Benaco” (Inferno, XX, 61-63) In questo passo Dante vuole dirci che la posizione del lago di Garda è situata ai piedi delle Alpi che fan da confine con la Germania, in quel tratto che si trova all’altezza del Tirolo. Inoltre si evidenzia con chiarezza l’estremo confine nordorientale geografico dell’Italia posto presso il Golfo del Quarnaro o Quarnero, formato dall’Adriatico tra L’Istria e la Dalmazia: L’Italia nell’anno 1000. Sotto, ritratto di Dante, Gustave Dorè “Si com’ad Arli ove Rodano stagna, si com’a Pola presso del Quarnaro, che Italia chiude e suoi termini bagna” (Inferno III, 113-4) Da questi versi dell’Inferno si evince che Dante ha un’idea d’Italia che corrisponde ai confini stabiliti dalla riforma di Diocleziano con la diocesi italiciana del III secolo d.C. piuttosto che alle XI regioni della divisone augustea. Infatti nel De vulgari eloquentia il poeta inserisce a pieno diritto nel territorio italiano anche la Sardegna e la Sicilia: “Per prima cosa diciamo dunque che l’Italia è divisa in due parti, una destra e una sinistra. E se qualcuno vuol sapere qual è la linea divisoria, rispondiamo in breve che è il giogo dell’Appennino: il quale, come la cima di una grondaia sgronda da una parte e dall’altra le 152 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia acque che sgocciolano in opposte direzioni, sgocciola per lunghi condotti, da una parte e dall’altra, verso i contrapposti litorali, giusta la descrizione di Lucano nel secondo libro: e la parte destra ha per sgrondatoio il Mar Tirreno, mentre la sinistra scende nell’Adriatico. Le regioni di destra sono l’Apulia, non tutta però, Roma, il Ducato, la Toscana e la Marca Genovese; quelle di sinistra invece parte dell’Apulia, la Marca Anconitana, la Romagna, la Lombardia, la Marca Trevigiana con Venezia. Quanto al Friuli e all’Istria, non possono appartenere che all’Italia di sinistra, mentre le isole del Mar Tirreno, cioè la Sicilia e la Sardegna, appartengono senza dubbio all’Italia di destra, o piuttosto vanno associate ad essa. Ora in entrambe queste due metà, e relative appendici, le lingue degli abitanti variano: così i Siciliani si diversificano dagli Apuli, gli Apuli dai Romani, i Romani dagli Spoletini, questi dai Toscani, i Toscani L’Italia al Tempo di Dante dai Genovesi e i Genovesi dai Sardi; e allo stesso modo i Calabri dagli Anconitani, costoro dai Romagnoli, i Romagnoli dai Lombardi, i Lombardi dai Trevigiani e Veneziani, costoro dagli Aquileiesi e questi ultimi dagli Istriani. Sul che pensiamo che nessun italiano dissenta da noi.” (De vulgari eloquentia, I, X, 7-8) Dante avverte poi la coscienza dell’Italia come un’unica nazione e un unico popolo in questi suoi famosi versi indignati: “surse ver’ lui del loco ove pria stava, dicendo:“O Mantoano, io son Sordello de la tua terra!”; e l’un l’altro abbracciava. Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello! Quell’ anima gentil fu così presta, sol per lo dolce suon de la sua terra, di fare al cittadin suo quivi festa; e ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode di quei ch’un muro e una fossa serra.” (Purgatorio, Canto VI) 153 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia Sordello da Goito sente Virgilio che risponde a Dante e dall’inflessione della voce riconosce la parlata regionale che li accomuna e si compiace della caratteristica che non muore, neppure dopo la vita, dell’appartenenza alla medesima terra. Da qui la nota invettiva di Dante che sottolinea il triste contrasto dei suoi tempi ove la guerra tra città ha sostituito la concordia tra i cittadini. Infatti l’imprevisto abbraccio tra Sordello e Virgilio, nato dalla sola consapevolezza di venire dalla stessa terra, suscita nel poeta un’energica ed amara apostrofe all’Italia del presente (definita serva, luogo di dolore, nave senza guida, bordello): in essa dominano guerre e contese anche fra gli abitanti di una stessa città. Nucleo fondante di tutto il sesto canto del Purgatorio l’invettiva all’Italia, la più lunga della Commedia nelle sue venticinque terzine, paragona la penisola ad una nave priva di guida e ad un cavallo privo di cavaliere, in quanto l’Imperatore non si cura di essa e per questo motivo sulla stirpe imperiale deve scendere la pena divina. Dante coglie anche l’occasione per attaccare anche la Chiesa, che interferisce nelle vicende politiche più che occuparsi della materia spirituale che dovrebbe competerle e, alla fine dell’invettiva, la stessa Firenze viene citata come esempio di corruzione e povertà morale. Incontro tra Sordello e Virgilio, Gustave Dorè 2.2 Il De Vulgari Eloquentia In effetti tra i letterati in volgare delle Origini, nonostante la divisione tra Comuni e varie entità politiche, l’Italia era una realtà unitaria nella coscienza culturale. Proprio alla “lingua” comune, nella cosiddetta “questione della lingua”, fu affidato per secoli il compito di mantenere viva la tensione verso l’unità territoriale, storica e politica di un Paese che non fu tale se non dopo il 1861. Forse l’Italia è l’unica nazione al mondo attraversata da un’eterna “questione della lingua”, proprio perché principalmente la penisola italiana non ha mai avuto un centro culturale veramente predominante, come per esempio Parigi in Francia. Basta pensare alle Repubbliche marinare (Venezia, Genova, Pisa e Amalfi) e ai Comuni (Firenze, Lucca, Milano, Napoli e Bologna, dove ebbe origine la prima Università), per rendersi conto a che punto di ricchezza, di bellezza e di cultura giunse l’Italia tra i secoli XII e XIV, pur non disponendo di una compagine statale unitaria. Ancora una volta è il padre Dante ad originare il dibattito con il De Vulgari Eloquentia che riprendeva l’allora comunemente accettata teoria della monogenesi di tutte le lingue del mondo che sarebbero derivate dall’idioma di Adamo: l’ebraico, la lingua delle Sacre Scritture. La lingua volgare era identificata con lo sviluppo delle varietà plebee locali già parlate nell’antichità a seguito dell’episodio della Torre di Babele, in cui Dio avrebbe punito gli uomini facendo sì che le lingue parlate si differenziassero tra loro.Il De Vulgari Eloquentia, scritto in esilio, a più riprese, dal 13045 sino al 1308, in latino, è rivolto ai letterati di professione, di estrazione borghese (gli intellettuali in genere, abituati a leggere in latino i trattati filosofici o i rimatori forniti di cultura e d’ingegno): è quindi un’opera specialistica. Doveva essere in quattro libri ma si interrompe al cap. XIV del libro II, probabilmente a causa della composizione della Commedia. In esso Dante si rifà a quell’esigenza di unità linguistica, culturale e nazionale che molti intellettuali, anche prima di lui, sentivano in varie parti d’Italia. Lo scopo del trattato è quello di definire un idioma volgare che possa conseguire un’alta dignità letteraria, elevandosi al di sopra delle varie parlate regionali e sottraendosi all’egemonia del latino. Dante era convinto che i tempi fossero maturi per trattare temi di alta cultura e di alta poesia anche in lingua volgare. In tal senso possiamo dire ch’egli fu il primo in Italia a interessarsi di linguistica. 154 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia Il poeta non si limitò a dimostrare con i fatti, attraverso le sue opere in poesia e in prosa scritte in volgare fiorentino, che il volgare poteva essere usato per fini d’arte senza che sfigurasse rispetto al latino; volle anche teorizzare questa persuasione scrivendo un trattato di retorica e di filosofia del linguaggio interamente dedicato al volgare italiano. Dante definisce la lingua volgare quella che il bambino impara dalla balia, a differenza della grammatica (termine con cui Dante indica il latino) vista come lingua immutabile e, erroneamente, ritenuta un prodotto artificiale delle élites. L’autore afferma, dunque, la maggiore nobiltà della lingua volgare, perché è la lingua naturale, la prima ad essere pronunciata nella vita sua e dei suoi lettori: la novità dantesca sta poi anche nell’individuare gli strumenti del volgare come adatti ad occuparsi di qualsiasi argomento, dall’amore alla moralità e alla religione. Certo il latino, poiché era una lingua perfetta, artificiale e immutabile, ancora era più sofisticato del volgare; ma ormai esso era conosciuto soltanto da pochi privilegiati. Il volgare, invece, era conosciuto da tutti, e tutti avrebbero potuto contribuire a migliorarlo: presto, secondo Dante, esso sarebbe diventato un “sole nuovo” capace di oscurare il latino, destinato a un tramonto inarrestabile. Il tema principale del II libro (o meglio della parte che Dante ha effettivamente scritto) è il volgare illustre da usare in poesia. Dante si occupa degli autori che possono adoperarlo, e poi dei temi, della forma metrica e dello stile che gli si confanno. Il volgare illustre non è una lingua adatta a tutti e a tutti gli argomenti. Possono usarlo solo i migliori fra i poeti e i prosatori, e solo per parlare di argomenti legati alle esperienze più alte dell’uomo: virtù politiche e militari, amore, qualità morali. Chi voglia scrivere poesie nello stile più alto (detto “tragico” o “sublime”) dovrà scegliere con accortezza le forme metriche, i tipi di versi, le costruzioni sintattiche e perfino i vocaboli da adoperare. Tuttavia qual è il volgare più colto e illustre d’Italia? A questa domanda Dante cerca di rispondere, dopo aver distinto i 14 gruppi principali di volgare (i dialetti) in due gruppi secondo i due versanti tirrenico e adriatico dell’Appennino. Di sicuro non il romano, che è “il più turpe”, essendo i romani, per i costumi, “sopra a tutte le genti corrottissimi”. Senza dar troppe spiegazioni, Dante liquida subito anche i milanesi e i bergamaschi, gli aquileiensi e gli istriani, nonché tutte le loquele “montanine e rusticane”, e anche i sardi “che non sono italici”, in quanto “privi di un loro proprio volgare e imitatori di grammatica” Quanti volgari restano? Anzitutto quello siciliano, importantissimo perché qui è nata la rima poetica (la canzone, il sonetto, la tenzone).Tuttavia – dice Dante – se questo volgare fu illustre al tempo di Federico II di Svevia e di Manfredi, a partire da Carlo d’Angiò s’è imbarbarito; senza poi considerare - prosegue Dante - che qui si parla di volgare scritto, quello degli intellettuali di corte (p.es. Guido delle Colonne e Giacomo da Lentini), poiché quello degli isolani è sempre stato barbaro.Anche i pugliesi, quando parlano, sono barbari, seppure nello scritto abbiano tradizioni illustri. Anche fra i toscani vi sono stati eccellenti letterati in volgare (Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Dante stesso).Tuttavia la loro parlata non è certo illustre, anzi è turpiloquium, e “infroniti” (dissennati) sono coloro che, solo perché parlanti, lo ritenevano il dialetto migliore. E la parlata dei genovesi, dominata dalla zeta, è anche peggio. Sul volgare romagnolo il giudizio è opposto: contiene aspetti troppo femminili e altri talmente rudi da far pensare che le donne siano in realtà degli uomini. Giudizio altrettanto negativo è per tutti i dialetti veneti. Dante fa l’elogio del bolognese: una “leggiadra loquela”, lo definisce, poiché si è formato come sintesi dei volgari delle città confinanti: Ferrara, Modena, Imola ecc. Tuttavia il bolognese non è aulico né illustre, tant’è che nessuno lo usa per 155 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Ritratto di Dante, Sandro Botticelli progetto 8 La formazione del concetto di Italia poetare: vi si sono allontanati i più grandi poeti di quella terra, da Guido Guinizzelli a Guido Ghislieri, da Fabruzzo a Onesto. E meno ancora sono illustri le parlate delle città confinanti con paesi stranieri, come Trento,Torino, Alessandria, troppo influenzate da idiomi non italici, e quindi impure. Dante insomma ritiene che nessuno dei volgari italici possa aspirare a diventare il linguaggio eletto, illustre, comune a tutti i letterati italiani, e tuttavia bisogna avere sul piano linguistico un punto di riferimento comune, onde permettere ad ogni lingua di confrontarsi. Anche il migliore dei volgari locali (il bolognese) resta uno strumento adatto alla comunicazione quotidiana, non certo la lingua ornata ed elegante da adoperare nell’alta letteratura. Gli unici che, secondo Dante, si sono avvicinati al volgare illustre sono i migliori poeti italiani della sua generazione e delle precedenti: i poeti della già ricordata scuola siciliana e gli esponenti del cosiddetto “Dolce Stil Nuovo” (un movimento poetico che si sviluppò soprattutto a Bologna e a Firenze tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, di cui fece parte lo stesso Dante). La lingua nazionale si sarebbe potuta facilmente avere in Italia – secondo Dante – se ci fosse stata l’unificazione nazionale: in questo caso, alla corte del sovrano si sarebbero riuniti gli ingegni migliori di tutta la nazione, e dal loro contatto quotidiano sarebbe nata una lingua che, senza identificarsi con un dialetto particolare, avrebbe ritenuto il meglio di tutti. Non essendo politicamente possibile l’unità, in quanto i molti regni non riuscivano a fare un unico reame, il volgare illustre non poteva essere il prodotto di fattori storici e naturali, ma solo una costruzione artificiale di scrittori, poeti, ecc., appoggiati dai loro rispettivi governi: una lingua scritta, non parlata, o parlata solo in ambienti molto ristretti, da persone di rango elevato. Si badi, Dante avrebbe voluto un volgare illustre non come sintesi suprema delle espressioni e delle parole più raffinate dei vari dialetti, ma come risultato di una progressiva liberazione dai limiti municipali delle varie parlate, dalle necessità pratiche e contingenti che rendono i vari volgari di scarsa dignità letteraria. Il volgare illustre doveva diventare il prodotto di un processo di depurazione delle forme rozze dialettali che ciascun poeta e scrittore doveva compiere nei confronti del proprio dialetto, al punto da determinare, nelle varie regioni, risultati abbastanza simili. Il limite di Dante in questa opera è quello di aver pensato a una “unificazione linguistica” come prodotto non di quella “sociale” delle varie popolazioni, che avrebbero dovuto politicamente liberarsi delle barriere artificiali che le dividevano, ma come prodotto di quella del ceto intellettuale, che avrebbe deciso del tutto autonomamente a quale volgare dare la canonicità: operazione questa che, senza un contestuale rivolgimento politico che unificasse la penisola, sarebbe stata assolutamente irrealizzabile: anche quando fu resa possibile alla fine dell’Ottocento, essa si concluse in maniera del tutto arbitraria, penalizzando le parlate di origine non fiorentina, trasformando così il neonato italiano in un figlio privilegiato del vecchio latino. Un’altra cosa curiosa del trattato è che da un lato Dante vuol far l’apologia del volgare illustre (con cui sostituire il latino), dall’altro sottopone a critica serrata tutti i volgari della penisola, senza salvarne alcuno in particolare. Cioè, invece di mostrare agli intellettuali i meriti, i pregi di questo e quel volgare, li squalifica nella loro totalità, mettendo una seria ipoteca sull’utilità del trattato stesso. Persino il toscano (cioè la sua stessa lingua, quella che aveva usato per cantare le lodi di Beatrice) viene definita col termine di turpiloquium. Dunque perché atteggiamenti così contraddittori? Qui si ha l’impressione che Dante misurasse il valore di tutti i volgari italiani col metro del proprio volgare. Egli infatti riteneva sì il toscano un turpiloquium, ma da esso ovviamente escludeva la produzione letteraria degli stilnovisti e, in particolare, la propria (anche se poi si cela dietro la falsa modestia di non citarsi mai per nome o citarsi come amico di Cino da Pistoia). Probabilmente il trattato non era rivolto, in astratto, al ceto degli intellettuali, ma, in concreto, a qualche corte principesca che, politicamente forte, sapesse poi far valere su un territorio abbastanza grande, il più grande possibile, la superiorità del volgare letterario di Dante. “La bilancia capace di soppesare [le azioni da compiere] – egli afferma – si trova d’abitudine solo nelle curie più eccelse”.A suo giudizio, infatti, occorreva scegliere un volgare piuttosto che un altro rispettando le condizioni “politiche” della “curialità” e “aulicità”. In sostanza, Dante, in quest’opera, non sembra voler discutere con gli intellettuali su quale volgare meriti l’onore di sedersi sul trono delle letterarietà; si chiede soltanto in che modo sia possibile che il volgare 156 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia illustre usato dagli stilnovisti e, in particolare, da lui, possa sedere su questo trono, visto e considerato che sul piano politico non esiste alcuna condizione per poterlo permettere. Mancando tali condizioni, un’opera come il De Vulgari non poteva che finire interrotta. 2.3 De Monarchia Dante non era solo un letterato, ma anche un politico e se, come letterato, gli era a cuore il problema dell’unificazione linguistica (che il latino da tempo non era più in grado di garantire, se non appunto a livello di ceti intellettuali molto ristretti), come politico aspirava all’unificazione territoriale sotto l’egida imperiale (l’unica che secondo lui avrebbe potuto far superare gli antagonismi e le divisioni comunali). Il problema dell’unità nazionale nell’ambito dell’impero universale è esposto nell’opera De monarchia: con questo testo il poeta volle intervenire in uno dei temi più “caldi” della sua epoca: il rapporto tra l’autorità laica (rappresentata dall’Imperatore) e l’autorità religiosa (rappresentata dal Papa ). Secondo la cronologia più accreditata, il De Monarchia fu composto negli anni tra il 1310 e 1313, cioè al tempo della discesa di Enrico (o Arrigo) VII di Lussemburgo in Italia. L’opera si articola in tre libri, ma il più importante è sicuramente il terzo, quello in cui Dante affronta più espressamente il tema dei rapporti tra il Papa e l’Imperatore. Dante, anzitutto, condanna la concezione ierocratica del potere solennemente ribadita attraverso la bolla Unam Sanctam del 1302 da Bonifazio VIII. La concezione teocratica assegnava la pienezza dei poteri al papa, la cui autorità era superiore anche a quella dell’imperatore: questo significava che il papa era legittimato ad intervenire anche negli affari che di norma competevano all’autorità laica.A questa concezione Dante oppone l’idea che l’uomo persegue essenzialmente due fini: la felicità della vita terrena e quella della vita eterna. Mentre al papa spetta la conduzione degli uomini alla vita eterna (in cui Dante riconosce comunque il fine più alto), all’imperatore spetta, invece, il compito di guidarli alla felicità terrena. Ne deriva perciò l’autonomia della sfera temporale, di competenza dell’Imperatore, rispetto alla sfera spirituale, di competenza del Papa. Per esemplificare tale concezione il poeta sostituisce alla teocratica similitudine del sole, simbolo del potere spirituale e del Papa, e della luna, che come simbolo dell’Imperatore, brilla di luce riflessa del sole, il nuovo parallelismo dei due soli che brillano di luce propria. Per Dante l’Imperatore non era in alcun modo soggetto al Pontefice, in quanto la sua autorità gli veniva conferita da Dio. Pur in questa visione utopica (già ormai anacronistica ai suoi tempi) di un recupero delle due autorità universalistiche, il Papato e l’Impero, Dante assegna, nella monarchia universale, una particolare importanza all’Italia come il giardin dello imperio (Purgatorio,VI 105) e quindi con una funzione di preminenza nel mondo (anche per la presenza sul suo suolo della città di Roma origine dell’Impero e centro della cristianità come sede di Pietro), per il quale egli proponeva come ideali la romanità e il cristianesimo, valori ancor oggi comuni all’Europa. Nelle opere del poeta fiorentino vi è, quindi, una continua attenzione all’Italia e uno sforzo costante per scuotere l’inerzia e l’ignoranza degli Italiani e per destare in loro il sentimento delle passate origini. Affermò, perciò, la necessità di una lingua nazionale, riconoscendo l’affinità dei popoli d’Italia, pur così distinti, da regione a regione, nei loro dialetti e ponendo, con l’unità linguistica, la prima determinante forza coesiva che, attraverso varie vicende di secoli, giungerà alle lotte che faranno di tanti staterelli, di quella espressione geografica del Metternich, una grande nazione con un presente edificato su immortali basi consolidate sul passato. Dunque Dante è stato il poeta-profeta dell’unità d’Italia: per questo motivo nell’Ottocento il suo culto veniva proibito da certi governi tirannici della Penisola, specialmente da quelli facenti capo all’Austria, tanto 157 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Statua di Dante, Piazza Santa Croce, Firenze progetto 8 La formazione del concetto di Italia che diversi patrioti furono arrestati e incarcerati solo perché in casa possedevano ed esponevano qualche suo ritratto. Enrico Bianchi aveva scritto nell’introduzione del suo fortunato commento dantesco: “Fra i grandi genii che mostrarono al mondo attonito di che cosa la mente umana sia capace, Dante è senza dubbio il più grande. Egli è la più pura gloria dell’Italia; gloria che nessuno ci può togliere, per passar di tempo o mutare d’eventi. Egli è stato e sarà sempre segnacolo d’italianità; e intorno a lui e nel suo nome si raduneranno gl’Italiani ogni volta che l’amore della patria fiammeggerà nei loro cuori; e lo sentiranno lontano da sé, solitario e sdegnoso, quando per torti raggiri o con arti indegne vorranno far male a quell’Italia ch’egli tanto amò.” Ritratto di Francesco Petrarca,Altichiero circa 1376, Padova 3.1 Petrarca e l’Italia: la Canzone Italia Mia La poesia politica di Petrarca, non frequente nel Canzoniere, nasce da uno stato d’animo simile a quello della poesia amorosa. Nella canzone politica “Italia mia”, infatti, si ritrovano i sentimenti dominanti del Petrarca: la tenera vena di affetto; la malinconia che colora di sé tutta la storia del suo amore; quel pensiero della vanità e fugacità terrena che nelle rime del Canzoniere affatica sempre più l’animo del Petrarca. Si colgono due temi centrali: la deprecazione delle lotte civili tra i signori italiani e la condanna dell’impiego di milizie mercenarie germaniche. Gli interlocutori del poeta sono i signori: Petrarca si rapporta ormai alla nuova realtà signorile che si è affermata nella penisola, e, come grande intellettuale, si propone, al di sopra delle parti, nelle vesti di colui che ammonisce, esorta, guida e indirizza al bene chi ha la responsabilità del potere. Si può misurare qui la lontananza da Dante, che, pur già inserito anch’egli, nel periodo dell’esilio, nella nascente realtà signorile, ha ancora essenzialmente come riferimento la dimensione municipale e comunale, o dall’altro lato, quella dei grandi poteri universali, Impero e Chiesa. Inoltre, mentre Dante, di fronte alla realtà politica dei suoi tempi, ha l’atteggiamento apocalittico del profeta che si erge a giudicare in nome del giudizio finale di Dio e minaccia terribili castighi dal cielo sulla corruzione contemporanea, Petrarca sceglie un tono diverso, commosso e in certi punti persino dolente ed elegiaco. (Si veda nelle ultime due strofe l’equazione patria-madre, v. 85, e si noti l’immagine affettuosa del “nido” v.81). Le motivazioni dell’appello ai signori non sono soltanto politiche (l’esigenza di concordia e di pace), ma anche di tipo esistenziale: nella penultima strofa, il poeta richiama i temi a lui cari della fuga del tempo, della labilità della vita, della morte incombente; in nome di questo, del “dubbioso calle” che attende anche i potenti, egli li invita a deporre odi ed ire, a dedicarsi a più degne imprese, per aprirsi la strada del cielo. Il secondo motivo è quello delle milizie mercenarie germaniche, che invadono il suolo italiano e combattono non per ragioni ideali, ma solo per interesse, passando da un campo a quello avverso a seconda delle migliori offerte (è un tema politico che avrà poi grande rilevanza nel pensiero di Machiavelli). Il motivo si specifica nella contrapposizione tra la nobiltà del sangue latino da un lato e la rozza crudeltà dei costumi tedeschi dall’altro. Su questo contrasto, riferito al presente, si innesta quello riferito al passato, tra la potenza romana e i popoli germanici, che appare come opposizione tra civiltà e barbarie. Se i Germani di oggi sono barbari e feroci come quelli antichi, gli Italiani appaiono gli eredi diretti dei Latini.Vi è per Petrarca una continuità tra civiltà romana e italiana; egli ha il culto di un passato glorioso di grandezza politica e di virtù guerriera, che vorrebbe perpetuato nel presente. Depreca quindi la decadenza italica, ed invita ad una rinascita dello spirito antico, a ritrovare la “virtù” romana lottando contro i “barbari”. L’appello si concreta nei versi vibranti e lapidari, divenuti famosi, e 158 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 8 La formazione del concetto di Italia Statua di Francesco Petrarca, ripresi da Machiavelli in chiusura del Principe: Uffizi -Firenze “vertù contra furore / prenderà l’arme, e fia ‘1 combatter corto: / che l’antiquo valore / ne l’italici cor’ non è ancor morto” vv. 93-96. Tutta la canzone, col suo mito di Roma e della rinascita italica, avrà in seguito grande risonanza e fortuna, fino ai patrioti del Risorgimento. Bisogna precisare però che la nozione petrarchesca di “Italia” è diversa da quella che sarà poi propria dell’Ottocento. Non è per lui un’entità nazionale e politica (non c’è l’idea di un’unità statale), ma culturale, come erede di una tradizione di civiltà che ha le sue radici in Roma e nella sua cultura. La ragione della straordinaria celebrità della canzone all’Italia e del fascino che essa ha esercitato sulla fantasia di tanti poeti dal ‘500 all’800, è in quella commozione, in quel palpito di affetto, in quella voce suadente che per lo più si eleva ad un ammonimento solenne pieno di carità o si addolcisce quasi fino alle lacrime. Questa nota comincia subito nell’invocazione iniziale; continua nella rappresentazione dell’Italia, adombrata qua e là con l’ammirazione e l’affetto che si hanno per una persona cara “le piaghe mortali / che nel bel corpo tuo sí spesse veggio” vv. 2-3 il “tuo diletto almo paese”, v. 9 “le belle contrade” v.18 , “per inondari nostri dolci campi” v. 30 e con le parole semplici e scarne che nascono dai sentimenti profondi; culmina in quella definizione domestica della patria che fa una cosa sola della nostra vita e della terra su cui la trascorriamo: “Non è questo ‘l terren ch’i’ toccai pria?” v. 81 Lo stile è elevato: e l’ultimo periodo ha quell’andamento grave, quel tono contemplativo che è costante in tutto il Canzoniere e che solleva in un’alta sfera anche i motivi più umili: “Non è questa la patria in ch’io mi fido, / madre benigna e pia, /che copre l’un e l’altro mio parente?” v. 84-86. Tuttavia il sentimento del Canzoniere non si è mai accostato al suo oggetto come qui. Questo è il solo punto del Canzoniere in cui si stabilisca fra il poeta e il lettore una comunanza di affetti, perché qui il poeta che parla, non è l’uomo che s’è creato un suo mondo aristocratico e romito, ma il fanciullo. Al tocco delle sue parole, in cui vibrano brevemente e profondamente i ricordi dei suoi primi anni, si ridesta nel lettore il mondo dei suoi primi affetti; e il lettore rivede nel Petrarca che cresce al sentimento della patria, la propria vita che si forma, e insieme con essa, inseparabile da essa, la terra da cui questa ha preso significato e colore. La canzone è tutta piena d’una dignitosa speranza, ma in un punto ( già citato in precedenza) questa speranza nel risorgere dell’Italia si fa impeto: “Vertú contra furore / prenderà l’arme...” vv.93-94 È questo il solo punto della canzone in cui il Petrarca si avvicina a Dante e l’esortazione cede quasi all’azione. Ma tutto il resto si svolge in una sfera di alta e religiosa malinconia. La disperazione politica è un sentimento che muore con Dante e risorge solo con l’Alfieri; per Petrarca la politica non è più un argomento vitale come per Dante: nel senso che Dante lo possiamo rappresentare come poeta politico, tanta è l’altezza che ha in lui questo sentimento; Petrarca no. Petrarca rimane un elegiaco, un contemplativo, un solitario anche quando fa poesia politica. 159 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio 17 Marzo 2011, 150 anni dell’Unità d’Italia Quest’anno festeggiamo l’anniversario dell’unificazione d’Italia. Un avvenimento di fondamentale importanza che ha portato il nostro Paese ad essere unito ed indivisibile. Per ricordare questo importante momento della nostra storia la classe 5° A Turistico dell’I.T.C.G. “Cesare Battisti” di Salò ha partecipato al progetto per dimostrare che le nuove generazioni sono orgogliose e consapevoli del sacrificio e dell’eroismo di chi è morto per “regalare” a noi Libertà e Democrazia. Autori del progetto Balzarini Elisa, Balzo Irene, Bertoia Alessandro, Busi Alessandra, Dolcini Deborah, Fusco Davide, Hermanovich Diana, Maccarinelli Silvia, Moise Dana, Perini Federica, Rodolfi Andrea, Serra Francesca, Suppi Debora, Stabile Jessica, Venin Mirel, Zanardi Stefano La ricerca è stata guidata dalla prof.ssa Amalia Bigi e dal prof. Antonio Arigoni. Tutti noi abbiamo accolto con entusiasmo l’idea di percorrere e di ricordare le tappe della storia del risorgimento italiano. La nostra ricerca è iniziata con una visita ai luoghi, sul Lago di Garda, che hanno segnato il percorso nel raggiungimento dell’Unità d’Italia. La nostra “gita” vuol essere anche un Itinerario da suggerire ai turisti, italiani e stranieri, appassionati di Storia. La nostra ricerca è proseguita concentrandoci su alcune figure importanti come Giuseppe Mazzini e Giuseppe Zanardelli, personaggi che hanno illuminato il cammino verso l’indipendenza, che con le loro idee hanno influenzato le imprese rivoluzionarie lungo tutta la penisola. Come conclusione di questo viaggio nella storia dell’Unità d’Italia abbiamo voluto rendere omaggio anche al contributo e alle azioni intraprese da Gabriele d’Annunzio che “a modo suo” e “da indipendente” ha voluto portare a termine “il Programma Risorgimentale” conquistando le terre di Trieste e Fiume. Ringraziamo tutti quelli che hanno voluto questo Progetto, perché ci ha fatto sentire parte della storia italiana. L’età del Risorgimento Nella prima metà dell’800 l’Italia conobbe un processo di graduale riscoperta e sempre più netta rivendicazione della propria identità nazionale. Questo processo, noto come Risorgimento, portò alla formazione dello Stato unitario Italiano, ovvero fece della penisola un organismo politico e indipendente a base nazionale. La corsa all’unità fu lunga e complicata, vi proponiamo gli avvenimenti principali che hanno segnato questo periodo storico. “Il Congresso di Vienna fu convocato il 22 settembre del 1814 dalle potenze (Austria, Gran Bretagna, Prussia e Russia) che sconfissero Napoleone Bonaparte con l’obiettivo di ripristinare l’assetto politico europeo presente prima delle campagne napoleoniche. A questo congresso parteciparono ben 216 delegazioni provenienti da tutta Europa. Il congresso si prefiggeva anche l’obiettivo di dare all’Europa un assetto stabile per impedire le mire espansionistiche della Francia. Vi era un solo modo per garantire la pace duratura in Europa: limitare il potere di ciascuna potenza in modo che nessuna di esse risultasse troppo rafforzata rispetto alle altre. 161 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio Due furono i principi alla base del lavoro del Congresso: 1. Il principio di equilibrio, volto ad impedire che uno Stato potesse imporsi sugli altri; 2. Il principio di legittimità con il quale si restaurarono sui troni le dinastie regnanti prima delle campagne napoleoniche. La tendenza del Congresso fu quella di rafforzare l’assolutismo monarchico e di impedire la diffusione delle idee francesi. Lo spirito della restaurazione fu perciò antiliberale e volto alla negazione del principio di nazionalità (popolo sovrano). L’Austria ottenne in Italia, oltre al Lombardo-Veneto, anche il controllo indiretto del Ducato di Parma assegnato a Maria Luisa d’Austria, del Granducato di Toscana e del Ducato di Modena e Reggio. Il Regno di Napoli tornò a Ferdinando IV di Borbone e nel 1817, con l’acquisizione della Sicilia, andò a formare il Regno delle Due Sicilie; lo Stato Pontificio fu restituito a papa Pio VII. Dopo aver riorganizzato l’assetto politico europeo bisognava preservarlo il più a lungo possibile. Nel settembre 1815, su iniziativa dello zar Alessandro I, Russia. Prussia ed Austria firmarono il documento istitutivo della Santa Alleanza, patto questo che non vincolava i contraenti ad alcun obbligo preciso e concreto. Il testo affermava che i sovrani si sarebbero prestato aiuto e soccorso in ogni luogo e in ogni occasione. In un secondo tempo aderirono alla Santa Alleanza anche altre potenze europee, tra le quali la Francia. Nel novembre del 1815, su iniziativa britannica, fu stipulata la Quadruplice Alleanza tra Gran Bretagna, Russia, Prussia ed Austria, volta ad impedire che l’assetto e l’ordine delineati dal Congresso potessero essere rotti. La risposta alla politica antiliberale del Congresso non si fece attendere I gruppi liberali, che chiedevano l’instaurazione di governi costituzionali, erano una minoranza politica e sociale che faceva capo principalmente ad esponenti intellettuali e della borghesia imprenditoriale. Questi gruppi non potendo operare alla luce del sole si organizzarono in società segrete con attività cospirativa clandestina. In Italia la società segreta più famosa era la Carboneria che aveva filiali in tutta la penisola. Negli anni 1820-1821, in Spagna, in Portogallo e in Italia scoppiarono dei moti insurrezionali promossi da gruppi liberali i quali, però, non ottennero l’appoggio delle masse popolari. Nella penisola iberica questi moti costrinsero i regnanti a promulgare delle Costituzioni. In Italia il 1 luglio 1820 scoppiarono dei moti insurrezionali che interessarono il Regno delle Due Sicilie. I moti furono promossi da Michele Morelli e Giuseppe Silvati, due ufficiali carbonari, e ben presto dilagarono in tutto il napoletano.Alla rivolta si unì anche Guglielmo Pepe, ex ufficiale napoleonico, assumendone il comando. Il re Ferdinando I fu costretto a concedere la Costituzione. Il 15 luglio 1820 la rivolta esplose anche in Sicilia dove il moto assunse, oltre al carattere costituzionale, soprattutto quello separatista. Il governo di Napoli inviò Florestano Pepe il quale, per reprimere il moto, cercò di trattare con i rivoltosi, ma invano. Fu inviato quindi Pietro Colletta il quale sedò la rivolta nel sangue (settembre 1820).Animati dagli eventi accaduti in Spagna e nell’Italia meridionale, le società segrete lombarde e quelle del regno di Sardegna intensificarono la propria attività cospirativa, ma nell’ottobre del 1820 la polizia austriaca arrestò alcuni carbonari tra i quali Pietro Maroncelli e Silvio Pellico. Federico Confalonieri, capo della setta segreta dei federati di Lombardia, decise di passare all’azione pensando di poter contare sull’appoggio di Carlo Alberto, principe di Carignano, il quale nutriva simpatie per i gruppi liberali. Il moto piemontese fu guidato dal conte Santorre di Santarosa. In Piemonte la guarnigione militare dei rivoltosi raggiunse Torino il 12 marzo.Vittorio Emanuele I abdicò in favore di Carlo Felice il quale, trovandosi a Modena, affidò la reggenza a Carlo Alberto. Questi concesse la Costituzione che sarebbe entrata in vigore a seguito dell’approvazione di Carlo Felice. Il re sconfessò l’iniziativa di Carlo Alberto e minacciò di unirsi alle truppe di Novara, fedeli alla Corona. In Lombardia, invece, i piani di Confalonieri furono scoperti dalla polizia austriaca e l’insurrezione saltò. In aprile Carlo Alberto al capo di un esercito piemontese e austriaco sconfisse i rivoltosi di Santorre di Santarosa a Novara; così si conclusero i moti rivoluzionari del 1820-21. 162 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio L’Austria che era la più interessata, a reprimere i moti fece convocare a Troppau un congresso dove Austria, Russia e Prussia proclamarono il principio d’intervento. In un Congresso a Lubiana fu deciso l’intervento armato nel napoletano. Il 23 marzo 1821 le truppe austriache abbatterono il regime costituzionale napoletano. Con il Congresso di Verona fu dato mandato alla Francia di reprimere il regime costituzionale spagnolo che, nonostante l’accanita resistenza dei gruppi liberali, cadde nell’ottobre del 1823. In Portogallo, invece, il regime costituzionale fu soppresso dalle forze assolutiste interne, riorganizzatesi nel frattempo. Nel 1830 scoppiarono in Europa nuove rivolte che determinarono in Francia e in Belgio una prima rottura negli assetti stabiliti dal Congresso di Vienna. In Francia scoppiò una rivolta popolare contro Carlo X il quale era intenzionato a ripristinare totalmente l’antico regime. La “rivoluzione di luglio” portò sul trono francese il conte Luigi Filippo d’Orleans. La Francia divenne così una monarchia costituzionale. In Belgio il 23 agosto 1830 a Bruxelles la popolazione insorse chiedendo l’indipendenza dall’Olanda. L’intervento dell’Alleanza a difesa del re Guglielmo I fu impedito da Luigi Filippo d’Orleans il quale affermò che per garantire la pace in Europa era necessario non intervenire. Il Belgio divenne così uno Stato indipendente e poté dotarsi di una Costituzione liberale. In Italia l’attività cospirativa della carboneria non si era arrestata, ma era rimasta vitale soprattutto nell’Italia centrale. Gli eventi parigini spronarono i gruppi liberali all’azione. La carboneria, grazie ad Enrico Misley aveva preso contatti con Francesco IV duca di Modena il quale era intenzionato a costruire uno Stato nell’Italia centro-settentrionale sfruttando i moti liberali. Nella rivolta diretta da Ciro Menotti furono coinvolte l’Emilia, la Romagna e le Marche. L’improvviso cambiamento dell’atteggiamento di Francesco IV portò, però, all’arresto di Ciro Menotti ma non impedì lo scoppio della rivolta. Grazie a questi moti, nei ducati di Parma e Toscana e in alcuni territori pontifici furono instaurati dei governi provvisori; l’esercito dei rivoluzionari, però, non riuscì a resistere alla reazione austriaca. Nell’Italia centrale furono così ristabiliti i sovrani preesistenti. Le cause principali dell’insuccesso di questi moti furono il mancato appoggio sia delle masse popolari che di una grande potenza. L’insuccesso dei moti carbonari fu dovuto da una parte al metodo di lotta e dall’altra al mancato appoggio popolare . Uno dei protagonisti del movimento nazionale italiano fu Giuseppe Mazzini, membro della carboneria, il quale puntava alla costituzione di un’Italia “una, libera, indipendente e repubblicana”. Mazzini rifiutava l’idea di un’Italia federale; era convinto che uno Stato centralizzato avrebbe meglio rappresentato l’unità nazionale. Secondo Mazzini il popolo aveva come missione quella di portare a termine l’unità nazionale che non doveva essere realizzata da un sovrano italiano né con l’aiuto di una potenza straniera ma attraverso un’insurrezione popolare. Nel 1831 Mazzini fondò la Giovine Italia, un’organizzazione clandestina nazionale che doveva incitare alla lotta popolare. La visione mazziniana, però, andava di là dei confini nazionali: da ciò la nascita della Giovine Europa che fu fondata dallo stesso Mazzini nel 1838. Il metodo scelto da Mazzini per la lotta fu quello del ricorso ai moti insurrezionali che avrebbero innescato poi una sollevazione delle masse popolari preparate all’azione per mezzo della propaganda. I tentativi insurrezionali promossi dai mazziniani si trasformarono tutti in pesanti sconfitte. I motivi di tali insuccessi vanno principalmente ricercati nella propaganda di obiettivi che le masse popolari non recepivano come propri e nell’incapacità di “convincere” le masse. Gli obiettivi indicati da Mazzini non coinvolgevano la stragrande maggioranza della popolazione costituita da contadini (Mazzini, ad esempio, non affrontava il problema della terra per loro fondamentale). Tra i tentativi insurrezionali falliti vi è quello dei fratelli Bandiera che, non avendo ottenuto l’appoggio dei contadini calabresi, furono catturati e fucilati dai Borboni. 163 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio In Italia, mentre i mazziniani “perdevano colpi” anche a causa del fallimento dei moti insurrezionali, si andavano affermando, guadagnando consensi, i liberali moderati la cui visione prevedeva un processo d’unificazione lento e senza spargimento di sangue: tale processo si sarebbe concluso con la nascita di uno Stato federale. Nel 1848 l’Europa fu nuovamente investita da un’ondata di moti insurrezionali. In Francia la situazione politica ed economica era estremamente precaria a causa dell’atteggiamento di stampo conservatore assunto da Luigi Filippo d’Orleans. Gli oppositori del sovrano diedero vita alla “campagna dei banchetti”, chiamata così perchè i comizi politici venivano camuffati con banchetti offerti da esponenti antigovernativi. Il tentativo da parte del ministro Guizot di impedire uno di questi banchetti sfociò in una rivolta popolare che portò alla nascita della repubblica. Fu proclamato il diritto al lavoro e furono creati gli opifici nazionali volti ad eliminare la disoccupazione. Fu anche introdotto il suffragio universale maschile. Gli opifici nazionali, improduttivi e troppo costosi, furono ben presto chiusi dalla borghesia moderata, salita al potere, dopo aver fatto sedare nel sangue dalla guardia nazionale una rivolta operaia. Fu così varata una Costituzione moderata e la Francia divenne una Repubblica Presidenziale. Come primo presidente della Repubblica fu nominato Luigi Napoleone. I moti insurrezionali interessarono anche l’impero asburgico dove, promossa da studenti e insegnanti, scoppiò nel 1848 una rivolta che da Vienna si diffuse in tutto l’impero per il passaggio all’offensiva dei vari movimenti democratici.Tale offensiva ebbe come conseguenza l’abbandono di Vienna da parte di Metternich prima e di Ferdinando I dopo e la costituzione di governi provvisori a Budapest e a Praga. Insurrezioni scoppiarono nel 1848 anche in Germania dove si sollevò una rivolta che da Berlino si diffuse nelle altre città tedesche. Fu quindi convocata un’assemblea costituente a Francoforte con lo scopo di scrivere la Costituzione per la Germania unificata. In Italia la rivolta scoppiò inizialmente a Venezia e a Milano che si ribellarono alla dominazione asburgica. Anche l’Italia meridionale fu investita da moti insurrezionali.A Palermo scoppiò una rivolta che costrinse Ferdinando II a concedere la Costituzione. La rivolta si propagò anche in altre città italiane costringendo i sovrani a concedere anch’essi la Costituzione. A Venezia, la rivolta fu guidata da Daniele Manin e Nicolò Tommaseo e portò alla proclamazione della Repubblica di San Marco (17-03-1848). La rivolta milanese (conosciuta anche come le cinque giornate di Milano) fu guidata da Carlo Cattaneo e portò all’instaurazione di un governo provvisorio costituto dagli insorti. La vittoria milanese spinse Carlo Alberto (sul trono dal 1831) a dichiarare guerra all’Austria. A lui si unirono anche Pio IX, Leopoldo II e Ferdinando II; la guerra contro l’Austria divenne quindi una guerra nazionale (I Guerra d’Indipendenza 1848-1849). Per i personali interessi di Carlo Alberto l’intesa si ruppe presto. Il regno sabaudo, dopo qualche successo contro l’Austria, fu costretto a firmare l’armistizio con gli austriaci. Nel 1849 nell’impero asburgico, grazie all’esercito fedele alla corona, fu restaurata la vecchia monarchia. In Germania Federico Guglielmo IV rifiutò la corona offertagli dall’assemblea di Francoforte e ripristinò con le armi la monarchia abbattuta dagli insorti. In Italia la fine della “guerra regia” diede inizio alla guerra del popolo. Purtroppo la guerra dei democratici ebbe dimensioni di gran lunga inferiori a quelle sperate da Mazzini. Nel regno delle due Sicilie i Borboni e liquidarono la Costituzione prima concessa. Nello Stato pontificio, a seguito della mobilitazione dei democratici e dei liberali, sorse nel 1849 la Repubblica Romana governata da un triunvirato: Mazzini, Saffi ed Armellini, che intraprese una politica di laicizzazione dell’ex Stato pontificio. In Toscana, i democratici costrinsero Leopoldo II a fuggire a Gaeta dove già si era rifugiato Pio IX.Anche la Toscana fu governata da un triunvirato: Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni. Mazzini, a seguito della situazione favorevole determinatasi, voleva accelerare il processo di unificazione, ma trovò l’opposizione di Guerrazzi. Carlo Alberto, timoroso per la caduta di prestigio della monarchia sabauda, piuttosto che sottostare alle pesanti condizioni austriache imposte con la pace, decise di continuare la guerra. Una nuova sconfitta lo portò ad abdicare a favore di Vittorio Emanuele II. Intanto l’esercito austriaco occupò la Toscana consentendo a Leopoldo II di riprendere il potere. 164 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio La repubblica Romana cadde per l’intervento di Luigi Napoleone erettosi a difensore dei cattolici per accaparrarsene l’appoggio. L’ultima a cadere, dopo una lunga resistenza all’assedio degli austriaci, fu la Repubblica di Venezia. L’unico stato italiano che non subì moti rivoluzionari fu lo Stato sabaudo.Alla guida del governo sabaudo vi era Camillo Benso di Cavour, per il quale il regno di Sardegna, stringendo alleanze con potenze straniere, doveva cacciare l’Austria dalla penisola per poter costituire un vasto regno dell’Italia Settentrionale.Tale convinzione portò Cavour ad inviare in Crimea un contingente sardo; ciò consentì al regno sabaudo di partecipare al Congresso di Parigi dove Cavour sollevò la questione italiana. Di fronte all’ennesimo insuccesso dei mazziniani nella spedizione di Sapri, Cavour, nell’incontro segreto di Plombieres, decise di allearsi con la Francia. Secondo gli accordi stipulati, Napoleone III (Luigi Napoleone diviene imperatore nel 1852 con tale nome) sarebbe entrato in guerra a fianco del regno sabaudo solo se quest’ultimo fosse stato attaccato dall’Austria. In cambio la Francia avrebbe ricevuto Nizza e la Savoia. Cavour, per provocare l’Austria, fece disporre truppe sabaude lungo il confine con i territori austriaci. Dopo un ultimatum austriaco respinto da Vittorio Emanuele II, l’Austria attaccò il regno di Sardegna (II Guerra d’Indipendenza). Come da patti la Francia si schierò con Vittorio Emanuele II. Dopo una serie di vittorie delle truppe sardo-francesi, Napoleone III propose all’Austria un armistizio in quanto nell’Italia centrale esponenti filopiemontesi, saliti al potere, chiedevano l’annessione al regno sabaudo. Il 12 luglio 1859 a Villafranca fu siglata la pace tra Francia ed Austria. La pace prevedeva la cessione della Lombardia da parte dell’Austria alla Francia, la quale successivamente la consegnò all’Italia, e la restaurazione dell’ordine nell’Italia centrale. Nel 1860 nell’Italia centrale si tennero dei plebisciti con esito favorevole all’annessione al regno sabaudo. Terminava così la prima fase dell’unificazione pensata da Cavour. A questo punto entrarono in scena i mazziniani con l’organizzazione di una spedizione di mille volontari guidati da Giuseppe Garibaldi, avente lo scopo di fare insorgere le masse popolari meridionali. La spedizione partì da Quarto il 5 maggio 1860. Garibaldi, sbarcato in Sicilia, piegò subito la resistenza delle male armate truppe borboniche e, in nome di Vittorio Emanuele II, vi proclamò la dittatura. Dopo aver sedato nel sangue un moto contadino contro i proprietari terrieri iniziò la risalita verso Napoli. Garibaldi sbarcò in Calabria in località Rumbolo di Melito di Porto Salvo (19 agosto 1860) che costituisce la parte più a sud dell’Italia continentale. Nelle acque del mar Ionio, antistanti la dimora che scelse per le proprie truppe (oggi denominata Casina dei mille e che al tempo apparteneva ai marchesi Ramirez), era visibile sino a poco tempo fa la nave garibaldina “Torino” arenatasi durante lo sbarco frettoloso delle truppe, avvenuto sotto il fuoco nemico delle navi borboniche e la resistenza di uno sparuto gruppo di fedeli ai Borboni prontamente messo a tacere. Nella Casina dei mille Garibaldi dimorò un paio di giorni per far riprendere fiato alle sue truppe, sopportando anche l’attacco delle navi borboniche che non ebbe però alcun esito. Di tale attacco è testimonianza una palla di cannone ancora oggi visibile sul muro di un balcone della casina, mentre lo sbarco di Rumbolo è ricordato da una stele eretta nel punto esatto dello sbarco. Da Melito di Porto Salvo i mille risalirono attraverso l’Aspromonte sino a Napoli dove entrarono il 7 settembre 1860. Intanto, per paura che Garibaldi potesse giungere a Roma, Cavour inviò truppe piemontesi in Umbria e nelle Marche, occupandole. Le truppe quindi si misero in marcia verso Napoli pronte a scontrarsi con Garibaldi il quale però non era interessato a combattere contro di esse. Questi preferì attendere l’arrivo del re. Nel frattempo nell’Italia meridionale si tennero dei plebisciti per l’annessione al regno sabaudo, che ebbero esito favorevole. Il 26 ottobre 1860, con lo storico incontro di Teano, Garibaldi consegnò a Vittorio Emanuele II tutti i territori da lui liberati. In epoca immediatamente successiva anche le Marche e l’Umbria furono annesse al regno sabaudo 165 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio per mezzo di plebisciti. L’unificazione nazionale prendeva così corpo, anche se essa non era ancora completa perché il Lazio rimaneva territorio papale e il Veneto era in mano austriaca. Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II era proclamato re d’Italia. Con lo scoppio della guerra austro-prussiana del 1866, l’Italia si schierò con la Prussia con il premeditato intento di sottrarre il Veneto all’Austria (III Guerra d’Indipendenza). La guerra ebbe esito negativo per l’Italia, ma, grazie alle vittorie prussiane e alla pace di Vienna, il Veneto fu annesso al regno d’Italia. Per il completamento del processo d’unificazione mancava soltanto l’annessione dello Stato pontificio, operazione questa di difficile attuazione in quanto Pio IX non era in alcun modo intenzionato a rinunciare al potere temporale. Di fronte a questo rifiuto del papa, Garibaldi e i suoi volontari tentarono per due volte di occupare Roma ma Napoleone III, protettore dello Stato pontificio, glielo impedì. Con la caduta di Napoleone III a seguito della guerra franco-prussiana, truppe italiane guidate dal generale Cadorna entrarono a Roma dopo essersi aperte un varco presso Porta Pia (20 settembre 1870), ponendo fine al potere temporale del papa. Nel luglio 1871 Roma divenne la capitale del regno d’Italia. L’unità d’Italia si era finalmente realizzata. “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani” Questa frase, coniata da Ferdinando Martini nel 1896 per sintetizzare un concetto di Massimo D’Azeglio (predecessore di Cavour alla guida del governo sabaudo), intendeva mettere in evidenza l’importante e difficile compito che spettava al nuovo governo del Regno d’Italia. L’Italia unita era un paese di 22 milioni di abitanti ed era molto arretrata sia socialmente che economicamente. L’80% della popolazione era analfabeta, l’economia si basava ancora sull’agricoltura e vi era un enorme divario tra Nord e Sud che originò la questione meridionale. Il nuovo governo, quindi, oltre a risolvere i problemi economici dell’Italia, doveva anche cementare un’identità nazionale ancora inesistente. Questa assenza di identità nazionale si manifestò nell’Italia meridionale con il brigantaggio e con rivolte popolari per la mancata distribuzione delle terre ancora nelle mani dei latifondisti.A questi problemi vanno aggiunti la maggiore pressione fiscale del nuovo governo italiano rispetto al precedente borbonico e l’introduzione della leva obbligatoria sconosciuta nell’Italia meridionale. Nei primi quindici anni successivi all’unità , dal 1861 al 1876, l’Italia fu guidata da un raggruppamento politico, la cosiddetta Destra storica, che era espressione dell’aristocrazia e della borghesia liberale moderata del Centro-Nord del paese. Furono questi uomini (a cominciare da Bettino Ricasoli, capo del governo dopo l’improvvisa morte di Cavour, 6 giugno 1861) ad affrontare l’insieme di problemi che la vita del nuovo stato italiano presentava. Il primo di tali problemi era il compimento dell’unità , cui mancavano ancora il Veneto, dominio austriaco, e Roma, soggetta al potere temporale del papa, che aveva rifiutato di riconoscere il nuovo stato. E se l’annessione del Veneto fu ottenuta abbastanza facilmente, grazie all’alleanza con la Prussia nella guerra contro l’Austria del 1866, assai più spinosa era la questione romana, perché agire con la forza avrebbe significato mettersi in urto con Napoleone III, tradizionale difensore del papato. Solo dopo la caduta dell’imperatore francese il governo italiano si decise all’azione: il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono in Roma, che fu annessa allo stato italiano. Un secondo ordine di problemi riguardava l’aspetto istituzionale e amministrativo: quali istituzioni avrebbe avuto il nuovo stato unitario? L’alternativa che si pose alla classe dirigente fu quella fra accentramento e federalismo. Fu seguita la prima via. Il governo della Destra realizzò in primo luogo l’unificazione monetaria e finanziaria, trasformando la lira piemontese nella moneta nazionale. Poi sviluppò una robusta politica di investimenti pubblici, soprattutto nel settore ferroviario, ottenendo risultati di rilievo. Questa politica fu resa possibile in parte ricorrendo a prestiti esteri, ma soprattutto grazie a un pesante inasprimento del prelievo fiscale. La Destra non seguì certo una politica favorevole alle popolazioni meridionali. Sono queste le condizioni sociali in cui si colloca il grave fenomeno del brigantaggio, che insanguinò il Mezzogiorno sino al 1865. Le bande dei cosiddetti briganti prendevano di mira i politici locali, assaltando le loro fattorie, devastando e uccidendo; incendiavano gli archivi comunali per distruggere i documenti fiscali e di leva. La risposta del governo fu la repressione militare. Il ceto politico della Destra omogeneo, ma espressione di una base sociale estremamente esigua. La legge elettorale sarda, adottata anche in Italia, prevedeva un suffragio molto ristretto in base al censo: 166 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio solo l’1,9 per cento degli italiani aveva diritto di voto.Anche in Italia si pose l’esigenza di un ampliamento del diritto di voto: ed era questo il primo punto del programma elettorale che la Sinistra presentò nel 1875. Gli altri erano il decentramento amministrativo, l’istruzione obbligatoria, una maggiore giustizia fiscale. Su questo programma la Sinistra vinse le elezioni del 1876 e andò alla guida del paese. Nel raggruppamento politico denominato Sinistra confluivano in realtà uomini di diversa provenienza e orientamento: vi erano liberali riformatori, come il nuovo capo del Governo Agostino Depretis; rappresentati della borghesia settentrionale, terrieri meridionali; vi erano ex garibaldini e mazziniani, come Francesco Crispi; professionisti e intellettuali meridionali, come Francesco De Sanctis. Questi ultimi finirono tuttavia col ridursi in pratica alla riforma elettorale del 1882 che portò gli elettori da seicentomila e oltre due milioni, corrispondenti al 7% della popolazione. Nel gennaio del 1878 era morto Vittorio Emanuele II e gli era succeduto il figlio Umberto I (1878-1900). Gli ambiziosi programmi del governo cozzarono contro una situazione internazionale sfavorevole e, per quanto durante l’età di Depretis (1876-87) si registrasse un inizio di industrializzazione, lo sviluppo economico generale dell’Italia fu inferiore alle speranze e coincise con la grave crisi agricola degli anni Ottanta. Inoltre, per assicurarsi di volta in volta una maggioranza in parlamento, egli accentuò il cosiddetto trasformismo, contribuendo a rendere ancora più incerta la linea di demarcazione tra destra e sinistra e tra i vari gruppi basati su antagonismi regionali e clientelari. Per adeguare la politica estera italiana a quelle delle potenze europee venne iniziata un’azione coloniale che nel 1885, dopo la forzata rinuncia della Tunisia, si indirizzò verso la conquista dell’Eritrea. La mancanza di riguardi della Francia verso gli interessi mediterranei dell’Italia provocò un deterioramento nei rapporti italo-francesi, favorendo l’orientamento della diplomazia italiana verso Berlino e Vienna, così da portare nel 1882 alla stipulazione della Triplice Alleanza. Questo indirizzo politico ebbe il suo più intransigente sostenitore in Francesco Crispi. Dopo aver abbandonato la sinistra, egli era entrato nel gioco del trasformismo che nel 1887 gli consentì di succedere a Depretis. Crispi accentuò il protezionismo economico in chiave essenzialmente antifrancese, provocando una guerra doganale e che ebbe effetti disastrosi sulla produzione agricola, soprattutto meridionale. Egli cercò inoltre di instaurare un regime forte non privo di aperture riformatrici, ma soprattutto teso alla ricerca di una nuova grandezza coloniale che avrebbe definitivamente travolto nel disastro di Adua (marzo 1896). La notizia della disfatta di Adua giunse in un’Italia in preda al timore di una rivoluzione sociale, sollevato dal dilagare degli scioperi agrari e dall’occupazione violenta delle terre culminata nelle imponenti rivolte siciliane dei fasci.Vi fu un tentativo di reazione autoritaria che vide la militarizzazione dei pubblici dipendenti, la chiusura delle principali università, lo scioglimento delle principali università , lo scioglimento di associazioni operaie e filantropiche, la soppressione di vari giornali, l’arresto e la condanna di tutti i leaders di sinistra.Al di là della fallimentare impresa coloniale, il governo di Francesco Crispi indirizzò il sistema politico italiano in direzione di un rafforzamento dello stato e di un marcato autoritarismo. Crispi realizzò importanti riforme (miglioramento dell’efficienza della burocrazia; ampliamento del diritto di voto nelle elezioni locali; eleggibilità dei sindaci; riforma della sanità e della pubblica assistenza). Fra il 1896 e il 1908 l’economia italiana conobbe una fase di crescita e di profonde trasformazioni: è in quell’epoca che si situa il decollo industriale italiano. Grazie alla protezione doganale il settore tessile, l’industria saccarifera, l’industria siderurgica e l’industria idroelettrica conobbero una forte crescita. L’industria meccanica crebbe, specie nella produzione di materiale ferroviario, turbine e caldaie, utensili di precisione, macchine da cucire, macchine per scrivere e, soprattutto, automobili: nel 1899 nacque la FIAT, Fabbrica italiana automobili Torino. Il decollo industriale di fine Ottocento avviò la trasformazione in società industriale in grado di competere sui mercati internazionali. Tuttavia questo sviluppo fu caratterizzato sin dall’inizio da pesanti squilibri: il protezionismo ebbe l’effetto di approfondire il divario fra la produttività dell’agricoltura settentrionale, già sviluppata e capace di rinnovarsi tecnicamente, e quella meridionale, che al riparo della tariffa doganale poté sopravvivere senza rinnovarsi. Giolitti, ministro dell’interno nel 1901-03 e poi presidente del consiglio, con brevi interruzioni, sino al 1914, mirò a unire sviluppo economico e libertà politica. Modificando un atteggiamento repressivo abituale sin dall’unità , lo statista piemontese mantenne il governo in posizione di neutralità . L’altro polo della strategia giolittiana era rappresentato dalle riforme sociali ed economiche, quali tutela del lavoro di donne e fanciulli, miglioramenti dell’assistenza infortunistica e pensionistica, obbligatorietà del riposo 167 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio settimanale e la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita (1912) attraverso l’istituzione di un apposito ente, l’Ina (Istituto Nazionale Assicurazioni). Il primo atto della storia coloniale italiana fu l’acquisto della baia di Assab nel mar Rosso, nel 1869. Peraltro si capì ben presto che gli interessi economici erano ben limitati. Nel 1885 seguì la facile occupazione di Massaua andata a buon fine più per la rinuncia a difendersi decisa dai capi abissini impegnati nel contrasto con i sudanesi che minacciavano di occupare la parte settentrionale dell’Etiopia, che per il puro merito dell’azione orchestrata da Roma. La conquista della Libia (1911-12) comportò spese ingentissime, provocò oltre 3000 caduti e costrinse l’Italia a fronteggiare l’endemica guerriglia islamica. La Libia non aveva al momento grande rilievo economico, né come fonte di materie prime, né come occasione di impiego per i lavoratori italiani. Nel luglio del 1912 la marina italiana occupava, dopo quattro secoli, Rodi e le isole del Dodecaneso appartenenti alla Turchia. Quest’azione era il risultato indiretto dell’intervento in Libia per cui Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio dei Ministri del Governo Italiano aveva intessuto una abile ragnatela diplomatica. Egli infatti prese accordi con la Francia, concordando anche un’eventuale espansione francese nel Marocco in cambio del consenso ad una eventuale penetrazione italiana in Tripolitana e Cirenaica, territori ormai solo debolmente controllati dalla Turchia. Nel 1913 si tennero le prime elezioni a suffragio maschile della storia italiana........” 150° Anniversario Unità d’Italia L’Unità d’Italia (1861-1918) “Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861”. Con queste parole che costituiscono parte del testo della legge n. 4671 del Regno di Sardegna aveva luogo la proclamazione ufficiale del Regno d’Italia, facendo seguito alla seduta del 14 marzo 1861 in occasione della quale il Parlamento aveva votato il relativo disegno di legge. Il 21 aprile 1861 quella legge diviene la prima del neocostituito Regno d’Italia. Quest’ultimo è il risultato di un percorso iniziato con un’Italia divisa in sette Stati, attraverso la Prima guerra d’indipendenza (1848-49), la Seconda guerra d’indipendenza (1859- 1861) e la spedizione dei mille (1860) e conclusosi con la proclamazione di Vittorio Emanuele II Re d’Italia. Il processo di unificazione continuò con la Terza guerra d’indipendenza (1866), la seconda spedizione di Garibaldi verso Roma (1867) e l’annessione di Roma (1870). Con la Prima guerra mondiale (1915-1918) si concluse il processo di unificazione nazionale che portò all’Italia dei giorni nostri.”… (tratto da pagine web del sito del Ministero della Difesa) 168 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio composta da nazioni libere, democratiche e repubblicane. Ispirato da questi princìpi, ampliò il proprio obiettivo e unendosi ad altri rivoluzionari stranieri fondò la Giovine Europa (1834). Alla fine del 1836 dovette lasciare la Svizzera, dove si era rifugiato, e si trasferì a Londra, dedicandosi a studi letterari, all’attività di giornalista e organizzando scuole per i figli degli emigrati italiani. Il soggiorno londinese fu decisivo nella maturazione del suo pensiero politico, si assunse così i diritti dei lavoratori tra i punti di forza della sua lotta. Nel biennio rivoluzionario 1848-49 Mazzini, dopo un soggiorno in Francia, fece ritorno in Italia per partecipare insieme con Carlo Cattaneo al movimento patriottico di Milano, quindi per dar vita a un governo democratico a Firenze e dirigere poi la breve esperienza della Repubblica Romana. Diede il suo appoggio all’insurrezione antiaustriaca scoppiata nel Regno Lombardo-Veneto tra la fine del 1852 e l’inizio del 1853, il cui fallimento costò la vita a molti patrioti: a questa ennesima sconfitta Mazzini reagì fondando il Partito d’azione, tramite il quale ispirò e appoggiò alcuni tentativi insurrezionali, tra cui la spedizione di Carlo Pisacane in Campania. Nel 1857, a Genova, cercò con un colpo di mano di impadronirsi di un deposito di armi, ma l’azione venne scoperta e gli fruttò una seconda condanna in contumacia. Mazzini tornò nuovamente a Londra e allo scoppio della seconda guerra d’indipendenza invitò il popolo a combattere contro l’Austria. Nel 1860 raggiunse Giuseppe Garibaldi a Napoli con il tentativo di spingerlo a continuare l’impresa dei Mille per liberare Venezia e Roma. Nel 1870 organizzò e condusse personalmente una spedizione militare per liberare Roma, che nelle sue intenzioni doveva partire dalla Sicilia: fermato a Palermo, venne incarcerato a Gaeta; uscì poco dopo grazie a un’amnistia, ma fu di nuovo costretto all’esilio, prima a Londra e poi a Lugano. Stabilitosi in Italia nel 1872 sotto il falso nome di dottor Brown, trascorse i suoi ultimi giorni a Pisa, circondato dagli amici a lui più vicini. Sintesi del pensiero Come molto acutamente è stato osservato, “le concezioni di Rosmini e Gioberti sono dominate dall’idea di tradizione; il pensiero di Mazzini è dominato dall’idea di progresso. Ma l’apparente antitesi delle due concezioni, e l’aspra polemica che su di essa s’impernia, non riescono a celare la loro identità d’ispirazione: il progresso stesso è la tradizione ininterrotta del genere umano, come la tradizione non è che il suo progresso incessante. Tuttavia accentuare, come fa Mazzini, il concetto di progresso implica una differenza importante dal punto di vista pratico-politico; giacché significa far servire l’idea della tradizione al fine della trasformazione della società e delle istituzioni anzicché al fine della loro conservazione” (N. Abbagnano). Giuseppe Mazzini (1805-1872) è stato definito appunto “apostolo di una nuova era”, nuova sia dal punto di vista storico-politico che da quello religioso. Su quali presupposti filosofici egli fonda il suo ideale? “Dio è Dio e l’umanità è il suo profeta”. Tra Dio e l’umanità non c’è abisso: l’umanità è l’“incarnazione” di Dio, incarnazione continua, incessante. Essa, nel suo sviluppo, manifesta e compie la legge di Dio, la legge divina del progresso storico, al di là degli obiettivi immediati delle volontà individuali. Essa, insomma, è la vera “testimone” di Dio e “la sola interprete della legge di Dio sulla terra”. La Storia, pertanto, non è solo storia umana, ma anche, e soprattutto, storia divina: è il progressivo compimento del regno di Dio sulla terra attraverso l’opera dell’uomo. Il compito dell’uomo, pertanto, è di secondare consapevolmente l’azione che attraverso di lui la Divina Provvidenza attua nel corso degli eventi. Come può l’uomo attingere la verità, cioè conoscere la direzione, individuare gli obiettivi della sua azione? Ricorrendo alla “coscienza” e alla “tradizione”. Infatti nella coscienza si può cogliere la volontà divina e nella tradizione si può riscontrare già il suo parziale compimento. Esse sono quindi i soli criteri per la verità, purché usati in modo coordinato: infatti la coscienza individuale, isolata in se stessa, porta all’anarchia, mentre la tradizione, da sola, induce all’immobilismo e al dispotismo. E che cosa indicano coscienza e tradizione? La Rivoluzione Francese ha concluso quel moto storico verso l’affermazione dei “diritti dell’uomo” in quanto individuo. L’epoca post-rivoluzionaria apre ora il discorso, secondo il Mazzini, dei “doveri dell’uomo” cioè quelli connessi al fatto che l’individuo, reso 171 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio ormai sovrano, per progredire ulteriormente deve “aprire” la sua esistenza, allargare il suo essere fino ad identificarsi con la realtà mistica dell’umanità. Se dunque finora egli ha conquistato la sua libertà, ora deve lottare per la “libertà” e per il “progresso” dell’Umanità. Ciò egli può fare agendo all’interno delle “sfere” della “famiglia” e della “nazione”, entro cui solo l’individuo può perseguire “il perfezionamento morale di se stesso e d’altrui”, o, per dirla in modo diverso, “il perfezionamento di se stesso attraverso gli altri e per gli altri”. Chi concepisca la vita in tal modo, sentirà evidentemente d’avere una missione da svolgere. “La vita è una missione”; essa dev’essere guidata da una sola legge, quella del “dovere”, che indica, quale scopo degli individui come dei popoli, l’impegno costante al loro riscatto da ogni schiavitú, alla realizzazione cioè della libertà, con la quale si compie il progresso dell’umanità verso una nuova società umana che realizzi in sé il Regno di Dio. La costituzione dell’unità politica dell’Italia è per Mazzini, dunque, un dovere “religioso”, un obiettivo prossimo perché gli italiani vivano come nazione, superando ogni oppressione e divisione e realizzando la loro libertà; ossia è una tappa imprescindibile nel cammino verso la realizzazione dell’Umanità. Bisogna che gli individui rinuncino alla loro sovranità per riconoscersi in quella della Nazione, realtà super-individuale che sola può dare senso e direzione “superiore” all’azione individuale. Il vero sovrano dunque deve essere il Popolo, che, in quanto realtà collettiva, è il luogo d’azione della forza della Provvidenza con cui Dio guida e regola il corso del mondo. Solo identificandosi col Popolo l’individuo acquista coscienza del Fine religioso della storia, e del compito che egli, insieme agli altri, ha da realizzare concretamente, in un dato momento storico, per l’attuazione di quel Fine. In quanto caratterizzato da un compito “religioso” il Popolo è realtà religiosa. E lo Stato, ossia la sua organizzazione politica, non può non avere una funzione religiosa. Una politica senza una religione è un assurdo. Sicché assurdo è il concetto di Stato laico, o addirittura di Stato ateo. Lo Stato deve infatti assumersi l’onere di unificare il Popolo intorno alla sua missione e di promuovere cosí l’educazione progressiva verso la perfezione individuale e collettiva. In tal senso esso deve essere una Chiesa. Dati questi presupposti, era inevitabile che Mazzini si opponesse alla visione materialistica della storia quale delineata da Marx e da Engels, e contestasse l’azione della Prima Internazionale. Quella visione, a suo giudizio, negava proprio i tre elementi fondamentali della sua concezione: Dio, patria e proprietà. Senza Dio, l’umanità, a suo giudizio, procederebbe senza una legge, e pertanto non potrebbe attuare alcun progresso; i popoli non avrebbero un disegno complessivo in cui inscrivere la loro opera, e gli individui sarebbero abbandonati ai loro impulsi sensibili, che sono variabili e incoerenti, preda del loro arbitrio, fiduciosi solo nella loro forza, e senza timore per alcuna sanzione. Negare la patria, poi, 172 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio significherebbe privarsi di un imprescindibile “punto d’appoggio” per il compimento del progresso, per il perfezionamento dell’uomo. Senza patria non v’è modo di rendere concreto il progresso, di assumerlo come fine individuale e collettivo. Sopprimere infine la proprietà individuale implicherebbe estinguere ogni incentivo alla produzione. L’uomo tenderebbe solo alla sua sopravvivenza, e non mirerebbe al suo benessere, né a quello della collettività in cui vive. La proprietà, sostiene Mazzini, è legittimata dal lavoro che la produce; essa è “il segno visibile della nostra parte nella trasformazione del mondo materiale, come le nostre idee, i nostri diritti di libertà e di inviolabilità della coscienza, sono il segno della nostra parte nella trasformazione del mondo morale”. Se la società capitalistica, fondata sulla proprietà, ha prodotto e produce danni all’umanità, non per questo la proprietà perde il carattere di elemento stimolatore del progresso. La stortura delle società capitalistiche sta nel fatto che la proprietà è privilegio di pochi; camminare sulla via del progresso, allora, significa renderla sempre piú accessibile a un numero sempre maggiore di uomini attraverso il lavoro che essi compiono. Anche con Mazzini dunque si compie il recupero della tradizione spiritualistica italiana; anche per lui esso diventa il fondamento ideale per una visione complessiva della storia in cui si inscriva l’impegno politico dell’uomo dei suoi tempi per la soluzione, in senso “rivoluzionario”, dei problemi da cui erano afflitte l’Italia e l’intera Europa. Per lui, quindi, la tradizione religiosa offre la base salda per l’unificazione e il progresso della società, delle nazioni e dell’umanità intera. L’uomo nuovo sarà, allora, l’uomo cosciente del suo destino e del suo compito; cioè sarà un uomo che si fa strumento consapevole – ma nel segno del progresso, non della conservazione – del disegno provvidenziale di Dio, trascendenteimmanente. 173 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio messo in minoranza dalla sinistra con 242 voti contro 181 è costretto a dimettersi; il re affida la formazione del nuovo governo al leader della sinistra Agostino Depretis. Il 25 marzo 1876, nasce il primo ministero della sinistra, presieduto da Depretis; Zanardelli vi entra come ministro dei Lavori Pubblici, ma si dimette il 7 novembre del 1877 non volendo firmare la legge sulle convenzioni ferroviarie, convinto che questa data ai privati (gruppi industriali e finanziari, con la solita scusa di difendere l’industria e il lavoro) non tuteli sufficientemente l’interesse pubblico. Il 24 marzo 1878 entrato nel primo gabinetto Cairoli, Zanardelli è chiamato a reggere l’Interno, ma in dicembre, a seguito dell’attentato al Re di Passanante, Zanardelli è travolto dalla crisi che ne scaturisce e che trae origine essenzialmente dal giudizio che l’opposizione dà alla sua azione politica. Dimessosi riprende con successo l’attività forense nella città natale e pubblica il volume su L’avvocatura. Il 29 maggio 1881 è ministro di Grazia e Giustizia nel IV governo Depretis, fino al 12-19 maggio 1883 quando si apre la crisi sulla validità del trasformismo (che Felice Cavallotti “suppone di putredine”). Zanardelli si dimette perché anche lui è contrario alla politica del trasformismo. Il 25 novembre entra a far parte della cosiddetta Pentarchia che si propone di rappresentare un’alternativa costituzionale al trasformismo di Depretis. Ne fanno parte Benedetto Cairoli, Giovanni Nicotera,Alfredo Baccanini, e Francesco Crispi. Il programma definito di “pura sinistra”, insiste sulla libertà di parola e di riunioni, non garantiti dal governo in carica. La Pentarchia resta unita fino al 1887, poi Zanardelli e Crispi accettano di far parte dell’ultimo ministero Depretis. Zanardelli torna ad essere responsabile della Giustizia per quasi quattro anni: dal 4 aprile 1887 al febbraio 1891 (prima con Depretis e poi con Crispi) varando una serie d’importanti provvedimenti: il nuovo Codice Penale. Il codice unifica la legislazione penale a livello nazionale e sostituisce il Codice Sardo che era stato esteso dopo l’unificazione alla quasi totalità dell’Italia. (fra i tanti articoli compaiono l’abolizione della pena di morte; non contenendo articoli diretti a vietarlo, sanciva la libertà di sciopero; la punizione degli ecclesiastici che incitassero disubbidienza delle leggi dello Stato; sulla liberà di riunione e manifestazioni, non erano proibite ma erano obbligati i promotori a darne preavviso ventiquatt’ore prima alle autorità alle quali era attribuita la facoltà di consentirle o impedirle. Altri provvedimenti, il nuovo Codice di Commercio, la Cassazione Unica Penale e la normativa sul lavoro femminile e minorile. Dopo le elezioni generali, dal 24 novembre 1892 al 22 febbraio 1894 Zanardelli è presidente della Camera, è rieletto il 6 aprile 1897 e resta in carica sino al 26 gennaio 1898 (ma dal dicembre 1897 al maggio 1898 è ancora ministro della Giustizia nel gabinetto Di Rudinì). È per la terza ed ultima volta alla presidenza del Parlamento dal 17 novembre 1898 al 30 maggio 1899, quando si dimette per manifestare l’opposizione della sinistra alle spese militari e ai provvedimenti politici. Il 29 luglio 1900, viene ucciso a Monza Umberto I, sale al trono Vittorio Emanuele III, che guarda con simpatia a uomini come Zanardelli e Giolitti, prima osteggiati dal padre. C’è una evoluzione in senso progressista del governo italiano. Alle dimissioni del governo Saracco (per i fatti di Genova – scioglimento della Camera del Lavoro per ordine del prefetto, seguito da una ondata di scioperi) il Re consapevole della necessità di una svolta in senso liberale assegna proprio a Zanardelli l’incarico di costituire il nuovo governo. Il 15 febbraio 1901 è nuovamente a capo del Governo con Giolitti. La sua scelta determinò la fine dell’indirizzo autoritario di fine secolo e l’avvio della svolta liberale alla politica governativa nei conflitti di lavoro, che si sviluppano con intensità crescente nell’agricoltura e nell’industria, favorendo la crescita e l’organizzazione del movimento sindacale. Alcuni grossi problemi: la questione meridionale; l’abolizione dei dazi di consumo, ricevono molte attenzioni nel governo e fra l’opinione pubblica. Nel settembre 1902 proprio sulla questione meridionale, Zanardelli viaggia in meridione, in Basilicata, per rendersi conto direttamente dei gravi problemi che assillano una delle regioni più povere d’Italia. L’11 giugno 1903 dopo le polemiche dimissioni di Giolitti come ministro degli interni (bocciatura di una mozione della sinistra su una inchiesta parlamentare per far luce su alcuni illeciti del ministro della marina) Zanardelli non accoglie la richiesta di aprire una crisi di governo, ma si limita ad assumere a interim questo ministero e assegnare quello della marina a interim al ministro degli esteri. Pochi mesi dopo scoppiano le tensioni dell’Italia con l’Austria, in ottobre manifestazioni irredentistiche. 175 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio Il 21 agosto in seguito alle critiche mosse al comportamento del governo, sia da destra che da sinistra, Zanardelli, ormai anziano (77enne) e stanco il 21 ottobre del 1903 rassegna le dimissioni dal ministero al Re, che dà l’incarico per costituire il nuovo a Giolitti. Due mesi dopo, ritiratosi a Maderno, Zanardelli il 26 dicembre muore. Estratti dal codice penale Zanardelli, del 1889: ARTICOLO 140 Chiunque per offendere uno dei culti ammessi nello Stato, impedisce o turba l’esercizio di funzioni o cerimonie religiose è punito con la detenzione sino a tre mesi e con la multa da lire cinquanta a cinquecento. Se il fatto sia accompagnato da violenza, minaccia o contumelia, il colpevole è punito con la detenzione da tre a trenta mesi e con la multa da lire cento a millecinquecento. ARTICOLO 141 Chiunque, per offendere uno dei culti ammessi nello Stato, pubblicamente vilipende chi lo professa, è punito, a querela di parte, con la detenzione sino ad un anno o con la multa da lire cento a lire tremila. ARTICOLO 142 Chiunque, per disprezzo di uno dei culti ammessi nello Stato, distrugge, guasta, o in altro modo vilipende in luogo pubblico cose destinate al culto, ovvero usa violenza contro il ministro di un culto o lo vilipende, è punito con la detenzione da tre a trenta mesi e con la multa da lire cinquanta a millecinquecento. Qualora si tratti di altro delitto commesso contro il ministro di un culto nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, la pena stabilita per tale delitto è aumentata di un sesto. Il Lago di Garda tra natura e battaglie risorgimentali Le colline moreniche, tra la sponda meridionale del Lago di Garda e la Pianura mantovana, rappresentano un luogo di suggestivo incanto. Tra una lussureggiante natura, borghi rurali di mulini. Ma questo stesso paesaggio fece da palcoscenico a cruente battaglie delle Guerre d’Indipendenza. Sono stati creati molti percorsi sui luoghi delle battaglie percorribili a piedi o in bicicletta. Nelle campagne tra Sommacampagna e Custoza si trova il percorso del Tamburino Sardo assieme a quello storico della battaglia di Custoza del 1848/49 , il “CamminaCustoza”: un invito ai visitatori a riscoprire un intero patrimonio di valori storici, naturali ed enogastronomici. L’itinerario che vi proponiamo è lungo circa 60 km, con partenza e rientro a Peschiera. Si raggiunge Custoza, dove si può visitare l’Ossario che si eleva su di un colle e raccoglie le salme di 4.600 combattenti delle varie battaglie. A Villafranca, prescelta come sede per la firma dell’armistizio del 1859 sottoscritto da Napoleone III e da Francesco Giuseppe, si può vedere la Villa Gandini-Moreni dove avvenne la firma e il Museo del Risorgimento, ospitato nei locali del castello, che raccoglie cimeli, armi e documenti. In paese si trova il Monumento al Quadrato, che ricorda l’accanita resistenza di un reggimento di fanteria costretto nel “quadrato” durante la III guerra d’Indipendenza. A Valeggio si può sostare al palazzo che fu dei Maffei, sede del quartier generale di Carlo Alberto nel 1848 e di Napoleone III nel 1859, dopo la battaglia di Solferino. In località Borghetto si erge il magnifico Ponte Visconteo che protegge il Mincio con i lunghi muraglioni e il castello scaligero; anche a Monzambano un castello del XII secolo 176 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio L’UNITÀ D’ITALIA AI TEMPI DI D’ANNUNZIO Il “viaggio” continua… ed arriviamo a…: Gabriele d’Annunzio, è stato uno scrittore, poeta, militare e politico italiano, simbolo del Decadentismo ed eroe di guerra. Soprannominato il Vate cioè “il profeta”, occupò una posizione preminente nella letteratura italiana dal 1889 al 1910 circa e nella vita politica dal 1914 al 1924. Sia in letteratura che in politica lasciò il segno ed ebbe un influsso sugli eventi che gli sarebbero succeduti. Biografia Gabriele d’Annunzio nacque a Pescara il 12 marzo 1863. Terzo di cinque fratelli, visse un’infanzia felice, distinguendosi per intelligenza e vivacità. Della madre, Luisa de Benedictis, erediterà la fine sensibilità, del padre, Francesco D’Annunzio, il temperamento sanguigno, la passione per le donne e la disinvoltura nel contrarre debiti, cosa che portò la famiglia da una condizione agiata ad una difficile situazione economica. Non tardò a manifestare una personalità ambiziosa, priva di complessi e inibizioni, portata al confronto competitivo con la realtà. Egli frequenta il liceo al prestigioso istituto Convitto Cicognini di Prato. Dopo aver concluso gli studi liceali giunse a Roma, con una notorietà che andava crescendo e si iscrisse alla Facoltà di Lettere. D’Annunzio intraprende una carriera giornalistica soprattutto per esigenze economiche, ma attratto alla frequentazione della Roma “bene” dal suo gusto per l’esibizione della bellezza e del lusso, nel 1883 sposò, con un matrimonio “di riparazione”, nella cappella di Palazzo Altemps a Roma, Maria Hardouin duchessa di Gallese, da cui ebbe tre figli.Tuttavia, le esperienze per lui decisive furono quelle trasfigurate negli eleganti e ricercati resoconti giornalistici. Tra il 1891 e il 1893 d’Annunzio visse a Napoli. In questo periodo ebbe il suo primo approccio agli scritti di Nietzsche che vennero in buona parte fraintesi, sebbene ebbero l’effetto di liberare la produzione letteraria di d’Annunzio da certi residui moralistici ed etici.Tra il 1893 e il 1897 d’Annunzio intraprese un’esistenza più movimentata che lo condusse dapprima nella sua terra d’origine e poi ad un lungo viaggio in Grecia. Nel 1897 volle provare l’esperienza politica, vivendo anch’essa, come tutto il resto, in un modo bizzarro e clamoroso: eletto deputato della destra, passò quasi subito nelle file della sinistra, giustificandosi con la celebre affermazione “vado verso la vita”. Sempre nel 1897 iniziò una relazione con la celebre attrice Eleonora Duse, con la quale ebbe inizio la stagione centrale della sua vita. Per vivere accanto alla sua nuova compagna, d’Annunzio si trasferì a Firenze, nella zona di Settignano dove affittò la villa “La Capponcina”, trasformandola in un monumento del gusto estetico decadente. È in questo periodo che si situa gran parte della drammaturgia dannunziana che è piuttosto innovativa rispetto ai canoni del dramma borghese o del teatro dominanti in Italia e che non di rado ha come punto di riferimento la figura attoriale della Duse. La relazione con Eleonora Duse si incrinò nel 1904. Nel 1910 d’Annunzio si trasferì in Francia: già da tempo aveva accumulato una serie di debiti e per evitare i creditori aveva preferito allontanarsi dal proprio Paese. L’arredamento della villa fu messo all’asta e d’Annunzio per cinque anni non rientrò in Italia. A Parigi era un personaggio noto. Ciò gli permise di mantenere inalterato il suo dissipato stile di vita fatto di debiti e frequentazioni mondane. Pur lontano dall’Italia collaborò al dibattito politico prebellico, pubblicando versi in celebrazione della guerra di Libia o editoriali per diversi giornali nazionali (in particolare per il Corriere) che a loro volta gli concedevano altri prestiti. Nel 1910 d’Annunzio aderì al progetto di Corradini. Dopo il periodo parigino si ritirò ad Arcachon, sulla costa Atlantica, dove si dedicò all’attività letteraria. Nel 1915 ritornò in Italia, dove rifiutò la cattedra di letteratura italiana che era stata di Pascoli; condusse 178 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 9 Il lungo Risorgimento: dai moti carbonari a Zanardelli e d’Annunzio immediatamente una intensa propaganda interventista. Il discorso celebrativo che d’Annunzio pronunciò a Quarto il 5 maggio 1915 (in occasione della sagra dei Mille) suscitò entusiastiche manifestazioni interventiste. Con l’entrata in Guerra dell’Italia, il 24 maggio 1915 (il cosiddetto “maggio radioso”), d’Annunzio si arruolò volontario e partecipò ad alcune azioni dimostrative navali ed aeree. Nel gennaio del 1916 fu costretto a un atterraggio d’emergenza e ciò lo portò alla perdita di un occhio.Visse così un periodo di convalescenza, durante il quale fu assistito dalla figlia Renata.Tuttavia, ben presto tornò in guerra e continuò a partecipare ad azioni belliche aeree e di terra. Al volgere della guerra, d’Annunzio trovò ben presto un sostenitore in Benito Mussolini, che di qui al 1922 avrebbe portato all’ascesa del fascismo in Italia. Partecipò all’impresa di Fiume nel 1919, per far sì che l’Italia rivendicasse i propri diritti. Deluso dall’esperienza di Fiume, nel febbraio 1921 si ritirò in un’esistenza solitaria nella villa di Cargnacco (comune di Gardone Riviera) che pochi mesi più tardi acquistò. Ribattezzata il Vittoriale degli Italiani fu ampliata e successivamente aperta al pubblico. Qui lavorò e visse fino alla morte. Morì nella sua villa il 1º marzo 1938 per un’emorragia cerebrale. Fu sepolto nel mausoleo del Vittoriale. L’impresa di Fiume “Mio caro compagno, il dado è tratto! Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Il Dio d’Italia ci assista. Mi levo, febbricitante. Ma non è possibile differire.Anche una volta lo spirito domerà la carne miserabile. Sostenete la causa vigorosamente, durante il contatto Vi abbraccio.” Questo è l’inizio della lettera scritta da d’Annunzio a Mussolini per annunciargli l’inizio dell’impresa di Fiume. D’Annunzio, insieme ad un gruppo di ufficiali e ad un contingente di circa mille uomini, arrivò a Fiume il 12 settembre 1919. Il 20 settembre dello stesso anno d’Annunzio ottenne i pieni poteri e venne qualificato come “comandante della città di Fiume. Sul successo di questa impresa, egli annunciò a Mussolini un nuovo progetto: marciare su Roma e prendere il potere.Alla vigilia delle elezioni, d’Annunzio riprende la sua attività espansionistica. Così occupò Zara, poi Sebenico e Spalato. Le elezioni del 1919 vedono la sconfitta dei fascisti e subentra Giolitti come Presidente del Consiglio. Nel 1920 finisce l’avventura fiumana di Gabriele d’Annunzio e lo stato di Fiume viene dichiarato indipendente. La Dalmazia passa alla Jugoslavia, ma la città di Zara all’Italia. D’Annunzio deve andarsene da Fiume. Vittoriale degli italiani Il Vittoriale degli Italiani è la cittadella monumentale costruita a Gardone Riviera (BS) sulle rive del lago di Garda dal poeta Gabriele d’Annunzio assieme all’architetto Giancarlo Maroni dal 1921 al 1938. Il Vittoriale è, dunque, un complesso di edifici, vie, piazze, teatri, un museo, giardini, e corsi d’acqua eretto a memoria della propria vita d’eccezione e delle imprese eroiche degli italiani durante la Grande Guerra. Fra i mediterranei alberi d’olivo e gli svelti cipressi sono collocati i cimeli delle imprese più audaci: il MAS della Beffa di Buccari, l’aereo Ansaldo S.V.A. del volo su Vienna, fino alla prua dell’incrociatore Puglia rimontata su uno sperone roccioso al centro del parco. 179 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Chi e dove Classi coinvolte Docenti referenti progetto 10 Liceo Scientifico Copernico - Brescia Terza H, Quinta F, Quinta B Rossana Cerretti L’azione e il dramma. D’Annunzio e il Risorgimento tra Garibaldi e Verdi Metodologia e didattica del progetto Il lavoro di ricerca, svolto da un gruppo di studio formato da alunni del Liceo Scientifico Copernico di Brescia appartenenti a classi diverse, ha preso in considerazione il rapporto tra Gabriele d’Annunzio e le grandi personalità del Risorgimento, allo scopo di evidenziare in che modo tale periodo storico e le posizioni politiche espresse in quel contesto, avessero poi influenzato lo scrittore abruzzese, e, più in generale, alcuni orientamenti ideologici della fine dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento. Gli alunni hanno innanzitutto analizzato le canzoni, tratte dal Libro di Elettra, dedicate a Garibaldi e Verdi, per poi ampliare il loro orizzonte attraverso la ricerca, anche presso la biblioteca del Vittoriale, di altri riferimenti a queste due grandi personalità all’interno dell’opera dannunziana, studiando il contesto in cui essi erano inseriti e gli aspetti che il Vate privilegiava sia a proposito delle diverse imprese garibaldine e dei loro protagonisti sia del melodramma verdiano, inteso come sintesi delle arti. Sono state consultate, sempre presso la biblioteca del Vittoriale, le opere biografiche in possesso di d’Annunzio relative a Garibaldi, soprattutto per ricostruire il suo metodo di lavoro sulle fonti; mentre per quanto riguarda Verdi, si è fatto riferimento alle Prose di Ricerca, agli Scritti giornalistici e ai romanzi (in particolare Il fuoco e Le vergini delle rocce). Si è inoltre tenuto conto dei possibili riferimenti anche agli arredi della Prioria e ad altri monumenti presenti nel parco del Vittoriale. Sono state attentamente studiate alcune canzoni dal libro di Merope, per gli importanti riferimenti politici, e i volumi di scritti e discorsi: Il libro ascetico della giovane Italia, Per la più grande Italia, e Il sudore di sangue, nonché Il compagno dagli occhi senza cigli. Il gruppo di ricerca è composto dagli alunni: Davide Bassini, Laura Macaluso, Sara Faroni, Alice Omassi classe Terza H Francesco Corti e Francesca Gallarotti classe Quinta F Martina Tosi classe Quinta B La referente del progetto Rossana Cerretti 181 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma La Danza di Gaetano Previati, forse ispirata alle Vergini delle rocce. Il quadro si trova nella Sala dei Calchi al Vittoriale Il primo era bello, biondo, dalla chioma leonina, passava sempre calmo in mezzo alle battaglie, come se i proiettili non osassero sfiorarlo, non aveva fatto altro che combattere per tutta la vita, per terre e per mari a qualunque latitudine. L’altro, era un uomo solitario e carismatico, anche lui con quella chioma indomabile, sempre scarmigliato come se un vento l’agitasse, un gigante della terra, nato dal suolo stesso della patria, come i suoi monti, i suoi fiumi, i suoi vulcani. Nella mente di entrambi, Garibaldi e Verdi, risiedeva la potenza oceanica dell’atto creativo e la vampa improvvisa del fuoco, la forza di un grande pensiero in realizzazione. Se la personalità eclettica di D’Annunzio, è sempre capace di trovare inesauribili connessioni con qualunque periodo storico, poiché ogni precedente rappresenta per lui una tappa o un punto di riferimento della civiltà italiana e della sua cultura, a maggior ragione ciò è vero per quanto riguarda i suoi grandi “antenati” ottocenteschi.Tanto più che per lui il prototipo dell’eroe è sempre unito a quello dell’artista militante sul modello dell’Alighieri: i poeti, infatti, come afferma nelle Vergini delle rocce, devono uscire dai loro studioli e devono difendere la poesia e la bellezza, perché esse sono alla base dell’Italia e della sua identità culturale: “Difendete il Pensiero ch’essi minacciano, la Bellezza ch’essi oltraggiano! Verrà un giorno in cui essi tenteranno di ardere i libri, di spezzare le statue, di lacerare le tele. Difendete 1’antica liberale opera dei vostri maestri e quella futura dei vostri discepoli, contro la rabbia degli schiavi ubriachi. Non disperate, essendo pochi.Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo.” Per le idealità nazionali si erano battuti i grandi del Risorgimento, ma ora, alla fine dell’Ottocento, esse apparivano tradite e offuscate dalla delusione presente; quel senso di vuoto istituzionale che, sempre nelle Vergini delle rocce fa ipotizzare al protagonista Claudio Cantelmo la nascita di un nuovo re di Roma e compiangere – sentendosi in questo caso, scrittore dell’ex Regno delle due Sicilie – la dinastia borbonica e la sua drammatica distruzione, ricordata attraverso le accorate parole del principe Luzio:“Ma la voce del principe, assidua risvegliatrìce di memorie, trasmutava l’incanto.Tutti tacevano con rispetto, quando egli parlava; e non s’udiva se non la profonda voce senile che a tratti diventava rauca di collera soffocata o tremava dì cordoglio e di rammarico. Era quello un giorno nefasto per il vecchio: era l’anniversario della partenza del Re da Gaeta. Compivasi in quel giorno il ventunesimo anno di esilio”. Ebbene – egli diceva, rivolto a me, accendendosi nella sua fede, mentre la bella barba candida gli dava quasi una sembianza profetica – ebbene, Claudio, quando un Re cade come cadde Francesco di Borbone a Gaeta, da martire e da eroe, non è possibile che Iddio non lo risollevi e non gli restituisca il regno.Ascolta la mia parola, figlio di Massenzio Cantelmo, e non dimenticarla. Il Re delle Due Sicilie finirà i suoi giorni in gloria sul suo trono legittimo. E mi conceda Iddio che questo si compia prima ch’io chiuda gli occhi! Ecco l’unico mio voto.” Egli componeva al pallido fantasma regale un’apoteosi di fiamme e di sangue su le rovine della città forte.“Ammirabile fede!„ io pensava scorgendo le faville che ancora potevano accendersi nell’azzurro cinereo di quegli occhi indeboliti.“Ammirabile fede e vana! La virtù dei Borboni dorme a San Dionigi” (cioè a Saint Denis a Parigi chiesa-mausoleo dei re di Francia, tra i quali il borbone Enrico di Navarra, particolarmente ammirato da D’Annunzio). E più oltre lo scrittore abruzzese ricorda la figura di Francesco di Borbone, nel momento della partenza 182 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma da Napoli:“Mai sangue fu più timido in vene giovenili e mai sensualità fu più torpida.” Eppure la stessa bellezza di quella terra che stava abbandonando doveva almeno comunicargli “un impeto selvaggio di vita”. E invece era rimasta solo “la desolazione di quella partenza nel crepuscolo (…) e infine al sorgere del sole la rupe di Gaeta, l’ultimo rifugio destinato all’ultima ruina, dove la dignità regale doveva sottomettersi ai patti di un soldato millantatore!”. In questo romanzo tali prese di posizione vengono adottate esplicitamente contro la massa che ha creato un regime corrotto e parassitario, indegno della grande tradizione della civiltà latina. Questi concetti saranno, però, successivamente modificati, teorizzando, invece, una nuova rinascenza popolare italiana, verso paternalistici ideali eroici di massa, nel tentativo di unificare il popolo sotto il pensiero e il comando di un “tribuno”.Tentativo peraltro fin troppo riuscito, considerando che del suo linguaggio e della sua retorica, sebbene in maniera assai trita, si impossesserà in seguito il fascismo, basando su di esso la sua propaganda. Questa concezione del potere, però, a ben guardare, non è affatto estranea al Risorgimento, poiché anche tra i liberali italiani sia anticlericali sia cattolici si era già profilata a più riprese una visione politica di questo tipo, anche perché spesso, per il loro gusto storicistico, facevano riferimento a personalità del passato medievale e rinascimentale, come per esempio, Cola di Rienzo. Non a caso, infatti, lo stesso d’Annunzio ha scritto una Vita di Cola di Rienzo, nella quale rimprovera al famoso tribuno di Roma l’eccessiva clemenza nei confronti dei nobili, e l’incapacità di ben usare “della bestia e dell’uomo” secondo il consiglio del Machiavelli. I punti di svolta nella visione politica di d’Annunzio sembrano essere il libro di Elettra e il romanzo il Fuoco, nel quale troviamo il celebre discorso di Stelio Effrena alla folla in palazzo Ducale ripreso poi, come elemento a sé stante, in Allegoria dell’autunno. Da quel momento niente in d’Annunzio appare più vero del motto “Fatta l’Italia bisogna fare gli Italiani” coniato da Ferdinando Martini sulla falsariga del d’Azeglio. Ma ciò che scrive il d’Azeglio, nei Miei ricordi merita di essere riletto ancora oggi:“Gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; perché pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirvi bisogna prima riformare sé stesso; perché l’Italia, come tutt’i popoli, non potrà divenir nazione, non potrà esser ordinata, ben amministrata, forte così contro lo straniero come contro i settari dell’interno, libera e di propria ragione, finché, grandi piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere e non lo faccia bene, od il meglio che può. (…) Il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani.” D’altra parte, la sensazione di incompiutezza che prende il lettore giunto alla fine dell’Ettore Fieramosca, forse si giustifica proprio con questa incertezza e con la delusione che d’Azeglio manifesta anche dopo la raggiunta unità. Anche per D’Annunzio, alla fine dell’Ottocento, la formazione della coscienza popolare della nuova nazione era ancora tutta da costruire perché, a suo giudizio, i governi parlamentari erano stati deludenti su tutta la linea, quando non erano stati addirittura “traditori” degli ideali risorgimentali. Convinzione che sostenevano in molti, primo fra tutti il Carducci – come ebbe a scrivere proprio nel suo discorso commemorativo per la morte di Garibaldi – e che d’Annunzio riprende con forza, non certo per lasciarsi abbattere, come altri, dalla miseria presente, ma per aprire un 183 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Francesco II di Borbone. A sinistra, Cola di Rienzo interpretato da un artista di strada sullo sfondo della Torre dei Conti. In basso, Il frontespizio dell’Ettore Fieramosca con un ritratto di Massimo d’Azeglio progetto 10 L’azione e il dramma Incisione con il celebre motto dannunziano. Sotto, Napoleone durante la Prima Campagna d’Italia periodo di “ricordanza e aspettazione” che rinnovando i miti del passato e la loro componente epica avrebbe portato ad un’autocoscienza popolare e ad un nuovo eroismo, estremizzando, però, l’elemento nazionalistico di ultimo slancio di conquista, secondo il quale si sarebbe dovuto fare “di tutti gli oceani il Mare Nostro”. Gli ideali patriottici ottocenteschi vanno fatti rinascere e prolungati indefinitamente, per giungere ad un’azione di massa continua e incessante che mobiliti il popolo e nell’agire lo educhi: ora bisogna battersi ancora ma “per la più grande Italia”, e per questo bisogna creare una nuova Giovane Italia, ascetica e misticheggiante sul modello degli eroi wagneriani, orientando decisamente l’azione verso una visione imperialistica della nuova nazione, creando ragioni di coesione popolare attraverso la lotta e la guerra. Ovviamente, viene esaltata al massimo la figura mitica del condottiero eroico che afferra da solo le redini della storia e guida il popolo alla vittoria, galvanizzandolo con la sua carismatica presenza fatta di azione e parola. Alle origini Napoleone Il modello di partenza, come per molti patrioti ottocenteschi, soprattutto mazziniani, è Napoleone delle gesta del quale d’Annunzio si nutre fin dalla prima giovinezza. Mazzini, in particolare, esalta la sua figura come continuatore della Rivoluzione del 1789 e promotore della diffusione dei suoi ideali, sebbene operando un distinguo, poi ripreso anche da Francesco Domenico Guerrazzi, tra la prima parte del suo governo e la seconda, nella quale volle farsi imperatore (anche perché ciò aveva comportato il ripristino del potere papale). Interessante a riguardo è, però, anche l’opinione del Guerrazzi nei suoi Scritti, il quale giudica il fallimento del blocco continentale e la caduta di Napoleone come il risultato della corruzione della borghesia che non aveva saputo seguire gli alti ideali rivoluzionari. D’Annunzio, da parte sua, non opera queste distinzioni, per lui Bonaparte è un personaggio eroico, circondato da un’aura di assoluta grandezza e malinconia:“Adolescente il Corso non era scarnito soltanto dalla sua malinconia ma dalla verace fame. Console conobbe l’opulenza e l’ossequio. Capitano di ventura avventurato, dominò il mondo, improntò di sé l’impero (…) Tanta passione, tanta audacia, tanta potenza, tanta sapienza per finire nell’isola deserta”. (Messaggio del convalescente agli uomini di pena). Nella Sala del Mappamondo – una delle più ricche di cimeli politici della Prioria, interamente dedicata all’irredentesmo dalmata, a Wagner, al ricordo della Repubblica di Venezia – appesa alla libreria, si trova la maschera funebre del grande generale al quale d’Annunzio ha dedicato Il compagno dagli occhi senza cigli: in quest’opera Napoleone è visto in relazione alla sua tragica fine e alla sua eroica esistenza che è stata segnata dagli sfortunati rivolgimenti del destino. Inoltre, per un tipico fenomeno di sovrapposizione e materializzazione simbolica dannunziana, Bonaparte ricorda a d’Annunzio il suo amico d’infanzia (probabilmente il fiorentino Dario Biondi) con il quale aveva frequentato il collegio Cicognini di Prato, il “compagno dagli occhi senza cigli”, appunto, il quale assomigliava fisicamente all’imperatore francese, e che, infine, era morto consumato dalla tisi. Così viene ricordata la figura di Napoleone attraverso quella dell’amico Dario:“Come nella parabola evangelica, io e il mio amico dovevamo andare incontro al nostro Signore; e il 184 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma Napoleone a Sant’Elena. In basso nostro Signore si chiamava Napoleone Bonaparte. (…) Dario era più fervente di me, tanto che pareva posseduto da una vera mania. (…) Non so se egli fosse nato con quel viso e se glie lo avesse forgiato la sua passione stessa. Forse la mania gli era sorta dal fondo dello specchio, tanto egli rassomigliava al giovinetto d’Aiaccio che le stampe mostrano in meditazione dentro la grotta di Milleli: pallore quasi diafano, labbra arcuate, occhi grigi senza cigli e con scarsi sopraccigli, mento robusto, gote scarne, capelli fini e lisci sopra un’alta fronte solcata da vene cerulee…”. L’anonimato sulla vera identità del compagno, comunque, non è casuale, ma volutamente ricercato per esaltare, come vedremo anche in seguito a proposito di A uno dei Mille, le attribuzioni mitiche e quindi universali della sua figura. Nel personaggio di Napoleone convivono, infatti, per d’Annunzio più miti: la gloria, ma anche la fine repentina e l’esilio nel quale il poeta stesso si identifica. Spesso la figura del grande generale evoca immagini di morte e dissoluzione, forse proprio perché l’antico valore della guerra gli sembra ormai irrimediabilmente perduto. È però una continua fonte di ispirazione perché, per una serie di date coincidenti, viene ricordato spesso il giorno della sua morte: infatti, poiché la partenza dei Mille da Quarto era avvenuta il 5 maggio 1860, d’Annunzio aveva pronunciato il famoso discorso interventista di Quarto lo stesso giorno del 1915, per poi ricordarlo a più riprese quando già si trovava al Vittoriale, sempre nella stessa data, in anni diversi. Una grande biografia di Napoleone era stata donata a d’Annunzio da suo padre quando, ancora ragazzo, si trovava appunto al Cicognini. La figura del padre, vista dal poeta abruzzese come una presenza austera, talvolta violenta o distante, segna in qualche modo il suo destino come una sorta di Anchise virgiliano che sembra esortare alla guerra e al combattimento, come un super-io che lo avrebbe spronato e destinato fin dall’infanzia alla lotta, indicandogli gli exempla dei grandi eroi del passato:“E sopraggiunse allora il mio padre il violento, l’irrefrenabile. L’ansito del gran torace poteva più d’ogni grido.Aveva la bocca tumida di rimproccio. Il primo suo impeto era di percuotere. Il suo amore e il suo terrore si atteggiavano al castigo.” (Libro segreto) Questo padre, che fisicamente sovrastava il poeta come una mole gigantesca e vendicatrice, appare come “destinatore” verso grandi imprese, proprio attraverso il dono degli otto volumi del Memorial de Sainte-Helene: “Che vi piace fare stasera?” chiese mio padre che sapeva esser dolce. Gli risposi:“Dammi il libro!” Egli sorrideva dè nostri occhi sfavillanti, mentre apriva la valigia con lentezza studiata. Impaziente, io cacciai la mano nell’apertura a frugare; e scopersi al tasto non un solo volume, 185 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma La maschera funebre di Napoleone nella Sala del Mappamondo, e sotto una copia del Mémorial sulla quale è posta la tabacchiera appartenuta al grande generale corso. A destra, Napoleone attraversa le Alpi di Jacques Louis David ma cinque, sei, sette, forse più (…) le mie dita agili trascorsero come sopra una tastiera “Sono otto?” gridai “Dario, sono otto!” Mio padre rideva, il mio compagno era diventato pallido (…) gli occhi mi dicevano ch’egli sapeva, ch’egli aveva indovinato. (…) “Il Memoriale?” Balbettò egli, scolorandosi ancor di più come se avesse veduto aprirsi la porta e apparire nel vano il cappotto grigio dell’Imperatore.” Sempre nella Sala del Mappamondo, al di sotto della maschera funebre del grande generale francese, si trovano il simbolo dell’Impero, l’aquila infranta, nonché diversi oggetti appartenuti a Napoleone stesso, regalati a d’Annunzio da alcuni amici: uno splendido sigillo in agata che riporta incisa una sfinge egizia a ricordo della spedizione in Egitto, la tabacchiera (regalatagli da uno dei suoi legionari fiumani), una clessidra, ad indicare che la gloria del mondo non è eterna, ed un volume del Memorial de Sainte-Helene. Della tabacchiera ricorda il poeta nel Libro segreto:“È una scatola ovale tagliata nel duro legno di una noce di cocco, annerita com’ebano, in due valve che serra una lista d’argento.V’è incisa la Trinità nel coperchio tondo, a mezzo dell’ovale. E di sotto,in un altro tondo corrispondente, è incisa la Madre dalle sette spade, l’Addolorata. E il segno rivela la mano di ottimo artefice… Di questa triste tabacchiera usò l’Imperatore nell’Isola di Santa Elena.” Vediamo qui una tipica tendenza dannunziana ad immedesimarsi ed “interpretare” nella propria storia personale tutti i grandi personaggi del passato, in questo caso, al Vittoriale, egli si identificava nel condottiero esule, come farà anche con l’immagine di Garibaldi a Caprera. È indubbio, però, che l’interpretazione dannunziana della figura di Napoleone non derivi solo dalla lettura delle sue biografie e memorie, ma anche dalle diffuse convinzioni dell’epoca: il modello di riferimento è il Cinque maggio del Manzoni, quello di una “più vasta orma” stampata da Dio nella storia attraverso una personalità superiore. In quest’ode manzoniana sono già presenti tutti quei concetti che poi ritroveremo molto enfatizzati in d’Annunzio: l’idea dell’eletto per ragioni imperscrutabili che solo Dio conosce e che lo hanno reso grande e motore della storia, l’ambigua e insidiosa ammirazione per il condottiero – dittatore, il riferimento perfino ovvio ai prototipi del mondo latino come Giulio Cesare (dall’Alpi alle Piramidi Dal Manzanarre al Reno) l’investitura divina che mescola amor di patria, potere e religione soprattutto nell’immaginario collettivo del popolo. D’Annunzio appare nutrito di questa mitologia del grande che permette l’avanzare della storia, con la sua azione rivoluzionaria, frutto di una volontà superiore, lungimirante, addirittura visionaria e “veggente”. Questo lo attrae di Napoleone con una netta esaltazione soprattutto delle virtù guerriere e di condottiero, ma anche del drammatico chiaroscuro dell’esule in una piccola terra sperduta in mezzo all’oceano. Per il poeta abruzzese questo sembra l’unico modo di vivere degno di essere vissuto, perciò i morti, la scia di sangue che personalità del genere hanno portato con sé nel corso dei secoli, risultano semplicemente inevitabili, e anzi, in fondo, auspicabili, per forgiare un popolo forte. Inoltre non c’è, ovviamente, il “salvataggio” manzoniano nell’aldilà, dove sarà la vera gloria; la gloria dannunziana è ben più terrena e immanente. 186 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma Si scopron le tombe si levano i morti: l’eterno ritorno degli eroi La Repubblica fiorentina Nell’elaborazione del mito eroico dannunziano e della retorica ad esso collegata, non è mancata, però, certamente anche l’influenza dell’Assedio di Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi, romanzo-“tormentone” del Risorgimento, soprattutto presso i liberali mazziniani per quel riferimento alla Repubblica fiorentina fonte inesauribile di miti patriottici: Maramaldo, Francesco Ferrucci e un’intera galleria di personaggi dai caratteri superomisitici nel bene e nel male: Machiavelli,Andrea Doria, il giovane Michelangelo da un lato e dall’altro papa Clemente VII e l’imperatore Carlo V intenti ad ordire quell’alleanza sanguinosa tra trono e altare che nel periodo della Restaurazione era ancora una drammatica realtà:“Clemente VII e Carlo V insieme ristretti s’ingegnano a ordire un patto che valga a costringere le generazioni per sempre dentro un cerchio fatato, dentro una rete di diamante; si affaticano a rinnovare l’esempio di Prometeo, apparecchiando all’umano intendimento catene eterne e l’avoltoio divoratore.” (L’assedio di Firenze) Il riferimento al Ferrucci è un topos (presente, come è noto, anche nel nostro inno nazionale) al punto che anche Giovanni Pascoli nell’inno A Verdi, per il trigesimo del suo transito lo cita: “Morto? Né prima né dopo, mai, Fabrizi Maramaldi! Cadde il Ferruccio nel sangue, ma si chiamò Garibaldi, quando rosso, da quel sangue, fu in pié sorto.” Nel caso di d’Annunzio colpisce, tra l’altro, la notevole somiglianza tra il suo linguaggio e quello arcaico e neorinascimentale usato dal Guerrazzi (forse anche influenzato dalle fonti dell’epoca, come, per esempio, Benedetto Varchi) sia nei contenuti sia nell’andamento sintattico. Ecco un esempio molto significativo tratto dalla prefazione all’Assedio di Firenze, scritta dal Guerrazzi stesso: “Non confidate nella speranza: ella è la meretrice della vita. Dunque un destino inesorato ci condanna, come il serpente antico, a nudrirci per sempre di cenere, a traversare il futuro non movendo altro suono che quello del tergo percosso dalle verghe e del piede avvinto dalle catene? Chi disse questo! (…) Iddio sta co’ forti! La vostra misura di abiezione è già colma: scendere più oltre non potete: la vita consiste nel moto, dunque sorgerete. Ma intanto abbiate l’ira nel cuore, la minaccia su i labbri, nella destra la morte; tutti i vostri dii caschino in pezzi, non adorate altro Dio che Sabaoth, lo spirito delle battaglie.Voi sorgerete, cadrete, tornerete a sorgere: la vendetta e l’ira vi renderanno immortali. La mano del demonio settentrionale, che osò stoltamente cacciarsi tra le ruote del carro del tempo per arrestarlo, indebolita vacilla e sarà infranta.” L’andamento della prosa risulta talmente simile che quasi non si potrebbe distinguere, soprattutto confrontandolo con lo stile dei discorsi politici di d’Annunzio. Ma il Guerrazzi introduce anche un concetto decisamente insidioso che può aprire la via alle peggiori interpretazioni autoritarie: l’idea, cioè, che se il popolo non è capace di battersi per l’unità d’Italia, allora è necessario imporgliela anche attraverso un dittatore. “Sovente dall’amore più e meglio conseguiamo che dalla paura; ma se l’amore non basta, vi si adoperi il ferro; abbia il popolo a forza il 187 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Il Monumento ai Mille a Quarto, opera di Eugenio Baroni. A sinistra, il francobollo commemorativo del quarto centenario della morte di Francesco Ferrucci (1530-1930) con l’annullo dalla Tripolitania. In basso, Ritratto di Francesco Domenico Guerrazzi progetto 10 L’azione e il dramma Ritratto di Niccolò Machiavelli di Ridolfo del Ghirlandaio. Sotto, Ritratto di Lazzaro Mocenigo e, a destra, Umberto Cagni proprio bene: a forza il tiranno gli mette la mannaia sul collo; sarà misfatto dunque mettergli a forza la corona della libertà sul capo?”. E ancora: “L’uomo che si reca sopra le spalle il carico tremendo di porsi a capo dei tumulti dei popoli e indirizzarli al risorgimento” deve assommare in sé molte qualità diverse e, se costretto dalla necessità, deve essere disposto anche ad ordinare con calma fermezza: “Anche ventimila capi recisi, e la repubblica è salva!”. E a proposito dei motivi per cui la Repubblica fiorentina era caduta Guerrazzi imputa interamente la responsabilità all’inettitudine del gonfaloniere Nicolò Capponi: “Nicolò Capponi non ebbe la mano forte da cacciarla nei capelli di un popolo assopito e squassarlo ferocemente affinchè si svegliasse (…) Correva pertanto a Nicolò Capponi strettissimo l’obbligo di togliere la vita ai nemici dello stato.” Concetto che, infatti, gli fa rivalutare la figura del Machiavelli, non a caso presentato all’inizio del romanzo. L’idea dell’uomo forte che deve assumersi il comando dei moti rivoluzionari e imporre la sua volontà lungimirante, ben lungi dall’essere esclusivamente un’idea dannunziana, come si vede, in realtà viene da lontano… Altra opera del Guerrazzi dalla quale d’Annunzio ha tratto molte sollecitazioni e notizie (anche per la Notte di Caprera) è L’assedio di Roma, dedicato alla Repubblica romana. La Repubblica di Venezia La tendenza ottocentesca a riferirsi continuamente a precedenti soprattutto medievali e rinascimentali per sostenere posizioni politiche o discutere e in qualche modo interpretare situazioni attuali è tipica anche di D’Annunzio. Nel libro di Merope molti sono i riferimenti alle glorie delle antiche repubbliche marinare e a personalità del Risorgimento per sostenere scelte politiche contemporanee. Nella Canzone dei Dardanelli d’Annunzio passa in rassegna una quantità di episodi legati alla Repubblica veneziana, mantenendo costante il parallelo tra passato e presente (per esempio paragona l’ammiraglio e esploratore Umberto Cagni (eroe della guerra di Libia) all’ammiraglio della Repubblica di Venezia Lazaro Mocenigo vincitore delle battaglie nelle tre spedizioni dei Dardanelli nel XVII secolo) in questo alimentarsi continuo del suo immaginario attraverso la memoria delle grandi famiglie e personalità veneziane: i Giustiniani, i Tiepolo, i Michiel, i Dandolo, i luoghi dei trattati, il Corno d’oro di Istanbul, abitato da veneziani e genovesi, le isole segnate dalla presenza antica degli italiani. “Ecco un Sagredo principe di Paro, a Sèrifo un Michiel, ad Andro un Dandolo, a Candia un Tiepolo. Ogni nome è un faro.” E appare chiara qui, attraverso la rivendicazione della memoria storica, la presa di posizione di d’Annunzio sulla questione del Dodecaneso. La Repubblica di Genova dai crociati ai Mille Se Venezia è evocata per le sue isole e la questione dalmata, Genova è a sua volta celebrata nella Sagra dei Mille in Per la più grande Italia, per la sua antichissima tradizione repubblicana: “Genova, che dantescamente fece ala a sé per traversare i secoli con un battito assiduo di potenza (…) per portare nell’Atlantico le costumanze del Mediterraneo, per instituire con incomparabile sapienza di leggi il primo Consolato del Mare, per iniziare nel Breve della Compagna il primo Contratto sociale; la razza assuefatta all’avversità, secondo l’eterna parola di Vergilio, indomita in resistere, cercare, durare.” Genova è degna di risollevare il famoso catino del Graal – portato dai Guglielmo Embriaco da Gerusalemme dopo la prima crociata, conservato in San Lorenzo – e giurare ora come allora “Credo”. 188 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma “Ora e sempre risponderà da Staglieno una voce sola e sublime“ I morti, dunque, si uniscono ai vivi in questo desiderio di giurare fede alla patria attraverso la partecipazione ad un’altra grande impresa (cioè la prima guerra mondiale) per liberare le terre irredente.Tutta la Sagra dei Mille si basa sul concetto che il Duce, cioè Garibaldi, non è morto, ma è pronto a tornare a combattere al fianco dei suoi.Tanto più che i sopravvissuti delle sue grandi battaglie sono lì ad assistere alla cerimonia di inaugurazione del monumento a lui dedicato a Quarto, il suo volto è ancora impresso nei loro occhi e nella loro mente. Recita il testo della medaglia commemorativa coniata per l’occasione: AI FATI INVITTI AI FLUTTI AUSPICATI E AI SUPERSTITI ESTREMI DELLA GESTA LIBERATRICE RESPIRANTI CON LA PATRIA INTERA LA IMMORTALITA’ DEL DUCE SOPRAVVENIENTE GENOVA CONSACRA IN FEDE ORA E SEMPRE Per d’Annunzio, come per Nietzsche “utto ciò che è stato sarà” e quindi, se l’istante è eterno, nulla è veramente morto, ma prima o poi tornerà, perché è parte delle energie della Natura. Ciò vale anche per gli eroi, si deve solo aspettare:“E i messaggeri aerei ci annunziano che la Notte di Michelangelo s’è desta e che l’Aurora di Michelangelo, pontando sul sasso il piede e il cubito, scuote da sé la sua doglia ed ecco già balza in cielo dall’Alpe d’oriente. Verso quella, verso quella risorgono gli eroi dalle loro tombe, delle loro carni lacerate si rifasciano, dell’arme onde perirono si riarmano, della forza che vinse si ricingono: per quella che subito dai grandi omeri sprigiona le penne della vittoria. (…) I Mille! E in noi la luce è fatta. Il verbo è splendore, la parola sfolgora. I Mille! Ed ecco nel mezzo dell’anima nostra, aperta una sorgente di vita perpetua.” Come se si trattasse di un atto di fede religiosa (perché di fatto è così che il poeta lo vive) vengono citati i testimoni oculari che abbiano assistito ai fatti più significativi della vita di Garibaldi o che, semplicemente, abbiano avuto l’occasione di vederlo da vicino: “Uomo egli fu uomo fra gli uomini e voi lo vedeste santissimi vecchi, lo vedeste da presso come la Veronica il Cristo in passione. Il suo volto vero è impresso nella vostra anima come nel sudario il volto del Salvatore. Ma quale di voi gli era vicino quando parve ch’èi volesse morire sopra uno dei sette cerchi disperati? [Calatafimi n.d.r.] Udiste allora la sua voce d’arcangelo? Disse: Qui si fa l’Italia o si muore” Viene poi ricordato il più bello dei sei fratelli suoi nipoti, morto sulle Argonne, andato a combattere contro i tedeschi ancor prima che l’Italia entrasse in guerra: “Quando nella selva epica dell’Argonna cadde il più bello tra i sei fratelli della stirpe leonina, furono resi gli onori funebri al suo giovine corpo che fuor della trincea il coraggio aveva fatto numeroso come il numero ostile.” In realtà i fratelli morti sulle Argonne alla fine furono due: Bruno nel ’14 e Costante nel ’15. Ultima testimonianza, secondo d’Annunzio di ciò che il vero spirito garibaldino richiede ora, nel 1915, al popolo italiano, cioè di partecipare alla guerra contro lo straniero e liberare il resto dell’Italia ancora nelle mani degli austriaci. 189 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Disegno per il ritratto di Guglielmo Embriaco nel Palazzo di San Giorgio a Genova. A sinistra, la medaglia commemorativa disegnata dal Baroni nel 1915 per l’inaugurazione del monumento ai Mille a Quarto. In basso, la partenza da Quarto e la lapide che ricorda l’eroismo di Bruno e Costante Garibaldi nelle Argonne (viale Argonne Milano) progetto 10 L’azione e il dramma Garibaldi e Bixio durante la battaglia di Calatafimi “Meglio che riprendere la parola io vorrei riprendere il fucile o compagni!” racconta che abbia esclamato un ex garibaldino di fronte alle eccessive esitazioni di molti. D’Annunzio, insomma, utilizzando un procedimento tipico del gusto storicistico ottocentesco, usa alcune vicende storiche del passato per discutere o rivendicare istanze del presente. Lo stesso procedimento attuato da Manzoni, Scott e altri nel romanzo storico e da Giuseppe Verdi nel melodramma. Neogaribaldini per sempre Questa memoria mitica, tipica anche della retorica risorgimentale, rappresenterebbe per d’Annunzio il punto di partenza per un cambiamento profondo dell’Italia e una sua “redenzione” o riscossa, in cui impegnare le energie stesse di tutto il popolo. La politica, quindi, non si dovrà fare in Parlamento, ma sul campo, sull’esempio degli antichi Comuni medievali, della rinascimentale Repubblica fiorentina, e della dittatura di Garibaldi, appunto, impegnando il popolo in azioni collettive; il luogo di discussione è un Arengo improvvisato, perché la democrazia rappresentativa deve essere il più possibile ridotta, e le decisioni, assembleari e plebiscitarie, devono essere assunte rivolgendosi direttamente al popolo, la mente del quale sarà stata prima adeguatamente “forgiata” dal “Verbo” dell’eroe tribuno.Al Vittoriale, infatti, l’idea di inserire l’Arengo all’aperto non è casuale perché ricorda l’uso dannunziano di tenere i propri discorsi in una situazione analoga anche a Fiume, come egli stesso testimonia: “ieri sera, come nei più bei giorni della nostra resistenza, fu fatto parlamento all’aria aperta.Anche una volta fu ripreso il costume dell’antico arengo.” (Prose di ricerca, di lotta di comando) Ciò che scrive poco prima della partenza per l’impresa di Fiume è in questo senso illuminante: “Abbiamo lottato e penato perché in perpetuo l’Italia resti una terra di sorgenti infette e di cuori disperati? (…) È necessario che la nuova fede popolare prevalga con ogni mezzo contro la casta politica che con ogni mezzo tenta di prolungare forme di vita menomate e dispregiate. Lo spirito di rivolta fin da quando nacque ha il privilegio di rimaner sempre puro sopra ogni mezzo, di là da ogni mezzo. (…) Il comando oggi passa al popolo vivente a quello cui la Patria può dire la parola sacra:“Voi siete nettati, ma non tutti” L’ordine nuovo non può sorgere se non dal tumulto del fervore e dalla lotta, misurato dal battito di tutti i cuori fraterni. E dico senza tema dello sciocco sorriso altrui, che sarà un ordine lirico, nel senso vigoroso e impetuoso della parola. Ogni vita nuova d’una gente nobile è uno sforzo lirico. Ogni sentimento unanime e creatore è una potenza lirica. Per ciò è buono ed è giusto che ne sia interprete un poeta armato” (Il sudore di sangue) L’azione deve essere popolare, ma alla base c’è il mito dello sparuto gruppo di ardimentosi che cambia le sorti del mondo come nella Canzone dedicata all’ammiraglio Umberto Cagni: “E la virtù dei quattro uomini inermi fu per un’ora il vertice del mondo.” Nell’immaginario dannunziano le personalità risorgimentali, gli eroi delle battaglie per la libertà italiana, devono essere emulati a qualunque costo e fatti rivivere nei loro ideali che sono stati temporaneamente sconfitti dalla corruzione, dalla stupidità e dall’inerzia del parlamentarismo e dei suoi avvilenti rituali. Come poter essere governati da un “cagoia” come il Nitti dopo aver idealmente militato con Garibaldi, ripercorrendo tutte le sue vittorie e gli atti di valore delle sue camicie rosse, dopo aver vagheggiato la patria sulle note di Verdi, e aver cantato la sua religione corale dal Nabucco ai Lombardi? Ecco, in fondo, da dove nasce lo spirito “neogaribaldino” di cui d’Annunzio si sente investito, quello che lo farà essere 190 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma interventista prima e fiumano poi. Il riferimento ai Mille e alle imprese di Garibaldi nella sua opera è costante in tutti gli episodi che sottolineino il valore coraggioso e disperato del popolo italiano. I riferimenti all’Eroe dei due mondi e ai suoi coraggiosi compagni si trovano anche per esempio in Per i marinai morti in Cina e nella Canzone di Mario Bianco (guardiamarina, il primo caduto nello sbarco a Bengasi nel 1911) dove viene citato il garibaldino Francesco Nullo come esempio estremo di valore, e come emblema della gioventù che cade in battaglia, ma per questo è resa eterna viene paragonato a Mameli. O Giovine, se mai nel cor t’apparsi creato dalla pagina commossa e del gran fuoco mio l’anima t’arsi, odimi, qual ti vedo su la fossa della trincera mentre ancor spirante bevi l’odore della terra smossa, odimi. Non morrai. Sei nell’istante e nell’eternità. Colui che viene e non colui che parte sei. In questa canzone vengono introdotti alcuni elementi tipici della propaganda di guerra dannunziana, cioè il concetto della “morte – non morte” poiché si tratterebbe soltanto di un passaggio sublime verso una condizione superiore, l’idea che i morti sul campo di battaglia continuino a combattere risvegliati dagli atti di valore dei vivi: “I morti si drizzavan nel coraggio moltiplicato dei viventi” e della bellezza della guerra vista futuristicamente quasi come una celebrazione giocosa: “Ardeva a Tripoli, a Bengasi, a Derna la festa del mortaio e del cannone” Vediamo quindi come gli elementi risorgimentali vengano manipolati da d’Annunzio e forzati ad un livello estremo, ribadendo ancora una volta le mire espansionistiche e imperialistiche di questo suo preteso neoRisorgimento: “Ché l’Africa non è se non la cote ove affilammo il ferro, per l’acquisto supremo, contra le fortune ignote;” Proprio perché si oppongono alle mire espansionistiche dell’Italia, tedeschi e austriaci sono attaccati duramente da D’Annunzio, sempre a partire da riferimenti risorgimentali, nella Canzone dei Dardanelli: sono accusati di essere spietati uccisori di civili, in riferimento alle atrocità compiute a Milano dopo il fallimento delle Cinque giornate nel 1848: “E quei che verso il Reno ora digrigna ed or sorride livido di bile col ceffo nella sua birra sanguigna, l’invasor che sconobbe ogni gentile virtù, l’atroce lanzo che percosse vecchi e donne col calcio del fucile” Alla viltà degli invasori d’Annunzio contrappone il valore e la memoria dei martiri di Belfiore; addirittura immagina che gli aguzzini del popolo di Milano come di Mantova siano perseguitati in sogno di notte dagli strumenti stessi che hanno usato per infierire sulle loro vittime. Naturalmente anche qui, i riferimenti antiaustrici al Risorgimento servono a d’Annunzio nel contesto attuale di rivendicazione del Dodecaneso. Nella canzone Alla memoria di Narciso e di Pilade Bronzetti d’Annunzio si riferisce a Trento, 191 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Umberto Cagni e i suoi compagni durante la spedizione al Polo. In basso, cartolina dello sbarco a Bengasi 1911 con medaglia commemorativa e Tito Speri con alcuni dei martiri di Belfiore detenuti a Mantova progetto 10 L’azione e il dramma Uno dei rilievi raffigurante i soldati italiani, appartenente all’arco dei Fileni, oggi distrutto, che divideva la Tripolitania dalla Cirenaica. Sotto, la lapide che ricorda la battaglia di Treponti. In basso, Cose garibaldine di G. C. Abba, alla biblioteca del Vittoriale con segni di lettura e segnalibri apposti da D’Annunzio che ancora stretta dal capestro austriaco, continua a chiamare la madre Italia. In questo caso l’esempio risorgimentale garibaldino è funzionale per introdurre riferimenti alle terre irredente anche attraverso le spedizioni di Garibaldi nell’alto Garda, tanto più che i due fratelli di origine trentina avevano preso parte a molte imprese garibaldine. Entrambi avevano partecipato alla prima guerra di indipendenza e dieci anni dopo, nel ‘59, Narciso era morto a Treponti militando tra i Cacciatori delle Alpi; Pilade, invece, dopo aver prestato servizio tra i Cacciatori, aveva fatto parte della spedizione dei Mille ed era morto nel ‘60 a Castel Morrone sul Volturno, al comando di un battaglione di soli 200 bersaglieri contro 4000 fanti nemici, respingendoli a lungo. Per questo suo atto di coraggio estremo d’Annunzio lo definisce “l’emulo del re di Sparta con i suoi trecento”. D’Annunzio e le fonti garibaldine Per capire la logica con la quale il poeta utilizzava la storia delle imprese garibaldine ci vengono in aiuto i libri su questo argomento a lui appartenuti e ancora oggi conservati nella biblioteca del Vittoriale. Innanzitutto, come è già stato notato, d’Annunzio utilizzava una matita rosso-blu per segnare a margine le parti che catalizzavano il suo interesse; inoltre talvolta poneva dei segnalibri autografi recanti in alto nella parte sporgente l’argomento trattato nella pagina. In alcuni casi commentava anche a margine. Molto interessante per capire il suo metodo di lavoro si è rivelato, per esempio, il libro Cose garibaldine di Giuseppe Cesare Abba, nel quale alcune parti non sono state per nulla consultate al punto che le pagine risultano intonse; altri capitoli, invece, soprattutto quelli riguardanti le azioni eroiche dei singoli garibaldini Cacciatori delle Alpi, in particolare trentini, sono state attentamente lette e sottolineate. Vengono privilegiati gli aneddoti legati al valore solitario come quello incredibile della presa del fortino d’Ampola da parte di un uomo solo, Emilio Blenio che cattura in un folle blitz il comandante della postazione costringendolo alla resa, perché “il Generale” stava per arrivare e aveva bisogno di quella postazione: “Il Blenio si stizzì: - commenta Abba - “Perché il fortino non doveva ubbidire?”” Altro garibaldino dalla fede incrollabile che attira d’Annunzio è Egisto Bezzi il quale - ricorda Abba pareva “nel profilo, nell’atto delle labbra, fin nel portar del capo un po’ chino” il solito Francesco Ferrucci redivivo, come se la sua figura ammonitrice si fosse staccata da un quadro del Cinquecento ed egli fosse tornato a combattere per l’Italia. Di lui racconta d’Annunzio nel Libro ascetico della Giovane Italia:“Ma Ergisto Bezzi, il Trentino dei Mille, mi aveva consacrato col suo crisma prima di morire, aveva detto a uno dei miei capitani, a Battista Adami di Trento:“Come noi guardavamo al Duce vedendo in lui la certezza della vittoria, così voi dovete affisarvi nel vostro Comandante sapendo che egli vuole la salvezza della Patria”” Una investitura in piena regola, insomma, dal più fedele seguace di Garibaldi. Oppure d’Annunzio sottolinea un altro episodio ai limiti dell’incredibile, in cui Attilio Zanolli non volle abbandonare la propria postazione oltre il Caffaro dopo il famoso “Obbedisco” e costrinse due 192 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma ufficiali austriaci a scortarlo in Veneto, perché non era possibile abbandonare in ventiquattr’ore una postazione acquistata con tanto sangue. A riguardo della famosa missiva inviata al generale La Marmora da Bezzecca, sempre nella canzone dedicata ai fratelli Bronzetti, d’Annunzio ricorda la disperazione di Garibaldi nel vedere il Trentino perduto senza poter fare nulla: “Ei ti vide perduta, ei vide tanto sangue invano sparso, tanto fiore di libere vite invano reciso, Trieste come te perduta, come te perduta l’Istria, alla mercé del nemico le porte d’Italia, ottenuta Venezia con man di mendico, laggiù laggiù sola su l’Adria la macchia di Lissa, l’infamia, tutta l’onta; e disse:“Obbedisco”. (…) Ei disse:“Ah ch’io venga ch’io venga anche all’ultima guerra! Legatemi sul mio cavallo. Ch’io veda brillare le stelle su la Verruca, oda al Quarnaro cantare i marinai d’Italia! Legatemi sul mio cavallo”.” Versi che appaiono come una trascrizione poetica di un passo della biografia di Garibaldi del Guerzoni, opera che fa parte dei libri presenti nella Prioria, appartenuti a D’Annunzio, ampiamente consultata e sottolineata. Si noti che in questo passo emerge tra l’altro l’idea dannunziana della unità d’Italia incompiuta e dell’onta di aver ottenuto il Veneto ingloriosamente nella guerra del 1866 solo in virtù delle vittorie tedesche contro gli austriaci.Vediamo poi come d’Annunzio attribuisca a Garibaldi stesso il pensiero di riconquistare anche le terre dalmate. Il poeta immagina che lo spirito di Garibaldi “verrà, verrà sul suo cavallo, con giovine chioma” e strapperà il vessillo giallo e nero degli Asburgo per porre sulla rocca quello di Roma e udrà anche dal Quarnaro i canti d’Italia giungergli sul vento. L’eroe, oltre ad essere un exemplum che assomma in sé mito, azione, epica è anche capace di anticipare i tempi e indicare altre azioni che proseguano la sua e si spingano “più oltre”. Egli anche da morto resta un baluardo eretto in difesa della patria: d’Annunzio ricorda, infatti, la statua in bronzo di Dante che i trentini hanno eretto di fronte alle Alpi contro l’invasore austriaco come la più incrollabile delle difese. L’ultimo esito di questa mitizzazione garibaldina culmina, ad esempio, in testi tipo L’apoteosi di Garibaldi di Mario Mocci ex legionario fiumano, autore nel 1927 in piena dittatura fascista, di questo libro, conservato al Vittoriale con significativa dedica a D’Annunzio:“A Gabriele d’Annunzio nel giorno della “beffa” gloriosa di Vienna omaggio d’una testa di ferro devotamente ed affettuosamente ed augurando Tirteo Mario Mocci nel porto di Roma (Civitavecchia) 1927” Un libro che raccontava “i riti di Caprera” svolti per commemorare il grande generale, e rilanciare l’idea dell’azione di nuove camicie rosse da affiancare alle camicie nere. In quest’opera Garibaldi è utilizzato contro “le vecchie cariatidi del liberalume parolaio e del socialdemocraticume patriottardo”, ma tutto ciò che in d’Annunzio doveva tradursi in azione dinamica risulta, invece, raggelato in una fredda celebrazione che segue i canoni rigorosi e 193 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Garibaldi con i Cacciatori delle Alpi (parte del dipinto “Panorama Garibaldi”di 1,40x83 m conservato presso la Brown University di Providence). A sinistra, Il telegramma del famoso “Obbedisco” inviato da Bezzecca al Comando in capo da parte di Garibaldi. In basso, la dedica a d’Annunzio sul frontespizio del volumetto Apoteosi garibaldina di Mario Mocci progetto 10 L’azione e il dramma ostentati della religione della patria della propaganda fascista. Naturalmente, oltre ai testi citati in precedenza, attentamente studiati dal poeta, egli dimostra di averne consultati anche parecchi altri, che mostrano vari segni di lettura: Garibaldi in Toscana nel 1848 di Giovanni Sforza, Il secondo battaglione bersaglieri volontari di Garibaldi nella campagna del 1866 di Ottone Brentari, Aneddoti garibaldini raccolti da Giacomo Emilio Curatolo, La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi narrate da Jack la Bolina (Vittorio Vecchi), Dal Molino di Certosa a Cala Martina. Notizie inedite sulla vita di Giuseppe Garibaldi a cura di Guelfo Guelfi. La scelta di aneddoti e simboli L’eroe risorgimentale è raccontato da d’Annunzio alla maniera di Tito Livio, con aneddoti della vita quotidiana che diventano esemplari e si mescolano alle grandi azioni e battaglie: come, La copia appartenuta a per esempio, il famoso episodio del cacio stantio e dell’acqua infetta che un contadino diede da d’Annunzio de La Vita mangiare a Garibaldi dopo l’incontro di Teano, quando il generale, anziché seguire il re, non essendo e le gesta di Giuseppe stato invitato a pranzo, se ne era andato per la campagna solo, episodio che mira a sottolineare, da un Garibaldi di Jack la Bolina lato l’affronto incredibile ricevuto da Vittorio Emanuele II, e dall’altro la capacità del condottiero di donare (Vittorio Vecchi) senza pretendere nulla in cambio per sé, pensando solo al bene della patria, proprio come un vero antico romano. Particolari realistici che assumono valore fortemente simbolico, come talvolta troviamo in Omero; d’altra parte, il richiamo al mitico aedo dell’antichità non è casuale, visto che d’Annunzio ripristina anche l’uso dell’epiteto, dell’immagine metaforica che distingue l’eroe, del riferimento fisso che richiama per antonomasia la sua personalità sia nell’aspetto e nella gestualità sia nei tratti caratteristici della psicologia. Talvolta ci si ritrova così immersi in una vera foresta di simboli di baudeleriana memoria nella quale, per esempio, la figura del leone è sì peculiare della Repubblica di Venezia, ma rappresenta anche Garibaldi a causa della bionda chioma leonina; d’altra parte “la cervice del leon proteso” è il promontorio della Versilia sul quale, secondo il poeta, Byron eresse la pira funeraria per Shelley con il fasciame della barca naufragata, ma proprio per questo, è anche collegato alla figura perennemente arsa dell’Ulisse dantesco. Ecco come nell’immaginario dannunziano un solo simbolo trova le sue molteplici stratificazioni, mettendo insieme l’eroismo antico di Eracle,Alessandro, Ulisse con le immagini dell’antica Repubblica marinara e il mito ottocentesco dell’eroe condottiero uomo di azione e “artiere” inventore, artigiano di bottega, e talvolta anche poeta. Garibaldi e Verdi si somigliano Tra i grandi dell’Ottocento risorgimentale che spiccano come punti di riferimento per chiunque voglia fare nuovamente grande l’Italia troviamo su tutti Garibaldi e Verdi, in qualche modo uniti, non divisi; il loro spirito è quello che vive nelle città italiche testimoniato dalle grandi vestigia di un passato dormiente, ma che il veggente moderno, ovvero d’Annunzio stesso, presagisce nella sua rinascita, attraversando le strade silenziose nei suoi frequenti viaggi, diligentemente annotati nei Taccuini e riproposti nelle Città del Silenzio di Elettra. L’eroismo deve rivivere sebbene il popolo, ancora una volta riprendendo un’immagine manzoniana, dorma, incosciente del suo valore e della sua vocazione eroica. Garibaldi e Verdi, infatti, 194 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma rappresentano quella forza inconscia che ormai farà parte per sempre del popolo italiano. Entrambi per d’Annunzio sono destinati a sopravvivere dopo la morte, entrambi attingono all’assoluto: il loro spirito è espressione delle forze primigenie dell’universo e della terra, fa parte della “Natura” universale, la loro anima è l’oceano, dentro di loro si muove questo spirito immortale che è il mare, mobile e perennemente inquieto e, proprio per questo, in un divenire continuo capace di concepire grandi azioni e pensieri. Come si può notare in tutto il parco del Vittoriale, dal mausoleo, all’Arengo, alla nave Puglia, l’eroismo vive nella natura e ne è parte integrante, è emanazione della sua energia vitale originaria, da essa attinge e ad essa tornerà in un ciclo perenne di immortalità. Garibaldi il marinaio artiere di ogni arte In questo senso, soprattutto in A uno dei Mille, lo spirito di Garibaldi è modellato sulla figura dell’Ulisse della Laus vitae, un vegliardo perennemente in viaggio sul mare. D’Annunzio, seguendo uno stilema omerico, gli si rivolge, interrogandolo, in seconda persona, come ad un ignoto marinaio compagno di Garibaldi nelle sue imprese, uno dei veterani che avevano fatto parte della spedizione fin dall’inizio, provenienti dalla sua Liguria, piuttosto numerosi, come è testimoniato dalle fonti; uno di quelli che ancora oggi continua, ormai vecchio, a seguire sempre la medesima rotta tra la Sardegna e il porto di Genova. Egli resta volutamente senza nome, perché il “milite ignoto” per il suo stesso anonimato incarna Il monumento a Garibaldi a La Spezia. Sotto, Ritratto l’eroismo di tutto il popolo, potrebbe essere tutti o nessuno o Garibaldi stesso. Un uomo che, come di Garibaldi marinaio tutti gli eroi senza nome, così cari a d’Annunzio, è “adusto”, arso, dalle fatiche, porta i segni profondi delle guerre combattute, ma è forte ancora come l’“usto” cioè la corda massiccia che tiene l’ancora al fondo. I suoi modi sono rudi , tipici dei marinai dell’epoca, come dimostra l’immagine realistica del “masticaticcio”, cioè il tabacco masticato e successivamente sputato (notiamo ancora il tipico metodo di creazione epica dannunziana, utilizzando il dettaglio realistico, all’interno di un contesto mitico). Questo è il vero spirito garibaldino che non è certo imprigionato a Caprera, sotto quel pesante macigno di granito che non gli appartiene perché non può contenere il suo spirito libero. Come si può leggere nella già citata canzone dedicata ai fratelli Bronzetti, Garibaldi voleva essere cremato e le sue ceneri dovevano essere sparse sul mare.A maggior ragione, quindi, ora è perennemente girovago, come lo sono sempre nell’opera dannunziana le grandi figure eroiche e mitiche. Naviga dall’isola di Sardi nel mare dal “sale amaro” (ribadito due volte all’interno della lirica), eco dantesca per introdurre l’immagine del grande uomo che, essendosi battuto per la patria, è costretto all’esilio dai detentori del potere, un pensiero fisso in d’Annunzio, poiché vi presagisce il proprio destino. Il volto bruciato dal sole è sì splendente di gloria, ma sarà in grado di “campar suo legno cercando il faro” ora che tutti i punti di riferimenti sono perduti? Egli cerca di scorgere il fiammeggiare del “suo” leone sulla punta di Caprera, e quando giunge nella città dei Capitani del mare per definizione, i Doria, in vista di Quarto, il vecchio marinaio con lo sguardo cerca la piccola colonna che lì ha eretto la “modestia del popolo risorto” (prima che fosse poi sostituita dall’attuale monumento a Garibaldi inaugurato, come dicevamo, proprio il 5 maggio 1915 con il famoso discorso interventista di d’Annunzio). Il poeta abruzzese sottolinea con enfasi l’aspetto dell’ingratitudine popolare che accentua il senso di solitudine dello spirito dell’eroe, ma anche questo omaggio così inadeguato non potrà cancellare l’immagine della Vittoria che stilnovisticamente in tutte le battaglie parea gli sorridesse come sua donna. Quando d’Annunzio deve elevare la propria materia poetica il suo linguaggio si fa sempre più arcaico e nello stesso tempo eclettico tanto da non essere ascrivibile ad alcun periodo storico preciso, per risultare quindi universale, eppure prezioso e variegato come uno smalto bizantino o una decorazione di Gustav Klimt. Il vecchio eroe non risponde alle domande, ma comunica solo con i suoi simili, cioè con le forze naturali di cui è parte integrante: ascolta i venti, dialoga concitatamente con la tempesta, perché soltanto 195 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma gli elementi hanno la grandezza necessaria per contenere i suoi pensieri. La sua vita si svolge tra la bonaccia e il fortunale, così come la sua mente eternamente abitata dall’oceano calmo o in tempesta. Le sue gesta latinamente intese, sono scolpite sul suo volto come cicatrici. Nel contemplarlo d’Annunzio viene preso dal timore che i suoi versi non siano all’altezza di un simile eroismo: infatti sostiene di aver inutilmente pregato il mare affinché incidesse esso stesso “strofe giganti” nel granito della sua tomba. Il poeta non è stato capace di tanto, ma dentro le sue rime egli potrà udire elevarsi attraverso il rosso caos della strage l’odore salmastro, il rumore del frangente come una schiera nemica, l’impeto del mare e della battaglia.Vi potrà riconoscere la versatilità di colui che fu “artiere di ogni arte”, dando grande risalto e importanza alle sue abilità manuali d’artigiano, oltre a quelle, ben più celebri, di condottiero. L’artigianato è un elemento fondamentale della cultura del popolo, considerato come la culla dell’arte, e tipica espressione del genio popolare e della sua tradizione come Cartolina del primo centenario della nascita d’Annunzio spiega lungamente nel romanzo Il fuoco a proposito del maestri vetrai veneziani. Garibaldi di Garibaldi 4 luglio 1907. eccelleva in queste abilità pratiche e tale caratteristica lo identifica ancora di più come eroe del popolo, A destra, incisione dal vicino alla massa e sua espressione, che agisce non per fini egoistici di potere personale, ma per il volume Dal Molino di bene della Nazione. L’espressione “buon calafato e mastro d’ascia” è volutamente anticheggiante, Certosa a Cala Martina. Notizie inedite sulla vita medievale, riferita alle straordinarie abilità dei carpentieri delle Repubbliche marinare. L’utilizzo di termini di Giuseppe Garibaldi a appartenenti al passato accentua il senso di continuità storica della figura di Garibaldi, che ha ereditato cura di Guelfo Guelfi. In le sue capacità dalle antiche abilità tecniche dei Tirreni. basso, “Tutt’altra Italia Negli occhi tristi del vecchio marinaio d’Annunzio legge le io sognavo... ” (dalla mostra Garibaldi a Castel critiche al governo per aver tradito l’opera di Garibaldi e il Sant’Angelo) sacrificio dei garibaldini, per l’esclusione della figura del generale dalla costruzione del neonato Stato italiano, per giungere, infine, ad una drammatica conclusione: nonostante egli sia lì a presiedere a tutte le operazioni per ripristinare il cordame, con tutti gli attrezzi necessari, il suo pensiero è che: “Il torticcio dell’àncora s’è rotto. Rinnovarlo non giova. Orvia, tralascia! Per flagelli e capestri, o cordaio, l’acre canape torci.” È inutile riparare la corda dell’ancora, tanto più che, ormai, i cordai lavorano solo per corde da capestri, perché l’ancora che teneva salda la nave al fondale era l’eroe insostituibile che oggi non c’è più. La conclusione è scioccante: sotto le querce sacre del Gianicolo, dove, tra l’altro c’era il quartier generale di Garibaldi nel ’49, pascolano i porci e l’Italia è ridotta ormai ad una baldracca che si giace sotto qualunque puttaniere. L’Italia è una prostituta disposta a vendersi un’imbarcazione che va alla deriva, priva del sostegno di Garibaldi e in mano ad un gruppo di potere corrotto e senza scrupoli che ha distrutto qualunque ideale risorgimentale. D’Annunzio inserisce la riuscita immagine dell’“ombra delle querci”, in riferimento all’antichità, e la metafora del pascolo dei porci, citazione evangelica: qui abbiamo un ottimo esempio di genesi della sua retorica e della sapiente commistione di citazioni e simboli di varie epoche, con presenza quasi costante di metafore religiose. L’ultima condanna si riferisce ancora allo stato italiano, che ospita la grande cultura latina con i suoi valori e la intorbida adesso con il decadimento del Parlamento, la disonestà dei governanti e la contaminazione dei meriti su cui si basava l’Impero romano. 196 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma Tra gli elementi che colpiscono molto D’Annunzio, sottolineati con la sua immancabile matita rosso-blu, soprattutto nel Garibaldi del Guerzoni, ci sono gli aneddoti che aprono squarci di verità talvolta anche inaspettate sul carattere del grande generale Sempre in relazione allo spirito pratico per esempio, sottolinea un interessante episodio avvenuto nel 1862: durante la sua visita a Milano il generale “dalla terrazza della villa saluta “il popolo delle cinque giornate capace di venticinque” raccomanda la carabina: promette al solito Roma e Venezia. Inaugurando con pompa solenne il bersaglio provinciale, spara egli il primo colpo, che giornali trovano stupendo”.Vediamo, quindi, lo spirito pratico con cui l’Eroe dei due mondi mostra di apprezzare la novità del momento in fatto di armi, già progettando altre azioni per liberare Roma e il Veneto. Poi si reca a far visita ad Alessandro Manzoni salutandolo con queste parole:“Permettete ch’io venga a prestare omaggio a un uomo che tanto onora l’ Italia”. Ma l’autore dei Promessi Sposi si schermisce: “Sono io che devo prestare omaggio a voi: io che mi trovo ben piccolo dinanzi all’ultimo dei Mille, e più ancora dinanzi al loro Duce, che ha redento tanta parte d’Italia e nel modo migliore, offrendola a Vittorio Emanuele”. Ma lo spirito semplice e imprevedibile di Garibaldi colpisce lo scrittore, quando, in segno di amicizia, gli porge un mazzolino di viole:“Lo conserverò, esclama il poeta, lo conserverò in memoria d’uno dei giorni più belli della mia vita” Nella canzone la Notte di Caprera di Garibaldi (suo modello costante durante la prima guerra mondiale e l’impresa di Fiume) d’Annunzio racconta minuziosamente alcune battaglie, lo sprezzo del pericolo, la calma inossidabile dell’uomo pronto a tutto, abituato a guardare la morte negli occhi tenendola perennemente in scacco.Arcangelo Ghisleri, basandosi soprattutto sulle opere di Alberto Mario, autore delle note testimonianze garibaldine come La camicia rossa e I mille, scrisse un commento alla Notte di Caprera (La canzone di Garibaldi del d’Annunzio documentata) per dimostrare che in essa d’Annunzio non aveva affatto falsato la realtà storica modificandola in funzione poetica, ma che, nonostante lo stile fortemente immaginoso, aveva utilizzato in modo puntuale e fedele le notizie provenienti da diverse biografie del grande generale. Riprova questa, della mole di documenti che d’Annunzio era solito consultare e che il mito si basava, secondo il suo stile, sulla verità storica dei fatti e degli aneddoti più che sulla fantasia. Naturalmente vengono evidenziati, alla maniera sempre di Livio, gli episodi simbolici, con dettagli minuziosi, spesso che sottolineano l’anima schietta e popolare di Garibaldi Se in A uno dei Mille lo spirito di Garibaldi appartiene al mare, nella Notte di Caprera l’Eroe dei due mondi è il “Dittatore” che “sul far dell’alba, con i suoi pochi, sen viene alla marina che la nave attende”. Il paragone con l’eroe romano Cincinnato che, dopo aver servito valorosamente la patria, si ritira a vita privata senza sfarzo e senza onori, risponde al concetto dannunziano di “umile eroismo”, secondo cui il grande uomo trova la sua felicità nel semplice atto di donare. Di qui l’esaltazione di Garibaldi come “donatore di regni”, la cui bellezza supera persino lo splendore dei raggi del sole:“Bello non è come il raggiante volto del donatore di regni il nuovo Sole”.A tal proposito si vede come il Nostro accosti all’epiteto con cui nomina Garibaldi brevi cenni sulla sua fisionomia e sul suo carattere, sempre allegro e sorridente. Ribadendo il concetto già espresso in A uno dei Mille dirà in un altro passo:“Fu maestro d’ascia, artiere d’ogni arte, pronto ei sempre alla diversa necessità con volto sorridente”. In queste poche righe si concentrano alcuni dei punti fondamentali per la comprensione del pensiero dannunziano sull’eroe. Innanzitutto Garibaldi viene raffigurato, oltre che sorridente, anche come uomo sempre pronto all’azione instancabile perché nella concezione dannunziana l’eroe è in costante movimento. In secondo luogo, 197 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Particolare del monumento di Garibaldi al Gianicolo. A sinistra, lo storico incontro tra Garibaldi e Manzoni nel 1862 (Milano, Museo del Risorgimento). In basso, Garibaldi a Caprera progetto 10 L’azione e il dramma si nota l’insistenza del Vate, sul multiforme ingegno di Garibaldi poiché egli ritiene che l’eroe in quanto tale non possa eccellere solo nell’arte militare, ma debba possedere, comunque, un estro creativo, essere un ingegno poliedrico. Ricco di iniziative e proposte, Garibaldi, come ogni eroe, è una personalità irrequieta, che concepisce continuamente nuove imprese anche quando “ancora dorme la città che ululò d’amor selvaggio all’apparito eroe”, immagine che ci mostra però anche l’amarezza e il rimprovero nei confronti del popolo incapace di difendere il suo eroe e rivendicarlo per sé. Il suo spirito indomito viene reso ancor più tangibile da quel “crin selvaggio”, proprio di tutti i grandi eroi, sapientemente accostato da d’Annunzio alle “criniere ondose che sanno ancor d’ariccio” dei suoi cavalli, i quali portano i nomi delle sue più belle vittorie, come Calatafimi e Marsala. La passione dannunziana per questi animali, che hanno come unico obiettivo la velocità e il superamento del limite, e possiedono un’indole irrequieta e desiderosa di libertà, si traduce in elogio di chi come loro lotta, sfidando ogni ostacolo per la libertà del suo popolo. Queste focose e maestose creature vengono dipinte come cavalli “di vittoria”,“recalcitranti al vento che riscuote il Golfo” ed ecco che questa immagine del Libeccio che spira vigorosamente sul porto di Napoli diventa lo specchio della forza stessa che contraddistingue “l’uomo del mare” il quale prova profonda devozione verso il “dominato Oceano”. Questa reverenza quasi mistica viene ben descritta dal poeta nel momento in cui, partendo per Caprera, il Generale “scioglie l’ultimo capo all’ormeggio allor con atto che par santo al devoto stuolo” decidendo che lascerà i suoi cavalli liberi per l’isola perché volino come Pegaso verso la libertà e anche le sue greggi non sono segnate con la robbia perché devono restare anch’esse parte integrante della Natura che le ha generate. L’alto connubio tra natura ed eroe innalza la descrizione ad un livello quasi sacro nel momento in cui “l’anima già per l’acque si diffonde simile al dì” e quindi il poeta, riprendendo l’immagine biblica dello Spirito Santo che vaga per l’orbe terracqueo al fine di creare e illuminare, la paragona all’animo garibaldino che si diffonde attraverso le acque in ogni luogo. Il suo spirito non cessa mai di cercare altre mete così come aveva detto accomiatandosi dai suoi sulla riva: “A Roma, a Roma ci rivedremo! A Roma!” Il definitivo sposalizio tra Garibaldi e la natura avviene però a Caprera. Qui infatti :“Apre così le braccia la Natura subitamente al buono figliuolo suo per riposarlo, sopra il suo petto ignudo, di tanto sangue e di tanta ventura. E il figlio a lei così volge dischiusa la sua divina anima di fanciullo”. Garibaldi è uno spirito antico, dalle molte vite, vissute in questa sua lunga esistenza, e in molte altre, fin dalla notte dei tempi: artigiano, ma anche pastore di chissà quale tribù dei suoi avi perduta nel tempo. L’“isola solitaria” non è motivo di sconforto per il Dittatore poiché essa “serba il silenzio ch’è bevanda al pugnace”, attraverso il momento privilegiato della meditazione (come sottolineerà anche a proposito di Verdi) che precede e guida l’azione. In alto, M. Lorusso Garibaldi è il leone dalla chioma bionda che si aggira tra i soldati e talmente Garibaldi nel 1849 (Roma venerato anche dai nemici che si dice abbia vinto la battaglia di Sovera Museo Nazionale del con la sola presenza sul campo. Garibaldi è il paladino della libertà colui Risorgimento). Sotto, Garibaldi visto da Silvano che anche da morto si erge sulla rupe di Quarto, risorto come spirito di Campeggi. A destra,il vittoria, proteso come polena di nave verso il mare, accompagnato e grande albero presso sorretto in quello sforzo di tensione dal popolo dei suoi che mai lo hanno la casa di Garibaldi a abbandonato. Il paladino della libertà e quasi l’anarchico, il populista sul Caprera quale d’Annunzio si conformerà anche per scrivere la costituzione fiumana e per elaborare la propria immagine di reggente dittatore. L’immagine è sempre quella liviana di Cincinnato, che porta la semente perché in 198 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma futuro ritornino i tempi eroici. La semente, quindi, è metaforica e sta ad indicare il desiderio di attendere l’avvento di una nuova rinascita. Non a caso d’Annunzio assume la Reggenza del Carnaro come Garibaldi aveva assunto quella della Sicilia proclamando, tra l’altro, il Regno d’Italia prima dello stesso Vittorio Emanuele II. La canzone è costruita alternando il ricordo delle grandi battaglie alla quiete pastorale del presente a Caprera. Nella mente del grande generale appare nitido il ricordo di Quarto, quando le navi dei volontari sembravano “sospinte dal respiro stesso dei petti eroici”, con la “prora diritta a gloria e a morte”, navi piene di “melodia e di ruggito”, perché esiste anche una melodia della guerra, come spesso si sottolinea in questa canzone, una melodia che nasce dall’anima stessa del popolo, eroica e nello stesso tempo pastorale, derivata dalla poesia della patria. I garibaldini partono accompagnati dai delfini e, evocando un’immagine dantesca, dalla virtù delle stelle: presenza del cosmo che sembra partecipare alle azioni di Garibaldi anche in altri passi della canzone. La prima tappa del loro viaggio suggerisce importanti presagi: come il luogo dell’argonauta Telamone (ovvero Talamone), e poi la Maremma dove il generale romano Mario liberò gli schiavi dalle loro catene. Come già abbiamo sottolineato a proposito di Mario Bianco, anche in questa canzone, d’Annunzio ritiene beato il primo morto caduto tra le spighe perché ha visto l’eroismo del grande generale negli occhi e la sua vita, quindi, è destinata rinascere. Si crea così intorno a Garibaldi un’aura di misticismo, come se si trattasse di una figura salvifica, per la quale il poeta ricorre alle immagini evangeliche del Salvatore cristiano: prima di Calatafimi, ad esempio, Garibaldi spezza il pane sotto un ulivo con i suoi (metafora eucaristica della Passione), perché dopo si deve affrontare il colle “aspro di sette cerchi”, il “balzo di Dante”, sacro e difficile come la salita della montagna del Purgatorio, tanto da imporre una battaglia per ogni balza. In questo contesto si introducono atti di valore dei singoli che devono esprimere, da un lato l’individualità, ma dall’altro l’idea della coralità popolare dell’azione, sempre importanti, perché costituiscono esempi concreti che devono spingere chi legge a emularli: Francesco Nullo sul suo cavallo, sembra una figura umana e insieme ferina per la forza e l’audacia, al punto da essere simile ad un centauro, perché appare fuso con l’animale che cavalca. Bixio, paragonato a Giovanni dalle Bande Nere (si noti ancora il riferimento rinascimentale) si strappa da solo dalla carne il proiettile che lo ha colpito. E d’Annunzio evoca gli incendi e i morti soprattutto a Palermo, come una fornace purificatrice dalla quale la città rinasce come la Fenice, finalmente libera. Su tutto domina il sorriso calmo e divino di Garibaldi che non teme la morte, quasi non fosse umano. Ma dopo l’esaltazione, nella mente del generale compaiono anche i presagi negativi, quell’acqua putrida offertagli da un contadino a Teano diviene il simbolo delle future amarezze come l’Aspromonte e Mentana, delle incomprensioni e degli scontri col governo italiano. E poi tornano le immagini di morte dei cari compagni, sempre a Calatafimi, e le parole di Bixio:“Dunque così voi volete morire?”. Parole che riecheggiano nella mente del generale quando vede il suo “doppio” Deodato Schiaffino da Camogli, il marinaio che gli somiglia, riverso sul declivio della collina, nel proprio sangue; Garibaldi lo guarda come se osservasse in uno specchio la morte che vorrebbe per sé. E infine, ritorna nella sua mente il pensiero dominante, il più doloroso: quello di Roma nel 1849, dell’agro e della città conquistata un giorno e poi perduta, contesa a borbonici e francesi palmo a palmo, con incredibili atti di valore: Luciano Manara che balla davanti al nemico sotto il fuoco delle artiglierie 199 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia L’incorruttibile triumvirato della storia: Cincinnato, Garibaldi e Washington. A sinistra, calendario del 1863 con Garibaldi santo martire e gli ex voto delle sue imprese. In basso, Francesco Nullo progetto 10 L’azione e il dramma presso il Colle dei Cappuccini a Velletri, Garibaldi stesso che, in precedenza, nella stessa battaglia, travolto dai lancieri del Masina in fuga (impauriti dalle forze molto superiori dei borbonici), sebbene pesto e sanguinante, bacia la terra di Roma e viene salvato da un gruppo di giovinetti, di sedici anni o meno, guidati dal capitano Airoldi, i quali dimostrano infinito valore. Bixio colpito all’inguine che ancora schernisce la sua ferita, Masina che, pur ferito, torna al quarto assalto di villa Corsini e cade morto senza un lamento, con le braccia in croce come Cristo. Mameli, scrittore di inni come Simonide, muore sorridendo. Gerolamo Induno, il pittore lombardo, scampa miracolosamente alla morte, nonostante numerosi proiettili lo abbiano colpito.Viene ricordato, poi, il quinto assalto disperato del bresciano Emilio Dandolo che, dopo aver perduto suo fratello Enrico, decide di sacrificarsi (rimanendo gravemente ferito) per riprendere villa Corsini, ma inutilmente, perché Villa Corsini, riconquistata ai francesi, verrà pesantemente bombardata e quindi nuovamente perduta poco dopo. Mai, commenta D’Annunzio, lo spirito si è mostrato così forte come in quei soldati nel trascendere la debolezza della carne, al punto che i moribondi si sfasciavano le piaghe per lasciare un ricordo tangibile del loro martirio e spronare così i compagni a continuare la lotta. Erano venuti da tutte le parti d’Italia, perché questa è stata l’insurrezione di un intero popolo per la libertà della patria, e quello che si sparge sul suolo romano è il sangue repubblicano del venerato nome veneto dei Dandolo e dei Morosini. D’Annunzio sottolinea l’angoscia e la ferrea volontà che guida Garibaldi quando continua a gridare ai suoi “Avanti”, pur sapendo che li sta mandando verso una morte quasi Garibaldi alla difesa di Roma (parte del dipinto certa. Ma, conclude D’Annunzio, quel giorno “chi morì, morì vittorioso” perché fu ripresa la zona di Porta “Panorama Garibaldi”di San Pancrazio (battaglia del Vascello). 1,40x83 m conservato presso la Brown University Ora, nel ricordo di quella disperata difesa del ’49, Garibaldi esclama: “Non invano moriste, o dolci figli” E promette :“Verrò, verrò, là donde di Providence). A destra, Garibaldi nei panni del mi partii ritornerò (…) ritornerò, Madre, per ben morire”. E mentre il Redentore in una stampa maestrale porta l’eco del suo saluto sulla Città Eterna, ode il belato popolare dell’800. In di un agnello perduto e, proprio come il buon pastore, lo prende in basso, il monumento a braccio per portarlo alla madre; giungendo, il cane lo riconosce come Giuseppe Verdi a Parma Argo con Ulisse, nonostante le pene sofferte, poi, dopo aver ricontato le sue pecore, guida il gregge verso il mare zufolando una melodia della pampa, per sempre pastore dei suoi… Verdi il gigante della Terra Se la patria e l’eroismo hanno una loro musica, in Italia essa ha un solo nome: Giuseppe Verdi. Il grande compositore è per d’Annunzio un titano, nato dalla terra d’Italia, per la sua figura il poeta nutre una vera e propria venerazione, come un nume tutelare della patria e lo chiama “il re della melodia”: “Una voce mancò alla Città: quella [cioè Giuseppe Giacosa, n.d.r.] che seppe dire il cordoglio di tutti quando il vecchio re della melodia si ricongiunse al mistero della sorgente” (Della malattia e dell’arte musica da Il Compagno dagli occhi senza cigli) Un elemento particolarmente sottolineato da d’Annunzio è il religioso rispetto dei milanesi quando il grande musicista stava combattendo la sua ultima battaglia con la morte: “Nella città che in giorni memorabili, interrotta la ressa delle cure consuete sospesa l’ansia della cotidiana gara in una tregua di contemplazione e di meraviglia, stette intenta con animo religioso alla stupenda lotta che il trovatore di cento melodie combatteva con 200 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma la morte e fu tocca e segnata dalla bellezza.”(Orazione ai Milanesi, In morte di Giosué Carducci) Ma la musica, non è, dal suo punto di vista, l’unico elemento che fa di Verdi una personalità pari a Dante o Michelangelo: ci sono altre componenti fondamentali come i libretti, le brillanti soluzioni teatrali, la coralità popolare, la religione della patria. Nell’Orazione ai giovani che venne declamata presso l’Aula Magna dell’Istituto fiorentino di Studi superiori, nel trentesimo giorno dalla morte del grande musicista, come introduzione alla canzone (poi inserita nel Libro ascetico della Giovane Italia con il titolo Esempio italico del Genio vittorioso esposto ai giovani d’Italia), D’Annunzio, infatti, afferma esplicitamente che l’arte musicale è soggetta ad un cambiamento repentino, come se già considerasse la produzione verdiana quasi “datata”, musicalmente non più adeguata ai tempi. Questo, però, in fondo, è un aspetto marginale per D’Annunzio, perché Verdi è soprattutto il grande maestro che ha rivoluzionato il dramma in musica, operando la sintesi di tutte le arti del teatro e della tragedia, divenendo espressione della coscienza popolare e sua stessa autoco-scienza. Il concetto della sintesi delle arti attraverso il melodramma è ampiamente sostenuto da d’Annunzio nel romanzo Il fuoco e solo considerando questo aspetto si può spiegare per quale motivo il poeta abruzzese nella canzone immagini che siano addirittura Dante, Leonardo e Michelangelo a tessere l’elogio funebre del grande musicista, poiché essi rappresentano le figure esemplari e le presenze ispiratrici di tutta la produzione dannunziana. I riferimenti a Dante nell’opera del Vate sono costanti, perché nel suo immaginario l’autore della Divina Commedia si identifica totalmente con l’Italia e con la figura dell’artista militante animato dall’amor di patria.A Leonardo d’Annunzio ha dedicato, come maestro di ispirazione, tutto il romanzo Le vergini delle rocce e per lui rappresenta il genio creativo di cui si sente discepolo, paragonandolo a Socrate per le sue doti “maieutiche” nel trarre fuori la verità dalla natura ed esplorare realtà nuove. Per quanto riguarda Michelangelo, poi, oltre ad essere un uomo che non si piegava di fronte a nulla, scolpito nel suo stesso marmo per la sua invincibile volontà, capace come nessun altro di dare forma ai moti interni dello spirito, possedeva prodigiose qualità di artefice quasi fosse guidato direttamente da mano divina nell’esecuzione, come d’Annunzio spiega ampiamente a proposito degli affreschi della Sistina completamente eseguiti direttamente sul muro a fresco senza cartoni:“Non aveva egli la guida dei cartoni. E con che s’aiutava egli dunque?” Si chiede ammirato il poeta nel Notturno. Come Dante, Giuseppe Verdi è un personaggio decisivo per la costi-tuzione dello Stato italiano e della sua identità culturale: l’amor di patria, la religione laica, la convinzione che la poesia sia veicolo di valori civili e umani sono tutti elementi che lo legano al grande poeta fiorentino; ma non dobbiamo dimenticare anche la serrata concitazione dei suoi libretti e la sintesi mirabile del verso che racchiude tutto un mondo in poche immagini figurali, divenute nel melodramma “parola scenica”, determinando la potenza dei campi semantici nei libretti verdiani dai molti simboli e significati, alla quale lo stesso d’Annunzio spesso si ispirò.Verdi, inoltre, come già notavamo per Dante, incarna l’ideale dannunziano dell’artista militante costantemente in lotta per affermare idealità alte, scevre da ogni mediocrità. Verdi è il patriota, talvolta incompreso nel proprio secolo per la vasta lungimiranza del suo pensiero. La sua opera ha tutta l’energia solenne e viscerale di un rito di popolo, simile ad un’antica tragedia, come 201 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Una suggestiva immagine del coro del Nabucco. A sinistra, particolare del monumento di Dante a Trento. In basso, Giuseppe Verdi ritratto da Vincenzo Gemito progetto 10 L’azione e il dramma Giovanni Boldini Ritratto di Giuseppe Verdi. Sotto, Antifona amatoria di Basiliola tratta dalla Nave di G. d’Annunzio musica di Ildebrando Pizzetti (soprannominato dal poeta Ildebrando da Parma) d’Annunzio spiega nell’Orazione ai giovani. In questo contesto la paragona all’“ellenica arte” dello scultore Vincenzo Gemito che ritrasse Verdi meditabondo eppure fiammeggiante del suo irrefrenabile ingegno creativo. Proprio nell’Orazione d’Annunzio afferma che lo spirito di Verdi fa parte dell’Italia come i suoi fiumi, i suoi monti, i suoi vulcani e la sua immagine del Genio vive ormai nella mente di ogni italiano come una componente costitutiva, una parte della coscienza comune. A d’Annunzio non interessa l’opera verista di un Puccini o di un Mascagni sul quale si ricorda la sprezzante definizione di “capobanda” a proposito della Cavalleria Rusticana (e il loro successivo travagliato rapporto per l’orchestrazione di Parisina) ma il mito, come ben spiega parlando di Verdi ai giovani. E il mito per costruirsi ha bisogno di profondità storica, che viene ottenuta anche attraverso la scelta del linguaggio volutamente arcaizzante. Ciò che del grande musicista bussetano gli italiani devono seguire ed emulare è l’atto creativo, teso continuamente verso il nuovo e verso il futuro, come egli fece fino alla fine della sua veneranda vecchiaia.Anche in questo accomunato agli altri tre grandi del passato che lo vegliano nel suo trapasso, i quali ricercarono la bellezza e l’arte fino agli ultimi giorni della loro vita, instancabili. L’elemento dell’energia creativa che si presenta come un’aura che avvolge il Genio, viene sottolineato nella sua commemorazione del 11 maggio 1913 anche dal musicista e musicologo bresciano Luigi Tebaldini, grande ammiratore e amico di Verdi, già direttore del Conservatorio del Regio di Parma. Il Tebaldini infatti, ricordava la profonda impressione che la visione della maestosa figura di Verdi aveva suscitato nel giovane Ildebrando Pizzetti, (il compositore delle musiche delle opere dannunziane La Nave, Pisanelle, Fedra) il quale poi attribuì l’origine della sua passione per la musica a quell’incontro che misteriosamente lo aveva illuminato sul suo destino di artista:“apriva così gli occhi dell’anima alla Luce e alla Vita e li apriva per virtù di una visione di sogno che il Genio di Verdi doveva rendere sempre più luminosa e sfolgorante”. Già seguendo per proprio conto il motto “Ideale Genio” poi coniato dal Tebaldini, d’Annunzio non intende perciò ricordare né citare le opere verdiane come cimeli del passato (a parte un fugace riferimento ad Aida per l’epoca in cui era stato realizzato il ritratto di Gemito), ma vuole evocare il suo spirito come una presenza che deve animare i giovani oggi.Verdi non è morto perché la sua mente è come l’oceano, mobile ed eterna, distesa sull’Italia e nelle menti degli italiani protesi verso il futuro. Come hanno notato Vincenzo Borghetti e Riccardo Pecci ne Il bacio della sfinge il teatro di d’Annunzio e il melodramma, al melodramma verdiano d’Annunzio deve molto, soprattutto ai libretti, sebbene non l’abbia mai apertamente ammesso, non a caso la sua è un tipo di poesia che si presta bene alla stesura di testi per opere in musica. D’Annunzio fa uso di un linguaggio che con evidenza deriva dal melodramma: un linguaggio arcaico e continuamente sovrabbondante e teatrale, innaturale perché costantemente portato all’eccesso, di evidente origine rinascimentale con ripetizioni e ridondanze. L’arcaismo è funzionale a suggerire la profonda appartenenza ad una cultura comune, 202 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma esaltando la sensazione che quelle immagini vengano da un passato lontano che ci attraversa come nei drammi storici verdiani.Anche la componente fortemente visionaria, in cui il passato viene rivissuto all’interno di ambienti antichi come una sorta di scenografia teatrale nella quale ambientare una storia rivisitata nei più minuti e immaginosi dettagli, può essere fatta derivare senz’altro dall’uso tipico del melodramma verdiano e donizettiano, soprattutto, di ridare vita a fatti e personaggi storici e di percepire i loro spiriti ancora presenti e operanti nel luogo che li aveva visti protagonisti (si pensi, ad esempio, al ruolo del Palazzo Ducale di Mantova, nel Forse che sì forse che no o dell’intera città di Venezia nel Fuoco). Anche la lingua di Verdi è ispirata a quella rinascimentale (Petrarca e i petrarcheschi - Tasso) costantemente aulica e volta ad esprimere passioni estreme come d’altra parte avviene in D’Annunzio, portando la tensione fino al parossismo. Le parole utilizzate nei libretti verdiani di Piave, Boito, ma anche Cammarano sono spesso le stesse usate poi dal poeta abruzzese, il quale esalta la ricercatezza del linguaggio epico rendendolo ancora più composito con il gusto del termine raro e prezioso (si veda a riguardo G. L. Passerini Il vocabolario carducciano con due appendici ai vocabolarii dannunziani e al pascoliano dello stesso autore). Per le eroine, invece, potrebbe essersi ispirato alla regina Elisabetta del Devereux di Donizetti, ad esempio, alla Lucrezia Borgia o all’Anna Bolena, sempre opere del compositore bergamasco. Il tema ossessivo della “maledizione” tipica di molti soggetti verdiani come la Forza del destino, Rigoletto, Boccanegra ritorna, per esempio, in modo esasperante e non certo casuale nella Figlia di Iorio e nella Fiaccola sotto il moggio.Anche il “Ripeti giuro” del Boccanegra ricorda i motti fiumani, mentre le continue ripetizioni delle battute, tese a drammatizzare al massimo i dialoghi si trovano un po’ dappertutto nell’opera dannunziana. Di diverso, però, rispetto a Verdi, d’Annunzio mostra la sua sensibilità decadente nel creare arte dall’arte sulla falsariga, per esempio, di Liszt, grande rielaboratore di capolavori del passato. Verdi è, invece, un originale inventore, come Leonardo che era dotato dello spirito della creazione degno della Natura stessa e per questo capace di sognare “Soli ignoti”. Come Leonardo egli ha indagato mondi inesplorati, quelli dell’interiorità umana, nei quali, al pari di Shakespeare e sull’onda del grande Bardo, è stato maestro, anticipando perfino la psicanalisi, come possiamo notare nei risvolti psicologici studiati fino all’ossessione dei rapporti familiari o amorosi in una continua e lacerante dialettica. Le opere di Verdi, infatti, non sono semplicemente politiche o patriottiche, ma per d’Annunzio sono un organismo vivente nato dalla terra, così come l’artista-titano che le ha generate. Lo spirito del genio, infatti, si fonde in esse con lo spirito della natura, perché alla sua energia universale appartengono. Misteriosamente tali opere indagano sui moventi più intimi dell’animo umano, sull’idea stessa di tragedia dove si muovono i sentimenti estremi allo stato puro e dove l’imperativo morale di un Sofocle si unisce e si scontra con l’irrefrenabile passione euripidea, in una complessa sintesi di motivi privati e civili.Verdi è maestro nell’indagine di moventi nascosti, nel sottintendere e nel suggerire allo spettatore inusitate prospettive di visione sul destino e sui rapporti umani con quelle ossessioni per il padre, le sorelle, le rivalità mortali tra fratelli, tutti elementi che di sicuro hanno affascinato d’Annunzio ideatore a sua volta di complesse costruzioni mentali e simmetriche: si veda, ad esempio, nel Forse che sì forse che no, le gelosie morbose che si scatenano tra Vana e Isabella per Paolo e, allo stesso tempo, l’amore incestuoso di Aldo per Isabella; ma anche nel Fuoco troviamo la polarità sdoppiata di Foscarina e Donatella, dove la Foscarina ricorda ad Effrena la sorella Sofia e così nel Piacere dove, addirittura, Elena trova il suo perfetto doppio fisico, ma non psicologico in Maria Ferres. Lo scrittore abruzzese appare affascinato dai nascosti legami incestuosi, ma anche dalla rivalità, fatta di timore e attrazione, nei confronti della figura paterna. Da fine interprete d’Annunzio ha intuito che nelle opere più riuscite di Verdi la tragedia 203 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia La copia dello spartito del Trovatore in francese appartenuto a d’Annunzio (Biblioteca del Vittoriale) progetto 10 L’azione e il dramma non nasce dalla tragica fatalità, ma dalla dissociazione della coscienza che spesso si rifiuta di vedere ciò che a tutti è evidente (come, per esempio, la quasi inspiegabile incapacità di riconoscersi dei due fratelli nel Trovatore); oppure, altro elemento molto interessante e tipico dei libretti verdiani, la ricerca disperata di ritrovare anche in un nemico una figura paterna che non si è mai avuta (Traviata, Simon Boccanegra,Vespri siciliani).Tutti elementi questi, che di sicuro hanno avuto presa su D’Annunzio, costantemente attratto da situazioni mentali complesse e, come dicevamo, dal suo morboso rapporto con la madre e la sorella Elvira riassunte nel suo immaginario dalla figura della Duse. Il prigione morente nella Nelle opere di Verdi, come in quelle di D’Annunzio, c’è sempre una intenzionale ambiguità, un ampio Sala della Leda, emblema margine di non-detto che spesso lascia volutamente il lettore/ascoltatore in un labirinto di significati del teatro. A destra, da esplicare. Sempre con il riferimento alla Duse si spiegano, tra l’altro, le connessioni tra Verdi e il monumento a Verdi Michelangelo: nel Fuoco, infatti, le sue statue, soprattutto quelle dei Prigioni, vengono messe in diretta a Busseto. In basso, i funerali di Giuseppe Verdi relazione con il teatro per le loro pose plastiche cariche di energie compresse. D’Annunzio paragonava spesso le movenze della Duse agli Schiavi michelangioleschi, soprattutto al Prigione morente a lui particolarmente caro, come possiamo constatare dai calchi inseriti sia nella Sala dei Calchi nello Schifamondo sia nella Sala della Leda di fronte al suo letto. Quel gesto del braccio sollevato dietro la testa era l’elemento più teatrale e sensuale della grande attrice tragica, l’emblema stesso del teatro, che il poeta amava particolarmente al punto di dorare personalmente alcune parti della statua. Michelangelo creatore di eroi ribelli simili a lui, continuamente in lotta con la materia grezza, rappresenta l’anima stessa della tragedia, la lotta delle due necessità opposte, l’ansia della liberazione. L’arte di Verdi nasce, quindi, dal cuore della terra, dalla roccia: nella sua arte pulsa l’idealità e la sanguigna forza del popolo, l’orma di tutti quei grandi del passato di cui si pone come erede nella sintesi perfetta del melodramma. Gli eroi di Verdi sono letteralmente scolpiti, così come spesso in d’Annunzio emerge il paragone tra scultura e musica, perché la sinfonia musicale appare scavata nella pietra, resa tridimensionale dalla sua forza vitale. Nella canzone a lui dedicata, la spaziosa fronte di Verdi viene descritta come la cima delle Alpi, pura, enorme e isolata, egli ha stampato sulla terra vaste orme della forza creatrice, simili a quelle dei suoi grandi predecessori. L’orma di Verdi, impressa nella “materna zolla” (un altro riferimento all’energia “terrestre” della sua musica) è pari a quella degli antichi eroi, proprio come quella del Bonaparte manzoniano. La visione dannunziana di Verdi è isolata nella sua grandezza “leonina”, come Garibaldi, con la sua chioma ribelle che incornicia il volto severo e dai lineamenti scolpiti. Come Garibaldi, anche lo spirito di Verdi non può morire, è semplicemente tornato nel mistero della “sorgente”, essendo parte delle energie primigenie della Natura: per questo il poeta lo descrive come una nuvola di “titanica mole” che, sopra il cielo, continua a splendere anche durante la notte la quale “non ha contro a lei possa”. L’anima dell’eroe rimane sospesa alla soglia della morte, e nell’attesa si sprigiona la “melodia suprema”. Ritorna ancora l’idea della ricordanza e dell’aspettazione soprattutto nell’Orazione ai Giovani per esprimere il concetto di eternità dello spirito eroico che perennemente sopravvive per animare un nuovo condottiero in futuro. Per 204 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 10 L’azione e il dramma d’Annunzio, come già aveva scritto a proposito di Wagner nel romanzo Il fuoco, ad accompagnare verso la morte il musicista è sempre la melodia sognata da giovane e mai scritta. Così, nel caso di Verdi, quella melodia unica e irripetibile è formata da “un immenso coro di popoli” che si estende su tutta l’Italia e accompagna l’anima del musicista in cielo. Come al solito, il poeta si ispira alla realtà, poiché la salma di Verdi era stata accompagnata alla tomba dal famoso “Va’, pensiero” dal Nabucco. Quello stesso coro che lo aveva spinto a ritornare alla musica dopo un periodo di sfiducia e scoraggiamento: l’immagine di un popolo unito che sa superare ogni sventura e ogni ostacolo. La creazione di una nuova coesione e autocoscienza popolare è, infatti, in Verdi una preoccupazione fondamentale alla quale d’Annunzio non può non associarsi: il grande musicista bussetano ha saputo dare voce all’anima nazionale, ai suoi lutti, ma anche a ciò che la Patria ha di più sacro. Proprio per la loro funzione didascalica, in molte opere verdiane troviamo una critica al popolo ancora incosciente che è dubbioso nelle sue scelte e crede a chiunque sappia in qualche modo persuaderlo con la demagogia. Altre volte il popolo è “dormiente”, incapace di prendere in mano le redini del proprio destino, come quello del celebre coro manzoniano Dagli atrii muscosi dai fori cadenti: nel Simon Boccanegra, scritto in relazione alla sfortunata spedizione di Carlo Pisacane nel Regno delle due Sicilie, il popolo riesce ad imporre un doge di origine popolare ai nobili genovesi, ma poi le controversie interne e le divisioni per interessi privati o per scarsa capacità di valutare i fatti, fanno sì che il potere così faticosamente conquistato torni alla fazione nobiliare dei guelfi, che, invece, sanno essere ben decisi e granitici nel rivendicare i loro privilegi. Al contrario, nel Nabucco la forza del popolo unito non solo è capace anche di battere un re, ma di smuovere la stessa volontà divina portandola dalla propria parte fino alla riconquista della patria e addirittura alla conversione del nemico. Nei Vespri Siciliani, invece, Verdi sottolinea la sua profonda convinzione che nulla sia superiore alla religione della patria, neppure l’amore che si deve ad un padre se questi è in realtà un nemico e un invasore che opprime la nazione (coerentemente con il mito di alcune personalità antiche quali, ad esempio, Lucio Giunio Bruto che aveva anteposto il bene della patria anche all’amore per un figlio). Per questo con gli invasori non c’è alcuna possibilità di conciliazione, ma il popolo siciliano, guidato da Giovanni da Procida, si riprenderà la propria isola. Tragica è, invece, la presa di posizione di Verdi nell’Attila dove la gente italica è imbelle e inconsapevole, il generale romano Ezio si limita a venire vergognosamente a patti con i barbari e si deve contare sul coraggio di una donna per liberare l’Italia dal suo oppressore. La lotta di Verdi per la libertà non è stata meno eroica di quella dell’Eroe dei due mondi, sfidando quasi sempre la censura: la sua meditazione politica sulle sorti dell’Italia ha determinato la diffusione degli ideali liberali e la presa di coscienza del popolo, che in alcune opere, come nel Boccanegra, viene spronato proprio a evitare le controversie interne e a riconoscere l’identità della nazione italiana (“Adria e Liguria hanno patria comune”). Alcuni motti verdiani, espunti anche dal contesto per cui erano stati scritti, nel corso del Risorgimento erano diventati proverbiali come il “resti l’Italia a me” del generale Ezio nell’Attila. Un artista militante in piena regola, quindi, che metteva in scena un regicidio realmente accaduto come nel Ballo in maschera, andando incontro alle ire della censura borbonica. Nelle sue opere i nobili sono spesso caratterizzati da un disprezzo orgoglioso e protervo dei diritti altrui e pretendono amore approfittando 205 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia L’uccisione di Carlo Pisacane e dei suoi compagni da parte dei contadini a Sanza. Sotto, la scena del Consiglio del Simon Boccanegra emblema delle discordie tra gli italiani e all’interno delle cittadinanze (Teatro alla Scala 2010, edizione con Placido Domingo) progetto 10 L’azione e il dramma Bozzetto per I lombardi alla prima crociata della loro posizione di superiorità, come nella Luisa Miller o nel Trovatore. Ciò che più entusiasma d’Annunzio sono soprattutto i soggetti storici che fanno rivivere le corti del Rinascimento o le vicende delle antiche Repubbliche del Medioevo. Le storie come I due Foscari ambientata a Venezia, il Simon Boccanegra di Genova, I Vespri siciliani di Palermo, il Rigoletto di Mantova. Non a caso d’Annunzio pare non amasse particolarmente la Traviata (anche se ne possedeva lo spartito), perché opera di argomento contemporaneo e per questo priva del suo valore di exemplum mitico. Gli altri spartiti che si trovano nella Prioria, sono invece di opere ambientate nel passato più caro al poeta: Ernani, Rigoletto, Trovatore, Aida. Naturalmente in d’Annunzio troviamo di Verdi anche gli aspetti più nazionalistici e, di conseguenza, retorici e deteriori. Nuovamente si deve far riferimento all’entourage del Manzoni, per quanto riguarda la storia dei Lombardi alla prima crociata raccontata in versi da Tommaso Grossi e citata in uno scritto dal Manzoni stesso. Ripresa da Verdi, tale vicenda costituirà la trama dell’opera omonima: in essa appare molto evidente un nazionalismo a sfondo religioso (che tra l’altro non troviamo più in Jerusalem, versione per i teatri francesi dell’opera) sulla scorta anche del Tasso della Gerusalemme liberata. Nei Lombardi si assiste ad un vero e proprio scontro di civiltà e i musulmani possono giungere sì in paradiso, ma solo se convertiti alla vera fede e solo dopo aver perso il regno ed essere diventati dei martiri, perché dalla schiatta degli “oppressor discesi”, coerentemente con il pensiero del Manzoni delle tragedie. Perciò anche il pensiero di Verdi è già venato di quel nazionalismo in cui amor di patria e religione si confondono; pensiero che sarà poi tipico anche di d’Annunzio e che contribuirà alla visione dello straniero come un nemico da combattere. Ma il messaggio di coesione e positività supera senz’altro anche gli aspetti negativi. d’Annunzio paragona la miriade di persone che Verdi aveva unito attraverso la sua musica per combattere “la santa guerra” (quella contro gli straneri che si opponevano all’Unità italiana) alla moltitudine che si era radunata per rendere omaggio alla salma del Maestro: la speranza di un’Italia unita che lo aveva animato fin da giovane si realizza nella silenziosa e dolente comunione degli Italiani davanti “ai troni ed ai vetusti altari ove l’Italia fu regina e iddìa” in occasione del suo funerale. Questa immagine del popolo è il vero simbolo della nuova Italia: cittadini uniti sotto una cultura comune, dalle virtù condivise, che non si fanno abbindolare dalla propaganda, che non sono divisi da conflitti interni, che insieme conquistano la libertà del loro Paese. Questo è l’auspicio di Verdi, di d’Annunzio, e anche il nostro, ricordando i travagliati, eroici e drammatici 150 anni della nostra storia. 206 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 11 Le donne del Risorgimento LA PARTENZA DEL GARIBALDINO Autore Gerolamo Induno Fu pittore e patriota italiano , nato e vissuto per lo più a Milano, dal 1827 al 1890. Ritrattista, autore di quadri di genere e allegorici, frequentò l’Accademia di Brera e fu allievo di Luigi Sabatelli e Hayez. Partecipò alla guerra d’indipendenza del 1848 e ferito, fuggì in Svizzera col fratello Domenico, pure patriota e pittore. Data dell’opera 1860 Tipo Olio su tela Dimensioni cm 59,8 x 45,3 Firma Firmato in basso a destra “Ger.mo Induno” Provenienza Biella, Collezione Famiglia Fila (fino al 1989) Collocazione attuale Piacenza, Galleria Arte Moderna Ricci Oddi (altre due versioni sono al Museo del Risorgimento di Milano) Fonti Archivio Cariplo, Atti 879 R 807 Descrizione Come gran parte della produzione patriottica di Gerolamo Induno, anche questa tela è caratterizzata da una retorica intimista piuttosto accentuata, collegata all’evocazione dei risvolti più nascosti e drammatici dell’epopea risorgimentale e alle sue ripercussioni sulle realtà familiari. Fa parte del repertorio realistico-sentimentale. Caratterizzata dall’uso di raffinati accordi tonali, l’immagine restituisce con straordinaria abilità i dettagli ambientali che accrescono il tono di intimità domestica della composizione. Il soggetto rappresentato è un garibaldino nel momento in cui saluta la madre. Recentemente è stato sottoposto ad un intervento di restauro, eseguito da Pier Lorenzo Ranieri Trenti. Fonti www.edixxon.com/fondcariplo/arte_800/02_opere/1132.html; it.wikipedia.org/wiki/Gerolamo_Induno; digilander.libero.it/trombealvento/induno/induno.htm; Catalogo Bolaffi della pittura italiana dell’Ottocento, G.Bolaffi ed. 1970 LA PARTENZA DEL GARIBALDINO Autore Ignazio Affanni Nacque a Parma nel 1828. Studiò all’Accademia parmense di Belle Arti e nel 1859 si trasferì a Firenze. Tornato a Parma, ebbe numerose cariche ed onorificenze. Fu fatto, tra l’altro, accademico d’onore a Napoli, vinse premi di pittura e mandò i suoi quadri anche all’estero (Gerolamo Savonarola in carcere all’Esposizione universale di Vienna del 1869). I suoi quadri di soggetto storico sono in linea con la moda dei pittori risorgimentali del tempo,come ad esempio Hayez. In molte sue opere è evidente il gusto accademico volto ad esaltare un mondo d’affetti e vita quotidiana che gli avvenimenti bellici stanno per spezzare per sempre, come nel dipinto La partenza del garibaldino. Data dell’opera 1861 Collocazione attuale Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna Descrizione La partenza del garibaldino è una delle tante opere del pittore Ignazio Affanni 209 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Copia di un particolare significativo dell’opera La partenza del Garibaldino di G.Induno progetto 11 Le donne del Risorgimento Copia di un particolare significativo dell’opera La partenza del Garibaldino di I.Affanni dipinte durante le guerre d’Indipendenza. Il soggetto del dipinto rappresenta un giovane uomo con la camicia rossa tipica dei garibaldini nell’atto di salutare presumibilmente la madre e la sorellina prima di partire con Garibaldi. E` rappresentato mentre porge una mano alla madre e tiene nell’altra il suo fucile; sul fianco porta una bisaccia grigia. Sua madre è seduta su un masso al crocicchio di una strada ed è vestita poveramente come le donne contadine dell’epoca. Gli occhi della donna cercano quelli del figlio, che però guardano altrove con una tristezza che non vuole che la madre noti, forse pensando al suo futuro e se riuscirà mai a tornare a casa dalla sua famiglia. Dietro madre e figlio c’è una ragazza, la sorellina del garibaldino; guarda il fratello con occhi tristi e si asciuga le lacrime con un fazzoletto di stoffa. In primo piano in basso a sinistra, è stato appoggiato accanto ad una roccia un fagotto di stracci, forse contenente viveri preparati dalla madre per il figlio in viaggio. La scena si svolge in campagna, come si può dedurre dai sassi sul lato della strada, dal muretto in pietra da cui spuntano le piante più alte e dal modo di vestire della madre e della sorella. Fonti biblioteche2.comune.parma.it; iltirreno.gelocal.it/livorno CUCITRICI DI CAMICIE ROSSE Autore Odoardo Borrani Nacque a Pisa nel 1833, trasferitosi a Firenze studiò sotto il Bezzuoli e divenne allievo dell’Accademia. Aderì al gruppo dei Macchiaioli partecipando alla “Scuola di Pergentina” e divenne famoso per la ricerca di effetti luministici ottenuti dipingendo all’aperto. Si occupò di restauri delle pitture fiorentine di Giotto, di Paolo Uccello e del Ghirlandaio e la sua arte ne rimase influenzata per i contrasti luminosi, per la narrazione compositiva e per la precisione dei contorni. Nel 1859 partì volontario per le guerre di unificazione d’Italia. Data dell’opera 1863 Tipo Dipinto ad olio Dimensioni cm 66x54 Collocazione attuale Torino, Palazzo Bricherasio Descrizione L’opera Le cucitrici di camicie rosse è stata realizzata da Borrani in un clima di intensa partecipazione emotiva alle prime crisi politiche dell’Italia Unita. Il fascino dell’opera è dato dall’intimità della narrazione e dai simboli che devono essere letti in funzione della storia. L’opera mostra una stanza della casa ottocentesca con quattro donne dedite alla confezione delle giubbe di tela rossa. Il lavoro per queste donne sembra quasi una preghiera, o meglio il loro rito di partecipazione alle vicende risorgimentali. Apparentemente la scena si presenta tranquilla. La donna a destra è completamente presa dal suo lavoro. Le due donne a sinistra, in piedi, indossano una cuffia tipica dell’ambiente domestico, che sottolinea l’ovale del viso, che così risulta candido e composto,così come deve essere la donna della nuova borghesia. L’artista non trascura 210 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 11 Le donne del Risorgimento nessun dettaglio e ci narra con meticolosità dei costumi dell’epoca, delle mode delle acconciature e ci riporta i canoni e il gusto di quel tempo. Nella stanza troviamo inoltre una conchiglia che è simbolo di rinascita; un’alzata di cristallo con delle rose, simbolo d’amore e forse dello scorrere del tempo. Questa composizione rappresenta una realtà ricca di emozioni per gli avvenimenti che stavano cambiando la storia d’Italia. Fonti www.wikipedia.it; Catalogo Bolaffi della pittura italiana dell’Ottocento. G.Bolaffi ed. 1970 26 APRILE 1859 Autore Odoardo Borrani Tipo olio su tela Dimensioni cm 75x58 Collocazione attuale collezione privata Descrizione In questo dipinto, presentato da Borrani alla Prima Esposizione Nazionale del 1861, si riflette il clima di fervore democratico che accompagnò gli avvenimenti del 1859; la celebrazione non è legata però a un episodio particolare bensì è interiorizzata nella compostezza di una giovane donna intenta a cucire il tricolore. L’opera costituisce anche un momento molto significativo nello sviluppo del realismo in Toscana, infatti conserva la tradizione dei quadri storici, con accesa fantasia romantica, ma se ne distacca perchè tutto viene rappresentato tramite l’esperienza quotidiana e familiare tipica del realismo. Il quadro ottenne un grande successo durante la sua prima apparizione. Solo recentemente è riapparso sul mercato, permettendo di apprezzare l’ apporto che il giovane Borrani dette alla trasformazione del quadro di genere in Toscana. Il motivo di questo dipinto fu ripreso nel capolavoro: Le cucitrici di camicie rosse. Fonti www.artesuarte.it; F. Dini Fattori e i macchiaioli, da”Igrandi maestri dell’arte” IL sole 24 ore 2008 211 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia Copia di un particolare dell’opera Cucitrici di camicie rosse di Odoardo Borrani. In basso, copia di un particolare dell’opera 26 aprile 1859 di Odoardo Borrani progetto 11 Le donne del Risorgimento UNA DONNA PER LE DONNE “Ma perchè l’originalità dev’essere una virtù per l’uomo e un difetto per la donna?” La principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso, con il suo carattere estroverso, le particolari idee, lo spirito rivoluzionario e una assai singolare visione del mondo attirò l’attenzione del popolo italiano, ma anche di molti europei, innalzando e valorizzando la figura femminile. Ella fu un personaggio notevole, lungimirante e combattivo. Dedicò tutta la sua vita per esaltare i valori ed il rispetto delle donne.Visitò l’Europa e l’Asia Minore, esponendo le sue idee e diffondendo la cultura, ospitando nei vari salotti diverse figure illustri appartenenti al mondo dell’arte, della politica e del giornalismo. La principessa, nata a Milano il 28 giugno 1808, ebbe una vita travagliata: suo padre morì prematuramente quando Cristina era ancora bambina; sua madre si risposò con il marchese Alessandro d’Aragona dal quale ebbe tre figli.All’età di sedici anni si sposò con Emilio di Belgiojoso, ma dopo qualche anno venne a conoscenza dei numerosi tradimenti da parte del marito, trovando il coraggio di farsi rispettare senza scendere a compromessi. A causa delle sue idee politiche gli Austriaci la volevano catturare; quindi si rifugiò a Nizza e si stabilì in una villa a Carqueiranne, dove ideò un piano di insurrezione. Nel 1831 fu costretta a trovare un nuovo rifugio a Parigi, avendo contribuito ad un’azione contro l’Austria. Divenne una figura importante nell’alta società parigina anche grazie all’aiuto di Lafayette, il quale le permise di affermarsi come giornalista e scrittrice.Tra le sue opere citiamo i Ricordi nell’esilio, che riportano le lettere scambiate tra lei e l’amica Caroline Jaubert riguardanti l’esilio della principessa nelle terre d’Oriente. Una seconda opera, intitolata Un principe curdo, narra le vicende amorose di un nobile ragazzo molto innamorato della moglie, la quale però rifiuta sia i suoi doni che il suo amore. In questo romanzo viene evidenziata inoltre la capacità delle donne di agire e di scegliere, lottando contro gli ostacoli interni ed esterni che in entrambe le società, quella occidentale e quella orientale, ne limitano la libertà di scelta. Nel maggio 1832 si trasferì nel palazzo del duca de Plaisance, dove aprì un suo salotto che ospitava i patrioti italiani liberati dal carcere, bisognosi di sostegno morale e fisico. In Cristina si sviluppò l’essenziale bisogno di dedicarsi agli altri e il salotto divenne presto uno dei più frequentati e rinomati di Parigi. Entrando in contatto con molte persone, imparò a imporsi per non essere dominata e a contare solo su se stessa. Dal 1934 iniziò per lei un periodo difficile contrassegnato dai lutti delle persone a lei più care, tra cui il marchese Lafayette e la madre. Sconvolta da quest’ultima perdita, decise di chiudere il salotto, rimanendo in contatto solo con gli amici più intimi. L’unica consolazione per lei fu la nascita della figlia Maria, avuta da Emilio quando si ritrovarono a Parigi. Nel 1840 ritornò a Milano, sua città natale dove aprì un asilo e una scuola, insegnando anche alle giovani mamme la puericultura. Ma negli anni seguenti fu di nuovo afflitta dalla mestizia a causa della morte della sua amica Giulia Beccaria, madre di Alessandro Manzoni, e dalla definitiva separazione dal marito Emilio. Nel 1844 ideò il progetto della Gazzetta Italiana, per richiamare l’attenzione del popolo sul problema sociale e diede vita alla rivista l’Ausonio. Dopo alcuni anni si unì a Mazzini e in seguito alla prima battaglia militare a Roma si preoccupò di trovare locali nei quali accogliere e curare i feriti, creando “ospedali” che vennero purtroppo distrutti dai francesi. Perciò Cristina decise di allontanarsi dalla città essendo anche accusata di furti e malversazione nell’amministrazione delle ambulanze. Dopo numerosi viaggi tornò a Milano, dove morì nel 1871, sola e abbandonata da tutti. Per trenta anni nessuno parlò più di lei, fino a quando, all’inizio del Novecento, alcuni autori decisero di narrare le sue illustri gesta. La figura dell’eroina compare nel film Noi credevamo di Mario Martone, interpretata da Francesca Inaudi (nella parte giovanile) e da Anna Bonaiuto (in quella matura). Il film narra la storia di tre giovani, Domenico, Salvatore e Angelo, che giurano di consacrare la propria vita per la libertà e l’indipendenza del Paese affiliandosi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Raggiungono Parigi, dove hanno modo di conoscere l’affascinante principessa Cristina di Belgiojoso ed infine partecipano al tentativo di assassinare Re Carlo Alberto e ai moti savoiardi del 1834. Il fallimento di entrambe le missioni marca una profonda crisi nei tre giovani patrioti, facendo spiccare le differenze 212 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 11 Le donne del Risorgimento di classe che già in partenza rendevano diversi Angelo e Domenico, di ceto nobiliare, da Salvatore, umile figlio del popolo. Mentre Domenico riprende l’attività cospiratoria,Angelo, accecato dalla violenza della rivoluzione, uccide Salvatore, accusato di essere diventato una spia. Passano gli anni, passa il ’48, cade la Repubblica romana. Domenico, caduto in un’imboscata borbonica, viene condannato a una lunga pena detentiva. In carcere, l’amicizia di alcuni compagni di prigionia, soprattutto quella del sensibile Duca Sigismondo di Castromediano, lo aiuta a sopravvivere al sadismo delle guardie e al rimpianto della perduta libertà. Egli, da sempre repubblicano, è costretto ad assistere in disparte, con amara rassegnazione, al giuramento di fedeltà alla causa monarchica.Angelo, ossessionato dalla violenza, si distacca da Mazzini ed entra in contatto con Felice Orsini, al quale si lega. Le bombe di un fallito attentato a Napoleone III, pianificato da Orsini e da Angelo, provocano una strage che causa la morte di otto innocenti e centocinquanta feriti. Catturato e processato,Angelo muore sul patibolo con Orsini; ad assistere all’esecuzione è presente, tra la folla sbigottita, Domenico, appena uscito dal carcere. Egli, nonostante la premura e le raccomandazioni di Cristina Belgiojoso, non riesce a placare la sua irrequietezza e perciò torna al Sud unendosi a Garibaldi. Qui ha modo di conoscere Saverio, figlio di Salvatore, che ha intenzione di partecipare alla spedizione con lui. Ma con grande disperazione Domenico non potrà impedire, fallita l’impresa sulle montagne dell’Aspromonte, che il giovane Saverio perda la vita per mano della brutale repressione piemontese. Da allora in poi Domenico non farà altro che pensare con rammarico alla sanguinosa nascita dell’Italia contemporanea. La Belgiojoso viene citata anche in canzoni patriottiche, come La bella Gigogin, creata da Paolo Giorza ispirato da varie strofe di diversi canti. La canzone ebbe un tale successo che le bande militari austriache avevano imparano a suonare La Bella Gigogin e quando a Magenta si trovarono di fronte i francesi intonarono le note della canzone in segno di attacco. Il fatto divertente è che i francesi risposero col ritornello “Daghela avanti un passo” e quindi al suono della stessa canzone i due eserciti si affrontarono. La parola Gigogin è un termine piemontese utilizzato come diminutivo di Teresa (uno dei dodici nomi della Principessa). La canzone fu ufficialmente cantata in pubblico il 31 dicembre del 1858 nel Teatro Carcano di Milano durante un concerto offerto dalla Banda Civica, diretta dal maestro Rossari. Di seguito mostriamo il testo che ha entusiasmato l’animo dei nostri combattenti: O la bella Gigogin trallerillerilellera, la vas a spas col su sposin trallerillerillellà. A quindici anni facevo l’amore dàghela avanti un passo delizia del mio cuore! A sedici anni ho preso marito: dàghela avanti un passo delizia del mio cuore! A diciassette mi sono spartita: dàghela avanti un passo delizia del mio cuor. La ven, la ven, la ven alla finestra, l è tutta, l è tutta, l è tutta cipriada. La dis, la dis, la dis che l è malada, per non per non, per non mangiar polenta, bisogna, bisogna, bisogna aver pazienza lassàla, lassàla, lassàla maridà. O la bella Gigogin trallerillerilellera, la vas a spas col su sposin trallerillerillellà. La ven, la ven, la ven alla finestra, la dis, la dis, la dis che l è malada, bisogna, bisogna, bisogna aver pazienza lassàla, lassàla, lassàla maridà. O la bella Gigogin trallerillerilellera, la vas a spas col su sposin trallerillerillellà. 213 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 11 Le donne del Risorgimento Questo brano è stato inserito, insieme al canto popolare La rondinella pellegrina, nello opera teatrale Cristina di Belgiojoso: dodici nomi, cinque vite ideato dal regista Fabrizio Foccoli con Franca Ferrari nel ruolo della nostra Principessa e con la musica dal vivo del compositore Davide Bonetti. Questo spettacolo sottolinea, con testi scelti, le contraddizioni risorgimentali derivate dall’egemonia politica moderata, alleata dei ceti intermedi, che emarginava il mondo popolare ma anche le donne, seppur nobili, colte, preparate e con spiccato intelletto. Tra le frasi che catturano maggiormente l’attenzione troviamo: “La condizione della donna non è tollerabile se non nella gioventù.” “… Le poche voci femminili che si levano per chiedere agli uomini il riconoscimento della loro uguaglianza hanno una maggioranza di avversari femminili anche più grande di quella maschile.” “Mentre la morte si aggira per le nostra strade, la maggior parte degli uomini che abbiamo nominato badava a spartirsi le cariche e ad assicurarsi la sua parte di potere.” “Noi non siamo i primi d’Europa, ma gli ultimi.” Come spiegato precedentemente, La rondinella pellegrina è presente nello spettacolo ed era anch’esso un canto patriottico che consolava gli spiriti dei soldati. Questa splendida ballata, scritta nel 1834 da Tommaso Grossi, canta la nostalgia di un patriota prigioniero per la Patria. Il brano divenne molto popolare soprattutto in Toscana. Ecco di seguito il testo: Rondinella pellegrina che ti posi in sul verone ricantando ogni mattina quella flebile canzone che vuoi dirmi in tua favella pellegrina rondinella? Solitaria nell’oblio dal tuo sposo abbandonata piangi forse al pianto mio vedovetta sconsolata? Piangi piangi in tua favella pellegrina rondinella. Pur di me manco infelice tu alle penne almen t’affidi scorri il lago e la pendice empi l’aria dÈ tuoi gridi tutto il giorno in tua favella lui chiamando o rondinella. Oh se anch’io... Ma lo contende questa bassa e angusta volta dove sole non risplende Bibliografia: www.wikipedia.it Adriano Bassi, Le eroine del risorgimento, Zanetti 1996. cronologia.leonardo.it angolotesti.it www.laboratooimmaginedonna.it 214 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia dove l’aria ancor m’è tolta donde a te la mia favella giunge appena, o rondinella. Il settembre innanzi viene e a lasciarmi ti prepari: tu vedrai lontane arene, nuovi monti, nuovi mari salutando in tua favella pellegrina rondinella. Ed io tutte le mattine riaprendo gli occhi al pianto fra le nevi e fra le brine crederò d’udir quel canto, onde par che in tua favella mi compianga, o rondinella. Una croce a primavera troverai su questo suolo: rondinella in su la sera sovra lei raccogli il volo: dimmi pace in tua favella pellegrina rondinella. progetto 11 Le donne del Risorgimento ERMINIA FUÀ FUSINATO Patriota, poetessa, educatrice “Esultate, fratelli! Oh non è questa Fallace larva che il desio colora! Dal suo letargo qual leon s’è desta Italia nostra ancora, E intorno a un vessillo unico a santo Segno del suo riscatto, Quanti han sperato e pianto Si strinser tutti in un fraterno patto.” Botturi Irene, Ritratto di Erminia Fuà Fusinato, L’animo della poetessa si effonde carboncino con tanto abbandono nei canti patriottici. I versi delle poesie di Erminia Fuà Fusinato celebrano reali dolori e un inno di esultanza per l’inattesa liberazione. Nata il 5 ottobre 1834 a Rovigo da genitori ebrei, Erminia si trasferì giovanissima a Padova. Non frequentò scuole, né ebbe un’istruzione sistematica, ma la sua formazione fu guidata dallo zio Benedetto, fratello del padre, e venne integrata dall’ascolto delle conversazioni tenute in casa sua da illustri poeti e artisti di stampo liberale. All’età di 13 anni il meraviglioso risvegliarsi d’Italia e i sacri entusiasmi che precedono le prime battaglie nazionali la commossero tanto da farle scrivere canti patriottici, ma la sua formazione poetica assumerà dimensione più compiuta solo dopo l’incontro con Arnaldo Fusinato, all’età di 17 anni, attratta dai suoi versi. L’amore tra la fanciulla e il poeta sbocciò improvvisamente con grande disagio da parte dei genitori di Erminia, poiché l’uomo, oltre ad essere vedovo, era anche molto anziano e le differenze religiose, lei ebrea e lui cattolico, per la famiglia Fuà costituivano un ostacolo che ponevano al loro matrimonio. Ma il 7 maggio 1856 Erminia abbandonò la casa paterna alla volta di Venezia, dove il 6 agosto si sposò; nonostante si fosse convertita al cattolicesimo, accontentando così il marito, dopo poco tempo si riconciliò con i genitori. Appena sposata, andò a vivere a Castelfranco Veneto presso la suocera del marito, con la quale instaurò un legame quasi materno tanto da dare in suo onore alla figlia minore il suo nome, Teresita. Nella casa di Castelfranco Erminia è attiva sia al fianco del marito e del cognato nell’organizzazione della resistenza antiaustriaca, sia come autrice di versi patriottici nei quali incita i Savoia all’azione. Nell’autunno del 1856 sono ospiti di Ippolito Nievo a Colloredo, in Friuli. Sarà Erminia, dopo la morte dello scrittore, a cercare ostinatamente un editore per le Confessioni di un italiano, che usciranno presso Le Monnier nel 1867 con alcuni suoi versi di accompagnamento e il titolo Le confessioni di un ottuagenario. L’arresto del fratello nel 1864 e il sospetto di cospirazione antiaustriaca costringono Arnaldo ad abbandonare il Veneto e a trasferirsi a Firenze, dove apre il Teatro delle Logge e si dedica con alterne fortune a speculazioni edilizie. Nel 1866 Erminia lo raggiunge e si inserisce presto negli ambienti letterari della città, frequentando Tommaseo, Capponi, Mamiani, Carducci e altri illustri personaggi. Nel 1870, essendo divenuta molto precaria la situazione economica familiare a causa di alcune operazioni finanziarie mal riuscite di Arnaldo, a Erminia fu offerto da Cesare Correnti, ministro della pubblica istruzione, un lavoro alle scuole e ai collegi femminili della provincia napoletana. Fu così nota a molti come istitutrice e si aprì per lei una nuova vita culturale, nata dall’ammirazione che aveva suscitato nei suoi prestigiosi amici. In seguito accettò la cattedra di lettere nella scuola governativa di Roma; nel 1873 fu invitata a dirigere la scuola superiore femminile e in seguito fondò 215 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 11 Le donne del Risorgimento Calco in gesso raffigurante Erminia Fuà Fusinato, Fondazione Ugo Da Como, Lonato la Società per l’istruzione superiore della donna. Nominata quindi a ricoprire una funzione pubblica, lei che era stata fino ad allora una tenera sposa e madre e che aveva allacciato rapporti sociali basati solo sull’amicizia e sulla reciproca stima, si trovò proiettata in un ruolo professionale di ispettrice, insegnante, direttrice, incarichi che le richiesero di rifondare sia la sua vita privata sia quella pubblica. Sarà in questa nuova situazione che ella richiamerà il conflitto tra il dovere dell’educazione dei figli e il dovere del lavoro, nel timore che quest’ultimo potesse negativamente influire sul loro sereno sviluppo. In questo momento matura anche la sua impostazione dell’educazione femminile come richiamo ad una sintesi che concili l’impegno familiare con quello lavorativo. Secondo Erminia nella società dei tempi nuovi la donna si doveva occupare dei lavori domestici senza però tralasciare l’istruzione. Infatti ella scrive: “ Emancipazione non già dai sacri doveri, dagli affetti soavi della famiglia, bensì da quella inerte ignoranza che è fonte perenne, e fonte unica, d’ogni materiale e morale miseria. Se mi piace mille volte più la donna prettamente massaia che quella dedita prettamente al dolce far nulla, preferirò a tutte colei che, pur rimanendo devota a quella cerchia di attribuzioni meglio confacendo all’indole sua, trova modo di vegliare la famiglia e di accrescere il decoro e il benessere con l’opera propria”. La sua strada prese una nuova direzione che ha lasciato segni profondi nella sua vita, come è testimoniato negli Scritti educativi, raccolti in un volume e successivamente pubblicati da Ghivizzani, che sono la fonte più ricca per avvicinare il suo pensiero pedagogico. Per la donna l’educazione non è l’adattamento a una norma, ma la ricerca di motivazioni interiori che regolino le proprie scelte, è il rapporto tra il proprio modo di essere e di sentire e un ideale riferimento che ci si è proposti, è la volontà di costruire in modo autonomo e consapevole il proprio ideali di vita: “Studiamo noi stessi ed i nostri simili, cerchiamo nella realtà della vita e negli esempi offertici dai libri dei saggi, un esemplare, un ideale cui sarebbe bello assomigliare ed esercitiamo quindi tutta la forza della volontà nel cercare di avvicinarci moralmente e intellettualmente alla perfezione vagheggiata ”. In poche pagine dei Ricordi ( opera pubblicata nel 1887 ) sono documentate le ansie, i timori, gli affanni e i dubbi che la tormentavano sulla sua capacità di assolvere il nuovo impegno di insegnante; ella, che non aveva mai avuto insegnanti, decise di prendere lezioni private che le dessero una preparazione più organica. Non trascurò conferenze e dissertazioni, di leggere molto, di scambiarsi lettere con importanti amici e di rivolgere il suo pensiero al marito e ai figli lontani, uno in collegio a Venezia, l’altro a Mantova presso dei parenti e Teresita a Firenze con Arnaldo, che nel 1874 si trasferirono a Roma da Erminia. Rassegnò le dimissioni da maestra della Scuola normale nel 1873 e pochi giorni dopo fu nominata direttrice della futura Scuola superiore femminile: “ La Palombella”. Nel 1875-76 ricevette molte soddisfazioni da alcune lezioni morali tenute alle sue studentesse della Scuola superiore normale femminile di Roma. A luglio andò a Padova dove rivide il figlio Gino che partiva con il suo reggimento per Cividale, poi fu a Venezia dal figlio Guido che aveva appena superato gli esami di licenza liceale. Ammalatasi non poté partire per Levico e per Roncegno e si fermò ad Arsiè tutta l’estate, ritornando a 216 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 11 Le donne del Risorgimento Roma a fine settembre. Passando per Padova, nei Ricordi del 22 settembre 1876 annotava :“Saluto questi luoghi, questi esseri diletti, come fosse per ultima volta che li rivedo!”. Otto giorni dopo, il 30 Settembre 1876, morì a Roma di tubercolosi. L’intervento educativo della Fusinato si presenta come uno sforzo di migliorarsi, un ideale per cui valga la pena di impegnarsi nella propria vita. La sua concezione è costantemente attenta alla realtà in cui l’educazione si svolge e offre una proposta al fine di renderne i contenuti e i principi morali atteggiamenti volontari e sostanziali dell’agire umano. L’educazione della donna è stata una tematica riguardo la quale la Fusinato ha dedicato ampio spazio nei suoi scritti educativi, nei quali la donna assume la dimensione di una persona con una propria dignità, essenza autonoma e ricca di future realizzazioni in campo umano e professionale. Infatti secondo il suo pensiero le donne, oltre al ruolo di spose e madri dovrebbero anche sentire la propria dignità e sostenerla con il proprio lavoro. L’educazione è da lei quindi intesa come raggiungimento di armonia interiore, come superamento dell’armonia tra l’essere e l’agire, attraverso un impegno personale che ciascuno dirige verso mete migliorative consapevolmente scelte. Il lavoro femminile extradomestico come impegno della donna nella società, e l’educazione familiare in rapporto di interscambio con quella scolastica sono i temi centrali del pensiero educativo della Fusinato. Le esigenze dei nuovi tempi (l’Italia unita, la rivoluzione industriale, la diffusione dell’alfabetismo, la partecipazione alla vita pubblica di strati sempre più ampi) postulano una ridefinizione del ruolo dell’uomo nella società nuova che va delineandosi. Secondo la Fuà anche la donna deve farsi partecipe di questo processo innovatore, inserendosi attivamente con la sua opera, calibrata tra l’ambito della famiglia e quello del proprio lavoro, per proporre una sintesi ideale di interiorità ed esteriorità, con l’obiettivo di realizzare il superamento della propria emarginazione. Leggendo le sue opere si capisce immediatamente che l’autrice è una donna, poiché in ogni componimento si trova sempre una strofa, un verso, che solo una donna potrebbe scrivere in quel modo. Il suo essere donna ha dato maggiore rilievo alle sue qualità e l’ha condotta a rilevare con predilezione le cose più umili, tanto nel mondo fisico quanto in quello morale. Negli scritti pedagogici di Erminia troviamo idee anticonformiste, lontane dal modello femminile dell’ epoca. Erminia non sembra essere consapevole dell’aspetto innovativo del suo comportamento e delle sue scelte di vita. Nel periodo nel quale è vissuta Erminia Fuà Fusinato alle donne era permesso di coltivare interessi soltanto in ambito domestico: le attività predilette erano il ricamo, il disegno, la scrittura. L’educazione ricevuta dallo zio Benedetto e la assidua frequentazione della biblioteca del padre, che le trasmise la passione per la botanica, permisero ad Erminia di sviluppare una concezione della donna molto innovativa.A quel tempo era inconcepibile per la gran parte degli uomini borghesi che le donne potessero avere opinioni pertinenti su questioni politiche, eppure Erminia le aveva. Con il marito Arnaldo ella condivideva, oltre alla passione per la poesia, anche un certo patriottismo antiasburgico. Il matrimonio non approvato dalla famiglia è sicuramente un aspetto che denota grande emancipazione da parte di Erminia. In un tempo in cui è ancora forte la tradizione di gestire da parte dei genitori i matrimoni dei figli, possiamo notare come la libera decisione di Erminia anticipa di oltre un secolo forme di emancipazione femminile. Possiamo definire il suo un femminismo liberale, moderato e non radicale, in quanto ella non rivendica per le donne diritti ulteriori se non quello di istruirsi di più e meglio; inoltre non troviamo nei suoi scritti intenti di rovesciamento dell’ordine patriarcale vigente. “Fu detto che i versi sono fiori, che la stagione dei fiori è la primavera e che quanto più un popolo s’inoltra in una vigorosa state o s’avvicina ad un fruttifero autunno tanto più i versi, queste leggiadre e fragili creazioni di un’ora, debbono cedere il luogo ai forti concetti, agli studi profondi ed esatti. Sta bene; ma quando i versi non si fanno la sterile interpretazione di una personalità, per illustre che sia; quando non sono l’eco di ciance sonore, o non si perdono in un mondo fantastico, straniero affatto alle dure necessità del presente, ma anzi cantano reali dolori, tentano destare coll’armonia delle forme la compassione verso gli afflitti, o, meglio ancora, fanno suonare alto lo strepito delle catene 217 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 11 Le donne del Risorgimento e il lamento dei lunghi martirii a conforto degli oppressi, a cruccio pauroso degli oppressori, allora quei versi sono fiori d’ogni stagione, e acquistano la natura immarcescibile dei semprevivi, più la fragranza. Ora appunto i pochi ma vaghi fiori, che mi tengo onorato di presentarvi hanno quest’ultimo carattere; un grido e un sospiro, una tacita lagrima e uno stridore di denti, un ardente ma velato desiderio ed una forte protesta, una voce di conforto per tutte le nazioni, che gemono in servitù, ed un inno di esultanza per l’inaspettata liberazione. Così fatti, essi hanno diritto ad essere accolti favorevolmente dal pubblico al pari dei più gagliardi concetti, degli studi più positivi e severi. Sono idee dell’oggi, sentimenti dell’oggi; rispondono ad un bisogno dell’intelletto e del cuore; furono il lampo, che rompeva le tenebre d’una lunga e tempestosa notte, sono il sole, che saluta una campagna guasta dalla gragnuola, a cui promette una seconda e più vivace vegetazione. [...]” È questa l’introduzione del libro “A Venezia” scritto da Erminia nel 1867 dove sono racchiuse innumerevoli poesie, tra cui “Viva l’Italia Unita”, che parla dell’unità d’Italia, avvenuta 150 anni fa, della quale abbiamo citato i primi versi all’inizio del saggio. “Viva l’Italia unita! Il grido è questo che fra gli artigli della rea nemica l’ultimo anello infrangerà ben presto della catena antica; ed all’amplesso della gran famiglia Che le braccia le stende, Ridonerà la figlia, Che guarda in volto a’suoi tiranni e attende!” GIUDITTA BELLERIO SIDOLI Ritratto di Giuditta Sidoli Negli anni tormentati del nostro Risorgimento, molte sono le figure di donne che hanno lavorato al raggiungimento dell’unità italiana, al fianco di ben più noti illustri personaggi della nostra storia. L’oscurità e il silenzio che sono calati su tante donne che hanno messo la propria vita a disposizione della lotta risorgimentale, rappresentano uno di quei buchi neri che continuano a inghiottire le presenze femminili della nostra cultura, passata e contemporanea. È giunto il momento di restituire visibilità almeno a una di queste. Giuditta Bellerio Sidoli (Milano, 16 gennaio 1804-Torino, 28 marzo 1871) è stata una patriota italiana. Suo padre era Andrea Bellerio, magistrato nel “Regno Italico”. Fu una donna piuttosto indipendente per l’epoca in cui viveva. Sposò a sedici anni Giovanni Sidoli, ricco possidente terriero di Montecchio Emilia ed iscritto alla carboneria modenese con lo pseudonimo di “Decade”. Per sfuggire agli arresti ordinati da Francesco IV d’Asburgo-Este, che avrebbero portato al “processo di Rubiera”, Giovanni Sidoli si riparò in Svizzera nel 1821 e la moglie lo seguì non appena nata la figlia Maria. Nel marzo dell’anno dopo la situazione in Italia non era migliorata, anzi, l’Austria intervenne militarmente ai moti di Napoli. A causa di questo fatto il regime di polizia elesse norme molto severe: si può essere accusati di qualunque cosa, come pena la morte. In questo periodo pronunciarono una sentenza di morte contro Sidoli, per questo la famiglia è costretta a restare in Svizzera, dove muore Giovanni nel 1828. Durante l’esilio, i coniugi misero al mondo altri tre figli: Elvira, Corinna e Achille. Alla morte del padre, i quattro figli furono tolti a Giuditta dal suocero che, fedele a Francesco IV, rifiutò di far allevare la sua discendenza da una “ribelle” all’autorità legittima. Nonostante i periodici tentativi, la madre non riuscì a rivederli per otto lunghi anni. Giuditta rientrò in Italia, su invito di Ciro Menotti, per partecipare ai moti di Reggio Emilia del 1831. Anche se ancora scossa per la morte del marito, Giuditta porta in cuore un ardito desiderio: la 218 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 11 Le donne del Risorgimento battaglia per il riscatto dell’Italia. A Modena il 3 febbraio di questo stesso anno, scatta una congiura contro il duca Francesco IV, ma i congiurati sono catturati. Tra loro è Ciro Menotti, da tempo in corrispondenza con Giuditta. Quest’ultima è stata protagonista della rivoluzione modenese, anzi è scesa in piazza a manifestare contro il potere a capo di un gruppo di rivoluzionari, indossando un abito tricolore. La gioia è breve. Giuditta è obbligata a lasciare il ducato di Modena e prende ancora la via della Svizzera. Stringe amicizia con il principe Emilio Barbiano di Belgioioso a Lugano e dopo essersi spostata a Ginevra, prende contatti con i rivoluzionari emiliani rifugiati a Marsiglia. Dove vi si stabilisce in seguito alle sue peregrinazioni. In casa sua dava asilo a molti connazionali, come lei cacciati dalla patria, perseguitati dalla polizia di mezza Europa. Qui conosce Giuseppe Mazzini. Sono loro i due personaggi eminenti della consorteria di rue de Féréol, i cui adepti si propongono di liberare l’Italia dallo straniero per farne uno Stato unitario, libero e repubblicano. Fondano così la Giovine Italia e Giuditta ne è la responsabile e la contabile. I due ben presto divengono amanti: è lei la collaboratrice e la consigliera più ascoltata di Pippo (Mazzini). Verso la fine del giugno di quell’anno abbandona Marsiglia, recandosi insieme a Mazzini a Ginevra. Egli versa in pessime condizioni di salute, ma lascia comunque la Francia per non essere catturato dalla polizia. La vicenda sentimentale che lega i due era altalenante: ella pensa solo a riabbracciare i suoi figli, vuole assolutamente tornare in Italia e non è ossessionata come lui dall’idea della patria da liberare. Giuditta prima di tornare in Italia, passa per Montpellier sulle orme del marito scomparso. Segretamente si imbarca da Marsiglia verso Livorno, ma a causa di una tempesta l’imbarcazione cambia rotta e rientra in Francia. Riesce poco tempo dopo a giungere a Livorno e da lì misteriosamente si trasferisce alla Locanda Svizzera di Firenze sotto falso nome. Proprio in quei giorni la polizia segreta austriaca ha emanato un mandato di cattura per una pericolosa rivoluzionaria a Firenze, tracciandone una descrizione fisica corrispondente a quella di Giuditta. Ella allora volle incontrare il Bologna, poliziotto che conduce le indagini, con l’intento di portarlo fuori strada. Durante l’interrogatorio la Sidoli piange nel raccontare le sue vicende e alla fine il Bologna la congeda, ma si sta per accingere a tenderle una trappola. La polizia non ha ancora scoperto molto sul suo conto; sanno che Giuditta non è una buona cristiana, non osserva i precetti della chiesa e durante i giorni di quaresima mangia carne. La mattina del Natale dello stesso anno, è convocata ancora dalla polizia e ancora in lacrime proclama la sua innocenza: non rinnega il suo passato, ma per il presente non ha altro in mente se non riabbracciare i suoi figli. Il Bologna le suggerisce di lasciare la città di Firenze.Essendo diventata amica del console inglese nella capitale toscana, lo implora perché l’aiutasse a fuggire. Riuscì nel suo intento e con l’aiuto di Gino Capponi scappa, ma la polizia la rintraccia alla dogana di Lucca e Giuditta è infine espulsa, prima accompagnata a Livorno per essere imbarcata verso Napoli. La destinazione è stata da lei decisa sotto precise istruzioni di Mazzini.Lì dimora per poco, infine si reca a Roma. A Roma entra a far parte di una setta mazziniana, ma uno dei capi, Michele Accursi, che era una spia, inizia a seguirla, a controllarne la corrispondenza. La Sidoli è quindi costretta a lasciare la città e a recarsi a Bologna, con la speranza di poter tornare a Modena per riabbracciare i figli. Entra a Modena segretamente e da poco ha stretto a sé i figli, che viene scovata e riportata alla frontiera.Giuditta invecchia, ma porta pur sempre un certo fascino. È ancora una donna piacente, ed è frequentata dai più nobili personaggi del tempo ed ogni sera dà un ricevimento nel suo ambìto salotto ai quali partecipa anche Mazzini. Il 28 marzo 1871 spira, a Torino, stroncata da una polmonite. “Sorridimi sempre! È il solo sorriso che mi venga dalla vita”. Così Giuseppe Mazzini si rivolgeva a Giuditta Bellerio in una delle lettere più intime della loro lunga corrispondenza, e con queste parole le offre, come un innamorato “qualsiasi”, il tributo di un amore pienamente accolto e condiviso. E qualche anno dopo, ancora le scrive: “è impossibile che io faccia un romanzo su di te. V’è troppa storia per me nell’amore che ti ho portato e in tutto quanto ho sentito per te”. Ma della tanta “troppa storia” che Mazzini riconosce alla intensa relazione che lo ha legato a Giuditta, oggi resta soprattutto l’aurea d’un amore romantico che, se da una parte “scalda” la figura del patriota Mazzini, altrimenti interamente dedito alla causa risorgimentale, dall’altra vela e riconduce 219 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 11 Le donne del Risorgimento lei al ruolo di donna amata da un “grand’uomo” e per questo illuminata di una luce non propria. Ma Giuditta Bellerio non può in nessun modo essere ridotta a una figura di contorno dell’epopea mazziniana; l’affascinante, colta e bellissima, è una delle protagoniste dei momenti più accesi della storia dell’indipendenza italiana, avendone attraversato le fasi più significative insieme a personaggi che trovano sicuro rilievo nei libri di storia. Tantissime altre furono le poesie dedicate da Mazzini alla giovane donna, eccone alcune: La mia esistenza è in te... (25 ottobre 1834) … Tu sai ch’io t’amo.Te l’ho manifestato nelle mie gioie, e, ancor più, nei miei dolori. Sei dunque sicura del mio amore, più ancora che del tuo. Ormai non mi restano che delle idee e una fonte di emozioni, e questa fonte è in te: ogni moto dell’anima mi viene da te; in te è il segreto della mia futura esistenza, dato ch’io debba averne una. Sai ancora ch’io ho maledetto cento volte le mie idee perché non ti andavano a genio, e che sempre ti ho benedetto, anche quando mi davi dolore. Non posso pensare al tuo paese senza vedere la tua immagine come un simbolo della tua anima negli antichi tempi. …Una delle tue lettere non solo mi rende felice, ma mi fa migliore agli occhi miei; poiché, se tu m’ami, debbo pur avere in me qualche buona qualità, cosa di cui cominciavo a dubitare. La mia esistenza – ora lo so – è in te… Giuseppe Mazzini (a Giuditta Sidoli) Oltre il vento: Lettere di Mazzini a Giuditta Sidoli Tu sei IL mio angelo, il mio angelo adorato. Che posso dirti di più? Prendi questa parola com’io La prendo; come L’hanno presa i primi esseri che hanno creduto agli angeli; come se nessuno L’avesse pronunciata mai questa parola, prima di me; come se io stesso La pronunciassi qui, per la prima volta.Tuo per sempre, io non vivrò che per te: il mio cuore non batterà che per te; e quando esso batterà per La mia patria, sarà ancora per te, poiché in essa – sopra tutta La sua vasta superficie io non amo e non amerò che te…” ‘Giuditta, La mia Giuditta – che io possa dirti una volta nella mia lingua, nella tua Lingua che mi sei cara, che ti amo disperatamente, che ti amo ogni giorno di più, che né tempo né altro farà mai che io t’ami meno, che penso a te sempre, sempre, che sogno di te – che vivo per te – che ti ricordo come un prigioniero in patria, e La Libertà, che da te sola mi vien gioia, e dolore; – che t’ho amata, e ti amo come né posso dirti, nè tu, perdonami, puoi intendere, nè forse è bene che tu intenda. – Cara tanto,Angiolo mio, di’ m’ami tu ancora? – potresti dirmelo ancora con vera gioia? un mio bacio ti farebbe piacere, e tu dandomi un bacio, un Lungo bacio vedresti sfumar tutto, tutto dimenticheresti Il giornale La Repubblica la descrive così: Archivio la Repubblica 1984, 28 agosto 2007, p. 11 sezione:TORINO Giuditta, una ‘passionaria’ tra amori e cospirazioni Torino I’ha ricordata con una targa, posta sulla facciata dell’edificio al numero 20 di via Mazzini, e con I’intitolazione di una strada tra via Passo Buole e corso Traiano. Ma il suo nome, il nome di Giuditta Sidoli, oggi dice qualcosa forse soltanto agli studiosi del Risorgimento. Eppure questa donna, oltre che affascinante, colta e bellissima, fu una delle fulgide eroine risorgimentali, perseguitata e incarcerata da austriaci e borbonici, militante fervente della Giovine Italia, amante appassionata e ascoltata collaboratrice di Giuseppe Mazzini nei giorni felici di Marsiglia.Visse esule a Torino, in quel palazzo, per quasi vent’anni, dal 1852, tenendovi un salotto alla moda, frequentato da patrioti e profughi come Francesco Crispi, che vi fu ospitato per qualche tempo. E sempre in quell’abitazione e in quella via, che sarebbe poi stata intitolata proprio al suo Pippo Mazzini, morì sessantasettenne di polmonite, nel 1871. Negli ultimi anni era stata spesso assistita da Gustavo Modena, il grande attore drammatico deceduto nel 1851, che fu a sua volta compagno di lotta e di ideali del rivoluzionario genovese. La Sidoli spirò rifiutando i sacramenti della Chiesa, dopo avere detto di credere solo nel Dio degli esuli e dei vinti. Era nata a Milano, figlia del barone Andrea Belleri, magistrato nel Regno 220 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 11 Le donne del Risorgimento italico.A sedici anni aveva sposato a Reggio Emilia il carbonaro Giovanni Sidoli, con il quale condivise da subito la fede nell’ indipendenza e nella libertà dell’ Italia. Il naufragio dei moti costituzionali del 1821, la condanna a morte di Giovanni da parte del Duca di Modena, costrinsero la coppia a fuggire in Svizzera e in Francia. Qui, a Montpellier, Giovanni mori nel febbraio del 1828. Da quel momento la vita di Giuditta fu scandita da altre fughe e da nuove cospirazioni, una vera odissea. In prima linea nella sollevazione di Modena del febbraio 1831 contro il reazionario Francesco IV, amica di Ciro Menotti (che venne impiccato), dopo il fallimento della rivolta la giovane donna trovò riparo a Marsiglia. In una casa di rue Féreol, in cui dava asilo agli esiliati italiani, conobbe Mazzini. Tra i due s’ accese la passione. Fu grande, intensa, travagliata.Tanto che il capo della Giovine Italia, qualche anno dopo, le avrebbe ancora scritto:“è impossibile che io faccia un romanzo su dite. V’è troppa storia per me nell’ amore che ti ho portato e in tutto quanto ho sentito per te”. Quando Mazzini fu espulso dalla Francia e si stabilì in Svizzera, Giuditta volle rientrare in Italia per rivedere i figli che aveva avuto da Giovanni Sidoli. Il suo peregrinare la portò a Firenze, a Roma, a Modena, a Lucca, a Parma, a Milano, sempre controllata a vista dalle varie polizie e ogni tanto imprigionata. Nella capitale del Lombardo-Veneto fu messa ai ferri nel carcere di Santa Margherita, ma Ferencz Gyulai, comandante della prigione, la liberò.Allora, attraverso la Svizzera, raggiunse Torino, che all’ epoca pullulava di esuli da tutti gli stati italiani e dalle altre contrade d’Europa insorte contro gli austriaci nella “primavera dei popoli” del 1848. E a Torino, nel 1853, Giuditta rivide Mazzini, che vi era giunto clandestinamente dato che su di lui pendeva una condanna a morte firmata dalle autorità dello Stato sabaudo. Fu I’ultima volta che si incontrarono. Mazzini le voleva sempre bene, sebbene I’amore fosse tramontato. Giuditta, invece, I’amava ancora. Il ricordo doveroso di questa donna d’eccezione si unisce, partendo dalla sua casa a pochi passi da piazza Bodoni, a quello degli altri patrioti del Risorgimento, non solamente italiano, che dimorarono nei pressi. In via dei Mille, al numero 22, visse Lajos Kossuth, protagonista della rivoluzione ungherese del 1848. E nell’attigua Aiuola Balbo campeggiano i busti e i monumenti dedicati ad altre figure risorgimentali: dallo stesso Kossuth a Gustavo Modena, da Bava a Balbo, fino a Daniele Manin. Poco oltre, quindi, in via della Rocca, fu ospitato Giuseppe Garibaldi al numero 33, ed ebbe casa la Bela Rosin, moglie morganatica di Vittorio Emanuele Il. Senza dimenticare, infine, il monumento a Mazzini tra via Andrea Doria e via dei Mille, da poco restaurato ma di nuovo imbrattato dai giovani vandali del sabato sera, e quelli a Cavour, in piazza Carlina, e a Guglielmo Pepe, in piazza Maria Teresa. Massimo Novelli Bibliografia www.url.it/donnestoria/testi/trame/sidoli.htm; www.wikipedia.it; www.viaggionelventoblogspot.com; www.repubblica.it SARA NATHAN “Associate ad ogni vostra opera intellettuale e morale la donna”. Questa è una affermazione che stupì molto, nell’Ottocento, un periodo nel quale le donne non erano molto considerate dalla società, tuttavia alcune di esse, come Sara Levi Nathan, riuscirono a far valere le loro idee e i loro diritti. Sara fu una donna molto importante per quell’epoca: partecipò alla vita politica e sociale costruendo scuole per persone in difficoltà economica, poiché lei credeva che l’istruzione era necessaria per crearsi un futuro. Vennero fondati due istituti di cui uno, a Roma nel quartiere di Trastevere, dedicato a Mazzini e sotto la sua direzione. Sara lo creò con l’intento di insegnare alle bambine, non solo materie di studio, ma anche lavori professionali quali sarta, cucitrice e ricamatrice; spesso le seguì anche concluso il corso di studi, che era costituito da scuole elementari e superiori, procurando loro un lavoro presso sarte già affermate e talvolta assumendole lei stessa nella propria scuola. Nonostante la sua severità, seppe farsi amare dalle alunne che tendevano a sostituirla alla madre. La sua scuola venne molto contestata dai sacerdoti del quartiere, perché essendo laica sostituì 221 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 11 Le donne del Risorgimento all’insegnamento della dottrina cattolica quello dei “Doveri dell’uomo”, documento scritto da Mazzini che lei trasformò in un fascicoletto per facilitare lo studio alle bambine. Sara si impegnò nell’educazione delle fanciulle, come in quella dei suoi dodici figli avuti dal matrimonio con Moses Nathan, sposato nel 1836 all’età di sedici anni. Conobbe Mazzini, poiché suo marito sosteneva il Partito d’Azione, ed ebbe con lui molte conversazioni tramite corrispondenza. “Mia cara signora Nathan, com’Ella avrà già udito da Angelino Rosselli, parecchie signore inglesi hanno cominciato una Penny Subscription, in aiuto del nostro Fondo Nazionale. Pretendono raccogliere nientemeno che la somma di L.1000. Il metodo con cui procedono è semplicemente quello: 1) di raccogliere un penny da tutte le loro conoscenze, 2) di scegliere, fra i più intimi amici, Collettori che facciano lo stesso nel loro cerchio, e di pregarli di scegliere qui o in provincia altri Collettori colla stessa istruzione. Purché si sostenga il disegno con instancabile attività, si va così all’infinito. Vuol Ella esser Colletrice? e cercare qualche altra Signora che voglia farsi tale? Le cose stringono abbastanza per noi: l’insurrezione di Sicilia, se riesce, sarà secondata da qualche moto napoletano; e il moto napoletano trascinerà l’intervento Austriaco. Questo sarà il momento per noi”. Questa fu una delle prime lettere che Mazzini inviò a Sara, in cui le chiese una donazione per il Fondo Nazionale, proponendole di diffondere la notizia anche ad altre persone. Successivamente il rapporto tra i due divenne più profondo, poiché egli incominciò a frequentare anche la casa londinese dei Nathan, che diventò luogo d’incontro degli esuli politici italiani. Mazzini inviò molto spesso lettere di questo genere, nelle quali le chiedeva piccoli favori: “Volete comprare per me una scatola di qualunque forma, di dolci, principalmente di frutti canditi e chocolate-drops? […] vorrei poi che il signor Nathan mi facesse il piacere di comprare per me nella City cinque o sei pacchetti di cigarettes per donne: di diversa specie e forma, ma dei migliori. E me li mandereste insieme ai dolci. Mandatemi, vi prego, unito il conto della spesa. Sono regali e mi sentirei degradato se non li pagassi”. Dopo la morte improvvisa del marito avvenuta nell’estate del 1859, Sara interrupe temporaneamente la corrispondenza con Mazzini che riprenderà nel febbraio dell’anno seguente. Questa donna durante la sua vita fu costretta a superare molte difficoltà, tra cui la sua grave malattia, tanto pericolosa che portò gli amici a temere la sua morte; nonostante il lento recupero a causa della stagione invernale, riuscì a riprendersi potendo continuare così le sue attività quotidiane. Purtroppo si ammalò nuovamente, ma continuò a occuparsi della scuola finché le condizioni glielo permisero, trasferendosi anche a Londra, dove, in seguito a un’operazione che tenne nascosta ai figli, morì il 19 febbraio 1882. Una figlia ricorda così l’intervento segreto della madre: “Per timore di non poter essere utile, fosse di peso agli altri, volle subire un’operazione, senza neppure darne avviso ai figli. Preparò tutto come se fosse l’ultima ora e con un testamento di poche righe, fece capire alla famiglia quali furono i suoi desideri. Non poté pronunciarli a voce giacché un improvviso cambiamento, conseguenza di un operazione difficilissima, le tolse la parola prima che i suoi potessero vederla né udire le sue ultime dolci parole d’amore”. Il desiderio di Sara fu quello di essere sepolta a Roma, al Verano, così un suo vecchio amico si preoccupò di ottenerne l’autorizzazione del governo. La salma entrò senza rito religioso e venne deposta a poca distanza da quella dell’amico Maurizio Quadrio. Oggi, come racconta Amelia Rosselli, in una sua lettera, giorno dell’anniversario della sua morte, tutti i suoi parenti si riuniscono intorno alla sua tomba: 222 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 11 Le donne del Risorgimento “Donna di grande volontà, di grande intelligenza, la sua figura sempre grandeggiò nel ricordo dei figli, offuscando del tutto quella del padre, anche dopo morta. Per lunghissimi anni nel giorno anniversario della sua morte, il 19 febbraio, i figli e le figlie di Sara Nathan convenivano dai punti più lontani di Europa e si riunivano intorno alla sua tomba, a Campo Verano, a Roma. Il 20 febbraio, altra riunione, alla Scuola Mazzini nel popolare quartiere di Trastevere, fondata dalla famiglia Nathan in omaggio alla memoria di Giuseppe Mazzini: scuola a-religiosa, dove l’insegnamento religioso era sostituito alla lettura e commento dei Doveri dell’Uomo. La scuola era frequentata dalle ragazze del popolo, e oltre allo studio le iniziava a diversi mestieri. Insegnavano, per lo studio, alcune delle sorelle Nathan, e più tardi anche le nipoti, cioè la nuova generazione che cresceva e veniva educata agli stessi ideali”. Dopo la morte di Sara la responsabilità della scuola e dell’insegnamento passò ai figli che decisero di spostare la sede in un edificio più ampio e comodo con aule, spogliatoi, laboratori e un giardinetto dove far giocare le bambine. Nonostante le difficoltà finanziarie che dovettero sostenere, i fratelli cercarono al meglio di mantenere un alto livello di istruzione nella loro scuola, riuscendo a fare giungere a noi l’unica iniziativa educativa di stampo mazziniano, anche se trasformata ai giorni nostri. Oggi molte persone ricordano ancora Sara. Aurelio Saffi, un grande patriota mazziniano che le volle dedicare una via a Pesaro, la ricorda così: “Esemplificò in vita il tipo della Madre nella sua più alta significazione, educando la numerosa famiglia ad una verace coscienza del bene e ad una ferma volontà di recarlo in atto nell’opera della vita. Sentì profondamente col Grande che le fu Amico e Maestro, che il problema dé nostri destini era problema di educazione e che primo fondamento dell’educazione di un popolo era la redenzione morale e il rispetto della donna – si che, sorella, sposa o madre s’elevi con senso della propria dignità, a quello dé suoi doveri e natura, essa per prima, nella famiglia, la coscienza dei fini morali e delle responsabilità della vita nella società domestica, base alla grandezza delle Nazioni. Del quale sentire furono degni interpreti i figli suoi – né v’ha tra noi chi non ricordi e rimpiega con memore riconoscenza e devoto affetto il suo Giuseppe, milite della libertà e ad un tempo apostolo dei grandi principii della pubblica moralità e della dignità della persona umana”. Jessie White la considera: “modesta … cordiale … amena … nulla v’era di tetro, di pedante, di vano in lei! Intensamente credente in Dio e nell’immortalità dell’anima pregava operando – predicava (sorridendo) il dovere di tutti di vivere per gli altri quaggiù”. Bibliografia www.laprimaweb.it/2011/01/10/donne-e-democrazia-nel-risorgimento-saralevi-nathan/ www.radicalsocialismo.it/index.php?Itemid=91&id=59&option=com_ content&task=view www.archiviorosselli.it/User.it/index.php?PAGE=Sito_it/archivio www.monarchia.it/news_polito_ebrei.html www.regione.piemonte.it/cultura/risorgimento/sala8.htm molly.pisa.sbn.it:3000/it/news/notizie/isastia/ www.url.it/donnestoria/testi/trame/whitenathan.htm www.dialogare.ch/Dialo_Newsletter/13donne_esilio.pdf www2.dm.unito.it/~benenti/Unipop/NATHAN-Copertina.pdf www.enciclopediadelledonne.it/index.php?azione=pagina&id=361 www.archiviorosselli.it/User.it/index.php?PAGE=Sito_it/archivio_ inventario2&start=0&arch_id=1547 223 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia www.pesaro0914.comune.pesaro.pu.it/index.php?id=9334&tx_ ttnews%5Btt_news%5D=11309&tx_ttnews%5BbackPid%5D=10100&cH ash=f92d0ad4df pocobello.blogspot.com/2010/02/ebrei-e-il-risorgimento.html www.laprimaweb.it/tag/sara-levi-nathan/ www.hls-dhs-dss.ch/textes/i/I27479.php Libro:Anna Maria Isastia, Storia di una famiglia del risorgimento. Sarina, Giuseppe, Ernesto Nathan. Università popolare di Torino Ed. Ringraziamo per la disponibilità e collaborazione: La dott.ssa Anna Maria Isastia che ci ha fornito molte informazioni utili riguardo alla donna per la miglior svolta del lavoro; Mimmo Franzinelli per averci fornito il contatto con l’Istituto romano di storia della resistenza. progetto 12 La famiglia Da Como nel panorama del Risorgimento bresciano 1. UGO DA COMO E IL RISORGIMENTO BRESCIANO Il tema del Risorgimento italiano fu caro al senatore Ugo Da Como (nato a Brescia nel 1869, laureato brillantemente a Roma in Giurisprudenza, amico e collega di Giuseppe Zanardelli), che tra i molti interessi annovera anche quello per la storia d’Italia e in particolare per la storia bresciana, cui dedicò studi importanti. A tale interesse non è certo estranea la frequentazione, fin da fanciullo, con personalità della cultura risorgimentale bresciana, come Filippo Ugoni, Gabriele Rosa, Giuseppe Cesare Abba, ma soprattutto il clima respirato in famiglia. Ripercorrendo l’albero genealogico le sorprese infatti non mancano. Si viene a sapere che il nonno Filippo partecipò alla barricate delle Dieci Giornate e che il padre Giuseppe, matematico illustre amante della poesia, si infiammò di ardore risorgimentale per le imprese garibaldine, combattendo nella guerra del 1866 e componendo un carme dedicato a Garibaldi e intitolato alla città di Trento per auspicarne l’unione al Regno italiano. Formato a una tale scuola famigliare, il Senatore ebbe sempre a cuore la causa italiana, che egli servì sia attraverso una intensa attività politica a favore del Regno, sia nello studio appassionato degli eventi cruciali del Risorgimento, allo scopo di lasciarne ai posteri una memoria feconda. A tale riguardo condusse una serie di indagini sul ruolo di Brescia nella storia del Risorgimento, offrendo nel 1922 al Comitato nazionale per la Storia del Risorgimento una raccolta di manoscritti inediti da lui rinvenuti (carte ingiallite e diari) risalenti ai tempi della Repubblica Cisalpina relativi a condanne e persecuzioni avvenute nella primavera del 1799. Nel 1933, in occasione del Congresso dei maggiori studiosi del Risorgimento italiano organizzato dall’Ateneo bresciano, Da Como ospitò nella sua casa lonatese i partecipanti. Di quell’evento resta memoria in una fotografia scattata nel cortile davanti all’ingresso della dimora. Lo stesso Da Como contribuì poi al volume, edito dall’Ateneo, Brescia nel Risorgimento con il saggio iniziale sulle X Giornate di Brescia. L’intervento del Senatore riassume i fatti di quei gloriosi giorni, che lo stesso re Vittorio Emanuele II ammirò donando alla città il monumento raffigurante l’Italia che incorona di allori i caduti. Brescia si distinse per l’ampiezza della partecipazione, per l’impeto e il valore che supplirono alla mancanza di organizzazione. Il 23 marzo 1849 i patrioti bresciani, tra cui Tito Speri, organizzarono la rivolta contro il presidio militare austriaco ritiratosi in castello, da dove iniziarono a scagliare bombe sulla città. I bresciani, continuando a rifornirsi di armi da Torino e sottraendole agli Austriaci, resistettero valorosamente all’esercito di Nugent presso Sant’Eufemia, ma furono alla fine sopraffatti dall’esercito imperiale comandato da Haynau il 1° aprile. “Così cadeva Brescia, gloriosa e vendicata, dopo aver durato dieci giorni in armi”. Da allora Brescia, per l’eroismo dimostrato dai combattenti e il martirio fecondo degli uccisi, fu conosciuta come la città delle Dieci Giornate. Interessante è ricordare che l’ancora giovanissimo Ugo, nel secondo anno di Liceo, aveva vinto un premio di poesia per un carme ai caduti della patria da recitare in una commemorazione delle Dieci Giornate al cimitero Vantiniano. E nella Casa-Museo di Lonato molti sono i cimeli storici sparsi qua e là che testimoniano ancora il legame della famiglia con il Risorgimento, dalla raccolta di medaglie alle fotografie, dai bronzetti alla ricca serie di ritratti in miniatura esposti nel salottino della moglie Maria Glisenti. Qui ai ritratti di famiglia appesi alle pareti, tra i quali quelli del padre Giuseppe e del nonno Filippo, sono affiancati, secondo la moda delle famiglie borghesi del tempo, i ritratti di personaggi storici significativi quali Cavour e Vittorio Emanuele II. 2. GIUSEPPE DA COMO POETA E PATRIOTA 2.1 L’uomo e il poeta Collocabile nel pieno fermento degli scontri risorgimentali, Giuseppe Da Como (Brescia 1842-1886) fu un protagonista a tutto tondo del periodo storico in cui visse. Si arruolò presto nell’esercito come sottotenente di artiglieria e partecipò alla cosiddetta III guerra d’Indipendenza 225 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 12 La famiglia Da Como nel panorama del Risorgimento bresciano 2.2 Diploma della Società di Solferino e San Martino al Prof. Ing. Giuseppe Da Como Dimensioni 37,7cm x 24,6cm Il documento, stampa a colori realizzata dall’Unione tipo-litografica bresciana, conferisce a Giuseppe Da Como la carica di Socio Perpetuo della Società Solferino e San Martino, ente morale nato nel 1871 dalla volontà del conte Luigi Torelli, senatore del Regno, per onorare la memoria dei caduti nella battaglia del 24 giugno 1859 e di tutti coloro che combatterono per l’Unità e l’Indipendenza d’Italia, col fine di mantenere vivi gli ideali e i valori del Risorgimento. L’attestato, vivacemente colorato, presenta un motivo floreale lungo il lato superiore sinistro, all’interno del quale sono rappresentati importati monumenti del Risorgimento legati alle città di Solferino e di San Martino della Battaglia, con la celebre Torre (ora custodita dalla Società stessa) e gli Ossari di entrambe le località. Il testo, collocato nella parte centrale della stampa, è incorniciato da una decorazione che termina nella parte superiore con il richiamo alle date significative delle guerre di indipendenza(1848-49 e 1859) conclusesi con la proclamazione dell’Unità (1861). Le due indicazioni di “Eritrea” e “Libia”, che concludono la cornice, rimandano alle campagne di colonizzazione dei territori africani. Nella parte destra, come appoggiate sul documento, sono rappresentate due medaglie che ritraggono Vittorio Emanuele II e Umberto I. Il certificato è firmato dal presidente della Società Solferino e San Martino, V. Giusti, e dal segretario. L’attestato testimonia la passione e l’interesse che Giuseppe Da Como rivolse al Risorgimento italiano, durante il quale tanti valorosi sacrificarono la vita per ottenere l’Indipendenza e l’Unità della loro patria. 3. IL CANTO TRENTO DI GIUSEPPE DA COMO 3.1 Presentazione L’opera di Giuseppe Da Como del 1876 intitolata Trento è un lungo canto in endecasillabi che presenta echi letterari e rimandi alla ricca produzione ottocentesca di carattere risorgimentale. Evidenti sono i richiami alle note poesie di Carducci e di Aleardi per le molte immagini retoriche e la tensione emotiva che percorre l’intero testo. Amore per la patria, desiderio di libertà, ansia di vendicare un torto subito imprimono all’opera una intonazione eroica, attraverso la quale si intende promuovere nei lettori quegli stessi sentimenti che animarono i Mille e i valorosi caduti per la causa italiana. Lo stesso verso latino posto in epigrafe, Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor (ripreso da Virgilio IV, 625, rimanda all’imprecazione di Didone che, uccidendosi perché abbandonata da Enea, invoca su di lui una futura vendetta) si augura che, un giorno non lontano, possa 227 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 12 La famiglia Da Como nel panorama del Risorgimento bresciano Allora gli austriaci ritirarono su Vienna uno dei tre corpi di armata schierati in Italia e diedero priorità alla difesa del Trentino e dell’Isonzo. Il 5 luglio giunse notizia di un telegramma dell’imperatore di Francia Napoleone III, il quale prometteva una mediazione, che avrebbe permesso all’Austria di ottenere condizioni onorevoli e all’Italia di annettere Venezia. Il governo italiano volle però guadagnare tempo, per ottenere migliori condizioni di pace. La guerra proseguì con l’attacco navale presso l’isola di Lissa in Dalmazia, dove il 20 luglio la marina italiana subì una clamorosa sconfitta con l’affondamento delle navi Palestro e Re d’Italia da parte della flotta austriaca, comandata dall’ammiraglio Tegetthoff . Alla guerra prese parte anche Garibaldi con l’esercito dei suoi volontari, i Cacciatori delle Alpi. Brescia contribuì con molti uomini alle operazioni belliche che si svolsero tra la Val Sabbia e il Trentino. L’importante successo riportato a Bezzecca aprì la strada verso Trento, ma proprio allora giunse l’ordine della ritirata. Garibaldi rispose il 9 agosto con il celebre “Obbedisco”. L’armistizio tra Prussia e Austria firmato a Cormons il 12 agosto 1866, seguito il 3 ottobre dalla pace di Vienna, stabilì che soltanto il Veneto passasse all’Italia.Trento e Trieste rimasero sotto il dominio asburgico, rimandando alla Prima Guerra Mondiale la loro unione alla patria italiana. 3.4 Un vaticinio patriottico in un canto di Giuseppe Da Como Il canto di Giuseppe Da Como fu pubblicato, all’indomani della sua stesura, sul giornale cittadino La Sentinella, pubblicazione politico-letteraria trisettimanale attiva dal 1 settembre 1859 al 31 dicembre del 1925. Il giornale era allora diretto dal prof.Angelo Gallottini, reduce garibaldino ferito a Bezzecca. A distanza di ben 39 anni, e precisamente l’1 maggio 1915, quando l’Italia era infiammata dai dibattiti sulla possibile entrata in guerra, il giornale, vicino alle posizioni degli interventisti, esce con un articolo che ripropone il canto del Da Como come un “auspicio prossimo al compimento” ben augurante per quei giorni di attesa. Il Canto, definito “della buona tradizione romantica, la quale ha dato alla nostra letteratura tanta copia di sentimenti delicati e gentili e tanto ardore di patria”, risulta particolarmente attuale nel momento in cui si devono decidere le sorti della nazione. La data del 1° maggio non è casuale; infatti solo pochi giorni dopo a Quarto dei Mille si sarebbe tenuta la commemorazione dei garibaldini, durante la quale d’Annunzio infiammò gli animi alla guerra con un suo celebre discorso. E così i versi di Da Como possono dire davvero “la parola del conforto e della speranza” rievocando l’eroismo di tanti trentini morti per la patria: “la costanza e la fede che li ha resi invitti per tanti anni alle persecuzioni dell’Austria, li ha fatti degni di tutto il nostro amore”. 3.5 Fotografia e Lettera di Garibaldi Tra i molti cimeli storici conservati nella Casa di Ugo Da Como, alcuni rivestono una particolare importanza per lo stretto legame con la causa risorgimentale. Si tratta di una fotografia con firma autografa di Garibaldi e di una sua lettera inviata al padre del Senatore, Giuseppe, in ringraziamento. La fotografia, conservata nello studio privato del Senatore, raffigura Garibaldi in abiti comuni, con la giubba rossa dei garibaldini. In formato carte de visite, ingiallita dal tempo, ritrae l’eroe dei due mondi nell’atteggiamento che più era caro agli italiani, nella semplicità cioè del suo mostrarsi vicino a tanti eroi anonimi uniti dallo stesso slancio patriottico e dagli stessi ideali di libertà. È probabile che la fotografia già appartenesse alla famiglia Da Como, in particolare al padre Giuseppe, attivo garibaldino, autore del carme risorgimentale intitolato a Trento e indirizzato allo stesso Garibaldi. Il secondo documento di rilievo è la Lettera autografa di Garibaldi, incorniciata e conservata nella camera da letto del Senatore al primo piano della Casa Museo. La lettera è datata Caprera 10 ottobre 1876 e in essa il Generale ringrazia il Prof. Giuseppe Da Como per la dedica del “bellissimo 230 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 12 La famiglia Da Como nel panorama del Risorgimento bresciano canto” invitandolo a “rimettere il ricavo “delle vendite (80 centesimi per copia) al Colonnello Egisto Bezzi a Milano. La firma, identica a quella della fotografia, chiude la lettera. Dal congedo “sempre vostro” traspare la passione viva e l’appoggio morale di Garibaldi al Professore, cui va il ringraziamento per l’aiuto dato alla causa trentina. 3.6 Trento: un canto alla nazione Il 9 agosto del 1866 Garibaldi rispondeva con il celebre telegramma “Obbedisco” all’ordine del Generale La Marmora di sgomberare il Trentino entro 24 ore a seguito dell’ormai prossimo armistizio con l’Austria. Si infrangevano, così, in pochi istanti, le speranze di Garibaldi, dei suoi uomini e dell’intera nazione di riuscire ad annettere il Trentino al territorio del Regno d’Italia. Questa sconfitta, se da una parte provoca una dolorosa delusione, dall’altra genera la speranza di poter disporre di una nuova possibilità di unificare il territorio italiano; essa si realizzerà però soltanto con la Prima Guerra Mondiale. Il fallimento dell’impresa del 1866 è sentita soprattutto da quei civili che credevano fortemente nella causa garibaldina: Giuseppe Da Como, padre di Ugo, è fra questi. Egli scriverà, infatti, il carme intitolato Trento con lo scopo di devolvere il ricavato della vendita (80 centesimi a copia) al colonnello Bezzi, affinché il denaro potesse contribuire alla realizzazione di una nuova impresa contro lo straniero. Giuseppe dedicò la sua opera a Garibaldi in persona, il quale lo ringraziò calorosamente con una lettera autografa. Il carme ben esprime il forte sentimento patriottico di numerosi intellettuali italiani, che sentivano vicina questa causa; tanti sono gli echi della valorosa spedizione dei Mille richiamati nei versi. Il componimento è introdotto da una lunga strofa di carattere descrittivo: il poeta attraverso una sapiente inquadratura quasi cinematografica, descrive il paesaggio dal generale al particolare, dalle vette delle Dolomiti al fondovalle. Le montagne color porpora al tramonto incorniciano la città tanto sognata e il vespro ispira una malinconia che sollecita gli affetti. La luce rossastra è talmente brillante che ravviverebbe anche la “gota d’una vergine morente”; lo sguardo scende progressivamente verso i boschi su cui calano le ombre della notte, mentre rimbomba nel silenzio la “spaventosa onda” del Sarca che “mugge”, ricordando il frastuono della guerra. Sullo sfondo si staglia la figura di un cacciatore che, seduto al margine di un sentiero se ne sta in atteggiamento pensoso con il capo fra le mani, come se gravi pensieri lo affliggessero. È uno dei Mille, reduce anche dalla guerra del 1866: “Echi tacete!” così ha inizio la serie di endecasillabi sciolti densi di retorica, nei quali, per antitesi, si contrappongono i giorni gloriosi che portarono alla conquista delle terre italiane strappate allo straniero, quali la Sicilia e la Lombardia, all’infelicità della sconfitta riportata nell’impresa trentina: il sangue degli italiani morti in battaglia non fu fecondo per la terra trentina, e nemmeno lo furono i canti di vittoria, cantati, invece, in altre occasioni. Dal verso 37, infatti, Giuseppe Da Como richiama esplicitamente la gloriosa spedizione dei Mille: “Eravam mille, ed eravam leoni:/La patria in petto, la fidanza in Dio, noi sbarcammo e vincemmo”. Con la 231 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 12 La famiglia Da Como nel panorama del Risorgimento bresciano speranza, l’ardimento, il coraggio, la speranza dell’eternità, l’amore per la patria e la fiducia in Dio si può fare qualunque cosa: Dio, infatti, non può non sostenere un’impresa fatta a fin di bene per liberare le terre soggiogate da dominatori indegni. I Mille non erano vestiti di semplici abiti da combattimento: indossavano un “rosso saio”, che conferisce a loro e all’impresa una sorta di sacralità. Giuseppe Da Como utilizza immagini e suoni suggestivi, capaci di rievocare la guerra, il duello corpo a corpo e la sensazione di immortalità conquistata con la patria nel cuore: “il sonito stridente” delle armi, il “grido di Savoia”, il “fragore degli acciai”, il “canto della vittoria” e la successiva “quiete di sepolcreto”. Ma nulla di tutto ciò è servito, perché la “ragion di Stato” ha avuto la meglio sulla passione, sull’impeto e il valore dei soldati. L’Armistizio di Cormons del 1866 sancì infatti che Trento e Trieste restassero domini austriaci: a nulla servì il sangue degli italiani morti per la patria. Il poeta esprime sapientemente mediante una personificazione la pietà di Trento: essa è una “vergin” come Andromeda destinata a soffrire e a patire. Perfino “l’Angel d’Italia” versa l’ennesima lacrima per la sua terra irredenta, dopo la perdita di Nizza e Savoia. Infine, i versi finali alludono metaforicamente all’unione di Trento al territorio del Regno d’Italia: il cacciatore vede in sogno la “vergine tridentina” abbracciare le sorelle, le altre regioni italiane, augurandosi di assistere in un prossimo futuro alle tanto attese nozze con l’Italia. 3.7 Trento di Giuseppe Da Como: inno all’Italia e canto di libertà Con il termine irredentismo si indica la volontà di un popolo di completare la propria unità territoriale, sottraendo terre soggette all’occupazione straniera, in ragione di un’identità etnica o di un legame storico-culturale precedente. Il patriottismo alla base dell’irredentismo trentino ispirò nel 1876 Giuseppe Da Como a stendere un canto intitolato Trento, per finanziare la lotta per l’indipendenza. Il ricavato, 80 centesimi a copia, venne donato a sostegno della causa trentina (come si può leggere in copertina). Tutta l’opera risuona come un grido di guerra indirizzato ai combattenti trentini, un’esortazione perché non perdano la speranza e si oppongano instancabili alla dominazione del nemico. Secondo il Da Como infatti, il Trentino sarebbe entrato a far parte dell’Italia seguendo un corso naturale e certo, Italia che egli intende come famiglia risorta: un popolo unito da tradizioni secolari e valori preziosi. Esso risulta la patria di filosofi illustri come Antonio Rosmini (1797-1855), e combattenti valorosi caduti per difendere un ideale di libertà. L’epigrafe latina posta a introduzione del canto muove a seguire esempi coraggiosi e ripone la fiducia in un vendicatore, che nascendo dalle ceneri del popolo italiano, possa mantenere vivo il ricordo dei “fratelli” sacrificati alla causa trentina. Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor risulta un chiaro omaggio a Virgilio che nella sua Eneide così scrive in un’imprecazione che Didone rivolge a Enea, prima del suicidio. Il canto è dedicato a Giuseppe Garibaldi, l’Eroe dei due mondi, emblema delle lotte per l’indipendenza dell’Italia. La sua breve lettera di risposta alla dedica è riportata nel frontespizio del canto.A lui si ispira il cacciatore, ex giubba rossa, 232 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 12 La famiglia Da Como nel panorama del Risorgimento bresciano si riferisca a Trieste) immediatamente rimanda agli ultimi versi del Canto Trento di Giuseppe Da Como: la terra irredenta geme e spera pensando all’abbraccio delle sue sorelle già unite. Sul verso della medaglia si trova, cinta da un ramo d’ulivo, una fascia su cui è incisa a chiari caratteri la scritta “Commemorando il patto a guarentigia della libertà d’Italia voluto dal popolo e dal re Trieste attende”. Sopra questa un libro, lo Statuto Albertino, reca la data 1848. La medaglia infatti, a cinquant’anni dalla promulgazione dello Statuto, commemora la volontà del sovrano e del popolo italiano di istituire un nuovo governo che garantisca la libertà dei suoi cittadini, ricordando allo stesso tempo le terre che, ancora sottomesse agli Austriaci, non potevano godere di questo diritto. È facile intuire l’importanza che questa medaglia assume; essa non poteva mancare tra i cimeli di Ugo Da Como, la cui famiglia aveva particolarmente a cuore la causa delle terre irredente di Trento e Trieste. Progetto Lunario lonatese 2011 CELEBRANDO L’UNITÁ D’ITALIA. VOLTI PER UN TRICOLORE 1861-2011: 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Le guerre d’indipendenza non bastarono a creare un paese unito; parafrasando D’Azeglio, bisognava “fare” gli italiani. Proprio da quest’affermazione trae ispirazione il calendario 2011: una collezione di francobolli che ripropone personaggi storici del territorio bresciano e gardesano, rivisitati alla luce dei valori morali lasciatici in eredità. Un percorso storico attraverso 150 anni di storia locale, dai campi di battaglia di metà Ottocento alla nascita della Croce Rossa, dalle prime sedute della Camera alla carica senatoriale di Ugo Da Como ottenuta nel 1920. La storia di un popolo e delle sue virtù espressa da volti noti impegnati nel sociale. Santa Maria Crocifissa Di Rosa, Don Lorenzo Barzizza, Gaetano Bonoris, don Daniele Comboni furono modelli di carità e di fede; non solo prestarono soccorso ai feriti durante le guerre d’indipendenza, ma avviarono anche un’intensa attività caritativa ed educativa, che lasciò segni indelebili nei primi decenni del regno italiano. Allo stesso modo il coraggio e l’intraprendenza sono espressi nel Calendario attraverso personaggi quali Gabriele D’Annunzio, il garibaldino Giuseppe Cesare Abba e il generale Achille Papa, che infiammati da amore per la patria si batterono per la conquista dell’unità territoriale. E poi uomini impegnati nella politica, a Roma e a livello locale: dal bresciano Giuseppe Zanardelli, a Pompeo Molmenti, Ludovico Mortara, Giovanni Rambotti sindaco di Desenzano, fino a Laura Bianchini, eletta nel 1946 alla Costituente, una fra le prime donne deputato: tutti contribuirono a gettare le basi dello Stato moderno, attraverso l’elaborazione di una legislazione giuridico-sociale-economica capace di rispondere alle esigenze del nuovo popolo italiano. Così il Tricolore diventa simbolo di una nazione unita, territorialmente ma soprattutto moralmente, capace di rievocare in noi quella scala di valori e principi, su cui si è costruito il nostro passato: amor di patria, generosità, impegno politico, carità, tensione educativa. Eredità preziosa da custodire, coltivare e trasmettere alle nuove generazioni. 234 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 13 Ugo Da Como collezionista risorgimentale CAMILLO BENSO CONTE DI CAVOUR Camillo nasce il 10 agosto 1810 a Torino da Michele Benso di Cavour, membro della nobiltà piemontese, e Adele de Sellon, appartenente ad una ricca famiglia borghese di Ginevra. Formatosi alla Regia Accademia Militare di Torino, abbandona la carriera militare e si interessa a studi di economia e politica e stabilisce contatti studiando da vicino le trasformazioni avvenute in seguito alla rivoluzione industriale. Cavour collabora inoltre con numerose riviste per le quali scrive di argomenti in questo periodo molto attuali; nel 1847 fonda insieme a Cesare Balbo il periodico “Risorgimento” e, nel 1850 vien con il quale si schiera apertamente a favore di una costituzione. Già promotore dello Statuto Albertino e della prima guerra d’indipendenza viene designato come ministro dell’agricoltura e del commercio. Un anno dopo gli viene affidato il ministero delle finanze e grazie alla sua abilità e ai suoi contatti riesce ad ottenere i prestiti necessari a gestire la delicata situazione del bilancio in seguito alla prima guerra di indipendenza. Dopo i successi politici ottenuti, il Re Vittorio Emanuele II gli chiede di formare il nuovo governo (2 novembre 1852), durante il quale si pone come obbiettivo il risanamento delle finanze e promuove la partecipazione alla guerra di Crimea che ha fine con il congresso di Parigi del 1856 durante il quale Cavour ottiene finalmente la discussione del problema italiano a livello europeo. In seguito agli accordi segreti di Plombières (1858) presi con Napoleone III, riesce a costringere l’Austria a dichiarare quella che sarà la seconda guerra d’indipendenza al Piemonte ma dopo la liberazione della Lombardia e i movimenti annessionistici sorti nella penisola, Napoleone sigla un armistizio con l’Austria (Villafranca 1859) Cavour si dimette dal suo secondo governo salvo poi tornare ad occupare la carica, persuadendo l’imperatore francese a riconoscere i plebisciti che in Emilia e Toscana chiedono l’unificazione al Piemonte, in cambio concede Nizza e la Savoia. Sostiene la campagna per l’occupazione di Marche e Umbria e raccoglie i frutti della spedizione Garibaldina, alla quale aveva guardato con diffidenza per timore che i rapporti con la Francia ne venissero compromessi. Dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia viene eletto come primo presidente del consiglio, carica che ricoprirà fino alla sua morte avvenuta solo tre mesi più tardi. Bibliografia Giovanna Zaglio, Foscolo a Brescia le lettere a Marzia, le miniature di Gigola, approfondimento tesina di maturità; Microsoft ® Encarta ® 2008 © 1993-2007 Microsoft Corporation; Alberto Mario Banti, il Risorgimento italiano, editori Laterza; Denis Mack Smith, Cavuor il grande tessitore dell’unità d’Italia, il Giornale biblioteca storica. Sitografia www.wikipedia.it, www.7doc.it MINIATURA Camillo Benso Conte di Cavour Oggetto Miniatura di Camillo Benso conte di Cavour. Descrizione Cavour è ritratto a mezzo busto, di tre quarti, rivolto nel verso opposto rispetto alla raffigurazione ufficiale realizzata da Francesco Hayez. Nonostante nelle due opere la fisionomia e l’abbigliamento coincidano, nella miniatura analizzata il Conte appare più giovane e meno accigliato che nel dipinto di Hayez: presumibilmente l’intento era quello di rendere un’immagine più “familiare” di Cavour senza però perdere l’austerità ufficiale, richiamata anche dallo sfondo monocromo in tinte scure. 236 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 13 Ugo Da Como collezionista risorgimentale fotografico) venne eseguita dopo la nomina di Vittorio Emanuele a primo re d’Italia: il sovrano è in alta uniforme con diverse onorificenze. Egli è rappresentato con i baffi che lo caratterizzavano ed ha un espressione austera, assorta e corrucciata. In basso sotto il ritratto, compaiono i nomi dell’artista e degli incisori, in grande il nome del re. STATUETTA di Vittorio Emanuele II Oggetto Statuetta equestre di Vittorio Emanuele Data 1890 circa Tecnica La statuetta è realizzata in antimonio, lega molto in uso nella seconda metà del secolo costituita da una forte componente di piombo, ma meno pregiata. Questo semimetallo si può combinare con lo zolfo e con alcuni metalli pesanti come l’argento, il rame e il piombo. Per realizzare questo tipo di statuetta il metallo veniva fuso e poi versato in due stampi diversi. Una volta asciutte, le due parti venivano unite e saldate insieme fondando la scultura a tutto tondo. In seguito poi l’artista rifiniva le imperfezioni della saldatura. Dimensioni 28 x 27 cm Collocazione Museale Raccolte della Fondazione Ugo Da Como a Lonato del Garda, Brescia (Sala Luigi Nocivelli). Descrizione Questa statuetta rappresenta Vittorio Emanuele a cavallo con la spada tratta. L’abbigliamento indossato consiste in una veste militare e un cappello piumato. Con la mano destra regge la spada, mentre la sinistra è ripiegata sul ventre.Vittorio Emanuele è descritto nell’atto di guidare l’armata all’assalto del nemico. Il busto del re presenta una leggera torsione tanto da presentarsi in modo frontale, mentre il cavallo si trova in posizione laterale. Il cavallo, dotato di un sottosella ricamato, risulta poco dettagliato e ciò lo si può notare anche dalla rigidità della coda. Lo stato di conservazione della statuetta è complessivamente buono anche se in alcune zone il metallo è meno patinato ed emerge il grigio del piombo. Aderenza a modelli precedenti Questa statuetta si ispira alle sculture monumentali tipiche di alcune piazze piemontesi e forse anche ad una litografia della battaglia di S. Martino. GENERALE ALFONSO LA MARMORA Alfonso Ferrero marchese de La Marmora nacque a Torino nel 1804. Fu uno dei più importanti generali e uomini politici del risorgimento. Entrato nell’esercito piemontese riorganizzò un moderno corpo d’artiglieria, con il quale prese parte alla prima Guerra d’Indipendenza. Fu ministro della guerra nel 1848 con Pinelli e Gioberti e, dopo i motti di Genova durante i ministeri di Cavour, ebbe l’incarico di riorganizzare l’esercito piemontese. Comandante del corpo di spedizione in Crimea (1855) partecipò anche alla Seconda Guerra d’Indipendenza. Dopo l’armistizio di Villafranca (1859) divenne primo ministro in sostituzione di Cavour, che si era dimesso per protesta. Nel 1860 fu nominato prefetto di Napoli, dove si segnalò per l’energica repressione del brigantaggio. Fu ancora presidente del Consiglio nel 1864-66 con il merito di aver stretto l’alleanza con la Prussia che portò alla Terza Guerra d’Indipendenza. Le sconfitte di Custoza e Lissa (1866) lo costrinsero a dimettersi . Dopo la presa di Roma fu luogotenente del Re negli ex territori pontifici , infine si ritirò a vita privata. Morì a Firenze nel 1878. Sitografia: wikipedia.org, libero.it, www.lombardiabeniculturali.it 240 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 13 Ugo Da Como collezionista risorgimentale RITRATTO di Alfonso La Marmora Oggetto Ritratto di Alfonso La Marmora Data 1870 ca. Dimensioni 27,5 x 14,2 cm circa Tecnica incisione in acquaforte milanese (stampa con matrice in rame) Autore dell’Incisore Buccinelli e stampa calcografica di Crivelli Collocazione Museale Raccolte della Fondazione Ugo Da Como a Lonato del Garda, Brescia. Descrizione La stampa illustrava il volume Storia della guerra d’oriente (Luigi Pagnone Editore a Milano,1870). Il soggetto è rappresentato a mezzobusto, in posizione di tre quarti. È raffigurato con un’espressione fiera e lungimirante, in abito da generale e con numerose medaglie al valor militare sul petto. La Marmora si trova in primo piano, alle sue spalle un morbido tendaggio lo separa dal paesaggio retrostante. Sullo sfondo si può notare una rocca, sul mastio è rappresentata la bandiera Italiana, simbolo dell’Unità d’Italia. Il contorno del campo stampato è finemente decorato da una doppia cornice. Sono rappresentate nell’incisione le seguenti medaglie militari (in ordine orario): medaglia Inglese della Guerra di Crimea; médaille Commemorative de la Campagne d’Italie de 1859; Cavaliere di Gran Croce dell’ordine militare di Savoia. Sotto la scritta:ALFONSO DELLA MARMORA GENERALE IN CAPO DELLE TRUPPE SARDE IN ORIENTE Sitografia: wikipedia.org, mare magnum.com SCULTURA EQUESTRE del Generale Alfonso La Marmora Oggetto Statuetta di Alfonso La Marmora Data Seconda metà dell’800 Dimensioni 18x23 cm circa Collocazione Museale Raccolte della Fondazione Ugo Da Como a Lonato del Garda, Brescia (Sala Luigi Nocivelli). Descrizione Il generale è rappresentato a cavallo durante una battaglia e rivolge lo sguardo di lato; ha il viso girato in tre quarti, sul capo porta il cappello piumato dei bersaglieri, veste una palandrana stretta da una cintura in vita e dei pantaloni alla zuava infilati negli stivali da cavallerizzo. Il generale ha il braccio destro eretto verso l’alto, poiché dovrebbe brandire una spada, però andata perduta. La posizione del cavallo si rifà ai modelli della scultura classica, riprendendo le sculture ufficiali dei condottieri e degli imperatori. Il cavallo infatti appoggia sul terreno tre zampe e una è sollevata, come già nel Monumento equestre del Gattamelata di Donatello e in altri esempi di epoca antecedente . Materiale La scultura è in antimonio, una lega che simula il bronzo ma con una forte componente di piombo. Tecnica Veniva realizzato ‘a tutto tondo’, secondo la tecnica della fusione. La scultura è infatti vuota all’interno, poiché la parte posteriore e la parte anteriore della scultura venivano realizzate separatamente attraverso l’uso di uno stampo e poi saldate con metallo fuso e patinate per imitare il finto bronzo. Sitografia: wikipedia.org 241 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 13 Ugo Da Como collezionista risorgimentale GENERALE GIUSEPPE GARIBALDI Nacque a Nizza nel 1807, dopo aver aderito alla Giovine Italia, prese parte a moti insurrezionali in Italia e partecipò al governo provvisorio di Milano.Accondiscendendo a divenire sostenitore della monarchia sabauda assunse la guida dell’esercito sardo contro l’Austria. Dopo l’annessione da parte del Piemonte di Lombardia, Emilia,Toscana e Romagna, Garibaldi riavviò il processo di unificazione d’Italia. Durante la giovinezza si avvicinò alla vita politica e coltivò la sua passione per la navigazione.Accolto freddamente dal governo sardo, nel corso della prima guerra d’indipendenza al comando di un gruppo di volontari si batté a Luino e conquistò Varese.Tornato a Nizza, il 24 ottobre ripartì con alcune centinaia di volontari per la Sicilia, si fermò in Toscana e offrì alla Repubblica Romana la sua spada. In seguito a un colloquio segreto con Cavour il 13 agosto 1856, pubblicamente dichiarò di voler mettere a base dell’unità italiana la monarchia.Alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza, il 2 marzo 1859 s’incontrò con Cavour per accordarsi sull’organizzazione dei volontari e in quell’occasione conobbe Vittorio Emanuele. Gli avvenimenti che seguirono alla pace di Villafranca raffreddarono i rapporti fra Garibaldi e il governo sardo. Giuntagli nell’aprile del 1860 notizia della rivolta scoppiata a Palermo, col consenso almeno tacito del governo si pose a capo della missione nota come spedizione dei Mille che partì da Quarto nella notte dal 5 al 6 maggio 1860. Il 7 novembre entrò con Vittorio Emanuele a Napoli, gli consegnò i risultati del plebiscito e il 9 ripartì per Caprera, rifiutando la nomina a generale e le ricompense concessegli. L’impresa che univa il Mezzogiorno al Piemonte per formare di lì a poco il Regno d’Italia apparve subito come l’azione politicamente risolutiva del processo risorgimentale. Intanto la morte di Cavour parve allontanare il giorno del compimento dell’unità italiana. Scoppiata la terza guerra d’indipendenza nel 1866, accettò il comando dei volontari; entrò con essi nel Trentino e li condusse alla vittoria. Dopo l’annessione del Veneto, Garibaldi sentì ancor più urgente la conquista di Roma.Arrestato e condotto nella fortezza del Varignano, il 25 novembre fu imbarcato per Caprera da dove salpò solo per partecipare alla difesa della Francia. Negli ultimi anni della sua vita inclinò sempre più a un socialismo di tipo umanitario e aderì all’Internazionale. In questo periodo aggiornò le sue Memorie autobiografiche. Morì a Caprera nel 1882. Sitografia: www.treccani.it FOTOGRAFIA di Giuseppe Garibaldi Oggetto Ritratto fotografico di Giuseppe Garibaldi. Data La fotografia è stata scattata a metà dell’800. Descrizione Giuseppe Garibaldi in posa frontale a mezzo busto indossa una camicia rossa, il berretto e il tabarro tipici dell’abbigliamento popolare. Questa diviene poi una “posa ufficiale” in quanto Garibaldi riteneva fosse importante rendere noto il proprio volto per l’adesione del popolo. Sotto la fotografia è presente la firma di Garibaldi, non è però accertata la sua autenticità. Tecnica Quest’immagine è stata stampata sul profilo interno di uno strato di carta sottile e successivamente incollato su un cartoncino. Il bordo maggiore rispetto al campo fotografico permetteva all’immagine di conservarsi meglio in quanto l’osservatore, tenendo in mano il ritratto, non veniva a contatto direttamente con la fotografia. Dimensioni Misura circa 7x5 cm secondo il formato canonico della “carte de visite”. Queste dimensioni ridotte avevano riscosso molto successo all’epoca perchè permettevano una maggiore diffusione tra la popolazione. Collocazione Museale Raccolte della Fondazione Ugo Da Como a Lonato del Garda, Brescia (Archivio fotografico). 242 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 13 Ugo Da Como collezionista risorgimentale di Goethe, Shakespeare e Foscolo, restando così colpito dallo Jacopo Ortis da volersi vestire sempre di nero. Iniziò ad esercitare la professione nello studio di un avvocato, ma l’attività che lo impegnava maggiormente era quella di giornalista presso l’Indicatore genovese, sul quale Mazzini iniziò a pubblicare recensioni di libri patriottici; la censura lasciò fare per un po’ ma poi soppresse il giornale. Nel 1826 scrisse il primo saggio letterario, Dell’amor patrio di Dante, pubblicato poi nel 1837. Il 6 aprile del 1827 ottenne la laurea in diritto civile e in diritto canonico. Nello stesso anno divenne membro della carboneria, della quale divenne segretario in Valtellina. La sua attività rivoluzionaria lo costrinse a rifugiarsi in Francia, a Marsiglia, dove organizzò nel 1831 un nuovo movimento politico chiamato Giovine Italia. Il motto dell’associazione era Dio e popolo e il suo scopo era l’unione degli stati italiani in un’unica repubblica con un governo centrale quale sola condizione possibile per la liberazione del popolo italiano dagli invasori stranieri. Il progetto federalista infatti, secondo Mazzini, poiché senza unità non c’è forza, avrebbe fatto dell’Italia una nazione debole, naturalmente destinata a essere soggetta ai potenti stati unitari a lei vicini: il federalismo inoltre avrebbe reso inefficace il progetto risorgimentale, facendo rinascere quelle rivalità municipali, ancora vive, che avevano caratterizzato la peggiore storia dell’Italia medioevale. L’obiettivo repubblicano e unitario avrebbe dovuto essere raggiunto con un’insurrezione popolare condotta attraverso una guerra per bande. Durante l’esilio in Francia, ebbe una relazione con la nobildonna mazziniana e repubblicana Giuditta Bellerio Sidoli, vedova del patriota Giovanni Sidoli. Mazzini fondò altri movimenti politici per la liberazione e l’unificazione di altri stati europei: la Giovine Germania, la Giovine Polonia e infine la Giovine Europa. Mazzini continuò a perseguire il suo obiettivo dall’esilio ed in mezzo alle avversità con inflessibile costanza. Tuttavia, nonostante la sua perseveranza, l’importanza delle sue azioni fu più ideologica che pratica. Fonte: Wikipedia RITRATTI FOTOGRAFICI di Giuseppe Mazzini Oggetto Ritratti fotografici di Giuseppe Mazzini. Dimensioni Ambedue circa cm 7x5, secondo il formato canonico della “Carte de Visite”. Descrizione Nell’ immagine di destra Giuseppe Mazzini è colto in posizione frontale, seduto su una sedia, con le gambe accavallate e le mani appoggiate su di esse. Il suo vestiario appare semplice ed elegante. Lo sguardo è fisso verso il fotografo, secondo la moda del ritratto ufficiale dell’epoca. Nella fotografia di sinistra Mazzini viene raffigurato a mezzo busto all’interno di una forma ovale; per ricavare una corretta focalizzazione del volto il tempo di posa era molto lungo, infatti si usavano poltrone e sedie dove il personaggio poteva rimanere fermo il più possibile. Data Presumibilmente metà del XIX secolo. Studio Fotografico Ignoto. Collocazione Museale Raccolte della Fondazione Ugo Da Como a Lonato del Garda, Brescia (Archivio fotografico). 244 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia progetto 13 Ugo Da Como collezionista risorgimentale Contesto storico Le Dieci Giornate di Brescia furono un movimento di rivolta popolare della popolazione Bresciana contro l’oppressione austriaca che ebbe luogo dal 23 marzo (il giorno della sconfitta piemontese a Novara) al primo aprile 1849. FOTOGRAFIA di Garibaldi ferito sull’Aspromonte Data seconda metà del XIX secolo Autore C. Gallino Genova Dimensioni 13 x 8.5 cm Collocazione Museale Raccolte della Fondazione Ugo Da Como a Lonato del Garda, Brescia (Archivio fotografico). Tecnica Fotografia Descrizione Questa fotografia descrive Garibaldi ferito sull’Aspromonte , evento molto significativo durante la famosa spedizione dei Mille. In questa fotografia Garibaldi, che viene ferito sia alla coscia sinistra sia al piede destro, è posto al centro ed è sorretto e circondato dai suoi soldati che accorrono ad aiutarlo e che occupano la parte centrale dell’immagine. Sullo sfondo si riconoscono i monti dell’Aspromonte e sul lato sinistro si può notare la riva di un fiume Approfondimento Guardando solamente la fotografia non si può cogliere a pieno la bellezza dell’immagine; conviene perciò rifarsi all’opera originale Garibaldi ferito sull’Aspromonte di Gerolamo Induno ( olio su tela, Museo Revoltella Trieste) nella quale i colori descrivono con maggior pienezza l’evento. Nel dipinto infatti, oltre a Garibaldi, la figura che attira lo sguardo è il personaggio in primo piano a sinistra, con la tipica camicia rossa dei Mille con la quale sono vestiti molti altri personaggi del dipinto. L’INGRESSO DI VITTORIO EMANUELE A BRESCIA Oggetto Litografia a colori dell’ingresso a Brescia di Vittorio Emanuele. Data 1860 Tecnica stampa litografica. Con un pennello ad inchiostro grasso veniva abbozzato il disegno su una pietra molto spessa. Una volta asciugato l’inchiostro restava la forma che veniva poi utilizzata come stampo. Dimensioni 35 X 25 cm Autore Ferdinando Perrin Editore Torino editore C. Perrin Collocazione Museale Raccolte della Fondazione Ugo Da Como a Lonato del Garda, Brescia. Descrizione In questa litografia viene rappresentato l’ingresso di Vittorio Emanuele II in corso Garibaldi a Brescia.Al centro del corso è raffigurato Vittorio Emanuele a cavallo seguito dal suo esercito di soldati. Sullo sfondo sono presenti dei caselli poi smontati e sostituiti dalla statua di Garibaldi. In basso è raffigurata una folla di persone, donne, uomini, bambini che sono probabilmente appartenenti alla borghesia del tempo, ciò è intuibile dai vestiti indossati che richiamano gli abiti tipici di quella classe sociale. Sul suolo sono inoltre presenti fiori forse rose lanciati dagli spettatori dai balconi che ospitano molta gente. Questa folla che osserva dall’alto il sovrano regge inoltre una moltitudine di bandiere tricolori, simbolo dell’Italia unita. 247 Le vie dell’arte Unità e identità: 150 anni di storia