UNIVERSITA’
DEGLI
STUDI
DI
GENOVA
SCUOLA
DI
SCIENZE
MEDICHE
E
FARMACEUTICHE
CORSO
DI
LAUREA
TRIENNALE
IN
FISIOTERAPIA
Coordinatore:
Prof.
Carlo
Gandolfo
RIABILITAZIONE
DEL
SOGGETTO
LOMBALGICO
ATTRAVERSO
UN
APPROCCIO
MECCANICO
PROPRIOCETTIVO
ED
EDUCAZIONALE
LAUREANDO
Alessio
MELANI
Dott.
Alessandro
Manelli
Matricola
3273832
Ft.
Mirco
Oliveira
Anno
Accademico
2011‐2012
RELATORI
“Quelli
che
si
innamoran
di
pratica
senza
scienza
sono
come
i
nocchieri
ch’entra
in
navilio
senza
timone
o
bussola,
che
mai
ha
certezza
dove
si
vada.”
Leonardo
da
Vinci
2
Indice
Introduzione
Capitolo
1:
Il
rachide
Pag
6
1‐1
Elementi
anatomici
Pag
11
Componente
osteoarticolare
Pag
11
Componente
legamentosa
Pag
22
Il
disco
intervertebrale
Pag
24
Componente
muscolare
Pag
29
Innervazioni
Pag
32
1‐2
Elementi
funzionali
e
biomeccanica
Pag
36
I
parametri
sagittali
del
rachide
Pag
36
Il
movimento
Pag
40
Funzioni
del
disco
intervertebrale
Pag
43
Capitolo
2:
Il
dolore
Pag
45
2‐1
Riferimenti
anatomici
e
fisiologici
Pag
46
Classificazione
Pag
46
Sintomatologia
e
topografia
Pag
48
La
nocicezione
in
area
lombare
Pag
50
Il
disco
intervertebrale
e
il
dolore
Pag
52
Insorgenza
del
dolore
lombare
secondo
Mckenzie
Pag
54
Il
fenomeno
della
centralizzazione
Pag
56
La
progressione
di
forze
e
il
dolore
Pag
57
2‐2
Un
approccio
integrato
Pag
59
Le
componenti
fondamentali
del
dolore
Pag
59
Pag
10
3
Il
significato
dell’autotrattamento
Pag
59
Capitolo
3:
L.B.P.
valutare
misurare
comprendere
Pag
62
3‐1
Misurare
e
valutare
secondo
i
criteri
ICF
Pag
63
Modello
biomedico
e
biopsicosociale
Pag
64
Significato
dell’out
come
Pag
67
Tipologie
di
out
come
Pag
68
Limiti
dell’out
come
Pag
69
Strumenti
Pag
71
3‐2
Inquadramento
ICF
del
soggetto
lombalgico
Pag
73
Sindrome
biopsicosociale
per
la
lombalgia
cronica
Pag
73
Misure
di
out
come
in
aderenza
al
modello
ICF
Pag
75
Evidence
Based
Practice
Pag
77
Lombalgia:
cosa
e
come
misurare
Pag
78
Condizioni
generali
di
salute
Pag
80
Dolore
Pag
81
Criteri
ICF:
body
function
&
structure
Pag
82
Criteri
ICF:
activities
Pag
82
Criteri
ICF:
partecipation
Pag
83
Strumenti
di
misura
dei
fattori
personali
TSK
Pag
83
3‐3
Valutazione
specifica
Pag
84
Anamnesi
ed
esame
fisico
secondo
R.
Mckenzie
Pag
84
Altri
tests
Pag
86
Capitolo
4:
Materiali
e
metodi
Pag
96
4‐1
Metodo
Mckenzie
Pag
97
Dolore
e
centralizzazione
Pag
99
Le
tre
sindromi
Mckenzie
Pag
100
Gli
esercizi
e
le
tecniche
Pag
106
4
4‐2
Ginnastica
propriocettiva
per
la
colonna
Pag
111
Nozioni
Pag
111
Esercizi
del
protocollo
O.C.
di
Sanremo
Pag
113
4‐3
L’educazione
Pag
117
4‐4
Selezione
dei
pazienti
Pag
118
Capitolo
5:
Risultati
Pag
119
Capitolo
6:
Caso
clinico
Pag
123
6‐1
Il
paziente
Pag
124
6‐2
Note
di
trattamento
Pag
128
6‐3
Considerazioni
Pag
133
Capitolo
7:
Discussioni
Pag
134
Bibliografia
Ringraziamenti
Pag
146
Pag
138
5
INTRODUZIONE
6
Il
low
back
pain
(LBP)
è
il
disturbo
osteoarticolare
più
frequente,
rappresentando,
dopo
il
raffreddore,
la
più
comune
affezione
dell’uomo,
interessa
uomini
e
donne
in
egual
misura.
Quasi
l’80%
della
popolazione,
nel
corso
della
vita
è
destinato
a
presentare
una
lombalgia
(prevalenza)
con
picco
compreso
fra
i
30
ed
i
50
anni.
La
prevalenza
annuale
riguardo
gli
adulti
in
età
lavorativa
è
del
50%
di
cui
il
15%
‐
20%
ricorre
a
cure
sanitarie.
L’Organizzazione
Mondiale
della
Sanità
(OMS)
ha
incluso
la
lombalgia
come
priorità
nella
Bone
and
Joint
Decade
2000‐2010.
In
un
suo
articolo
pubblicato
su
Spine
già
nel
1996
Waddel
ha
individuato
nella
comune
lombalgia
un’epidemia
del
ventesimo
secolo,
e
fra
i
primi
(1987)
ha
cercato
di
guardare
oltre
la
pura
“dimensione
dolore”,
applicando
un
modello
più
complesso,
ma
più
vicino
alla
realtà,
delineando
i
fattori
che
interagiscono
tra
loro
nel
determinismo
del
dolore
e
della
disabilità:
il
modello
biopsicosociale.
Secondo
questa
concezione,
il
dolore
lombare
origina
da
stimoli
nocicettivi
vertebrali,
ma
esprimendosi,
integra
aspetti
fisici
con
manifestazioni
psico‐comportamentali
e
perdita
funzionale,
divenendo
modello
di
patologia
umana
e
non
solo
di
sintomatologia
algica.
Lombalgia
e
disabilità
non
dipendono,
dunque,
da
fattori
puramente
fisici
o
puramente
psicologici,
ma
piuttosto
da
una
complessa
interazione
degli
stessi
nel
corso
del
tempo.
Fattori
psicologici
possono
influenzare
i
processi
fisici,
ad
esempio,
mediante
aumentata
tensione
muscolare
o
particolare
timore
nell’esecuzione
di
un
movimento.
Alterazioni
comportamentali
possono
coinvolgere
l’esecuzione
di
attività
lavorative
così
come
le
stesse
attività
possono
assumere
riflessi
negativi
in
termini
comportamentali.
Iniziando
spesso
come
normale
conseguenza
del
dolore,
questi
quadri
possono
condizionare
nel
tempo
il
soggetto,
inducendo
modificazioni
fisiche
7
come
disturbi
posturali,
della
deambulazione
e
del
movimento.
Persistendo
il
più
delle
volte
ad
un
livello
inconscio
ed
indipendente
dalla
reale
sintomatologia
dolorosa,
alterati
processi
psico‐fisiologici
e
psico‐comportamentali
spingono
il
soggetto
ad
un
decondizionamento
fisico
e
psicologico,
al
centro
di
un
circolo
vizioso
che
accresce
erronee
convinzioni
sul
dolore,
sui
rischi
occupazionali
e
su
fallibili
strategie
terapeutiche.
Il
modello
biopsicosociale
non
segue
fasi
consequenziali
e
predeterminate:
la
percezione
dolorosa
può
sia
precedere
che
seguire
il
problema
fisico,
così
come
la
personalità
del
soggetto
ed
il
suo
preesistente
stato
psicologico
possono
concorrere
a
modificare
l’intero
processo.
Dolore
e
disabilità
non
sono
una
condizione
statica,
ma
costituiscono
un
processo
che
si
evolve
dinamicamente
nel
tempo:
molte
delle
modificazioni
psicologiche
e
comportamentali
riscontrabili
nella
sindrome
lombare
appaiono
precocemente,
sviluppandosi
già
dopo
pochi
giorni
dall’insorgenza
del
dolore.
Sebbene
sintomatologicamente
ed
obiettivamente
simili
agli
altri
soggetti,
si
riscontra
che
chi,
spinto
da
esperienze
personali,
dal
catastrofismo,
dalla
depressione
e
dal
contesto
sociale,
rimanda
il
precoce
ritorno
lavorativo
nel
vano
tentativo
di
limitare
la
percezione
dolorosa,
è
maggiormente
esposto
a
cronicizzazione,
in
contrasto
con
chi
cerca
da
subito
una
precoce
ripresa
lavorativa,
riuscendo
così
a
condizionare
positivamente
gli
esiti
a
breve
e
a
lungo
termine.
La
disabilità
secondaria
ed
il
decondizionamento
si
esplicano,
dunque,
attraverso
più
componenti:
dolore
cronico
(nella
sua
complessità
cognitiva
e
neurofisiologica),
disfunzione
fisica,
aspetti
psico‐comportamentali,
aspetti
sociali
e
socio‐
ambientali.
Le
algie
vertebrali
di
origine
lombare
diventano
croniche
nel
10‐
40%
dei
casi:
questi
pazienti
contano
per
l’80%
circa
dei
costi
complessivi
sostenuti
per
la
patologia.
È
su
questo
aspetto
e
sulla
8
prevenzione
della
cronicità
che
si
devono
quindi
concentrare
gli
sforzi
terapeutico‐riabilitativi
maggiori.
(O’Sullivan
2005).
Riferendosi
al
modello
biopsicosociale
(Waddell
1998)
questo
lavoro,
pur
prendendo
in
considerazione
una
casistica
statisticamente
poco
significativa,
vuole
essere
uno
studio
che
ha
come
obiettivo
quello
di
dimostrare
l’efficacia
di
un
approccio
meccanico‐propriocettivo
ed
educativo
nella
risoluzione
delle
algie
lombari
e
nella
prevenzione
delle
cronicizzazioni.
9
IL
RACHIDE
10
1.1 Elementi
anatomici
Componente
osteoarticolare
‐ La
colonna
vertebrale
è
costituita
da
segmenti
ossei
sovrapposti
fra
loro
definiti
vertebre:
7
vertebre
cervicali,
12
toraciche,
5
lombari,
5
sacrali
che
costituiscono
l’osso
sacro,
e
3
o
4
coccigee
che
costituiscono
il
coccige.
E’
paragonabile
ad
una
colonna
molto
flessibile
ancorata
al
sacro
e
sottoposta
a
carichi
di
varia
natura:
di
compressione
assiale,
di
trazione
di
taglio,
di
torsione,
di
flessione.
La
colonna
è
sostenuta
da
formazioni
muscolo‐tendinee
e
legamentose
che
equilibrano
le
varie
forze
alle
quale
questa
è
sottoposta.
La
colonna
nel
suo
complesso
ha
molteplici
funzioni:
•
Sostegno
di
capo,
busto,
arti
superiori
e
organi
mediastinici
(assieme
alla
gabbia
toracica),
assumendo
così
l’aggravio
di
circa
2/3
dell’intero
peso
corporeo.
•
Movimento
proprio
della
colonna
e
di
adattamento
del
busto
a
tutte
quelle
posizioni
che
facilitano,
durante
le
attività
funzionali,
l’avvicinamento
fra
i
segmenti
craniali
e
caudali
(gli
arti)
o
fra
questi
e
il
rachide
stesso
o
il
bacino.
•
Ammortizzamento
di
tutte
le
sollecitazioni
provenienti
dall’interno
del
corpo
e
dall’ambiente
esterno,
accumulandoli
o
trasferendoli
agli
altri
segmenti
corporei
come
arti
bacino
e
testa
•
Contenimento
in
assoluto
la
più
importante
derivante
dalla
presenza
di
un
canale
osteo‐legamentoso
che
protegge
il
midollo
spinale
posto
al
suo
interno.
11
La
colonna
vertebrale
presenta
in
sezione
sagittale
quattro
curvature:
due
a
convessità
anteriore
(lordosi)
cervicale
lombare,
due
a
convessità
posteriore
(cifosi)
toracica
e
sacrale.
La
gravità
ed
il
peso
degli
organi
tenderebbe
ad
accentuare
tali
curve
se
non
intervenissero
le
strutture
muscolari,
prevertebrali,
addominali,
paravertebrali,
a
mantenere
tale
conformazione.
Tali
curvature,
che
si
sarebbero
determinate
con
l’acquisizione
della
posizione
eretta,
è
fondamentale
presupposto
al
mantenimento
dell’equilibrio
(in
presenza
di
una
base
di
appoggio
assai
ristretta
come
quella
dell’uomo),
alla
distribuzione
dei
carichi
ed
inoltre,
come
sostenuto
da
Kapandji,
aumenta
di
dieci
volte
la
resistenza
alla
compressione
assiale
del
rachide,
in
base
all’assunto
biomeccanico
secondo
il
quale
la
resistenza
di
una
colonna
che
presenta
delle
curve
è
pari
al
quadrato
del
numero
delle
curve
più
1,
come
illustrato
in
figura
1.1
Fig
1.1
Quindi
si
può
ragionevolmente
sostenere
che
una
colonna
ove
tali
curve
non
siano
mantenute
entro
un
range
fisiologico
non
solo
avrà
una
minore
resistenza
alla
compressione
assiale,
ma
sarà
ipovalida
nell’assolvere
le
funzioni
di
sostegno,
movimento,
ammortizzamento
e
12
contenimento;
e
con
tutta
probabilità
causerà
squilibri
biomeccanici
tali
da
determinare
la
comparsa
situazioni
dolorose
di
varia
natura.
L’unità
funzionale
della
colonna
è
costituita
da
due
vertebre
adiacenti
dal
disco
intervertebrale
e
dai
tessuti
molli
interposti,
come
illustrato
in
figura
1.2
Fig
1.2
La
vertebra,
pur
presentando
caratteristiche
morfologiche
e
funzionali
diverse
a
seconda
del
tratto
rachideo
cui
appartiene,
ci
mostra
la
conformazione
interna
tipica
delle
ossa
brevi
è
infatti
costituita
anteriormente
da
un
corpo
vertebrale
(soma)
che
presenta
una
corticale
di
osso
denso
e
compatto
che
racchiude
osso
spugnoso.
La
corticale
superiore
e
inferiore
del
corpo
viene
definita
piatto
ricoperto
da
cartilagine
ialina
(articolare).
Il
piatto
vertebrale
è
più
spesso
al
centro
dove
si
trova
la
cartilagine
mentre
la
parte
periferica
presenta
un
rilevo
detto
orletto
marginale
derivante
da
un
nucleo
di
ossificazione
epifisario
che
si
salda
al
corpo
della
vertebra
durante
la
pubertà.
La
parte
posteriore
del
corpo
costituisce
parzialmente
la
parte
anteriore
del
forame
di
coniugazione
che
permette
il
passaggio
dei
nervi
spinali.
(Fig.1.3)
13
Fig
1.3
Posteriormente
presenta
un
arco
posteriore
in
cui
sono
fissate
dall’avanti
all’indietro:
due
peduncoli
ds
e
sn
a
forma
di
lamina
che
uniscono
il
corpo
all’arco
vertebrale
i
processi
articolari
superiori
e
inferiori,
che
si
articolano
che
si
articolano
con
gli
omonimi
delle
vertebre
sopra
e
sottostanti;
i
processi
trasversi,
che
nel
tratto
lombare
sono
particolarmente
pronunciati
e
prendono
il
nome
di
processi
costi
formi,
e
infine
troviamo
le
lamine
ds
e
sn
che
si
uniscono
a
formare
in
processo
mediano
che
si
porta
posteriormente
denominato
apofisi
spinosa.
Fra
corpo
e
arco
viene
quindi
a
delimitarsi
uno
spazio
detto
foro
vertebrale
che
permette
il
passaggio
del
midollo
spinale.
In
sezione
frontale
il
corpo
vertebrale
presenta
delle
travate
di
osso
spongioso
che
si
irradiano
secondo
linee
di
forza
verticali
che
uniscono
i
due
piatti
superiore
ed
inferiore;
e
orizzontali
che
uniscono
le
due
corticali
laterali.
In
sezione
sagittale
si
evidenziano
anche
due
sistemi
di
fibre
a
ventaglio:
quello
superiore
parte
dal
piatto
superiore
e
si
dirige
passando
per
i
peduncoli
fino
ai
processi
articolari
superiori
e
all’apofisi
spinosa;
quello
inferiore
parte
dal
piatto
inferiore
e
si
dirige
attraverso
i
peduncoli
ai
processi
articolari
inferiori
e
all’apofisi
spinosa.
14
Fig
1.4
L’incrocio
di
questi
sistemi
trabecolari
da
un’elevata
resistenza
in
quasi
tutto
il
corpo
ma
nella
zona
anteriore
esiste
una
zona
dove
vi
sono
solo
travate
verticali.
Tale
zona
di
minor
resistenza
è
spesso
responsabile
della
fratture
a
cuneo
causate
da
compressioni
assiali.
Vari
studi
mostrano
che
una
forza
compressiva
di
600
Kg
causa
una
frattura
da
schiacciamento
(cuneo)
nella
zona
anteriore
della
vertebra
ma
per
schiacciare
totalmente
tutto
il
corpo
vertebrale
sono
necessari
almeno
altri
200
Kg.
(I.A.
Kapandji
1999)
La
zona
di
maggior
resistenza
è
invece
la
parte
posteriore
del
corpo
e
dei
peduncoli
tant’è
che
viene
definita
da
alcuni
Autori
(Decoulx,
Rieunau)
il
muro
posteriore
(R.
Maigne
2009)
.
Esemplificazione
di
tale
struttura
trasecolare
è
osservabile
in
figura
1.5.
Il
corpo
vertebrale
con
l’invecchiamento
diventa
più
rigido
è
in
grado
di
immagazzinare
meno
energia
quindi
più
sottoposto
al
rischio
di
frattura
anche
senza
traumatismi
(crolli
osteoporotici).
15
Fig.1.5
Nella
colonna
lombare,
oggetto
della
tesi,
si
apprezzano
alcune
differenze:
il
corpo
è
più
esteso
in
larghezza,
in
senso
antero‐posteriore
ed
è
più
alto;
l’apofisi
spinosa
è
molto
grande
e
si
porta
direttamente
indietro.
La
quarta
e
quinta
vertebra
lombare
a
causa
delle
forti
connessioni
con
l’iliaca
(legamenti
ileo
lombari)
possono
essere
considerate
come
il
tetto
del
bacino
formando
un
collegamento
statico
fra
rachide
e
bacino.
Mentre
la
terza
lombare
che
si
trova
all’apice
della
lordosi
lombare,
presenta
un
arco
posteriore
molto
sviluppato
funziona
come
un
relais
muscolare
tra
i
fasci
muscolari
a
provenienza
iliaca
(lungo
del
dorso).
E’
la
prima
vertebra
veramente
mobile
della
colonna
lombare.
La
radice
spinale
dal
nervo
dalla
sua
uscita
dal
foro
di
coniugazione
o
dalla
branca
anteriore
o
posteriore.
L’altra
radice
proviene
dal
ramo
comunicante
bianco
vicino,
spesso
soprastante.
A
seguito
delle
vertebre
lombari
si
trova
l’osso
sacro
che
deriva
dalla
fusione
dei
cinque
segmenti
primitivi
delle
vertebre
sacrali,
che
si
16
conclude
al
il
termine
del
processo
di
sviluppo
e
accrescimento.
Nell’insieme
ha
una
forma
a
piramide
quadrangolare
con
la
base
in
alto.
Tale
base
forma
con
la
5°
lombare
un
angolo
a
convessità
anteriore
detto
promontorio.
Tale
forma
dovuta
alla
rapida
diminuzione
della
dimensione
delle
vertebre
sacrali
e
coccigee
dipende
dal
fatto
che
questo
tratto
di
colonna
non
deve
sostenere
alcun
peso.
(Fig.1.6)
Fig
1.6
Il
sacro
è
percorso
dal
canale
sacrale,
l’ultima
parte
del
canale
vertebrale.
(Fig1.7).
Nella
faccia
anteriore
e
posteriore
il
sacro
presenta
i
fori
sacrali
anteriori
e
posteriori
che
permettono
il
passaggio
dei
nervi
spinali
sacrali.
La
faccia
posteriore
convessa
sulla
linea
mediana
presenta
la
cresta
sacrale
media,
data
dalla
fusione
dei
processi
spinosi
delle
vertebre
sacrali.
17
Fig
1.7
Lateralmente
si
trovano
le
creste
sacrali
intermedie
destra
e
sinistra
derivate
dalla
fusione
dei
processi
articolari
delle
vertebre
sacrali.
Tali
creste
terminano
in
basso
con
un’acuta
sporgenza
il
corno
sacrale.
A
lato
delle
creste
troviamo
bilateralmente
i
quattro
fori
sacrali
posteriori
che
danno
il
passaggio
ai
rami
posteriori
dei
nervi
spinali
sacrali.
Lateralmente
si
trovano
le
creste
sacrali
laterali
dalla
fusione
dei
processi
trasversi.
Le
facce
laterali
presentano
la
superficie
articolare
per
l’osso
dell’anca
la
faccia
auricolare,
dietro
la
quale
si
trova
la
tuberosità
sacrale
una
superficie
che
da
impianto
a
molti
legamenti.
La
base
del
sacro
si
articola
con
la
quinta
lombare,
posteriormente
presenta
l’orifizio
superiore
del
canale
sacrale.
Lateralmente
presenta
due
superfici
triangolari
le
ali
del
sacro.
18
Fig1.8
Il
sacro,
per
la
sua
conformazione,
può
essere
considerato
come
un
cuneo
che
s’incastra
tra
le
due
ali
iliache
sul
piano
frontale
e
sul
piano
trasversale.
Si
tratta
di
un
sistema
auto‐bloccante:
maggiore
è
la
risultante
delle
forze
discendenti
tanto
più
il
sacro
è
bloccato
tra
le
ali
iliache
[Snijders
et
al.,
1993,
1997;
Vleeming
et
al.,
1990,
1997].
Un
altro
meccanismo
di
stabilizzazione
sono
rappresentati
dalla
stabilità
articolare
basata
sugli
attriti
a
livello
delle
auricole
(form
closure)
e
dalla
forza
addizionale
di
chiusura
sotto
carico
dinamico
basata
sulle
strutture
miofasciali
(force
closure).
La
stabilità
del
sacro
è
inoltre
garantita
dalla
presenza
di
molti
legamenti
che
saranno
esposti
in
seguito.
19
Fig1.9
Le
strutture
articolari
considerate
in
questa
sede
con
particolare
attenzione
sono
le
articolazioni
del
tratto
lombare,
e
lombosacrale
particolarmente
importanti,
che
come
vedremo
,
sia
da
un
punto
di
vista
biomeccanico
che
patologico
in
quanto
spesso
sede
di
problematiche
trattabili
con
trattamento
fisioterapico.
•
•
Articolazioni
intervertebrali
(o
intersomatiche):
sono
delle
articolazioni
non
sinoviali
(sinartrosi)
cartilaginee
del
tipo
delle
sinfisi.
Si
instaurano
fra
la
faccia
superiore
di
una
vertebra,
coperta
di
cartilagine
e
il
disco
intervertebrale.
•
Articolazioni
interapofisarie:
sono
articolazioni
sinoviali
(diartrosi)
del
tipo
delle
artrodie;
si
effettuano
fra
faccette
articolari
piane.
I
movimenti
sono
sempre
di
scorrimento
tra
superfici,
ma
se
il
disco
permette
la
mobilità
vertebrale,
le
articolazioni
interapofisarie
ne
condizionano
la
direzione.
Il
loro
orientamento
varia
nei
diversi
piani
del
rachide.
(Fig
1.10)
A
livello
lombare
sono
rivolte
all’indietro.
La
loro
inclinazione
orizzontale
è
di
90°.
Una
considerazione
particolare
va
data
alla
vertebra
D12
che
si
presenta
con
una
conformazione
dorsale
per
le
sue
articolazioni
superiori,
mentre
è
lombare
con
quelle
inferiori.
Si
trova
inoltre
in
un
punto
pivot
importantissimo,
infatti
è
definita
da
20
alcuni
Autori
fra
cui
Maigne
(R.
Maigne
2009)
vertebra
transazionale.
Le
superfici
articolari
interapofisarie
sono
rivestite
da
cartilagine
e
hanno
una
capsula
articolare
densa
ed
elastica
che
le
ricopre
come
una
cuffia.
Queste
articolazioni
hanno
membrana
sinoviale
e
contengono
delle
formazioni
meniscoidi,
estremamente
fini
che
inoltre
contengono
un
tessuto
adiposo
semiliquido
che
presenta
un
potere
ammortizzante
in
modo
da
proteggere
i
bordi
sottili
delle
faccette
articolari.
Fig
1.10
Le
articolazioni
interapofisarie
sono
innervate
dalla
branca
posteriore
del
nervo
rachideo.
Tale
innervazione
è
assicurata
da
un
ramo
che
origina
dallo
stesso
livello
e
da
un
altro
proveniente
dal
livello
sottostante.
Anche
l’innervazione
della
capsula
è
ricca;
Hirsch
e
altri
Autori
(Hirsh
1952)
vi
hanno
rilevato
:
terminazioni
libere
di
fibre
mieliniche
di
piccolo
diametro;
terminazioni
non
incapsulate
di
diametro
medio
di
tipo
Organo
del
Golgi
o
corpuscoli
del
Ruffini,
terminazioni
incapsulate
tipo
Golgi
Mazzoni
e
corpuscoli
di
Pacini.
Come
noto
la
cartilagine
non
è
innervata.
21
Componente
legamentosa
Il
compito
dei
legamenti
è
quello
di
limitare
la
mobilità
del
rachide
sviluppando
tensione
passiva
in
grado
di
opporsi,
insieme
all’azione
muscolare,
ai
momenti
esterni
prodotti
da
forze
come
la
gravità
o
l’inerzia.
I
legamenti
come
altri
tessuti
biologici
quando
sono
sottoposti
a
carichi
di
trazione
manifestano
un
comportamento
meccanico
di
tipo
visco‐
elastico.
Se
lo
stiramento
è
rapido,
determinato
ad
esempio
da
un
movimento
veloce,
si
comportano
come
molle
sviluppando
una
tensione
direttamente
proporzionale
all’allungamento
subito.
Se
lo
stiramento
è
lento
si
verificano
fenomeni,
legati
alla
viscosità,
di
creep
e
stress
relaxation
in
cui
si
viene
a
perdere
la
proporzionalità
fra
allungamento
e
tensione
sviluppata.
Il
sistema
delle
connessioni
legamentose
della
colonna
lombare
è
costituito
da:
•
Legamento
longitudinale
anteriore,
lungo
nastro
che
si
estende
sulla
faccia
anteriore
del
rachide
e
del
disco
intervertebrale
dall’apofisi
basilare
occipitale
(tubercolo
faringeo
dell’occipite)
al
sacro.
E’
formato
da
fibre
lunghe
che
vanno
da
un
capo
all’altro
del
legamento
e
da
fibre
corte
arciformi
tese
da
una
vertebra
all’altra.
Aderisce
maggiormente
ai
corpi
meno
saldamente
ai
dischi.
Tale
legamento
limita
l’estensione
della
colonna
e
rinforza
la
porzione
anteriore
dell’anello
fibroso.
E’
innervato
dal
nervo
sino
vertebrale.
Fig
1.2.
•
Legamento
longitudinale
posteriore:
si
estende
posteriormente
dall’apofisi
basilare
fino
al
canale
sacrale.
Presenta
la
particolarità
di
essere
festonato
poiché
a
livello
di
ogni
disco
intervertebrale
le
fibre
22
arciformi
si
inseriscono
molto
lontano
lateralmente.
La
faccia
anteriore
del
legamento
aderisce
quindi
a
corpi
e
dischi,
mentre
quella
posteriore
entra
in
contatto
con
la
dura
madre.
Inoltre
non
è
inserito
nella
parte
posteriore
del
corpo
vertebrale.
Tale
legamento
limita
la
flessione
della
colonna
e
rinforza
la
porzione
posteriore
dell’anello
fibroso.
E’
innervato
dal
nervo
sino
vertebrale.
Fig
1.2
•
Legamenti
gialli:
sono
fasci
spessi
e
resistenti
che
si
dipartono
dalla
lamina
vertebrale
sottostante
e
terminano
sulla
faccia
interna
della
lamina
soprastante.
La
loro
faccia
anteriore
entra
in
contatto
con
la
dura
madre
quella
posteriore
con
le
lamine
e
quindi
con
i
muscoli
spinali.
Si
uniscono
con
il
controlaterale
e
chiudono
posteriormente
il
canale
vertebrale.
Ricoprono
inoltre
la
capsula
delle
articolazioni
interapofisarie.
Sono
i
legamenti
con
la
maggior
percentuale
di
elastina
di
tutto
il
corpo.
Il
bordo
anteriore
e
esterno
dei
legamenti
costituisce
il
contorno
posteriore
del
forame
di
coniugazione.
Tali
legamenti
limitano
la
flessione
della
colonna
soprattutto
nella
regione
lombare.
Sono
innervati
dal
nervo
sino
vertebrale
e
sono
gli
unici
legamenti
veramente
elastici
della
colonna
vertebrale
.
Fig
1.2
•
Legamento
interspinoso:
dal
bordo
superiore
di
un
processo
spinoso
al
bordo
inferiore
del
soprastante
per
tutta
la
lunghezza
del
processo.
Tali
legamenti
limita
la
flessione
della
colonna.
Sono
innervati
dalla
branca
posteriore
del
nervo
rachideo
Fig
1.2.
•
Legamento
sopraspinoso:
rappresenta
la
prosecuzione
del
precedente,
e
costituito
da
un
cordone
fibroso
che
unisce
i
vari
processi
spinosi.
Mentre
a
livello
cervicale
è
bene
distinguibile
e
prende
il
nome
di
legamento
nucale
a
livello
lombare
è
scarsamente
distinguibile
a
causa
delle
inserzioni
dei
muscoli
dorso
lombari.
Tali
legamenti
limitano
la
flessione
della
colonna.
Sono
innervati
dalla
branca
posteriore
del
nervo
rachideo.
23
•
Legamenti
intertrasversari:
particolarmente
sviluppati
a
livello
lombare,
sono
tesi
fra
i
tubercoli
accessori
dei
processi
trasversi.
Tali
legamenti
limitano
la
flessione
laterale
della
colonna.
Secondo
alcuni
Autori
(Bogduk)
che
li
paragona
ad
una
membrana,
formano
un
setto
che
separa
la
muscolatura
anteriore
da
quella
posteriore
del
rachide.
•
Legamenti
ileo‐lombari:
sono
due
legamenti
uno
superiore
ed
uno
inferiore;
sono
gli
unici
legamenti
estrinseci
della
colonna
lombare,
originano
dai
processi
costi
formi
delle
ultime
vertebre
lombari
fino
alla
cresta
iliaca.
Più
precisamente
il
fascio
superiore
(ileo‐trasversario
lombare
superiore)
origina
dal
processo
della
4°
lombare
e
si
porta
in
basso
in
fuori
e
indietro
inserendosi
sulla
cresta
iliaca;
il
fascio
inferiore
(ileo‐trasversario
lombare
inferiore)
dal
bordo
inferiore
del
processo
costi
forme
della
5°
lombare
e
si
inserisce
sulla
cresta
iliaca
davanti
al
precedente.
Questi
legamenti,
molto
potenti,
limitano
i
movimenti
della
cerniera
lombosacrale.
Nella
inclinazione
laterale
della
colonna
si
tendono
da
lato
della
convessità,
nella
flessione
si
tende
il
superiore
e
si
detende
l’inferiore,
nell’estensione
si
tende
l’inferiore
e
si
detende
il
superiore.
Il
disco
intervertebrale
Il
disco
intervertebrale
è
costituito
da
fibrocartilagine
che
si
riscontra
anche
in
altre
zone
come
la
sinfisi
pubica,
la
sincondrosi
fra
prima
costa
e
sterno,
così
come
nei
menischi
articolari.
Questa
tipologia
di
cartilagine
è
una
forma
di
transizione
tra
il
tessuto
connettivo
denso
e
la
cartilagine
ialina;
è
costituita
da
fasci
fibrosi
di
connettivo
tipo
I
immersa
in
una
scarsa
matrice
cartilaginea;
è
inoltre
priva
di
involucro
il
pericondrio.
La
fibrocartilagine
che
costituisce
il
disco
intervertebrale
24
viene
denominata
anello
fibroso,
essa
si
continua
con
la
cartilagine
ialina
delle
vertebre
adiacenti
nonché
dei
legamenti
spinali.
E’
costituito
da
una
connessione
di
fasci
fibrosi
concentrici
con
un
decorso
obliquo
e
incrociato
rispetto
a
quelli
adiacenti.
Il
decorso
di
tali
fibre
cambia
da
verticali
in
periferia
del
disco
a
orizzontali
al
centro.
A
causa
dell’orientamento
delle
sue
fibre,
l’anulus
si
trova
saldamente
ancorato
alle
limitanti
somatiche,
ma
nella
parte
centrale
risulta
più
debole,
in
particolare
posteriormente
(J.
R.
Armstrong
1985)
dove
la
parete
dell’anulus
risulta
essere
più
facilmente
soggetta
a
deformazione
e
lacerazioni
a
causa
dell’orientamento
delle
fibre
collagene
al
raggio
più
sottile
e
ad
una
inserzione
ossea
meno
salda
(R.
Mckenzie
1998)
L’anello
fibroso
sta
all’esterno
del
disco
mentre
al
suo
interno
si
trova
una
massa
gelatinosa
ellissoidale,
costituita
da
tessuto
cordoide
detta
nucleo
polposo.
E’
un
gel
trasparente
costituito
dall’88%
d’acqua
ricco
in
acido
ialuronico
e
fortemente
idrofilo
la
cui
funzione
è
quella
di
legare
grandi
quantità
di
acqua
e
limitarne
l’uscita
quando
il
disco
è
posto
sotto
pressione
(A.
Caplan
1984)
.
Questa
composizione
chimica
e
strutturale
del
disco
fa
si
che
il
nucleo
sia
mantenuto
sotto
costante
pressione
e
la
rete
di
collagene
sotto
costante
tensione
che
consente
ai
dischi
di
non
venire
compressi
sotto
carico.
La
pressione
all’interno
del
nucleo
non
è
quindi
nulla
anche
quando
la
colonna
non
è
sottoposta
a
carichi
e
tale
compressione
è
appunto
determinata
dalla
sua
idrofilia
che
lo
fa
gonfiare
nel
suo
alloggio
inestensibile.
Tale
condizione
è
detta
stato
di
precompressione
del
nucleo.
Il
nucleo
agisce
come
un
distributore
di
pressione
in
senso
orizzontale
sull’anello
e
sopporta
circa
il
75%
del
carico
mentre
l’anello
solamente
il
25%
(R.
Mckenzie
1976)
.
Tale
meccanismo
si
riduce
se
diminuisce
la
pressione
intranucleare
per
esposizione
prolungata
al
carico,
che
causa
fuoriuscita
25
di
acqua
dal
nucleo,
o
per
altri
meccanismi
quali
la
riduzione
dei
proteoglicani
o
cedimento
delle
fibre
dell’anulus.
All’interno
del
nucleo
non
ci
sono
ne
vasi.
Gli
unici
vasi
che
nell’adulto
entrano
nel
disco
sono
delle
piccole
branche
di
arterie
metafisarie
che
si
anastomizzano
sulla
faccia
esterna
dell’anulus
fibrosus
(Bogduk).
La
sua
nutrizione
avviene
per
processi
di
diffusione
e
osmosi,
attraverso
le
cartilagini
limitanti
vertebrali,
e
grazie
ad
un
meccanismo
di
pompa
per
il
quale
la
diminuzione
della
pressione
facilita
l’ingresso
di
sostanze
nutritizie
e
rallenta
l’espulsione
di
cataboliti
mentre
l’incremento
causa
la
condizione
inversa.(J.Kramer).
La
condizione
ottimale
è
quindi
determinata
dal
continuo
alternarsi
di
posture
di
carico
e
scarico
attorno
ad
un
valore
soglia
di
80
Kg
di
pressione
intradiscale.
Al
contrario
situazioni
di
sovraccarico
o
sotto
carico
che
si
verificano
ad
esempio
nel
mantenimento
delle
posizioni
fisse
ostacolano
il
ricambio
nutritizio
e
possono
favorire
fenomeni
di
degenerazione
discale.
(R.
Maigne
2009)
Con
l’età
l’idrofilia
del
disco
diminuisce,
raggiungendo
un
equilibrio
fra
la
viscosità
del
nucleo
e
quella
dell’anulus
e,
se
da
un
lato
decresce
la
sua
attitudine
ad
essere
un
buon
ammortizzatore,
dall’altro
possiamo
osservare
come
nei
soggetti
di
età
avanzata
siano
meno
frequenti
i
disturbi
di
origine
prettamente
discale
a
favore
di
problematiche
degenerative
(R.
Mckenzie
1998)
.
Inoltre
questo
gioca
un
ruolo
nella
diminuzione
di
statura
dei
soggetti
anziani,
anche
se
in
maniera
minore
del
cedimento
dei
corpi
vertebrali
e
dell’aumento
delle
curve.
Il
disco
inoltre
non
è
innervato
eccetto
la
parte
esterna
dell’anulus.
Hirsch
e
Wyke
hanno
riscontrato
nello
strato
superficiale
fibro‐adiposo,
adiacente
al
legamento
longitudinale
posteriore
alcune
terminazioni
libere
adiacenti
alla
porzione
posteriore
dell’anulus
(3,
9).
26
Yoshizawa
et
al.
hanno
osservato
molte
terminazioni
nervose
nel
terzo
esterno
dell’anulus.
L’origine
di
queste
terminazioni
sarebbe
costituita
da
due
plessi,
uno
anteriore,
formato
da
fibre
simpatiche,
e
da
rami
provenienti
da
rami
comunicanti
grigi
e
uno
posteriore
proveniente
dal
nervo
sino‐vertebrale.
I
due
plessi
sarebbero
uniti
da
un
plesso
latrale
formato
da
rami
grigi
comunicanti.
Il
nucleo
polposo
non
si
trova
al
centro
del
disco;
è
collocato
in
avanti
nel
segmento
cervicale
e
posteriormente
nei
segmenti
toracico
e
lombare
rispetto
ai
rispettivi
centri
geometrici.
Il
nucleo,
paragonabile
ad
una
sfera
incomprimibile
,
si
trova
quindi
fra
due
piani
(i
piatti
vertebrali)
imprigionato
nell’alloggio
ipoteticamente
inestensibile
formato
dalle
forti
fibre
dell’anulus.
Permette
movimenti
di
scivolamento
anteroposteriore
e
laterale
(taglio)
di
un
piano
sull’altro
e
di
rotazione
ds
e
sn
su
un
piano
orizzontale,
di
inclinazione
destra
e
sinistra
su
un
piano
frontale
e
di
flesso­estensione
(inclinazione
antero/posteriore)
su
un
piano
sagittale.
In
tutto
permette
movimenti
di
piccola
ampiezza,
ma
in
6
direzioni
(6
gradi
di
libertà)
che
sommati
insieme
spiegano
la
grande
mobilità
della
colonna.
I
dischi
intervertebrali
rappresentano
circa
1/3
della
lunghezza
totale
della
colonna,
e
il
loro
spessore
varia
e
raggiunge
il
massimo
a
livello
della
colonna
lombare,
9
mm,
mentre
è
minimo
a
livello
cervicale
3mm.
Anche
relativamente
al
rapporto
fra
altezza
del
disco
e
altezza
del
corpo
vertebrale
troviamo
differenze
nei
vari
segmenti
della
colonna;
più
tale
rapporto
disco
/soma
è
alto
e
più
la
mobilità
del
segmento
è
importante.
Tale
rapporto
è
di
2/5
a
livello
cervicale
che
rappresenta
il
tratto
di
maggior
mobilità,
poi
viene
il
rachide
lombare
con
un
rapporto
1/3
ed
infine
quello
toracico
il
meno
mobile,
nonostante
l’orientamento
favorevole
delle
faccette,
fra
i
tre
con
un
rapporto
1/5
(X.Dufour,
27
P.Ghossoub
2010).
Altri
Autori
riportano
dei
rapporti
leggermente
diversi:
1/3
a
livello
cervicale,
1/6
a
livello
toracico,
1/3
a
livello
lombare.
Il
bordo
posteriore
del
disco
delimita
la
parte
anteriore
del
forame
di
coniugazione.
Fig
1.11
I
forami
intervertebrali
ono
definiti
gli
spazi
attraverso
i
quali
fuoriescono
i
nervi
spinali.
Ciascun
forame
è
delimitato
anteriormente
dal
disco
intervertebrale
e
dalla
parte
posteriore
del
corpo
vertebrale,
posteriormente
dalle
articolazioni
inter‐apofisarie
e
dal
bordo
esterno
del
legamento
giallo,
superiormente
ed
inferiormente
dai
peduncoli
delle
vertebre
sopra‐sottostanti.
Il
forame
vertebrale
è
costituito
per
1/5
dal
nervo
spinale
e
per
4/5
da
altri
tessuti
molli
(vasi
,
tessuto
adiposo)
che
possono
andare
incontro
a
fenomeni
infiammatori
e
ridurre
lo
spazio
del
forame.
Ovviamente
anche
altri
fenomeni
quali
artrosi
delle
faccette
articolari
protrusione
del
disco
spondilosi
ipertrofia
dei
legamenti
gialli
etc
possono
ridurre
tale
spazio
ed
entrare
in
conflitto
con
le
radici
nervose
scatenando
la
sintomatologia
dolorosa.
28
Fig
1.12
Componente
muscolare
Molteplici
sono
le
implicazioni
funzionali
o
anatomiche
secondo
cui
i
muscoli
rachidei
possono
essere
classificati,
in
accordo
con
l’oggetto
di
questa
tesi,
saranno
brevemente
trattati
relativamente
al
loro
significato
biomeccanico.
Ci
limiteremo
quindi
a
ricordare
che
esistono
muscoli
intrinseci
ad
origine
e
inserzione
diretta
sulla
colonna
(splenio,
erettore
spinale,
trasverso
spinale,
muscoli
segmentari),
intrinseci
ad
origine
e/o
inserzione
sulla
colonna
(gran
dorsale,
addominali,
psoas,
quadrato
dei
lombi).e
muscoli
estrinseci
che
senza
inserirsi
direttamente
sul
rachide
vi
agiscono
tuttavia
indirettamente
per
scelta
funzionale
e
muscoli
estrinseci
(
medio
e
piccolo
gluteo,
piriforme,
adduttori
femorali
trasverso
dell’addome
tensore
della
fascia
lata
grande
e
piccolo
pettorale)
(V.
Pirola
1998)
Le
azioni
principali
dei
muscoli
del
dorso
sono:
•
promozione
dei
movimenti
attivi
del
tronco
contro
gravità
e
inerzia
(contrazione
concentrica);
29
•
mantenimento
di
una
posizione
contro
gravità
attraverso
la
produzione
di
tensione
attiva
(contrazione
isometrica)
e
passiva;
•
freno
ai
movimenti
del
tronco
generati
dalla
gravità,
dall’inerzia
e
dai
muscoli
antagonisti,
attraverso
la
produzione
di
tensione
attiva
(contrazione
eccentrica)
e
passiva;
•
attenuazione
delle
sollecitazioni
generate
sulle
strutture
rachidee
tramite
un
meccanismo
di
assorbimento
dell’
energia
di
concerto
con
le
strutture
peri‐articolari
non
contrattili,
con
un
meccanismo
di
ridistribuzione
dei
carichi.
Da
sottolineare
è
inoltre
il
fatto
che
esista
una
certa
corrispondenza
fra
la
suddivisione,
prettamente
didattica,
in
strati
anatomici
e
il
ruolo
funzionale
dei
muscoli
posteriori
del
rachide
intrinseci
od
estrinseci
che
essi
siano.
I
muscoli
del
piano
più
profondo,
(Fig
1.13)
infatti,
sono
deputati
a
funzioni
antigravitarie
e
posturali
e
garantiscono,
con
la
loro
continua
attività
di
contrazione
‐
rilasciamento
la
stabilità
in
statica
e
in
dinamica;
Secondo
Maigne
(R.
Maigne
2009)
,
nonostante
siano
piccoli
e
poco
potenti,
questi
giocano
un
ruolo
importante
nella
biomeccanica
di
quello
che
Junghanns
e
Schmorl
(38)
hanno
definito
segmento
mobile
e
nel
funzionamento
del
rachide
in
toto.
Diversi
studi
infatti
hanno
evidenziato
una
particolare
ricchezza
in
fusi
neuromuscolari,
fino
a
6
volte
maggiore
rispetto
agli
altri
muscoli
spinali.
Questi
sono
uni‐
segmentari
come
i
muscoli
rotatori
corti,
i
muscoli
interspinosi
e
i
muscoli
intertrasversari;
bi‐segmentari
come
i
muscoli
rotatori
lunghi,
o
multi‐segmentari
come
il
multifido,
che
pur
estendendosi
dall’epistrofeo
al
sacro,
a
livello
funzionale
e
per
innervazione
può
essere
equiparato
ai
muscoli
corti.
Tutti
questi
muscoli
ricevono
innervazione
dal
ramo
posteriore
dei
nervi
rachidei.
30
M.
interspinosi
uniscono
due
vertebre
adiacenti
formando
un
paio
ai
lati
di
ogni
processo
spinoso,
sono
assenti
a
livello
dorsale.
M.
intertrasversari
uniscono
i
processi
trasversi
di
due
vertebre
adiacenti,
sono
composti
da
un
fascio
mediale
innervato
dal
ramo
posteriore
del
nervo
rachideo
e
un
fascio
laterale
innervato
dal
ramo
anteriore
e
per
questo
da
alcuni
autori
non
sono
considerati
dei
veri
muscoli
spinali.
M.
rotatori
costituiscono
lo
strato
più
profondo
e
sono
presenti
dall’atlante
al
coccige.
Si
distinguono
in
corti
e
lunghi,
i
primi
originano
da
sul
processo
trasverso
e
si
inseriscono
sul
processo
spinoso
della
vertebra
soprastante,
mentre
i
secondi
hanno
stessa
origine
ma
si
inseriscono
sulla
seconda
vertebra
soprastante.
M.
multifido
è
anche
esso
innervato
dal
ramo
posteriore
del
nervo
rachideo,
è
profondo
svolge
funzioni
posturali
al
pari
degli
altri
muscoli
del
complesso
spinale.
Origina
con
diversi
capi
dalle
apofisi
trasverse
di
due
o
tre
vertebre
contigue
che
salgono
per
inerirsi
su
un’unica
spinosa
soprastante
di
quattro
o
cinque
segmenti.
Secondo
Maigne
il
sistema
dei
muscoli
spinali
ha
un
ruolo
importante
nella
disfunzione
dolorosa
segmentaria
da
lui
descritta
sotto
il
nome
di
disturbo
doloroso
intervertebrale
minore
DDIM.
31
Fig
1.13
I
muscoli
più
superficiali,
a
funzione
fasica,
e
con
scarsa
resistenza
allo
sforzo,
sono
deputati
invece
al
movimento
ma
non
sono
indispensabili
per
il
mantenimento
delle
posture
in
quanto,
terminata
la
loro
contrazione,
ritornano
nel
loro
stato
di
quiete.
(erettore
spinale,
ileo
costale,
lunghissimo).
Partendo
dal
fondamentale
presupposto
che
i
fattori
muscolari
non
siano
affatto
identificabili
come
unica
origine
dei
disturbi
dolorosi
e
funzionali
del
rachide,
è
doveroso
notare
che
squilibri
di
tono
fra
muscoli
fasici
e
tonici,
tensioni
abnormi
o
spasmi
muscolari
possano
essere
alla
base
di
situazioni
algiche
locali
o
proiettate
e
quadri
disfunzionali
a
livello
del
rachide,
essendo
queste
in
grado
di
provocare
deviazioni,
deformazioni,
perdita
di
mobilità
segmentaria
e
alterazioni
biomeccaniche.
(X.Dufour,
P.Ghossoub
2010)
Innervazioni
Brevi
cenni
all’innervazione,
saranno
affrontati
in
questa
tesi
con
l’unico
intento
di
cercare
di
stabilire
una
relazione
di
causa‐effetto
fra
32
sintomatologia
dolorosa,
deficit
neurologico
periferico,
danno
meccanico
anatomico
e
deficit
funzionale.
Fig
1.14
Il
nervo
spinale
è
costituito
da
una
radice
anteriore
(motoria)
con
fibre
efferenti
motorie
che
provengono
dalle
corna
anteriori
del
midollo
spinale,
e
da
fibre
simpatiche
dei
segmenti
lombari
che
innervano
l’insieme
di
vasi
ghiandole
e
dei
muscoli
striati
di
questa
zona,
e
una
posteriore
sensitiva
che
raccoglie
fibre
afferenti
(prolungamento
centrale
di
neuroni
pseudo‐unipolari
a
T),
sensitive,
il
cui
corpo
cellulare
si
trova
a
livello
dei
gangli
paravertebrali.
Questi
formano
un
rigonfiamento
fusiforme
della
radice
all’interno
del
canale
di
coniugazione
eccetto
per
i
gangli
sacrali
localizzati
nel
canale
sacrale.
I
prolungamenti
periferici
(dendriti)
di
tali
cellule
gangliari
raccolgono
informazioni
sensitive
viscerali
e
somatiche
ed
i
loro
prolungamenti
centrali
(assoni)
li
trasportano
al
Sistema
Nervoso
Centrale
grazie
all’intermediazione
delle
radici
posteriori
prima
e
delle
vie
ascendenti
33
del
midollo
poi.
Le
radici
anteriori
e
posteriori
di
ciascun
lato
si
uniscono
nel
forame
di
coniugazione
perforano
il
sacco
durale
a
livello
del
colletto
radicolare
che
rappresenta
un
punto
di
passaggio
fisso.
Una
volta
uscito
da
tale
forame
il
nervo
si
biforca
in
un
ramo
anteriore,
misto,
che
andrà
poi
ad
unirsi
agli
altri
formando
il
plesso
lombare
e
sacrale
ed
uno
posteriore,
misto,
che
dà
sensibilità
superficiale
e
profonda
del
dorso
e
motilità
alla
muscolatura
intrinseca
del
dorso.
I
rami
anteriori
dei
primi
nervi
lombari
costituiscono
il
plesso
lombare
e
sono:
•
il
nervo
femorale
(L2‐L3‐L4),
non
palpabile,
le
sue
fibre
si
uniscono
mentre
attraversano
il
muscolo
grande
psoas,
poi
il
nervo
decorre
sotto
al
legamento
inguinale
affiancato
all’arteria
e
vena
femorale,
che
innerva
i
muscoli
anteriori
della
coscia;
una
sua
paralisi
determina
difficoltà
in
flessione
dell’anca
ed
estensione
del
ginocchio;
anestesia
della
regione
del
ginocchio
e
mediale
della
gamba.
•
Il
nervo
otturatorio
(L2‐L3‐L4)
le
sue
fibre
si
uniscono
all’interno
del
grande
psoas
scende
verticalmente
davanti
alla
sacro
iliaca
e
si
impegna
nel
canale
otturatorio
insieme
all’arteria
omonima.
Si
divide
in
due
rami
anteriore
e
posteriore.
L’otturatorio
innerva
gli
adduttori
(lungo
breve
grande)
il
gracile
il
pettineo
e
l’otturatore
esterno;
una
sua
paralisi
determina
paralisi
dei
muscoli
adduttori
con
difficoltà
a
spostare
medialmente
la
coscia
e
difficoltà
deambulatore.
Tra
le
cause
di
lesione
di
tale
nervo
vi
sono
le
fratture
che
interessano
la
branca
ischio
pubica.
(AAVV
Anatomia
Umana
Elsevier
Masson
2008).
• Il
tronco
lombosacrale
(un
ramo
del
4°
lombare
più
il
ramo
anteriore
del
5°)
più
i
primi
3
rami
anteriori
sacrali
costituiscono
il
plesso
sacrale.
Il
suo
unico
e
voluminoso
ramo
terminale,
spesso
coinvolto
nella
patologia
lombosacrale
è:
34
•
il
nervo
ischiatico
o
sciatico
(L4‐L5‐S1‐S2)
è
il
nervo
più
grosso
e
lungo
del
corpo
fuoriesce
dal
bacino
dal
grande
formane
ischiatico
davanti
al
muscolo
piriforme,
decorre
nel
punto
intermedio
fra
tuberosità
ischiatica
e
gran
trocantere
ed
è
palpabile
in
decubito
laterale
con
anca
flessa.
Questo
nervo
si
divide
più
volte
lungo
l’arto
inferiore
innervandolo
quasi
completamente.
Una
sua
paralisi
comporta
deficit
motori
dei
muscoli
posteriori
di
coscia
e
di
tutti
quelli
della
gamba.
Tra
le
cause
di
lesione
vi
sono
le
fratture
dell’acetabolo
con
lussazione
posteriore
della
testa
del
femore.
(AAVV
Anatomia
Umana
Elsevier
Masson
2008).
Disfunzioni
gravi
soprattutto
di
origine
meccanica
a
carico
dei
rami
anteriori
dei
nervi
spinali
possono
portare
anche
a
sintomatologie
tipicamente
radicolari
e
definite
da
segni
neurologici
anche
evidenti.
La
branca
posteriore
è
spesso
trascurata
nei
trattati
di
anatomia
e
patologia,
ma
è
tenuta
in
grande
considerazione
da
Maigne,
Sell
e
altri
autori
che
la
ritengono
coinvolta
nella
genesi
di
molte
affezioni
dolorose
del
rachide.
Ad
eccezione
di
quella
del
secondo
nervo
cervicale,
la
branca
posteriore
è
di
calibro
assai
più
piccola
rispetto
a
quella
anteriore;
innerva
i
muscoli
profondi
delle
docce
vertebrali,
le
capsule,
i
legamenti
peri‐articolari
e
la
cute.
Il
territorio
di
innervazione
non
sempre
è
costante
in
zona
cervico‐dorsale,
mentre
scende
verso
il
basso
in
zona
lombosacrale.
35
Fig
1.15
1.2 Elementi
funzionali
e
biomeccanica
I
parametri
sagittali
del
rachide
Questi
parametri
sono
elementi
imprescindibili
dei
bilanci
ideali
rachidei;
i
paramenti
clinici
che
possono
essere
supportati
da
indagine
radiologica
sono
dati
dalla
misura
delle
frecce
sul
piano
sagittale
e
permettono
di
cogliere
nozioni
ben
conosciute
di
lordosi
lombare,
cifosi
toracica,
ante
o
retropulsione
del
bacino.
L’analisi
attenta
di
questi
parametri
ci
permetterà
di
trarre
indicazioni
sulla
particolare
biomeccanica
di
ogni
singolo
soggetto.
36
Fig
1.16
Come
mostrato
in
Fig
1.2
osserviamo
in
2
l’angolo
della
lordosi
lombare
che
si
crea
fra
la
base
sacrale
e
il
piatto
superiore
di
L1
valore
standard
40°;
in
3
l’angolo
determinante
la
curva
della
cifosi
toracica
(standard
35°)
formatosi
dalla
congiunzione
delle
rette
perpendicolari
al
piatto
inferiore
di
T12
e
al
piatto
inferiore
superiore
di
T1;
ed
infine
in
4
la
curva
della
lordosi
cervicale
di
circa
35°.
Il
determinarsi
di
tali
curve
è
tanto
determinato
da
fattori
propri
della
colonna
(osteoarticolari
legamentosi
e
muscolari
nonché
forma
cuneiforme
dei
dischi
lombari
e
cervicali),
quanto
strettamente
interconnesso
ai
parametri
del
bacino.
Alcuni
di
questi
parametri
sono
modificabili
tramite
un
intervento
fisioterapico
ed
un
programma
di
esercizi
adeguato.
37
Fig
1.17
Come
mostrato
in
Fig
1.17
osserviamo
la
base
sacrale
come
l’angolo
formato
fra
la
base
del
sacro
e
l’orizzonte
il
cui
parametro
fisiologico
è
di
37°
questo
angolo
aumenta
in
antiversione
fino
a
75°
e
diminuisce
in
retroversione
ed
estensione
anche
fino
a
10°,
varia
inoltre
durante
i
movimenti
di
flesso‐estensione
del
rachide;
la
incidenza
pelvica
è
l’angolo
formato
dalla
retta
perpendicolare
al
centro
della
base
sacrale
e
una
retta
che
unisce
il
centro
dell’asse
coxofemorale
e
lo
stesso
centro
della
base
sacrale;
questo
angolo,
il
cui
valore
standard
è
di
53°
ed
è
un
parametro
fisso
non
modificabile.
L’incidenza
pelvica,
il
cui
valore
non
varia
sensibilmente
nemmeno
con
l’età
e
i
processi
degenerativi,
determina
l’angolo
della
base
sacrale
che
a
sua
volta
influenza
fortemente
il
grado
di
lordosi
lombare
e
di
riflesso
di
cifosi
dorsale.
Recenti
lavori
condotti
dalla
dottoressa
Duval‐Beaupère
(G.
Duval‐
Beaupère
2004),
analizzano
questi
ed
altri
parametri
nel
tentativo
di
stabilire
i
giusti
gradi
di
lordosi
lombare
e
cifosi
dorsale
per
un
equilibrio
sagittale
economico
a
partire
da
una
incidenza
pelvica
data
38
(parametro
non
modificabile).
Nella
sua
valutazione
su
pazienti
lombalgici
sembra
evidenziare,
nella
maggior
parte
di
questi
pazienti,
una
postura
proiettata
in
avanti
che
si
traduce
in
un
globale
atteggiamento
flessorio
del
complesso
lombo‐pelvi‐
femorale
il
quale
porta
ad
un
deficit
estensorio
del
tratto
lombare
e
di
anca.
Questa
limitazione
in
estensione
è
determinata
da
una
ipoestensibilità
adattiva
del
comparto
anteriore
(psoas
in
primo
luogo)
e
conseguente
disequilibrio,
ma
deriva
in
maniera
importante
da
un
deficit
estensorio
di
natura
articolare
determinato
da
posture
flessorie
prolungate.
Un
disequilibrio
muscolare
può
essere
responsabile
di
un
disequilibrio
posturale,
ma
non
di
un
limite
di
articolarità
in
estensione,
come
dimostrato
da
un
test
di
Biering
negativo
nella
maggior
parte
dei
casi.
Ogni
disequilibrio
sul
piano
sagittale
è
compensato
da
una
risposta
muscolare
costosa
a
livello
energetico
e
potenzialmente
dannosa
meccanicamente
specie
a
livello
del
rachide;
il
piano
frontale
sopporta
meglio
il
disequilibrio,
in
quanto
gli
arti
inferiori
ne
assorbono
parzialmente
il
carico.
(X.Dufour,
P.Ghossoub
2010)
A
seguito
dell’osservazione
dei
profili
forniti,
dal
rapporto
fra
incidenza
pelvica
e
base
sacrale
sono
stati
definiti
4
morfotipi
rachidei
(P.Rousilly
2006).
Questa
classificazione
è
interessante
per
capire
i
problemi
delle
patologie
a
carico
del
rachide;
in
effetti,
i
morfotipi
con
debole
incidenza
pelvica
(ROUSSOULY
1
e
2)
saranno
più
soggetti
a
patologie
discali
mentre
i
morfotipi
con
forte
incidenza
(ROUSSOULY
3
e
4)
saranno
più
soggetti
a
scivolamenti
degenerativi
a
tipo
di
spondilolistesi.
39
Fig
1.18
Il
movimento
Nelle
attività
quotidiane
la
colonna
viene
sottoposta
a
forze
di
compressione
assorbite
soprattutto
dalla
porzione
anteriore
colonna,
a
forze
di
torsione
che
agiscono
sulle
articolazioni
posteriori,
a
forze
di
tensione
e
di
taglio
generate
soprattutto
da
movimenti
di
flesso‐
estensione.
Verrà
in
questa
parte
analizzata
la
biomeccanica
della
colonna
in
toto
e
non
come
singola
unità
funzionale
spinale
(FSU).
La
mobilità
della
colonna
è
data
dalla
sommatoria
di
24
vertebre
e
25
articolazioni
e
presenta
3
gradi
di
libertà
come
tutte
le
FSU
che
la
compongono.
Flesso‐estensione
movimento
sul
piano
sagittale,
la
flessione
il
cui
limite
è
dato
dalla
tensione
del
LLP,
è
in
totale
di
140°,
di
cui
40°
a
carico
del
rachide
cervicale,
40°
del
tratto
toracico
e
60°
del
tratto
lombare
compiuto
al
70%
dalla
FSU
L5‐S1,
al
20%
dalla
FSU
L4‐L5
e
i
restante
dalle
altre
FSU.
(I.A.Kapandji
1999)
.
I
valori
riportati
sono
quelli
autorevoli
del
Kapandji,
i
quali
vanno
per
completezza
integrati
citando
Caillet
(Caillet
1975)
e
Tittel
(Tittel
1991)
i
quali
sostengono
che
in
realtà
il
valore
di
flessione
lombare
sia
assai
inferiore,
e
che
si
40
realizzerebbe
solo
grazie
al
“ritmo
lombo‐pelvico”
grazie
cioè
ad
una
contemporanea
antiversione
del
bacino
sull’asse
trans
coxofemorale
e
una
traslazione
posteriore
dello
stesso.
L’estensione
il
cui
limite
è
rappresentato
dalla
messa
intensione
del
LLA
e
dal
contatto
fra
le
apofisi
spinose
del
tratto
lombare
è
di
90°
in
totale
(I.A.Kapandji
1999)
di
cui
45°
di
estensione
cervicale,
15°di
estensione
dorsale
e
30°
del
tratto
lombare.
Inclinazione
laterale
movimento
sul
piano
frontale;
questo
movimento,
non
è
mai
puro,
in
quanto
interviene
a
livello
delle
singole
FSU
una
certa
componente
rotativa
volta
a
limitare
l’escursione
laterale
del
rachide.
I
limiti
alla
inclinazione
laterale
sono
dati
quindi
dalla
rotazione
fisiologica
dei
corpi
vertebrali
dovuta
a
tensione
dei
legamenti,
tensione
delle
capsule
articolari
posteriori
contro
laterali
al
movimento,
tensione
del
legamento
lombosacrale
(limitatamente
al
distretto
lombosacrale),
ingombro
del
materiale
discale
e
tensione
dell’anulus
fibroso
contro
laterale
al
movimento.
(V.
Pirola
1998).
Il
valore
totale
è
di
80°,
di
cui
40°
cervicali,
15°
dorsali
e
25°
lombari.
Rotazione
è
il
movimento
che
si
realizza
attorno
all’asse
longitudinale;
è
doveroso
osservare
che,
a
seconda
che
siano
considerati
i
vari
tratti
rachidei,
il
centro
di
rotazione
possa
costituirsi
nei
corpi
vertebrali,
nel
massiccio
apofisario
posteriore
o
ancora
nel
forame
vertebrale.
Si
definisce
rotazione
il
movimento
rotatorio
di
un
segmento
vertebrale
rispetto
al
segmento
sottostante
ed
i
movimenti
artrocinematici
sono
sempre
di
rotazione
accoppiata
a
inclinazione
laterale,
questo
rapporto
fra
i
segmenti
è
detto
coupling
ed
è,
secondo
la
maggior
parte
degli
Autori,
sempre
controlaterale,
tuttavia
è
da
annotare
che
il
concetto
di
coupling
controlaterale
è
a
tutt’oggi
oggetto
di
dibattito
e
che
nella
pratica
clinica
si
riscontra
una
importante
soggettività.
In
effetti
alla
luce
del
comportamento
delle
varie
FSU
e
dei
41
segmenti
vertebrali,
si
potrebbe
affermare
che
non
esista
una
vera
e
propria
rotazione
nella
colonna,
ma
che
si
realizzi
un
movimento
nel
quale
i
segmenti
coinvolti
presentano
orientamenti
diversi
nei
tre
piani
dello
spazio,
cioè
che
si
compia
in
realtà
una
mera
torsione.
I
limiti
alla
rotazione
sono
dati
dall’insieme
delle
componenti
legamentose,
muscolari,
articolari
ed
ossee
che
si
oppongono
al
movimento,
nonché
dal
particolare
comportamento
del
disco
intervertebrale,
specie
a
livello
lombare
dove
il
ruolo
del
disco
assume
particolare
rilievo.
La
rotazione
complessiva
è
di
90°,
di
cui
50°
a
carico
del
distretto
cervicale,
35°
di
quello
toracico
e
soli
5°
di
quello
lombare,
limitato
in
questo
movimento
dall’affrontarsi
delle
articolazioni
zigoapofisarie.
L’effetto
della
rotazione
è
quello
di
aumentare
considerevolmente
la
pressione
intradiscale,
e
come
vedremo
più
avanti
questo
è
un
aspetto
importante
nella
valutazione
e
nella
terapia
meccanica.
Fig
1.19
42
La
funzione
del
disco
intervertebrale
I
dischi
intervertebrali
hanno
una
funzione
chiave
nella
biomeccanica
del
rachide,
l’attenzione
in
questa
sede
sarà
principalmente
rivolta
al
tratto
lombare,
ma
è
bene
comunque
ricordare
che
la
forma
del
disco,
articolando
fra
loro
i
corpi,
contribuisce
a
determinare
le
curve
rachidee,
(specie
a
livello
cervicale
e
lombare)
e
che
è
il
rapporto
fra
l’altezza
del
corpo
vertebrale
e
il
disco
stesso
a
regolare
l’ampiezza
del
movimento
della
FSU.(V.
Pirola
1998).
Il
nucleo
al
suo
interno
è
comunemente
definito
incomprimibile
e
per
spiegarne
il
movimento
in
funzione
del
carico
sono
stati
studiati
i
più
fantasiosi
paragoni
(il
seme
di
melone
fra
le
dita
o
la
saponetta
fra
i
palmi
di
due
mani);
semplicemente
possiamo
dire
che
il
nucleo
polposo
ha
la
capacità
di
allontanarsi
dal
punto
dove
vengono
applicate
le
forze
compressive
(H.
F.
Farfan
1973)
accompagnando
la
lo
spostamento
reciproco
dei
corpi
vertebrali
(che
scivolano
uno
sull’altro)
e
permettendo
così
i
movimenti
di
flesso
estensione,
inclinazione
e
rotazione‐torsione.
Durante
i
movimenti
il
nucleo
si
porta
dunque
verso
la
zona
dove
le
limitanti
somatiche
dei
corpi
si
allontanano
e
di
conseguenza
aumenta
la
pressione
sulla
zona
dell’anulus
che
costituisce
la
parete
discale;
in
questa
occasione
possiamo
notare
che
la
parte
esterna
dell’anulus
tende
a
deformarsi
protrudendosi
esternamente.
Nel
tratto
lombare
il
centro
del
nucleo
si
trova
generalmente
posteriormente
al
centro
geometrico
vertebrale,
e
secondo
Mckenzie
(R.
Mckenzie
1998)
,
la
frequenza
di
attitudini
posturali
flessorie
potrebbe
portare
il
nucleo
a
migrare
e
ad
occupare
una
posizione
ancora
più
43
posteriore
fra
i
corpi
vertebrali,
ove
le
pareti
dell’anulus
sono
più
deboli
a
causa
dell’orientamento
delle
fibre;
questo
spiegherebbe
l’avvicinamento
delle
limitanti
somatiche
anteriori
riscontrabili
radiologicamente
nelle
prime
fasi
delle
discopatie.
Fig
1.20
44
IL
DOLORE
45
2.1
Riferimenti
anatomici
e
fisiologici
Classificazione
La
definizione
ufficiale
di
dolore
è
stata
delineata
dalla
IASP,
International
Association
for
the
Study
of
Pain,
che
nel
1979
la
descrive
come
"un'esperienza
sensitiva
ed
emotiva
spiacevole,
associata
ad
un
effettivo
o
potenziale
danno
tissutale
o
comunque
descritta
come
tale.”
Tale
definizione
pone
l’accento
soprattutto
sulla
natura
soggettiva
della
sensazione
dolorosa,
è
quindi
universalmente
condiviso
che
il
dolore
sia
una
esperienza
prettamente
soggettiva
e
non
quantificabile.
Un
Output
percettivo
corticale
in
risposta
ad
un
segnale
nocicettivo
afferenziale.
Attraverso
il
sistema
della
nocicezione
(analizzato
in
seguito)
viene
trasmesso
e
decodificato
attraverso
complesso
talamo‐
corticale
ed
è
l’espressione
di
una
esperienza
sensoriale
cognitiva
ed
emozionale.
Il
dolore
è
stato
classificato
in
molteplici
tipologie
e
sotto
diversi
aspetti.
(Loeb
et
Al):
Dolore
nocicettivo
che
origina
dai
preposti
nocicettori
termici,
meccanici
o
chimici.
Compare
in
seguito
ad
un
evento
lesivo,
lo
stimolo
viene
percepito
a
livello
periferico
e
trasmesso
al
sistema
nervoso
centrale,
dove
viene
elaborato;
l'intensità
del
dolore
è
correlata
all'entità
del
danno
subìto
e
si
risolve,
in
genere,
al
risolversi
della
causa.
Può
essere
di
origine
somatica
(apparato
muscolo
scheletrico)
o
viscerale
(organi
interni).
Si
definisce
acuto
quando
lo
stimolo
lesivo
si
accompagna
a
una
serie
di
reazioni
di
difesa
che
tendono
a
compensare
o
allontanare
la
causa
del
dolore
stesso,
spesso
con
attivazione
di
alcune
funzioni
46
neurovegetative
(aumento
dell'attività
respiratoria,
tachicardia,
aumento
della
pressione
arteriosa)
e
ansia.
Dolore
neurogeno
si
riferisce
genericamente
ai
due
differenti
tipi
di
dolore
con
cui
si
manifesta
la
sofferenza
o
il
danno
delle
fibre
sensitive
periferiche,
rispettivamente
dolore
nevralgico
e
dolore
neuropatico.
Nevralgico
si
può
definire
il
dolore
radicolare
irradiato,
folgorante,
a
distribuzione
definita
in
presenza
o
meno
di
deficit
neurologico;
è
determinato
da
una
sofferenza
delle
radici
nervose.
Neuropatico
per
lesione
grave
delle
radici
nervose
Il dolore
neuropatico
è
molto
spesso
accompagnato
da
iperalgesia
o
allodinia.
E
talvolta
associato
ad
importanti
manifestazioni
vegetative
di
tipo
ortosimpatico.
E’
opportuno
ricordare,
per
chiarezza
di
trattazione,
che
il
dolore
neurogeno
è
frequentemente
provocato
da
alterazioni
o
disfunzioni
in
altri
distretti,
provando
ad
esempio
cosiddette
lombalgie
internisti
che18
(Giovannoni).
Il
dolore
misto
è
un
dolore
con
caratteristiche
tipiche
sia
del
dolore
nocicettivo
che
del
dolore
neuropatico
ed
è
probabilmente
quello
di
più
frequente
riscontro
sia
nel
dolore
cronico
oncologico.
Col
termine
dolore
psicogeno
si
intendono
tutti
quei
dolori
di
natura
psicosomatica
maggiormente
riscontrabili
in
soggetti
con
carattere
ansioso
ed
emotivo
o
che
vivono
situazioni
di
stress.
Sono
dolori
che
si
auto
perpetuano
e
durano
a
lungo
anche
quando
è
superato
l'evento
scatenante.
Di
scarso
interesse
riabilitativo.
Si
parla
di
dolore
cronico
se
dopo
la
fase
del
dolore
acuto
la
sensazione
dolorosa
perdura,
viene
meno
la
sua
utilità
biologica
e
diviene
essa
stessa
vera
e
propria
malattia.
È
un
dolore
che
dura
almeno
per
3
mesi
o
che
comunque
permane
oltre
il
tempo
normale
di
guarigione.
Può
determinare
modificazioni
affettive
e
comportamentali,
47
può
condurre
a
invalidità
o
disabilità,
con
il
rischio
di
incidere
negativamente
sulla
qualità
di
vita
e
sulle
perfomance
lavorative.
Nel
dolore
cronico,
infatti,
si
sviluppano
gradualmente
debolezza,
disturbi
del
sonno,
perdita
dell'appetito
e
depressione.
Il
risultato
ultimo
è
spesso
l’isolamento
sociale.
Questo
dolore
si
presenta
come
un
dolore
acuto,
ma
nel
tempo
diviene
un
classico
dolore
cronico
che,
soprattutto
nelle
fasi
avanzate
della
malattia,
assume
le
caratteristiche
di
"dolore
globale",
ovvero
di
vera
e
propria
sofferenza
personale
che
riconosce
cause
non
soltanto
fisiche,
ma
anche
psicologiche
e
sociali,
che
lo
sostengono
e
lo
perpetrano.
Sintomatologia
e
topografia
Il
dolore
la
sua
distribuzione
topografica
e
le
manifestazioni
accessorie,
sono
i
motivi
che
portano
il
malato
alla
consultazione
e
alla
richiesta
di
intervento
terapeutico
sia
questo
fisioterapico,
farmacologico
o
medico‐chirurgico.
La
sintomatologia
può
essere
semplice
o
associarsi
a
contrattura
muscolare,
tendomiosi,
a
limitazioni
e/o
blocchi
della
mobilità
(segmentaria
o
dei
un
particolare
tratto
rachideo).
A
livello
topografico
i
sintomi
possono
localizzarsi
in
sede
iuxtavertebrale
o
venire
percepiti
a
distanza.
Distinguiamo
quindi
:
Sintomatologia
locale:
sensibile
alla
palpazione,
spesso
associata
a
sensazione
di
rigidità
è
attribuibile
alle
strutture
capsulo‐
legamentose,
ai
nocicettori
articolari
e
al
nervo
sino
vertebrale
di
Luscka;
secondo
Gatto
e
Rovere
(Gatto
R.
2007)
questi
dolori
sono
strettamente
legati
all’attività
dei
meccanocettori
facenti
capo
alle
articolazioni
interessate.
Sintomatologia
a
distanza:
che
suddividiamo
ancora
in
48
sintomatologia
irradiata
(
radicolare
o
pseudo
radicolare)
,
dolore
riferito
e
dolore
proiettato.
Sintomatologia
irradiata
radicolare:
complesso
di
sintomi,
dominati
dal
dolore,
che,
a
seguito
di
diretto
interessamento
di
una
o
più
radici
nervose,
si
trasmettono
e
si
localizzano
a
distanza,
con
manifestazioni
obbiettive
di
irritazione
o
deficit
neurologico.
Sintomatologia
irradiata
pseudo
radicolare:
si
intende
quel
complesso
di
sintomi
che,
pur
avendo
aspetti
e
caratteristiche
per
taluni
versi
simili
a
quelli
radicolari,
se
ne
differenziano
in
quanto
non
presentano
deficit
neurologici
obbiettivi
e
una
localizzazione
periferica
scostante
e
imprecisa.
Il
dolore
riferito
è
da
considerarsi
di
origine
viscerale,
le
afferenze
viscerali
infatti,
attraverso
il
sistema
simpatico,
giungono
al
midollo
e
qui
anastomizzano
con
fibre
efferenti
provocando
una
sensazione
dolorosa
nel
dermatomero
corrispondente.
In
pratica
messaggi
provenienti
da
recettori
di
diverso
tipo
e
situati
in
territori
diversi
risalgono
ai
centri
del
dolore
talamo‐corticali
attraverso
una
via
ascendente
comune.
Questo
meccanismo
secondo
Larrigue
e
Lazorthes
(Larrigue
L.
Lazorthes
G.
1989)
è
detto
fenomeno
della
convergenza.
Il
dolore
proiettato:
lo
stesso
principio
di
convergenza,
secondo
Maigne
(R.
Maigne
2009)
e
altri
autori,
è
applicabile
anche
alle
strutture
rachidee
e
peri
rachidee,
Nonostante
i
dolori
proiettati
possano
mimare
sintomatologie
pseudo
radicolari,
non
sono
dovuti
a
compromissione
delle
strutture
nervose,
ma
ad
irritazione
di
altre
strutture
come
capsule,
muscoli,
fasce
e
cute
facenti
riferimento
allo
stesso
territorio
di
distribuzione
del
ramo
di
cui
mimano
il
danneggiamento.
Uno
degli
aspetti
più
frustranti
del
dolore
lombare,
sia
per
l’operatore
sanitario
che
per
il
paziente,
consiste
nella
difficoltà
ad
49
individuarne
la
causa
precisa.
Nella
maggior
parte
dei
casi
sintomatici
non
è
possibile
evidenziare
a
livello
strumentale
nessuna
alterazione
morfologica,
e
al
contrario
spesso
si
osservano
esami
strumentali
con
referti
positivi
per
alterazioni
strutturali
di
pazienti
che
tuttavia
non
evidenziano
sintomi.
L’ampia
distribuzione
dei
nocicettori
attorno
alla
zona
lombare
rende
arduo
trovare
procedure
test
specifiche
e
sensibili
per
stimolare
le
singole
componenti
del
tratto
lombare,
non
esiste
infatti
univocità
nell’individuare
l’agente
eziologico
dei
dolori
lombari
irradiati
o
meno;
alcuni
Autori
li
individuano
in
fattori
muscolo‐legamentosi,
altri
vedono
come
principale
fonte
il
nucleo
e
i
suoi
spostamenti
problematiche
posturali
altri
ancora
disfunzioni
segmentarie
vertebrali
con
conseguente
stress
meccanico
sulle
strutture
nervose.
Nel
contesto
di
questa
tesi
la
trattazione
sarà
focalizzata
prevalentemente
sulle
disfunzioni
strutturali
approcciabili
con
interventi
valutativi
e
terapeutici
di
tipo
meccanico.
La
nocicezione
in
area
lombare
La
distribuzione
dei
nocicettori
in
area
lombare
si
trova
nella
cute
e
nel
tessuto
sottocutaneo,
nelle
capsule
fibrose
delle
articolazioni
apofisarie
sinoviali
e
nelle
articolazioni
sacro‐iliache,
nei
legamenti
longitudinali
(quello
posteriore
è
il
più
sviluppato),
gialli,
interspinoso
e
sacroiliaci,
nel
periostio
che
ricopre
gli
archi
vertebrali,
nella
fascia,
nelle
aponeurosi
e
tendini
in
questa
inseriti,
il
terzo
esterno
del
disco
intervertebrale,
lo
strato
fibro‐adiposo
che
connette
posteriormente
l’anulus
al
LLP
e
nella
dura
madre
spinale
incluse
le
maniche
durali
attorno
alle
radici.
L’abbondanza
di
strutture
nocicettive
in
area
50
lombare
è
ciò
che
rende
difficoltoso
individuare
la
struttura
all’origine
del
dolore.
In
circostanze
normali
il
sistema
nocicettivo
è
relativamente
inattivo,
la
sua
attività
afferente
aumenta
quando
se
sue
fibre
mieliniche
vengono
depolarizzate
a
seguito
della
applicazione
di
forze
meccaniche
sui
tessuti
che
le
contengono
tali
da
sollecitarli
o
deformarli
a
sufficienza.
Questa
depolarizzazione
può
avvenire
tanto
a
seguito
di
forze
pressorie,
distrattive
o
contusive
quanto
a
causa
della
presenza
nei
tessuti
circostanti
di
fluidi
con
sufficiente
concentrazione
di
sostanze
chimiche
irritanti
come
quelli
prodotti
da
un
comune
processo
infiammatorio.
(B.
Wyke
1976).
Spesso
i
due
fattori
si
possono
sovrapporre
come
nel
caso
dello
stato
infiammatorio
post
traumatico
(vedi
oltre),
o
delle
alterazioni
meccaniche
che
derivano
dalla
presenza
di
essudati
infiammatori
in
tessuti
innervati
dai
nocicettori.
La
presenza
di
materiale
infiammatorio
infatti
eccita
il
sistema
recettoriale,
senza
tuttavia
produrre
una
depolarizzazione,
in
queste
condizioni,
l’applicazione
di
sollecitazioni
meccaniche
di
poco
conto
provocano
la
depolarizzazione
e
quindi
dolore.
E’
da
notare
inoltre
che
ripetute
sollecitazioni
meccaniche
anche
se
sub
massimali
possono
produrre
danno
tissutale
e
piccole
lacerazioni
in
grado
di
provocare
una
risposta
infiammatoria
e/o
autoimmune
come
ad
esempio
le
micro
rotture
discali.
Distinguiamo
quindi:
•
Dolore
di
causa
chimica
come
concentrazione
di
sostanze
chimiche
nei
tessuti
molli
innervate
dal
sistema
nocicettivo;
la
sensazione
dolorosa
è
continua
e
persistente;
possono
essere
di
natura
infettiva
di
scarso
interesse
fisioterapico,
infiammatoria
come
espressione
di
processi
reumatologici
e
di
interesse
riabilitativo
oppure
infiammatoria
post
traumatica
di
grande
interesse
fisioterapico.
51
•
Dolore
di
causa
meccanica
è
il
prodotto
della
deformazione
delle
strutture
anatomiche
che
contengono
il
sistema
nocicettivo;
il
tessuto
non
deve
per
forza
essere
danneggiato
ma
sollecitato
a
sufficienza
da
deformare
il
tessuto
contenente
le
terminazioni
nocicettive.
Il
dolore
si
modificherà
al
cessare
di
tale
sollecitazione;
è
per
usa
natura
intermittente.
•
Dolore
a
seguito
di
trauma,
combina
le
due
modalità
di
cui
sopra
ed
è
di
frequente
riscontro.
Inizialmente
la
deformazione
danneggi
i
tessuti
molli
dando
origine
ad
un
dolore
acuto
di
origine
meccanica.
Subito
dopo
il
trauma
nei
tessuti
danneggiati
si
depositano
sostanze
chimiche,
non
appena
queste
sostanze
avranno
raggiunto
una
concentrazione
sufficiente
scateneranno
il
dolore
chimico
(sordo
e
costante)
che
si
sovrapporrà
in
alcuni
casi
a
quello
meccanico
(puntuale
e
intermittente)
dando
luogo
ad
una
sintomatologia
mista
chimico
meccanica,
caratterizzata
da
un
dolore
costante
fastidioso
e
sordo
che
potrà
aumentare
(difficilmente
diminuire)
a
seguito
di
attività
o
dalle
posture.
(R.
Mckenzie
1998).
Il
disco
intervertebrale
e
il
dolore
Il
disco
intervertebrale,
pur
essendo
una
struttura
non
innervata
nei
suoi
2/3
interni
è
comunemente
riconosciuto
come
coinvolto
nella
genesi
dei
dolori
lombari
e
lombo
ischiatici.
Il
disco
infatti,
risulta
innervato
nel
suo
terzo
esterno
dal
nervo
sino
vertebrale
(nervo
di
Luschka),
si
trova
a
stretto
contatto
con
il
LLP
riccamente
fornito
di
terminazioni
libere
nocicettive
con
il
quale
trae
rapporti
di
continuità
attraverso
un
tessuto
fibro‐adiposo
(anch’esso
innervato)
che
lo
connette
anche
alla
manica
durale
emergenza
delle
radici
nervose
nel
forame
di
coniugazione;
è
facile
capire
quindi
una
qualsiasi
alterazione
52
strutturale
o
biomeccanica
del
disco
possa
generare
dolore
che
sia
puntiforme,
a
fascia
o
irradiato.
.
Fig
2.1
I
movimenti
delle
singole
FSU
e
quindi
del
rachide
sono
consentiti
dai
movimenti
fisiologici
del
nucleo
polposo
all’interno
del
disco;
la
particolare
conformazione
del
complesso
discale
e
le
sue
particolari
proprietà
producono
una
dinamica
di
deformazione
sotto
carico
che
può
sollecitare
meccanicamente
le
strutture
contigue.
Nel
caso
di
una
flessione
del
rachide
(Nachemson
1976)
(Nachemson
1975)
il
nucleo
viene
spinto
all’indietro
esercitando
una
sollecitazione
tangenziale
sulla
parete
posteriore
dell’anulus
(la
parte
più
debole);
in
situazione
di
scarico
e
di
perfetta
conservazione
delle
pareti
anulari
il
disco
protrude
anteriormente
a
causa
della
detensione
delle
fibre
anulari
(Hyche
et
Hukins
1980).
Robin
Mckenzie
(Spine
1998)
sostiene,
in
base
a
revisioni
della
letteratura,
e
all’osservazione
clinica,
che
in
normali
situazioni
di
carico
le
sollecitazioni
assiali
e
tangenziali
aumentino
al
punto
da
fare
protrudere
l’anulus
nella
stessa
direzione
in
cui
viene
spinto
il
nucleo.
Ad
una
flessione
del
rachide,
specie
se
mantenuta
o
ripetuta
corrisponderà
dunque
una
protrusione
posteriore
del
materiale
discale.
53
Tali
sollecitazioni
sulle
pareti
possono
essere
aumentate
da
movimenti
di
flessione
o
inclinazione
che
aumentano
la
pressione
intradiscale
e
da
particolari
posture
o
attività
come
evidenziato
dagli
studi
di
Nachemson
.
Insorgenza
del
dolore
lombare
secondo
Mckenzie
Possiamo
analizzare
l’insorgenza
del
dolore
lombare
analizzandone
i
fattori
predisponenti
ed
i
fattori
scatenanti.
Fattori
predisponenti:
R.
Mckenzie
(r:
Mckenzie
1998)
in
accordo
con
molti
altri
autori
individua
tre
principali
fattori
eziologici
predisponenti,
sicuramente
riscontrabili
con
più
frequenza
nelle
abitudini
di
vita
tipiche
delle
società
industrializzate
che
sono:
la
postura
seduta
(troppo
frequente
e
scorretta),
la
frequenza
della
flessione
e
la
perdita
di
particolarità
in
estensione.
La
postura
seduta
è
forse
la
più
importante,
in
quanto
se
una
buona
postura
seduta
mantiene
le
corrette
curve
fisiologiche
della
colonna,
una
seduta
54
scorretta
le
altera
accentuandole
o
riducendole
tanto
da
porre
talmente
sotto
tensione
le
strutture
legamentose
da
provocare
dolore.
La
postura
seduta
scorretta
è
in
grado
di
generare
mal
di
schiena
in
se
senza
l’intervento
di
altri
fattori
che,
come
vedremo,
nella
realtà
di
ogni
giorno
andranno
a
sommarsi
ad
altri
fattori
rafforzando
e
perpetrando
anche
altri
dolori.
Nella
maggior
parte
dei
casi,
quando
un
individuo
assume
la
posizione
seduta,
dopo
pochi
minuti
la
sua
colonna
assume
la
posizione
di
flessione
completa.
Avendo
probabilmente
come
fine
il
risparmio
energetico,
il
soggetto
rilascerà
il
più
possibile
la
muscolatura
e
le
strutture
legamentose
dovranno
farsi
carico
di
tutto
il
peso.
La
correzione
della
postura
,
e
la
sua
limitazione
ove
possibile,
è
obiettivo
imprescindibile
nel
trattamento
delle
lombalgie.
Di
particolare
importanza
in
questo
senso
sarebbe
lo
studio
di
soluzioni
ergonomiche
adeguate
che
non
saranno
qui
trattate.
Gli
studi
di
Nachemson
(Fig
)
sulle
pressioni
discali
in
relazione
alle
posture,
ben
evidenziano
gli
effetti
che
una
postura
seduta
scorretta
specie
prolungata
ha
sul
disco
intervertebrale;
questo
è
supportato
dal
fatto
che
spesso
pazienti
che
lamentano
dolore
in
produzione
seduta
traggano
giovamento
da
una
correzione
della
seduta
verso
una
lordosi
lombare
e
peggiorino
a
seguito
di
una
correzione
verso
la
cifosi.
La
perdita
di
articolarità
in
estensione
secondo
studi
dello
stesso
Mckenzie
sarebbe
riscontrabile
nel
72%
‐
86%
dei
pazienti
lombalgici;
questa
perdita
di
particolarità
influenza
le
posture,
la
statica
e
la
dinamica
del
rachide.
Può
essere
generata
da
abitudini
posturali
scorrette,
da
abitudini
di
vita
e
lavorative
o
essere
lei
stessa
la
causa
di
posture
errate.
A
seguito
di
questi
deficit
di
estensione
le
strutture
in
relazione
con
la
colonna
possono
andare
incontro
ad
accorciamenti
adattivi
e
questa
perdita
di
particolarità
può
dimostrarsi
irreversibile.
Il
soggetto
può
manifestare,
in
alcuni
casi,
addirittura
una
inversione
delle
55
fisiologiche
curve
e
presentare
una
lombare
cifotica
o
rettilinea.
Individui
con
questa
perdita
di
particolarità
saranno
di
conseguenza
soggetti
a
vivere,
e
in
special
modo
a
sedersi,
con
un
grande
aumento
della
pressione
intradiscale
e
con
una
parete
anulare
posteriore
perennemente
tesa
e
sollecitata.
Il
fenomeno
della
centralizzazione
Punto
essenziale
del
principio
di
terapia
meccanica
codificato
da
Mckenzie
è
il
fenomeno
della
centralizzazione.
E’
descritto
unicamente
nella
situazione
che
lo
stesso
autore
definisce
sindrome
di
derangement,
termine
che
diverrà
poi
di
uso
comune.
Viene
definito
come
l’inverso
dello
sviluppo
del
dolore
nelle
lesioni
progressive
del
disco;
come
sono
logiche
e
prevedibili
le
progressioni
dei
sintomi
in
caso
di
danno
discale,
altrettanto
lo
sono
quelle
del
suo
processo
di
riparazione
che
procederà
a
ritroso
lungo
le
stesse
tappe.
Quando
a
seguito
dell’intervento
meccanico
la
protrusione
si
riduce,
questa
rilascia
per
prima
la
radice
del
nervo
e
poi
la
dura
madre
,
e
di
conseguenza
il
dolore
e
la
parestesia
più
periferica
cessano,
seguiti
da
riduzione
del
dolore
a
coscia
e
natica;
a
questo
punto
il
dolore
dovrebbe
percepirsi
in
area
lombare
centrale.
La
centralizzazione
è
un
fenomeno
che
si
può
parimenti
osservare
nel
dolore
di
tipo
simmetrico.
Inoltre
tale
fenomeno
indirizza
la
preferenza
direzionale
di
trattamento
(R.
Donelson
2004)
ed
è
inoltre
segno
prognostico
positivo
(A.
Long
1995)
(A.
Karas
1997)
(A.
Sufka
1998).
‐
‐
56
‐
La
progressione
delle
forze
e
il
dolore
‐ Durante
un
processo
di
centralizzazione
e
diminuzione
dei
sintomi,
ci
si
può
trovare
in
una
fase
di
stallo,
dove
dopo
un
miglioramento
iniziale,
il
paziente
smetta
di
progredire;
i
sostenitori
dell
metodo
MDT
sostengono
che,
a
questo
punto
possano
essere
necessarie
delle
manovre
supplementari
dette
di
progressione
delle
forze
di
trattamento,
in
quanto
il
derangement
potrebbe
essere
particolarmente
difficile
da
ridurre
o
in
quanto
il
soggetto
potrebbe
non
seguire
le
indicazioni
fornite
o
abbia
provocato
un
nuovo
dislocamento
di
materiale
discale.
Ora
senza
entrare
in
merito
a
tali
tecniche,
e
prendendo
spunto
da
un
recente
studio
(2012)
pubblicato
su
Spine
(H.
Albert,
B.
Hauge
E,
Manniche
2009)
dobbiamo
interrogarci
sul
reale
significato
dell’effetto
di
questa
progressione
di
forze
sul
dolore
e
sulla
correlazione
fra
tipo
di
lesione
discale
e
genesi‐perpetrazione
della
sintomatologia
algica.
Secondo
diversi
autori
fra
cui,
Hauge
e
Manniche,
è
evidente
che
il
solo
modello
discale
non
basti
a
spiegare
l’efficacia
del
metodo,
in
quanto
spesso
pazienti
con
protrusioni
importanti
centralizzano
con
successo
anche
se
in
seguito
dimostreranno
immagini
RMN
senza
significative
modificazioni.
I
sostenitori
più
convinti
dell’MDT
sostengono
che
le
immagini
non
possano
evidenziare
il
comportamento
del
disco
in
carico
e
in
attività
funzionale,
e
che
comunque
un
processo
rigenerativo
delle
fibre
anulari
sia
sopraggiunto
a
ripristinare
la
tenuta
del
disco
sull’asse
tangenziale;
secondo
gli
autori
di
cui
sopra
invece
le
spiegazioni
sono
di
ordine
neurofisiologico:
Probabilmente,
come
sembra
sempre
più
evidente
dallo
studio
di
altre
tecniche
come
la
manipolazione
secondo
Maigne
o
nell’MWM
(mobilisation
with
movements
concetto
Mulligan),
anche
nel
57
movimento
ripetuto
del
Mckenzie
(così
come
nel
Maitland‐Kaltenborn)
si
vanno
a
stimolare
dei
maccanocettori‐propriocettori
capsulari
che
attivano
una
risposta
modulatoria
a
livello
del
SNC
(sia
corna
posteriori
che
talamo
corticali).
Questo
potrebbe
spiegare
perché
quando
si
raggiunge
uno
stallo
nella
situazione
clinica
si
riesca
a
migliorare
con
l’aumento
delle
forze
(sovra
pressione
e
altro):
queste
consentono
di
raggiungere
il
vero
end‐range.
Nell’end‐range
infatti
abbiamo
la
massima
stimolazione
sui
meccanocettori,
e
quindi
anche
il
massimo
effetto
neuromodulatorio.
Come
nello
stretching
muscolare,
anche
in
questo
caso
aumenta
la
tolleranza
al
movimento,
e
quindi
il
ROM
(l’estensione,
nel
caso
di
un
derangement
posteriore).
Sostanzialmente,
la
differenza
tra
derangement
e
disfunzione
è
che
la
prima
risponde
velocemente
(sia
in
peggio
che
in
meglio)
ai
movimenti
ripetuti
(ore‐
giorni),
mentre
nella
disfunzione
la
modifica
tissutale
risponde
lentamente
(settimane‐mesi)
ai
movimenti
ripetuti.
Come
è
ormai
comunemente
accettato
sappiamo
che
dietro
a
miglioramenti
rapidi
in
risposta
alla
terapia
manuale
è
supposto
esserci
prettamente
un
effetto
neurofisiologico:
esattamente
come
nella
risposta
semi‐immediata
alla
manipolazione.
E’
chiaro
comunque
che
una
parte
della
disfunzione
sia
meccanica:
i
modelli
non
si
escludono,
ma
anzi
si
integrano.
Secondo
Mckenzie
la
meccanicità
si
esplica
nella
preferenza
direzionale:
infatti
solo
una
direzione
centralizza
e
migliora,
l’opposta
è
peggiorativa,
ed’
esattamente
quello
che
avviene
nelle
MWM
in
cui
una
sola
combinazione
direzione‐intensità
della
forza
massimizza
l’effetto
neurofisiologico,
mentre
altre
direzioni
non
hanno
effetto,
sovrapponibile
altresì
alla
regola
del
non
dolore
negli
atti
manipolativi
di
Maigne.
L’organismo
umano
inteso
come
corpo
e
mente
è
di
una
complessità
unica:
possono
essere
solo
il
disco
o
gli
effetti
neuro
modulatori
a
spiegare
gli
effetti
dei
movimenti
ripetuti?
58
2.2
Un
approccio
integrato
Le
componenti
fondamentali
del
dolore
Sulla
base
di
quanto
detto
possiamo
ora
affermare
che
il
concetto
del
dolore
sia
formato
da
due
componenti
fondamentali.
Una
componente
biologica
(anatomica,
neurofisiologica
e
biomeccanica)
relativa
alla
struttura
anatomica
che
riceve
l’insulto;
questa
è
in
diretta
relazione
con
la
nocicezione.
Un’altra
componente
è
psichica
di
carattere
interpretativo
cognitivo
ed
emozionale,
è
soggetta
a
fenomeni
di
sensibilizzazione
come
allodinia
e
iperpatia,
e
può
perdere
la
relazione
causale
con
l’evento
che
lo
ha
scatenato,
alterando,
a
volte,
la
relazione
fra
il
sistema
sensoriale
della
nocicezione
e
la
struttura
biologica.
Il
significato
dell’autotrattamento
Entrambe
le
sfere
sono
difficilmente
indagabili,
ma
è
doveroso
sottolineare
che
la
componente
psichica
è
soggetta
a
maggiore
variabilità
ed
è
in
diretta
relazione
al
fenomeno
di
cronicizzazione;
deriva
da
aspetti
imperscrutabili
di
carattere
psicosociale
come
le
aspettative
personali,
la
concezione
della
vita
e
del
futuro,
le
ansie
la
relazione
con
la
malattia
e
la
sofferenza.
Interessante
sarebbe
in
questi
casi,
indagare
il
rapporto
fra
dolore
e
linguaggio
che
esprime,
secondo
alcuni
autori
fedeli
alle
teorie
neuro
cognitive,
il
significato
ed
il
peso
che
il
dolore
ha
occupato
nella
vita
e
nell’immaginario
del
soggetto
affetto,
ed
una
eventuale
radicazione
di
questo
nella
rappresentazione
del
se
inteso
come
corpo
e
come
entità.
La
rappresentazione
della
parte
59
“affett”
sarebbe
compromessa
nei
soggetti
che
tendono
verso
la
cronicità
e
la
struttura
anatomica
viene
identificata
solo
con
il
dolore;
questi
pazienti
mostrano
inoltre
una
sorta
di
rassegnazione,
verso
la
patologia,
le
cui
descrizioni
da
cliniche
diventano
quasi
romanzate
e
rappresentate
come
situazioni
di
di
fatto
ed
immutabili.
(Romeo
F.
et
al
2007)
.
Fig
2.3
Oggetto
della
tesi
è
sondare
la
validità
dell’
intervento
meccanico
di
derivazione
Mckenzie
e
propriocettivo
su
entrambe
le
componenti
del
dolore.
Questo
tipo
di
approccio
mira
alla
risoluzione,
quando
possibile,
della
sintomatologia
lombalgica
o
lombosciatalgica
promuovendo
la
guarigione
dei
tessuti
molli
che,
deformandosi,
generano
una
compressione
su
strutture
innervate
o
su
strutture
radicolari
adiacenti;
al
recupero
della
funzionalità
dell’area
lombare
attraverso
gli
esercizi
del
protocollo
di
propriocezione
lombare
dell’
O.C.
di
Sanremo;
e
all’istruzione
ed
educazione
del
paziente.
Proprio
quest’ultimo
aspetto,
a
volte
sottovalutato,
è
il
cardine
di
questo
lavoro.
Durante
le
sedute
di
valutazione
e
di
trattamento,
sono
stati
forniti
al
paziente
informazioni
sufficienti
a
non
rimanere
soggetto
passivo
del
piano
riabilitativo
terapeutico
ed
è
stato
istruito
60
all’autotrattamento
alla
profilassi
e
alla
gestione
di
eventuali
riacutizzazioni
.
Cosi
facendo
si
è
cercato
di
allontanare
la
sensazione
di
impotenza
che
spesso
si
instaura
in
pazienti
affetti
da
lombo
sciatalgie
importanti;
sensazioni
che
possono
portare
al
fenomeno
della
cronicizzazione
e
all’instaurarsi
di
una
dipendenza
verso
il
terapista
.
Il
paziente
lombalgico
infatti
ha
spesso
paura
del
movimento,
soprattutto
se
cronico,
ed
esprime
un
comportamento
evitante
(fear‐
avoidance)
e
catastrofismo.
Questo
a
lungo
andare
è
associato
a
sensibilizzazione,
sia
periferica
che
centrale:
come
dicono
alcuni
ricercatori
del
dolore,
“Pain
is
in
the
brain”.
Per
meglio
dire,
il
dolore
è
un
output
del
cervello,
non
un
input
afferenziale:
l’input
è
il
segnale
nocicettivo.
Questo
viene
“processato”
nel
cervello
e
modulato
da
fattori
quali
le
nostre
convinzioni
sull’origine
dolore,
le
esperienze
precedenti,
la
nostra
personalità,
le
nostre
aspettative
sulla
malattia,
ansia,
depressione
eccetera;
l’output
è
la
percezione
del
dolore
quando
il
cervello
percepisce
quello
che
facciamo
come
un
pericolo
per
l’organismo.
Trovare
una
soluzione
facilmente
riproducibile
come
gli
esercizi
MDT
e
di
propriocezione
lombare
la
cui
esecuzione
migliora
i
sintomi
contribuisce
a
ridurre
nel
paziente
la
percezione
di
pericolo,
la
paura
del
movimento,
l’ansia
e
a
dargli
fiducia.
Questo
giustifica
anche
l’importanza
che
l’MDT
attribuisce
al
modello
educativo.
Possiamo
quindi
definire
l’approccio
di
questa
tesi
al
paziente
e
al
suo
problema
(il
dolore)
come
un
approccio
integrato,
dove
si
considera
sia
la
componente
biologica,
(anatomica
neurofisiologica
e
biomeccanica)
che
la
componente
psichica.
61
L.B.P.
VALUTARE
MISURARE
COMPRENDERE
62
3.1
Misurare
e
valutare
secondo
criteri
ICF
Il
complesso
processo
conoscitivo,
diagnostico,
prognostico
e
terapeutico
di
riabilitazione
ha
come
obiettivo
finale
capire
in
che
modo
specifiche
alterazioni
biologiche
possano
relazionarsi
patologicamente
tra
loro
producendo
disabilità,
trovando
gli
approcci
più
idonei
con
i
quali
assistere
i
soggetti,
finalizzando
ogni
sforzo
clinico
al
miglioramento
delle
attività
della
vita
quotidiana
e
della
qualità
di
vita.
Ogni
azione
riabilitativa
è
però
correttamente
percorribile
solo
se
i
pazienti
sono
accuratamente
indagati,
valutati
e
misurati
(Van
Dijk
A.J.
2001).
Misurare
deve
essere
interpretato
come
il
processo
che
permette
di
assegnare
il
significato
al
risultato
di
ogni
valutazione,
intravista
quale
oggettiva
quantificazione
di
un’osservazione
compiuta
e
posta
a
confronto
con
adeguati
riferimenti.
Si
può,
ad
esempio,
misurare
la
qualità
con
cui
un
soggetto
compie
determinati
movimenti
o
la
forza
di
una
particolare
abilità
motoria;
assegnando
loro
un
significato
numerico,
si
è
in
grado
di
compiere
logiche
deduzioni
diagnostiche
e
prognostiche,
con
immediate
ricadute
terapeutiche
(Wade
D.T.
1999).
Misurare
permette,
dunque,
al
riabilitatore
di
prendere
più
obiettivamente
in
considerazione
ogni
caratteristica
individuale,
reale
o
prevedibile
fonte
di
restrizione
delle
attività
di
partecipazione,
ampliando
il
ventaglio
di
risposte
terapeutiche,
migliorandone
le
capacità
di
progettazione
riabilitativa
(Van
Dijk
A.J.
2000).
Sebbene
tali
affermazioni
siano
esaustive
in
ambito
biologico
e
anatomo‐fisiologico,
in
ambito
riabilitativo
valutazione
e
misurazione
devono
possedere
ulteriori
caratteristiche,
la
cui
conoscenza
diviene
63
essenziale
al
fine
di
una
applicazione
più
vantaggiosa
per
la
gestione
clinica,
di
ricerca
nonché
per
il
management
sanitario
(Wade
D.T.
1999).
La
visione
riabilitativa
della
valutazione
deve
essere
multidimensionale
e
a
favore
di
un
reale
e
rispondente
approccio
bio‐
psico‐sociale
ed
inserirsi
all’interno
di
un
più
vasto
corpus
dottrinale
come
l’International
Classification
of
Functioning,
Disability
and
Health.
Intesa
in
tal
senso,
la
valutazione
riabilitativa
permette
di
monitorare
sensibilmente
i
cambiamenti
temporali,
intravedendo
la
necessità
di
un
continuum
temporale
in
funzione
dell’evolversi
di
aspetti
fisici,
cognitivo‐comportamentali,
psicocomportamentali
e
sociali.
Una
volta
conosciute
nel
dettaglio
le
sue
proprietà
cliniche
e
psicometriche,
ogni
valutazione
deve,
infine,
basarsi
sull’accurata
selezione
dello
strumento
di
misurazione,
introdotto
in
funzione
dell’outcome
richiesto.
Modello
biomedico
e
bio­psico­sociale
Secondo
l’approccio
meccanicistico
alla
nocicezione,
il
dolore
è
interpretabile
quale
immediata
risposta
ad
una
lesione
biologica.
Applicando
questo
modello
teorico,
si
riconoscono
schemi
predefiniti
di
malattia
e
si
applicano
terapie
sintomatiche
nella
speranza
che,
curando
la
lesione
biologica,
dolore
e
menomazione
possano
risolversi
(Nachemson
A,
Johnsson
E.
2000).
Questo
approccio
soddisfa
realtà
“in
vitro”,
ma
non
sempre
fornisce
la
soluzione
alla
malattia
che
si
è
compreso
ormai
andare
al
di
là
della
semplice
lesione
tissutale.
Si
è
compreso
che
la
percezione
del
dolore
non
è
esclusivamente
correlabile
a
specifiche
lesioni
strutturali,
che
ricevere
una
menomazione
non
necessariamente
coincide
con
l’essere
disabili
e
che
grande
influenza
sulla
manifestazione
di
malattia
è
rivestita
da
fattori
individuali,
64
culturali
e
socioeconomici
(Pincus
T.
2000).
In
altri
termini,
affidarsi
ad
un
modello
valutativo
che
non
contempli
la
complessità
della
reazione
umana
al
dolore,
alla
menomazione
ed
alla
disabilità
è
alquanto
limitante
(Waddell
G.
1987).
Clinici
e
ricercatori
devono
essere
indotti
ad
applicare
un
modello
clinico
di
disabilità
più
aderente
alla
realtà
come
il
modello
biopsicosociale
proposto
da
Waddel
(Fig
4.1),
nel
quale
dolore
e
menomazione,
esprimendosi,
integrino
disfunzione
e
decondizionamento
con
manifestazioni
psico‐sociali
(Waddell
1998,
Findlay
2006).
Fig
4,.1
Sono
stati
proposti
diversi
modelli
concettuali
per
comprendere
e
spiegare
la
Disabilità.
Secondo
il
modello
biomedico,
la
Disabilità
è
un
problema
della
persona,
causato
da
specifiche
lesioni
biologiche.
Il
modello
sociale
della
Disabilità
vede,
altresì,
il
problema
indotto
dalla
società
e
dipendente
da
complesse
interazioni
determinate
principalmente
a
livello
sociale.
Il
pensiero
riabilitativo
deve
andare
oltre
queste
due
dimensioni,
offrendo
strumenti
valutativi
più
adeguati
alle
diverse
situazioni
cliniche
da
misurare.
Secondo
questa
innovativa
prospettiva,
la
Disabilità
si
esplica
attraverso
più
componenti:
dolore,
disfunzione
fisica,
aspetti
psico‐comportamentali,
aspetti
sociali
e
socioambientali.
Per
cogliere
l’integrazione
di
ogni
singola
componente,
65
l’approccio
ritenuto
più
affine
alla
multidimensionalità
dell’essere
umano
è
quello
biopsicosociale,
permettendo
la
sintesi
delle
diverse
dimensioni
della
salute
a
livello
biologico,
individuale
e
sociale
(Waddel
1998,
Monticone
2006).
La
corretta
definizione
del
ruolo
dei
fattori
biologici,
psico‐sociali
ed
ambientali
è
illustrata
nella
recente
Classificazione
ICF,
International
Classification
of
Functioning,
Disability
and
Health
(WHO,
2001),
accettata
quale
standard
internazionale
per
misurare
Salute
e
Disabilità,
base
scientifica
per
la
comprensione
e
lo
studio
delle
condizioni,
delle
cause
e
delle
conseguenze
correlabili
(World
Health
Organization.
International
Classification
of
Functioning
2001).
Raccogliendo
i
principali
aspetti
della
salute
umana,
l’ICF
serve
da
modello
di
riferimento
per
le
Strutture
Corporee
(aspetto
anatomico),
le
Funzioni
Corporee
(aspetto
fisiologico),
le
Attività
di
Partecipazione
(attività
della
vita
quotidiana),
i
Fattori
Ambientali
(caratteristiche
familiari,
lavorative,
sociali,
…)
e
i
Fattori
Personali
(atteggiamenti,
comportamenti,
ambiente
fisico
e
sociale)
(V.
Pirola
1998).
La
Disabilità
viene,
dunque,
ridefinita
ed
intesa
come
il
risultato
di
una
complessa
relazione
tra
condizione
di
salute,
fattori
personali
e
fattori
ambientali.
Direttamente
correlata
alla
visione
biopsicosociale
della
realtà,
essa
supera
le
distinzioni
formali
tra
ciò
che
è
salute
e
ciò
che
è
menomazione,
pensando
all’essere
vivente
nella
complessità
del
suo
funzionamento
(Stucki
G,
Ewert
T,
Cieza
A
2002).
L’applicabilità
e
la
diffusione
a
livello
clinico
dell’ICF
si
auspica
possa
essere
ulteriormente
favorita
dall’introduzione
degli
ICF
Core
Sets,
che
riassumono
le
principali
caratteristiche
funzionali
da
considerare
per
la
valutazione
di
specifiche
condizioni
patologiche.
Attualmente
i
Core
Sets
sono
stati
sviluppati
per
dodici
condizioni
di
salute
,
ma
sono
in
corso
validazioni
sperimentali
per
ulteriori
condizioni
cliniche
in
ambito
ortopedico,
66
neurologico,
cardiovascolare
e
respiratorio,
in
ambienti
per
acuti,
postacuti
e
cronici
(Duval‐Beaupère
G
2004).
L’attuale
sviluppo
dei
Core
Sets
comprende
i
Comprehensive
Core
Sets,
in
cui
sono
elencati
tutti
gli
aspetti
del
funzionamento
che
possono
insorgere
per
una
specifica
condizione
di
salute,
e
i
Brief
Core
Sets,
che
includono
i
problemi
ritenuti
irrinunciabili
per
una
rapida
ed
efficiente
applicabilità
clinica
(Cieza
A,
Ewert,
T,
Chatterji
S.
2004).
Significato
dell’outcome
Col
passare
degli
anni
e
con
particolare
riguardo
alle
discipline
in
cui
dolore
e
sofferenza
sono
divenuti
i
sintomi
maggiormente
associati
alla
richiesta
di
cure,
gli
obiettivi
terapeutici
hanno
progressivamente
tenuto
conto
della
sfera
personale
del
paziente:
è
divenuto,
pertanto,
cruciale
saper
misurare
ogni
azione
clinica
in
funzione
degli
obiettivi
dei
pazienti,
piuttosto
che
limitarsi
a
predefiniti,
arbitrari
e
troppo
spesso
cristallizzati
criteri
di
un
processo
valutativo
che,
così
facendo,
rischiava
di
allontanarsi
dalle
reali
aspettative
dell’utente
(Basaglia
N
2002).
La
pubblicazione
di
scale
di
valutazione
del
dolore
e
della
disabilità
che
primariamente
promuovono
le
prospettive
del
paziente
testimonia
l’importanza
dell’approccio
biopsicosociale.
Chi,
d’altronde,
se
non
il
paziente
è
nella
posizione
più
idonea
per
offrire
il
resoconto
più
accurato
dell’intensità
e
della
qualità
dei
propri
sintomi
oltre
a
permetterci
di
capire
cosa
realmente
provoca
in
lui
disagio,
limitazione
delle
attività
quotidiane,
lavorative
e
sociali?
Così
interpretato,
l’outcome
diviene
l’insieme
dei
risultati
perseguibili
dai
diversi
programmi
riabilitativi,
espressione
del
recupero
obiettivo
acquisito
e
delle
percezioni
soggettive
che
contribuiscono
a
determinare
la
qualità
di
vita
di
un
paziente,
intravista
come
il
maggiore
degli
obiettivi
67
prescelti:
è
il
risultato
finale
di
ogni
attività
riabilitativa
e
coincide
con
la
soddisfazione
del
paziente
nella
sua
complessità
funzionale
(Basaglia
N.
2000,
2002)
Organizzare
gli
interventi
riabilitativi
secondo
la
logica
dell’outcome
rappresenta,
dunque,
una
modalità
essenziale
per
la
Riabilitazione
contemporanea,
poiché
mette
al
centro
dell’organizzazione
di
ogni
intervento
la
persona
disabile
con
i
suoi
bisogni,
desideri,
aspettative
e
potenzialità,
valutando
l’efficacia
di
ciascun
intervento
riabilitativo
proposto
e
realizzato
(Fitzpatrick
R,
Davey
C,
Buxton
Mj,
Jones
DR.
1998).
Tipologie
di
outcome
In
base
alle
molteplici
prospettive
cliniche
e
di
ricerca,
in
Medicina
esistono
differenti
tipologie
di
outcome.
Tradizionalmente,
i
principali
indicatori
riportati
in
molti
studi
hanno
evidenziato
obiettivi
clinici
riferendosi
esclusivamente
a
variabili
anatomiche
o
fisiologiche.
Questi
outcome,
però,
non
riflettono
l’obiettivo
finale
dei
risultati
ai
quali
terapisti
e
pazienti
possono
essere
maggiormente
interessati.
Obiettivi
spiccatamente
biomedici
non
correlano
efficacemente
con
l’impatto
biopsicosociale
che
disfunzione
fisica,
persistenza
dolorosa,
mancanza
di
un
precoce
ritorno
al
lavoro
e
peggioramento
nelle
attività
della
vita
quotidiana
possono
esercitare
(Deyo
RA.
1988).
Se
desideriamo
improntare
l’attività
riabilitativa
seguendo
la
contemporanea
visione
dell’outcome,
è
necessario
che
la
creazione
di
ogni
obiettivo
riabilitativo
possa
basarsi
sulle
particolari
aspettative
del
paziente
(patient
oriented
decisions),
indirizzarsi
verso
uno
specifico
contesto
(setting
oriented
decisions),
seguendo
consapevoli
principi
temporali
(timing
oriented
decisions)
(Bombardier
C
2000).
In
tal
senso,
sono
più
efficientemente
definibili
gli
out
come
per
i
più
comuni
quadri
clinici
riabilitativi.
Per
un
68
soggetto
con
diagnosi
recente
di
Artrite
Reumatoide,
a
breve
termine
l’outcome
è
rappresentato
da
una
efficace
riduzione
del
dolore
e
dell’infiammazione
correlata
agli
indici
di
flogosi
reumatologica,
a
medio
termine
diviene
significativo
il
mantenimento
delle
abilità
occupazionali,
a
lungo
termine
appare
auspicabile
la
conservazione
di
un
soddisfacente
stato
di
salute.
Per
un
paziente
sopravvissuto
a
cerebrovasculopatia
secondaria
a
stroke,
a
breve
termine
l’outcome
è
rappresentato
dal
recupero
degli
aspetti
cognitivi,
del
linguaggio
e
della
funzione
fisica,
a
medio
termine
diviene
significativo
riacquisire
l’indipendenza
e
la
possibilità
di
ritornare
presso
il
proprio
luogo
di
lavoro,
a
lungo
termine
è
desiderabile
il
mantenimento
di
una
qualità
di
vita
considerata
dal
paziente
accettabile.
Per
un
soggetto
con
lombalgia
aspecifica,
a
breve
termine
(fase
acuta)
l’outcome
coincide
con
la
riduzione
del
dolore,
la
rassicurazione
e
l’educazione,
a
medio
termine
(fase
subacuta)
assume
valore
l’individuazione
di
fattori
di
rischio
fisici
e
psico‐sociali
favorenti
l’eventuale
persistenza
dei
sintomi,
a
lungo
termine
divengono
prioritari
il
controllo
della
disabilità
e
del
decondizionamento
psicosociale
correlabili
a
dolore
cronico.
Limiti
dell’outcome
Sono
essenzialmente
rappresentati
da
confronti
delle
variabili
in
oggetto:
impossibilità
del
confronto
oggettivo
tra
le
diverse
misurazioni
introducibili,
dall’evolutività
temporale
dei
quadri
clinici
considerabili
e
dagli
aspetti
economico‐finanziari
((Deyo
RA,
Patrick
DL
1989),).
Confronti
ritenuti
affidabili
richiedono
omogeneità
in
termini
di
severità
del
problema,
di
comorbilità,
di
salute
basale
e
delle
più
significative
variabili
demografiche.
Timing
terapeutico:
recenti
metanalisi
(Gross
AR
2004)
condotte,
ad
esempio,
sulle
manipolazioni
69
vertebrali
dimostrano
che
i
benefici
terapeutici
maggiori
occorrono
entro
pochi
giorni
o
settimane
dal
trattamento,
in
assenza
di
effetti
clinici
significativi
a
medio
o
lungo
termine.
Di
conseguenza,
il
timing
dell’iter
terapeutico
e
la
durata
del
follow
up
devono,
dunque,
essere
presi
in
considerazione
poiché
in
grado
di
incidere
in
modo
non
trascurabile
sulla
valutazione
dell’outcome,
nei
confronti
di
condizioni
cliniche
acute
e
croniche
tipiche
delle
attività
riabilitative.
Costi
sanitari:
un
ulteriore
limite
è
rappresentato
dagli
aspetti
economico‐
finanziari,
potenziali
confondenti
nell’uso
e
nell’obiettiva
interpretazione
di
qualsiasi
strumento
di
misurazione.
Se,
ad
esempio,
la
prospettiva
di
un
indennizzo
è
immaginato
rendersi
correlabile
a
peggiori
livelli
di
disabilità,
alcuni
soggetti
potrebbero
essere
indotti
a
manifestare
peggiori
condizioni
fisiche.
Al
contrario,
pazienti
che
temono
di
perdere
lavoro
ed
indennizzi
assicurativi
se
ammettono
problemi
funzionali
troppo
gravi,
potrebbero
adottare
comportamenti
opposti
al
precedente.
L’influenza
di
questi
effetti
è
difficilmente
quantificabile,
sebbene
sia
evidente
che,
a
parità
di
lesione
biologica,
outcome
peggiori
si
riscontrino
prevalentemente
nei
pazienti
per
i
quali
gli
indennizzi
siano
prevedibili
rispetto
a
quelli
che
non
li
possono
ricevere.
Molti
limiti,
inclusi
i
non
pochi
problemi
legati
ad
eventuali
barriere
logistiche
operatore‐dipendenti,
devono
essere
considerati
e
superati
prima
che
le
misure
di
outcome
possano
essere
diffusamente
accettate
e
serenamente
utilizzate
in
ambito
clinico.
È
indubbio
che
questi
limiti
rendano
l’approccio
corretto
più
difficile,
ma
non
devono
essere
considerati
invalicabili:
superandoli,
mediante
attenta
pianificazione
dell’attività
riabilitativa,
si
potrà
garantire
il
miglioramento
della
qualità
dell’assistenza,
l’efficacia
e
l’efficienza
delle
modalità
di
approccio.
70
Strumenti
Le
principali
misurazioni
delle
attività
riabilitative
sono
essenzialmente
da
ricondurre
a:
a)
segni
fisici
e
sintomi
(di
natura
anatomo‐fisiologica
e
biologica);
b)
funzionamento
fisico
e
cognitivo;
c)
partecipazione
lavorativa
e
sociale;
d)
benessere
e
stato
emozionale;
e)
soddisfazione
percepita
verso
l’assistenza;
f)
qualità
di
vita
correlabile
allo
stato
di
salute.
Per
questi
propositi
lo
studio
di
effettive
misure
di
outcome
è
diventato
uno
dei
principali
obiettivi
della
ricerca
sanitaria:
un
ampio
numero
di
strumenti
di
misurazione
si
è
reso
progressivamente
disponibile,
con
maggiore
predisposizione
all’utilizzo
in
differenti
contesti
assistenziali.
I
più
comuni
modelli
utilizzabili
per
la
misurazione
delle
attività
riabilitative
sono
essenzialmente
due:
l’osservazione/esame
clinico
e
l’esperienza
del
paziente,
in
forma
di
intervista
strutturata
o
di
questionario
auto‐compilato
(Mc
Dowell
I,
Newell
C.
1987).
Nel
primo
caso,
il
professionista
sanitario
elabora
un
giudizio
obiettivo
o
individua
specifici
parametri
sulla
base
di
un’evidenza
soggettiva,
indipendentemente
dal
paziente.
Nel
secondo
caso,
al
soggetto
è
richiesto
di
registrare
i
fenomeni
provati
in
relazione
ad
una
specifica
condizione
di
salute,
fornendo
una
valutazione
correlata
alle
proprie
prospettive
ed
esperienze.
L’oggetto
d’interesse
può
essere
misurato
da
una
singola
domanda
o
da
più
domande,
formando
un
vero
e
proprio
71
questionario,
con
più
possibilità
di
scelta
e
di
risposta.
Il
primo
tipo
di
misurazione
potrebbe
apparire
più
attendibile,
poiché
in
grado
di
rispecchiare
obiettivamente
l’oggetto
dell’outcome.
È
indubbio,
però,
che
umore
del
soggetto,
motivazione
o
altri
fattori
psico‐sociali
presenti
possano
influenzare
molte
delle
certezze
in
merito
all’obiettività
della
misurazione
fisica.
Per
questo
motivo,
è
cresciuto
l’interesse
verso
il
secondo
tipo
di
misurazione,
considerato
da
alcuni
Autori
meno
attendibile
e
più
debole
(Deyo
RA,
Patrick
LP
1989):
tuttavia,
i
confini
tra
ciò
che
si
considera
debole
e
ciò
che
si
considera
forte
possono
essere
spesso
mal
definiti
e,
talvolta,
disorientanti.
Feinstein
(Feinstein
AR.
1977)
affermava
che
la
forza
di
un
dato
deve
dipendere
dalla
propria
obiettività,
dalla
preservabilità
temporale
e
dalla
capacità
di
quantificare
numericamente.
Concluse
che
la
forza
di
un
dato
dipende
soprattutto
dalla
riproducibilità
della
misurazione
stessa
ripetuta
a
distanza
di
tempo,
nelle
stesse
circostanze
e
anche
da
operatori
diversi.
In
base
a
questa
considerazione,
molti
dei
moderni
questionari
possono
essere
considerati
tanto
forti
quanto
molte
delle
osservazioni
cliniche
con
le
quali
siamo
più
familiari.
Per
la
valutazione
biopsicosociale
della
disabilità,
si
raccomanda
di
applicare
più
di
uno
strumento
di
misurazione.
Questo
permette
di
non
trascurare
i
diversi
outcome,
di
giudicare
con
più
accuratezza
le
conclusioni
di
ogni
studio
e
di
affinare
le
capacità
alla
base
della
confrontabilità
dei
diversi
sistemi
di
misurazione
impiegati.
Esistono
molteplici
scale
di
valutazione,
prescelte
in
funzione
degli
obiettivi
del
singolo
ricercatore
e
di
fronte
alla
singola
esigenza
del
quesito
clinico.
I
costrutti
della
Classificazione
Internazionale
del
Funzionamento,
Disabilità
e
Stato
di
Salute
permettono
di
valorizzare
interamente
il
pensiero
riabilitativo
alla
base
della
scelta
degli
strumenti
di
misurazione
utilizzabili,
in
funzione
delle
limitazioni
delle
72
attività
della
vita
quotidiana,
della
attività
occupazionali,
delle
restrizioni
della
partecipazione,
nella
piena
consapevolezza
che
anche
fattori
personali
(cognitivo‐comportamentali)
e
socio‐ambientali
possano
contribuire
alla
definizione
dell’outcome
globale
(World
Health
Organization.
International
Classification
of
Functioning
2001),
permettendo
più
efficaci
risposte
terapeutiche.
Vi
è
crescente
evidenza
internazionale
(Kuijer
W,
Brouwer
S,
Schiphorst
Preuper
HR,
et
al
2005)
che
la
scelta
di
una
misura
di
outcome
debba
essere
sempre
intravista
in
funzione
di
quanto
presente
nel
modello
ICF:
la
scelta
di
specifiche
misure
di
outcome
deve
essere
finalizzata
ad
esprimere
la
multidimensionalità
dell’approccio
desiderato
alla
disabilità;
al
contrario,
la
mancanza
di
aderenza
a
questo
assunto
permette
un’applicazione
solo
parzialmente
rispondente
al
modello
bio‐psico‐sociale.
La
scelta
consapevole
del
determinato
strumento
di
valutazione
permette,
dunque,
di
comprendere
quali
costrutti
dell’ICF
siano
effettivamente
espressi,
confermando
l’appropriatezza
della
misura
di
outcome.
3.2
Inquadramento
I.C.F.
del
soggetto
lombalgico
Sindrome
biopsicosociale
per
la
lombalgia
cronica
Dalla
teoria
del
gate
control
di
Melzack
e
Wall,
le
conoscenze
neurofisiologiche
sul
dolore
si
sono
evolute
ed
affinate.
Waddell
(Waddell
G.
1987)
per
primo
ha
cercato
di
guardare
oltre
la
pura
“dimensione
dolore”,
applicando
un
modello
più
complesso,
ma
più
vicino
alla
realtà,
delineando
i
fattori
che
interagiscono
tra
loro
nel
determinismo
del
dolore
lombare
cronico
e
della
disabilità.
La
figura
4.2
rappresenta
in
un
modello
biopsicosociale,
uno
schema
in
cui
il
dolore
73
(lombare
nel
caso
di
questa
tesi)
origina
da
stimoli
nocicettivi
vertebrali,
ma
esprimendosi,
integra
aspetti
fisici
con
manifestazioni
psico‐comportamentali
e
perdita
funzionale,
divenendo
modello
di
patologia
umana
e
non
solo
di
sintomatologia
algica.
Lombalgia
(cronica
ma
non
solo)
e
disabilità
non
dipendono,
dunque,
da
fattori
puramente
fisici
o
puramente
psicologici,
ma
piuttosto
da
una
complessa
interazione
degli
stessi
nel
corso
del
tempo.
Fattori
psicologici
possono
influenzare
i
processi
fisici,
ad
esempio,
mediante
aumentata
tensione
muscolare
o
particolare
timore
nell’esecuzione
di
un
movimento.
Alterazioni
comportamentali
possono
coinvolgere
l’esecuzione
di
attività
lavorative
così
come
le
stesse
attività
possono
assumere
riflessi
negativi
in
termini
comportamentali.
Iniziando
spesso
come
normale
conseguenza
del
dolore,
questi
quadri
possono
condizionare
nel
tempo
il
soggetto,
inducendo
modificazioni
fisiche
come
disturbi
posturali,
della
deambulazione
e
del
movimento.
Persistendo
il
più
delle
volte
ad
un
livello
inconscio
ed
indipendente
dalla
reale
sintomatologia
dolorosa,
alterati
processi
psico‐fisiologici
e
psico‐comportamentali
spingono
il
soggetto
lombalgico
ad
un
decondizionamento
fisico
e
psicologico,
al
centro
di
un
circolo
vizioso
che
accresce
erronee
convinzioni
sul
dolore,
sui
rischi
occupazionali
e
su
fallibili
strategie
terapeutiche
(Pincus
T.
2000).
Fig
4.2
74
Il
modello
biopsicosociale
non
segue
fasi
consequenziali
e
predeterminate:
la
percezione
dolorosa
può
sia
precedere
che
seguire
il
problema
fisico,
così
come
la
personalità
del
soggetto
ed
il
suo
preesistente
stato
psicologico
possono
concorrere
a
modificare
l’intero
processo.
Dolore
e
Disabilità
non
sono
una
condizione
statica,
ma
costituiscono
un
processo
che
si
evolve
dinamicamente
nel
tempo:
molte
delle
modificazioni
psicologiche
e
comportamentali
riscontrabili
nella
sindrome
cronica
lombare
appaiono
precocemente,
sviluppandosi
già
dopo
pochi
giorni
dall’insorgenza
del
dolore.
Sebbene
sintomatologicamente
ed
obiettivamente
simili
agli
altri
soggetti,
si
riscontra
che
chi,
spinto
da
esperienze
personali,
dal
catastrofismo,
dalla
depressione
e
dal
contesto
sociale,
rimanda
il
precoce
ritorno
lavorativo
nel
vano
tentativo
di
limitare
la
percezione
dolorosa,
è
maggiormente
esposto
a
cronicizzazione,
in
contrasto
con
chi
cerca
da
subito
una
precoce
ripresa
lavorativa,
riuscendo
così
a
condizionare
positivamente
gli
esiti
a
breve
e
a
lungo
termine
(World
Health
Organization.
International
Classification
of
Functioning
2001)
.
La
disabilità
secondaria
ed
il
decondizionamento
si
esplicano,
dunque,
attraverso
più
componenti:
dolore
(nella
sua
complessità
cognitiva
e
neurofisiologica),
disfunzione
fisica,
aspetti
psico‐
comportamentali,
aspetti
sociali
e
socio‐ambientali.
Misure
di
outcome
in
aderenza
al
modello
I.C.F.
I
pazienti
con
lombalgia
cronica
mostrano
alterazione
e
riduzione
della
performance
motoria;
sono
limitati
nell’esecuzione
di
specifiche
attività
della
vita
quotidiana,
nella
cura
di
se
stessi
o
nell’esecuzione
di
compiti
in
ambito
domiciliare
ed
occupazionale,
come
muovere,
75
spostare
o
maneggiare
oggetti;
il
livello
di
partecipazione,
descritto
come
il
coinvolgimento
in
una
particolare
situazione
della
vita,
è
altresì
ridotto;
i
soggetti
lombalgici
mostrano,
inoltre,
sofferenze
e
disadattamenti
in
ambito
sociale,
occupazionale
ed
ambientale,
spesso
associati
ad
alterazioni
dell’umore,
alla
paura
di
muoversi
e
peggiorare
la
condizione
clinica,
alla
percezione
di
sé
e
della
propria
salute
errata,
a
strategie
di
coping
scorrette.
Per
ricevere
le
risposte
terapeutiche
che
realmente
necessita,
ogni
paziente
necessita
di
una
valutazione
multidimensionale
ed
ICF‐mediata,
che
permetta
l’analisi
del
funzionamento,
della
disabilità,
dei
fattori
personali
e
dell’ambiente,
sociali
ed
occupazionali
(Kopec
JA,
1995,
2000).
Ogni
parte
del
modello
ICF
esposto
può,
in
tal
senso,
essere
attentamente
percorso
attraverso
adeguate
misure
di
outcome.
A
titolo
esemplificativo
e
in
riferimento
a
quanto
pubblicato
da
Kuijer
Wet
al
(Findlay
G
et
al.
2006),
è
raccomandato
utilizzare
la
scala
VAS
per
valutare
l’intensità
del
dolore,
le
scale
Roland
Morris
Disability
Questionnaire
ed
Oswestry
Disability
Index
per
la
quantificazione
del
livello
di
Disabilità,
i
questionari
Fear
Avoidance
Belief
e
TampaScale
of
Kinesiophobia
per
valutare
credenze,
pensieri
e
pregiudizi
riguardanti
il
dolore
vertebrale,
il
Coping
Questionnaire
per
stabilire
le
strategie
di
coping,
il
Beck
depression
Inventory
per
valutare
lo
stato
d’umore
(Roland
M,
Morris
R.
1983,
Fairbank
J,
Pynsent
P.
2000,
Roelofs
J
et
al.
2004,
Ostelo
R.W.J.G.,
de
Vet
H.C.W
2005).
Possono
associarsi
strumenti
di
valutazione
della
performance
motoria.
È
raccomandabile
introdurre
un’accurata
descrizione
delle
attività
lavorative
e
dei
fattori
limitanti
le
attività
stesse,
delle
caratteristiche
personali
dei
soggetti
quali
età,
sesso,
razza,
livello
educativo,
caratteristiche
del
dolore,
durata
del
dolore,
precedenti
trattamenti.
È
raccomandato
indagare
le
modalità
di
vita
del
soggetto
e
76
lo
stato
civile,
sebbene
i
fattori
ambientali
risultino
difficilmente
misurabili
attraverso
specifiche
scale
di
valutazione.
Lo
stato
di
salute
generale
è,
infine,
valutabile
attraverso
il
Sickness
Impact
Profile,
(SIP‐
136),
la
scala
SF‐36,
la
scala
SF‐12
e
la
scala
EuroQol.
Ogni
valutazione,
prescelta
accuratamente
per
la
valutazione
del
soggetto
con
lombalgia,
diverrà
essenziale
strumento
di
misurazione
clinica
del
risultato
in
itinere,
del
risultato
al
termine
dell’intervento
terapeutico
e
di
monitoraggio
nel
tempo.
Evidence
Based
Practice
Si
deve
a
David
Sackett
la
definizione
di
Evidence
Based
Medicine
come
"un
approccio
alla
pratica
clinica
dove
le
decisioni
cliniche
risultano
dall'integrazione
tra
l'esperienza
del
medico
e
l'utilizzo
coscienzioso,
esplicito
e
giudizioso
delle
migliori
evidenze
scientifiche
disponibili,
mediate
dalle
preferenze
del
paziente".
Questo
concetto
si
è
progressivamente
esteso
a
tutte
le
professioni
della
Salute,
compreso
il
fisioterapista
(Evidence
Based
Physiotherapy)
ad
intendere
quindi
"pratica
professionale
basata
sulle
evidenze
scientifiche".
Nel
tempo,
la
definizione
si
è
ulteriormente
evoluta,
prendendo
in
considerazione
anche
il
contesto
clinico‐
assistenziale
e
considerando
l’esperienza
clinica
come
l’elemento
che
può
integrare
evidenze,
preferenze
e
contesto.
Secondo
il
Sicily
Statement
on
Evidence‐based
Practice,
tutti
i
professionisti
della
sanità
devono
possedere
uno
spirito
critico
sia
nei
confronti
della
propria
pratica
professionale,
sia
delle
evidenze
scientifiche,
devono
essere
capaci
di
ricercare,
valutare
e
applicare
le
77
migliori
evidenze
scientifiche
(EBP
core‐curriculum);
ed
inoltre
essere
disponibili
ad
implementare
linee
guida
e
percorsi
assistenziali.
Fig
4.3
Lombalgia:
cosa
e
come
misurare?
Alla
luce
di
quanto
sino
ad
ora
esposto
verranno
di
seguito
illustrate
le
misure
dell’
out
come
scelte
relative
ai
disordini
lombari
dei
pazienti
oggetto
di
questa
tesi.
Gli
aspetti
da
indagare
per
una
corretta
valutazione
dei
risultati
saranno
quindi
scale
aderenti
ai
criteri
ICF
di
“Body
functions”,
“Activities”
e
“Partecipation”,
scale
che
misurino
il
dolore,
scale
che
misurino
lo
stato
generale
di
salute
del
paziente,
e
scale
che
possano
rappresentare
il
l’atteggiamento
e
l’aderenza
del
soggetto
alla
malattia
e
al
piano
di
trattamento.
Le
scale
relative
ai
criteri
ICF,
al
dolore
e
alle
condizioni
generali
di
salute
sono
state
somministrate
prima
di
iniziare
il
trattamento
e
durante
il
follow
up
a
45
giorni,
al
fine
di
poter
essere
fonte
di
interpretazione
statistica,
mentre
quelle
relative
all’atteggiamento
del
paziente
è
stata
somministrata
esclusivamente
nel
contesto
della
prima
78
seduta
e
ci
fornirà
in
fase
di
analisi
dei
dati
una
diversa
chiave
interpretativa
dei
dati
ottenuti.
Secondo
Wade
(Wade
DT.
1992)
misurare
è
il
processo
che
permette
di
assegnare
un
significato
al
risultato
di
ogni
valutazione
oggettiva.
Attraverso
la
quantificazione
di
un’osservazione
clinica
si
devono
porre
a
confronto
i
dati
con
adeguati
riferimenti.
Al
pari
della
conoscenza
della
patologia,
delle
possibilità
di
intervento
e
della
esperienza
clinica,
la
capacità
di
misurare
e
la
familiarità
con
le
misure
di
outcome
sono
requisiti
indispensabili
per
l’efficacia
di
un
trattamento.
Nei
casi
di
soggetti
lombalgici
le
Euro
Spine
Guidelines
indicano
gli
aspetti
da
indagare:
oltre
a
una
attenta
anamnesi
e
valutazione
clinica
(che
tratteremo
in
seguito)
stato
di
salute
in
generale,
intensità
del
dolore,
disabilità
fisica,
distress
psico‐sociale,
pensieri
e
paure
relative
alla
malattia
e
salute
in
generale.
In
campo
valutativo‐interpretativo
è
indispensabile
avere
ben
chiaro
quale
sia
l’aspetto
da
indagare,
conoscere
l’adeguatezza
degli
strumenti
di
indagine
in
termini
di
sensibilità
e
specificità,
sapere
interpretare
i
risultati,
essere
in
grado
eventualmente
di
combinare
con
profitto
i
vari
strumenti
di
misura.
Tutto
questo
senza
prescindere
dalla
applicabilità
degli
strumenti
di
misura
al
contesto
in
cui
vengono
somministrati
e
alla
loro
riproducibilità.
Le
scale
sono
state
compilate
durante
la
prima
seduta
in
modalità
di
auto
somministrazione
contestualmente
all’esame
fisico
secondo
la
scheda
dell’istituto
Mckenzie,
implementata
con
una
batteria
di
test
ortopedici
e
neurologici
volti
ad
escludere
altre
patologie
che
potessero
mimare
una
situazione
di
lombalgia.
79
Fig
4.4
Condizioni
generali
di
salute
Lo
strumento
valutativo
scelto
è
il
questionario
SF12,
short
form
del
questionario
SF36.
Tradotto
e
validato
in
italiano.
Attraverso
dodici
domande
permette
di
indagare
due
valori
il
PCS
(Physical
Component
Summary)
per
lo
stato
fisico
e
MCS
(Mental
Component
Summary)
per
lo
stato
mentale.
È
costituito
da
domande
per:
attività
fisica,
ruolo
e
salute
fisica,
ruolo
e
stato
emotivo
e
salute
mentale,
dolore
fisico,
salute
generale,
vitalità
e
attività
sociali.
Tempo
di
somministrazione
cinque
minuti,
può
essere
utilizzato
con
altri
questionari
specifici;
ed
avere
significato
anche
come
indice
prognostico.
80
Dolore
Come
abbiamo
già
detto
è
il
sintomo
cardine,
quello
che
porta
in
trattamento
il
paziente
e
quello
al
quale
il
soggetto
sarà
più
attento
e
sensibile.
Gli
strumenti
valutativi
hanno
il
limite
di
fornire
una
rappresentazione
del
fenomeno
limitato
nel
tempo,
una
sorta
cioè,
di
fotografia
del
dolore
al
momento
della
somministrazione;
è
assai
difficile
proporre
e
considerare
affidabili
questi
test
in
relazione
a
momenti
lontani
nel
tempo,
i
risultati
possono
essere
tuttavia
relazionati
ed
interpretati
assieme
ad
altri
indici.
Lo
strumento
scelto
è
il
N.R.S.
(numerical
rating
scale)
una
versione
implementata
della
comune
scala
V.A.S.;
semplice
breve
da
somministrare,
risulta
di
più
facile
comprensione
rispetto
alla
V.A.S.
in
quanto
la
linea
è
corredata
di
punti
di
ancoraggio
numerici
da
1
a
10
fra
i
quali
il
soggetto
può
scegliere
per
rappresentare
al
meglio
il
suo
dolore.
E’
una
scala
semplice,
di
dimostrata
validità
e
ha
evidenziato
una
maggiore
sensibilità
rispetto
alla
scala
V.A.S.
secondo
studi
riguardo
l’MCID
(la
minima
variazione
clinica
importante
per
il
paziente)
(Ostelo
R.W.J.G.,
de
Vet
H.C.W.
Et
al
2005,
2008)
Fig
4.5
81
Criteri
I.C.F.:
body
function
&
structure
(impairement)
Abbiamo
scelto
la
flessione
anteriore
come
parametro
valutativo
della
funzionalità
del
rachide;
questa
è
la
prestazione
che
generalmente
ogni
individuo
richiede
maggiormente
alla
propria
schiena
e
il
cui
deficit
viene
facilmente
percepito
dal
soggetto
così
come
ogni
dolore
provocato
da
tale
movimento.
Per
misurarla
anziché
un
inclinometro
per
il
R.O.M.
spinale,
abbiamo
semplicemente
adottato
il
“Finger
tip
to
floor
test”.
Si
chiede
al
paziente,
in
posizione
eretta
con
talloni
distanti
circa
10
cm,
una
flessione
anteriore
del
rachide
portando
la
punta
delle
dita
della
mano
verso
il
pavimento
mantenendo
le
ginocchia
completamente
stese.
Viene
misurato,
attraverso
l’impiego
di
un
semplice
metro
a
nastro,
la
distanza
delle
dita
dal
pavimento
in
cui
sopraggiunge
il
dolore
e
la
distanza
alla
quale
il
paziente
riesce
ad
arrivare.
Criteri
I.C.F.:
activities
(limitation)
Per
valutare
le
attività
residue,
le
limitazioni
nelle
ADL
e
nelle
capacità
occupazionali
è
stato
compilato
l’
O.D.I.
(Oswestry
disabilty
index).
Sviluppato
e
pubblicato
fra
il
1976
e
il
1980
(Fairbank
JCT
Davies
JB.
1980),
ma
tradotto
e
validato
in
italiano
da
Monticone
solo
nel
2009,
ha
come
obiettivo
di
facilitare
la
valutazione
della
lombalgia
e
della
disabilità
correlata,
presenta
buone
qualità
psicometriche,
validità
e
riproducibilità.
È
composto
da
10
sezioni
(nella
versione
originale
poi
implementata
nel
1989)
in
grado
di
ottenere
informazioni
sull’intensità
del
dolore
e
dei
suoi
effetti
disabilitanti
nelle
82
principali
ADL.
Ogni
sezione
può
dare
un
punteggio
che
va
da
0
a
5,
più
è
alto
è
il
punteggio
e
maggiore
è
l’impatto
della
patologia
sul
paziente
il
tempo
di
somministrazione
di
cinque
minuti.
Il
questionario
O.D.I.
tradotto
in
italiano
nella
versione
2.0
si
trova
allegato
in
calce
al
capitolo.
Criteri
I.C.F.:
partecipation
(restriction)
Per
valutare
quest’ultimo
aspetto
abbiamo
sottoposto
al
paziente
un
semplice
quesito
riguardo
l’impatto
che
la
situazione
di
lombalgia
ha
sulla
loro
vita
sociale
e
di
relazione.
Il
grado
di
restrizione
delle
partecipazioni
è
stato
espresso
grazie
un
ancoraggio
numerico.
Una
copia
del
formulario
è
inclusa
a
fine
capitolo.
Strumenti
di
misura
dei
fattori
personali:
Tampa
scale
of
kinesiophobia
La
TSK
si
propone
di
identificare
i
soggetti
per
cui
sarebbe
utile
un
trattamento
psicosociale
e
può,
sia
fornire
una
chiave
interpretativa
nell’analisi
degli
outcome,
che
essere
utile
quale
riferimento
prognostico
sul
successo
del
piano
terapeutico.
La
TSK
è
stata
sviluppata
da
Miller
nel
1991
e
successivamente
tradotta
in
italiano
da
Monticone
nel
2010,
per
essere
poi
validata
relativamente
a
13
dei
17
quesiti
originali.
Alcuni
quesiti,
posti
sotto
forma
negativa
nella
forma
originale
non
hanno
trovato
valida
traduzione
e
quindi
esclusi.
Si
compone
di
due
sottoinsiemi
volti
a
valutare
le
credenze
e
la
paura
riguardo
al
dolore
come
segno
evidente
di
danno
biologico
TSK
1
Harm,
e
riguardo
il
timore
che
il
movimento
possa
nuocere
o
essere
83
lesivo
per
il
soggetto
TSK
2
Activity
avoidance.
Il
questionario
autosomministrato
consta
di
affermazioni
con
cui
il
paziente
può
definirsi
in
accordo
o
disaccordo,
parziale
o
totale;
il
punteggio
del
questionario
può
essere
considerato
come
fattore
prognostico
in
merito
alla
disabilità,
alla
durata
del
dolore,
all’evitamento
di
attività
fisiche,
alla
depressione
(Monticone
et
al
2012).
Lo
strumento
presenta
soddisfacenti
qualità
psicometriche
come
consistenza
interna,
riproducibilità
e
validità.
Soggetti
con
elevati
punteggi
TSK
evidenzieranno
atteggiamenti
catastrofistici
e
manifesteranno
più
facilmente
depressione
e
tendenza
alla
cronicità;
possono
inoltre
essere
meno
sensibili
ad
accettare
miglioramenti
del
loro
stato
di
salute
anche
se
evidenziati
da
altri
strumenti
clinici.
Il
Punteggio
si
esprime
su
un
massimo
di
52
punti
per
la
versione
italiana,
valori
entro
i
21/52
sono
riferibili
a
soggetti
assolutamente
asintomatici
in
buono
stato
di
forma
fisica,
valori
fra
i
28
e
i
30/52
sono
da
considerarsi
limite,
valori
compresi
fra
31
e
38/52
indicano
soggetti
kinesiofobici,
valori
oltre
i
38/52
rilevano
sono
da
considerarsi
molto
elevati,
mentre
soggetti
i
cui
valori
che
superino
i
44/52
sarebbe
da
valutare
l’ipotesi
di
un
trattamento
psico‐sociale.
(Carter
et
al
2006).
3.3
Valutazione
Specifica
Anamnesi
ed
esame
fisico
secondo
R.
Mckenzie
Per
la
valutazione
specifica
è
stata
adottata
la
scheda
per
il
rachide
lombare
dell’istituto
Mckenzie
(Mckenzie
Institute
International
2007),
allegata
a
fine
capitolo,
alla
quale
abbiamo
affiancato
alcuni
test
ortopedici
e
neurologici
al
fine
di
individua
con
precisione
la
struttura
responsabile
e
di
escludere
altre
situazioni
84
patologiche
che
potessero
mimare
una
lombalgia
o
una
lombo
sciatalgia.
Per
quanto
riguarda
l’esame
e
la
sua
interpretazione
in
dettaglio
si
rimanda
alla
lettura
delle
opere
di
R.
Mckenzie
citate
in
bibliografia.
Ci
limiteremo
qui
a
ricordare
brevemente
come
questo,
con
una
attenta
anamnesi
e
attraverso
l’esecuzione
di
movimenti
provocativi
ripetuti,
e
miri
ad
includere
il
soggetto
all’interno
di
una
delle
tre
sindromi
definite
dall’autore
(derangement,
disfunzionale,
posturale)
o
ad
escludere
cause
meccaniche
nella
genesi
del
dolore
lombare.
In
fase
anamnestica
il
terapista
“interroga”
dettagliatamente
il
paziente
riguardo
tutti
gli
elementi
utili
alla
classificazione
dei
sintomi:
attività
lavorativa
e/o
attività
ricreativa,
localizzazione
e
modalità
di
insorgenza
dei
sintomi,
evoluzione
di
questi
nel
tempo
e
nelle
24
ore,
attività
o
posizioni
che
peggiorano
o
che
migliorano
i
sintomi,
terapie
in
atto,
storia
chirurgica,
funzioni
viscerali
ecc.
L’esame
fisico
osserva
l’atteggiamento
del
paziente
nelle
varie
posture
ed
un
eventuale
effetto
del
mantenimento
di
posture
corrette
o
scorrette
sui
sintomi;
osserva
il
R.O.M.
complessivo
e
regionale
del
rachide
nei
movimenti
di
flessione,
estensione,
ed
inclinazione
destra
e
sinistra,
annotando
limitazioni
ed
eventuali
dolori;
sonda
poi
con
particolare
attenzione
i
movimenti
ripetuti
sui
tre
piani
dello
spazio
annotandone
gli
effetti
sulla
sintomatologia
e
sul
R.O.M.
L’analisi
dei
dati
anamnestici
e
dell’esame
fisico
permettono
al
terapista
di
inquadrare
il
soggetto
in
una
delle
tre
sindromi
e
di
indicare
un
principio
di
gestione.
I
risultati
di
questa
valutazione
sono
verificati
ed
eventualmente
corretti
nel
corso
delle
successive
sedute.
85
Altri
tests
Per
una
corretta
selezione
dei
pazienti,
abbiamo
completato
l’esame
obiettivo
con
una
batteria
di
test
ortopedici
sia
per
ottenere
una
localizzazione
precisa
del
livello
e
dell’entità
della
lesione
che
per
cercare
di
individuare
problematiche
non
lombari
con
sintomatologia
sovrapponibile.
Test
di
flessione
facilitata:
flessione
del
rachide
con
stabilizzazione
da
parte
dell’operatore
delle
ali
iliache;
razionale:
la
scomparsa
del
dolore
presenta
a
una
flessione
normale
può
fare
pensare
ad
una
lesione
sacroiliaca
come
origine
del
dolore
(J.J.Cipriano
2006).
Prone
instability
test:
il
paziente
prono,
con
il
dorso
sul
lettino
al
quale
si
aggrappa
e
gli
AAII
fuori
dal
letto,
viene
invitato
ad
estendere
le
anche
mentre
il
terapista
stabilizza
con
una
pressione
dorso
ventrale
il
tratto
lombare
dolente.
Razionale:
se
il
paziente
è
dolente
in
posizione,
mentre
non
avverte
dolore
durante
l’estensione
delle
anche,
si
deve
sospettare
una
instabilità
lombare
o
una
spondilolistesi;
questa
condizione
può
essere
una
controindicazione
alla
terapia
meccanica
e
il
terapista
dovrebbe
concertare
con
il
medico
fisiatra
la
somministrazione
di
esami
diagnostici
strumentali
(J.J.Cipriano
2006).
S.L.R.:
il
paziente
giace
in
posizione
supina
e
il
terapista,
afferrandolo
per
la
caviglia,
solleva
l’arto
inferiore
ed
annota
a
quanti
gradi
di
flessione
sopraggiunga
il
dolore.
Razionale:
se
questo
sopraggiunge
fra
i
35°
e
i
70°
si
può
sospettare
un’origine
discale
nei
sintomi,
se
oltre
suggerisce
invece
un
problema
alle
articolazioni
lombari
del
muro
posteriore.
S.L.R.:
controlaterale:
il
terapista
esegue
lo
stesso
test
sull’arto
contro
laterale
a
quello
che
lamenta
i
sintomi.
Razionale:
una
positività
può
indurre
ragionevolmente
a
pensare
ad
una
protrusione
importante,
86
ad
una
erniazione
completa
o
comunque
ad
una
lesione
occupante
spazio.
A.S.L.R.:
il
paziente
in
posizione
supina,
flettendo
l’anca
a
ginocchio
solleva
il
tallone
dal
lettino
di
circa
15
centimetri.
Razionale:
l’impossibilità
o
il
dolore
nell’esecuzione
del
test
rafforza
i
risultati
ottenuti
con
il
test
S.L.R.
Test
di
Wasserman:
il
paziente
giace
prono
con
il
ginocchio
del
lato
dolente
flesso,
il
terapista
,stabilizzando
la
SIPS
contro
laterale,
estende
l’anca
del
paziente.
Razionale:
nei
casi
di
distribuzione
poco
chiara
questo
test
è
indicato
in
quanto
trazionando
il
nervo
femorale,
indica
nei
segmenti
L2,
L3,
L4
la
possibile
origine
della
sintomatologia
dolorosa
(V.Lufrano
2009).
Test
del
piriforme:
col
paziente
in
debito
sovra
laterale
a
ginocchio
ed
anca
flessa
di
90°,
il
terapista
chiede
una
extrarotazione
di
anca
o
alternativamente
preme
con
decisione
lungo
il
percorso
del
m.
piriforme,
in
regione
glutea.
Razionale:
il
passaggio
del
nervo
sciatico
si
trova
in
corrispondenza
del
decorso
di
tale
muscolo,
e
un’alterazione
nel
tono
del
m.
piriforme
può
dare
insorgenza
di
sintomi
lombosciatalgici
(J.J.Cipriano
2006).
Gapping
test:
con
il
paziente
in
decubito
supino
il
terapista,
appoggiando
le
proprie
mani
sulle
SIAS
ad
avambracci
incrociati,
impone
una
distrazione
all’articolazione
sacro
iliaca.
Razionale:
una
positività
a
questo
test
può
fare
pensare
ad
una
origine
sacro‐iliaca
nel
quadro
doloroso
(J.J.Cipriano
2006).
Thrust
sacrale:
con
il
paziente
in
decubito
prono
il
terapista,
ponendo
l’una
sull’altra
le
mani
sopra
il
sacro,
applica
con
decisione
una
pressione
sul
paziente
in
senso
dorso
ventrale.
Razionale:
una
positività
a
questo
test,
specie
se
associata
ad
una
positività
nel
gapping
test,
87
induce
a
pensare
che
l’articolazione
sacro
iliaca
sia
responsabile
della
sintomatologia
dolorosa
(J.J.Cipriano
2006).
Test
di
Patrick
(F.A.B.E.R):
il
paziente
in
posizione
supina
viene
invitato
ad
incrociare
la
gamba
sul
ginocchio
contro
laterale,
il
terapista
stabilizza
la
SIAS
contro
laterale
ed
applica
una
pressione
verso
il
pavimento
sul
ginocchio
del
lato
in
esame.
Razionale:
questo
test
forza
la
testa
femorale
entro
la
cavità
acetabolare,
se
positivo
può
essere
posto
in
valutazione
differenziale
con
una
lombalgia
che
dichiari
distribuzione
alla
faccia
anteriore
della
coscia.
88
89
90
91
OSWESTRY DISABILITY INDEX (ODI) VERSIONE 2.0 Nome _________________________________________
Età _____________
Data di compilazione ________________________
Per favore, Le chiediamo di compilare questo questionario, messo a punto per fornire
informazioni su quanto il Suo male alla schiena e/o alle gambe influisce sulla sua abilità nelle
attività di tutti i giorni.
Risponda ad ogni sezione, scegliendo la voce, quella che risponde alla Sua situazione attuale.
1 - Intensità del dolore
Io non ho dolore in questo momento
Il dolore è molto leggero in questo momento
Il dolore è di media intensità in questo momento
Il dolore è piuttosto forte in questo momento
Il dolore è molto forte in questo momento
Il dolore è il peggiore immaginabile in questo momento
2 - Cura della persona (lavarsi, vestirsi, ecc.)
Posso prendermi cura della mia persona normalmente, senza che questo faccia aumentare il
dolore
Posso prendermi cura della mia persona normalmente, ma questo è molto doloroso
La cura della mia persona mi provoca dolore e perciò la eseguo lentamente e con cautela
Ho bisogno di aiuto, ma riesco ad eseguire da solo la maggior parte delle cure della mia
persona
Ho bisogno di aiuto tutti i giorni per la maggior parte delle cure delle mia persona
Non riesco a vestirmi da solo, mi lavo con difficoltà e sono obbligato a letto
3 - Sollevamenti
Posso sollevare oggetti pesanti senza che questo faccia aumentare il dolore
Posso sollevare oggetti pesanti, ma questo fa aumentare il dolore
Il dolore mi impedisce di sollevare oggetti pesanti dal pavimento, ma posso maneggiarli se essi
sono in posizione favorevole (ad es. su un tavolo)
Il dolore mi impedisce di sollevare oggetti pesanti dal pavimento, ma posso maneggiare oggetti
di medio peso se essi sono in posizione favorevole (ad es. su un tavolo)
Posso sollevare solo oggetti molto leggeri
Non posso sollevare o trasportare nulla
4 - Cammino
Il dolore non mi limita nel camminare per qualsiasi distanza
Il dolore mi impedisce di camminare per più di 1.5 km circa
Il dolore mi impedisce di camminare per più di qualche centinaio di metri
Il dolore mi impedisce di camminare per più di 100 m circa
Posso camminare solo con bastone, stampelle o altri appoggi (ad es. canadesi)
Sono a letto per la maggior parte del tempo e devo appoggiarmi per raggiungere il bagno
5 - Posizione seduta
Posso star seduto su ogni tipo di sedia per tutto il tempo che desidero, senza limitazioni
Posso star seduto solo sulla mia sedia "preferita" per tutto il tempo che desidero, senza
limitazioni
Il dolore mi impedisce di stare seduto per più di 1 ora
Il dolore mi impedisce di stare seduto per più di 1/2 ora
Il dolore mi impedisce di stare seduto per più di 10 minuti
Il dolore mi impedisce completamente di stare seduto
92
6 - Stare in piedi
Posso stare in piedi per tutto il tempo che voglio senza che questo faccia aumentare il dolore
Posso stare in piedi per tutto il tempo che voglio ma questo fa aumentare il dolore
Il dolore mi impedisce di stare in piedi per più di 1 ora
Il dolore mi impedisce di stare in piedi per più di 1/2 ora
Il dolore mi impedisce di stare in piedi per più di 10 minuti
Il dolore mi impedisce completamente di stare in piedi
7 - Dormire
Il mio sonno non è mai disturbato dal dolore
Il mio sonno è occasionalmente disturbato dal dolore
A causa del dolore dormo meno di 6 ore
A causa del dolore dormo meno di 4 ore
A causa del dolore dormo meno di 2 ore
Il dolore mi impedisce completamente di dormire
8 - Attività sessuale (se applicabile)
La mia attività sessuale è normale ed il mio dolore non aumenta in seguito ai rapporti
La mia attività sessuale è normale ma il mio dolore aumenta in seguito ai rapporti
La mia attività sessuale è pressoché normale ma i rapporti mi procurano molto dolore
La mia attività sessuale è molto limitata dal dolore
A causa del dolore la mia attività sessuale è praticamente assente
Il dolore mi impedisce ogni attività sessuale
9 - Vita sociale
La mia vita sociale è normale ed il mio dolore non aumenta in seguito ad essa
La mia vita sociale è normale ma il mio dolore aumenta in seguito ad essa
Il dolore mi impedisce di partecipare alle attività sociali più faticose (ad es. fare sport, ballare)
Il dolore mi impedisce di uscire molto spesso
A causa del dolore la mia vita sociale si svolge solo in casa
A causa del dolore non ho più vita sociale
10 - Viaggiare
Posso viaggiare ovunque senza che questo faccia aumentare il dolore
Posso viaggiare ovunque ma questo fa aumentare il dolore
Il dolore è forte e limita la durata dei viaggi ad un massimo di 2 ore
Il dolore limita la durata dei viaggi a meno di 1 ora
Il dolore mi limita a viaggi brevi e indispensabili, di meno di 30 minuti
Il dolore mi impedisce di viaggiare, eccetto che per ricevere cure sanitarie
11 – Impiego / Lavori di casa
Le normali attività lavorative o di casa non aumentano il dolore
Le normali attività lavorative o di casa aumentano il dolore, ma io posso eseguirle tutte senza
limitazioni
Posso eseguire la maggior parte delle attività lavorative o di casa, ma il dolore mi impedisce di
eseguire quelle fisicamente più impegnative (ad es. sollevamenti, passare l’aspirapolvere)
Il dolore mi permette di fare soltanto lavori leggeri
Il dolore mi impedisce di fare anche lavori leggeri
Il dolore mi impedisce di fare qualsiasi tipo di attività lavorativa o di casa
93
PARTECIPAZIONE
Nome
Data
Le mie attuali condizioni mi permettono di svolgere una vita
sociale (lavoro, famiglia, tempo libero, relazione) con:
0 Nessuna difficoltà
1 Difficoltà trascurabile il problema è presente in meno un quarto della
giornata, con un'intensità tollerabile; il problema si è presentato raramente
negli ultimi 10 giorni.
2 Difficoltà lieve che il problema è presente in meno della metà della
giornata, con
un'intensità che poco interferisce nella mia vita; il problema che si è
presentato
occasionalmente negli ultimi 10 giorni.
3 Difficoltà media che il problema è presente per più del 50% del tempo,
con un'intensità tale da alterare la vita quotidiana; il problema si è
presentato frequentemente negli ultimi 10 giorni.
4 Difficoltà grave che il problema è presente per oltre la metà della giornata,
con una
intensità che condiziona la mia vita di tutti i giorni; il problema si è
presentato pressoché quotidianamente negli ultimi giorni.
4 Difficoltà completa che il problema è presente per più del 95% del tempo,
con una
intensità che altera totalmente la mia vita quotidiana e che si è presentato
quotidianamente negli ultimi giorni.
94
TSK
1
Se
facessi
attività
fisica
temo
che
potrei
farmi
male
Se
cercassi
di
fronteggiare
il
dolore
questo
aumenterebbe
Il
mio
corpo
mi
informa
che
qualcosa
è
seriamente
danneggiato
Le
persone
non
stanno
considerando
il
mio
problema
come
si
deve
Il
mio
problema
costituisce
un
rischio
per
gli
anni
a
venire
Provare
dolore
significa
sempre
danneggiare
il
mio
corpo
Temo
di
farmi
male
accidentalmente
Evitare
movimenti
superflui
è
un
modo
sicuro
per
non
soffrire
Non
soffrirei
tanto
se
qualcosa
non
fosse
seriamente
danneggiato
Il
dolore
mi
dice
quando
interrompere
l’attività
per
non
danneggiarmi
Una
persona
nelle
mie
condizioni
non
deve
fare
attività
fisica
Non
posso
fare
ciò
che
gli
altri
fanno
perché
mi
faccio
male
facilmente
Nessuno
dovrebbe
fare
attività
fisica
quando
prova
dolore
2
3
5
6
7
9
10
11
13
14
15
17
Completo
disaccordo
Parziale
disaccordo
Parziale
accordo
Completo
accordo
95
MATERIALI
E
METODI
96
4.1
Il
metodo
Mckenzie
Le
affezioni
dolorose
del
rachide
costituiscono
una
parte
considerevole
dell’attività
del
fisioterapista,
la
maggior
parte
di
questi
dolori
sono
di
natura
meccanica
e
da
diversi
anni
ormai
le
metodiche
che
agiscono
a
vario
titolo
sulla
meccanica
articolare
trovano
sempre
più
applicazione
in
campo
riabilitativo.
Il
merito
di
Robin
Mckenzie,
fisioterapista
neozelandese,
è
quello
di
avere
sviluppato
un
sistema
che
vede
nell’auto‐trattamento
il
nucleo
del
progetto
terapeutico,
che
porta
il
paziente
in
prima
persona
a
prendersi
carico
e
cura
del
suo
problema
di
salute.
Questo
approccio,
in
apparente
opposizione
alle
tecniche
manuali
passive,
è
tuttavia
stato
riconosciuto
dai
fisioterapisti
provenienti
da
ogni
scuola,
che
ne
hanno
accettato
e
riconosciuto
la
validità
integrandolo
magari
ad
altre
metodiche.
Mckenzie
mette
fine
ad
alcuni
tabù,
introduce
il
concetto
di
dolore
“buono”
contrapponendolo
alla
regola
del
non
dolore
ed
in
particolare
evidenzia
come
il
movimento
dell’estensione,
al
lungo
tempo
bandita
dalle
tecniche
preaticabili,
sia
in
realtà
benefica
tanto
per
il
rachide
lombare
che
cervicale.
Inizialmente
diffuso
nel
mondo
anglosassone,
questo
approccio
è
entrato
a
far
parte,
del
bagaglio
di
goni
moderno
terapista
riabilitativo
grazie
alle
logica
sulla
quale
si
basa,
alla
sua
efficacia
e
alla
notevole
validazione
scientifica
a
riguardo.
La
metodica
è
incentrata
su
dei
movimenti
ripetuti,
come
test
valutativo
e
come
manovra
terapeutica,
sulla
preferenza
direzionale
e
sulla
ricerca
del
fenomeno
della
centralizzazione
(vedi
cap.2).
La
valutazione
permette
di
classificare
i
pazienti
definendo
tre
sindromi
meccaniche
che
costituiscono
dei
sottogruppi
omogenei
ai
quali
corrisponderanno
tre
specifiche
gestioni
del
trattamento;
sindrome
da
derangement,
sindrome
meccanica
e
sindrome
posturale.
Il
modello
fisiopatologico
è
il
modello
discale.
La
valutazione,
chiara
e
97
dettagliata,
ha
il
vanto
di
garantire
una
forte
ripetibilità
interoperatore,
e
individuare
quelle
situazioni
a
non
origine
meccanica
che
saranno
controindicazione
al
trattamento.
(Sufca
1998
et
Al)
Sempre
in
sede
valutativa
verrà
definita
la
preferenza
direzionale
cioè
il
senso
in
sui
dovrà
avvenire
il
trattamento,
la
mobilizzazione
e
la
eventuale
progressione
delle
forze
di
intervento.
Il
bilancio
Mckenzie
si
esegue
attraverso
la
compilazione
di
un
apposito
modulo
e
si
compone
di
una
attenta
raccolta
dei
dati
anamnestici,
con
particolare
attenzione
alle
attività
funzionali
del
paziente,
di
un
interrogatorio
dettagliato
riguardo
l’insorgenza
dei
sintomi,
di
fattori
aggravanti
o
attenuanti,
l’esame
delle
posture
e
delle
amplitudini
articolari,
la
presenza
di
segni
neurologici,
evoluzione
e
tipo
del
dolore,
ma
soprattutto
di
una
particolare
attenzione
portata
verso
i
movimenti
test
singoli
e
ripetuti
in
carico
e
in
scarico.
Possono
essere
di
complemento
altri
test
per
escudere
patologie
altre
che
mimano
una
lombo
o
lombosciatalgia.
Alla
fine
di
questo
processo
valutativo
che
può
essere
anche
particolarmente
lungo,
il
terapista
dovrebbe
essere
in
grado
di
inquadrare
il
paziente
entro
la
classificazione
proposta
dal
Mckenzie,
di
stabilire
una
preferenza
direzionale
e
di
impostare
un
piano
di
trattamento;
naturalmente
questo
inquadramento
non
è
da
intendersi
sempre
definitivo
e
la
risposta
sintomatologica
del
paziente
durante
le
prime
sedute
deve
sempre
guidare
il
terapista
tanto
nella
proseucuzione
dell’intervento
quanto,
al
contrario,
di
una
rivalutazione
della
classificazione
e
revisione
del
piano
terapeutico.
L’approccio
Mckenzie,
e
quello
della
ginnastica
propriocettiva
per
la
colonna
ruotano
attorno
alla
nozione
di
autonomia
del
paziente.
In
questa
prospettiva
è
prioritario
che
il
paziente
sia
in
grado
di
prendersi
in
carico
lui
stesso
del
proprio
stato
di
salute.
Se
esiste
una
possibilità
significativa
lui
che
riesca
ad
autogestire
situazioni
che
per
loro
natura
98
tendono
ad
essere
recidivanti
e
possono
evolvere
in
cronicità,
allora
la
nostra
proposta
terapeutica
deve
svilupparsi
attorno
a
questa
possibilità.
Citando
ancora
Mckenzie
(R.
Mckenzie
1998),
il
paziente
deve
essere
il
principale
attore
della
scomparsa
del
dolore,
e
del
recupero
funzionale
per
l’episodio
in
corso
e
deve
essere
istruito
ad
evitare
le
recidive
e,
qualora
fosse
necessario,
gestire
in
autonomia
eventuali
episodi
dolorosi
tramite
strumenti
semplici
come
gli
esercizi
insegnati
dal
fisioterapista.
Centrale
in
questa
filosofia
di
trattamento
è
l’approccio
diverso
che
il
paziente
impara
ad
avere
rispetto
al
mal
di
schiena.
Un
ruolo
importante
del
terapista
è
quello
di
educatore,
che
permette
al
paziente
il
cambio
di
stato
da
soggetto
passivo
e
sottomesso,
tanto
alla
malattia
quanto
agli
interventi
terapeutici,
a
soggetto
attivo
nella
gestione
del
problema
allontanando
così
la
temuta
ipotesi
della
cronicizzazione.
Dolore
e
centralizzazione
La
particolare
attenzione
al
tipo
di
dolore
lamentato
dal
paziente
e
il
concetto
di
centralizzazione
nell’interpretazione
ai
test
dei
movimenti
ripetuti
sono
probabilmente
gli
strumenti
clinici
più
interessanti
sviluppati
da
Mckenzie.
Per
condurre
questa
valutazione
è
necessario
ben
comprendere
il
modello
di
interpretazione
della
risposta
sintomatologica.
Semplificando
potremmo
dire
che:
se
il
dolore
non
fa
che
aumentare
o
ridursi
nel
corso
delle
ripetizioni
l’interpretazione
è
semplice;
se
il
dolore
cambia
di
localizzazione
o
si
modifica
di
intensità
magari
aumentando
ma
si
avvicina
alla
linea
mediana
o
alla
radice
(nel
caso
di
interessamento
di
arti
inferiori)
si
sta
assistendo
ad
una
centralizzazione,
fenomeno
favorevole.
Inversamente
quando
il
dolore
99
diventa
più
periferico
o
più
laterale,
è
sempre
un
elemento
sfavorevole,
come
altrettanto
possiamo
dire
di
un
aumento
costante
del
dolore
tanto
al
movimento
che
alla
postura.
Nel
caso
di
un
derangement
o
di
una
disfunzione
si
definirà
“dolore
buono”
quando
durante
le
ripetizioni
questo
centralizza,
si
produce
ad
amplitudini
articolari
maggiori,
cessa
al
cessare
dello
stimolo
(postura
o
movimento).
Fig
4.1
Le
tre
sindromi
Mckenzie
Già
nel
1987
la
Quebec
Task
Force
giunse
alla
conclusione
che
per
la
grande
maggioranza
dei
pazienti
non
era
possibile
giungere
ad
una
diagnosi
anatomica
precisa
e
per
quanto
conerne
i
problemi
lombari
si
sarebbe
dovuto
limitarsi
a
parlare
di
“dolori
lombari
aspecifici”.
La
situazione
oggi
non
ha
vuto
evoluzioni
significative
(G.
Waddel
2005).
Tuttavia
includere
nello
stesso
gruppo
una
così
ampia
variabilità
presenta
l’inconveniente
di
equiparare
pazienti
con
evidenti
diseguaglianze
cliniche,
e
non
è
di
alcun
vantaggio
diagnostico
(Bouter
L.M.,
Van
Toulder
M.W.,
Koes
B
1998),
al
contrario.
E’
invece
di
fondamentale
importanza
arrivare
a
classificare
i
nostri
pazienti
in
sottogruppi
omogenei,
non
in
termine
di
strutture
100
anatomiche,
ma
in
funzione
del
loro
quadro
clinico
e
delle
strategie
terapeutiche
alle
quali
ripondono
favorevolmente.
(G.
Waddel
2005).
Nella
sua
opera
Mckenzie
(R.
Mckenzie
1998)
descrive
tre
principali
sindromi
che
racchiudono
la
maggior
parte
dei
pazienti
rachialgici
(fino
al
92%
secondo
gli
studi
di
Hefford)
(C.
Hefford
2008)
.
Sindrome
da
derangement,
da
disfunzione
e
posturale.
Sindrome
da
derangement
può
essere
definito
come
la
situazione
in
cui
la
normale
posizione
di
riposo
delle
superfici
articolari
di
due
vertebre
adiacenti
è
disturbata
a
causa
di
un
alterato
posizionamento
del
nucleo
fluido
tra
queste
superfici.
L’alterata
posizione
del
nucleo
influenza
quindi
la
biomeccanica
della
FSU
e
il
materiale
dell’anulus
subisce
sollecitazioni
improprie.
In
alcuni
pazienti
i
movimenti
sono
solo
ridotti
ma
in
altri
sono
interamente
scomparsi.
Di
solito
i
movimenti
coinvolti
sono
sia
la
flessione
che
l’estensione
e
spesso
si
può
anche
rilevare
una
perdita
di
inclinazione
laterale.
Oltre
a
causare
perdita
di
movimento
nei
segmenti
lombari,
il
derangement
del
disco
può
causare
deformità
di
cifosi
e
scoliosi.
La
Cifosi
lombare
acuta
provocata
da
sollecitazioni
in
flessione
prolungata
o
ripetuta
come,
ad
esempio,
quelle
che
si
determinano
durante
il
giardinaggio
o
la
postura
seduta
scorretta
in
ambito
lavorativo.
Il
mantenimento
prolungato
della
posizione
flessa
e
la
frequente
ripetizione
del
movimento
in
flessione,
specialmente
quando
l’estensione
completa
non
viene
mai
ripristinata,
possono
portare
ad
un
eccessivo
accumulo
nel
compartimento
posteriore
del
nucleo
fluido
tra
i
corpi
vertebrali.
Una
volta
che
l’accumulo
è
sufficientemente
grande
può
costituire
un
blocco
ed
impedire
il
raggiungimento
della
posizione
eretta.
Ogni
tentativo
del
paziente
di
raddrizzarsi
velocemente
causa
un
forte
dolore,
in
quanto
le
forze
compressive
provocano
la
protrusione
dell’anulus
e
del
legamento
posteriore,
entrambi
ora
sottoposti
ad
una
enorme
sollecitazione
101
tangenziale.
Il
paziente
deve
tornare
alla
posizione
flessa
per
ridurre
l’intensità
del
dolore.
Nella
cifosi
lombare
acuta
l’incidenza
della
sintomatologia
radicolare
può
non
presentarsi
e
quando
si
verifica
è
di
moderata
entità.
La
protrusione
in
questi
casi
tende
ad
essere
postero‐
centrale
e
causa
dolore
in
relazione
alle
strutture
che
va
a
comprimere
durante
le
deformazioni
provocate
dai
movimenti
funzionali.
Un
aggravamento
di
questa
situazione,
specie
se
lo
stress
meccanico
nocivo
sia
asimmetrico,
può
portare
il
materiale
nucleare
a
danneggiare
ulteriormente
le
fibre
anulari
che
lo
circondano
e
la
protrusione
a
spostarsi
lateralmente;
in
questo
caso
il
paziente
svilupperà
ora
una
deformità
in
scoliosi
lombare
acuta
da
sciatica
e
probabilmente
presenterà
segni
radicolari.
Ora
sembra
ragionevole
ipotizzare
che
il
legamento
longitudinale
posteriore
possa
prevenire
disturbi
nella
parete
postero‐centrale
del
disco.
Tuttavia,
al
protrarsi
della
sollecitazione
deleterea,
le
spinte
asimmetriche
forzeranno
il
nucleo
polposo
lateralmente,
dove
la
parete
esterna
dell’anulus
si
distenderà
nel
suo
punto
più
debole.
La
superficie
posteriore
del
disco
presenta
una
maggiore
elasticità
ed
una
minore
resistenza
alla
distensione,
specialmente
nella
parte
postero‐laterale.
Qui
l’anulus
è
sottilissimo,
inserito
meno
saldamente
sulla
superficie
ossea
e
non
rafforzato
dal
legamento
longitudinale
posteriore.
Quindi
la
protrusione
dell’anulus
avviene
più
facilmente
in
questo
punto
che
in
qualsiasi
altro.
I
pazienti
con
derangement
hanno
di
solito
un’età
compresa
tra
i
20
e
i
55
anni,
oltre
prevarrebbero
fenomeni
degenerativi.
Il
dolore
può
essere
costante
in
fase
acuta,
ma
evolve
verso
l’intermittenza
con
il
riposo
e
l’inizio
del
trattamento;
aumenta
e
diminuisce
in
funzione
dei
movimenti
e
delle
posture
proposte
ed
è
prodotto
durante
l’arco
del
movimento
attivo
ma
anche
passivo.
Presentano
o
meno
deformità
in
scoliosi
o
in
cifosi
lombare
ed
è
riscontrabile
quasi
sempre
un
range
di
102
movimento
limitato,
che
tuttavia
è
facilmente
modificabile
anche
nel
corso
della
prima
seduta.
Il
quadro
del
derangement
è
potenzialmente
il
più
invalidante
e
può
evolvere
verso
quadri
di
erniazione
franca
con
intrappolamento
della
radice
nervosa;
nella
quasi
totalità
dei
casi
dietro
un
derangement
si
instaura
una
sindrome
da
disfunzione
e
un
quadro
di
rigidità
lombare
in
cui
il
paziente,
per
prevenire
il
dolore,
tende
a
“congelare”
il
tratto
che
diviene
ipocinetico
con
conseguente
perdita
di
funzionalità
e
deficit
propriocettivo.
La
maggior
parte
dei
derangement
sono
postero
laterali
o
posterocentrali.
Nella
sindrome
da
disfunzione
sostanzialmente
il
meccanismo
di
produzione
del
dolore
nella
disfunzione
è
uguale
a
quello
presente
nei
tessuti
normali,
ossia
il
dolore
si
manifesta
quando
l’eccessivo
allungamento
dei
tessuti
molli
causa,
in
questi
tessuti,
una
sufficiente
deformazione
meccanica
delle
terminazioni
nervose
libere.
Nella
disfunzione,
i
tessuti
molli
all’interno
o
attorno
al
segmento
coinvolto,
sono
accorciati
o
contengono
tessuto
cicatriziale
contratto.
Quando
si
cerca
di
eseguire
un
movimento
normale,
queste
strutture
vengono
poste
prematuramente
in
completa
tensione.
Mentre
solitamente,
nel
movimento
normale,
le
articolazioni
si
allontanano
di
un
certo
grado
prima
di
essere
fermate
dalla
tensione
dei
legamenti,
nella
disfunzione
le
articolazioni
sono
bloccate
dopo
aver
compiuto
solo
una
parte
di
questa
distanza.
Tentare
di
muoversi
ulteriormente
verso
la
massima
escursione
comporterà
un
allungamento
eccessivo
che
produrrà
dolore.
Quest’ultimo
è
percepito
alla
fine
dell’articolarità
esistente
e
cesserà
non
appena
verrà
rilasciata
la
tensione
a
fine
arco
di
movimento.
Un
allungamento
ripetuto
e
incontrollato
dei
tessuti
molli
contratti
produrrà
ulteriori
micro‐traumi
ed
algia.
Il
paziente
quindi,
finisce
per
evitare
il
movimento
che
provoca
dolore
e
l’accorciamento
103
adattivo
della
cicatrice
ridurrà
ancora
di
più
l’ampiezza
possibile
dell’escursione.
La
sindrome
da
disfunzione,
quindi,
si
sviluppa
come
conseguenza
di
abitudini
posturali
scorrette,
spondilosi,
trauma
o
derangement
ed
è
la
condizione
in
cui
avviene
una
prematura
comparsa
del
dolore
a
causa
dell’accorciamento
adattivo
e
della
conseguente
perdita
di
mobilità,
cioè
prima
che
si
arrivi
alla
normale,
completa
escursione
del
movimento.
In
sostanza
questa
condizione
si
verifica
perché
il
movimento
viene
eseguito
in
maniera
inadeguata,
nel
momento
in
cui
avviene
la
contrazione
dei
tessuti
molli.
Spesso
il
paziente
con
disfunzione
si
sente
meglio
quando
è
attivo
e
in
movimento
piuttosto
che
a
riposo.
Le
ragioni
sono
ovvie:
durante
un’attività
fisica
regolare
e
non
eccessiva
si
arriva
raramente,
e
nel
caso
solo
momentaneamente,
alla
massima
escursione
del
movimento;
quando
invece
si
riposa,
si
raggiungono
molto
in
fretta
posizioni
di
completa
escursione
che,
se
mantenute
a
lungo,
possono
diventare
dolorose.
I
pazienti
che
rientrano
nella
categoria
della
disfunzione
hanno,
solitamente,
un’età
superiore
ai
30
anni
con
attività
sedentaria
e
che
non
svolgono
attività
fisica.
Comunque
possono
essere
presenti
anche
pazienti
più
giovani,
con
precedenti
mal
di
schiena,
chirurgie
o
traumi
di
varia
natura
che
hanno
dato
luogo
ad
una
perdita
di
funzionalità
non
riconosciuta
e
non
curata
anche
un
derangement
di
piccole
dimensioni
non
trattato.
Inizialmente
questi
pazienti
si
sentono
rigidi
la
mattina
appena
svegli
e
migliorano
nel
corso
della
giornata;
ma
con
il
passare
del
tempo
la
flessione
e
l’estensione
si
riducono
e
la
rigidità
mattutina
non
si
allevia
anche
nel
corso
della
giornata.
Il
dolore
è
intermittente
e
si
produce
solo
a
fine
arco
di
movimento,
cessa
immediatamente
al
cessare
della
sollecitazione,
è
localizzato
in
prossimità
del
rachide,
non
da
luogo
ad
irradiazione
o
segno
radicolare
alcuno
e
non
presenta
il
fenomeno
della
centralizzazione..
Il
paziente
104
non
presenta
deformità,
ma
è
costante
la
perdita
di
funzione
ed
particolarità.
Una
particolare
forma,
a
cavallo
fra
derangement
e
disfunzione
è
la
radice
nervosa
aderente
ANR.
E’
espressione
di
un
trauma
vicino
ad
una
radice
nervosa
(anche
un
derangement),
che
ha
coinvolto
la
manica
durale
in
un
processo
di
cicatrizzazione
esuberante
e
non
gestito
dal
paziente.
In
questi
casi
l’esame
presenterà
elementi
sovrapponibili
alla
disfunzione
e
al
derangement,
presentando
sintomatologia
radicolare
ma
movimenti
test
tipici
della
disfunzione.
Esistono
test
differenziali
dirimenti
fra
i
due
quadri
di
cui
qui
non
si
include
la
trattazione.
La
sindrome
posturale
si
può
definire
come
una
deformazione
meccanica
di
origine
posturale
che
causa
un
dolore
di
tipo
esclusivamente
intermittente
e
senza
nessuna
irradiazione,
che
compare
quando
i
tessuti
molli
attorno
ai
segmenti
lombari
subiscono
una
sollecitazione
prolungata.
Ciò
accade
quando
una
persona
esegue
attività
che
mantengono
la
colonna
lombare
in
una
posizione
relativamente
statica
(ad
esempio,
passare
l’aspirapolvere
o
fare
giardinaggio)
o
quando
viene
mantenuta
una
posizione
a
fine
arco
per
un
tempo
necessario
a
scatenare
la
sintomatologia(ad
esempio
stando
a
lungo
seduti).
I
pazienti
con
sindrome
posturale
hanno
di
solito
un’età
non
superiore
ai
30
anni.
Frequentemente
fanno
un
lavoro
sedentario
e
sono
in
scarsa
forma
fisica.
Oltre
al
dolore
alla
schiena,
spesso
riferiscono
un
dolore
nella
zona
toracica
media
e
cervicale.
Sostengono
che
il
dolore
non
è
provocato
dal
movimento
ma
dalle
posizioni,
che
è
intermittente
ed
ogni
tanto
può
sparire
per
due
o
tre
giorni.
Spesso
il
paziente,
quando
è
più
attivo
presenta
pochi
o
nessun
problema
ad
esempio
durante
il
fine
settimana
o
i
turni
di
riposo
lavorativo.
La
ragione
è
che,
sebbene
l’attività
solleciti
maggiormente
la
colonna
lombare
rispetto
alla
postura
statica,
con
il
movimento
le
sollecitazioni
105
cambiano
in
continuazione
e,
quindi,
il
dolore
non
si
manifesta.
Le
sollecitazioni
che
derivano
da
una
postura
statica,
anche
se
più
lievi
di
quelle
derivanti
da
attività,
sono
mantenute
a
lungo,
e
possono
alla
fine
provocare
dolore.
I
test
dei
movimenti
ripetuti
non
evocano
alcun
dolore
che
si
produce
solo
mantenendo
la
postura
evocativa,
non
è
presente
deformità
ne
perdita
di
R.O.M.
Gli
esercizi
e
le
tecniche
‐ Verranno
in
questa
sede
brevemente
descritti
alcuni
esercizi
e
tecniche
in
estensione
o
in
estensione
e
rotazione
che
sono
stati
somministrati
ai
pazienti
oggetto
della
tesi.
Non
fanno
parte
del
gruppo
di
studio
pazienti
con
derangement
anteriori
e
quindi
gli
esercizi
flessori
(non
illustrati)
sono
stati
limitati
alle
sedute
finali
e
preliminari
al
ciclo
di
ginnastica
propriocettiva.
Per
l’esecuzione
delle
procedure
indicate
nel
metodo
Mckenzie
è
sufficiente
un
lettino
fisioterapico
snodabile
in
due
parti
e
un
paio
di
cuscini,
fondamentale
oltre
all’esecuzione
dell’esercizio
e
dell’eventuale
mobilizzazione
passiva
è
la
correzione
della
postura
seduta
e
eretta.
Prono
il
paziente
deve
essere
in
grado
di
mantenere
la
postura
prona
in
assenza
di
dolore,
nei
casi
più
gravi
questa
postura
banale
può
non
essere
possibile
se
non
gradatamente
e
con
l’ausilio
di
cuscini.
Si
utilizza
in
caso
di
sintomatologia
centrale
o
nell’evoluzione
di
derangement
a
sintomatologia
periferica.
Prono
in
estensione
il
paziente
deve
rimanere
prono
sollevando
testa
e
spalle
in
appoggio
sui
gomiti,
nella
caratteristica
posizione
della
sfinge
106
Fig
4.2
Estensione
mantenuta
il
soggetto
sempre
in
posizione
prona,
viene
gradatamente
portato
dal
terapista,
tramite
l’inclinazione
del
lettino
fino
alla
massima
estensione
possibile
del
rachide
lombare
e
mantenuto
in
questa
posizione
anche
per
diversi
minuti.
Si
utilizzano
queste
due
procedure
in
caso
di
sintomatologia
centrale
prossima
del
rachide
o
nell’evoluzione
di
derangement
a
sintomatologia
periferica
simmetrica
o
asimmetrica;
specie
se
il
fattore
tempo
deve
essere
considerato.
Fig
4.3
Estensione
attiva
da
prono
la
forza
verso
l’estensione
è
maggiore
anche
se
i
tessuti
molli
non
sono
rilasciati.
Nel
caso
non
apporti
miglioramenti
può
essere
effettuata
con
cintura
di
fissazione
o
sovrapressione
del
terapista
sul
segmento
interessato.
107
Fig
4.4
Mobilizzazione
in
estensione
il
paziente
è
prono
e
il
terapista
isola
e
mobilizza
il
segmento
verso
l’estensione
facendo
pressione
sui
processi
trasversi;
può
essere
introdotta
una
componente
di
rotazione
praticando
una
spinta
unilaterale,
nel
caso
si
soggetto
abbia
sintomatologia
asimmetrica.
108
Fig
4.5
Estensione
in
piedi
è
una
variante
dell’estensione
prona
che
si
utilizza
se
il
fattore
tempo
non
è
importante;
si
raggiungono
ampiezze
minori
ma
con
la
colonna
in
carico
il
nucleo
è
sottoposto
a
maggiori
pressioni
assiali.
Può
essere
mal
sopportato
inizialmente
ma
è
un
pratico
strumento
da
insegnare
nell’autotrattamento.
Pazienti
che
presentano
deformità
acute
in
scoliosi
da
sciatica
vanno
prioritariamente
trattati
per
risolvere
lo
shift
laterale;
le
procedure
in
estensione,
se
applicate
troppo
precocemente
potrebbero
fare
migrare
il
disco
lateralmente
e
peggiorare
la
sintomatologia.
Fig
4.6
109
Autocorrezione
dello
shift
il
paziente
cerca
di
riguadagnare
una
corretta
posizione
attraverso
uno
shift
contro
laterale
del
bacino.
Fig
4.7
Correzione
passiva
dello
shift
il
terapista
aiuta
il
paziente
nella
correzione
attraverso
spinte
in
ortostatismo
mobilizzazione
in
rotazione
da
prono
o
da
supino
o,
come
illustrato
in
figura,
tramite
una
estensione
mantenuta
con
traslazione
del
bacino.
Fig
4.8
110
La
successione
di
queste
procedure
brevemente
elencate,
è
da
valutare
secondo
l’evoluzione
sintomatologica
di
ogni
paziente
e
segue
il
criterio
della
cosiddetta
“progressione
delle
forze”
della
terapia
meccanica.
L’efficacia
di
questa
progressione
è
individuata
da
Mckenzie
(R.
Mckenzie
1998)
in
una
dinamica
prettamente
discale,
ma
al
giorno
d’oggi,
sulla
base
delle
evidenze
e
degli
studi
sulle
tecniche
applicabili
alla
lombalgia,
una
visione
così
univoca
potrebbe
quasi
definirsi
semplicistica.
Nell’ambito
dello
studio
in
oggetto
sono
stati
prevalentemente
individuati
derangement
posteriori
con
disfunzioni
in
estensione;
a
questo
punto
del
trattamento
il
paziente
inizia
la
rieducazione
volti
al
recupero
dei
movimenti
ritenuti
“lesivi”,
e
viene
quindi
reintrodotto
gradatamente
a
gradi
di
flessione
sempre
maggiori
e
al
controllo
tonico
posturale
grazie
al
protocollo
di
propriocezione
lombare
dell’
O.C.
di
Sanremo
(A.
Carzo,
A.Manelli,
M.Oliveira
2011).
4.2
Ginnastica
propriocettiva
per
la
colonna
Nozioni
E’
noto
che
nell’uomo
il
dolore
influenza
i
sistemi
motori
,
trigeminali
nonché
le
aree
corticali
motorie
e
somatosensoriali.
Queste
osservazioni
suggeriscono
che
il
dolore
potrebbe
influenzare
i
processi
di
controllo
della
postura
e
del
movimento;
generando
dunque
nuove
algie
locali
e
a
distanza,
perpetrando
il
dolore
che
lo
ha
generato
e
causando
ipomobilità
del
segmento,
del
tratto
e
del
rachide
in
toto.
(Rossi
et
al
1998,
1999,
2003).
La
rigidità
che
sopravviene,
ha
una
componente
propriamente
111
neurofisiologica
che
trova
spiegazione
nel
meccanismo
della
tendomiosi,
secondo
il
quale
le
strutture
muscolari
agenti
su
determinate
articolazioni
ricevono
afferenze
dalle
capsule
articolari,
qualora
alcune
capsule
vengano
a
subire
un
insulto,
i
muscoli
di
questa
tributari
vengono
posti
in
uno
stato
di
contrattura
volto
ad
attenuarne
la
sofferenza.
E’
importante
inoltre
sottolineare,
nella
genesi
di
questa
rigidità,
anche
l’aspetto
psicologico,
in
quanto
l’atteggiamento
fear
avoidance
dei
soggetti
lombalgici
contribuisce
a
bloccare
il
tratto
in
posizione
antalgica.
Frequentemente
nei
soggetti
colpiti
da
dolore
lombare
(specialmente
se
cronici),
il
dolore
diventa
l’unica
informazione
proveniente
da
tale
tratto
e
la
propriocezione
risulta
spesso
significativamente
alterata
(J.
H.
Lehman
2004).
Studi
pubblicati
sull’autorevole
rivista
Spine
(Radebold
A.,
Cholewicki
J.,
Polzhofer
G.K.,
Greene
2001)
evidenziano
che
in
pazienti
con
dolore
lombare
la
latenza
della
risposta
degli
erettori
spinali
alle
improvvise
variazioni
di
carico
è
maggiore
rispetto
ai
soggetti
normali,
individuando
la
causa
tale
ritardo
nelle
strutture
propriocettive,
ed
in
particolare
degli
Organi
tendinei
del
Golgi,
non
più
capaci
correttamente
di
modulare
la
stiffness
muscolare
in
rapporto
alle
esigenze
posturali.
In
queste
condizioni
è
facile
intuire
come
possa
instaurarsi
un
vizio
posturale
che
può
portare
a
retrazioni
adattive
e
fibrosi,
tanto
più
se
in
presenza
di
uno
stato
infiammatorio
o
di
un
trauma
pregresso.
Lo
stesso
Mckenzie
(R.
Mckenzie
1998)
individua
nella
ipomobilità
del
tratto
lombare
una
causa
di
disfunzione
quasi
certe
nel
paziente
con
derangement
che
residuerà
nella
quasi
totalità
dei
casi
una
rigidità
anche
dopo
la
riduzione
del
problema
discale.
La
ginnastica
propriocettiva
per
la
colonna
secondo
il
protocollo
dell’
Ospedale
Civile
di
Sanremo
nel
contesto
di
questo
studio
è
stata
utilizzata
nelle
ultime
sedute
del
trattamento
con
lo
scopo
di
112
recuperare
la
sensibilità
cinestesica,
ma
non
solo,
e
di
mantenere
una
postura
corretta
in
statica
e
durante
le
attività
funzionali.
Una
volta
istruito
correttamente
il
paziente,
questi
esercizi
possono
essere
proseguiti
a
domicilio
e
rientrare
nella
logica
di
auto
trattamento
di
cui
sopra.
Gli
esercizi
del
protocollo
dell’equipe
di
riabilitazione
O.C.
Sanremo
Gli
esercizi
comunemente
utilizzati
per
l’allenamento
della
propriocezione
sono
basati
su
esercitazioni
che
inducono
la
muscolatura
a
reagire
utilizzando
il
pieno
funzionamento
di
tutte
le
aree
di
informazione,
affinché
ci
sia
una
corrispondente
e
appropriata
risposta
motoria
alla
situazione
posturale.
Gli
esercizi
di
propriocettivi
possono
essere
eseguiti
con
piedi
in
appoggio
al
suolo
con
l’uso
di
alcuni
semplici
attrezzi:
•
Tavoletta
di
Freeman
,
rotonda
circa
40
cm
di
diametro
•
Tavoletta
di
Freeman
rettangolare
•
Palline
da
tennis
comuni
•
Skateboard
Sono
inoltre
richiesti
uno
sgabello
con
seduta
rigida
ed
angolata
di
90°
ed
uno
specchio
possibilmente
quadrettato.
Sono
illustrati
di
seguito
le
principali
modalità
di
esercizio.
E’
opportuno
sottolineare
che
il
protocollo
dell’O.C.
di
Sanremo
è
uno
strumento
terapeutico
assai
più
complesso
la
cui
efficacia
è
stata
dimostrata
in
clinica
ed
da
altri
studi
(Carzo
2011),
e
che
nel
contesto
di
questa
tesi
abbiamo
ne
selezionato
ed
utilizzato
solo
una
piccola
parte.
113
Esercizio
1
Paziente
seduto
su
una
tavoletta
rotonda,
posta
su
una
pedana
rigida,
mani
appoggiate
sul
torace,
piedi
in
appoggio
su
un'altra
tavoletta
rotonda
o
rettangolare
(per
facilitare
l’esercizio),
sguardo
rivolto
all’altezza
delle
spalle
verso
uno
specchio
in
modo
da
notare
lo
svolgimento
dell’esercizio.
Lo
scopo
è
mantenere
l’equilibrio
ricercando
i
movimenti
anticipatori
della
colonna,
quindi,
gli
aggiustamenti
devono
essere
effettuati
a
livello
del
bacino;
qualora
non
fosse
così,
il
paziente
dovrà
ricominciare
dalla
posizione
zero
e
ritornare
ad
effettuare
il
mantenimento
della
statica
in
modo
corretto.(Fig.
4.9)
Fig
4.9
Esercizio
2
Variante
dell’esercizio
uno:
paziente
nella
medesima
posizione
ad
eccezione
degli
arti
superiori
che
in
questo
caso
rimangono
liberi,
tramite
l’utilizzo
di
una
pallina
da
tennis,
si
richiedono
dei
palleggi
a
muro
prima
con
la
mano
destra
e
poi
con
la
sinistra;
lo
scopo
dell’esercizio
è
sempre
di
mantenimento
dell’equilibrio
a
livello
della
114
colonna,
che
in
questo
caso
sarà
reso
più
difficile
dai
palleggi
effettuati
con
la
pallina.(Fig.
4.10)
Fig
4.10
Esercizio
3
Paziente
seduto
su
tavoletta
rotonda,
braccia
tese
in
avanti
all’altezza
delle
spalle,
la
tavoletta
posta
sotto
i
piedi
sarà
girata
al
contrario,
si
richiede
al
paziente
di
appoggiare
il
tallone
sulla
punta
della
mezza
sfera
della
tavoletta
e
di
sollevare
leggermente
l’altro
piede,
effettuando
l’esercizio
prima
con
appoggio
tallone
destro
e
poi
con
quello
sinistro.(Fig.
4.11)
115
Fig
4.11
Esercizio
4
Paziente
seduto
su
tavoletta
rotonda,
braccia
tese
in
avanti
all’altezza
delle
spalle,
piedi
appoggiati
su
uno
skateboard,
il
paziente
dovrà
cercare
di
spostare
lo
skateboard
a
destra
e
a
sinistra
cercando
di
tenere
lo
sguardo
fisso
avanti
oltre
che
rimanere
in
equilibrio.
(Fig.
4.12)
Fig
4.12
116
Per
aumentare
il
livello
di
difficoltà,
tutti
gli
esercizi
proposti
possono
essere
eseguiti
ad
occhi
chiusi
o
a
capo
reclinato.
Senza
l’uso
della
componente
visiva
e
riducendo
la
funzione
vestibolare,
l’esecuzione
corretta
degli
esercizi
riposerà
maggiormente
sulla
componente
propriocettiva.
I
pazienti
sono
stati
introdotti
agli
esercizi
propriocettivi
solo
dopo
avere
ottenuto
una
riduzione
stabile
del
derangement.
4.3
L’educazione
A
prescindere
dalle
scelte
terapeutiche,
che
possono
essere
molteplici,
l’educazione
del
paziente
oggi,
ed
in
particolare
nel
nostro
studio,
è
vista
sempre
più
come
un
punto
fondamentale
del
percorso
riabilitativo.
Possiamo
affermare
quindi,
come
già
espresso
in
diverse
pubblicazioni
da
Mckenzie,
che
il
paziente
stesso
deve
essere
l’artefice
principale
del
percorso
di
guarigione
e
al
fisioterapista
va
il
compito
di
guidarlo
in
questo
cammino
di
autonomia.
Fornire
informazioni,
aumentare
la
comprensione
del
problema
e
dare
consigli
per
la
sua
gestione,
sono
gli
strumenti
dell’intervento
educativo.
Lo
scopo
è
prevenire
comportamenti
da
evitamento
e
atteggiamenti
catastrofici,
promuovendo
l’azione
attiva
del
paziente
,
e
riducendo
quindi
il
rischio
di
recidive
o
cronicizzazione.
Al
fine
di
completare
il
percorso
educativo
proposto
al
paziente
durante
il
trattamento
nel
corso
dell’ultima
seduta
è
stato
consegnato
ed
illustrato
un
breve
opuscolo
da
noi
redatto,
contenente
diversi
consigli
posturali
ed
alcuni
esercizi;
con
questo
abbiamo
inteso
fornire
al
paziente
uno
strumento
preventivo
e
terapeutico
semplice
ed
immediato
(in
auto
somministrazione)
per
scongiurare
o
tenere
sotto
117
controllo
un
eventuale
ripresentarsi
della
sintomatologia
algica.
4.4
Selezione
dei
pazienti
I
soggetti
inclusi
in
questo
gruppo
di
studio
sono
stati
filtrati
attraverso
i
seguenti
criteri
di
inclusione:
• Paziente
compliante
• Che
presenta
la
tipica
sintomatologia
definita
da
Nachemson
(Nachemson
1976)
nei
suoi
studi:
“lombalgia
acuta
o
sub‐acuta,
caratterizzata
da
dolore
penetrante
che
insorge
lentamente
o
improvvisamente,
con
o
senza
irradiazione
alla
natica
o
appena
lungo
la
gamba
e
concomitante
limitazione
della
mobilità.
Quando
il
dolore
diviene
cronico,
è
meno
forte
e
continua
per
più
di
due
mesi”.
• Non
diagnosi
di
certa
o
sospetta
di
patologie
maligne,
infettive
od
occupanti
spazio.
• Almeno
un
pregresso
episodio
algico
riferibile
a
quello
in
atto.
• Indicazioni
al
trattamento
meccanico
ovvero
almeno
una
direzione
libera
di
trattamento.
• Età
compresa
fra
i
18
e
i
65
anni.
• Punteggio
scala
T.S.K.
minore
o
uguale
a
44/52.
• Assenza
di
evidenti
segni
di
grave
sofferenza
neurologica.
118
RISULTATI
119
Per
verificare
l’efficacia
dei
trattamenti
a
cui
sono
stati
sottoposti
i
dieci
pazienti,
abbiamo
considerato
i
parametri
già
discussi
nel
Capitolo
3
relativamente
ai
criteri
I.C.F,
al
dolore
e
allo
stato
di
salute
generale
attraverso
la
somministrazione
i
test,
in
occasione
della
prima
visita
(T0)
e
dopo
un
mese
e
mezzo
dalla
fine
del
trattamento
(T1).
La
scala
T.S.K.
è
stata
somministrata
solo
a
T0
in
quanto
utilizzata
come
elemento
predittivo.
I
risultati
ottenuti
sono
stati
espressi
come
media,
mediana
e
deviazione
standard
(DS).
L’analisi
statistica
della
differenza
della
media
è
stata
eseguita
usando
il
test
di
Student
(Test
t)
utilizzando
il
software
SPSS
ver.18.
Il
valore
di
alpha
è
stato
considerato
0.05.
Pertanto
il
valore
di
p
<
0.05
è
stato
valutato
come
significativo.
Il
questionario
T.S.K.
ha
definito
due
pazienti
con
valori
estremi:
il
paziente
numero
6
esprimeva
valori
sovrapponibili
a
quelli
un
soggetto
non
lombalgico
(21/52)
il
paziente
numero
3
invece
ha
espresso
un
punteggio
che
secondo
gli
studi
della
University
of
Massachusetts
suggerirebbe
la
possibilità
di
un
approccio
psicoterapeutico
in
associazione
al
trattamento
fisioterapico
(44/52).
(AA.VV
University
of
Massachusetts
2012).
Relativamente
al
dolore
percepito
indagato
tramite
la
scala
N.R.S.
si
può
notare
una
significativa
diminuzione
(5,50±0,94
versus
0,80±0,92);
il
test
t
di
Student
risulta
significativo
con
p<0.01.
Relativamente
all’aspetto
strutturale
e
funzionale
indagato
tramite
il
test
Finger
tip
to
floor
si
può
notare
un
significativo
miglioramento
del
R.O.M.
libero
da
dolore
durante
la
flessione
(22,95±9,12
versus
8,80±6,66);
il
test
t
di
Student
risulta
significativo
con
p<0.01.
Relativamente
alle
attività,
indagate
tramite
l’attribuzione
di
un
120
punteggio
nell’
O.D.I.
si
può
notare
una
significativa
diminuzione
(28,85±8,11
versus
8,10±10,84);
il
test
t
di
Student
risulta
significativo
con
p<0.01.
Relativamente
alla
partecipazione,
indagata
tramite
un
apposito
questionario
si
può
notare
un
significativo
miglioramento
(2,60±0,52
versus
0,60±0,70);
il
test
t
di
Student
risulta
significativo
con
p<0.01.
Sottolineiamo
a
conclusione
dell’esposizione
dei
risultati
ottenuti,
che
il
paziente
numero
3,
cui
si
è
fatto
cenno
in
relazione
al
suo
alto
valore
T.S.K.
ha
fornito
valori
discordanti
rispetto
agli
altri
soggetti.
121
TABELLA
1
122
CASO
CLINICO
123
6.1
Il
paziente
Anamnesi
•
Chiara
C.
44
anni.
•
Attività
lavorativa
casalinga,
ha
dovuto
interrompere
l’attività
in
azienda
agricola
di
famiglia
in
quanto
non
riesce
a
svolgere
alcuna
attività
fisica
prolungata
ne
a
lavorare
in
ufficio
contabilità
vista
l’impossibilità
di
mantenere
la
posizione
seduta.
•
Attività‐ludica
sportiva
ciclismo
non
più
praticata.
•
La
limitazione
che
manifesta
a
colloquio
è
quella
di
non
potere
guidare
l’automobile,
ed
abitando
fuori
città
non
può
frequentare
parenti
e
amici
né
svolgere
commissioni
per
la
famiglia.
•
Sintomi
ad
insorgenza
lombare
che
si
propagano
con
dolore
fino
al
ginocchio
e
disestesie
(saltuarie)
fino
alla
faccia
laterale
del
piede
sinistro.
Presenti
da
circa
13
mesi.
La
comparsa
dei
sintomi
fanno
seguito,
riferisce,
ad
un
intervento
di
asportazione
di
neurinoma
cervicale
durante
la
cui
convalescenza
è
stata
obbligata
a
dormire
seduta
per
circa
45
giorni.
•
Peggiora
in
flessione,
in
posizione
seduta,
in
decubito
laterale
e
nei
movimenti
bruschi
del
rachide,
che
all’esame
risulta
marcatamente
ipotonico
in
toto,
sia
nella
componente
tonica
che
fasica.
•
Migliora
camminando
•
Salute
generale
buona
nessuna
altra
nota
124
Esame
fisico
•
Postura
seduta
molto
scorretta
con
il
rachide
in
completa
cifosi,
stazione
eretta
mantenuta
con
riduzione
completa
della
lordosi
lombare;
shift
laterale
destro.
La
correzione
della
postura
seduta
rende
la
posizione
sopportabile.
•
Notevole
perdita
di
ampiezza
nel
movimento
di
flessione,
che
risulta
dolorosa
oltre
che
limitata;
si
annota
anche
deficit
in
estensione
alla
quale
la
paziente
riferisce
sensazione
di
rigidità;
gli
altri
movimenti
risultano
liberi
e
indolori
ma
un
generale
quadro
ipotonico
li
rende
poco
fluidi.
•
Non
si
evidenziano
deficit
delle
sensibilità,
ma
uno
sfumato
deficit
stenico
bilaterale.
•
In
piedi
la
flessione
singola
e
la
flessione
ripetuta
producono
e
peggiorano
si
sintomi
locali
e
a
distanza.
L’estensione
singola
provoca
un
dolore
centrale
che
viene
prodotto
ma
senza
peggiorare
durante
le
estensioni
ripetute.
•
In
decubito
supino
la
flessione
riproduce
i
sintomi
locali
e
a
distanza
e
l’estensione
produce
solo
un
dolore
centrale.
•
Lo
shift
laterale
destro
produce
e
peggiora
la
sintomatologia,
se
ripetuto,
e
di
contro
lo
shift
laterale
sinistro
ripetuto
la
migliora.
•
SLR
positivo
a
60°,
indicativo
di
probabile
dicopatia
generica.
•
Tutti
gli
altri
test
elencati
nel
capitolo
3
sono
risultati
negativi.
125
Valutazione
secondo
il
modello
biopsicosociale
•
N.R.S:
5+
•
Finger
tip
to
floor:
35
cm
•
SF12
PCS:
39,5%
•
SF
12
MCS:
33,4%
•
Oswestry
disability
index:
30%
•
Deficit
partecipazione
percepito:
3/5
•
T.S.K.:
26/52
•
Richiesta
del
paziente:
tornare
a
poter
condurre
l’automobile
per
più
di
15
minuti
e
riacquisire
una
salute
sufficientemente
buona
per
poter
riprendere
a
lavorare
e
praticare
attività
ludico‐sportiva.
Esami
strumentali
La
paziente
presenta
una
RMI
risalente
a
45
giorni
precedenti
che
evidenzia
protrusione
discale
minima
L3/L4
in
assenza
di
conflitto
radicolare
e
protrusione
importante
in
sede
L5/S1
con
compressione
della
radice
S1
con
edema.
Canale
rachideo
nei
limiti
e
riduzione
della
lordosi
lombare.
Ipertrofia
dei
massicci
articolari.
Note
La
paziente
appare
molto
provata
dal
dolore
e
dalla
impossibilità
di
svolgere
le
normali
attività.
Pur
essendo
ben
predisposta
e
fiduciosa
verso
il
trattamento
si
nota
rassegnazione
riguardo
il
fatto
che
il
suo
sia
un
problema
di
difficile
risoluzione
con
il
quale
sarà
destinata
a
convivere
e
per
il
quale
inizia
a
cercare
strategie
di
compenso,
fisico
e
126
sociale.
Chiara
C.
manifesta
vivo
interesse
per
il
trattamento
e
fin
da
subito
si
dimostra
ricettiva
e
collaborante.
Valutazione
fisioterapica
Il
soggetto
appare
adatto
ad
essere
incluso
nel
trattamento
meccanico
propriocettivo.
Secondo
Mckenzie
si
potrebbe
inquadrare
come
derangement
asimmetrico
con
sintomatologia
sotto
al
ginocchio
e
in
presenza
di
shift
contro
laterale;
sovrapposto
al
derangement
si
ipotizza
una
sindrome
disfunzionale.
Nonostante
le
immagini
diagnostiche
mostrino
conflitti
e
compressioni,
la
sintomatologia
lamentata
dal
soggetto,
e
obiettivata
in
sede
di
valutazione,
non
evidenzia
la
tipica
sintomatologia
radicolare
riconducibili
a
importanti
fatti
erniari.
Il
trattamento
propriocettivo
appare
quanto
mai
appropriato
in
quanto
la
paziente
evidenzia
un
marcato
decondizionamento
e
mancanza
di
coordinazione
durante
i
movimenti
del
rachide
che
risultano
lenti
ed
impacciati
Il
principio
di
trattamento
scelto
è
quell’estensione
e
dell’estensione
abbinata
a
shift
laterale
sinistro,
esercizi
di
rinforzo
della
catena
posteriore
fasica
e
dei
muscoli
tonico‐posturali
del
rachide
verranno
inseriti
quando
si
otterranno
riduzione
della
sintomatologia
dolorosa
e
centralizzazione.
Si
introdurranno
poi
gli
esercizi
propriocettivi
per
la
colonna
secondo
il
protocollo
dell’O.C.
di
Sanremo
alfine
di
ripristinare
controllo
e
coordinazione
del
rachide.
127
6.2
Note
di
trattamento
Verranno
elencati
esclusivamente
i
dati
salienti
per
le
sedute
sostenute.
I
seduta:
Colloquio
con
la
paziente
al
fine
di
spiegare
gli
obiettivi
terapeutici
le
ipotesi
valutative
e
le
tecniche
cui
verrà
sottoposta.
Correzione
della
postura
seduta
e
istruzione
all’uso
del
rotolo
lombare
Consigli
ergonomici
sulla
posizione
di
guida
La
correzione
manuale
da
parte
del
terapista
dello
shift
laterale,
pur
portando
giovamento
immediato
risulta
solo
in
parte
mantenibile
probabilmente
a
causa
di
pregresso
atteggiamento
scoliotico.
Istruzione
su
come
alzarsi
dal
letto.
Consigli
di
igiene
posturale.
Esercizio
prono
in
estensione
(cap
4
figura
4.2)
Prescrizione
di
programma
domiciliare
basato
sulle
correzioni,
l’igiene
posturale
e
l’esercizio
prono
in
estensione.
Si
insiste
ulteriormente
sul
coinvolgimento
del
soggetto
assicurandoci
che
abbia
compreso
la
natura
dei
suoi
dolori
(ipotizzata
in
sede
di
valutazione)
e
che
ne
condivida
i
criteri
di
gestione
e
trattamento;
è
per
noi
fondamentale
che
il
paziente
non
rimanga
soggetto
passivo
del
progetto.
II
seduta:
La
paziente
riferisce
giovamento.
Verifica
della
comprensione
delle
istruzioni
fornite.
Verifica
del
programma
domiciliare.
Prosegue
il
trattamento.
Introduzione
dell’estensione
mantenuta
su
lettino
(cap
4
fig
4.3)
128
III
seduta:
La
paziente
riferisce
giovamento.
Verifica
della
comprensione
delle
istruzioni
fornite.
Verifica
del
programma
domiciliare.
Prosegue
il
trattamento.
Aumento
dell’escursione
in
estensione
mantenuta
su
tavola
Introduzione
della
componente
laterale
durante
l’estensione.
Inizio
di
blandi
esercizi
attivi
per
gli
estensori
del
rachide.
IV
seduta:
La
paziente
riferisce
giovamento.
Verifica
della
comprensione
delle
istruzioni
fornite.
Verifica
del
programma
domiciliare.
Prosegue
il
trattamento
con
il
mantenimento
della
componente
laterale.
Mobilizzazione
in
rotazione
(cap
4
fig
4.4)
Intensificazione
del
rinforzo
sulla
muscolatura
estensoria
del
rachide.
Intensificazione
del
programma
domiciliare.
V
seduta:
La
paziente
riferisce
giovamento,
la
sintomatologia
distale
è
scomparsa;
permane
dolore
centrale
blando
e
rigidità,
forse
dovuta
in
parte
all’ipertrofia
dei
massicci
articolari.
Verifica
della
comprensione
delle
istruzioni
fornite.
Verifica
del
programma
domiciliare.
Prosegue
il
trattamento
Introdotti
gli
esercizi
in
estensione
attiva
da
prono
(cap
4
figura
4.4)
con
e
senza
componente
laterale.
Introduzione
agli
esercizi
propriocettivi.
129
Esercizio
1
(cap
4
fig
4.9).
Adattamento
del
programma
domiciliare
al
quale
sono
aggiunte
le
estensioni
da
in
piedi
e
blandi
esercizi
propriocettivi.
VI
seduta:
La
paziente
riferisce
scomparsa
dei
sintomi
distali
e
loco‐regionali,
permane
tuttavia
rigidità.
Verifica
del
programma
domiciliare.
Segue
programma
in
palestra.
Vengono
intensificate
le
estensioni
attive
e
il
lavoro
di
rinforzo
degli
erettori
spinali.
Si
aggiungono
esercizi
di
rinforzo
selettivo
del
quadricipite
femorale
e
di
allungamento
dei
muscoli
ischio
crurali.
Training
propriocettivo
della
colonna
esercizi
1
e
2
(cap.
4
fig
4.9
e
4.10).
Modifica
del
programma
domiciliare
dove
le
estensioni
attive
da
prono,
eseguite
ad
intervalli
regolari
vengono
sostituite
da
strategie
di
“compenso
alla
flessione
errata”
tramite
estensioni
in
stazione
eretta.
Contestualmente
alla
modifica
del
programma
domiciliare
si
è
portato
in
questa
seduta
particolare
accento
ai
consigli
di
igiene
posturale
ed
ergonomici
precedentemente
forniti
alla
paziente.
VII
seduta:
La
paziente
riferisce
miglioramento
e
si
dice
soddisfatta
in
quanto
ieri
ha
svolto
alcune
blande
attività
nell’uliveto
senza
provare
dolore,
ed
oggi
si
è
recata
al
trattamento
guidando
l’automobile.
Introdotta
l’estensione
attiva
con
cinghia.
130
Inizia
in
questa
seduta
il
recupero
della
flessione
del
rachide
con
esercizi
a
lettino
passivi
e
attivi;
alla
conclusione
degli
esercizi
in
flessione
seguono
dieci
estensioni
da
in
piedi.
Intensificato
il
rinforzo
degli
erettori
del
rachide
e
dell’apparato
estensore
degli
AAII.
La
parte
maggiore
della
seduta
è
dedicata
agli
esercizi
propriocettivi.
Esercizio
1,
esercizio
2
ed
esercizio
3
proposto
anche
con
la
variante
della
palla
Bobath.
(cap
4
fig
4.9
4.10
4.11)
VIII
seduta:
La
paziente
riferisce
che
il
miglioramento
è
stabile.
Verifica
del
programma
domiciliare.
Segue
programma
in
palestra.
Introduzione
di
esercizi
da
seduta
e
da
in
piedi
per
il
recupero
della
flessione.
Segue
intenso
rinforzo
degli
estensori
del
rachide
e
degli
AAII.
Gran
parte
della
seduta
è
dedicata
alla
parte
propriocettiva
che
viene
proposta
negli
esercizi
1
2
3
e
4
introducendo
varianti.
La
paziente
ora
inizia
svolgere
questi
esercizi
con
disinvoltura,
mentre
nelle
prime
sedute
l’impaccio
risultava
evidente
e
l’esercizio
faticoso.
Modifica
del
programma
domiciliare:
mantenuti
gli
esercizi
propriocettivi,
alcuni
esercizi
flessori
vengono
ora
introdotti,
cui
deve
sempre
seguire
una
serie
di
estensioni
da
prono;
le
estensioni
da
in
piedi
sono
ora
svolte
solo
come
compenso
ad
una
flessione
non
corretta.
Rinforzo
dei
consigli
di
igiene
posturale.
IX
seduta:
Paziente
stabile.
Riporta
di
attività
in
campagna
e
tragitto
in
automobile
senza
dolore.
131
Riferisce
di
sentirsi
più
sicura
e
forte
in
ogni
circostanza
della
quotidianità.
Segue
programma
di
rinforzo
estensorio.
Segue
programma
di
recupero
della
flessione.
Esercizi
propriocettivi
che
la
paziente
ormai
svolge
con
scioltezza,
in
autonomia
e
manifestando
gradimento.
Modifica
programma
domiciliare
che
viene
praticamente
ridotto
al
minimo:
le
estensioni
devono
essere
compiute
solo
a
seguito
del
mantenimento
prolungato
di
una
flessione
e
sono
svolte
dal
paziente
ogni
qualvolta
questo
avverta
una
sensazione
dolorosa
provenire
dall’area
lombare.
X
seduta:
Paziente
stabile.
Segue
con
estensioni
attive
e
rinforzo
apparati
estensori.
Segue
training
propriocettivo
lombare.
La
paziente
viene
rivalutata:
La
flessione
risulta
completa
e
indolore
nei
movimenti
singoli
e
ripetuti,
provoca
dolenzia
solo
se
mantenuta;
l’estensione
continua
a
suscitare
una
sensazione
definita,
dal
soggetto,
come
rigidità
seppure
all’osservazione
risulti
libera;
gli
scivolamenti
laterali
sono
completi
e
indolori
in
entrambe
le
direzioni,
ma
permane,
seppur
in
maniera
minore
rispetto
alla
prima
valutazione,
uno
shift
laterale
che
a
questo
punto
ci
sentiamo
di
definire
come
atteggiamento
piuttosto
che
antalgico.
La
posizione
seduta
risulta
comoda,
in
quanto
corretta,
lo
stesso
si
può
dire
delle
posizioni
in
decubito.
A
seguito
di
interrogatorio
la
paziente
riferisce
miglioramento
nelle
attività
funzionali
tutte
ed
esprime
fiducia
nelle
sue
possibilità
di
migliorare
ulteriormente.
132
La
seduta
si
conclude
con
un
colloquio
fra
paziente
e
terapista
e
con
la
consegna
di
un
promemoria
informativo
sulla
prevenzione
e
sulla
gestione
di
eventuali
ricadute.
6.3
Considerazioni
Al
termine
di
questo
processo
terapeutico,
ci
si
aspetta
che
il
soggetto
abbia
compreso
l’origine
del
suo
mal
di
schiena;
che
sia
inoltre
in
grado
di
individuare
e
correggere
gli
atteggiamenti
scorretti,
e
di
riconoscere
quei
“messaggi”
che
la
sua
colonna
lombare
gli
invia
e
di
mettere
in
atto
le
strategie,
apprese
durante
il
trattamento
per
scongiurare
una
possibile
ricaduta
ed
attenuare
e
gestire
il
dolore
qualora
questo
ripresenti.
Questi
presupposti
sono
fondamentali
per
ottenere
un
miglioramento
duraturo
ed
evitare
il
pericolo
di
una
cronicizzazione:
è
auspicabile
infatti
che
il
paziente
non
rimanga
soggetto
passivo
nel
trattamento
per
non
essere
soggetto
passivo
della
patologia.
Il
fatto
che
l’esperienza
dolorosa
rientri
nella
sfera
di
comprensione
del
malato
e
che
il
terapista
gli
fornisca
uno
strumento
di
gestione
immediato
rappresenta
il
primo
passo
di
questo
processo.
133
DISCUSSIONI
134
Secondo
la
moderna
concezione,
il
fenomeno
lombalgia,
origina
certo
da
stimoli
meccanici
e
chimici
vertebrali,
ma
si
esprime
integrando
alla
semplice
nocicezione
complessi
aspetti
strutturali,
funzionali,
psico‐comportamentali
e
sociali.
Assume
dunque
gli
aspetti
di
una
sindrome
complessa,
di
una
patologia
“umana”
che
sarebbe
riduttivo
definire
come
semplice
sintomatologia
algica
e
decondizionamento
fisico.
Algia,
disabilità
e
lo
svantaggio
sociale
che
ne
deriva
non
dipendono
quindi
da
fattori
puramente
fisici
o
puramente
psicologici,
ma
piuttosto
da
una
complessa
interazione
degli
stessi
nel
corso
del
tempo.
Inadeguato
appare
ormai
qualunque
approccio
valutativo
e
terapeutico
di
questo
fenomeno
complesso,
che
non
consideri
in
egual
misura
ognuno
di
questi
aspetti.
Una
visione
ampia
permetterà
a
medici,
terapisti
e
professionisti
sanitari
in
genere,
di
individuare
correttamente
quei
fattori
predittivi
che
avvieranno
il
soggetto
lombalgico
verso
un
trattamento
adeguato
ed
adattabile.
Il
più
importante
aspetto
di
questo
breve
lavoro
è
infatti
la
visione
multifattoriale
del
paziente
affetto
da
sindrome
lombalgia
complessa,
attraverso
la
scelta
di
scale
valutative
e
misure
di
out
come
che
descrivano
il
soggetto
a
360°.
Lo
studio
sembra
dimostrare
l’efficacia
di
questa
combinazione
di
scale
valutative,
fornendo
nel
complesso
una
lettura
esaustiva
e
soddisfacente
tanto
dei
risultati
terapeutici
quanto,
elemento
forse
ancora
più
interessante,
delle
ipotesi
prognostiche
e
predittive
ricavabili
da
una
attenta
analisi
dei
dati
raccolti.
Questi
evidenziano,
una
volta
di
più,
quanto
le
aspettative,
la
componente
educazionale
e
la
motivazione
del
paziente,
giochino
un
ruolo
fondamentale
nel
processo
135
riabilitativo‐
terapeutico.
A
questo
proposito,
oltre
al
caso
clinico
esposto
nel
Capitolo
6,
proponiamo
l’analisi
dei
valori
espressi
da
alcuni
pazienti
a
T0
e
a
T1,
con
particolare
attenzione
al
valore
prognostico
che
alcuni
strumenti
hanno
evidenziato
nel
contesto
di
questo
studio;
in
particolare
la
scala
T.S.K.
e
il
questionario
SF12.
I
criteri
interpretativi
sono
stati
ricavati
da
recente
letteratura
il
cui
riferimento
si
può
trovare
in
bibliografia:
“SF12
Interpreting”
University
of
Massachusetts
Medical
School
2012,
e
“T.S.K.
summary:
occupational
therapy
and
program”
University
of
Western
Sidney.
A
T0
il
paziente
numero
3
Bartolomeo
C.
ha
espresso
un
punteggio
molto
elevato
nella
scala
T.S.K.
44/52,
e
un
valore
molto
basso
37%
della
componente
M.C.S.
del
questionario
SF12.
Secondo
i
criteri
interpretativi
di
cui
sopra
questi
valori
fanno
riferimento
a
soggetti
per
cui
si
potrebbe
prevedere
anche
il
coinvolgimento
di
uno
psicoterapeuta
all’interno
del
team
riabilitativo.
Inoltre
al
momento
della
prima
valutazione
il
soggetto,
reduce
da
numerosi
fallimenti
terapeutici,
si
era
da
subito
dimostrato
rassegnato
e
poco
compliante,
tale
atteggiamento
ha
subito
una
lieve
modificazione
durante
il
corso
del
trattamento,
tuttavia
non
è
stato
possibile
coinvolgere
attivamente
il
soggetto
che
raramente
dichiarava
di
svolgere
il
programma
domiciliare
di
esercizi
e
di
seguire
le
indicazioni
di
igiene
posturale
proposte.
A
T1
l’indicatore
del
dolore,
N.R.S.
passa
da
un
valore
di
5
ad
un
valore
di
1,
e
la
Physical
Component
Summarydel
questionario
SF
12
esprime
un
significativo
miglioramento
di
dieci
punti
percentuali
(pur
restando
al
di
sotto
dei
valori
medi
della
University
of
Massachusetts
).
Ciononostante
il
Mental
Component
Summary
della
SF12
rimane
invariato
e
il
paziente
non
esprime
miglioramenti
nell’indice
di
disabilità
O.D.I.
e
si
dice
solo
parzialmente
soddisfatto
nella
richiesta
di
136
aiuto
espressa
al
momento
della
prima
valutazione.
Il
paziente
numero
3
quindi
pur
manifestando
una
diminuzione
del
dolore,
non
ha
risolto
quelle
problematiche
della
vita
quotidiana
che
si
sono
instaurate
a
seguito
della
lombalgia.
Questo
ci
conferma
che
per
tale
soggetto
un
approccio
non
esclusivamente
fisioterapico
sarebbe
stato
più
opportuno
ed
indica
quanto,
almeno
in
questo
caso,
gli
indicatori
dedicati
(T.S.K.
e
M.S.C.
di
SF12)
si
siano
rivelati
corretti.
A
T0
il
paziente
numero
6
Lucio
G.
presentava
un
valore
T.S.K.
di
21/52,
e
un
punteggio
percentuale
di
58
nella
componente
M.C.S.
della
scala
SF12,
il
suo
atteggiamento
nei
confronti
del
movimento,
dell’attività
fisica,
del
trattamento
e
la
sua
paura
della
malattia
erano
sovrapponibili
a
quelle
di
un
soggetto
asintomatico.
Come
evidenziato
da
questi
strumenti,
in
sede
di
prima
valutazione
inoltre
Lucio
G.,
pur
essendo
reduce
da
diversi
interventi
terapeutici
non
andati
a
buon
fine,
si
dimostrava
attento
e
motivato.
A
T1
l’indicatore
della
funzione
biologica
(Finger
tip
to
floor)
subiva
una
minima
variazione,
mentre
tutti
gli
altri
indicatori,
specialmente
quelli
legati
alle
attività
della
vita
quotidiana,
erano
notevolmente
migliorati.
Questo
indica
l’importanza
della
scelta
di
strumenti
valutativi
adeguati
che
siano
in
grado
di
fornire
al
terapista
una
chiave
interpretativa
del
quadro
patologico,
ma
ancora
prima
del
paziente
in
tutte
le
sue
molteplici
sfaccettature.
137
Bibliografia
•
AA.VV.
“Interpreting
SF12” University
of
Massachusetts
Medical
School
2012
• AA.VV.
(2008)
Guida
all’atlante
di
anatomia
umana
II
edizione”.
Ed
Elsevier
Masson;
159;530;540
• Albert
HB,
Hauge
E,
Manniche
“Centralization
in
patients
with
sciatica:
are
pain
responses
to
repeated
movement
and
positioning
associated
with
outcome
or
types
of
disc
lesions?”
C.
Eur
Spine
J.
2012.
• Armstrong
J.R.
“Lumbar
disc
lesion”
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afferents
on
interneurones
143
mediating
group
I
non‐
reciprocal
inhibition
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extensor
ankle
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knee
muscles
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Jayson
1976
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Ringraziamenti
É
doveroso
un
sentito
ringraziamento
a
tutti
coloro
che
hanno
creduto
in
me
e
nelle
mie
capacità.
Il
mio
percorso
di
studi,
culminato
con
il
lavoro
svolto
nella
mia
tesi
di
laurea,
è
frutto
di
costante
impegno
e
dedizione,
che
devono
essere
la
forma
mentis
di
ogni
buon
fisioterapista.
Un
sentito
ringraziamento
al
Dott.
Alessandro
Manelli
e
al
Ft.
Mirco
Oliveira,
per
avermi
concesso
di
frequentare
e
di
usufruire
del
reparto
di
Fisiatria
dell’Ospedale
Civile
di
Sanremo,
e
per
aver
curato,
con
grande
disponibilità
e
professionalità,
la
preparazione
della
mia
tesi
di
laurea.
Un
grazie
speciale
va
alle
Fis.
Coordinatrici
del
Corso
di
Laurea,
Cinzia
Laura
e
Fortunata
Romeo
per
l’aiuto
ed
il
costante
sostegno
che
mi
hanno
dimostrato
durante
il
mio
cammino
universitario.
Ringrazio
altresì,
tutti
i
terapisti
della
ASL1
Imperiese
ed
in
particolar
modo
il
Fis.
Luigi
Beghello
e
la
Fis
Valeria
Banaudi
per
avere
contribuito
alla
mia
formazione
e
crescita
professionale
con
i
tanti
insegnamenti
e
consigli
utili
di
cui
farò
tesoro.
Un
particolare
pensiero
è
rivolto
alla
mia
cara
Isabelle,
per
essermi
stata
vicina
in
ogni
momento
,
per
avermi
sempre
incoraggiato
nei
momenti
difficili,
e
sopportato
durante
la
preparazione
degli
esami
.
Infine
un
grazie
va
anche
e
soprattutto
a
Lidiana
che
dall’alto,
con
sguardo
materno,
veglia
su
di
me.
Estate
2012
Alessio
MELANI
146

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