UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA SCUOLA DI SCIENZE MEDICHE E FARMACEUTICHE CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN FISIOTERAPIA Coordinatore: Prof. Carlo Gandolfo RIABILITAZIONE DEL SOGGETTO LOMBALGICO ATTRAVERSO UN APPROCCIO MECCANICO PROPRIOCETTIVO ED EDUCAZIONALE LAUREANDO Alessio MELANI Dott. Alessandro Manelli Matricola 3273832 Ft. Mirco Oliveira Anno Accademico 2011‐2012 RELATORI “Quelli che si innamoran di pratica senza scienza sono come i nocchieri ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada.” Leonardo da Vinci 2 Indice Introduzione Capitolo 1: Il rachide Pag 6 1‐1 Elementi anatomici Pag 11 Componente osteoarticolare Pag 11 Componente legamentosa Pag 22 Il disco intervertebrale Pag 24 Componente muscolare Pag 29 Innervazioni Pag 32 1‐2 Elementi funzionali e biomeccanica Pag 36 I parametri sagittali del rachide Pag 36 Il movimento Pag 40 Funzioni del disco intervertebrale Pag 43 Capitolo 2: Il dolore Pag 45 2‐1 Riferimenti anatomici e fisiologici Pag 46 Classificazione Pag 46 Sintomatologia e topografia Pag 48 La nocicezione in area lombare Pag 50 Il disco intervertebrale e il dolore Pag 52 Insorgenza del dolore lombare secondo Mckenzie Pag 54 Il fenomeno della centralizzazione Pag 56 La progressione di forze e il dolore Pag 57 2‐2 Un approccio integrato Pag 59 Le componenti fondamentali del dolore Pag 59 Pag 10 3 Il significato dell’autotrattamento Pag 59 Capitolo 3: L.B.P. valutare misurare comprendere Pag 62 3‐1 Misurare e valutare secondo i criteri ICF Pag 63 Modello biomedico e biopsicosociale Pag 64 Significato dell’out come Pag 67 Tipologie di out come Pag 68 Limiti dell’out come Pag 69 Strumenti Pag 71 3‐2 Inquadramento ICF del soggetto lombalgico Pag 73 Sindrome biopsicosociale per la lombalgia cronica Pag 73 Misure di out come in aderenza al modello ICF Pag 75 Evidence Based Practice Pag 77 Lombalgia: cosa e come misurare Pag 78 Condizioni generali di salute Pag 80 Dolore Pag 81 Criteri ICF: body function & structure Pag 82 Criteri ICF: activities Pag 82 Criteri ICF: partecipation Pag 83 Strumenti di misura dei fattori personali TSK Pag 83 3‐3 Valutazione specifica Pag 84 Anamnesi ed esame fisico secondo R. Mckenzie Pag 84 Altri tests Pag 86 Capitolo 4: Materiali e metodi Pag 96 4‐1 Metodo Mckenzie Pag 97 Dolore e centralizzazione Pag 99 Le tre sindromi Mckenzie Pag 100 Gli esercizi e le tecniche Pag 106 4 4‐2 Ginnastica propriocettiva per la colonna Pag 111 Nozioni Pag 111 Esercizi del protocollo O.C. di Sanremo Pag 113 4‐3 L’educazione Pag 117 4‐4 Selezione dei pazienti Pag 118 Capitolo 5: Risultati Pag 119 Capitolo 6: Caso clinico Pag 123 6‐1 Il paziente Pag 124 6‐2 Note di trattamento Pag 128 6‐3 Considerazioni Pag 133 Capitolo 7: Discussioni Pag 134 Bibliografia Ringraziamenti Pag 146 Pag 138 5 INTRODUZIONE 6 Il low back pain (LBP) è il disturbo osteoarticolare più frequente, rappresentando, dopo il raffreddore, la più comune affezione dell’uomo, interessa uomini e donne in egual misura. Quasi l’80% della popolazione, nel corso della vita è destinato a presentare una lombalgia (prevalenza) con picco compreso fra i 30 ed i 50 anni. La prevalenza annuale riguardo gli adulti in età lavorativa è del 50% di cui il 15% ‐ 20% ricorre a cure sanitarie. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha incluso la lombalgia come priorità nella Bone and Joint Decade 2000‐2010. In un suo articolo pubblicato su Spine già nel 1996 Waddel ha individuato nella comune lombalgia un’epidemia del ventesimo secolo, e fra i primi (1987) ha cercato di guardare oltre la pura “dimensione dolore”, applicando un modello più complesso, ma più vicino alla realtà, delineando i fattori che interagiscono tra loro nel determinismo del dolore e della disabilità: il modello biopsicosociale. Secondo questa concezione, il dolore lombare origina da stimoli nocicettivi vertebrali, ma esprimendosi, integra aspetti fisici con manifestazioni psico‐comportamentali e perdita funzionale, divenendo modello di patologia umana e non solo di sintomatologia algica. Lombalgia e disabilità non dipendono, dunque, da fattori puramente fisici o puramente psicologici, ma piuttosto da una complessa interazione degli stessi nel corso del tempo. Fattori psicologici possono influenzare i processi fisici, ad esempio, mediante aumentata tensione muscolare o particolare timore nell’esecuzione di un movimento. Alterazioni comportamentali possono coinvolgere l’esecuzione di attività lavorative così come le stesse attività possono assumere riflessi negativi in termini comportamentali. Iniziando spesso come normale conseguenza del dolore, questi quadri possono condizionare nel tempo il soggetto, inducendo modificazioni fisiche 7 come disturbi posturali, della deambulazione e del movimento. Persistendo il più delle volte ad un livello inconscio ed indipendente dalla reale sintomatologia dolorosa, alterati processi psico‐fisiologici e psico‐comportamentali spingono il soggetto ad un decondizionamento fisico e psicologico, al centro di un circolo vizioso che accresce erronee convinzioni sul dolore, sui rischi occupazionali e su fallibili strategie terapeutiche. Il modello biopsicosociale non segue fasi consequenziali e predeterminate: la percezione dolorosa può sia precedere che seguire il problema fisico, così come la personalità del soggetto ed il suo preesistente stato psicologico possono concorrere a modificare l’intero processo. Dolore e disabilità non sono una condizione statica, ma costituiscono un processo che si evolve dinamicamente nel tempo: molte delle modificazioni psicologiche e comportamentali riscontrabili nella sindrome lombare appaiono precocemente, sviluppandosi già dopo pochi giorni dall’insorgenza del dolore. Sebbene sintomatologicamente ed obiettivamente simili agli altri soggetti, si riscontra che chi, spinto da esperienze personali, dal catastrofismo, dalla depressione e dal contesto sociale, rimanda il precoce ritorno lavorativo nel vano tentativo di limitare la percezione dolorosa, è maggiormente esposto a cronicizzazione, in contrasto con chi cerca da subito una precoce ripresa lavorativa, riuscendo così a condizionare positivamente gli esiti a breve e a lungo termine. La disabilità secondaria ed il decondizionamento si esplicano, dunque, attraverso più componenti: dolore cronico (nella sua complessità cognitiva e neurofisiologica), disfunzione fisica, aspetti psico‐comportamentali, aspetti sociali e socio‐ ambientali. Le algie vertebrali di origine lombare diventano croniche nel 10‐ 40% dei casi: questi pazienti contano per l’80% circa dei costi complessivi sostenuti per la patologia. È su questo aspetto e sulla 8 prevenzione della cronicità che si devono quindi concentrare gli sforzi terapeutico‐riabilitativi maggiori. (O’Sullivan 2005). Riferendosi al modello biopsicosociale (Waddell 1998) questo lavoro, pur prendendo in considerazione una casistica statisticamente poco significativa, vuole essere uno studio che ha come obiettivo quello di dimostrare l’efficacia di un approccio meccanico‐propriocettivo ed educativo nella risoluzione delle algie lombari e nella prevenzione delle cronicizzazioni. 9 IL RACHIDE 10 1.1 Elementi anatomici Componente osteoarticolare ‐ La colonna vertebrale è costituita da segmenti ossei sovrapposti fra loro definiti vertebre: 7 vertebre cervicali, 12 toraciche, 5 lombari, 5 sacrali che costituiscono l’osso sacro, e 3 o 4 coccigee che costituiscono il coccige. E’ paragonabile ad una colonna molto flessibile ancorata al sacro e sottoposta a carichi di varia natura: di compressione assiale, di trazione di taglio, di torsione, di flessione. La colonna è sostenuta da formazioni muscolo‐tendinee e legamentose che equilibrano le varie forze alle quale questa è sottoposta. La colonna nel suo complesso ha molteplici funzioni: • Sostegno di capo, busto, arti superiori e organi mediastinici (assieme alla gabbia toracica), assumendo così l’aggravio di circa 2/3 dell’intero peso corporeo. • Movimento proprio della colonna e di adattamento del busto a tutte quelle posizioni che facilitano, durante le attività funzionali, l’avvicinamento fra i segmenti craniali e caudali (gli arti) o fra questi e il rachide stesso o il bacino. • Ammortizzamento di tutte le sollecitazioni provenienti dall’interno del corpo e dall’ambiente esterno, accumulandoli o trasferendoli agli altri segmenti corporei come arti bacino e testa • Contenimento in assoluto la più importante derivante dalla presenza di un canale osteo‐legamentoso che protegge il midollo spinale posto al suo interno. 11 La colonna vertebrale presenta in sezione sagittale quattro curvature: due a convessità anteriore (lordosi) cervicale lombare, due a convessità posteriore (cifosi) toracica e sacrale. La gravità ed il peso degli organi tenderebbe ad accentuare tali curve se non intervenissero le strutture muscolari, prevertebrali, addominali, paravertebrali, a mantenere tale conformazione. Tali curvature, che si sarebbero determinate con l’acquisizione della posizione eretta, è fondamentale presupposto al mantenimento dell’equilibrio (in presenza di una base di appoggio assai ristretta come quella dell’uomo), alla distribuzione dei carichi ed inoltre, come sostenuto da Kapandji, aumenta di dieci volte la resistenza alla compressione assiale del rachide, in base all’assunto biomeccanico secondo il quale la resistenza di una colonna che presenta delle curve è pari al quadrato del numero delle curve più 1, come illustrato in figura 1.1 Fig 1.1 Quindi si può ragionevolmente sostenere che una colonna ove tali curve non siano mantenute entro un range fisiologico non solo avrà una minore resistenza alla compressione assiale, ma sarà ipovalida nell’assolvere le funzioni di sostegno, movimento, ammortizzamento e 12 contenimento; e con tutta probabilità causerà squilibri biomeccanici tali da determinare la comparsa situazioni dolorose di varia natura. L’unità funzionale della colonna è costituita da due vertebre adiacenti dal disco intervertebrale e dai tessuti molli interposti, come illustrato in figura 1.2 Fig 1.2 La vertebra, pur presentando caratteristiche morfologiche e funzionali diverse a seconda del tratto rachideo cui appartiene, ci mostra la conformazione interna tipica delle ossa brevi è infatti costituita anteriormente da un corpo vertebrale (soma) che presenta una corticale di osso denso e compatto che racchiude osso spugnoso. La corticale superiore e inferiore del corpo viene definita piatto ricoperto da cartilagine ialina (articolare). Il piatto vertebrale è più spesso al centro dove si trova la cartilagine mentre la parte periferica presenta un rilevo detto orletto marginale derivante da un nucleo di ossificazione epifisario che si salda al corpo della vertebra durante la pubertà. La parte posteriore del corpo costituisce parzialmente la parte anteriore del forame di coniugazione che permette il passaggio dei nervi spinali. (Fig.1.3) 13 Fig 1.3 Posteriormente presenta un arco posteriore in cui sono fissate dall’avanti all’indietro: due peduncoli ds e sn a forma di lamina che uniscono il corpo all’arco vertebrale i processi articolari superiori e inferiori, che si articolano che si articolano con gli omonimi delle vertebre sopra e sottostanti; i processi trasversi, che nel tratto lombare sono particolarmente pronunciati e prendono il nome di processi costi formi, e infine troviamo le lamine ds e sn che si uniscono a formare in processo mediano che si porta posteriormente denominato apofisi spinosa. Fra corpo e arco viene quindi a delimitarsi uno spazio detto foro vertebrale che permette il passaggio del midollo spinale. In sezione frontale il corpo vertebrale presenta delle travate di osso spongioso che si irradiano secondo linee di forza verticali che uniscono i due piatti superiore ed inferiore; e orizzontali che uniscono le due corticali laterali. In sezione sagittale si evidenziano anche due sistemi di fibre a ventaglio: quello superiore parte dal piatto superiore e si dirige passando per i peduncoli fino ai processi articolari superiori e all’apofisi spinosa; quello inferiore parte dal piatto inferiore e si dirige attraverso i peduncoli ai processi articolari inferiori e all’apofisi spinosa. 14 Fig 1.4 L’incrocio di questi sistemi trabecolari da un’elevata resistenza in quasi tutto il corpo ma nella zona anteriore esiste una zona dove vi sono solo travate verticali. Tale zona di minor resistenza è spesso responsabile della fratture a cuneo causate da compressioni assiali. Vari studi mostrano che una forza compressiva di 600 Kg causa una frattura da schiacciamento (cuneo) nella zona anteriore della vertebra ma per schiacciare totalmente tutto il corpo vertebrale sono necessari almeno altri 200 Kg. (I.A. Kapandji 1999) La zona di maggior resistenza è invece la parte posteriore del corpo e dei peduncoli tant’è che viene definita da alcuni Autori (Decoulx, Rieunau) il muro posteriore (R. Maigne 2009) . Esemplificazione di tale struttura trasecolare è osservabile in figura 1.5. Il corpo vertebrale con l’invecchiamento diventa più rigido è in grado di immagazzinare meno energia quindi più sottoposto al rischio di frattura anche senza traumatismi (crolli osteoporotici). 15 Fig.1.5 Nella colonna lombare, oggetto della tesi, si apprezzano alcune differenze: il corpo è più esteso in larghezza, in senso antero‐posteriore ed è più alto; l’apofisi spinosa è molto grande e si porta direttamente indietro. La quarta e quinta vertebra lombare a causa delle forti connessioni con l’iliaca (legamenti ileo lombari) possono essere considerate come il tetto del bacino formando un collegamento statico fra rachide e bacino. Mentre la terza lombare che si trova all’apice della lordosi lombare, presenta un arco posteriore molto sviluppato funziona come un relais muscolare tra i fasci muscolari a provenienza iliaca (lungo del dorso). E’ la prima vertebra veramente mobile della colonna lombare. La radice spinale dal nervo dalla sua uscita dal foro di coniugazione o dalla branca anteriore o posteriore. L’altra radice proviene dal ramo comunicante bianco vicino, spesso soprastante. A seguito delle vertebre lombari si trova l’osso sacro che deriva dalla fusione dei cinque segmenti primitivi delle vertebre sacrali, che si 16 conclude al il termine del processo di sviluppo e accrescimento. Nell’insieme ha una forma a piramide quadrangolare con la base in alto. Tale base forma con la 5° lombare un angolo a convessità anteriore detto promontorio. Tale forma dovuta alla rapida diminuzione della dimensione delle vertebre sacrali e coccigee dipende dal fatto che questo tratto di colonna non deve sostenere alcun peso. (Fig.1.6) Fig 1.6 Il sacro è percorso dal canale sacrale, l’ultima parte del canale vertebrale. (Fig1.7). Nella faccia anteriore e posteriore il sacro presenta i fori sacrali anteriori e posteriori che permettono il passaggio dei nervi spinali sacrali. La faccia posteriore convessa sulla linea mediana presenta la cresta sacrale media, data dalla fusione dei processi spinosi delle vertebre sacrali. 17 Fig 1.7 Lateralmente si trovano le creste sacrali intermedie destra e sinistra derivate dalla fusione dei processi articolari delle vertebre sacrali. Tali creste terminano in basso con un’acuta sporgenza il corno sacrale. A lato delle creste troviamo bilateralmente i quattro fori sacrali posteriori che danno il passaggio ai rami posteriori dei nervi spinali sacrali. Lateralmente si trovano le creste sacrali laterali dalla fusione dei processi trasversi. Le facce laterali presentano la superficie articolare per l’osso dell’anca la faccia auricolare, dietro la quale si trova la tuberosità sacrale una superficie che da impianto a molti legamenti. La base del sacro si articola con la quinta lombare, posteriormente presenta l’orifizio superiore del canale sacrale. Lateralmente presenta due superfici triangolari le ali del sacro. 18 Fig1.8 Il sacro, per la sua conformazione, può essere considerato come un cuneo che s’incastra tra le due ali iliache sul piano frontale e sul piano trasversale. Si tratta di un sistema auto‐bloccante: maggiore è la risultante delle forze discendenti tanto più il sacro è bloccato tra le ali iliache [Snijders et al., 1993, 1997; Vleeming et al., 1990, 1997]. Un altro meccanismo di stabilizzazione sono rappresentati dalla stabilità articolare basata sugli attriti a livello delle auricole (form closure) e dalla forza addizionale di chiusura sotto carico dinamico basata sulle strutture miofasciali (force closure). La stabilità del sacro è inoltre garantita dalla presenza di molti legamenti che saranno esposti in seguito. 19 Fig1.9 Le strutture articolari considerate in questa sede con particolare attenzione sono le articolazioni del tratto lombare, e lombosacrale particolarmente importanti, che come vedremo , sia da un punto di vista biomeccanico che patologico in quanto spesso sede di problematiche trattabili con trattamento fisioterapico. • • Articolazioni intervertebrali (o intersomatiche): sono delle articolazioni non sinoviali (sinartrosi) cartilaginee del tipo delle sinfisi. Si instaurano fra la faccia superiore di una vertebra, coperta di cartilagine e il disco intervertebrale. • Articolazioni interapofisarie: sono articolazioni sinoviali (diartrosi) del tipo delle artrodie; si effettuano fra faccette articolari piane. I movimenti sono sempre di scorrimento tra superfici, ma se il disco permette la mobilità vertebrale, le articolazioni interapofisarie ne condizionano la direzione. Il loro orientamento varia nei diversi piani del rachide. (Fig 1.10) A livello lombare sono rivolte all’indietro. La loro inclinazione orizzontale è di 90°. Una considerazione particolare va data alla vertebra D12 che si presenta con una conformazione dorsale per le sue articolazioni superiori, mentre è lombare con quelle inferiori. Si trova inoltre in un punto pivot importantissimo, infatti è definita da 20 alcuni Autori fra cui Maigne (R. Maigne 2009) vertebra transazionale. Le superfici articolari interapofisarie sono rivestite da cartilagine e hanno una capsula articolare densa ed elastica che le ricopre come una cuffia. Queste articolazioni hanno membrana sinoviale e contengono delle formazioni meniscoidi, estremamente fini che inoltre contengono un tessuto adiposo semiliquido che presenta un potere ammortizzante in modo da proteggere i bordi sottili delle faccette articolari. Fig 1.10 Le articolazioni interapofisarie sono innervate dalla branca posteriore del nervo rachideo. Tale innervazione è assicurata da un ramo che origina dallo stesso livello e da un altro proveniente dal livello sottostante. Anche l’innervazione della capsula è ricca; Hirsch e altri Autori (Hirsh 1952) vi hanno rilevato : terminazioni libere di fibre mieliniche di piccolo diametro; terminazioni non incapsulate di diametro medio di tipo Organo del Golgi o corpuscoli del Ruffini, terminazioni incapsulate tipo Golgi Mazzoni e corpuscoli di Pacini. Come noto la cartilagine non è innervata. 21 Componente legamentosa Il compito dei legamenti è quello di limitare la mobilità del rachide sviluppando tensione passiva in grado di opporsi, insieme all’azione muscolare, ai momenti esterni prodotti da forze come la gravità o l’inerzia. I legamenti come altri tessuti biologici quando sono sottoposti a carichi di trazione manifestano un comportamento meccanico di tipo visco‐ elastico. Se lo stiramento è rapido, determinato ad esempio da un movimento veloce, si comportano come molle sviluppando una tensione direttamente proporzionale all’allungamento subito. Se lo stiramento è lento si verificano fenomeni, legati alla viscosità, di creep e stress relaxation in cui si viene a perdere la proporzionalità fra allungamento e tensione sviluppata. Il sistema delle connessioni legamentose della colonna lombare è costituito da: • Legamento longitudinale anteriore, lungo nastro che si estende sulla faccia anteriore del rachide e del disco intervertebrale dall’apofisi basilare occipitale (tubercolo faringeo dell’occipite) al sacro. E’ formato da fibre lunghe che vanno da un capo all’altro del legamento e da fibre corte arciformi tese da una vertebra all’altra. Aderisce maggiormente ai corpi meno saldamente ai dischi. Tale legamento limita l’estensione della colonna e rinforza la porzione anteriore dell’anello fibroso. E’ innervato dal nervo sino vertebrale. Fig 1.2. • Legamento longitudinale posteriore: si estende posteriormente dall’apofisi basilare fino al canale sacrale. Presenta la particolarità di essere festonato poiché a livello di ogni disco intervertebrale le fibre 22 arciformi si inseriscono molto lontano lateralmente. La faccia anteriore del legamento aderisce quindi a corpi e dischi, mentre quella posteriore entra in contatto con la dura madre. Inoltre non è inserito nella parte posteriore del corpo vertebrale. Tale legamento limita la flessione della colonna e rinforza la porzione posteriore dell’anello fibroso. E’ innervato dal nervo sino vertebrale. Fig 1.2 • Legamenti gialli: sono fasci spessi e resistenti che si dipartono dalla lamina vertebrale sottostante e terminano sulla faccia interna della lamina soprastante. La loro faccia anteriore entra in contatto con la dura madre quella posteriore con le lamine e quindi con i muscoli spinali. Si uniscono con il controlaterale e chiudono posteriormente il canale vertebrale. Ricoprono inoltre la capsula delle articolazioni interapofisarie. Sono i legamenti con la maggior percentuale di elastina di tutto il corpo. Il bordo anteriore e esterno dei legamenti costituisce il contorno posteriore del forame di coniugazione. Tali legamenti limitano la flessione della colonna soprattutto nella regione lombare. Sono innervati dal nervo sino vertebrale e sono gli unici legamenti veramente elastici della colonna vertebrale . Fig 1.2 • Legamento interspinoso: dal bordo superiore di un processo spinoso al bordo inferiore del soprastante per tutta la lunghezza del processo. Tali legamenti limita la flessione della colonna. Sono innervati dalla branca posteriore del nervo rachideo Fig 1.2. • Legamento sopraspinoso: rappresenta la prosecuzione del precedente, e costituito da un cordone fibroso che unisce i vari processi spinosi. Mentre a livello cervicale è bene distinguibile e prende il nome di legamento nucale a livello lombare è scarsamente distinguibile a causa delle inserzioni dei muscoli dorso lombari. Tali legamenti limitano la flessione della colonna. Sono innervati dalla branca posteriore del nervo rachideo. 23 • Legamenti intertrasversari: particolarmente sviluppati a livello lombare, sono tesi fra i tubercoli accessori dei processi trasversi. Tali legamenti limitano la flessione laterale della colonna. Secondo alcuni Autori (Bogduk) che li paragona ad una membrana, formano un setto che separa la muscolatura anteriore da quella posteriore del rachide. • Legamenti ileo‐lombari: sono due legamenti uno superiore ed uno inferiore; sono gli unici legamenti estrinseci della colonna lombare, originano dai processi costi formi delle ultime vertebre lombari fino alla cresta iliaca. Più precisamente il fascio superiore (ileo‐trasversario lombare superiore) origina dal processo della 4° lombare e si porta in basso in fuori e indietro inserendosi sulla cresta iliaca; il fascio inferiore (ileo‐trasversario lombare inferiore) dal bordo inferiore del processo costi forme della 5° lombare e si inserisce sulla cresta iliaca davanti al precedente. Questi legamenti, molto potenti, limitano i movimenti della cerniera lombosacrale. Nella inclinazione laterale della colonna si tendono da lato della convessità, nella flessione si tende il superiore e si detende l’inferiore, nell’estensione si tende l’inferiore e si detende il superiore. Il disco intervertebrale Il disco intervertebrale è costituito da fibrocartilagine che si riscontra anche in altre zone come la sinfisi pubica, la sincondrosi fra prima costa e sterno, così come nei menischi articolari. Questa tipologia di cartilagine è una forma di transizione tra il tessuto connettivo denso e la cartilagine ialina; è costituita da fasci fibrosi di connettivo tipo I immersa in una scarsa matrice cartilaginea; è inoltre priva di involucro il pericondrio. La fibrocartilagine che costituisce il disco intervertebrale 24 viene denominata anello fibroso, essa si continua con la cartilagine ialina delle vertebre adiacenti nonché dei legamenti spinali. E’ costituito da una connessione di fasci fibrosi concentrici con un decorso obliquo e incrociato rispetto a quelli adiacenti. Il decorso di tali fibre cambia da verticali in periferia del disco a orizzontali al centro. A causa dell’orientamento delle sue fibre, l’anulus si trova saldamente ancorato alle limitanti somatiche, ma nella parte centrale risulta più debole, in particolare posteriormente (J. R. Armstrong 1985) dove la parete dell’anulus risulta essere più facilmente soggetta a deformazione e lacerazioni a causa dell’orientamento delle fibre collagene al raggio più sottile e ad una inserzione ossea meno salda (R. Mckenzie 1998) L’anello fibroso sta all’esterno del disco mentre al suo interno si trova una massa gelatinosa ellissoidale, costituita da tessuto cordoide detta nucleo polposo. E’ un gel trasparente costituito dall’88% d’acqua ricco in acido ialuronico e fortemente idrofilo la cui funzione è quella di legare grandi quantità di acqua e limitarne l’uscita quando il disco è posto sotto pressione (A. Caplan 1984) . Questa composizione chimica e strutturale del disco fa si che il nucleo sia mantenuto sotto costante pressione e la rete di collagene sotto costante tensione che consente ai dischi di non venire compressi sotto carico. La pressione all’interno del nucleo non è quindi nulla anche quando la colonna non è sottoposta a carichi e tale compressione è appunto determinata dalla sua idrofilia che lo fa gonfiare nel suo alloggio inestensibile. Tale condizione è detta stato di precompressione del nucleo. Il nucleo agisce come un distributore di pressione in senso orizzontale sull’anello e sopporta circa il 75% del carico mentre l’anello solamente il 25% (R. Mckenzie 1976) . Tale meccanismo si riduce se diminuisce la pressione intranucleare per esposizione prolungata al carico, che causa fuoriuscita 25 di acqua dal nucleo, o per altri meccanismi quali la riduzione dei proteoglicani o cedimento delle fibre dell’anulus. All’interno del nucleo non ci sono ne vasi. Gli unici vasi che nell’adulto entrano nel disco sono delle piccole branche di arterie metafisarie che si anastomizzano sulla faccia esterna dell’anulus fibrosus (Bogduk). La sua nutrizione avviene per processi di diffusione e osmosi, attraverso le cartilagini limitanti vertebrali, e grazie ad un meccanismo di pompa per il quale la diminuzione della pressione facilita l’ingresso di sostanze nutritizie e rallenta l’espulsione di cataboliti mentre l’incremento causa la condizione inversa.(J.Kramer). La condizione ottimale è quindi determinata dal continuo alternarsi di posture di carico e scarico attorno ad un valore soglia di 80 Kg di pressione intradiscale. Al contrario situazioni di sovraccarico o sotto carico che si verificano ad esempio nel mantenimento delle posizioni fisse ostacolano il ricambio nutritizio e possono favorire fenomeni di degenerazione discale. (R. Maigne 2009) Con l’età l’idrofilia del disco diminuisce, raggiungendo un equilibrio fra la viscosità del nucleo e quella dell’anulus e, se da un lato decresce la sua attitudine ad essere un buon ammortizzatore, dall’altro possiamo osservare come nei soggetti di età avanzata siano meno frequenti i disturbi di origine prettamente discale a favore di problematiche degenerative (R. Mckenzie 1998) . Inoltre questo gioca un ruolo nella diminuzione di statura dei soggetti anziani, anche se in maniera minore del cedimento dei corpi vertebrali e dell’aumento delle curve. Il disco inoltre non è innervato eccetto la parte esterna dell’anulus. Hirsch e Wyke hanno riscontrato nello strato superficiale fibro‐adiposo, adiacente al legamento longitudinale posteriore alcune terminazioni libere adiacenti alla porzione posteriore dell’anulus (3, 9). 26 Yoshizawa et al. hanno osservato molte terminazioni nervose nel terzo esterno dell’anulus. L’origine di queste terminazioni sarebbe costituita da due plessi, uno anteriore, formato da fibre simpatiche, e da rami provenienti da rami comunicanti grigi e uno posteriore proveniente dal nervo sino‐vertebrale. I due plessi sarebbero uniti da un plesso latrale formato da rami grigi comunicanti. Il nucleo polposo non si trova al centro del disco; è collocato in avanti nel segmento cervicale e posteriormente nei segmenti toracico e lombare rispetto ai rispettivi centri geometrici. Il nucleo, paragonabile ad una sfera incomprimibile , si trova quindi fra due piani (i piatti vertebrali) imprigionato nell’alloggio ipoteticamente inestensibile formato dalle forti fibre dell’anulus. Permette movimenti di scivolamento anteroposteriore e laterale (taglio) di un piano sull’altro e di rotazione ds e sn su un piano orizzontale, di inclinazione destra e sinistra su un piano frontale e di flessoestensione (inclinazione antero/posteriore) su un piano sagittale. In tutto permette movimenti di piccola ampiezza, ma in 6 direzioni (6 gradi di libertà) che sommati insieme spiegano la grande mobilità della colonna. I dischi intervertebrali rappresentano circa 1/3 della lunghezza totale della colonna, e il loro spessore varia e raggiunge il massimo a livello della colonna lombare, 9 mm, mentre è minimo a livello cervicale 3mm. Anche relativamente al rapporto fra altezza del disco e altezza del corpo vertebrale troviamo differenze nei vari segmenti della colonna; più tale rapporto disco /soma è alto e più la mobilità del segmento è importante. Tale rapporto è di 2/5 a livello cervicale che rappresenta il tratto di maggior mobilità, poi viene il rachide lombare con un rapporto 1/3 ed infine quello toracico il meno mobile, nonostante l’orientamento favorevole delle faccette, fra i tre con un rapporto 1/5 (X.Dufour, 27 P.Ghossoub 2010). Altri Autori riportano dei rapporti leggermente diversi: 1/3 a livello cervicale, 1/6 a livello toracico, 1/3 a livello lombare. Il bordo posteriore del disco delimita la parte anteriore del forame di coniugazione. Fig 1.11 I forami intervertebrali ono definiti gli spazi attraverso i quali fuoriescono i nervi spinali. Ciascun forame è delimitato anteriormente dal disco intervertebrale e dalla parte posteriore del corpo vertebrale, posteriormente dalle articolazioni inter‐apofisarie e dal bordo esterno del legamento giallo, superiormente ed inferiormente dai peduncoli delle vertebre sopra‐sottostanti. Il forame vertebrale è costituito per 1/5 dal nervo spinale e per 4/5 da altri tessuti molli (vasi , tessuto adiposo) che possono andare incontro a fenomeni infiammatori e ridurre lo spazio del forame. Ovviamente anche altri fenomeni quali artrosi delle faccette articolari protrusione del disco spondilosi ipertrofia dei legamenti gialli etc possono ridurre tale spazio ed entrare in conflitto con le radici nervose scatenando la sintomatologia dolorosa. 28 Fig 1.12 Componente muscolare Molteplici sono le implicazioni funzionali o anatomiche secondo cui i muscoli rachidei possono essere classificati, in accordo con l’oggetto di questa tesi, saranno brevemente trattati relativamente al loro significato biomeccanico. Ci limiteremo quindi a ricordare che esistono muscoli intrinseci ad origine e inserzione diretta sulla colonna (splenio, erettore spinale, trasverso spinale, muscoli segmentari), intrinseci ad origine e/o inserzione sulla colonna (gran dorsale, addominali, psoas, quadrato dei lombi).e muscoli estrinseci che senza inserirsi direttamente sul rachide vi agiscono tuttavia indirettamente per scelta funzionale e muscoli estrinseci ( medio e piccolo gluteo, piriforme, adduttori femorali trasverso dell’addome tensore della fascia lata grande e piccolo pettorale) (V. Pirola 1998) Le azioni principali dei muscoli del dorso sono: • promozione dei movimenti attivi del tronco contro gravità e inerzia (contrazione concentrica); 29 • mantenimento di una posizione contro gravità attraverso la produzione di tensione attiva (contrazione isometrica) e passiva; • freno ai movimenti del tronco generati dalla gravità, dall’inerzia e dai muscoli antagonisti, attraverso la produzione di tensione attiva (contrazione eccentrica) e passiva; • attenuazione delle sollecitazioni generate sulle strutture rachidee tramite un meccanismo di assorbimento dell’ energia di concerto con le strutture peri‐articolari non contrattili, con un meccanismo di ridistribuzione dei carichi. Da sottolineare è inoltre il fatto che esista una certa corrispondenza fra la suddivisione, prettamente didattica, in strati anatomici e il ruolo funzionale dei muscoli posteriori del rachide intrinseci od estrinseci che essi siano. I muscoli del piano più profondo, (Fig 1.13) infatti, sono deputati a funzioni antigravitarie e posturali e garantiscono, con la loro continua attività di contrazione ‐ rilasciamento la stabilità in statica e in dinamica; Secondo Maigne (R. Maigne 2009) , nonostante siano piccoli e poco potenti, questi giocano un ruolo importante nella biomeccanica di quello che Junghanns e Schmorl (38) hanno definito segmento mobile e nel funzionamento del rachide in toto. Diversi studi infatti hanno evidenziato una particolare ricchezza in fusi neuromuscolari, fino a 6 volte maggiore rispetto agli altri muscoli spinali. Questi sono uni‐ segmentari come i muscoli rotatori corti, i muscoli interspinosi e i muscoli intertrasversari; bi‐segmentari come i muscoli rotatori lunghi, o multi‐segmentari come il multifido, che pur estendendosi dall’epistrofeo al sacro, a livello funzionale e per innervazione può essere equiparato ai muscoli corti. Tutti questi muscoli ricevono innervazione dal ramo posteriore dei nervi rachidei. 30 M. interspinosi uniscono due vertebre adiacenti formando un paio ai lati di ogni processo spinoso, sono assenti a livello dorsale. M. intertrasversari uniscono i processi trasversi di due vertebre adiacenti, sono composti da un fascio mediale innervato dal ramo posteriore del nervo rachideo e un fascio laterale innervato dal ramo anteriore e per questo da alcuni autori non sono considerati dei veri muscoli spinali. M. rotatori costituiscono lo strato più profondo e sono presenti dall’atlante al coccige. Si distinguono in corti e lunghi, i primi originano da sul processo trasverso e si inseriscono sul processo spinoso della vertebra soprastante, mentre i secondi hanno stessa origine ma si inseriscono sulla seconda vertebra soprastante. M. multifido è anche esso innervato dal ramo posteriore del nervo rachideo, è profondo svolge funzioni posturali al pari degli altri muscoli del complesso spinale. Origina con diversi capi dalle apofisi trasverse di due o tre vertebre contigue che salgono per inerirsi su un’unica spinosa soprastante di quattro o cinque segmenti. Secondo Maigne il sistema dei muscoli spinali ha un ruolo importante nella disfunzione dolorosa segmentaria da lui descritta sotto il nome di disturbo doloroso intervertebrale minore DDIM. 31 Fig 1.13 I muscoli più superficiali, a funzione fasica, e con scarsa resistenza allo sforzo, sono deputati invece al movimento ma non sono indispensabili per il mantenimento delle posture in quanto, terminata la loro contrazione, ritornano nel loro stato di quiete. (erettore spinale, ileo costale, lunghissimo). Partendo dal fondamentale presupposto che i fattori muscolari non siano affatto identificabili come unica origine dei disturbi dolorosi e funzionali del rachide, è doveroso notare che squilibri di tono fra muscoli fasici e tonici, tensioni abnormi o spasmi muscolari possano essere alla base di situazioni algiche locali o proiettate e quadri disfunzionali a livello del rachide, essendo queste in grado di provocare deviazioni, deformazioni, perdita di mobilità segmentaria e alterazioni biomeccaniche. (X.Dufour, P.Ghossoub 2010) Innervazioni Brevi cenni all’innervazione, saranno affrontati in questa tesi con l’unico intento di cercare di stabilire una relazione di causa‐effetto fra 32 sintomatologia dolorosa, deficit neurologico periferico, danno meccanico anatomico e deficit funzionale. Fig 1.14 Il nervo spinale è costituito da una radice anteriore (motoria) con fibre efferenti motorie che provengono dalle corna anteriori del midollo spinale, e da fibre simpatiche dei segmenti lombari che innervano l’insieme di vasi ghiandole e dei muscoli striati di questa zona, e una posteriore sensitiva che raccoglie fibre afferenti (prolungamento centrale di neuroni pseudo‐unipolari a T), sensitive, il cui corpo cellulare si trova a livello dei gangli paravertebrali. Questi formano un rigonfiamento fusiforme della radice all’interno del canale di coniugazione eccetto per i gangli sacrali localizzati nel canale sacrale. I prolungamenti periferici (dendriti) di tali cellule gangliari raccolgono informazioni sensitive viscerali e somatiche ed i loro prolungamenti centrali (assoni) li trasportano al Sistema Nervoso Centrale grazie all’intermediazione delle radici posteriori prima e delle vie ascendenti 33 del midollo poi. Le radici anteriori e posteriori di ciascun lato si uniscono nel forame di coniugazione perforano il sacco durale a livello del colletto radicolare che rappresenta un punto di passaggio fisso. Una volta uscito da tale forame il nervo si biforca in un ramo anteriore, misto, che andrà poi ad unirsi agli altri formando il plesso lombare e sacrale ed uno posteriore, misto, che dà sensibilità superficiale e profonda del dorso e motilità alla muscolatura intrinseca del dorso. I rami anteriori dei primi nervi lombari costituiscono il plesso lombare e sono: • il nervo femorale (L2‐L3‐L4), non palpabile, le sue fibre si uniscono mentre attraversano il muscolo grande psoas, poi il nervo decorre sotto al legamento inguinale affiancato all’arteria e vena femorale, che innerva i muscoli anteriori della coscia; una sua paralisi determina difficoltà in flessione dell’anca ed estensione del ginocchio; anestesia della regione del ginocchio e mediale della gamba. • Il nervo otturatorio (L2‐L3‐L4) le sue fibre si uniscono all’interno del grande psoas scende verticalmente davanti alla sacro iliaca e si impegna nel canale otturatorio insieme all’arteria omonima. Si divide in due rami anteriore e posteriore. L’otturatorio innerva gli adduttori (lungo breve grande) il gracile il pettineo e l’otturatore esterno; una sua paralisi determina paralisi dei muscoli adduttori con difficoltà a spostare medialmente la coscia e difficoltà deambulatore. Tra le cause di lesione di tale nervo vi sono le fratture che interessano la branca ischio pubica. (AAVV Anatomia Umana Elsevier Masson 2008). • Il tronco lombosacrale (un ramo del 4° lombare più il ramo anteriore del 5°) più i primi 3 rami anteriori sacrali costituiscono il plesso sacrale. Il suo unico e voluminoso ramo terminale, spesso coinvolto nella patologia lombosacrale è: 34 • il nervo ischiatico o sciatico (L4‐L5‐S1‐S2) è il nervo più grosso e lungo del corpo fuoriesce dal bacino dal grande formane ischiatico davanti al muscolo piriforme, decorre nel punto intermedio fra tuberosità ischiatica e gran trocantere ed è palpabile in decubito laterale con anca flessa. Questo nervo si divide più volte lungo l’arto inferiore innervandolo quasi completamente. Una sua paralisi comporta deficit motori dei muscoli posteriori di coscia e di tutti quelli della gamba. Tra le cause di lesione vi sono le fratture dell’acetabolo con lussazione posteriore della testa del femore. (AAVV Anatomia Umana Elsevier Masson 2008). Disfunzioni gravi soprattutto di origine meccanica a carico dei rami anteriori dei nervi spinali possono portare anche a sintomatologie tipicamente radicolari e definite da segni neurologici anche evidenti. La branca posteriore è spesso trascurata nei trattati di anatomia e patologia, ma è tenuta in grande considerazione da Maigne, Sell e altri autori che la ritengono coinvolta nella genesi di molte affezioni dolorose del rachide. Ad eccezione di quella del secondo nervo cervicale, la branca posteriore è di calibro assai più piccola rispetto a quella anteriore; innerva i muscoli profondi delle docce vertebrali, le capsule, i legamenti peri‐articolari e la cute. Il territorio di innervazione non sempre è costante in zona cervico‐dorsale, mentre scende verso il basso in zona lombosacrale. 35 Fig 1.15 1.2 Elementi funzionali e biomeccanica I parametri sagittali del rachide Questi parametri sono elementi imprescindibili dei bilanci ideali rachidei; i paramenti clinici che possono essere supportati da indagine radiologica sono dati dalla misura delle frecce sul piano sagittale e permettono di cogliere nozioni ben conosciute di lordosi lombare, cifosi toracica, ante o retropulsione del bacino. L’analisi attenta di questi parametri ci permetterà di trarre indicazioni sulla particolare biomeccanica di ogni singolo soggetto. 36 Fig 1.16 Come mostrato in Fig 1.2 osserviamo in 2 l’angolo della lordosi lombare che si crea fra la base sacrale e il piatto superiore di L1 valore standard 40°; in 3 l’angolo determinante la curva della cifosi toracica (standard 35°) formatosi dalla congiunzione delle rette perpendicolari al piatto inferiore di T12 e al piatto inferiore superiore di T1; ed infine in 4 la curva della lordosi cervicale di circa 35°. Il determinarsi di tali curve è tanto determinato da fattori propri della colonna (osteoarticolari legamentosi e muscolari nonché forma cuneiforme dei dischi lombari e cervicali), quanto strettamente interconnesso ai parametri del bacino. Alcuni di questi parametri sono modificabili tramite un intervento fisioterapico ed un programma di esercizi adeguato. 37 Fig 1.17 Come mostrato in Fig 1.17 osserviamo la base sacrale come l’angolo formato fra la base del sacro e l’orizzonte il cui parametro fisiologico è di 37° questo angolo aumenta in antiversione fino a 75° e diminuisce in retroversione ed estensione anche fino a 10°, varia inoltre durante i movimenti di flesso‐estensione del rachide; la incidenza pelvica è l’angolo formato dalla retta perpendicolare al centro della base sacrale e una retta che unisce il centro dell’asse coxofemorale e lo stesso centro della base sacrale; questo angolo, il cui valore standard è di 53° ed è un parametro fisso non modificabile. L’incidenza pelvica, il cui valore non varia sensibilmente nemmeno con l’età e i processi degenerativi, determina l’angolo della base sacrale che a sua volta influenza fortemente il grado di lordosi lombare e di riflesso di cifosi dorsale. Recenti lavori condotti dalla dottoressa Duval‐Beaupère (G. Duval‐ Beaupère 2004), analizzano questi ed altri parametri nel tentativo di stabilire i giusti gradi di lordosi lombare e cifosi dorsale per un equilibrio sagittale economico a partire da una incidenza pelvica data 38 (parametro non modificabile). Nella sua valutazione su pazienti lombalgici sembra evidenziare, nella maggior parte di questi pazienti, una postura proiettata in avanti che si traduce in un globale atteggiamento flessorio del complesso lombo‐pelvi‐ femorale il quale porta ad un deficit estensorio del tratto lombare e di anca. Questa limitazione in estensione è determinata da una ipoestensibilità adattiva del comparto anteriore (psoas in primo luogo) e conseguente disequilibrio, ma deriva in maniera importante da un deficit estensorio di natura articolare determinato da posture flessorie prolungate. Un disequilibrio muscolare può essere responsabile di un disequilibrio posturale, ma non di un limite di articolarità in estensione, come dimostrato da un test di Biering negativo nella maggior parte dei casi. Ogni disequilibrio sul piano sagittale è compensato da una risposta muscolare costosa a livello energetico e potenzialmente dannosa meccanicamente specie a livello del rachide; il piano frontale sopporta meglio il disequilibrio, in quanto gli arti inferiori ne assorbono parzialmente il carico. (X.Dufour, P.Ghossoub 2010) A seguito dell’osservazione dei profili forniti, dal rapporto fra incidenza pelvica e base sacrale sono stati definiti 4 morfotipi rachidei (P.Rousilly 2006). Questa classificazione è interessante per capire i problemi delle patologie a carico del rachide; in effetti, i morfotipi con debole incidenza pelvica (ROUSSOULY 1 e 2) saranno più soggetti a patologie discali mentre i morfotipi con forte incidenza (ROUSSOULY 3 e 4) saranno più soggetti a scivolamenti degenerativi a tipo di spondilolistesi. 39 Fig 1.18 Il movimento Nelle attività quotidiane la colonna viene sottoposta a forze di compressione assorbite soprattutto dalla porzione anteriore colonna, a forze di torsione che agiscono sulle articolazioni posteriori, a forze di tensione e di taglio generate soprattutto da movimenti di flesso‐ estensione. Verrà in questa parte analizzata la biomeccanica della colonna in toto e non come singola unità funzionale spinale (FSU). La mobilità della colonna è data dalla sommatoria di 24 vertebre e 25 articolazioni e presenta 3 gradi di libertà come tutte le FSU che la compongono. Flesso‐estensione movimento sul piano sagittale, la flessione il cui limite è dato dalla tensione del LLP, è in totale di 140°, di cui 40° a carico del rachide cervicale, 40° del tratto toracico e 60° del tratto lombare compiuto al 70% dalla FSU L5‐S1, al 20% dalla FSU L4‐L5 e i restante dalle altre FSU. (I.A.Kapandji 1999) . I valori riportati sono quelli autorevoli del Kapandji, i quali vanno per completezza integrati citando Caillet (Caillet 1975) e Tittel (Tittel 1991) i quali sostengono che in realtà il valore di flessione lombare sia assai inferiore, e che si 40 realizzerebbe solo grazie al “ritmo lombo‐pelvico” grazie cioè ad una contemporanea antiversione del bacino sull’asse trans coxofemorale e una traslazione posteriore dello stesso. L’estensione il cui limite è rappresentato dalla messa intensione del LLA e dal contatto fra le apofisi spinose del tratto lombare è di 90° in totale (I.A.Kapandji 1999) di cui 45° di estensione cervicale, 15°di estensione dorsale e 30° del tratto lombare. Inclinazione laterale movimento sul piano frontale; questo movimento, non è mai puro, in quanto interviene a livello delle singole FSU una certa componente rotativa volta a limitare l’escursione laterale del rachide. I limiti alla inclinazione laterale sono dati quindi dalla rotazione fisiologica dei corpi vertebrali dovuta a tensione dei legamenti, tensione delle capsule articolari posteriori contro laterali al movimento, tensione del legamento lombosacrale (limitatamente al distretto lombosacrale), ingombro del materiale discale e tensione dell’anulus fibroso contro laterale al movimento. (V. Pirola 1998). Il valore totale è di 80°, di cui 40° cervicali, 15° dorsali e 25° lombari. Rotazione è il movimento che si realizza attorno all’asse longitudinale; è doveroso osservare che, a seconda che siano considerati i vari tratti rachidei, il centro di rotazione possa costituirsi nei corpi vertebrali, nel massiccio apofisario posteriore o ancora nel forame vertebrale. Si definisce rotazione il movimento rotatorio di un segmento vertebrale rispetto al segmento sottostante ed i movimenti artrocinematici sono sempre di rotazione accoppiata a inclinazione laterale, questo rapporto fra i segmenti è detto coupling ed è, secondo la maggior parte degli Autori, sempre controlaterale, tuttavia è da annotare che il concetto di coupling controlaterale è a tutt’oggi oggetto di dibattito e che nella pratica clinica si riscontra una importante soggettività. In effetti alla luce del comportamento delle varie FSU e dei 41 segmenti vertebrali, si potrebbe affermare che non esista una vera e propria rotazione nella colonna, ma che si realizzi un movimento nel quale i segmenti coinvolti presentano orientamenti diversi nei tre piani dello spazio, cioè che si compia in realtà una mera torsione. I limiti alla rotazione sono dati dall’insieme delle componenti legamentose, muscolari, articolari ed ossee che si oppongono al movimento, nonché dal particolare comportamento del disco intervertebrale, specie a livello lombare dove il ruolo del disco assume particolare rilievo. La rotazione complessiva è di 90°, di cui 50° a carico del distretto cervicale, 35° di quello toracico e soli 5° di quello lombare, limitato in questo movimento dall’affrontarsi delle articolazioni zigoapofisarie. L’effetto della rotazione è quello di aumentare considerevolmente la pressione intradiscale, e come vedremo più avanti questo è un aspetto importante nella valutazione e nella terapia meccanica. Fig 1.19 42 La funzione del disco intervertebrale I dischi intervertebrali hanno una funzione chiave nella biomeccanica del rachide, l’attenzione in questa sede sarà principalmente rivolta al tratto lombare, ma è bene comunque ricordare che la forma del disco, articolando fra loro i corpi, contribuisce a determinare le curve rachidee, (specie a livello cervicale e lombare) e che è il rapporto fra l’altezza del corpo vertebrale e il disco stesso a regolare l’ampiezza del movimento della FSU.(V. Pirola 1998). Il nucleo al suo interno è comunemente definito incomprimibile e per spiegarne il movimento in funzione del carico sono stati studiati i più fantasiosi paragoni (il seme di melone fra le dita o la saponetta fra i palmi di due mani); semplicemente possiamo dire che il nucleo polposo ha la capacità di allontanarsi dal punto dove vengono applicate le forze compressive (H. F. Farfan 1973) accompagnando la lo spostamento reciproco dei corpi vertebrali (che scivolano uno sull’altro) e permettendo così i movimenti di flesso estensione, inclinazione e rotazione‐torsione. Durante i movimenti il nucleo si porta dunque verso la zona dove le limitanti somatiche dei corpi si allontanano e di conseguenza aumenta la pressione sulla zona dell’anulus che costituisce la parete discale; in questa occasione possiamo notare che la parte esterna dell’anulus tende a deformarsi protrudendosi esternamente. Nel tratto lombare il centro del nucleo si trova generalmente posteriormente al centro geometrico vertebrale, e secondo Mckenzie (R. Mckenzie 1998) , la frequenza di attitudini posturali flessorie potrebbe portare il nucleo a migrare e ad occupare una posizione ancora più 43 posteriore fra i corpi vertebrali, ove le pareti dell’anulus sono più deboli a causa dell’orientamento delle fibre; questo spiegherebbe l’avvicinamento delle limitanti somatiche anteriori riscontrabili radiologicamente nelle prime fasi delle discopatie. Fig 1.20 44 IL DOLORE 45 2.1 Riferimenti anatomici e fisiologici Classificazione La definizione ufficiale di dolore è stata delineata dalla IASP, International Association for the Study of Pain, che nel 1979 la descrive come "un'esperienza sensitiva ed emotiva spiacevole, associata ad un effettivo o potenziale danno tissutale o comunque descritta come tale.” Tale definizione pone l’accento soprattutto sulla natura soggettiva della sensazione dolorosa, è quindi universalmente condiviso che il dolore sia una esperienza prettamente soggettiva e non quantificabile. Un Output percettivo corticale in risposta ad un segnale nocicettivo afferenziale. Attraverso il sistema della nocicezione (analizzato in seguito) viene trasmesso e decodificato attraverso complesso talamo‐ corticale ed è l’espressione di una esperienza sensoriale cognitiva ed emozionale. Il dolore è stato classificato in molteplici tipologie e sotto diversi aspetti. (Loeb et Al): Dolore nocicettivo che origina dai preposti nocicettori termici, meccanici o chimici. Compare in seguito ad un evento lesivo, lo stimolo viene percepito a livello periferico e trasmesso al sistema nervoso centrale, dove viene elaborato; l'intensità del dolore è correlata all'entità del danno subìto e si risolve, in genere, al risolversi della causa. Può essere di origine somatica (apparato muscolo scheletrico) o viscerale (organi interni). Si definisce acuto quando lo stimolo lesivo si accompagna a una serie di reazioni di difesa che tendono a compensare o allontanare la causa del dolore stesso, spesso con attivazione di alcune funzioni 46 neurovegetative (aumento dell'attività respiratoria, tachicardia, aumento della pressione arteriosa) e ansia. Dolore neurogeno si riferisce genericamente ai due differenti tipi di dolore con cui si manifesta la sofferenza o il danno delle fibre sensitive periferiche, rispettivamente dolore nevralgico e dolore neuropatico. Nevralgico si può definire il dolore radicolare irradiato, folgorante, a distribuzione definita in presenza o meno di deficit neurologico; è determinato da una sofferenza delle radici nervose. Neuropatico per lesione grave delle radici nervose Il dolore neuropatico è molto spesso accompagnato da iperalgesia o allodinia. E talvolta associato ad importanti manifestazioni vegetative di tipo ortosimpatico. E’ opportuno ricordare, per chiarezza di trattazione, che il dolore neurogeno è frequentemente provocato da alterazioni o disfunzioni in altri distretti, provando ad esempio cosiddette lombalgie internisti che18 (Giovannoni). Il dolore misto è un dolore con caratteristiche tipiche sia del dolore nocicettivo che del dolore neuropatico ed è probabilmente quello di più frequente riscontro sia nel dolore cronico oncologico. Col termine dolore psicogeno si intendono tutti quei dolori di natura psicosomatica maggiormente riscontrabili in soggetti con carattere ansioso ed emotivo o che vivono situazioni di stress. Sono dolori che si auto perpetuano e durano a lungo anche quando è superato l'evento scatenante. Di scarso interesse riabilitativo. Si parla di dolore cronico se dopo la fase del dolore acuto la sensazione dolorosa perdura, viene meno la sua utilità biologica e diviene essa stessa vera e propria malattia. È un dolore che dura almeno per 3 mesi o che comunque permane oltre il tempo normale di guarigione. Può determinare modificazioni affettive e comportamentali, 47 può condurre a invalidità o disabilità, con il rischio di incidere negativamente sulla qualità di vita e sulle perfomance lavorative. Nel dolore cronico, infatti, si sviluppano gradualmente debolezza, disturbi del sonno, perdita dell'appetito e depressione. Il risultato ultimo è spesso l’isolamento sociale. Questo dolore si presenta come un dolore acuto, ma nel tempo diviene un classico dolore cronico che, soprattutto nelle fasi avanzate della malattia, assume le caratteristiche di "dolore globale", ovvero di vera e propria sofferenza personale che riconosce cause non soltanto fisiche, ma anche psicologiche e sociali, che lo sostengono e lo perpetrano. Sintomatologia e topografia Il dolore la sua distribuzione topografica e le manifestazioni accessorie, sono i motivi che portano il malato alla consultazione e alla richiesta di intervento terapeutico sia questo fisioterapico, farmacologico o medico‐chirurgico. La sintomatologia può essere semplice o associarsi a contrattura muscolare, tendomiosi, a limitazioni e/o blocchi della mobilità (segmentaria o dei un particolare tratto rachideo). A livello topografico i sintomi possono localizzarsi in sede iuxtavertebrale o venire percepiti a distanza. Distinguiamo quindi : Sintomatologia locale: sensibile alla palpazione, spesso associata a sensazione di rigidità è attribuibile alle strutture capsulo‐ legamentose, ai nocicettori articolari e al nervo sino vertebrale di Luscka; secondo Gatto e Rovere (Gatto R. 2007) questi dolori sono strettamente legati all’attività dei meccanocettori facenti capo alle articolazioni interessate. Sintomatologia a distanza: che suddividiamo ancora in 48 sintomatologia irradiata ( radicolare o pseudo radicolare) , dolore riferito e dolore proiettato. Sintomatologia irradiata radicolare: complesso di sintomi, dominati dal dolore, che, a seguito di diretto interessamento di una o più radici nervose, si trasmettono e si localizzano a distanza, con manifestazioni obbiettive di irritazione o deficit neurologico. Sintomatologia irradiata pseudo radicolare: si intende quel complesso di sintomi che, pur avendo aspetti e caratteristiche per taluni versi simili a quelli radicolari, se ne differenziano in quanto non presentano deficit neurologici obbiettivi e una localizzazione periferica scostante e imprecisa. Il dolore riferito è da considerarsi di origine viscerale, le afferenze viscerali infatti, attraverso il sistema simpatico, giungono al midollo e qui anastomizzano con fibre efferenti provocando una sensazione dolorosa nel dermatomero corrispondente. In pratica messaggi provenienti da recettori di diverso tipo e situati in territori diversi risalgono ai centri del dolore talamo‐corticali attraverso una via ascendente comune. Questo meccanismo secondo Larrigue e Lazorthes (Larrigue L. Lazorthes G. 1989) è detto fenomeno della convergenza. Il dolore proiettato: lo stesso principio di convergenza, secondo Maigne (R. Maigne 2009) e altri autori, è applicabile anche alle strutture rachidee e peri rachidee, Nonostante i dolori proiettati possano mimare sintomatologie pseudo radicolari, non sono dovuti a compromissione delle strutture nervose, ma ad irritazione di altre strutture come capsule, muscoli, fasce e cute facenti riferimento allo stesso territorio di distribuzione del ramo di cui mimano il danneggiamento. Uno degli aspetti più frustranti del dolore lombare, sia per l’operatore sanitario che per il paziente, consiste nella difficoltà ad 49 individuarne la causa precisa. Nella maggior parte dei casi sintomatici non è possibile evidenziare a livello strumentale nessuna alterazione morfologica, e al contrario spesso si osservano esami strumentali con referti positivi per alterazioni strutturali di pazienti che tuttavia non evidenziano sintomi. L’ampia distribuzione dei nocicettori attorno alla zona lombare rende arduo trovare procedure test specifiche e sensibili per stimolare le singole componenti del tratto lombare, non esiste infatti univocità nell’individuare l’agente eziologico dei dolori lombari irradiati o meno; alcuni Autori li individuano in fattori muscolo‐legamentosi, altri vedono come principale fonte il nucleo e i suoi spostamenti problematiche posturali altri ancora disfunzioni segmentarie vertebrali con conseguente stress meccanico sulle strutture nervose. Nel contesto di questa tesi la trattazione sarà focalizzata prevalentemente sulle disfunzioni strutturali approcciabili con interventi valutativi e terapeutici di tipo meccanico. La nocicezione in area lombare La distribuzione dei nocicettori in area lombare si trova nella cute e nel tessuto sottocutaneo, nelle capsule fibrose delle articolazioni apofisarie sinoviali e nelle articolazioni sacro‐iliache, nei legamenti longitudinali (quello posteriore è il più sviluppato), gialli, interspinoso e sacroiliaci, nel periostio che ricopre gli archi vertebrali, nella fascia, nelle aponeurosi e tendini in questa inseriti, il terzo esterno del disco intervertebrale, lo strato fibro‐adiposo che connette posteriormente l’anulus al LLP e nella dura madre spinale incluse le maniche durali attorno alle radici. L’abbondanza di strutture nocicettive in area 50 lombare è ciò che rende difficoltoso individuare la struttura all’origine del dolore. In circostanze normali il sistema nocicettivo è relativamente inattivo, la sua attività afferente aumenta quando se sue fibre mieliniche vengono depolarizzate a seguito della applicazione di forze meccaniche sui tessuti che le contengono tali da sollecitarli o deformarli a sufficienza. Questa depolarizzazione può avvenire tanto a seguito di forze pressorie, distrattive o contusive quanto a causa della presenza nei tessuti circostanti di fluidi con sufficiente concentrazione di sostanze chimiche irritanti come quelli prodotti da un comune processo infiammatorio. (B. Wyke 1976). Spesso i due fattori si possono sovrapporre come nel caso dello stato infiammatorio post traumatico (vedi oltre), o delle alterazioni meccaniche che derivano dalla presenza di essudati infiammatori in tessuti innervati dai nocicettori. La presenza di materiale infiammatorio infatti eccita il sistema recettoriale, senza tuttavia produrre una depolarizzazione, in queste condizioni, l’applicazione di sollecitazioni meccaniche di poco conto provocano la depolarizzazione e quindi dolore. E’ da notare inoltre che ripetute sollecitazioni meccaniche anche se sub massimali possono produrre danno tissutale e piccole lacerazioni in grado di provocare una risposta infiammatoria e/o autoimmune come ad esempio le micro rotture discali. Distinguiamo quindi: • Dolore di causa chimica come concentrazione di sostanze chimiche nei tessuti molli innervate dal sistema nocicettivo; la sensazione dolorosa è continua e persistente; possono essere di natura infettiva di scarso interesse fisioterapico, infiammatoria come espressione di processi reumatologici e di interesse riabilitativo oppure infiammatoria post traumatica di grande interesse fisioterapico. 51 • Dolore di causa meccanica è il prodotto della deformazione delle strutture anatomiche che contengono il sistema nocicettivo; il tessuto non deve per forza essere danneggiato ma sollecitato a sufficienza da deformare il tessuto contenente le terminazioni nocicettive. Il dolore si modificherà al cessare di tale sollecitazione; è per usa natura intermittente. • Dolore a seguito di trauma, combina le due modalità di cui sopra ed è di frequente riscontro. Inizialmente la deformazione danneggi i tessuti molli dando origine ad un dolore acuto di origine meccanica. Subito dopo il trauma nei tessuti danneggiati si depositano sostanze chimiche, non appena queste sostanze avranno raggiunto una concentrazione sufficiente scateneranno il dolore chimico (sordo e costante) che si sovrapporrà in alcuni casi a quello meccanico (puntuale e intermittente) dando luogo ad una sintomatologia mista chimico meccanica, caratterizzata da un dolore costante fastidioso e sordo che potrà aumentare (difficilmente diminuire) a seguito di attività o dalle posture. (R. Mckenzie 1998). Il disco intervertebrale e il dolore Il disco intervertebrale, pur essendo una struttura non innervata nei suoi 2/3 interni è comunemente riconosciuto come coinvolto nella genesi dei dolori lombari e lombo ischiatici. Il disco infatti, risulta innervato nel suo terzo esterno dal nervo sino vertebrale (nervo di Luschka), si trova a stretto contatto con il LLP riccamente fornito di terminazioni libere nocicettive con il quale trae rapporti di continuità attraverso un tessuto fibro‐adiposo (anch’esso innervato) che lo connette anche alla manica durale emergenza delle radici nervose nel forame di coniugazione; è facile capire quindi una qualsiasi alterazione 52 strutturale o biomeccanica del disco possa generare dolore che sia puntiforme, a fascia o irradiato. . Fig 2.1 I movimenti delle singole FSU e quindi del rachide sono consentiti dai movimenti fisiologici del nucleo polposo all’interno del disco; la particolare conformazione del complesso discale e le sue particolari proprietà producono una dinamica di deformazione sotto carico che può sollecitare meccanicamente le strutture contigue. Nel caso di una flessione del rachide (Nachemson 1976) (Nachemson 1975) il nucleo viene spinto all’indietro esercitando una sollecitazione tangenziale sulla parete posteriore dell’anulus (la parte più debole); in situazione di scarico e di perfetta conservazione delle pareti anulari il disco protrude anteriormente a causa della detensione delle fibre anulari (Hyche et Hukins 1980). Robin Mckenzie (Spine 1998) sostiene, in base a revisioni della letteratura, e all’osservazione clinica, che in normali situazioni di carico le sollecitazioni assiali e tangenziali aumentino al punto da fare protrudere l’anulus nella stessa direzione in cui viene spinto il nucleo. Ad una flessione del rachide, specie se mantenuta o ripetuta corrisponderà dunque una protrusione posteriore del materiale discale. 53 Tali sollecitazioni sulle pareti possono essere aumentate da movimenti di flessione o inclinazione che aumentano la pressione intradiscale e da particolari posture o attività come evidenziato dagli studi di Nachemson . Insorgenza del dolore lombare secondo Mckenzie Possiamo analizzare l’insorgenza del dolore lombare analizzandone i fattori predisponenti ed i fattori scatenanti. Fattori predisponenti: R. Mckenzie (r: Mckenzie 1998) in accordo con molti altri autori individua tre principali fattori eziologici predisponenti, sicuramente riscontrabili con più frequenza nelle abitudini di vita tipiche delle società industrializzate che sono: la postura seduta (troppo frequente e scorretta), la frequenza della flessione e la perdita di particolarità in estensione. La postura seduta è forse la più importante, in quanto se una buona postura seduta mantiene le corrette curve fisiologiche della colonna, una seduta 54 scorretta le altera accentuandole o riducendole tanto da porre talmente sotto tensione le strutture legamentose da provocare dolore. La postura seduta scorretta è in grado di generare mal di schiena in se senza l’intervento di altri fattori che, come vedremo, nella realtà di ogni giorno andranno a sommarsi ad altri fattori rafforzando e perpetrando anche altri dolori. Nella maggior parte dei casi, quando un individuo assume la posizione seduta, dopo pochi minuti la sua colonna assume la posizione di flessione completa. Avendo probabilmente come fine il risparmio energetico, il soggetto rilascerà il più possibile la muscolatura e le strutture legamentose dovranno farsi carico di tutto il peso. La correzione della postura , e la sua limitazione ove possibile, è obiettivo imprescindibile nel trattamento delle lombalgie. Di particolare importanza in questo senso sarebbe lo studio di soluzioni ergonomiche adeguate che non saranno qui trattate. Gli studi di Nachemson (Fig ) sulle pressioni discali in relazione alle posture, ben evidenziano gli effetti che una postura seduta scorretta specie prolungata ha sul disco intervertebrale; questo è supportato dal fatto che spesso pazienti che lamentano dolore in produzione seduta traggano giovamento da una correzione della seduta verso una lordosi lombare e peggiorino a seguito di una correzione verso la cifosi. La perdita di articolarità in estensione secondo studi dello stesso Mckenzie sarebbe riscontrabile nel 72% ‐ 86% dei pazienti lombalgici; questa perdita di particolarità influenza le posture, la statica e la dinamica del rachide. Può essere generata da abitudini posturali scorrette, da abitudini di vita e lavorative o essere lei stessa la causa di posture errate. A seguito di questi deficit di estensione le strutture in relazione con la colonna possono andare incontro ad accorciamenti adattivi e questa perdita di particolarità può dimostrarsi irreversibile. Il soggetto può manifestare, in alcuni casi, addirittura una inversione delle 55 fisiologiche curve e presentare una lombare cifotica o rettilinea. Individui con questa perdita di particolarità saranno di conseguenza soggetti a vivere, e in special modo a sedersi, con un grande aumento della pressione intradiscale e con una parete anulare posteriore perennemente tesa e sollecitata. Il fenomeno della centralizzazione Punto essenziale del principio di terapia meccanica codificato da Mckenzie è il fenomeno della centralizzazione. E’ descritto unicamente nella situazione che lo stesso autore definisce sindrome di derangement, termine che diverrà poi di uso comune. Viene definito come l’inverso dello sviluppo del dolore nelle lesioni progressive del disco; come sono logiche e prevedibili le progressioni dei sintomi in caso di danno discale, altrettanto lo sono quelle del suo processo di riparazione che procederà a ritroso lungo le stesse tappe. Quando a seguito dell’intervento meccanico la protrusione si riduce, questa rilascia per prima la radice del nervo e poi la dura madre , e di conseguenza il dolore e la parestesia più periferica cessano, seguiti da riduzione del dolore a coscia e natica; a questo punto il dolore dovrebbe percepirsi in area lombare centrale. La centralizzazione è un fenomeno che si può parimenti osservare nel dolore di tipo simmetrico. Inoltre tale fenomeno indirizza la preferenza direzionale di trattamento (R. Donelson 2004) ed è inoltre segno prognostico positivo (A. Long 1995) (A. Karas 1997) (A. Sufka 1998). ‐ ‐ 56 ‐ La progressione delle forze e il dolore ‐ Durante un processo di centralizzazione e diminuzione dei sintomi, ci si può trovare in una fase di stallo, dove dopo un miglioramento iniziale, il paziente smetta di progredire; i sostenitori dell metodo MDT sostengono che, a questo punto possano essere necessarie delle manovre supplementari dette di progressione delle forze di trattamento, in quanto il derangement potrebbe essere particolarmente difficile da ridurre o in quanto il soggetto potrebbe non seguire le indicazioni fornite o abbia provocato un nuovo dislocamento di materiale discale. Ora senza entrare in merito a tali tecniche, e prendendo spunto da un recente studio (2012) pubblicato su Spine (H. Albert, B. Hauge E, Manniche 2009) dobbiamo interrogarci sul reale significato dell’effetto di questa progressione di forze sul dolore e sulla correlazione fra tipo di lesione discale e genesi‐perpetrazione della sintomatologia algica. Secondo diversi autori fra cui, Hauge e Manniche, è evidente che il solo modello discale non basti a spiegare l’efficacia del metodo, in quanto spesso pazienti con protrusioni importanti centralizzano con successo anche se in seguito dimostreranno immagini RMN senza significative modificazioni. I sostenitori più convinti dell’MDT sostengono che le immagini non possano evidenziare il comportamento del disco in carico e in attività funzionale, e che comunque un processo rigenerativo delle fibre anulari sia sopraggiunto a ripristinare la tenuta del disco sull’asse tangenziale; secondo gli autori di cui sopra invece le spiegazioni sono di ordine neurofisiologico: Probabilmente, come sembra sempre più evidente dallo studio di altre tecniche come la manipolazione secondo Maigne o nell’MWM (mobilisation with movements concetto Mulligan), anche nel 57 movimento ripetuto del Mckenzie (così come nel Maitland‐Kaltenborn) si vanno a stimolare dei maccanocettori‐propriocettori capsulari che attivano una risposta modulatoria a livello del SNC (sia corna posteriori che talamo corticali). Questo potrebbe spiegare perché quando si raggiunge uno stallo nella situazione clinica si riesca a migliorare con l’aumento delle forze (sovra pressione e altro): queste consentono di raggiungere il vero end‐range. Nell’end‐range infatti abbiamo la massima stimolazione sui meccanocettori, e quindi anche il massimo effetto neuromodulatorio. Come nello stretching muscolare, anche in questo caso aumenta la tolleranza al movimento, e quindi il ROM (l’estensione, nel caso di un derangement posteriore). Sostanzialmente, la differenza tra derangement e disfunzione è che la prima risponde velocemente (sia in peggio che in meglio) ai movimenti ripetuti (ore‐ giorni), mentre nella disfunzione la modifica tissutale risponde lentamente (settimane‐mesi) ai movimenti ripetuti. Come è ormai comunemente accettato sappiamo che dietro a miglioramenti rapidi in risposta alla terapia manuale è supposto esserci prettamente un effetto neurofisiologico: esattamente come nella risposta semi‐immediata alla manipolazione. E’ chiaro comunque che una parte della disfunzione sia meccanica: i modelli non si escludono, ma anzi si integrano. Secondo Mckenzie la meccanicità si esplica nella preferenza direzionale: infatti solo una direzione centralizza e migliora, l’opposta è peggiorativa, ed’ esattamente quello che avviene nelle MWM in cui una sola combinazione direzione‐intensità della forza massimizza l’effetto neurofisiologico, mentre altre direzioni non hanno effetto, sovrapponibile altresì alla regola del non dolore negli atti manipolativi di Maigne. L’organismo umano inteso come corpo e mente è di una complessità unica: possono essere solo il disco o gli effetti neuro modulatori a spiegare gli effetti dei movimenti ripetuti? 58 2.2 Un approccio integrato Le componenti fondamentali del dolore Sulla base di quanto detto possiamo ora affermare che il concetto del dolore sia formato da due componenti fondamentali. Una componente biologica (anatomica, neurofisiologica e biomeccanica) relativa alla struttura anatomica che riceve l’insulto; questa è in diretta relazione con la nocicezione. Un’altra componente è psichica di carattere interpretativo cognitivo ed emozionale, è soggetta a fenomeni di sensibilizzazione come allodinia e iperpatia, e può perdere la relazione causale con l’evento che lo ha scatenato, alterando, a volte, la relazione fra il sistema sensoriale della nocicezione e la struttura biologica. Il significato dell’autotrattamento Entrambe le sfere sono difficilmente indagabili, ma è doveroso sottolineare che la componente psichica è soggetta a maggiore variabilità ed è in diretta relazione al fenomeno di cronicizzazione; deriva da aspetti imperscrutabili di carattere psicosociale come le aspettative personali, la concezione della vita e del futuro, le ansie la relazione con la malattia e la sofferenza. Interessante sarebbe in questi casi, indagare il rapporto fra dolore e linguaggio che esprime, secondo alcuni autori fedeli alle teorie neuro cognitive, il significato ed il peso che il dolore ha occupato nella vita e nell’immaginario del soggetto affetto, ed una eventuale radicazione di questo nella rappresentazione del se inteso come corpo e come entità. La rappresentazione della parte 59 “affett” sarebbe compromessa nei soggetti che tendono verso la cronicità e la struttura anatomica viene identificata solo con il dolore; questi pazienti mostrano inoltre una sorta di rassegnazione, verso la patologia, le cui descrizioni da cliniche diventano quasi romanzate e rappresentate come situazioni di di fatto ed immutabili. (Romeo F. et al 2007) . Fig 2.3 Oggetto della tesi è sondare la validità dell’ intervento meccanico di derivazione Mckenzie e propriocettivo su entrambe le componenti del dolore. Questo tipo di approccio mira alla risoluzione, quando possibile, della sintomatologia lombalgica o lombosciatalgica promuovendo la guarigione dei tessuti molli che, deformandosi, generano una compressione su strutture innervate o su strutture radicolari adiacenti; al recupero della funzionalità dell’area lombare attraverso gli esercizi del protocollo di propriocezione lombare dell’ O.C. di Sanremo; e all’istruzione ed educazione del paziente. Proprio quest’ultimo aspetto, a volte sottovalutato, è il cardine di questo lavoro. Durante le sedute di valutazione e di trattamento, sono stati forniti al paziente informazioni sufficienti a non rimanere soggetto passivo del piano riabilitativo terapeutico ed è stato istruito 60 all’autotrattamento alla profilassi e alla gestione di eventuali riacutizzazioni . Cosi facendo si è cercato di allontanare la sensazione di impotenza che spesso si instaura in pazienti affetti da lombo sciatalgie importanti; sensazioni che possono portare al fenomeno della cronicizzazione e all’instaurarsi di una dipendenza verso il terapista . Il paziente lombalgico infatti ha spesso paura del movimento, soprattutto se cronico, ed esprime un comportamento evitante (fear‐ avoidance) e catastrofismo. Questo a lungo andare è associato a sensibilizzazione, sia periferica che centrale: come dicono alcuni ricercatori del dolore, “Pain is in the brain”. Per meglio dire, il dolore è un output del cervello, non un input afferenziale: l’input è il segnale nocicettivo. Questo viene “processato” nel cervello e modulato da fattori quali le nostre convinzioni sull’origine dolore, le esperienze precedenti, la nostra personalità, le nostre aspettative sulla malattia, ansia, depressione eccetera; l’output è la percezione del dolore quando il cervello percepisce quello che facciamo come un pericolo per l’organismo. Trovare una soluzione facilmente riproducibile come gli esercizi MDT e di propriocezione lombare la cui esecuzione migliora i sintomi contribuisce a ridurre nel paziente la percezione di pericolo, la paura del movimento, l’ansia e a dargli fiducia. Questo giustifica anche l’importanza che l’MDT attribuisce al modello educativo. Possiamo quindi definire l’approccio di questa tesi al paziente e al suo problema (il dolore) come un approccio integrato, dove si considera sia la componente biologica, (anatomica neurofisiologica e biomeccanica) che la componente psichica. 61 L.B.P. VALUTARE MISURARE COMPRENDERE 62 3.1 Misurare e valutare secondo criteri ICF Il complesso processo conoscitivo, diagnostico, prognostico e terapeutico di riabilitazione ha come obiettivo finale capire in che modo specifiche alterazioni biologiche possano relazionarsi patologicamente tra loro producendo disabilità, trovando gli approcci più idonei con i quali assistere i soggetti, finalizzando ogni sforzo clinico al miglioramento delle attività della vita quotidiana e della qualità di vita. Ogni azione riabilitativa è però correttamente percorribile solo se i pazienti sono accuratamente indagati, valutati e misurati (Van Dijk A.J. 2001). Misurare deve essere interpretato come il processo che permette di assegnare il significato al risultato di ogni valutazione, intravista quale oggettiva quantificazione di un’osservazione compiuta e posta a confronto con adeguati riferimenti. Si può, ad esempio, misurare la qualità con cui un soggetto compie determinati movimenti o la forza di una particolare abilità motoria; assegnando loro un significato numerico, si è in grado di compiere logiche deduzioni diagnostiche e prognostiche, con immediate ricadute terapeutiche (Wade D.T. 1999). Misurare permette, dunque, al riabilitatore di prendere più obiettivamente in considerazione ogni caratteristica individuale, reale o prevedibile fonte di restrizione delle attività di partecipazione, ampliando il ventaglio di risposte terapeutiche, migliorandone le capacità di progettazione riabilitativa (Van Dijk A.J. 2000). Sebbene tali affermazioni siano esaustive in ambito biologico e anatomo‐fisiologico, in ambito riabilitativo valutazione e misurazione devono possedere ulteriori caratteristiche, la cui conoscenza diviene 63 essenziale al fine di una applicazione più vantaggiosa per la gestione clinica, di ricerca nonché per il management sanitario (Wade D.T. 1999). La visione riabilitativa della valutazione deve essere multidimensionale e a favore di un reale e rispondente approccio bio‐ psico‐sociale ed inserirsi all’interno di un più vasto corpus dottrinale come l’International Classification of Functioning, Disability and Health. Intesa in tal senso, la valutazione riabilitativa permette di monitorare sensibilmente i cambiamenti temporali, intravedendo la necessità di un continuum temporale in funzione dell’evolversi di aspetti fisici, cognitivo‐comportamentali, psicocomportamentali e sociali. Una volta conosciute nel dettaglio le sue proprietà cliniche e psicometriche, ogni valutazione deve, infine, basarsi sull’accurata selezione dello strumento di misurazione, introdotto in funzione dell’outcome richiesto. Modello biomedico e biopsicosociale Secondo l’approccio meccanicistico alla nocicezione, il dolore è interpretabile quale immediata risposta ad una lesione biologica. Applicando questo modello teorico, si riconoscono schemi predefiniti di malattia e si applicano terapie sintomatiche nella speranza che, curando la lesione biologica, dolore e menomazione possano risolversi (Nachemson A, Johnsson E. 2000). Questo approccio soddisfa realtà “in vitro”, ma non sempre fornisce la soluzione alla malattia che si è compreso ormai andare al di là della semplice lesione tissutale. Si è compreso che la percezione del dolore non è esclusivamente correlabile a specifiche lesioni strutturali, che ricevere una menomazione non necessariamente coincide con l’essere disabili e che grande influenza sulla manifestazione di malattia è rivestita da fattori individuali, 64 culturali e socioeconomici (Pincus T. 2000). In altri termini, affidarsi ad un modello valutativo che non contempli la complessità della reazione umana al dolore, alla menomazione ed alla disabilità è alquanto limitante (Waddell G. 1987). Clinici e ricercatori devono essere indotti ad applicare un modello clinico di disabilità più aderente alla realtà come il modello biopsicosociale proposto da Waddel (Fig 4.1), nel quale dolore e menomazione, esprimendosi, integrino disfunzione e decondizionamento con manifestazioni psico‐sociali (Waddell 1998, Findlay 2006). Fig 4,.1 Sono stati proposti diversi modelli concettuali per comprendere e spiegare la Disabilità. Secondo il modello biomedico, la Disabilità è un problema della persona, causato da specifiche lesioni biologiche. Il modello sociale della Disabilità vede, altresì, il problema indotto dalla società e dipendente da complesse interazioni determinate principalmente a livello sociale. Il pensiero riabilitativo deve andare oltre queste due dimensioni, offrendo strumenti valutativi più adeguati alle diverse situazioni cliniche da misurare. Secondo questa innovativa prospettiva, la Disabilità si esplica attraverso più componenti: dolore, disfunzione fisica, aspetti psico‐comportamentali, aspetti sociali e socioambientali. Per cogliere l’integrazione di ogni singola componente, 65 l’approccio ritenuto più affine alla multidimensionalità dell’essere umano è quello biopsicosociale, permettendo la sintesi delle diverse dimensioni della salute a livello biologico, individuale e sociale (Waddel 1998, Monticone 2006). La corretta definizione del ruolo dei fattori biologici, psico‐sociali ed ambientali è illustrata nella recente Classificazione ICF, International Classification of Functioning, Disability and Health (WHO, 2001), accettata quale standard internazionale per misurare Salute e Disabilità, base scientifica per la comprensione e lo studio delle condizioni, delle cause e delle conseguenze correlabili (World Health Organization. International Classification of Functioning 2001). Raccogliendo i principali aspetti della salute umana, l’ICF serve da modello di riferimento per le Strutture Corporee (aspetto anatomico), le Funzioni Corporee (aspetto fisiologico), le Attività di Partecipazione (attività della vita quotidiana), i Fattori Ambientali (caratteristiche familiari, lavorative, sociali, …) e i Fattori Personali (atteggiamenti, comportamenti, ambiente fisico e sociale) (V. Pirola 1998). La Disabilità viene, dunque, ridefinita ed intesa come il risultato di una complessa relazione tra condizione di salute, fattori personali e fattori ambientali. Direttamente correlata alla visione biopsicosociale della realtà, essa supera le distinzioni formali tra ciò che è salute e ciò che è menomazione, pensando all’essere vivente nella complessità del suo funzionamento (Stucki G, Ewert T, Cieza A 2002). L’applicabilità e la diffusione a livello clinico dell’ICF si auspica possa essere ulteriormente favorita dall’introduzione degli ICF Core Sets, che riassumono le principali caratteristiche funzionali da considerare per la valutazione di specifiche condizioni patologiche. Attualmente i Core Sets sono stati sviluppati per dodici condizioni di salute , ma sono in corso validazioni sperimentali per ulteriori condizioni cliniche in ambito ortopedico, 66 neurologico, cardiovascolare e respiratorio, in ambienti per acuti, postacuti e cronici (Duval‐Beaupère G 2004). L’attuale sviluppo dei Core Sets comprende i Comprehensive Core Sets, in cui sono elencati tutti gli aspetti del funzionamento che possono insorgere per una specifica condizione di salute, e i Brief Core Sets, che includono i problemi ritenuti irrinunciabili per una rapida ed efficiente applicabilità clinica (Cieza A, Ewert, T, Chatterji S. 2004). Significato dell’outcome Col passare degli anni e con particolare riguardo alle discipline in cui dolore e sofferenza sono divenuti i sintomi maggiormente associati alla richiesta di cure, gli obiettivi terapeutici hanno progressivamente tenuto conto della sfera personale del paziente: è divenuto, pertanto, cruciale saper misurare ogni azione clinica in funzione degli obiettivi dei pazienti, piuttosto che limitarsi a predefiniti, arbitrari e troppo spesso cristallizzati criteri di un processo valutativo che, così facendo, rischiava di allontanarsi dalle reali aspettative dell’utente (Basaglia N 2002). La pubblicazione di scale di valutazione del dolore e della disabilità che primariamente promuovono le prospettive del paziente testimonia l’importanza dell’approccio biopsicosociale. Chi, d’altronde, se non il paziente è nella posizione più idonea per offrire il resoconto più accurato dell’intensità e della qualità dei propri sintomi oltre a permetterci di capire cosa realmente provoca in lui disagio, limitazione delle attività quotidiane, lavorative e sociali? Così interpretato, l’outcome diviene l’insieme dei risultati perseguibili dai diversi programmi riabilitativi, espressione del recupero obiettivo acquisito e delle percezioni soggettive che contribuiscono a determinare la qualità di vita di un paziente, intravista come il maggiore degli obiettivi 67 prescelti: è il risultato finale di ogni attività riabilitativa e coincide con la soddisfazione del paziente nella sua complessità funzionale (Basaglia N. 2000, 2002) Organizzare gli interventi riabilitativi secondo la logica dell’outcome rappresenta, dunque, una modalità essenziale per la Riabilitazione contemporanea, poiché mette al centro dell’organizzazione di ogni intervento la persona disabile con i suoi bisogni, desideri, aspettative e potenzialità, valutando l’efficacia di ciascun intervento riabilitativo proposto e realizzato (Fitzpatrick R, Davey C, Buxton Mj, Jones DR. 1998). Tipologie di outcome In base alle molteplici prospettive cliniche e di ricerca, in Medicina esistono differenti tipologie di outcome. Tradizionalmente, i principali indicatori riportati in molti studi hanno evidenziato obiettivi clinici riferendosi esclusivamente a variabili anatomiche o fisiologiche. Questi outcome, però, non riflettono l’obiettivo finale dei risultati ai quali terapisti e pazienti possono essere maggiormente interessati. Obiettivi spiccatamente biomedici non correlano efficacemente con l’impatto biopsicosociale che disfunzione fisica, persistenza dolorosa, mancanza di un precoce ritorno al lavoro e peggioramento nelle attività della vita quotidiana possono esercitare (Deyo RA. 1988). Se desideriamo improntare l’attività riabilitativa seguendo la contemporanea visione dell’outcome, è necessario che la creazione di ogni obiettivo riabilitativo possa basarsi sulle particolari aspettative del paziente (patient oriented decisions), indirizzarsi verso uno specifico contesto (setting oriented decisions), seguendo consapevoli principi temporali (timing oriented decisions) (Bombardier C 2000). In tal senso, sono più efficientemente definibili gli out come per i più comuni quadri clinici riabilitativi. Per un 68 soggetto con diagnosi recente di Artrite Reumatoide, a breve termine l’outcome è rappresentato da una efficace riduzione del dolore e dell’infiammazione correlata agli indici di flogosi reumatologica, a medio termine diviene significativo il mantenimento delle abilità occupazionali, a lungo termine appare auspicabile la conservazione di un soddisfacente stato di salute. Per un paziente sopravvissuto a cerebrovasculopatia secondaria a stroke, a breve termine l’outcome è rappresentato dal recupero degli aspetti cognitivi, del linguaggio e della funzione fisica, a medio termine diviene significativo riacquisire l’indipendenza e la possibilità di ritornare presso il proprio luogo di lavoro, a lungo termine è desiderabile il mantenimento di una qualità di vita considerata dal paziente accettabile. Per un soggetto con lombalgia aspecifica, a breve termine (fase acuta) l’outcome coincide con la riduzione del dolore, la rassicurazione e l’educazione, a medio termine (fase subacuta) assume valore l’individuazione di fattori di rischio fisici e psico‐sociali favorenti l’eventuale persistenza dei sintomi, a lungo termine divengono prioritari il controllo della disabilità e del decondizionamento psicosociale correlabili a dolore cronico. Limiti dell’outcome Sono essenzialmente rappresentati da confronti delle variabili in oggetto: impossibilità del confronto oggettivo tra le diverse misurazioni introducibili, dall’evolutività temporale dei quadri clinici considerabili e dagli aspetti economico‐finanziari ((Deyo RA, Patrick DL 1989),). Confronti ritenuti affidabili richiedono omogeneità in termini di severità del problema, di comorbilità, di salute basale e delle più significative variabili demografiche. Timing terapeutico: recenti metanalisi (Gross AR 2004) condotte, ad esempio, sulle manipolazioni 69 vertebrali dimostrano che i benefici terapeutici maggiori occorrono entro pochi giorni o settimane dal trattamento, in assenza di effetti clinici significativi a medio o lungo termine. Di conseguenza, il timing dell’iter terapeutico e la durata del follow up devono, dunque, essere presi in considerazione poiché in grado di incidere in modo non trascurabile sulla valutazione dell’outcome, nei confronti di condizioni cliniche acute e croniche tipiche delle attività riabilitative. Costi sanitari: un ulteriore limite è rappresentato dagli aspetti economico‐ finanziari, potenziali confondenti nell’uso e nell’obiettiva interpretazione di qualsiasi strumento di misurazione. Se, ad esempio, la prospettiva di un indennizzo è immaginato rendersi correlabile a peggiori livelli di disabilità, alcuni soggetti potrebbero essere indotti a manifestare peggiori condizioni fisiche. Al contrario, pazienti che temono di perdere lavoro ed indennizzi assicurativi se ammettono problemi funzionali troppo gravi, potrebbero adottare comportamenti opposti al precedente. L’influenza di questi effetti è difficilmente quantificabile, sebbene sia evidente che, a parità di lesione biologica, outcome peggiori si riscontrino prevalentemente nei pazienti per i quali gli indennizzi siano prevedibili rispetto a quelli che non li possono ricevere. Molti limiti, inclusi i non pochi problemi legati ad eventuali barriere logistiche operatore‐dipendenti, devono essere considerati e superati prima che le misure di outcome possano essere diffusamente accettate e serenamente utilizzate in ambito clinico. È indubbio che questi limiti rendano l’approccio corretto più difficile, ma non devono essere considerati invalicabili: superandoli, mediante attenta pianificazione dell’attività riabilitativa, si potrà garantire il miglioramento della qualità dell’assistenza, l’efficacia e l’efficienza delle modalità di approccio. 70 Strumenti Le principali misurazioni delle attività riabilitative sono essenzialmente da ricondurre a: a) segni fisici e sintomi (di natura anatomo‐fisiologica e biologica); b) funzionamento fisico e cognitivo; c) partecipazione lavorativa e sociale; d) benessere e stato emozionale; e) soddisfazione percepita verso l’assistenza; f) qualità di vita correlabile allo stato di salute. Per questi propositi lo studio di effettive misure di outcome è diventato uno dei principali obiettivi della ricerca sanitaria: un ampio numero di strumenti di misurazione si è reso progressivamente disponibile, con maggiore predisposizione all’utilizzo in differenti contesti assistenziali. I più comuni modelli utilizzabili per la misurazione delle attività riabilitative sono essenzialmente due: l’osservazione/esame clinico e l’esperienza del paziente, in forma di intervista strutturata o di questionario auto‐compilato (Mc Dowell I, Newell C. 1987). Nel primo caso, il professionista sanitario elabora un giudizio obiettivo o individua specifici parametri sulla base di un’evidenza soggettiva, indipendentemente dal paziente. Nel secondo caso, al soggetto è richiesto di registrare i fenomeni provati in relazione ad una specifica condizione di salute, fornendo una valutazione correlata alle proprie prospettive ed esperienze. L’oggetto d’interesse può essere misurato da una singola domanda o da più domande, formando un vero e proprio 71 questionario, con più possibilità di scelta e di risposta. Il primo tipo di misurazione potrebbe apparire più attendibile, poiché in grado di rispecchiare obiettivamente l’oggetto dell’outcome. È indubbio, però, che umore del soggetto, motivazione o altri fattori psico‐sociali presenti possano influenzare molte delle certezze in merito all’obiettività della misurazione fisica. Per questo motivo, è cresciuto l’interesse verso il secondo tipo di misurazione, considerato da alcuni Autori meno attendibile e più debole (Deyo RA, Patrick LP 1989): tuttavia, i confini tra ciò che si considera debole e ciò che si considera forte possono essere spesso mal definiti e, talvolta, disorientanti. Feinstein (Feinstein AR. 1977) affermava che la forza di un dato deve dipendere dalla propria obiettività, dalla preservabilità temporale e dalla capacità di quantificare numericamente. Concluse che la forza di un dato dipende soprattutto dalla riproducibilità della misurazione stessa ripetuta a distanza di tempo, nelle stesse circostanze e anche da operatori diversi. In base a questa considerazione, molti dei moderni questionari possono essere considerati tanto forti quanto molte delle osservazioni cliniche con le quali siamo più familiari. Per la valutazione biopsicosociale della disabilità, si raccomanda di applicare più di uno strumento di misurazione. Questo permette di non trascurare i diversi outcome, di giudicare con più accuratezza le conclusioni di ogni studio e di affinare le capacità alla base della confrontabilità dei diversi sistemi di misurazione impiegati. Esistono molteplici scale di valutazione, prescelte in funzione degli obiettivi del singolo ricercatore e di fronte alla singola esigenza del quesito clinico. I costrutti della Classificazione Internazionale del Funzionamento, Disabilità e Stato di Salute permettono di valorizzare interamente il pensiero riabilitativo alla base della scelta degli strumenti di misurazione utilizzabili, in funzione delle limitazioni delle 72 attività della vita quotidiana, della attività occupazionali, delle restrizioni della partecipazione, nella piena consapevolezza che anche fattori personali (cognitivo‐comportamentali) e socio‐ambientali possano contribuire alla definizione dell’outcome globale (World Health Organization. International Classification of Functioning 2001), permettendo più efficaci risposte terapeutiche. Vi è crescente evidenza internazionale (Kuijer W, Brouwer S, Schiphorst Preuper HR, et al 2005) che la scelta di una misura di outcome debba essere sempre intravista in funzione di quanto presente nel modello ICF: la scelta di specifiche misure di outcome deve essere finalizzata ad esprimere la multidimensionalità dell’approccio desiderato alla disabilità; al contrario, la mancanza di aderenza a questo assunto permette un’applicazione solo parzialmente rispondente al modello bio‐psico‐sociale. La scelta consapevole del determinato strumento di valutazione permette, dunque, di comprendere quali costrutti dell’ICF siano effettivamente espressi, confermando l’appropriatezza della misura di outcome. 3.2 Inquadramento I.C.F. del soggetto lombalgico Sindrome biopsicosociale per la lombalgia cronica Dalla teoria del gate control di Melzack e Wall, le conoscenze neurofisiologiche sul dolore si sono evolute ed affinate. Waddell (Waddell G. 1987) per primo ha cercato di guardare oltre la pura “dimensione dolore”, applicando un modello più complesso, ma più vicino alla realtà, delineando i fattori che interagiscono tra loro nel determinismo del dolore lombare cronico e della disabilità. La figura 4.2 rappresenta in un modello biopsicosociale, uno schema in cui il dolore 73 (lombare nel caso di questa tesi) origina da stimoli nocicettivi vertebrali, ma esprimendosi, integra aspetti fisici con manifestazioni psico‐comportamentali e perdita funzionale, divenendo modello di patologia umana e non solo di sintomatologia algica. Lombalgia (cronica ma non solo) e disabilità non dipendono, dunque, da fattori puramente fisici o puramente psicologici, ma piuttosto da una complessa interazione degli stessi nel corso del tempo. Fattori psicologici possono influenzare i processi fisici, ad esempio, mediante aumentata tensione muscolare o particolare timore nell’esecuzione di un movimento. Alterazioni comportamentali possono coinvolgere l’esecuzione di attività lavorative così come le stesse attività possono assumere riflessi negativi in termini comportamentali. Iniziando spesso come normale conseguenza del dolore, questi quadri possono condizionare nel tempo il soggetto, inducendo modificazioni fisiche come disturbi posturali, della deambulazione e del movimento. Persistendo il più delle volte ad un livello inconscio ed indipendente dalla reale sintomatologia dolorosa, alterati processi psico‐fisiologici e psico‐comportamentali spingono il soggetto lombalgico ad un decondizionamento fisico e psicologico, al centro di un circolo vizioso che accresce erronee convinzioni sul dolore, sui rischi occupazionali e su fallibili strategie terapeutiche (Pincus T. 2000). Fig 4.2 74 Il modello biopsicosociale non segue fasi consequenziali e predeterminate: la percezione dolorosa può sia precedere che seguire il problema fisico, così come la personalità del soggetto ed il suo preesistente stato psicologico possono concorrere a modificare l’intero processo. Dolore e Disabilità non sono una condizione statica, ma costituiscono un processo che si evolve dinamicamente nel tempo: molte delle modificazioni psicologiche e comportamentali riscontrabili nella sindrome cronica lombare appaiono precocemente, sviluppandosi già dopo pochi giorni dall’insorgenza del dolore. Sebbene sintomatologicamente ed obiettivamente simili agli altri soggetti, si riscontra che chi, spinto da esperienze personali, dal catastrofismo, dalla depressione e dal contesto sociale, rimanda il precoce ritorno lavorativo nel vano tentativo di limitare la percezione dolorosa, è maggiormente esposto a cronicizzazione, in contrasto con chi cerca da subito una precoce ripresa lavorativa, riuscendo così a condizionare positivamente gli esiti a breve e a lungo termine (World Health Organization. International Classification of Functioning 2001) . La disabilità secondaria ed il decondizionamento si esplicano, dunque, attraverso più componenti: dolore (nella sua complessità cognitiva e neurofisiologica), disfunzione fisica, aspetti psico‐ comportamentali, aspetti sociali e socio‐ambientali. Misure di outcome in aderenza al modello I.C.F. I pazienti con lombalgia cronica mostrano alterazione e riduzione della performance motoria; sono limitati nell’esecuzione di specifiche attività della vita quotidiana, nella cura di se stessi o nell’esecuzione di compiti in ambito domiciliare ed occupazionale, come muovere, 75 spostare o maneggiare oggetti; il livello di partecipazione, descritto come il coinvolgimento in una particolare situazione della vita, è altresì ridotto; i soggetti lombalgici mostrano, inoltre, sofferenze e disadattamenti in ambito sociale, occupazionale ed ambientale, spesso associati ad alterazioni dell’umore, alla paura di muoversi e peggiorare la condizione clinica, alla percezione di sé e della propria salute errata, a strategie di coping scorrette. Per ricevere le risposte terapeutiche che realmente necessita, ogni paziente necessita di una valutazione multidimensionale ed ICF‐mediata, che permetta l’analisi del funzionamento, della disabilità, dei fattori personali e dell’ambiente, sociali ed occupazionali (Kopec JA, 1995, 2000). Ogni parte del modello ICF esposto può, in tal senso, essere attentamente percorso attraverso adeguate misure di outcome. A titolo esemplificativo e in riferimento a quanto pubblicato da Kuijer Wet al (Findlay G et al. 2006), è raccomandato utilizzare la scala VAS per valutare l’intensità del dolore, le scale Roland Morris Disability Questionnaire ed Oswestry Disability Index per la quantificazione del livello di Disabilità, i questionari Fear Avoidance Belief e TampaScale of Kinesiophobia per valutare credenze, pensieri e pregiudizi riguardanti il dolore vertebrale, il Coping Questionnaire per stabilire le strategie di coping, il Beck depression Inventory per valutare lo stato d’umore (Roland M, Morris R. 1983, Fairbank J, Pynsent P. 2000, Roelofs J et al. 2004, Ostelo R.W.J.G., de Vet H.C.W 2005). Possono associarsi strumenti di valutazione della performance motoria. È raccomandabile introdurre un’accurata descrizione delle attività lavorative e dei fattori limitanti le attività stesse, delle caratteristiche personali dei soggetti quali età, sesso, razza, livello educativo, caratteristiche del dolore, durata del dolore, precedenti trattamenti. È raccomandato indagare le modalità di vita del soggetto e 76 lo stato civile, sebbene i fattori ambientali risultino difficilmente misurabili attraverso specifiche scale di valutazione. Lo stato di salute generale è, infine, valutabile attraverso il Sickness Impact Profile, (SIP‐ 136), la scala SF‐36, la scala SF‐12 e la scala EuroQol. Ogni valutazione, prescelta accuratamente per la valutazione del soggetto con lombalgia, diverrà essenziale strumento di misurazione clinica del risultato in itinere, del risultato al termine dell’intervento terapeutico e di monitoraggio nel tempo. Evidence Based Practice Si deve a David Sackett la definizione di Evidence Based Medicine come "un approccio alla pratica clinica dove le decisioni cliniche risultano dall'integrazione tra l'esperienza del medico e l'utilizzo coscienzioso, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze scientifiche disponibili, mediate dalle preferenze del paziente". Questo concetto si è progressivamente esteso a tutte le professioni della Salute, compreso il fisioterapista (Evidence Based Physiotherapy) ad intendere quindi "pratica professionale basata sulle evidenze scientifiche". Nel tempo, la definizione si è ulteriormente evoluta, prendendo in considerazione anche il contesto clinico‐ assistenziale e considerando l’esperienza clinica come l’elemento che può integrare evidenze, preferenze e contesto. Secondo il Sicily Statement on Evidence‐based Practice, tutti i professionisti della sanità devono possedere uno spirito critico sia nei confronti della propria pratica professionale, sia delle evidenze scientifiche, devono essere capaci di ricercare, valutare e applicare le 77 migliori evidenze scientifiche (EBP core‐curriculum); ed inoltre essere disponibili ad implementare linee guida e percorsi assistenziali. Fig 4.3 Lombalgia: cosa e come misurare? Alla luce di quanto sino ad ora esposto verranno di seguito illustrate le misure dell’ out come scelte relative ai disordini lombari dei pazienti oggetto di questa tesi. Gli aspetti da indagare per una corretta valutazione dei risultati saranno quindi scale aderenti ai criteri ICF di “Body functions”, “Activities” e “Partecipation”, scale che misurino il dolore, scale che misurino lo stato generale di salute del paziente, e scale che possano rappresentare il l’atteggiamento e l’aderenza del soggetto alla malattia e al piano di trattamento. Le scale relative ai criteri ICF, al dolore e alle condizioni generali di salute sono state somministrate prima di iniziare il trattamento e durante il follow up a 45 giorni, al fine di poter essere fonte di interpretazione statistica, mentre quelle relative all’atteggiamento del paziente è stata somministrata esclusivamente nel contesto della prima 78 seduta e ci fornirà in fase di analisi dei dati una diversa chiave interpretativa dei dati ottenuti. Secondo Wade (Wade DT. 1992) misurare è il processo che permette di assegnare un significato al risultato di ogni valutazione oggettiva. Attraverso la quantificazione di un’osservazione clinica si devono porre a confronto i dati con adeguati riferimenti. Al pari della conoscenza della patologia, delle possibilità di intervento e della esperienza clinica, la capacità di misurare e la familiarità con le misure di outcome sono requisiti indispensabili per l’efficacia di un trattamento. Nei casi di soggetti lombalgici le Euro Spine Guidelines indicano gli aspetti da indagare: oltre a una attenta anamnesi e valutazione clinica (che tratteremo in seguito) stato di salute in generale, intensità del dolore, disabilità fisica, distress psico‐sociale, pensieri e paure relative alla malattia e salute in generale. In campo valutativo‐interpretativo è indispensabile avere ben chiaro quale sia l’aspetto da indagare, conoscere l’adeguatezza degli strumenti di indagine in termini di sensibilità e specificità, sapere interpretare i risultati, essere in grado eventualmente di combinare con profitto i vari strumenti di misura. Tutto questo senza prescindere dalla applicabilità degli strumenti di misura al contesto in cui vengono somministrati e alla loro riproducibilità. Le scale sono state compilate durante la prima seduta in modalità di auto somministrazione contestualmente all’esame fisico secondo la scheda dell’istituto Mckenzie, implementata con una batteria di test ortopedici e neurologici volti ad escludere altre patologie che potessero mimare una situazione di lombalgia. 79 Fig 4.4 Condizioni generali di salute Lo strumento valutativo scelto è il questionario SF12, short form del questionario SF36. Tradotto e validato in italiano. Attraverso dodici domande permette di indagare due valori il PCS (Physical Component Summary) per lo stato fisico e MCS (Mental Component Summary) per lo stato mentale. È costituito da domande per: attività fisica, ruolo e salute fisica, ruolo e stato emotivo e salute mentale, dolore fisico, salute generale, vitalità e attività sociali. Tempo di somministrazione cinque minuti, può essere utilizzato con altri questionari specifici; ed avere significato anche come indice prognostico. 80 Dolore Come abbiamo già detto è il sintomo cardine, quello che porta in trattamento il paziente e quello al quale il soggetto sarà più attento e sensibile. Gli strumenti valutativi hanno il limite di fornire una rappresentazione del fenomeno limitato nel tempo, una sorta cioè, di fotografia del dolore al momento della somministrazione; è assai difficile proporre e considerare affidabili questi test in relazione a momenti lontani nel tempo, i risultati possono essere tuttavia relazionati ed interpretati assieme ad altri indici. Lo strumento scelto è il N.R.S. (numerical rating scale) una versione implementata della comune scala V.A.S.; semplice breve da somministrare, risulta di più facile comprensione rispetto alla V.A.S. in quanto la linea è corredata di punti di ancoraggio numerici da 1 a 10 fra i quali il soggetto può scegliere per rappresentare al meglio il suo dolore. E’ una scala semplice, di dimostrata validità e ha evidenziato una maggiore sensibilità rispetto alla scala V.A.S. secondo studi riguardo l’MCID (la minima variazione clinica importante per il paziente) (Ostelo R.W.J.G., de Vet H.C.W. Et al 2005, 2008) Fig 4.5 81 Criteri I.C.F.: body function & structure (impairement) Abbiamo scelto la flessione anteriore come parametro valutativo della funzionalità del rachide; questa è la prestazione che generalmente ogni individuo richiede maggiormente alla propria schiena e il cui deficit viene facilmente percepito dal soggetto così come ogni dolore provocato da tale movimento. Per misurarla anziché un inclinometro per il R.O.M. spinale, abbiamo semplicemente adottato il “Finger tip to floor test”. Si chiede al paziente, in posizione eretta con talloni distanti circa 10 cm, una flessione anteriore del rachide portando la punta delle dita della mano verso il pavimento mantenendo le ginocchia completamente stese. Viene misurato, attraverso l’impiego di un semplice metro a nastro, la distanza delle dita dal pavimento in cui sopraggiunge il dolore e la distanza alla quale il paziente riesce ad arrivare. Criteri I.C.F.: activities (limitation) Per valutare le attività residue, le limitazioni nelle ADL e nelle capacità occupazionali è stato compilato l’ O.D.I. (Oswestry disabilty index). Sviluppato e pubblicato fra il 1976 e il 1980 (Fairbank JCT Davies JB. 1980), ma tradotto e validato in italiano da Monticone solo nel 2009, ha come obiettivo di facilitare la valutazione della lombalgia e della disabilità correlata, presenta buone qualità psicometriche, validità e riproducibilità. È composto da 10 sezioni (nella versione originale poi implementata nel 1989) in grado di ottenere informazioni sull’intensità del dolore e dei suoi effetti disabilitanti nelle 82 principali ADL. Ogni sezione può dare un punteggio che va da 0 a 5, più è alto è il punteggio e maggiore è l’impatto della patologia sul paziente il tempo di somministrazione di cinque minuti. Il questionario O.D.I. tradotto in italiano nella versione 2.0 si trova allegato in calce al capitolo. Criteri I.C.F.: partecipation (restriction) Per valutare quest’ultimo aspetto abbiamo sottoposto al paziente un semplice quesito riguardo l’impatto che la situazione di lombalgia ha sulla loro vita sociale e di relazione. Il grado di restrizione delle partecipazioni è stato espresso grazie un ancoraggio numerico. Una copia del formulario è inclusa a fine capitolo. Strumenti di misura dei fattori personali: Tampa scale of kinesiophobia La TSK si propone di identificare i soggetti per cui sarebbe utile un trattamento psicosociale e può, sia fornire una chiave interpretativa nell’analisi degli outcome, che essere utile quale riferimento prognostico sul successo del piano terapeutico. La TSK è stata sviluppata da Miller nel 1991 e successivamente tradotta in italiano da Monticone nel 2010, per essere poi validata relativamente a 13 dei 17 quesiti originali. Alcuni quesiti, posti sotto forma negativa nella forma originale non hanno trovato valida traduzione e quindi esclusi. Si compone di due sottoinsiemi volti a valutare le credenze e la paura riguardo al dolore come segno evidente di danno biologico TSK 1 Harm, e riguardo il timore che il movimento possa nuocere o essere 83 lesivo per il soggetto TSK 2 Activity avoidance. Il questionario autosomministrato consta di affermazioni con cui il paziente può definirsi in accordo o disaccordo, parziale o totale; il punteggio del questionario può essere considerato come fattore prognostico in merito alla disabilità, alla durata del dolore, all’evitamento di attività fisiche, alla depressione (Monticone et al 2012). Lo strumento presenta soddisfacenti qualità psicometriche come consistenza interna, riproducibilità e validità. Soggetti con elevati punteggi TSK evidenzieranno atteggiamenti catastrofistici e manifesteranno più facilmente depressione e tendenza alla cronicità; possono inoltre essere meno sensibili ad accettare miglioramenti del loro stato di salute anche se evidenziati da altri strumenti clinici. Il Punteggio si esprime su un massimo di 52 punti per la versione italiana, valori entro i 21/52 sono riferibili a soggetti assolutamente asintomatici in buono stato di forma fisica, valori fra i 28 e i 30/52 sono da considerarsi limite, valori compresi fra 31 e 38/52 indicano soggetti kinesiofobici, valori oltre i 38/52 rilevano sono da considerarsi molto elevati, mentre soggetti i cui valori che superino i 44/52 sarebbe da valutare l’ipotesi di un trattamento psico‐sociale. (Carter et al 2006). 3.3 Valutazione Specifica Anamnesi ed esame fisico secondo R. Mckenzie Per la valutazione specifica è stata adottata la scheda per il rachide lombare dell’istituto Mckenzie (Mckenzie Institute International 2007), allegata a fine capitolo, alla quale abbiamo affiancato alcuni test ortopedici e neurologici al fine di individua con precisione la struttura responsabile e di escludere altre situazioni 84 patologiche che potessero mimare una lombalgia o una lombo sciatalgia. Per quanto riguarda l’esame e la sua interpretazione in dettaglio si rimanda alla lettura delle opere di R. Mckenzie citate in bibliografia. Ci limiteremo qui a ricordare brevemente come questo, con una attenta anamnesi e attraverso l’esecuzione di movimenti provocativi ripetuti, e miri ad includere il soggetto all’interno di una delle tre sindromi definite dall’autore (derangement, disfunzionale, posturale) o ad escludere cause meccaniche nella genesi del dolore lombare. In fase anamnestica il terapista “interroga” dettagliatamente il paziente riguardo tutti gli elementi utili alla classificazione dei sintomi: attività lavorativa e/o attività ricreativa, localizzazione e modalità di insorgenza dei sintomi, evoluzione di questi nel tempo e nelle 24 ore, attività o posizioni che peggiorano o che migliorano i sintomi, terapie in atto, storia chirurgica, funzioni viscerali ecc. L’esame fisico osserva l’atteggiamento del paziente nelle varie posture ed un eventuale effetto del mantenimento di posture corrette o scorrette sui sintomi; osserva il R.O.M. complessivo e regionale del rachide nei movimenti di flessione, estensione, ed inclinazione destra e sinistra, annotando limitazioni ed eventuali dolori; sonda poi con particolare attenzione i movimenti ripetuti sui tre piani dello spazio annotandone gli effetti sulla sintomatologia e sul R.O.M. L’analisi dei dati anamnestici e dell’esame fisico permettono al terapista di inquadrare il soggetto in una delle tre sindromi e di indicare un principio di gestione. I risultati di questa valutazione sono verificati ed eventualmente corretti nel corso delle successive sedute. 85 Altri tests Per una corretta selezione dei pazienti, abbiamo completato l’esame obiettivo con una batteria di test ortopedici sia per ottenere una localizzazione precisa del livello e dell’entità della lesione che per cercare di individuare problematiche non lombari con sintomatologia sovrapponibile. Test di flessione facilitata: flessione del rachide con stabilizzazione da parte dell’operatore delle ali iliache; razionale: la scomparsa del dolore presenta a una flessione normale può fare pensare ad una lesione sacroiliaca come origine del dolore (J.J.Cipriano 2006). Prone instability test: il paziente prono, con il dorso sul lettino al quale si aggrappa e gli AAII fuori dal letto, viene invitato ad estendere le anche mentre il terapista stabilizza con una pressione dorso ventrale il tratto lombare dolente. Razionale: se il paziente è dolente in posizione, mentre non avverte dolore durante l’estensione delle anche, si deve sospettare una instabilità lombare o una spondilolistesi; questa condizione può essere una controindicazione alla terapia meccanica e il terapista dovrebbe concertare con il medico fisiatra la somministrazione di esami diagnostici strumentali (J.J.Cipriano 2006). S.L.R.: il paziente giace in posizione supina e il terapista, afferrandolo per la caviglia, solleva l’arto inferiore ed annota a quanti gradi di flessione sopraggiunga il dolore. Razionale: se questo sopraggiunge fra i 35° e i 70° si può sospettare un’origine discale nei sintomi, se oltre suggerisce invece un problema alle articolazioni lombari del muro posteriore. S.L.R.: controlaterale: il terapista esegue lo stesso test sull’arto contro laterale a quello che lamenta i sintomi. Razionale: una positività può indurre ragionevolmente a pensare ad una protrusione importante, 86 ad una erniazione completa o comunque ad una lesione occupante spazio. A.S.L.R.: il paziente in posizione supina, flettendo l’anca a ginocchio solleva il tallone dal lettino di circa 15 centimetri. Razionale: l’impossibilità o il dolore nell’esecuzione del test rafforza i risultati ottenuti con il test S.L.R. Test di Wasserman: il paziente giace prono con il ginocchio del lato dolente flesso, il terapista ,stabilizzando la SIPS contro laterale, estende l’anca del paziente. Razionale: nei casi di distribuzione poco chiara questo test è indicato in quanto trazionando il nervo femorale, indica nei segmenti L2, L3, L4 la possibile origine della sintomatologia dolorosa (V.Lufrano 2009). Test del piriforme: col paziente in debito sovra laterale a ginocchio ed anca flessa di 90°, il terapista chiede una extrarotazione di anca o alternativamente preme con decisione lungo il percorso del m. piriforme, in regione glutea. Razionale: il passaggio del nervo sciatico si trova in corrispondenza del decorso di tale muscolo, e un’alterazione nel tono del m. piriforme può dare insorgenza di sintomi lombosciatalgici (J.J.Cipriano 2006). Gapping test: con il paziente in decubito supino il terapista, appoggiando le proprie mani sulle SIAS ad avambracci incrociati, impone una distrazione all’articolazione sacro iliaca. Razionale: una positività a questo test può fare pensare ad una origine sacro‐iliaca nel quadro doloroso (J.J.Cipriano 2006). Thrust sacrale: con il paziente in decubito prono il terapista, ponendo l’una sull’altra le mani sopra il sacro, applica con decisione una pressione sul paziente in senso dorso ventrale. Razionale: una positività a questo test, specie se associata ad una positività nel gapping test, 87 induce a pensare che l’articolazione sacro iliaca sia responsabile della sintomatologia dolorosa (J.J.Cipriano 2006). Test di Patrick (F.A.B.E.R): il paziente in posizione supina viene invitato ad incrociare la gamba sul ginocchio contro laterale, il terapista stabilizza la SIAS contro laterale ed applica una pressione verso il pavimento sul ginocchio del lato in esame. Razionale: questo test forza la testa femorale entro la cavità acetabolare, se positivo può essere posto in valutazione differenziale con una lombalgia che dichiari distribuzione alla faccia anteriore della coscia. 88 89 90 91 OSWESTRY DISABILITY INDEX (ODI) VERSIONE 2.0 Nome _________________________________________ Età _____________ Data di compilazione ________________________ Per favore, Le chiediamo di compilare questo questionario, messo a punto per fornire informazioni su quanto il Suo male alla schiena e/o alle gambe influisce sulla sua abilità nelle attività di tutti i giorni. Risponda ad ogni sezione, scegliendo la voce, quella che risponde alla Sua situazione attuale. 1 - Intensità del dolore Io non ho dolore in questo momento Il dolore è molto leggero in questo momento Il dolore è di media intensità in questo momento Il dolore è piuttosto forte in questo momento Il dolore è molto forte in questo momento Il dolore è il peggiore immaginabile in questo momento 2 - Cura della persona (lavarsi, vestirsi, ecc.) Posso prendermi cura della mia persona normalmente, senza che questo faccia aumentare il dolore Posso prendermi cura della mia persona normalmente, ma questo è molto doloroso La cura della mia persona mi provoca dolore e perciò la eseguo lentamente e con cautela Ho bisogno di aiuto, ma riesco ad eseguire da solo la maggior parte delle cure della mia persona Ho bisogno di aiuto tutti i giorni per la maggior parte delle cure delle mia persona Non riesco a vestirmi da solo, mi lavo con difficoltà e sono obbligato a letto 3 - Sollevamenti Posso sollevare oggetti pesanti senza che questo faccia aumentare il dolore Posso sollevare oggetti pesanti, ma questo fa aumentare il dolore Il dolore mi impedisce di sollevare oggetti pesanti dal pavimento, ma posso maneggiarli se essi sono in posizione favorevole (ad es. su un tavolo) Il dolore mi impedisce di sollevare oggetti pesanti dal pavimento, ma posso maneggiare oggetti di medio peso se essi sono in posizione favorevole (ad es. su un tavolo) Posso sollevare solo oggetti molto leggeri Non posso sollevare o trasportare nulla 4 - Cammino Il dolore non mi limita nel camminare per qualsiasi distanza Il dolore mi impedisce di camminare per più di 1.5 km circa Il dolore mi impedisce di camminare per più di qualche centinaio di metri Il dolore mi impedisce di camminare per più di 100 m circa Posso camminare solo con bastone, stampelle o altri appoggi (ad es. canadesi) Sono a letto per la maggior parte del tempo e devo appoggiarmi per raggiungere il bagno 5 - Posizione seduta Posso star seduto su ogni tipo di sedia per tutto il tempo che desidero, senza limitazioni Posso star seduto solo sulla mia sedia "preferita" per tutto il tempo che desidero, senza limitazioni Il dolore mi impedisce di stare seduto per più di 1 ora Il dolore mi impedisce di stare seduto per più di 1/2 ora Il dolore mi impedisce di stare seduto per più di 10 minuti Il dolore mi impedisce completamente di stare seduto 92 6 - Stare in piedi Posso stare in piedi per tutto il tempo che voglio senza che questo faccia aumentare il dolore Posso stare in piedi per tutto il tempo che voglio ma questo fa aumentare il dolore Il dolore mi impedisce di stare in piedi per più di 1 ora Il dolore mi impedisce di stare in piedi per più di 1/2 ora Il dolore mi impedisce di stare in piedi per più di 10 minuti Il dolore mi impedisce completamente di stare in piedi 7 - Dormire Il mio sonno non è mai disturbato dal dolore Il mio sonno è occasionalmente disturbato dal dolore A causa del dolore dormo meno di 6 ore A causa del dolore dormo meno di 4 ore A causa del dolore dormo meno di 2 ore Il dolore mi impedisce completamente di dormire 8 - Attività sessuale (se applicabile) La mia attività sessuale è normale ed il mio dolore non aumenta in seguito ai rapporti La mia attività sessuale è normale ma il mio dolore aumenta in seguito ai rapporti La mia attività sessuale è pressoché normale ma i rapporti mi procurano molto dolore La mia attività sessuale è molto limitata dal dolore A causa del dolore la mia attività sessuale è praticamente assente Il dolore mi impedisce ogni attività sessuale 9 - Vita sociale La mia vita sociale è normale ed il mio dolore non aumenta in seguito ad essa La mia vita sociale è normale ma il mio dolore aumenta in seguito ad essa Il dolore mi impedisce di partecipare alle attività sociali più faticose (ad es. fare sport, ballare) Il dolore mi impedisce di uscire molto spesso A causa del dolore la mia vita sociale si svolge solo in casa A causa del dolore non ho più vita sociale 10 - Viaggiare Posso viaggiare ovunque senza che questo faccia aumentare il dolore Posso viaggiare ovunque ma questo fa aumentare il dolore Il dolore è forte e limita la durata dei viaggi ad un massimo di 2 ore Il dolore limita la durata dei viaggi a meno di 1 ora Il dolore mi limita a viaggi brevi e indispensabili, di meno di 30 minuti Il dolore mi impedisce di viaggiare, eccetto che per ricevere cure sanitarie 11 – Impiego / Lavori di casa Le normali attività lavorative o di casa non aumentano il dolore Le normali attività lavorative o di casa aumentano il dolore, ma io posso eseguirle tutte senza limitazioni Posso eseguire la maggior parte delle attività lavorative o di casa, ma il dolore mi impedisce di eseguire quelle fisicamente più impegnative (ad es. sollevamenti, passare l’aspirapolvere) Il dolore mi permette di fare soltanto lavori leggeri Il dolore mi impedisce di fare anche lavori leggeri Il dolore mi impedisce di fare qualsiasi tipo di attività lavorativa o di casa 93 PARTECIPAZIONE Nome Data Le mie attuali condizioni mi permettono di svolgere una vita sociale (lavoro, famiglia, tempo libero, relazione) con: 0 Nessuna difficoltà 1 Difficoltà trascurabile il problema è presente in meno un quarto della giornata, con un'intensità tollerabile; il problema si è presentato raramente negli ultimi 10 giorni. 2 Difficoltà lieve che il problema è presente in meno della metà della giornata, con un'intensità che poco interferisce nella mia vita; il problema che si è presentato occasionalmente negli ultimi 10 giorni. 3 Difficoltà media che il problema è presente per più del 50% del tempo, con un'intensità tale da alterare la vita quotidiana; il problema si è presentato frequentemente negli ultimi 10 giorni. 4 Difficoltà grave che il problema è presente per oltre la metà della giornata, con una intensità che condiziona la mia vita di tutti i giorni; il problema si è presentato pressoché quotidianamente negli ultimi giorni. 4 Difficoltà completa che il problema è presente per più del 95% del tempo, con una intensità che altera totalmente la mia vita quotidiana e che si è presentato quotidianamente negli ultimi giorni. 94 TSK 1 Se facessi attività fisica temo che potrei farmi male Se cercassi di fronteggiare il dolore questo aumenterebbe Il mio corpo mi informa che qualcosa è seriamente danneggiato Le persone non stanno considerando il mio problema come si deve Il mio problema costituisce un rischio per gli anni a venire Provare dolore significa sempre danneggiare il mio corpo Temo di farmi male accidentalmente Evitare movimenti superflui è un modo sicuro per non soffrire Non soffrirei tanto se qualcosa non fosse seriamente danneggiato Il dolore mi dice quando interrompere l’attività per non danneggiarmi Una persona nelle mie condizioni non deve fare attività fisica Non posso fare ciò che gli altri fanno perché mi faccio male facilmente Nessuno dovrebbe fare attività fisica quando prova dolore 2 3 5 6 7 9 10 11 13 14 15 17 Completo disaccordo Parziale disaccordo Parziale accordo Completo accordo 95 MATERIALI E METODI 96 4.1 Il metodo Mckenzie Le affezioni dolorose del rachide costituiscono una parte considerevole dell’attività del fisioterapista, la maggior parte di questi dolori sono di natura meccanica e da diversi anni ormai le metodiche che agiscono a vario titolo sulla meccanica articolare trovano sempre più applicazione in campo riabilitativo. Il merito di Robin Mckenzie, fisioterapista neozelandese, è quello di avere sviluppato un sistema che vede nell’auto‐trattamento il nucleo del progetto terapeutico, che porta il paziente in prima persona a prendersi carico e cura del suo problema di salute. Questo approccio, in apparente opposizione alle tecniche manuali passive, è tuttavia stato riconosciuto dai fisioterapisti provenienti da ogni scuola, che ne hanno accettato e riconosciuto la validità integrandolo magari ad altre metodiche. Mckenzie mette fine ad alcuni tabù, introduce il concetto di dolore “buono” contrapponendolo alla regola del non dolore ed in particolare evidenzia come il movimento dell’estensione, al lungo tempo bandita dalle tecniche preaticabili, sia in realtà benefica tanto per il rachide lombare che cervicale. Inizialmente diffuso nel mondo anglosassone, questo approccio è entrato a far parte, del bagaglio di goni moderno terapista riabilitativo grazie alle logica sulla quale si basa, alla sua efficacia e alla notevole validazione scientifica a riguardo. La metodica è incentrata su dei movimenti ripetuti, come test valutativo e come manovra terapeutica, sulla preferenza direzionale e sulla ricerca del fenomeno della centralizzazione (vedi cap.2). La valutazione permette di classificare i pazienti definendo tre sindromi meccaniche che costituiscono dei sottogruppi omogenei ai quali corrisponderanno tre specifiche gestioni del trattamento; sindrome da derangement, sindrome meccanica e sindrome posturale. Il modello fisiopatologico è il modello discale. La valutazione, chiara e 97 dettagliata, ha il vanto di garantire una forte ripetibilità interoperatore, e individuare quelle situazioni a non origine meccanica che saranno controindicazione al trattamento. (Sufca 1998 et Al) Sempre in sede valutativa verrà definita la preferenza direzionale cioè il senso in sui dovrà avvenire il trattamento, la mobilizzazione e la eventuale progressione delle forze di intervento. Il bilancio Mckenzie si esegue attraverso la compilazione di un apposito modulo e si compone di una attenta raccolta dei dati anamnestici, con particolare attenzione alle attività funzionali del paziente, di un interrogatorio dettagliato riguardo l’insorgenza dei sintomi, di fattori aggravanti o attenuanti, l’esame delle posture e delle amplitudini articolari, la presenza di segni neurologici, evoluzione e tipo del dolore, ma soprattutto di una particolare attenzione portata verso i movimenti test singoli e ripetuti in carico e in scarico. Possono essere di complemento altri test per escudere patologie altre che mimano una lombo o lombosciatalgia. Alla fine di questo processo valutativo che può essere anche particolarmente lungo, il terapista dovrebbe essere in grado di inquadrare il paziente entro la classificazione proposta dal Mckenzie, di stabilire una preferenza direzionale e di impostare un piano di trattamento; naturalmente questo inquadramento non è da intendersi sempre definitivo e la risposta sintomatologica del paziente durante le prime sedute deve sempre guidare il terapista tanto nella proseucuzione dell’intervento quanto, al contrario, di una rivalutazione della classificazione e revisione del piano terapeutico. L’approccio Mckenzie, e quello della ginnastica propriocettiva per la colonna ruotano attorno alla nozione di autonomia del paziente. In questa prospettiva è prioritario che il paziente sia in grado di prendersi in carico lui stesso del proprio stato di salute. Se esiste una possibilità significativa lui che riesca ad autogestire situazioni che per loro natura 98 tendono ad essere recidivanti e possono evolvere in cronicità, allora la nostra proposta terapeutica deve svilupparsi attorno a questa possibilità. Citando ancora Mckenzie (R. Mckenzie 1998), il paziente deve essere il principale attore della scomparsa del dolore, e del recupero funzionale per l’episodio in corso e deve essere istruito ad evitare le recidive e, qualora fosse necessario, gestire in autonomia eventuali episodi dolorosi tramite strumenti semplici come gli esercizi insegnati dal fisioterapista. Centrale in questa filosofia di trattamento è l’approccio diverso che il paziente impara ad avere rispetto al mal di schiena. Un ruolo importante del terapista è quello di educatore, che permette al paziente il cambio di stato da soggetto passivo e sottomesso, tanto alla malattia quanto agli interventi terapeutici, a soggetto attivo nella gestione del problema allontanando così la temuta ipotesi della cronicizzazione. Dolore e centralizzazione La particolare attenzione al tipo di dolore lamentato dal paziente e il concetto di centralizzazione nell’interpretazione ai test dei movimenti ripetuti sono probabilmente gli strumenti clinici più interessanti sviluppati da Mckenzie. Per condurre questa valutazione è necessario ben comprendere il modello di interpretazione della risposta sintomatologica. Semplificando potremmo dire che: se il dolore non fa che aumentare o ridursi nel corso delle ripetizioni l’interpretazione è semplice; se il dolore cambia di localizzazione o si modifica di intensità magari aumentando ma si avvicina alla linea mediana o alla radice (nel caso di interessamento di arti inferiori) si sta assistendo ad una centralizzazione, fenomeno favorevole. Inversamente quando il dolore 99 diventa più periferico o più laterale, è sempre un elemento sfavorevole, come altrettanto possiamo dire di un aumento costante del dolore tanto al movimento che alla postura. Nel caso di un derangement o di una disfunzione si definirà “dolore buono” quando durante le ripetizioni questo centralizza, si produce ad amplitudini articolari maggiori, cessa al cessare dello stimolo (postura o movimento). Fig 4.1 Le tre sindromi Mckenzie Già nel 1987 la Quebec Task Force giunse alla conclusione che per la grande maggioranza dei pazienti non era possibile giungere ad una diagnosi anatomica precisa e per quanto conerne i problemi lombari si sarebbe dovuto limitarsi a parlare di “dolori lombari aspecifici”. La situazione oggi non ha vuto evoluzioni significative (G. Waddel 2005). Tuttavia includere nello stesso gruppo una così ampia variabilità presenta l’inconveniente di equiparare pazienti con evidenti diseguaglianze cliniche, e non è di alcun vantaggio diagnostico (Bouter L.M., Van Toulder M.W., Koes B 1998), al contrario. E’ invece di fondamentale importanza arrivare a classificare i nostri pazienti in sottogruppi omogenei, non in termine di strutture 100 anatomiche, ma in funzione del loro quadro clinico e delle strategie terapeutiche alle quali ripondono favorevolmente. (G. Waddel 2005). Nella sua opera Mckenzie (R. Mckenzie 1998) descrive tre principali sindromi che racchiudono la maggior parte dei pazienti rachialgici (fino al 92% secondo gli studi di Hefford) (C. Hefford 2008) . Sindrome da derangement, da disfunzione e posturale. Sindrome da derangement può essere definito come la situazione in cui la normale posizione di riposo delle superfici articolari di due vertebre adiacenti è disturbata a causa di un alterato posizionamento del nucleo fluido tra queste superfici. L’alterata posizione del nucleo influenza quindi la biomeccanica della FSU e il materiale dell’anulus subisce sollecitazioni improprie. In alcuni pazienti i movimenti sono solo ridotti ma in altri sono interamente scomparsi. Di solito i movimenti coinvolti sono sia la flessione che l’estensione e spesso si può anche rilevare una perdita di inclinazione laterale. Oltre a causare perdita di movimento nei segmenti lombari, il derangement del disco può causare deformità di cifosi e scoliosi. La Cifosi lombare acuta provocata da sollecitazioni in flessione prolungata o ripetuta come, ad esempio, quelle che si determinano durante il giardinaggio o la postura seduta scorretta in ambito lavorativo. Il mantenimento prolungato della posizione flessa e la frequente ripetizione del movimento in flessione, specialmente quando l’estensione completa non viene mai ripristinata, possono portare ad un eccessivo accumulo nel compartimento posteriore del nucleo fluido tra i corpi vertebrali. Una volta che l’accumulo è sufficientemente grande può costituire un blocco ed impedire il raggiungimento della posizione eretta. Ogni tentativo del paziente di raddrizzarsi velocemente causa un forte dolore, in quanto le forze compressive provocano la protrusione dell’anulus e del legamento posteriore, entrambi ora sottoposti ad una enorme sollecitazione 101 tangenziale. Il paziente deve tornare alla posizione flessa per ridurre l’intensità del dolore. Nella cifosi lombare acuta l’incidenza della sintomatologia radicolare può non presentarsi e quando si verifica è di moderata entità. La protrusione in questi casi tende ad essere postero‐ centrale e causa dolore in relazione alle strutture che va a comprimere durante le deformazioni provocate dai movimenti funzionali. Un aggravamento di questa situazione, specie se lo stress meccanico nocivo sia asimmetrico, può portare il materiale nucleare a danneggiare ulteriormente le fibre anulari che lo circondano e la protrusione a spostarsi lateralmente; in questo caso il paziente svilupperà ora una deformità in scoliosi lombare acuta da sciatica e probabilmente presenterà segni radicolari. Ora sembra ragionevole ipotizzare che il legamento longitudinale posteriore possa prevenire disturbi nella parete postero‐centrale del disco. Tuttavia, al protrarsi della sollecitazione deleterea, le spinte asimmetriche forzeranno il nucleo polposo lateralmente, dove la parete esterna dell’anulus si distenderà nel suo punto più debole. La superficie posteriore del disco presenta una maggiore elasticità ed una minore resistenza alla distensione, specialmente nella parte postero‐laterale. Qui l’anulus è sottilissimo, inserito meno saldamente sulla superficie ossea e non rafforzato dal legamento longitudinale posteriore. Quindi la protrusione dell’anulus avviene più facilmente in questo punto che in qualsiasi altro. I pazienti con derangement hanno di solito un’età compresa tra i 20 e i 55 anni, oltre prevarrebbero fenomeni degenerativi. Il dolore può essere costante in fase acuta, ma evolve verso l’intermittenza con il riposo e l’inizio del trattamento; aumenta e diminuisce in funzione dei movimenti e delle posture proposte ed è prodotto durante l’arco del movimento attivo ma anche passivo. Presentano o meno deformità in scoliosi o in cifosi lombare ed è riscontrabile quasi sempre un range di 102 movimento limitato, che tuttavia è facilmente modificabile anche nel corso della prima seduta. Il quadro del derangement è potenzialmente il più invalidante e può evolvere verso quadri di erniazione franca con intrappolamento della radice nervosa; nella quasi totalità dei casi dietro un derangement si instaura una sindrome da disfunzione e un quadro di rigidità lombare in cui il paziente, per prevenire il dolore, tende a “congelare” il tratto che diviene ipocinetico con conseguente perdita di funzionalità e deficit propriocettivo. La maggior parte dei derangement sono postero laterali o posterocentrali. Nella sindrome da disfunzione sostanzialmente il meccanismo di produzione del dolore nella disfunzione è uguale a quello presente nei tessuti normali, ossia il dolore si manifesta quando l’eccessivo allungamento dei tessuti molli causa, in questi tessuti, una sufficiente deformazione meccanica delle terminazioni nervose libere. Nella disfunzione, i tessuti molli all’interno o attorno al segmento coinvolto, sono accorciati o contengono tessuto cicatriziale contratto. Quando si cerca di eseguire un movimento normale, queste strutture vengono poste prematuramente in completa tensione. Mentre solitamente, nel movimento normale, le articolazioni si allontanano di un certo grado prima di essere fermate dalla tensione dei legamenti, nella disfunzione le articolazioni sono bloccate dopo aver compiuto solo una parte di questa distanza. Tentare di muoversi ulteriormente verso la massima escursione comporterà un allungamento eccessivo che produrrà dolore. Quest’ultimo è percepito alla fine dell’articolarità esistente e cesserà non appena verrà rilasciata la tensione a fine arco di movimento. Un allungamento ripetuto e incontrollato dei tessuti molli contratti produrrà ulteriori micro‐traumi ed algia. Il paziente quindi, finisce per evitare il movimento che provoca dolore e l’accorciamento 103 adattivo della cicatrice ridurrà ancora di più l’ampiezza possibile dell’escursione. La sindrome da disfunzione, quindi, si sviluppa come conseguenza di abitudini posturali scorrette, spondilosi, trauma o derangement ed è la condizione in cui avviene una prematura comparsa del dolore a causa dell’accorciamento adattivo e della conseguente perdita di mobilità, cioè prima che si arrivi alla normale, completa escursione del movimento. In sostanza questa condizione si verifica perché il movimento viene eseguito in maniera inadeguata, nel momento in cui avviene la contrazione dei tessuti molli. Spesso il paziente con disfunzione si sente meglio quando è attivo e in movimento piuttosto che a riposo. Le ragioni sono ovvie: durante un’attività fisica regolare e non eccessiva si arriva raramente, e nel caso solo momentaneamente, alla massima escursione del movimento; quando invece si riposa, si raggiungono molto in fretta posizioni di completa escursione che, se mantenute a lungo, possono diventare dolorose. I pazienti che rientrano nella categoria della disfunzione hanno, solitamente, un’età superiore ai 30 anni con attività sedentaria e che non svolgono attività fisica. Comunque possono essere presenti anche pazienti più giovani, con precedenti mal di schiena, chirurgie o traumi di varia natura che hanno dato luogo ad una perdita di funzionalità non riconosciuta e non curata anche un derangement di piccole dimensioni non trattato. Inizialmente questi pazienti si sentono rigidi la mattina appena svegli e migliorano nel corso della giornata; ma con il passare del tempo la flessione e l’estensione si riducono e la rigidità mattutina non si allevia anche nel corso della giornata. Il dolore è intermittente e si produce solo a fine arco di movimento, cessa immediatamente al cessare della sollecitazione, è localizzato in prossimità del rachide, non da luogo ad irradiazione o segno radicolare alcuno e non presenta il fenomeno della centralizzazione.. Il paziente 104 non presenta deformità, ma è costante la perdita di funzione ed particolarità. Una particolare forma, a cavallo fra derangement e disfunzione è la radice nervosa aderente ANR. E’ espressione di un trauma vicino ad una radice nervosa (anche un derangement), che ha coinvolto la manica durale in un processo di cicatrizzazione esuberante e non gestito dal paziente. In questi casi l’esame presenterà elementi sovrapponibili alla disfunzione e al derangement, presentando sintomatologia radicolare ma movimenti test tipici della disfunzione. Esistono test differenziali dirimenti fra i due quadri di cui qui non si include la trattazione. La sindrome posturale si può definire come una deformazione meccanica di origine posturale che causa un dolore di tipo esclusivamente intermittente e senza nessuna irradiazione, che compare quando i tessuti molli attorno ai segmenti lombari subiscono una sollecitazione prolungata. Ciò accade quando una persona esegue attività che mantengono la colonna lombare in una posizione relativamente statica (ad esempio, passare l’aspirapolvere o fare giardinaggio) o quando viene mantenuta una posizione a fine arco per un tempo necessario a scatenare la sintomatologia(ad esempio stando a lungo seduti). I pazienti con sindrome posturale hanno di solito un’età non superiore ai 30 anni. Frequentemente fanno un lavoro sedentario e sono in scarsa forma fisica. Oltre al dolore alla schiena, spesso riferiscono un dolore nella zona toracica media e cervicale. Sostengono che il dolore non è provocato dal movimento ma dalle posizioni, che è intermittente ed ogni tanto può sparire per due o tre giorni. Spesso il paziente, quando è più attivo presenta pochi o nessun problema ad esempio durante il fine settimana o i turni di riposo lavorativo. La ragione è che, sebbene l’attività solleciti maggiormente la colonna lombare rispetto alla postura statica, con il movimento le sollecitazioni 105 cambiano in continuazione e, quindi, il dolore non si manifesta. Le sollecitazioni che derivano da una postura statica, anche se più lievi di quelle derivanti da attività, sono mantenute a lungo, e possono alla fine provocare dolore. I test dei movimenti ripetuti non evocano alcun dolore che si produce solo mantenendo la postura evocativa, non è presente deformità ne perdita di R.O.M. Gli esercizi e le tecniche ‐ Verranno in questa sede brevemente descritti alcuni esercizi e tecniche in estensione o in estensione e rotazione che sono stati somministrati ai pazienti oggetto della tesi. Non fanno parte del gruppo di studio pazienti con derangement anteriori e quindi gli esercizi flessori (non illustrati) sono stati limitati alle sedute finali e preliminari al ciclo di ginnastica propriocettiva. Per l’esecuzione delle procedure indicate nel metodo Mckenzie è sufficiente un lettino fisioterapico snodabile in due parti e un paio di cuscini, fondamentale oltre all’esecuzione dell’esercizio e dell’eventuale mobilizzazione passiva è la correzione della postura seduta e eretta. Prono il paziente deve essere in grado di mantenere la postura prona in assenza di dolore, nei casi più gravi questa postura banale può non essere possibile se non gradatamente e con l’ausilio di cuscini. Si utilizza in caso di sintomatologia centrale o nell’evoluzione di derangement a sintomatologia periferica. Prono in estensione il paziente deve rimanere prono sollevando testa e spalle in appoggio sui gomiti, nella caratteristica posizione della sfinge 106 Fig 4.2 Estensione mantenuta il soggetto sempre in posizione prona, viene gradatamente portato dal terapista, tramite l’inclinazione del lettino fino alla massima estensione possibile del rachide lombare e mantenuto in questa posizione anche per diversi minuti. Si utilizzano queste due procedure in caso di sintomatologia centrale prossima del rachide o nell’evoluzione di derangement a sintomatologia periferica simmetrica o asimmetrica; specie se il fattore tempo deve essere considerato. Fig 4.3 Estensione attiva da prono la forza verso l’estensione è maggiore anche se i tessuti molli non sono rilasciati. Nel caso non apporti miglioramenti può essere effettuata con cintura di fissazione o sovrapressione del terapista sul segmento interessato. 107 Fig 4.4 Mobilizzazione in estensione il paziente è prono e il terapista isola e mobilizza il segmento verso l’estensione facendo pressione sui processi trasversi; può essere introdotta una componente di rotazione praticando una spinta unilaterale, nel caso si soggetto abbia sintomatologia asimmetrica. 108 Fig 4.5 Estensione in piedi è una variante dell’estensione prona che si utilizza se il fattore tempo non è importante; si raggiungono ampiezze minori ma con la colonna in carico il nucleo è sottoposto a maggiori pressioni assiali. Può essere mal sopportato inizialmente ma è un pratico strumento da insegnare nell’autotrattamento. Pazienti che presentano deformità acute in scoliosi da sciatica vanno prioritariamente trattati per risolvere lo shift laterale; le procedure in estensione, se applicate troppo precocemente potrebbero fare migrare il disco lateralmente e peggiorare la sintomatologia. Fig 4.6 109 Autocorrezione dello shift il paziente cerca di riguadagnare una corretta posizione attraverso uno shift contro laterale del bacino. Fig 4.7 Correzione passiva dello shift il terapista aiuta il paziente nella correzione attraverso spinte in ortostatismo mobilizzazione in rotazione da prono o da supino o, come illustrato in figura, tramite una estensione mantenuta con traslazione del bacino. Fig 4.8 110 La successione di queste procedure brevemente elencate, è da valutare secondo l’evoluzione sintomatologica di ogni paziente e segue il criterio della cosiddetta “progressione delle forze” della terapia meccanica. L’efficacia di questa progressione è individuata da Mckenzie (R. Mckenzie 1998) in una dinamica prettamente discale, ma al giorno d’oggi, sulla base delle evidenze e degli studi sulle tecniche applicabili alla lombalgia, una visione così univoca potrebbe quasi definirsi semplicistica. Nell’ambito dello studio in oggetto sono stati prevalentemente individuati derangement posteriori con disfunzioni in estensione; a questo punto del trattamento il paziente inizia la rieducazione volti al recupero dei movimenti ritenuti “lesivi”, e viene quindi reintrodotto gradatamente a gradi di flessione sempre maggiori e al controllo tonico posturale grazie al protocollo di propriocezione lombare dell’ O.C. di Sanremo (A. Carzo, A.Manelli, M.Oliveira 2011). 4.2 Ginnastica propriocettiva per la colonna Nozioni E’ noto che nell’uomo il dolore influenza i sistemi motori , trigeminali nonché le aree corticali motorie e somatosensoriali. Queste osservazioni suggeriscono che il dolore potrebbe influenzare i processi di controllo della postura e del movimento; generando dunque nuove algie locali e a distanza, perpetrando il dolore che lo ha generato e causando ipomobilità del segmento, del tratto e del rachide in toto. (Rossi et al 1998, 1999, 2003). La rigidità che sopravviene, ha una componente propriamente 111 neurofisiologica che trova spiegazione nel meccanismo della tendomiosi, secondo il quale le strutture muscolari agenti su determinate articolazioni ricevono afferenze dalle capsule articolari, qualora alcune capsule vengano a subire un insulto, i muscoli di questa tributari vengono posti in uno stato di contrattura volto ad attenuarne la sofferenza. E’ importante inoltre sottolineare, nella genesi di questa rigidità, anche l’aspetto psicologico, in quanto l’atteggiamento fear avoidance dei soggetti lombalgici contribuisce a bloccare il tratto in posizione antalgica. Frequentemente nei soggetti colpiti da dolore lombare (specialmente se cronici), il dolore diventa l’unica informazione proveniente da tale tratto e la propriocezione risulta spesso significativamente alterata (J. H. Lehman 2004). Studi pubblicati sull’autorevole rivista Spine (Radebold A., Cholewicki J., Polzhofer G.K., Greene 2001) evidenziano che in pazienti con dolore lombare la latenza della risposta degli erettori spinali alle improvvise variazioni di carico è maggiore rispetto ai soggetti normali, individuando la causa tale ritardo nelle strutture propriocettive, ed in particolare degli Organi tendinei del Golgi, non più capaci correttamente di modulare la stiffness muscolare in rapporto alle esigenze posturali. In queste condizioni è facile intuire come possa instaurarsi un vizio posturale che può portare a retrazioni adattive e fibrosi, tanto più se in presenza di uno stato infiammatorio o di un trauma pregresso. Lo stesso Mckenzie (R. Mckenzie 1998) individua nella ipomobilità del tratto lombare una causa di disfunzione quasi certe nel paziente con derangement che residuerà nella quasi totalità dei casi una rigidità anche dopo la riduzione del problema discale. La ginnastica propriocettiva per la colonna secondo il protocollo dell’ Ospedale Civile di Sanremo nel contesto di questo studio è stata utilizzata nelle ultime sedute del trattamento con lo scopo di 112 recuperare la sensibilità cinestesica, ma non solo, e di mantenere una postura corretta in statica e durante le attività funzionali. Una volta istruito correttamente il paziente, questi esercizi possono essere proseguiti a domicilio e rientrare nella logica di auto trattamento di cui sopra. Gli esercizi del protocollo dell’equipe di riabilitazione O.C. Sanremo Gli esercizi comunemente utilizzati per l’allenamento della propriocezione sono basati su esercitazioni che inducono la muscolatura a reagire utilizzando il pieno funzionamento di tutte le aree di informazione, affinché ci sia una corrispondente e appropriata risposta motoria alla situazione posturale. Gli esercizi di propriocettivi possono essere eseguiti con piedi in appoggio al suolo con l’uso di alcuni semplici attrezzi: • Tavoletta di Freeman , rotonda circa 40 cm di diametro • Tavoletta di Freeman rettangolare • Palline da tennis comuni • Skateboard Sono inoltre richiesti uno sgabello con seduta rigida ed angolata di 90° ed uno specchio possibilmente quadrettato. Sono illustrati di seguito le principali modalità di esercizio. E’ opportuno sottolineare che il protocollo dell’O.C. di Sanremo è uno strumento terapeutico assai più complesso la cui efficacia è stata dimostrata in clinica ed da altri studi (Carzo 2011), e che nel contesto di questa tesi abbiamo ne selezionato ed utilizzato solo una piccola parte. 113 Esercizio 1 Paziente seduto su una tavoletta rotonda, posta su una pedana rigida, mani appoggiate sul torace, piedi in appoggio su un'altra tavoletta rotonda o rettangolare (per facilitare l’esercizio), sguardo rivolto all’altezza delle spalle verso uno specchio in modo da notare lo svolgimento dell’esercizio. Lo scopo è mantenere l’equilibrio ricercando i movimenti anticipatori della colonna, quindi, gli aggiustamenti devono essere effettuati a livello del bacino; qualora non fosse così, il paziente dovrà ricominciare dalla posizione zero e ritornare ad effettuare il mantenimento della statica in modo corretto.(Fig. 4.9) Fig 4.9 Esercizio 2 Variante dell’esercizio uno: paziente nella medesima posizione ad eccezione degli arti superiori che in questo caso rimangono liberi, tramite l’utilizzo di una pallina da tennis, si richiedono dei palleggi a muro prima con la mano destra e poi con la sinistra; lo scopo dell’esercizio è sempre di mantenimento dell’equilibrio a livello della 114 colonna, che in questo caso sarà reso più difficile dai palleggi effettuati con la pallina.(Fig. 4.10) Fig 4.10 Esercizio 3 Paziente seduto su tavoletta rotonda, braccia tese in avanti all’altezza delle spalle, la tavoletta posta sotto i piedi sarà girata al contrario, si richiede al paziente di appoggiare il tallone sulla punta della mezza sfera della tavoletta e di sollevare leggermente l’altro piede, effettuando l’esercizio prima con appoggio tallone destro e poi con quello sinistro.(Fig. 4.11) 115 Fig 4.11 Esercizio 4 Paziente seduto su tavoletta rotonda, braccia tese in avanti all’altezza delle spalle, piedi appoggiati su uno skateboard, il paziente dovrà cercare di spostare lo skateboard a destra e a sinistra cercando di tenere lo sguardo fisso avanti oltre che rimanere in equilibrio. (Fig. 4.12) Fig 4.12 116 Per aumentare il livello di difficoltà, tutti gli esercizi proposti possono essere eseguiti ad occhi chiusi o a capo reclinato. Senza l’uso della componente visiva e riducendo la funzione vestibolare, l’esecuzione corretta degli esercizi riposerà maggiormente sulla componente propriocettiva. I pazienti sono stati introdotti agli esercizi propriocettivi solo dopo avere ottenuto una riduzione stabile del derangement. 4.3 L’educazione A prescindere dalle scelte terapeutiche, che possono essere molteplici, l’educazione del paziente oggi, ed in particolare nel nostro studio, è vista sempre più come un punto fondamentale del percorso riabilitativo. Possiamo affermare quindi, come già espresso in diverse pubblicazioni da Mckenzie, che il paziente stesso deve essere l’artefice principale del percorso di guarigione e al fisioterapista va il compito di guidarlo in questo cammino di autonomia. Fornire informazioni, aumentare la comprensione del problema e dare consigli per la sua gestione, sono gli strumenti dell’intervento educativo. Lo scopo è prevenire comportamenti da evitamento e atteggiamenti catastrofici, promuovendo l’azione attiva del paziente , e riducendo quindi il rischio di recidive o cronicizzazione. Al fine di completare il percorso educativo proposto al paziente durante il trattamento nel corso dell’ultima seduta è stato consegnato ed illustrato un breve opuscolo da noi redatto, contenente diversi consigli posturali ed alcuni esercizi; con questo abbiamo inteso fornire al paziente uno strumento preventivo e terapeutico semplice ed immediato (in auto somministrazione) per scongiurare o tenere sotto 117 controllo un eventuale ripresentarsi della sintomatologia algica. 4.4 Selezione dei pazienti I soggetti inclusi in questo gruppo di studio sono stati filtrati attraverso i seguenti criteri di inclusione: • Paziente compliante • Che presenta la tipica sintomatologia definita da Nachemson (Nachemson 1976) nei suoi studi: “lombalgia acuta o sub‐acuta, caratterizzata da dolore penetrante che insorge lentamente o improvvisamente, con o senza irradiazione alla natica o appena lungo la gamba e concomitante limitazione della mobilità. Quando il dolore diviene cronico, è meno forte e continua per più di due mesi”. • Non diagnosi di certa o sospetta di patologie maligne, infettive od occupanti spazio. • Almeno un pregresso episodio algico riferibile a quello in atto. • Indicazioni al trattamento meccanico ovvero almeno una direzione libera di trattamento. • Età compresa fra i 18 e i 65 anni. • Punteggio scala T.S.K. minore o uguale a 44/52. • Assenza di evidenti segni di grave sofferenza neurologica. 118 RISULTATI 119 Per verificare l’efficacia dei trattamenti a cui sono stati sottoposti i dieci pazienti, abbiamo considerato i parametri già discussi nel Capitolo 3 relativamente ai criteri I.C.F, al dolore e allo stato di salute generale attraverso la somministrazione i test, in occasione della prima visita (T0) e dopo un mese e mezzo dalla fine del trattamento (T1). La scala T.S.K. è stata somministrata solo a T0 in quanto utilizzata come elemento predittivo. I risultati ottenuti sono stati espressi come media, mediana e deviazione standard (DS). L’analisi statistica della differenza della media è stata eseguita usando il test di Student (Test t) utilizzando il software SPSS ver.18. Il valore di alpha è stato considerato 0.05. Pertanto il valore di p < 0.05 è stato valutato come significativo. Il questionario T.S.K. ha definito due pazienti con valori estremi: il paziente numero 6 esprimeva valori sovrapponibili a quelli un soggetto non lombalgico (21/52) il paziente numero 3 invece ha espresso un punteggio che secondo gli studi della University of Massachusetts suggerirebbe la possibilità di un approccio psicoterapeutico in associazione al trattamento fisioterapico (44/52). (AA.VV University of Massachusetts 2012). Relativamente al dolore percepito indagato tramite la scala N.R.S. si può notare una significativa diminuzione (5,50±0,94 versus 0,80±0,92); il test t di Student risulta significativo con p<0.01. Relativamente all’aspetto strutturale e funzionale indagato tramite il test Finger tip to floor si può notare un significativo miglioramento del R.O.M. libero da dolore durante la flessione (22,95±9,12 versus 8,80±6,66); il test t di Student risulta significativo con p<0.01. Relativamente alle attività, indagate tramite l’attribuzione di un 120 punteggio nell’ O.D.I. si può notare una significativa diminuzione (28,85±8,11 versus 8,10±10,84); il test t di Student risulta significativo con p<0.01. Relativamente alla partecipazione, indagata tramite un apposito questionario si può notare un significativo miglioramento (2,60±0,52 versus 0,60±0,70); il test t di Student risulta significativo con p<0.01. Sottolineiamo a conclusione dell’esposizione dei risultati ottenuti, che il paziente numero 3, cui si è fatto cenno in relazione al suo alto valore T.S.K. ha fornito valori discordanti rispetto agli altri soggetti. 121 TABELLA 1 122 CASO CLINICO 123 6.1 Il paziente Anamnesi • Chiara C. 44 anni. • Attività lavorativa casalinga, ha dovuto interrompere l’attività in azienda agricola di famiglia in quanto non riesce a svolgere alcuna attività fisica prolungata ne a lavorare in ufficio contabilità vista l’impossibilità di mantenere la posizione seduta. • Attività‐ludica sportiva ciclismo non più praticata. • La limitazione che manifesta a colloquio è quella di non potere guidare l’automobile, ed abitando fuori città non può frequentare parenti e amici né svolgere commissioni per la famiglia. • Sintomi ad insorgenza lombare che si propagano con dolore fino al ginocchio e disestesie (saltuarie) fino alla faccia laterale del piede sinistro. Presenti da circa 13 mesi. La comparsa dei sintomi fanno seguito, riferisce, ad un intervento di asportazione di neurinoma cervicale durante la cui convalescenza è stata obbligata a dormire seduta per circa 45 giorni. • Peggiora in flessione, in posizione seduta, in decubito laterale e nei movimenti bruschi del rachide, che all’esame risulta marcatamente ipotonico in toto, sia nella componente tonica che fasica. • Migliora camminando • Salute generale buona nessuna altra nota 124 Esame fisico • Postura seduta molto scorretta con il rachide in completa cifosi, stazione eretta mantenuta con riduzione completa della lordosi lombare; shift laterale destro. La correzione della postura seduta rende la posizione sopportabile. • Notevole perdita di ampiezza nel movimento di flessione, che risulta dolorosa oltre che limitata; si annota anche deficit in estensione alla quale la paziente riferisce sensazione di rigidità; gli altri movimenti risultano liberi e indolori ma un generale quadro ipotonico li rende poco fluidi. • Non si evidenziano deficit delle sensibilità, ma uno sfumato deficit stenico bilaterale. • In piedi la flessione singola e la flessione ripetuta producono e peggiorano si sintomi locali e a distanza. L’estensione singola provoca un dolore centrale che viene prodotto ma senza peggiorare durante le estensioni ripetute. • In decubito supino la flessione riproduce i sintomi locali e a distanza e l’estensione produce solo un dolore centrale. • Lo shift laterale destro produce e peggiora la sintomatologia, se ripetuto, e di contro lo shift laterale sinistro ripetuto la migliora. • SLR positivo a 60°, indicativo di probabile dicopatia generica. • Tutti gli altri test elencati nel capitolo 3 sono risultati negativi. 125 Valutazione secondo il modello biopsicosociale • N.R.S: 5+ • Finger tip to floor: 35 cm • SF12 PCS: 39,5% • SF 12 MCS: 33,4% • Oswestry disability index: 30% • Deficit partecipazione percepito: 3/5 • T.S.K.: 26/52 • Richiesta del paziente: tornare a poter condurre l’automobile per più di 15 minuti e riacquisire una salute sufficientemente buona per poter riprendere a lavorare e praticare attività ludico‐sportiva. Esami strumentali La paziente presenta una RMI risalente a 45 giorni precedenti che evidenzia protrusione discale minima L3/L4 in assenza di conflitto radicolare e protrusione importante in sede L5/S1 con compressione della radice S1 con edema. Canale rachideo nei limiti e riduzione della lordosi lombare. Ipertrofia dei massicci articolari. Note La paziente appare molto provata dal dolore e dalla impossibilità di svolgere le normali attività. Pur essendo ben predisposta e fiduciosa verso il trattamento si nota rassegnazione riguardo il fatto che il suo sia un problema di difficile risoluzione con il quale sarà destinata a convivere e per il quale inizia a cercare strategie di compenso, fisico e 126 sociale. Chiara C. manifesta vivo interesse per il trattamento e fin da subito si dimostra ricettiva e collaborante. Valutazione fisioterapica Il soggetto appare adatto ad essere incluso nel trattamento meccanico propriocettivo. Secondo Mckenzie si potrebbe inquadrare come derangement asimmetrico con sintomatologia sotto al ginocchio e in presenza di shift contro laterale; sovrapposto al derangement si ipotizza una sindrome disfunzionale. Nonostante le immagini diagnostiche mostrino conflitti e compressioni, la sintomatologia lamentata dal soggetto, e obiettivata in sede di valutazione, non evidenzia la tipica sintomatologia radicolare riconducibili a importanti fatti erniari. Il trattamento propriocettivo appare quanto mai appropriato in quanto la paziente evidenzia un marcato decondizionamento e mancanza di coordinazione durante i movimenti del rachide che risultano lenti ed impacciati Il principio di trattamento scelto è quell’estensione e dell’estensione abbinata a shift laterale sinistro, esercizi di rinforzo della catena posteriore fasica e dei muscoli tonico‐posturali del rachide verranno inseriti quando si otterranno riduzione della sintomatologia dolorosa e centralizzazione. Si introdurranno poi gli esercizi propriocettivi per la colonna secondo il protocollo dell’O.C. di Sanremo alfine di ripristinare controllo e coordinazione del rachide. 127 6.2 Note di trattamento Verranno elencati esclusivamente i dati salienti per le sedute sostenute. I seduta: Colloquio con la paziente al fine di spiegare gli obiettivi terapeutici le ipotesi valutative e le tecniche cui verrà sottoposta. Correzione della postura seduta e istruzione all’uso del rotolo lombare Consigli ergonomici sulla posizione di guida La correzione manuale da parte del terapista dello shift laterale, pur portando giovamento immediato risulta solo in parte mantenibile probabilmente a causa di pregresso atteggiamento scoliotico. Istruzione su come alzarsi dal letto. Consigli di igiene posturale. Esercizio prono in estensione (cap 4 figura 4.2) Prescrizione di programma domiciliare basato sulle correzioni, l’igiene posturale e l’esercizio prono in estensione. Si insiste ulteriormente sul coinvolgimento del soggetto assicurandoci che abbia compreso la natura dei suoi dolori (ipotizzata in sede di valutazione) e che ne condivida i criteri di gestione e trattamento; è per noi fondamentale che il paziente non rimanga soggetto passivo del progetto. II seduta: La paziente riferisce giovamento. Verifica della comprensione delle istruzioni fornite. Verifica del programma domiciliare. Prosegue il trattamento. Introduzione dell’estensione mantenuta su lettino (cap 4 fig 4.3) 128 III seduta: La paziente riferisce giovamento. Verifica della comprensione delle istruzioni fornite. Verifica del programma domiciliare. Prosegue il trattamento. Aumento dell’escursione in estensione mantenuta su tavola Introduzione della componente laterale durante l’estensione. Inizio di blandi esercizi attivi per gli estensori del rachide. IV seduta: La paziente riferisce giovamento. Verifica della comprensione delle istruzioni fornite. Verifica del programma domiciliare. Prosegue il trattamento con il mantenimento della componente laterale. Mobilizzazione in rotazione (cap 4 fig 4.4) Intensificazione del rinforzo sulla muscolatura estensoria del rachide. Intensificazione del programma domiciliare. V seduta: La paziente riferisce giovamento, la sintomatologia distale è scomparsa; permane dolore centrale blando e rigidità, forse dovuta in parte all’ipertrofia dei massicci articolari. Verifica della comprensione delle istruzioni fornite. Verifica del programma domiciliare. Prosegue il trattamento Introdotti gli esercizi in estensione attiva da prono (cap 4 figura 4.4) con e senza componente laterale. Introduzione agli esercizi propriocettivi. 129 Esercizio 1 (cap 4 fig 4.9). Adattamento del programma domiciliare al quale sono aggiunte le estensioni da in piedi e blandi esercizi propriocettivi. VI seduta: La paziente riferisce scomparsa dei sintomi distali e loco‐regionali, permane tuttavia rigidità. Verifica del programma domiciliare. Segue programma in palestra. Vengono intensificate le estensioni attive e il lavoro di rinforzo degli erettori spinali. Si aggiungono esercizi di rinforzo selettivo del quadricipite femorale e di allungamento dei muscoli ischio crurali. Training propriocettivo della colonna esercizi 1 e 2 (cap. 4 fig 4.9 e 4.10). Modifica del programma domiciliare dove le estensioni attive da prono, eseguite ad intervalli regolari vengono sostituite da strategie di “compenso alla flessione errata” tramite estensioni in stazione eretta. Contestualmente alla modifica del programma domiciliare si è portato in questa seduta particolare accento ai consigli di igiene posturale ed ergonomici precedentemente forniti alla paziente. VII seduta: La paziente riferisce miglioramento e si dice soddisfatta in quanto ieri ha svolto alcune blande attività nell’uliveto senza provare dolore, ed oggi si è recata al trattamento guidando l’automobile. Introdotta l’estensione attiva con cinghia. 130 Inizia in questa seduta il recupero della flessione del rachide con esercizi a lettino passivi e attivi; alla conclusione degli esercizi in flessione seguono dieci estensioni da in piedi. Intensificato il rinforzo degli erettori del rachide e dell’apparato estensore degli AAII. La parte maggiore della seduta è dedicata agli esercizi propriocettivi. Esercizio 1, esercizio 2 ed esercizio 3 proposto anche con la variante della palla Bobath. (cap 4 fig 4.9 4.10 4.11) VIII seduta: La paziente riferisce che il miglioramento è stabile. Verifica del programma domiciliare. Segue programma in palestra. Introduzione di esercizi da seduta e da in piedi per il recupero della flessione. Segue intenso rinforzo degli estensori del rachide e degli AAII. Gran parte della seduta è dedicata alla parte propriocettiva che viene proposta negli esercizi 1 2 3 e 4 introducendo varianti. La paziente ora inizia svolgere questi esercizi con disinvoltura, mentre nelle prime sedute l’impaccio risultava evidente e l’esercizio faticoso. Modifica del programma domiciliare: mantenuti gli esercizi propriocettivi, alcuni esercizi flessori vengono ora introdotti, cui deve sempre seguire una serie di estensioni da prono; le estensioni da in piedi sono ora svolte solo come compenso ad una flessione non corretta. Rinforzo dei consigli di igiene posturale. IX seduta: Paziente stabile. Riporta di attività in campagna e tragitto in automobile senza dolore. 131 Riferisce di sentirsi più sicura e forte in ogni circostanza della quotidianità. Segue programma di rinforzo estensorio. Segue programma di recupero della flessione. Esercizi propriocettivi che la paziente ormai svolge con scioltezza, in autonomia e manifestando gradimento. Modifica programma domiciliare che viene praticamente ridotto al minimo: le estensioni devono essere compiute solo a seguito del mantenimento prolungato di una flessione e sono svolte dal paziente ogni qualvolta questo avverta una sensazione dolorosa provenire dall’area lombare. X seduta: Paziente stabile. Segue con estensioni attive e rinforzo apparati estensori. Segue training propriocettivo lombare. La paziente viene rivalutata: La flessione risulta completa e indolore nei movimenti singoli e ripetuti, provoca dolenzia solo se mantenuta; l’estensione continua a suscitare una sensazione definita, dal soggetto, come rigidità seppure all’osservazione risulti libera; gli scivolamenti laterali sono completi e indolori in entrambe le direzioni, ma permane, seppur in maniera minore rispetto alla prima valutazione, uno shift laterale che a questo punto ci sentiamo di definire come atteggiamento piuttosto che antalgico. La posizione seduta risulta comoda, in quanto corretta, lo stesso si può dire delle posizioni in decubito. A seguito di interrogatorio la paziente riferisce miglioramento nelle attività funzionali tutte ed esprime fiducia nelle sue possibilità di migliorare ulteriormente. 132 La seduta si conclude con un colloquio fra paziente e terapista e con la consegna di un promemoria informativo sulla prevenzione e sulla gestione di eventuali ricadute. 6.3 Considerazioni Al termine di questo processo terapeutico, ci si aspetta che il soggetto abbia compreso l’origine del suo mal di schiena; che sia inoltre in grado di individuare e correggere gli atteggiamenti scorretti, e di riconoscere quei “messaggi” che la sua colonna lombare gli invia e di mettere in atto le strategie, apprese durante il trattamento per scongiurare una possibile ricaduta ed attenuare e gestire il dolore qualora questo ripresenti. Questi presupposti sono fondamentali per ottenere un miglioramento duraturo ed evitare il pericolo di una cronicizzazione: è auspicabile infatti che il paziente non rimanga soggetto passivo nel trattamento per non essere soggetto passivo della patologia. Il fatto che l’esperienza dolorosa rientri nella sfera di comprensione del malato e che il terapista gli fornisca uno strumento di gestione immediato rappresenta il primo passo di questo processo. 133 DISCUSSIONI 134 Secondo la moderna concezione, il fenomeno lombalgia, origina certo da stimoli meccanici e chimici vertebrali, ma si esprime integrando alla semplice nocicezione complessi aspetti strutturali, funzionali, psico‐comportamentali e sociali. Assume dunque gli aspetti di una sindrome complessa, di una patologia “umana” che sarebbe riduttivo definire come semplice sintomatologia algica e decondizionamento fisico. Algia, disabilità e lo svantaggio sociale che ne deriva non dipendono quindi da fattori puramente fisici o puramente psicologici, ma piuttosto da una complessa interazione degli stessi nel corso del tempo. Inadeguato appare ormai qualunque approccio valutativo e terapeutico di questo fenomeno complesso, che non consideri in egual misura ognuno di questi aspetti. Una visione ampia permetterà a medici, terapisti e professionisti sanitari in genere, di individuare correttamente quei fattori predittivi che avvieranno il soggetto lombalgico verso un trattamento adeguato ed adattabile. Il più importante aspetto di questo breve lavoro è infatti la visione multifattoriale del paziente affetto da sindrome lombalgia complessa, attraverso la scelta di scale valutative e misure di out come che descrivano il soggetto a 360°. Lo studio sembra dimostrare l’efficacia di questa combinazione di scale valutative, fornendo nel complesso una lettura esaustiva e soddisfacente tanto dei risultati terapeutici quanto, elemento forse ancora più interessante, delle ipotesi prognostiche e predittive ricavabili da una attenta analisi dei dati raccolti. Questi evidenziano, una volta di più, quanto le aspettative, la componente educazionale e la motivazione del paziente, giochino un ruolo fondamentale nel processo 135 riabilitativo‐ terapeutico. A questo proposito, oltre al caso clinico esposto nel Capitolo 6, proponiamo l’analisi dei valori espressi da alcuni pazienti a T0 e a T1, con particolare attenzione al valore prognostico che alcuni strumenti hanno evidenziato nel contesto di questo studio; in particolare la scala T.S.K. e il questionario SF12. I criteri interpretativi sono stati ricavati da recente letteratura il cui riferimento si può trovare in bibliografia: “SF12 Interpreting” University of Massachusetts Medical School 2012, e “T.S.K. summary: occupational therapy and program” University of Western Sidney. A T0 il paziente numero 3 Bartolomeo C. ha espresso un punteggio molto elevato nella scala T.S.K. 44/52, e un valore molto basso 37% della componente M.C.S. del questionario SF12. Secondo i criteri interpretativi di cui sopra questi valori fanno riferimento a soggetti per cui si potrebbe prevedere anche il coinvolgimento di uno psicoterapeuta all’interno del team riabilitativo. Inoltre al momento della prima valutazione il soggetto, reduce da numerosi fallimenti terapeutici, si era da subito dimostrato rassegnato e poco compliante, tale atteggiamento ha subito una lieve modificazione durante il corso del trattamento, tuttavia non è stato possibile coinvolgere attivamente il soggetto che raramente dichiarava di svolgere il programma domiciliare di esercizi e di seguire le indicazioni di igiene posturale proposte. A T1 l’indicatore del dolore, N.R.S. passa da un valore di 5 ad un valore di 1, e la Physical Component Summarydel questionario SF 12 esprime un significativo miglioramento di dieci punti percentuali (pur restando al di sotto dei valori medi della University of Massachusetts ). Ciononostante il Mental Component Summary della SF12 rimane invariato e il paziente non esprime miglioramenti nell’indice di disabilità O.D.I. e si dice solo parzialmente soddisfatto nella richiesta di 136 aiuto espressa al momento della prima valutazione. Il paziente numero 3 quindi pur manifestando una diminuzione del dolore, non ha risolto quelle problematiche della vita quotidiana che si sono instaurate a seguito della lombalgia. Questo ci conferma che per tale soggetto un approccio non esclusivamente fisioterapico sarebbe stato più opportuno ed indica quanto, almeno in questo caso, gli indicatori dedicati (T.S.K. e M.S.C. di SF12) si siano rivelati corretti. A T0 il paziente numero 6 Lucio G. presentava un valore T.S.K. di 21/52, e un punteggio percentuale di 58 nella componente M.C.S. della scala SF12, il suo atteggiamento nei confronti del movimento, dell’attività fisica, del trattamento e la sua paura della malattia erano sovrapponibili a quelle di un soggetto asintomatico. Come evidenziato da questi strumenti, in sede di prima valutazione inoltre Lucio G., pur essendo reduce da diversi interventi terapeutici non andati a buon fine, si dimostrava attento e motivato. A T1 l’indicatore della funzione biologica (Finger tip to floor) subiva una minima variazione, mentre tutti gli altri indicatori, specialmente quelli legati alle attività della vita quotidiana, erano notevolmente migliorati. Questo indica l’importanza della scelta di strumenti valutativi adeguati che siano in grado di fornire al terapista una chiave interpretativa del quadro patologico, ma ancora prima del paziente in tutte le sue molteplici sfaccettature. 137 Bibliografia • AA.VV. “Interpreting SF12” University of Massachusetts Medical School 2012 • AA.VV. (2008) Guida all’atlante di anatomia umana II edizione”. Ed Elsevier Masson; 159;530;540 • Albert HB, Hauge E, Manniche “Centralization in patients with sciatica: are pain responses to repeated movement and positioning associated with outcome or types of disc lesions?” C. Eur Spine J. 2012. • Armstrong J.R. “Lumbar disc lesion” 1985 Ed Livingston London • Basaglia N. Progettare la Riabilitazione. 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Jayson 1976 145 Ringraziamenti É doveroso un sentito ringraziamento a tutti coloro che hanno creduto in me e nelle mie capacità. Il mio percorso di studi, culminato con il lavoro svolto nella mia tesi di laurea, è frutto di costante impegno e dedizione, che devono essere la forma mentis di ogni buon fisioterapista. Un sentito ringraziamento al Dott. Alessandro Manelli e al Ft. Mirco Oliveira, per avermi concesso di frequentare e di usufruire del reparto di Fisiatria dell’Ospedale Civile di Sanremo, e per aver curato, con grande disponibilità e professionalità, la preparazione della mia tesi di laurea. Un grazie speciale va alle Fis. Coordinatrici del Corso di Laurea, Cinzia Laura e Fortunata Romeo per l’aiuto ed il costante sostegno che mi hanno dimostrato durante il mio cammino universitario. Ringrazio altresì, tutti i terapisti della ASL1 Imperiese ed in particolar modo il Fis. Luigi Beghello e la Fis Valeria Banaudi per avere contribuito alla mia formazione e crescita professionale con i tanti insegnamenti e consigli utili di cui farò tesoro. Un particolare pensiero è rivolto alla mia cara Isabelle, per essermi stata vicina in ogni momento , per avermi sempre incoraggiato nei momenti difficili, e sopportato durante la preparazione degli esami . Infine un grazie va anche e soprattutto a Lidiana che dall’alto, con sguardo materno, veglia su di me. Estate 2012 Alessio MELANI 146