LEONARDO CAPEZZONE LA POLITICA ECUMENICA CALIFFALE: PLURICONFESSIONALISMO, DISPUTE INTERRELIGIOSE E TRASMISSIONE DEL PATRIMONIO GRECO NEI SECOLI VIII-IX Lo sviluppo della disputa intellettuale e il raffinamento delle sue tecniche argomentative attraversano tutta la storia culturale del mondo mediterraneo, dall'età classica al mondo tardo-antico fino al Medioevo [Reinink-Vanstiphout]. Proprio per la persistenza di questo strumento intellettuale, in tutta l'area mediterranea e per un così lungo arco di tempo, uno sguardo sulle dispute in ambito islamico può fornire spunti per rinnovare la questione -tuttora aperta - se sia esistita un'unità del Mediterraneo, e se l'Islam ne faccia parte in maniera integrante. Noteremo innanzi tutto che la disputa, come strumento di conservazione, di trasmissione e di elaborazione del sapere (nel caso qui studiato, il patrimonio della logica aristotelica), nell'Islam medievale viene messa a punto con un'uniformità nella terminologia che ne definisce l'apparato formale da cui traspare con evidenza una preoccupazione per la forma del discorso intellettuale, rispetto ai contenuti discussi; un'uniformità e una preoccupazione che non possono non risultare familiari agli storici dei pensiero medievale occidentale. L'interrogativo che il nostro studio senz'altro non scioglie, ma forse rilancia con qualche argomento in più, è posto intorno a quei nessi che permettono di parlare, seppure per ipotesi, di unità del Mediterraneo: è possibile che quei nessi si consolidino proprio nell'età tardo-antica e nel passaggio al Medioevo, epoca generalmente considerata dì crisi, di decadenza e di fratture? Per provare a rispondere, è necessario spostare lo sguardo verso altri centri. A Bisanzio e nella sua periferia di lingua greca o siriaca la disputa articolata secondo lo schema di quaestiones et responsiones (=al-masà'il wa'l-agwiba secondo la terminologia in arabo) diventa un vero e proprio genere del discorso intellettuale, ed è un momento centrale della trasmissione del sapere. Nello spazio geografico e culturale su cui si affaccia l'Islam è presente un consolidato stile della disputa teologica, e un corrispondente stile letterario, che caratterizza a Bisanzio la polemica fra monofisiti, nestoriani e monotelìti, fra iconoduli e iconoclasti, e in quella interreligiosa rivolta agli ebrei e più tardi ai musulmani 1. Il greco è ancora un elemento di coesione importante, valido a definire, però, solo in termini linguistici una vasta area che risulta difficile etichettare univocamente come "bizantina" o "ellenistica": sono aree che circoscrivono situazioni storiche di presenza, di mobilità e di circolazione del sapere tipiche di una periferia che a volte si dimostra più viva del centro2 e in cui il síriaco si afferma come lingua di cultura non meno importante del greco. Proprio dal confronto con Bisanzio, e con le aree geo-culturali della periferia bizantina in cui l'Islam si inserisce, emerge una specificità islamica delle pratiche del dibattito, che ne orienta lo sviluppo e i significati storici. Le confutazioni anti-musulmane dei teologi bizantini erano ovviamente concepite ed elaborate sulla base di una sostanziale distanza, propriamente fisica, che impediva una verifica dialettica "dal vivo". La letteratura polemistica in síriaco, o in greco, delle province bizantine conquistate dagli Arabi continua a fiorire all'interno dell'impero islamico, la dir al-islam, che accoglie tutte le parti in causa, ed è chiamata a prendere parte a un dibattito ravvicinato; da parte islamica, la dimensione della disputa contempla uno spazio che diversifica anche lessicalmente i livelli del confronto: al momento della confutazione (radd) si affianca quello 1 Si veda il classico Khoury. Nella storia della polemica bizantina contro l'Islam, tuttavia, non mancano episodi (tardi) di confronto diretto; in generale, si veda D'Alverny e Meyendorff. 2 Sulla questione, che riguarda la crisi dell'umanesimo a Bisanzio fra il VI e VIII secolo, si tornerà più avanti. Sull'uso spesso generico di "bizantino" per definire differenti realtà storiche della periferia dell'impero bizantino in quella stessa epoca, in particolare per quanto riguarda l'area di cultura siriaca, si veda Cameron (c), p. 97-98. Cfr. anche Cameron (b). speculativo della disputa vera e propria (munázarah, mugádalah), in cui prevale in misura essenziale la forma logica con cui si costruisce un'argomentazione: una forma, o un orizzonte del pensiero, che tutte le parti, nel momento in cui intervengono, sembrano condividere. In parallelo, va anche ricordato che il genere della munázarah, nel sistema di trasmissione del sapere arabo-islamico, include molteplici dimensioni della conoscenza, dalla teologia alla filosofia, dal diritto alla grammatica alle scienze. Ma questo allargamento a dismisura, nella civiltà arabo-islamica, dei limiti disciplinari della discussione intesa come forma e luogo canonici della comunicazione del sapere forse dipende da almeno due ragioni strutturali, che fanno della disputa in ambito islamico un qualcosa di più e di diverso rispetto alle esperienze storiche precedenti e parallele. Due ragioni, ovvero due specificità, entrambe politiche e culturali allo stesso tempo: la dar al-islam si estende su un territorio in cui sono presenti molteplici confessioni religiose (e l'Islam è una delle religioni), ognuna delle quali è protetta da uno statuto di inviolabilità ('ismah), garantita dal califfo, che ha l'obbligo di difendere musulmani e "confederati" (mu'ahidun) dagli attacchi esterni; è in virtù di questa "confederazione" fra le comunità che i non musulmani acquistano la personalità giuridica della dimmah e i diritti-doveri ad essa legati.3 Nella dar al islam è profondamente radicato un principio etico (religioso e intellettuale in senso lato) di liceità del disaccordo fra le opinioni; le strutture del pensiero intellettuale musulmano si elaborano in quello che è stato spesso definito il substrato greco-semitico-iranico, e hanno assunto a termine della conoscenza (irrinunciabile, o comunque irriducibile, nel momento in cui lo si confuta) il patrimonio della logica aristotelica. Nell'Islam, quindi, la disputa rappresenta l'aspetto più significativo del dialogo interreligioso con le confessioni presenti nel suo territorio. Questo è un punto cruciale per comprendere, al di là di qualsiasi astrazione sul clima di tolleranza che ha favorito la convivenza e gli incontri intellettuali fra musulmani ed esponenti di altre religioni, quali strumenti rendessero praticamente possibile l'espressione di tale tolleranza, Un punto cruciale, che qui si proverà ad osservare non come problema autonomo del dialogo interreligioso dei primi secoli dell'Islam, ma come indice della specificità islamica nell'intero ambito delle dispute, e del suo significato nella politica di integrazione delle comunità religiose in una visione imperiale. Infatti, l'immagine della disputa fra dotti, ne lla cultura islamica, si accosta sempre più a quella della corte califfale, divenendo nei suoi esempi più famosi veri e propri concili interreligiosi presieduti dal califfo. Sulla base della condivisione di un comune codice del ragionamento (gadal = dialektiké) modellato sulle regole della logica aristotelica, le controversie teologiche superano l'ambito formale del discorso intellettuale, per diventare luoghi di verifica di una doppia aspirazione politico-culturale: il califfato come strumento di coesione ecumenica al vertice di una società formata da molte comunità; il califfo come arbitro supremo della discussione, e simbolo dell'integrazione comunitaria. In questa verifica, tanto nelle vicende storiche quanto nelle rappresentazioni storiografiche delle fonti, è centrale la trasmissione del sapere greco, e l'elaborazione del mito della Grecia. In queste pagine proveremo a vedere alcuni aspetti di un'idea di impero, nutrita da entrambe le aspirazioni, in cui si manifesta sia la funzione politica e religiosa dell'ideologia del "recupero" islamico del sapere greco, sia il ruolo del califfo nella gestione di una tale eredità. Proprio in relazione alla centralità del patrimonio classico greco, il dialogo di alto livello - teologico e filosofico, oltre che genericamente legato all'etichetta di corte - fra un Islam egemone e le altre religioni presenti nella dar al-islam risulta più corposo e più complesso nei confronti del cristianesimo; proveremo quindi a vedere perché, e attraverso quali politiche culturali, e mediante quali miti culturali, il tema dell'eredità greca recuperata per volontà dei califfo si esprime secondo una rappresentazione storiografica polemica verso il cristianesimo al di fuori della dar al-islam (in particolare a Bisanzio), e secondo una prassi di integrazione verso le comunità cristiane all'interno dell'impero islamico. Abbiamo scelto due califfi, al-Mahdi e al - Ma'mun non solo perché forse più 3 Il concetto di mu’ahid e l'inviolabilità dei sudditi non-musulmani della dár al islám governata dal califfo sono punti importanti della teoria dei califfato illustrata da Màwardi, p. 23 (ma si veda anche l'intera trattazione dei cap. IV e XIII), Da un punto di vista di sociologia religiosa, si veda Talbi. di ogni altro hanno realmente interpretato il ruolo califfale/imperiale in quei termini, ma anche perché su di essi si concentra l'attenzione delle fonti relative a questa tematica. Per questa ricerca si sono utilizzate generalmente, e volutamente, fonti molto note; a parte il ricorso a fonti minori (testi mazdei, o certa letteratura di adab abitualmente poco frequentata), la novità consiste nella lettura che si è voluta dare dei testi dei grandi storici musulmani del sapere, dal X secolo (Ibn al-Nadím, Mas'údi) al XII secolo (Sá'id al-Andalusi) - per ricordare solo alcuni degli autori citati), ed eventualmente nel rilievo che alcune notizie isolate, sparse in fonti tardive o più antiche (ad esempio al-Suyutí e Mas'údi, o le lettere del patriarca Timoteo I), acquistano nel momento in cui vengono contestualizzate in determinati momenti storici. Ciò che interessava mettere in luce, nel ricorso a fonti che sembrerebbero ormai non riservare più né sorprese né "scoperte", era l'equilibrio fra la descrizione di una realtà storica e un uso retorico della storia, utile a precisare l'esistenza di un pensiero e di una coerenza storiografici: le fonti possono proporre una visione artificiosa della storia (cioè funzionale a una determinata ideologia), ma si tratta sempre di un'interpretazione storiografica, e come tale va indagata. 1. Possiamo essere certi che le valenze politiche del dialogo interreligioso, nell'Islam classico, e il significato intellettuale di questo confronto trovassero la loro formulazione ufficiale in un dispositivo tipico della trasmissione del sapere come quello della disputa; la certezza deriva proprio dal fatto che la disputa, e l'immagine del convegno dei sapienti, era uno strumento di circolazione delle conoscenze comune a tutte le forme del sapere. L'esempio più significativo, per le comuni immagini adottate, ci giunge dalle pratiche di comunicazione del sapere scientifico. La disputa in sé, come momento particolare della conoscenza, e al di là delle immagini del sapere in cui essa si inquadra, ha implicato una teorizzazione, almeno da parte degli Ihwan al-safà', secondo una terminologia propria dell'epistemologia islamica, comune al diritto e alla grammatica. La comunità filosofica degli Ihwan al-safá' individuava una distinzione necessaria fra i fondamenti (úsul) delle arti e delle scienze e le loro derivazioni (furu') distinguendo così le condizioni di accordo sulle concezioni generali dalla possibile discussione delle ipotesi e delle teorie. Così scrivono in un passo della loro Enciclopedia: Sappi che ogni scienza, ogni arte, ogni dottrina ha i suoi propri esperti, i quali riconoscono in esse dei fondamenti, sui cui principi concordano e sono solidali, in opposizione al disaccordo degli esponenti di altre discipline. Quei fondamenti hanno poi ramificazioni, ed è su queste che essi differenziano le loro opinioni. Per ogni fondamento, essi dispongono di ragionamenti analogici in base ai quali si traggono le ramificazioni, e di criteri a cui ricorrono per fondare gli argomenti del disaccordo. [ ... ] Le scienze della logica sono di due specie: linguistica e filosofica. [ .... ] La logica filosofica è costituita dalle arti della dimostrazione (Siná'at al-burhán), della dialettica (al-gadal) e della sofistica (Siná'at al - sufista'iyyin) Il fondamento su cui c'è accordo fra coloro che si intendono [di queste arti] è la conoscenza delle parti costitutive dell'Isagoge, delle Categorie, del Peri Ermeneias, dei [due] Analitica. [ ... ] Gli esperti di gadal si danno convegno e speculano sulle opinioni e sulle dottrine (yatakallamùna fi 'I-ará' wa 'I-madàhib4 L'idea classica e tardo-antica dei filosofi a convegno ha conosciuto un'elaborazione particolare nei circoli pitagorici ed ermetici dell'ellenismo alessandrino, e ha dato vita a un genere di letteratura scíentifico-sapienziale il cui più famoso esempio è quel misterioso testo noto nel medioevo latino come Turba philosophorum. Il tema del simposio dei dotti sembra. confluire con naturalezza nelle immagini del sapere che l'Islam dei primi tre secoli dell'Egira elabora intorno all'adozione della cultura greca; è un mito che, in ambito islamico e in quelle modalità di assunzione di un sapere affidato all'autorità degli Antichi, è collegato a quell'Antichità grazie alla sua presenza "fisica" (e alla sua attestazione portatrice di autorità) in forma di libro antico: mushaf. In certi manoscritti della versione araba della Turba philosophorum [Ruska, p. 18, 297, 300, 313], il titolo dell'opera è infatti Mushaf al-gama'a (laddove gama'a conserva lo stesso 4 Rasa'il Ihwan al-.safà', III, p. 432, 436-37, 438. Segue poi (p. 443 ss.) una trattazione dei gadal secondo la terminologia aristotelica. duplice senso di turba, "folla" e "riunione", e mushaf allude alla consistenza papiracea del documento 5, dunque a una tecnica e a una conformazione fisica del libro anteriori alla diffusione della carta). In particolare, tutto un settore scientifico estremamente sensibile alla ricezione (e alla discussione) del sapere greco, quale l'alchimia, sembra interiorizzare questo tema cogliendovi il momento centrale di una visione del progresso delle conoscenze che si confrontano, si discutono e si superano. In questo senso, un recente saggio sul contatto fra la "turba-literature" ellenistica ed ermetica e il sapere alchemico in arabo [Kingsley] ci aiuta a comprendere alcune modalità di diffusione di quell'immagine di sapienza a convegno, e ci induce ad osservarle più da vicino, come premessa ad alcune riflessioni sul significato della munazarah nella storia politica e culturale dell'Islam classico. Nella breve bio-bibliografia dedicata all'alchimista Ibn Suwayd al-Ahmimi (incluso nella lista degli allievi di Gabir b. Hayyán), Ibn al-Nadim segnala le sue munazarat col più noto alchimista Ibn Wahsiyyah; fra le opere di al - Ahmimi figura anche un Kitàb munázarat al-'ulama' wa-mufàwadatihim [Ibn al-Nadim, p. 424], dove quel ulama sembrerebbe dissipare ogni presunto conflitto (almeno nell'ambito cognitivo dell'alchimia) fra un 'ilm rivelato e una hikmah dei filosofi. Ma il suo stesso maestro, l'ineffabile Gabir - che non sembra conoscere la versione araba della Turba philosophorum - adotta frequentemente l'immagine del confronto tra le opinioni dei filosofi antichi come dispositivo di autorità; in un passo dell'inedito Kitáb al-mugarradát, il redattore rinnova il tema del concilio alchemico (per lui, concilio filosofico tout court): Sappi che i più celebri filosofi dell'antichità [..] si sono riuniti per una grande disputa (kulluhum igtama'ù [ ... ] fa -tanázaru munázarah), di cui sarebbe troppo lungo dare qui un riassunto. Comunque, ho dedicato un libro a parte alla disputa dei filosofi (munázarat al-falásifah). 6 P. Kraus definiva quella sovrabbondanza di presenze testuali greche, invocate come fonti da Gábir (legate spesso a nomi sconosciuti o estranei alla rassegna di autori tardo-antichi raccolta nel 1888 da Berthelot e Ruelle nella Collection des anciens alchimistes grecs), un "genre de fiction littéraire"; per rendersi conto di quanto questo "genre... était répandu à l'époque arabe", scriveva, “il suffit de rappeler la Turba Philosophorum ",7ritornando così su quello che allo studioso sembrava la chiusura di un cerchio, e che invece è solo un punto di partenza da cui Gabir, e la cultura che esso rappresenta, procedeva. Sappiamo ormai che molte delle fonti "greche" ricorrenti nel corpus giabiriano sono in realtà degli pseudo-epigrafi; in questo ricorso al falso (purché antico), sicuramente si annida la pervicacia di un modo di produrre sapere, condiviso a più livelli in tutti gli aspetti della sua complessità. La condivisione dei contenuti è senz'altro una questione di circolazione di un determinato corpo del sapere (qui, l'alchimia) entro il circolo chiuso di una comunità scientifica. Ciò che risalta, però, è anche la condivisione della forma di autorità cui quel particolare sapere ricorre, che non è appannaggio di una singola scuola, o di una determinata forma di sapere, ma diventa il denominatore comune del confronto fra tutte le scuole: da un lato, la disputa fra dotti (e, data la costante della disputa, la variabile è costituita dalle differenziazioni lessicali, ovvero epistemologiche -'ilm, hikmah, ma'rifah, falsafah - che definivano lo statuto intellettuale del dotto); dall'altro, il sapere degli Antichi, cioè il sapere dei Greci. Di fronte all'abbondanza di testi apocrifi che costituiscono il referente autoritativo del sapere scientifico tardo-antico, non possiamo sapere con certezza quale fosse l'attitudine "filologica" dei membri di quelle comunità scientifiche che adottavano il metodo della disputa; sappiamo solo, comparando le antiche scuole di pensiero alle moderne comunità scientifiche, che prevaleva proprio un concetto di condivisione di determinati paradigmi della conoscenza (di fronte al quale la positivistica nozione di "falso" 5 Cfr. Encyclopédie de l'Islam, 2a ed., sub voce; Pedersen, p. 101 ss. Di fronte all'ipotesi suggestiva che il termine mushaf esprimesse, oltre all'antichità di un testo, l'autorità del sapere in esso contenuto, in chiaro parallelismo con il Corano (abitualmente definito mushaf) bisogna tuttavia tenere conto di un uso meno solenne del termine, testimoniato ad esempio dalla sua ricorrenza, insieme al suo plurale masahif in Ibn al-Nadim, p. 9, per indicare gli esemplari più antichi di scrittura araba dopo l'avvento dell'Islam. 6 6 - Cit. in Kraus (b), p. 59, n. I. 7 Ibid., p. 58-59. perde di senso). Com'è noto, però, nel momento in cui si esce dalla pratica della disputa chiusa, tipica della scienza tardo-antica, e si entra in un ambito che possiamo definire interdisciplinare, e che vede la disputa aprirsi all'intervento di una pluralità di comunità intellettuali, comincia a porsi l'accento sull'autenticità del testo di riferimento: la confutazione dell'alchimia, nel medioevo islamico, viene condotta proprio sulla base della critica dei paradigmi della conoscenza (l'alchimia è confutata dai filosofi prima, e dai medici poi), secondo un criterio di indagine sulle fonti della conoscenza che presuppone la critica dei testi derivati dalla sapienza degli Antichi, e impone la ricerca e l'utilizzo del testo originale. Da un ambito così (apparentemente) marginale come l'alchimia, emergono quindi due temi cardinali che segnano i primi secoli di storia culturale dell'Islam: da un lato, l'integrazione di quel sapere che le classificazioni della conoscenza, dal IX secolo in poi, definiscono "degli Antichi" ('ilm al-awá'il) o "straniero" ('agam cioè non arabo), in opposizione a quelle scienze sentite come propriamente arabe, ossia legate al fondamento epistemologico della lingua in cui si è espressa la rivelazione coranica; dall'altro, la nascita e lo sviluppo di un termine e di una condizione di esercizio intellettuale tanto tipici del pensiero musulmano classico quanto (ancora oggi) non del tutto chiariti nelle loro significazioni: il termine è kalam; la condizione è quella di colui che assume il kalam a regola del ragionamento, cioè il mutakallim. 2. Nel IX secolo si era già affermata, in arabo, una letteratura di "regolamentazione" delle dispute, basate su uno stile argomentativo che faceva autorità, quale la logica aristotelica desunta dall'Organon. Ma è interessante notare che, fin dai prìmi testi relativi a questo genere letterario, l'arte del kalam e l'etichetta dei mutakallimun era studiata e fissata in arabo da rappresentanti di diverse opinioni religiose: basta vedere il pluralismo delle tendenze politiche e religiose che caratterizza l'intero fronte dei mutakallimun musulmani secondo Ibn al-Nadím.8 Fra i più antichi esempi a noi noti di manualistica sul gadal il mutazilita Dirar b. 'Amr (m. 815) ha dedicato alla teoria della disputa un Kitáb adab al-mutakalfimìn; l'eretico Ibn al-Rawandí (m. IX secolo) ha scritto un Kitab adab al-gadal.9Tutti questi trattati sono andati perduti, ma è rimasto il trattato dell'ebreo caraita al-Qirqisáni (m. X secolo), che dedica la quarta sezione del Kitab al-anwar alle regole della disputa. Altrove, in questo testo, si ricorre al ragionamento dialettico a proposito di questioni giuridico-rituali ebraiche; l'autore ammette di utilizzare una fonte più antica, e di adottare quello stile dai mutakallimun (probabilmente musulmani). G. Vajda riteneva che la possibile fonte di al-Qirqisáni fosse il Kitàb adab al-gadal di Qudámah b. Ga'far, filosofo di origine cristiana e convertitosi all'Islam, secondo Ibn al-Nadim, al cospetto del califfo al-Muktafi; il bibliografo cita questo autore come un kátib esemplare, e colloca il suo testo entro un tipo di produzione e di competenza intellettuale peculiare della classe dei kuttáb (ma che fornisce strumenti metodologici anche alle discussioni in ambito grammaticale e giuridico). 10 In entrambi i testi, di al-Qirqisání e di Qudámah b. Ga'far, ricorre un uso del termine mutakallim indifferenziato dal punto di vista religioso; Qudámah b. Ga'far spiega che, al gadal e alla mugadalah, si ricorre nelle discussioni fra le scuole e le religioni (ál-madáhib wa'l-diyanat), precisando così l'ambito intellettuale in cui si mette in pratica questo stile dell'argomentazione, in cui è necessario non solo rispettare le esigenze della logica, ma anche tenere conto del fatto che i propri interlocutori non sono sempre arabofoni: i mutakallimun che parlano arabo, scrive l'autore, hanno a disposizione un lessico che talvolta non è recepito da coloro che non lo parlano (non lo conoscono perfettamente).11 L'accento, dunque, sembra essere sempre posto su un apparato linguistico ed epistemologico, non religioso, che definisce il mutakallim12` 8 Si vedano in Ibn al-Nadim le sezioni V, Vi e VII. 9 Ibid., rispettivamente p. 215 e p. 216. Vajda (b), p. 8 ss. Cfr. Qudámah b. Ga'far; Ibn al-Nadim, p. 144. Più in dettaglio, per le fonti di al-Qirqisání e della dialettica successiva, si veda Makdisi (a); Cfr. Ben-Shammai. 10 11 Qudámah b. Ga'far p. 102-117. Ma, a proposito di mutakallimun non arabofoni, è interessante considerare una glossa intorno all'etimo dei termine sufista'iyyah in un ms. del Tartíb al-sa'adah di Miskawayh, a proposito della classificazione della filosofia di Aristotele di Paolo il Persiano, segnalata da Gutas, p. 25 1: "in greco, l'etimo di sufista'iyyah è suf cioè sapienza, e 'stys cioè offuscamento e mistificazione. Non è vero, come credono i mutakallimun Di nuovo, le forme del dibattito scientifico sembrano offrirci uno spiraglio interpretativo: è infatti significativo che, nel capitolo del Fihrist dedicato all'alchimia, Ibn al-Nadím includa la lista dei "filosofi" che applicano un ragionamento dialettico all'arte alchemica, usando la locuzione takallamu fi'l - san'ah Fra questi, preceduti da grandi alchimisti noti e meno noti dell'età tardo-antica e da filosofi classici (Platone, Democrito) a cui la tradizione alchemica ha attribuito un interesse per questa scienza, compaiono Gabir b. Hayyán, il visir barmecide Yahyà b. Hálid, al-Rázi, e altri nomi (ma non tutti: per esempio, al-Ahmìmí non c'è; segno che i nomi non sono stati messi alla rinfusa) storicamente attestati nella storia dell'alchimia araba [lbn al-Nadim, p. 419]. Come spiegare la locuzione takallama fi ("argomentare [dialetticamente] su..."), riferito alla materia alchemica? Forse nel modo più ovvio possibile: vedendovi un'allusione all'applicazione di una forma del ragionamento dialettico e speculativo alle questioni teoriche dell'alchimia, in comparazione col ricorso alla stessa locuzione nella quinta sezione del Fihrist, dedicata all'origine del kalam e ai primi musulmani che applicarono il ragionamento dialettico alle questioni del libero arbitrio, della teodicea e dell'unicità di Dio: dikr awwal man takallama fi'l -qadr wa'l-'adl wa'l-tawhíd [lbn al-Nadím, p. 201 13. A proposito degli alchimisti mutakallimun, Ibn al-Nadìm cita due nomi, Gábir e Razi di cui è noto lo spiccato interesse per i problemi teorici e speculativi dell'alchimia. Evidentemente, Ibn al- Nadìm intende sottolineare proprio il carattere speculativo che denota l'opera di questi alchimisti; infatti, altrove egli parla più genericamente di dotti (ulamà' o hukama) autori di testi alchemici. Si noti un particolare: fra le opere attribuite agli autori che takallamu fi'l -san'ah compare sempre almeno un titolo a carattere teorico, dimostrativo o confutativo.14 Sembra dunque che la definizione di mutakallim fosse attribuita indistintamente a tutti coloro che intervenivano in un determinato tipo di dibattito, e facevano ricorso a un determinato apparato comune del ragionamento in grado di omologare le differenti opinioni in un unico codice culturale. In un passo degli Opuscoli greci del vescovo melchita di Harran,Teodoro Abù Qurrah, ricorre un'obiezione mossa da un interlocutore musulmano: "Tu mi convincerai, non con citazioni dal tuo Libro, ma per mezzo di nozioni comuni e comunemente ammesse" (ek koinon kai homologoumenon ennoion) [PG, col. 1553]. L'immagine così evocata del dialogo sembrerebbe musulmani (mutakallimu 'l-islam) che vi sia stato in tempi antichi un uomo chiamato Sufista'. Gutas ritiene che l'autore della glossa non poteva essere un musulmano, perché avrebbe trovato sufficiente dire mutakallimun. Non è detto che sia così; il fatto che un non-musulmano avverta la necessità di specificare in questo modo potrebbe dimostrare proprio che la qualifica di mutakallim non riguardava la confessione, ma l'ambito intellettuale. 12 A questo proposito, è interessante notare come, nel corso degli studi sul dibattito che impegnava il mutazilismo contro le differenti religioni dell'ecumene islamica, vi fosse il dubbio che dietro un confronto con i baráhima (verosimilmente i brahmini, dunque gli induisti) si nascondesse una polemica con una setta fittizia. Il dubbio poggiava sul fatto che le dottrine ad essi attribuite non risultavano particolarmente aderenti a una descrizione dell'induismo; si è invece dimostrato che un confronto dei genere è stato storicamente possibile, e che le regole del kalam a cui i barahima erano invitati ad attenersi rendeva loro difficile illustrare certi elementi dottrinali con il rigore logico su cui era mantenuto il confronto. Si veda Stroumsa. 13 Si riscontra un analogo uso della locuzione, in relazione alla filosofia e alla medicina, in Ibn Gulgul: awwal man takallama fí'l-hikmah al-.tibbiyyah wa'l -falsafah al-ulwiyyah (p. 5); awwal man takallamafi'l -tibb wa'l -falsafah (p. 16). 14 Com'è noto, e come ammette anch'egli più volte, Ibn al-Nadim cita solo i titoli delle opere da lui viste; nell'elenco figurano nomi che non hanno la loro "scheda" bibliografica. Fra quelli che invece ce l'hanno, segnaliamo: Halid b. Yazid, col suo testamento alchemico (lbn al-Nadím, p. 419); Du’l-Nún al-Misri con un K. al-tiqah fi'l-san'a (ibid., p. 423); Ibn Wahsiyyah, con un K. al-usul al - kabir fi'l - san'ah, un K. al-usul al-sagir fì'l -san'ah (e sappiamo come la questione degli usul fosse un termine metodologico oltre che epistemologico, per cui cfr. supra, n. 4), e un K. al-mudakarat fl'l-sin'ah (dove mudakarat, in un certo senso sinonimo di munazarat, indica con precisione l'intenzione dell'autore di raccogliere in forma di manuale le discussioni più importanti sulla disciplina alchemica) (ibid., p. 423). Un K al-usul è anche attribuito ad al-Sá'ih al-'Alawi (ibid., p.424). Se guardiamo alle bibliografie di Gábir b. Hayyán e di al-Razi, inoltre, ci accorgiamo che l'argomentazione di alcune di queste opere ha un esplicito intento confutativo: l'ultima collezione del corpus giabiriano, i Cinquecento Libri, è definita "critica ai filosofi" (naqd 'alà al-falasifah) mentre un singolo trattato, il Kitab al-garuf (di cui si ignora l'argomento, ma è elencato accanto a testi di commento a Euclide e all'Almagesto), secondo Ibn al-Nadim è stato criticato dai mutakallimun (alIadi naqadahu al-mutakallimun: ibid., p. 423); di Razí, viene citata la confutazione di un trattato di al-Kindi dedicato alla confutazione dell'alchimia (k itab al-radd 'alà al-Kindi'fi raddihi 'alà al - sina'ah (ibid.p. 423). contraddire la vecchia teoria, recentemente ripresa, secondo cui i teologi musulmani, identificati con i mutakallimun, si sarebbero "adeguati" allo stile del ragionamento teologico cristiano, già solidamente strutturato, al fine di elaborare una teologia, identificata con il kalám, finalizzata all'apologia difensiva dell'Islam15. L'anonimo musulmano che dialoga con Abú Qurrah, infatti, sembra invitare il suo interlocutore ad attenersi a una regola formale del ragionamento che dia luogo a una dimostrazione sulla base di criteri della conoscenza condivisibili al di là della propria confessione e al di qua della presunta verità del proprio Testo sacro. Come dire che il musulmano sta richiamando all'ordine un ragionamento che non si attiene a una regola sulla base della quale soltanto è possibile confrontarsi. Tutto ciò ricorda un tratto assolutamente tipico della tecnica argomentativa del mutazilismo, messo in luce in particolare da H.A.R. Gibb a proposito di un trattato attribuito a Gahiz la controversia è mantenuta sempre entro un parallelismo fra gli argomenti della patristica greca e dei mutaziliti, senza mai ricorrere alla prova cosmologica, o al dato della scrittura rivelata; il criterio di prova è stabilito invece dall'attinenza alla scientificità dell'autorità di riferimento, cioè Aristotele [Gibb]. Ora, il presupposto di ogni teoria sulle origini della teologia musulmana sembra sempre essere una traduzione "concettuale" di kalám con "teologia (dialettica)", e di mutakallim con "teologo”(musulmano). Da ciò conseguirebbe che il discorso sulla conoscenza umana di Dio (la theo-logia) è il kalàm, e il mutakallim è uno specialista del settore. Questa duplice consequenzialità si avverte soprattutto in quelle ipotesi sull'origine del kalam centrate sull'influenza cristiana. Ma tali traduzioni sono "storicamente" esatte? Non sarà, piuttosto, il caso di capovolgere i termini della questione, dando priorità al kalam in quanto stile dei ragionamento - valido come un metodo della conoscenza tout court - condiviso da tutti, per poi vederlo storicamente applicato - tanto da parte cristiana quanto da parte musulmana - al dato scritturale e alle speculazioni intellettuali sull'entità divina? E’ senz'altro necessario misurare, ogni volta che in sede storica si parla di "influenze", il peso ideologico (non diremo pregiudiziale) che si dà a questo termine, soprattutto perché è sorprendentemente facile passare dalla nozione (aleatoria) di influenza - in un ambito storico come quello in cui l'Islam nasce - all'assunto categorico che l'Islam non abbia prodotto nulla di autonomo. La questione risulta di molto semplificata se la si considera nel modo più neutrale possibile: l'Islam fornisce una sua risposta a problemi comuni alle esperienze storiche dell'area geo-culturale tardo-antica in cui esso nasce, coerentemente col suo assetto dottrinario.16 Il fatto che il cristianesimo orientale abbia creduto di riconoscere nella nuova religione l'ennesima eresia, dovrebbe dimostrare a sufficienza (ammesso che l'ovvietà sia contemplata come prova) un'assenza di alterità che segnasse fin dall'inizio i reciproci sguardi. Ma, oltre all'ovvietà dei comportamenti, non si può non considerare la profonda partecipazione dell'Islam nascente alla tematica classica del Logos: una tematica già interiorizzata dal cristianesimo e dal giudaismo alessandrino. Su questo comune paradigma concettuale dell'entità divina, su una concezione unitaria dell'espressione divina (il Logos, appunto, che per i musulmani è il Libro),17 e sugli strumenti del pensiero logico che omologano le differenti risposte dottrinaríe delle tre grandi religioni monoteistiche si è basata la possibilità storica di un confronto. E’ proprio l'Islam a riconoscere questa unità di fondo, coniando la definizione di ahl al-kitab, capace di integrare in una categoria che possiamo definire storico-religiosa le differenti risposte al problema unico della manifestazione del Logos. Per questo motivo - al di là della ragione giuridica o grammaticale, indagata autonomamente dalla cultura musulmana quanto da quella ebraica o cristiana - la logica aristotelica è avvertita dagli intellettuali musulmani come il terreno epistemologico comune, 15 Per una rassegna dì studi pro e contro l'influenza cristiana sul kalam musulmano: A. Abel (a) e (b); Pines; van Ess (b); van Ess (e); Cook. Ma si veda anche il denso articolo di Hourani, che include nell'orizzonte formativo della teologia islamica anche l'ebraismo, il manicheismo e lo zoroastrismo. 16 Si veda, come esempio di questa partecipazione, Cruikshank Dodd, in part. p. 42 ss. Ma a proposito della nozione di "influenza", si veda anche Von Grunebaum (a). Cfr. Vajda (e). 17 Si veda in generale Tritton (b); Von Grunebaum (e), in part. p. 9 ss. Si vedano anche Boullata e Frank. capace di prestare alla ragione dialettica (kalàm) e ai suoi specialisti (mutakallimun gli argomenti razionali del proprio contributo alla dottrina dell'origine divina del Logos: esattamente come aveva già fatto il cristianesimo, che aveva prima combattuto, poi interiorizzato alcune categorie del pensiero greco a fini apologetici. Ma quell'interiorizzazione, da parte cristiana, è un processo già compiuto nel momento in cui, nel VII secolo, l'Islam formula la sua concezione della manifestazione del Logos in forma di libro. In questo senso, parlare di influenze o peggio di imitazioni, da parte musulmana, risulta riduttivo, e impedisce di cogliere in profondità i termini e le ragioni che rendevano concretamente possibile una pratica della tolleranza. Distinguere quindi tra un kalam cristiano e un kalam musulmano significa distinguere in realtà i contenuti (i furù', come ritenevano gli Iwan al-safa' )delle rispettive posizioni, ma bisogna allora ammettere che esisteva anche un kalam degli zoroastriani, dei manichei, degli zindiq. Ibn al-Rawandi, che non era certo un apologeta dell'Islam, scrive tuttavia un Radd 'alà al-zanádiqah, eppure viene definito mutakallím [Ibn al Nadim, p. 217]; ma tutto lo scambio di confutazioni e di adeguate risposte fra mutaziliti e anti-mutaziliti, scatenato dalla replica di Ibn al Rawandí all'elogio della Mu'tazila di Gahiz e raccolto nel Kitáb al-intisár [Hayyàt], è condotto entro uno stile e un rigore argomentativo che si rinfaccia a Ibn al-Rawandi di non rispettare, e che dunque non è esclusivo appannaggio dei mutaziliti. La confutazione scritta dall'imám zaydita al Qàsim b. Ibràhim contro il manicheismo di Ibn al-Muqaffa' è fondata sulla critica logica alle dottrine avversarie, ritenute prive di quella coerenza (dialettica e linguistica) che l'adab al-gadal insegnava, e si conclude con queste parole: " [egli] in ogni questione muta opinione e passa da un pensiero all'altro. Io credo che Ibn al-Muqaffa' non abbia mai frequentato un mutakallim e non abbia mai capito bene una sola questione"[Guidi, p. 125 e 54]. Questi episodi, in cui ricorre sia il termine mutakallim sia l'esercizio di un particolare stile del ragionamento, contribuiscono a chiarire ulteriormente determinate pratiche intellettuali poste sotto il segno di un comune paradigma della conoscenza, ma sono ovviamente marginali rispetto al tema che andiamo trattando. Il fatto che la logica aristotelica costituisse un fondamento epistemologico al di là dell'appartenenza confessionale è certamente sintomatico di una persistenza di valori e condizioni culturali della classicità greca, ma non si esaurisce in una tale constatazione. In tutto ciò è implicito il processo discontinuo di traduzione dei testi relativi al patrimonio filosofico greco; molto meno implicito - al di là delle apparenti spiegazioni - è il perché il sapere greco, e in particolare l'Organon aristotelico, rivestisse tanta importanza nella politica interreligiosa dei califfi, sia per quanto riguarda il riflesso teologico, sia per la scelta di coloro cui era affidato il compito di stabilire le edizioni in arabo. La lotta contro il manicheismo ci fornisce un primo elemento per una chiave di lettura "imperiale" delle dispute, del raffinamento delle tecniche di confutazione, ma anche del controllo religioso e politico del sapere greco e delle possibili ragioni per cui il califfo affida ai cristiani la gestione di un'operazione culturale che, in realtà, risulta funzionale all'apologia dell'Islam. 3. La politica interreligiosa sotto il califfato di al-Mahdí (775-785), com'è noto, è caratterizzata da un atteggiamento di momentanea penalizzazione delle comunità cristiane del confine con Bisanzio, ritenute una quinta colonna del nemico; da una politica culturale di grande favore nei confronti dei medici cristiani (nestoriani) e del loro patriarca Timoteo; da una feroce repressione della zandaqah.18 La lotta contro il manicheismo, condotta con metodi confutativi o con metodi polizieschi, è sempre stato un obiettivo comune alle grandi religioni. Gli argomenti della critica ebraica presentano una somiglianza formale col florilegio di confutazioni musulmane contro i manichei e i dualisti: una critica non "mitologica", che si confronti con il complesso apparato di miti della cosmologia manichea, bensì "teologica", incentrata cioè su quelle formulazioni della teodicea manichea che possano mostrare il fianco a una confutazione di tipo logico. Giudaismo e Islam adottano stili refutativi molto simili, che si rifanno ai paradigmi della ragione e dell'argomentazione logica. Ma di 18 Moscati (a); Moscati (b); Omar. Per le fonti, storiografiche e letterarie, sulla persecuzione della zandaqah sotto al-Mahdì e durante il breve califfato di al-Hàdi, Vajda (a). questa compattezza partecipava già la classica lotta cristiana (ma anche pagana) ai manichei, dominata dall'assunzione di identici criteri: koinai ennoiai e logikai methodai. A Bisanzio, la forte presenza della lotta antimanichea fra il VI e l’VIII secolo ci dice che un fronte comune di refutazione reagiva a una stessa sensazione di pericolo per lo Stato.19 Secondo H. Ritter, l'eresiografia nasce proprio sotto il califfato di al Mahdi per rispondere a esigenze di controllo poliziesco.20 L'opinione, sicuramente datata, ha comunque una sua pertinenza con il momento storico: è senz'altro vero, al di là delle ragioni per cui si afferma e si sviluppa il discorso eresiografico, che nella seconda metà dell'VIII secolo si accentua una pratica confutativa e una relativa letteratura di radd che verrà alimentata in particolare dal mutazilismo nascente [vari Ess (c); vari Ess (d)]. Ma probabilmente dietro lo sviluppo della letteratura eresiografica potrebbe esserci anche l'esigenza di affrontare il problema dell'eterodossia secondo uno schema di classificazione dei gruppi e delle diverse dottrine, e all'interno di un discorso incentrato sul dato irriducibile del pluralismo confessionale e comunitario. Lo sguardo classificatorio dell'eresiografo persegue sempre un metodo per così dire storico-religioso, fissato su un nesso profondo fra i concetti di maqalát, di nihal e di milal, cioè in un rapporto costante fra dottrina e portavoce del gruppo (scuola, comunità scientifica o religiosa) da cui essa proviene. A questo proposito, ci interessa una notizia riportata dalla tarda fonte di Suyuti che a sua volta cita al-Dahabi: al-Mahdi è il primo califfo a ordinare la stesura di testi sul gadal applicati alla confutazione della zandaqah 21 AI-Dahabi è cauto nel fornire la notizia, nonostante possa contare su una discreta catena di trasmettitori. Evidentemente non aveva a disposizione i Murug al-dahab di Mas'údì; infatti, in questa fonte del X secolo si legge [Mas'udí, VIII, p. 293]: I manichei aumentavano di numero, e diffondevano fra la gente le loro idee. Al-Mahdi fu il primo a sollecitare gli intellettuali esperti di dialettica (al-gadaliyyin min ahl al-baht min al-mutakallimin) affinché scrivessero libri contro questi miscredenti. [..] Così [ i dialettici ] formularono le loro argomentazioni (al-baráhln) contro le deviazioni di questi ostinati, e dimostrarono lafallacia dei loro sofismi. L'informazione era quindi fondata, e la lotta di al-Mahdí contro il manicheismo si inseriva realmente in una politica di unità dell'impero, analoga a quella che perseguiva Bisanzio nei confronti dell'identico nemico. Un nemico che si presentava sempre nella veste intellettuale del mutakallim,22 e che quindi era necessario affrontare su un piano dialettico. Tutto ciò spinge il califfo ad interessarsi alla logica aristotelica e a promuovere la traduzione di una parte dell'Organon. E questo un interesse che probabilmente matura proprio all'intemo di un'ottica storica che prevede un gruppo, sostenitore di una determinata dottrina (maqalah), assimilato sempre a un'idea di comunità (ta'ifah, millah) e rappresentato da un portavoce qualificato.23 Se 19 Si veda ad esempio Stroumsa-Stroumsa; Abel (c). Ritter, in part. p. 34, dove allude all'attività eresiografica di Hisam b. al-Hakam. La questione, in realtà, è più complicata, e va a toccare i rapporti fra la zandaqah e lo sciismo, in particolare il circolo di Ga'far al-Sádiq e il problema della falsificazione, vera o presunta, della sua trasmissione; cfr. ad esempio Chokr, p. 131-51; Qádi (a). E’ un fatto, comunque, che la letteratura dossografica cominci a svilupparsi come un genere tipico dei kalam e dei mutakallimun non prima dei regno di al-Mahdi; cfr. i primi autori della rassegna di fonti dossografiche in Monnot. 20 21 Suyúti p. 259: wa -huwa awwal man amara hi-tasníf kutub al-gadal fì'l-radd 'alà al-zanadiqah wa'l-mulhidin 22 Ibn al-Nadim, p. 401: "[elenco dei] capi [manichei], mutakallimun, che esteriormente sono musulmani ma interiormente sono manichei". Cfr. Chokr, passim. 23 La più antica fonte eresiografica a noi nota, le Masa'il al-imamah dello ps. Al Nasi' al-Akbar, adotta il modello della divisione di opinioni e di gruppi anche quando supera i confini delle dispute politiche e religiose fra il sunnismo e le varie formazioni sciite, ed elenca gli orientamenti dottrinali delle differenti confessioni cristiane e delle correnti di pensiero filosofico greco secondo le conoscenze del tempo. Da notare che il criterio di classificazione delle comunità cristiane è quello degli argomenti formulati sulla natura di Cristo e sulla Trinità, distinti fra un atteggiamento di fedeltà alla lettera scritturale e alla tradizione dei Padri (qawm yadhabuna ila záhir al-ingil wailà al-taqlid li-aslafihim) e un atteggiamento speculativo (qawm yugadiluna bi-maqùyis al-'aqliyya) intorno al l'interpretazione dei Vangelo abituato all'uso della terminologia filosofica greca (.. vva-hadihi lafza falsafiyya yunániyya... fa-takallamu bihá): lo si veda in al-Nàsi' al-Akbar, p. 82. l'argomentazione della zandaqah è costruita formalmente sul paradigma comune del kalám, la politica confutativa dovrà misurarsi e raffinarsi all'interno dello stesso orizzonte del pensiero. Vediamo la questione più in dettaglio, perché è a questo livello che si inserisce nella politica califfale l'elemento del sapere greco, attraverso il patrocinio delle traduzioni in arabo e l'integrazione degli intellettuali cristiani (in particolare nestoriani) nell'orbita della corte. Al-Mahdí incarica il patriarca nestoriano Timoteo I di tradurre dal siriaco in arabo i Topici di Aristotele, cioè la sezione dell'Organon in cui il filosofo esponeva le regole di ciò che costituirà la materia dei vari adab al-gadal e adab al-mutakallimin della tradizione dialettica in arabo.24 Ibn al-Nadim, dando l'elenco delle opere aristoteliche, traduce il titolo con gadal (Túbiqa wa -ma'náhu al-gadal) [Ibn al-Nadim, p. 309]. 4. Agli occhi egemoni dei musulmani, i cristiani, divisi spesso in maniera turbolenta fra nestoriani, melchiti e giacobiti, sono sempre stati interlocutori privilegiati rispetto agli ebrei e agli zoroastriani. Sotto il califfato di al-Mahdi, nonostante alcune fonti siriache ritraggano il sovrano come feroce persecutore di cristiani,25 il sapere medico dei nestoriani trionfa a corte con Girgis b. Bahtisu', invitato dal califfo a trasferirsi da Windigàpúr a Bagdád.26 Si direbbe che sia proprio il corpo del sapere medico a orientare, in un certo senso, le relazioni fra la corte califfale e la comunità nestoriana; infatti il patriarca entra nella corte di al-Mahdi grazie all'influenza esercitata da Gibril b. Bahtisu', figlio di Girgis e suo successore come medico personale del califfo. Il detentore del sapere medico (che è anche diacono), tuttavia, è solo un anello di congiunzione tra il califfo e il patriarca; alla munazarah ufficiale al cospetto del califfo, infatti, è chiamato Timoteo. Tra il capo della comunità musulmana e il capo della comunità nestoriana si stringe una relazione di rappresentatività che risulta meglio documentata sul versante cristiano, ma si rinnova anche nei confronti di tutti i capi delle varie confessioni che formano l'ahl al-dimmah. Probabilmente prevale un criterio di rappresentatività giuridica. Se guardiamo alla situazione degli zoroastriani, e alla frammentarietà delle testimonianze a proposito, sembra possibile dedurre una persistenza del diritto mazdeo, amministrato dal mobadan-i mobad, che ha portato a parlare di "isolamento giuridico" della comunità, in analogia a quello delle altre confessioni [De Menasce, p. 220 ss.]. Una certa costanza nel confronto interreligioso, al di là dell'ambito eresiografico o confutativo, deve esserci stata, così come risulta da un testo in mediopersiano ['Ulamà'-yi islàm, p. 409 ss], in cui alcuni dottori musulmani rivolgono quesiti teologici al più importante dei sacerdoti mazdei. La confutazione scritta da Dirar b. 'Amr contro l'ahl al-milal [Ibn al-Nadim, p. 215] con ogni probabilità riflette le dispute che impegnarono il mutakallim mutazilita con l'esilarca ebreo (rà's al-galut) e il mobadan-i móbad nel circolo dei Barmecidi.27 Mas'ùdi, nel celebre passo sul simposio in casa del visir barmecide, fa una precisazione significativa: il tredicesimo convitato è proprio il mobad e l'autore aggiunge che il personaggio apparteneva al. madhab mazdeo, ed era il qadí dei mazdei (wa-huwa al-mubad wa-kana magùsì al-madhab wa -qádí al-magus) [Mas'údì, VI, p. 375]. Le comunità ebraiche erano analogamente rappresentate dall'esilarca, la cui autorità veniva confermata da una procedura di certificazione (sigiliyyun) rilasciata dal califfo, esattamente come accadeva con i patriarchi nestoriani e i vescovi giacobiti e melchiti [Gil (b), p. 34; Putman, p. 123 ss.; Fattal, p. 214-16]. Grazie a questo riconoscimento ufficiale, i capi delle confessioni erano 24 Peters, p. 21; Fiey, p. 38. Per le testimonianze dirette di Timoteo, v. infra. Per quanto riguarda la trasmissione delle sezioni dell'Organon, e i problemi lessicali e concettuali legati al passaggio dal greco al siriaco e all'arabo, si vedano Georr; Hugonnard-Roche (b). In generale, sulla formazione del lessico, si veda Hugonnard-Roche (c) e la relativa bibliografia. 25 In particolare la Cronaca di Michele Siro, per cui vedi Omar, p. 144-45. 26 Sulla famiglia dei Bahtisú' in relazione alla comunità nestoriana, Putman, p. 9798; in generale, Whiffe. 27 Kassi, p. 168: fa-ashana [Yahya b. Hálid al-Barmakí] al~maglis min al mutakallimín fa-kana minhum Dirar b. 'Amr wa-Sulayman b. Garir wa 'Abd Allah b. Yazíd al-lbadí wa -mubad b. mubad wa rà's al-galut Qala fa-sa'lu fa-takafu watanazaru. Su Dirar b. 'Amr si veda l'ampio studio di van Ess (a). delegati a esercitare un'autorità religiosa e secolare, dunque giuridica all'interno delle proprie comunità (compresa la gestione economica delle fondazioni pie). 28 Va notato che il ricorso di al Qirqisani al ragionamento dialettico e alle sue regole in questioni di carattere giuridico-rituale è sicuramente un riflesso del potere concesso all'esilarca - riconosciuto giudice supremo da tutte le Yesivót, ma rispettato anche dagli interlocutori musulmani per la sua genealogia che risaliva a Davide - di formulare decisioni legali [Gil (b), p. 37]. Sul versante cristiano, che, come abbiamo accennato, risulta maggiormente documentato, la presenza del califfo chiamato come arbitro per sedare i frequenti scontri dottrinali fra le diverse confessioni, e soprattutto per risolvere le controversie sollevate dalla successione al soglio patriarcale o vescovile, è una prassi antica, sollecitata proprio dalle comunità cristiane (abituate, tra l'altro, a un'ingerenza dell'autorità imperiale bizantina che il governo musulmano non ha mai esercitato). 29 Il caso di Timoteo è sicuramente emblematico, e tutta la vicenda legata alla sua elezione e ai suoi rapporti con al-Mahdí emerge con significativa soggettività dalle lettere scritte dal patriarca.30 Il califfo sollecita la nomina di Timoteo in seguito a una spaccatura che in quel periodo divide la chiesa nestoriana intorno all'elezione del nuovo patriarca. L'appoggio di al-Mahdì è possibile grazie all'influenza che Gibril b. Bahtisu esercita a corte, e Timoteo riesce ad ottenere il diploma che sancisce la sua investitura - dunque la sua rappresentatività all'interno della comunità nestoriana e all'interno della corte califfale. Nella lettera XXI, Timoteo tesse l'elogio di Gibril b. Bahtisu definito "mawla del nostro sovrano" (syncello regis nostri); il patriarca scrive di essere riuscito, grazie alla sua influenza, ad ottenere dal califfo un editto che concede al patriarcato libertà assoluta nella gestione degli affari della comunità (Misereatur deus animae Rabban Gabriel, qui communitati simul et nobis scutum est. A rege enim nobis edictum impetravit, ne quis principum contra me agat in legibus christianitatis). La lettera si chiude invitando il mittente a "pregare per il nostro sovrano e per i suoi figli" (orate pro rege nostro et filiis eius) [Bidawid, p. 32; Timothei, p. 89]. E’ forse in virtù di questo editto che, fra le opere di diritto canonico del patriarca, è potuta comparire la raccolta di 99 canoni, le Ordinanze sui verdetti ecclesiastici e le eredità, che impediva ai cristiani di risolvere le loro controversie legali presso i tribunali musulmani, e li obbligava invece a ricorrere esclusivamente alla magistratura ecclesiastica [Bidawid, p. 811].31 Nella lettera XL, inedita, riassunta e in parte tradotta da Bidawid, Timoteo scrive di una disputa in presenza di al-Mahdí sostenuta con un grande filosofo aristotelico;32 la stessa lettera si conclude con un accenno alla famosa munázarah sostenuta coi califfo in persona: " ... e a proposito delle domande e risposte che ci sono state presentate dal grande filosofo, principe del mondo, ti scriverò un'altra lettera, a Dio piacendo" [Bidawid, p. 17]. Questa lettera, che allude alla già avvenuta disputa sui dogmi cristiani (e che si conclude con un'ineccepibile apologia del cristianesimo), è datata da Bidawid al 780/81. Le molteplici redazioni in siriaco e in arabo della disputa, che assume i caratteri di un concilio solenne in cui la 28 Márí b. Sulaymàn, I, p. 133, 147, parla di documenti che abilitano ebrei e nestoriani alla gestione dei beni posti sotto l'istituto giuridico dei waqf (amwal wuqufíhim). Lo stesso tipo di abilitazione veniva rilasciata dai Fatimidi al capo della Yesivah di Palestina: si veda Gil (a), p. 508- 10. 29 Morony, in part. p. 126; cfr. in generale Tritton (a); Bikhazi-Gervers. 30 Bidawid. Parte delle lettere sono tradotte in Timothei. La classificazione delle lettere che qui si segue è quella proposta da Braun e adottata anche da Bidawid. 31 Anche i vescovi giacobiti e melchiti designano i magistrati, chiamati a risolvere i casi all'interno della giurisdizione episcopale (che continua la tradizione bizantina). Timoteo sembra inaugurare, con i suoi 99 canoni, un periodo di irrigidimento nei confronti della pratica, evidentemente diffusa fra i cristiani, di rivolgersi al qadí musulmano; dopo Timoteo 1, i cristiani che ricorrono a un tribunale musulmano verranno colpiti dalla scomunica. Cfr. Fattal, p. 344 ss. 32 II filosofo cui allude Timoteo è probabilmente 'Abd Alláh b. Ismá'il al-Hasimi voce minore dei fitto dialogo intellettuale "privato" fra musulmani e rappresentanti dell'ahI al-kitab; in una lettera indirizzata al cristiano 'Abd al-Masíh al-Kindi, infatti, il filosofo accenna a una disputa sostenuta col patriarca nestoriano: Bidawid, p. 32, n. 2. controparte è addirittura il califfo, sono versioni più ampie del resoconto che lo stesso Timoteo scrive nella lettera LIX.33 Soltanto dopo la disputa il patriarca riceve l'incarico di tradurre i Topici; infatti, nella lettera XIX, datata fra il 783 e il 785, Timoteo chiede che gli si procurino i commenti di Olimpiodoro, di Stefano e di Alessandro (altrove scriverà che il lavoro si presenta più difficile di quanto non prevedesse, e ha dovuto ricorrere alle competenze linguistiche di parlanti greci; sicuramente Timoteo richiede alcuni commenti per comprendere passi complicati del testo) [Bidawid, p. 24; Timothei, p. 86]. E probabile che quella lettera sia stata scritta nel 783, perché in quello stesso anno, nella lettera XLIII, Timoteo scrive di aver concluso la traduzione dei Topici ordinata da al-Mahdi, e aggiunge di aver sentito dire che, del testo aristotelíco, già esisteva una traduzione in arabo; cosa che lo lascia molto perplesso, perché secondo lui il testo è oltremodo difficile da rendere in arabo. In quest'ultima lettera, scritta al diacono Petion, si legge [Braun, p. 2]: Un ordine reale ci ha domandato il libro dei Topici del filosofo Aristotele affinché noi lo traducessimo dal sìriaco all'arabo. Ciò è stato fatto con l'aiuto di Dio, e con quello di Abu Nuh - un po' per parte nostra per il siriaco, ma interamente da parte sua per il siriaco e l'arabo. Il lavoro è ormai finito, benché altre persone abbiano tradotto il libro dal greco in arabo (ti avevamo già scritto di questo, e ti facevamo sapere in che modo sono andate le cose); ma egli [ il califfo] non ha considerato [quella traduzione degna di essere guardata. Sono barbari, in effetti, non solo per lo stile, ma anche per i concetti […], sia per la difficoltà del soggetto, sia per mancanza di adeguata istruzione da parte di coloro che hanno intrapreso quel lavoro. Chi sono i "barbari" che hanno tentato una prima traduzione dei Topici (direttamente dal greco in arabo), giudicata indegna dal califfo? Va notato, anzi tutto, che i Topici risultano essere il testo meno tradotto dell'Organon, e le fonti posteriori ignorano anche l'incarico affidato a Timoteo (per cui si veda infra). E’ probabile che, prima di rivolgersi al patriarca nestoriano, al-Mahdí avesse rivolto l'attenzione a traduttori provenienti dall'altra tradizione culturale ellenistica, quella persiana. Nel 1926, G. Furlani pubblicava una breve nota intorno a un singolare manoscritto che dichiara di contenere le versioni arabe dell'Isagoge porfiriana e delle Categorie, del De Interpretatione e degli Analitici Primi, tradotte da Muhammad b. 'Abd Alláh al-Muqaffa' [Furlani]. In realtà, il manoscritto contiene una raccolta di definizioni e di glosse a termini tecnici dell'opera porfiriana e aristotelica; nell'explicit, si afferma che i tre libri di Aristotele furono prima tradotti da Muhammad b. 'Abd Alláh al-Muqaffa', poi da Abú Núh il cristiano (al-Nasranì), e infine da Salima (sic, per Salm) al Harránì, direttore della biblioteca (sahib bayt al-hikmah) del visir barmecide Yahyà b. Hàlid. Furlani ipotizzava che il primo traduttore fosse il figlio del più celebre Ibn al-Muqaffa', ma un primo dubbio sull'esatta dizione del nome nel manoscritto veniva espresso nel 1933 da P. Kraus [Kraus (a), p. 12-14]. L'edizione dell'opera di Ibn al-Muqaffa' sulla logica aristotelica ha chiarito l'equivoco del manoscritto, dimostrando che l'autore di una traduzione dei tre libri dell'Organon è appunto Ibn al Muqaffa' (cioè Abú Muhammad 'Abd Alláh b. al-Muqaffa'). 34 Ma una comparazione terminologica fra le traduzioni (aute ntiche o attribuite che siano) 35 di Ibn al-Muqaffa' e quelle realizzate tra la fine del IX secolo e l'inizio del X da Hunayn b. Ishàq e dalla sua scuola ha anche dimostrato che la tradizione relativa all'opera di Ibn al-Muqaffa' non dipende né da un originale greco né da una versione siriaca, ma da una traduzione in mediopersiano.36 Da tutto ciò è possibile trarre due constatazioni: il patriarca Timoteo forse confonde i Topici con le Categorie (o più verosimilmente non è ben informato), ma conferma l'esistenza di un'attività di traduzione della logica aristotelica, promossa dal califfo (al-Mahdí, o suo padre al-Mansúr?), gestita in un primo momento da interpreti persiani; la successione dei traduttori citati nel 33 La lettera LIX è in Bidawid, p. 42. La disputa con al-Mahdi è stata ampiamente studiata. L'ultima edizione, con traduzione, è in Putman, p. 7-51, tr. p. 214-76. Cfr. Caspar. 34 L'opera di Ibn al-Muqaffa' sulla logica aristotelica è stata edita da M. Taqí Danis-Pajúh. 35 Cfr. infra, n. 40. 36 Troupeau, p. 244; Zímmermann, p. 528 ss. Per la questione dei rapporti fra queste prime traduzioni della logica aristotelica e lo sviluppo della grammatica araba, si veda anche Elamrani-Jamal. manoscritto di Furlani rispecchia lo spostamento dei filoni di tradizione alla base delle diverse traduzioni: a una prima commissione rivolta alla tradizione greco-mediopersiana, subentra quella rivolta alla tradizione greco-siriaca. Ma quest'ultima, a stia volta, si rifà a una più antica tradizione che dipende da Alessandria nelle figure di Giovanni Filopono, e in quelle siriache (ma di formazione alessandrina) di Sergio di Res 'Ayna (m. 536) e di Atanasio di Balad (m. 686),37 ed è mantenuta viva da Abu Nùh (collaboratore di Timoteo) e, in seguito, da Salm al Harráni (che comincia la sua attività durante il califfato di Hárún al Rasid), membro dell'enclave pagana dei Sabei di Harrán (città che ospita la scuola di Alessandria nelle sue peregrinazionì orientali [Meyerhof (b)]). Alcune osservazioni sono necessarie per comprendere meglio il clima, peraltro già descritto con eloquenza nelle lettere. Il patriarca nestoriano è perfettamente integrato nell'apparato di corte; è un'integrazione che traspare, più o meno in tutta la corrispondenza che allude ad al-Mahdi dalla gioia del patriarca di partecipare ai conviti califfali. A parte lo stato d'animo, traspare anche la consapevolezza di essere parte non solo integrata, ma integrante, di un'ecumene: al-Mahdì è il "il nostro sovrano". Si badi che le lettere hanno un carattere strettamente privato, quindi al di fuori di ogni convenzione ufficiale; sono prive di una compiacenza di circostanza, e rivelano piuttosto un senso di gratitudine per il sovrano che lo ha favorito nella controversia intorno alla successione ecclesiastica, gli offre donazioni in denaro per i monasteri sotto il suo controllo, e lo riceve con tutti gli onori dovuti a un rappresentante ufficiale dotato di poteri giurisdizionali sulla propria comunità. Inoltre sorprende quella definizione di "grande filosofo, principe dei mondo", che getta una luce significativa sulla figura di al-Mahdi e sull'immagine califfale che si proietta sulla corte, sulla composizione confessionale del suo impero e sulla politica culturale con cui si tenta di affrontare la differenza dottrinale. Due componenti, quindi, caratterizzano questa figura: il califfo si compiace di arbitrare le dispute interreligiose; egli sollecita la ricerca e la traduzione di libri antichi. Entrambe le componenti si uniscono per rinnovare un'antica tradizione di governo sapiente, dando vita alla fisionomia del califfo al centro dei simposio dei dotti. Ma va aggiunto un dettaglio di non poco conto: il califfo che ordina rappresaglie contro le comunità cristiane che abitano le zone di confine con l'impero bizantino, sospettate di tradire il patto che le lega e le integra alla dár al-islám, è lo stesso che sottrae il controllo dei patrimonio intellettuale greco ai persiani, e lo affida alla componente cristiana che si sente parte attiva dell'impero islamico. In questa politica che sceglie secondo la rappresentatività degli interpreti, la storia del testo e la critica del testo cominciano ad avere un'importanza decisiva: alla trafila greca-mediopersiana-araba si preferisce quella greca-siriaca-araba.38 5. Al-Mansur aveva già inaugurato una politica di traduzioni di testi greci nell'ambito della sua corte, il che dimostra come l'interesse califfale per le tradizioni della filosofia politica ellenistica (coltivato già in epoca omayyade [Grignaschi (a), (b), (c)]) iniziasse a spostarsi dall'ambito di conservazione/trasmissione persiano a quello siriaco, e nello stesso tempo tendesse a risalire dal commento al testo originale. Il fondatore di Bagdàd, di cui è noto l'interesse per le cosiddette "scienze degli Antichi", vedeva un nesso fra le tradizioni culturali della gestione politica e il controllo della tradizione testuale greca, e promuoveva la traduzione di un Kitab al-siyasah fi tadbír al-riyasah, cioè una delle versioni della Politica dello ps. Aristotele 37 Furlani, p. 208-10; ma cfr. i più recenti Hugonnard-Roche (a), p. 133-34, e Brock (b), p. 21 ss. 38 Sarebbe però più esatto parlare anche di una trafila greca-mediopersiana/siriaca araba: le due tradizioni, siriaca e mediopersiana, non sembrano affatto essere del tutto disgiunte. Per Brock (b), p. 25, l'attività siriaca di conservazione dei testi è più intensa nelle regioni orientali (Timoteo richiede, se non il testo dei Topici, i commenti al monastero di Már Mattai, vicino Mawsil), e non sempre le traduzioni in siriaco sono condotte sull'originale greco, ma anche grazie all'intermediazione in lingua mediopersiana. Il caso di Paolo il Persiano, con la sua opera di classificazione della filosofia aristotelica, è senz'altro significativo: cfr. Gutas. Nella trafila greca mediopersiana, inoltre, sarebbe opportuno inserire una probabile mediazione armena, cosa che tuttavia esula dalle mie competenze. Ringrazio Biancamaria Scarcia Amoretti per avermi segnalato la questione. [Dunlop]. 39 Come abbiamo visto, alcuni libri dell'Organon (in particolare le Categorie, il De interpretatione e gli Analitici Primi, insieme all'Isagoge di Porfirio) erano stati tradotti (o parafrasati) da Ibn al-Muqaffa'. Ibn al-Nadim, e soprattutto Sá'id al-Andalusi e al Qiftí, precisano che Ibn al-Muqaffa' fu il primo, nella storia dell'Islam, a occuparsi della traduzione di libri di logica per il califfo al-Mansur. 40 Anche Mas'udi attribuisce a questo sovrano e al suo tempo la commissione e la realizzazione di molte traduzioni: fra le altre, lo storico cita diversi trattati di logica di Aristotele (kutub Aristatalis min al-mantiqiyyat), l'Almagesto tolemaico, gli Elementi di Euclide, e "molte altre opere antiche greche (al-yunaniyyah), bizantine (al-rùmiyyah), persiane (al pahlawiyyah wa 'l-fàrisiyyah), siriache" [Mas'ùdi, VIII, p. 291]. Consiglio filosofico e consiglio politico, adab (= paideia) e siyasa, sembrano essere una costante nell'immagine del cortigiano perfetto. Ibn al-Muqaffa', noto autore di trattati di adab e traduttore di tradizioni culturali persiane, è anche autore di un testo, la Risalah fl'I-sahabah, che è certamente qualcosa di più di uno specchio per principi.41 In questo trattato si enfatizza (accanto al ruolo del corpo militare) l'importanza della corte, intesa come un corpo di scribi, di funzionari, di cancellieri, di amministratori in grado di dare forma a un apparato di potere che agisce su delega del califfo. Insieme all'esercito, la corte (i sahabah del titolo, appunto) è ciò che definisce la visibilità, oltre che l'esercizio, del potere califfale. I due elementi della visione imperiale che Ibn al-Muqaffa' suggerisce ad al-Mansúr sono fra loro saldati dall'immagine stessa del califfo, descritto come massima autorità politica e religiosa. Si delinea, attraverso il rilievo dato alla corte da parte di un cortigiano, la necessità di un controllo della sfera religiosa da parte dello Stato. Il testo di Ibn al-Muqaffa' è importante almeno per due motivi. Il primo è che l'ideologia che sottende questa visione imperiale mette a fuoco un'identità sostanziale tra la figura del califfo e la comunità, sovrapponendo la leadership politica a quella religiosa; il secondo motivo è che Ibn al-Muqaffa' si converte all'Islam solo negli ultimi anni di vita, ma la sua funzione di cortigiano lo porta a ragionare in termini impliciti di integrazione. La visione imperiale di Ibn al-Muqaffa', in altre parole, include anche Ibn al-Muqaffa'. Ma al di là dello sguardo soggettivo di un dimmi sul clima politico che lo include, i consigli che il manicheo offre al califfo saranno più seguiti di quanto sia parso allo sfortunato segretario. Se abbiamo prima posto l'accento su Ibn al-Muqaffa' come traduttore (o commentatore) di testi aristotelici, e ora sul suo ruolo di cortigiano e consigliere, è per mettere in luce una persistenza delle tradizioni della filosofia politica ellenistica nella cultura islamica di corte.42 Nell'VIII secolo, prima di arrivare "direttamente" dalla Grecia (o attraverso il mito della Grecia che si formerà più tardi), questa continuità proviene dalla frontiera persiana dell'ellenismo, e si esprime sempre mediante un rapporto tra il sovrano e il cortigiano-filosofo che rinnova il modello classico, rappresentato ad esempio da Temistio. La tradizione musulmana conosce Temistio essenzialmente come commentatore di opere aristoteliche, e lo pone sempre e soltanto in 39 Grignaschi (c) ha dimostrato che l'autore del Sirr al-asrar ha aggiunto al Kitab al-siyàsah fì tadbír al-riyasah i capitoli relativi all'alchimia e alle scienze occulte. Sul Sirr al-asrar, si veda Grignaschi (d) e (e). Sull'interesse di al-Mansúr per l'alchimia, si veda Strohmaier (c). 40 Ibn al-Nadim, p. 305, elencando le traduzioni eseguite dal mediopersiano (min al-farisiyya in arabo, attribuisce a Ibn al-Muqaffa' la redazione di compendi delle Categorie e del De Interpretatione; Sá'id al-A ndalusi, p. 49, parla invece di traduzioni dei due testi nominati da Ibn al-Nadim e degli Analitici; si tratterebbe di traduzioni anche in Qifti, p. 220. 41 Edita in Kurd 'Ali, p. 120-131. Si veda in part. p. 127-129 sull'entourage dei califfo. Sull'importanza di questo trattato per la politica abbaside, e le eventuali fonti di Ibn al-Muqaffa', si veda Goitein. 42 La tradizione culturale dei segretari, entro cui Ibn al-Muqaffa' si muove, comincia a consolidarsi sotto la dinastia omayyade, e proprio sotto il segno di un recupero graduale dei temi che informavano la visione ellenistica della sovranità. Si consideri ad esempio la concezione della regalità/califfato nella visione politica di 'Abd al-Hamid b. Yahyà (m. 750), per cui cfr. Qádi (b), in part. p. 256. relazione con Giuliano, facendone il suo visir. 43 La fonte più esplicita al riguardo è Ibn al-Nadim, il quale scrive che Temistio era il ministro di Giuliano, e per lui commentò (fassara lahu) alcuni testi aristotelici [Ibn al-Nadim, p. 302]: i testi commentati sono le Categorie, due sezioni degli Analitici Primi, tutti gli Analitici Secondi, parte dei Topici, la Poetica, tutto il De caelo e il De generatione et corruptione [Ibn al-Nadim, p. 309-11 ]. 44 Ibn al-Nadim è informato di tutto ciò perché le opere citate di Temistio sono diffuse in traduzione araba, e sicuramente sono queste, insieme ad altri commenti di età ellenistica, a permettere la conoscenza dell'opera aristotelica prima ancora che venga tradotta, e a consolidare l'interesse califfale per la tradizione filosofico-politica greca attraverso l'endiade sovrano/consigliere-commentatore di Aristotele. In un altro passo, il bibliografo ci dice che Temistio (evidentemente prima di essere elevato alla carica di ministro) era un katib, cioè un segretario di corte, di Giuliano l'Apostata, e per il suo sovrano compose un libro sull'arte dei governo (Kitab ilà Liyuliyánus fí’l tadbir) e un'epistola (Risalah ilà Liyuliyánus al-malik) [Ibn al-Nadim, p. 314]. Com'è noto, un trattato di filosofia politica di Temistio ci è giunto esclusivamente nella versione araba, conosciuto col semplice titolo di Risàlah e identificato con l'epistola citata da Ibn al-Nadim. 45 La figura di Giuliano, nella tradizione culturale islamica, e sempre positiva; abitualmente non tradotto, ma trascritto con al-Bustát, l'aggettivo "apostata" viene invece tradotto (ál-murtadd) e spiegato da Ibn al-Nadím in maniera rivelatrice, nel passo relativo al ruolo di Temistio a corte e alla sua produzione letteraria: "egli era il kàtib di Giuliano, colui che rinnegò il cristianesimo a favore della dottrina dei filosofi".46 Consiglio politico e consiglio filosofico, in questo modello, sono inseparabili: l'attività di commentatore al testo aristotelico non è solo parallela, ma anche propedeutica a quella di consigliere politico del sovrano; entrambi gli aspetti riproducono il modello di Aristotele maestro di Alessandro . 47 Entro questo esempio storico, la corte intesa come apparato visibile della regalità e i segretari come artefici di una cultura della sovranità acquistano la loro significazione, in quanto costituiscono un corpo di sapere (paideia/adab) in grado di realizzare le fondamenta retoriche dei governo sapiente. A questo livello della riflessione intellettuale islamica sulla storia, si presenta l'esigenza di conciliare due forme della conoscenza: il 'ilm, epistemologicamente fondato sul dato della rivelazione, e la hikmah, il sapere fondato sulla tradizione degli Antichi. Le due forme si riflettono inevitabilmente stilla concezione della sovranità: una loro possibile conciliazione produce anche una diversa configurazione del ruolo politico e simbolico del califfo (privo, nella teoria islamica, di una funzione espressamente religiosa, ma in pratica suscettibile di un'interpretazione più ampia, nel momento in cui alla titolatura di amír al-mu' minín e di halífat rasul Allah, che alludono a una funzione militare ed esecutiva la prima, e a quella di vicario del Profeta la seconda, si affianca quella di halifat Allah cioè "vicario di Dio").48 Accanto a una riflessione sulla conciliazione tra le due forme della conoscenza, che impegna in misura maggiore l'ambito scientifico e filosofico "puro", vi è tuttavia un altro aspetto che caratterizza l'attenzione califfale verso la cultura politica ellenistica: l'intersezione fra 'ilm e hikmah, che vede il secondo metodo della conoscenza e le sue forme di autorità stabilita intervenire come 43 Sulla discussione dell'ellenismo politico in Giuliano e Temistio, con inevitabili riferimenti alla tradizione in arabo, si veda Daly. 44 Ibn al-Nadim non sembra conoscere il commento al De Anima: cfr. Lyons. 45 La Risalat Damistiyus fi'l - siyasah edita e tradotta da I. Shahid (che la ritiene indirizzata a Teodosio), è inclusa in Downey-Norrnan, p. 73-119. Si veda Dvornick, II, p. 666-68; Dagron (a), p. 221-24 (secondo cui la Risalah è un falso, p. 223-24). 46 Ibn al-Nadim, p. 314: kana kátib Liyulianus al-murtadd ila madhab al-jaIa-sifáh 'an al-nasraniyyah. 47 Per la tradizione islamica di questo archetipo di sovranità "ben consigliata", si vedano ancora i saggi di Grignaschi citati supra. 48 In generale, si veda Sourdel (b). La possibilità che la dimensione religiosa cominciasse ad essere inclusa nelle prerogative del califfo già in epoca omayyade è stata studiata da Watt, e più recentemente da Crone-Hinds. sostegno epistemologico, retorico e argomentativo nell'elaborazione e nella difesa delle dottrine religiose. Infatti, secondo la visione politica cortese di Ibn al-Muqaffa', il controllo politico degli affari religiosi implica un esercizio di 'ilm da parte del califfo, cioè un potere esegetico sul Corano e un intervento competente sul lavoro di deduzione alla base delle opzioni giuridiche. Tutto ciò ricorda anche i termini della rivendicazione sciita, che proponeva un ideale di sovranità sacra, proprio in virtù di un potere esegetico che spettava a chi deteneva un sapere esegetico. Gli Abbasidi hanno accolto in pieno le significazioni politiche e ideologiche di una concezione sacrale della sovranità, inserendole fra i temi che alimentavano la loro propaganda [Lassner (a); (b)]; è una concezione alimentata dalla discussione sul significato di 'ilm che ha accompagnato, almeno dall'VIII secolo in poi, la definizione di un concetto di autorità su cui si fonda e da cui deriva il sapere, sia nella formazione del corpus di tradizioni profetiche, sia nella ricerca di un'autorità fondante le forme della conoscenza legate al concetto di hikmah. L'intersezione fra le due forme della conoscenza, di fatto, accresce il ruolo degli interpreti: fra questi, in primo piano, c'è il califfo. Nel momento in cui al-Mahdí discute nello stile del kalám col patriarca nestoriano, e solleva obiezioni di natura esegetica, sottrae spazio al corpo sociale degli 'ulama'; se la notizia di Mas'udí, e di al-Dahabi sulla redazione di manuali di gadal in funzione di una confutazione della zandaqa va accostata alla traduzione dei Topici, è evidente che il califfo sta avocando a sé un ruolo decisionale che investe più sfere: il controllo politico dell'eterodossia, il controllo esegetico delle dottrine, il controllo delle forme di autorità (tradizioni testuali da un lato, sapere rivelato dall'altro) su cui poggia l'intera dinamica delle classificazioni delle conoscenze. In questo senso, il trattato di Ibn al- Muqaffa' aveva indubbiamente messo a fuoco un problema centrale della dinastia abbaside, e dello Stato che essa andava realizzando: la definizione dei rapporti fra stato e religione. La visione califfale di Ibn al-Muqaffa', in cui il capo dello Stato doveva essere la massima autorità politica e religiosa, implicava la creazione di una paideia di Stato che fosse anche in grado di fornire una risposta teologica tanto all'origine divina del Logos quanto alla natura della sovranità. E a questo corpo intellettuale, organico alla corte, che si affida l'intersezione programmatica della hikmah e del 'ilm [Bernard; van Ess (c)];49 tutto Ciò prima ancora che l'autonomia del ruolo politico intellettuale dei giuristi rivendicasse la priorità del 'ilm nell'esercizio dell'attività esegetica, e si consolidasse, nel IX secolo, entro il corpo sociale delle scuole giuridiche." 50 L'alternativa era una separazione fra la gestione politica dei califfato, con una sua giurisdizione secolare, e l'attività religiosa dei fuqaha', che avrebbe così assunto un aspetto teoretico. L'Islam sunnita, come sappiamo (e come vedremo meglio in seguito con al-Ma'mun) ha scelto la seconda possibilità, favorendo lo sviluppo autonomo delle scuole giuridiche,51 e negando così nella realtà quell'ideale identificazione tra il califfato e la comunità dei credenti, ovvero l'integrazione tra la leadership politica e quella religiosa [Lapidus]. Al-Mahdi, al contrario, tenta una politica di integrazione fra il califfato e le comunità che formano il suo impero; prima ancora che si formi un corpo di sapere esegetico autonomo, il kalam e i primi mutakallimun (in questo senso Dirár b. 'Amr è una figura emblematica) entrano a corte e ne costituiscono una componente organica (più o meno fedele al modello di corte ideale suggerito da Ibn al-Muqaffa', corpo visibile del potere califfale); come scriverà Ibn al- Nadim, "i capi dei manichei... scrissero libri in difesa del dualismo e delle sue dottrine, e confutarono molti libri che i 49 I tradizionisti, anche quando non erano essi stessi mutakallimun non erano estranei allo stile del kalam, e utilizzavano l'autorità del Profeta, espressa dai hadit come arma dialettica contro le posizioni dogmatiche dei mutaziliti. Questi ultimi accolgono i hadit come elemento della discussione teologica: si veda van Ess (f). 50 Sulla reazione “epistemologica" delle scuole giuridiche, si veda infra. La prima soluzione, che si riproporrà (come vedremo) con al-Ma'mún, era però avvertita come possibile: Goitein, p. 164, cita un hadit da Gazali secondo cui Hárun. al-Rasid pensava di estendere la validità delle norme contenute nella Muwatta di Málik b. Anas su tutta la dar al-islam, così come 'Umar aveva reso ufficiale la sua recensione coranica; Malik rifiutò, replicando che ogni provincia aveva adottato la sua normativa, e invocando il famoso detto del Profeta per cui la diversità di opinione è un segno di grazia. 51 mutakallimun dedicarono a questo soggetto" [Ibn al-Nadim, p. 401]. 52 Il ruolo degli intellettuali comincia qui ndi a diventare nodale per la realizzazione di un apparato di corte che tende a trasformare le questioni religiose in questioni di Stato." 53 La preoccupazione politica del califfo, dunque, si traduce di fatto in una sollecitudine che sembra appropriato definire storico-filologica. Le antiche versioni, o parafrasi, della logica aristotelica, condotte dagli intellettuali della corte di origine persiana, vengono giudicate dal califfo "indegne del suo sguardo" (come scriveva il patriarca Timoteo). Si procede così alla ricerca di una tradizione testuale e interpretativa più vicina ai modelli, che passa per i commenti alla logica aristotelica di Porfirio, di Temistio, di Alessandro di Afrodisia e di Ammonio,54 e arriva al testo greco - rinvenuto là dove si sa che è conservato, cioè nei monasteri siriaci - e si affida l'operazione culturale ai rappresentanti di quella religione in cui la conciliazione tra il Logos dei filosofi e il Logos del Dio unico è già avvenuta. Questa operazione, tuttavia, non si esaurisce affatto in una politica di "simpatia" per la comunità nestoriana siriaca; essa riflette piuttosto un'attenzione più ampia e articolata, diffusa in tutta l'area mediterranea coinvolta nell'eclissi dell'ellenismo, nei confronti del patrimonio greco. Come vedremo, non solo Bagdád sembra condivide con Costantinopoli una politica di recupero e di conservazione dei testi, ma aggiunge una volontà supplementare di ricostituzione del pensiero filosofico-politico greco: un pensiero che si suppone corrotto dalla strumentalizzazione operata dai teologi cristiani. Con al-Mahdi comincia a formarsi un nesso fra l'immagine della capitale dell'impero e quella del fulcro del sapere, che accentra scienze e dotti: il grammatico Abù Zayd al-Ansárì si trasferisce a Bagdád "sotto il regno di al-Mahdi, quando [nella capitale] giungevano dotti di ogni paese, esperti di ogni scienza" [Ibn al-Nadim, p. 60]. Resta da vedere quali sono le immagini del sapere e i miti culturali su cui poggia e si sviluppa questa idea di impero, che verrà reali zzata pienamente da al-Ma'mum. Infatti, la nascita di un'attività esegetico-giuridica indipendente dall'autorità del califfo, e di un corpo sociale di dotti, sganciati dalla corte, che esercitano il loro potere teoretico, segna un livello di separazione che passa anche attraverso un dibattito - protratto per secoli - sul concetto di 'ilm e sui campi della conoscenza a cui esso si applica,55 in parallelo alle rappresentazioni culturali elaborate intorno al senso di hikmah: un sapere e una forma di autorità concepiti come eredità trasmessa all'Islam dagli Antichi. Ma il discorso sulla sovranità e sulla sapienza regale non è mai del tutto disgiunto da un discorso sui percorsi delle civiltà, affrontato nel complesso ambito della geografia delle conoscenze: gli storici musulmani del sapere, da Ibn al-Nadim a Ibn Gulgul, da Sà'id al-Andalusi, ad al-Qiftí ad Ibn Abí Usaybi'ah, informano il piano delle loro opere secondo un'ideologia che preferisce la continuità alle rotture. I popoli inclusi nella storia delle conoscenze sono quelli con cui la dar al-islam ha contatti, o che include nei suoi confini geografici e culturali: 52 La notizia sembra essere un riferimento alla produzione scritta di opere mazdee che dal IX secolo cominciano a testimoniare dell'intervento dei religiosi iranici nell'orbita delle controversie teologiche. Un'attestazione delle confutazioni mazdee nei confronti dei mutaziliti ci giunge dallo Skand-Gumanik Vicar: si vedano in particolare i cap. I-II-III che rispondono alle obiezioni di un musulmano, e i cap. XI-XII, dove si confuta la visione teologica musulmana espressa dai mutaziliti. 53 Resta ambigua l'attitudine di al-Mahdi nei confronti dello sciismo. Non possiamo trascurare il fatto che molti, fra i mutakallimun impegnati nella confutazione del manicheismo (ma non solo), fossero sciiti; men che meno va trascurato il fatto che i primi trattati eresiografici provenissero proprio dai circoli intellettuali sciiti: Madelung (a); Qadì (a), p. 302 ss. Tuttavia, la politica di integrazione delle comunità non verrà mai rivolta anche alla minoranza sciita; i mutakallimun sciiti rispondono all'appello in quanto intellettuali, non come rappresentanti di una determinata comunità (che, come tale, ha l'imám come polo di autorità religiosa). 54 Testo originale e commento costituiranno comunque due aspetti di una stessa attività filologica e di studio; cfr. ad esempio Ghorab. 55 Intorno a questo punto ruota tutta la questione dell'umanesimo nella civiltà arabo-islamica e dell'interazione fra sapere profano e sapere religioso: oltre al classico Rosenthal, si vedano Makdisi (b); Kraemer. Per un possibile raffronto con la scissione fra sapere religioso e sapere profano a Bisanzio, si veda infra. Indiani, Persiani, Caldei, Egizi, Arabi, Ebrei, Greci antichi, Bizantini.56 In questa ideologia della continuità che prevale sulle rotture, e nell'autoreferenzialità di un Islam. che ricuce gli strappi, Bisanzio occupa un posto particolare, e tanto i geografi quanto gli storici del sapere elaborano una rappresentazione storiografica dell'oblio in cui è caduto il sapere classico nell'impero bizantino.57 6. A Bisanzio, com'è noto, il periodo che va dalla fine del V secolo agli inizi del IX è caratterizzato da una crisi della cultura umanistica e dal naufragio di gran parte del patrimonio testuale della classicità greca [Lemerle, p. 9 ss.; Cavallo (b), (c); Cambiano]. Alcune tendenze degli studi bizantinistici (Ostrogorskij e Lemerle, per citare due nomi di prestigio) hanno creduto di cogliere una relazione tra la crisi dell'umanesimo bizantino e la comparsa degli Arabi sulla scena storica; tale interpretazione si fa più esplicita nella trattazione della crisi iconoclasta.58 In particolare Lemerle è piuttosto drastico nel negare la possibilità di una partecipazione arabo-islamica (seppure indiretta) alla conservazione del patrimonio librario in greco e al rinnovamento degli studi classici [Lemerle, p. 23]. 59 Altre linee di ricerca bizantinistica, più recenti, hanno invece rivalutato il ruolo decisivo delle periferie dell'impero bizantino nella conservazione e nella continuità degli studi, mantenuto anche quando passano sotto il controllo arabo; hanno inoltre chiarito che la nota politica antipagana di Giustiniano ha condotto a una profonda crisi delle istituzioni e allo sgretolamento della trasmissione del sapere, in cui vengono coinvolte scuole e biblioteche innanzi tutto: si pensi alla chiusura dell'Accademia di Atene nel 529, alla persecuzione contro grammatici, retori e giuristi “elleni" nel 546, agli editti che impedivano l'insegnamento ai pagani, ai roghi di libri pagani nel Cinegio nel 562. L'attività cristiana anti-ellenistica con cui si apre la cosiddetta età buia di Bisanzio è tesa alla "distruzione delle basi sociali stesse su cui si reggevano le tradizioni dell'ellenismo" [Cavallo (b), p. 96-97; ma anche Lemerle, p. 68-73] .60 L'attività di studio e di conservazione del patrimonio testuale, nelle province dell'impero (in particolare Egitto, Palestina e Siria), continua [lrigoin; Cavallo (d)] anche "nonostante" la conquista araba: com'è noto, sarà entro i confini della dár al-islam che si trasferirà la scuola di Alessandria, prima ad Antiochia e infine a Harrán; ma prima del trasferimento, essa manterrà in loco per più di mezzo secolo le sue attività. Nei secoli bui di Bisanzio, le regioni di antica tradizione romano -ellenistica hanno garantito un certo margine di integrità alla trasmissione del sapere classico perché le istituzioni culturali si sono conservate con altrettanto relativa integrità, mantenendo in vita una serie di fattori di recupero del patrimonio classico. Com'è meno noto, una particolare visione etica islamica della guerra, sorretta da una normativa giuridica che rimonta alle tradizioni del Profeta (dunque antica) tutela il libro come bene prezioso, e privilegiato, 56 Nella sua storia della scrittura, Ibn al-Nadim, p. 18, include anche i Cinesi. Per questa visione "imperiale" della geografia, Miquel, I, p. 18 ss. 57 Per l'immagine di Bisanzio nello spazio geografico e culturale musulmano, Miquel, II, p. 381-481. 58 Ostrogorsky, p. 144 ss.; Lemerle, p. 107-8, secondo cui la conquista araba "marque vraiment le début du Moyen Age". Per una critica all'equazione lemerliana "iconoclasma=antiumanesimo", si veda Olster, p. 424-25; cfr. anche la recensione a Lemerle di Speck (a). In generale, sulla controversia delle immagini e sulle differenti risposte -- bizantina e islamica - a un unico problema (quello della rappresentazione di Dio), si veda Cruikshank Dodd; Von Grunebaum (b); Hodgson; Gutmann. 59 Lemerle considera ("dans l'état actuel de nos connaissances") à priori déjà peu vraisemblable l'ipotesi di una rinascita provocata a Bisanzio dalla conservazione, nell'Islam vicino, di manoscritti greci e della loro tradizione, che dunque deve essere résolument écartée. L'autore dimostra l'infondatezza di questa ipotesi limitandosi alla critica (giusta) all'idea, stranamente diffusa tra molti bizantinisti, che Fozio avesse trovato a Bagdád il materiale bibliografico per la sua Biblioteca (Lemerle, p. 37 ss.). A parte la realtà dei contatti fra i centri dei due imperi (che devono ancora essere compresi a fondo, e non possono essere negati solo sulla base del l'inconsistenza delle ipotesi su Fozio), Lemerle non tiene in gran conto le periferie (cfr. supra, n. 1), prese invece in esame dai bizantinisti che si sono occupati espressamente della conservazione testuale nelle province bizantine (cfr. infra). 60 Sulla controversa questione della chiusura della scuola di Alessandria, e in relazione al suo passaggio nell'orizzonte culturale arabo-islamico, si veda Cameron, in part. 664 e 669 ss.; Blumenthal. Sulla politica anti-pagana di Giustiniano, Cavallo (a), in part. p. 211-12); Cameron (a). del tesoro di guerra, e ne proibisce la distruzione inopinata (soprattutto se si tratta di opere utili al bene comune, quali ad esempio i testi medici, e scientifici in genere).61 Nonostante la scarsa documentazione, la certezza dei reali riscontri testuali ha permesso a C. Mango, fra l'altro, di sostenere che 'Iarge sections of technical libraries of the VIlth century have survived en bloc till the period of the transliteration" [Mango (b), p. 66-78]; la scuola di Alessandria rimase fino alla fine del VII secolo sede di un insegnamento istituzionalizzato, continuando "its activities under the Persians and the Arabs" [Westerink, p. 169 e p. 175] .62 E’ quindi necessario ribadire che la conquista araba ha comportato l'interruzione (ma non la distruzione) dei fili di trasmissione dai centri di cultura periferici rispetto al centro dell'impero bizantino (quest'ultimo comunque già in crisi), ma è stata anche uno dei fattori di recupero e di conservazione del patrimonio classico greco. Ciò non solo nella ricostituzione di una dialettica tra le periferie antiche e il centro del nuovo impero arabo-islamico, ma anche nel probabile riverbero, o influenza, di una disposizione e di una consapevolezza che possiamo definire storica, comune all'orizzonte tardo-antico. Anche in questo caso, la nozione di "influenza" deve essere riformulata al di là di una aleatoria histoire des mentalites che corre il rischio di accogliere il pregiudizio contenuto nelle fonti (di entrambe le parti) come informazione storica tout court 63 basta pensare alle ricerche di Conrad sulla cronaca di Teofane, che hanno messo in luce l'utilizzo di fonti arabe, ma soprattutto di modelli storiografici arabi, da parte dello storico bizantino [Conrad (a), (b)]. Restano inoltre aperte a indagini ulteriori tutte quelle vie con cui libri e tradizioni testuali conservati nel mondo arabo-islamico passano per la rinascita culturale bizantina, o la intersecano, in età macedone, dando luogo a fenomeni di bilinguísmo forse più estesi di quanto non sembri, che rispondono a "une complémentarité des deux cultures"[Dagron (b), p. 234]. Gli umanesimi passano sempre attraverso aperture e approfondimenti dei contatti: il plurilinguismo è dunque una traccia per seguire quei fenomeni di ritorno a Costantinopoli di opere scientifiche greche tradotte in arabo 64 Un dato interessante, che contribuisce a delineare una somiglianza (del tipo di quelle che gli antropologi chiamano "un'aria di famiglia") tra concezioni del sapere a Bisanzio e in Islam, è l'accentuata opposizione bizantina, nel periodo in questione, tra un sapere profano e un sapere religioso.65 La scienza profana è sempre l'elleniké sophia; dall'ampia rassegna di vite dei Santi scritte fra VI e IX secolo, studiata da Lemerle, emerge il motivo ricorrente del disprezzo, più o meno ostentato, degli eroi della letteratura agiografica verso ciò che non appartiene all'ambito della conoscenza religiosa [Lemerle, p. 97-104]. Lo stesso Lemerle constata che la continuità negli studi primari e secondari scompare quando si tratta di curricula di più alto livello; dalle fonti risulta il tema costante della preparazione superiore compiuta fuori di Costantinopoli, in particolare ad Alessandria. In questo periodo, le differenti tipologie di curricula vedono essenzialmente nella logica l'unica forma di pratica filosofica, continuata attraverso la produzione di una manualistica di compendio e di commento alla logica aristotelica. E’ questo lo strumento dialettico adottato tanto 61 I giuristi musulmani medievali hanno discusso ed espresso varie opinioni sulla conservazione dei testi facenti parte del tesoro di guerra, ma sempre partendo dalla concezione dei libro come bene, e dall'avvenuta presa di possesso da parte dei militari. Secondo le varie scuole giuridiche, i testi religiosi potevano essere indifferentemente restituiti, conservati o distrutti; i testi scientifici andavano conservati, ed eventualmente venduti. in ogni caso, i libri non potevano mai essere inopinatamente distrutti senza prima verificare il loro contenuto. Si veda Tabari (b), p. 177-78. 62 Sulla reperibilità di testi ad Alessandria dopo VIII secolo, Strohmaier (b), p. 179-83. 63 Si pensi a quanto ha influito la definizione di sarakenophron, data a Leone III dai suoi contemporanei, sull'equivoca interpretazione dell'influenza islamica sull'iconoclastia bizantina (il saracen-minded come categoria di analisi storica). Cfr. ad esempio Ostrogorsky, p. 148. 64 Considerare l'equivoco su Fozio, come fa Lemerle (cfr. supra, n. 59) la sola prova per negare un possibile circuito di scambio Bisanzio-Bagdád e i casi di ritorno da Bagdád a Bisanzio, è seriamente limitante. Si vedano invece, come esempi di una situazione sicuramente più ampia e ancora da studiare, Rashed; Mogenet; Tihon. 65 Si veda Bréhier (b), in part. p. 59-61 sull'opposizione fra sapere sacro e sapere profano. dagli iconoduli (dichiaratamente anti-ellenici, ma secondo Lemerle comunque più vicini a un'idea di classicismo) quanto dagli iconoclasti. La tradizione testuale intorno all'opera logica di Aristotele dimostra come la lotta dei due partiti religiosi a Bisanzio avvenisse essenzialmente a colpi di citazioni e di testi autentici, ben stabiliti: nei fatti, la lotta fra difensori e avversari delle immagini ha quanto meno mantenuto viva una discreta attività filologica, se non altro per la necessità di affinare gli strumenti dialettici cui si affidavano le controversie e i concili [Lemerle, p. 147].66 L'interesse dei bizantinisti che si sono occupati della rinascita umanistica a Bisanzio si è proprio focalizzato su questo punto: si tratta di una continuità, o piuttosto di una ripresa dell'attività filologica intorno al testo aristotelico fra VIII e il IX secolo?67 Da dove proveniva l'attività filologica in questione, e dove avveniva la formazione intellettuale dei maestri? Proprio nel IX secolo, un indubbio sincronismo vede coincidere la ripresa, a Costantinopoli, degli studi umanistici con la grande politica di traduzioni sistematiche, compiute su testi stabiliti, intrapresa dal califfo al-Ma'mum (813-830). 7. Il pericolo dei naufragio della cultura classica, a Bisanzio, inizia ad essere avvertito nel IV secolo, col restauro del patrimonio librario della Biblioteca imperiale di Costantinopoli, ad opera di Costanzo Il; in questa impresa di recupero si coglie un parallelismo fra rinascita culturale, capitale dell'impero e biblioteca palatina. La biblioteca imperiale fondata da Costanzo Il - elemento centrale, secondo G. Cavallo, della dialettica conservazione/perdita nella capitale dell'impero bizantino 68 - nelle fonti torna alla luce solo con Leone V l'Armeno (813-821) [Lemerle, p. 105; Mango (a), p. 35], e con la singolare figura di Giovanni Grammatico, iconoclasta e umanista, al centro di una vicenda di testi cercati e ritrovati su cui B. Hemmerdinger aveva elaborato un'ipotesi centrale - Giovanni Grammatico è stato il padre del rinascimento umanistico bizantino - e un'ipotesi secondaria - Giovanni Grammatico cercava nelle biblioteche di tutto l'impero i libri richiesti a Leone V dal califfo al-Ma'mun, dando così inizio all'attività di recupero del patrimonio testuale classico - entrambe geniali e assolutamente insostenibili.69 Nell'814, Giovanni Grammatico veniva incaricato da Leone V di recuperare dalle biblioteche conventuali i documenti relativi al concilio iconoclasta di Hiereia tenuto nel 754, che la successiva vittoria del partito delle immagini aveva disperso e in parte distrutto. Ciò allo scopo di ricostituire o gli atti del concilio, o il florilegio iconoclasta relativo a quel concilio, necessario a Leone V per fondare le sue tesi al concilio dell'815 [Alexander (a), p. 53, p. 60 SS.]. 70 Nella sua ipotesi secondaria, Hemmerdinger, utilizzando dati storiografici arabi (da Ibn Haldun a Ibn Gulgul a Ibn al66 Sull'attività filologica legata alle dispute iconoclastiche, e sul ricorso all'autorità aristotelica, si veda Alexander (a); Lemerle, p. 133 ss. Per quanto riguarda la sopravvivenza della logica come unica forma di attività filosofica, è interessante notare (tenendo conto di un'evidente diacronia) un passo in Ibn al-Faqih, p. 143, in cui il sasanide Anusirwan interroga il suo ambasciatore sullo stato delle scienze a Bisanzio, e questi risponde che l'unica scienza in cui i Bizantini eccellono è la logica. 67 La produzione di compendi di logica sembra essere essenzialmente promossa sul solco delle attività delle scuole periferiche soprattutto quella di Alessandria: cfr. Cavallo (b), p. 165. Sull'attività delle scuole nelle province che passeranno alla dominazione musulmana, ibid., p. 91 -101. 68 Si veda l'elogio dell'impresa di Costanzo Il in Temistio, Oratio IV, 59d-60c; Lemerle, p. 54-60; Cavallo (b), p. 89-91. Ma si vedano anche le gratuite assurdità, che stridono con il rigore dell'intero articolo, e si spiegano solo in termini di pregiudizio anti-arabo (che sembra sempre garantire la libertà di essere ignoranti), raccolte in otto righe da Cambiano, p.96: "Costanzo Il non sembrava essersi trovato di fronte all'alternativa che, dopo la conquista di Alessandria nel 640, avrebbe posto sul destino dei libri il califfo di Baghdad [corsivi nostri] Omar: se il loro contenuto si accordava con il libro di Allah, se ne poteva fare a meno, poiché il libro di Allah era più che sufficiente; ma se era differente da quello del libro di Allah, non c'era affatto necessità di conservarli e potevano essere distrutti tranquillamente". Tutti sanno che Baghdad fu fondata da al-Mansur nel 762; l'ordine di distruggere i libri, così come le fonti arabe lo attribuiscono al bigotto 'Umar, in realtà è un tipico esempio di dilemma stoico entrato nella cultura araba solo nel IX secolo (cfr. Goodmann, p. 468-69). Riguardo alla disinvoltura con cui i musulmani avrebbero distrutto libri, non tutti sanno ciò che si è detto supra, n. 61. 69 Qui ci riguarda direttamente la seconda ipotesi, esposta in maniera telegrafica in Hemmerdinger. L'ipotesi è stata ripresa più volte dall'autore, insieme alla prima, in una serie di interventi, giustamente stroncati da Lemerle, p. 140 SS. 70 In Alexander (b), p. 489 SS., l'autore ritiene più verosimile la ricerca degli atti del concilio. Nadím), datava una missione scientifica inviata a Bisanzio da al Ma’mun, composta da Haggag b. Matar, Ibn Bitriq e Salm (quest'ultimo probabile direttore della biblioteca palatina), in stretto sincronismo (ma sbagliando date e tempi necessari all'impresa) con la ricerca dei documenti iconoclasti di Giovanni Grammatico, concludendo che questa "chasse aux manuscrits" era iniziata allo scopo di soddisfare la richiesta di testi del califfo di Baghdad, ma aveva avuto per risultato anche la ricostituzione (compiuta secondo Hemmerdinger sull'intero territorio bizantino) del patrimonio testuale greco nella capitale dell'impero. Lemerle ha dimostrato a sufficienza l'infondatezza di tale ipotesi; resta tuttavia la possibilità di osservare in sincrono determinati avvenimenti. La figura chiave, in tutta la vicenda - così come nella politica icono clastica che segnerà, dopo Leone V, il breve regno di Manuele Il (820-829) e quello del colto Teofilo (829-842) - è proprio Giovanni Grammatico, precettore di Teofilo, e da questi elevato alla dignità di patriarca e di primo ministro. Personaggio rappresentativo del clima culturale bizantino del tempo (un clima che rassomiglia molto a quello, contemporaneo, in terra islamica), interessato alle scienze occulte [Bréhier (a)], Giovanni Grammatico sarà il bersaglio di una refutazione anonima dell'iconoclastia. Questa refutazione è incentrata su argomenti logici: gli si rimprovera incoerenza, confusione, improprietà di linguaggio, scarsa dimestichezza con le regole del sillogismo - ricordando in modo impressionante la tecnica refutativa adottata, come avevamo visto in precedenza, da al-Qasim b. Ibráhim contro Ibn al-Muqaffa' (quest'ultimo noto, paradossalmente, per l'uso raffinato dell'arabo e per la sua abilità retorica, esattamente come Giovanni, cui non per niente era valso l'appellativo di Grammatico) [Gouillard]. L'anonima refutazione, probabilmente scritta fra il IX e il X secolo, ci dà un'idea dell'insegnamento e dell'utilizzo dell'Organon in quel tempo, con le abbondanti e puntuali citazioni in particolare dai Topici e dalle Categorie. Ostrogorskij non esita a definire il regno di Teofilo “l’epoca della più forte influenza della cultura araba sul mondo bizantino" [Ostrogorsky, p. 183]; 71 aggiunge, inoltre, che l'interesse del basileus per il mondo arabo probabilmente gli derivò dal suo maestro Giovanni Grammatico. Forse c'è un nesso fra la passione di questo singolare intellettuale per le scienze occulte e la preminenza della cultura tecnica e scientifica su quella umanistica nel mondo bizantino dell'epoca [Lemerle, p. 109 SS.]. Indagini quantitative (da considerare comunque con prudenza) sulla produzione papiracea sopravvissuta relativa al periodo fra il VI e il IX secolo hanno messo in luce, nella rarefazione testuale del tempo, un'indubbia preva lenza di opere a carattere scientifico e matematico, in particolare Euclide, e soprattutto la Syntaxis mathematica di Tolomeo [Lemerle, p. 75-77; Irigoin, p. 289 SS.]. E’ noto che le prime traduzioni di testi greci in arabo riguardano essenzialmente opere scientifiche, e segnano un primo flusso di versioni, ancora a carattere asistematico, realizzate nell'ambito della corte su commissione di al-Mansur, di Hárún al-Rasid o dei visir barmecidi.72 Con al-Ma’mun inizia, come vedremo, una politica di traduzioni tesa a stabilire -prima di volgere il testo in arabo - una sorta di textus receptus; la missione scientifica a Bisanzio, di cui Hemmerdinger ha creduto possibile precisare la data (814), viene motivata da Ibn al-Nadím in conseguenza del famoso sogno di al-Ma'mun, in cui Aristotele compare al califfo e lo induce a "scoprire" la filosofia. Il sogno e la successiva missione sono così descritti [Ibn al-Nadím, p. 304]: La ragione per cui in questa terra abbondano i libri di filosofia e di altre scienze degli Antichi fu la seguente]: apparve in sogno ad al-Ma'mun un vegliardo maestoso [..] assiso su un trono. Riferisce [lo stesso] al-Ma'mun di aver provato un sacro terrore al suo cospetto. "Gli chiesi:- Chi sei? - Io 71 Le fonti bizantine insistono sull'influenza esercitata a questo proposito da Giovanni Grammatico su Teofilo (Lemerle, p. 143 SS.); si veda infra, n. 74. 72 Cfr. la lista di traduttori (dal greco?) e le relative opere tradotte tra il regno di al-Mansùr e quello di al-Ma’mun in Ibn al-Nadím, p. 304 SS., 330 SS. Bisogna tenere presente che il primo Aristotele che si diffonde nella cultura arabo-islamica è l'Aristotele "scientifico"; il De generatione et corruptione e i Meteorologica risultano essere i primi testi noti, "direttamente" grazie a commenti o traduzioni dal síriaco, o "indirettamente" attraverso la circolazione di enciclopedie scientifiche come il Peri anthropou physeos di Nemesio di Emesa (V secolo), il Ketabá de semata di Giobbe di Edessa (IX secolo) o l'enigmatico Kitàb sirr al-halìqa dello ps. Apollonio: la conoscenza diretta e indiretta caratterizza l'opera scientifica di Gábir b. Hayyán. Inoltre, le confutazioni di Diràr b, 'Amr rivolte contro gli ashab al-tabá'i' e contro Aristà[ta]lis fí'l -gawahir wa'l -a'rád (ibid., p. 215) non sono che un esempio della conoscenza di parti della Fisica al tempo di Hàrùn al-Rasid (cfr. van Ess (d): 47 (1979), p. 31). sono Aristotele. - Allora sorrisi, e gli chiesi licenza di porgli un quesito. - Domanda pure. - Gli domandai.- Che cos'è il bene? - Ciò che è bene per la ragione. - E poi? -Ciò che è bene per la legge. – E poi? - Ciò che è bene secondo il senso comune. - E poi? - Poi, nient'altro. " In un'altra versione, il califfo disse: - Parlami ancora. - Aristotele continuò dicendo:- Chi ti consiglia a proposito dell'oro, sia per te come oro. Ma ricorda di difendere la dottrina dell'unicità di Dio ('alayka bi'l-tawhid).- Fu questa la principale ragione della ricerca di libri. Fra al-Ma'mun e il re bizantino era in corso una corrispondenza (murásalát), anche dopo che al-Ma'mun aveva dimostrato la sua superiorità (wa qad istazhara 'alayhi al-Ma’mun). [al-Ma’mun] scrisse al re dei Bizantini chiedendo l'autorizzazione a prelevare testi scelti (infad mà yuhtáru) fra [quelli relativi alle scienze antiche immagazzinate e depositate in territorio bizantino (min al-'ulum al-qadima aI-mahzuma al-mudah-hara bi-balad al-Rùm). La risposta arrivò dopo qualche esitazione. Al-Ma'mun invia allora una delegazione, di cui facevano parte al-Haggag b. Matar, Ibn Bitriq e Salm, direttore (sahib) del Bayt al-hìkmah, e altri ancora. La delegazione partì, prese ciò che aveva scelto fra quanto aveva trovato, e quando tornò dal califfo con i testi, questi ordinò di tradurli, e così fu fatto. Si dice anche che Yuhannà b. Másawayh fosse fra i membri della delegazione in territorio bizanti no. Ibn al-Nadím non parla di una missione a Costantinopoli; non dice espli citamente il nome del sovrano bizantino; allude alla ricerca e al reperimento di testi che vengono scelti, quindi presupponendo (se l'interpreta zione non è azzardata) che fossero già noti.73 Se l'imperatore bizantino di cui si parla è Teofilo, l'accenno alla superiorità del califfo sembrerebbe alludere all'esito dell'ultima delle quattro campagne militari arabo-bizantine (dall'829 all'831), durante la quale al-Ma'mun ricevette un'ambasceria del vescovo e primo ministro di Teofilo (cioè Giovanni Grammatico) per trattare uno scambio di prigionieri [Vasiliev, p. 98, 104, 114, 121]. 74 La richiesta può inquadrarsi in una pratica usuale di libri ottenuti come dono di tregua o come tesoro di guerra;75 ma al di là delle ipotesi, resta il fatto che le richieste califfali riflettono una scelta mirata (la filosofia di Aristotele), mentre i delegati tornano dopo aver scelto fra ciò che hanno trovato. Sappiamo che, in genere, le missioni di reperimento di testi avveni vano entro i territori bizantini passati nella dar al-islam. Già Hárún al-Rasid aveva incaricato Yuhannà b. Másawayh di tradurre testi rinvenuti ad Ancyra, ad Amorium, e in altre città bizantine conquistate [Sá'id al-Andalusi, p. 80; Ibn Abi Usaybi'ah, II, p. 175]. In questo caso, invece, l'accento è posto su una richiesta inoltrata direttamente all'imperatore bizantino - motivo che diverrà (e in seguito lo vedremo più in dettaglio) un topos nelle rappresentazioni storiografiche legate alla ricerca di testi greci. L'ipotesi che la missione di cui parla Ibn al-Nadím sia stata davvero compiuta a Costantinopoli non è da escludersi, anche se bisogna ammettere che si fonda sul dato piuttosto tenue della coincidenza fra la preva lenza di testi scientifici nella consistenza libraria disponibile a Costanti nopoli in quel tempo, e le opere che sembrano essere state scelte. I tre delegati menzionati da Ibn al-Nadím, infatti, risultano essere traduttori della Syntaxis mathematica = Almagesto di Tolomeo e degli 73 Può sembrare lapalissiano, ma dì fatto, nel momento in cui il califfo sogna Aristotele, dimostra di conoscerlo. Ciò che sconcerta, nella costruzione “storiografica" legata alla tematica "al-Ma'mun ricerca a Bisanzio/filosofia ritrovata", è proprio la presunta ignoranza del contenuto dei libri desiderati. Il fatto che invece si sapesse ciò che si cercava dimostrerebbe ancora una volta, ma in modo implicito e ovvio, quindi non enfatizzato ed enfatizzabile, l'esistenza di una precedente tradizione testuale sicuramente più ampia, al di là dei pochi nomi noti (cfr. per esempio la disponibilità dei testi traducibili dal greco per il filosofo al-Kindí, in Ibn al-Nadím, p. 315-20). 74 Le fonti non fanno la minima allusione allo scambio di libri. A quanto mi risulta, rimane ancora da studiare, dal punto di vista delle sue conseguenze culturali, la famosa ambasciata (o più d'una?) di Giovanni Grammatico a Baghdad per conto di Teofilo, durante i primi anni dei suo regno, di cui fanno menzione le fonti arabe citate in Vasiliev, p. 112-113 e 413-17, e quelle bizantine citate da Lemerle, p. 143, n. 145. Fra queste ultime, è interessante quella di Zonaras, III, p. 361, che attribuisce il personale successo diplomatico di Giovanni Grammatico al fatto che fosse eis dialexin peridexios: vi fu forse una disputa in suo onore? La tradizione storiografica bizantina vuole che, al ritorno dalla missione diplomatica, Giovanni Grammatico persuase a ristrut turare la residenza di Bryas e a trasformarla in un palazzo arabo. Lo stesso Zonaras (ibid., p. 363) ci dice che il vescovo-ministro curò il progetto e la direzione dei lavori. In generale, sulle relazioni culturali e le politiche di contatto fra Bisanzio e Baghdad, si veda il numero monografico di Dumbarton Oaks Papers, 18 (1964), in part. Canard. 75 Sui doni di libri cfr. Balty-Guesdon, p. 134, dove si segnala anche la consegna di un'intera biblioteca di opere greche fra le clausole di un trattato di pace fra al-Ma’mun e il governatore di Cipro, di cui parla la fonte tarda di Ibn Nubátah (XIV secolo). Elementi di Euclide [Ibn al-Nadím, p. 304]. Il testo euclideo già conobbe una traduzione/edizione , ad opera di al-Haggág b. Matar, voluta da Hárún al-Rasid (e nota appunto come haruni), ma lo stesso traduttore la ritradusse per ordine di al-Ma’mun (versione nota come ma'muni) [Ibn alNadím, p. 325]. Nello stesso arco di tempo, la storia dell'Almagesto in arabo e più complessa: il primo a sollecitare un commento in arabo del testo tolemaico fu il visir barmecide Yahyà b. Hálid, ma i commentatori da lui scelti non riuscirono a spiegarlo in modo soddisfacente (fassarahu gama'a fa lam yattaqinuhu). Il visir commissionò il commento ad Abù ‘l-Hasan e a Salm, già direttore del Bayt al-hikmah (e membro della delegazione di al-Ma’mun di cui sopra). Questi riuscirono a stabilire un testo dopo averlo fatto tradurre dai migliori traduttori (fa-ittaqanáhu wa-igtahada fì tas-hihihi ba'd an ahdarà al-nuqla al-mugawwidín fa -ihtabará naqlahum); Tuttavia al-Haggág b. Matar, il terzo membro nominato della delegazione, sembra aver tradotto di nuovo il testo [Ibn al-Nadím, p. 327]. Ma la delegazione del califfo cercava davvero Euclide e Tolomeo? 0 meglio, cercava davvero testi scientifici? Questa nostra precisazione intorno alla ricerca di determinati testi e alla cura filologica che ne accompagna le fasi di costituzione "definitiva" in arabo da un lato è motivata dalla coincidenza con la prevalenza di Tolomeo e in misura minore di Euclide nei papiri bizantini sopravvissuti alla produzione libraria fra il V e il IX secolo; dall'altro, lo schema a cui si attiene la narrazione di Ibn al-Nadím - la ricerca su ordine califfale di opere aristoteliche in vista di un recupero dell'originale - riflette senz'altro le vicende legate al passaggio della logica aristotelica in arabo prima dal síriaco, poi sempre più siste maticamente dal greco, ma rivela anche uno scarto fra ciò che il califfo desidera (la filosofia di Aristotele, in relazione alle tesi dottrinarie del tawhíd sostenute dai mutaziliti protetti dal califfo) e ciò che i suoi inviati recuperano (opere scientifiche già diffuse in arabo). Sicuramente anche a Baghdad, come a Bisanzio, le dispute condotte a suon di ragionamenti formalmente inoppugnabili creavano la necessità di un passaggio dalla produzione di manuali e compendi sull'arte della dialettica al controllo diretto del testo autentico, e suscitava l'esigenza di una recensione/traduzione a carattere sistematico del pensiero greco. Le fonti relative alla ricerca dei testi greci, però, mettono in ombra la presenza di quei testi nelle province bizantine passate sotto il controllo musulmano, e insistono su una richiesta indirizzata al centro dell'impero, che si rivela drammaticamente sprovvisto. Una richiesta che sembra venire disattesa: il califfo cerca Aristotele a Bisanzio, e i suoi ambasciatori tornano con Euclide e Tolomeo, come a dire che sono "solo" questi gli autori che trovano. Della traduzione dei Topici eseguita (dal síriaco) dal patriarca Timoteo per il califfo al-Mahdi sembra essere rimasta soltanto una pallida traccia: Ibn al- Nadím allude a una traduzione antica (wa qad yugadu binaql qadim), precedente a quella che per il bibliografo è I’”edizione" ufficiale dei Topici, tradotta alla fine del IX secolo prima in síriaco da lsháq b. Hunayn e poi in arabo da Yahyà b. 'Adi; il testo verrà ancora tradotto da Abù 'Utman al-Dimasqí [Ibn al-Nadím, p. 309].76 Da parte bizantina, ed esclusivamente all'interno della rinnovata tradizione culturale che segna la rinascita umanistica del IX secolo, prende forma il celebre tema storiografico agiografico di Leone Matematico, grande erudito ma sconosciuto alla corte, che viene scoperto da al-Ma’mun, richiesto dal califfo a Baghdad e, pertanto, trattenuto gelosamente e solennemente da Teofilo nel suo impero [Lemerle, p. 150 SS]77 8. Nell'anonima Esposizione delle cose compiute in Persia, testo greco datato alla fine del V secolo [Brakte], il re di Persia convoca i dotti a concilio; dalla discussione, escono vincitori i cristiani contro gli "elleni" (cioè i pagani) e gli ebrei. Il modulo della disputa contempla sempre un criterio di rappresentatività osservato da coloro che partecipano su invito di un arbitro supremo. La tradizione del simposio dei sapienti al cospetto di un sovrano ha un archetipo che contiene tutti gli elementi costituenti le successive variazioni sul tema, da Alessandria fino in Cina: è il testo noto come Lettera di Aristea, scritto probabilmente nel Il secolo a. C. da un ebreo della diaspora alessandrina.78 76 La traduzione di Abu 'Utman al-Dimasqí è la versione araba dei Topici edita in Badawi, I, p. 487-695; III, p. 685-744. La vicenda ha per sfondo l'assedio della città di Amorium, ma il califfo in realtà era al-Mu'tasim. 78 D'ora in poi ogni riferimento alla Lettera di Aristea e alla sua tradizione è in Canfora, che dedica un capitolo alla sua diffusione in ambito arabo-islamico (p. 3346). 77 In questo testo, come si sa, la vicenda della traduzione greca dei Settanta è collocata sullo sfondo della Biblioteca di Alessandria, comincia col consiglio suggerito da Demetrio Falereo (presunto conservatore della Biblioteca) a Tolomeo Filadelfo di promuovere la traduzione per arricchire la consistenza libraria, e si svolge in massima parte nel corso di un banchetto a cui partecipano settantadue dotti ebrei che dimostrano tutte le loro competenze su richiesta del sovrano. Su questo tema cardinale - la Biblioteca e il sovrano che sovrintende alla collezione dei libri da un lato, il sapere dei mondo e la convocazione di dotti traduttori che lo sappiano spiegare dall'altro - si svilupperà una tradizione letteraria (giudeo ellenistica, patristica e bizantina, araba) e una rappresentazione culturale che riaffiora e si rinnova ogni volta che si constata la presenza di un nesso fra sovranità, biblioteche, libri cercati e raccolti, traduzioni e comunità religiose. Ma non va trascurato un tema secondario della Lettera di Aristea, cioè quello del consiglio dei dotti al sovrano sul modo giusto di regnare, perché su di esso si innesta il paradigma del buon sovrano, ovvero il mito del re (o califfo) filosofo; la tradizione e le molteplici versioni della Lettera, di fatto, affiorano proprio là dove anche quel paradigma è attivo.79 Guardando alle relazioni fra al-Mahdi e Timoteo sotto questa luce, ci accorgiamo che le modalità degli incontri avvengono secondo il "modulo-Aristea": il califfo invita più volte il patriarca a prendere parte alle dispute di corte; egli stesso discute con l'ospite qualificato, in un confronto teologico di alto livello (dopo il quale Timoteo lo definirà "grande filosofo, principe del mondo"); infine, il sovrano incarica il sapiente di tradurre il testo aristotelico, di cui si avvarrà per un uso politico (la lotta confutativa alla zandaqah). Nella produzione letteraria in arabo dedicata alle biografie dei dotti (di cui Ibn al-Nadím costituisce una fonte importante), e sviluppata in parallelo a quella delle biografie dei trasmettitori della tradizione religiosa, la Grecia assume un'importanza decisiva per la rappresentazione storica delle conoscenze antiche (o alien wisdom, secondo la nota definizione, qui cambiata di segno, di A. Momigliano) elaborata dalla civiltà islamica. Il mito culturale della Grecia è nutrito di immagini e tematiche della trasmissione del sapere che si intersecano e si fondono. Insieme al modulo della Lettera di Aristea, il tema del libro sepolto e ritrovato per ordine del sovrano 80 concorre ad illustrare un'ideologia dei sapere fondata sui percorsi di trasmissione dell'eredità greca e sulla scoperta della Grecia da parte della civiltà islamica. Tale ideologia, e le rappresentazioni culturali che la informano, sembrerebbero mostrare una consapevolezza, da parte degli intellettuali musulmani, della crisi della classicità a Bisanzio; crisi che viene poi spiegata vedendo nel cristianesimo un fattore di disturbo, che non solo ha interrotto il flusso delle tradizioni legate allo studio e alla circolazione del sapere greco, ma ha anche distorto l'esatta comprensione del pensiero antico. Mas’údi [Il, p. 320-2 1 ] scriveva: Le scienze erano tenute in alta considerazione, ed erano rispettate in tutto il mondo; poggiate su basi solide e imponenti, esse accrescevano di giorno in giorno, finché la religione cristiana non si diffuse fra i Latini (al-Rùm), e all'edificio delle scienze fu inferto un colpo fatale. Le sue vestigia sparirono, i suoi percorsi si cancellarono. Tutto ciò che gli autori greci avevano portato alla luce svanì, e le scoperte dei dotti antichi vennero alterate (gayyaru ma kànat al-qudamá' minhum awdahathu). L'autore del X secolo, ricorrendo alla metafora dell'edificio e delle strade, individua con precisione due punti su cui si baserà l'immagine dell'Islam erede del sapere greco - la chiusura delle istituzioni di cultura pagana e l'interruzione dei circuiti di trasmissione del sapere - ma aggiunge 79 Anche secondo Plutarco, Demetrio consiglia a Tolomeo di procurarsi e leggere libri relativi alla regalità e al governo; nella Lettera di Aristea, i dotti consigliano al sovrano di leggere descrizioni di viaggio, "scritte apposta per i re", ai fini di un buon uso della sovranità. Secondo Canfora, p. 7-8, questo punto di contatto fra l'episodio plutarcheo e la tradizione giudaico-cristiana da cui emana la Lettera (a cui peraltro Plutarco è estraneo) dimostra l'esistenza di un tema culturale focalizzato sul consiglio del funzionario (dotto) al sovrano. Allo stesso proposito, si veda Dvornik, I, p. 261 SS. E’ forse il caso di aggiungere che questo stesso tema ha conosciuto un'elaborazione notevole che dalle province iraniche dell'ellenismo torna all'Islam, e che include, per esempio, il rapporto discepolare di Alessandro con Aristotele, e il Sirr al-asrarr, testo ambito da al-Mansur e da al-Mahdí. Cfr. supra, n. 39. 80 Il motivo ricorre nella lunga trattazione sull'origine delle scienze e sul percorso "storico" che le porta all'Islam in Ibn al-Nadím, p. 299-303, e p. 304, dove si parla di un tempio pagano in territorio bizantino, a trenta giorni di distanza da Costantinopoli, adibito al culto astrale dei Sabei. quello che forse è il nodo della questione: nel momento in cui il cristianesimo adotta alcune categorie del pensiero greco per fini apologetici, ne altera il senso. L'antico rimprovero musulmano secondo cui ebrei e cristiani avrebbero falsificato il senso delle Scritture viene rinforzato dall'accusa implicita di un uso distorto delle argomentazioni logiche prese dalla filosofia greca. Quando al-Fàrábì, nel X secolo, vorrà tracciare la linea genealogica che lega la sua scuola alla trasmissione dei maestri di Alessandria, scriverà un trattato sulle origini della filosofia; questo testo è andato perduto, ma restano pochi frammenti conservati nell'opera di Ibn Abi Usaybi’ah. Dopo aver descritto la vittoria di Augusto su Cleopatra, e il prosegui mento delle attività della scuola di Alessandria, centrate sui testi aristo telici e quelli dei suoi allievi, al-Fárábi scrive [Ibn Ab! Usaybi’ah, Il, p. 135]: [Le attività] durarono a lungo, finché non trionfò il cristianesimo, che dapprima causò la chiusura della scuola di Roma [= Atene]; l'insegnamento continuò ad Alessandria fino a quando il re dei cristiani non se ne interessò. Fu convocato un concilio di vescovi allo scopo di decidere che cosa, dell'insegnamento, dovesse essere preservato e che cosa andasse abolito. Decisero così di limitare l'insegnamento della logica fino alla fine delle figure [retoriche] dell'esistente (al-askál al-wugudiyyah), e di proibire ciò che seguiva, ritenendo che questo portasse nocumento al cristianesimo, mentre il resto avrebbe favorito il trionfo della loro religione. In seguito a questa disposizione, l'insegnamento della logica fu limitato al solo livello iniziale (báqiya al-zahir min al-ta'lim háda al-miqdàr), mentre il resto rimase celato fino all'avvento dell'Islam. Poco dopo, al-Fárábi aggiunge che il suo maestro cristiano, Yuhannà b. Haylan, si rifiutò di insegnargli il Kitàb al-burhan (= Analitici Secondi), fino a quando i maestri cristiani di logica non ebbero ottenuto il permesso di insegnare gli ultimi libri della logica aristotelica agli allievi musulmani.81 L'inclusione della scuola di Alessandria nei territori della dar al-islam e i suoi continui spostamenti (Antiochia, Harràn, infine Baghdad) è una materia cara agli storici musulmani del sapere, i quali hanno sempre accostato il motivo dell'itinerario dei maestri continuatori dell'insegna mento alessandrino a una politica califfale di protezione della cultura greca.82 La traiettoria (non lineare) Alessandria Bagdád viene ricostruita non solo mediante i percorsi geografici, ma soprattutto attraverso la garanzia dell'autorità tradente costituita dal flusso genealogico dei maestri e degli allievi [Meyerhof (a); ma cfr. Strohmaier (a)]. Sull'altra frontiera dell'ellenismo inclusa nella dar al-islam, l'Iran sasanide, c'è l'accademia medica di Gundisápùr, fondata dai nestoriani costretti all'esilio dopo la chiusura della loro scuola di Edessa, nel 499, per eresia. Entrambe le grandi istituzioni culturali cristiane rientrano in un'immagine - che è anche una politica - di protezione del sapere classico; è dunque evidente che il cristianesimo indicato dall'ideologia della rinascita greca in Islam come causa della decadenza è quello di Bisanzio. Ciò è espresso chiaramente dalla sintesi "storica" di Ibn al-Nadím, nel contesto delle origini delle scienze [Ibn al-Nadím, p. 302]: La sapienza, anticamente, era preclusa a coloro che non facevano parte del circolo dei dotti... La filosofia era praticata dai Greci e dai Bizantini (záhira fi 'I-yunaniyyin wa 'I-rùm) prima che si stabilisse la legge cristiana (sari’at: al-masih). Quando i Bizantini si convertirono al cristianesimo, proibirono la filosofia, bruciarono una parte [dei testi di filosofia], e una parte fu seppellita. Si vietarono le discussioni di argomento filosofico (mana'a al-nás min al-kalám fi say' min al-falsafah) quando queste erano contrarie agli ammonimenti profetici (alsara'i' al-nabawiyyah). Il discorso islamico medievale sui percorsi del sapere diventa un tema storiografico solo dal X secolo in poi; ma già nel momento in cui il83 sapere greco comincia ad essere identificato con l'autorità di Aristotele, con l'importanza delle categorie interpretative che essa propone e con la 81 Ibid. Sembra che anche il medico e filosofo Muhammad Ibn Zakariyyá' al-Rází sia incorso nell'identica proibizione, perché il suo compendio degli Analitici Primi non va oltre le analogie fra categorie. Cfr. Meyerhof (b), p. 114-15. 82 Per le fonti arabe (spesso in funzione anti omayyade e filo abbaside) sulle peregrinazioni orientali della scuola di Alessandria, si veda ancora Meyerhof (b), passim. 83 Il Radd 'alà ul-nasarah è tradotto in Gahiz (a), p. 129-53. Il passo citato è a p. 134-35. In genere, la percezione storica islamica interpreta la perdita del sapere greco nella Bisanzio cristiana entro il quadro di uno scadimento delle scienze intellettuali in mera tecnica; cfr. Pellat. loro corretta interpretazione (momento che possiamo individuare nella politica culturale di al-Mahdi), quello stesso sapere viene accolto anche entro una dimensione teologica, costituendo una componente decisiva nel confronto con il cristianesimo. In un passo della refutazione dei cristiani scritta da Gahiz nel IX secolo su commissione del califfo al-Mutawakkil, si legge: La Logica, il trattato Sulla generazione e sulla corruzione, i Meteorologica, e altre opere ancora sono di Aristotele, che non era né cristiano né bizantino. L'Almagesto è opera di Tolomeo, che non era né cristiano né bizantino. La Geometria è di Euclide, che non era né cristiano né bizantino... Lo stesso vale per le opere di Democrito, Ippocrate, Platone. Tutti costoro appartengono a un popolo scomparso, ma il cui genio ha lasciato tracce profonde: il popolo dei Greci. La loro religione non era quella dei cristiani, e la loro letteratura non aveva nulla in comune con quella dei cristiani. I Greci erano sapienti, i Bizantini sono artigiani. Questi ultimi si sono appropriati dei libri greci grazie alla prossimità dei due popoli e dei loro paesi; hanno attribuito a se stessi certi libri e ne hanno adattati altri alla loro religione. Ma altre opere, e altre attività della scienza, erano troppo famose perché si potesse cambiare loro nome e origine, e [i Bizantini] hanno spiegato ciò dicendo che i Greci erano uno dei popoli dell'impero romano. E’ per questo che essi proclamano la superiorità della loro religione su quella degli Ebrei, e disprezzano quella degli Arabi e degli Indù, sostenendo che i nostri dotti e i nostri filosofi non avrebbero fatto altro che seguire le orme dei loro [filosofi e dotti]. L'opera di diffusione del sapere greco, come abbiamo visto già attiva da prima del califfato di alMahdi, verrà tuttavia enfatizzata soltanto in rife rimento ad al-Ma’mun e alla sua scoperta della filosofia. Vediamo più da vicino la formazione di questa immagine: al califfo appare in sogno Aristotele, il quale risponde alla domanda del califfo - che cosa sia il bene - conciliando la ragione, la legge e l'accordo delle opinioni; il sogno sarà posto a giustificazione di un'impresa che si vuole far cominciare con al-Ma'mun: la scoperta della sapienza greca (cioè la filosofia) e il sentimento storico di un'eredità che l'Islam accoglie e valorizza. Le fonti, a cominciare da Ibn al-Nadím e dal suo resoconto dell'ambasciata, colle gheranno sempre il sogno all'inizio delle relazioni culturali fra Baghdad e Bisanzio, e alla richiesta califfale di libri all'imperatore bizantino. Ma a una lettura più attenta, è evidente che le fonti non fanno iniziare tutto il passaggio del sapere greco nell'orizzonte culturale arabo-islamico con al-Ma’mun. Sá'id al-Andalusi dice espressamente che al-Ma'mun continuò l'opera di al-Mansur, ricercò la scienza là dove si trovava e la riportò alla luce da dove era nascosta; l'autore scrive che, quando i saggi della sua epoca ebbero già conosciuto l'Almagesto, al-Ma'mun desiderò conoscere la filosofia, e invitò alla sua corte i dotti più famosi del suo tempo, chiamandoli da ogni parte del suo impero (min aqtar mamIakatihi) [Sá’id al-Andalusi, p. 48-50]. Per al-Qifti, dopo aver ricevuto in sogno i consigli del filosofo, al-Ma'mun si rende conto dell'importanza di cercare i libri di Aristotele, ma non ne trova in terra d'Islam; scrive allora all'imperatore bizantino chiedendo libri relativi alla sapienza di Aristo tele (kutub al-hikmah min kalám AristutáIìs) "quando già aveva dimostrato la sua superiorità, e umiliato la religione dei miscredenti (wa-qad istatala 'alayhi wa -adalla din al-kufr)" [Qiftí, p. 29-30]. 84 Anche l'imperatore, però, scopre che, di questi libri, non c'è traccia nel suo regno, e promuove una ricerca di testi, incaricando un monaco proveniente da un monastero nelle vicinanze di Costantinopoli di riesumare libri seppelliti in un tempio greco, chiuso col suo tesoro Per ordine di Costantino. Si tratta dunque di una riscoperta della filosofia, focalizzata sulla lo gica aristotelica (il kalám Aristutalis, come scriveva al-Qifti), che le fonti rappresentano mediante l'elaborazione di temi abituali legati al testo na scosto (il tempio e il monaco) e in coincidenza (o in consapevole congiunzione?) con alcuni dati storici (la crisi degli studi umanistici a Bisanzio - che ovviamente poteva essere avvertita solo in termini di naufragio dei testi -, la ricerca del florilegio iconoclasta ordinata da Leone V), in funzione di un'ideologia della rinascita greca in terra d'Islam. Sá'id al-Andalusi scrive infatti che, in quei tempi, la dinastia abbaside somigliava all'impero romano (al-dawlah al-rumiyyah) all'epoca del suo splendore [Sá'id al-Andalusi, p. 49]. 84 Si noti che il passo è chiaramente ispirato alla descrizione dei sogno di al-Ma’mun in Ibn al-Nadím, ma là dove l'autore del X secolo scriveva "... quando già aveva dimostrato la sua superiorità", alludendo sicuramente alle vicende militari in cui l'esercito musulmano aveva battuto quello bizantino, al-Qifti aggiunge " ... e umiliato la religione dei miscredenti", alludendo invece a un'attività di confronto teologico. La riscoperta e la diffusione della filosofia greca - non più proibita, non più legata a una concezione ermetica del sapere - si trasforma così in un vero e proprio mito storiografico, in cui si può individuare da un lato l'eco di una politica culturale tesa a stabilire sistematicamente, definitivamente e univocamente la tradizione testuale della sapienza greca, e dall'altro quello dì una nuova politica imperiale delle comunità, tutte coinvolte in questa operazione di recupero e di studio dei classici, e mantenute in contatto dalla figura del califfo filosofo. Tutto ciò è valutabile a posteriori; la radice di questo processo di enfatizzazione storiografica, però, va ricondotta al conflitto tra l'esercizio del potere califfale e l'esercizio dell'autorità religiosa. Gli storici musulmani del sapere collocano al-Ma'mun al centro della rinascita greca in Islam proprio perché il dibattito sul sapere storicamente scaturito da questo conflitto vedeva il califfo impegnato in un accentramento nella sua persona e nella sua dignità sovrana delle forme di sapere che legittimavano il concetto stesso di autorità. Di fronte a una disposizione giuridico tradizionista che proclama la separazione delle autorità e dei poteri, quindi la diversificazione delle forme di autorità, e che rivendica l'autonomia delle sfere di intervento, al-Ma'mun sancisce (o impone) un modello califfale che risulta molto vicino a quello imperiale bizantino: il califfo non è più soltanto l'arbitro delle dispute interreligiose, ma anche il promotore di concili esclusiva mente musulmani, e il sostenitore principale delle tesi proposte al dibattito dei teologi. 9. Prima ancora che si formi il modello "mitico" storiografico su al-Ma’mun, lo storico Dinawari lascia intendere che fu il mutazilita Abù 'I-Hudayl al-'Alláf (fra gli altri) a consigliare al califfo la traduzione di testi greci [Dinawari, p. 396]. Lo storico descrive il califfo come “la stella della stirpe abbaside per 'ilm e hikmah... Fu lui a recuperare il libro di Euclide da Bisanzio, e a ordinarne la traduzione e lo studio. Sotto il suo califfato, nei conviti a corte si svolgevano dispute sulle religioni, le dottrine e le opinioni ('aqada al-magális fi hiláfatihi li'I-munázarah fi'I-adyan wa'l-maqàlat). In ciò, gli fu maestro Abù’l -Hudayl Muhammad b. al-Hudayl al-’Alláf. In questo resoconto, è l'esponente di maggior spicco dei mutaziliti del tempo ad avvertire e far presente la necessità di un approccio al testo ori ginale, finalizzato all'attività controversistica della sua scuola, protetta dal califfo. Il tentativo - che (forse) fu di al-Mahdi - di instaurare una dottrina di Stato e un relativo corpo di intellettuali in grado di difenderla, si realizza con al-Ma'mun, producendo gli effetti ben noti del dogma del Corano creato, della successiva epurazione dei dissidenti dai pubblici uffici e del momentaneo controllo statale dell'apparato giuridico. Le grandi controversie, e l'esigenza di raffinare gli strumenti epistemologici del dibattito determinano comprensibilmente l'inizio di un nuovo flusso di traduzioni e la cura filologica che l'accompagna. Si è spesso insistito, giustamente, su quest'epoca vedendovi un momento storico di eccezionale importanza per la nascita di un vero e proprio linguaggio filosofico della conoscenza messo a punto dai traduttori, teso a una conciliazione unificante delle fonti del sapere. Ma è proprio il califfato di al-Ma'mun ad essere tutto sotto il segno dell'unificazione: politica, religiosa, culturale; la visione imperiale è senz'altro lo sfondo su cui le immagini del sapere e i miti della continuità prendono forma e si legano in una grande concezione strutturata della civiltà. Anche sul fronte dell'attività militare, al-Ma'mun compie gesti grandiosi, imperiali: Suyútí ci dice che fu il primo abbaside a recarsi in Egitto [Suyútí, p. 289], alla guida della spedizione partita nell'832 per sedare le ribellioni dei monofisiti. In Egitto il califfo incontra il patriarca giacobita Dionigi di Tell Mahré; la presenza del prelato è probabilmente dovuta a un ruolo di mediazione svolto da questi su richiesta del califfo. Un favore dovuto, dal momento che l'autorità patriarcale di Dionigi, nell'818, venne contestata con argomenti teologici da un'ala scismatica della chiesa giacobita; la questione finì davanti al governatore dell'Iraq, 'Abdalláh b. Táhir, che difese Dionigi in quanto unico patriarca riconosciuto ufficialmente dal califfo.85 Dopo aver riportato l'ordine fra i turbolenti cristiani egiziani, il califfo si concede una visita "ufficiale" alle piramidi: non è soltanto un 85 Sull'incontro in Egitto fra il califfo e il patriarca giacobita, e le vicende dell'elezione di quest'ultimo, si veda van Reef. L'appoggio del califfo al patriarca contestato e il successivo incontro in Egitto ha una certa enfasi nelle fonti cristiane di Michele Siro, III, p. 57-58, e di Bar Hebraeus, I, 373-74. interesse turistico, ma un atto di omaggio alla sapienza dell'antico Egitto, inclusa nell'orizzonte storico della pax islamica, e cele brata con un gesto che non può non ricordare Alessandro. Tra l'818 e l'826, dopo aver riaffermato l'ideologia unitaria del califfato, dopo aver manifestamente condiviso, con la tragica investitura dell'imam 'Ali al-Ridá, la concezione sacrale del potere cara agli sciiti [cfr. Sourdel (a)] (che tuttavia non hanno mai ricambiato simili attenzioni), al- Ma'mun incontra i teologi e i giuristi, accentrando nella sua persona un potere esegetico conferitogli dal suo personale esercizio dell'endiadi 'ilm-hikmah. Ibn al-Nadím scriverà di lui: "il più grande giurista in giurisprudenza e in dialettica (a'lam al-fuqahá' bi'l -fiqh wa ‘l-kalàm) [Ibn al-Nadím, p. 129]; in questo passo, l'autore inserisce fra le opere del califfo le risposte ai quesiti teologici del re dei Bulgari. L'antica fonte del giurista 'Abd al-'Aziz al-Kinání (m. 854) è l'unico testimone di un convegno organizzato da al-Ma'mun a cui sono invitati tradizionisti, giuristi, lessicografi e mutakallimun per discutere di un aspetto della dottrina del Corano creato - se il concetto di "cosa" (say') possa applicarsi al Corano [Kinàni, p. 149]. 86 Solo in questa fonte la controversia sul Corano creato è presentata esplicitamente come una vera e propria munázarah, sostenuta dal mutakallim Bisr b. Giyat al-Marisi, confutata dallo stesso al-Kinání e presieduta da al-Ma'mun. Sappiamo che il circolo di mutakallimun (mutaziliti e non) lavorava alacremente alla teoria dei cinque principi, e alla conseguente messa a punto della dottrina del Corano creato [van Ess (d), p. 227 ss]; data l'importanza della controversia, è probabile che i lavori di preparazione e di organizzazione, di cui il testo di al-Kinání testimonia un aspetto, fossero in vista di un concilio solenne e della proclamazione della dottrina. Il resoconto di al-Kinání87 inserisce le fasi preparatorie della proclamazione ufficiale della dottrina del Corano creato nella procedura usuale del convito alla corte dei califfo.88 Quando però si passa dalle dispute preparatorie, dedicate ad aspetti collaterali della dottrina, alla discussione centrata sulla questione del Corano creato, una fonte come quella di Tabari sembra proprio dimostrarci che quest'ultima non si adeguasse affatto alle regole convenzionali della munázarah, ma ricordi piuttosto le modalità dei concili bizantini, promossi e orientati nelle conclusioni dalla vo lontà imperiale. Tabari dedica molto spazio alle vicende legate alla proclamazione del dogma del Corano creato, ma non ricorre mai né al verbo tanazara né al sostantivo munázarah - immancabili nelle fonti che registrano dispute -lo storico impiega invece il verbo igtama'a e il sostantivo igtimà', che hanno propriamente il senso di una convocazione, e sono poi gli stessi termini con cui le fonti arabe definiscono i concili e i sinodi cristiani. Secondo Tabari, al-Ma'mun convoca dapprima una delegazione di sette eminenti giuristi e tradizionisti a Raqqah, i quali dichiarano l'ammissibilità della dottrina; poi annuncia pubblicamente il dogma del Corano creato, col sostegno dei sette partecipanti al concilio di Raqqah, di fronte a una seconda delegazione di giuristi e tradizionisti [Tabari (a), Il, p. 1112 SS., 1116-17]. Lo storico, inoltre, non accenna mai alla presenza e all'intervento dei mutakallimun; ma dai contenuti e dallo stile delle lette re (riprodotte dallo storico) scritte dal califfo ai delegati è chiaro che l'unico mutakallim è proprio al-Ma'mun. Alla luce di questa nuova fisionomia dell'autorità califfale,89 è comprensibile la cosiddetta "reazione" del corpo del sapere giuridico tradizionista; una "reazione" che, come ha già dimostrato 86 Un'edizione più recente di questa fonte (che non si è potuta consultare) è quella di G. Saliba, Damas 1964. Eche, p. 49-51, ritiene che il testo sia un falso, prodotto comunque non più tardi dei X secolo. 88 Curiosamente, Balty-Guesdon, p. 138, allude alla fonte di al-Kinani vedendovi il resoconto di una disputa avvenuta nel Bayt al-hikmah, a riprova del fatto che l'accademia biblioteca ospitava non solo rappresentanti del sapere filosofico e scientifico ma anche giuristi e tradizionisti. Al-Kinani dice chiaramente (Kinàni, p. 155) che la sua disputa è avvenuta in presenza di giuristi, di giudici, di mutakallimun e di polemisti (munazirun), ma dice anche, e soltanto, (idem, p. 153) che il luogo è la residenza califfale (dar amír al-mu’minin). Allo stesso modo, Sá’id al-Andalusi, p. 48, elenca i tradizionisti, i mutakallimun, i lessicografi e i giuristi che partecipavano solitamente alle dispute in presenza del califfo, ma in questo contesto non nomina mai il Bayt al-hikmah. 89 Ci sembra qui non del tutto superfluo precisare che non stiamo descrivendo in maniera esauriente la fisionomia dell'autorità califfale, ma seguiamo soltanto una delle sue componenti, cioè quella che risulta legata anche a una politica "internazionale" di conservazione e di esercizio autorevole (e autoritario) dei sapere, constatabile anche a Bisanzio. Si potrebbe definire, pur con molti distinguo e con prudenza, questa componente della fisionomia califfale in 87 per altri versi G. Makdisi nei suoi noti studi sulla formazione della madrasah, non va inte sa come ottusa chiusura al razionalismo invocato dai mutaziliti, ma andrebbe piuttosto letta come un'ipotesi di modernità con cui, dal IX secolo, i giuristi musulmani si sono interrogati sul problema dell'autonomia e dell’indipendenza delle forme della conoscenza; in altri termini, si è trattato di una riflessione sulla divisione dei poteri, che difendeva quel crite rio musulmano di ortodossia che solo il consenso, e non i concili, poteva stabilire. 10. Nella sua recente rilettura delle fonti relative al Bayt al-hikmah e alle sue attività di traduzione e di studi filosofici e scientifici, Balty-Guesdon ha cercato di rispondere a due importanti interrogativi: la politi ca culturale di traduzione avveniva soltanto all'interno del Bayt al-hikmah? Questa accademia era una fondazione o una continuazione? [Balty-Guesdon; cfr. però Jackson, p. 260] Alla prima domanda, lo studio di Balty-Guesdon risponde dimostrando che, nelle fonti, i nomi dei traduttori non compaiono mai in diretta relazione alla biblioteca califfale; durante il regno di al-Ma'mun si assiste piuttosto alla proliferazione di centri di studio dei testi, dislocati e decentrati, posti sotto il patronato di uo mini di corte (i cristiani Banù Munaggim, i musulmani Banù Músà e Banù Nawbaht); la carica di amìn 'alà al-targamah, supervisore alle traduzioni, implicava senz'altro un lavoro di équipe, ma potrebbe anche indicare una forma di istituzionalizzazione in qualche modo controllata dagli intellettuali che si succedevano alla direzione del Bayt al-hikmah: Salm e Sahl b. Hárún, direttori della biblioteca, compaiono spesso, come abbiamo visto, fra le delegazioni scientifiche e come traduttori. Resta comunque il fatto che le fonti distinguono - e non sappiamo se volontariamente o secondo un'acquisita omonimia dei termini - fra un Bayt al-hikmah e una hizanat al-hikmah di al-Ma'mun; distinzione che avviene soltanto in riferimento a questo califfo. Alla seconda domanda è difficile dare una risposta esauriente, soprattutto per quanto riguarda l'immagine storiografica assunta dal Bayt al-hikmah e il suo ruolo nel mito culturale che circonda le sue iniziative. Lo studio di Balty-Guesdon dimostra che quel nome ha generalmente indicato la biblioteca dei califfi anche in epoca omayyade, e il termine hikmah era un esplicito riferimento alla conservazione di testi relativi alle cosiddette “scienze straniere” , essenzialmente opere di traduzione, commenti e parafrasi di testi scientifici greci. Potrebbe trattarsi, però, di una denominazione a posteriori: le fonti che proiettano quel nome all'indietro, in epoca omayyade, non sono anteriori al X secolo, e il termine a cui esse danno risalto forse non era Bayt (forse sentito, dal X secolo in poi, come intercambiabile con hizanah) ma hikmah, che indicava esauriente mente il contenuto dei testi conservati. E’ probabile che la nomenclatura -indistinta, secondo Balty-Guesdon - di Bayt al-hikmah o hizanat al-hikmah sia invece segno di una distinzione (che nel tempo è venuta meno) fra un luogo di rappresentanza, una sorta di sala per convegni, e una vera e propria biblioteca (hizánah). Ibn al-Nadím potrebbe ricorrere ai due termini in maniera distinta: l'autore ci dice che Sahl b. Hárún cominciò la sua carriera a corte come muhaqqiq ("filologo"?) al servizio di al-Ma'mun, e divenne poi direttore della sua biblioteca (hizanat al-hikmah lahu); più avanti, scrive che Salm fu direttore del Bayt al-hikmah insieme a Sahl [Ibn al-Nadím, p. 133-34]; 90 l'autore potrebbe in questo modo sottintendere due carriere distinte di Sahl. Se il ritratto di al-Ma’mun, primo califfo a "scoprire" il sapere greco, nelle fonti procede di pari passo con un'enfasi che collega ogni attività in relazione con la Grecia all'accademia fondata dal califfo, forse è proprio perché il termine Bayt compare con questo califfo, e imprime col suo significato il senso di un'istituzione a carattere statale (si confronti il senso di Bayt al-mal, denominazione ufficiale del Tesoro pubblico, ovvero del ministero delle finanze). termini di "cristianizzazione', - che tuttavia, nel modo in cui si esprime, ricorda non tanto la figura papale, quanto quella imperiale bizantina. Si potrebbe di conseguenza interpretare l'ostilità del corpo del sapere giuridico tradizionistico come un rifiuto opposto a tale "cristianizzazione'. Un discorso a parte meriterebbe poi il rifiuto degli sciiti, di segno profondamente diverso, motivato dalla presenza di una figura, l'imam, già in grado di fondere l'autorità religiosa con l'esercizio legittimo del potere. 90 E’ indubbio che Sahl b. Hárún incarni l'immagine tipica dei bibliotecario consigliere del califfo conservatore di libri: a lui si attribuisce infatti un testo di consigli politici, il Kitàb tadbir al-mulk wa'l-siyjsah. E’ ancora Ibn al-Nadím (ibid., p. 12), ad accennare a una biblioteca privata di al-Ma’mun, in riferimento a Ibn Abi Hurays, rilegatore (mugallid) della hizanat al-hikmah di al-Ma’mun. Siamo portati a pensare che i termini Bayt e hizánah, almeno al tempo di al-Ma'mun, definissero due distinte disposizioni nei confronti della tutela e della fruizione del patrimonio librario, entrambe motivate da una consapevole dialettica di conservazione/recupero dei testi centrata sulla biblioteca palatina - la hizánah del califfo - che si trasforma in biblioteca di Stato - il Bayt a1-hikma. La prima assolveva una funzione di conserva zione dei testi; questa funzione è anche quella che le allusioni delle fonti al Bayt al-hikmah o hizanat al-hikmah dei precedenti califfi attribuiscono alla biblioteca di palazzo, presentando il mecenatismo dei visir barmecidi come qualcosa di legato alla corte ma essenzialmente sganciato dall'ambito della biblioteca. Nel Bayt al-hikmah di al-Ma’mun, invece, alla funzione conservativa si aggiunge un’attività di studio e di critica del testo, e il fatto che le fonti comunichino l'idea di una saldatura fra questa e il luogo fisico della biblioteca può significare che intorno al Bayt al-hikmah si fosse voluta creare una consapevole risonanza rispetto a qualcosa che prima mancava, almeno entro il circuito della corte. Ora, se si trattasse di due luoghi fisici distinti, è probabile; ma qui non sembra importante. Ciò che piuttosto va rilevato è l'impronta statale, pubblica, dell'intera operazione di conservazione e di traduzione; il patrocinio califfale alla base della traduzione di grandi opere, che dà all'impresa un carattere pubblico, ricalca quella che sembra essere stata, secondo E. Bickerman, una modalità tipica del mondo antico e tardo-antico.91 Questo carattere di iniziativa pubblica fu già perseguito da al-Mahdi, se non da suo padre, in un periodo in cui tuttavia si hanno testimonianze discontinue di una promozione privata: si pensi ancora alla circolazione di fonti greche nei circoli scientifici come quelli di Gábir b. Hayyán, o la più antica tradizione intorno agli interessi scientifici del principe omayyade Hálid b. Yazid92; ma dobbiamo ammettere che, prima di al-Ma'mun, non si constata mai un programma sistematico di traduzione che si affiancasse all'opera di conservazione. Indubbiamente, nel parallelismo tra califfo e biblioteca evocato dalle fonti si rintraccia nettamente il modello Aristea; ma se è vero, come crediamo, che questo modello avesse una sua significazione attiva grazie al tema del consiglio filosofico politico offerto al sovrano, l'ellenofilia che traspare da quello che abbiamo definito un "mito" storiografico intorno ad al-Ma'mun, va ricondotta a quella sistematicità, volta a fondare una vera e propria tradizione culturale della sovranità, un vero e proprio corpo del sapere che i teologi musulmani avrebbero dovuto conciliare con l'altra grande tradizione - il sapere della rivelazione coranica - al fine di proclamare la superiorità della religione islamica subordinandola all'autorità del califfo. E’ senz'altro legata a questa enfasi la prevalenza del sapere filosofico su quello scientifico: l'immagine culturale di una rinascita della Grecia in terra islamica è infatti costruita essenzialmente sul silenzio intorno a una più antica tradizione/traduzione in arabo della logica aristotelica, e sull'esaltazione di luoghi e tempi atti a dare corpo a un'idea di classicità congiunta a un'idea del trionfo della disputa filosofica. Hunayn b. Ishaq può aiutarci a comprendere il significato simbolico del Bayt al-hikmah di al-Ma'mun: in un passo del suo Adab al-falásifah, nel capitolo dedicato ai conviti dei filosofi dell'antichità (igtìmá’at al-falásifah), egli spiega che ì saggi usavano riunirsi in luoghi chiamati buyut al-hikmah [Hunayn b. Ishaq, p. 48]. L'allusione, vaga ma evidente, è rivolta alla scuola di Atene e a quella di Alessandria. Il nome abituale della biblioteca califfale si trasforma così in un dispositivo di significazioni che identifica in un luogo fisico il centro da cui parte la rinascita di quegli stessi luoghi del sapere antico; è chiaro dunque che l'enfasi delle fonti sta a significare la novità - resa autorevole dall'esempio classico - di un luogo rappresenta tivo della dignità califfale, finalizzato a ospitare i convegni dei nuovi sapienti.93 91 A questo proposito si veda Bickerman (a) e (b). La Lettera di Aristea potrebbe essere l'esempio più significativo proprio perché più elaborato; tuttavia va anche tenuto presente il dubbio che la sua tradizione non sia autentica, così come lo esprime Momigliano, p. 95-96 proprio in relazione all'iniziativa pubblica delle grandi traduzioni in epoca classica. 92 Sulla tradizione relativa all'attività scientifica di Hálid b. Yazid si vedano i pareri contrapposti di Sezgin, p. 14 SS., e Ullman. 93 Si confronti, come riverbero della "reazione" dei sapere giuridico tradizionista, la denominazione di Bayt al-hadít per le istituzioni pubbliche di insegnamento e di conservazione dei testi relative a quelle branche della conoscenza, in Makdisi (b), passim. Ciò rientrerebbe ancora in una politica culturale di legittimazione islamica del monopolio del sapere greco: una legittimazione che, se non ha influenzato del tutto la rinascita umanistica a Bisanzio, può aver provocato più o meno indirettamente una reazione bizantina.94 In realtà, dietro l'immagine della "rifondazione" statale, califfale, del sapere dei Greci, l'unica effettiva rifondazione è quella della tradizione testuale: tutta l'opera filologica avvenuta nel presunto ambito del Bayt al-hikmah cancella l'effettiva continuità storica dell'ellenismo nelle aree toccate dall'espansione islamica - dimostrata dalla presenza del sapere greco già in età omayyade e sotto i primi Abbasidi, e dalla conoscenza già attestata del patrimonio scientifico;95 nega la validità delle precedenti tradizioni testuali passate attraverso il síriaco; ricerca il testo originale greco, creando così l'illusione storica di una scoperta e di un rapporto esclusivo e diretto fra l'autorità del testo autentico e la capitale dell'impero. L'immagine, giustamente sottolineata da Balty-Guesdon, di un Bayt al-hikmah capace di simboleggiare la visione ecumenica del califfato di al-Ma'mun, e di costituire un luogo rappresentativo delle comunità della dar al-islam, dove la logica aristotelica potesse definire i comuni termini della conoscenza al di sopra delle confessioni e del problema epistemologico delle fonti della conoscenza, ci porta all'ipotesi che, nelle sue sale, al-Ma'mun invitasse le delegazioni di tutte le religioni, in vista di un concilio globale. 11. L'antico ‘Ulama-yi islam presentava una disputa religiosa fra il mobadan-i mobad e alcuni dottori musulmani, che secondo il testo sarebbe avvenuta sessant'anni dopo la caduta di Yazdagird III, quindi tra il VII e VIII secolo. Il profondo cambiamento dell'immagine della disputa si avverte in un altro testo mazdeo, il Gugastak Abális, in cui l'eretico maledetto del titolo (definito zindíq) propone i suoi dilemmi ete rodossi alle autorità zoroastriane. E’ lo stesso Abális a richiedere una disputa, invitando "tutti i dottori mazdei, arabi, ebrei e cristiani del Fárs" [Gugastak Abalish, p. 33]: la disputa, regolata sul modello abituale delle quaestiones et responsiones, si svolge nel palazzo di al-Ma'mun; il califfo, dopo aver convocato “ i dottori della sua religione, di quella degli ebrei e dei cristiani", presiede il concilio affiancato dal suo "qadí e primo ministro" e da Atár Farnbág Farrùhzatàn, massima autorità mazdea. Il califfo concorda con le obiezioni della commissione di sacerdoti mazdei e pronuncia la condanna delle dottrine di Abális. La datazione del testo è controversa, ma la narrazione del concilio mazdeo, oltre a citare il nome del mobadan-i mobad Atár Farnbág (del quale altri testi mazdei dimostrano l'avvenuta morte nell'881) [Gujástak Abalish, p. 2; cfr. Skand-Gumanik Vicàr, passim], e a presentare tematiche mazdee analoghe a quelle che ricorrono (anche se in modo più raffinato e dettagliato) nello Skand-Gumanik Vicàr, poggia con molta probabilità su una procedura di convocazione interconfessionale che traspare da altre fonti. Un concilio analogo sembra essere avvenuto durante il califfato di al-Ma'mun anche secondo il primo trattato eresiografico in neopersiano, il Kitab-i bayán al-adyán, scritto nel XII secolo da Abu ‘l-Ma’ali Muhammad b. 'Ubaydallàh, dove si legge [Abù’l-Ma’ali, p. 145-46]: Al-Ma'mun permetteva che si tenessero in sua presenza dispute sulle opinioni delle diverse sette. Un giorno si presentò un sostenitore della dottrina dualista (mutakallim-i madhab-i tanàwi) per argomentare a favore delle sue tesi. al-Ma’mun convoco allora i teologi e i giuristi musulmani (mutakallimun wa-fuqahá'-yi islam) per discutere le tesi dualiste. 94 L'ipotesi di un'influenza islamica indiretta sulla ripresa degli studi classici a Bisanzio, negata fermamente da Lemerle, è invece espressa da Cavallo (d), p. 22. Possono essere di un certo interesse le osservazioni, di ordine diverso, di Speck (b), secondo cui il patronato imperiale bizantino del classicismo in età macedone (867-1056) sarebbe legato alle necessità della politica estera, e quelle di Spain Alexander, secondo cui l'iconografia dell'imperatore, ancora in età macedone, si rifà a modelli biblici - quindi alla (tradizione monoteistica - in particolare a David e a Mosè. 95 In questa prospettiva meriterebbe uno studio approfondito la corposa presenza di fonti scientifiche e filosofiche apocrife nel corpus di Gábir b. Hayyán; gli autori della scuola giabiriana si rifanno costantemente a una tradizione testuale più antica di quella stabilita nell'ambito dei Bayt al-hikmah, anche quando si tratta di testi autentici. Si veda l'importante scoperta, in un trattato del corpus, di un lungo passo delle Categorie (8, 8b 5-11a 37), inequivocabilmente desunto da una traduzione più antica di quella compiuta da lsháq b. Hunayn (a lungo ritenuta la prima traduzione in arabo del testo aristotelico), in Nomanul Haq, p. 230-42. Lo scenario è quello riflesso dalla fitta produzione polemistica dei mutakallimun, in particolar modo mutaziliti; tuttavia, nel suo rapido resoconto, la fonte affida esclusivamente al califfo il compito di sostenere il dibattito, secondo le abituali regole dialettiche, con un finale decisamente inverosimile - dopo aver dimostrato l'incoerenza delle tesi del dualista e la contraddizione fra le premesse e le conclusioni, il califfo lo condanna a morte.96 Sappiamo invece che, sotto il regno dì al-Ma’mun, il manicheismo conobbe un periodo di relativa tranquillità. Sulla presenza manichea, Ibn al-Nadím al riguardo è piuttosto preciso: descrivendo le migrazioni manichee in seguito alla condanna di Mani, sembra di cogliere un'implicita allusione all'ecumenismo islamico e alla liceità delle pratiche del dibattito, quando scrive che i manichei furono costretti all'esilio "dopo che Kisra proibì agli abitanti del suo regno l'uso della dialettica nelle que stioni religiose (barrama 'alà ahl mamlakatihi al-gadal bi 'l-din)[Ibn alNadím, p. 400]. 97 Nel periodo in cui scrive Ibn al- Nadím, i manichei, presenti per lo più a Balh e in Transoxiana (ma un'altra importante comunità era quella di al-Mada'in), hanno fissato il loro centro a Samarcanda; in quella città risiede il loro capo [Ibn al-Nadím, p. 402]. L'autore fornisce, secondo l'abituale criterio di rappresentatività, i nomi dei capi manichei sotto la dinastia omayyade (sotto cui avviene il primo grande scisma nella comunità) e sotto quella abbaside. Le controversie teologiche che dividono i manichei vedono ancora al-Ma’mun intervenire come arbitro; il caso di Yazdánbaht, noto per le sue refutazioni del cristianesimo, è significativo: promotore di una controversia contro il leader manicheo dell'epoca, Abu 'Ali Sá’id - frequentatore dei conviti a corte [Gahiz (b), p. 442-43] -, egli va in esilio (o fugge?) a Rayy, da dove il califfo lo invita a tornare a Baghdad, offrendogli un salvacondotto, per partecipare alle discussioni con i mutakallimun [Ibn al-Nadím, p. 401-2].98 12. Non è escluso del tutto che il Gugastak Abális appartenga a un genere letterario di dispute fittizie, centrato sulla figura di al-Ma'mun. Esempi di questo tipo ci giungono soprattutto da parte cristiana, testimoniati da opere a carattere agiografico in cui la disputa assume i caratteri di un'apologia del cristianesimo. In questi testi, di cui restano testimoni manoscritti tardivi [Graf., Il, p. 21; Putman, p. 172-73], il protagonista cri stiano è il vescovo melchita Teodoro Abù Qurra; a lui si attribuiscono anche discussioni di natura polemistica, quando è noto che la sua polemica anti-musulmana è scritta in greco, quindi concepita al di fuori dell'ottica della disputa pubblica.99 Ciò che più interessa, di questa letteratura non certo colta, è comunque e ancora al-Ma'múm, che interroga personalmente il cristiano e finisce puntualmente per solidarizzare con le sue tesi. Questo stereotipo viene ulteriormente elaborato intorno al personaggio di san Teodoro di Edessa, che sembra assorbire il ruolo storico di Abù Qurra fino a diventare il suo doppio .100 La tradizione agiografica affida a questo santo la polemica anti-musulmana in arabo che Abu Qurra non ha mai scritto, e lo colloca nello spazio significativo della corte di al-Mahdi e di al-Ma’mun [Abel (a)]. Soprattutto in relazione a quest'ultimo, l'immagine di san Teodoro unisce il sapere teologico e dialettico al sapere medico. Secondo una tradizione, di cui resta un testimone [cfr. Abel (d), p. III-13], il santo diventa medico personale di al-Ma'mun dopo averlo guarito da un male che i medici di corte non riuscivano a curare; nell'ambito della corte, egli convoca una prima disputa con altri cristiani, una seconda in cui confonde i dottori musulmani; infine converte segretamente lo stesso 96 Nel Gujástak Abalish, p. 38, il califfo si limita ad ammettere l'incapacità di Abális di confondere gli avversari, ad approvare la maledizione scagliata dai sacerdoti mazdei, e a scacciarlo dal palazzo. 97 In questo passo, si può cogliere un'allusione al fatto che, nella dar al-islam, ciò è lecito, riproponendo così il tema del recupero delle conoscenze che altri popoli hanno proibito e lasciato cadere nell'oblio. Si confronti anche il motivo del sapere proibito (in questo caso il contesto è prima quello dell'ermetismo, poi quello della proibizione cristiana di coltivare le scienze dei Greci), ma recuperato e divulgato in Islam, in Ibn al-Nadím, p. 302. 98 Viene da chiedersi se la disputa sia avvenuta secondo il modello ecumenico descritto nel Gujástak Abalish. Ibn alNadím prosegue scrivendo: I Mutakallimun riuscirono a confonderlo, e allora al-Ma’mun gli disse:- Convertiti, Yazdánbaht. Se non fosse per il salvacondotto che ti abbiamo concesso, potresti procurarci dei problemi. Yazdanbah rispose:- Ascolto il tuo consiglio, Principe dei Credenti, e accetto le tue parole, ma non sei tu quello che non ha mai costretto nessuno ad abiurare dalla propria confessione (madhab)?- Hai ragione, rispose al-Ma’mun. Allora gli trovò una residenza nei dintorni di al-Muharram, e gli affidò una scorta, temendo per la sua incolumità." Ibn al-Nadím non specifica se i mutakallimun invitati a discutere le tesi scismatiche di Yazdanbah fossero (anche) musulmani, ma il dubbio sembra lecito. 99 Khoury, p. 83 ss. Ma cfr. gli apocrifi polemistici studiati da Abel (d). 100 Peeters, p. 83: "Théodore d'Edesse n'est qu'un double de son célèbre homonyme Théodore Abu Qurra". califfo al cristianesimo. Dal modo in cui l'agiografia cristiana elabora la fisionomia del califfo convertito sembra riaffiorare una convinzione diffusa fra i manichei della dar al-islam, storicamente più antica: Ibn al-Nadím, nel capitolo dedicato al manicheismo e alla zandaqah, scrive: "Ho letto in un libro di certi appartenenti al madhab [manicheo] che al-Ma’mun era uno di loro. Questo è certamente falso" [Ibn al-Nadím, p. 40 1 (Aprile 1997)