Indice
Frontespizio
Colophon
Prefazione di Emmanuel
Carrère
EPEPE
FerencKarinthy
Epepe
PrefazionediEmmanuel
Carrère
TraduzionediLaura
Sgarioto
AdelphieBook
TITOLOORIGINALE:
Epepe
LaPrefazioneètradotta
daPiaCigalaFulgosi
Quest’operaèprotetta
dallaleggesuldiritto
d’autore
Èvietataogni
duplicazione,
ancheparziale,non
autorizzata
Incopertina:W.T.Benda,
copertinaperlarivista
«Woman’sHome
Companion»(gennaio
1936).
©BLUELANTERN
STUDIO/CORBIS
Primaedizionedigitale
2015
©1999,2005ÉDITIONSDENOËL
©2015ADELPHIEDIZIONIS.P.A.
MILANO
www.adelphi.it
ISBN978-88-459-7662-9
PREFAZIONE
DIEMMANUELCARRÈRE
Laprecedenteedizione
diquestolibromièstata
mandata nell’autunno
2000
da
Olivier
Rubinstein,ildirettoredi
Denoël, con un laconico
biglietto
di
accompagnamento:
«Dovrebbepiacerti».Non
sapevo ancora che la
prima mossa di Olivier,
appena si insedia a capo
di una casa editrice, è
quella di recuperare i
diritti di Epepe per
inserirlo nel suo nuovo
catalogo, nella speranza
difarneungiornoillibro
di
culto
che
è
palesemente destinato a
essere. Quello che non
sapeva lui è quanto
questoromanzocascasse
afagioloperme.Quando
l’ho letto, infatti, stavo
girando
un
documentario su un
ungherese uscito di
senno di cui penso non
sia
fuori
luogo
raccontarequilastoria.
Nel
1944
András
Toma, che al momento
del suo ritorno i giornali
diBudapesthannounpo’
impropriamente
presentatocomel’ultimo
prigionierodellaseconda
guerra mondiale, aveva
diciannove
anni.
Trascinato
dalla
Wehrmacht nella sua
disfatta,
catturato
dall’Armata Rossa in
Polonia, fu trasferito da
un campo di prigionia
all’altro, sempre più a
est, poi, probabilmente
inseguitoaunaccessodi
follia,
internato
nell’ospedale
psichiatrico
di
una
piccola cittadina russa
chiamata Kotel’nič. Vi
sarebbe rimasto per
cinquantacinqueanni.
Ho consultato la sua
cartella clinica, dove il
regolamento imponeva
di registrare, ogni due
settimane,unanotasulle
condizioni del paziente.
La successione di queste
millecinquecento note
circa, per la maggior
parte brevissime, è la
cronaca di una lenta e
inesorabiledistruzione.
András Toma non era
un prigioniero politico,
ma un prigioniero di
guerra, cittadino di un
paese ormai amico, e a
guerra finita non c’era
alcuna
ragione
di
trattenerlo in Unione
Sovietica. Il punto è che
non parlava russo, ma
ungherese, e nessuno
intorno a lui capiva
l’ungherese. Inoltre – e
questo non solo ha
complicato
ulteriormentelecosema
suggerisce che senza
essere necessariamente
pazzo non avesse una
grande
capacità
di
adattamento–luinonha
mai tentato di parlare
russo, di racimolare
qualche parola che gli
avrebbe permesso di
esprimersi
e
probabilmenteditornare
a casa, e d’altra parte
nessuno ha cercato di
parlargli in una lingua
abborracciata, o a gesti,
insomma di escogitare
unmodopercomunicare
con lui. Che due persone
prive di una lingua
comune non riescano a
comprendersi di primo
acchitoènormale,main
teoria con un pizzico di
buona volontà finiscono
pertrovareunterrenodi
intesa. Al personale
dell’ospedale deve essere
mancato quel pizzico di
buona volontà, e ad
András Toma non tanto
l’ostinazione quanto la
flessibilità
e
forse
l’intelligenza: fatto sta
che
la
reciproca
incomprensione
del
primo contatto è durata,
assolutamente
immutata,
per
cinquantacinque anni.
Per
cinquantacinque
anni quest’uomo ha
borbottato tra sé nella
sualingua,circondatoda
persone
che
ne
parlavano un’altra, che
lui non ha mai potuto o
voluto capire. Ogni
quindici giorni i medici
annotavanosobriamente
nella sua cartella: «Parla
ungherese».
Era
diventatounsintomo.
András Toma è stato
ritrovato, in modo del
tutto
casuale,
nell’autunno del 2000.
Una giornalista locale
seguiva
il
giubileo
dell’ospedale, il primario
ha
presentato
agli
astanti il decano dei
pazienti: «Un bravo
vecchio,
molto
tranquillo, parla solo
ungherese,ahahah!».La
giornalista, scaltra, ha
fiutatolabellastoriaeha
scritto un articolo sul
tema: «Vi è nella nostra
città l’ultimo prigioniero
della seconda guerra
mondiale». L’articolo è
statoripreso,ilconsolato
ungherese si è occupato
della
cosa
e
ha
organizzato il rimpatrio
di András Toma; che si
chiamasse
davvero
András Toma, a dir la
verità, non era affatto
certo,poichéilsuonome
era stato prima mal
declinato, poi trasposto
in russo e in ultimo
storpiato
nella
trascrizione.L’incertezza
sullasuaidentitàhareso
ancor più romanzesco il
suo ritorno al paese
natale, che ha fatto
notizia sui giornali di
Budapest. Alla fine della
guerrasonosparitimolti
ungheresi, e il loro
ricordo è stato rimosso,
tanto più che l’Ungheria
era alleata con la
Germania.
Di
quei
fantasmi non si parlava,
ed ecco che a un tratto
uno di loro si ripresenta.
Per
quanto
possa
sembrare strano, decine
di
famiglie
hanno
rivendicato
una
parentela con lui: era il
fratello Janos, lo zio
Geza, il cugino Ferenc.
L’esercito ungherese ha
svolto delle indagini, e
alla fine è riuscito a
identificare
la
vera
famiglia,
che
ha
accettato di riprenderlo
con sé. András è quindi
tornato,asettantacinque
anni, nel paesino da cui
se n’era andato a
diciannove.
Io
ho
assistito al suo ritorno.
Era uno spettro, un
Kaspar Hauser con i
capelli
bianchi.
Si
rifiutavadicrederechesi
trovava in Ungheria,
poichélaggiùgliavevano
dettochel’Ungherianon
esisteva più: cancellata
dalla
carta.
Era
diffidente,
sospettava
unatrappola.
Nessuno lo capiva. La
sua lingua non era più
l’ungheresemaunasorta
di
dialetto
privato,
autistico, quello di un
monologo
interiore
rimuginato per tutta la
durata
dell’esilio.
Sopravvivevano alcuni
brandellidifrasi,incuisi
parlava della traversata
del Dnepr, di un lungo
viaggiointrenonelquale
quasi tutti i suoi
compagni erano morti,
della
terra
troppo
ghiacciata perché si
potesse seppellirli, di
stivali che gli avevano
rubatoedellasuagamba
amputata
che
pretendeva
che
gli
restituissero.
Si
riconosceva anche il
nome di Hitler che lui
chiamava«HitlerAdolf»,
all’ungherese, mettendo
il cognome davanti al
nome.
Secondo
lui
quell’Hitler Adolf era un
furbacchione,edifronte
a questo giudizio, più
volte ripetuto, è calato il
gelo.
Non so se leggerete
questa prefazione prima
odopoillibro.Selastate
leggendo dopo, non ho
bisogno di spiegare il
perché del racconto che
ho appena fatto. Se
prima, non penso di
rovinarvi il piacere
riassumendo la trama di
Epepe – in ogni modo è
poco
probabile
che
affrontiate
il
libro
completamente vergini:
qualcuno ve ne ha
parlato, o vi siete fatti
sedurre dalla quarta di
copertina. È la storia di
unuomochesiritrovain
un paese di cui non
capisce la lingua, e il
racconto giorno per
giorno
della
sua
sopravvivenza in quelle
condizioni. C’è però una
grande differenza tra
András Toma e Budai, il
protagonista
del
romanzo
di
Ferenc
Karinthy.Ilprimoeraun
contadino
semianalfabeta
che
parlava soltanto la sua
linguamaternaeche,per
una resistenza psichica
difficile da spiegare ma
sotto gli occhi di tutti, si
è rivelato incapace di
acquisire foss’anche i
minimi rudimenti di
un’altra, da cui pure
dipendeva
la
sua
salvezza. Il secondo è
tutto
l’opposto:
un
linguista di professione,
che padroneggia decine
di lingue e dotato di
un’eccezionale facoltà di
analisi. Ci sentiamo tutti
a disagio quando i
personaggi
di
un
romanzo si comportano
come
degli
idioti,
pensiamo che al loro
posto faremmo meglio,
ma
non
possiamo
pensare
niente
del
genere riguardo a Budai:
sfidato sul suo terreno,
hapiùstrumentiedèpiù
abile della stragrande
maggioranza di noi, il
che non gli impedisce di
incorrere
in
un
fallimentodopol’altro.È
unodeipuntidiforzadel
libro che il protagonista
sia così industrioso, così
combattivo, che esplori
in modo esaustivo tutte
lepossibilitàdicavarsela
– ovvero di capire
qualcosa,anchesolouna
parola,dellalinguachesi
parla attorno a lui – e
che,nonostanteiprodigi
di metodo che mette in
campo, l’oggetto del suo
studio gli rimanga così
ostinatamenteoscuro.
Un’altra
grande
differenzatraidueèche
lastoriadiAndrásToma
è vera, mentre quella di
Budai si svolge non
soltanto nella finzione,
ma in un universo
parallelo, un paese di
fantasia che sfugge alle
leggi
del
realismo
almeno quanto le isole
dovefinisceilGulliverdi
Swift. Il libro non è
molto lontano, va detto,
da quei deprimenti film
d’animazione dei paesi
dell’Est, tanto in voga
negli anni Sessanta e
Settanta,incuisivedeva
un omino con la
bombetta aggirarsi fra
moltitudini
dallo
sguardo vacuo in una
metropoli
tentacolare
dove tutte le vie si
assomigliavano.
Quei
film avrebbero dovuto
illustrare
l’angoscia
dell’uomo moderno, la
disumanizzazione delle
città, e nel dibattito che
seguiva c’era sempre
qualcuno
che
pronunciava con gravità
l’aggettivo «kafkiano». A
sottrarre Epepe a questo
cliché sono la precisione
e il rigore con cui sono
riferiti i tentativi di
evasione di Budai, e
l’esultanza
che
si
intuisce nell’autore a
mano a mano che
strutturalastoriaesfida
il lettore a coglierlo in
fallo.
Per
trovare
qualcosa che ricordi
questa esultanza non
bisogna cercare negli
epigoni di Kafka, ma
piuttosto
nel
meraviglioso film di
Harold
Ramis,
Ricomincio da capo.
Stesso
soggetto
da
incubo,
privo
di
qualunque
giustificazionerazionale:
unuomobloccatoinuno
squallido paesino rivive
senza fine la stessa
giornata. Stesso modo
esaustivo,
quasi
matematico di esplorare
tutte le conseguenze del
postulato.
Stessa
ebbrezza narrativa. La
differenza è che gli
sceneggiatori
di
Ricomincio da capo,
nutriti a un tempo di
fiabe e di convenzioni
hollywoodiane,
si
traggono
d’impiccio
facendo
trionfare
l’amore,mentreilpovero
Budai perde Epepe, di
cui, colmo di sventura,
nonènemmenosicurosi
chiami Epepe – né Bebe,
néDiedie,néEtietie...
Strano
libro,
comunque,
se
nel
tentativo di collocarlo
ricorro da una parte a
una delle storie vere più
disperate di cui sia mai
venuto a conoscenza,
dall’altra
a
una
commediafantasticaalla
Frank Capra. Strano
libro, che stona nella
produzione del suo
autore al punto che si è
tentati di chiedersi: «Ma
che gli è preso?». Di
questaproduzione,perla
verità, il lettore francese
conosce assai poco,
poichésonostatitradotti
solo altri due racconti:
Automne à Budapest è
una rievocazione sottile
e relativamente audace
della rivoluzione del
1956 e della sua
repressione a opera dei
carri armati russi; L’Âge
d’or è una commedia
agra sugli amori di un
giovane
dongiovanni
ebreo, nascosto in un
edificio di Budapest nel
dicembre del 1944,
mentre
i
sovietici
assediano la città e il
partito filonazista delle
Crocifrecciateviimpone
ilterrore.1Aquell’epoca,
come ho appreso dalla
figlia
e
traduttrice
Judith, lo stesso Ferenc
Karinthyavevadisertato
e si era imboscato in un
ospedale di Budapest
dove, per giustificare
quasi un anno di
permanenza, subì non
meno
di
quattro
operazioni del tutto
immotivate ma innocue:
tonsille,
appendice,
adenoidi ... la quarta
Judith non ricorda più
quale sia. Dal padre
Frigyes Karinthy, uno
dei più famosi scrittori
ungheresi fra le due
guerre, Ferenc aveva
ereditatounavisionedel
mondo umoristica e
distaccata,
che
bilanciavalaserietàdella
sua attività sportiva.
Campione di nuoto e di
pallanuoto da giovane, è
stato poi allenatore di
uno dei più importanti
club dell’Ungheria, e
infine
arbitro
internazionale, cosa che,
oltre
agli
impegni
letterari, lo ha fatto
viaggiare in tutto il
mondo. Ha condotto
giochi
radiofonici,
pubblicato decine di
romanzi e pièce teatrali,
tutti
di
ispirazione
realistica.
Comunista
fino al 1956, si è poi
astenuto da qualunque
presa
di
posizione
politica limitandosi a un
ruolo di osservatore
ironico. Non voleva a
nessuncostoesiliarsidal
suo paese, e soprattutto
dallasualingua–benché
come Budai ne parlasse
molte altre. È morto nel
1992elesueopere,come
quelle di suo padre, per
quanto
in
misura
minore, continuano a
essere lette in Ungheria.
Eccoilpocochesodilui,
e onestamente, se al
ritorno da un viaggio in
Giappone non avesse
scritto Epepe, non avrei
alcun motivo di saperlo.
MahascrittoEpepe.
L’hoappenarilettoper
scrivere
questa
prefazione e mi accorgo
che è la seconda volta.
Intendo: che lo rileggo,
perciòèlaterzavoltache
loleggo.Nonsonomoltii
libri che si leggono tre
volte in cinque anni. Mi
sono divertito, per i
cinque che sono appena
passati, a stilare la mia
lista: Ethan Frome di
Edith
Wharton,
Preghiera per Černobil’ di
Svetlana
Aleksievicč,
AusterlitzdiW.G.Sebald,
Autobiographie de mon
père di Pierre Pachet,
Morire dentro di Robert
Silverberg. Questi libri
hanno in comune una
tonalità cupa e anche
desolata.
I
due
americani, Wharton e
Silverberg, raccontano
storie
di
solitudine
strazianti ma senza
riflesso nella storia
collettiva. Gli europei,
invece, descrivono più o
meno direttamente gli
esperimenti sul genere
umano che sono stati
condotti su grande scala
nell’Europa del secolo
scorso. Il romanzo di
Ferenc Karinthy rientra
nella narrativa pura,
ammesso che una cosa
simile esista: narrativa
da orologiaio, ludica,
chiusa
sul
proprio
risultato. Ma anch’esso
affonda le sue radici in
ciò che Georges Perec
chiamava«l’histoireavec
une grande hache».2
Sonostatolìlìperbarare,
diecirighesopra,nelfare
l’elenco
delle
mie
riletture recenti, per
includervi dei libri che
non ho letto tre volte
negliultimicinqueanni,
ma che avevo voglia di
nominare come si ha
vogliadinominarequelli
che si amano. Pensavo a
W o il ricordo d’infanzia,
e all’improvviso penso, e
mi pare assolutamente
certo,cheaPerecsarebbe
piaciutodamattiEpepe.
1. Presso Adelphi è in
corso la traduzione del
secondo[N.d.T.].
2. Hache al maschile
significa
«acca»,
al
femminile «ascia, scure»
[N.d.T.].
EPEPE
Aripensarciinseguito,
non può che essere
andata
così:
nella
confusione dello scalo
Budai
deve
aver
sbagliato uscita, è salito
suunvolodirettoaltrove
e per qualche motivo
l’equivoco è sfuggito
anche
al
personale
dell’aeroporto.
A
posteriorinonsièpotuto
neppure chiarire verso
doveeperquantotempo
abbia volato, perché non
appena i motori hanno
cominciato a girare lui
ha reclinato lo schienale
e si è assopito. Era
esausto per la mancanza
di riposo dei giorni
precedenti,
aveva
sbrigato una gran mole
di lavoro, fra cui la
relazioneperilcongresso
di linguistica a Helsinki,
doveeradiretto.Durante
il volo lo avevano
svegliato una volta sola
per servirgli il pranzo,
poi
si
era
riaddormentato, forse
per dieci minuti, forse
dieci ore, forse più.
Oltretutto era senza
orologio, perché aveva
intenzione
di
comprarsene uno là e al
ritorno
non
voleva
presentarsi alla dogana
condueorologi;cosìnon
aveva la minima idea di
quanto fosse lontano da
casa. Si accorse di non
essereaHelsinkisolopiù
tardi, quando arrivò in
città; all’inizio ignorava
dove
si
trovasse.
All’aeroportoeranosaliti
sul pullman, faceva
freddo, era già buio, una
sera o notte di vento, e
lui
era
ancora
insonnolito. Il veicolo
fermò varie volte, molti
scesero; Budai era già
stato a Helsinki, ma ora
scrutava
invano
l’oscurità alla ricerca di
qualche palazzo noto o
del mare. A una fermata
scesero tutti, e il
conducente fece cenno
anche a lui. Si ritrovò
sotto
una
tettoia,
all’ingresso
di
un
albergo, circondato da
una folla di persone che
tiravano da ogni parte
trascinandolo via dai
suoi
compagni
di
viaggio, e gli ci volle un
po’perliberarsidaquella
calca. Un grasso usciere
in pelliccia e con un
berrettobordatod’orogli
rivolse un solerte saluto
militareespinselaporta
avetri,maquandoBudai
gli parlò in finlandese
quello non parve capire,
rispose in una lingua
sconosciuta, gli indicò la
hall e non ci fu tempo
per altri chiarimenti
perché tutti premevano
perentrare.
Anche alla reception
dell’albergo
c’erano
molte persone in attesa.
Budaidovettemettersiin
coda
e
quando
finalmente si trovò
davanti al portiere, un
uomo con i capelli grigi
in uniforme scura, alle
sue spalle una famiglia
chiassosa e carica di
bagagli, composta da
padre, madre e tre
bimbetti
agitati,
cominciòapressarlocon
impazienza e perfino a
urtarlo: a quel punto
successe
tutto
rapidamente, quasi suo
malgrado.Parlòdinuovo
in finlandese, ma il
portiere non lo capiva,
alloraprovòininglese,in
francese, in tedesco, in
russo, senza successo: il
portiere
rispose
in
un’altra lingua, che
Budai non aveva mai
sentito.
Mostrò
il
passaporto, il portiere lo
prese, sicuramente per
registrareisuoidati,egli
diede
una
chiave
attaccata a una sfera
d’ottone. Tra le pagine
del passaporto Budai
aveva
infilato
un
assegno di viaggio in
dollari,lasuadiariaperil
soggiorno, il portiere
prese anche quello, girò
la manovella di una
calcolatrice manuale e,
lettoilrisultato,compilò
in fretta un piccolo
modulo già timbrato, un
titolodicreditoinvaluta
locale, accompagnando i
suoi gesti con un fiume
di parole. Budai cercò di
protestare perché non
aveva intenzione di
cambiare l’assegno, ma
non riuscì a farsi capire,
e alle sue spalle la
numerosa e strepitante
famigliaglistavasempre
più
addosso,
sventolando fogli in un
crescendo
di
strilli
infantili,
mentre
il
portiere gli indicava di
andareallacassa;fucosì
che, vedendo che era
inutile insistere, lasciò
loro il posto e si diresse
versolosportello.
Anche lì c’era una
lungacodacheavanzava
a passo di lumaca; si
mise in fila, sempre più
infastidito,poichéoragli
sarebbe
toccato
sistemare
quella
situazione assurda. Le
rapide frasi del cassiere
glisuonaronoestranee,e
non ebbe il tempo di
spiegarsi neanche qui –
inognicasononavrebbe
saputochecosaspiegare,
einchelingua.Ricevette
un fascio di grandi
banconote nuove di
zecca, qualcuna più
piccola e sgualcita e una
mezza
manciata
di
spiccioli; si ficcò il tutto
in tasca senza badarci
troppo.Eraunafaccenda
seccante e al tempo
stesso
ridicola,
e
cominciò a riflettere su
cosa
potesse
essere
realmente
successo.
ForseHelsinkinonaveva
accordato all’aereo il
permesso di atterrare a
causa del cattivo tempo
ederanofinitiinun’altra
città? Ma in quel caso gli
avrebbero consegnato il
bagaglio, mentre lui
aveva con sé soltanto la
borsa
che
aveva
sistemato
nella
cappelliera.
A
ben
vedere, l’unica cosa che
poteva essere accaduta è
che al momento dello
scalo
fosse
salito
sull’aereo sbagliato e, se
era andata così, la sua
valigia era approdata
senza di lui a Helsinki
come
indicava
il
biglietto, ma – si accorse
in quell’istante – non
aveva più neppure il
biglietto, lì per lì non
ricordava se qualcuno
gliel’avesse
ritirato,
all’aeroporto o altrove.
Aveva lasciato a casa, in
un cassetto, la carta
d’identità e le altre
tessere, e si ritrovava
privo
di
qualsiasi
documento. Eppure era
la cosa che meno lo
inquietava, in qualche
modo tutto si sarebbe
risolto, l’essenziale era
arrivare a Helsinki. Ma
prima doveva spiegare a
qualcunodadoveveniva
e come fosse capitato là,
e bisognava trovarlo,
questo qualcuno, per
esempio alla sede locale
della compagnia aerea e,
certo, anche questa
andava trovata. Davanti
alla reception la fila era
addirittura più lunga, e
lui non aveva voglia di
rifarelacoda;tantomeno
agli altri sportelli, che
non riusciva a capire a
cosafosserodedicatiese
potevano servire per
chiarimenti
e
informazioni. C’erano sì
delle targhette qua e là,
sui lunghi banconi, ma
erano
indecifrabili,
scritte in lettere mai
viste, come le parole che
accompagnavano
le
immagini e i manifesti
appesialleparetioititoli
dellerivisteedeigiornali
in vendita. Non poté
esaminarli perché la hall
era
completamente
invasa
da
una
moltitudineondeggiante
e tumultuosa: se solo
tentava di fermarsi
veniva
spinto
e
trascinato via. Perciò
preferì rimandare a più
tardi, avrebbe risolto le
cosealtelefono,dallasua
stanza.
Sullasferadellachiave
ricevuta alla reception
eraincisoilnumero921,
così immaginò che la
camera fosse al nono
piano. In fondo alla hall
trovò gli ascensori: ne
erano in funzione tre su
ottoedavantiaciascuno
stazionava un folto
gruppodipersone.Budai
aveva pensato di salire a
piedi, ma dopo essersi
guardato intorno in
cerca delle scale, senza
vederle, aveva deciso di
non abbandonare il suo
postonellacoda.Civolle
un quarto d’ora perché
arrivasse il suo turno e
quando salirono erano
così tanti che stavano
pigiati uno addosso
all’altro. A manovrare
l’ascensore era una
ragazza alta e bionda, in
uniforme blu, che di
frequente si rivolgeva ai
passeggeri in quella
incomprensibile lingua,
probabilmente
per
chiedere
dove
scendevano,
quindi
fermavalacabinaaquasi
tutti i piani. L’ascensore
erapresod’assalto,enon
appena si svuotava
risucchiava una nuova
ondata di passeggeri.
Vicino alla ragazza, sulla
parete della cabina,
girava
un
piccolo
ventilatore, e a Budai
venne da chiedersi come
fosse possibile lavorare
in una gabbia chiusa e
soffocante, con tutta
quella gente, magari per
ore, per un intero turno
dilavoro.Masiaffrettòa
scacciare quel pensiero:
non era affar suo, se ne
sarebbe andato al più
presto da quel posto, il
giorno
stesso,
si
augurava, o al massimo
l’indomani
mattina.
Prima del nono piano
fece un segno per
scendere, e insieme a
parecchi
passeggeri
sgusciò
fuori
dalla
cabina: lo spazio lasciato
libero
fu
immediatamente
riempito
da
nuove
persone. Nei corridoi,
invece,mentrecercavala
suacameranonincontrò
nessuno: si incamminò
in
varie
direzioni,
vagando, contando i
numeri avanti e indietro
in cerca della 921, ma
c’erasempreunangoloo
un
corridoio
a
interrompere
la
sequenza di porte. Per
ben due volte ripassò
dagli ascensori, e alla
fine se la trovò davanti,
in fondo a un remoto
corridoiolaterale.
La
camera
era
minuscola,
ma
l’arredamento
era
moderno e confortevole,
con un divano, un
armadio, uno scrittoio
provvisto di telefono e
abat-jour, un comodino
con una lampada da
lettura. Nella angusta
stanza da bagno c’erano
una
doccia,
un
lavandino,l’acquafredda
ecalda,ilwater,specchi,
asciugamani. Benché in
entrambi i locali ci fosse
un piacevole tepore, non
si vedevano caloriferi,
dovevano
essere
incassati nelle pareti.
Alle finestre c’erano
tapparelle e tende di
stoffa, e fuori, di fronte
all’albergo, si vedeva un
edificio simile, alto e
largo, punteggiato di
finestre illuminate e
buie. Un unico quadro
campeggiava su una
parete, un dipinto a olio
protetto
dal
vetro:
raffigurava un pendio
innevato con due abeti e
cerbiatti saltellanti sullo
sfondo. Accanto alla
porta c’era un foglio in
una cornicetta, forse le
tariffe o il regolamento
dell’albergo, scritto negli
stessicarattericheaveva
visto giù al pianterreno.
Non riconobbe il tipo di
alfabeto, ma certamente
non corrispondeva a
nessuno di quelli che
conosceva: non era né
latino né greco, non era
cirillico, né arabo o
ebraico,enonsitrattava
neppure di caratteri
giapponesi, cinesi o
armeni – un tempo,
all’università,
aveva
avuto modo di studiare
qualcosa anche di quelle
lingue. Qua e là, però,
disseminati in quella
scrittura
totalmente
sconosciuta, spiccavano
dei numeri arabi. Allora
cercò il denaro ricevuto
in cambio dell’assegno;
con le scritte non
approdò a nulla, ma
sotto i soliti paesaggi o
ritratti
riconobbe
i
numeri: diciotto biglietti
da 10 nuovi fiammanti,
qualchealtroda1eda2,
e monete di diverso
valore. Ma era troppo
stanco e intorpidito per
proseguire nell’indagine
di quella faccenda, e
anchesporcoperillungo
viaggio.
Prese
l’occorrenteperlavarsie,
già che c’era, tirò fuori
metà delle cose che
aveva nella borsa. Per
fortuna, per evitare che
la valigia superasse i
venti chili, lui e sua
moglie avevano stipato
parecchia roba in quella
borsa di tela con la
cerniera
lampo:
biancheria,
pigiama,
pantofole, il nécessaire,
un paio di scarpe, un
pullover, due bottiglie di
vino da regalare e altre
cose...
Strano
che
all’arrivo in aeroporto
non avesse pensato alla
valigia; è pur vero che
non ne aveva avuto
modo, tra la fretta, il
sonno e la confusione di
quando
li
avevano
caricati sul pullman. O
forse aveva creduto che
la valigia fosse nel
bagagliaio.
Si fece una doccia, si
rase
davanti
allo
specchio, indossò della
biancheria pulita; quella
usata la lavò subito,
com’era sua abitudine, e
la appese ad asciugare
sui rubinetti e sul
braccio della doccia. Poi
si mise allo scrittoio e
fece qualche tentativo al
telefono: in camera non
eradisponibileunelenco
nénientedelgenere,così
compose dei numeri a
caso, più volte, finché
non trovò qualcuno
all’altro capo del filo.
Risposero in molti, voci
maschiliefemminili,ma
in qualunque lingua
parlasse e per quanto
ripetesse
e
perfino
urlasse
la
parola
informazione tutti si
esprimevanonellastessa
incomprensibile
maniera, una sequenza
di suoni chioccianti e
apparentemente
inarticolati: ebebe o
pepepe, etete o cose
simili; il suo orecchio
fine,
addestrato
a
cogliere le varianti e le
sfumature più sottili,
non
riusciva
a
distinguere altro che un
borbottio gracchiante.
Alla fine sbatté giù la
cornetta con un risolino
nervoso, seccato di non
aver concluso nulla. E
per giunta era affamato,
chissà quante ore erano
che non mangiava. Si
vestì, chiuse la stanza e
scesedabasso.
L’ascensorista questa
volta era una donna
anziana, non la ragazza
bionda, o forse era
un’altracabina,esempre
stracarica.
Nell’atrio,
dietroalbanconevideun
nuovo portiere al posto
diquellocoicapelligrigi,
ma la fila in attesa non
era diminuita. Neppure
questo portiere capì
Budai, né Budai capì lui;
era inconcepibile che in
un albergo così grande
impiegassero personale
così incompetente, che
non sapeva parlare
nessuna delle lingue più
diffuse nel mondo. Le
persone cominciarono a
rumoreggiare, dal fondo
della coda gli gridarono
qualcosa, gesticolavano,
gli
indicavano
di
mettersi alla fine del
serpente umano perché
li
aveva
superati:
confuso, Budai posò la
chiave sul bancone e si
allontanò.
Nella hall la folla non
si era diradata, e tra urti
e spintoni si aprì un
varco fino alla porta a
vetri. Il grasso usciere in
cappotto di pelliccia e
berretto con il nastro
dorato accennò anche
stavolta
il
saluto
militare.
Fuori,
il
marciapiede era gremito
diunamoltitudinechesi
spandeva e turbinava in
ogni direzione. Tutti
andavano di fretta,
trottando, sgomitando
per fendere la calca e
malmenandosi;
una
vecchinacolfazzolettoin
testa che si trascinava
accantoaluiglisferròun
calcio alla caviglia, e fu
colpito più volte sulla
schiena e sul fianco.
Sullacarreggiataiveicoli
avanzavano in colonne
dense,
frenando
e
ripartendo di scatto,
tantocheeraimpossibile
attraversare,
in
un
ingorgo generale con
nervosieincessanticolpi
diclacson:videunagran
varietà di automobili e
camion, furgoni da
trasporto, filobus e
autobus,
ma
non
riconobbe
nessuna
marca
o
modello,
nemmeno
stranieri.
Doveva essere l’ora di
punta, e da qualsiasi
partetentassediaggirare
la baraonda, prima a
destra, poi a sinistra
dell’uscitadell’albergo,si
trovava davanti sempre
la stessa congestione.
Allora svoltò in una
traversa: anche lì il
marciapiede era invaso
di persone e la strada
bloccata da fiumi di
macchine. Riuscì a farsi
largo con fatica. Certo,
non voleva nemmeno
allontanarsi
troppo,
perché
temeva
di
perdersi e non ritrovare
lastradaperl’albergo.
In alto sfolgoravano
insegne luminose e la
maggiorpartedeinegozi
era
ancora
aperta.
Vendevanoditutto,nelle
vetrinec’eranoarticolidi
ogni tipo: abiti, scarpe,
stoviglie,
fiori,
elettrodomestici,tappeti,
mobili,
biciclette,
profumi, articoli di
plastica... queste le cose
chevidesolopassando.E
ovunque una marea di
clienti, le code si
snodavano dentro i
negozi e spesso si
prolungavano fino in
strada. Particolarmente
assediate erano due
gastronomie che Budai
superò in quel breve
tragitto, e con un grosso
sforzo: sul marciapiede
la calca era quasi
impenetrabile,
chi
restavafuoridalnegozio
si
assembrava
all’ingresso
disponendosi in colonne
compatte. Riuscire a
comprare qualcosa gli
parve
un’impresa
disperata. La fame però
lo tormentava, e fu con
sollievo che scorse un
ristorante poco più in là,
dietroallegrandivetrine
videtavoliapparecchiati,
clientichemangiavanoe
camerieri
in
giacca
bianca. Purtroppo c’era
la coda anche lì, e molto
lenta, perché lasciavano
entrare la clientela col
contagocce,
tante
persone
quante
ne
uscivano.
Con
discrezione, si mise a
osservare quelli che
stavano in fila insieme a
lui. Ce n’erano sia
bianchicheditantealtre
razze: due ragazzi neri
come il carbone e coi
capelli crespi, più avanti
una donna dalla pelle
gialla con gli occhi a
mandorla in compagnia
della sua bambina, dei
tipi alti dall’aspetto
germanico, un uomo
grasso,
mediterraneo,
con il viso lucido di
sudore,inuncappottodi
cammello, malesi con la
pelle scura, facce dai
lineamenti
arabi
o
semitici, una ragazza
lentigginosa coi capelli
ramati in pullover blu e
munita di racchetta da
tennis: sarebbe stato
difficile individuare una
razza o un colore
predominante, per lo
meno là, davanti al
ristorante.
Dopo quaranta minuti
buoni
di
attesa
finalmente lo fecero
entrare; consegnò il
soprabito al guardaroba
e in cambio gli diedero
un numero. I tavoli
erano tutti occupati, e
impiegò parecchio a
trovare un posto in
fondoallasala.Domandò
in inglese il permesso di
sedersi, ma nessuno lo
capì:alzaronolosguardo
daipiatticonespressione
vacua, poi continuarono
rapidiamangiare.Anche
lì avevano tutti fretta.
Passò un’altra mezz’ora
prima che arrivasse il
cameriere, certo, era pur
vero che lo chiamavano
da ogni parte e non era
mai libero. Sparecchiò
sotto il naso di Budai,
tolse piatti e bicchieri
usati e li sostituì con un
coperto pulito, poi gli
mise davanti il menu e
Budai non riuscì a
decifrarne neppure una
lettera.Cercòdispiegarlo
all’anzianocamerierema
questi si strinse nelle
spalle,farfugliòqualcosa
di incomprensibile e se
ne andò, richiamato
altrove; Budai si rivolse
di nuovo ai suoi
compagni di tavolo,
parlò loro in sei o otto
lingue, ma senza il
minimo risultato, non
davano nessun segno di
capire e a malapena gli
badavano. Era sempre
più nervoso, aveva lo
stomaco stretto dalla
fame e dalla tensione, e
sul tavolo non c’era
nemmenounpo’dipane.
Il cameriere tornò dopo
una ventina di minuti,
portando al suo vicino
una bella porzione di
pollo arrosto con un
ricco contorno, e benché
Budai
tentasse
di
comunicare a gesti che
voleva proprio la stessa
cosa quello si allontanò,
senza lasciar intendere
se
aveva
recepito
l’ordinazione oppure no.
Nel frattempo nuovi
clienti presero il posto
dei
precedenti,
il
cameriere
rispuntò
all’altro capo del tavolo,
sparecchiò,
servì
pietanze
e
alcuni
pagarono il conto: di
Budai non si curò e si
diresserapidamenteaun
altro tavolo. Budai gli
fece pss pss e si sbracciò
finché quello non tornò,
mafusolopergracchiare
qualcosa fra lo stizzito e
l’indignato, scandendo
con foga le parole; se
domandasse pazienza o
dicesse che non poteva
occuparsi di lui, era
impossibile
capirlo.
Budai ormai faticava a
dominarsi, si agitava
sulla sedia, non sapeva
più cosa fare, doveva
aspettare o che altro?
Quando il cameriere
riapparve continuando a
ignorarlo anche questa
volta, picchiò la mano
sultavolo,spostòlasedia
con un calcio e si
allontanò esasperato. Al
guardaroba c’era la coda
per ritirare il soprabito
perché il viavai era
aumentato, e Budai
avrebbe voluto prenderli
a spintoni dalla rabbia.
Pagò l’addetto con una
monetina: il vecchio
doveva
esserne
soddisfatto
perché
borbottò qualcosa che
sembravaungrazie.
Già, ma non aveva
ancora mangiato, ormai
non riusciva a pensare
ad altro. Per strada
proseguì
sgomitando
nella ressa che non
diminuiva, si fece largo
con le mani e coi piedi
fino a quando, a prezzo
dicalciepugni,quasidei
corpo a corpo per
guadagnare
qualche
metro, dopo una lunga
ricerca, più o meno
ottocento metri oltre il
ristorante si imbatté in
quella che pareva una
tavola calda. Il locale era
gremito di persone in
fila,echissàperchecosa;
si mise in fondo a una
coda
qualsiasi.
Procedevano piuttosto
lentamente; solo più
avanti scoprì che il
serpente umano faceva
capo a una cassa dove si
pagava, veniva rilasciato
uno scontrino e di lì la
coda proseguiva nella
vasta sala fino al
bancone
dal
lato
opposto,
dove
distribuivano i piatti.
Quando arrivò alla cassa
la donna in camice
azzurro lo guardò in
attesa: Budai precipitò
nell’imbarazzo e non
riuscì a proferire alcun
suono,
ma
tanto
qualsiasi cosa avesse
detto non sarebbe stato
capito. La cassiera lo
redarguìinquellalingua
sconosciuta,einrisposta
lui balbettò qualche
parolainspagnolo,senza
sapere perché. Ma le
persone dietro di lui
avevanogiàcominciatoa
rumoreggiare,
brontolandoperiltempo
che ci metteva, facendo
tintinnare le monete
nella
mano,
lo
incalzaronoelospinsero
via:auntrattosiritrovò
oltre la cassa e senza lo
scontrino. Il cliente
successivo
era
già
davanti alla donna in
camice azzurro, era
impossibile
rientrare
nella fila, erano troppo
ammassati, e comunque
non
gliel’avrebbero
permesso,
avrebbe
dovuto rimettersi al
terminedelserpente.Era
assurdo rimanere in
coda senza scontrino,
non l’avrebbero servito,
ma non aveva altra
scelta, e si lasciò portare
dal flusso. E quando alla
fine arrivò al bancone,
dove
ognuno
consegnava il foglietto
ricevuto alla cassa al
personalecolcappelloda
cuoco e otteneva in
cambio cibo e bevande,
solo lui gesticolava a
mani vuote, tentando
inutilmente di spiegarsi.
Senza scontrino non gli
diedero retta, gli fecero
passare sopra la testa e
sotto il naso piatti pieni
di arrosti e di pasticci: a
quelpuntopestòipiedie
tirò un pugno nell’aria –
chi gli garantiva che
dopo un’altra fila ce
l’avrebbefatta?
Si trascinò in strada,
abbacchiato e avvilito, e
aveva ormai perso ogni
speranza
di
cenare
quando all’angolo scorse
una
vecchietta
che
vendevacaldarroste,con
appena tre o quattro
persone che aspettavano
attorno al braciere di
ghisa. Impiegò mezzo
minutoperarrivarci,ma
anchequinonglivalsero
la sua professione di
linguista e la sua
conoscenza più o meno
buona di almeno venti
lingue; per farsi capire
dovettericorrereaisegni
come un sordomuto.
Comprò
tutte
le
castagne,
una
quarantina, non ne
aveva mai prese così
tante. Pagò con una
banconota di piccolo
taglio e la vecchietta gli
diede perfino il resto. Le
mangiò subito, roventi,
intanto che camminava,
le divorò avidamente,
scottandosi la lingua, e
mentre mangiava gli
vennero le lacrime agli
occhi, provò pietà per sé
stesso, si sentiva così
sperduto ed estraneo in
quella città. Via, via: era
il suo unico pensiero,
tornare
in
albergo,
prendere il bagaglio e
andarsene, al più presto,
in aereo, in treno, con
qualsiasi mezzo, pur di
non rimanere in quel
posto un giorno, un’ora
dipiù.
L’usciere gli spinse la
porta a vetri; al banco
della reception c’era un
altro tizio. Al termine
dell’immancabile
fila
Budai non riuscì a
spiegarsi
neanche
stavolta,invanoindicava
la sua chiave appesa fra
le altre, il portiere si
limitava a scuotere la
testa con aria un po’
annoiata.Allorascrisseil
numero della sua stanza
su un foglietto e così
ottenne la chiave della
921.
A
manovrare
l’ascensore
c’era
di
nuovo la ragazza alta e
bionda in divisa blu, lui
la salutò con un cenno
del capo, ma lei non lo
vide nemmeno, fissava
conariaassenteeassorta
oltre la sua testa, poi lo
spazio fra loro si riempì
di persone e lui poté
rivederla solo per un
attimo,quandouscì.
In camera scoprì di
avere il corpo pieno di
lividi ed escoriazioni, se
li era procurati nella
mischia, in strada, e
inoltre gli era piombata
addosso una grande
stanchezza; con un lieve
senso
di
allarme
constatò che non aveva
ancora concluso un bel
niente. Nel luogo da cui
proveniva e in quello di
destinazione,acasasuae
a Helsinki, forse non
immaginavano proprio
dove fosse finito. Ma la
vera assurdità era che
neppure lui ne sapeva di
più: al momento non
aveva la minima idea di
come ripartire, da che
partecominciare,conchi
parlare, quale prassi
seguire... Fu assalito da
una sensazione sinistra,
unoscurosensodicolpa,
il sospetto di aver
tralasciato qualcosa, di
non aver fatto quel che
andava fatto, ma erano
pensieri senza risposta.
Inpredaall’ansiasibuttò
di nuovo sul telefono
ostinandosi a comporre
numeri a caso: doveva
essere
notte
fonda
ormai, all’altro capo del
filo si sentiva squillare
ma risposero solo poche
vociassonnate,esempre
in
quella
lingua
singolare,
esotica,
inintelligibile, una sorta
dibalbettioinarticolato.
Per via della sua
professione Budai aveva
un acuto senso della
lingua: il suo campo era
l’etimologia, lo studio
dell’origine delle parole.
Nel corso del suo lavoro
si era occupato delle
lingue più disparate:
senza
contare
l’ungherese
e
il
finlandese,
naturalmente, tra le
lingue
ugrofinniche
aveva studiato il vogulo
el’ostiaco,poiconosceva
il turco, qualcosa di
arabo e di persiano,
nonché il paleoslavo, il
russo,ilceco,loslovacco,
ilpolacco,ilserbocroato.
Ma la parlata di quel
luogo non ricordava
nessuna di queste, e
nemmeno il sanscrito,
l’hindi, il greco antico o
moderno; e non poteva
essere
una
lingua
germanica, poiché Budai
sapeva
il
tedesco,
l’ingleseeancheunpo’di
olandese. Conosceva il
latino,
il
francese,
l’italiano e lo spagnolo,
masticava il portoghese,
il romeno, il ladino, e
avevanozionidiebraico,
armeno,
cinese
e
giapponese. La maggior
parte, ovviamente, le
conosceva soltanto per
iscritto,
avendole
studiate sui libri quando
si
era
occupato
dell’origine di certe
parole,
ma
era
abbastanza per rendersi
conto che quell’idioma
non
somigliava
a
nessunadiesse,eperciò,
in base al solo orecchio,
non era in grado di
comprendere a quale
gruppo
linguistico
appartenessero
quegli
edede,ghiaghiaghia–così
suonavano
all’incirca.
Andò a staccare il testo
incorniciato accanto alla
porta, e alla scrivania,
alla luce della lampada,
loesaminòconmaggiore
attenzione. Ma non
venne a capo di nulla,
non aveva mai visto
caratteri del genere,
tentò di leggerli in un
senso
e
nell’altro,
invano.
Non
capì
neppure se si trattava di
una scrittura alfabetica,
comelelingueeuropee,o
sillabica,
come
il
giapponese,
o
di
ideogrammi, come il
cinese,odiunascrittura
consonantica, come le
antiche
scritture
semitiche o l’aramaico;
di nuovo, non riuscì a
farsi una ragione dei
numeri arabi presenti
nel testo. Ma ormai era
talmente esausto che il
suo
cervello
non
ragionava più e preferì
rinviare
all’indomani
ogni chiarimento; si
spogliòesicoricò.
Aveva l’abitudine di
leggere una mezz’ora
prima di dormire, e si
accorse di non avere
nulla: i libri, gli appunti,
la relazione per il
congresso, era tutto
nell’altra valigia, quella
grande. Si rialzò, svuotò
la borsa, ma niente; si
stizzì per non aver preso
almeno un giornale o
una rivista sull’aereo. Si
rigirò a lungo nel letto,
senzaaddormentarsi,poi
decisediaprireunadelle
bottiglie di vino rosso
cheavevaportato.Provò
a cavare il tappo con la
lama
del
coltellino
tascabile, ma ottenne
solo di sminuzzarlo in
pezzi che spinse dentro
labottiglia.Nonpotendo
richiuderla finì per berla
tuttaapiccolisorsi,enei
fumi di un’ebbrezza
senzapensierisprofondò
finalmentenelsonno.
Il mattino dopo si
svegliò intontito e con il
malditesta;iltempoera
grigio ma non pioveva.
Dalla finestra chiusa
guardò giù in strada,
perfinodalnonopianosi
vedevalafollainbasso,il
flussoneroecontinuodi
veicoli e pedoni. Si
sentiva lo stomaco fuori
posto, aveva bevuto
troppovino,esispazzolò
i denti a lungo per
eliminare
il
sapore
sgradevole che aveva in
bocca. Fece una doccia,
strofinandosi il viso e la
fronte sotto il getto
d’acqua caldissima, si
asciugò energicamente
dallatestaaipiedi,conil
grande telo di spugna,
finoadarrossarelapelle.
In una tasca laterale
della borsa scovò un
panino al salame che gli
era sfuggito: l’aveva
certo messo lì sua
moglie, per il viaggio.
Poteva mangiarlo per
colazione,magariconun
tè, ma non c’era traccia
di un campanello per
chiamare la cameriera o
un inserviente. Forse
bisognava
usare
il
telefono, ma avrebbe
dovuto sapere quale
numerocomporreecosa
chiedere, insomma, si
sarebbe ritrovato nella
stessa situazione della
sera prima... Di colpo fu
preso dall’impazienza e
da una lucida voglia di
agire:
basta,
quell’assurdità
era
durata fin troppo, lui
aveva affari urgenti da
sbrigare a Helsinki, a
breve sarebbe iniziato il
congressointernazionale
di linguistica e, sia pur
con ritardo, doveva
arrivarci e tenere la sua
relazione. Riempì di
nuovo la borsa, la lasciò
pronta sul portavaligie e
si decise a scendere per
chiarire una volta per
tutte quella faccenda e
ripartire.
Agli ascensori c’erano
sempre
lunghe
file
d’attesa, e a giudicare
dalle
lucine
sulle
bottoniere
stavano
funzionandotuttieotto;
evidentemente
al
mattino il viavai era
moltointenso.Budainon
trovò le scale, o per lo
meno non le vide dopo i
corridoi, così si rassegnò
a mettersi in coda, nella
fila più esterna. Gli
ascensori
però
arrivavano di rado, per
interi minuti non si
sentivacheillorofruscio
dietroleportechiuse,su
e giù. E quando uno si
fermava ci entravano
solo in quattro o cinque,
perché le cabine si erano
già riempite ai piani
superiori – a quell’ora
scendevano tutti. Il
gruppochesisfoltivapiù
lentamenteeraproprioil
suo, da dieci minuti non
si aprivano le porte
automatiche; temendo
che l’ascensore avesse
sospeso il servizio, passò
nella coda accanto. Ed
ecco che l’altra fila si
mosse, mentre la sua si
bloccò,elepochevoltein
cui
l’ascensore
si
fermavalafrecciaaccesa
erasemprequellarivolta
verso l’alto; c’era da
impazzire.
Quando
approdò al pianterreno
Budai era ricoperto di
sudore, per la calca e la
rabbiarepressa.
Nella hall c’era lo
stesso affollamento del
giorno prima, forse di
più: capannelli di gente,
persone in fila, altri che
cercavano
di
attraversare la sala
sgomitando; non era
chiaro se fossero tutti
ospiti dell’albergo o
altrimenti che cosa ci
facessero lì. Iniziò ad
aprirsi un varco nella
ressa fino alla reception,
e gli occorse un sacco di
tempo,
forse
una
mezz’ora,
prima
di
trovarsi al cospetto del
portiere di turno. Era
nuovo, non l’aveva mai
visto, ma al pari degli
altri non capiva Budai e
rispondeva con lo stesso
incomprensibile
cicaleccio. Budai non
riuscìpiùadominarsi,fu
colto da un accesso di
collera e, rosso in viso,
picchiando la mano sul
banconepreseaurlarein
varielingue:
«Skandal,
ein
Skandal!...
C’est
un
scandale,
comprenezvous...?».
Gridòtuttoquelchegli
veniva
in
mente,
protestava
che
gli
restituissero
il
passaporto e il biglietto
aereo,volevaparlarecon
il direttore, pretendeva
che chiamassero un
interprete; si abbandonò
alle minacce, ripeteva
pass,
passport,
passaporto; la scenata
attirò l’attenzione e
molti gli si assieparono
intorno.
Il
portiere
allargava le braccia
perplesso,alloraBudaisi
sporse sopra il bancone,
afferrò
l’anziano
impiegato per le spalle e
cominciò a scuoterlo, a
urlargli in faccia. Senza
costrutto,
dato
che
questi non capiva una
parola, né gli altri
testimoni della scena
davano il minimo segno
di intendere. Erano lì ad
aspettare il loro turno e,
ormai
spazientiti,
premevano,
ognuno
interessato al proprio
caso;tuttofinìinniente,
come una bolla di
sapone, il portiere si
riaggiustò la giacca e
Budai si perse d’animo,
imbarazzato.Sitrattenne
ancora un momento,
cercando con lo sguardo
lo
schedario
o
l’armadietto
dove
potevano
essere
custoditiipassaporti,ma
non c’era modo di
oltrepassare il bancone
per raggiungere l’ufficio
della reception; provò
ancheunpo’divergogna
perilputiferiocheaveva
scatenato,
non
era
davvero nel suo stile. Si
rese conto che sarebbe
stato
penoso
e
soprattutto
inutile
esasperare la situazione,
e dopotutto neanche
quelli alle sue spalle
potevano restare là in
eterno.Così,dopoessersi
asciugato il collo e la
fronte, e essersi soffiato
il naso, cedette e in
silenzio, docilmente, si
lasciò
spingere
via,
ancora una volta senza
averconclusoniente.
Nella hall c’erano dei
grandi tavoli rotondi
circondati da poltrone;
una si era appena
liberata.Andòasedersie
chiuse gli occhi. Magari
tuttoquestononeravero
e lui si trovava già a
Helsinki, o ancora nel
suo paese, non si era
mossodacasa.Oppuresi
trovava là, ma ormai
eranovenutiasaperedel
suoinconveniente,dilìa
poco sarebbero arrivati,
si sarebbero scusati, gli
avrebbero spiegato; ogni
cosasisarebbechiaritae
sistemata. Forse era
questione
di
pochi
minuti, bastava contare
fino a sessanta, al
massimo fino a cento...
Ma quando riaprì gli
occhi vide la hall
dell’albergo e quella
massa di gente in
movimento, le scritte e i
manifesti
turistici
illeggibili, i paesaggi e le
gigantografie alle pareti
esullecolonne,igiornali
dai titoli misteriosi e
indecifrabili,
uomini,
donne, vecchi e giovani,
persone di ogni tipo e
natura. In quell’istante
gli passò davanti uno
strano
corteo
dall’aspetto esotico, una
specie di delegazione di
sacerdoti,
vegliardi
barbuti, per la maggior
parte di pelle scura,
vestiti con un lungo
caffettano
nero,
il
copricapo viola, cinture
colorateallavitaegrosse
catene d’oro al collo: la
folla si apriva con
rispettoalloropassaggio
mentre
incedevano
maestosi uno dietro
l’altro.
Si sforzò di mantenere
la calma: urla e strepiti
non conducevano a
nulla, questo era chiaro.
Provò a riorganizzare i
suoi
pensieri:
innanzitutto
doveva
recuperare il passaporto,
questa era la cosa più
urgente, e naturalmente
anche il biglietto aereo,
senza il quale non
sarebbepotutoandarené
a Helsinki né, dopo il
congresso, rientrare in
patria. Con i documenti
inmanosisarebbepreso
iltempodiscopriredove
si trovava, come c’era
finito,dichieralacolpa,
in che modo era stato
catapultato in quella
stupida avventura e così
via... Ma prima di tutto
dovevametterequalcosa
sotto i denti, poiché
aveva fatto una magra
colazione e lo stomaco
glielo chiedeva con
prepotenza,naturaleche
poi fosse nervoso. Non
era
possibile
che
all’interno dell’albergo
non
ci
fosse
un
ristorante o qualcosa di
simile.Decisedicercarlo.
Affrontò la bolgia e
fece il giro della sala
d’ingresso,
che
era
vastissima, cento o
centocinquanta metri di
lunghezza e la metà in
larghezza. Da un lato
della sala si vendevano
souvenir e altri oggetti:
si mise a osservare le
bambole, le statuine, i
cofanetti
dipinti,
braccialetti, spille e altre
cianfrusaglie,
le
macchinefotografichedi
marca sconosciuta, i
binocoli da teatro. Prese
un portachiavi da un
ripiano di vetro, c’era il
disegno di un bastione o
di una torre con una
scritta, probabilmente si
trattava
di
un
monumento
caratteristico della città:
edificio ignoto, scritta
indecifrabile.
Ciò
nonostante decise che,
prima di andarsene, se
ne sarebbe comprato
uno, in ricordo di
quell’assurda
storia,
della notte trascorsa in
quelposto.
Non riuscì però a
trovare il ristorante, pur
avendo perlustrato con
attenzione tutta la hall e
perfino
chiesto
indicazioni a un signore,
ripetendo
le
parole
restaurant
e
buffet;
siccome
quello
si
limitava a guardarlo con
ariaottusaBudaimimòil
gesto
di
mangiare,
portando la mano alla
bocca. Allora l’uomo, un
tizio allampanato col
naso adunco, sembrò
capire e alzando la voce,
unavoceaspra,glichiese
qualcosa che suonava
come:
«Patiaghiaghiabbu?
Vevetereplibobo...?».
Ma può anche darsi
chedicessetutt’altro–in
quella città articolavano
le parole in una maniera
così strana che a Budai
riusciva
impossibile
scriverle,
benché
conoscesse
alla
perfezione e usasse
regolarmente l’alfabeto
fonetico con cui i
linguisti annotano i più
vari tipi di suoni e le più
sottili sfumature di
pronuncia.
Il
tizio
berciava
con
tono
sgradevole
e
quasi
provocatorio, ora l’aveva
pure afferrato per il
bavero della giacca e
indicava in alto, non era
chiaro verso che cosa.
Budai avrebbe voluto
andarsene, ma quello
non lo mollava, lo
tratteneva gesticolando
senza smettere di fare
quei versi chioccianti,
tanto che alla fine Budai
dovette divincolarsi con
laforza.
Fucongrandesorpresa
che più tardi scoprì una
scalinata
all’angolo
opposto della hall: una
larga scala con la
balaustra di marmo,
ricoperta
da
una
passatoia rossa, che
salivaalpianorialzato,o
primo
piano,
e
conduceva
a
un
corridoio. In fondo al
corridoio c’era un’ampia
porta a vetri, ma
entrambiibattentierano
stati
staccati
e
appoggiati al muro; al di
là della porta, si apriva
un vasto locale con il
soffitto
a
volta,
ingombrodiimpalcature
sullequalisimuovevano
su
e
giù
alcuni
imbianchini,lanciandosi
grida. Al centro, per
quanto poté scorgere tra
i ponteggi, sembrava
esserci una statua o una
fontana ricoperta da un
telo, da un lato un
enorme
bancone
e,
dietro, una pedana con
un pianoforte protetto
da un drappo; in un
angolo,
accatastati,
tavoli e sedie in gran
quantità;eingiroschizzi
di pittura, e malta e
calcinaccisulpavimento.
Non c’era alcun dubbio,
era
il
ristorante,
temporaneamente
chiuso per i lavori di
imbiancatura.
Adesso
capì che cosa cercava di
dirgliiltizioallampanato
e perché indicava con
insistenza verso l’alto.
Uno degli operai, con la
tuta sporca, il secchio in
mano e un cappellino di
carta in testa, passò
accanto alla porta: Budai
tentòdichiedereanchea
lui, a gesti, dove poteva
trovare da mangiare.
L’uomo strizzò gli occhi,
mormorò qualcosa di
incomprensibile, scosse
la testa e disegnò con il
braccio un ampio arco
che forse voleva dire: da
nessuna parte in tutto
l’albergo.
Era davvero il colmo
della sfortuna: dopo
l’infeliceescursionedella
sera prima il solo
pensiero di uscire in
strada gli ripugnava. Ma
mangiare
bisognava,
calcolòchedovevaessere
quasi mezzogiorno; in
mancanza dell’orologio
era il suo stomaco a
segnare il tempo, e lo
faceva senza tregua... Si
ripromise di mantenere
la calma, non importa
doveoquantoglisarebbe
toccato aspettare. In
genere gli aerei partono
lamattinapresto,quindi
ormai il volo mattutino
per Helsinki era perso.
Voleva
mangiare
a
sazietà, almeno una
volta, ed era disposto a
dedicare a quello scopo
l’intera mattinata; poi si
sarebbe informato sui
volipomeridianioserali.
Tornòapassolentogiù
nella hall e, dopo aver
pazientemente atteso in
coda
davanti
all’ascensore, si fece
portarealnonopianoper
prendere il soprabito.
Benché la notte prima
avesse trovato senza
difficoltà la sua stanza,
questavoltasismarrìper
i corridoi e vagò in ogni
direzione finché non si
imbatténella921.Eradi
fronte alla porta quando
sentìsquillareiltelefono,
girò in fretta la chiave
nella
serratura,
si
precipitòdentro.Nonera
nemmeno entrato che
l’apparecchio tacque e,
sollevata la cornetta, udì
il solito ronzio, che
sembrava il tubare di un
piccione... Si domandò
chi poteva essere a
chiamarlo:forseavevano
scoperto
cosa
era
successo, si erano messi
a cercarlo e l’avevano
rintracciato, e adesso
stavanogiàprocedendoa
farlo rientrare? Sedette
sulletto,immobile,nella
speranza
che
ricominciasse a suonare,
poi si innervosì, si coprì
la testa di pugni, con
rabbia: perché non era
tornato mezzo minuto
prima?Iltelefonotaceva,
Budai lo fissò a lungo
pregando che squillasse,
ma la fame non gli dava
pace; uscì dalla stanza,
rientrò,
guardò
l’apparecchio
per
qualche minuto, e poi si
deciseauscire.
Allareceptionsilimitò
a consegnare la chiave
sulbanco,infilandositra
le
persone;
un’operazione semplice,
che pareva consentita.
Per strada il traffico non
era
affatto
diverso
rispetto
alla
sera
precedente, si trovò in
mezzo
alla
stessa
quantità esorbitante di
veicoli e pedoni, tra
clacson,ressaeurti:non
riusciva a spiegarsi dove
sidirigevanotutticosìdi
fretta
a
quell’ora,
tornavano dal lavoro
oppure
ci
stavano
andando, e in ogni caso,
chi era tutta quella
gente, da dove veniva
quella
piena
inarrestabile di esseri
umani?... Nessuno si
curava di lui, non lo
degnavano
di
un’occhiata, ma se si
distraeva per un istante,
se solo si fermava a
guardarsi
intorno,
veniva immediatamente
preso a spintoni e
faticava a rimanere in
piedi. Capì che se voleva
ottenerequalcosainquel
luogo doveva ricorrere
anche lui alla forza, alle
spallate e alle gomitate.
Masiaffrettòascacciare
unpensierocosìsubdolo:
da quel posto lui non
voleva proprio niente, se
nonmangiareasazietàe
andarsene al più presto,
adieu,finedellastoria.
Il tempo era nuvoloso
e freddo, quasi si gelava,
e soffiava un vento
fastidiosoetenace;alzòil
bavero del cappotto e si
calcò il cappello sulla
fronte. Si avviò nella
direzione opposta a
quelladelgiornoprimae
decise, già che era
capitato lì, di osservare
ciò che lo circondava.
Lungo la strada vide
palazzi vecchi e nuovi,
grattacieliebassecasette
a un piano, baracche di
legno, casermoni di
quattro o sei piani dalle
facciate scrostate, e poi
una torre di vetro e
cemento armato, che si
slanciavaversoilcielo,e
poco
dopo
un’altra
uguale, in costruzione:
non aveva punti di
riferimento, non sapeva
se quello era il centro
città o la periferia.
Guardòlastradaconpiù
attenzione, e nel traffico
tumultuoso
che
somigliavaaunfiumein
piena individuò tre tipi
di autobus, alcuni verdi,
alcuni rossi e altri
bianchiemarroni,eoltre
a questi dei filobus con
un numero – 8, 11, 37 e
137 –, ma non poteva
averealcunaideadelloro
percorso. Vide anche dei
taxi, o per lo meno lo
sembravano, tante auto
grigie con una striscia
rossa sulla fiancata, il
tassametro
e
una
bandierina pieghevole di
fronte al conducente.
Provò a fare un segno
con la mano, senza
nessun esito: erano
pressoché tutti occupati,
ma gli autisti non gli
badavano nemmeno se
erano liberi, forse la
corsaeragiàprenotata.È
verocheisuoicenninon
erano particolarmente
convinti, quasi temesse
che anche in quella
situazione sarebbe stato
inutile
cercare
di
spiegare, esprimersi a
gesti;
tanto
non
l’avrebbero capito, e del
resto neppure lui aveva
chiaro
dove
voleva
andare.
Non
lontano
dall’albergo il traffico si
riversava
in
una
piazzetta, al centro della
qualeun’ampiascalacon
il corrimano giallo si
infilava al di sotto del
livello stradale, gremita
dipersonechesalivanoe
scendevano.Ilcoloreela
forma del corrimano gli
sembrarono
familiari:
forse la sera prima, sul
pullman che l’aveva
portatoincittà,neaveva
visti di simili. Quando
scattò il verde al
semaforo, una marea
scura di passanti lo
trascinò verso il centro
dellapiazzaedilìgiùper
le scale. Proprio come
pensava,
era
una
stazione
della
metropolitana:
un
grandeatrioovaledacui
si diramavano tanti
corridoi, con frecce
dipintesuimuriecartelli
grandiepiccoli–perlui,
alsolito,incomprensibili
– a indicare le varie
direzioni. I passeggeri
che
uscivano
o
cambiavano treno si
incrociavano con quelli
che
scendevano
nell’atrio,
imbottigliandosi in una
calca vorticosa e quasi
impenetrabile.
Dalla
parte opposta le scale
mobili che portavano al
livello
più
basso
inghiottivano
e
rigurgitavano
senza
sosta flussi di folla: in
quellaressaformicolante
Budai stentava a tenersi
in piedi. Ciò nonostante
provò a farsi strada,
aveva scorto un’enorme
mappa sulla sinistra e
cercò di raggiungerla.
Invece
rimase
imprigionato
nella
correntedirettaallescale
mobili, che lo strappò
verso
l’altro
capo
dell’atrio, ma lui non
aveva
nessuna
intenzionedisaliresuun
treno,noninquellacittà.
Però era impossibile
resistere a un tale
esercito, o passarci in
mezzo, e solo a prezzo di
un vero contrasto, a
forza di ginocchiate e
pugni, e restituendo
spintoni,
riuscì
a
liberarsi e portarsi ai
margini del flusso, dove
l’impetodellamarciaera
rallentato dalla corrente
contraria.
La mappa incollata su
una lastra di vetro
rappresentava la rete
metropolitana, con le
stazioni,icollegamentie
le linee in diversi colori;
era
uno
schema
piuttosto intricato di
raggi
e
cerchi
concentrici. Sotto c’era
una serie di pulsanti,
presumibilmente
corrispondenti
alle
fermate: schiacciandone
uno, sulla mappa si
illuminava il percorso.
Attese il proprio turno,
perché
anche
qui
aspettavanoinmolti,poi
provòapremereunpo’a
casaccio.
La
prima
destinazione che scelse
era raggiungibile con
una sola linea, per la
seconda
bisognava
cambiaredueotrevolte;
ma sulla mappa c’erano
solo le stazioni della
metropolitana,nonlevie
e le piazze in superficie,
la città vera e propria, e
Budai non riusciva a
orientarsi. E anche se
fosse stato in grado di
leggere i nomi sui
pulsanti non gli sarebbe
stato di nessun aiuto,
perché non avrebbe
saputo collocarli in quel
nulla ignoto e sordo. La
fermataincuisitrovava
era segnata con un
cerchietto rosso, ed era
anche un po’ più sporca
delle altre perché tutti ci
appoggiavano il dito
sopra. Budai non capì la
scritta, ma notò che si
trovava in basso a
sinistra sulla cartina,
all’intersezione tra un
raggio e una linea
circolare, più o meno a
metà strada fra il centro
e la periferia, dunque in
uno dei quartieri a sud-
ovest della città. Sempre
che segnassero anche
loroilnordinalto.
Tornòinstrada:apoca
distanza
dal
metrò
stavano costruendo un
grattacielo
altissimo.
Piegando il collo di lato,
Budai si mise a contarne
i piani: erano arrivati al
sessantaquattresimo,ma
lo scheletro d’acciaio
svettava ancora più alto.
Sulle
impalcature
brulicavano
come
formiche nere nugoli di
operai, i montacarichi
portavano su e giù
uomini,
materiali,
elementi prefabbricati,
enormi
pannelli
di
cemento armato... Le
proporzioni dell’edificio
e le dimensioni del
cantiere
oltre
che
impressionarlo
lo
spaventarono, come se
questo potesse crollargli
in testa da un momento
all’altro e seppellirlo per
sempre. In ogni modo,
non era certo uscito per
starsene lì a bocca
aperta; entrò nel primo
negoziodialimentariche
vide
e
si
mise
pazientemente in coda,
come gli altri clienti. E
quando i commessi non
capironoquelchediceva
non si arrese, e non si
lasciò spinger via finché
non ebbero preso e
pesato tutto ciò che
indicava. Gli toccò fare
code diverse, per i
salumi, per il burro e il
formaggio, per il pane e
un’altra dalla parte
oppostaperilpescefritto
di cui gli era venuta
voglia.
In
cambio
ottenne solo scontrini,
con i quali dovette
andare di nuovo in coda
alla cassa. Pagò senza
avere idea di quanto
stesse spendendo, ritirò
il resto, e tornò in fila ai
banchi della merce:
l’intera procedura durò
circaun’oraemezzo.
All’ingresso
dell’albergo stazionava
semprel’uomoobesocon
ilberrettodallafettuccia
dorata:
ma
questo
quando dorme, si chiese
Budaipassando.Ottenne
la chiave nello stesso
modo della sera prima,
scrivendo «921» su un
foglietto che poi si infilò
nella tasca del cappotto,
per le future evenienze.
Agli ascensori si fermò
unmomentoaosservare
in quale cabina fosse
l’ascensoristabionda;era
in quella centrale, e fu lì
che Budai entrò. La
ragazza stava leggendo,
non staccava gli occhi
dallibroneanchementre
schiacciava i bottoni dei
piani richiesti. Sollevò lo
sguardo solo quando
Budai, non sapendo
come comunicarle che
voleva scendere al nono
piano,lesfioròilbraccio.
Lei lo fissò per un breve
istante, con l’aria un po’
stranita, come chi si
risveglia da un sonno
profondo, poi le porte
automatiche si aprirono,
eranoarrivati.
Durantelasuaassenza
avevano rassettato e
pulitolacamera,erifatto
il letto. Trovò il pigiama
sotto la coperta e le
pantofole dentro al
comodino.
Questo
suscitò in lui un vago
allarme:
lo
consideravanouncliente
stabile? Scacciò quel
pensierosciocco:nonera
micaaffaredelpersonale
di servizio, che cosa
potevano mai saperne...
Aprì il sacchetto, affettò
ilpaneconilcoltellinoe,
smanioso, si preparò un
sandwich. Tutto aveva
un
gusto
insolito,
dolciastro, i salumi, il
pane, il cetriolo, perfino
il pesce, un sapore
diverso da quelli che
conosceva. Incartò con
curagliavanzielidepose
fuori dalla finestra.
Aveva
finalmente
mangiato, a sazietà,
mancava solo il caffè di
finepasto.Manonaveva
nessuna voglia di uscire
e di mettersi in cerca di
un caffè. Si sarebbe
invece riposato un po’,
soddisfatto di essere
riuscito
a
sfamarsi
nonostante le difficoltà.
Lanciò via le scarpe e si
sdraiòsulcopriletto.
Siaddormentòperdue
o tre minuti al massimo
per
svegliarsi
di
soprassalto in preda a
un’inquietudine
angosciosa, con il cuore
ingola.Eraun’assurdità,
una follia starsene là
sdraiato
mentre
a
Helsinki
c’era
il
congresso di linguistica,
dove era previsto il suo
intervento già il primo o
ilsecondogiorno;magari
era stato eletto in
qualche commissione e i
suoi colleghi non si
spiegavano
la
sua
assenza.Checifacevalui
qui, e che cos’era questo
qui,doveera,inchecittà,
paese, continente, in
quale dannata parte del
mondo era finito? Provò
a ripercorrere ancora
una volta tutta quella
vicenda senza senso,
fidando
nella
sua
capacità
di
ragionamento,
quell’attitudine
deduttiva sviluppata in
anni
di
lavoro
scientifico, e non ultimo
anche
nella
sua
esperienza
di
viaggiatore,
poiché
aveva visitato molti
paesi sin da quando era
studente. Ma per quanto
ripassasse nella mente
gli eventi delle ultime
ventiquattr’ore, anche a
ritroso, non gli riuscì di
individuare in quale
circostanza
avrebbe
dovuto
agire
diversamente, dove o a
chi
avrebbe
potuto
rivolgersi. Non dubitava
che l’equivoco all’origine
di tutto si sarebbe
chiarito, e a quel punto
lui
sarebbe
potuto
ripartire subito, tuttavia
ebbe un attimo di
smarrimento:
senza
amici né conoscenti,
privo di documenti,
abbandonatoinunacittà
sconosciuta
di
cui
ignorava
perfino
il
nome, dove non capiva
quel che dicevano e
nessuno capiva lui,
nonostante tutte le
lingue che parlava, in
quella inarrestabile e
inestricabile
massa
umana, che non si
diradava mai, non aveva
ancora
incontrato
nessuno
con
cui
scambiaredueparole.
Cercò di raccogliere le
poche idee che si era
fatto di quella città.
Doveva
essere
una
grande città, questo
sembrava assodato, una
metropoli, uno di quei
centri urbani di livello
mondiale dove non era
mai
stato.
Per
il
momento non intuiva
nemmeno in quale parte
del
globo
potesse
trovarsi,inchedirezione
e soprattutto quanto
lontano da casa. Rifletté
su quest’ultimo dato,
perché avrebbe potuto
pensarci
la
sera
precedenteeosservarela
crescitadellabarbadopo
il viaggio in aereo,
durante il quale aveva
dormito tutto il tempo:
perfarsiun’ideadelleore
trascorse e così calcolare
la distanza in linea
d’aria. Ma la sera del suo
arrivo, quando si era
fatto la barba non ci
aveva badato, doveva
essereunpo’intontito,e
oranonriuscivaaffattoa
ricordarsi
quant’era
lunga... Era una città
densamentepopolata,su
questo non c’era dubbio,
una densità maggiore di
ogni altro luogo che
avesse mai visitato, ma
era difficile stabilire
quale razza o gruppo
etnico fosse prevalente.
Il tratto più notevole,
però, era che la gente
non parlava le lingue
straniere, per lo meno
quelle a lui note; perfino
in un albergo enorme
come il suo parlavano
soltantonellalorolingua
materna.
E
questa
suonava completamente
estranea
alle
sue
orecchie,diversadatutte
le altre, puro e semplice
grammelot, come del
resto il loro sistema di
scrittura, un insieme di
scarabocchivacuieprivi
di senso. Le condizioni
meteorologiche
non
sembravano
fornire
alcun indizio: il tempo
era
secco,
freddo,
invernale, proprio come
febbraio dalle sue parti.
Nemmeno i cibi che
vendevano nei negozi
rivelavano molto del
clima
locale,
erano
alimenti che si trovano
ovunque – carni, salumi,
formaggi, mele, limoni,
arance,
banane,
scatolame, conserve di
frutta sciroppata, succhi
di frutta, caffè, dolci,
pesci di mare; potevano
essere
benissimo
prodotti d’importazione.
Neppure
la
moda
differiva dai canoni del
mondo civilizzato, gli
abiti di boutique si
distinguevano da quelli
dei grandi magazzini
solo per la qualità, e gli
altri
articoli
rispecchiavano
gli
standard internazionali;
tutto questo valeva ben
poco
per
formarsi
un’idea,
era
un’equazione di sole
incognite.
Che fare? Le autorità
locali
e
l’amministrazione
dell’albergo
forse
ignoravano che fosse
capitato lì per errore,
senza volerlo, altrimenti
gli
avrebbero
già
restituito il passaporto
e... Ecco un’altra cosa
incomprensibile,
un
mistero assoluto, il
passaporto: perché lo
tenevano loro, e dove, se
si usa restituirlo al
cliente dopo le formalità
dellaregistrazione?Eche
fine aveva fatto il
portiere dai capelli grigi
che gliel’aveva preso il
primo giorno?, non
l’avevapiùvisto;dov’era
finito il suo biglietto
aereo,
dove
poteva
reclamare, e in quale
lingua avrebbe dovuto
spiegaretuttociò?Provò
disagio ripensando alla
penosa scenata della
mattina, alla sua insulsa
e inutile stizza – e
tuttavianonpotevamica
lasciare le cose come
stavano...
Quanto
sarebbe rimasto lì, senza
farniente,alnonopiano
di
un
albergo
sconosciuto di una città
sconosciuta?
Passò in rassegna, con
ordine, i luoghi dove
avrebbe potuto recarsi
per ottenere aiuto. Alla
direzione?
All’ufficio
informazioni? Da un
interprete, in un’agenzia
diviaggi,allacompagnia
aerea,
le
idee
gli
attraversavanolamente,
ma dove erano quei
posti, a chi avrebbe
chiesto indicazioni in
quella ressa mostruosa
in cui tutti avevano
fretta e si rifiutavano di
ascoltare
oppure
reagivano blaterando in
modo
astruso?
Probabilmente in banca
o negli uffici pubblici
parlavano altre lingue,
ma dove erano, come
riconoscere anche solo
l’edificio senza saper
leggere le insegne? E se
avessevolutorivolgersia
un’ambasciata, la sua o
quella di un altro paese?
Come
l’avrebbe
individuata, da che cosa
avrebbe capito che ce
l’aveva davanti? Dallo
stemma sul portone?
Doveva tenere gli occhi
ben aperti: se avesse
perlustrato la città in
maniera
sistematica,
muovendosi
con
attenzione e stando
sempreall’erta,l’avrebbe
trovata per forza. Ma
soprattutto
là,
nell’albergo stesso, era
inverosimile che in un
hotel così frequentato
noncifossenessunocon
cui riuscire a intendersi.
Eragiuntoilmomentodi
darsi da fare, doveva
vincere il suo riserbo, il
suo impaccio, scuotersi
dal torpore fisico e
mentale
per
tirarsi
finalmente fuori da
quella
stupida
disavventura.
Per prima cosa prese
un
foglio
dal
quadernetto – ne teneva
sempre uno in tasca per
annotare quello che gli
passava per la mente – e
scrisse poche righe in
inglese per spiegare da
dove veniva, dove era
diretto e così via,
pregando la direzione di
agire urgentemente per
aiutarlo a ripartire, o di
mandargli una persona
competente con la quale
poter
chiarire
la
faccenda. Dopo aver
firmato
aggiunse
«camera 921», come
avrebbe
fatto
un
detenuto in cella, e gli
venne da sorridere. Poi
tradusse il tutto in
francese e in russo;
intendeva consegnare il
foglio alla reception
dove,
logicamente,
l’avrebbero passato a chi
di dovere, qualcuno che
conosceva per forza
almeno una delle tre
lingueeavrebbepresole
misurenecessarie.
Sollevò di nuovo il
ricevitore e provò a
formare dei numeri che,
a intuito, potevano
essere quelli di pubblica
utilità: 0, 00, 01, 02, 11,
111, 09, 99 e così via,
senza nessun risultato,
oppure,
per
tutta
risposta, l’immancabile
cicaleccio.Erafuribondo,
noncapivaperchénonci
fosse
un
elenco
telefonico nella stanza,
non riusciva a farsene
una ragione, cominciò a
schiacciare esasperato il
tastoperinterromperela
linea, a sbatacchiare il
telefono,
urlando:
«Pronto!... Hallo!», e alla
finebuttògiùlacornetta
contaleviolenzacheper
poco non la fracassò...
Decise di procurarsi un
elenco a qualunque
costo, non importa dove
o come. Si rivestì in
frettaeuscì.
Giù alla reception
provò a superare le
personeinattesa:riuscìa
consegnare al portiere la
chiave,estavaperdargli
anche i foglietti quando
gli altri iniziarono a
rumoreggiare,
lo
ostacolarono e gli fecero
segno di andare alla fine
della coda. Così fu
costretto a mettersi
pazientemente in fila e
una volta dinanzi al
portiere gli schiaffò in
mano il testo trilingue.
Questisirigiròifoglietti
tra le mani sbattendo le
palpebre,
farfugliò
qualcosa che suonava
come una domanda, ma
Budai tagliò corto e si
defilò mescolandosi alla
folla.
Camminò su e giù
nella hall dell’albergo,
alla ricerca di un
telefono pubblico. Non
ce n’erano, o non ne
trovò, ma in compenso
gli venne in mente che
quelmattinoerapassato
accanto a una cabina
telefonica. Uscì, si lasciò
trascinare dal fiume di
follaebenprestolavide,
non
proprio
dove
ricordava ma all’angolo
successivo. Era davvero
una cabina telefonica,
ma ovviamente era
occupata, e accerchiata
di persone in attesa. Gli
parve un’impresa senza
speranza
quella
di
aspettare il proprio
turno e sotto gli occhi di
tutti staccare l’elenco
fissato alla cabina e
portarselo via – anzi, gli
elenchi, c’erano più
volumi, grossi e pesanti.
Ma non si arrese,
insistette a girare per le
strade e a cercare, come
se la sua vita intera
dipendesse dal fatto di
procurarsi un elenco
telefonico;
scese
di
nuovo
nella
metropolitana. Sì, si
ricordava bene, lungo
una
parete
erano
allineate una decina di
cabine: ma anche qui
erano occupate e da
ognuna
partivano
lunghe code di cui, nella
ressa dell’atrio, non si
vedeva la fine. Rinunciò
a mettersi in fila ma
decise, già che c’era, di
andareastudiaremeglio
la mappa della rete
sotterranea.Nonriuscìa
capirci molto di più, ma
senefeceunoschizzosul
taccuino:
segnò
la
stazione in cui si
trovava,
quella
col
cerchietto rosso, ne
ricopiò perfino il nome,
disegnando una per una
le strane lettere – per
ritrovare la strada nel
casosifossesmarritoper
lacittà.
Quando
tornò
in
superficie era ormai
buio, i lampioni erano
accesi;eraaquell’orache
il
pullman
l’aveva
portato in città il giorno
precedente. Così erano
trascorse
ventiquattr’ore.
Non
gliene
importava
granché
in
quel
momento, mentre era
intento a procedere in
mezzo
alla
calca,
inquieto: ormai aveva
imparato ad avanzare a
testa bassa, a spingere, a
lottare per aprirsi il
passaggio nella corrente
deipedoni,propriocome
facevano
tutti...
Il
cantiere del grattacielo
era in pieno fermento,
sottolalucedeiriflettori
gli operai lavoravano,
non meno numerosi che
di giorno. Più avanti
notò una tavola calda
che ancora non aveva
visto,
e
vi
gettò
un’occhiata dentro. Era
un self-service, i clienti
prendevano
a
un
bancone i piatti pronti
che desideravano, e alla
fine pagavano alla cassa
quel che c’era sul
vassoio; e l’affollamento
non era maggiore che
altrove. Budai se ne
rallegrò, era la prima
sorpresa piacevole che
gli capitava, ed entrò. Si
servì di tutto, zuppa,
uova farcite, arrosto con
un contorno, formaggio
e dolce, in preda a una
vaga apprensione –
chissàquandoavrebbedi
nuovo avuto l’occasione
di poter mangiare a
sazietà. Si versò anche
delcaffèdalbeccucciodi
un distributore. Alla
cassapagòconunpugno
dispiccioli,lasciandoche
la cassiera prendesse
l’importo necessario, poi
si appoggiò a un tavolo
alto lì vicino e divorò
tutto. Ancora quello
strano sapore dolciastro,
come
se
avessero
zuccheratoicibi,perfino
lacarneeleuova.
Fuoridallatavolacalda
si imbatté in una cabina
telefonica vuota. Sul
vetro era incollato un
foglio con una scritta,
presumibilmente diceva
che l’apparecchio era
guasto, ma le porte non
eranochiuseeall’interno
c’erano dei voluminosi
elenchi, protetti da
astucci
metallici
incernierati
alla
struttura.
Cercò
di
studiarecomesmontarli;
era già pronto ad
allentare le viti con il
coltellino
tascabile
quandosiaccorsecheun
uomo in divisa grigia lo
stava
osservando.
Indossava
una
mantellina corta e un
berretto: era senz’altro
un poliziotto. Budai si
rese conto di non aver
con
sé
nessun
documento d’identità, e
di sicuro non era in
grado di spiegare che
cosa stesse combinando
là dentro. Cominciò a
sfogliare il volume,
fingendo di cercare un
numeroounindirizzo;il
poliziotto
non
si
muoveva, lo fissava, con
aria diffidente. Decise di
cambiare strategia, uscì
dalla cabina e gli si
rivolse
direttamente.
Provò in tedesco, in
inglese, in italiano e in
altre lingue, anche se
annaspava, non sapeva
benecosachiedere,quali
informazioni:
l’ambasciata,l’ufficiodel
turismo, o che altro
genere di aiuto? In ogni
modo il poliziotto annuì
e puntò il dito verso di
lui:
«Cetence
glubglubb?
Guluglulubb?».
Dissepiùomenocosìe
estrasse un libretto con
la copertina nera, lo
compulsò
a
lungo
girandorapidolepagine,
quindi
cominciò
a
spiegare gesticolando in
più direzioni. Parlò
parecchio,concalma,poi
indicò da qualche parte
alle sue spalle, ripetendo
in tono pedante alcune
frasi, per non essere
frainteso – Budai non
avevalaminimaideadel
luogo verso il quale
l’altro
lo
stava
scrupolosamente
indirizzando. Infine il
poliziottogliagitòildito
sotto il naso, come a
chiedergli se fosse tutto
chiaro:
«Turubu
scetiekitiovovo?».
Sconfortato,
Budai
riuscìsoloadallargarele
braccia; il poliziotto fece
il saluto militare e se ne
andò. Budai rinunciò a
ulteriori tentativi; era
anche in pensiero per la
nota che aveva lasciato
in albergo, a quell’ora
probabilmente era già
arrivatanellemanidichi
di dovere, forse si
stavano dando da fare,
magari
lo
stavano
cercando e non lo
trovavano: si affrettò
sulla strada dell’hotel.
Stavolta,
eccezionalmente,
era
ancora in servizio il
portiere a cui aveva
consegnato i foglietti, lo
vide da lontano, dal
fondo della fila. L’uomo,
dall’aria malaticcia e
scontrosa, gli gettò uno
sguardo
assente,
e
quando Budai gli mostrò
ilbigliettoconilnumero
della stanza si limitò a
consegnargli
meccanicamente
la
chiave,
senza
altre
comunicazioni.
Budai
allungò il collo per
vedere se c’era qualcosa
nello scomparto della
921, ma era vuoto, e il
portiere glielo sottolineò
con le palme delle mani
aperte. Budai rimase
interdetto,provòafargli
capirecheaspettavauna
risposta, un avviso, una
notizia, doveva esserci
un qualche messaggio
per lui, ma quello
scuoteva
la
testa
borbottando e passò al
cliente
successivo.
Naturalmente
era
possibile
che
il
messaggio
fosse
in
camera, o fuori dalla
porta,
magari
gli
avevano lasciato scritto
il nome del luogo o della
persona a cui rivolgersi
per sistemare le cose.
Stava per dirigersi verso
l’ascensore quando notò
sul bancone un grosso
volume, di sicuro un
elenco telefonico. Il
portiere era voltato
dall’altra parte: lo stesso
Budai si meravigliò di
come ebbe il coraggio di
prenderlo e portarselo
via sotto gli occhi di
tuttaquellagente.Fuun
gesto d’impulso, dettato
dall’imperativo
di
procurarsi un elenco a
tutti i costi, in fondo era
quella la ragione per cui
era uscito; la sua mano
agì da sola: si mise il
volume sotto il braccio e
siallontanòtranquillo.
Al nono piano però
non c’era niente sulla
portadellasuastanza,né
sulla maniglia, né per
terra, né infilato nello
spiraglio o altrove; per
ben due volte controllò
che fosse proprio la 921.
E anche in camera non
c’era nessuna nota, non
un rigo sul tavolo,
niente, Budai perlustrò
ogni angolo. Non sapeva
che cosa pensare: la sua
richiesta non era stata
inoltrata o dovevano
ancora cominciare a
occuparsene? Possibile
che gli toccasse passare
un’altra
notte
in
quell’albergo? In tal caso
sarebbe
arrivato
al
congresso di Helsinki
nellasecondagiornata,e
nonprimadellasessione
pomeridiana – ciò lo
innervosì al punto che
gli salì il sangue alla
testa,
ma
preferì
scacciare quei pensieri.
Inoltre, era distrutto
dagli andirivieni della
serata, era fradicio di
sudore e sentiva un
impellente bisogno di
farsi una doccia. E
avrebbe dovuto, con sua
grandevergogna,disfare
di nuovo il bagaglio per
prendereilnécessaireeil
detersivo per lavare,
come d’abitudine, la
biancheriausata.
Dopo essersi un po’
rinfrescato
si
mise
comodo, in pigiama e
pantofole, e si sedette
alla scrivania con il
volumetrafugato.Eraun
libro rilegato di colore
marrone, sulla copertina
spiccavano tre righe di
diversa lunghezza in
lettere chiare, di varie
dimensioni: i caratteri
erano quelli già visti
altrove. Aprendolo, nella
prima pagina c’era un
elenco di venti o
venticinque parole, o
gruppi di parole, in
grassetto e con un
numeroaccanto:dicerto
i numeri di pubblica
utilità. Seguivano sette
pagineditestofittissimo
quasi senza interruzioni,
probabilmente norme e
regolamenti del servizio
di telecomunicazioni, e
poi alcune tabelle che
forse
indicavano
le
tariffe. Erano ottocentomille pagine di grande
formato,
su
cinque
colonne, stampate a
caratteri
talmente
minuscoli che Budai
dovevastrizzaregliocchi
perriuscirealeggerli.Gli
parvedipoterdesumere,
solo
in
base
all’impostazione
tipografica, che i nomi
non erano in ordine
alfabetico,
ma
raggruppati sotto un
titoletto per categorie
professionali
o
commerciali – una sfilza
sterminata di parole e
numeri,titoletti,parolee
numeri. Non soltanto
all’inizio, ma anche
procedendonelvolume,i
numeri non erano di
uguale lunghezza: ce
n’erano di due, tre o
quattro cifre, altri di
cinqueosei,altridisette
o otto, in modo casuale
però, senza apparente
criterio.
Provò
a
comporre qualcuno dei
numeri in grassetto, che
aveva individuato come
probabili numeri utili,
ma con scarso successo:
il telefono non prendeva
la linea, oppure dava un
segnale intermittente di
occupato,
oppure
squillava a vuoto, e se
qualcuno
finalmente
rispondeva si esprimeva
in
quel
modo
incomprensibile,
per
quanto lui tentasse ogni
volta di parlare una
linguadiversa.
Non
aveva
senso
continuare,
dovette
ammetterlo;
preferì
concentrarsisulvolume.
Benché non si fosse mai
occupato di storia della
scrittura,
ricordava
ancora dai tempi degli
studi come Champollion
avesse
decifrato
i
geroglificieGrotefendla
scrittura
cuneiforme
nelle incisioni in antico
persiano, e come di
recente
fosse
stato
svelato il mistero delle
iscrizioni maya e delle
tavoletteligneedell’Isola
diPasqua.Inquesticasii
ricercatori disponevano
di testi bilingui o
trilingui,comelasteledi
Rosetta o i reperti di
Persepoli,
o
delle
trascrizioni di studiosi
precedenti,
magari
vaghe e imprecise, ma
pur sempre decifrabili
con un po’ di fatica,
pazienzaefeliceingegno.
Il metodo era quasi
sempre lo stesso: sulla
base
di
alcune
considerazioni
si
ipotizzava che certi
segni, o gruppi di segni,
corrispondessero
a
determinate parole o
nomi, dunque a gruppi
fonetici noti, e in
seguito,
sostituendo
questi gruppi a singoli
elementi nel testo, si
deduceva
progressivamente
il
significato degli altri
segni, fino a dipanare
l’intero
sistema
di
scrittura
studiato.
Eppure,
nonostante
l’impiego dei mezzi più
sofisticati,
quanti
avevano
fallito
nell’impresa, e quante
volte! E se avevano
ottenuto
qualche
risultato era stato al
prezzo di decenni di
ingrata fatica. Al giorno
d’oggi,invece,afacilitare
il compito degli studiosi
ci
sono
potenti
calcolatori elettronici in
grado
di
elaborare
un’enormemassadidati.
Ma lui, lì, in quella
stanza, che cosa poteva
maifare,dasolo,senzail
benché minimo aiuto, di
fronte alla scrittura
sconosciuta
di
una
lingua sconosciuta? Da
qualeipotesipartire,con
che cosa confrontarla
senza disporre, per ora,
di alcun punto di
riferimento per capire il
significato da attribuire
almeno a una stringa di
caratteri?
Che
cosa
sostituireachecosa?Ein
che
punto...?
Ciò
nondimenoincominciòa
trascrivere
i
segni
dell’elenco: ricopiò uno
per uno, sull’ultima
pagina del volume, che
era bianca, ogni nuovo
carattere che incontrò
nel testo. Questa attività
silenziosa, dal ritmo
piuttosto simile a quello
della raccolta di dati nel
suolavoro,apocoapoco
lo rasserenò, calmò la
sua agitazione e, almeno
per il momento, lo
riconciliò
con
la
situazione in cui si
trovava; assorto in quel
compito
preciso
e
circoscritto, quasi si
scordò di dov’era e come
c’era finito. Alla tavola
caldasierasaziato,enon
pensò neanche agli
avanzi che aveva messo
fuori dalla finestra;
stappò invece l’altra
bottigliadivino.
Continuava
a
rimuginare, chiedendosi
che razza di alfabeto
aveva davanti: erano
segni molto semplici,
due o tre tratti per ogni
carattere, come le rune
dell’antico germanico o
l’antichissima scrittura
cuneiforme sumerica –
maluinoneracertocosì
sciocco da pensare che
fossero imparentati con
sistemi di lingue estinte
datempo.Notòl’assenza
di segni diacritici e del
maiuscolo, quantomeno
in quel libro: i caratteri
avevano tutti la stessa
dimensione. A un tratto
si rese conto di averne
ricopiati oltre cento, e
continuava a trovarne;
sorseggiando il vino
rosso, si fermò a
riflettere,domandandosi
checosapotevadedurne.
Che si trattasse di una
scrittura
logografica,
dove
ogni
segno
rappresenta una singola
parola, e per questo
eranocosìtanti?Odiuna
scrittura sillabica, come
nell’antichità
quella
cretese
e
cipriota?
Oppure
aveva
una
struttura
composita,
come i geroglifici egizi,
che
indicano
più
elementi ciascuno –
parole, gruppi di suoni e
singoli fonemi? Magari –
glivenneinmenteanche
questo – era un catalogo
di
segni
fonetici
variamente combinati,
come quelli che stilano i
linguisti per classificare
le più sottili sfumature
di pronuncia? Oppure
disponevano
di
tantissimisuoni,ognuno
con una sua funzione
distintiva?
Domande,
domande, e nemmeno
una
risposta...
Nel
frattempo, quasi senza
accorgersene, si era
bevuto l’intera bottiglia.
Il mattino dopo non era
in grado di ricordare
quando e in che modo si
eraaddormentato.
Al risveglio il tempo
era grigio come il giorno
precedente. Aveva la
testa annebbiata, la
nausea e si sentiva in
colpa per aver bevuto
troppoun’altravolta;era
in collera con sé stesso,
come chi è venuto meno
a una promessa. Non
osava pensare a quegli
ultimi due giorni, lo
assaliva
solo
un
bruciante
senso
di
fallimento; l’unica cosa
che ormai sapeva con
assoluta chiarezza e
lucidità era di essere
arrivato al limite. Nella
doccia aprì il rubinetto
dell’acqua
fredda,
rabbrividì e starnutì
sotto il getto gelido. Era
una follia, un delirio, un
incubo dal quale doveva
risvegliarsi: non poteva
piùandareavanticosì!
Si vestì, si preparò un
sandwich con gli avanzi
del giorno prima e
elaborò un piano: era
talmente
ovvio
e
semplice
che
si
meravigliò di non averci
pensato prima. Se gli
impiegati
di
quell’albergo erano un
branco di incapaci con
cui non si riusciva a
scambiareunaparola,se
mancava
perfino
il
punto informazioni o lo
tenevano
nascosto,
doveva semplicemente
cercare
un
luogo
dedicato ai turisti. Alla
stazione dei treni, per
esempio,odegliautobus,
all’aeroporto, agli uffici
di qualche compagnia
aerea,
al
porto,
marittimo o fluviale, se
ce n’era uno da quelle
parti. Doveva salire su
untaxiefarcapireinun
modo qualsiasi dove
voleva andare, tutto qui.
Poi ci avrebbe pensato
l’autista, e una volta sul
luogo avrebbe di sicuro
trovato
la
persona
adatta... Tutto questo gli
pareva ora così chiaro e
semplice:stavaquasiper
rifare la borsa e portarla
con sé per non esser più
costretto a tornare in
albergo, ma poi preferì
lasciarla lì, c’era pur
sempre il conto da
pagare, altrimenti non
gli avrebbero permesso
di andarsene, e poi
doveva riprendersi il
passaporto,
sarebbe
ripassato per forza.
Avrebbe fatto il bagaglio
a cose risolte, in un paio
diminuti.
Nell’ascensore c’era di
nuovo la ragazza bionda
inuniformeblu.Conaria
piacevolmente distratta
Budai posò a lungo lo
sguardo su di lei. Notò
ancora una volta quanto
fossesnellaeslanciata,e
com’erano delicati i
tratti del suo viso ovale;
oggi non leggeva, lo
sguardostancoeassente
era perso nel vuoto –
chissà quante corse
aveva già fatto su e giù
quella mattina. Solo
quando arrivarono al
pianterrenolaragazzalo
vide, e da una piccola
luceneisuoiocchiBudai
capì
che
l’aveva
riconosciuto.Lesorrisee
la salutò con un lieve
cenno del capo: era
moltoimprobabilechela
rivedesse ancora. Non si
nascose che un po’ gli
dispiaceva,
ma
era
l’unica cosa che avrebbe
rimpiantodiquellacittà.
Quella mattina tutto
appariva diverso, se
n’era già accorto in
ascensore ed ebbe la
stessa sensazione anche
nella
hall,
difficile
spiegare come e perché.
L’atrio era affollato di
persone, ma non c’era il
violento pigia pigia degli
altri
giorni:
nel
gigantesco salone il
flusso sembrava più
lento e pigro, rilassato,
come se tutti se la
prendessero comoda. Il
negozio dei souvenir era
chiuso, la vetrina era
sgombraebloccatadaun
lucchetto. Era chiusa
l’edicola, sullo sportello
dellacassaeracalatauna
saracinesca metallica, e
dietro il lungo bancone,
dove
di
solito
si
affaccendava un gran
numero di persone, ora
ciondolavano soltanto
due o tre impiegate, ed
era chiusa la maggior
parte delle porte degli
uffici. In effetti, era
partito di venerdì e
dunque era domenica,
essendo passate due
notti: a quanto pareva,
era festivo anche lì.
Soltanto alla reception il
numero di persone era
invariato: fu preso dallo
sconforto vedendo la
lunghezzadellacoda,ma
attesequietoilsuoturno
per restituire la chiave.
Lo scomparto 921 era
vuoto,eormaisisarebbe
stupitodelcontrario.
Il bancone per una
volta era libero, le tre
impiegate del turno
festivo si limitavano a
chiacchierare.
Budai
colse l’occasione: si
avvicinò,restòlìdavanti
per un po’, poi, siccome
loro non gli badavano,
cominciò a bussare sul
piano.
Quelle
non
reagirono,eluibussòpiù
forte finché finalmente
una si accostò. Provò a
parlarle in varie lingue:
la donna lo fissava
perplessa e indignata
come se fosse matto.
Allora Budai tirò fuori il
quadernetto e, con un
tratto piuttosto goffo,
disegnò una locomotiva,
poi un aereo, e con le
braccia mimò il gesto di
volare, sforzandosi di
esprimere
cosa
intendeva e dove voleva
andare. Ma l’impiegata,
una donna di mezza età
dal colorito giallognolo e
i capelli raccolti in uno
chignon,
lo
assalì
berciando con una tirata
incomprensibile
e
stridula, uno sproloquio
che Budai interpretò
come: «Che vergogna,
che indecenza, neanche
di domenica si può stare
in
pace!»
–
ma
ovviamente poteva aver
detto tutt’altro. Budai
capì che con le parole
non avrebbe risolto
nulla:
con
audace
determinazione estrasse
dalla
tasca
una
banconota di grosso
taglio e la poggiò sul
bancone davanti alla
donna.
Quest’ultima
continuò a sbraitare
ancora un po’, ma prese
il denaro e andò in un
ufficio sul retro: l’aveva
accettato, forse c’era
speranza
che
fosse
disposta ad aiutarlo.
Tornò in fretta, e con
un’altra
ramanzina
consegnò a Budai nove
banconote di taglio
minore, contandole una
per una, più una
manciatadispiccioli–gli
aveva
semplicemente
cambiato il pezzo da
dieci – poi girò i tacchi e
lopiantòinasso.
Uscito dall’albergo la
folla gli sembrò più
fluida e il traffico,
sebbene intenso, un po’
menofrenetico.Sispinse
sul
bordo
del
marciapiede e alzò la
mano per fermare tutti i
taxi che passavano. Ma
eranopochi,nespuntava
uno ogni tanto ed era
occupato, anzi stipato di
persone una sull’altra,
fino a otto o dieci
passeggeri tra uomini,
donne, bambini, anziane
signore. E quelli vuoti
avevano la bandierina
abbassata,
oppure
transitavano sulla corsia
più lontana e non
sarebbero riusciti a
spostarsi. Infine ne vide
uno che arrivava con
tutta calma, era anche
libero,mainvanogridòe
si sbracciò, scese con un
piede sulla carreggiata,
l’autista non rallentò,
non lo guardò, e
l’avrebbe pure travolto
se non si fosse scansato
in
tempo.
Quando
rinvennedallospavento,
quello
era
ormai
lontano... Tornò con
fatica
all’ingresso
dell’albergo,dovestavail
grasso
usciere
in
pelliccia. Budai si rivolse
a lui in varie lingue e
scandendobeneleparole
nel tentativo di spiegare
che aveva bisogno di un
taxi o di una stazione di
taxi, doveva per forza
essercene una nelle
vicinanze,
e
usava
testardamente la parola
che suona identica in
ognipartedelmondo:
«Taxi...!Taxi,taxi...?!».
Quello si limitò a
strizzaregliocchietticon
un’espressione
ebete
sulla faccia pingue e
portando la mano alla
visiera spinse la porta a
vetri per farlo entrare.
Budai gli andò vicino,
propriosottoilnaso,egli
urlò in faccia cosa
voleva, al che l’usciere
borbottòqualcosacome:
«Kiripidu
labadaraparaciara...
patarasciara...».
E ripeté il saluto
militare, e spinse la
porta, come un pupazzo
amollacapacediduesoli
gesti.Nelfrattempoaltre
persone
si
erano
assiepate
attorno
all’ingresso. Budai non
intendeva bloccare il
passaggio e temeva di
noncontrollarsi,eracosì
infuriato che avrebbe
schiaffeggiato
quel
babbeo: si allontanò
verso la carreggiata.
Riprese a sbracciarsi, ma
non otteneva nulla, e
cominciò a dubitare che
le auto grigie con la
striscia
rossa
sulla
fiancata fossero davvero
taxi... Stava per lasciar
perdere quando una
vetturacheavevavistoil
suo cenno incerto si
fermò accanto a lui. Il
conducente si sporse dal
finestrino e gli parlò con
la bocca piena, e Budai
interpretò
che
gli
domandassedovevoleva
andare. Senza indugio
glielomostrò,aprendole
braccia come ali, poi
mimòilmovimentodelle
bielle di una locomotiva
e aggiunse perfino il
fischio
del
treno.
L’autista scosse la testa,
ridendo, ma non era
chiarosefosseunnoose
non capiva. Intanto le
macchine
dietro
suonavano e davano gas
ai motori, la fila di auto
si allungava perché era
impossibilepassarenella
corsia di fianco per
superare.
Budai,
preoccupatodiperderela
sua unica opportunità,
prese una banconota di
grosso taglio e la porse
all’autista.
L’autista
rispose qualcosa che, a
giudicare
dal
tono,
spiegava il suo rifiuto,
era prenotato o aveva
terminato il turno e
stava
rientrando.
I
clacson
ormai
strepitavano
tutti
insieme,
con
insofferenza:
l’autista
riaccese il motore e
ingranò
la
marcia.
Disperato, Budai tirò
fuori un altro pezzo da
dieci e infilò la mano
nell’auto, che si mosse
proprio
allora:
le
banconote caddero nel
taxi. Budai non riuscì a
rincorrerlo nel traffico
intenso.
Per un paio di minuti
restò come paralizzato
dall’ennesimo
insuccesso – o forse non
era un insuccesso, forse
quella che lui vedeva
come una catena di
sfortune in quella città
era la norma. Quanto
meno per uno come lui,
un forestiero che non
parlavalalingua...Infine
siriscosseesifeceforza:
infondo,potevaarrivare
a
una
stazione
ferroviaria anche senza
taxi.Glispiacevasoloper
i soldi, quei due pezzi da
dieci,nonsapevaquanto
valesseroma,daquelche
aveva
visto
finora,
sembrava una bella
somma.
Seinegozieranoquasi
tutti chiusi, compresi gli
alimentari, il metrò era
affollato come nei giorni
feriali; lungo la strada
verso
la
piazzetta
circolare
aveva
escogitato un modo per
arrivare a destinazione.
Sifecestradafralagente
fino alla grande cartina
sul muro, che per il
momento rappresentava
l’unico punto fermo cui
aggrapparsi e che ora
l’avrebbe
aiutato
a
orientarsi.
Cercò
i
collegamenti,
gli
interscambi tra le linee,
le fermate cerchiate in
rosso, presumibilmente
le più importanti. Si sa
cheinqualunquegrande
città del mondo la
metropolitana
è
collegata
alla
rete
ferroviaria; immaginò
che
i
nomi
in
corrispondenza
delle
stazioni
dei
treni
presentassero
un
terminericorrente,come
per esempio a Parigi la
Gare de l’Est, la Gare du
Nord, la Gare de Lyon,
eccetera.
Mentre
osservava la cartina
veniva costantemente
spintonato, e più di una
volta fu addirittura
cacciato via, ma riuscì
sempreariconquistareil
suo posto. Con gran
faticaindividuòscrittedi
due o tre parole nelle
qualil’ultimacoincideva,
non
perfettamente,
certo,
ma
poteva
trattarsi
di
piccole
differenze grammaticali.
Le
annotò
tutte,
riproducendo con cura i
segni sconosciuti: la
prima stazione su cui
cadde la sua scelta era la
più
vicina,
e
si
raggiungeva con la linea
gialla.
Dovettemettersiinfila
allacassapercomprareil
biglietto–pagavanotutti
conunamoneta–epoisi
diresse verso le scale
mobili davanti alle quali
la folla s’ingrossava. Di
sottovidelamoltitudine
incanalarsi in un dedalo
di corridoi, tra manifesti
e cartelloni affissi da
ogni
parte,
svolte,
incroci, sbocchi, e poi
ancora scale, giù e poi di
nuovosu;freccecolorate
indicavano le direzioni,
pannelli luminosi con
scritte blu, verdi, rosse,
nere e gialle. Budai
seguiva
quest’ultimo
colore, ma a un tratto
non lo vide più, il flusso
umano
lo
aveva
trascinatooltreedovette
vagare per un buon
quarto d’ora prima di
ripescarlo. Si sforzò di
prestare più attenzione,
si mantenne vigile, gli
altricoloricominciarono
a scemare finché non
restò che il giallo e si
ritrovò finalmente sulla
banchina, in mezzo a un
frenetico
andirivieni,
investito dalla corrente
d’aria provocata dai
convogli in corsa nel
tunnel. Adesso doveva
solo cercare di non
prendere la direzione
sbagliata: tirò fuori il
quadernettosucuiaveva
ricopiato il nome della
stazione e lo confrontò
con quelli sotto le due
frecce.
Il treno sbucò dalla
galleria. I passeggeri lo
presero
d’assalto
scontrandosi con quelli
che
scendevano,
generando il caos e
mulinelli di persone
vicino alle porte, che
riuscirono a chiudersi
dopo il fischio di un
capotreno dalla pelle
scura. Budai si infilò per
un soffio. Dentro faceva
un gran caldo ed erano
schiacciati uno contro
l’altro; avrebbe voluto
chiedere indicazioni a
qualcuno,aiutandosicon
gesti o disegni – ma non
poteva
muovere
le
braccia, e la gente
spintonava, una lotta di
posizioni, chi voleva
scendere premeva verso
leporteelospaziolibero
veniva subito riempito.
Budai non aveva timore
diperderelasuafermata
perché lo schema della
linea era appeso in vari
punti
del
vagone.
Riconobbe con facilità il
nome formato da tre
parole e contò quante
fermate
mancavano
prima di scendere da
quel convoglio, che
sfrecciava come un
lampo e poi frenava così
bruscamente
che
i
passeggeri cadevano gli
unisuglialtri.
Quando
scese
si
ritrovò
in
un
complicatissimo intrico
di corridoi, scarpinò per
un bel pezzo, si smarrì,
poicapìchelefrecceper
l’uscita erano bianche e
più grandi delle altre,
infinesalìsuscalemobili
di
una
lunghezza
infinita... Sbucò in una
grandepiazza;ilcieloera
plumbeo,copertodauna
coltre impenetrabile di
nubi, e cadeva una
pioviggine silenziosa e
gelida.Lafollaeradensa
come ovunque, pensò
non appena vi si
immerse, senza darsi
una
meta
precisa.
Doveva essere finito in
un mercato o in una
fiera: sulle bancarelle e
perfino sul selciato si
vendeva di tutto, i
commercianti urlavano
a squarciagola, musica e
altoparlanti al massimo
volume.
C’era
soprattutto roba di
secondamano,gliparve,
mentre avanzava adagio
intorno alla piazza,
trasportato dal flusso:
mobili, lampadari, abiti,
pellicce
consunte,
vasellame,
tappeti,
cianfrusaglie,
oggetti
d’antiquariato, prodotti
difettosi o di scarto,
giocattoli, palloni, grossi
tagli di gommapiuma,
tubi di ogni colore e
diametro arrotolati e
impilati,
pneumatici,
canne da giardino, lastre
di vetro. Dentro a una
tenda di tela cerata si
sentiva gracchiare un
grammofono
e
sul
banchetto
era
accatastata una pila di
dischi;Budaisifecelargo
per avvicinarsi, nella
speranzadiascoltareuna
qualche
melodia
conosciuta, o di scorgere
una copertina leggibile:
avrebbepotutoessereun
punto di partenza, una
chiaveperscioglierealtri
enigmi.
Ma
rovistò
invanotraidischi–altri
curiosi
frugavano
insieme a lui nella tenda
–evidesoltantolesolite
lettere
e
scritte
misteriose.
Nel
frattempo dal megafono
veniva un gran baccano,
e come se non bastasse
proprio alle sue spalle
qualcuno si mise a
suonare una trombetta:
era un grassone con una
casaccadamarinaio,che
sembrava un cuoco di
bordo cinese: emetteva
solo due note, stridenti,
sempre le stesse – era
insopportabile,
Budai
preferì lasciar perdere i
dischieseneandò.
Si vendeva anche
vaporoso e candido
zucchero
filato,
si
arrostivano
piccole
salsicce speziate che
sfrigolavano nel loro
grasso, ma erano così
tantiinfilacherinunciò.
Banchi
di
sementi,
piante da fiore e
terriccio, più in là
animali vivi, conigli,
colombi dalle zampe
piumate,
canarini,
pappagallini,
perfino
tartarughe, e poi una
speciedigrossalucertola
crestata ricoperta di
squame che se ne stava
immobile nella sua
gabbia, con lo sguardo
vitreo, rigida come fosse
impagliata. Un uomo
gigantesco con la faccia
rossa, e mani e piedi
enormi
(simile
agli
indigeni della Patagonia
nelle descrizioni degli
esploratori), con una
consunta
giacca
a
quadretti dal bavero di
velluto, era intento a
dimostrare le virtù di
uno
smacchiatore:
versava inchiostro, olio,
succodipomodorosuun
paio di pantaloni chiari,
poi faceva sparire ogni
traccia con il suo liquido
miracoloso,
senza
smettere di blaterare in
ungergotuttosuo.Piùin
là stava un pescivendolo
col
grembiule
insanguinato, il quale,
avendovistoinBudaiun
potenziale cliente solo
perché aveva gettato un
vago sguardo al suo
banco, lo tirò per il
cappotto
e
voleva
affibbiargli a tutti i costi
uno smisurato merluzzo
o chissà che cosa:
picchiavalamannaiasul
banco, passava la lama
del coltello sulla pelle
sottile del pesce per
mostrarne la freschezza,
glielo muoveva sotto il
naso,
gesticolava,
insisteva, a momenti
glielosbattevainfaccia...
Ad altri venditori fu
inveceBudaiarivolgersi,
dapprimainvarielingue
orientali, poi slave, e
ancora
in
inglese,
olandese, spagnolo e
portoghese. Ma anche
qui, di volta in volta, gli
davano
risposte
incomprensibili oppure
lo fissavano con aria
ottusa, lo ignoravano o
addirittura
lo
allontanavanocomeuno
scocciatore,
forse
scambiandolo per un
mendicante.
Budai
ripiombò nell’imbarazzo
enellosmarrimento.
Di stazioni ferroviarie
neanche l’ombra. Aveva
guardato in tutte le
direzioni. Aveva notato
un ampio edificio grigio
in ferro e vetro ma
mentre si avvicinava si
accorse che era un
mercato coperto, ed era
chiuso. Agli ingressi
laterali erano in corso le
operazioni di carico e
scarico:lemerciinarrivo
scorrevano su nastri
trasportatori,
casse
vuote e pile di sacchi
venivanolanciatedentro
ai furgoni, elevatori
spostavano
balle
e
container
pesanti,
facchini
caricavano
botti,damigiane,blocchi
di ghiaccio e di strutto,
mezzene
di
maiale
congelate. A un certo
punto arrivò un camion
pienodicassediverdura
– erano porri, o qualcosa
delgenere–enesceseun
corpulento autista con
un giubbotto blu. Vide
Budaifermosullarampa.
Loafferròperunbraccio,
lo tirò verso il camion e
indicandoilpianaledisse
qualcosacome:
«Dümücie
brüdimrüciüre!Klütt!...».
Queltiziol’avevapreso
per uno scaricatore. Un
equivoco che l’avrebbe
anche divertito, ma lui
non era là per divertirsi:
arrancandoinmezzoalla
folla tornò verso la
metropolitana. Doveva
continuarelasuaricerca,
verificando la serie di
fermate dove poteva
esserci una stazione
ferroviaria.
Questa volta doveva
prendere la linea viola e
poi la verde. I vagoni
erano affollati come
sulla gialla; provò a fare
un piccolo censimento,
un esame antropologico
dei compagni di viaggio
per individuare il colore
della pelle, il tipo e la
forma del viso più
diffusi. Durante il breve
tragitto osservò una
quantità di sfumature,
dal nero carbone al
bianco latte passando
per il bruno, ma i tipi
puri – notò – erano
piuttosto rari, troppo
pochi per indicare in
maniera inequivocabile
che ci si trovasse in
Europa, in Africa o
nell’Asia
orientale;
benché anche in quei
continenti
esistessero
zone
con
una
popolazione multietnica,
per esempio le città
portuali.Aognimodo,la
maggior parte degli
abitanti di quella città
doveva
essere
un
incrociodirazze:comela
giovane donna – occhi a
mandorladagiapponese,
capelli biondissimi e
labbra negroidi – che era
scesa insieme a lui,
talmente
carica
di
sacchetti della spesa da
finirgli addosso mentre
le porte si richiudevano.
Budaicolsel’occasionee,
dopo un vano tentativo
verbale, mimò a gesti la
locomotiva per farle
capire
dove
voleva
andare. La donna sorrise
come
se
avesse
indovinato,
disse
qualcosa, indicò a destra
e a sinistra, poi si avviò
infrettaincoraggiandolo
a seguirla con un cenno
del capo. Budai ebbe
finalmentelasensazione
di essere sulla strada
giusta, si avviò dietro
alla donna attento a non
staccarsi mai da lei, e lei
stessaditantointantosi
girava per mostrargli
con la testa la direzione.
L’uscita–segnalatadalle
grandi frecce bianche –
non era distante, il
corridoio sbucava in un
atrio a forma di stella,
stavano per arrivare
quando
un’enorme
ondata umana lì investì.
Appena si riprese, si
accorse che quell’urto
irresistibile li aveva
strappati l’uno lontano
dall’altro; Budai cercò
con tutte le sue forze di
riavvicinarsi a lei, ma
invano. La testa bionda
riemerse
per
pochi
attimialcunimetridopo,
dove la marea l’aveva
trascinata,
per
poi
sparire definitivamente
nel
turbine
dei
passeggeri
in
movimento. Budai la
attese in superficie per
un po’, ma non la vide
più
uscire
dalla
metropolitana.
Si
diresse
verso
sinistra, come gli aveva
indicato
la
donna.
Questa parte della città
sembrava diversa da
quanto
aveva
visto
finora, aveva un aspetto
più antico, un’atmosfera
più intima, le strade
strette
ma
sempre
popolose;potevaessereil
centro storico, se ne
avevano uno. Passò
davantiaunsegmentodi
muro antico incorporato
in una struttura più
moderna,
con
un’iscrizione in alto:
doveva trattarsi di un
monumento, forse delle
vecchie mura cittadine.
Anche da queste parti i
negozi erano chiusi.
Svoltò in un vicolo
tortuoso, con gli edifici
vetusti dalle facciate
scrostate,
la
strada
sporca,
piena
di
immondizie e bucce di
frutta; gatti randagi si
aggiravano tra le gambe
dei
passanti
e
sgusciavano dentro e
fuori
da
androni
maleodoranti.
Ricominciò
a
piovigginare;
muri
tagliafuoco si ergevano
ciechi, grigi e umidi nel
nulla.
Giunse in una piazza;
al centro c’era una
fontana con la statua di
un
elefante
che
spruzzava un getto
d’acquadallaproboscide.
Intorno girava il traffico
delle auto, incessante e
denso,comesescorresse
dall’inizio dei tempi e
dovessedurareineterno.
Dalla piazza se ne apriva
un’altra
ugualmente
movimentata,iveicolivi
confluivano
passando
sotto un grande arco,
sormontato da un alto
torrionecoronatodauna
balaustra, con le feritoie
eunacupolaincima.Gli
sembrò familiare, ma
non sapeva perché; lo
osservò da ogni lato e a
untrattoloriconobbe:lo
aveva visto nella hall
dell’albergo,alnegoziodi
souvenir,
sul
portachiavi. Non era
facile stabilirne l’epoca e
lo stile: la parte con le
finestre a sesto acuto si
sarebbe detta gotica,
mentre
la
cupola
emisferica
pareva
piuttosto
orientaleggiante,
moresca.
Era
probabilmente
stato
costruito
a
scopo
difensivo, e le opere di
quel
genere
si
assomigliano tutte –
specie agli occhi di
profanicomeBudai–con
i loro volumi massicci,
gli enormi blocchi di
pietra grezza, il loro
austero scopo pratico: le
fortificazioni romane, le
torri
di
guardia
medioevali, perfino la
GrandeMuragliacinese.
Ma
di
stazioni
ferroviarie non c’era
traccia. Eppure almeno
gliufficidellecompagnie
aeree avrebbero dovuto
essere in quel quartiere,
intuiva,esefosserostati
chiusi
li
avrebbe
riconosciuti
dalle
vetrine: modellini di
aeroplani, cartine, borse
con il simbolo della
compagnia. Anche la
Postacentraleegliuffici
pubblici sono di solito
nel centro storico delle
città–maluivedevasolo
piazzeestrade,palazzidi
varie dimensioni, negozi
chiusi,
saracinesche
abbassate, veicoli e
persone, strade e piazze.
Ormai cominciava a
dubitare
di
essere
davvero
nel
centro
storico; oppure qui la
città
vecchia
non
coincideva con il centro
amministrativo, come
nel caso della City a
Londra? O forse esisteva
da qualche parte un
quartiere ancora più
antico? Oppure c’erano
diversi centri storici? A
chi e come avrebbe
potutochiederlo?
Si infilò di nuovo nel
metrò verso la stazione
successiva fra quelle
annotate. Si ritrovò a
vagare
tra
edifici
anonimi e insignificanti:
ricominciò a piovere, e
quando smetteva una
pesante coltre di nubi
incombeva sui tetti. Poi
capitòinunparco,anche
quello sovraffollato, con
bambini che giocavano
suiprationellesabbiere,
facevano
navigare
barchette a vela, si
dondolavano
sull’altalena; donne con
lecarrozzine,caniliberie
al guinzaglio, e tutte le
panchine occupate, con
lunghe code per sedersi.
Si comprò una ciambella
salata e delle salsiccette
arrostite,epranzòcosì:il
profumo era eccellente,
ma
anche
queste
avevano
un
sapore
dolciastro
e
stucchevole... E se la
parola che ricorreva nei
nomi delle fermate, che
lui
aveva
supposto
significasse
stazione,
avesse
voluto
dire
semplicementevia,viale,
piazza, porta o cose del
genere? O fosse soltanto
un
attributo
come
vecchio e nuovo? O
magari si trattava di un
personaggio famoso, un
condottiero o un poeta a
cui avevano intitolato
vari luoghi? O chissà,
forse era il nome stesso
dellacittà?
Alla tappa successiva
scese dal metrò insieme
alla maggioranza dei
passeggeri, il convoglio
quasi si svuotò. Si
riversarono in massa
verso uno stadio, vide la
grigia costruzione di
cemento ergersi in tutta
la sua grandezza come
un
gigantesco
transatlantico, e già da
lontano
udiva
il
rimbombo del pubblico.
Il tempo si era schiarito,
e nel cielo del primo
pomeriggio
si
incrociavano scie di
aeroplani. Budai comprò
il biglietto come tutti gli
altri,siunìallaschieradi
coloro che entravano e
salìintribunadallescale
posteriori, fino alla fila
piùalta.L’arenaeralarga
centinaia di metri e
pullulava
di
una
quantitàindescrivibiledi
spettatori,
e
continuavano
ad
arrivarne:ipostiasedere
erano tutti occupati già
da un pezzo, ma in alto,
nei posti in piedi la folla
si gonfiava, c’era quasi
da aver paura che
l’enorme
edificio
crollasse sotto il loro
peso. Guardando in
basso era pressoché
impossibile distinguere
ilconfinetrailcampodi
gioco e gli spettatori,
ovunque era pieno di
persone:
sull’erba
brulicavano almeno due
o trecento giocatori che
correvano dappertutto,
con dieci o quindici
colori di maglie. Il
pubblico
gridava
scatenato, accanto a
Budaiuntiziosmilzocon
un berretto giallo e una
ispida faccia da gatto
urlava a squarciagola
agitando il pugno. Budai
noncapivanientediquel
che stava succedendo,
osservava tutto quel
movimento
laggiù
sforzandosi
di
indovinare le regole del
gioco, ma non riusciva
nemmeno a contare
quante erano le squadre.
Il terreno rettangolare
era diviso in aree più
piccoledalineebianchee
rosse,eincampoc’erano
almeno otto palle che i
giocatori colpivano di
mano e di piede, con i
pugni o di testa,
buttandole da una parte
all’altra,
oppure
le
tenevano sotto il braccio
mentre
discutevano
animatamente tra loro.
Porte o reti non se ne
vedevano; il campo
invece era recintato
lungo tutto il perimetro
da una rete metallica,
che in alcuni punti era
alta quattro o cinque
metri e altrove arrivava
alle spalle dei giocatori,
ed era proprio lì che la
mischia sembrava più
vivace e i partecipanti si
assiepavano in un muro
compatto.
Auntrattounodiloro,
con la palla in mano,
tentò di scavalcare la
recinzione,
evidentemente con lo
scopo di abbandonare il
campo.Icompagnisene
accorsero e si gettarono
contro di lui, che aveva
già la gamba sinistra
oltre la rete, ma quelli lo
afferrarono per la destra
e lo tirarono giù; dalla
tribuna si levò un
ruggito
sinistro.
Il
fuggitivo
cercò
di
liberarsi, ma gli altri
erano in troppi, non
mollavanolapresaealla
fine
riuscirono
a
trascinarlo sul campo: si
rotolò sull’erba, perse la
palla, e a quel punto lo
lasciarono in pace, senza
fargli male. Subito dopo,
dal lato opposto, dove la
recinzione era più alta,
un nero spilungone in
maglia a righe si staccò
dagli altri e svelto come
una
scimmia
si
arrampicò su per la rete,
e stava per farcela,
sembrava.
Allora
accorsero
tutti,
compreso quello che era
stato tirato giù poco
prima, e si slanciarono
verso
il
nero,
lo
afferrarono,
gli
si
aggrapparonoallegambe
mentre quello scalciava
come un disperato, e
finirono per trascinarlo
giù. L’arena era in
tumulto, rimbombavano
cori di incitamento e
insulti – benché Budai
nonriuscisseacapireper
chi
tifassero
gli
spettatori. Quando un
giocatore tentava di
abbandonare il campo
pareva
riscuotere
l’approvazione generale,
ma appena gli altri si
buttavano
al
suo
inseguimentoilpubblico
passava dalla parte degli
inseguitori
aizzandoli
con passione e furia
spietata.
Il più sollecito a
riacchiappare i fuggitivi
era
un
ragazzotto
dall’aria
spavalda,
tarchiato e muscoloso –
erastatoluiaprenderela
palla allo spilungone
nero.
Scattò
all’improvviso e in men
che non si dica era in
cima alla recinzione:
prima che i giocatori se
ne rendessero conto
aveva scavalcato e si
stava calando fino a
terra. Gli altri cercarono
di trattenerlo attraverso
la rete e riuscirono ad
afferrarlo bloccandolo
contro la recinzione. Ma
il piccoletto non si
arrese, si dibatté finché
non sgusciò fuori dalla
maglia, che restò là
impigliata mentre lui
piombòaterra.Poibalzò
in piedi e salutando
felice con la mano corse
palleggiando
negli
spogliatoiesparìproprio
sotto il settore dove
sedeva Budai. I giocatori
lo guardarono da dietro
la rete, come chiusi in
gabbia.Ilpubblicointero
era sollevato, la tensione
si liberò in applausi,
risate e allegro brusio, e
la massa di persone,
finora salda come un
unico
agglomerato,
cominciò a sciogliersi in
lente ondate... Anche
Budai si avviò verso
l’uscita, il cuore aperto a
una gioia lieve e
inebriante: si sentiva
pieno di fiducia e
serenità.
Dopo vagò ancora per
la città: di nuovo arrivò
la sera, i lampioni si
accesero tutti in una
volta, in lontananza
brillavano delle lettere
rosse e blu in cima a un
grattacielo.
Doveva
essere finito nella zona
dei club o qualcosa del
genere, la musica di bar,
taverne e locali notturni
invadeva
le
strade,
suonata dal vivo o
registrata; e poi insegne
luminose, vetrine con
esposte foto di artisti,
ballerine
e
spogliarelliste. Il solito
sciame di persone in un
sensoenell’altro,perfino
qualche passo di danza
sul marciapiede, una
stria turbinosa in mezzo
al flusso infinito dei
passanti,
bianchi,
orientali, neri, ragazze
dallapelleolivastracome
zingare con fiori tra i
capelli,
soldati.
Era
colpito dalla grande
quantità delle divise:
poliziotti coi manganelli
siaggiravanonellacalca,
comeneavevavistigiàal
mercato, al parco e
attorno
allo
stadio.
Controllori dei mezzi
pubblici, sia uomini che
donne, vigili del fuoco
col casco rosso (sempre
che lo fossero), postini o
ferrovieri in uniforme
blu, e i bambini e le
bambine
spesso
portavano una sorta di
divisa, una giacchetta
verde con pantaloni o
gonnadellastessastoffa.
Ma le più comuni erano
normali tute da lavoro
marroni, di tela robusta,
senza alcun distintivo,
indossate da uomini e
donne. Semplicemente
per praticità? Oppure
erano membri di una
qualcheorganizzazione?
Quellaserasirespirava
aria di festa: gente a
passeggio per le strade,
venditori ambulanti o
banditorieintornoaloro
capannelli di persone e
una gran ressa. Anche a
Budai venne voglia di
spendere i soldi che
aveva in tasca, decise di
comprare e consumare
tutto quello che gli
capitava a tiro; riteneva
di poterselo concedere,
come minimo. Da uno
strillone
comprò
il
giornale con l’intenzione
di studiarlo una volta in
albergo,poiaunchiosco
si mise in coda per una
crêpe: le preparava un
giovanotto in giacca
bianca,cappellodipaglia
e papillon, una faccia
ambrata da indiano che
luccicava di sudore.
Preseanchedabere:aun
lungo
bancone
vendevano una bevanda
sciropposa dal sapore
mielato e stucchevole
che non dissetava, e ne
ordinò
parecchi
bicchieri... A un angolo
di strada c’era un tizio
con un pullover logoro e
sdrucito che urlava e
sbraitava
mentre
avvolgeva delle catene
intorno a un compagno,
un povero disgraziato
con la gobba, e poi
passava con un piattino
fragliastanti.Pocodopo
arrotolò il compare nella
carta da pacchi, lo legò
stretto con uno spago
robusto finché perse
ogni forma umana:
sembrava una mummia
o un pacco postale; per
finire lo infilò in un
grosso sacco e con altro
spago
strinse
l’imboccatura in cima. A
quel punto soffiò in un
fischietto
e
l’altro
cominciò, per quanto gli
fosse possibile dentro a
quell’involucro,
a
muovere le spalle e i
piedi.
Il
numero
consisteva
nel
suo
tentativo di liberarsi da
solo, senza alcun aiuto
esterno, ma pareva
impossibile,
così
incatenato
e
impacchettatodallatesta
ai piedi. Ma quell’ometto
striminzito si agitava
sempre di più, per far
uscire un arto o almeno
un dito, e dal sacco ora
spuntava la sagoma di
un ginocchio, ora di un
gomito. Nel frattempo
emetteva
suoni
gutturali, mentre il tizio
con il pullover illustrava
in tono entusiastico le
varie fasi del numero e
passava di nuovo con il
piattino. Il sacco crollò a
terra: il gobbetto si
contorceva e si rotolava
sul
selciato,
stava
lottando strenuamente
all’interno, si dava da
farecontuttelesueforze
e la sua inventiva,
brontolava e sbuffava
furiosamente,
si
dimenava e rimbalzava
come in preda alle
convulsioni. A un tratto
lo spago che chiudeva il
sacco
si
allentò,
nell’apertura
apparve
dapprima un ditino
sottile, poi la mano e
infine il braccio. Da quel
punto in poi si liberò
piuttosto
in
fretta,
tirandofuoriinsequenza
la testa, le spalle e la
gobba. Un minuto più
tardi si scrollò di dosso
involucro e catene e fece
un inchino: aveva una
faccia
storta
e
lentigginosa,
batteva
confuso le palpebre. Gli
astanti applaudirono e
versarono soldi nel
piattino.
Budai aveva sete e
bevve ancora: quello
sciroppo
dolciastro
dovevaesserealcolicoea
pocoapocoglidiedealla
testa,
si
sentiva
annebbiato e con uno
strano formicolio nel
corpo. Percepiva tutto in
modo chiaro, anzi, più
vivido,
ma
come
dall’alto,senzaprendervi
parte.
Adesso
tutta
quella situazione gli
sembrava
di
poca
importanza,
non
ci
faceva molto caso, stava
in un angolo remoto del
suo cervello: in fin dei
conti non era colpa sua
se le cose erano andate
così, non aveva mica
sceltoluidifinireinquel
posto, che venissero a
cercarlo...
In
quel
momentogliinteressava
di
più
l’atmosfera
animata della sera, la
miriade di piccoli eventi
sul marciapiede e nelle
strade, abbandonarsi a
quella
chiassosa
e
variopinta
allegria
popolare. C’erano molti
ubriachi
che
barcollavano,cantavano,
con un cappellino di
carta in testa, sparavano
con pistole giocattolo e
lanciavano stelle filanti.
Brillo com’era si sentiva
quasi uno di loro, gli
sarebbe piaciuto fare
parte di qualcosa, di
qualsiasi cosa. Si unì a
una rumorosa comitiva
di adolescenti un po’
bulli che sfottevano
chiunque incontrassero,
scherzavano,
si
spintonavanol’unl’altro,
giocavano alla cavallina,
spruzzavano l’acqua alle
ragazze
con
delle
cannucce. Tra risate e
schiamazzisvoltaronoin
una traversa; Budai li
seguì.
Eraunvicolopiuttosto
strano, con case strette
strette, alcune non più
larghedell’aperturadelle
braccia, dipinte a colori
vivaci, verde, rosso,
arancione, addirittura a
scacchi. Le finestre,
soprattutto al primo
piano,
erano
molto
grandi, quasi quanto la
casa,edietroaognunadi
esse c’era una donna:
truccate pesantemente,
in abiti da sera dalle
profondescollatureoche
lasciavano scoperte le
spalle e parte del seno.
Strizzavano l’occhio agli
uomini di passaggio
invitandoli a entrare;
Budai capì subito in che
tipodizonaeracapitato.
E
sebbene
non
frequentasse
luoghi
simili da quando era
studente, provandone
unacertarepulsione–di
norma evitava quel
genere di strade –, d’un
tratto
intravide
la
possibilità
di
un
incontro:
finalmente
sarebbe potuto restare a
tu per tu con qualcuno,
scambiare una parola,
domandare e forse avere
risposte,
o
almeno
provare
a
spiegare,
trovare ascolto... Al
pensiero si emozionò al
punto che cominciò a
sudare;entrònellaprima
taverna e si mise in fila
per un bicchiere, per
farsi coraggio e vincere
la
sua
naturale
timidezza.
Al pari dei colori delle
case, le donne dietro alle
finestre erano tutte
diverse: bionde dalla
pelle lattea, minuscole
orientali con gli occhi a
mandorla e uno chignon
fermatodalpettinecome
le geishe giapponesi,
bellezze color dell’ebano
con
una
massiccia
collana d’argento al
collo. Ne vide una in
abito di tulle bianco,
avevalunghecigliascure
sul viso madreperlaceo e
un sorriso da madonna
agli angoli della bocca:
non adescava nessuno,
se ne stava seduta a
guardare la strada, e fu
questo
che
attirò
l’attenzione di Budai.
Passò più volte sotto la
sua finestra, lei lo notò
marimaseimpassibile,si
limitò a seguirlo con lo
sguardo radioso e un
sorriso pudico e beato...
Con repentina decisione
Budaisuonòallaporta,il
cuore in gola come uno
scolaro che sta per fare
una marachella; un
ronzio
segnalò
che
potevaentrare.
Si ritrovò in un atrio
semibuio, a un tavolino
sedeva
una
donna
anziana.Quandolepassò
accanto lei gli diede un
pezzetto di carta con
scritto il numero 174.
Budai non capì, glielo
restituì
con
aria
interrogativa, ma la
donna gracchiò qualcosa
scocciata e indicò una
scala. Lui salì al primo
piano, dove c’era un
vecchietto
calvo
e
rinsecchito, con la faccia
rossa e rugosa come una
mela al forno. Gli chiese
il numero, lo bucò con
una pinza, poi strappò
unbigliettodaunblocco:
datochenonsicapivano
l’unl’altro,civolleunpo’
prima che fosse chiaro
che bisognava pagare
sull’unghiaconunpezzo
da 10. A Budai sembrò
parecchio, chissà se
comprendeva
solo
l’ingresso
o
anche
qualcos’altro, era già
pentitodiessereentrato.
Fu immesso in una
sala rotonda sulla quale
si aprivano quattro
porte. Lungo la parete
circolare erano disposte
sedie e panche dove
sedevano
venti
o
venticinque uomini, in
attesacomedaldentista,
enonc’eranopostiliberi.
Un
altoparlante
diffondeva le note di un
valzer, e i clienti
conversavanoeridevano
traloro.Budairinunciòa
ricorrere al linguaggio
dei segni, tanto era
inutile,
e
poi
si
vergognava un po’ di
trovarsi
lì,
come
spiegarlo? Ci avrebbe
provato dopo, da solo
con la ragazza... Di tanto
in tanto si apriva una
porta e spuntava una
donna discinta, che
faceva una giravolta
sollevando
l’orlo
dell’abito;aquelpuntosi
alzava il cliente di turno
– erano al numero 148 –
e sparivano insieme
nella stanza. Ma c’era
anche chi passava la
manoperaspettarneuna
che gli piacesse di più, e
alloratoccavaalnumero
successivo. Poco per
voltaavevavistol’intero
assortimento,
ma
purtroppo quella con il
visodamadonnanonera
comparsa: che fosse
soltantouncampioneda
esposizione?
In ogni caso gli affari
andavano a gonfie vele,
le porte si aprivano e si
chiudevano
in
continuazione: le donne
si ritiravano in camera
col cliente per dieci o
quindici
minuti,
in
qualche caso anche
meno, ed erano sempre
in
arrivo
nuovi
avventori.Perviadiquel
fitto andirivieni l’aria
della sala era viziata,
molti fumavano e non
pareva ci fosse modo di
ventilare
l’ambiente:
afrorimaschilimescolati
a fumo di sigaretta, a
fragranze dozzinali e a
un vago odore di
disinfettante
o
insetticida. Budai trovò
una sedia libera ma non
andòmeglio:gligiravala
testa e si sentiva lo
stomaco
sottosopra,
aveva bevuto troppo
intruglio
alcolico.
Desiderava
solo
andarsene, ma temeva
cheavrebberimpiantodi
essere fuggito come un
codardo e di aver
sciupato l’occasione; gli
dispiaceva anche per i
soldi. Decise che non
avrebbefattoildifficilee
si sarebbe accontentato
dellaprimachecapitava,
chiunque fosse. Tanto
con
tutto
quel
commercio
gli
era
passata qualsiasi voglia
giàdaunpezzo.
Arrivò finalmente la
chiamata
del
174:
comparveunaragazzona
robusta
dai
capelli
rossicci e dalla pelle
scura o abbronzata.
Budaisialzòelaseguìin
silenzio nello stanzino.
Chiusero la porta, ma si
sentivano lo stesso la
musica,ilchiacchiericcio
e le risate dei clienti in
attesa.
La
donna
indossava una leggera
camicetta
bianca
e
un’ampia gonna verde
mare, sotto la quale per
un attimo si intravidero
le floride cosce nude, e
un paio di sandali.
Cominciò
subito
a
spogliarsi: si era già
sfilata la camicetta dalla
testa quando Budai la
fermò alzando il dito.
Iniziò a parlarle in più
lingue, indicando prima
sé stesso, poi lei, e fece
un largo gesto delle
braccia
tutt’intorno,
infine aprì le mani con
ariainterrogativa:voleva
saperecomesichiamava
la città, in che paese si
trovava, cose così. La
ragazzanondovevaaver
capito, perché con voce
profonda e ruvida da
fumatricereplicòperben
due volte con una
domanda,fissandolocon
le sopracciglia inarcate.
Allora Budai tirò fuori il
quadernino e disegnò
goffamentel’Europa,con
le
tre
penisole
meridionali e i fiumi
principali: in riva al
Danubio segnò la sua
città natale, da dove
proveniva, ne ripeté più
volte il nome scandendo
bene le sillabe mentre si
picchiava l’indice sul
petto. La ragazza guardò
il disegno, pensosa, e
intanto gli fece cenno di
mettersi a suo agio, lui
stava ancora lì in piedi
con il cappotto addosso.
Budai si tolse solo il
cappottoeloappoggiòsu
una sedia: prese a
gironzolare impacciato
per l’angusto stanzino e
la donna lo invitò a
sedersi accanto a lei sul
sofà rivestito di pelle.
Non gli metteva fretta e
non
si
mostrava
impaziente, anche se là
fuori – a giudicare dal
baccano, dalle voci e dal
rumore di sedie spostate
–
i
clienti
non
diminuivano e il volume
della musica era sempre
più alto. Fra tutti quanti
doveva averla toccata la
solitudine
di
quel
forestiero, nonostante
non lo capisse, e forse
aveva intuito che era un
cliente diverso dagli
altri.
Budai staccò il foglio
dal quadernetto e glielo
porse
insieme
alla
matita, come a dirle di
fare un disegno simile.
La donna fraintese il
gesto, piegò il foglietto e
lo ripose in una scatola
metallica che teneva
sotto il letto. Allora
Budaiprovòachiederleil
suonome,poitentòconi
numeri da uno a dieci,
aiutandosi con le dita:
uno, due, tre... Ma non
erachiaroseafferrava,le
risposte che dava erano
lunghe
e
parlava
lentamente, scoppiando
ogni tanto in una risata
amara: era impossibile
comprendere quel che
diceva.Ladonnaestrasse
di nuovo la scatola e gli
mostrò
varie
cianfrusaglie:
spille,
nastri, fermagli, vecchie
lettere, fotografie, un
binocolo da teatro, un
anello, biglie colorate,
una perla di vetro; forse
erano i suoi ricordi e i
suoi segreti. E parlava,
parlava
con
voce
profondaeroca;richiuse
la scatola e poi la riaprì,
ripetendo più volte
qualcosacome:
«Tevebevedere
acipacitapp!
Acipacitapp?...
Buturü
gebeceacipacitapp?...».
Questo acipacitapp lo
diceva in continuazione;
a un tratto prese dalla
scatola una vecchia
scarpinainfantileeisuoi
occhi si riempirono di
lacrime.
Budai
non
sapevacosaimmaginare.
Era sua, di quando era
bambina?Odisuofiglio?
E dov’era adesso suo
figlio?...
La
ragazza
stringeva a sé quella
scarpina
con
tanta
passione
che
era
impossibile non provare
penaperlei:lepassòuna
mano sui capelli, che
erano soffici e rossi, e
carichi di elettricità,
tanto che a sfiorarli
emettevano
quasi
scintille, le accarezzò la
fronteeilcollo.Ladonna
gliafferròlamanoesela
portò al viso, alla bocca,
inumidendoladilacrime;
lui ne fu imbarazzato,
ma di colpo la sua
rigidità si sciolse come
neve al sole... Dalla sala
d’attesa si udì un
nervoso scalpiccio di
passi: doveva essersi
trattenutooltreiltempo.
Qualcuno bussò alla
porta. Budai si sentì a
disagio: gli dava fastidio
che
gli
mettessero
premura, ma avrebbe
anchevolutoliberarsida
quella situazione. La
ragazza
però
lo
tratteneva, aggrappata a
lui, inginocchiata ai suoi
piediconlatestasulsuo
grembo. Budai tentò di
sollevarla ma cadde
anche lui in ginocchio
accanto a lei; restarono
così, a metà strada tra il
pavimento e il sofà, in
una posizione goffa e
innaturale,
ma
abbracciati come un
corposolo.
Da fuori cominciarono
a vociare e a battere i
pugni
sulla
porta:
bisognava sbrigarsi. La
donna lo baciò sulla
boccaamo’dicommiato
e lui la abbracciò di
nuovo...Levoltòlespalle
infilandosi il cappotto;
dopo
una
breve
esitazione posò con
qualche impaccio una
banconota da 10 sulla
sedia. Lei non lo
guardava, intenta a
sistemarsi la pettinatura
allospecchio,enondisse
una parola. Budai uscì
dalla porta sul retro,
passando per una scala
di servizio che puzzava
dipipìdigatto.
Ilvicolosbucavainun
ampio spiazzo dove
girava una spettacolare
ruota
panoramica
sfavillante di luci, e
intorno
pullulavano
mille attrazioni, giochi,
tiroasegno,autoscontri,
la nave dei pirati, le
giostre: un lunapark.
Anche le gigantesche
montagne russe erano
illuminate,
echeggiavanostrilli,urla
gioiose,
squilli
di
trombette, scoppiettii; e
sciami
di
folla
dappertutto.
C’erano
scivoli, un tunnel della
paura, lancio degli anelli
e punching ball, numeri
di prestigiatori, acrobati
e
giocolieri,
mangiaspade
e
mangiafuoco,
un
contorsionista
che
incrociava le gambe
dietro il collo, e una
donnacannone,cheperò
stava seduta immobile
su
una
pedana,
prigioniera del suo peso,
enormeeinertecomeun
idolopolinesiano.
Si potevano affittare
delle
barchette,
naturalmente
dopo
un’attesa interminabile;
ormai Budai non si
curava più del tempo,
non gli importava che
ore fossero. Gli diedero
una
barchetta
monoposto, una lenta
corrente lo trascinò
dentro un tunnel a
forma di grotta. La
musica era assordante,
una specie di barcarola
sentimentale,eovunque,
perfino
sull’acqua,
ondeggiavano lanterne
colorate
dalla
luce
soffusa. Su entrambi i
laticastelliinminiatura,
cascate, chiuse, centrali
elettriche, ponti e cose
delgenere:nientediche,
un’attrazione piuttosto
ordinaria.Eppureperlui
fu la gioia più grande e
inattesa di tutta la
giornata, forse la prima
daquandoeraarrivatoin
quelluogo...
D’estate
aveva
l’abitudine di andare in
canoa sul Danubio.
Partivalamattinapresto
e risaliva la corrente
lungo la riva tortuosa e
fitta di alberi e cespugli.
Tra isolotti e secche,
l’acquanonformavamai
uno
specchio
perfettamente liscio, ma
era increspata sulla
superficie da ondine
scintillanti, a tratti più
mosse; anche con la
bonaccia il fiume era
vivo e dotato di un
proprio respiro. Spesso
approdava
su
una
piccola isola senza nome
e si riposava: nei periodi
di piena il Danubio la
sommergeva, i ciuffi
d’erba e le alghe
trascinate dalla corrente
restavano impigliati nei
tronchi dei salici e nei
cespugli, e poi quando il
fiume si abbassava di
nuovo si seccavano e
sembrava che gli alberi
avessero la barba. L’isola
era tagliata a metà da
una
stretta
laguna
navigabile, dove lui si
infilava con la snella e
agile imbarcazione sotto
le fronde degli alberi e
l’intrico di liane. Non
aveva mai incontrato
nessuno da quelle parti,
al massimo qualche
uccello selvatico che
volava via al suo
passaggio.Allafocedella
laguna c’era una breve
rapida,
il
fiume
accelerava
all’improvviso e l’acqua
diventava trasparente,
rivelandoillettosassoso:
eraquicheglipiacevadi
più fare il bagno, nella
corrente, sentire sulla
lingua e sulla pelle il
sapore fresco e tenero
dell’acqua dolce. Un
mattinodimaggioaveva
visto
delle
anatre
selvatiche davanti alla
spiaggia sabbiosa, era
rimasto immobile a
osservarle da dietro un
cespuglio senza che si
accorgessero di lui: la
madre stava insegnando
ai piccoli a nuotare, a
tuffarsieapescare...
In preda a un’ebbrezza
lieveecaricadiricordisi
avviò per tornare in
albergo. Si era segnato
sul quaderno il nome
della sua stazione, ma in
compenso non sapeva
dove
prendere
la
metropolitana: l’ultima
fermata a cui era sceso
eraormaitroppolontana
e non sarebbe stato
capace di ritrovarla, e
invano si guardava
intorno in cerca delle
tipiche
scale
gialle.
Cominciò a chiedere,
fermava i passanti che
gli venivano incontro,
sperando che capissero
almeno il gesto, e
indicava in basso, verso
ilselciato.Unadonnadai
lineamenti tartari, che
indossava quella tuta
marrone,
sembrò
finalmente intuire: con
aria rassicurante gli fece
segno di seguirlo, lo
prese
addirittura
sottobraccio,
e
due
isolati più in là lo
condusse in un bagno
pubblicosotterraneo.
Temette di essersi
smarritopersempreedi
non
ritrovare
più
l’albergo – ormai era
tardi, doveva essere
mezzanotte passata –,
quando
gli
venne
un’idea: osservare il
flussodellafolla,dov’era
più denso e in che
direzione
andava,
individuare
insomma
una corrente principale.
E quella si sforzò di
seguire,standoattendoa
non allontanarsene mai:
il corteo attorno a lui
divenne via via sempre
più compatto, girato
l’angolo si unì a una
vasta fiumana di gente
chedopopochecentinaia
di metri entrò in una
costruzione rotonda dal
tetto piatto: erano le
scalecheconducevanoal
metrò. Qui gli fu facile
orientarsi; sulla mappa
cercò il suo percorso, i
colori delle linee e dove
cambiare.
Uscitoinsuperficieera
nellapiazzettadacuiera
partito al mattino. Nei
pressi c’era il grattacielo
in costruzione che aveva
ammirato il giorno
precedente. Contò di
nuovo i piani: arrivò a
sessantacinque, eppure
si ricordava benissimo
che
erano
sessantaquattro.Licontò
un’altra
volta:
sessantacinque, ed era
già allestita la struttura
di
ferro
del
sessantaseiesimo:
l’avevano tirato su in un
giorno, non c’erano
dubbi...
Davanti
all’albergo il grasso
usciere portò la mano
alla visiera e diede una
spinta
alla
porta
sbattendo le palpebre.
Budai
cominciava
seriamenteapensareche
non fosse un essere
umano in carne e ossa,
ma un robot in divisa
programmato
per
compiere quei due o tre
movimenti.Futentatodi
toccarlo per vedere di
che cosa fosse fatto, ma
poi si trattenne: chissà,
poteva
prendere
la
scossa...
Mentre era in coda per
la chiave, si ricordò
vagamente della lettera
lasciataperladirezioneil
giorno prima: avrebbe
trovato una risposta nel
suo
scomparto?
O
magari era finalmente
saltato
fuori
il
passaporto? Ma poi vide
che non c’era niente e
che il portiere era
cambiato ancora, e gli
passò qualsiasi voglia di
mettersi a discutere e
ricominciaredacapocon
una scenata inutile.
Ritirò in silenzio la
chiave e andò a fare la
filaperl’ascensore.
Non
si
aspettava
l’ascensorista
bionda
perché
l’aveva
già
incontrata al mattino; si
meravigliò di vedersela
davantiall’aperturadelle
porte.
Aveva
l’aria
esausta,ilvisoarrossato,
lesichiudevanogliocchi
quando schiacciava i
pulsanti con le lunghe
dita dalle unghie ben
curate – possibile che
stesse lavorando fin dal
mattino?Oeratornataa
casa per poi riprendere
servizio la sera? Dove
poteva
abitare,
nell’albergo o presso la
sua famiglia? Aveva una
famiglia, un marito?...
Nellacabinal’ariaerapiù
soffocante del solito, e si
accorsecheilventilatore
era guasto. Salendo
aveva cercato di trovarsi
proprio accanto a lei: la
peluria chiara delle
tempie era imperlata di
minuscole gocce di
sudore. L’alcol aveva
allentato i freni inibitori
di Budai: con il giornale
cominciòafareventosul
collo e la fronte della
ragazza. Lei si voltò
lentamente, con aria più
sorpresacheseccata,uno
sguardo
stanco
ma
curioso, e disse anche
qualcosa, con una breve
risatina: per la prima
volta Budai la vide
sorridere.
Si
sentì
assalire da un misto di
fiacchezza e tenerezza,
dall’improvviso
desideriodistarlevicino,
di riposare al suo
fianco...
Sì,
mentre
osservava lei e sé stesso,
aveva solo il desiderio di
sdraiarsi e dormirle
accanto, nello stesso
letto, aspettare che la
ragazza
prendesse
sonno, ascoltare il suo
respiro, sentire il battito
dellesueveneattraverso
la pelle sottile dei polsi;
questo
l’avrebbe
appagato
totalmente.
Quandogiunseroalnono
piano fu la donna ad
avvertirlo
che
era
arrivato.
Quindi
si
ricordava di lui, non le
era
del
tutto
indifferente.
Anche questa volta la
stanza
era
stata
riordinata, e il letto
rifatto.
Però
era
scomparso
l’elenco
telefonico: il personale
delle pulizie doveva
averlonotatoeritirato,e
cosìeranoandatiperduti
gli appunti che aveva
annotato alla fine del
volume. Gli restava il
giornale
per
ricominciaredacapo,ma
non ne aveva nessuna
voglia. La stanchezza gli
appesantiva le membra,
aveva camminato ore e
ore, vagando qua e là, e
aveva sprecato un’altra
intera
giornata
–
confessò a sé stesso con
un misto di derisione e
sgomento
–
senza
progredire
di
una
virgola. In preda a uno
stato febbrile, passando
da un senso di disgusto
per il proprio fallimento
a un torpore etilico
venato di apatia, si
svestì, si fece una doccia
e si coricò, ma non
spense l’abat-jour. Il
problema era lui, il suo
carattere alieno da ogni
forma di invadenza e
prevaricazione: se ne
rese conto con grande
lucidità, nonostante il
sonno e la sbornia. Se
nonfossestatocapacedi
vincere la sua irresoluta
modestia, il suo timore
di esser di peso, non si
sarebbe mai tirato fuori
daquellasituazione,non
sarebbe
nemmeno
riuscito a dare notizie di
sé, e nessuno sarebbe
venuto
a
cercarlo.
Doveva battersi da solo,
non c’era altra via
d’uscita:
doveva
cambiare radicalmente,
solo così avrebbe potuto
ritrovarelasuavitavera,
lasuapersona.
Dallarabbiapicchiòun
pugno sul comodino con
una tale violenza che la
lastra di vetro andò in
pezzi e si ferì la mano.
Prese a sanguinare; si
fasciò prima con il
fazzoletto, poi con un
asciugamano, ma anche
questosiintrisesubitodi
sangue. Odiava quella
città,
la
odiava
profondamente perché
gli
riservava
solo
sconfitte e ferite, lo
costringevaarinnegaree
acambiarelasuanatura,
e perché lo teneva
prigioniero,
non
lo
lasciava andare, e ogni
volta che provava a
fuggire lo ghermiva e lo
tiravaindietro.
Faceva
un
sogno
ricorrente.
Era
a
Helsinki, la città sul
mare che conosceva da
tempo, camminava per
le strade linde, e da
qualsiasi punto partisse
– la cattedrale, il teatro
dell’Opera,ilmercatodel
pesce, lo stadio olimpico
–, arrivava sempre al
mare. Gli piaceva quel
sogno,
guardare
l’orizzontechediventava
via via più blu dietro la
schiera di case bianche e
marroni: era perfino
capace di evocarlo in
modo
vivido,
di
richiamarlo dal fondo
dei ricordi più remoti,
nell’incoscienza lieve e
chiaroscurata del primo
sonno o del risveglio.
Intanto, il congresso di
linguistica di Helsinki
doveva essere ormai
finito, era previsto che
durasse tre o quattro
giorni, a seconda del
numero di interventi
nella discussione. Da
quandoeralì,invece,per
quanto frugasse nella
memoria, di acqua non
ne aveva vista affatto,
nemmeno un fiume, o
un lago: soltanto in quel
lunapark, dove aveva
affittato la barca, o ai
giardini pubblici, la
vasca in cui i bambini
giocavano
con
le
barchetteavela.
Laferitaallamanonon
guariva, gli faceva male,
un dolore continuo e
pulsante,
aveva
cambiato la fasciatura
più volte usando un
fazzoletto pulito. Decise
che non avrebbe più
bevuto, aveva esagerato:
doveva restare sobrio e
lucido, senza perdere la
testa, e le sere seguenti
riuscì a controllarsi. Si
sforzò di mantenere per
qualchegiornounasorta
di routine. Mangiava al
mattino e al pomeriggio,
disolitoallatavolacalda
vicino al grattacielo in
costruzione, e il resto
della
giornata
girovagavanellestradeo
si
spostava
in
metropolitana. In un
paio di occasioni non
restituì la chiave per
risparmiarsi la fila al
ritorno. Ma poi ci
ripensò;senelfrattempo
l’avessero cercato si
sarebbe soltanto creata
confusionesudovefosse
finito.
Peraltro,
continuava a non avere
notizie
del
suo
passaporto e il portiere
dai capelli grigi che
gliel’aveva
preso
la
primaseranonsierapiù
visto.
I dettagli delle mosse
successive lo tennero
così
occupato
da
permettergli di non
pensare troppo alla
situazione in sé; e forse
era proprio quello che
voleva,
accantonare
l’idea per un poco...
Preparò diverse copie di
un avviso in sei lingue,
che affisse in vari punti
dell’albergo
–
nei
corridoi, in ascensore,
nellahall,eperfinofuori
dall’ingresso principale:
invitava chiunque era in
grado di leggere e capire
lesueparoleadandarloa
cercare nella stanza 921
e, nel caso non ci fosse
stato, a lasciargli un
messaggio nella sua
casella alla reception;
aggiunse la promessa di
una lauta ricompensa.
Poisimiseabussarealle
camerevicine:ilpiùdelle
volte non gli rispose
nessuno,forseerasoloil
momento sbagliato, gli
ospitieranofuori,oforse
dava dei colpetti troppo
discreti.
Dove
c’era
qualcuno, invece, capì di
aver disturbato: dietro
una porta si udì berciare
un’aggressiva
voce
femminile,
dietro
un’altra invece, che
Budai aprì dopo aver
ricevuto
un’incomprensibile
risposta, due giovanotti
dalla
carnagione
olivastra, in pigiama, si
allontanarono
bruscamente
uno
dall’altro:ilpiùbasso,un
tiziosmilzoeocchialuto,
sgusciò fuori di corsa,
infilò il corridoio e
scomparve dietro un
angolo.
La
porta
successiva
non
era
chiusa: Budai sbirciò
dallospiraglio,entròcon
cautela e fu investito da
untanfodiporcilechelo
fece arretrare per un
istante.Nellastanzanon
c’era nessuno, soltanto
gabbie piene di grassi
conigli
d’angora
sistemate da ogni parte,
per terra, sulle sedie, sul
portavaligie,incimaagli
armadi, perfino sotto il
letto e nel bagno, dentro
la doccia, sulla tazza del
water; conigli chiusi
nelle loro gabbie a
rosicchiare e zampettare
nei loro escrementi, in
unfetoreinsopportabile,
zigandoinsulsamente.
Glivenneun’altraidea:
verso sera uscì e si mise
davanti
all’ingresso
dell’albergo ad aspettare
il pullman che li aveva
condotti
lì
dall’aeroporto. Ma non
avrebbesaputodireache
ora erano arrivati, né di
checoloreerailpullman,
e anche se lui era stato
l’ultimo a scendere non
potevagiurarechequello
fosseilcapolinea,perché
il pullman era ripartito
dopo pochi istanti. Così
si limitò a tenere la
posizionenellabolgiadel
marciapiede, lottando e
sgomitando per non
essere trascinato via
mentre
cercava
di
identificareunmezzofra
tutti
quelli
che
passavanoneltraffico–e
se il volo con cui era
arrivato non fosse stato
giornaliero?
Eppure
quell’uscita
non fu del tutto inutile,
perché proprio allora, al
passaggio
di
un
poliziotto armato di
manganello, lo folgorò
l’idea più importante e
clamorosa che avesse
finora concepito: era di
una semplicità così
geniale, di un’efficacia
cosìinfallibilecheesultò
tra sé per esserci
arrivato. Se per un
motivo qualsiasi si fosse
fatto portare alla polizia,
l’avrebbero interrogato
e, non capendo la sua
lingua, sarebbero stati
costretti a trovare un
interprete,
al
quale
finalmente
avrebbe
potuto raccontare cosa
gli era successo... Tornò
di corsa nella sua stanza
per riflettere con calma
sul modo migliore per
farsi arrestare. Poteva
provocare una rissa,
attaccar briga con un
passante, spaccare una
vetrina o una cabina
telefonica
con
un
mattone;
bucare
le
gomme a un’automobile
al semaforo, oppure
rompere il semaforo,
accendere un fuoco di
giornali e cartacce in un
parco o un luogo
pubblico. Non riusciva
però a vincere la
resistenza che provava
verso
simili
atti
vandalici,
e
inoltre
temeva una reazione
ostile da parte dei
passanti, che avrebbero
potuto
malmenarlo
prima dell’arrivo della
polizia.
Nella
città
vecchia aveva visto una
fontana con un elefante
di pietra: e se fosse
andato a farci il bagno?
Forse sarebbe bastato
anche
spogliarsi
in
mezzoallastrada–mail
suo senso del decoro si
ribellava a una cosa del
genere. E se avesse finto
un malore, un attacco di
epilessia, contorcendosi
sul selciato con in bocca
un pezzo di sapone
schiumante,comefanno
gliimpostori?
Non aveva ancora
deciso, ma uscì di nuovo
in strada e si piazzò
davanti all’albergo, in
attesa di un’ispirazione
momentanea.
Non
dovette aspettare molto:
sul marciapiede scorse
un agente di polizia
mescolato tra la folla.
Budai tirò un respiro
profondo,loraggiunsedi
buona lena e, scegliendo
ilmetodopiùimmediato
– non prima di aver
abbandonato e ripreso
l’idea per ben tre volte –,
gli sferrò un gran pugno
in pieno petto. Il
poliziotto credette che
gliel’avesse
dato
involontariamente, per
gli urti della folla, e si
scansò per lasciarlo
passare. Ma Budai non si
arrese, anzi si infiammò
nelpropositoecongesto
audace gli fece volar via
il berretto, mettendo a
nudo una fronte bassa,
arrossata e lucida, e i
capelli cortissimi. A quel
punto il poliziotto non
ebbe più dubbi, soffiò
furioso nel fischietto e
assestò
sulla
testa
dell’aggressore una tale
manganellata che Budai
vide tutto nero; al
secondo colpo perse i
sensi...
... Si risvegliò in un
abitacolo chiuso e in
movimento, deboli raggi
di luce filtravano da
piccoli
finestrini
a
sbarre: si trovava di
sicuro in un cellulare
della polizia. La testa gli
ronzava, sulla fronte
sentì due bernoccoli
doloranti grossi come
noci, ma fu pervaso da
un profondo senso di
soddisfazione per aver
raggiunto lo scopo – o
per lo meno era sulla
buonastrada...Iltragitto
durò parecchio, circa
mezz’ora;
Budai
si
rannicchiòsullapancadi
legno, stordito dalla
botta. Fuori cominciò a
piovere, ascoltava il
rumore delle gocce sul
tetto del furgone: il
ticchettio
lo
fece
assopire.
Si svegliò di colpo
quando il cellulare si
fermò e il portello
posteriore
venne
spalancato. Apparvero
due poliziotti – nessuno
di loro era quello
aggredito
–
e
gli
indicarono di scendere.
Si trovò in un ampio
cortile recintato da muri
grigi e affollato da un
gran numero di uomini
in divisa e in borghese;
Budai venne scortato
dentro l’edificio, dove
imboccarono un lungo
corridoio con un intenso
viavai di gente. Seguì
docile i due poliziotti,
senza provare a attaccar
discorso,
tanto
era
inutile, e poi fra poco
avrebbe
avuto
un’occasione
migliore
per
parlare
con
qualcuno, di questo era
ormai certo. Faceva
molto caldo, l’aria era
pesanteeumidacomein
una serra, si sudava e le
finestre erano tutte
chiuse.
Lo condussero in una
specie di ufficio: dietro a
un tavolo ricoperto di
feltro verde e macchiato
d’inchiostro sedeva un
grasso
ufficiale
dal
coloritolivido,conibaffi
spioventi, che faticava a
tenere aperti gli occhi,
due fessure dal taglio
obliquo; ciò nondimeno
stava mangiando, e
affettava un tocco di
pancetta dall’odore un
po’ rancido su un pezzo
di carta bisunta e
appiccicosa,
da
cui
sgocciolava il grasso,
scioltodalcaldo.Anchelì
l’afa era insopportabile,
Budai si domandava
perché
tenessero
il
riscaldamento
acceso,
come
facessero
a
resistere, a sopportare
quella
temperatura
assurda.
L’ufficiale
guardò i presenti con
aria
insonnolita,
asciugandosi la bocca e
lafaccialucidadisudore
con un fazzoletto a
quadretti; i poliziotti
abbozzarono un pigro
salutomilitare,equelloa
sinistra
balbettò
qualcosa a mo’ di
rapporto,
presumibilmenteriferìil
reato per il quale Budai
era stato fermato. Il
comandante
annuì,
sospirando
rumorosamente come se
anchequestoglicostasse
fatica,epuntòsudiluilo
sguardo apatico degli
occhietti
grigiastri,
asciugandosileditaunte
sul feltro del tavolo, poi
gliruggìqualcosaintono
interrogativo.
Budai credette che
fossefinalmentearrivato
ilsuomomentoeavanzò
diunpasso–masubitosi
bloccò. Ora sì che aveva
bisogno del passaporto:
era
una
sorta
di
immunità,unaprovaeal
tempo stesso un appello,
avrebbe
sostituito
lunghe
spiegazioni,
glielo poteva sventolare
sotto il naso e tutto
sarebbe andato liscio,
avrebbero saputo che
fare di lui... E invece per
l’ennesima volta fu
costretto a spiegarsi a
gesti e in più lingue:
indicava
sé
stesso,
ripeteva il suo nome, la
nazionalità, la città di
residenza, e chiedeva un
interprete.Nellosguardo
dell’ufficiale di polizia
non apparve il minimo
barlume
d’intelletto;
certo,
quel
caldo
soffocanteavevafiaccato
lo stesso Budai, e
incrinato la sua iniziale
determinazione e, per
giunta, si accorse che la
benda era insanguinata,
la ferita alla mano si era
riaperta, chissà se per il
calore o la colluttazione
con il poliziotto. Nel
frattempo
l’ufficiale
avevafinitolapancettae
ora era alle prese con un
pezzo di formaggio
mezzo sciolto, molle e
maleodorante: rimase a
contemplarlo
per
qualche istante, poi
cominciò a mangiarlo a
piccoli
bocconi.
Il
telefono accanto a lui
iniziò a suonare; dopo
unalungaseriedisquilli
l’ufficiale
allungò
svogliato una mano e
sollevò
la
cornetta.
Rispondeva
a
monosillabi,
con
il
minimo
sforzo,
in
quell’idioma straniero
sconosciuto, di tanto in
tanto emetteva un rutto
esiasciugavailcolloela
faccia con il fazzoletto.
Quando
l’ufficiale
riagganciò,Budairitrovò
unpo’dienergia:picchiò
il pugno sul tavolo e
pretese
che
lo
interrogassero, che gli
dessero il modo di
provare la sua identità e
di
difendersi,
di
giustificare
il
suo
comportamento e così
via... Con tutta calma
l’ufficiale si alzò, andò
versodiluie,prendendo
lo slancio con la stessa
flemma, gli assestò uno
schiaffo, dopo di che
tornò a sedersi, ansante,
e continuò imperturbato
a mangiare. Aveva il
palmodellamanosoffice
e carnoso ma, si intuiva,
avvezzo
a
mollare
ceffoni. Budai sentì
distintamente
tutt’e
cinqueleditaeperfinoil
grosso anello a sigillo:
rimasetalmenteattonito
per quel colpo inatteso –
quello precedente, la
manganellata, in fondo
l’aveva previsto – che
ammutolì, paralizzato.
Senza opporre alcuna
resistenza
si
lasciò
ammanettare
e
consegnare a un altro
agente in divisa, il quale
gli tolse la cravatta, la
cinturaelestringhedelle
scarpe e lo scortò fuori
dall’ufficio
di
quel
comandante obeso e
sornione che puzzava di
formaggio e di sudore e
che probabilmente era
l’equivalente
di
un
prefettodipolizia.
Fu condotto per una
serie infinita di corridoi,
affollatissimi, fino a una
grande porta a sbarre
dove fu preso in
consegna
da
uno
spilungone
nero.
Quest’ultimo indossava
la tuta marrone che
aveva già visto, e alla
cinturaavevaunpesante
mazzo di chiavi: doveva
essere un secondino o
una guardia carceraria.
L’agente che gli affidò
Budai di certo gli riferì
che era ubriaco: lo
spilungone nero scoppiò
a ridere scoprendo le
gengive rosse e i denti
sani e bianchissimi,
quindi
gli
diede
un’amichevole
pacca
sulla spalla, gli tolse le
manette e lo fece
camminare davanti a sé;
dietro una svolta del
corridoio
comparve
un’infilata di celle, tante
massicce porte di ferro
tutteuguali.Ilsecondino
nero si fermò, ne aprì
una con la chiave, rise,
gli
gridò
qualcosa,
gesticolando, e lo spinse
dentro. Poi richiuse la
porta con uno schianto
così
violento
che
rimbombò in tutto il
corridoio.
Era una cella per due,
illuminata
da
una
lampadina che pendeva
dal
soffitto.
L’altro
giaciglioeraoccupatoda
un tizio che dormiva
voltato verso la parete e
chenonsimossequando
Budaientrò.Anchequiil
riscaldamento
era
intollerabile,
l’aria
umida e soffocante, il
calorifero emetteva dei
crepitii ma non c’era
nessuna manopola per
regolarlo. Da quando era
arrivato in quel posto a
Budai doleva la testa,
non riusciva a pensare
ad altro, e poi perché
faceva
quel
caldo
torrido?, sarebbe bastato
lasciar entrare un po’
d’aria, ma non c’erano
finestre. Si sdraiò sul
tavolaccio con addosso i
vestitielescarpe,chiuse
gli occhi e aspettò che il
dolore lancinante al
craniosicalmasse.
Si assopì, il colpo in
testa doveva averlo
intontito; al risveglio si
accorse che il suo
compagno di cella era
seduto sul giaciglio, e lo
fissava.
Sembrava
ubriaco, probabilmente
era dentro per una
sbronza o chissà quale
altro disturbo della
quiete pubblica: era un
uomo
barbuto
di
mezz’età, con un aspetto
da straccione, gli abiti
sudici e logori, la faccia
ricoperta di cicatrici e
macchie violacee, lo
sguardo
annacquato.
Quando vide che Budai
era sveglio gli puntò il
dito contro e con voce
profonda
e
rauca,
esalando
un
fiato
alcolico,glidisse:
«Chlombrattibratt?».
Suonava come una
domanda e in quella
circostanza
poteva
significare:«Chisei?».La
determinazione di Budai
peròsieraindebolita,eil
malditestanonglidava
pace,così,anzichéperder
tempo nelle solite inutili
spiegazioni,
rispose
istintivamenteripetendo
quelcheavevasentito:
«Chlombrattibratt?».
Iltiziobarbutogrugnì,
alzò le spalle e iniziò a
frugarsiaddosso.Cercòa
lungo,
borbottando,
svuotò le tasche bucate,
poi infilò le mani nella
fodera e tirò fuori una
quantitàdicianfrusaglie:
unfazzolettosporco,una
crosta di pane secco, dei
fiammiferi,
un
mozzicone di matita,
chiodievitiarrugginitee
alla fine una sigaretta
tutta storta dalla quale
era uscita buona parte
del
tabacco:
gliela
mostrò e gliene offrì
metà. Budai fece di no
con le mani per dare a
intendere
che
non
fumava...
Forse
la
domanda di poco prima
voleva dire: «Hai una
sigaretta?», o magari:
«Vuoi una sigaretta?».
Ricominciò
per
l’ennesima
volta
a
parlargli in varie lingue,
in tedesco, in olandese,
in
polacco,
in
portoghese, addirittura
in turco e in persiano,
perfino in greco antico,
ma quello non gli dava
retta e a un certo punto
lointerruppe:
«Scerederebe
toghig
hodovee gürübülü pracc...
Antapracc,
vara
ledebedime
kariciarapracc...».
«Che cosa? Che cosa
vuoi?!» esclamò Budai
nella propria lingua,
scandendo bene ogni
parola come se quello
potesse
comprendere.
«Dimmi
che
cosa
vuoi...!».
Il barbuto lo fissò per
unpo’conilsuosguardo
velatoeassente,siaccese
la
sigaretta,
aspirò
profondamente,
poi
soffiò fuori il fumo e
riprese a parlare. Con
l’aiuto dei gesti e della
mimica facciale Budai
riprovò a spiegargli che
luierastraniero,chenon
lo capiva, ma era
impossibile
interromperequelfiume
in piena, l’uomo parlava
incessantemente,
incurante
di
essere
ascoltato
o
meno.
Doveva aver cominciato
una storia piuttosto
lunga, la voce forte e
cavernosa prese un tono
epico,sifermavasoloper
tirare qualche boccata:
fumò la sigaretta fino a
bruciarsi le dita, poi la
buttò per terra e la
schiacciò. E parlando si
infervorava,facevaampi
gesti e riempiva il
discorso di esclamazioni
a effetto, si schiariva la
gola, sbuffava, rideva
sguaiatamente,
schioccava la lingua con
aria
sognante,
all’improvviso saliva di
tono, si adombrava,
ammiccava come a dire:
«Capisce cosa intendo,
no?».Budaiprovòaaprir
bocca, ma l’altro lo zittì
conungestodeciso:
«Durung!...».
E
continuò
a
raccontare, a declamare
la sua interminabile
tirata,nonstavazittoun
secondo, Budai aveva
ormai le vertigini, gli
tornò anche il mal di
testa...Eppure,rinchiuso
là
dentro,
aveva
finalmente un’occasione
che non gli si era mai
presentata: farsi dire dal
suo compagno di cella
dove si trovavano, in
quale paese, e di lì poi
carpirgli in un modo o
nell’altro – ci sarebbe
riuscito di sicuro – le
parole del suo idioma,
peravereuniniziodacui
partire... Tentò a più
riprese di fermare il
barbuto, buttò giù dei
disegni sul taccuino,
contòsulledita,indicòsé
stesso e poi l’altro con
occhi interrogativi, poi,
perdendo la pazienza, si
miseagridargliaddosso,
ma niente: non c’era
verso di farlo tacere, era
inarrestabile,
parlava,
parlava,parlava...
Sembrava
anzi
arrivato a un momento
cruciale: levò in alto la
mano sinistra come se
imprecasse, fu invaso da
una sorta di fervore,
abbassò gli occhi, tacque
per un istante e quindi
scoppiò in una risata
teatrale.Poifececennoa
Budai di avvicinarsi e
ascoltare: la sua voce
passò al canto. Aveva
una robusta voce di
basso e intonò una
melodia
sconosciuta,
una specie di aria
d’opera, un pezzo serio,
di un certo spessore. Da
comeportavalavoce,da
cometenevaemodulava
i suoni, si intuiva che le
notevoli qualità vocali
erano state educate, ma
la vita depravata e
vagabonda, l’alcol e il
fumol’avevanorovinata,
rendendola opaca e
roca... Sembrava tutto
preso
dall’esibizione,
inebriatodalcantochesi
spiegava libero. L’aria
culminava
in
un
passaggio virtuosistico,
una serie di scale che
salivanoperpoiscendere
lentamente verso il
grave, sempre più in
basso,eancora,equando
parevachefossearrivato
all’ultima nota, eccone
un’altra più profonda, al
limite delle possibilità
fisiologiche,
per
concludereconunsuono
finalecupoeprolungato.
Budai non sapeva se
applaudire oppure no.
Allafinediun’esibizione
canora di tale entità, il
barbuto era visibilmente
estenuato; cercò un’altra
sigaretta, non diede il
benché minimo segno di
reagire
a
nessuna
domanda, rimase a
fissare il vuoto con una
faccia grigia e cerea,
fumando, poi si sdraiò
sul tavolaccio e si voltò
verso la parete... Il caldo
non
accennava
a
diminuire,
sembrava
perfino che avessero
alzatoilriscaldamento,e
l’aria non circolava:
Budai aveva la camicia
fradicia, si era tolto il
cappotto e la giacca e li
aveva deposti accanto a
sé. La situazione era
assurda, il caldo era
intollerabile anche in
maniche di camicia, il
calorifero continuava a
emettere insopportabili
scoppiettii – in preda a
un’improvvisa
collera
Budai
cominciò
a
tempestare di pugni la
porta di ferro: voleva
essere tirato fuori di lì,
pretendeva
che
lo
interrogassero, con un
interprete,nonpotevano
più tenerlo rinchiuso in
unacellatorridainsieme
auncantante,unmalato
dimente.
Fece baccano finché
nonsiaprìlospioncinoe
apparveilvisonerodella
guardia, che si mise a
ridere, come a dire:
«Guarda questi due
balordi ubriachi». Ma
appena Budai lo assalì di
domande – con che
diritto lo trattavano a
quel modo? –, quello
ruggì con rabbia e
richiuse di scatto lo
spioncino;
e
non
ricomparve,neanchepiù
tardi, quando Budai
riprese a picchiare sulla
porta.
Il suo compagno di
cella o parlava, o
dormiva; aveva parlato
così a lungo che poteva
avergli raccontato tutta
la sua vita. Era evidente
chenongliimportavase
l’altro stava a sentire o
meno.
Budai
aveva
pensato addirittura che
fosse sordo, vista la
totale indifferenza alle
domande.
Volle
accertarsene, e mentre
quello
sproloquiava
provò a picchiettare la
penna
contro
il
calorifero: il barbuto
drizzò la testa e si girò a
guardare – dunque ci
sentiva
–,
e
poi
ricominciò tranquillo a
blaterare...
Budai era entrato in
quel luogo che era quasi
sera,enonmangiavafin
dal mattino. L’ora del
pasto doveva essere già
passata, e nulla faceva
supporre
che
gli
avrebberodatoqualcosa.
Il suo compagno di cella
sembrava
anzi
prepararsi per la notte,
sedette sul bugliolo
abbassandosi i calzoni
senza vergogna, e senza
smettere di parlare.
Pareva avercela con
qualcuno, batteva il
piede per terra, iroso, e
agitava
minacciosamente
il
pugno,
con
un’espressione piena di
odio e di amarezza. Pian
piano si calmò, quindi si
infuriò di nuovo, diede
un paio di schiaffi nel
vuoto e girò le spalle,
comeseavessesistemato
i conti col nemico; poi si
pulì la mano sui
pantaloni e sputò in
terra.
Budai stentava ad
addormentarsi
sul
giaciglio
duro,
lo
tenevano sveglio il caldo
tremendo, la fame e il
senso di impotenza.
Quando
riuscì
finalmente ad assopirsi,
madido di sudore, ebbe
l’impressione che il tizio
gli si fosse avvicinato e
continuasse a blaterare,
gesticolandogli in faccia,
col fiato che sapeva
d’acquavite. Ma forse
stava sognando. Faceva
uncaldoterribileeaveva
malditesta,elamanogli
doleva.
Alla
mattina
il
secondinoportòdelcibo:
due pezzi di pane nero e
una gavetta piena di
brodaglia simile a caffè.
Il barbuto ne bevve un
po’, poi la passò a Budai,
cherifiutòconungesto...
Poco dopo riapparve la
guardia e gli indicò di
seguirlo. Percorsero gli
stessi corridoi della sera
precedente, fino allo
stesso ufficiale grasso
dalla faccia violacea.
Stava mangiando –
stavolta
un
pezzo
d’anguria
troppo
matura,esputavaisemi
tutto attorno – e la
stanza era afosa e
maleodorante, come se
non avessero mai aperto
la finestra. A Budai
vennero restituiti gli
oggetti ritirati il giorno
prima, e l’ufficiale, dopo
aver finito l’anguria,
essersi pulito i denti con
uno
stecchino
e
asciugato la bocca e i
baffi con un fazzoletto a
quadretti,gliurlò:
«Goroghetutunepetecc!
Viripij?».
Budai
restò
imbambolato davanti al
tavolo
macchiato
d’inchiostro. Che altro
avrebbe potuto fare?
Quello lo guardava con i
suoi occhietti obliqui,
aveva la stessa aria
sonnolenta e annoiata, il
respirocorto,lepalpebre
che
quasi
gli
si
chiudevano. Poi gli
mostrò entrambe le
mani,aperte,unavoltae
poi un’altra volta. Budai
non capiva che cosa
volessedalui.Iltelefono
squillò
anche
ora,
l’ufficiale sollevò la
cornetta e rispose con
voce
strascicata,
prendendo
dei
documenti
da
un
cassetto e grattandosi il
collo tozzo e arrossato.
Quando ebbe finito – e
non fu cosa da poco –
alzò verso Budai uno
sguardo che diceva: «E
questo che ci fa ancora
qui?».Restòcosìqualche
momento, con la faccia
torpida e bisunta, poi
scrisse «20» su un pezzo
di carta e glielo allungò.
Budai continuava a non
capire, al che l’ufficiale
tiròfuoriilportafogli,ne
estrasse due banconote
da 10 e gliele sventolò
sotto il naso. A quel
punto finalmente ci
arrivò, era improbabile
che
gliele
stesse
offrendo: doveva pagare
una
multa
che
ammontavaa20unitàdi
quella valuta; ecco cosa
aveva inteso l’ufficiale
mostrandogli per due
voltelemaniaperte.
Non aveva voglia di
discutere, era contento
di aver capito, e se si
fosse messo a protestare
avrebbero
potuto
commutare la multa in
giorni di reclusione, ci
mancava solo quello.
Estrasse dunque dalla
tascaduebigliettida10e
li posò sul feltro verde
del tavolo: la sua riserva
di denaro si stava
assottigliando. Non gli
rilasciarono
alcuna
ricevuta,dovettefirmare
su un grosso libro e
l’ufficiale–conleunghie
sudicie–gliindicòinche
punto.
E con questo la
faccenda in sostanza era
chiusa. Esitante, azzardò
ancoraqualchetentativo
– si era pur fatto
arrestareconunoscopo–
ma nessuno gli diede
retta. Il secondino nero
era sparito, l’ufficiale
obeso era di nuovo al
telefono e aveva tirato
fuori dal cassetto un
tegame azzurro con una
specie di stufato freddo:
lo annusò un po’, poi si
diede a mangiarlo di
buonalena.Infilandosiil
cucchiaio
in
bocca
produceva
uno
sgradevole
risucchio,
rivoli di sugo gli
colavano lungo i baffi
spioventi che lui poi
ripuliva
con
il
fazzoletto...
Budai
temette che se avesse
insistito si sarebbe preso
un altro ceffone. E
cominciavaapatirel’aria
afosa e viziata che
riempiva tutti i locali di
quell’enorme edificio –
alla fin fine provò
sollievo quando venne
scortato all’aperto e poté
respirare
a
pieni
polmoni.
Giunse alla fermata
della metropolitana con
il
metodo
già
sperimentato, seguire il
flusso principale della
folla. Cercò sulla mappa
la stazione in cui si
trovava, segnata da un
cerchietto rosso in alto a
destra, e individuò con
facilità il percorso per la
sua fermata nei pressi
dell’albergo... Uscito in
superficie
lanciò
un’occhiataalgrattacielo
in costruzione: anche
quel giorno si lavorava
alacremente
e
i
montacarichi andavano
su e giù. Per pura
curiosità ricontò i piani,
ce n’erano due in più,
sessantasette...
Fece colazione alla
tavola calda. Mentre
sorseggiava il tè troppo
dolce, si rese conto con
sgomentodiaverfattola
coda per ogni singola
cosa
senza
quasi
accorgersi:
ci
stava
prendendo l’abitudine.
Eppure
era
proprio
quello a cui non doveva
mai abituarsi, lo sentì in
maniera molto forte e
chiara
e
il
cuore
cominciò a battergli
all’impazzata. Accettare
la situazione, anche in
modo
inconsapevole,
avrebbe
significato
rassegnarsi, arrendersi,
perdere la sola cosa che
gli dava speranza: la
certezzadiesserediverso
dagli altri abitanti, di
essere uno straniero,
capitato lì per errore e
del tutto estraneo a quel
luogo
–
ed
evidentemente
non
potevano costringerlo a
rimanerci.
Tornò di corsa in
albergo: stavolta non
solo immaginava o
confidava che ci fosse
qualcosa per lui, ma ne
era sicuro... Fu quasi
felice
di
rivedere
all’ingresso il babbeo in
pelliccia, che gli sorrise
battendo le palpebre,
facendoilsalutomilitare
e spingendo la porta a
vetri; ma notò che
l’avvisoinpiùlingueche
avevaaffissoprimadella
disavventura poliziesca
erasparito.
Mentre era in fondo
alla coda per la chiave –
di turno c’era un nuovo
portiere, un giovanotto
biondo dalla faccia liscia
che
sembrava
un
ragazzino –, scorse da
lontano l’angolo di un
pezzo di carta che
sporgeva dalla casella
921,unaletteraounodi
quei foglietti usati negli
alberghi per scrivere
messaggi, da lì non
poteva vedere bene. Fu
preso da un’eccitazione
tale che le sue dita
cominciarono a danzare
confrenesiasulbancone
della reception: la coda
nonglieramaisembrata
così insopportabile. Era
la
risposta
della
direzione?, oppure un
riscontro
dell’avviso
affisso in giro per
l’albergo? O forse era
arrivata una telefonata
per lui, la compagnia
aerea
l’aveva
rintracciato, qualcuno
l’aveva cercato da casa o
daHelsinki?Sì,perchéin
quella città non era
riuscito
a
ottenere
l’attenzione di nessuno,
alla polizia non gli
avevanochiestoneppure
come si chiamava...
All’improvviso scoppiò a
piangere,
mentre
avanzava lentissimo la
gola e il petto erano
scossi
dai
sussulti;
temeva
di
dare
nell’occhioefeceappello
a tutte le sue forze per
contenerel’emozione.
Giunto dinanzi al
giovane portiere gli
mostrò il numero della
stanza
che
teneva
sempre in tasca. Questi
annuì cortese, staccò dal
gancio la chiave della
921 e nel contempo
estrasse quel qualcosa
dalla casella. Era un
foglietto piegato in
quattro,eilgiovanottolo
aprì
sul
bancone
aggiungendo
qualche
parola inintelligibile: era
una specie di modulo
diviso in caselle in cui
erano stati scritti a
penna dei numeri. Con
gestirapidiemeccaniciil
portiere
prese
la
calcolatrice e girò un
paio
di
volte
la
manovella, forse per
controllare le somme,
con una penna a sfera
annotò velocemente il
totale, lo sottolineò con
due tratti, poi fece un
grosso scarabocchio e,
pronunciando in tono
disinvolto quella che
suonava come una frase
dirito,loporseaBudai...
A quel punto non ebbe
piùdubbi,sitrattavadel
conto dell’albergo, e si
accorsecheeratrascorsa
una settimana esatta dal
suoarrivo.Forseiclienti
che si fermavano erano
tenuti a pagare la stanza
ognisettegiorni.
Nell’immediato quello
chelolasciòsenzaparole
fu il totale: 35,80, ecco
cosa c’era scritto in
fondo
al
foglio;
sottraendolo a quanto
aveva ancora in tasca gli
restava pochissimo, più
o meno una cifra
analoga. È vero che da
quando gli avevano
cambiatol’assegnoaveva
spesoadestraeamanca
conunacertaleggerezza,
come se fossero stati
soldidelmonopoli,senza
pensare che sarebbero
finiti... Il portiere gli
indicò
lo
sportello
accanto, era là che
avrebbe dovuto pagare,
era la stessa cassa dove
all’arrivo gli avevano
dato
le
diciotto
banconote da 10, nuove
di zecca. Ora col cuore
pesante ne consegnò
quattro – dopo una coda
di almeno mezz’ora,
naturalmente –, e con
amara ironia constatò
che nell’arco di una
settimana
aveva
sperperato buona parte
del suo assegno senza
sapere neanche in quale
valuta.
Si ficcò il conto in
tasca, e intanto che
aspettava
l’ascensore
controllò
di
nuovo
quantoglirimaneva.Tre
biglietti da 10, alcuni
taglipiùpiccolida1eda
2, come poté leggere su
quei pezzi di carta
sgualcita e sbiadita, e un
po’ di spiccioli. Erano
pochi soldi, una somma
pericolosamente misera:
non osava immaginare
che
cosa
sarebbe
successo
quando
li
avesse finiti, ma non
poteva fare a meno di
pensarci. Con la testa in
fiamme, sommando e
moltiplicando cercò di
calcolare per quanti
giorni sarebbero bastati,
e rifletté sul modo di far
economia,
fermo
restando che bisognava
pur mangiare. Magari
rinunciare a tutti i suoi
giri
per
la
città,
risparmiare sui trasporti
pubblici... Ma come
doveva ridursi, tappato
in camera ad aspettare
l’arrivo delle truppe di
soccorso?
Il suo cervello, ormai
innescato, continuava a
lavorare:
ora
all’improvviso, mentre
l’ascensore lo portava al
nonopiano,glivenivano
mille idee, una migliore
dell’altra,
anche
se
tardive e vane, su come
arrivare allo scopo o
almeno provarci, se solo
non
avesse
dovuto
lesinare
ogni
centesimo... Per esempio
avrebbepotutomostrare
a qualcuno un biglietto
da 10 in una mano e il
disegno di un aereo
nell’altra, fargli capire a
gesti che cercava quella
cosa lì, l’aeroporto o gli
uffici di una compagnia
aerea, sventolargli la
banconota davanti agli
occhiinsiemealdisegno,
e pagarlo solo se lo
avesse
condotto
là.
Oppure poteva adescare
in metropolitana un
passeggero che gli fosse
sembratoadatto,unoun
po’ male in arnese,
passargli la banconota
sotto il naso come una
pannocchia di granturco
davanti al muso di un
maiale, e imitando il
fischio della locomotiva
farsi portare verso una
stazione ferroviaria. Una
proposta esplicita dello
stesso genere poteva
persuadereunimpiegato
dell’albergoaprocurargli
una macchina o un taxi,
poi ci avrebbe pensato
l’autista
ad
accompagnarlo
dove
voleva,
aggiungendo
ovviamente il prezzo per
la corsa; sì, con un
tassista se la sentiva di
provarci ed era certo di
farcela.
Queste
possibilità
gli
balenavano nella mente,
unadopol’altra,masullo
sfondorestavauntimore
agghiacciante: a chi si
sarebbe rivolto se non
avesse concluso nulla e
nel frattempo fossero
finiti i soldi? In quale
aiuto
poteva
mai
sperare? A quanto aveva
sperimentato finora, per
la gente del posto lui
avrebbe anche potuto
creparedifame.
Nella sua camera era
tutto uguale a come
l’aveva lasciato, avevano
soltanto cambiato le
lenzuola,
gli
asciugamanielatovaglia
di tela sul tavolo:
evidentementedavanola
biancheria pulita ogni
settimana. Budai guardò
in strada dalla finestra e
vide la fiumana di folla
che
serpeggiava
interminabile.
A
Helsinki il congresso
doveva essere finito da
un pezzo, i partecipanti
erano tutti ritornati a
casa, anche i più
lontani...Sisvestì,tiròle
tende,sisdraiòsullettoe
si mise sotto le coperte.
Un minuto più tardi
sentì che il suo corpo si
irrigidiva, il tronco e gli
arti erano bloccati, come
instatod’ipnosi,nonera
in grado di sollevarsi e
nemmeno di voltarsi sul
fianco, non riusciva
assolutamente
a
muoversi.Manonvoleva
muoversi,
sarebbe
rimasto lì con gli occhi
chiusi per un tempo
indefinito, senza alzarsi
neanche
per
bere,
disteso, senza pensare a
niente, per ore o anche
pergiorni,perl’eternità.
La sua famiglia si
aspettava che tornasse
quattro,
cinque,
al
massimo sei giorni dopo
la sua partenza: avrebbe
dovuto essere a casa già
da un pezzo. Chissà che
cosaavevanopensatodel
fatto che non avesse
scritto,
telefonato,
mandato
un
telegramma, che non
avesse più dato alcun
segno di vita. Quando
avevano cominciato a
cercarlo, e a partire da
dove? Da Helsinki? La
segreteria organizzativa
del
congresso
di
linguistica doveva aver
segnalato che lui non si
era mai fatto vivo, che
l’avevano
atteso
inutilmente. Forse si
erano
rivolti
alla
compagnia aerea? O uno
dopo l’altro ai probabili
aeroporti di scalo dai
quali
poteva
esser
transitato per sbaglio?
Chissà
quali
strade
avevano tentato, in
preda a un’angoscia
crescente: dov’era finito,
era pensabile che fosse
sparito in quel modo,
senza lasciare traccia?
Come si spiegavano
questo mistero i parenti,
gli amici, i colleghi, e
soprattutto sua moglie,
come doveva sentirsi? E
suofiglio,unbambinodi
pochi anni, e il cane?...
Immaginare
il
loro
smarrimento,
l’agitazione, i tentativi
via via più disperati, le
ansiose congetture, il
timore di un incidente –
questi
pensieri
gli
davano un dolore quasi
fisico,chesisommavaal
suo senso di impotenza:
era intollerabile, molto
peggio
della
sua
condizione, ogni volta
che queste idee lo
assalivano si sforzava di
scacciarle.
Non avrebbe saputo
dire per quanto tempo
fosse rimasto a letto,
forse per due o tre notti.
Durante tutte quelle ore
non
era
comparso
nessuno, nessuno aveva
telefonato o bussato alla
porta; lui per lo meno
non aveva sentito nulla,
enoneranovenutiafare
lepulizie.Sierasvegliato
bruscamente e aveva
visto che era mattina, la
luce filtrava grigia dalla
finestra,
un’altra
giornata
fosca
e
plumbea: da quando era
capitatolìavevascortoil
solesìenounpaiod’ore.
Si riscosse, andò in
bagno a farsi una doccia
e la barba. Diede
un’occhiata al conto che
sieraficcatointascagiù
alla cassa: purtroppo i
numerieranoscrittisolo
in cifre, non in lettere. E
pensare che avrebbe
potuto essere un buon
punto di partenza per
capire la grafia delle
cifre.
Se
l’avesse
appurato,
avrebbe
tentatodiascoltaredalla
viva voce degli abitanti
la forma fonetica dei
numeri,
magari
estorcendola
con
domande astute, e così,
per
gradi,
sarebbe
riuscito
a
decifrare
primalascritturaepoila
lingua;
naturalmente
tutto questo avrebbe
richiesto
parecchio
tempo. E comunque
sarebbe dovuto partire
dauntestoconinumeri
scritti sia in cifre che in
lettere; e non era il caso
di quel modulo... Perciò
preferì mettere da parte
ilcontoerimandareaun
altro
momento
la
riflessione.
Nell’immediato aveva
compiti più seri e
importanti
a
cui
dedicarsi,
e
per
concentrarsi in tali
riflessioni lasciò la sua
stanza
solo
per
mangiare: andava alla
tavola calda che già
conosceva oppure, per
risparmiare,compravaal
negozio generi poco
costosi
come
pane,
pancetta,cetrioliesimili.
Macomunquenonaveva
appetito, benché fosse a
digiuno
da
giorni,
assorbito com’era da un
indefesso
lavorio
mentale: non aveva
perso la fiducia nella
propria intelligenza, ed
era convinto che se
avesse esaminato con
ordine tutto quello che
gli era successo –
dall’inizio, dal momento
incuierascesodall’aereo
per salire sul pullman
che l’aveva portato in
città – qualcosa sarebbe
per forza venuto fuori,
proprio
come
una
somma in fondo a una
lungacolonnadinumeri.
Stava
seduto
alla
scrivania e riempiva
fogli di disegnini e
appunti, col sistema che
usava a casa quando era
alle prese con qualche
complesso
problema
linguistico: accostava e
confrontava i foglietti
dove aveva annotato,
come per gioco, diverse
forme lessicali e relative
varianti, fino a quando,
presto
o
tardi,
all’improvviso i dati si
disponevano secondo un
ordine
chiaro
ed
evidente. Certo, quando
succedeva...
Credeva
nella sua intuizione,
nella prontezza del suo
ingegno,nellacapacitàdi
approfondimento,
nel
suo
estro,
dote
indispensabile per la
ricerca scientifica, e
forse
anche
nella
fortuna, che durante la
sua carriera l’aveva
finora assistito, riusciva
aportareaterminetutto
quel che intraprendeva.
Era abituato a ragionare
con metodo, era il suo
mestiere, era così che si
guadagnava da vivere.
Anche
ora,
mentre
tracciava
figure
e
appunti sul taccuino –
attività che metteva
istantaneamente
in
moto
la
sua
immaginazione
–,
provava quasi lo stesso
piacere che si prova nel
risolvere un problema di
logica: affrontare la
miriade di misteri di
quella città con la sola
forza
dell’intelletto.
Raccolse
tutte
le
esperienze che gli erano
capitate e le inserì nel
suocervellocomedatiin
uncomputer,aspettando
che le elaborasse e
producesseistruzioni.
Giunse
a
una
conclusione sostanziale,
per quanto penosa e
amara: per prima cosa
doveva
sapere
con
precisione dov’era, se
voleva andarsene di lì,
altrimenti ritrovare la
strada di casa era fuori
questione.
Non
era
possibile
evitare
o
rovesciare quest’ordine
di priorità, una cosa
seguival’altra.Chissà,se
no,
quanto
tempo
avrebbe
dovuto
aspettarel’aiutodelcaso:
gliimprovvisatitentativi
difugaeranofallitienon
c’eranessunagaranziadi
un miglior esito in
futuro.Qualechefosseil
luogonelqualeildestino
lo aveva scaraventato, si
persuase che lasciarlo
nonerafacile.
Non
che
fosse
diminuita l’urgenza, ma
forse era stata proprio la
fretta il suo errore più
grave, scappare a gambe
levate senza aver chiaro
sequellazonadelmondo
comparisse sulle carte
geografiche, o se invece
nonfosseinunterritorio
sconosciuto, e lui il
primo esploratore fra i
suoi simili. Perché in tal
caso
non
poteva
squagliarsela,
doveva
farsi carico dei compiti
fondamentali di un
esploratore: determinare
laposizionegeograficadi
quella città, scoprirne il
paese e continente, chi
erano gli abitanti, che
lingua parlavano e così
via, in modo da poterne
dare notizia una volta
tornatoacasa.
E,fral’altro,sitrovava
sulla Terra o su un altro
pianeta? Nell’èra delle
missioni spaziali e della
fantascienzaladomanda
non
suonava
così
assurda. Riflettendoci a
mente fredda, però,
scelse la prima ipotesi.
Accanto a molti altri
segni, a testimoniarla
erano la vegetazione
tipicamenteterrestreche
aveva osservato nei
parchi – gli alberi, l’erba,
i fiori –, e le specie
animali che gli era
capitato di incontrare:
cani, gatti, piccioni,
passeri, insetti, i conigli
d’angora della stanza
dell’albergo, i pesci al
mercato e i canarini, i
pappagalli, le tartarughe
alla fiera degli animali
vivi, a parte quella
lucertola a sei zampe di
cui non aveva mai
sentitoparlare.L’odoree
la consistenza dell’aria
non erano diversi da
quelli del suo luogo
d’origine.
E,
naturalmente, a indicare
che fossero sulla Terra
era
soprattutto
la
presenzadiesseriumani,
per giunta con una
densità senza confronti,
e di case, strade,
alberghi,
trasporti
pubblici,
veicoli,
metropolitana: tutto era
identicoomoltosimilea
quel che si trova in
qualsiasi grande città. Il
modo di vivere in
generale,iritmi,inegozi,
i ristoranti, il cibo,
l’economia basata sul
denaro,ilfattostessoche
gli avessero cambiato
l’assegno di viaggio; i
numeri arabi e l’uso del
sistema decimale. La
scansione del tempo in
settimane, la pausa
domenicale,
eccetera,
eccetera.
Stelle non ne aveva
viste, il cielo era quasi
sempre coperto, ma per
fortuna
la
sera
successiva si schiarì per
qualche ora. Budai non
sapeva
molto
di
astronomia, era in grado
di
riconoscere
solo
qualche costellazione, le
Pleiadi, Orione e l’Orsa
Maggiore e, a partire da
quest’ultima, sin da
piccoloavevaimparatoa
individuare la stella
polare.
Si
mise
d’impegno a cercare
proprioquesteeletrovò,
dunque doveva essere
nell’emisfero
settentrionale: non ne
sapeva molto, appunto,
ma era sicuro che in
quellomeridionalel’Orsa
Maggiore
non
era
visibile... Ma se era sulla
Terra, a che grado di
latitudine e longitudine
si trovava? In vita sua
non si era mai occupato
di queste cose, forse
avevalettodicoordinate
geografiche solo nei
romanziperragazzienei
resoconti di viaggio. Si
sforzò di ricordare come
si faceva a stabilirle, e
provò anche ad arrivarci
da solo: se avesse messo
a
confronto
il
mezzogiorno locale, cioè
quando il sole è più alto,
con l’ora del suo paese –
semprecheavesseavuto
consél’orologioenonlo
avesse spostato sull’ora
locale –, dallo scarto si
poteva
calcolare
la
longitudine: bisognava
dividere le 24 ore per
360
gradi,
ogni
differenza di quattro
minuti equivaleva a un
grado, e così avrebbe
saputoaqualedistanzaa
estoaovestsitrovavada
casa. Ma era senza
orologio, e non poteva
farci niente. In assenza
di qualsiasi strumento,
determinarelalatitudine
di quel luogo era una
questione
di
pura
speculazione e avrebbe
potuto arrivarci solo a
prezzo di estenuanti
calcoli
mentali.
Il
sistema più rapido era
misurare l’angolo tra la
stella polare, che è
allineata
all’asse
terrestre, e l’orizzonte.
Ma ci voleva un sestante
o un teodolite, e dove
procurarseli? A occhio
nudopotevastimaresolo
approssimativamente
l’altezza della fioca stella
polare–semprechefosse
quella – e gli sembrava
più o meno la stessa che
dalle sue parti: doveva
quindi
trovarsi
sul
medesimo parallelo, o
non lontano, ma dove?
In Europa? In Asia? In
America? O in un
continente
ancora
sconosciuto?
Aveva
considerato
spesso
il
clima
sgradevole
o
la
composizione
multietnica
della
popolazione, ma non ne
ricavava indizi utili. Il
loromododivestirenon
erapernullainsolito,era
paragonabile a quello
che si vede nelle grandi
città europee, forse
appena più grigio e
austeroeconunmaggior
numero di uniformi. Gli
venne in mente la
guardia nera alla polizia,
che aveva la stessa tuta
indossata da molti: che
fossero tutti, fra uomini
e donne, dei secondini o
delleguardiecarcerarie?
Intanto, andando su e
giù in ascensore, aveva
visto spesso la ragazza
bionda.Cercavadicapire
i suoi turni, ma finiva
per confondersi: a volte
era lì nelle ore che lui
prevedeva, a volte no,
altre
volte
ancora,
quando
le
porte
automatiche si aprivano
conilloroforteronzio,se
la
trovava
davanti
inaspettatamente.Ormai
si salutavano, e da certi
piccoli segni si intuiva
che anche Budai aveva
colpitolasuaattenzione.
In un paio di occasioni,
mentre lui si apprestava
a scendere, la ragazza gli
aveva anche rivolto la
parola: in risposta lui le
aveva
sorriso
timidamente
stringendosinellespalle,
come a dire che non
capiva, ma non c’era
stato il tempo di
aggiungere altro e quelli
che uscivano l’avevano
trascinatofuori.
Ma la volta successiva,
al nono piano, la donna
gli posò la mano sul
braccio e lo trattenne;
Budai finalmente capì
che voleva invitarlo da
qualche parte. Restò
nella cabina, che via via
chesalivasisvuotavadei
passeggeri, mentre i
numeri dei piani si
accendevano uno dopo
l’altro
sulla
tabella
luminosa sopra le porte.
Il
diciottesimo
era
l’ultimo, e nell’ascensore
erano rimasti solo loro
due.Laragazzaaprìegli
fececennodiscendere.
Era un piano diverso,
senza stanze. C’erano
enormi
serbatoi
verniciati di bianco e
tubi
di
tutte
le
dimensioni, l’impianto
diriscaldamento,ilvano
motori
dell’ascensore,
pulegge e cavi. E anche
una specie di bar o
ristorante
che
al
momento era chiuso –
forse lo aprivano nella
stagioneestiva–conuna
terrazza
panoramica
affacciata sulla città, per
quanto poté vedere dalla
porta a vetri chiusa da
unlucchetto.
La ragazza si accese
una sigaretta e gliene
offrì una. Budai le fece
capire che non fumava.
Da
come
aspirava
avidamente il fumo e lo
espirava sembrava una
fumatrice accanita, e in
ascensore ovviamente
non poteva fumare. Nel
frattempo gli sorrise,
come a scusarsi: ora era
fresca e riposata, i tratti
del viso erano distesi e
non mostravano traccia
di stanchezza, aveva un
modo di fare spigliato e
sereno,unapettinaturae
un trucco perfetti. Non
cercò di forzare la
conversazione, doveva
essersiormaiaccortache
era inutile, buttò lì
qualche parola con voce
morbida,qualcosacome:
«Jejee
tlehuatlan...
Muulatlalaalli?».
Escoppiòinunarisata
sommessa,
lenta
e
melodiosa,
soffiando
uno sbuffo di fumo, con
la schiena appoggiata a
uno dei serbatoi. Dalla
cabina aperta si udì un
trillo,
stavano
chiamando l’ascensore
dai piani inferiori, ma la
cosalilasciòindifferenti.
Budai si picchiò il dito
sul petto, ripeté il suo
nome un paio di volte,
poi indicò la ragazza con
aria interrogativa. Lei
rise di nuovo e rispose
con una parola di due
sillabe. Lui non era
sicuro di aver capito e
domandò:
«Pepe?Tete?».
Ma avrebbe anche
potutoessereBebe,Veve,
Ghieghie, Dede o chissà
che altro ancora, l’aveva
detto articolando i suoni
in maniera così strana, e
quando
lo
ripeteva
suonava diverso, a volte
sembrava addirittura di
tre sillabe, qualcosa
come Edede, Bebebe. Ma
forse declinava il nome,
oppure aggiungeva un
articolo...Aquelpuntoil
campanello suonava con
insistenza,
ai
piani
inferioridovevanoessere
in tanti ad aspettare
l’ascensore. La donna
spense la sigaretta, la
breve pausa era finita.
Budai rientrò con lei
nella cabina, che tornò a
riempirsimanmanoche
scendeva:
nuovi
passeggeri si infilarono
tradiloro,einbreveluie
la ragazza non si videro
più. Soltanto al nono
piano,primadiscendere,
intercettò il suo sguardo
e
si
scambiarono
un’occhiatad’intesa.
Era elettrizzato: per
quanto esile, era pur
sempre un legame, un
rapporto, il primo da
quandoeralì–sel’avesse
mantenuto e coltivato,
poteva diventare il filo
d’Arianna
di
quel
gigantesco e popoloso
labirinto... Magari stava
facendo una scoperta
dalla portata universale,
e un giorno, alla fine,
avrebbe visto con altri
occhi quella situazione.
Magari era il primo a
essere arrivato in quel
luogo. O forse no, era
tuttaunasuaillusione.
In ogni modo, era ora
di affrontare il compito
che
si
era
dato:
innanzitutto
farsi
un’idea delle dimensioni
della città. La mattina
dopo uscì di buon’ora,
salìsuuntrenoqualsiasi
inmetropolitanaearrivò
fino al capolinea, dove il
vagone
si
svuotò
completamente.
Sulla
banchina si fermò un
momento a pensare alla
direzione da prendere in
superficie:
avrebbe
puntato
verso
la
periferia, allontanandosi
dal centro. Si sforzò di
memorizzareilsensodei
binari per orientarsi, gli
sembrava la cosa più
logica,
ma
i
sottopassaggi
della
stazione si rivelarono
tortuosi, un intrico di
corridoi, scale, svolte e
sbocchi: quando fu in
stradanonsapevapiùda
che parte andare, così si
incamminò
a
caso,
nell’ignoto. Tracciò sul
taccuino uno schizzo
degli incroci e degli
edifici più caratteristici
chesilasciavaallespalle,
peraiutarsialritorno.
Erauntipicoquartiere
diperiferia,lunghimuri,
recinzioni,
ciminiere,
gasometri, strade larghe
e sporche, tetre case di
mattoni; lontano contro
il cielo grigio la sagoma
scuraeimponentediuna
grandefabbrica,coltetto
dentato come una sega,
un’ariapienadifuliggine
e acre odore di fumo.
Qua e là spacci di
alimentari,
rigattieri,
negozidiarticolivaricon
levetrinepienedimerce
piuttosto scadente. E
ovunque la marea dei
passanti era densa come
altrove... Forse aveva
sbagliato
direzione?
Oppure la metropolitana
non
raggiungeva
i
confini della città? O la
città era cresciuta a
dismisura?
Come
dovevano sentirsi gli
abitanti, nati in mezzo a
quel caos? Non si
rendevano conto che la
follainondavaeintasava
tutto,liobbligavaastare
perennemente in fila, a
sprecare un mucchio di
tempo, come riuscivano
atollerareunaqualitàdi
vita così infima? O non
sapevano immaginare
niente di diverso, a loro
sembrava naturale, ci
avevano
fatto
l’abitudine? Ma ci si
potevamaiabituare?
Le strade erano piene
diveicolianchelìeBudai
provòaleggereletarghe,
ma non fece nessun
progresso:
lettere
indecifrabili
si
alternavano
a
tre,
quattro, cinque cifre, e
non c’era nessuna sigla
internazionale
che
permettesse di risalire al
nome del paese. Se
avesse saputo guidare
avrebbe
cercato
di
procurarsiunamacchina
– senza giri di parole, di
rubarla – per poi
inventarsi qualcosa. Ma
non era capace... e
tantomeno di rubare; e
poi senza una cartina
non sarebbe andato
lontano,inqueldedalodi
vie e piazze, in quel
traffico da ora di punta.
Gli venne in mente di
aver visto un negozio di
biciclette,manonavevai
soldi per comprarne una
e del resto non sarebbe
mai riuscito a usarla
senzaperdersi...
Di stazioni ferroviarie
non c’era traccia, e
neppure
di
ponti
ferroviari o terrapieni
dovesupporredeibinari.
Cercò
invano
un
aeroporto; ogni tanto si
sentiva in alto il rombo
di un aereo ma non si
capiva da che parte
atterrassero
o
decollassero. Se la città
fosse stata sul mare,
avrebbe
camminato
lungolacostaallaricerca
di un porto, e lì avrebbe
trovato delle navi, una
barca: avrebbe issato le
vele con una rotta
qualsiasi, perché il mare
è una porta spalancata,
unaviaversoogniluogo.
Non si era imbattuto
nemmeno in un fiume,
inuncanale,inuncorso
d’acqua qualsiasi che in
teoria – se lo avesse
seguito–l’avrebbeprima
o poi condotto al mare,
dove doveva sfociare.
Aveva visto solo dei
bacini artificiali, nei
terreni fra un edificio e
l’altro, pieni d’acqua
stagnante,sporcaenera,
simili
alle
cisterne
costruite nel suo paese
durante la guerra; e un
laghetto
ornamentale
senza canale di scolo nel
parco
che
aveva
attraversato un giorno,
sulla
cui
superficie
galleggiavano cartacce,
bottiglievuoteemacchie
oleose.
Ricominciòafermarei
passanti chiedendo da
che parte fosse il mare,
mimando con le mani il
moto delle onde o
muovendo le braccia
come un nuotatore.
Ripeteva la parola più
volte, ora in una lingua,
orainun’altra,perfinoin
greco:
«Thalassa!Thalassa!».
Naturalmente non lo
capivano e se ne
andavano per la loro
strada,indaffarati,senza
tempo da perdere con i
suoi grattacapi. Dopo
vari tentativi Budai si
perse d’animo e smise di
domandare, era avvilito,
inibito dagli insuccessi,
sentiva un nodo alla
lingua. Ma continuò a
camminare nella folla
che non diminuiva, per
un istinto più forte di
ogni
intenzione
cosciente: aveva deciso
che
non
avrebbe
abbandonato la partita,
doveva arrivare fino in
fondo, con tutte le sue
forze, quale che fosse il
risultato.
Sulle strade calò una
nebbia
fredda
e
pungente, a tratti così
fitta che non riusciva a
vedereaduemetridasé.
Iveicoliavevanoaccesoi
fari,procedevanoapasso
d’uomo, gli ingorghi
erano accompagnati da
un concerto di clacson e
urla,
i
motori
si
ingolfavano. Ora Budai
faceva molta attenzione
ai punti di riferimento
per orientarsi al ritorno.
La nebbia si diradò per
unattimoegliapparveil
conoditelabiancadiun
tendone da circo: non lo
interessava
in
quel
momento, non sapeva
chefarsene,epassòoltre
nella caligine grigioviola.
Più
avanti
intravide un portale
tutto illuminato: cosa
potevamaiessere...?
A un tratto si accorse
che le macchine erano
scomparse,
c’erano
invece tante lucine
fioche e tremolanti.
Luccicavano misteriose
nella
penombra
lattescente: erano stelle?
O fuochi fatui? In quella
foschia fitta e soffice,
privadiprospettiva,non
riusciva a stabilire a che
distanza fossero. E solo
dopo essere inciampato
più volte in cumuli di
terraesagomedimarmo
e pietra, si rese conto di
essere in un cimitero, e
quelle fiammelle erano
candele e lumini, che
stavano sulle tombe
oppure in mano ai
visitatori. Questi ultimi
gremivano i viottoli di
pietriscooccupandoogni
palmo di terra fra i
tumuli e i mausolei:
Budai si chiese se per
caso fosse il giorno dei
morti, ammesso che lo
celebrassero da quelle
parti.
Oppure
era
capitato in un corteo
funebre,
magari
di
qualcuno
abbastanza
famoso da radunare una
simile moltitudine? O in
quella città era normale
checifosselafollaanche
alcimitero?...Dalontano
arrivava una musica
d’organo o di uno
strumento simile, una
melodia grave e solenne
che
pareva
accompagnata da canti
lenti, strascicati: era
impossibile stabilire da
dove
proveniva,
se
dall’altoodasottoterra.I
monumenti funebri, per
quanto
si
poteva
intravederenellanebbia,
erano di varie forme e
dimensioni, con fiori e
vasi, talvolta con una
statua o il ritratto del
defunto. Non erano
moltodiversidaquellidi
tutti i cimiteri, ma non
c’erano croci, per lo
meno su quelli che
osservò da vicino: le
iscrizioni sulle lapidi
erano incise con quei
caratteri simili a rune.
Non poté fermarsi a
studiarle perché veniva
continuamente spinto
via dal torrente umano,
che sembrava seguire
unadirezioneprincipale;
alla fine si ritrovò fuori
dalcimiterocosìcomeci
era capitato, cioè senza
accorgersene.
La nebbia si era un po’
diradata: gli apparve un
quartiere operaio, tante
casette
tristi,
tutte
uguali, con l’intonaco
scrostato,
dai
tetti
mancava qualche tegola,
in
piccole
aiole
crescevano
sparuti
cespugli
di
erbe
aromatiche. Poi un alto
muro di cinta, un
portone
di
pietra
assediato da centinaia di
persone:noneraunafila
questa volta, ma un
assembramento
rumoroso e disordinato
dove tutti spingevano
per entrare. Budai si
chiese che diamine
stesse succedendo: la
curiosità lo attirò verso
quel raduno chiassoso e
in un attimo alle sue
spalle si era ammassato
un mare di gente, e
anche volendo non
poteva
più
tornare
indietro. L’ingresso era
troppo stretto, e le
persone continuavano a
spingereeadaumentare.
A un certo punto erano
cosìcompressicheBudai
temette
di
finire
schiacciato o calpestato:
quando fu finalmente
dentro, gli sembrò di
esserepassatoattraverso
untritacarne.
Dovevaesserecapitato
inunozoo,omeglio,uno
zoo di scimmie, perché
non c’erano altre specie
dianimali.Soloscimmie,
tante gabbie piene di
scimmie. E centinaia di
visitatori, ogni recinto
era circondato da nugoli
di
persone
che
contemplavano a bocca
apertaesgomitavanoper
guardare più da vicino:
in gran parte bambini,
ma
anche
parecchi
adulti. Erano esposte le
specie più disparate di
primati, per quanto poté
concludere in base alle
sue scarse nozioni di
zoologia:
lemuri,
scimpanzé,
babbuini,
enormi
gorilla
e
minuscoli
uistitì,
cercopitechi,
gibboni,
macachi. La cosa più
sorprendente era che,
per quanto numerose,
quellebestiemostravano
personalità
distinte,
bastava osservarle per
unpo’eognunarivelava
un carattere unico e
inconfondibile: il modo
di
correre,
di
arrampicarsi su e giù, di
mangiucchiare con aria
irrequieta; sbucciavano
la frutta, giocavano, si
grattavano
o
si
spulciavano beate l’un
l’altra facendo le facce
più diverse, facce fiere o
devote,
affabili
o
spaventose, pietose o
arroganti; squittivano,
strillavano,
chiacchieravano,
gracchiavano,
ridacchiavano,
si
eccitavano
e
si
annoiavano, si amavano
e
si
odiavano,
si
picchiavano
o
si
accoppiavano, o se ne
stavano accovacciate in
un angolo con aria
afflitta,sognandolibertà
eforeste.
C’erano avvisi in ogni
luogo e le reti delle
gabbie erano piene di
scritte, più o meno
lunghe. Quanto a Budai,
avrebbe preferito che
fossero poche e brevi,
perché allora si sarebbe
trattato
inequivocabilmente del
nome
della
specie,
seguito dal nome latino,
come si usa negli zoo.
Certo, si trovava sempre
davantiicaratterichelui
non riusciva a leggere,
ma questa volta avrebbe
avuto un punto di
partenza per decifrare
quella
scrittura:
conoscendo il nome
latino del babbuino –
casualmente
se
lo
ricordava, papio – era
possibile scoprire i segni
corrispondenti a quei
suoni, e sostituendoli in
altre parole un po’ alla
volta avrebbe decifrato
l’interoalfabeto...Sì,mai
cartelli erano così tanti
che potevano indicare
ogni sorta di cose: il
divieto di dar da
mangiare agli animali,
notizieedatisullaspecie
in
questione,
la
distribuzione geografica,
perfino il marchio di
fabbrica della gabbia,
cose generiche come
«Vietatogettarerifiuti»o
«Vietato
fumare»...
Sembrava
impossibile
pescare da una tale
marea di scritte quella
riferita al nome della
scimmiadietrolesbarre,
figurarsi poi il nome
latino, sempreché lo
usassero.
C’era
una
fila
lunghissima
anche
davanti
alla
porta
dipinta di verde dei
servizi igienici, due
colonne distinte per gli
uominieperledonne:se
la sorbì fino in fondo,
non aveva alternative...
Piùtardi,daunviadotto,
che per chissà quale
ragione faceva passare
una strada al di sopra di
un’altra,
scorse
in
lontananza
uno
stabilimentobalneare.Vi
erano diverse piscine,
grandiepiccole,affollate
dibagnantinonostanteil
clima
invernale;
nell’acqua non c’era
quasi lo spazio per
muoversi, la gente si
tuffava
vociando
e
schizzando,altristavano
appesi a grappoli al
trampolino. Per quanto
poté,attraversoilvapore
che
si
condensava
nell’aria
fredda,
perlustrò con lo sguardo
tutta
l’area
dello
stabilimento in cerca di
condotte o canali di
smaltimentoperleacque
reflue, ma non vide
niente
del
genere;
dedusse che le tubature
eranosotterranee.
Il paesaggio della
periferia diventava più
desolato, le case si
diradavano
e
si
alternavano a terreni
incolti e a prati; però il
traffico
stradale
rimaneva pressoché lo
stesso. La nebbia era
svanita, l’aria era fredda
e secca, e per qualche
minuto fece la sua
comparsa
nel
cielo
sporco il disco rossastro
enitidodelsole.Quaelà
erano sparse baracche di
cartone incatramato o
ricavate da carcasse di
autobus, e lontano la
lunga sagoma color
ruggine di una discarica
di
detriti
chiudeva
l’orizzonte.
A un certo punto si
creò un ingorgo di
pedoni e macchine, la
massa era così compatta
chetuttisifermavano,si
riuscivaapenetrarvisolo
a forza di spallate nella
ressa; evidentemente un
ostacolo ostruiva la
strada. Budai non si
lasciò
scoraggiare,
riteneva di avere affari
piùurgentideglialtriesi
fece largo a spintoni,
ormai aveva imparato
chenonc’eraaltromodo
di cavarsela. Così, dopo
diecioquindiciminutidi
mischia e botte, arrivò a
vedere ciò che impediva
ilpassaggio.
Dei bovini stavano
attraversando
la
carreggiata,
un’intera
mandria
sfilava
lentamente, muggendo,
guidataacolpidifrustae
con l’aiuto di cani da
alcuni mandriani in
stivali di gomma, giacca
di pelle o di velluto a
coste, cappello a tesa
largaobasco–unaviadi
mezzotracowboyebulli
di periferia... Budai agì
d’impulso e seguì i
bovini
sul
terreno
erboso, lasciando la
strada
asfaltata
e
confondendosi con i
mandriani, anche se il
suo abbigliamento era
diverso dal loro. E non
sapeva il perché di quel
gesto,nonsichiesedove
stava andando, voleva
solo uscire dalla città.
Nessuno gli domandò
che cosa ci facesse con
loro;
la
mandria
avanzava
disordinatamente
e
sollevando nuvole di
polvere,
ogni
tanto
qualchetoroimbestialito
tentava di fuggire e
creava
un
gran
subbuglio,finchéicanie
ibovari,unendoleforze,
non lo riprendevano con
grida selvagge e nervosi
latrati.
Attraversarono
una
distesa
sabbiosa,
oltrepassarono
una
segheria dove si tagliava
il legname in mezzo a
sibili assordanti, e poi
entrarono in una zona
abitata, gli zoccoli degli
animali scalpitavano sul
selciato con un rombo
sordo. Poi guidarono
quel branco di bestiame
verso
un
terreno
recintato e da lì in un
edificio
dalle
volte
immensechesorgevasul
lato opposto. Budai si
buttò in avanti, un po’
per curiosità, un po’
portato dal suo stesso
slancio: si accorse che le
bestie erano entrate
quasi tutte nel vasto
capannone a pilastri, ma
non vide la testa della
mandria, che doveva
aver raggiunto una zona
più in là nell’edificio.
Uomini
e
bovini
riempivano tutto lo
spazio,
oltre
ai
mandrianic’eranooperai
in grembiule di tela che
si affaccendavano: i
muggiti e le grida erano
sempre più sinistri e
ogni suono rimbombava
fra le pareti nude,
nell’aria
aleggiavano
odoricaldienauseanti:si
trovava al mattatoio,
nonc’eranodubbi.
Quell’orda rumorosa e
scomposta di bestie e
uomini confluiva in una
grande sala rischiarata
da lucernari, dove il
pavimento era rosso e
scivoloso per il sangue.
Gli animali dovevano
intuire il destino che li
attendeva, forse per
l’odore del sangue, si
impennavano
e
pestavano
disperatamente
gli
zoccoli,dilìnonavevano
alcuna via di scampo, e
da dietro spingevano
nuovicapi.Quandoerail
suo turno, l’animale
veniva
circondato
all’improvviso da un
gruppo di nerboruti
garzoni,unoloafferrava
per le corna, un altro lo
tenevaconunacordaelo
immobilizzava con le
zampe divaricate. Allora
quello con la scure lo
colpiva da dietro sulla
nuca:lezampecedevano
e la povera bestia
crollava sul pavimento.
Una volta a terra, lo
colpivano anche sulla
fronte,
ma
doveva
restare vivo ancora
parecchio tempo perché,
riversosuunfiancosulle
piastrelle, si agitava e
scalciava scuotendo la
testa, anche dopo che gli
avevano
ficcato
un
coltello nella gola per
dissanguarlo, e il suo
sguardotristedamartire
diventava vitreo, con
una
lentezza
esasperante.
Budai non tollerava
quella vista, non voleva
più
guardare,
ma
ovunque
si
girasse
giacevano
animali
moribondi, dieci, venti,
trenta, che poi venivano
trascinati via per essere
scuoiatietagliatiapezzi,
e di seguito toccava ad
altrialloroposto,sottoi
colpi della scure, e
quando anche questi
erano stati abbattuti,
eccone ancora, senza
fine,comesearrivassero
lì tutti i bovini del
mondo... Indietro non
poteva tornare perché la
mandria che rifluiva
nella sala lo avrebbe
travolto e schiacciato,
poteva solo andare oltre,
in avanti, dentro la
carneficina,
inciampandoininteriora
e pelli, in frattaglie e
pezzi di carcasse, in
mezzo
al
sangue
fumante, a macellai coi
vestiti insanguinati e a
muri sporchi di sangue,
fra i pilastri: sentiva che
senonfosseuscitoalpiù
prestosarebbesvenuto.
Quando finalmente si
portò
fuori
dal
capannone, si ritrovò
nell’angolo di un cortile
sul quale si aprivano
delle
officine
di
lavorazione:
si
preparavanoinsaccati,le
macchinemacinavanola
carne e la riducevano in
poltiglia. Ormai lontano
dalla scure, da quello
sterminiodimassachesi
trasformava a poco a
poco nella routine della
produzione su larga
scala,
non
riusciva
ancora a liberarsi dalle
immagini che aveva
visto là dentro. Le
ginocchiaglitremavano,
e le forze lo stavano
abbandonando al punto
chedovettetenersiauna
grata per non crollare a
terra... Dopo quella
violenta commozione,
sopraffatto
da
un
disperato
senso
di
solitudine,
cercò
conforto
evocando
l’immaginedellaragazza
dell’ascensore
mentre
fumava all’ultimo piano
dell’albergo: la sentiva
molto vicina, provava il
bisogno quasi vitale di
aggrapparsi a lei, anche
solocolpensiero.Eppure
nonsarebbestatocapace
di
raccontarle
quell’esperienza
da
incubo, dato che non
riuscivano a capirsi al
livello più elementare;
non sapeva nemmeno
con
quale
nome
pensarla: Bebe, Tetete,
Epepe?
Uscì dal cortile del
mattatoio passando dal
cancello posteriore e
proseguìilsuocammino
lungo
un
fossato.
Osservò la superficie
dell’acqua,
vi
galleggiavano
delle
foglie morte, immobili:
acqua ferma e fangosa
nel suo letto, odore di
marcio. Poi, in maniera
piuttosto sorprendente,
il paesaggio ritornò
urbano:ricomparverogli
edifici, all’angolo di una
strada
svettava
un
grattacielo rotondo dalle
lineemoderne.All’uscita
del
metrò
si
era
incamminato
nella
direzione sbagliata o
aveva girato in cerchio e
stava tornando indietro,
verso i quartieri centrali
dai quali era partito?
Oppure quella era una
città diversa? E sorgeva
cosìvicinoall’altra?
Davanti a un negozio
di scarpe un giovane
paralitico in sedia a
rotellesuonavailviolino
– ma forse questa scena
risaliva a un’altra volta
chesieraavventuratoai
confinidellacittà,ledue
giornate
ormai
si
confondevano nella sua
memoria. Aperta per
terra giaceva la custodia
delviolino,conattaccato
un
cartello.
Budai
stavolta provò a intuire
quelchec’erascrittocon
l’aiuto della situazione,
del contesto. Dovevano
essere parole toccanti,
perché i passanti, che
anche qui riempivano le
strade, gettavano spesso
degli spiccioli nella
custodia,
facendoli
cadere
anche
tutt’intorno, e parecchie
personesieranofermate
in circolo ad ascoltare il
musicista, bloccando il
passaggio. Il ragazzo
suonava discretamente,
maneggiava
lo
strumentoconunacerta
abilità, di sicuro aveva
studiato musica, forse
c’era scritto questo sul
cartello. Suonava una
strana melodia, molto
semplice, commovente,
densa e pura, carica di
nostalgia, o almeno così
parveaBudai;nonaveva
frettadiproseguireilsuo
cammino e si unì agli
astanti.
Il
ragazzo
eseguiva
sempre
la
stessa
aria,
ricominciandola
ogni
volta; aveva le cosce
atrofizzate, e i suoi
piccoli piedi striminziti,
nelle scarpe minuscole,
pendevano inerti dalla
sedia; il viso un po’
gonfio,
la
fronte
incorniciata dai riccioli,
chinosulsuostrumento,
tirava l’arco traendone
quella sola melodia,
ignaro
di
tutto,
incurante, lo sguardo
vuoto puntato sulle
corde – o forse era
cieco...?
Visto l’effetto che
esercitava
sugli
ascoltatori e le copiose
offerte, Budai immaginò
chesulcartelloilgiovane
invalido informasse il
pubblico che aveva
intrapreso la carriera di
musicista ed era stato
costretto a interrompere
glistudiperlapovertà.E
benché si trattasse solo
della sua supposizione –
che
tra
l’altro,
quand’anche
l’avesse
indovinata,
poteva
comunque essere una
subdola
messinscena,
unodeisolititrucchiper
abbindolare gli ingenui
–,Budainefucomunque
colpito e commosso.
Certo,erainunostatodi
profonda prostrazione,
abbandonato a sé stesso
da chissà quanti giorni,
sempre più solo in una
giungla sterminata di
pietra,
cemento
e
mattoni,inmezzoaisuoi
innumerevoli abitanti...
Sebbene avesse deciso di
badare al centesimo e di
spendere il minimo
indispensabile,
ora
lanciò anche lui una
monetinaalviolinista.
E poi tirò avanti per la
suastrada.Glisembròdi
entrare di nuovo in un
quartiere del centro
storico: le strade erano
diventatepiùstrette,agli
incrocic’eranoisemafori
pedonali, ogni tanto un
palazzo antico mostrava
la patina dei secoli, e vi
erano resti di mura e
fortificazioni
come
quelle già viste in
precedenza. Era stanco
per il gran camminare,
ma non trovò né un
parco né una panchina
sucuisedersi.
Mentre cercava un
postoperriposare,scorse
un edificio con una
copertura di acciaio e
vetro, con una torre e
una cupola, e quattro
grandi orologi sulla
maestosa facciata che
segnavano il tempo
all’unisono; all’interno
intravide
una
sala
enorme e profonda, e
fiotti di gente che
entrava
e
usciva
dall’ingressoprincipalee
da quelli laterali. La
formadell’edificiogliera
familiare, ne aveva visti
di simili in tutto il
mondo. Budai lo osservò
con il cuore in gola per
l’emozione: che fosse
finalmente una stazione
ferroviaria?... Ma una
volta entrato in quello
spazio immenso, una
speciedihangardivetro
e acciaio, non vide né
binari né vagoni né
locomotive,eilviavaiei
rumori
erano
di
tutt’altro genere. Eppure
l’edificio visto da fuori,
nelle linee generali e, a
osservare bene, persino
nella pianta, aveva tutte
le caratteristiche di una
stazione, tanto che si
sentì di concludere che
era proprio quella la sua
destinazione originaria,
e poi dovevano averlo
convertitoadaltro.Ache
cosa, lo ignorava; quel
vasto atrio gremito di
persone sembrava una
sala d’aspetto. Da lì,
divisi da file di colonne,
si diramavano corridoi a
destra e a sinistra, e
gruppi di persone in
attesa, in silenzio o
bisbiglianti,
si
concentravano
soprattutto
in
prossimità delle porte
d’entrata; posti a sedere,
però,noncen’erano.
Altre porte a vetri si
aprivano su locali più
piccoli, e con qualche
spallataegomitataBudai
riuscì ad avvicinarsi e
sbirciare dentro. Un
uomo vestito di scuro
sedevaauntavoloposto
sopra una pedana, e di
fronte a lui il pubblico
assisteva in file di
panche. In un angolo
laterale c’era una specie
di pulpito dal quale
parlavaun’altrapersona:
nella prima stanza era
occupato da una donna
di
colore
dalla
capigliatura lanosa, in
tailleur blu; in quella
successiva, da un uomo
alto
e
atletico
nell’uniforme di tela
marrone. Sulle prime
Budai credette di essere
capitato in una scuola o
in un’università, dove
quelli
sul
pulpito
rispondevano
a
un’interrogazione,
in
cattedra
c’era
il
professore, e tutti gli
altrieranostudenti–ma
alloraperchésitenevano
addosso il cappotto, e
soprattutto
perché
veniva tollerato quel
continuo viavai? Ma era
troppo
stanco
per
rifletterci:aprìlaportadi
una stanza a caso,
nell’ultimafiladipanche
c’era un posto libero e
andòasedersi.
Dal pulpito un ometto
basso
dall’aspetto
insignificante
stava
cercando di spiegare
qualcosa: sbatteva le
palpebre, farfugliava e
incespicava,
si
confondeva, si vedeva
che non era abituato a
parlareinpubblico.Ogni
tantounuomovestitodi
scuro nella prima fila gli
faceva delle domande,
così come quello seduto
al tavolo sulla pedana. A
quel punto Budai capì
dov’era finito: era un
tribunale,
e
molto
probabilmente vi si
discutevano le cause
civili, a giudicare dal
contesto
e
dall’atmosfera. E quello
che aveva preso per un
insegnante
era
naturalmente il giudice,
l’individuo che faceva le
domande
era
un
avvocato o qualcosa del
genere,quellosulpulpito
poteva essere invece il
querelato,ilquerelanteo
untestimonechiamatoa
deporre. Non riuscì però
a capire l’oggetto della
questione, dato che il
dibattimento si svolgeva
nellalorolinguaastrusa.
È vero che non vi prestò
molta
attenzione;
camminava dal primo
mattino, anzi da giorni,
quella marcia continua
lo
aveva
spossato,
faticava a tenere gli
occhi aperti e per un po’
siassopì.
Si
svegliò
di
soprassalto quando la
donnaaccantoaluidisse
qualcosa ad alta voce
verso lo scranno del
giudice,chesovrastavail
pubblico, di certo in
risposta a quanto aveva
appenasentito.Ladonna
doveva essere lì già da
prima, soltanto che lui
non l’aveva notata:
portavaocchialispessi,e
anche le palpebre erano
spesse e arrossate, come
se avesse pianto molto.
Per il resto era piuttosto
attraente, non sembrava
avere più di trent’anni,
portava un cappello
verde sui capelli biondi
raccolti nello chignon,
aveva
labbra
ben
disegnate
che
suggerivano una certa
sensualità dietro alla
concitazione
del
momento, e un corpo
dalleformepiene,sodee
desiderabili
che
si
intuivanosottoilvestito.
Era
evidentemente
irritata da quel che
balbettava l’ometto che
sbatteva le palpebre, era
rossa in viso, teneva la
bocca socchiusa, pronta
a interromperlo – era
forse suo marito? Era
un’udienzadidivorzio?
Aunanuovadomanda
dell’avvocato l’ometto
rispose con una sola
parola,
in
maniera
straordinariamente
pronta; a quel punto
scoppiò un putiferio. Il
pubblico tuonava, nella
prima fila un’anziana
virago balzò in piedi
agitando minacciosa un
ombrello, altri si misero
a gridare a squarciagola,
il giudice suonava una
campanella
senza
riuscire
a
frenare
quell’uragano
di
passioni: la vicina di
Budai
proruppe
in
singhiozzi, un signore
con i capelli grigi e i
favoriti alla Francesco
Giuseppe si rivolse al
giudice indicando la
donna
piangente.
Spuntarono degli uscieri
chetentaronodicalmare
gli animi e far tornare le
persone ai loro posti, la
campanella del giudice
trillava senza posa.
Allora la donna col
cappello verde – senza
dubbiounadellepartiin
causa – sgusciò fuori
dalla fila di panche, si
slanciò verso il pulpito e
si gettò sull’uomo che
stava deponendo. Questi
tentò goffamente di
togliersela di dosso, la
donna vacillò, poi emise
un lamento di dolore – il
caos era totale. Il più
impaurito
sembrava
l’ometto insignificante,
che sbatteva atterrito le
palpebre: tese la mano
verso la donna con uno
sguardo
tenero
e
apprensivo del tutto
inaspettato, visto quel
che
era
appena
successo...
Per
una
volta,
eccezionalmente, Budai
non si sforzò affatto di
comprendere che cosa
stesse accadendo. Non ci
avrebbe capito granché
neanche
se
avesse
parlatolalorolingua:era
una faccenda privata,
senza
speranza
né
soluzione, che gli era del
tutto estranea, lui non
c’entrava e non voleva
saperne. Così si alzò e
uscì
dalla
stanza,
passando in mezzo al
gruppetto
di
gente
assiepata davanti alla
porta.
In strada, si voltò a
guardare la singolare
facciata dell’edificio e gli
venne in mente che, se
davvero era stata una
stazione,lealtrestazioni
della città dovevano
trovarsi lungo quello
stesso viale circolare, o
almeno una parte, come
a Mosca – e magari tra
queste ce n’era qualcuna
che non era stata
convertita ad altri scopi.
Le probabilità erano
senza dubbio esigue, ma
ne bastava una soltanto,
ealmomentononaveva
idee migliori: a ogni
modo, si avviò nella
direzione che riteneva
più plausibile. Ma la via
finiva perpendicolare a
una stradina, e lui si
guardòperplessoprimaa
destra e poi a sinistra:
adesso da che parte
doveva andare? Aveva
senso
sforzarsi
di
individuare
uno
schema?Forselestazioni
erano disseminate per la
città senza seguire un
criterio e uno se le
trovava davanti nei
puntipiùdisparati,come
a Berlino, Parigi, Londra.
O forse c’era una
stazione centrale che
smistava la maggior
parte
del
traffico
ferroviario, come ad
Amsterdam, Francoforte
e Roma. O al massimo
due,comeaNewYorkla
Grand Central e la
PennsylvaniaStation.
In una piazza, stretta
fra le case, si elevava
sopra ai tetti una chiesa
alta
e
imponente.
Sembrava
un’antica
cattedrale,
un
monumento
storico,
anche se i numerosi
campanili, la cupola
gigantesca, gli archi e le
volte a tutto sesto, le
colonne, le cornici, i
fregi, le statue, i pilastri,
le decorazioni in pietra e
le volute le davano un
aspetto a dir poco
eclettico: era arduo
stabilirne
l’epoca,
probabilmente era stata
costruita nel corso di
vari secoli, come spesso
le cattedrali. Di fronte
all’ingresso principale le
persone aspettavano in
fila per due, formando
una coda lunghissima
che costeggiava una
navata laterale per poi
svoltare e sparire dietro
la chiesa... Già che era
arrivato fin là, si disse,
valeva la pena dedicarvi
un po’ di tempo:
raggiunse il fondo della
codaesiunìaglialtri.
La piazza era piena di
piccioni
che
zampettavano
e
svolazzavano in folti
stormi. Erano sfacciati e
invadenti:
quando
avvistavano qualcuno
condellebricioledipane
non si limitavano ad
avvicinarsi,
ma
andavano a beccarle
direttamentedallemani,
siposavanosullespallee
sulla testa, tubando e
frullando, sollevandosi
in volo come nuvole
grigie, spargendo piume
e escrementi. Budai, in
coda, provò ad attaccare
discorso con un’anziana
signora con un logoro
collo di pelliccia che,
come altri, dava da
mangiareagliuccelli,ma
forse le si rivolse troppo
discretamente,oppurela
donna era un po’ sorda,
fattostachenonreagìin
alcun modo: continuava
a gettare le briciole,
tubava per attirare i
piccioni e lasciava che le
si
posassero
dappertutto... Non si
capiva neanche se ad
attirare quella folla
immensa
fosse
la
devozione religiosa o la
curiosità di visitare una
chiesaimportante.
Dopo un bel po’ –
ormai non ci faceva più
caso,avevapersoilsenso
del tempo – arrivò
finalmente all’ingresso,
dove sperava di trovare
qualche
opuscolo
illustrativo,comeèd’uso
in luoghi simili. Ma
appena varcati i battenti
del
portone
il
disciplinato corteo ebbe
un’improvvisa
accelerazione,
perché
tutti si lanciavano sui
banchetti dei venditori
che
riempivano
l’ingresso. Da quel che
riuscì a distinguere al di
làdellaressa,vendevano
oli,
unguenti,
una
poltiglia o pasta dall’aria
sospetta, arredi sacri o
comunque accessori da
cerimonie, e poi candele
e incensi, ma niente
guide. Le persone si
muovevano spingendosi
e quasi calpestandosi
l’un l’altro, e chi era
riuscito ad arraffare un
vasetto o una boccetta
proseguiva a forza di
ginocchiate e gomitate,
con il bottino stretto al
petto.Lamitevecchietta
che poco prima dava da
mangiare ai piccioni
adesso assestava calci
tremendi a chi le
capitava a tiro, il logoro
collo di pelliccia le era
scivolato sulle spalle e
sventolava come un
vessillodibattaglia.
Lo spazio interno,
talmente ampio da non
poter essere abbracciato
con un solo sguardo e
articolato
in
modo
caotico, era invaso dai
fedeli
e
dal
loro
mormorio salmodiante.
Varie
liturgie
si
svolgevanoinpiùluoghi
contemporaneamente, o
almeno così sembrava
dalle frotte di persone
che qua e là si
stringevano attorno a
uomini in tonaca e
zucchetto – di certo
sacerdoti – intenti a
recitare
o
cantare
qualcosa a voce alta. Le
pareti
erano
quasi
interamente ricoperte di
affreschi,
immagini,
dipinti e mosaici, e
intorno erano statue,
stucchi, rilievi, pulpiti
sovrastati
da
baldacchini,
edicole,
nicchie, archi e volte,
decorazioni e intagli a
merletti,
dorature,
smalti, avorio, vetrate
multicolori,pavimentidi
marmo intarsiato, spessi
tappeti
e
pesanti
lampadari
in
ferro
battuto: il tutto era di
una
ricchezza
e
abbondanza
così
strabiliante che era
impossibile coglierne i
dettagli. Budai tentò di
individuare uno stile in
quell’intreccio
sfolgorante, ma – forse
perché non se ne
intendeva molto – non
seppe riconoscere né il
romanico,
né
il
rinascimentale, né il
barocco, né altro, pur
riconoscendo
degli
elementidiognuno.Così,
su due piedi, non riuscì
neppure a capire a quale
religione o mitologia si
riferissero le immagini,
lestatueeledecorazioni:
figurediuominiedonne,
giovaniedecrepiti,perlo
piùinabitiantichi,conil
saio o una specie di
tonaca, rappresentati in
gruppi, scene di caccia,
cervi e caprioli, cani,
leoni, uomini armati di
picche e archi e un
cavaliere in armatura
che lottava con un
serpente. Pur avendo
poca familiarità con
l’iconografia,
poteva
però escludere che fosse
un luogo di culto
cristiano o ebraico,
poichénonc’eranoaltari,
crociostellediDavide,o
musulmano, perché il
Coranovietalestatue.Se
fosse capitato in una
sortadipagodaorientale
l’avrebbe capito dalla
caratteristica figura del
Buddha seduto o di Šiva
dalle molte braccia...
Naturalmente
queste
erano osservazioni che
procedevano
per
esclusione, e poteva
darsi benissimo che si
trattasse
di
templi
d’altrogenere.Anchequi
le iscrizioni sui muri e
altrove erano in quella
speciedialfabetorunico,
ma i caratteri avevano
un aspetto più arcaico e
qualchesvolazzoinpiù–
forse la loro lingua
liturgica
stava
alla
linguavivacomeillatino
all’italiano o l’antico
slavo ecclesiastico al
russo?
La
cerimonia
era
bizzarra e selvaggia;
Budai si avvicinò a uno
dei gruppi più folti, in
prossimità dell’ingresso.
Fu allora che si accorse
che, non lontano, sopra
un tavolo coperto da un
drappo scuro, giaceva
immobile una donna
corpulenta,
davvero
enorme, vestita con
eleganzaecircondatadai
fiori: era morta. Aveva
unvisograssoecolorito,
forse l’avevano truccata,
un collo pingue col
doppiomento,eanchele
mani, accanto al corpo,
erano paffute e piene di
fossette,carichedianelli
d’oro affondati nelle
pieghe delle dita. Gli
astanti, che chiaramente
eranolìperdarel’ultimo
saluto alla defunta, le
voltavano invece le
spalle, guardando verso
il sacerdote: questi,
reggendo un grosso
recipiente
metallico,
quasi una teiera, appeso
a delle rumorose catene,
all’improvviso cominciò
a gridare qualcosa in
tono dolente. Allora
anche tra i fedeli si
levarono gemiti e guaiti,
molti si gettarono sul
pavimento, sbattendo la
fronte così forte da
temere
che
si
rompesserolatesta.Enel
frattempo
non
smettevano
di
lamentarsieiloropianti
salivano
e
riecheggiavanotralealte
volte, mescolandosi alle
litanie provenienti da
altre zone della chiesa.
Alcuni avevano gli occhi
pieni di lacrime, una
donna esile con un
foulard nero in testa si
sentì male, le gambe le
cedettero e dovettero
accompagnarla
fuori
fendendolafolla.
Ragazzi in cotta rossa
sistemarono
delle
candele accese intorno
alla
defunta,
ma
l’assembleacontinuavaa
non curarsi di lei.
Tenevano gli occhi fissi
sul sacerdote, che alzò e
spalancòlebraccia,tanto
che le ampie maniche
dell’abito
talare
gli
scivolarono
fino
ai
gomiti, poi chiuse gli
occhiconun’espressione
estatica,
quasi
voluttuosa, e declamò
delle parole con voce
metallica,
ripetendole
per due volte. O forse
non erano uguali, ma
solo simili, due versi in
rima che suonavano
pressappococosì:
Zöhömöö,pröhödöö
Türidümi
mödölnöö...!
Queste
parole
produssero sull’uditorio
l’effetto
di
una
eccitazionesenzafreni,e
anche coloro che fino a
quel momento erano
rimasti
in
silenzio
cominciarono
a
singhiozzare,agridare,si
prosternarono a terra
finendo uno sull’altro,
poiché non c’era spazio
pertutti.Unvecchioalto
e secco si strappò di
dosso prima il cappotto,
poiglialtrivestiti,ilgilè,
la camicia, i pantaloni,
gli stivali, restando in
lunghi mutandoni a
quadretti:avevailtorace
ricoperto di un folto
vellocanutoeroteavagli
occhiinpredaaunafolle
frenesia.
Anche
altri
si
spogliarono, nonostante
il freddo, persino donne
e ragazze, come ossesse,
quasi a offrire la loro
nudità...
In
Budai,
stranamente,
lo
spettacolo non suscitò
indignazione né stupore,
ma piuttosto si sentì
contagiato dall’ebbrezza
di quella devozione:
provò il desiderio di
gettarsisulpavimentodi
marmoinsiemeaglialtri,
di togliersi le scarpe e di
allentare
colletto
e
cravatta.
Era
come
stordito, invaso da una
gioia estatica, felice di
trovarsi là e di potersi
donare agli altri, di
fondersi nella grande
comunitàdeicredenti.
Accesero l’incenso, e il
sacerdote sollevò il
turibolo e lo fece
oscillare. Allora tutti
quanti, come a un
segnale, si precipitarono
in avanti verso di lui.
Benché vinti dall’estasi
mistica si disposero
comunque in fila per
due.Alcunitentavanodi
sorpassareperesserepiù
vicini, ma quelli in fila
non lo permettevano e li
ricacciavano indietro: si
scatenò una vera rissa
per i posti. Un signore
obeso con la bombetta e
il bastone da passeggio
finì
letteralmente
calpestato,
gli
camminarono
sopra
nonostante agitasse le
braccia ed emettesse
flebili strilli come un
maialinodalatte.
Lo scopo di tutta la
baraonda era arrivare al
sacerdote, prostrarsi ai
suoi piedi e baciargli la
scarpa che fuoriusciva
dall’abito talare. Era una
scarpina di vernice nera
che un tempo doveva
esserstatalucida,maora
era diventata opaca a
causa del contatto di
tutte
quelle
labbra.
Quando arrivò il suo
turno, Budai si chinò
come gli altri ma la
sfiorò
appena,
provandone ribrezzo. Si
rivolse al sacerdote
prima in latino e in
greco,
bisbigliando
veloce per sfruttare al
massimo il brevissimo
tempo
a
sua
disposizione, quindi in
ebraicoeinanticoslavo,
lingue usate nei riti
religiosi
e
presumibilmente note
agli studiosi di teologia.
Il
sacerdote
rimase
immobile, sul volto
scultoreo
dalla
carnagione bronzea non
comparvealcunsegnodi
comprensione. Agitò il
turibolo che teneva
ancora alzato sopra la
sua testa; Budai venne
spinto via malamente
dal fedele dietro di lui,
una specie di cinese con
la testa rasata e i baffi
spioventi, e dovette
cedergli il posto per
permettereanchealuidi
baciare la scarpa di
vernicenera.
La
cerimonia
si
concluse
così;
l’assemblea si sciolse e
lui si allontanò, sospinto
dalla densa corrente dei
visitatori. Era stanco e
non aveva abbastanza
energia per provare a
chiedere informazioni a
qualcuno,
si
lasciò
trascinare. Il flusso
umanosidividevaindue
davanti a una scala a
chiocciola che portava
verso l’alto con una
leggera pendenza. Scelse
questa via e iniziò a
salire,sempregirandoin
tondo.Prestoglivenneil
fiatone
e
gli
si
indolenzirono le gambe,
ma
gli
altri
camminavano così in
fretta che volente o
nolente dovette stare al
loro passo, mosso anche
dallacuriositàdiscoprire
dovestavanoandando.
Dopo un bel pezzo, e
chissà
quanti
giri,
all’improvviso
il
percorsomutòdirezione.
Svoltarono
in
un
ballatoio
circolare
intorno a un immenso
vano coperto da un
soffitto a forma di
campana: erano arrivati
sotto la cupola della
chiesa. Dalla balaustra si
potevagettarelosguardo
verso il basso, sulla
moltitudine
che
formicolava ottanta o
centometrisottodiloro:
vista da lì era solo una
massa nerastra anonima
e impersonale, carne
viva che ondeggiava
lenta. Ma si provava una
vertigine ancora più
intensaaguardareinsu,
nella cavità della cupola,
seguendo i costoloni
curvi fino alla cima, che
sembravacosìaltadafar
venire il batticuore: la
sommitàdellacupolaera
quasialtrettantolontana
cheilsuolo.
Bisognava fare tutto il
giro
del
ballatoio,
seguendo
le
frecce
disegnate. Poi si varcava
una porta, e di qui si
salivano altre scale,
moltopiùstretteeripide
della precedente, che si
arrampicavano
all’interno
della
struttura a guscio della
cupola. Poi anche queste
terminavano
e
si
proseguiva su semplici
scale a pioli, anguste
passerelle e di nuovo
ripide scalette sempre
più faticose e che
richiedevano
quasi
un’agilità da acrobata.
Ma non poteva più
tornare giù, perché c’era
gentedietrodilui,ealtri
ancora, in fila indiana,
senza fine, sin dove
arrivavailsuosguardo.
Eranoormaivicinialla
cima, gli sembrava, e in
effetti l’ultima scaletta
verticale
l’aveva
condotto in un piccolo
locale circondato da
tante finestrine. Doveva
trattarsi
di
quella
struttura
cilindrica
costruita sulla sommità
delle
cupole
per
consentire
l’ingresso
della luce nello spazio
sottostanteche,aquanto
ricordava,
in
gergo
architettonico si chiama
lanterna.Sopradiessasi
elevava una minuscola
calotta di vetro, il punto
piùaltodellachiesa.Una
scaletta di ferro portava
lassù,eallafine,unoper
volta, ci si poteva
sporgere con il busto. La
scomodità
era
ampiamente
compensata dalla vista
che si godeva: tutto
intorno si allargava il
panorama
dell’intera
città.
Stavacalandolasera:il
cielo si tingeva di color
nero inchiostro, ma era
difficilediresequellache
gravava sopra i tetti
fosseunanebbiadifumo
e fuliggine o una nuvola
caricadipioggia.Lacittà
si estendeva a perdita
d’occhio in tutte le
direzioni: ovunque ci si
voltasse non se ne
vedevano i confini. Non
c’erano altro che case e
isolati, vie, piazze, torri,
quartieri
antichi
e
moderni,
caseggiati
logori e fatiscenti e
grattacieli
nuovi
fiammanti rivestiti di
marmo candido, viali e
vicoli,
fabbriche,
officine, gasometri, e il
gigantesco capannone
del
mattatoio,
che
riconobbe anche da
lontano.
E
camini,
camini
dappertutto,
cometantegoledidrago
verso il cielo che
sputavano fumo bianco,
nero, giallo e violaceo. E
ilventolorimescolavain
cumuli sporchi e ne
soffiava alcuni filamenti
anche attorno al suo
punto
d’osservazione;
era un vento freddo e
furioso che ululava
cingendo d’assedio la
cupola, tanto che la
struttura cigolava e
gemeva sotto le sue
raffiche e la sommità
oscillava sensibilmente.
Si infilava anche nella
piccolagabbiadivetroin
cui stava appollaiato
Budai,ilqualetremavae
batteva i denti ma
restava lì, incapace di
staccarsi
da
quella
visioneincantevole.
Però,
per
quanto
spaziasseconlosguardo,
nonvedevanébinari,né
stazioni;
l’oscurità,
inoltre, si infittiva e
andavacancellandoogni
dettaglio. E non scoprì
neppure fiumi, ponti o
litorali,
per
quanto
aguzzassegliocchi.Forse
soltanto lo specchio di
un bacino idrico – ci era
passato accanto strada
facendo – luccicò per
qualche
istante,
riflettendo un raggio di
soletardivoederrante,e
poi scomparve tra i veli
del crepuscolo... Solo
allora cercò quei terreni
incolticheavevacreduto
ai margini della città e
che aveva attraversato a
piedi. Li colse all’ultimo
momento, prima che
svanisseronelnulla:una
striscia sottile di uno
spento colore brunoverdastro, in mezzo a
due
quartieri
densamenteedificati,sia
da una parte che
dall’altra. Ma non capiva
che cosa dividevano da
che cosa, se era davvero
una linea di separazione
topografica...Dunqueera
allo stesso punto di
prima: era arrivato in
un’altra città o era
semprelastessa?
Aognimodo,decisedi
desistere. Non tanto per
la stanchezza, se fosse
stato per quello avrebbe
proseguito; aveva una
notevole
resistenza
fisica, a casa era solito
temprare il corpo con
vari sport, ed era
abituato
a
non
risparmiarsi fatiche se si
prefiggevaunoscopo.Ma
sapeva che da quella
chiesa ce l’avrebbe fatta
a ritrovare la strada per
l’albergo, da qualsiasi
altro luogo più lontano
inveceno,specieorache
era calato il buio: non
sarebbe riuscito a tenere
a mente o segnare sul
taccuino tutti i punti di
riferimento. E poi, se
davvero
quella
era
un’altra
città,
che
garanzia o speranze
aveva, lì, di orientarsi
meglio?
La
lingua,
l’alfabeto e tutto il resto
erano sconosciuti tanto
quanto nella prima, e
simile il numero dei
passantieilloromododi
fare
frettoloso,
sgomitante e cinico.
Avrebbe
dovuto
ricominciare tutto da
capo,
raccapezzarsi,
imparare i percorsi dei
mezzi pubblici e come
soddisfare i suoi bisogni
primari:ilsobrioeparco
stile di vita che aveva
faticosamente
instaurato
sarebbe
andato perduto. E non
aveva uno straccio di
postodoveposareilcapo
–perché,sevifossestato
costretto, a chi e in che
maniera avrebbe potuto
chiedere alloggio per la
notte,
dove
mai
l’avrebberoaccolto?
Le luci si accesero,
isolatoperisolato,strada
perstrada;apocoapoco
emersedalblugrigiastro
il panorama serale della
città.
Non
se
ne
vedevano i confini da
nessuna
parte:
in
lontananza, là dove le
linee dei lampioni e gli
ammassi
di
luci
convergevano in un
unico chiarore, nebbie
luminose e vie lattee ne
lasciavano intuire un
seguito, così come lo
spazio concentra in
un’unica scia la miriade
di stelle distanti milioni
di anni luce nella volta
celeste... Per tutta la sua
esistenza Budai aveva
vissuto in città, per lui
eral’unicacornicedivita
compatibile con il suo
lavoro,lesueabitudini,i
suoi svaghi, e aveva
sempre subìto il fascino
delle grandi metropoli
del mondo. E sebbene le
proporzioni di quella
città lo atterrissero, e di
fatto
lo
tenessero
prigioniero, non poteva
negarne
l’imponente
bellezza. Da lassù sentì
quasidiamarla.
Daquandoeraarrivato
Budai era entrato in
possesso di alcuni testi
che potevano servire per
lo studio del sistema di
scritturainusodaquelle
parti. Innanzitutto il
foglio appeso nella sua
camera, che sembrava
un regolamento e che
aveva già esaminato. Poi
c’era
il
giornale
comprato
la
prima
domenica nel quartiere
deidivertimenti,chenon
avevapiùpresoinmano.
Ma
ora
decise
di
concentrare
la
sua
attenzione sul conto
dell’albergo, trattandosi
dell’unico scritto di cui
intuisse
almeno
vagamente il contenuto.
Aveva già appurato che
le varie voci erano state
compilate solo in cifre,
senza nessuna lettera, e
tuttavia riteneva valesse
la pena di occuparsene
piùafondo.
In cima al modulo, in
mezzo ad altri segni
illeggibili, spiccava il
numero
921.
Era
chiaramente
l’intestazione principale,
essendo lui l’occupante
diquellacamera;mache
ilrestofosseilsuonome,
ammesso
che
lo
sapessero, era un’ipotesi
impossibile
da
confermare o confutare,
al pari di tutte le
speculazioni precedenti.
Provò ad analizzare i
costi addebitati, per la
somma finale di 35,80.
La spesa maggiore era
naturalmente il prezzo
dellastanza,allaqualesi
aggiungevano altre voci,
forse le telefonate, il
riscaldamento,oletasse,
o chissà. Cercò invano
importi di una certa
entità: il più alto era
5,40, poi un 2,70, un
3,80 e cifre simili.
Eppure da qualche parte
doveva
esserci
una
moltiplicazione,
la
tariffa giornaliera per
sette, dato che gli
avevano consegnato il
conto una settimana
dopo il suo arrivo. Ma
non
ritrovò
un’operazione
del
genere, pur avendo
rilettotuttoecontrollato
lesommepiùvolte.
Allorapensòdicercare
sulfoglioladata,inaltoe
in basso: niente. Gli
sembrava
impossibile
che il conto non
riportasse una data –
forse era scritta in
lettere?Perchémai,forse
si usava così?... Poi gli
venne un’altra idea, e
passòinrassegnatuttele
voci lasciate in bianco.
Dedusse che si trattava
di servizi di cui non
aveva usufruito, e che
non gli erano stati
addebitati:
colazione,
lavanderia, stiratura e
così via. In mancanza di
altri criteri, provò a
indovinare il tipo di
servizio dalla lunghezza
della
dicitura,
naturalmenteallaciecae
senza successo, poiché
avrebbe dovuto almeno
saperecomesuonavanoi
termini. Fu allora che
notò la brevità delle
parole:unpaiodilettere,
o poco più. Forse aveva
davanti
delle
abbreviazioni? Se era
così, probabilmente si
trattava di abbreviazioni
correnti, note a tutti,
comequellesullebollette
dellaluceedeltelefono–
ma in questo caso il suo
compito
diventava
enormemente difficile,
pernondireimpossibile.
Riprese
in
considerazione
il
giornale, lo guardò, lo
rigirò fra le mani per
vedere che cosa poteva
cavarne.Feceunastrana
e spiacevole scoperta.
Finoadalloraavevaletto
da sinistra a destra e
dall’alto in basso, come
in latino e nei sistemi di
scrittura europei. Così
sembravano suggerire il
conto, il regolamento
dell’albergo
e
pure
l’elenco
telefonico
sottrattoallareception,e
poi sparito dalla sua
camera. Ma ora gli
sorgeva un dubbio. E
questo perché in cima
alla prima pagina c’era
una specie di testata, un
titolo più grande e in
grassetto, ma ce n’era
una anche in fondo
all’ultimo
foglio,
e
identica.
Da
dove
bisognava cominciare?
Da davanti, dall’alto? O
da dietro e dal basso? O
forse da una parte
all’altra come nel greco
antico, nella cosiddetta
scrittura bustrofedica,
dove si legge da destra a
sinistra e poi a ritroso,
specularmente,
da
sinistraadestra?Oppure
era
soltanto
quel
giornale a essere scritto
in una lingua con
caratteridiversi?Ricopiò
alcune lettere, scelte qua
e là fra tutti i testi che
possedeva: fin dalle
prime
trovò
delle
corrispondenze.
Era
sempre
più
disorientato... E neanche
sulgiornalec’eraladata,
per lo meno non in
numeri, lo esaminò in
lungoeinlargo;pernon
parlare del nome della
città o del luogo di
stampa del giornale:
dove andarli a cercare,
nella testata, appena
sotto, o al di sopra?
Doveva essere proprio lì,
sarebbe stata la cosa più
logica – ma poi quale
testata, quella davanti o
quelladietro?
Allora gli venne l’idea
diprendereildenaroche
gli era rimasto in tasca e
dispose con ordine le
banconote secondo il
taglio.
Vi
erano
raffigurati personaggi
sconosciuti, paesaggi o
scorci di edifici ignoti,
figure
allegoriche,
elementi ornamentali...
Come su tutte le
banconote. Anche le
immagini sulle monete
non
erano
molto
dissimilidaquelleinuso
ovunque:
teste
femminili, spighe di
grano, fiori, uccelli.
Provò a cercare sui
biglietti
il
numero
espresso in lettere, dato
che doveva esserci. Ma
c’erano scritte di ogni
genere,
di
varia
grandezza e forma, e
copie
di
firme
scarabocchiate. Poteva
trattarsi di molte cose: il
nome della banca o
dell’istituto, quello dello
Stato, la legge che ne
regolava l’emissione e la
circolazione. Forse la
consueta formula che
stabiliva
la
somma
pagabile al portatore e
che la falsificazione era
punita a norma di legge,
quelgeneredicosechevi
vengono stampate – in
ognicaso,eratroppoper
riuscireaorientarsi.
Un’analisi
delle
monete forse era più
promettente: di solito –
almenoneipaesidov’era
stato finora – oltre alla
cifra c’era solo il nome
della valuta locale e
quellodelpaesediconio.
Fece
tintinnare
gli
spiccioli nella mano:
eranopezzida50,da20e
da 10. Su ogni moneta
unascrittacorrevalungo
il
bordo,
senza
interruzioni. Non solo
non riuscì a decifrare il
nome della valuta, ma
neppure dove iniziavano
ofinivanoqueisegni.
Così non era giunto a
nulla: brancolava nel
buio a occhi bendati...
Doveva rimettersi a
copiareicaratteriditutti
i testi? E a cosa sarebbe
arrivato?Erainutile,non
disponeva di documenti
sufficienti, o meglio, gli
mancava un punto da
cui
cominciare,
un
criterio–ilbandolodella
matassa. Quello che ci
volevaeraundizionario,
o almeno uno scritto
bilingue.
Aveva bisogno di una
libreria,efinoraneisuoi
giri per la città non ne
aveva mai incrociate. In
realtà,
si
ricordava
vagamente di averne
vista una alle spalle del
grattacielo
in
costruzione
–
era
diventato più alto, nel
frattempo,
adesso
contava
sessantanove
piani... Le stradine di
quel quartiere erano
particolarmente strette,
con un traffico e una
ressa eccezionali perfino
per la media della città,
nella calca di fronte a
certi negozi si metteva
quasi a rischio la vita.
Dovevaessercapitatonel
pieno dei saldi di fine
stagione, e in effetti,
pensò,erapartitodacasa
a metà febbraio, il
periodoeraquellogiusto,
a
fine
inverno.
I
commercianti gridavano
sul marciapiede, fuori
dai negozi, offrendo a
prezzi stracciati abiti,
maglioni,
biancheria
intima: i clienti li
accerchiavanoformando
capannelliimpenetrabili,
passandosi i capi di
mano in mano, li
prendevano
e
li
ributtavano alla rinfusa
nelle casse, e tutti
contrattavano,
nella
confusione
generale.
Alcuni
negozi
traboccanti di clienti
avevano abbassato la
saracinesca per non
farne entrare più, ma le
personesiammassavano
lo stesso, urlando verso
l’interno aggrappate alla
serranda
e,
appena
questa si alzava per
pochi secondi per far
uscire qualcuno, un
nuovo fiotto di gente
riusciva
a
infilarsi
dentro. Montagne di
scarpe, pantofole di
feltro e calze, e decine di
altri articoli: tutto in
offerta. Un venditore di
caramelle
cieco
cantilenava senza posa
unafilastroccastridulae
stonata.
Nellalibreriac’erauna
baraonda simile: c’era
chi frugava fra i libri
impilati per terra o sui
tavoli, chi tirava giù i
volumi dagli scaffali e li
sparpagliava
sul
pavimento sollevando
nuvole di polvere, chi si
arrampicava
sulle
scalette per raggiungere
lemensoleinalto;perun
bel pezzo Budai non fu
neppure in grado di
individuare il libraio.
Nella mischia, tentò di
rivolgersi a qualcuno e
dovette gridargli nelle
orecchie,mailfrastuono
era tale che non gli
badavano, tutti presi
dalla lettura e dalla
sceltadeilibri.Dopoaver
scrutato a lungo, la sua
attenzione fu attratta da
un grassone in fondo al
negozioconuncamicedi
cotonina,
la
faccia
coperta
di
macchie
epatiche,ilnasogrossoe
le labbra carnose, un
tiziosguaiatoepetulante
che
freneticamente
rimetteva a posto i libri,
li impacchettava e li
legava con lo spago, si
accalorava
nelle
contrattazioni,
ora
togliendo,
ora
aggiungendone
uno,
come se fossero patate o
pomodori. In quella
situazione Budai non
aveva modo di spiegarsi
o di chiedere, e neppure
di farsi capire a gesti;
riuscì a ad arrivare fino
al tizio con le macchie
epatiche e fece un
tentativo, ma erano così
in tanti a parlare
contemporaneamente, a
spingere e a gesticolare
che la sua voce si perse
nelbaccanogenerale.
Allora cominciò a
passare in rassegna gli
scaffali,nellasperanzadi
incappare
in
un
dizionario, un’edizione
col testo a fronte, una
guidaturistica,oalmeno
un libro scritto in una
lingua straniera che
conosceva,
così
da
mostrarloalnegoziantee
fargli capire che gli
serviva un vocabolario.
Ma, per quanto frugasse,
trovava solo libri in quei
caratteri simili a rune;
perlopiùvolumiantichi,
di
varia
forma
e
rilegatura,
alcuni
malridotti, altri quasi
nuovi, intonsi. Provò a
verificare il senso della
scrittura,sedasinistraa
destra o al contrario,
come aveva sospettato
osservando il giornale.
Ma sfogliandoli in fretta
non riuscì ad arrivare a
una conclusione, prima
gli parve che fosse in un
modo, poi nell’altro,
alcunisembravanoavere
due copertine, sul fronte
e sul verso, oppure la
copertina davanti e il
frontespizioinfondo.
I libri erano in offerta,
e il prezzo dietro al
volume
era
stato
cancellato con un tratto
d’inchiostro e accanto
c’era quello scontato. Ma
erano
comunque
spaventosamente alti,
quantomeno per le sue
tasche:andavanodai3o
4earrivavanofinoai10,
15 e 25 – non li aveva
nemmeno, quei soldi.
Spulciò dappertutto per
più di un’ora, e gli
passarono fra le mani
libri
d’ogni
genere.
Raccolte
di
poesie,
volumi con l’aspetto di
romanzi,
edizioni
pregiateperintenditorie
copie rilegate o in
brossura di serie ad alta
tiratura,
opere
scientificheetecnichesu
carta
lucida
delle
discipline più disparate,
eperfinotesidilaureain
chimica e matematica,
piene di formule e
derivate – forse avrebbe
potuto ricavare qualche
risultato dalle parti di
testo, se solo non fosse
stato così miseramente
estraneo
a
quelle
materie. C’erano intere
annate di riviste dal
contenuto
incomprensibile,
rilegate,
cataloghi
ricoperti di numeri con
un’infinità di note e
tabelle che illustravano
chissà cosa, raccolte di
disegni e caricature di
facce mai viste, con in
calce firme indecifrabili
e pochi versi, una specie
di programma teatrale
con le foto di un’attrice
sconosciuta che posava
con vari costumi, e
inoltre
fiabe
per
l’infanzia, se mai lo
erano, probabili libri
scolastici e un sacco di
altre cose... Ma non ne
trovò neppure uno che
fosse scritto in una
lingua diversa, anche
solo
in
parte.
In
mancanza di meglio
avrebbe potuto bastargli
anche una grammatica,
ma non la scovò tra le
migliaia e migliaia di
volumidiquelnegozio.
Tutto
questo
era
abbastanza avvilente e
snervante, e per giunta
schiacciato e spintonato
in
un
baccano
assordante.Certo,sesolo
avesse potuto spiegare a
qualcuno che gli serviva
un dizionario... ma in
quella baraonda non
sarebbe mai riuscito ad
avere l’attenzione del
libraio, assediato da una
torma
di
clienti
spazientitiegesticolanti:
ci provò comunque, ma
neanche stavolta quello
glidiederetta.Avendone
fin sopra i capelli di
quellabolgia,eritenendo
disperato ogni ulteriore
tentativo, alla fine si
scelse un libro da solo.
Primadiandarsenecolse
perunistantelosguardo
del tizio in camice di
cotonina,glielomostròe
pagò.
Si sarebbe detta una
raccolta di novelle, vista
l’impostazione
tipografica e la presenza
di molti dialoghi. In
quelle
pagine,
a
differenzachealtrove,la
scrittura
procedeva
inequivocabilmente da
sinistra a destra e
dall’alto in basso, come
dicevanolaposizionedei
titoli e l’inizio e la fine
dei racconti. Era un
volumetto smilzo, dal
prezzo
relativamente
modesto: 3,50. Sulla
copertina
c’era
un
paesaggio esotico dai
colori blu e verde
pastello, un golfo, le
palme, un grappolo di
casette bianco gesso
addossate sul fianco di
una collina, con i tetti
attaccati uno all’altro –
forse quel libro lo aveva
colpito
anche
per
l’azzurro
saturo
e
l’orizzontesconfinatodel
mare.
Sul bordo ripiegato
della
copertina,
il
cosiddetto risvolto, c’era
una
fotografia,
certamente dell’autore:
un
uomo
sulla
quarantina in piedi
davanti a uno steccato,
con un pullover a collo
alto,
una
postura
disinvoltaespontanea,il
viso pieno, i capelli
cortissimi; teneva gli
occhi socchiusi, con uno
sguardo
stanco
o
annoiato e sulle labbra
una strana smorfia
leggermente beffarda,
come se cercasse di
reprimere uno sbadiglio.
La
faccia
gli
era
familiare,
ma
non
ricordava dove potesse
averlo visto. A ogni
modo, il suo aspetto e lo
stile suggerivano che
fosse
un
autore
contemporaneo,
che
scriveva della vita di
tutti i giorni – la sua
scelta era caduta sul
volume proprio per
quello. Non gli sarebbe
statodigrandeutilitàun
testo in una lingua
arcaica o poetica, aulica,
oppure in un gergo
tecnico-scientifico tipico
di certe discipline, o in
una prosa di carattere
astratto e trattatistico. A
lui serviva la lingua
corrente, quella parlata
dalla gente per la strada
al giorno d’oggi, nella
quale avrebbe dovuto
addentrarsi parola per
parola: stando alla sua
ipotesi, e secondo ogni
probabilità,queiracconti
erano scritti in una
linguadelgenere.
Al ritorno in albergo,
passò davanti ai negozi
di souvenir nell’atrio e
diede un’occhiata più
attenta alle cartine sullo
scaffale di vetro. Ce
n’erano molte e tutte
diverse, così tante che
all’improvviso fu vinto
dall’esitazione e non
seppe
più
quale
prendere. Ne aprì una a
caso,
pensando
naturalmente
che
rappresentasse la città.
Ma
non
riuscì
a
orientarsiinquell’intrico
in miniatura di vie e
piazze che ricopriva la
superficie della carta: i
limiti dell’insediamento
urbano
non
comparivano, o forse si
trattava solo di una
parte, il centro, magari
un quartiere. Non erano
segnati binari ferroviari,
rappresentati
per
convenzione da sottili
lineenere;nelrettangolo
dellacartinanonc’erano
nemmeno corsi d’acqua,
solo piccole macchioline
azzurre sparse qua e là:
forse
dei
laghetti
ornamentali, o quei
bacini
artificiali
di
raccolta che aveva visto
in giro. Nell’angolo in
bassoadestrasisnodava
una striscia azzurra
lunga e stretta, che
finiva fuori dal bordo
della carta; ma a risalire
le anse tortuose in
direzione contraria la
striscia a un certo punto
si interrompeva, spariva
nel nulla, infrangendo
l’improvvisa speranza di
Budai
che
potesse
trattarsi di un fiume.
Tutt’al più, anche se
nulla lo provava, ne era
solo una diramazione
morta: anzi, magari un
fosso, come quello che
aveva seguito dalle parti
delmattatoio.
Avrebbe
voluto
individuare
l’albergo,
sulla
cartina,
o
confrontarla con la
mappa delle stazioni in
metropolitana.Farlocosì
a occhio era difficile:
l’unanonglieraneppure
chiaro come andasse
tenuta, quale fosse il
versogiusto,el’altranon
gli
si
era
fissata
abbastanza bene nella
memoria. Certo, aveva
scritto sul taccuino il
nome della fermata
vicino all’albergo, ma lì
non lo ritrovava. Per di
più,sulfogliopieghevole
che teneva fra le mani
non sembrava segnalato
il metrò: non c’erano
linee
continue
o
tratteggiate per indicare
la rete sotterranea, né
cerchietti semplici o
doppi, vuoti o pieni o
tagliati da una lineetta
perlestazioni.Ricordava
che su alcune cartine le
fermate
della
metropolitanaeranouna
semplice M maiuscola –
sì, ma quale lettera
corrispondeva qui alla
M? O forse quella
rappresentata era una
zonadellacittàdovenon
passava
la
metropolitana? E se non
fosse stata neppure la
cartina di quella città?
Madiqualealtra,allora?
La voltò per guardare
che cosa c’era scritto
dietro. Conteneva molto
testo, in caratteri di vari
colori e dimensioni; così
a una prima occhiata
non si riusciva a
individuare la parola
principale, ossia il nome
dellalocalità.Ineffettile
scritte
più
grandi
potevano significare di
tutto:
per
esempio
«nuova», «aggiornata»,
«cartina», o meglio
«istituto cartografico», il
nome di una casa
editrice, indirizzo, via e
numero civico, o perfino
«benvenuti,
vi
auguriamo un piacevole
soggiorno», o «felice
anno nuovo» e un
mucchiodialtrecoseche
di solito si stampano sul
retro
delle
cartine.
Poteva anche trattarsi di
pubblicità, marche di
birra, vermut, cioccolata
ochissàchealtro,oppure
nomi
di
ristoranti,
alberghi... La cartina
stessa era ricoperta di
scritte minuscole, per
tutta la lunghezza delle
vie e in ogni punto
immaginabile,
parole
frammiste a numeretti
misteriosi: solo con una
lente d’ingrandimento
sarebbe
riuscito
a
spulciarle, ma ne fu
talmente atterrito che
preferìlasciarperdere.
Si rivolse invece alla
negoziante e cercò di
chiederle a gesti di
mostrarglisullapiantina
il nome della città e il
punto
esatto
dell’albergo, se c’era, o
altrimenti di dargli la
cartina giusta. Ma il
comportamento
di
quell’uomo che frugava
tra le cartine e chiedeva
informazioni,
mentre
tutti gli altri clienti
aspettavano al banco,
doveva aver infastidito
la donna: non gli diede
ascolto e lo liquidò con
una frase seccata. Ma
Budai continuava a
insistere
e
faceva
tintinnare le monete per
saperequantocostassela
piantina,efinalmentelei
scrisse12suunpezzodi
carta. Lui girò i tacchi
all’istante,brontolandoe
imprecando contro chi
aveva la faccia tosta di
venderlaaquelprezzo.
Più tardi, a mente
fredda, si chiese se una
cartina gli sarebbe stata
davvero utile. Senza
neanche essere certi di
avere fra le mani la
mappa della città, e
comunque, di quale
quartiere? Non era forse
uno studio del tutto
inutile,chenonl’avrebbe
avvicinato d’un passo
all’obiettivo? Non c’era
un metodo più diretto,
più efficace?... Se ne
tornò dunque nella sua
stanza per dedicarsi, con
serietà e impegno, a
un’indagine sulla lingua
e sulla scrittura locali
che si attenesse ai
princìpi della scienza
moderna e alla sua
preparazione
accademica, servendosi
di tutti i mezzi e le
possibilità
a
disposizione.
Purtroppo,comeaveva
più volte rimpianto da
che era arrivato in quel
luogo, non si era mai
occupato di storia dei
sistemi di scrittura, e
tantomeno
di
crittografia,essendouno
specialista
di
studi
etimologici,
ovvero
dell’origine delle parole.
Però, scavando nella
memoria, si ricordò che
nelle letture giovanili ci
si
imbatteva
in
ingegnosedecifrazionidi
codici
segreti,
per
esempio nei romanzi di
Verne.
In
Mathias
Sandorfciriuscivanocon
l’ausiliodiunagriglia,in
Viaggio al centro della
Terra
invece
modificando
l’ordine
delle righe secondo un
certo criterio. Aveva
anchesentitodirechein
tempi
più
recenti,
durante le due guerre
mondiali,iservizisegreti
avevano elaborato dei
sistemi perfetti per
decrittare i messaggi
cifratidelnemico,grazie
a metodi matematici e
statistici: in pratica
qualsiasi codice, anche il
piùelaborato,puòessere
violato. Quei crittografi
però,unavoltatrovatala
chiave, ristabilivano la
versione originale di un
messaggioredattoinuna
lingua nota, e solo in
seguito trasformato e
camuffato. Budai invece
si trovava di fronte alla
scrittura sconosciuta di
una lingua sconosciuta:
non l’avrebbe capita
neanchesefosseriuscito
aleggerla.
È vero che l’ingegno e
la
pazienza
degli
archeologi, al di là dei
casi già citati, avevano
risoltoancheproblemidi
questo genere quando
potevano contare su un
reperto
multilingue.
Bastava pensare alle due
grandi
prodezze
in
questo
campo
del
ventesimo secolo, la
decodificazione
dei
caratteri
cuneiformi
degli Ittiti e quella della
cosiddetta «lineare B»
cretese, due sistemi di
scrittura
pressoché
sconosciutidipopolifino
allora
sconosciuti.
Eppure il punto di
partenza fu proprio quel
quasi, il piccolo impulso
necessario a muovere i
primi passi. Nelle tavole
d’argilla degli Ittiti un
buon numero di segni si
potevano
identificare
con
ideogrammi
babilonesi già noti in
precedenza. E anche
colui che decifrò la
lineare
B,
l’inglese
Ventris, poté sfruttare
l’affinità, evidente in
base
ad
alcune
corrispondenze,
tra
questa e il sillabario
cipriota. Dunque da una
cosaderivòl’altrael’aver
svelato il significato di
pochi segni sillabici
permise, grazie a varie
speculazioni e ipotesi
combinatorie,
di
individuare i successivi.
Inoltre, gli studiosi
avevano buoni motivi
persupporrecheneitesti
ricorressero alcuni nomi
propri, come succedeva
nelle tavolette cretesi
con i nomi delle antiche
città di Cnosso e
Amnisos; quest’ipotesi
contribuì in misura
decisivaallorosuccesso.
A
rendere
molto
difficile il compito di
Budai era il fatto di non
saper leggere nemmeno
unodiqueisegni,dinon
avereilminimopuntodi
riferimento: con quale
sistema di scrittura
poteva
confrontare
quello
locale?
–
naturalmente
non
conosceva a memoria le
scritture cuneiformi, in
granparteormaiestinte,
né le aveva mai studiate
approfonditamente.
L’altro problema era che
non poteva formulare
ipotesi, non avendo un
appiglio,unaparolaoun
nome da cercare, una
traccia da seguire, sia
purvaga.Eppuredoveva
esserci,daqualcheparte.
Per comprendere la
natura di un sistema di
scrittura,unbuonpunto
di partenza può essere il
numero
dei
segni
impiegati. Ce ne sono
moltissimi nei sistemi
che fissano parole intere
e concetti, come nel
cinese,peresempio,dove
si dice che superino i
cinquantamila.
Nelle
scritture
sillabiche,
naturalmente,
ne
bastano molti meno: i
geroglificicretesiacuisi
accennava sopra sono
ottantanove, la scrittura
cipriota
ha
quarantaquattrosegni,il
giapponese
moderno
centoquaranta.
Un
numero inferiore di
segni
indica
senza
dubbio una scrittura
alfabetica, come quelle
dei moderni popoli
europei: l’inglese ne ha
ventisei,
come
il
francese,
il
russo
trentadue,ecosìvia.
Si mise dunque a
ricopiare,comegiàaveva
fatto una volta, i
caratteri
dei
testi
stampati che aveva a
disposizione. Superò ben
presto i cento e nulla
indicava che fossero
finiti...Sitrattavaquindi
diunsillabario?Igruppi
di segni gli sembravano
troppo lunghi perché
fosse
una
scrittura
sillabica. Allora erano
logogrammi? Proseguì
nellavoro,madiventava
sempre più difficile
suddividere i caratteri e
raffrontarli. Un dubbio
lo assalì: e se avesse
scrittopiùdiunavoltalo
stessosegno?
Al
duecentotrentasettesimo
aveva ormai perso la
speranza di arrivare alla
fine, e lasciò perdere. Si
cimentò con un altro
metodo:
scegliendo
caratteri a caso e
improvvisando
dei
calcolitentòditrovarele
lettere più ricorrenti e le
più rare, partendo dalla
considerazione che le
vocali, essendo molte
meno delle consonanti,
in genere sono più
frequenti.Peresempio,è
stato calcolato che in
ungherese le lettere più
frequentisonolaeelaa,
e poi t, s, n e l, e le più
rare x, q e w – in altre
lingue naturalmente la
proporzione è diversa. Il
ragionamento
però
avevasensosesitrattava
di
una
scrittura
alfabetica,enonsillabica
– dove ogni segno
corrisponde a un nesso
di consonante e vocale:
in tal caso era fatica
inutileesprecata.
Allora si domandò se
quella lingua avesse gli
articoli, come il greco
anticoel’arabo,l’ebraico,
l’inglese, il tedesco,
l’italiano, lo spagnolo, e
così via. Perché, se sì,
poteva essere un buon
avvio. Anzi, in un testo
scritto
li
avrebbe
individuati
più
facilmente che non nel
parlato, dove spesso
l’articolo si fonde con il
sostantivo. Per esempio,
quando
la
ragazza
dell’ascensore gli aveva
detto il suo nome, lassù
al diciottesimo piano, la
seconda volta gli era
parso più lungo. Forse
l’articoloerae,pe o te? E
come si scriveva? Se
l’avesse
trovato,
sarebbero state le prime
letterecheeraingradodi
leggere, sia pur in
manieraapprossimativa.
Perciòdecisedicercare
parolette
brevissime,
uguali
o
almeno
somiglianti, all’inizio di
righe abbastanza lunghe
o di frasi e paragrafi. Ma
invanosfogliòilgiornale
e il libro che si era
appena procurato, quasi
nonnetrovò,eseriuscìa
mettere insieme alcune
parole identiche queste
erano di cinque o sei
lettere: che prove aveva
che si trattasse di
articoli? Stranamente,
invece, trovava delle
particelle di due segni
identici alla fine di ogni
paragrafo e in fondo ai
capitoli, o novelle, del
volume.Allorasiricordò
che in rumeno, in
bulgaro, in albanese e in
mordvino l’articolo non
precede il sostantivo ma
lo segue – che fosse così
anche in quella lingua?
Oppure non c’erano
articoli – come in latino,
in
finlandese,
nelle
lingueslaveeincinese–
e quella paroletta finale
serviva a chiudere il
contenuto
dell’enunciato, come in
latino dixi o l’augh nei
romanzi sugli Indiani
d’America?
Se in una lingua
esistonoleparolesìeno,
allora è chiaro che il no
ricorrerà relativamente
spesso. Lo stesso dicasi
per il che, il ma e la
congiunzione e, benché
quest’ultima
possa
trovarsinellafraseanche
comeparticellaenclitica,
attaccata alla parola che
la precede, come il -que
del latino. Una volta
aveva letto una ricerca
sui
sostantivi
più
ricorrenti nella lingua
ungherese:
grande,
popolo,
casa,
appartamento, paese e
così via. Erano gli stessi
anche qui? E se sì, come
poteva pescarli in quel
mare di testi, cosa
l’avrebbe
aiutato
a
identificarli?
E se si fosse inoltrato
in quella giungla a
partire dagli elementi
sintattici?Aquelloscopo
avrebbedovutoricercare
gruppidisegnisimilima
non proprio identici. Per
esempio, se erano uguali
all’iniziomadiversinella
terminazione, si poteva
supporre che fossero
forme flesse della stessa
parola.
Trascorse
un’intera giornata a
cercare di articolare
gruppi del genere: li
aveva disposti per bene
in colonne, per poi
poterli
confrontare.
Aveva trovato per lo più
parole
in
cui
coincidevano soltanto i
primi due o tre segni.
Certo,
non
poteva
escludere che fosse una
casuale allitterazione di
vocaboli affatto diversi,
come porta e porto, o in
inglesesix e sister. Ma se
invece si fosse trattato
della stessa radice, come
sperava, che cosa poteva
celare
quella
terminazione variabile?
Flessione del nome o del
verbo,desinenze,suffissi
derivativi,
postposizioni?
O
la
distinzione del genere
maschile e femminile,
come
in
francese
directeur e directrice?
Quelchecredevafossela
radice
della
parola
poteva anche essere un
prefisso verbale, o la
prima parte di un
composto, o un mucchio
d’altrecose.
Quando, al contrario,
era
uguale
l’ultimo
membrodellaparola–ne
trovò diversi esempi nel
suo paziente lavoro di
spigolatura –, si poteva
immaginare
che
si
trattasse di vocaboli
dotati
dello
stesso
suffisso.
Come
in
ungherese
szobában,
házban, városban oppure
szobának,
háznak,
városnak;3 e ce ne
sarebbero potuti essere
ancora tanti, a seconda
di quante desinenze
possedevaquellalingua–
ma di nuovo, a quale
caso corrispondevano, e
come si pronunciavano?
Esenonsifossetrattato
di suffissi, ma di
semplice assonanza o
rima,allostessomododi
piatto e gatto, oppure
stabilimento, pentimento
e bastimento? Quella
parte finale avrebbe
anche potuto essere una
base verbale preceduta
da un prefisso, come ad
esempio
in
predire,
disdire e contraddire e
molti altri, come nelle
trentaepassalingueche
bene o male conosceva.
La questione restava
ancora una volta la
stessa: come fare a
orientarsi
e
capirci
qualcosa?
Lavorare così era
inutile,
uno
sforzo
sterile, un susseguirsi di
congetture e nessuna
certezza. Perdersi in
ipotesi,
speculazioni
teoriche,
giochi
di
pazienza
logici
e
sostituzioni non sarebbe
servito a fare dei passi
avanti, se non alla
velocitàdiunalumaca.E
se pure, con un lavoro
immane, grazie a calcoli
statistici e probabilistici,
a prezzo di una quantità
enorme di energia, con
disagio e fatica fosse
riuscito
a
decifrare
quell’alfabeto
e
a
stabilire
il
valore
fonetico di tutti i segni –
cosa dalla quale era
lontanissimo,
non
avendone individuato
nemmeno uno –, da ciò
non sarebbe affatto
conseguita
la
comprensione di quella
lingua. La scrittura degli
Etruschi, per esempio,
non ha più misteri per
noi, sappiamo leggerla
compiutamente; ma la
loro lingua, nonostante i
tentativi delle menti
migliori e l’aiuto dei più
moderni
strumenti
scientifici, resta ancora
sconosciuta,
con
l’eccezione di qualche
decina di parole e di un
paio
di
formule
grammaticali. Perfino la
sua parentela genetica è
oscura e controversa –
forse
anche
l’epepe
parlato da quelle parti
era un idioma isolato e
senza affiliazioni, come
l’etrusco, il basco e un
paio di lingue africane e
caucasiche?
Ciò nondimeno lui si
trovava
in
una
situazione
ben
più
favorevole di coloro che
lavorano
alla
ricostruzione di una
lingua
morta.
Essi
dispongono
solo
di
documenti scritti, e
perciò sono costretti a
ricorrere
a
metodi
indiretti,
complicati,
speculativi,
che
comportano
tanti
infruttuosi esperimenti.
Lui
invece
poteva
contaresullalinguaviva,
sulla sinfonia a mille
vocicherisuonavaperle
strade, nelle piazze, in
albergo,
in
metropolitana:
non
doveva far altro che
prestarvi attenzione e
isolarelevariemelodiee
note – ad annotare la
partitura ci avrebbe
pensato dopo. Mise
dunquedaparte,almeno
per il momento, il
giornaleeglialtritesti,e
si risolse a tenere da
allora in avanti le
orecchiebenaperte.
In teoria avrebbe
potuto
imparare
la
lingua da chiunque, da
un qualsiasi abitante
della città, carpendogli
piano piano le parole, le
regole e così via, se solo
questo chiunque gli
avessededicatounpo’di
tempoepazienza.Maera
proprio ciò che mancava
ai locali, un minimo di
cortesiaedisponibilitàin
quellafrettaperpetua,in
quella ressa continua;
sarebbe bastata una
persona
con
cui
spiegarsi, che degnasse
d’attenzione
il
suo
gesticolare
da
sordomuto almeno una
volta, con calma. Da
quando era arrivato non
avevaancorastabilitoun
contatto umano con
nessuno. Ma no, forse
conqualcunosì...
Scrissesubitoinumeri
da 1 a 10 su una pagina
del taccuino e corse a
cercare
Pepe
agli
ascensori, la invitò a
salireall’ultimopiano,le
mostrò il foglio e indicò
il numero 1. La risposta
della ragazza non fu
chiara, probabilmente
non capiva che cosa
volesse, rideva, si accese
una sigaretta, si strinse
nelle spalle, e mormorò
con
voce
flautata
qualcosacome:
«Tuulli ulumulu alaulp
tleplé...».
Non poteva essere il
nome di un numerale.
Budai non si arrese,
sollevò il pollice, indicò
l’1 anche su una
banconota, insistendo.
Stavolta Bebe rispose in
maniera più breve, con
unmonosillabo:
«Dütt!».
Allora lui le domandò
il 2, il 3, il 4 e così via,
annotando le risposte in
alfabeto fonetico. Arrivò
fino al 10, ma nel
frattempo il campanello
aveva cominciato a
suonare,aipianidisotto
dovevano essere in tanti
ad aspettare l’ascensore.
Perverificareleindicòdi
nuovo l’1, ma stavolta la
ragazzadissequalcosadi
completamentediverso:
«Sümülükada».
Budai era confuso:
qual era il nome dell’1,
questooquellodiprima?
Il campanello trillava
sempre più imperativo,
la donna spense la
sigaretta, gli fece segno
che le dispiaceva ma
doveva
veramente
andare.Maluisentivadi
non poter rimandare
ancora a chissà quando,
cercò di far capire alla
ragazza che l’avrebbe
aspettata lì e la pregò di
tornare al più presto.
Edede
si
arrestò,
pensierosa.Budaidoveva
avere un’aria talmente
disperata da superare
l’abisso linguistico che li
separava. Annuì seria,
battendolecigliabionde,
come a dire che sì,
sarebbetornata.
Passòunamezz’oraela
ragazza riapparve tra le
porte
automatiche
dell’ascensore.
Budai
riprese a domandarle i
numeri, ma non era
soddisfatto del risultato:
soltanto due o tre
termini
suonavano
ugualiosimiliaquellidi
prima.
Certo,
dalle
risposte di Tete era
difficile
isolare
il
numeraleveroeproprio,
perchéleinonsilimitava
adireunaparolasola,eil
resto poteva significare
ditutto.Cosecome:bene,
va bene, sì, prego, ho
capito, aspetta, tel’hogià
detto, o altre particelle
discorsive che si usano
parlando. O forse in
questa lingua dicevano
in più modi lo stesso
numero? Come in altre
lingue per lo 0: nulla,
zero,niente,eccetera?
Dopo quella volta
iniziò a fare la posta
presso gli ascensori in
attesa di veder spuntare
Dedede – non era ancora
riuscito
a
capire
esattamente il suo nome
pur avendoglielo chiesto
innumerevoli volte – per
proseguire con lei le
lezioni
di
lingua.
Naturalmente la ragazza
doveva lavorare, portare
su e giù il flusso
ininterrotto
di
passeggeri, e di sicuro
era
sorvegliata,
controllavano se era in
servizio.Soltantodirado
e per brevi momenti
riuscivanoarimanereda
soli, su al diciottesimo
piano, mentre da sotto
non
smettevano
di
suonare in maniera
piuttosto snervante. A
volte Budai restava con
lei nell’ascensore, non
avendo nient’altro da
fare, andava su e giù
nella cabina che si
riempiva,sisvuotavaesi
riempiva di nuovo,
mescolato agli altri
passeggeri. La donna
intanto era impegnata a
manovrare l’ascensore,
rispondeva al telefono,
forse
per
ricevere
istruzioni, e solo ogni
tanto era libera di
lanciargli uno sguardo
d’intesa,comeadirgli:so
che sei lì, non mi sono
scordata
di
te...
Nell’ascensore
sovraffollato il piccolo
ventilatore non bastava
a garantire un buon
ricambio d’aria. Era
ancheperquestaragione
che Budai non vedeva
l’ora delle loro brevi
pause, per respirare un
po’ d’aria fresca e
provare a imparare
qualcos’altrodalei.
La
ragazza,
stranamente, non mise
in dubbio neppure per
un attimo il ruolo di
insegnante che Budai le
aveva assegnato, e anzi
loassunsedibuongrado
e con zelo, come se fosse
un
suo
dovere
o
un’ambizione. Quando
arrivavano
all’ultimo
piano, si accendeva una
sigaretta, espirava il
fumo e si disponeva ad
ascoltare,
pronta
a
rispondere
alle
sue
domande.
Certo,
neppure per lei doveva
essere facile capire sulla
base
di
gesti
e
scarabocchi cosa volesse
sapere quell’ospite che
parlava
una
lingua
sconosciuta.
Forse
sentiva fino a che punto
quell’uomo
avesse
bisogno di lei e del suo
aiuto – o forse nutriva
verso di lui un’altra
inclinazione?
Eppure più di una
volta Budai la cercò
senza trovarla, non era
ancora
riuscito
a
stabilire né a farsi
spiegare i suoi turni,
semprecheneavesse.In
quei momenti la vita gli
apparivavuotaeprivadi
senso,
si
sentiva
smarrito, un pesce fuori
dall’acqua. Per ora non
aveva alcuna intenzione
di rivolgersi a qualcun
altro, pensava che si
sarebbesoltantoconfuso
e avrebbe rimesso in
questione
quel
pochissimo che credeva
diaverimparato.Eforse
gli sembrava una forma
diinfedeltàneiconfronti
di Dede, che era sempre
così gentile e paziente
conlui.
Inoltre non si illudeva
dipoterfermarelagente
per la strada con i suoi
problemi grammaticali,
ormai l’aveva capito.
C’erano
parecchi
ubriachi,inparticolarela
sera, dappertutto: per le
strade,inmetropolitana,
nell’atrio
dell’albergo,
uomini
e
donne,
barcollavano, vociavano,
cantavano, litigavano,
vomitavano,
si
azzuffavano: con loro
non
aveva
molte
speranze... Aveva paura
soprattuttodisera,lasua
camera gli pareva una
cella
carceraria,
si
sentiva imprigionato; se
almeno avesse avuto
qualcosa da leggere, in
una qualsiasi delle tante
lingue che conosceva!
Non
sempre
aveva
l’energia di buttarsi in
quei rebus indecifrabili,
sentiva la mancanza di
un po’ di nutrimento
spirituale, di evasione,
temeva
quasi
di
impazzire. E non osava
neppure
allontanarsi
dall’albergo, nel caso
riapparisse la ragazza: in
certe
giornate
era
capitatocheleilavorasse
sia al mattino, sia di
notte. Però Budai non
reggeva più a stare nella
suastanzaconlemaniin
mano,
era
agitato,
tormentato dalla smania
di darsi da fare, di
seguirepiste,diandaree
venire,perilterroreche,
sefosserimastoinattivo,
nessuno avrebbe mosso
unditopersalvarlo.
Scese a gettare uno
sguardonellahall,dacui
poteva tener d’occhio gli
ascensori. Il gigantesco
atrioerariempitodauna
folla enorme che, a
quanto pareva, non
diminuiva neanche a
nottefonda:lepersonesi
appisolavano
sulle
poltrone
oppure
si
trascinavano qua e là
mezzo
addormentate.
Davanti alla reception
c’eraunalungafila,dove
figuravano molti nuovi
arrivati con le loro
valigie.Notòperlaprima
volta che si vedevano
solo bagagli in entrata,
mai in uscita – dove
andavano a finire le
valigie di chi partiva? E
se avesse provato a
seguirne le tracce?... O
forse passavano da un
altro ingresso? Ma dove
poteva essere, questo
ingresso? Oppure qui la
gente
arrivava
di
continuo, e nessuno
partivamai?
S’imbatté di nuovo
nella delegazione di
sacerdoti
dall’aspetto
esotico
che
aveva
incontratoilgiornodopo
il suo arrivo. Il piccolo e
variopinto gruppo di
vegliardi barbuti dalla
pelle scura e lucida,
vestiti
di
lunghi
caffettani, adorni di
catene e copricapi, sfilò
in maestoso silenzio tra
la folla che si apriva
deferente
al
suo
passaggio
–
non
portavano nessun segno
osimbolocherivelassela
loro identità, la loro
provenienzaoreligione.
Decise di fare un giro,
superò il grasso usciere
che lo salutò come
sempre, portando la
mano alla visiera. Si
limitò ad andare al
grattacielo
in
costruzione per vedere a
che
piano
fossero
arrivati. Vi stavano
lavorando
a
pieno
regime,
schiere
di
manovali
brulicavano
sui muri, le fiamme
ossidriche scintillavano,
imontacarichiandavano
suegiù,sottoiriflettori;
strano però, dall’ultima
voltacheavevacontatoi
piani
l’edificio
era
cresciuto solo di uno –
ora ne aveva settanta –,
eppure erano passati
parecchigiorni.
Di notte la vita
scorreva con la stessa
intensità. Le uscite della
metropolitana
rigurgitavano
e
inghiottivano
gente
senza posa, le schiere di
quelli che tornavano a
casa stanchi dal lavoro e
quelli che invece si
avviavano con la faccia
gonfia di sonno verso i
lontani
quartieri
industriali, per il turno
dell’alba. Altri erano in
giro senza meta, si
raccoglievanoagliangoli
dellestradeonellepiazze
ingaggiando discussioni
senza fine, forse su un
evento sportivo, oppure
aspettavanoigiornalidel
mattino. Nei bar si
vendeva quella bevanda
alcolica
dal
sapore
sciropposo di cui si era
già ubriacato una volta.
Gli avrebbe fatto piacere
cedere all’alcol, alla
levità e all’incoscienza
dell’ebbrezza,
ma
mantenne
il
suo
proposito, e poi gli
spiaceva sprecare così i
pochi soldi che gli
restavano.
In lontananza, in alto,
scorsedinuovolelettere
rosse
e
blu
che
lampeggiavano; chissà
che
cosa
reclamizzavano... Da un
locale sotterraneo, che
finoaquelmomentonon
aveva notato, proveniva
un ritmo martellante di
batteria, musica mista a
frastuono.
Sbirciò
all’interno, per pura
curiosità: la grande sala
era strapiena, forse era
un locale da ballo, anche
setrailfumo,ilbaccano
e la folla che occupava
ogni angolo possibile e
immaginabile, non poté
individuare una pista,
perché la gente ballava
anche fra i tavoli, al bar,
lungo i muri e perfino
sulle scale d’ingresso.
Naturalmente erano in
maggioranza
giovani,
abbigliati nello stile
sgargiante
o
provocatoriamente
stracciato che in tutto il
mondo è la divisa della
gioventù. Le coppie di
ballo non erano solo di
sesso opposto, ma anche
di ragazze con ragazze, e
ragazziconragazzi.Madi
vere e proprie coppie ne
vide poche, per lo più
ognunoballavacontutti
e per conto suo, in un
turbinio generale, in un
fracasso
assordante.
Inoltre, le differenze di
genere
erano
poco
marcate,
parecchi
ragazzi
sfoggiavano
lunghe capigliature di
foggiafemminile,etrale
ragazze
molte
indossavano i pantaloni.
Sembrava poi che ogni
razza presente sulla
Terra
vi
fosse
rappresentata;
si
dimenavano
e
si
contorcevano a ritmo di
danza mescolandosi in
un intrico caotico di
bracciaegambe.
Non
vide
però
musicisti, la musica era
registrataeamplificataa
livelli insopportabili. I
pezzi si susseguivano
senza interruzioni, tutti
uguali, almeno alle sue
orecchie; puro ritmo,
nientemelodia,unritmo
spezzato,
sincopato,
insinuante, impudico...
Ma era soprattutto il
volume a infastidire
Budai, che si sentiva
quasiscoppiarelatestae
non si capacitava di
come gli altri riuscissero
a resistere in quel
baccanoincessante.
Stava per andarsene
quandoinfondoallasala
ci fu un improvviso
disordine, una specie di
tumulto. Che cosa stesse
succedendo di preciso
non gli fu chiaro per
qualche secondo, ebbe
l’impressione di uno
scarto,diunmovimento
sfasatorispettoaltempo
dellamusica.Poicapìche
erascoppiataunarissa,e
a
poco
a
poco
cominciarono anche a
delinearsi i due fronti,
bianchi contro neri.
Quale ne fosse la causa
eraimpossibilecapirlo,e
fu una sua mera
congettura, del tutto
privadifondamento,che
potesse avere a che fare
con
una
biondina
slavata, il cui viso
apatico e beffardo era
apparso per un attimo
dietroaicontendenti.
Inmenchenonsidica,
i litiganti erano già stati
separati. Da chissà dove
eranosaltatifuorideitizi
in divisa, con la solita
tuta
marrone.
Col
fischietto tra i denti,
disposti
a
cordone,
avevano formato una
barriera vivente tra le
due fazioni: i litiganti
non
smettevano
di
minacciarsi e insultarsi,
digrignando i denti, da
una parte e dall’altra del
muro di agenti in
uniforme, con una furia
che non accennava a
placarsi...
Budai
fu
incuriosito dalle loro
urla,eritennecheanche
da queste potesse trarre
qualche dato utile. Nel
caos e nel frastuono –
perché nel frattempo la
musicanoneracessata–
sentì che i rivali,
agitando i pugni, si
gridavano
qualcosa
come:
«Durumba!...
Udurumbunda!».
Naturalmente poteva
significare un sacco di
cose: carogna, fetente,
bastardo, stai attento,
vieni qui, ti ammazzo, ti
spacco la faccia e altre
gentilezze del genere.
Budaiselescrisse,aogni
buon conto, insieme agli
altri appunti, in alfabeto
fonetico, aggiungendovi
interpretazionipossibili.
Fu allora che uno dei
bianchi,
un
tizio
tarchiato in pullover, si
sporse oltre la catena
umanadiuominiintuta
marrone e, prima che
potessero
trattenerlo,
colpìconunabottigliadi
birra la fronte di uno
nero allampanato che si
sbracciava davanti a lui.
Si udì un rumore secco:
sieraspaccatoilvetro?o
si era rotto il cranio?
Quello
che
aveva
ricevutoilcolpovacillòe
rivoli di sangue rosso
scuro cominciarono a
scenderglilungolafaccia
nerissima. Gli agenti di
sicurezza, o quel che
erano,
fischiarono
nervosamente mentre
tenevano a distanza i
rivali. Ma un altro
giovanotto nero accanto
al ferito estrasse il
coltelloaserramanico:si
accovacciò di scatto,
passò sotto la catena di
braccia e vibrando un
colpo rapido come un
fulmine
trafisse
all’addome il tizio con il
pullover... Questi si
guardò attorno con aria
stupita, senza rendersi
pienamente conto di
cosa era successo. Si
premette la mano alla
vita,
là
dove
era
penetrata la lama, e con
grande lentezza si piegò
inavanti,conlosguardo
di chi non riusciva a
credere
che
fosse
capitato a lui, proprio a
lui;
quando
rimase
immobile tra le braccia
dei suoi amici aveva
ancora quello stupore
fissonegliocchi.
Fuoriululòunasirena,
forse l’ambulanza o una
volante della polizia. In
mezzo alla confusione
balenò di nuovo per un
attimo la chioma bionda
della ragazza, poi i
poliziotti irruppero nel
locale, scendendo gli
scalini a suon di
manganellate...
Budai
non
ci
teneva
a
rinnovare
la
loro
conoscenza
e
prudentementeselafilò.
Era sconvolto dalla
vicenda a cui aveva
assistito, ma non si era
scordato
del
suo
impegnoconEpepe.Non
voleva assentarsi troppo
alungo,nelfrattempolei
poteva essere riapparsa;
ritornòversol’albergo.
Non
trovando
la
ragazzanell’ascensore,si
ritirònellasuastanzaesi
rimise a fare tentativi al
telefono.Avevaannotato
alcuni
numeri
che
rispondevano anche di
notte,
riconosceva
perfino le voci delle
persone che chiamava.
Eraun’esperienzastrana,
quasi onirica, quella di
conversareconqualcuno
e non capire una parola:
ormai
li
chiamava
spesso, gli piaceva. In
realtà nutriva anche la
speranza
che
l’interlocutore dicesse il
proprio numero, come
spesso accade quando si
chiama quello sbagliato.
Certo, da quelle frasi
rapide era pressoché
impossibile afferrare le
risposte che cercava, ma
anche così, senza trarne
nessuna
utilità,
gli
faceva
bene
dire
«Pronto?»,
porre
domande, sentire che
c’era qualcuno all’altro
capodelfilo,chelostava
ascoltando, immaginare
com’era fatto... Cosa
strana, tra i suoi
interlocutori telefonici
c’erachinonriattaccava,
anzi, si tratteneva a
lungo a parlare, e per
quanto la conversazione
fosse inutile reggeva
quel gioco assurdo – che
razza di perversione, eh?
O forse era solo noia, e
mancanza
di
un
passatempomigliore?
Una volta, mentre
stava per cominciare il
giro delle chiamate,
l’apparecchio prese a
squillare. Ne fu così
sorpreso,
e
perfino
spaventato, che non
osava
sollevare
il
ricevitore. E quando
finalmente si decise a
risponderenonsapevain
chelinguafarlo,astento
riuscì a mormorare un
esitante: «Hallo»... Era
una voce femminile, e
parlavainfretta,comese
avesse poco tempo;
aveva pronunciato la
penultima
sillaba
salendo di tono, quindi
doveva aver concluso
conunadomanda.Budai,
cheintantosieraripreso,
cercò di dire in inglese,
in francese, in russo e in
cinese che non aveva
capito. Allora la donna
ripeté la stessa frase
articolando piano ogni
parola,
il
che
naturalmente non gli fu
d’aiuto. Budai provò in
altre lingue, una dopo
l’altra, così come gli
venivano, ma la donna
non lo lasciò finire,
scoppiò in una lieve
risataeriattaccò.
Chi era, che cos’era
successo?
L’avevano
finalmente trovato? Lo
stavano cercando da
casa? Magari erano sulle
suetraccegiàdaqualche
tempo? La compagnia
aerea si era resa conto
dell’errore e l’aveva
rintracciato? O forse
qualcuno aveva letto il
suoavviso?Laletteraper
la direzione era stata
recapitata? Ma allora
avrebbero dovuto sapere
che non parlava la loro
lingua, l’aveva scritto
ben chiaro. E perché si
limitavano
a
telefonargli? O era solo
una donna che aveva
sbagliatonumero?
Poi all’improvviso gli
venne in mente che
doveva essere Bebe!
Com’è che non ci era
arrivatosubito!Macerto,
quante
volte
in
ascensore lei gli aveva
visto in mano la chiave
con il numero di stanza:
perché non avrebbe
potuto
fargli
uno
squillo? E se era lei, di
sicuro voleva dirgli che
erainalbergo,cheaveva
preso servizio, che lo
aspettava...
Infatti si aprirono le
porte di una cabina, ed
eccola. Lei strizzò gli
occhi
sorridendo.
Stavolta davvero non
vedeval’oradirestareda
solo con lei lassù al
diciottesimopiano:cercò
in ogni modo possibile,
mimando una cornetta
all’orecchio e il gesto di
comporre un numero, di
farle capire che aveva
colto il messaggio ed era
venutodalei...Ancheora
la
donna,
mentre
manovrava l’ascensore,
di tanto in tanto gli
sorrideva, ma con un
velo
di
misteriosa
riservatezza. E Budai fu
assalito da un nuovo
dubbio: come doveva
interpretare
il
comportamento di Veve,
complice intimità o
nient’altro che la sua
consuetagentilezza?
Quando furono al
diciottesimo
piano,
Budai per prima cosa le
chiese il suo numero di
telefono. Le porse il
taccuino
perché
lo
scrivesse, fece il gesto di
comporre il numero,
imitò
lo
squillo,
esortandola in tutti i
modi.Maleisilimitavaa
alzare le spalle e a
fumare, non capiva –
oppure
non
voleva
capire, non desiderava
dargli il suo numero? O
forse non aveva il
telefono? In effetti, dove
abitava, e con chi? Era
sposata o ancora nubile?
Viveva con la sua
famiglia o da sola?... In
realtà non sapeva nulla
dilei,maaesseresinceri,
non gliene importava
molto.
Il
motivo
principale per cui aveva
bisogno di quella donna
prescindeva dai rapporti
che potevano legarla ad
altri; bastava che le
lasciassero il tempo di
dedicarsi a lui. Ma forse
neppure questo era
importante, dato che i
minuti
che
Etete
trascorreva lassù al
diciottesimopianoerano
sottratti all’orario di
lavoro.Quantoalui,non
poteva permettersi il
lusso di sprecare la sua
attenzione, non poteva
lasciarsi sfuggire l’unico
filo che il caso gli aveva
messo tra le mani. Per il
momento, Budai teneva
allaragazzaperun’unica
ragione, a cui tutto il
resto era subordinato:
era la sua insegnante di
lingua.
Erano
ancora
ai
numeri.Immaginòchele
risposte della donna alla
stessa
domanda
suonassero
sempre
diverse
perché
mescolava i numeri
cardinalicongliordinali.
Potevano
non
somigliarsiaffatto,come
uno e due rispetto a
primo e secondo, o in
inglese one, two e first,
second...Alterminediun
lavoro lungo e faticoso,
condotto con enorme
pazienza, dopo aver
chiestolestessecosefino
allo sfinimento, era
giunto – in maniera
molto approssimativa e
conqualcheincertezzadi
pronuncia – a mettere
insieme i numeri da 1 a
10,elisapevaanchedire.
Eccoli:1=dütt,2= klooz
ogrooz,3= tösh,oanche
baar, 4 = gedirim, 5 =
baar
o
tösh
(stranamente, il 3 e il 5
sembravano
intercambiabili, o forse
sololuinoneracapacedi
distinguerli),6=kus,7=
rododod, 8 = hodod, 9 =
dohodod,10=ezrez.
Così, nel loro insieme,
non gli ricordavano i
numerali di nessuna
linguavivaomorta,alui
nota.Certo,conunpo’di
fantasia il gedirim (4)
poteva essere assimilato
al russo četyre, il kus (6)
al kuusi del finlandese,
l’ezrez
(10)
all’ashr
dell’arabo.Masitrattava
probabilmente
di
coincidenze fortuite. Era
sorprendente
la
singolare assonanza tra
il 7, l’8 e il 9, ma poteva
ancheavercapitomale.
In generale quel che
rendeva
il
compito
particolarmente difficile
era l’indefinitezza dei
suoni che udiva. Eppure
nel corso del suo lavoro
aveva maturato una
certa
pratica
nel
riconoscere
con
precisione le sfumature
fonetiche. Soltanto che
nella
lingua
degli
abitantidiquellacittàvi
erano
modalità
articolatorie
così
bizzarre come non ne
aveva mai udite altrove.
Formavano le parole in
maniera strana, opaca,
confusa, senza seguire le
regole di pronuncia
condivise, per lo meno
nei paesi civilizzati.
Parlavano con voce
ingolata,
emettendo
suoni gutturali, ma non
al modo dei cinesi, dei
giapponesi,degliarabi:le
vocali erano mormorate
e di colore variabile, le
consonanti rauche e
biascicate,
accompagnate talvolta
da suoni occlusivi simili
a schiocchi di lingua.
Quest’ultima
caratteristica ricordava i
click delle lingue degli
Ottentotti
e
dei
Boscimani
dell’Africa
meridionale, mentre la
frequenza del nesso tl
l’azteco
centroamericano.
L’abbondanza di ö e ü
sembrava
invece
indicare una parentela
con
la
famiglia
linguistica turca... Ma
tuttequesteeranovaghe
impressioni,troppopoco
perorientarsi.Secondole
stime degli studiosi le
lingue del mondo erano
quasi tremila: a quale di
esse poteva assimilare la
lingua che parlavano in
quel luogo, sulla base di
cosìpochielementi?
Ilpassosuccessivofuil
tentativo di rintracciare
le forme allocutive nel
discorso, non solo in
quello di Tjetje: stava
sempre in ascolto, con le
orecchie tese, ma per
quantosisforzasseriuscì
a
cogliere
un’unica
forma, che suonava
all’incirca come klött o
klütt, sempre che avesse
capito bene. Gli tornò in
mente che al mercato
coperto, durante la sua
primagrandeescursione
incittà,ilcamionistache
l’avevascambiatoperun
facchino si era rivolto a
lui proprio con quella
parola,
come
a
chiamarlo: «Ehi, lei!»...
Sembrava essere la sola
forma
allocutiva
esistente, in luogo delle
tante in uso altrove: tu,
lei, voi, signore, signora,
signorina,
vossignoria,
vostra grazia, zio, zia,
compagno, collega e così
via.Ilchenonerad’aiuto
allasuaindagine.Perché
se c’era un’unica forma
che andava bene per
tutti, uomini e donne,
bambinieanziani,allora
dal punto di vista di
Budaiilsuointeresseera
pari a zero: non sapeva
che farsene, non lo
portava da nessuna
parte.
La stessa cosa valeva
perilsaluto:parasciarao
paratecera,oqualcosadel
genere;
all’ingresso
dell’albergo,
per
esempio,ilgrassousciere
col nastro dorato glielo
diceva sempre mentre
spingevalaportaavetri:
lo diceva al mattino o
alla sera, di giorno o di
notte, quando arrivava e
quando andava via,
senza differenze. Ecco
dunque un altro dato
poco
analizzabile,
linguisticamente
non
classificabile,
un
elemento lessicale che
non poteva essere diviso
in parti. L’unica utilità
era che ora sapeva come
cisisaluta,nulladipiù.
Poi si mise a caccia
delle espressioni di
cortesia come prego, mi
scusi,
si
accomodi,
eccetera. Gli venne in
mente
che
avrebbe
potuto
elicitarle
in
qualche modo. Se per
esempio si fosse fatto
urtaresulmarciapiede,o
gentilmente
avesse
cedutoilpassosullescale
in metropolitana, il
passante probabilmente
avrebbe
mormorato
qualcosa come scusi,
oppure grazie... Ma con i
pronomi personali non
era riuscito a cavare un
ragnodalbuco,edireche
aveva passato parecchio
tempoacercarelaforma
delcorrispettivodiio,tu,
luiolei.Avevatentatoin
mille modi, con i gesti e
con
un
sacco
di
domande, di sentirlo
dalla bocca di Dedede,
ma la ragazza non
sembrava afferrare nella
maniera più assoluta.
Non faceva che scuotere
la testa, mentre soffiava
fuori il fumo con aria
passiva, e non serviva
insistere. Che motivo
poteva esserci dietro
quella ritrosia, quando
per
altre
cose
si
mostrava
così
disponibile e sagace? A
Budai venne in mente
che quella lingua non
avesse
pronomi
personali. Si poteva
immaginare,
teoricamente,
che
comunicassero in una
specie di linguaggio
infantile che impiegava
solo la terza persona,
come i bambini piccoli
quando parlano di sé:
Giovanni mangia, il
bimbo cammina. Alcuni
popoli
primitivi
si
esprimevano proprio in
questo modo. Ma erano
compatibiliigrattacielie
una coniugazione da età
dellapietra?
Non
aveva
mai
pensatofinoachepunto
le situazioni potessero
essere equivoche, e
quanto fosse difficile
determinare una e una
solareazione;oranefece
l’amara esperienza. Alla
stessa
domanda,
formulata a parole o
mimando,
riceveva
risposteotroppolunghe,
quindi
non
interpretabili, o sempre
diverse; oppure dei gesti
– ma anche quelli,
quante cose potevano
comunicare! Per dire di
noinEuropaoccidentale
scuotono la testa, i greci
la gettano all’indietro,
mentre
i
bulgari
annuiscono,
e
per
chiamare
qualcuno
allontanano da sé le
braccia. Si dice che
presso gli eschimesi
strofinarsi il naso l’uno
conl’altroequivalgaaun
bacio, e così via – chi gli
avrebbe spiegato che
cosa significano i vari
gestidaquelleparti?
Ilsuocervelloperòera
costantemente attivo ed
escogitavasemprenuovi
sistemi. Tra essi quello
che finora si era rivelato
il più efficace: cercare le
scritte il cui significato
fosse inequivocabile. Per
esempiolaparoladipinta
sulla parte anteriore dei
taxi, alla quale non
potevano darsi molte
alternative.
Oppure
quella che si leggeva
sulle rampe gialle delle
stazioni
del
metrò:
qualunquefosseilsuono
nella lingua locale, era
incontestabile
che
indicasse
la
metropolitana.Lascritta
sopra
l’ingresso
dell’albergo, illuminata
la sera, era già meno
certa,potevaesserehotel
ma anche il suo nome
proprio, Palace, Royal,
Park o altro... Lui l’aveva
annotato comunque, per
oravolevaraccoglierneil
più possibile e poi far
leggeretuttoaPepe.
Quando un ascensore
non funzionava e sulla
porta era affisso un
cartello era quasi sicuro
chesignificasseguasto.E
così pure sulle cabine
telefonichefuoriservizio
– come quella da cui
avevaprovatoasottrarre
l’elencotelefonico,prima
che
arrivasse
il
poliziotto. Oppure la
breve
comunicazione
sulla vetrina dei negozi
chiusi, evidentemente
chiuso... Oltre a queste,
aveva
ricopiato
le
stringhe di lettere viste
su alcuni locali: trattoria
(o ristorante, osteria,
mensa?), tavola calda (o
self-service, bistrot?), e
tintoria
(lavanderia,
lavasecco?).
I negozi sembravano
un buon terreno di
caccia, per la possibilità
di confrontare l’insegna
coniprodotti,all’interno
e in vetrina. In tal modo
aveva raccolto le parole
fiori, ferramenta, legna e
carbone
(o
forse
combustibili),
tappeti,
mobili, stoviglie, vetri,
lampadari,
strumenti
musicali, tessuti, abiti (o
confezioni),
merceria,
giocattoli,
articoli
sportivi, eccetera. Ovvio,
anche qui c’era un
margine
di
errore.
Sull’insegna
di
un’attività commerciale
poteva esserci il nome
del
proprietario,
l’indirizzo o una parola
simbolicaogenerica–ad
esempio
Arcobaleno
(negozio di tessuti o
tappeti), Cristalli (vetri,
stoviglie,
lampadari),
Arredamenti, Articoli per
la casa, Tessili e un
mucchio di altre cose,
comecapitavaovunque.
Nei
negozi
di
alimentari la vetrina era
molto istruttiva per lui.
Se un articolo aveva
vicino una targhetta che
recava
il
prezzo
accompagnato da una
scritta, c’era ragione di
supporre che questa
fosse il nome. Gli
interessavano
soprattutto generi come
arance, limoni, banane,
zucchero,caffè,tè,cacao,
cioccolata,ossiaprodotti
il cui nome era simile in
molte parti del mondo –
sarebbe
stato
interessante e rivelatore
scoprire la versione
locale di queste parole
migranti... Certo, poi
pensò che nemmeno
questo
criterio
era
infallibile, poiché le
parole sulle targhette
potevano
significare
anche prezzo imbattibile,
prima qualità, specialità,
qualità extra, autentico,
dolcissimo,
appena
tostato, offerta speciale,
solooggi,scontiinvernali,
liquidazione, o qualsiasi
altro richiamo usato dai
commercianti
per
promuovere la loro
merce. Le copiò dunque
sul taccuino con un
punto
interrogativo
accanto alla presunta
interpretazione.
Durante i suoi giri per
la città aveva annotato
parecchie scritte di cui
aveva
dedotto
il
significato: guardaroba,
cassa, acqua potabile (o
acqua non potabile),
vietatol’ingresso,fermata
d’autobus,
attenzione,
vernice fresca, vietato
camminare
sull’erba,
lavori in corso sulla
carreggiata,
passaggio
pedoni sul lato opposto
(sarebbe stato un bel
colpo,seciavessepreso),
alta tensione oppure chi
tocca i fili muore e altre
cosedelgenere.
Raggiunto un numero
sufficiente di casi simili,
aveva intenzione di
chiedere a Ebebe di
leggergli quelle parole a
voce alta, una per una.
Ma la prima volta che ci
provò la ragazza era
nervosa, di pessimo
umore,
non
voleva
neppure salire con lui al
diciottesimo
piano.
Doveva esserle successo
qualcosadispiacevole,in
ascensore lo ignorava
visibilmente, voltava la
testa dall’altra parte,
schiacciavaibottonicon
aria apatica. Budai però
non rinunciò, andò su e
giù pazientemente e
attese finché la ragazza
non decise di prendersi
una breve pausa per
fumare.Madopoqualche
boccata, non appena le
rivolselaparola,gliocchi
arrossatilesiriempirono
di lacrime, tirò fuori un
fazzolettino sgualcito e
cominciòapiangere.
Budai
la
guardò
turbato e perplesso:
come poteva consolarla
senza sapere chi o che
cosa la faceva soffrire? E
poioranonavevatempo
peroccuparsidiquesto,e
neppureavrebbedovuto,
pensava. Bisognava che
fosse
freddo
e
determinato,
anzi,
egoista e spietato, era la
sua unica opportunità.
Alla ragazza doveva
dedicare
solo
l’attenzione sufficiente a
mantenere
la
loro
conoscenza,tuttoilresto
non era che uno spreco
di energia. E se da parte
di lei ci fosse stato
dell’altro
nei
suoi
confronti, ebbene sì, lui
avrebbedovutosfruttare
anche questo a proprio
vantaggio.
Così non mollò la
presa, caparbiamente:
tanto insistette che alla
fine
la
donna,
accantonato
il
suo
misterioso malumore, si
mise
di
nuovo
a
disposizione e cominciò
a leggere a voce alta
l’elenco che lui le
sottopose... Forse per la
prima volta da quando
era finito in quella città,
Budai ebbe la sensazione
di aver raggiunto un
qualche risultato grazie
alle sue capacità logiche
e alla sua costanza. A
dimostrarlo
erano
diversi segnali, a partire
dalla mimica e dai gesti
diTete:avevaindovinato
gran parte delle parole
annotate, si era mosso
nellagiustadirezione.Gli
ridiede un po’ di fiducia
vedere che quella sua
lotta solitaria non era
stata vana. Proseguì con
raddoppiato
zelo,
sfruttando ogni spunto,
provava
quasi
godimento
mentre
annotava la maniera in
cui
la
ragazza
pronunciava le varie
stringhe di lettere, e poi
le ripeteva subito per
tenerle nell’orecchio e
sullalingua.
Rimase invece deluso
dalle parole migranti,
perchénessunaavevaun
suono
riconoscibile.
Taxi, autobus, metrò,
hotel, buffet, arancia,
banana, cacao, eccetera,
erano
nomi
completamente diversi.
Questo provava che il
paese – cioè i loro
linguisti, le scuole, la
stampa – difendeva con
un rigoroso purismo la
lingua nazionale dagli
influssistranieri.Oppure
che era un luogo
talmente isolato dagli
altri popoli e lingue del
mondo che non ne
risentival’influenza?
Aveva messo insieme
un glossario di circa
trenta
o
quaranta
espressioni, corredate di
pronuncia, significato
presunto, e probabili
alternative nei casi
dubbi: era lui stesso
stupito di come gli era
riuscito bene. Si sentiva
elettrizzato, in camera
sistemò le sue schede in
ordine
fischiettando
allegramente, e la sera si
concesse
in
via
eccezionale un bicchiere
di
quella
bevanda
alcolica
dolciastra.
Decisecheperunpo’non
avrebbe cercato altro
materiale, ma si sarebbe
sforzatodielaborarequel
cheavevaraccoltofinoa
quelmomento.
La mattina dopo però,
quando
provò
a
convincere la ragazza a
scomporre le parole in
segni, ovvero in suoni, o
quantomeno
le
espressioni più estese in
parole singole, con sua
gransorpresalacosanon
ingranava:sibloccavano,
ricominciavano da capo,
siinceppavanodinuovo.
Appena ricontrollava i
valori fonetici, le varie
lettere
suonavano
diverse,piùlungheopiù
brevi,
oppure
irriconoscibili. E non è
che a furia di domande
ottenesse risposte più
coerenti, anzi, il quadro
si faceva sempre più
confuso e imbrogliato.
Forse la pronuncia di
ogni segno cambiava in
funzione del contesto, a
seconda che si trovasse
isolato o all’interno di
una parola? Come in
inglese e in francese? E
inversamente:
poteva
darsi che uno stesso
suono fosse restituito da
varielettere?
Queste analogie, del
resto, avevano valore se
si trattava di una
scrittura
di
tipo
alfabeticoenonsillabico
– ecco, di nuovo questo
problema –, e men che
meno logografico, come
in cinese, dove il segno
corrisponde
a
un
concetto compiuto; per
quanto
quest’ultima
ipotesi gli sembrasse
poco
verosimile,
i
carattericinesieranopiù
iconografici e complessi
di quelli, e soprattutto
esprimevano in maniera
molto
concisa
una
quantità
di
informazioni... Ma nel
caso di una scrittura
sillabica,avrebbedovuto
seguire un approccio di
lavoro
totalmente
diverso, poiché la sillaba
è in genere composta da
una vocale e da una
consonantee,sepercaso
fosse
riuscito
a
individuare, diciamo, la
sillaba pe, non avrebbe
potuto scinderla in p ed
e. Perché in un tale
sistema di scrittura, per
definizione, accanto a pe
anche
pi,
po,
pu
dispongono di un segno
autonomo, così come i
nessime,re,de,eccetera,
dunque il suono cercato
sarebbe stato celato ogni
voltainaltrisegni.Eper
giunta avrebbero anche
potuto esserci sillabe di
quattroocinquelettere–
dove era il filo per
dipanarequell’intrico?
Se nella lettura dei
singoli caratteri non
aveva
fatto
grandi
progressi,
almeno
conosceva la forma
scritta e la pronuncia
approssimativadialcune
espressioni. Peccato che
fossero in gran parte
termini di frequenza
occasionale,
non
il
genereutileaorientarsie
a
cavarsela
nel
quotidiano.
E
soprattuttoeranotroppo
pochi,nonsarebberomai
bastati per partire e
tornare a casa. Doveva
proseguire nella raccolta
di parole in ambiti
semprenuovi.
Cominciò a osservare i
nomi delle vie, strano
che non ci avesse
pensato
prima.
Sembrava una città
ordinata,
le
targhe
toponomastiche erano
appese agli angoli delle
strade,
ben
visibili,
secondo un modello
preciso:
rettangolari,
gialle, a caratteri neri.
Budai cercò l’elemento
comune, la parola o
gruppo di segni che
potesse significare viale,
corso,
via,
circonvallazione,
passeggiata,
passaggio,
lungofiume o cose del
genere.
Per
quanti
appunti prendesse, però,
non trovava alcuna
corrispondenza:
forse
erano specifiche omesse,
ritenute superflue? O
forse
usavano
denominazioni a sé
stanti, come Strand o
Piccadilly a Londra,
Broadway e Bowery a
New York, Rond-Point a
Parigi, Graben a Vienna,
il Körönd o il vecchio
Oktogon a Budapest? Ma
queste
erano
delle
eccezioni, possibile che
in questa città fossero la
norma?
Ottenne risultati di
poco migliori con le
pubblicità;
c’erano
tantissimi cartelloni in
metropolitana, lungo le
scale,neicorridoienegli
atri sotterranei, ma
anche per le strade,
alcuni
erano
di
dimensioni gigantesche,
ricoprivanointerepareti.
Moltidiessiliconosceva
fino alla nausea: l’uomo
biondo dalla faccia rossa
che beveva birra, con la
schiuma che gli colava
giù per il mento, la
grassa cuoca nera che
sollevava in alto il suo
mestolo ammiccando e
facendo balenare la
candida dentatura, il
cavaliere in armatura
con l’ombrello aperto
sopralatesta,lafamiglia
numerosa i cui membri,
seduti
in
cerchio,
immergevano i piedi
nudi in un catino
comune, e così via; non
vedeva mai articoli e
prodotti diffusi in altre
parti del mondo. Era
difficile
riuscire
a
distinguereilnomedella
marca da quello del
prodotto. Leggendo Ship
Soda non sapeva quale
fosse Ship e quale Soda.
Ciò nonostante riuscì a
scoprire alcune parole
nuove:
detersivo,
pneumatico,
lassativo,
cartine per sigarette,
tosaerba, dado da brodo.
Non
che
fossero
particolarmente utili sul
pianopratico.
Molto spesso i simboli
grafici sostituivano le
scritte,
ne
trovava
dappertutto:
frecce,
indici
tesi,
disegni
stilizzati, silhouette. In
albergo sulle porte dei
bagni era rappresentata
una vasca o una doccia,
sulle toilette una testa
maschile o femminile,
oppure una scarpa da
uomoodadonna.Anche
sulle cabine telefoniche
nonc’eranoscritte,mail
disegnodiuntelefono.Il
divietodifumareerauna
pipa fumante tagliata da
una riga rossa, in
maniera simile ad altri
divieti. Anche i cartelli
stradali funzionavano
piùomenocomeintutto
il mondo, e il labirinto
della metropolitana era
organizzato alla stessa
maniera: informazioni e
orientamento
si
basavano soprattutto su
frecce e colori. I segnali
ingeneraleeranostatidi
grandeaiutoaBudai,che
senzaconoscerelalingua
era riuscito a orientarsi
in tante situazioni e a
crearsi un certo tipo di
vita, sia pur limitata a
poche attività. D’altra
parte,
però,
sostituendosialleparole,
gli
impedivano
di
impararle.
Poi gli tornò in mente
cheilgiornoincuisiera
spinto verso i confini
della
città,
aveva
intravisto in lontananza
un portale illuminato
nella nebbia, ma in quel
momento aveva fretta e
aveva tirato dritto, non
si era avvicinato... Se
fossestatouncinema?E
la prima domenica, nel
quartiere
dei
divertimenti dove si era
aggirato fino all’alba –
ormai i suoi ricordi
erano vaghi –, c’erano
solo locali di varietà o
forse
anche
dei
cinema...? Allora non gli
interessava, ma ora non
smetteva di pensarci.
Meditò se tornare fin là,
se ne valeva la pena e la
spesa. Ormai gli erano
rimasti pochissimi soldi,
gli dispiaceva spenderli
perfino per il metrò –
nonosavapensareacosa
sarebbesuccessoquando
fosserofiniti!–,emagari
non era una pista così
promettente.
Aveva
avuto tante di quelle
delusioni da quando era
capitato in quella città,
perché
rischiarne
un’altra? Meglio lasciar
cadere
l’idea,
dimenticarla come se
nonglifossemaivenuta,
cancellarla...
Ma non riusciva a
scacciare quel pensiero,
che
continuava
a
lavorare
tenacemente
dentro
di
lui,
indomabile: e se stesse
trascurando
una
possibilità? Gli si annidò
nel
cervello
come
un’ossessione: se non
avesse fatto di tutto, se
non avesse seguito fino
in fondo ogni minimo
barlume di speranza, se
anche solo una volta
avesse
desistito
significava che si era
arreso
a
quella
condizione, che aveva
rinunciato a lottare,
insomma che aveva
accettato
di
non
andarsene mai più di lì.
Non si trattava del
cinema in sé o della sua
utilità,quantodiandarci
per non avere niente da
rimproverarsi.
Decise di dedicarvi
un’intera giornata, dal
mattino presto a notte
inoltrata. Arrivò fino al
capolinea del metrò e da
lì proseguì a piedi nella
stessa direzione della
volta precedente. Passò
accantoallungomurodi
pietra, ai gasometri,
rivide la fabbrica con il
profilo dei tetti a forma
di sega, i bacini di
raccolta idrica – non
avrebbe mai creduto che
sarebbetornatosuquella
strada!
Apparve
il
tendonebiancodelcirco:
il portale che sembrava
uncinemadovevaessere
nei paraggi, per fortuna
era vicino alla stazione
del metrò. Ora non c’era
nebbia, non sarebbe
stato illuminato, ma
Budai
non
aveva
dimenticato
come
arrivarci, e infatti poco
dopo lo vide sul lato
opposto della gigantesca
piazza, brulicante di
folla.
Non era un cinema,
erano
dei
grandi
magazzini. Un edificio
enorme, come lo sono
ovunque, di diciotto o
venti piani, e dai
numerosi ingressi la
genteentravaeuscivain
continuazione.Eppure,a
giudicaredallevetrineal
pianterreno, la scelta
non era più varia che
altrove: confezioni un
po’fuorimoda,daltaglio
goffo, articoli per la casa
e prodotti in serie dalla
fattura
piuttosto
scadente,
merce
dozzinale che si sarebbe
potuta trovare anche
sulle bancarelle di un
mercato... Ma lui non
voleva comprare niente,
non aveva soldi, non
entrònemmeno,giròsui
tacchi e se ne andò.
Restava
ancora
il
quartiere
dei
divertimenti, e con un
piccolo
sforzo
di
memoria
riuscì
a
ricostruire il percorso in
metropolitana
per
arrivarci – in genere
aveva un buon senso
dell’orientamento,
quando era stato in un
postosapevatornarci.
Era un giorno feriale,
malafollaerafittacome
la volta precedente.
Mentre calava il buio
cominciarono
ad
accendersi
ovunque
scritte luminose, dai bar
edalleosterievenivauna
musica assordante, gli
ubriachi
barcollavano
sui
marciapiedi,
gridando, soffiando in
trombette
di
carta.
Ritrovò l’angusto vicolo
dove aveva fatto visita a
quella casa: la donna in
tullebiancodallelunghe
ciglia e dal viso di
madreperla
sorrideva
anche ora dalla finestra
con il suo pudico
sguardo da madonna...
Budai ripensò con un
pizzico di nostalgia ai
giorni in cui poteva
permettersiquellecose,e
anche un giro in barca,
unbicchiere,unacrêpe.
Benché di cinema non
ci fosse traccia, non era
dispiaciuto di essere
tornatolì.Eracosìsolo,e
più tempo passava in
quella
città
sovrappopolata più si
sentivaabbandonatoasé
stesso. Il semplice fatto
diritrovareunpostoche
conosceva creava una
sorta di legame, un
minuscolo punto di
riferimentoinunoceano
di estraneità. La ruota
gigante, la nave dei
pirati, il tiro a segno, la
donna cannone. Non
riusciva ancora a capire:
davveroquinonavevano
i cinema oppure era lui
che non sapeva vederli?
Ma questa cosa non gli
pareva
più
così
importante, o forse era
passatainsecondopiano
nellasuaattenzione.
Adesso era tutto preso
dal suo stato d’animo
mutevole. Ora la folla
fluttuante di cui lui
stesso faceva parte non
gli era affatto sgradita,
gli
sembrava
sopportabile,
anzi
piacevole. Soprattutto il
senso di leggerezza,
l’unico ma tutt’altro che
trascurabilevantaggiodi
quella permanenza: il
nondoverrendereconto
di nulla a nessuno. Ci si
poteva anche abituare a
una vita complicata,
fattadicontinueattesee
code, in cui bisognava
sgomitare nella ressa;
avrebbe finito per non
accorgersene
più,
l’avrebbe
considerata
una cosa naturale, come
tutti gli altri. Queste
idee,
naturalmente,
nascevano
dall’umore
del
momento,
un
temporaneo stato di
grazia, una sorta di
ottundimento
della
coscienza che altrimenti
lo tormentava. E sotto
quellapiccolascintilladi
serenitàc’eraforseanche
Epepep,
l’allettante
certezza che quel giorno
stesso, o al più tardi
l’indomani, l’avrebbe di
nuovoincontrata.
Unattimodopoinvece
siabbattevaancorasudi
lui
l’amarezza,
la
disperazione. No e poi
no, non avrebbe mai
potuto abituarsi a quella
vita: i cibi, le bevande, il
sapore
dell’aria
–
fuligginosa, dolciastra,
quasi granulosa, greve e
soffocante come se fosse
povera d’ossigeno –, la
ressa perenne, il dover
procedere a spallate,
gomitate e pedate, la
calca, il ritmo folle e
intollerabile.
Budai
amava gli spazi vasti e
assolati dove lo sguardo
poteva correre libero,
come le piazze italiane –
che se ne faceva di quel
cumulo di mattoni e
cemento
sempre
sovraffollato, che aveva
l’aspetto di un’unica
gigantesca
periferia
urbana?... E poi provava
unanostalgiasemprepiù
acutadisuamoglie,della
famiglia, del lavoro, del
suo ambiente, di casa
sua. Che sforzo scacciare
il pensiero più penoso,
che non gli dava tregua:
come si erano spiegati la
sua scomparsa, svanito
senza lasciare traccia o
unsegnodivita?
Gli venivano in mente
delle cose tremende: il
suo cervello girava a
vuoto, producendo un
incalzare di domande
senza
risposta.
Per
esempio: e se non fosse
finito lì per errore, come
aveva finora creduto? Se
al momento dello scalo
non fosse stato lui a
sbagliare aereo, ma
qualcuno
l’avesse
dirottato, in altre parole,
rapito? Forse sull’aereo
gli avevano messo del
sonnifero nel pranzo
perché non si rendesse
conto della durata del
volo... E da allora lo
trattenevano in quel
luogo, impedendogli di
tornare a casa. Ma chi
erano, e per quale
ragione,eachescopo?E
perchépropriolui?Achi
dava fastidio? Che cosa
aveva fatto di male, e a
chi?
Eppure sarebbe stata
una
situazione
più
sopportabile.
Rabbia,
malevolenza, odio: una
relazione con due poli.
Alla collera si può
rispondereconlacollera,
la si può accettare,
identificando
l’avversario, e lottare,
combatterlo,
dunque
anche sconfiggerlo. Ma
se a confinarlo là erano
l’indifferenza
e
la
paralizzante noncuranza
di chiunque – cosa che
sembrava più verosimile
–, allora come tirarsi
fuori da quelle sabbie
mobilisenzanienteacui
aggrapparsi, niente su
cuipuntareipiedi?
L’importante era non
perderelatesta,cosìsolo
com’era, non arrendersi
al disordine, alla massa
caotica.Incertimomenti
era assalito dalla paura
che la sua mente
abbandonasse
quella
lotta
disperata
e
sprofondasse
nella
babelechelacircondava,
o in una malinconia
grigiastra e incerta.
Eppure non aveva altre
armi che la sua lucidità,
l’unico faro che poteva
puntaresuquell’incuboa
occhiaperti.
Riassumendo le sue
incessanti speculazioni,
ecco a che cosa era
giunto con gli strumenti
a
sua
disposizione:
conosceva il significato
approssimativo
di
qualche
espressione
della lingua parlata, i
numeri da uno a dieci,
una
maniera
di
interpellare e una di
salutare. Inoltre, il senso
e la forma fonetica di
varie stringhe di lettere,
in base alla pronuncia di
Deded–dovevanoessere
nomi di prodotti in
commercio –, e due o tre
frasi più lunghe. Era in
grado di leggere solo
parole intere e falliva
ognivoltachetentavadi
scomporle
in
unità
linguistiche minori. Non
conosceva ancora il
valorefoneticodinessun
segno né, inversamente,
i
caratteri
che
rappresentavano i vari
suoni; per finire, non
aveva ancora capito che
tipo
di
scrittura
impiegassero da quelle
parti.
Erano risultati di una
pochezza
disarmante,
insufficienti
non
soltanto a ricostruire
uno straccio di sistema,
ma perfino a comporre
una frase di senso
compiuto. E quando
provò a usare le parole
che credeva di aver
decifrato, per esempio
per chiedere dov’era una
tavola calda o una
stazione
della
metropolitana,
sperimentò
con
delusione
che
lo
capivanoastentooppure
lo fraintendevano. Le
aveva forse pronunciate
male? C’era poco da
stupirsi,
data
la
stranezza del loro modo
di articolare i suoni...
Un’altravoltaperò,inun
sottopassaggio
della
metropolitana dove era
scoppiatounimprovviso
tafferuglio, Budai ebbe
l’impressione che le
persone urlassero e
blaterassero
parole
vuote, e che nessuno
stesse a sentire nessuno.
Forse nemmeno gli
abitanti si capivano l’un
l’altro, forse in quella
città si parlavano dei
dialettidiversi,operfino
linguediverse?Nellasua
mente
sovreccitata
balenò il dubbio assurdo
cheavesserotantelingue
quantierano.
3Inungherese-ban/-ben
è il suffisso inessivo,
mentre -nak/-nek è il
dativo. Negli esempi
citati:«nellastanza,nella
casa, nella città» e «alla
stanza, alla casa, alla
città»[N.d.T.].
Intanto, il venerdì
successivo trovò il conto
settimanale nella casella
della 921. Il portiere –
un’altra faccia nuova,
ma quanti erano? – fece
le somme e stavolta il
risultato fu di 33,10.
Appena un po’ meno del
precedente. Budai lo
ritirò
annuendo
in
silenzio, ma non andò
allacassaasaldarlo.Non
aveva abbastanza soldi:
quel che gli rimaneva in
tascanonerasufficiente,
anche se nell’ultima
settimana aveva speso
moltomenodiprima.
Che
cosa
sarebbe
successo, ora? Quando
avrebbero reagito, e
soprattutto come? Forse
poteva venirne fuori
qualcosa di buono, per
esempio se lo avessero
convocato in direzione
per
avere
delle
spiegazioni: finalmente
interpellato,
avrebbe
potuto parlare, chiedere
un interprete... Oppure
non sarebbe successo
niente, non si sarebbe
fatto vivo nessuno? Fino
a quando avrebbero
tollerato che alloggiasse
lìsenzapagare,unavolta
che l’amministrazione
l’avessescoperto?Inogni
modo i soldi stavano
finendo,
inesorabilmente.Contòe
ricontò il denaro che
aveva in tasca: il suo
patrimonio ammontava
a 9,75. Ecco quanto gli
restava dei 200 e rotti
ricevuti in cambio del
suoassegnodiviaggio.
In preda al panico, si
lanciò in calcoli febbrili:
se la prima settimana,
oltre all’alloggio, aveva
speso circa 130, e la
seconda, pur avendo
stretto i cordoni della
borsa,
26,
con
il
rimanente, limitandosi
all’indispensabile,
avrebbe potuto tirare
avanti solo qualche
giorno. Che ne sarebbe
stato di lui se non fosse
intervenuta una svolta
nel suo destino? Doveva
procurarsi del denaro,
madove,come?
E poiché le disgrazie
non vengono mai sole,
cominciò anche a fargli
male un dente. Era un
molare
superiore:
all’inizio
aveva
cominciato
subdolamente, una fitta
momentanea, credeva
fosse solo la sua
immaginazione, provò a
non farci caso. Poi il
doloreesploseintuttala
sua violenza e divenne
lancinante,lamascellasi
infiammò e gli si gonfiò
la faccia. Era inutile
illudersi che sarebbe
passato, il tormento era
ormai insopportabile e
non aveva medicinali o
calmanti, la piccola
farmacia da viaggio che
sua moglie gli aveva
preparato era nell’altra
valigia,quellasmarrita.
In
albergo
aveva
tentato invano di far
capire il problema al
personale,
non
gli
avevano dato retta o gli
avevanorispostoilsolito
blablabla.
Disperato,
nellamorsadelsupplizio
e non sapendo più che
cosa fare si precipitò in
strada. Proprio in quel
momento un taxi libero
rallentava per fermarsi
al semaforo rosso. Budai
spalancò la portiera e
senza chiedere o dire
niente saltò a bordo.
All’autista che si era
voltatoversodiluitentò
di spiegare dove voleva
essere
portato:
si
premette la mano sulla
facciagonfia,poimimòil
gesto di estrarre un
dente. L’autista sembrò
afferrare, non replicò
nulla,
schiacciò
l’acceleratore: era un
giovanotto dai tratti
mongoli,
l’aria
impassibile, il berretto a
visiera.
Ma appena girarono
l’angolo si ritrovarono
bloccatineltraffico.Non
si andava né avanti né
indietro, la carreggiata
era invasa dalle auto
imbottigliate. Restarono
fermi nello stesso posto
per interi minuti, poi la
filadimacchinesimosse
lentamente e si arrestò
dopo qualche metro.
Avanzavano con una
lentezza
snervante,
intollerabile:
doveva
esserci un incrocio o un
semaforo che impediva
altrafficodifluire,come
una
chiusa.
E
il
tassametro
scattava,
ancheconl’autoferma,e
non si vedeva alcuna
speranza di liberarsi
dall’ingorgo... Budai non
ce
la
faceva
più,
apostrofò l’autista in
tono
pressante,
e
siccome
questi
nemmeno si era voltato
gli picchiettò la spalla,
indicandosi di nuovo la
faccia
gonfia.
Ma
l’autista
era
imperturbabile, non lo
degnava della minima
attenzione,
e
nulla
confermava che avesse
capitolasuarichiesta.
Quando guardò il
tassametro vide con
terrore la cifra 8, e poco
dopo 8,40 e poi 8,80 e
così via, e l’auto si
muoveva appena, il
motore
girava
prevalentemente
a
vuoto. In pochi minuti il
prezzodellacorsasuperò
i 10, non li aveva
neppure in tasca, e
magari erano previsti
anche dei supplementi...
Era nervosissimo, il mal
di denti era quasi
insopportabile:
prigioniero in quel taxi
accerchiato
dalle
macchine, si pentì di
esserci salito, gli venne
voglia di spaccarlo a
pugni. O di spronare
l’autista a buttarsi a
tutta velocità contro il
grosso
camion
che
sbarrava loro la strada,
che esplodessero pure
riducendosiauncumulo
di lamiere contorte,
purché
succedesse
qualcosa!
Ma oltre alla rabbia, a
consigliargli la fuga era
anche la parte lucida
dellasuamente:checosa
sarebbe successo al
momento di pagare la
corsa? Uno scandalo?
Sarebbe
arrivata
la
polizia? Rabbrividì al
solo pensiero di dover
affrontare
una
situazionedelgenerenel
suostato,amenoche...A
menoche,approfittando
di un momento di
distrazione dell’autista,
mentre ingranava la
marcia ma l’auto si
muoveva
a
passo
d’uomo... Budai aprì di
scatto la portiera e si
proiettò
fuori
dalla
vettura. Inciampò nel
bordo del marciapiede,
ma non si fece male. Per
unattimovidegliocchia
mandorla
dell’autista
che si voltò a guardarlo,
poi il taxi scomparve nel
traffico: anche lui si
perse nella massa dei
pedoni.
Era
una
zona
sconosciuta, anche se si
trovava appena dietro
l’albergo. E la prima
persona che fermò, alla
quale mostrò a gesti che
aveva mal di denti,
sembròcapirealvolo:gli
indicò
un
vicino
complesso di edifici
piuttosto alti con la
facciata giallo pallido. A
giudicare
dall’aspetto
esterno avrebbe potuto
essere un ospedale, una
clinica o un istituto di
cura, dietro il corpo
principale
si
estendevano altre ali e
padiglioni, e dall’ampio
passaggioavoltaentrava
e usciva una gran folla.
Vide perfino una specie
di ambulanza che sbucò
daunaltroingresso,una
vettura bianca, chiusa, a
sirene spiegate... Quindi
l’autistadaitrattiasiatici
l’aveva portato nel posto
giusto? Povero ragazzo,
ci avrebbe rimesso di
tasca sua i soldi della
corsa,propriolui,l’unico
che gli fosse mai stato
d’aiuto...
Qui tutti capivano il
suolinguaggiodeisegni,
e
venne
subito
indirizzato
verso
il
reparto odontoiatrico.
Nel
corridoio
degli
ambulatori,
come
peraltro
immaginava,
c’era
una
quantità
infinita di gente in
attesa, in piedi o seduta
sulle panche, e perfino
accovacciata o sdraiata
sulpavimento,molticon
la faccia fasciata o
incerottata, con l’ovatta
che usciva dalla bocca. E
i pazienti venivano
chiamati
con
una
lentezza esasperante, di
sicuro per ordine di
arrivo,
e
perciò
scoppiavano ogni tanto
alterchi e risse. Davanti
alla porta dove Budai
aveva trovato posto
c’erano almeno trenta
persone prima di lui. Ma
non aveva scelta, e
doveva pure essere
contento
di
essere
arrivatolà.
Passò un sacco di
tempo,Budaisudavaper
il
dolore.
Aveva
rinunciatodaunpezzoa
contare le ore, quando
finalmente toccò a lui e
allora
gli
eventi
accelerarono
improvvisamente. Non
appena
entrò
nell’ambulatorio,
fu
circondato da uomini e
donne in camice bianco
ed ebbe giusto il tempo
di indicare il dente che
gli faceva male. Allora
uno di loro lo sbatté su
una sedia, l’altro gli
rovesciò
la
testa
all’indietro, il terzo gli
iniettòunliquidofreddo
e
dolciastro
nella
gengiva. Il quarto, un
tipo
tarchiato
e
nerboruto in scarpe di
gomma con la suola
bianca, come quelle dei
lottatori, gli infilò in
bocca
una
pinza
scintillante. Una fitta
acuta, uno schianto
secco: il tizio levò in alto
ilmonconeinsanguinato
e glielo mostrò, poi lo
gettò nel secchio vicino
alla sedia, dove Budai
sputò il mezzo bicchiere
d’acqua che gli diedero
persciacquarsilabocca.
Gli chiesero qualcosa,
forseilsuonome,eluilo
disse, e diede anche
l’indirizzo di casa, senza
immaginare come li
potevano
capire
e
scrivere, e soprattutto a
che
serviva.
Non
bisognavapagareniente,
o comunque nessuno gli
domandò dei soldi. Il
paziente successivo era
giàpronto,enonappena
Budai si alzò dalla sedia
quello vi si sedette, e
dietro se ne accodò un
altro... Per uscire non
tornò sui suoi passi,
cambiò
strada
per
disattenzione,oforseper
il sollievo di essersi
lasciatoallespallequella
faccenda.Sismarrìlungo
corridoi tortuosi, rampe
di
scale,
ovunque
affollamento
e
caratteristico
odore
d’ospedale, e poi ancora,
unodopol’altro,corridoi
tortuosi
o
che
attraversavano
cortili
coperti da tettoie di
vetro:
a
quanto
sembrava, le varie parti
di
quel
complesso
ospedaliero erano state
affastellate
l’una
sull’altra in diverse
periodi. Poi a un tratto
sbucò in una sala
enorme.
Doveva trovarsi nel
reparto di ostetricia,
davanti a lui erano
allineate centinaia e
centinaia di culle di
neonatiinfascebianche.
I neonati, proprio come
la popolazione adulta
dellacittà,eranoditutte
lerazzeumane,dallapiù
chiaraallapiùscura,con
ogni colore di pelle, ogni
tipo e forma di viso. E
nonriempivanosolouna
sala, ma anche quella
dopo, e quella dopo
ancora,
neonati
e
neonati, bianchi, neri,
bruni, gialli, e se non ci
stavano nelle corsie
eranoneicorridoi,lungo
le pareti. A volte
giacevano insieme due o
tremarmocchi,chissàse
erano
gemelli
o
dividevano il lettino per
mancanza di spazio? E
anche
i
padiglioni
successivi erano pieni
zeppi di bebè, e così di
seguito,comesetuttociò
non avesse mai fine, e
nelfrattempoinfermiere
vestite
di
bianco
sbucavano dalle sale
parto o chissà da dove
con portantine a rotelle
cariche di neonati, a
decine, a ventine, che
strillavanofuriosierossi
come gamberi, oppure
assopiti, spossati dalla
fatica di venire al
mondo...
A
Budai
piacevano i bambini, in
genere si inteneriva a
guardarli, però non ne
aveva mai visti tanti
tutti
insieme,
era
confuso e turbato da
quello spettacolo. Ebbe
l’impulso di scappare,
iniziò a cercare l’uscita o
quantomeno un reparto
senza
neonati,
con
un’impazienza crescente
che sentiva trasformarsi
in angoscia: che cosa
sarebbe successo in
quella città quando quei
piccolifosserocresciutie
si fossero aggiunti alla
moltitudine?
Tornato in albergo,
nell’ascensore si imbatté
in Bebe. La ragazza notò
immediatamente la sua
faccia gonfia e con lo
sguardoglifececapiredi
non scendere. Quando
furono al diciottesimo
piano Budai tentò di
spiegarlechegliavevano
cavatoundente,eaprìla
bocca per mostrarle
quale.
Veved
era
vicinissima e i suoi
capelli
biondi
gli
sfioravano la fronte,
sentiva la pelle e il
respiro della ragazza: in
seguito non fu più in
gradodiricostruirecome
fosse andata, e in fondo
che importanza aveva
ormai, se fosse stato lui
ad accarezzarla e a
baciarla, oppure lei a
porgere
con
tenero
abbandonoprimailviso,
poilabocca.Lelabbradi
Budai erano ancora
gonfie e intorpidite per
l’iniezione, o per la
gengiva ferita, erano
rigide e goffe, non
sentiva quasi nulla,
doveva essere anche un
po’
intontito,
annebbiato. E poi il
campanello cominciò a
trillare,
chiamavano
l’ascensore, bisognava
scendere: la cabina si
riempì rapidamente di
gente, e a poco a poco
quel che era successo
lassù
sembrò
loro
sempre più lontano e
irreale.
Ma il problema del
denaro era ancora da
risolvere.Dovevacercare
di lavorare, gli serviva
unmestierequalsiasiper
guadagnaredeisoldi,ma
dove, da chi? Non
riusciva
a
ottenere
informazioni ben più
semplici. E poi non era
più capace di fare
domande alla gente, era
una cosa più forte di lui,
difficile da contrastare.
Quel chiudersi in sé
stesso era conseguenza
delle
innumerevoli
frustrazioni e delusioni
che aveva subìto, una
formadiautodifesadella
sua psiche. Era sempre
più impacciato e timido,
e quasi non osava
rivolgere la parola ai
passanti, a chiunque:
ammutoliva
e
si
bloccava. Forse, dato il
suo temperamento, era
l’unico modo in cui
sapevareagire.
Alloraglisovvenneche
un lavoro gliel’avevano
proposto, al mercato
coperto,
la
prima
domenica, quell’autista
che
voleva
fargli
scaricare la verdura dal
camion... Si vestì con gli
indumenti più scadenti
del
suo
misero
guardaroba, delle due
paia di scarpe scelse
quelle ormai sformate
dallelunghecamminate,
indossò il pullover che
aveva nella borsa da
viaggioesiavviò.
Ci mise parecchio
tempo a ritrovare il
mercato.
Scese
alla
fermata
giusta,
in
metropolitana,
ma
attraversò per ben due
volte l’enorme piazza
prima di essere sicuro
chefosselastessa:eraun
giorno feriale, l’area era
sgombradaibaracchinie
dai banchi di vendita, il
selciato era spazzato e
pulito, e al centro si
vedeva la statua di un
soldato ferito: era un
monumento ai caduti?
Dedusse che il mercato
delle pulci si teneva solo
la domenica e nei giorni
festivi... C’era invece un
bel
movimento
nel
mercato coperto sotto la
struttura di vetro e
acciaio dall’altro lato
della piazza. La parte
anteriore
era
presa
d’assalto da chi voleva
fare acquisti, mentre
sulla rampa laterale si
svolgevano
intense
operazioni di carico e
scarico, con un gran
lavorio di gru, nastri
trasportatori
e
manodopera
umana.
Tanti
scaricatori
indaffarati attorno ai
camion,figurimalvestiti
che
trasportavano
all’interno balle, blocchi
dighiaccioecanestri.
Non
fu
difficile
mescolarsi a loro, si
formavano delle bande
occasionali
che
si
facevano
assegnare
questo o quel carico.
Bastò
stare
attento
all’arrivo del primo
camion
di
merce,
avvicinarsi, voltarsi di
spalle e già gli avevano
messo un sacco sulla
schiena. Doveva essere
pieno di patate o cipolle,
non era particolarmente
pesante; lo portò dentro,
seguendo gli altri, lo
buttò in un mucchio
sopra una gigantesca
pesa,poitornòindietroa
prenderne un altro. Non
gli chiesero nessun
documento, e dopo un
paiodidomande,quando
fuchiarochenoncapiva
la lingua, non gli
rivolsero nemmeno più
la parola. Non che ci
fosse molto da dire: quel
che doveva fare era
chiaro senza bisogno di
tanti discorsi. E neppure
gli altri scaricatori gli
badarono, avevano il
loro daffare, e non
sembravano
neppure
conoscersitraloro.
Budainonavevapaura
del lavoro fisico; da
giovane, quando era
studente
borsista
all’estero e spesso in
bolletta, gli era capitato
di lavorare per intere
nottate alle Halles di
Parigi o al mercato di
CoventGardenaLondra.
E aveva ancora un fisico
robustoesano,glifaceva
piacere il movimento.
L’unicacosacheglidava
fastidio era che i sacchi
gli sporcavano le mani e
il pullover: ci misero
circa un’ora e mezzo a
portare tutto il carico
sulla pesa. Allora il
camionista li pagò, e
ficcò in mano a tutti
quantiunabanconotada
1. Poi gli fecero portare
dentro delle mezzene di
maiale,
era
merce
refrigerata, gelida e
umida, la sentiva fredda
sulla schiena e le palme
delle
mani
gli
diventarono unte e
bagnate.
Quindi
procedetteascaricareda
un
furgone
delle
voluminose gabbie con
dentro grassi conigli
d’angora,comequelliche
avevavistoinunastanza
dell’albergo. In tutta la
giornata guadagnò otto
banconoteda1equalche
spicciolo. Provava una
piacevole stanchezza e
anche
un
pizzico
d’orgoglioall’ideache,se
necessario, era capace di
mantenersi con il lavoro
delle sue braccia. Però
non vedeva l’ora di
tornare nella sua stanza
dabagnoefarsiunabella
docciacalda.
Da allora in poi, tutte
le volte che andò al
mercato
coperto,
a
qualsiasi ora, trovò
sempre da lavorare. E
nessunomaivollesapere
chi fosse. Notò che
alcuni scaricatori del
turnodinottealtermine
del lavoro non se ne
andavano,
restavano
nelle mescite aperte nei
pressi dell’edificio. Altri
si mettevano a dormire
inmezzoalleballe,sopra
sacchi vuoti o in un
angolotranquillo,dentro
casse
di
grandi
dimensioni. Dovevano
essere vagabondi, gente
senza fissa dimora,
avevano vestiti sporchi,
un aspetto trasandato:
ecco, si era ridotto come
unodiloro.
Un giorno, tornando
dal mercato, scese in
metropolitana
sulla
lunga scala mobile,
accanto alla quale saliva
in senso contrario il
flusso interminabile di
chi ne usciva. A un
tratto, con un certo
ritardo, vide sull’altra
scala un uomo con in
mano
una
rivista
ungherese. Non c’era
alcundubbio,noneraun
abbaglio, era un numero
del vecchio settimanale
«Színházi Élet»,4 il titolo
si leggeva benissimo.
Anche
l’attrice
fotografata in copertina
gli sembrò familiare: in
costume da bagno a
righe,stavainpiedisulla
scalettadellapiscinacon
leondedeibagniGellért,
bionda e snella, con la
mano sinistra alzata in
un saluto... Era una cosa
talmente sorprendente e
imprevista: prima che
Budai se ne rendesse
pienamente conto, il
tizio con la rivista, un
uomo di una certa età,
dai capelli grigi, con gli
occhialieunlodenverde
piuttosto liso, era già
passato oltre sulle scale
mobili ed era ormai alle
sue spalle. Così, su due
piedi, non gli venne
niente da dirgli, e col
respiro spezzato gli
gridò:
«Mi scusi... Dico a lei,
signore...!».
Ma le scale mobili
ronzavano e cigolavano
cosìrumorosamente,ein
quel tunnel obliquo e
rimbombante, gremito
di passeggeri, c’era un
tale baccano che il
signore in loden di certo
non lo sentì. Allora
Budai, atterrito all’idea
di perderlo di vista per
sempre, gli urlò di
nuovo:
«Ehilà,
guardi
da
questaparte...!».
L’uomosivoltò,conlo
sguardo di chi si sente
chiamare
dall’aldilà.
Allungò la mano verso
Budai, da lontano, con
gesto incerto, forse nel
dubbio che fosse un
miraggio:
«Ma
allora
anche
vossignoria...?».
Il resto fu coperto dal
rumore circostante e
dalla distanza sempre
maggiore tra di loro.
Budai tentò di risalire
peravvicinarsialsignore
in loden, ma le scale
mobili
procedevano
piuttostovelocementeei
passeggeri dietro di lui
formavano una barriera
impenetrabile,
anzi,
alcuni scendevano i
gradini per la fretta di
arrivare ai binari: non
avevaalcunasperanzadi
raggiungerlo, non c’era
lo spazio, né il tempo.
Disperato gridò ancora
verso quella macchia
verdastra
che
si
allontanava sempre più
inaltoesiperdevaormai
nellafolla:
«Miaspettialla...».
Ma lì per lì non gli
venneinmenteunluogo
in
quell’intrico
di
corridoi e sottopassaggi
della metropolitana. Se
almenogliavessechiesto
l’indirizzo, o gli avesse
dato il suo mentre
passavano uno accanto
all’altro! Ma non sapeva
il nome dell’albergo, e
neanche la via... Intanto
la
figura
dello
sconosciuto era stata
completamente
risucchiata dal gorgo del
metrò.
Budai non riusciva a
darsi pace, provò a
mettersi
nei
panni
dell’altro: che avrebbe
fatto
se
qualcuno
l’avesseinterpellatocosì,
dovel’avrebbeaspettato?
Il posto più ovvio era in
cima alle scale mobili.
Soltanto che non era
facilearrivarcidadovesi
trovava. In fondo c’era
un divisorio a separare
una
scala
mobile
dall’altra, e poi il
percorso
veniva
incanalato da varie
barriere, passando per
corridoi tortuosi, incroci
e nuove svolte e
deviazioni. E quando,
dopo aver vagato a
lungo, vide la scala
mobile, non era più
sicurochefosselastessa.
Dove terminava ne
cominciava un’altra, e
dopo un’altra ancora;
qual era dunque la fine
delle scale mobili? Ed
erano tutte stipate di
genteinmezzoallaquale
il suo sguardo cercò
invano il signore in
loden. Ovviamente non
sipotéfermare,lamassa
lotrascinòvia.
Eseilsignoreinloden,
ragionando come lui,
l’avesse atteso in fondo
allescalemobili?Ritornò
indietro, facendosi largo
afatica,finoall’altezzain
cui aveva incrociato il
tizio in loden: avrebbe
fatto meglio a saltare
dall’altra
parte
in
quell’istante,
a
scavalcare il corrimano
di gomma che separava
una scala dall’altra,
perché non ci aveva
pensato sul momento?...
Non lo trovò, di sotto,
neanche
giù
sulla
banchina percorsa dal
rimbombo dei vagoni e
dalla corrente d’aria.
Potevadarsicheiltiziolo
stesse aspettando su in
strada? Ma a quale
uscita?Perchécen’erano
otto o dieci... Vagò
ancora in su e in giù per
illabirintodellastazione,
alungoeinvano:l’uomo
che stava cercando non
emerse
più
dall’inesauribile marea
umana che riempiva
uniformemente
ogni
spazio.
Nel
turbamento
dell’emozione,nonseppe
decidere
se
quell’incontro fosse un
segno
positivo
o
negativo. Anche se non
era riuscito a parlargli, a
stabilire un contatto, lo
rassicurava,
nell’isolamento
totale
che lo aveva afflitto
finora, scoprire di non
essere il solo straniero
proveniente dal suo
paese. Poteva sperare di
incontrarlo di nuovo, lui
o un altro compatriota,
oppure uno straniero di
un’altra nazionalità: la
prossima
volta
le
circostanze
sarebbero
state meno sfortunate, e
finalmente lui avrebbe
chiarito
tutte
le
questioniinsospeso.
D’altra parte, però, se
provava ad analizzare
quella strana scena,
c’erano degli elementi
inquietanti.Apartiredal
fatto che lo sconosciuto
avesseinmano«Színházi
Élet».Larivista,aquanto
ricordava Budai, aveva
cessato le pubblicazioni
una trentina d’anni
prima. Quel signore
viveva lì da così tanto
tempo? E se sì, vi si era
stabilitodisuavolontào
ci era finito per errore
anche lui? E come ci era
arrivato,
con
quale
mezzo di trasporto? Si
era portato dietro la
rivista per leggerla in
viaggio, magari proprio
il
numero
della
settimana, e da quel
giorno la conservava?...
Questo poteva spiegare
lo stupore incredulo del
suo sguardo quando si
era voltato verso di lui,
reagendo al suo grido
come se avesse sentito
una
voce
dall’oltretomba. E anche
quel «vossignoria», una
forma
allocutiva
antiquatacheormainon
usavapiùnessuno.Epoi
perché
«anche
vossignoria»?
Perché
quella
parola
che
sembrava accomunarli
in uno stesso destino? Si
riferiva soltanto al fatto
che erano connazionali,
oppure – era questo che
piùtemeva–quell’uomo,
proprio come lui, non
riuscivaadandarseneda
trent’anni,oforsepiù?
Per giorni non poté
darsipace,sitormentava
per l’occasione perduta,
si
colpevolizzava
e
rimuginava
in
continuazione: avrebbe
dovuto
comportarsi
diversamente? E come
l’assassino che torna sul
luogo del delitto, andò
ancora molte volte in
quella
stazione
del
metrò, vagando per ore,
nella speranza che il
signore
in
loden
ripassasse di lì – magari
faceva parte del suo
tragitto
abituale.
E
sebbene non riuscisse a
incontrarlo, da allora in
poi coltivò il segreto
sospetto
che
nella
moltitudine
che
invadeva le strade e la
metropolitana
si
aggirasse qualcuno con
cui
scambiare
una
parola... forse più di uno
– ma come avrebbero
fattoariconoscersi?
Illavoroalmercatoele
ronde nella stazione
della
metropolitana
finirono per dare un
ordine alle sue giornate.
In genere mangiava alla
solita tavola calda e poi
tornava a piedi in
albergo. Passava sempre
accantoalgrattacielo.Da
quando
aveva
cominciato a contarne i
piani
ne
avevano
costruiti otto, ora erano
al settantaduesimo: ma
qual
era
l’altezza
progettata? In albergo
andava sempre a cercare
Pepepe agli ascensori, e
dopoaverlaincontrata,o
se non la trovava in
servizio, non gli restava
che ritirarsi in camera.
Malvolentieri,perchéera
là che si sentiva più solo
e abbandonato, e il
tempo sembrava non
passaremai.
La stanza era sempre
pulitaeinordine,illetto
rifatto, e una volta la
settimanacambiavanole
lenzuola, la tovaglia, gli
asciugamani e il telo da
bagno. Ma non era mai
riuscito a sorprendere
chi si occupava di tutto
questo:
quando
rimaneva in camera, e
talvoltapergiorni,nonsi
facevano
vivi.
Una
mattina,
per
pura
curiosità, finse di uscire
e si appostò dietro
l’angolo del corridoio,
ma per l’intera mattina
non comparve nessuno.
Altre volte, invece, era
sceso brevemente alla
reception e quand’era
risalito, dopo un quarto
d’ora, aveva trovato la
stanzarassettata.
La cosa che gli
mancava di più era la
lettura, la parola scritta:
acasapassavametàdella
sua vita in biblioteca, in
mezzo ai libri, talvolta
fino a diciotto ore al
giorno – gli dispiaceva
rinunciare
a
quell’abitudine. In preda
all’astinenza riprese in
mano la raccolta di
novelle
che
aveva
comprato al negozio di
libri usati. La sfogliò
ancora una volta, senza
capirci un’acca; osservò
la copertina, il golfo con
l’acquaazzurra,lepalme,
le casette di un bianco
abbagliante sul fianco
della collina. Poi guardò
la foto dell’autore sul
risvolto di copertina,
l’uomo in pullover dal
viso pieno e con i capelli
a spazzola: gli occhi
socchiusi,
la
sua
espressione annoiata e
un po’ beffarda gli
parveroancorafamiliari.
Sidomandòdovepotesse
averlo visto... A chi
assomigliava, chi gli
ricordava, che cosa lo
attraeva in lui? L’ironia?
Quell’ariapigraevigileal
tempo stesso? Finché
una sera, dopo una dura
giornata di lavoro al
mercato,
guardandosi
allo specchio del bagno
mentre
cercava
di
reprimere uno sbadiglio,
all’improvviso
capì:
assomigliava a lui. Era
per questo che gli era
simpatico e aveva scelto
proprio quello tra le
migliaia di volumi? Era
questo che gli era
piaciuto, la propria
faccia?
E così si ripresentava
alla sua mente la più
angosciante
delle
domande: che ne era dei
suoi familiari? Perché il
tempo non si era certo
fermato, a casa: stavano
bene, erano in buona
salute,eranovivi?Esesì,
in che modo potevano
aver
reagito
alla
sconcertanteassurditàdi
nonaverel’ombradiuna
notiziadatresettimane?
Invanosisforzavadinon
pensarci,
questa
ossessione torturava il
suo sistema nervoso. Se
avesse almeno potuto
avvertirli, mandare un
sia pur breve messaggio,
farsaperecheeraancora
vivo–chissàdove...
Finora non aveva mai
visto un ufficio postale,
danessunaparte;eppure
doveva esserci. Forse ci
era passato davanti
senza
accorgersene?
Niente cassette delle
lettere,ancheseleaveva
cercate
nella
hall
dell’albergo. Lì aveva
tentato di spiegare alle
commesse
dei
vari
negozi che voleva un
francobollo,
non
vedendone esposti, ma
dalle risposte e dai gesti
non era chiaro se non
capissero o lo inviassero
altrove–sì,madove?
Allora
gli
venne
un’altra idea: piegò a
formadiletteraunfoglio
di carta e scrisse
l’indirizzo della moglie.
Naturalmente,
era
piuttosto
turbato
e
commosso mentre lo
scriveva, la solitudine
l’aveva reso fragile e
incapace di dominare le
proprie
emozioni.
Adesso però si sforzò di
contenersi e portò la
lettera di prova giù alla
reception.Laconsegnòal
portiere di turno, che
peròsilimitòaguardarla
e a rigirarla tra le mani,
probabilmente
senza
riconoscere i caratteri
latini.Oforsenonsapeva
chefarne,nonspettavaa
lui, non volle ritirarla, e
gliela restituì con una
breve frase di cortesia.
Credendo che si riferisse
alla
mancanza
del
francobollo, Budai prese
del denaro, lo fece
tintinnare,
come
a
chiedergli
quanto
costava, e posò sul
banconeunamanciatadi
spiccioli, fissandolo con
sguardo
interrogativo
per capire se bastavano.
Il portiere, un uomo di
una certa età, dall’aria
distinta,
dovette
fraintenderloepensarea
un
tentativo
di
corruzione: in preda a
un’improvvisa
stizza,
esclamò
sdegnato
qualcosa e allontanò da
sé il denaro. Distolse lo
sguardo da Budai e si
rivolse ostentatamente
alclientesuccessivo.
Nonostante
l’insuccesso, meditò se
non fosse comunque il
caso di scrivere una
lettera a sua moglie.
L’avrebbe lasciata sul
bancone della reception,
quando in servizio ci
sarebbe stato qualcun
altro, con accanto dei
soldi,
una
somma
sensata
per
l’affrancatura, e poi si
sarebbe allontanato in
fretta. Nella remota
eventualità che fosse
arrivata, dal timbro
postale sarebbero potuti
risalire
alla
provenienza...
Però
temporeggiava
e
rimandava il momento,
non riusciva a prendere
in mano la penna, non
avevaanimo.Oforse,più
semplicemente,
non
trovava le parole per
spiegare quello che gli
era successo. No, per
quanto
ci
girasse
intorno, era incapace di
metterloperiscritto.
Tornò nella sua stanza
e si attaccò al telefono.
Formò i numeri alla
cieca, senza guardare il
disco dei numeri, e
chiamòisuoiconoscenti
sconosciuti: non gli
importava
che
gli
addebitassero
le
chiamate il venerdì
successivo, tanto ormai
era
in
debito.
Se
qualcuno gli rispondeva,
scandiva al microfono
sempre la stessa cosa,
andòavantiperoreeore,
sforzandosi
di
non
perdere la pazienza: il
nome della sua città
natale e il numero di
telefono di casa sua,
questo ormai era capace
di dirlo nella lingua
locale, sei semplici cifre
di base. E lo faceva nella
convinzione che prima o
poi avrebbe azzeccato
unalineaperlechiamate
internazionali, o magari
un numero pubblico dal
quale
avrebbero
inoltrato
la
sua
telefonata; non doveva
far altro che ripetere
ostinatamente la sua
filastrocca.Magridòfino
a diventare rauco, in
risposta non ottenne
altro che il solito
ciangottio, voci ora
maschili, ora femminili,
ora infantili, ora senili,
ma nessun segno che
comprendessero
quel
che diceva. Passò così
tuttalaserata:allafinelo
assalì
una
rabbia
impotente, sbatté giù la
cornetta, schiumante di
collera maledisse la
propria sorte e prese a
pugni la parete, tanto
che dalla stanza accanto
bussarono in risposta.
Che sventura tremenda
gli era capitata! Perché
proprio a lui? Perché era
successo proprio a lui?
Perché, perché, perché,
perché?
Poi, quando si fu
calmato un poco, si
immerse per l’ennesima
volta
nella
contemplazione
del
dipinto a olio sopra la
scrivania,quelpaesaggio
innevatocongliabetiei
caprioli sullo sfondo che
correvano aggraziati. Ne
conosceva fino alla
nausea ogni dettaglio,
ma era il suo unico
sguardo possibile su una
natura libera, un mondo
aldilàdiquellacittàche
lo imprigionava. Sempre
che
esistesse,
quel
mondo, e non solo nella
suaimmaginazione.
4.«Vitateatrale»[N.d.T.].
Finoranonerariuscito
afarsidiredaBebequali
erano i suoi turni di
servizio, dove andava
dopo il lavoro, il suo
numeroditelefono,dove
abitava, dove poteva
trovarla e così via. Pur
mostrandosi
molto
sveglia
in
altre
circostanze, la ragazza
non sembrava capire
queste domande, oppure
le
lasciava
cadere
deliberatamente. Budai
non ottenne grandi
risultati
nemmeno
quandoprovòaspiarla:o
era nell’ascensore, o non
era nell’ascensore, ma
non la vide mai arrivare
in albergo né andarsene,
e non la incontrò da
nessun’altra
parte
dell’edificio.
Però
si
sentiva
abbastanza
in
confidenza per chiederle
diportarlo,adesempio,a
una stazione o a un
aeroporto. Ma alla prima
occasione in cui, al
diciottesimo
piano,
Budai
toccò
questo
argomento, mostrandole
dei disegni di mezzi di
trasporto, Etete non
manifestò
nessuna
disponibilità ad aiutarlo,
anzi,siintristìegliocchi
le si riempirono di
lacrime...
Forse
la
addolorava
che
lui
volesseandarsene?Cercò
di
consolarla,
accarezzandola, ma la
sua timidezza rese il
gestoimpacciato,eallora
si limitò a stringerle il
gomito non sapendo che
altro fare. Senza la
comprensione
linguistica l’abisso tra di
loroeratroppoprofondo,
perquantodesiderassero
entrambi colmarlo. E in
quel momento qualcuno
chiamò l’ascensore, non
c’era mai abbastanza
tempo, un po’ di quiete
senzainterruzione.
Quellaserastessanella
stanza di Budai venne a
mancarelaluce.Accadde
subito dopo che si era
fattoladoccia,mentresi
preparava ad andare a
dormire. Aprì la porta e
diede un’occhiata nel
corridoio, poi fuori dalla
finestra:
era
buio
dappertutto, anche i
lampioni erano spenti,
solo i fari delle auto
fendevano il vuoto nero.
Dovevaesserciunguasto
nella
fornitura
di
elettricità di tutta la
zona, perché non si
vedevanolucineppurein
lontananza. La cosa non
lo turbò più di tanto:
conosceva bene la sua
stanza, si orientava a
tentoni,ecomunquenon
aveva niente da leggere.
Si infilò a letto, anche se
nonavevasonno.
Poco dopo udì bussare
delicatamenteallaporta.
Aguzzò
l’orecchio
pensando di essersi
sbagliato, e lo sentì di
nuovo; con prudenza
qualcuno abbassò la
maniglia ed entrò –
quando era uscito a
guardare nel corridoio,
evidentemente
aveva
dimenticato di girare la
chiave. Quel qualcuno si
chiuselaportaallespalle
e si fermò, respirando
piano. Solo allora Budai
siresecontocheinrealtà
la stava aspettando.
Forse per questo non
aveva chiuso a chiave e,
benché fosse stanco, era
ancora
sveglio
ed
eccitato. In effetti, pur
senza formulare un
pensiero
compiuto,
qualche angolo del suo
cervello doveva aver
calcolatochesemancava
la corrente neanche
l’ascensore
poteva
funzionare... Per avere
una conferma, e prima
che lei potesse parlare,
chiese:
«Bebebe?».
La ragazza rispose con
un risolino timido, che
rivelò il suo leggero
disagio,
com’era
naturale. Questo non le
impedì di correggere la
sua
pronuncia
imperfetta:
«Diedie...».
Ma
poteva
anche
essere Dede, Tjetjetje,
Tete e perfino Cece,
ancoranonerariuscitoa
chiarire l’esatto valore
fonetico delle varie
consonanti. La ragazza
era rimasta accanto alla
porta, senza avanzare.
Certo, era comprensibile
ilsuoimbarazzoperaver
preso l’iniziativa di
entrare nella sua stanza.
Nonostante la stranezza
della situazione Budai
ebbe la sensibilità di
notarlo:sialzòdallettoe
le
si
avvicinò
brancolando nel buio.
Indossava
l’unico
pigiamacheaveva,eche
lavavaregolarmente,ma
tanto al buio non si
vedevano. Procedendo a
tentoni, andò a sbattere
contro di lei e la sua
mano toccò il seno della
donna.
Ripiegò
immediatamente
il
braccio teso, per non
farle credere che volesse
approfittare
della
situazione...Maaltempo
stesso fu pervaso da un
grande turbamento nel
sentire attraverso il
vestitoilcaloredelcorpo
diPepe:avevailsenoalto
e sodo come quello di
una ragazzina, e gli
sembrò di percepire
anche il battito del suo
cuore.
Si avvicinarono al
letto, non avrebbero
potuto mettersi altrove
in quella minuscola
stanzad’albergo.Quando
si sedette di fianco a lui
la donna si accese una
sigaretta, e il suo viso
balenò nell’oscurità: a
Budaiparveleggermente
estraneo, la pettinatura
era diversa, i capelli più
lisci del solito. Lei si
voltò dall’altra parte,
senza guardarlo. Spense
la fiamma, forse le
sembrava
più
appropriato
restare
nell’oscurità. Da quel
momento in poi l’unica
luce
fu
la
brace
intermittente
della
sigaretta, che lasciava
intravedereappenaisuoi
lineamenti. A poco a
poco la stanza si riempì
difumo.
Ma la ragazza non finì
la sigaretta. Si liberò
degli abiti e corse nel
bagno con addosso solo
le calze. Budai la udì
muoversi in cerca del
rubinetto, poi sentì
scorrere l’acqua. Si alzò
per chiudere a chiave la
portaesirimisealetto.
Edede
sapeva
di
sapone e di acqua di
colonia quando si sdraiò
accanto a lui sotto le
coperte, aveva la pelle
fredda per la doccia,
tremava leggermente.
Budai cercò di scaldarla,
le prese i piedi gelidi tra
le cosce e la abbracciò. E
poi fece tutto quello che
un uomo deve fare,
guidato dalle proprie
pulsioni e abitudini.
Veve
non
oppose
resistenza, né si fece
pregare, ma si lasciò
andare
molto
lentamente e non del
tutto. Non mostrava un
grande coinvolgimento,
sembrava che per lei
fosse più importante
compiacere Budai. Dal
canto suo, lui sentiva il
bisogno
della
partecipazione
della
compagna e non amava
un piacere solitario. E
finìinfretta,nonriuscìa
trattenersi:
aveva
passato troppo tempo in
solitudine.
Sivergognavaunpo’a
giacere di fianco a lei al
buio. Fu la ragazza a
rompere il silenzio, si
sollevò a sedere sul letto
e gli domandò qualcosa:
stranamente,
lui
indovinò che gli stava
chiedendo se poteva
fumare, se non gli dava
fastidio. Quando fece
scattare l’accendino si
coprì con il lenzuolo: la
imbarazzava
ancora
mostrarsinudadavantia
lui.
E poi si mise a parlare
sottovoce,
esitante,
facendo delle pause,
bloccandosi; ogni tanto
scuoteva la cenere della
sigarettanelportacenere
che Budai aveva preso
dalla
scrivania.
Poi
divenne via via più
sicura,
forse
aveva
cominciato una storia
piuttosto lunga che
voleva raccontargli da
tempo, oppure gli stava
parlando di sé, della sua
vita. E pensare che, se
c’era
qualcuno
che
doveva sapere quanto
poco lui capisse, quella
era proprio lei. Budai
tentava di indovinare
qualcosa dal tono della
voce, dal ritmo del
discorso,
dalle
inflessioni, ma non era
certo facile... Il racconto
si fece animato e
sofferto,maleinonperse
mai quella soavità che le
era naturale. E aveva
appena
spento
la
sigaretta che le sue dita
nervose ne accesero
un’altra:
l’argomento
dovevatoccarlamoltoda
vicino. Poteva darsi che
stesse
parlando
di
qualcuno. Ma di chi? Chi
poteva turbarla così? E
perché aveva deciso di
parlarne proprio in
quell’occasione? Forse si
trattavadisuomarito?
ABudaivenneun’idea:
cercònelbuiolemanidi
Epepe, prima la destra,
poi la sinistra, e tastò le
dita
affusolate
alla
ricerca di una fede o di
qualcosa del genere.
Naturalmente non c’era,
l’avrebbe già notata. La
donna però dovette
comprendere,
accese
l’accendino e alla luce
della fiamma prese un
anello dalla borsetta sul
comodino.
Aquelpuntoanchelui
chiese un po’ di luce e,
per
quanto
lo
permettesse quel debole
chiarore,
esaminò
l’anellorigirandolofrale
dita. Sembrava d’oro, la
forma era quella di una
fede, nessuna incisione
all’interno. L’esterno era
decorato da sottili righe
blu: avrebbe potuto
essere
una
fede
matrimoniale, ricordava
vagamente di averne
viste di simili, più
moderne. Ma se lo era
davvero,
perché
la
tenevanellaborsetta?
O forse era proprio
questa la chiave del suo
strano comportamento?
La
sua
paziente
sollecitudine
nel
rispondere
a
tante
domande, ma non a
quelle
che
la
riguardavano, su dove
abitava
e
la
sua
situazione
familiare?
Ecco la spiegazione: un
matrimoniofallitodicui
non voleva parlare? Era
questo il motivo per cui
non ne portava il
simboloaldito?
In seguito provò a
interpretare le parole
della donna in questa
luce,edeccochedicolpo
tutto divenne chiaro. Gli
parve di riuscire a
seguirequelchediceva,o
perlomenol’essenziale:i
dettagli, si sa, non
contano... Era uno sfogo
su
quanto
fosse
intollerabilelavitaacasa
sua, la convivenza con
tutta
quella
gente:
parenti vari, zii e zie e i
due figli del primo
matrimonio del marito.
E anche coinquilini e
subaffittuari, e perfino
gente che occupava solo
un posto letto per la
notte e di cui non
riuscivano a liberarsi,
vecchi invalidi e malati,
nevrotici
urlanti
e
ubriaconi
sudici
e
intrattabili, donne dalla
vita equivoca, provviste
anch’esse di marmocchi,
tuttistipatiinunpiccolo
appartamento.
Una
caciara perenne, strilli,
baruffe, mai un minuto
di tranquillità; non
potevano però andare a
vivere in un’altra casa,
l’intero
stabile
era
sovraffollato,
come
dappertutto,
alloggi
migliori non ce n’erano
senonaprezziproibitivi
o tramite conoscenze
speciali, e poi come
facevano a lasciare quei
poveri
vecchi?
In
quell’ambiente infernale
anche il loro rapporto si
era deteriorato, era
inevitabile, suo marito
beveva, trovava sollievo
solo
nell’alcol,
era
diventato più rude: si
erano allontanati, di
fatto era come se non
vivessero più insieme.
Lei stessa cercava ogni
occasioneperevadereda
casa, in confronto a quel
manicomio perfino il
brutto
e
vecchio
ascensore
dall’aria
viziata era un paradiso...
Ecco perché non portava
la fede nuziale e finora
non aveva mai voluto
parlaredisé,eancheora
si
vergognava
a
raccontare certe cose del
marito. Ma ci teneva a
fargli capire perché era
venutadaluiquellasera,
non voleva che Budai la
credesse una donna
leggera in cerca di facili
avventure. E poi doveva
pur
raccontarlo
a
qualcuno. Sempre che
fosse questo che stava
raccontando, e non
tutt’altro.
Intantoavevariempito
lastanzadifumoe,dopo
essersi
sfogata,
sembrava anche un po’
più calma. Quando tese
la mano nel buio per
prendere
un’altra
sigaretta, urtò il bicchier
d’acqua preparato per la
notte.
Riuscì
ad
afferrarlo al volo ma si
sbilanciò, e sarebbe
caduta giù dal letto se
Budai
non
l’avesse
trattenuta, ma nella
manovra l’acqua schizzò
addossoaentrambi.Bebe
scoppiò a ridere, e la sua
risatalocontagiò,unriso
incontenibile:
sghignazzavano
uno
sopra l’altro. E nessuno
dei due riusciva a
smettere, e se anche si
fosse calmato, l’altro
avrebbe ricominciato, e
ridevano e si rotolavano
sul letto, per poco la
donna non cadde di
nuovo e questo li fece
ridereancoradipiù.
ABudaitornòinmente
un ricordo d’infanzia,
un’attrazione del parco
dei divertimenti del
Városliget
che
si
chiamava
«Giù
dal
letto!». Grasse signore
prosperose giacevano in
camiciadanottedipizzo
in mezzo ai guanciali e
alle trapunte, e se il
giocatore riusciva a
colpire il bersaglio con
unapalladipezza,illetto
si ribaltava e il pingue
donnonerotolavagambe
all’aria tra le risate del
pubblico. Non riusciva a
scacciare quella buffa
immagine
che
alimentavalasuailarità;
desiderò
condividerla
con
Vedede
e
istintivamente lo fece.
Lei
lo
ascoltava
rannicchiata tra le sue
braccia,
annuiva
ridacchiando,emettendo
piccoliversidiassenso,e
alla fine rise insieme a
lui, con una tale
spontaneità
da
far
crederecheavessecapito
tutto.
Elui,ormaitrascinato,
finìperraccontarlecome
era capitato lì, le
descrisse nei dettagli
l’imbarco
sull’aereo,
quando aveva perso il
bagaglio,inchemodogli
avevano sottratto il
passaporto e così via. E
anchealtrecosecheman
mano gli venivano in
mente, senza un criterio
preciso: l’episodio del
suoarresto,lavistadalla
cupola
dell’enorme
chiesa in cima alla quale
si era arrampicato, e
quella volta che si era
imbattuto in un suo
connazionale
in
metropolitana... Poi le
parlòdicasasua:delsuo
cane,
un
bassotto
vecchio e saggio che
d’inverno in giardino si
aprivaunpassaggionella
neve e poi nel bianco si
vedevano muoversi due
puntini, la punta del
naso e della coda. E di
quando andava a sciare
sui Tatra o sui Mátra, e
preferiva avventurarsi
da solo fuori pista,
serpeggiando in dolce
pendenza nel folto dei
boschi, dove il silenzio
erapiùdenso,etuttoera
verdeebiancoesoffice,e
sulla neve le orme
fresche dei cervi. E sul
ciglio del pendio si
sentiva
attratto
e
risucchiato dall’abisso, e
che gioia provava nel
lanciarsi con gli sci ai
piedi,nellasciarsiandare
all’ebbrezza del vuoto,
all’estasidelprecipitare...
La donna lo ascoltava
in silenzio complice,
stretta a lui nel letto. A
un tratto Budai si
interruppe e alzò di
scattolatesta:
«Matucapisci?».
«Gapisci»risposelei.
«Capisci?».
«Gapisci».
«No,noncapisci!».
«Gapisci» ripeté lei
ancora.
«Non è vero, stai
mentendo!»scattòBudai,
semprepiùirritato.
«Gapisci».
«Ma non puoi capire!
Perché fai finta di capire
senoncapisci?».
«Gapisci»
insisteva
cocciutaDebebe.
Budai fu colto da
un’improvvisa collera,
afferrò la donna per le
spalleepreseascuoterla
violentemente,urlando:
«Non hai capito una
parola di quello che ho
detto!».
«Gapisci».
«Bugiarda!».
«Gapisci».
«Bada,tu...».
Era travolto dalla
propria brutalità, gli si
annebbiò il cervello: col
palmo della mano le
schiaffeggiòilmento.Ma
Pepep non smise di
ripeterelastessaparola:
«Gapisci,gapisci».
Lui non sapeva più
quel che faceva, aveva
perso il controllo: la
scuoteva, la spingeva, la
colpiva dove capitava, al
viso,sulcollo,sullanuca,
sul petto. Lei non si
difese, sollevò soltanto
un
braccio
per
proteggersi gli occhi, e
nel buio si sentiva il suo
pianto sommesso. Ma la
sua passività aveva
l’effetto di eccitare la
collera di Budai, che
ormai si dimenava come
unossesso:laafferròper
icapelli,lapreseapugni,
in
uno
stato
di
accecamento totale, in
preda a una rabbia
irrazionale, dimentico di
ognialtracosaalmondo,
voleva solo vendicarsi,
vendicarsi...
Poi di colpo le crollò
addosso,
sfinito,
ansimante, con il cuore
che
gli
batteva
all’impazzata, affranto.
La abbracciò, si strinse a
lei, le baciò le mani,
pieno di vergogna la
imploròesupplicò:
«Perdonami, sono un
pazzo! Perdonami, ti
prego, ho perso la testa!
Sono un pazzo, un
pazzo...».
Ceteceavevaancoragli
occhipienidilacrimeeil
viso arrossato per i colpi
ricevuti. Budai avrebbe
dato metà della sua vita
per farsi perdonare da
lei; la abbracciò, la
accarezzò e la baciò su
tutto il corpo, quindi si
mise
in
ginocchio
accanto al letto, posò la
testa sul suo grembo,
mormorando
parole
dolci con voce soffocata.
La donna aveva la pelle
ardente, mani asciutte e
caldissime mentre gli
carezzava
la
testa
passandogli le dita tra i
capelli,poiloattiròasé.
StavoltaEbebesilasciò
andare completamente:
fu tenera e sollecita, e si
comportò come non si
era mai comportata con
nessuno, neppure col
marito, si capiva dal suo
modo di fare. Adesso
raggiunse insieme a lui
l’apice dell’amplesso. La
cosa più importante non
furono
quei
brevi
minuti, ma la fusione
perfetta che seppero
creare i loro corpi, tutto
il resto aveva cessato di
esistere, spazio e tempo
avevano
contorni
sfumati,c’eranosololoro
due al mondo. Ci furono
attimi in cui la mente
infervorata di Budai fu
tentatadaunadomanda:
se tutto quel che gli era
successo finora era il
prezzo da pagare per
questo incontro, non ne
eraforsevalsalapena?
E a quel punto, come
epilogo,tornòlaluce,ela
lampadasulcomodinosi
riaccese. Dopo la lunga
oscurità quella debole
lampadina li abbagliò: la
donnastrizzògliocchi,si
voltòefusubitoinpiedi.
Certo, se c’era la
corrente,
anche
l’ascensoreavevaripreso
afunzionareeleidoveva
tornare in servizio. Si
rivestì
in
fretta,
accendendosi
un’altra
sigaretta. Budai, ancora
sul letto, la osservò
avidamente mentre si
infilava le minuscole
mutandine,elecalze,esi
allacciava il reggicalze –
ora era così innamorato
di lei, la guardava
estasiato
con
la
tremenda
e
felice
consapevolezza di non
poter più vivere senza di
lei.
Avrebbe
desiderato
farleunregalo,oalmeno
offrirle qualcosa, ma in
camera
non
aveva
nient’altro che poche
fette di un salame
scadente e una crosta di
paneseccosuldavanzale
dellafinestra.Laragazza
non accettò niente, si
aggiustò rapidamente i
capelli, si passò il
rossetto sulle labbra, si
lisciò l’uniforme blu e lo
salutò. Si accordarono a
parole e a gesti che
l’indomani lei sarebbe
tornata a trovarlo alla
stessa ora... Lasciò la
sigaretta accesa sul
bordodelportacenere,la
stanza era satura di
fumo,maBudainonaprì
lafinestra,nemmenopiù
tardi.
Il
mattino
dopo,
quando si svegliò, il suo
primo
pensiero
fu
contarequantomancava
all’appuntamento
di
quella sera. Stavolta
intendeva
accoglierla
come si deve, e scese a
fare la spesa. Aveva un
po’ di soldi in tasca, nei
giorni precedenti aveva
lavorato parecchio al
mercato; passò l’intera
mattinata in coda nei
negozi di alimentari.
Comprò
formaggio,
arrosto freddo, pesce
marinato, uova sode,
insalata, pane fresco,
burro, pasticcini, e due
bottiglie
di
quella
bevanda alcolica che si
trovava
dappertutto,
non potendo offrire alla
suaospitenéuntènéun
caffè.
Quando ritornò, vide
che avevano fatto le
pulizie,apertolafinestra
perdareariaallastanzae
cambiatolelenzuola.Era
di
nuovo
venerdì,
un’altra settimana era
trascorsa; la terza da
quando era arrivato – a
lui,
naturalmente,
sembrava un tempo
molto più lungo. Ci
sarebbe stato un nuovo
conto nella sua casella,
magari sommato al
precedente?...
Aveva
ancora parecchie ore da
aspettare: la sera prima
Bebe
era
venuta
piuttosto tardi a bussare
alla sua porta, intorno a
mezzanotte, ma senza
orologio non poteva
esserne certo. Era così
impaziente che non
riusciva a star seduto:
uscì di nuovo, col
pretesto di andare a
cercare un regalo per la
suabella.
In ascensore non
l’aveva vista: non era di
servizio quel giorno?
Forsecominciavadopo,o
magari era il suo giorno
libero e sarebbe venuta
solo la sera, per lui? Alla
reception non c’era
niente nella casella 921,
forsenelpomeriggio...Si
avventuròperlestradine
dietro l’albergo, dove
non era stato quasi mai.
Meditava su che cosa
comprarle come ricordo:
un braccialetto, una
collana, un gingillo?
Oppure
un
portasigarette,
un
accendino? In ogni caso,
qualcosa che potesse
tenere sempre con sé, su
disé.
Poco lontano, con sua
grande sorpresa, scoprì
una pista di pattinaggio
su ghiaccio. Era uno
spazio piuttosto piccolo,
qualche metro sotto il
livello
della
piazza
circostante, e si poteva
guardare dall’alto, come
facevano in molti dalle
ringhiere. La pista era
gremita di pattinatori
che,curiosamente,erano
quasi
tutti
anziani:
attempate
signore
sovrappeso o rinsecchite
e signori calvi e panciuti
che
scivolavano,
volteggiavano
e
piroettavano al suono di
una musica lenta. Era
un’immagine
così
surreale: flirtavano e si
tenevano a braccetto,
alcuni muovevano passi
di danza in mezzo alla
folla:Budainonproseguì
per la sua strada, si
fermò ad ascoltare la
musica e ad ammirare
quella popolosa corrente
che fluiva in cerchio sul
ghiaccio,
tutti
quei
vecchi che barcollavano
con grazia, e pian piano
cominciò anche lui a
dondolare a tempo di
valzer...
Si rese conto di essersi
lasciato
sfuggire
l’occasione migliore che
gli fosse mai capitata;
quella
notte
aveva
finalmente
avuto
l’opportunità e tutto il
tempo per farsi capire e
per chiedere di essere
accompagnato – ma
dove? a una stazione?
all’aeroporto?
all’ambasciata?,
che
importava dove, bastava
che riuscisse a ripartire
verso qualsiasi luogo
conosciuto. Certo, a
sollevare
l’argomento
proprio con Etete, e
proprio
in
quella
circostanza,
non
si
sarebbe mostrato molto
sensibile,
considerato
comeavevareagitodopo
il breve accenno su al
diciottesimopiano,eche
era venuta a trovarlo in
camera sua in seguito a
quell’episodio... Quella
sera, però, in un modo o
nell’altro,
doveva
spiegarglielo, vincere la
sua
resistenza
con
tenerezza e intelligenza,
non
poteva
più
rimandare!
In tutto ciò la cosa più
assurdaerachel’avrebbe
aiutato ad andarsene
proprio l’unica persona
che lo tratteneva lì. In
effetti, al momento non
aveva le idee molto
chiare: voleva andarsene
oppure no? Cercò di
rifletterci
ma
non
riusciva a ragionare, era
troppo
preso
dall’emozione
dell’attesa... Per dare un
taglio a queste vane
elucubrazioni,deciseche
avrebbechiestoaDededi
condurlo, questa era la
cosa più importante, e
poi, una volta imparata
la strada, avrebbe scelto
con calma il momento
giustoperpartire.
Nel frattempo era
divorato
dall’impazienza: e se
avesse capito male e lei
fosse arrivata prima?
Magari era addirittura
già passata. Tornò di
corsa in albergo, le
avrebbe
comprato
qualcosa lì, nei negozi
della hall. Prima, però,
voleva fare un salto in
camera, e quindi, come
tutte le altre volte, si
mise in coda per la
chiave.
Ma quando arrivò al
bancone
e,
come
d’abitudine, mostrò il
foglietto con il numero
921, il portiere si voltò a
guardare, poi allargò le
braccia per fargli capire
che non c’era. E davvero
la chiave non era lì: la
casella era vuota e la
chiave non era appesa al
gancio. Una cosa simile
non era mai accaduta –
l’avevano forse messa
per sbaglio in un’altra
casella?Ol’avevapresail
personale per le pulizie?
Sarebbe stata la prima
volta, e comunque quel
giorno erano già venuti.
Nonsiarreseemostròdi
nuovoilpezzettodicarta
al portiere dai capelli
grigi in uniforme scura,
che gli sembrava una
faccia nota. Certo, di
portieri ne aveva visti
talmentetanticheormai
glisiconfondevanonella
memoria.Esefossestato
quellocheeradiservizio
la primissima sera,
quandol’autobusl’aveva
portato
in
città
dall’aeroporto e l’aveva
scaricato
davanti
all’albergo?
Chiunque
fosse, trattò Budai con
una certa freddezza, e
scosse
la
testa
borbottando,comeadire
che non poteva farci
nulla.
Di
fronte
all’insistenza di Budai
tirò fuori un grosso
registro, lo sfogliò, cercò
un
rigo,
annuì
e
picchiandoci sopra con
l’indice glielo mostrò –
come se servisse a
qualcosa! –, poi richiuse
di scatto il librone e
passò a occuparsi del
cliente successivo, il
quale scalpitava, avendo
osservato con malcelata
irritazione la lunga
disputa.
A quel punto Budai,
perplesso e in preda a
uno
sgradevole
presentimento, salì al
nono piano e proseguì
nei corridoi verso la sua
stanza. La porta era
chiusa ma appoggiò con
cautela l’orecchio e gli
sembrò di sentire dei
rumori. Dopo esser
rimastolàdavantiperun
po’,nonsapendochefare
bussò
e
poi
aprì
leggermente la porta.
Nello spiraglio apparve
una donna di mezz’età
con un fazzoletto in
testa, che lo guardò e
richiusesubitolaporta...
Budai
controllò
il
numero della stanza,
casomai
avesse
sbagliato; no, era la sua,
la 921. L’avevano data a
qualcun altro. E quella
mattina
avevano
cambiato le lenzuola per
loro.
In quell’istante fu solo
un
dettaglio
a
preoccuparlo: che ne era
statodellesuecose.Quel
po’ di biancheria che
aveva, e la borsa di tela,
l’unico bagaglio con cui
era arrivato in quella
città...
Bussò
nuovamente,
ma
stavolta non risposero, e
quando
abbassò
la
manigliarisultòchiusaa
chiave. Non si scoraggiò
e cominciò a tempestare
la porta di calci e pugni
finché non riaprirono.
Apparveunuomosmilzo
dalla faccia giallastra e
coperta di macchie, in
camicia
e
bretelle,
inviperito, che si mise a
strillareconvoceacutae
femminea e stava per
richiudere d’un colpo la
porta quando Budai
infilò il piede e si spinse
dentroaforza.
La prima cosa che lo
colpìful’odore,unodore
greve
e
penetrante
aleggiava nell’aria. Poi il
numero di persone che
aveva invaso quella
stanza minuscola: oltre
ai due già menzionati
c’era una vecchia in un
angolo che borbottava
qualcosa, sembrava una
preghiera,edeibambini,
quattro, cinque o sei –
non riuscì a veder bene
nella
penombra,
la
tapparella era abbassata
a
metà
–,
alcuni
dormivano sul letto,
accantounacarrozzina,e
sultavoloeraappoggiato
un
porte-enfant
di
vimini. Come se non
bastasse,
due
gatti
spelacchiati
e
spaventosamente grassi,
dal sudicio pelo tigrato,
correvano qua e là,
saltando dal davanzale
della finestra alle sedie e
in cima all’armadio. E
coniglid’angorachiusiin
gabbie, come quelli che
aveva già visto, il tanfo
doveva venire da lì:
inconcepibile che in un
albergo si tollerassero
cose del genere... Per il
resto, avevano cambiato
tutta la disposizione dei
mobili, non sembrava
nemmeno la stessa
stanza: il letto era stato
spinto contro l’altra
parete, l’abat-jour era
privo di paralume, al
centro c’era un recinto
per bambini, biancheria
stesa ad asciugare sulle
spalliere delle sedie, e
carabattoled’ognigenere
sparseovunque:coperte,
pacchi, biberon, vasi da
notte.
I nuovi occupanti si
misero a inveire contro
di lui, con voci querule e
chioccianti, tentando di
spingerlo fuori. Budai
cercò con lo sguardo le
suecose,mainvano,non
vide i suoi vestiti, né il
pigiama, né la borsa, né
gli appunti lasciati sulla
scrivania.
Diede
un’occhiata anche nel
bagno, i suoi articoli da
toilette erano spariti, e
ora sopra la vasca
c’erano dei fili carichi di
pannolini e mutandine
appena lavati. A quel
punto si lasciò sbattere
fuori, persino i bambini
lo spingevano strillando;
làdentro,nonpotevapiù
tornarci. Non ne aveva
neanchevoglia,nonsela
sentiva di disturbare o
far
cacciare
quella
famiglia evidentemente
bisognosa. Se li avevano
sistemati lì, non li
avrebbero mandati via
perfareunfavorealui.
E va bene, ma adesso
dove avrebbe alloggiato?
In
preda
alla
disperazione tornò a
cercare
Epepe
agli
ascensori, ma non c’era.
Scese di nuovo al
pianterreno,sifecelargo
attraverso la folla che
riempiva la hall, si sorbì
la coda per arrivare alla
reception:
tentò
di
spiegare il suo problema
e, indicando le chiavi
appese, insisteva per
farsi
dare
un’altra
stanza. Ma il portiere si
stancòdellesuelagnanze
e richieste, oltre che di
doversi occupare così a
lungo
della
stessa
persona, e tagliò corto
passando
al
cliente
successivo.InvanoBudai
si ostinò, il portiere
continuavaaignorarlo.
A quel punto provò a
rivolgersi altrove, ai
banchi dedicati ad altri
servizi
indicati
da
altrettante
targhette.
Purtroppo non ottenne
risultati migliori, perché
le impiegate che vi
lavoravano,
non
afferrando quel che
diceva, dopo un po’
smettevano di ascoltarlo
e lo piantavano in asso.
Ritornò dunque alla
reception,
e
dopo
un’altrafilachelomisea
dura prova nel corpo e
nello spirito, stavolta si
sforzò di far capire che,
se era diventato una
persona tanto sgradita,
almeno gli restituissero
il bagaglio, e lui si
sarebbe
cercato
un
alloggio
altrove;
e
soprattutto
il
passaporto, altrimenti
non
lo
avrebbero
accettato da nessuna
parte.
Sorprendentemente, il
portiere
sembrò
afferrarelaquestione,gli
chiese il foglietto con il
numero della stanza e
tirò
fuori
una
voluminosa cartella. Vi
rovistò dentro, poi gli
sventolò davanti al naso
due documenti pinzati
conunagraffetta,listese
sul bancone, e con un
tono
pedante,
da
predicozzo,
blaterò
qualcosadeltipo:
«Tuluplubru
klött
apalapala
groz
paratléba... Klött, klött,
klött...!».
Budai
capì
l’espressione klött, che
secondo
le
sue
osservazioni equivaleva
all’allocutivo
«lei»,
«signore»;invecegroz,se
non si ingannava, era il
numerale 2. Esaminò i
pezzi di carta sul
bancone:
riconobbe
subito il primo, si
trattava della copia
carbone del conto del
venerdì precedente che
non
aveva
ancora
saldato. L’altro era un
modulo uguale, con
caselle e scritte simili,
solo il totale differiva di
poco – stavolta era
minore, 31,20 –, e
doveva essere quello
dell’ultimasettimana.
Sulla base di tutto
questo, le parole appena
udite potevano voler
dire,
pressappoco:
«Prima deve pagare
questi due conti, lei, sì,
dicopropriolei!...».E,nei
fatti, significava che
trattenevano bagaglio e
passaporto
per
restituirglieli
quando
avesse saldato – sempre
cheilportierenonavesse
dettotutt’altro.
Budai, naturalmente,
non aveva tutti quei
soldi,ildenarocheaveva
in tasca non ci si
avvicinava
neanche;
dopo le spese mattutine,
gli era rimasta una
manciata di spiccioli. Gli
venne
in
mente
all’improvviso
che
avrebbe perso anche
l’incontro fissato con
Devebe per quella sera.
Eccociòcheloagitavain
quelmomento:ladonna,
convinta di passare la
serata insieme a lui,
bussava alla 921 e
restava inorridita alla
vistadeinuovioccupanti
della stanza. E non
poteva neppure lasciarle
un messaggio... Era un
pensiero insopportabile,
lofacevausciredisenno,
era la cosa che lo
addoloravapiùdituttoil
resto: si sentì montare il
sangue alla testa, gli si
offuscò la ragione, gli
venne voglia di spaccare
tutto, di picchiare, di
uccidere. Ormai non gli
importava più di niente,
in un accesso di collera
cominciò a pestare i
piedi, a ruggire, a
sbraitare, e pur sapendo
che nessuno l’avrebbe
capito, esplose, gridando
la sua incontenibile
indignazione nella sua
lingua:
«Che
porcheria...
questaèlapeggioredelle
porcherie! Siete dei
farabutti, dal primo
all’ultimo...deglisporchi
farabutti,porci!».
Scoppiò uno scandalo,
unparapiglia,eattornoa
luisiformòuncerchiodi
curiosi. Arrivò il grasso
usciere in pelliccia e
berretto
col
nastro
dorato–dovevanoaverlo
chiamato dall’ingresso –,
lo afferrò per un braccio
e lo trascinò attraverso
l’atrio
gremito
di
persone.
Quando
giunsero alla porta,
l’usciere la fece girare e
gli indicò di levarsi di
torno. Siccome Budai
nonsimuoveva,conuno
spintoneloscaraventòin
strada, e da dietro gli
assestò forse anche una
pedata.
Come
paralizzato,
stordito, Budai brancolò
a lungo sul marciapiede.
Poitornòinséqueltanto
che
bastava
per
rimettersi in sesto. Gli
eravolatoviailcappello,
lo ritrovò, il cappotto si
era aperto e si erano
staccati due bottoni, la
manica si era scucita.
Non riusciva a pensare a
niente,
si
lasciò
trascinare dalla folla. Si
ritrovò alla pista di
pattinaggio che aveva
scoperto nel pomeriggio:
stavascendendolaserae
i lampioni ad arco erano
accesi, i pattinatori
giravano in tondo sotto
una luce forte, eccessiva
come il volume della
musica...
Poi
passò
vicino al grattacielo, e
neanche stavolta poté
trattenersi dal contare i
piani: erano arrivati al
settantacinquesimo, era
cresciutoditrepiani.
Dappertutto
vide
sporcizia e rifiuti: era
sempre stato così e lui
nonsen’eramaiaccorto?
Inquelmomentoilvento
turbinava e sollevava
l’immondizia
tutto
intorno; doveva aver
travolto
anche
un
chiosco di giornali, sulla
carreggiatasvolazzavano
migliaia di fogli di
giornale... Fu colpito
dallaquantitàdianziani:
zoppi,
invalidi,
paraplegici avanzavano
claudicando con i loro
bastoni, fra ondate di
folla che si abbattevano
sulle
loro
teste
sommergendoli
e
stritolandoli.
Fragili
vecchine simili a uccelli
malati e spauriti si
muovevano
in
quell’ambiente
ostile
trascinando i loro corpi
gracili, tentavano di
attraversare la strada o
di salire sugli autobus
carichi di passeggeri,
perennemente
spintonate e schiacciate
nella calca: che cosa mai
le tratteneva lì? Perché
nonandavanoaviverein
paesaggi più ameni, in
ambienti e località più
ospitali? O forse non
avevano nessun altro
posto dove andare?... Poi
c’erano degli strani
dementi pieni di tic che
gesticolavanoefacevano
smorfie, che parlavano e
borbottavano da soli, e
altri che vagavano per le
stradedandoinsmaniee
lanciandourlatremende,
pazzi che correvano
minacciando i passanti
conuncoltelloedaiquali
era meglio scappare. E,
ancora, mendicanti che
balbettavano scuotendo
il
barattolo
delle
elemosine,
idioti
farfuglianti, paralitici e
mutilati, minorati che
strisciavano gattoni – e
tutti quanti avevano
voglia
di
vivere,
raggomitolati e pressati
l’uno sull’altro, spalmati
ovunque per la città,
ingombrandoogniluogo
con le loro innumerevoli
vite...
Un pensiero errante si
infilò nella mente di
Budai: e se l’avessero
cacciato dall’albergo a
causadiBebe?Nonperil
conto non pagato, no,
tutt’altro:
avevano
scoperto
la
loro
relazione, dopo che la
donna era stata da lui.
Erano inflessibili, non
tanto per un divieto
morale o religioso, o
perché
fosse
inaccettabile
un
rapportoconiclienti,no,
c’era una ragione più
profonda
ed
estremamente pratica:
dalla
loro
unione
amorosa sarebbe potuto
nascere un bambino, un
nuovoessereumanoche
avrebbe contribuito alla
crescita
di
una
popolazione
esorbitante... Forse era
colpevole del reato più
grave ai danni della
società, il tentativo di
incrementodelladensità
demografica?
Era buio; nel cielo
apparvero delle luci,
bianche, rosse, viola e
verdi.
Luci
fisse,
lampeggianti,
rotanti,
fluttuanti,
tremule,
scintillanti,
che
passavano lentamente o
guizzavano
via
all’improvviso, che si
accendevano
senza
ragione e altrettanto
misteriosamente
si
spegnevano.
Che
cos’erano? Stelle? Aerei?
Luci di segnalazione per
gliaereiincimaatorrie
grattacieli?
Razzi,
astronavi?... Ma ora non
ce la faceva a pensarci,
ormai era sera e questo
gli ricordò che si
avvicinava
l’ora
dell’appuntamento con
Petebe; ritornò dunque
dicorsainalbergo.
Mal’usciere,chefinora
lo aveva sempre accolto
garbatamente
accennando il saluto
militare e aprendogli la
porta, stavolta, non
appenalovide,glisiparò
davanti sbarrandogli il
passaggio con la sua
mole
imponente.
Cosicché non era un
pupazzo o un robot,
come
Budai
aveva
sospettato
all’inizio:
l’aveva riconosciuto, si
ricordavadellasuafaccia
e dello scandalo di quel
pomeriggio.
Eppure
anche adesso, mentre
alzava il braccio per
bloccarlo, i suoi gesti
erano rigidi e meccanici,
la faccia stupida e
inespressiva, con gli
occhietti strizzati, come
quandoloaccoglievacon
cortesia.
Budai si limitò a farsi
da
parte,
senza
allontanarsi
troppo.
Dove sarebbe potuto
andare? Per quanto il
comportamento
di
quell’idiota obeso lo
umiliasse, non aveva
altra scelta o possibilità
se
non
riprovarci.
Escogitòunpiano:attese
che arrivasse un gruppo
abbastanza numeroso di
persone e che l’usciere
aprisse loro la porta
salutandoli con due dita
alla
visiera.
Con
circospezione
si
intrufolòinmezzoaloro,
come se facesse parte
dellacompagnia.Manon
riuscì a eludere la
vigilanza
dell’uomo:
costui fece passare tutti
glialtri,maquandofula
voltadiBudaisifrappose
conlamassaenormedel
suocorpo.Enessunaltro
tentativo ebbe successo:
l’usciere era sempre
all’erta.Laterzaoquarta
volta si lanciò verso la
porta con tale violenza
che finirono uno contro
l’altro, e poiché nessuno
dei
due
cedeva,
ingaggiarono una vera e
propria
colluttazione.
Budai non era un tipo
gracile, credeva di poter
avere
ragione
di
quell’ammasso di lardo.
Solo che questi si rivelò
sorprendentemente
tenace, e inoltre aveva il
vantaggio di puntarsi
contro lo stipite della
porta.Nessunoriuscivaa
prevalere
sull’altro,
tenevano entrambi la
posizione
senza
muoversi
di
un
centimetro. In pratica
questo significava la
sconfittadiBudai,poiché
era lui a voler passare la
soglia; alla fine fu
costretto a battere in
ritirata.
Però l’albergo non
aveva altri ingressi?
Magari anche Tjetje
passava
dall’entrata
riservata al personale. Si
avviò e svoltò al primo
angolo:
se
avesse
esplorato con attenzione
tutto l’isolato l’avrebbe
trovata per forza. Sì, ma
l’hotel era stretto fra
edifici
di
varie
dimensioni, a destra e a
sinistra e, a quanto
sembrava, anche da
dietro, e le vie erano
tortuose
e
lo
allontanavano
dalla
direzione che voleva
prendere,epocopiùinlà
dei lavori stradali gli
impedirono di passare.
In
breve
era
già
disorientato, era partito
per
fare
il
giro
dell’albergo e forse era
finito
da
tutt’altra
parte...
A un tratto si ritrovò
presso la pista di
pattinaggio: era già la
terza volta in quella
giornata. Stavano per
chiudere, o meglio, era
loro intenzione, ma i
pattinatorinonvolevano
andarsene. I dipendenti
li spingevano verso le
scale con l’aiuto dei
larghi spazzoloni che
usavano per pulire il
ghiaccio, ma la gente
sciamava nuovamente
indietro infilandosi fra
unoel’altro,constrillae
risate
trionfanti,
invadendo di nuovo la
pista, e così bisognava
ricominciaredacapo.
Era
una
scena
divertente,
e
Budai
sarebbe
rimasto
volentieri a guardarla,
ma l’inquietudine lo
attanagliava:
chissà,
mentre lui indugiava lì,
magari Deded stava
varcando
l’ingresso
principale!...
Aveva
anche
fame,
non
mangiava niente dal
mattino – che fine
avevano fatto i sacchetti
pienidiciboperlaserata
che aveva messo sul
davanzale della finestra?
Quando era entrato di
forza nella stanza 921 si
era
dimenticato
di
prenderli, e ora lo
rimpiangeva
amaramente.Lafamiglia
numerosa
si
era
mangiata tutta quella
roba? Oppure l’avevano
divorataiduegattacci?
Se fosse andato a
comprare qualcosa alla
tavola calda o in un
negozio, avrebbe perso
altro tempo in code, e
temeva di mancare
l’arrivo della donna.
Preferì ignorare i morsi
della fame e tornare sui
suoi
passi
fino
all’ingresso principale
dell’albergo. In quel
momento,daunagrande
automobile nera stava
scendendoladelegazione
sacerdotale dall’aspetto
esotico
che
aveva
ammiratogiàaltrevolte.
L’usciere si tolse il
berretto e fece un
inchino in segno di
riverenza al passaggio
dei vegliardi barbuti col
cappuccio viola e le
catene d’oro al collo.
Budaiprovòamescolarsi
anche a loro, contando
su un momentaneo calo
dell’attenzione da parte
del grassone imbecille.
Ma questi lo vide
comunque,lobloccòelo
respinse: era impossibile
raggirarlo.
Ma quell’usciere era
sempre in servizio? A
guardarlo meglio, Budai
non era più sicuro che
fosse lo stesso di prima.
Se anche fosse stato un
altro, però, assomigliava
in
maniera
impressionante a quello
precedente, non solo per
la pelliccia e il berretto
piatto col nastro dorato,
maancheperquelmodo
di sbattere le palpebre e
strizzare gli occhi come
un ebete, per la faccia
gonfia e insignificante,
per lo sguardo vacuo e
stolidodatroglodita.
Passò il tempo, forse
ore,enonaccaddenulla,
tranne che a un certo
punto
cominciò
a
piovere; Budai si riparò
sotto
la
tettoia
dell’ingresso. L’usciere
non sembrò infastidito,
non gli badava neppure.
Ebede però non arrivò,
non si fece viva: c’era
ancora qualche remota
speranza che venisse?...
Se la sua ipotesi era
giusta, cioè che lui era
sgraditoall’albergoperla
loro relazione, lo stesso
doveva valere per la sua
partner, sua complice!
Era possibile che anche
lei fosse stata cacciata,
ossia licenziata dal suo
posto di ascensorista? Se
le cose stavano così,
poteva rimanere lì ad
aspettarla finché voleva,
tantoerainutile.
Moriva di fame, era
esausto, estenuato dalle
preoccupazioni e dagli
avanti e indietro di
quella giornata, aveva la
testa vuota; non si
reggeva più in piedi, e si
appoggiò contro un
muro. Però si sforzò di
riscuotersi: che poteva
fare? C’era qualcosa che
non
aveva
ancora
tentato? Ecco, avrebbe
potuto
distogliere
l’attenzione dell’usciere.
Come fanno i bambini,
quando indicano alle
spalledelloroavversario
per farlo voltare, oppure
lanciano un oggetto. Ma
con quale stratagemma
avrebbe potuto distrarre
l’inavvicinabile
piantone? Non sarebbe
bastato gettargli ai piedi
un
oggetto
insignificante, come un
sassolino o un pezzetto
di carta appallottolato:
quel tizio era troppo
sospettoso per cadere in
un tranello così banale...
Doveva
sacrificare
qualcosa,esseredisposto
a
rischiare,
questo
l’aveva ormai imparato:
in quella città non si
otteneva
nulla
gratuitamente!
Sospirando
amaramente,
afferrò
dunquelemonetechegli
restavano in tasca, e in
un momento di relativa
calma, quando non
passavanessuno,conun
gesto
morbido
del
braccio le lanciò sul
marciapiede
davanti
all’usciere. Gli spiccioli
caddero sul selciato con
un tintinnio squillante e
senzaspargersitroppoin
giro. Le sue previsioni si
rivelaronoesatte:l’uomo
aguzzò le orecchie e si
chinò a guardare. Era
quello il momento che
Budai aspettava per
passargli velocemente
accanto, o meglio alle
spalle,
e
introdursi
nell’edificio senza essere
notato.
Era quasi arrivato alla
porta, e si sentiva già
dentro, quando un folto
gruppocominciòauscire
– perché si entrava e si
uscivadallastessaporta,
una soluzione piuttosto
singolare e tutt’altro che
pratica per un albergo
frequentato
come
quello... Erano tanti
giovanotti,
alti
e
longilinei, alcuni di pelle
scura, con una tuta da
ginnastica rosso vivo,
che
vociavano
in
maniera inintelligibile,
ridendo e scherzando:
dovevano essere degli
atleti, come quelli che
aveva visto nell’enorme
stadio.
Procedevano
compatti uno dietro
l’altro, era impossibile
muoversi in direzione
contraria per entrare, e
quando furono usciti
tutti, saranno stati venti
o
venticinque,
il
corpulentocerberostava
di nuovo all’erta, vigile
come un cane da
guardia.
Allora Budai, stizzito e
deluso,
iniziò
a
raccoglierelemoneteper
tentare di nuovo il
trucco. Ma l’usciere posò
il suo enorme scarpone
proprio dove ne erano
cadute di più, e Budai
potéprenderesoloquelle
sparse intorno. Credeva
che il tizio stesse
scherzando, ma provò
inutilmente a spostargli
il piede, lo esortò a
toglierlo da lì, ma quello
non si muoveva. La
rabbiadiBudaisiscatenò
contro quell’imbecille:
radunòlaforzadicuiera
capace e gli sferrò un
calcio alla caviglia. Per
tutta risposta l’usciere
soffiò forte in un
fischiettoeluiseladiede
agambe.
All’angolo successivo,
dove
si
fermò
brevemente
per
riprenderefiato,sichiese
perché
si
fosse
spaventato così tanto. Il
suono del fischietto
doveva avergli ricordato
la sua disavventura con
la polizia, e non aveva
nessuna
voglia
di
cacciarsi in situazioni
simili; ed era anche
plausibile che, vistosi
aggredito,
quell’idiota
avesse fischiato per
chiamare un poliziotto.
Comunque
fossero
andate le cose, fu
soddisfatto di avergli
mollatounbelcalcio,era
il minimo che si
meritasse, e almeno lui
aveva potuto sfogare la
sua collera... Aveva un
sonno tremendo, si
sentiva malfermo sulle
gambe,eraaffamatoegli
sembrava
un’impresa
disperata riuscire a
varcare
la
soglia
dell’albergoquellasera.E
seanchecifosseriuscito,
nonavrebbemairiavuto
la sua stanza né gliene
avrebbero data un’altra
per riposare. Si sarebbe
dovuto aggirare per i
corridoi
o
sedersi
nell’atrio.
Trovò aperta l’abituale
tavolacalda,dovedivorò
in fretta un paio di
sandwich. E adesso? Che
fare,doveandare?Finoa
quel giorno aveva avuto
un minimo di agio, un
buco dignitoso dove
rintanarsi, e lavarsi,
riposarsi, rimettersi in
ordine. Ma adesso, senza
le sue cose, e dopo aver
perduto buona parte dei
suoi ultimi soldi sotto la
suola dell’usciere, dove
poteva andare? Se pure
avessescovatounhotel–
sebbene in quell’istante
non sapeva nemmeno
dove cercarlo – non
l’avrebberomaiaccettato
senza
passaporto
e
documenti. E Djedje,
come avrebbe fatto a
rivedereEdjedje?
La
pioggia
non
cessava; in breve si
ritrovò bagnato fradicio:
cappello,
cappotto,
scarpe. Si ritrovò alla
stazione
della
metropolitana, guidato
forse dal suo istinto, e
scese di corsa per
ripararsi
dall’acquazzone. Era la
stradachefacevasempre
per andare a scaricare al
mercato. Quando fu ai
binari, più per abitudine
che altro, salì sul treno
diretto là, era troppo
debole e intontito per
pensareaun’altraidea.
Al mercato coperto, lo
scarico delle merci sulla
rampa
laterale
si
svolgeva anche di notte.
Ma stavolta Budai non
intendeva
lavorare,
voleva solo un giaciglio
per sdraiarsi, un riparo,
proprio
come
i
vagabondi
che
si
rannicchiavano in un
angolodopoillavoroole
bevuteinosteria...Trovò
presto un cantuccio
relativamente comodo.
Sul fondo, alla fine della
rampa,doveilviavaiera
minore, dietro a una
gran catasta di casse
vuote c’era lo spazio
sufficiente
per
una
persona, e non l’avrebbe
visto
nessuno.
Sul
pavimento di cemento
erano stati gettati alcuni
vecchi sacchi: l’angolino
dovevaesseregiàservito
aqualcuno.Sisdraiòcosì
com’era, con gli abiti
zuppi addosso, si coprì
con il cappotto fradicio
che sapeva di pioggia,
radunòunmucchiettodi
stracci sotto la testa,
vincendo
l’istintivo
ribrezzo
per
quelle
condizioni prive di ogni
igiene. Era esausto, non
ebbeneancheiltempodi
girarsi che cadde in un
sonnoprofondo.
Si svegliò con il corpo
bollente, battendo i
denti; non del tutto,
però,rimaseinunostato
di dormiveglia. Era buio,
dafuorifiltravanoleluci
artificiali, i rumori dello
scarico, il rombo dei
camion, il cigolio del
nastro
trasportatore,
non sapeva dire però se
era la stessa notte o
quella successiva. Aveva
la febbre alta, senza
dubbio: doveva aver
preso un raffreddore,
oppure
un’influenza,
tutte quelle ore ad
aspettare
fuori
dall’albergo sotto la
pioggia. Tremava di
freddo, forse aveva la
polmonite.
Non era mai caduto
così in basso da quando
era arrivato lì. Era
completamente
abbandonato, senza un
medico e senza farmaci:
in quello stato non ce
l’avrebbefattaneppurea
trascinarsi fino alla
clinica dove gli avevano
cavatoildente.Nascosto
in quell’angolo nessuno
l’avrebbe aiutato, certo,
maalmenololasciavano
inpace,ederaquelloche
desiderava: come un
animale voleva solo
rintanarsi, lui e i suoi
mali. Si ripiegò su sé
stesso, i suoi pensieri
erravano stentati sul
fondo della coscienza.
Eraprostratonelcorpoe
nello spirito, madido di
sudore, divorato dalla
febbre.
In quella condizione
vegetativa
le
sue
funzioni
vitali
e
fisiologicheeranoridotte
al minimo, e non era un
male,
non
potendo
soddisfarle. Non aveva
fame, ma non avrebbe
saputo come procurarsi
del cibo. Un tè gli
avrebbe dato sollievo, si
sentivalagolaseccaeun
cattivo sapore in bocca,
ma non era in grado di
trovarlo, e allora meglio
non pensarci... Aveva
anchealtribisognimolto
meno gradevoli, e ormai
impellenti.
Quando
veniva a lavorare, aveva
scoperto che dietro al
mercatoc’eraunalatrina
sudicia, tuttavia alcuni
preferivano usare il
muro
esterno
dell’edificio,
insozzandolo.Madoveva
alzarsi e arrivarci, ed era
un’impresa al di sopra
delle sue forze. Però non
voleva farsela addosso,
non avrebbe mai potuto:
una cosa del genere,
finché avesse avuto un
barlume di lucidità, era
impensabile.
Solopersollevarsiebbe
bisogno di una lunga
preparazione: per interi
quarti d’ora si spronò ad
alzarsi,
ma
poi
rinunciava,
sconfitto.
Dopo essersi dato più
volte
la
spinta,
lentamente si drizzò a
sedere ma ebbe un tale
capogiro che dovette
coricarsi di nuovo, e
svenne,sprofondandoin
una nebbia rosso scuro.
Quando tornò in sé,
ricominciò, penando e
imprecando: non poteva
accettareilfallimento.Se
si fosse arreso ora, si
disse,eratuttoperduto.
Decise di alzarsi, a
costo di sputare l’anima,
maledisse la propria
debolezza, e alla fine
riuscì a tirarsi in piedi, e
se ci riuscì fu solo grazie
alla sua ostinazione.
Avanzòafatica,tastando
il muro come un cieco,
lottando per ogni metro
e sentendosi mancare a
ogni passo: in quei
momenti per non cadere
aterrasireggevaaquello
che
trovava.
Era
costretto a fermarsi,
appoggiato a una balla o
a una cassa, e dopo
qualche minuto era in
grado di proseguire. Per
quel breve tragitto di
andata e ritorno gli ci
vollepiùdiun’ora,ealla
fine era completamente
stremato: quando crollò
di nuovo sul suo misero
giaciglio
aveva
consumatoognienergia.
Si dibatté in un
dormiveglia confuso, al
confine tra sogno e
coscienza: i due piani si
mescolavano e a volte si
fondevano,
indistinguibili.
All’improvviso gli parve
divederedeirattichegli
passavanosuipiedi,elui
nonneavevapaura.Maa
posteriori non riuscì a
capire se fosse successo
davvero, il che non era
affatto improbabile in
quel luogo, o fosse stato
solo uno scherzo della
suaimmaginazione.Fece
moltisogni,ancheperla
febbre.Sognòvarievolte
che
incontrava
finalmentequalcunocon
cui parlare, cambiavano
solo
la
persona,
l’occasione,
le
circostanze. L’uomo che
compariva più spesso e
in diverse situazioni era
l’ungherese in loden
incontrato in metrò. Poi
faceva a botte con il
grasso
usciere
dell’albergo, e scivolava
sul
ghiaccio
coi
pattinatori, ogni tanto
ruzzolando goffamente.
E viaggiava in aereo, in
treno, in nave, e andava
addirittura a cavallo,
anche se non aveva mai
praticato questo sport:
trottava su un terreno
umido
e
sabbioso,
lasciandosi dietro una
lungafiladiimpronte.
E gli avvenimenti più
recenti vissuti in quella
città si mescolavano con
i ricordi di casa sua. A
questopunto,qualunque
ricerca sarebbe stata
inutile, non l’avrebbero
più trovato, ormai non
aveva un alloggio, un
recapito, era diventato
un vagabondo senza
dimora: chi avrebbe
potuto sapere dove si
trovava?...
La
sua
disgraziavistaattraverso
occhi altrui, ecco l’unica
cosa per la quale ancora
sicommuoveva–simise
perfino a piangere, tutto
solo, nascosto dietro alle
casse, sul cumulo di
vecchi sacchi. Quel
destino sarebbe stato un
po’piùtollerabilesenon
avesse avuto la famiglia,
illavoro,gliamici,ilsuo
cane.
Gli
mancava
soprattutto sua moglie,
com’era naturale, era
questo il sentimento più
forte e profondo; aveva
vissuto così a lungo al
suo fianco, lei era come
una parte del suo io, e il
pensiero
della
sua
sofferenza gli dava un
dolore insopportabile. Se
avesse potuto, avrebbe
chiesto a un chirurgo di
tagliargli via quel pezzo
dicuore.
No,nondovevastarelì
a compiangersi, gli era
chiaro anche tra i fumi
della
febbre.
Commiserarsi
non
serviva a nulla, anche
perché, al di fuori di lui
stesso,
nessuno
si
sarebbe dispiaciuto per
lui: era solo uno
svantaggio, un intralcio
ulteriore... E per forza di
cose arrivò pure a
considerarelapossibilità
più estrema, quella che
in sostanza giaceva in
fondo a ogni suo
pensiero.
In
quelle
condizioni non avrebbe
dovuto fare quasi nulla,
forse
solo
lasciarsi
andare, farsi scivolare
fraleditaqueltenuefilo
a
cui
ancora
si
aggrappavaegiàsarebbe
sprofondato
nella
beatitudinedelnulla:per
lui al momento era
davvero la scelta più
facile...
Ma la rimandò, e
rimandò
anche
il
momento in cui ci
avrebbe
riflettuto
seriamente: c’era tempo
per
pensarci,
quest’ultima via d’uscita
sarebbe sempre stata
disponibile.
Ora
quell’idea gli ripugnava,
non tanto in sé stessa,
quanto
perché
significavaunafuga,una
ritirata ingloriosa. Pur
nella
miseria
e
nell’infernotorbidodella
malattia, dentro di lui
era rimasta una sola
passione: la caparbietà.
Quell’indefinibile
accanirsi,
quell’inspiegabile furia,
quella resistenza che gli
impediva di arrendersi,
di uscire vinto da quella
lotta.Quandostringevai
dentieimprecava,anche
nei
momenti
più
strazianti della crisi, si
stava
battendo
per
mantenere vivo almeno
un
frammento
di
coscienza,
per
non
arrendersi per nessuna
ragione al mondo a
quella
insensata
oscurità. Era una specie
di puntiglio, di senso
dell’onore, di assurda e
forse ridicola fedeltà ai
suoi propositi, o di
alleanza con sé stesso,
dato che non poteva
contaresunessunaltro.
Poi gli apparve in
sogno anche Pepe, in
situazioni diverse ma
sempre
cariche
di
angosciaesensodicolpa:
non
riusciva
a
perdonarsi di averla
picchiataquellasera.Era
un pensiero che lo
inseguiva
come
un’ossessione: era per
questo che la donna non
si era più fatta viva?
Forse in un secondo
momento aveva provato
rancore verso di lui?...
Comunque fosse, non
poteva
finire
così,
doveva rimediare, farsi
perdonare, cercare di
spiegarle,dirlechesiera
pentito. Tra le altre, una
ragione per guarire in
fretta era che bisognava
tornare
in
albergo,
cercare Bebebe: senza di
lei non poteva vivere in
quel luogo, e nemmeno
andarsene.
Non aveva la minima
idea di quanto tempo
avesse languito in quel
misero
nascondiglio,
aveva
perso
la
cognizione del tempo,
confondevailgiornocon
la notte. Quando si alzò
per trascinarsi fino alla
latrina, vide che il
mercato era deserto, i
chioschi, i negozi e i
banchi erano chiusi, con
le
saracinesche
abbassate, con le sbarre
bloccate da lucchetti,
benché
ai
lati
dell’edificio
operai,
macchine
e
gru
continuassero a lavorare
con gran frastuono.
Dunque era di nuovo
domenica,comelaprima
volta che era stato lì. E
siccome
era
stato
cacciato dall’albergo di
venerdì, aveva passato
duenottialmercato.
Si sentiva un poco
meglio, la febbre gli era
calata. Per due o tre
giorni ancora non lasciò
il suo cantuccio, era
troppodeboleperfarlo,e
pian piano iniziò a
riprendersi. Gli era pure
tornato l’appetito, ma le
uniche
cose
commestibilicheavevaa
portata di mano erano
delle mele mezze marce
probabilmentecaduteda
qualche cassa. Tentò di
rosicchiare le parti sane,
erano
piuttosto
disgustose,
ma
era
comunque meglio di
niente.
E dopo tutto quel
tempo sentì anche il
bisognodilavarsi.Sialzò
e vagò a lungo, in preda
allevertigini,allaricerca
dell’acqua, e finalmente
all’angolo opposto della
rampa
scoprì
un
rubinetto. Una lunga
coda di gente aspettava,
provvista di gavette,
bottiglieeperfinosecchi.
Si unì a loro e si
domandò chi potevano
essere:
commercianti,
clienti o scaricatori a
giornata? E la fila si
allungava dietro di lui,
cosicché quando arrivò
al
rubinetto
ebbe
soltantoiltempodibere,
in mancanza di un
recipiente bevve con le
maniacoppa,sisciacquò
la bocca e si ritrovò più
in là, spinto oltre dalla
mera presenza di chi gli
stavaallespalle.
Preferì ritornarci la
sera tardi, quando i
negozi erano chiusi e
l’attività del mercato era
limitata al carico della
merce dai magazzini
laterale e posteriore e
allosgomberodellecasse
e degli imballaggi vuoti,
come sempre, giorno e
notte. Stavolta c’era
davvero poca gente in
coda
davanti
al
rubinetto,
soltanto
quattro
o
cinque
ubriachi barcollanti, e
dopo una breve attesa
Budai poté restare solo e
indisturbato. Il getto
dell’acqua era più debole
e non aveva neppure
sapone, ma si prese il
piacere di rinfrescarsi le
mani, la faccia e il collo,
mise la testa sotto il
getto
gelido
per
raffreddare la fronte
sofferenteesciacquarsii
capelli. Si sarebbe lavato
volentieri anche le parti
intime,maachesarebbe
valso se poi doveva
rimettersi la biancheria
sporcaesudata?
Col passare dei giorni
si ristabilì, e siccome
doveva
mangiare
e
vivere,ripresealavorare.
Per fortuna c’era sempre
qualcosa da scaricare, in
sostanza era lui a
decidere
quando
e
quanto
lavorare,
a
seconda dell’umore e
delle sue forze. Quando
trasportavano
generi
alimentari,
poteva
sottrarne un po’, lo
facevano anche i suoi
compagni,
nessuno
riusciva a controllare:
carote, cipolle, frutta,
verdure crude, e a volte,
quando il magazziniere
era distratto, rubava dei
pezzi di salsiccia e di
ciccioli di maiale. E se
aveva bisogno d’altro, se
lo comprava subito coi
soldi guadagnati, lì al
mercato.
La sua vita era
cambiata radicalmente
rispetto a prima, e una
volta
superata
la
malattia, gli sembrò
ancora più tremenda e
insopportabile. Le poche
cose
che
ancora
venivano da casa sua
eranorimasteinalbergo,
compresi i suoi articoli
da toilette. Per prima
cosa dovette procurarsi
sapone, spazzolino da
denti e dentifricio, che
eranoinvenditaancheal
mercato. Il dentifricio
era dolce come la
maggior parte dei cibi di
quel luogo. Non comprò
invece l’occorrente per
radersi, costava troppo e
servivano tante cose,
lamette,rasoio,pennello,
sapone o crema – e poi
perché, per chi? Non era
mai stato da un barbiere
in quella città, non ci
aveva pensato: gli era
cresciutaunpo’dibarba,
aveva i capelli arruffati,
leunghiedimaniepiedi
eranocresciuteesierano
indurite. I suoi abiti si
erano strappati e non
aveva ago e filo, aveva
persoparecchibottoni,si
erano rotte le stringhe
dellescarpe,ilcappottoe
lagiaccasieranoscuciti,
bucati e sporcati in vari
punti, poiché li teneva
sempre addosso, quando
dormiva e lavorava. Una
volta che si era un po’
allontanato dal mercato
si vide riflesso in una
vetrina e faticò a
riconoscersi in quel
vagabondo barbuto e
straccione. La cosa che
più lo spaventò furono
gli occhi, lo sguardo
sconvolto,
spossato,
cupo e torbido in quel
volto giallo, patito ed
emaciato
da
cavernicolo...
Soffriva soprattutto di
non potersi cambiare, di
non
avere
della
biancheria pulita da
mettersi addosso. E
ancheseavesseavutoun
cambio, dove poteva
lavare quella sporca,
dove farla asciugare, e
comunque dove tenerla?
Gli
articoli
di
abbigliamentocostavano
uno sproposito, come
aveva
notato
nelle
vetrine di quei grandi
magazzini di periferia
che aveva scambiato per
un cinema. Non gli
bastavano i soldi, per
racimolarli c’era da
sgobbare
parecchio:
doveva
rimandare
l’acquisto. E fino ad
allora non poteva fare
altrochepensareallasua
persona senza tener
conto dei propri abiti –
anzi, ancora meglio,
dellasuapelle,dituttoil
suocorpotrasandato.
Si era inselvatichito, e
ora anche la nostalgia di
casa si era attenuata.
Non teneva più neppure
ilcontodiquantotempo
era passato dal suo
arrivo in città. A casa si
ricordavano ancora di
lui? Oppure lo avevano
dato
per
disperso,
cancellato, forse perfino
rimosso? La casa, quella
di un tempo, era
diventata un ricordo
sempre più vago e
nebuloso; l’unica cosa
invariata
era
l’imperativo
di
andarsene da lì. Dove e
con quale mezzo non gli
importava, l’essenziale
eraandarevia,via,via.
Non appena cominciò
asentirsimeglio,preseil
metrò
per
tornare
all’albergo. Era quasi
certochenonl’avrebbero
lasciato entrare, e infatti
così fu. Il grasso usciere
in uniforme gli bloccò
l’ingressoanchestavolta,
alzando il braccio in
segno di divieto: del
resto,
perché
mai
avrebbe dovuto fare
entrare un pezzente
simile, un losco figuro
magari
dedito
all’accattonaggio o ad
attività anche peggiori?
O forse quell’idiota si
ricordava
di
lui
dall’ultimavolta,quando
lo aveva sbattuto fuori
dall’albergo e gli aveva
impeditoinognimododi
rientrarvi?... Ma anche
Budai era più fiacco,
menocombattivodiquel
giorno, e si fece bastare
un paio di incerti
tentativi. L’usciere stava
all’erta e gli sbarrava
automaticamente
il
passaggio appena lo
vedeva. E nel frattempo
borbottava
qualcosa
sottoilsuonasocarnoso,
come rivolto a lui. Budai
si avvicinò per sentire
meglio e gli sembrò di
coglierequantosegue:
«Parataciara... Kiripi
laba
parascera...
parataciara...».
Ovvero era la stessa
frase che il tizio aveva
detto tempo addietro
allorché Budai gli aveva
chiesto informazioni sui
taxi; durante le sue
analisi linguistiche, più
tardi,
l’aveva
interpretata come un
saluto. Si era forse
sbagliato?
Non
era
plausibile
che
nel
respingerlo
l’usciere
usasse una formula di
benvenuto...
Oppure
poteva darsi che quella
locuzione avesse un
doppiosignificatoechea
secondadellecircostanze
volessedire«Benvenuto»
o «Va’ all’inferno»...
Come in latino, ad
esempio,l’aggettivoaltus
che può significare sia
«alto» che «profondo», e
sacer sia «sacro» che
«maledetto», il perfetto
contrario
l’uno
dell’altro?
L’albergo, visto da
fuori, gli apparve come
un paradiso perduto. Fu
con profonda nostalgia
che rievocò – anche se
ormai ci riusciva solo a
fatica – i giorni in cui
disponeva di una stanza
tutta per sé, di un letto
conlenzuolaecoperte,di
una scrivania, di un
bagno con lavandino e
doccia. E vedeva Edede
tutti i giorni... Chissà se
adesso si trovava là
dentro e andava su e giù
in
ascensore,
schiacciandoitasti?Sela
loro relazione era stata
scoperta,cometemeva,e
davvero era considerata
unreatograve,alloraera
inutile
cercarla
in
albergo, la ritorsione
doveva aver colpito
anchelei.Delresto,orasi
sarebbe vergognato di
farsi vedere in quelle
condizioni.
Le sue energie erano
poche, la mente arida e
spenta, quel giorno non
aveva nessuna voglia di
ricominciare i giochini
tentati
la
volta
precedente
con
il
grassone.
Si
aggirò
ancora qualche minuto
intorno all’ingresso, ma
la situazione non era
mutatanéluifuingrado
di
escogitare
altri
stratagemmi.
Al
momento
non
era
neppure certo di voler
entrare a tutti i costi.
Dopounpo’,senzaaverlo
deciso veramente, si
incamminò verso la
stazione
della
metropolitana.
Il
grattacielo
in
costruzione era più alto
di due piani dall’ultimo
giornochecierapassato
accanto:eranoarrivatial
settantasettesimo.
Tra i facchini del
mercato era ormai in
grado di riconoscerne
qualcuno;
non
desiderava
approfondirne
la
conoscenza.Ecomunque
c’era
un
ricambio
piuttosto
intenso,
vedeva sempre facce
nuove, e lo colpiva il
fatto che i neri fossero
più
numerosi
che
altrove. Verso sera, ma
anche a qualunque ora,
chi come lui era senza
dimora veniva a cercare
un posto dove coricarsi,
sulle balle, su mucchi di
carbone
o
perfino
accanto al muro, spesso
in evidente stato di
ubriachezza. Ogni tanto
unpoliziottopassavaper
la rampa di carico e
faceva sloggiare quelli
che trovava, ma il covo
di Budai non venne mai
scoperto. Poi, quando la
polizia se ne andava,
tutti
tornavano
a
sdraiarsi nel luogo che
occupavanoprima.
Dopo il lavoro, aveva
iniziato a bazzicare la
mescita
nella
via
accanto. L’aveva inserita
fra le sue abitudini:
faceva parte della sua
routine,moltopiùdiuna
camicia pulita, anche
perché
non
poteva
procurarsela. Date le sue
finanze fu costretto a
scegliere se mettere da
parte i soldi per la
biancheria
oppure
berseli, e riflettendo a
mente lucida optò per la
seconda ipotesi: senza
alcol la sua situazione
era
semplicemente
intollerabile.
In genere l’osteria era
strapiena,
sebbene
servissero solo due o tre
tipi di bevande. Lui non
riusciva
a
cogliere
differenzesostanzialitra
di esse: il solito liquore
sciropposo, dal gusto un
po’ stucchevole che si
trovava dappertutto e
che, per sua esperienza,
aveva un grado alcolico
piuttosto elevato. Nel
locale sudicio, dall’aria
viziata, pieno di fumo e
di rumore si incontrava
soprattutto chi viveva
intorno al mercato,
scaricatori occasionali e
gente della malavita,
oltre ad alcune donne
alcolizzate, dall’aspetto
equivoco e sfiorito. Di
solito
gli
avventori
trascorrevano ore intere
albanco,conilbicchiere
in mano, immersi in
lunghi discorsi, anche se
Budai nutriva il sospetto
che neppure loro si
capisseroenonfacessero
altro che parlare da soli
tra i fumi dell’alcol. A
volte la discussione
trascendeva
e
scoppiavano improvvisi
alterchi,
furibonde
polemiche
che
minacciavano
di
degenerare in risse. In
quei casi il gestore, un
nero dalle spalle larghe,
con la testa rasata, in
grembiule
verde,
accompagnava
i
disturbatori all’uscita,
oppurelisbattevafuori.
Budai si divertiva a
stare a osservare quel
che
accadeva
nella
bettola, quantomeno era
un modo di passare il
tempo. Rimaneva lì a
berefinchéglibastavano
i soldi, o fino a quando
nonsistordiva,isensisi
ottundevano, i pensieri
diventavano nebulosi,
per tornarsene poi nella
sua tana e crollare
addormentato.
Il
mattino
dopo
si
svegliava in preda ai
postumi della sbornia,
col mal di testa, un
sapore disgustoso in
boccaeunfortebruciore
di
stomaco;
ciò
nonostante la sera dopo
era di nuovo là alla
taverna.
Isuoinerviperòerano
sempre più logorati,
viveva in un continuo
stato di tensione, come
carico
di
energia
elettrica. A volte, era
sufficiente un gesto
irrilevante o anche solo
l’aspetto sgradevole di
qualcuno perché Budai
sentisse montare una
furia cieca e improvvisa:
era
consapevole
di
quanto fosse una collera
inutile e assurda, eppure
nonriuscivaasoffocarla.
Glisiannebbiavalavista,
provava
un
odio
violento, insultava il
malcapitato
e
lo
malediceva,immaginava
di picchiarlo e di
prenderlo a calci, di
gonfiargli la faccia di
schiaffi. Un giorno al
mercato, per esempio,
notòunbelragazzoaltoe
sottile,
dalla
pelle
ambrata, vestito come
un damerino, con delle
catenelle al collo e al
polso, che, a giudicare
dal movimento ritmico
della mandibola, stava
masticandounagomma.
La sola vista di quel
bellimbusto dalle ossa
sottili,
in
camicia
sportiva,
assorto
a
masticarelasuagomma,
scatenò in Budai un tale
accessodiirache,senon
avesse
temuto
le
conseguenze del suo
gesto, l’avrebbe preso a
pugniinfaccia,l’avrebbe
massacrato di botte. E,
ancora qualche giorno
più tardi, appena il
pensiero gli riandava a
quel ragazzo stava male
dallarabbia.
A suscitare la sua
colleraeranosoprattutto
ivecchi,imalati,ideboli:
si rendeva conto di
quantociòfosseingiusto
e perverso, ma non
riusciva a dominarsi. Un
giorno trovò occupato il
suo giaciglio dietro le
casse:cidormivauntizio
gracile e deforme, dai
capelli grigi, poco più
alto di un bambino, con
un paio di pantaloni di
tela blu tutti macchiati.
Budai si sentì montare il
sangue alla testa e con il
respiro
strozzato
agguantò e scaraventò
via quell’inerme relitto
umano che non tentò
neppure di difendersi...
Più tardi, assalito dal
rimorso,
partì
alla
ricerca dell’uomo per
rimediare al suo gesto
offrendogli un bicchiere,
maquelloerascomparso
senza lasciare traccia,
come tutti gli altri che
avevaincontrato.
E
ora,
ovunque
andasse, attraversava di
propositolastradaconil
rosso, buttava per terra
l’immondizia, calpestava
le aiole recintate nei
parchi e in generale
tendeva a infrangere
quanti
più
divieti
possibile,
per
un
istintivo
senso
di
ribellione: le regole e le
leggi locali non lo
riguardavano,quellanon
era casa sua, lui era uno
straniero, un nemico. E
quando qualcuno lo
spingeva nella calca, il
chesuccedevaspesso,lui
restituiva subdolamente
calci e pugni, e se non ci
riuscivatornavaindietro
ad
accanirsi
sul
colpevole, non si dava
pace finché non si era
vendicato. Danneggiava,
rovinava o spaccava
tutto quello che gli
capitava a tiro: in
un’occasione
capitò
davanti a una cabina
telefonica
isolata
e
strappòviailricevitore,e
poi
rovesciava
i
cassonetti fuori dai
portoni per spargere in
giro
la
spazzatura,
quandoerabuiolanciava
sassi contro le finestre
per rompere i vetri o
prendeva di mira i
lampionistradali.
E però non aveva
smesso di perlustrare la
città:partivadalmercato
coperto e si avventurava
in direzioni sempre
nuove.
Non
aveva
perduto la speranza di
scorgere da qualche
parte
una
stazione
ferroviaria, la posta, una
banca, gli uffici di una
compagnia
aerea,
un’agenzia di viaggi, un
punto informazioni, di
imbattersi in un suo
connazionale,
come
l’uomo in loden con la
copia di «Színházi Élet»,
o in chiunque fosse in
grado di scambiare
qualche parola in una
delle numerose lingue
che conosceva... Ogni
tanto tutto questo gli
sembrava
talmente
vicino e possibile che
non si sarebbe stupito
che accadesse girato
l’angolo. Altre volte,
invece, in preda alla
disperazione, era pronto
a fare un compromesso:
avrebbe accettato di
restare lì ancora per un
anno o due, ma anche
cinque o dieci, a
condizione di avere la
certezza di tornare a
casa. Voleva qualcosa da
aspettare,
voleva
misurare i giorni, le
settimane, i mesi che
mancavano.
Oppure da lì non c’era
ritorno?
Era
quella
l’ultima
stazione,
l’ultima Thule degli
antichi a cui doveva
approdare
ovunque
stesse andando, che
fosseHelsinkioqualsiasi
altroluogo,edoveprima
o poi tutti sarebbero
arrivati?
Laprimaveraarrivòda
un giorno all’altro. Al
mattino, quando Budai
aprì gli occhi, una lama
di luce obliqua e
tagliente penetrava nel
suo rifugio. In quella
cittàiltempoerasempre
stato uguale, grigio e
nuvoloso, e sulle prime
Budai credette che fosse
una lampadina, e solo a
poco a poco, col cuore in
festa, si rese conto che
era un caldo raggio di
sole.
Nell’aria si respirava
una specie di strana
eccitazione.
I
cani
randagi
che
si
aggiravano
sempre
intorno al mercato quel
mattino
erano
più
irrequieti del solito,
correvano, abbaiavano,
mugolavano, guaivano,
si azzuffavano per un
osso. La tiepida luce del
sole si spandeva sulla
rampa, lo scarico delle
merci era sospeso. In
lontananza si udiva una
musicaditamburi,piatti
etrombe.
Attratto dal frastuono
della banda, Budai lo
seguìebenprestoarrivò
a un ampio viale dal
qualeeragiàpassatopiù
volte nel corso delle sue
camminate. Adesso però
era molto più affollato
del solito: i marciapiedi
erano invasi dai curiosi,
mentre sulla carreggiata
un corteo senza fine
scorreva come un fiume
inpiena.
Eranobambini,maschi
efemmine,scolariconla
giacca impermeabile e
altre divise variopinte,
facevano
roteare
bacchette e volteggiare
piume colorate; con la
pelle bianca, gialla, nera
ocaffellatte,sfilavanoin
drappelli
omogenei
oppure misti. Alcuni a
passo di danza, altri su
pattini a rotelle, o
facendorimbalzarepalle,
agitando palloncini. E
reggevano
bandiere,
cartelli, striscioni con
scritteincomprensibili,e
immaginiedisegniilcui
significato
sfuggiva
totalmente a Budai:
erano stemmi, emblemi
composti
di
vari
elementi,
caricature,
pecore e volpi con testa
umana, uccelli, una
scimmia che brandiva
uno scacciamosche, una
vecchiachecadevadaun
albero, un grassone sul
ghiacciochecedevasotto
il suo peso, un neonato
dal viso rugoso che
veniva rapato... Che cosa
raffiguravano
quei
disegni? Chi prendevano
di mira? Poi vennero
delle tamburine, una
squadra di ragazze in
scintillanti
abiti
argentati, ognuna con il
suo
tamburo,
e
trombettiericonlastessa
uniforme scura dei
controllori
della
metropolitana.
E
un’intera banda di vigili
del fuoco, giovanotti col
casco rosso seguiti a
passo d’uomo dalle
autopompe con a bordo
il corpo al completo e la
scalaeretta.
Passarono uomini a
cavallo,poinecroforicon
gli stivaloni e i colletti
neri,seguitidarombanti
motociclisti
che
indossavano quella tuta
intera che portavano in
molti
–
Budai
si
domandò per l’ennesima
volta che tipo di
associazionepotessemai
essere. E camion carichi
di
bambini
che
sventolavano bandierine
strillando con le vocette
acute. Dietro di loro
veniva trainato su un
rimorchio un gigantesco
cilindro verniciato di
grigio, lungo circa una
quarantina di metri, alla
cui vista il pubblico
cominciò a mormorare,
mentreBudaisichiedeva
che cosa diavolo fosse:
unabomba,unsiluro,un
razzo, una navicella
spaziale? E poi di nuovo
musicisti, percussionisti
con strumenti simili a
xilofonievibrafoni,cori,
e il flusso del corteo che
ognitantorallentavaper
poi ripartire. Quindi
passò,dasola,unadonna
di mezz’età un po’
grassoccia, con un abito
giallo sgargiante e un
cappello in tinta ornato
di fiori, e fu accolta da
uno scroscio di applausi
e un gran vocio mentre
procedeva sorridendo e
ringraziandoadestraea
sinistra. Infermiere in
camice
bianco
spingevano paralitici e
invalidisusediearotelle,
alcuni
malati
zoppicavano reggendosi
a stampelle o bastoni, e
altri
ancora
erano
trasportatiinbarella.
E
poi
sfilarono
un’infinità di categorie,
una
più
bizzarra
dell’altra:
sportivi,
ciclisti,sollevatoridipesi
dalla
muscolatura
possente,
acrobati,
pagliacci,
gente
in
maschera – anche se
questi
ultimi
sembravano
una
componente piuttosto
esiguadiquellafesta,ma
forse il corteo confluiva
da percorsi diversi... Il
gruppo più numeroso
era
anche
il
più
sconcertante:detenutiin
divisa
a
righe,
ammanettati, a testa
china, scortati ai lati
dalle guardie in tuta
marrone, la stessa dei
motociclisti.
Questa
strana
processione
sembrava senza fine,
dietro
agli
uomini
avanzavano
più
lentamente delle donne,
sempre
vestite
da
prigioniere,
poi
dei
bambini, alcuni molto
piccoli,
ragazzini
e
ragazzine di otto-dieci
anni, tutti in abiti da
detenuto e con le
manette ai polsi. Erano
dei
veri
carcerati?
Compresi i bambini? E
dove
li
stavano
portando? O era tutta
una messinscena, uno
scherzo, o magari una
manifestazione,
una
dimostrazione – ma
contro che cosa? Le
guardieeranoarmatema
ridevano allegramente,
salutavano con la mano
gli spettatori, e questi
rispondevano.
Un
tramestio
in
lontananza preannunciò
lo spettacolo successivo:
stormi
di
uccelli
svolazzavano
e
volteggiavano sopra il
viale. Soltanto dopo un
bel pezzo si vide che
cos’era:uncamioncarico
digabbieaccatastateuna
sull’altra, che venivano
aperte una dopo l’altra,
liberandogliuccelli.Non
erano
colombe,
assomigliavano
piuttosto a storni, si
libravano con un gran
frullar d’ali, in fitti
nugoli,
cinguettando,
fischiettando e garrendo
felici per la libertà
ritrovata,siposavanosui
fili elettrici con strilli
acuti,
e
poi
all’improvviso
spiccavano il volo verso
il cielo azzurro e
infinito... Questa fu
l’attrazione che riscosse
più successo, venne
accoltaovunquedagrida
di giubilo, e anche Budai
l’ammirò incantato, con
il cuore rapito, e attese
con ansia quel che
sarebbevenutodopo.
Ma da quel momento
in poi la sfilata cambiò
aspetto.
Quattro
vegliardi barbuti vestiti
di scuro procedevano a
passolentoesolennecon
ariatetra,edietrodiloro,
in formazioni ormai
scomposte, una quantità
sterminata
e
schiamazzante di gente
comune,
un
flusso
colorato e turbinante,
come se fosse il seguito
dei vecchi saggi della
città. Alla processione si
unirono
anche
gli
spettatori che erano sui
marciapiedi,
ingrossandola
a
dismisura. Budai venne
trascinatodallafolla,ma
si
sarebbe
unito
comunque,
spontaneamente.
La moltitudine si
gonfiava sempre più e
scorrevaormaiquasiper
inerzia, non se ne
scorgevano né l’inizio né
la fine, e probabilmente
non era l’unico a non
sapere
dove
stava
andando e perché. Qua e
là
sopra
le
teste
ondeggiavano
le
bandiere e i cartelli, si
sentivanogridareslogan,
a tratti si alzavano dei
cori per cantare o
declamare
qualcosa.
Accanto a Budai un
demagogo in pullover,
con la pelle scura come
uno zingaro e madido di
sudore, urlava in un
cono
di
cartone
contribuendo
allo
strepito generale. Poco
oltre un gruppetto di
donne sia giovani che
mature ridacchiavano
scherzando fra loro.
Presero a stuzzicare
ancheBudai,unaragazza
gli fece il solletico sul
collo con un ciuffo di
piume colorate. A tratti
ondate
di
rabbia
attraversavano la folla
comeraffichedivento.
La
tumultuosa
e
caotica marea umana
sfociò in una grande
piazzarotondagiàinvasa
dalla folla, confluita da
altre direzioni. Al centro
c’eraunafontanaconun
elefante di pietra: dalla
proboscidedovevauscire
il getto d’acqua, ma ora
era spenta; la statua gli
era familiare, l’aveva
vista durante una delle
sue prime passeggiate
per
la
città.
Sul
piedistallo, appoggiato a
una zanna dell’elefante,
stava un giovane alto
con i capelli lunghi.
Indossava una camicia
nera abbottonata fino al
colloearringavalafolla:
a giudicare dai gesti
cadenzati e dalle rime
che si riconoscevano
nelle sue parole, stava
declamando una poesia.
L’assemblea lo ascoltava
mormorando
e
ondeggiandolievemente,
ogni tanto si levavano
grida di approvazione, e
alcuniripetevanoconlui
deiversichesembravano
un ritornello – ammesso
che l’interpretazione di
Budai fosse vicina al
vero. Il ragazzo con la
camicia
nera
si
accalorava sempre più, a
un tratto sferrò un
pugno nell’aria e infine
puntò il dito al cielo con
gliocchichiusi...Quando
ebbe terminato, tutti
applaudirono gridando e
lui
saltò
giù
dal
piedistallo.
Ma al suo posto venne
subitoissatounaltro,un
uomo anziano smilzo e
gracile, con i baffi
bianchi e radi capelli
grigi.
Tremava
visibilmente,
era
malfermo sulle gambe e
sorretto da altri due, gli
zigomi pronunciati e la
fronte
sporgente
si
arrossarono
appena
iniziò a leggere qualcosa
da un foglio, la voce
flebile si spezzava per
l’emozione. La piazza
ammutolì,
tutti
ascoltavano commossi
quell’uomo che pareva
godere
della
stima
generale. E solo quando
faceva una pausa e
alzava lo sguardo si
levavano
voci
di
condivisa indignazione:
si sarebbe detto che
stavaleggendoipuntidi
unprogramma,unaserie
di
rivendicazioni
o
proteste. Quel discorso
davanti a un pubblico
così
vasto
doveva
turbarlo al punto che a
tratti perdeva la voce,
ormai non riusciva più
neanche a sussurrare,
tossì a più riprese in un
fazzoletto, con il viso in
fiamme, e alla fine lo
aiutaronoascendere.
Il nero bassino in gilè,
bombetta e giacca a
quadri che si arrampicò
sulla statua dopo di lui
pronunciò in tutto sei o
ottoparole;conclusecon
una smorfia beffarda e
picchiandoilpalmodella
mano sulla proboscide
dell’elefante.
Doveva
aver detto qualcosa di
moltospiritoso,perchéil
pubblico esplose in una
risata generale. Non
volevano
lasciarlo
scendere, e il nero li
ringraziò per l’ovazione
con inchini in tutte le
direzioni
e
nuove
smorfiebuffe,chefecero
ridereancheBudai,tanto
comicaeralascena.
Prese il suo posto un
tizio occhialuto dal viso
molle e glabro. Non
appena
cominciò
a
parlare fu travolto da
fischi e urla di sdegno:
aspettòchesicalmassero
un po’ e proseguì.
Probabilmente
stava
tentandodidarequalche
spiegazione, la folla lo
scherniva e cercava di
zittirlo,mailtiziocongli
occhiali insisteva e li
invitava almeno ad
ascoltare. Arrivò quasi a
supplicarli, ma così non
ottenne altro che di
irritarli di più. Lo
insultavano,
lo
minacciavano con i
pugni
alzati,
gli
lanciarono
addosso
bottiglie vuote: le sue
parole
vennero
sommerse dal frastuono
e dai fischi. Anche Budai
era
esasperato
dall’untuosa insistenza
del tizio e gridò a gola
spiegata:
«Tiratelo giù! Basta!...
Machevuolequestoqua?
Fuori dai piedi, che vada
aldiavolo!».
Allafinealcuniragazzi
lo spinsero giù dal
piedistallo
e
lo
cacciarono:
doveva
considerarsifortunatodi
essererimastoilleso.
Seguirono molti altri
oratori, tra cui la donna
grassoccia col vestito
giallo che Budai aveva
giànotatonelcorteo.Ora
reggeva un canestro
pieno di distintivi o
coccardeelilanciavaalla
folla.Lagenteannaspava
e faceva letteralmente a
botte per acchiapparli;
Budaieratroppolontano
per prenderli, da quella
distanza vide soltanto
che erano degli affarini
neriapallinirossiorossi
a pallini neri, come le
coccinelle. La donna se
ne appuntò uno al petto
e la folla riunita nella
piazza andò in visibilio,
si levarono grida di
giubilo, tutti urlavano
evviva,pestavanoipiedi
sul
selciato.
E
cominciarono a cantare
incoro.
Poi a salire sul
piedistallo
fu
un
sacerdote con la veste
liturgica e la mitra,
simileaquellocheaveva
visto nella chiesa con la
cupola. Srotolò una
bandiera rossa e nera,
come i distintivi, a
strisce però, con al
centro
un
uccello
stilizzato ad ali aperte –
uno storno? –, era
grandissima,dasolonon
riusciva a reggerla e due
chierici lo aiutarono ad
aprirla. Il sacerdote
mormorò una breve
formula, poi gli diedero
un turibolo e lui lo agitò
verso la bandiera, e in
una nuvola di fumo
bianco la benedisse o la
consacrò... La gente lo
osservavaconcommossa
devozione.
Molti
avevano le lacrime agli
occhi, e chi riusciva
andava a baciare l’orlo
della bandiera, pregava
in
ginocchio
o
addirittura si prostrava
davantiaessa.
Si sentirono delle
sirene in arrivo, da più
lati
contemporaneamente.
Ambulanze? Pompieri?
Polizia? A quel suono la
gigantesca adunata si
riscosse e cominciò a
disperdersi
in
ogni
direzione,versolestrade
adiacenti. Il ramo del
corteo
che
aveva
trascinatoconséBudaisi
infilòsottol’ampiaporta
di un vicino bastione
merlatodovescorrevano
le auto. Al passaggio dei
manifestanti i negozi
chiudevano uno dopo
l’altro, abbassando di
schianto le saracinesche.
Lacircolazioneeraormai
paralizzata,gliautobuse
lemacchineaccostavano
al
marciapiede,
i
passeggeri scendevano e
si univano alla folla. Da
lontano
giungevano
rintocchidicampaneeil
suono continuo di una
sirena come quello che
nelle fabbriche segna la
finedelturnodilavoro.
Siritrovòneipressidel
grattacielo del quale
contava i piani. Adesso
non gli passò neppure
per la testa di farlo.
All’avvicinarsi
della
folla, gli operai scesero
dall’edificio
con
i
montacarichiocalandosi
dalle impalcature, le gru
e
le
macchine
si
fermarono, l’altissima
struttura d’acciaio e di
cemento si svuotò. Così
com’erano, con le tute
macchiate di vernice o
col berretto di carta in
testa, gli uomini del
cantiere si unirono agli
altri ingrossando la
moltitudineondosa–ma
checos’era,unosciopero
generale?
Suimuricominciarono
ad
apparire
dei
manifesti, ancora umidi,
con titoli a caratteri
cubitali,edifronteaessi
si formavano capannelli
dipersonecheleggevano
e discutevano con foga.
La corrente della folla
risucchiava tutti, quelli
che uscivano dalle case
per unirsi agli altri e la
gentechesbucavaafiotti
dalle scale gialle del
metrò.
Da
un
altoparlante una voce
gracchiò in maniera
concitata, come per dare
istruzioni urgenti. La
cosa non piacque ai
manifestanti, che si
misero a protestare, si
bloccarono indignati e a
un tratto scoppiò un
tafferuglio. Come se non
bastasse, una fiumana
che veniva da una via
laterale incrociò quella
principale, si crearono
vortici e ingorghi, le due
ali si mescolarono, si
ammassarono
e
si
pigiarono nel caos. E
dall’altoilmegafononon
smettevadigracchiare.
Il cuore di Budai cessò
dibattereperunistante:
sulmarciapiededifronte
gli sembrò di vedere
Epepe. Fu solo un
secondo, o forse meno,
nella folla apparvero la
testabiondael’uniforme
blu... Oppure erano stati
il colore dei capelli e il
vestito a trarlo in
inganno, e il pensiero
che fosse lei era solo il
frutto
della
sua
immaginazione? Perché
nonavevafattointempo
ad apparire che era già
scomparsa, e Budai
impiegò tutte le sue
energie per andare in
quella direzione ma non
la rivide più, né una
donnachelesomigliava;
certo,potevaanchedarsi
che nel frattempo lei e
quelli intorno fossero
statispintiavanti.
Eppure la delusione
non lo scoraggiò, non
aveva affatto perduto la
speranza che il caso li
avrebbe fatti incontrare
dinuovoinquelturbinio
caotico.
Anzi,
quell’episodio gli infuse
sicurezzaevogliad’agire,
desiderava
davvero
partecipare alle cose che
stavano
accadendo,
voleva andare dove
andavano tutti gli altri,
condividerne il destino,
fare sua la loro causa e
lanciarsi anima e corpo
inquell’avventura.
Decise di imparare le
canzoni. La più ripetuta
eraunamarciadalritmo
serrato, l’aveva sentita
talmente tante volte che
ormai
aveva
nella
memoria non solo la
melodia ma anche le
parole, per come era
riuscito a distinguerle
nei cori, e faceva
pressappococosì:
Cetectopadebette
Etekglöchrifefee
Bügiütignemelaga
Pecice...!
Laparolafinaleveniva
urlata in modo secco,
come un colpo, con
rabbia
o
allegria.
Ripetevano questo canto
in continuazione, e in
maniera martellante –
era una provocazione,
una minaccia, o fino a
quel momento era una
canzone proibita? Il più
esaltato era un ragazzo
ossuto con una folta
zazzera:ognivoltachela
canzone finiva lui la
ricominciava da capo,
dava l’attacco con le sue
lunghe braccia e quelli
attorno gli andavano
dietro.
Erano
come
inebriatidalcantoedalla
loro voce, e tutti,
compreso
Budai,
condividevano la stessa
sensazione:
stavano
facendo qualcosa di
grande e di importante.
Questa euforica certezza
si diffondeva tra di loro,
la certezza che uniti,
tutti insieme, erano più
forti,chenessunopoteva
fermarli, si sentivano
invincibili – e questo li
riempiva di una gioia
selvaggia, gli estranei si
abbracciavano
e
si
baciavano,danzavano,si
scatenavano,
quasi
volteggiavano
a
mezz’aria.
A fianco di Budai una
ragazza in un abito
argentato, con la pelle
ambrata e i capelli neri
crespi come la lana
suonava il tamburo:
doveva far parte del
gruppoditamburineche
prima sfilava in ordine
nel corteo, formato da
ragazze vestite tutte
uguali, che poi si era
sciolto e mescolato agli
altri. Non aveva più di
quindici anni e batteva
sul tamburo con una
foga instancabile, sul
viso le si leggeva un
entusiasmo
che
rasentava l’estasi, e
mentrealzavalosguardo
verso un vago punto
lontano mostrava il
biancodegliocchi.Budai
non poté reprimere il
pensiero che quella
ragazzina,
se
fosse
giunto il momento,
avrebbe sacrificato la
propria
vita
senza
esitazione.
Lì vicino avevano
innalzato una barricata.
Avevano
divelto
la
pavimentazione
stradale, portato dei
mobili dalle case vicine,
perfino
credenze
e
pianoforti, e sparso
sabbia e ghiaia: avevano
costruito
uno
sbarramentoaltoelargo,
in cima al quale era
piantataunabandiera.
All’angolosuccessivoil
passaggio nella traversa
era sbarrato da uomini
con la solita uniforme di
tela: una schiera di
soldati armati. La folla
scorreva accanto a loro,
un gruppo di giovani
donne però si fermò a
stuzzicarli.
Si
avvicinarono
applaudendo
e
muovendo
passi
di
danza,sordealleurladel
comandante
che
ordinava loro di star
lontano,
appuntarono
fiori ai berretti dei
ragazzi, e quando questi
imbracciarono i fucili ne
infilarono anche nelle
canne. Si aggiunsero
altre donne, offrirono ai
soldati
sigarette
e
prodigarono
abbracci,
pacche sulle spalle e
strette
di
mano,
sorridendo e vociando.
Con
tutte
queste
manifestazioni
di
amicizia, nel giro di due
minuti l’intera pattuglia
venne disarmata. La
strada bloccata si aprì e
lamoltitudine,compreso
Budai,visiriversò.Anzi,
gran parte del drappello
militareappenascioltosi
unì al corteo, gli uomini
in tuta ridevano e
cantavano insieme agli
altri. Qua e là, si
vedevano alcuni civili
con in spalla i fucili
sottrattiaimilitari.
Poi giunsero in una
viuzza stretta dove una
folla rumorosa occupava
la carreggiata. Erano
concentrati davanti alla
facciatagrigiaeanonima
di un grande edificio di
quattro piani, le cui
finestreeranogremitedi
curiosi, e anche le case
dirimpetto, più basse,
brulicavano di persone
come un formicaio.
Budai si spinse fin sotto
il palazzo grigio: il
portoneerachiuso,coni
pesanti battenti di ferro
sprangati. Davanti, un
mezzo cingolato da
combattimento
impediva il passaggio
con la sua massa
d’acciaio.
Non capiva bene che
cosa stava succedendo:
entrò in una delle basse
casedifronte.L’androne,
le scale e i ballatoi sul
cortile interno erano
affollati, e nessuno gli
chiese
dove
stava
andando.
Salì
indisturbato
fino
all’ultimo piano, spinse
una porta socchiusa ed
entrò
in
un
appartamento che si
affacciava sulla strada.
La stanza era stipata di
gente,erachiarochenon
tutti abitavano lì, anzi, i
veri
occupanti
dell’appartamento forse
non erano neppure
presenti. Arrivò sul
balcone e si sporse a
guardare,
in
basso
ondeggiava una folla
densa e torpida; da lì
vedeva bene anche le
case
accanto,
tutte
straripantidipersone.
Di fronte, al primo
piano dell’edificio grigio,
dei
tecnici
stavano
installando
un
altoparlanteallafinestra,
con la tromba rivolta
verso la strada. In basso
la folla si era un po’
sedata ma li osservava
con tangibile sospetto,
gridando ogni tanto
qualche frase di ironico
incoraggiamento.
Un
ronzio e uno sfrigolio
indicarono
che
l’altoparlante era acceso,
e l’apparecchio cominciò
afischiareeagracchiare.
Quando
i
rumori
d’interferenzacessarono,
una voce femminile
rapida e agguerrita
scandì qualcosa, poi
seguìunapausa,qualche
secondo
di
silenzio
pesante, e infine un
colpo di gong. Dopo di
che una voce maschile
più
profonda
e
cavernosa,
lenta
e
solenne,annunciò:
«Cetencia...».
Questa prima parola
suscitò delusione: venne
accolta da un coro
irritato di fischi e buu.
Accanto a lui, la ragazza
nera alta e snella agitò
furiosa il pugno dal
balcone.Lavocediprima
ripeté in tono un po’ più
incerto:
«Cetencio...».
Non poté proseguire
per l’ondata di protesta
che esplose con forza
elementare. Un mattone
volò verso l’edificio
grigio, lanciato con ogni
probabilità dalla casa
dove si trovava Budai:
colpì
il
muro,
si
frantumò nell’impatto e
cadde a terra in pezzi. Il
secondomattonefinìsul
davanzale della finestra,
il terzo invece centrò in
pieno
la
tromba
dell’altoparlante,
che
tacque. Tutte le finestre
intorno si svuotarono, i
curiosi si ritrassero
all’interno. Davanti al
portone il carro armato
accese
il
motore
rombando,
fece
un
mezzo giro sui cingoli e
dalla torretta d’acciaio
uscì
minaccioso
il
cannone.
I
pedoni
arretrarono, ma non
troppo, restarono nei
pressi
del
veicolo
corazzato
tuonando
contro
l’equipaggio
invisibile,lamanoalzata
come in un giuramento.
Poi ricominciarono a
cantarequellamarcia:
Cetectopadebette
Etekglöchrifefee...
Illanciodimattoninel
frattempo
non
era
cessato, e quando Budai,
spinto dall’inquietudine,
corsegiùdallescale,vide
nel cortile dei grandi
mucchi di mattoni, che
servivano da munizioni:
una catena umana se li
passava di mano in
mano
fino
agli
appartamenti
che
davanosullastrada.
Uscendo dalla casa,
notò all’angolo alcuni
camion
che
trasportavano uomini in
uniforme.
Arrivavano
pianissimo, suonando il
clacson, cercando di
incunearsi in mezzo alla
folla che non voleva
aprire loro il passaggio.
Un uomo alto e dal
portamento fiero saltò
sul tetto della cabina del
primo veicolo: doveva
essereunufficiale,anche
se indossava la tuta
senza mostrine come
tutti. La sua voce dal
timbro metallico giunse
lontano, sovrastando il
frastuonogenerale.Disse
pochefrasibrevi,intono
militaresco,
accompagnate da gesti
delle braccia duri e
decisi: presumibilmente
stava
ordinando
ai
disturbatori
di
disperdersi.
Ma
fu
investito da urla di
contestazionedapartedi
una folla sempre più
ostile e inquieta, e gli
tiraronoaddossoperfino
un mattone. Sebbene
l’avessero mancato di
poco l’ufficiale non
mostrò alcuna paura,
gettò uno sguardo di
disprezzo nella direzione
da cui era partito il
lancio e scese dalla
cabina con aria che non
prometteva niente di
buono.
Gliuominiinuniforme
saltarono
giù
dai
camion, formarono un
cordone da una parte
all’altra della strada e
cominciarono
a
respingere la massa. Il
loro numero però era
talmente
esiguo
in
confronto a quello dei
manifestanti che con la
sola forza fisica non ce
l’avrebbero mai fatta,
neanche
caricandoli.
Allora
provarono
a
disperderli
con
gli
idranti, dirigendo a
ventaglio
il
getto
d’acqua: quelli in prima
linea,
inzuppati,
si
spostavano
indietro
fradici e gocciolanti. Ma
un
mattone
ben
assestato colpì la mano
del
soldato
che
impugnava l’idrante e
danneggiòlapuntadella
bocchetta.
Imilitaririsposerocon
dei fumogeni, che si
rivelaronopiùefficaci:la
gente si disperse e si
ritirò, poi si mise a
correre per sfuggire alle
nuvole bianche che
esplodevano qua e là.
Budai era abbastanza
lontanodanonsubiregli
effetti del fumo, ma
venne travolto dal fuggi
fuggigenerale.Svicolòin
una traversa e corse
lungolarecinzionediun
parco,finoall’angolo.
Mentre
riprendeva
fiato,
notò
una
saracinesca abbassata a
metàsottolaqualemolti
siinfilavano.Sichinòper
sbirciare dentro, per
curiosità,
quindi
vi
entrò:
dei
gradini
illuminati
da
nude
lampadine conducevano
a
un
tiepido
seminterrato in cui
aleggiava un vago odore
dicanapa.Dovevaessere
il deposito di un negozio
dicordeeteloni:lungole
paretiimbiancateacalce
erano allineate pile alte
fino al soffitto di sacchi
ripiegati, rotoli di tela,
corde, sugli scaffali
tantissimirocchettitutti
ugualidispagoenastro...
Epoivideunmucchiodi
gente: uomini, donne,
ragazzi; sulle prime
Budai non capì che cosa
stavano
facendo.
Volevano portarsi via la
merce? A che scopo si
eranoraccoltilì?
A sinistra si apriva un
locale
più
piccolo,
anch’esso
pieno
di
persone. Dovette alzarsi
in punta di piedi per
vedere al di sopra delle
teste che cosa facevano.
Un uomo in giacca di
pelle, con una faccia
lunga e giallastra e baffi
spioventi, prendeva dei
mitra da una cassa e li
distribuiva:dicevapoche
parole a ognuno, gli
stringeva la mano e gli
consegnava
l’arma.
Alcuni
indossavano
uniformi, quelle che
Budai aveva già visto:
controllori, ragazzi e
ragazze
in
giacca
impermeabile verde, le
solite giubbe di tela,
perfino un vigile del
fuoco. Gli altri erano
comunque in tenuta da
combattimento,
un
bizzarro misto di abiti
civili e militari, stivali,
giacche di feltro con
l’interno di pelle di
pecora,
impermeabili
mimetici, bandoliere e
cinture portamunizioni,
colbacchioberrettirigidi
da poliziotto. C’erano
addirittura due uomini
rapati a zero in divisa a
righe da galeotto, come
quelli
che
avevano
sfilatolamattina–erano
due
di
loro,
o
manifestanti travestiti?
Oeranoduecondannati?
E condannati per cosa?
Per reati comuni? O
prigionieri
politici?
Eranoevasi?
A quanto sembrava,
Budaieracapitatoinuna
delle
basi
della
sommossa
che
era
scoppiata nella zona o
forse nell’intera città;
tutto
l’andirivieni
sembrava
confermare
questa ipotesi. Più tardi
arrivòanchedabere,una
piccola botte fu fatta
rotolare pian piano sui
gradini. Fu accolta da
risate e grida di gioia e
presa
d’assalto.
La
stapparono
e
ne
versaronoilcontenutoin
gavette e bottiglie, che
poi passavano di mano
in mano. Anche Budai
bevve un sorso: questo
nonerailsolitointruglio
dolciastro servito nelle
bettole,
ma
vera
acquavite di vinaccia,
cosìfortechedavasubito
allatesta.
Conl’arrivodellabotte
sceseroaltrepersone,tra
cui una strana ragazza
dall’aspetto deforme e
armata di mitra. Teneva
la schiena curva, o forse
era gobba, il collo
incassato nelle spalle,
aveva la fronte bassa, la
facciapiattacomequella
di
una
scimmia,
un’espressione ebete e
una luce opaca negli
occhi mentre si aggirava
guardinga
per
il
seminterrato.
Non
bevevainsiemeaglialtri,
non parlava e non
rideva,misuravaillocale
con un passo lento e
felpato,
un’aria
misteriosa, squadrava
tutti in modo ambiguo,
come a caccia di
qualcuno, o come se
fosse finalmente il suo
momento, ora che aveva
un’arma a disposizione –
ma da dove era saltata
fuoriquella?
Nel
bel
mezzo
dell’allegrabevutafeceil
suo
ingresso,
quasi
inavvertito, un giovane
biondo. Per meglio dire,
la sua presenza si notò a
scoppio ritardato perché
uno
dopo
l’altro
ammutolirono al suo
cospetto. Si fermò sui
gradini senza dir nulla,
immobile, e guardava in
basso strizzando gli
occhimentresiabituava
alla penombra. Doveva
avere circa venticinque
anni, aveva le labbra
sottili ed esangui e gli
occhi
grigio-azzurri,
comeilghiaccio;portava
un vecchio berretto
sciupato, gli anfibi, una
tuta verdastra con una
cintura portamunizioni,
la mano destra era
posata sul fodero della
pistola.
Quando
il
silenzio fu totale si
inoltròinmezzoaglialtri
e sempre senza dire una
parolastrappòlagavetta
a un ragazzo che stava
per bere. L’acquavite si
versò sul pavimento,
quello
fece
per
riprenderelasuagavetta
ma il nuovo venuto gli
diedeunoschiaffo.
Questo era un giovane
robusto e armato, ma
non tentò di restituire
l’offesa né di difendersi.
Nessuno mosse un dito,
molti arretrarono e
perfino la ragazza dal
viso
scimmiesco
si
irrigidì... Il biondo si
strinse la cintura in vita
eruppeilsilenzio.Parlòa
voce bassa, in tono
distaccato, e scandiva
con una tale chiarezza
che per una volta Budai
riuscìadistinguerequasi
tutto,
e
suonava
all’incircacosì:
«Deperetj
glütt
udjurumba?» – e si voltò
attorno
con
aria
interrogativa. Gli altri
non lo guardarono, la
maggior parte abbassò
gli occhi. «Begec alaulp
atipatitjapp?»proseguì,e
poi
ripeté:
«Atipatitjapp?...
Atipatitjapp?...». L’uomo
coi baffi e il viso
giallastro in giacca di
pelle che distribuiva i
mitra
cercò
di
interloquire,
ma
il
biondo gli fece cenno di
tacere e con la stessa
noncuranza, come di
sfuggita, gli disse: «Je
duruntj...».
Parlò per due o tre
minuti,
in
tono
monocorde;
gli
ascoltatori,
disposti
intorno a lui, parevano
sempre più convinti, lo
ascoltavano
senza
fiatare. Finì con una
domanda,
alzando
appena il tono di voce
sull’ultimasillaba:
«Eleedje
kurupudu
dibadi?... Dibadi, aka
teresce
mutju
lolo
dibadi?».
«Dibadi!
Dibadi!...»
gridarono tutti insieme
conentusiasmo.
Nessuno pensò più
all’acquavite e uscirono
in strada. In quel
momento passavano dei
carri armati, con un
frastuono
assordante:
erano aperti, carichi di
uomini in uniforme.
Quelli del magazzino si
riversarono
nella
carreggiata,
circondarono i blindati e
vi si arrampicarono, con
il ragazzo biondo in
testa.Siripetélascenadi
poco prima: cominciò
una
discussione
animata, i civili si
rivolgevano ai militari,
gesticolando.
Questi
ultimi
sembravano
molto
turbati
da
quell’assaltospontaneo,i
carri si fermarono e
dall’interno sbucarono
altri
soldati
con
l’elmetto. Uno di loro si
tolse
un
auricolare
dall’orecchio – doveva
essere il comandante –,
alzò il braccio per
chiedere
silenzio
e
domandò qualcosa. Gli
risposero
in
cento
agitando i berretti, e lui
scesenellatorretta.Dopo
qualche istante riemerse
conlatestaedissesolo:
«Budjurim».
Scoppiarono grida di
gioia, tutti acclamarono
il comandante. Spuntò
una bandiera, anch’essa
a bande rosse e nere, e
tra evviva e applausi
venne issata sul primo
carro della colonna. Poi
si mossero, i cingoli
scricchiolarono,popoloe
carri
avanzarono
insieme nella stessa
direzione,cheeraancora
il palazzo grigio, ma
stavolta
il
retro
dell’edificio. Trovarono
una gran folla, i militari
non dovevano essere
riusciti a sgomberare la
zona oppure la gente era
ritornata. E anche da
questo lato alle finestre
si affacciavano tanti
curiosi,unmistodicivili
e militari, com’era nelle
strade. Budai cercò di
non perdere di vista il
giovane
biondo,
seguendocongliocchila
tuta
verdastra.
La
ragazza gobba armata di
mitra, invece, non si
staccava da Budai, lo
tallonava con il suo
passosilenzioso.
A quel punto si
sentirono degli spari,
qualche colpo isolato e
poi raffiche. Da dove si
trovava Budai non si
capiva
se
avessero
cominciatodall’internoo
dall’esterno del palazzo.
Forse
dall’edificio
avevanosparatodeicolpi
di avvertimento e gli
assedianti
avevano
rispostocontirimirati,o
viceversa. Ma ormai non
faceva molta differenza:
c’eranocosìtantearmiin
giro e il clima era così
rovente che prima o poi
le
cose
sarebbero
inevitabilmente
precipitate.
Dovevano
esserci dei tiratori anche
sui tetti. Poi al crepitio
acuto degli spari si
mescolò una linea di
basso di esplosioni più
gravi e cupe: erano i
cannonideicarriarmati.
Un pezzo di muro grigio
si staccò e cadde sul
selciato, lasciando un
ampiobucorotondo.
Dall’interno risposero
con
raffiche
di
mitragliatrice
che
piovvero come grandine
pertuttal’ampiezzadella
strada. Si scatenarono il
panico e il caos, la
moltitudinesisparpagliò
di colpo, tutti fuggivano
terrorizzati
cercando
riparo dove potevano,
nei portoni dei palazzi,
dietro le auto in sosta, i
cassonetti
dell’immondizia,
le
colonne per le affissioni,
oppure si gettavano
proni davanti ai negozi
chiusi.
Quando
la
carreggiata fu deserta,
parecchi giacevano a
terra, immobili, oppure
strisciavano
tra
i
lamenti. Una donna
ferita
piangeva
e
implorava
aiuto.
Dall’altopartìunanuova
raffica.
Il piccolo gruppo al
quale Budai si era unito
cercòrifugiotraipilastri
anneritidalfuocodiuna
casa in rovina. Budai
tremavaintuttoilcorpo,
ribollivadirabbiadentro
di sé, provava un
impotente desiderio di
vendetta, sentiva l’odio
salirgli in gola simile a
un conato di vomito,
urlavainsiemeaglialtrie
malediceva il nemico
invisibile, li chiamava
assassini,
assassini
sanguinari. Ma alla
raffica successiva fu
assalito da un tale
terrore che si precipitò
come un pazzo dentro
quella casa e, attraverso
un dedalo di muri
fuligginosi,
cercò
disperatamente
un’uscita posteriore da
cuifuggireilpiùlontano
possibile e non sentire
piùilcrepitiodellearmi.
I resti della casa
testimoniavano
una
catastrofe precedente,
non era stato un
semplice
incendio
perché l’intonaco nudo e
affumicato
era
scheggiato dai proiettili;
doveva essere stata
colpita dalle bombe,
dall’artiglieria, da un
combattimento
ravvicinato, e alla fine
erastataincendiata–ma
in che occasione? Che
cosa era successo? Un
assedio, una guerra, una
rivoluzione? E chi aveva
combattuto,controchi,e
quando,achescopo?
Aveva quasi trovato il
modo di uscire: doveva
solo scendere alcuni
gradini e dopo un
corridoio a cielo aperto
sarebbestatofuori.Main
quel momento sentì una
voce e qualcuno lo
trattenneperilcappotto.
Sivoltòsobbalzando.Era
ilgiovanebiondo,chegli
fececennodiavvicinarsi.
Budai si bloccò, non
capiva dove lo stava
chiamando e perché. Il
giovane gli tese un
revolver, poi, vedendo
che non reagiva, glielo
schiaffò
in
mano...
All’improvviso
fu
assalito dalla vergogna:
quel gelido sguardo
grigio-azzurro gli aveva
letto
nel
pensiero.
Avrebbe
voluto
spiegarsi, ma come
poteva, e poi non c’era
nemmeno il tempo. Così
guardò
la
pistola,
soppesandola, e annuì
conariaimbarazzata,per
dire che sì, va bene, era
conloro.
Giunserofurtivamente
fino alla strada che
costeggiava il palazzo
grigio, a sinistra della
facciata
principale.
Sull’altro
lato
della
strada
c’era
una
costruzione
più
moderna, rotonda, di
colore chiaro, una specie
di torre, e corsero in
quella direzione. Una
rampa larga quattro o
cinque
metri
si
avvolgevaaspiraleverso
l’alto, per dieci o dodici
piani:eraunparcheggio,
unastrutturamodernae
leggera in grado di
contenere
un
gran
numero di automobili.
Nonsimuovevanessuna
macchinaalmomento,la
struttura era presidiata
da uomini armati come
loro,egliscontriafuoco
si erano ormai estesi a
tutta la zona. Sparavano
dadovepotevano,dietro
il parapetto della rampa,
leauto,qualunquepunto
offrisseprotezione.
Salirono lungo il lato
interno della rampa,
tenendosi più indietro
rispettoallepostazionidi
tiro, poi infilarono delle
scale. I combattenti si
erano impadroniti del
parcheggio,
avevano
depositidimunizioni,un
serviziodicollegamento,
avevano appeso in giro
cartelli scritti a mano e
frecce,
e
perfino
organizzato un locale di
pronto soccorso per i
feriti. Il ragazzo in tuta
verde,
dopo
veloci
scambi di parole con
altre persone, li guidò
all’ultimo piano, e poi
più su, in una specie di
sottotetto
a
volte
multiple dal quale si
aprivano delle piccole
bocchette
d’aerazione
verso la strada. Da
quell’altezza si poteva
mirareversoilbasso,sul
tetto del palazzo di
fronte.
La
ragazza
taciturna dal muso
scimmiescosiaccovacciò
subito presso una delle
aperture e cominciò a
farefuoco.
Del
gruppetto
facevano parte anche il
ragazzo che si era preso
lo schiaffo, il baffuto in
giacca di pelle, il vigile
del fuoco con l’elmetto
rosso e uno dei detenuti.
Alla piccola squadra
improvvisata si erano
uniti alcuni militari
passati dalla parte degli
insorti e una decina di
civili armati di fucili o
mitra che dovevano
essersiaggregatilungola
strada.Traloroc’erauna
donna, una nera robusta
di una certa età,
senz’armi, con un gran
sorriso allegro stampato
sulla faccia larga... Il
comandante, su questo
non c’era dubbio, era il
biondo in tuta: dirigeva
la squadra con naturale
autorevolezza e indicava
aognunoisuoicompiti.
Rimasero
in
quel
sottotetto
tutto
il
pomeriggio e la sera, a
spararesulpalazzogrigio
di fronte. Budai non
avevanessunapraticadi
armi da fuoco, e così gli
mostrarono
come
funzionava il revolver e
come si ricaricava, ma
anche
dopo
le
spiegazioni sparò alla
cieca,senzaconvinzione.
Le finestre di fronte si
eranospopolate,maogni
tanto
riappariva
qualcunoperprenderela
mira.Sicapivacheerano
tantissimi e di etnie
diverse,
esattamente
come i combattenti
dell’altro fronte: dunque
ilconflittononparevadi
naturarazziale.
Accaddero
ancora
molte cose quella sera,
era
difficile
non
mescolarle
insieme.
Spararono,siriposarono,
ripresero
a
sparare
dandosi il cambio alle
varieaperture.Qualcuno
portò da mangiare, una
specie di zuppa di carne
speziata ma dolciastra, e
del pane nero da
caserma. Uno dei loro,
un ragazzo in giacca
impermeabile,
venne
feritoecaddeall’indietro
sbiancando
all’improvviso.
Non
gridò, ma dalle labbra
serrate e dallo sguardo
convulso
si
capiva
quanto stava soffrendo;
lo portarono via in
barella.
Budai riuscì anche a
dormireunpaiod’ore,in
un giaciglio approntato
in un angolo del
sottotetto, sopra dei
trucioli di plastica. La
ragazza dall’aria balorda
gli rimase appiccicata,
ancheinquell’occasione.
Non gli parlò – non la
sentì mai dire una
parola,chefossedavvero
muta? –, si limitò a
fissarlo
con
un’espressione ottusa,
con insistenza, sdraiata
su un fianco con il
gomitopuntatoaterra,e
senza abbandonare il
mitra:checosavolevada
lui? Budai sentiva una
strana
inquietudine,
anche nel dormiveglia,
un torbido senso di
colpa: perché si trovava
lì, che cosa ci facevano
insieme, che cosa poteva
maiaveredaspartirecon
una mentecatta del
genere...? Poi gli sembrò
di tenerla tra le braccia,
di stringerla con cruda e
turpe libidine, malgrado
lo sgradevole puzzo di
sudore della ragazza e in
mezzo
al
fragore
incessante
della
battaglia. E aveva paura
che il giovane in tuta
verde lo punisse, che
cosa sarebbe successo se
li avesse sorpresi in
quell’angolo buio? –
certo, forse tutto questo
erasoloilfruttodellasua
immaginazione,
una
proiezione
dei
suoi
istinti
sconvolti
e
degenerati. Più tardi un
boato enorme scosse il
sottotetto, come se fosse
cadutaunabombaouna
granata
–
o
era
un’allucinazione?
Quest’ultima,
come
poté constatare, non se
l’era inventata: alle
prime luci dell’alba,
quando abbandonarono
il parcheggio, vide che
nei muri si erano aperte
enormi crepe, e la
maggior parte delle auto
era andata distrutta. Il
palazzo grigio di fronte
aveva subìto danni
ancorapiùgravi,aiquali
avevano contribuito i
cannonideicarriarmati:
la
facciata
era
attraversatadaunampio
squarcio, uno degli
angoli
era
completamente crollato,
e
numerose
lesioni
ancora
fumanti
lo
deturpavano.
La sua squadra si recò
all’ingresso principale
delpalazzoassediato:era
evidente che gli attacchi
dei ribelli ormai si
concentravanolì.Ilcarro
armato che proteggeva
l’ingressodelpalazzoera
bruciato, con la torretta
piegata da un lato e i
cingoli divelti. I più
audaci lo usavano come
copertura e vi si
appostavano dietro per
sparare; poi, con sforzi
immani e voci di
incitamento, riuscirono
a
smuovere
quella
pesantemassad’acciaioe
la spinsero come ariete
contro
il
portone
sprangato e crivellato di
colpi,
bloccato
dall’interno con puntelli
esacchidisabbia.
Non
cedette
facilmente: il gigante
corazzato
ci
sbatté
contro dieci o quindici
volte,
tra
le
urla
d’incoraggiamento
generale, ma i pesanti
battenti di ferro si
incurvavano per poi
tornare
com’erano.
Lanciarono delle bombe
amano,locolpironocon
raffiche che produssero
un gran fumo e un
rumore assordante, e
finalmentefecerosaltare
icardini.Quandolanube
di polvere da sparo si
dissolse, bastò un’altra
spintaeilportonecrollò.
Con grida di trionfo la
moltitudinesiaffollòper
entrare, esortando quelli
delle prime file nella
speranza di trovare via
liberadentroilpalazzo.
Ma
il
passaggio
nell’androneerasbarrato
da ranghi serrati di
uomini in uniforme, la
stessa da una parte e
dall’altra – o forse c’era
effettivamente
una
differenzanellelorotute
o in certi dettagli che lui
non riusciva a notare?
Come
videro
le
mitragliatrici e i fucili
d’assalto gli attaccanti si
bloccarono. Budai non
era fra i primi, ma si
trovava
abbastanza
vicino per avere una
buona
visione
del
campo. Dall’interno una
voce rauca e quasi
soffocata
intimò
qualcosa,
di
sicuro
l’ultimo avvertimento.
Ma il fronte degli
attaccanti non avrebbe
potuto
retrocedere
nemmeno se avesse
voluto, poiché alle loro
spalle c’era un’orda di
gente che spingeva per
entrare:
a
breve
sarebbero
inevitabilmente
finiti
addossoaidifensori...
Un fuoco di fila. Urla,
ruggiti, caos. E ordini
strillati, quasi cantati. E
poiunaltrofuocodifila,
che
passò
rasente
l’orecchio di Budai. Ma
era troppo tardi per
fermare l’avanzata, la
genteeracomeunfiume
in piena, una corrente
inarrestabile
che
travolgeva e calpestava
tuttoetutti,feriti,morti,
difensoriarmati:alterzo
ordine
di
fuoco,
un’ondata umana crollò
nell’androne... Il ragazzo
biondovicinoalui,tutto
infervorato e arruffato,
fendeva con la rivoltella
in pugno il turbine di
corpi mentre con la
mano sinistra faceva
cenno ai compagni, li
chiamava a gran voce,
ma nel boato del
combattimento
si
vedeva
solo
il
movimento delle labbra.
Budai lo seguiva in una
nebbia rossa, in preda a
una sorta di ebbrezza
nella quale non aveva
più paura di niente,
abbandonandosi
al
piacere
sconosciuto
dell’assalto,conunasola
certezza:
dovevano
passare. Accanto a lui la
ragazza gobba dal muso
scimmiesco si portò la
manoallaspallaecadde,
ma Budai non si curò di
lei, si buttò in avanti
nella calca, assalì gli
uomini armati di fucili,
lottando corpo a corpo e
urlando insieme agli
altri, con una voce
strana, che non aveva
mai sentito uscire dalla
propriagola.
Di colpo ci fu un
cedimento in avanti e si
ritrovarono nel piccolo
cortiledipietra.Avevano
sfondato
le
linee.
Quando si voltò a
guardare, l’androne era
completamente invaso
dalla folla densa e nera
che era dietro di loro: a
una simile superiorità di
numero
non
era
possibile resistere. I
difensori
erano
scomparsi,
la
moltitudine vittoriosa
correvainebriatasuegiù
per l’edificio. C’era una
scala in un angolo del
cortile, Budai salì di
corsaalprimopiano,poi
al secondo, eccitato e
curioso di vedere quel
che avrebbero trovato,
ora
che
avevano
finalmente
raggiunto
l’obiettivo.
Ma
non
c’erano che corridoi e
porte, stanze arredate
come uffici, e gli
occupanti stavano già
frugando
ovunque,
mettevano
tutto
a
soqquadro, rovesciavano
le
suppellettili
e
sparpagliavano
i
documenti, il pavimento
era ricoperto di carte. Il
palazzo pullulava di
gente, in divisa e in
borghese, con o senza
armi, alcuni erano feriti
e bendati, e lui non
distinguevapiùfrachisi
trovava già dentro e chi
era venuto da fuori, e
comunque che cos’era
quel palazzo, e perché
avevano
dovuto
occuparlo?
Un
uomo
venne
condotto con violenza
lungo il corridoio. Era
scortato da due figuri
armati di mitra, i molti
che lo seguivano e quelli
che incontrava al suo
passaggio cercavano di
afferrarlo,diprenderloa
calci, a pugni, lo
insultavanopienid’odio,
lo minacciavano, gli
uomini
col
mitra
faticavano a difenderlo.
Era alto, dal portamento
marziale, con la tuta a
brandelli, la testa e la
camicia insanguinate, e
si proteggeva gli occhi
con il braccio piegato.
Una ragazzina esile e
bionda,
con
lunghi
capelli d’angelo, si fece
agilmente
largo
attraverso il cerchio di
persone
che
lo
circondava e gli sputò in
faccia.
Avevano fatto altri
prigionieri e ora li
stavano portando giù
all’ingresso. Una donna
veniva trascinata per i
capelli: si dibatteva,
lottava con le unghie e
coi denti. Quando la
costrinsero
a
inginocchiarsi, lei aprì le
braccia,simiseagridare
e a piangere, come a
chiedere
pietà.
Le
strapparono di dosso la
gonna, poi le mutandine
rosa, e così mezza nuda
la trascinarono giù dai
gradini.
In quel tumulto anche
Budai si ritrovò sotto
l’androne, dove erano in
corso
la
vendetta
selvaggiaeiregolamenti
diconti:unodopol’altro,
uomini e donne, già
malmenati e incapaci di
reggersi
in
piedi,
venivano condotti a
forza all’ingresso del
palazzo e dati in pasto a
una folla assetata di
sangue e pronta a
linciarli. Quello che
Budai non capiva era in
base
a
che
cosa
scegliessero uno o l’altro
in quel caos generale. È
vero che la maggior
parte aveva la tuta di
tela, ma quella la
portavano
anche
parecchi tra i giustizieri
del popolo; non riusciva
a venire a capo della
questione della divisa.
Furono consegnati dei
civili, delle donne, e poi
ancoraun’interasquadra
di uomini in uniforme –
era evidente che nella
scelta interveniva anche
ilcaso,oltrechelarabbia
del momento, accuse
sommarie e una cieca
isteriacollettiva.
Ed era come se la
composizione
dei
partecipanti
fosse
cambiata: non vedeva
più in giro quelli con cui
avevacombattuto.Erano
invece comparsi dei
figuri
loschi
che
dirigevano le operazioni
e si distinguevano per la
loroferocia.Peresempio,
un uomo barbuto con
l’aria da farabutto, una
faccia piena di cicatrici
che
gli
sembrava
stranamente familiare,
voleva impiccare un
prigioniero.
Il
malcapitato era in fin di
vita, l’avevano mezzo
spogliato, gli avevano
tolto gli stivali, legato le
caviglie e l’avevano
appesoatestaingiùaun
lampionenellastrada,di
fronte al portone, tra
ingiurie, sghignazzi e
deliranti
grida
di
incitamento.
Alcuni uomini armati
si
stavano
però
indignando,
erano
evidentemente contrari,
avrebbero
voluto
staccare il corpo dalla
corda.
Un
ragazzo
dall’aria
assennata,
probabilmente
uno
studente, tentava di
dissuadere le persone
intorno a lui dal
commettere
altri
assassini, mentre faceva
scudocolsuocorpoadue
nere di mezz’età, forse
due donne delle pulizie.
Con scarso successo,
perché la marmaglia
inferocitalofischiavaeil
barbuto dalla faccia
sfregiata
lo
scostò
ruggendo:
«Durung!».
In quell’istante Budai
lo riconobbe: era il suo
compagnodicella,quella
specie di cantante lirico
fallito che per tutta la
notte non aveva fatto
altro che parlare; o
quantomeno
gli
somigliava parecchio...
Eraunaveracanaglia,un
caporione, provava un
piacere perverso nel
compiere violenze: con
una spranga di ferro
colpì alla nuca un
soldato
prigioniero.
L’uomo si accasciò a
terra e lui gli si buttò
sopra, gli puntò le
ginocchia sul petto e lo
trafisse ripetutamente
con
il
coltello
a
serramanico,
affondandolo nel collo e
nei genitali, mentre la
vittimascalciavaancora.
Poi portarono della
benzina,glielaversarono
addosso e gli diedero
fuoco: il corpo arse fino
ad
annerirsi
completamente,
emanando un odore di
carnebruciata.Questafu
una delle tante atrocità
checommisero.
Nel frattempo era
tornatoilgiovanebiondo
intutaverde.Insiemead
altri quattro o cinque
compagni
si
era
presentato
fuori
dall’edificio, come se
qualcuno
l’avesse
chiamato.
Quando
apparve,
i
fanatici
sanguinarisifermarono,
non era chiaro se perché
lo consideravano il loro
capo o perché la sua
mera presenza incuteva
un timore reverenziale...
Siavvicinòaiprigionieri,
che
subivano
con
rassegnazione la loro
sorte,
scacciò
la
marmaglia
che
li
circondava, sferrò anche
un calcio nel sedere al
barbuto,chefinìcolnaso
per terra suscitando lo
scherno generale. Tra i
prigionieri scelse quelli
indivisaerivolseloroun
secco
comando:
lentamente,
controvoglia,
gli
obbedirono. Li mandò
verso il muro, la folla si
ritrasseeammutolì.
Iprigionierieranouna
dozzina, gironzolavano
impacciati
sul
marciapiede;moltierano
già feriti, con un braccio
appeso al collo, la fronte
o la testa fasciate. Un
uomo di mezz’età con i
capelli
brizzolati,
elegante malgrado la
divisa
strappata,
sostenuto da un vicino,
fumava quieto la sua
sigaretta e osservava
senza paura la folla
inferocita. Il giovane
biondo li esaminò con
sguardo
freddo
e
inespressivo, serrando le
labbra.Dopounpo’disse
loro qualcosa con voce
sommessa,
e
quelli
alzarono tutti le braccia.
Poi chiese il mitra a uno
dei suoi compagni, lo
soppesò, se lo girò tra le
mani, sbirciò perfino
dentro la canna. I
prigionieri in uniforme
stavano lì con le braccia
alzate. Sui loro volti non
si leggeva paura, ma
piuttosto
incertezza,
imbarazzo, quasi non
sapessero
come
comportarsi in una
situazione così strana.
Uno di loro si soffiò il
naso con una mano,
tenendol’altraalzata.
Il biondo si voltò di
fianco e aprì il fuoco
tenendo
il
mitra
all’altezza della vita.
Scaricò su di loro una
lunga raffica, spostando
l’arma da destra a
sinistra. Gli uomini
crollarono
l’uno
sull’altro, molti caddero
di
peso,
qualcuno
rantolava fra scatti
convulsi. L’uomo dai
capelli brizzolati fece in
tempo
ad
aspirare
l’ultima boccata e a
gettarelasigaretta,poisi
piegò in ginocchio sul
selciato come di sua
volontà, lo sguardo
torpido, quasi annoiato,
e prima di accasciarsi
mise il braccio sotto la
testa. All’estremità del
gruppo ce n’erano due
che gemevano ancora,
agitati dai sussulti. Con
gli occhi socchiusi, il
ragazzo in tuta verde
sparò un’altra raffica in
quella direzione. Poi non
simossepiùnulla.
Quella stessa mattina
Budai assisté ad altre tre
esecuzioni del genere.
All’ultima
non
fu
nemmeno scosso, riuscì
ad assistervi dall’inizio
alla fine senza provare
nessuna emozione. Se
fosse esistito un Dio,
pensò stancamente, lo
avrebbe pregato di non
lasciare che la pietà si
spegnesse mai nel suo
cuore.
Era esausto, aveva
fame. Vagò per le strade
affollate: la moltitudine
era ancora più densa del
solito, e la gente, in
spasmodica attesa di
nuovi eventi, si riuniva
in capannelli a discutere
animatamente
o
si
assiepava attorno a
improvvisati oratori. Il
cieloerasolcatodaaerei,
e da lontano proveniva
un fragore incessante e
cupo, come se la città
fosse già sotto assedio.
Ogni tanto passavano
rombando dei camion
carichidiuominiarmati.
Nellestradesicantava,si
distribuivano volantini,
e quando appariva uno
strillone con i giornali
freschi di stampa veniva
letteralmente
preso
d’assalto. I muri erano
tappezzati di avvisi, non
solo manifesti, anche
fogli scritti a mano, e in
molti si fermavano a
leggerli, aggiungendovi
commenti
o
affiggendonealtri.
Più
avanti
vide
un’altra zona che aveva
subìto danni gravissimi,
gli edifici erano in parte
crollati, nelle strade
giacevano alti cumuli di
macerie, qua e là le
rovine
annerite
fumavano ancora: quel
quartiere doveva essere
stato teatro di scontri
violenti.
Molti
abbandonavano
le
propriecaseconfagottie
pacchi, famiglie rimaste
senza casa tiravano
carrette cariche delle
poche
masserizie
scampate
alla
distruzione. Un folle
vestito di stracci, con i
capelli lunghi e la barba
da profeta, camminava
inmezzoallacarreggiata
roteando gli occhi e
agitando le braccia,
urlando ossessivamente
lastessaimprecazione:
«Tohoree! Muharee!...
Tohoree,muharee!...».
Budai sentiva una
nausea
indefinibile,
aveva lo stomaco stretto
in una morsa. Credeva
fosselafame,maquando
riuscìametterequalcosa
sottoidenti–compròda
unambulanteunaspecie
di polenta da due soldi a
base di farina di mais o
simili – , il senso di
disgustononsiattenuò.
Nel pomeriggio arrivò
la
pioggia,
un
abbondante acquazzone
primaverile.
E
quel
rombo che si udiva in
sottofondo si avvicinò,
divenne all’improvviso
più forte, spaventoso. La
gente fu sopraffatta da
uno strano terrore, tutti
correvano,
si
addossavano ai muri, si
infilavano negli androni
e nei negozi scassinati
man mano che il
frastuono
cresceva;
gemevano, inveivano, le
donne strillavano e
piangevano impaurite.
Poco più in là, sul muro
di un edificio, avevano
teso fra due finestre
un’enorme
bandiera
rossa e nera con
l’emblema dell’uccello.
Budai e alcuni altri
passanti si rifugiarono
nel negozio di stoviglie
all’angolo,edallavetrina
spaccata si disposero a
osservare quel che stava
persuccedere.
Arrivarono
nuove
truppe a bordo di carri
armati, mezzi corazzati,
motociclette, pezzi di
artiglieria
pesante.
Portavano un’uniforme
diversa: una tenuta
chiara,quasibianca,eun
casco mimetico. Due
carri
armati
si
fermarono
proprio
all’altezza del negozio,
dei soldati sporsero la
testafuoridallatorretta,
si fecero dei segnali, si
gridarono qualcosa gli
uniaglialtri;perBudaila
loro parlata era sempre
un
blaterare
incomprensibile.
Illorobreveconfronto
produsse il seguente
risultato:preserodimira
la grande bandiera sul
palazzo di fronte e senza
tanti
preamboli
spararono. Si levò un
nuvolone di fumo e
polvere e crollò un bel
pezzo di muro. Il colpo
successivofecetremarei
muri al punto che nel
negozio di stoviglie i
piatti, i vassoi, i vasi e i
bicchieri caddero dagli
scaffali e andarono in
pezzi.
Budai corse fuori a
rotta di collo. Aveva
ricominciato a piovere a
dirotto, in meno di un
minuto
si
ritrovò
bagnato
fradicio.
Attraversò una zona
dove non era mai stato:
sembrava un quartiere
operaio, un’infilata di
caseggiatienormietetri,
orrendi casermoni con
innumerevoli
e
minuscolefinestre,ealla
fineunapiazzalastricata
di
forma
ovale,
contornata dalle case. Le
truppe
motorizzate
erano già là, giunte da
un’altra strada, e la
piazza era gremita di
gente nonostante la
pioggia. Solo in un
secondo momento si
accorse che erano tutte
donne,vecchieegiovani,
madri e bambine, sotto
tantissimi ombrelli, e
quandosimescolòaloro,
per almeno dieci volte
credettedivedereBebe.
Le
donne
si
avvicinarono ai soldati
parlando tutte insieme e
gesticolando. Ma quelli
nonrisposero,nemmeno
uno aprì bocca, rigidi
come statue guardavano
la pioggia con visi
impenetrabili, le gocce
ticchettavano sui loro
elmetti. A Budai non era
chiaro
se
tacessero
perché
parlavano
un’altra lingua e non
capivano, oppure per il
divieto di parlare... Alla
fine le donne si misero a
cantare la marcia ben
nota:
Cetectopadebette
Etekglöchrifefee
Bügiütignemelaga
Pecice...!
L’ultima parola la
gridarono in tono di
sfida, con esasperazione,
quasiavolerlagettarein
facciaaisoldatiindivisa
bianca;questiultiminon
reagirono neppure ora.
Nel
frattempo
la
composizione della folla
cominciò lentamente a
modificarsi: a poco a
poco arrivarono gli
uomini. Si avvicinavano
ai carri armati con aria
apparentemente
innocente, come se
volessero solo curiosare,
maBudainotòchealcuni
nascondevanodellearmi
sotto i cappotti. Si
scambiavano
sguardi
d’intesaesimescolavano
alla folla sempre più
numerosi. Le donne a
quel
punto,
come
seguendo un piano
prestabilito, si ritirarono
concautela.
Iniziò tutto con un
fischio: all’improvviso la
piazza riecheggiò di urla
selvagge, di battaglia.
Estratte le armi, gli
uomini aprirono il fuoco
sui
carri
armati,
lanciarono bombe a
mano
e
bottiglie
esplosive piene di una
sostanza
strana,
probabilmente
fabbricate in casa. Nel
contempo nuovi rinforzi
usciti dai caseggiati si
lanciarono
nel
combattimento con una
dotazione analoga a
quella degli altri: adesso
erano
in
diverse
centinaia ad attaccare i
soldati.
Disposti
in
formazioni
singolari
correvano a zigzag,
cambiavano
improvvisamente
direzione, si gettavano a
terra proni, poi si
alzavano di scatto per
scagliare le bombe e di
nuovo si appiattivano
sulselciato.
Ma
stavolta
non
ottennero
un
gran
risultato.
I
carristi
scomparvero dentro le
torrette corazzate, i
cannoni tuonarono, e la
fanteria
motorizzata
reagì
all’attacco
impiegando
armi
automatiche a fuoco
continuo. I ranghi degli
attaccanti si ruppero, e
ben presto decine di
feriti si contorcevano
sulla piazza. I carri
armatisimiseroinmoto
con
un’agilità
imprevista, e puntarono
versoilfoltodellafolla:i
cingoli
schiacciarono
senza pietà chiunque
trovassero sulla loro
strada, come mostruosi
tritacarne:
urla,
frastuono rimbombante,
la
pioggia
scorreva
sporca e rossa sul
selciato.
Budai
vide
tutto
questo da una certa
distanza, ma fu travolto
dall’angoscia, da una
paurainfernaledimorire
e, mentre si lanciava a
perdifiato passando in
mezzo a vivi e morti
aveva la sensazione di
essere inseguito da un
carroarmatocheeralìlì
per
raggiungerlo
e
stritolarlo sotto il suo
corpo d’acciaio. Aveva
ancoralapistolaintasca,
avrebbe
voluto
liberarsene, ma non
osava gettarla via per
nonattirarel’attenzione.
Dall’altro
lato
della
piazza ovale scorse un
piccolo padiglione giallo
con le colonne, sotto cui
si riparavano in molti, e
sidiresselà.
Tutti si disperdevano,
gli sconfitti scappavano
soprattutto nelle case
circostanti.
E
continuavano a sparare,
dalle finestre e dalle
aperture dei tetti, non
volevano
arrendersi.
Allora i soldati con
l’elmettosceserodailoro
mezzi, li inseguirono fin
dentro i palazzi, su per i
piani:
la
battaglia
proseguì nelle case tra
spari
e
lampi
di
esplosioni,semprepiùsu
fino ai sottotetti. E il
drammagiunseallafine:
un
corpo
precipitò
dall’alto e cadde sul
lastricatoumidoconuno
schianto agghiacciante;
poi un altro e un altro
ancora,certigridavanoe
scalciavanonell’aria,edi
nuovocorpi,molticorpi,
cadevano l’uno sull’altro
e giacevano in pozze di
sangueepioggia.
Era
una
vista
insopportabile: Budai si
fecelargocontuttelesue
forze verso l’interno del
padiglione. Fu allora che
si accorse che quella
piccola edicola gialla era
una
stazione
della
metropolitana. Nell’atrio
sotterraneo riuscì a
gettare di nascosto la
pistola in un cestino dei
rifiuti.
Una
gran
quantità di persone, in
piedi o sedute per terra,
riempiva le scale, i
corridoi e le banchine, e
la circolazione dei treni
era sospesa. Si sentiva
solo una voce atona
gracchiare
senza
interruzione
all’altoparlante. Faceva
un caldo asfissiante,
l’ariaeraumidapertutte
quellepersonefradiciedi
pioggia, e lui aveva
riposato
pochissimo
negliultimiduegiorni:si
rannicchiò in un angolo
esiaddormentò.
Sisvegliòbruscamente
allo stesso suono col
quale si era assopito: il
gracchiare lontano e
instancabile
dell’altoparlante.
Là
sotto
non
c’era
differenza tra il giorno e
la notte, il viavai era
immutato, la gente
vagava nei corridoi
oppure dormiva. Si
trascinò
fino
in
superficie, le porte del
padiglione giallo erano
state chiuse con una
spranga di ferro, non si
poteva né entrare né
uscire, dei soldati in
divisa bianca armati di
fucile
piantonavano
l’ingresso. Attraverso la
grata, nella luce fioca –
eral’albaoilcrepuscolo?
–, si vedeva solo che la
piazza ovale e le strade
intorno erano deserte, e
che ogni angolo era
presidiato dalle guardie:
doveva
esserci
il
coprifuoco. Decise di
tornaregiùadormire.
Quando si svegliò di
nuovo,capìdaunrombo
sotterraneo
che
la
circolazione era ripresa,
e sentì il familiare
spostamento d’aria. La
via verso l’esterno era di
nuovo aperta: fuori il
tempo era soleggiato e
ventoso e il traffico di
pedoni
e
veicoli
movimentato
come
sempre. I morti erano
spariti, e le tracce dei
combattimenti celate da
ponteggi e frettolose
imbiancature. Budai si
mescolò alla folla sul
marciapiede e si diresse
al negozio di stoviglie
dove si era rifugiato: le
vetrine
erano
state
chiuse con assi di legno
malavenditaeraripresa,
anche se l’assortimento,
così gli parve, era più
scarso di prima. Sulla
facciata di fronte, dove
era stata cannoneggiata
la bandiera, il buco era
schermato
con
del
canniccio.
Il cambiamento era
ancora più vistoso nel
quartieredistruttodacui
avevavistoandarsenegli
abitanti rimasti senza
casa. Le rovine erano
state demolite e le
macerie
rimosse,
il
terreno
era
stato
spianato e sembrava un
normale
spazio
edificabile. Là dove
erano state erette le
barricate, non solo le
avevanosgomberate,ma
avevanoperfinoriparato
il lastricato divelto. Più
oltre, sul grattacielo in
costruzione che aveva
tante volte ammirato, e
dal quale erano scesi gli
operai per unirsi allo
sciopero, fervevano di
nuovo i lavori: adesso
erano
arrivati
all’ottantunesimopiano.
Tornò nella strada del
palazzo grigio – per
espugnarlo
si
era
combattuto una notte
intera. Aveva subìto
danni troppo gravi per
essere riparati in poche
ore,
ma
era
impacchettato
dai
ponteggi,
come
se
dovesse
essere
restaurato, e le tracce
dell’assedio
erano
invisibili; davanti al
portone il relitto del
carro
armato
era
scomparso... Se Budai
non avesse partecipato
in prima persona agli
eventi,
dall’aspetto
attuale della città non
avrebbe potuto intuire
nulla di quanto era
successo.
Di fianco al palazzo
vide un parco: era la
recinzionelungolaquale
era fuggito per scappare
dai fumogeni. Il bel
tempo aveva attirato
fuoridicasamoltagente,
i
bambini
si
rincorrevano sull’erba,
qualchebarcadondolava
sul
laghetto,
molti
sedevano sulla riva, si
erano tolti le scarpe e
stavanocoipiediamollo
nell’acqua... Si domandò
se rivolte simili non
fossero già avvenute in
altreoccasioni.Ineffetti,
le rovine affumicate in
mezzo alle quali aveva
cercato
rifugio
portavano i segni di
battaglie
precedenti.
Poteva darsi che queste
sommosse fossero un
fenomeno
necessario,
una
conseguenza
inevitabile del modo di
vivere di quel luogo,
un’esplosione periodica
dalla duplice funzione,
arginare
l’espansione
demograficaeincanalare
larabbia?
Vendevano le solite
salsiccette
speziate,
aveva abbastanza soldi
percomprarseneunpaio
e si mise in coda: erano
ancora più buone delle
altrevolte.Intornoaluii
ragazzi correvano e
giocavano a palla, gli
innamorati
si
scambiavano baci, e le
persone
mangiavano,
cantavano, ascoltavano
il mangiadischi a tutto
volume, prendevano il
sole,
dormivano,
lanciavano
sassi
in
acqua, si godevano la
bella giornata. Avevano
dimenticatocosìinfretta
gli scontri e i morti? Gli
pareva un tradimento,
ma la cosa non lo
intristiva.
Mentre
mangiava
sdraiato
sull’erba, quella loro
avida voglia di vivere
riempiva anche lui di
allegria e di speranza.
Adesso si sentiva in
sintonia con loro, forse
era addirittura felice.
Appallottolò la carta
delle salsiccette e la
lanciònellaghetto.
Fusolodopounpaiodi
minutichesiaccorseche
la palla di carta si era
mossa
sull’acqua.
All’iniziopensòchefosse
statoilventoaspingerla,
manoneracosì:lefoglie
sulla superficie del lago,
le bollicine sotto il pelo
dell’acqua, i pezzi delle
canne
e
le
alghe
andavano tutti nella
stessa direzione. L’acqua
si muoveva! Lentamente,
molto
lentamente,
scorreva.Provòdinuovo,
gettò
dei
rametti:
venivanotrascinatidalla
corrente.
La
scoperta
lo
emozionò nel profondo,
si sentì rinascere. Se era
davverocosì,quell’acqua
doveva
sfociare
da
qualche parte... Si avviò
lungo la riva per fare il
giro del laghetto. Aveva
una forma più o meno
rotonda,
con
un
diametro
che
non
superavaidueotrecento
metri. Da un lato una
fontana di marmo vi
riversava il suo getto,
poco
oltre
avevano
costruito una vasta
terrazza, con una statua
equestre su un alto
piedistallo che si ergeva
contro il cielo sereno. Le
barchette colorate e
leggere,dalfondopiatto,
cullate sulla superficie
increspata,eranoportate
da ragazze e ragazzi che
remavano fra grida di
gioia.
Trovò lo sbocco del
lago dalla parte opposta
alla fontana. Un corso
d’acqua attraversato da
due passerelle di legno,
un ruscelletto tranquillo
che serpeggiava verso il
folto del parco. Erano
acque basse e lente, il
letto era molto stretto,
bastavano due passi
dall’una all’altra sponda,
maperpiccoloemodesto
che fosse, prima o poi
sarebbe confluito in un
fiume, e il fiume nel
mare.Elìavrebbepotuto
trovare un porto, una
nave, e sarebbe stato
libero
di
andare
ovunque!
Non
voleva
più
pensareall’uomocheera
stato fino a cinque
minuti prima, come se
non ci fosse più. Ormai
doveva solo seguire
quell’acqua senza mai
perderla, lungo la riva –
altrimenti
poteva
affittare una barca, o
rubarla, insomma se la
sarebbe procurata! Gli
sembravagiàdisentireil
rumoredelmare,eilsuo
odoreintensoesalato,di
vedere il blu scintillante
e i riccioli delle onde
dalle forme sempre
nuove sul suo specchio
in movimento, e i
gabbianichescendevano
in picchiata... Addio
Epepe, pensò. Era pieno
difiducia,prestosarebbe
arrivatoacasa.
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