Paola Somma, 2004, Casa, integrazione e segregazione, in Coin F. (ed.),
Gli immigrati, il lavoro, la casa: tra segregazione e mobilitazione, Angeli,
Milano, pp. 121-136
Casa e integrazione sociale
Affrontare il tema dei rapporti tra casa e integrazione sociale
comporta il rischio di ripetere ragionamenti e considerazioni note al
limite dell’ovvietà. Che la casa non vada esclusivamente intesa nel
senso fisico di «un tetto sopra la testa», ma che rappresenti un
indicatore fondamentale del livello di integrazione all’interno di una
determinata società e, al contempo, uno strumento decisivo per la
partecipazione di individui e di gruppi alla vita della stessa società, è
un’opinione ampiamente condivisa anche da chi guarda al problema
da posizioni ideologiche diverse e con differenti obiettivi e priorità.
A partire dalle formulazioni teoriche e dagli esperimenti messi in
opera dai riformatori sociali tra la fine dell’ottocento e gli inizi del
novecento, alla casa è sempre stata attribuita la funzione di favorire
l’educazione e l’emancipazione dei lavoratori, di essere quindi
un’indispensabile premessa alla loro integrazione. Anche molte
iniziative paternalistiche, come i villaggi e le città operaie realizzate
da alcuni imprenditori nello stesso periodo, pur motivate dall’intento
principale di legare indissolubilmente il lavoratore al luogo del
lavoro, si prefiggevano di rafforzarne l’adesione a dei valori
condivisi e l’appartenenza stabile, seppure in condizioni di
subordinazione, alla comunità. In ogni caso, che la preoccupazione
principale fosse la conquista di una maggiore dignità per le famiglie
dei lavoratori o il mantenimento di una struttura fortemente
gerarchizzata, la disponibilità di una casa era considerata la prima
tappa dell’inserimento in un nucleo di vita associata, mentre la
diffusa inadeguatezza della condizione abitativa era percepita come
un pericoloso segnale di mancata integrazione sociale. Dopo quei
primi tentativi, il legame tra casa e integrazione non ha mai smesso
di attrarre l’attenzione di studiosi di variegata formazione
disciplinare e resta tuttora oggetto di dibattito e scontro politico per i
legislatori e gli amministratori a livello nazionale e locale.
Malgrado il tema sia stato sviscerato da molteplici punti di vista
ed abbia dato luogo, in momenti e contesti diversi, ad una miriade di
indagini, proposte, esperienze, esistono, però, buone ragioni per le
quali è ancora utile e rilevante occuparsene. Uno dei principali
motivi di interesse deriva, a mio avviso, dal fatto che non c’è
un’unica e immutabile configurazione spaziale corrispondente a una
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determinata organizzazione sociale. Al contrario, tutte e due le
componenti del binomio spazio- società sono in continua
trasformazione e si influenzano producendo esiti concreti che non
ripresentano mai gli stessi connotati. Come ogni fase della
ristrutturazione economica ha la sua questione delle abitazioni, nel
senso che le «imperfezioni» del mercato impediscono a gruppi più o
meno ampi di popolazione l’accesso ad una casa decente a un prezzo
ragionevole, così l’integrazione o la mancanza di integrazione,
l’adozione di politiche per una maggiore integrazione o al contrario
di politiche finalizzate ad impedirla hanno come bersaglio gruppi
variamente caratterizzati, ma che,
comunque, possono essere
definiti una minoranza, non perché necessariamente minoritari dal
punto di vista numerico, ma perché minori sono le scelte e le
capacità negoziali loro concesse e minore o inesistente è il loro
potere. In questo senso è non solo giustificato, ma opportuno, che la
riflessione sulle relazioni tra casa e integrazione sociale faccia
riferimento specifico alla condizione degli immigrati
extracomunitari, il che non significa che per tutti gli altri cittadini
l’integrazione sia garantita, ma che nel momento attuale il rifiuto
all’integrazione incanalato politicamente e consapevolmente
alimentato a tutti i livelli istituzionali colpisce soprattutto questa
minoranza. L’eccesso di enfasi con il quale si parla e si affronta il
problema della casa degli immigrati, o piuttosto non si affronta
lasciandolo alla «mano sapiente» del mercato, è una manifestazione
del modo nel quale si sta costruendo la cosiddetta emergenza
dell’immigrazione, mentre i concreti problemi delle persone
immigrate vengono ignorati o trasformati in questioni di ordine
pubblico e di repressione. Tale progetto ha contemporaneamente
valenza economica, politica e simbolica. Per contrastarlo e
modificarlo in senso democratico, non bastano generici appelli alla
tolleranza, ma è necessaria una sistematica opera di svelamento e
divulgazione dei meccanismi che lo sostengono, nonché un’accorta e
incisiva campagna di promozione di modelli alternativi.
Il termine integrazione è frequentemente usato come sinonimo di
assimilazione, cioè l’inserzione di nuovi membri in una comunità
esistente con la conseguente perdita di ogni riconoscibilità ed identità
da parte del gruppo più debole. Altrettanto spesso viene contrapposto
a quello di segregazione, per denotare la mancanza di impedimenti
alla mescolanza residenziale e di norme che impongano la
separazione dei vari gruppi sociali. Senza addentrarci in una
disanima comparativa delle numerosi definizioni disponibili, va
almeno ricordato che il contatto tra popolazioni diverse può dar
origine, oltre alle due manifestazioni estreme dell’annientamento o
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dell’inserimento senza conflitti, ad una gamma di situazioni
intermedie nelle quali la coesistenza può essere il primo passo verso
un maggiore livello di integrazione o la sua completa negazione. Ad
esempio, si può verificare una stratificazione, cioè una certa
mescolanza accompagnata da una significativa disparità di risorse e
di potere o il pluralismo, che consente il mantenimento delle varie
specificità a prezzo di una più o meno marcata separazione fisica.
Nel contesto in cui questa riflessione si colloca, mi sembra
ragionevole parlare di integrazione nel senso banale di normalità,
considerando normale l’uguaglianza di diritti e doveri nella sfera
pubblica e relegando ogni diversità all’ambito privato. Il che non
vuol dire, ovviamente, che tale normalità sia la norma, ma che è
appropriato ritenere un indispensabile presupposto all’integrazione
degli immigrati extracomunitari il poter vivere nelle tipologie
standard della popolazione locale, la mancanza di preclusioni per
l’ingresso in determinati segmenti del mercato delle abitazioni, la
possibilità di insediarsi in qualunque parte del territorio. Viceversa,
la difficoltà o l’impossibilità di accedere ad un alloggio, non solo per
la mancanza di sufficienti risorse finanziarie, anche se la povertà
rimane certamente una delle cause principali del disagio abitativo, è
un sicuro segnale di non integrazione, di esclusione o, come si usa
dire ora, di mancanza di coesione sociale.
Il rifiuto all’integrazione
La riluttanza ad avere determinati vicini di casa può dar luogo a
due reazioni, il rifiuto a far entrare gli individui ed i gruppi
indesiderati all’interno dello spazio con il quale una comunità si
identifica, o l’uscita dallo stesso spazio per non condividerlo con i
nuovi arrivati. No black, coloured do not need to apply, non si affitta
a meridionali, no makeroni, con questi e simili testi i cartelli razzisti
esposti nei sobborghi delle città nordamericane, a Londra negli anni
’50, a Torino durante la grande immigrazione dalle regioni del sud,
in Germania pressappoco nello stesso periodo, intimavano con rozza
efficacia ai membri di ben precisi gruppi di popolazione di non
avvicinarsi. Il rifiuto di un singolo proprietario ad affittare un
alloggio, non per un giudizio circa le specifiche caratteristiche di un
individuo e della sua famiglia, ma per un giudizio a priori, cioè un
pregiudizio nei confronti di chiunque sia riconosciuto come
appartenente ad una determinata categoria definita sulla base di
caratteristiche etniche e/o razziali o della provenienza geografica, è
la forma più esplicita di discriminazione. Ma ancor più significativa
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del rifiuto ad affittare, che può in parte dipendere da più o meno
giustificate preoccupazioni circa l’affidabilità dell’affittuario, è
l’indisponibilità a vendere. Una forma di discriminazione,
quest’ultima, apparentemente incomprensibile in un sistema di
mercato e che più palesemente di altre ha il significato di divieto di
ingresso in un territorio anche a chi potrebbe permetterselo. Questo
tipo di situazione, nella quale l’accesso alla casa non è unicamente
funzione del reddito, presuppone l’esistenza di una domanda
solvibile da parte di gruppi non graditi e di un sistema legale e
normativo che consenta di escluderli, che consenta cioè una vera e
propria discriminazione su base etnica e razziale. Simili
comportamenti sono stati per lungo tempo abituali negli Stati Uniti,
dove hanno goduto di sanzioni ufficiali, sono stati praticati non solo
dai privati proprietari e dalle agenzie immobiliari, ma dalle
istituzioni governative e, infine, sono stati dichiarati illegali in
seguito alle lotte per i diritti civili. Il Civil right act del 1968 dedica,
infatti, un apposito titolo al fair housing, che vieta ogni
discriminazione di «razza, colore, religione, sesso, nazione d’origine,
nella vendita o nell’affitto di una casa», elenca i metodi e le tecniche
discriminatorie più diffuse e descrive le procedure che le vittime
devono seguire per chiedere i risarcimenti.
Oltre trent’anni dopo la messa fuori legge delle pratiche
discriminatorie individuali e istituzionali, numerose inchieste e
denunce dimostrano che la segregazione non è scomparsa e che i
diversi gruppi sociali, nel caso specifico i bianchi e i neri, non si
sono integrati. L’intreccio di pregiudizi, discriminazione e
speculazione- dal momento che indurre la trasformazione di un
quartiere da tutto bianco a tutto nero, o viceversa, comporta
variazioni nei prezzi che si traducono in guadagni per gli operatori
immobiliari- non è stato districato. Da un lato il problema evolve e
si ridefinisce in nuove forme, dall’altro precedenti situazioni
persistono e si sovrappongono a fenomeni non previsti. Persino gli
stessi progressi raggiunti grazie all’applicazione della legge si sono
trasformati nell’inizio di nuovi problemi perché, ad esempio,
l’inserimento di famiglie nere in quartieri bianchi ha provocato la
fuoriuscita di questi ultimi e quindi l’inizio di una risegregazione e
perché la mobilità delle famiglie nere non si è verificata ovunque, ma
si è indirizzata più facilmente verso le aree dove già esisteva una
certa mescolanza, con il risultato di accelerarne la trasformazione in
zone tutte nere. Molte famiglie nere con un reddito medio si trovano,
così, di fronte alla scelta tra l’abitare in un quartiere di buona qualità
e abbastanza misto razzialmente, a prezzo di un forte isolamento
sociale e di uno scarso potere politico, o rimanere in un’area con una
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grande concentrazione di neri e quindi una forte rappresentanza, ma
con un più basso livello di condizioni residenziali e ambientali in
conseguenza della complessiva debolezza socioeconomica. In realtà,
la segregazione precedente significava ineguaglianza, ma
l’integrazione attuale è possibile solo a condizione di rimanere
minoranza, al punto che molti ritengono l’integrazione residenzialel’ideale di neri e bianchi insieme- un problema secondario. La
consapevolezza che le nuove regole consentono la vicinanza fisica
dei neri ai bianchi, ma non eliminano le cause dell’ineguaglianza
economica e politica, cioè della disparità di potere, e che
l’integrazione residenziale è spesso in conflitto con gli obiettivi della
coesione sociale e della rappresentanza politica, ha fatto perdere
importanza all’integrazione come fine a se stessa. Ne derivano due
considerazioni, la prima che un sistema legale equo che vieti la
discriminazione è necessario, ma di per sé non garantisce
l’integrazione, l’altra che la contiguità fisica delle abitazioni di
famiglie con caratteristiche diverse non è automaticamente sinonimo
di integrazione.
Non è infrequente che all’impossibilità di accedere a determinati
segmenti del mercato abitativo corrisponda, a scala urbana, il divieto
per alcune categorie di popolazione di abitare in specifiche parti del
territorio, nonché l’obbligo di insediarsi solo in altre ben delimitate
porzioni. In questi casi, non si tratta di atteggiamenti individuali,
seppure accettati dalla collettività, ma di comportamenti
istituzionalmente riconosciuti e praticati dalle stesse autorità. La
selezione e destinazione di ambiti spaziali ad uso esclusivo di gruppi
di popolazione omogenea secondo criteri etnici e/o razziali, con la
premeditata esclusione di altri, richiede oltre che la stesura di
documenti e mappe, un vero e proprio piano e adeguati strumenti per
la sua attuazione. La forma più esplicita di discriminazione a scala
urbana è la zonizzazione etnica, cioè un provvedimento
amministrativo che individua e delimita le aree nelle quali, per legge,
alcuni gruppi non possono abitare né possedere una casa e quelle
dove tale facoltà è loro concessa o imposta come unica
localizzazione possibile. Dalle zoning ordinances adottate negli Stati
Uniti, alcune delle quali sono state abrogate solo dopo la fine della
seconda guerra mondiale, ai piani delle città sudafricane nel periodo
dell’apartheid, gli esempi documentati sono molti e ormai
ampiamente conosciuti, ma non è superfluo ricordarne alcune
caratteristiche fondamentali. Benché la zonizzazione etnica sia stata
pensata ed attuata con intenzioni ed effetti che penalizzavano i neri,
in entrambi i casi erano previste limitazioni anche alla libertà di
scelta dei bianchi che non potevano insediarsi o acquistare proprietà
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al di fuori dei loro settori, il che non lascia dubbi sulla volontà di
escludere ogni possibilità di integrazione. Inoltre, la separazione
residenziale non era solo il frutto di un’ideologia perversa, ma una
scelta razionale in funzione dell’ineguaglianza. Essere autorizzati ad
abitare solo all’interno del territorio loro assegnato, significava per i
neri anche godere di minori diritti, perché i regolamenti municipali
sancivano la legittimità di requisiti e caratteristiche igieniche delle
abitazioni diversi da quelli dei quartieri bianchi, di diversi standards
per la dotazione dei servizi e per la manutenzione, di una più
scadente qualità residenziale e urbana. Infine, contrariamente a
quanto la propaganda uffciale cercava di far credere, la segregazione
non era un fatto naturale, una circostanza spontanea che il governo
accettava e si incaricava di regolare. La mescolanza, invece, era
abituale, ma la separazione era il primo passo per la messa in opera
di un sistema di ineguaglianze accumulate, necessario
all’instaurazione di un nesso pressochè assoluto fra colore nero e
povero. Nelle città sudafricane, la volontà di usare la separazione
residenziale per rendere più acuta l’ineguaglianza era evidente già
prima dell’entrata in vigore della legislazione per l’apartheid. Negli
anni ’30, la principale fonte preoccupazione per le autorità era il gran
numero di poor whites, cioè di bianchi che vivevano mescolati ai neri
in slums così degradati che «il pericolo di epidemie era considerato
di pari gravità a quello di far guadagnare favori al comunismo».
L’unica soluzione trovata per migliorare le loro condizioni fu di farlo
a spese dei neri. Si cominciò, quindi, con l’imporre un mercato del
lavoro separato, il divieto di transazioni immobiliari e il divieto di
promiscuità residenziale. In seguito, dopo le elezioni del 1948, per il
cui esito il voto dei bianchi poveri fu determinante, si decise che gli
slums erano il risultato della mescolanza razziale e che, per risolvere
il problema alla radice, occorreva rimuovere i neri e metterli in
apposite e ben confinate townships. Infine, il Group areas act del
1968 istituì il Ministero per lo sviluppo delle comunità, una
denominazione tragicamente incongrua per una struttura che aveva
l’incarico di vigilare per impedire qualsiasi forma di integrazione.
Tra i suoi compiti c’erano quelli, una volta designate le zone di
pertinenza di ciascuna comunità, di risistemare le persone «non
qualificate», cioè i membri di un particolare gruppo di popolazione
residenti, proprietari, o esercitanti attività economiche in un’area
assegnata ad un altro gruppo, di assistere queste persone a disfarsi
delle loro proprietà e di aiutare quelle qualificate ad acquistarle, di
sviluppare efficaci zone cuscinetto per ridurre le possibilità di
contatto, di effettuare operazioni di rinnovo edilizio e urbano e di
operare con le autorità locali nelle diverse fasi della programmazione
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e realizzazione dell’apartheid. E’ tristemente nota la ferocia dei
deterrenti e delle misure punitive impiegate contro chi cercava di
opporsi a queste norme, dalla distruzione degli spazi misti
all’erezione di invalicabili barriere fisiche, al massiccio impiego
della polizia e dell’esercito.
Dove i comportamenti discriminatori dei privati come quelli
istituzionalmente razzisti non sono più tollerati, almeno
ufficialmente, o dove la consistenza numerica della minoranza rende
difficile la sua completa separazione, la non integrazione viene
perseguita e raggiunta attraverso l’autosegregazione di chi può
scegliere. L’uscita da un determinato territorio di coloro che, per non
subire la vicinanza dei nuovi arrivati o comunque di individui e
gruppi considerati diversi, sceglie di autorinchiudersi in spazi
confinati, protetti dagli intrusi, accessibili solo a chi ne fa parte
perché li possiede, ha come conseguenza la moltiplicazione di
quartieri esclusivi e di insediamenti recintati e dotati di propri sistemi
di vigilanza, spesso armata. In genere, si tratta di insediamenti
costruiti ex novo, dove si crea una comunità il cui legante è l’affinità
di reddito e ideologica.
Concentrazione e dispersione delle minoranze
I comportamenti pubblici e privati, dei quali si è delineata una
schematica tipologia, non si manifestano ovunque con la stessa
intensità e le medesime forme. Assumono caratteri anche molto
diversificati, la cui variabilità può essere ragionevolmente ricondotta
alla concomitanza di una serie di condizioni che, nel loro complesso,
costituiscono una sorta di filtro nazionale. Tra i vari elementi che
concorrono alla definizione di questi filtri, è essenziale il livello di
democrazia, definibile in base alle caratteristiche del sistema
rappresentativo e legale, del mercato del lavoro, dell’organizzazione
del welfare, del sistema familiare e della comunità che promuove
l’integrazione interpersonale. Se uno o più di questi sistemi manca o
non è adeguato, è assai probabile che si registri una diffusa non
integrazione. Dal momento che la casa è uno dei più cospicui
indicatori di ineguaglianza, perché status sociale, reddito, identità
razziale e di classe sono intimamente legate con il tipo di alloggio, la
sua localizzazione e le sue condizioni intrinseche e ambientali, è
evidente che le vicende dell’edilizia residenziale pubblica forniscono
elementi importanti circa gli atteggiamenti nei confronti
dell’integrazione in diversi paesi e momenti storici (Huttmann,
1991). Le autorità preposte all’edilizia sociale hanno generalmente
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oscillato tra la propensione e gli espliciti inviti a concentrare le
minoranze in un numero ristretto di edifici, isolati, quartieri, fino a
incoraggiare una vera e propria segregazione, e l’intenzione
dichiarata di voler favorire l’integrazione attraverso la dispersione,
una pratica che, a sua volta, esponendo le famiglie al rischio di
aggressioni e allungando artificiosamente il tempo in lista d’attesa,
ha spesso avuto risultati altrettanto discriminatori. Un esempio
classico del primo tipo è il comportamento della Federal housing
authority, che ha costantemente raccomandato l’omogeneità sociale e
razziale come mezzo per stabilizzare la struttura demografica di un
quartiere, nonché i suoi valori immobiliari, mentre nelle città europee
sono frequenti i tentativi di dispersione delle minoranze. La tecnica
della dispersione è sostanzialmente simile ovunque, ma il significato
e la portata dei più o meno ingegnosi sistemi di quote escogitati può
sfuggire, se non si tiene conto delle differenze nella composizione
sociale e nel quadro istituzionale dei contesti di applicazione. In
Olanda, negli anni della ricostruzione e del boom economico, non
solo gruppi a basso reddito ma molte famiglie di buona condizione
abitavano nell’edilizia pubblica, che offriva un numero di alloggi
superiore a quelli del mercato privato. Grazie ad un livello del
welfare in grado di influenzare positivamente anche le condizioni
degli immigrati ed a sistemi di allocazione degli alloggi che usavano
le stesse regole per tutti, i membri delle minoranze etniche erano
abbastanza distribuiti nel territorio urbano e si potevano permettere
una condizione abitativa decente, cosicchè, malgrado l’alto numero
di immigrati dalle colonie e di lavoratori dall’area mediterranea, non
c’erano veri e propri ghetti etnici. Fenomeni di concentrazione nei
più vecchi quartieri centrali sono apparsi solo quando le famiglie
olandesi hanno cominciato a trasferirsi verso i sobborghi. Ed è a
questa «concentrazione per sottrazione» che le municipalità hanno
cercato di reagire con la dispersione. Rotterdam, ad esempio, ha
introdotto nel 1972 la regola del 5%, che consisteva nel non
concedere il permesso di soggiorno nei quartieri dove le minoranze
già raggiungevano tale percentuale. Nel 1979, la norma è stata
modificata con l’introduzione del cosiddetto clustering volontario,
cioè l’incoraggiamento a spostarsi in alcuni distretti di più recente
costruzione, ognuno dei quali avrebbe dovuto ospitare una sua
minoranza. Nel 1983, infine, ogni tentativo ufficiale di dispersione è
stato abbandonato in applicazione agli indirizzi nazionali che
suggerivano di «promuovere condizioni per l’emancipazione e la
partecipazione di tutti, ridurre le diseguaglianze socioeconomiche,
prevenire la discriminazione» (HBE, 1998). A Francoforte, dopo
aver lasciato che le minoranze si concentrassero nelle zone più
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degradate e con scarsità di servizi, solo in un secondo tempo si è
optato per la dispersione, escludendo i nuovi arrivati dall’edilizia
sociale in quei quartieri dove già raggiungevano il 30%. Queste
misure, motivate dalla impossibilità di reagire ai problemi e alle
tensioni generate dalla precedente concentrazione con interventi
costosi, che avrebbero avuto pesanti ripercussioni sui bilanci locali,
improponibili in un momento di crisi generale del welfare, e che si
sarebbero scontrati con una forte riluttanza della popolazione
«normale» a cooperare, hanno aggravato la discriminazione senza
migliorare le condizioni di nessuno. Anche in Gran Bretagna, prima
si è consentito al mercato di generare un modello di segregazione
residenziale e, poi, si è imboccata la via della dispersione. Negli anni
’50 e ’60, i black britons, in conseguenza dell’esclusione di fatto
dall’edilizia pubblica e del loro basso reddito, sono state confinati
nelle aree centrali e nella prima corona periferica di un numero
ristretto di città. Quando la responsabilità di trattare i problemi etnici
con riferimento alla politica della casa è stata gradualmente trasferita
alle autorità locali, le minoranze sono state discriminate dai criteri
discrezionali dei funzionari, risultanti in maggiori ostacoli
all’accesso, nella sistemazione negli alloggi più scadenti, in difficoltà
a spostarsi verso situazioni migliori. L’adozione, nel 1976, del Race
relations act comprendente direttive e regole contro la
discriminazione, è arrivata troppo tardi per invertire la tendenza,
perché all’abbandono delle pratiche di dispersione non ha fatto
seguito la ricerca di una maggiore equità sociale, ma la distruzione
dell’egemonia delle autorità locali, la massiccia privatizzazione del
patrimonio pubblico e, in sostanza, la disponibilità di minori
opportunità per tutti.
Il livello complessivo e le modalità di funzionamento del welfare
sono decisive anche per spiegare le differenze tra paesi, come ad
esempio la Francia e la Svezia, dove il medesimo criterio
dell’assimilazione è la giustificazione ufficiale della dispersione. In
Francia, dove l’appartenenza ad un’etnia non può essere utilizzata
con riferimento a nessun cittadino- tutti sono e devono sentirsi
francesi- l’inserimento comporta per i nuovi arrivati la perdita di
ogni distinzione e l’esistenza di quartieri etnici non è ritenuta
accettabile. In realtà, le condizioni di quelli che arrivavano
d’oltremare tra gli anni ‘50 e ‘60 erano tali da consentire loro
d’insediarsi solo in villaggi di baracche e in alloggi inabitabili.
Quando, in seguito ad una massiccia produzione di alloggi pubblici
si è raggiunto un teorico equilibrio tra domanda e offerta,
l’indicazione ufficiale è stata di disperdere le minoranze etniche per
favorirne l’integrazione e prevenire la formazione di ghetti, ma, di
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fatto, la segregazione è stata abitualmente incoraggiata alla scala di
isolato o di gruppi di edifici. Le successive iniziative di rinnovo delle
abitazioni ed i tentativi di avvicinare la popolazione più in difficoltà
verso le località meglio dotate di servizi si sono scontrati con la
contraddizione tra la volontà di indurre anche le famiglie a reddito
medio ad insediarsi nelle zone sfavorite, per invertire il ciclo del
degrado, e quella di aiutare soprattutto i più bisognosi. Dal
presupposto che la mescolanza e la prossimità residenziale attenuano
le distanze sociali e che, quindi, si può perseguire la mescolanza
senza alterare le cause delle ineguaglianze, traggono origine le più
recenti direttive circa la necessità di disperdere i poveri, di renderli
spazialmente minoritari per favorirne l’integrazione. L’integrazione,
intesa come un misto di famiglie con differenti caratteristiche
demografiche socioeconomiche ed etniche è stata un costante
obiettivo della politica della casa anche in Svezia, dove «la nazione è
una comunità politica» e chiunque ne accetti le regole e adotti la
cultura può diventare un cittadino. Nel periodo della crescita, il
governo statale stipulava accordi con gli enti locali circa il numero di
rifugiati e di immigrati che ciascuno avrebbe accolto e distribuiva
fondi adeguati per la casa, l’istruzione e i servizi sociali. In seguito,
si è accettato il modello della società multiculturale, ma non la
creazione di comunità con una base territoriale. Una legge del 1975,
infatti, riconosce l’esistenza legittima di differenze culturali e la
formazione di comunità etniche le quali, però, non devono
identificarsi con ambiti territoriali per evitare il pericolo che la libertà
di scelte culturali possa indebolire il rifiuto della segregazione
spaziale. In realtà, concentrazioni etniche esistono anche in Svezia,
ma, fino a quando la prosperità generale e adeguate forme di
redistribuzione hanno reso possibili dignitose condizioni di vita per
tutti, si è riusciti ad evitare quelle forme di segregazione e
discriminazione, che sono poi apparse in modo preoccupante con
l’affermazione di un modello di stato neoliberista, che teorizza lo
sviluppo ineguale e considera le minoranze «un partner non adatto
perché non può essere usato per competere».
Cittadini a tempo determinato
Un buon sistema di welfare non elimina le diseguaglianze sociali,
ma ne spunta gli estremi, ed è per questo che le esperienze europee
mostrano significative differenze per quanto riguarda la politica
dell’integrazione sociale, in senso lato e nei confronti degli immigrati
e delle minoranze etniche in particolare. A partire dai primi anni ’70,
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però, tali differenze tendono a scomparire, perché ovunque
prevalgono le restrizioni all’ingresso di nuovi cittadini e tagli e
riduzioni alle prestazioni del welfare. Tutti i governi hanno
drasticamente ridimensionato, se non eliminato, l’erogazione di fondi
all’edilizia pubblica per sostenere il mercato, hanno messo in
discussione la politica di cittadinanza e adottato misure per il
rimpatrio obbligatorio degli stranieri e, perfino, per negare l’asilo ai
rifugiati politici. A proposito della questione della cittadinanza è
opportuno ricordare che, nella maggior parte dei paesi europei, gli
ostacoli all’integrazione residenziale e sociale hanno colpito e
colpiscono sia fasce deboli della popolazione indigena che persone di
altra nazionalità. In Germania, ad esempio, la discriminazione che,
prima della riunificazione, riguardava prevalentemente gli immigrati
provenienti dal bacino mediterraneo, colpisce ora anche cittadini
tedeschi; in Italia, le prime vittime sono stati i lavoratori che dal
meridione si spostavano al nord e solo negli anni più recenti gli
immigrati extracomunitari; in Gran Bretagna, Francia, Olanda sono
discriminati individui e gruppi che, a seconda del momento del loro
arrivo, hanno la cittadinanza o sono stranieri. La variabilità nel
tempo e nello spazio delle categorie di persone più esposte alla
discriminazione conferma, oltre al fatto che nessuno dovrebbe
ritenersene completamente al riparo, che l’etnicità non è un dato di
natura, ma una costruzione culturale. In Gran Bretagna, il censimento
etnico del 1991 ha elencato 10 categorie di popolazione, i bianchi e
nove tipi di colorati- solo i bianchi non necessitano ulteriori
suddivisioni. Anche le municipalità olandesi censiscono i residenti di
«etnia non olandese» raggruppandoli in una serie di sottogruppi ed i
dati dell’ultima rilevazione del 2001, a pochi mesi dall’entrata in
vigore della moneta unica, includono italiani, spagnoli, e greci sotto
la voce «etnia nord mediterranea» o «sudeuropea». Non si tratta di
sfumature linguistiche, ma di scelte importanti, perché la
catalogazione etnica è inevitabilmente il presupposto della
discriminazione e può facilmente tradursi spazialmente nel vietare
l’ingresso in un territorio, o meglio consentirlo solo per alcune
funzioni e attività, il lavoro ed eventualmente il consumo.
L’esclusione dalla casa non è necessariamente sinonimo di
esclusione dal mercato del lavoro. Al contrario, la sistematica
discriminazione ha come bersaglio principale quei lavoratori che si
vogliono mantenere in una situazione di precarietà escludendoli dalla
casa, giustamente considerata come la base della stabilità, il punto di
partenza per un’integrazione- ed i diritti che ne derivano- che non si
intende accettare. Del resto, l’attribuzione ai lavoratori dell’etichetta
di temporaneo non è un fenomeno nuovo. Il gioco della parti tra gli
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industriali del nord est, con i loro allarmi «senza immigrati
chiudiamo», ed i sindaci e gli amministratori che chiedono espulsioni
di massa, ha illustri, si fa per dire, precedenti. Per limitarsi ad un
esempio, meritano di essere citate le decisioni di una commissione
governativa del Sud Africa che, già nel 1921, sancì il principio che «i
neri devono essere autorizzati ad entrare in città solo come lavoratori
temporanei» e le dichiarazioni del primo ministro De Verwoerd che,
nel 1956, ribadì il concetto «l’indigeno che entra nelle aree dei
bianchi lo fa solo per servire». I guestarbeiter europei, che sono
indispensabili all’economia, ma hanno diritto solo a un inserimento
temporaneo, a rotazione, sono la versione democratica dell’idea della
temporaneità che, spesso, viene abbinata a quella della selettività. La
giustificazione deriverebbe dalla circostanza che gli scambi
internazionali comportano non solo movimenti di beni e servizi, ma
anche di popolazione e che i paesi ospiti devono comportarsi come le
imprese che cercano determinati tipi di lavoratori e stabilire politiche
tali da attirare determinati tipi di migranti. Are we competitive in the
immigration market? Con questa do manda, si sintetizzava, nel 1990,
l’urgenza di indagare per stabilire «se gli immigrati attratti dagli Stati
Uniti sono più addestrati e produttivi di quelli che decidono di andare
altrove, ad esempio in Canada o in Australia» (Borjas, 1990). Negli
anni successivi la terminologia ed il linguaggio da import export- si
parla di flussi e di stock di immigranti- sono diventati abituali ed una
simile logica è sancita anche dai documenti dell’Unione Europea, nei
quali si riconosce che un’immigrazione controllata può «alleviare
carenze di manodopera» a patto che si verifichi nell’ambito di una
complessiva strategia e che sia governata (Commission of the
European Communities, 2000). Non stupisce, quindi, che le direttive
europee contro la discriminazione appaiono basate più
sull’affermazione del diritto alla libera scelta in un libero mercato,
che non a preoccupazioni per la mancanza d’integrazione sociale.
Il marketing sociale
Il lavoratore è contemporaneamente uno dei fattori di produzione
e un consumatore, in quanto fattore di produzione la sua precarietà
ne riduce il costo, in quanto consumatore/cliente la sua precarietà lo
rende più ricattabile e senza difesa anche nel mercato dell’abitazione.
Aumentare la precarietà degli immigrati può indurre un senso di
stabilità, più o meno fittizia, per i nativi, che possono essere portati a
credere che una volta eliminati gli intrusi potranno vivere liberi e
felici nel loro territorio, finalmente «paroni a casa nostra». Se il
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mantenimento dell’inequità sociale richiede sia una base materiale
che un adeguato apparato normativo, anche il livello di sostegno che
una determinata comunità è disposta ad offrire a politiche che
affrontino le ineguaglianze è in misura non piccola legato al
benessere e, soprattutto, al senso di sicurezza dei suoi membri,
nonché al tipo di leadership locale. In un momento come l’attuale,
nel quale, a causa della ristrutturazione produttiva ed economica, «la
gente cerca compensazione nei posti dove vive, cerca disperatamente
nella comunità residenziale quel senso di coesione e di stabilità che
non trova più nel luogo di lavoro» (Sennett, 1995), l’idea di
comunità rischia di perdere ogni valore costruttivo per diventare solo
il rifugio contro un mondo ostile. Ne è prova la diffusa popolarità di
progetti politici basati sulla frantumazione sociale, sul localismo e
sull’esaltazione dell’identità, progetti ai quali spesso incautamente si
irride liquidandoli come folcloristici con il rischio, da un lato di non
comprenderne la bieca efficacia, dall’altro di non accorgersi che
proprio al livello locale possono sorgere tentativi di segno opposto,
iniziative che rifiutano l’inevitabilità del peggio, come i contributi
raccolti in questo volume bene testimoniano. La promozione della
diversità come elemento di arricchimento e non solo fonte di paura
ed il coinvolgimento delle comunità per cambiare il corso delle
attività di governo, o la loro mancanza, non è un fenomeno che si
sviluppa spontaneamente (Boal, 2000). Richiede attenzione,
professionalità e risorse capaci di far maturare una diffusa
consapevolezza che la migliore politica per l’integrazione è una
buona politica sociale, fatta di misure per la casa, per l’istruzione, per
maggiori opportunità che recano beneficio a tutti e indirizzare
conseguentemente chi prende le decisioni. Iniziative delle autorità
municipali contro la discriminazione e il razzismo si segnalano in
molte città, alcune amministrazioni si sono dotate di strutture per
monitorare e combattere la discriminazione, è stata creata la rete
delle cosiddette città aperte, l’associazione delle città unite ha messo
a punto la carta europea per la salvaguardia dei diritti umani ed in
qualche caso si fa anche esplicito riferimento all’integrazione come
obiettivo. Queste esperienze non sono sempre confontabili e un
bilancio dei loro risultati concreti non è agevole (OECD, 1996), ma
la loro potenzialità non va sottovalutata. Tra gli esempi di maggiore
interesse, mi sembra possano essere incluse due iniziative: la
campagna per l’integrazione promossa dal comune di Vienna e
l’attività della Racial diversity task force di Oak Park, un quartiere
dell’area metropolitana di Chicago. In tutte e due le situazioni, la
casa è il fulcro di un progetto che non prevede solo reazioni difensive
e che si articola in una serie di azioni coordinate. Nel territorio del
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municipio di Vienna risiedono 275.000 immigrati, circa il 17,7%
della popolazione, che non sono cittadini austriaci. Nel 2000, il
Dipartimento per l’integrazione, i problemi delle donne, la
protezione del consumatore e del personale, preoccupato perché una
larga parte della popolazione indigena mostra un atteggiamento
molto negativo nei confronti della cosiddetta questione degli stranieri
e perchè la mistura di paura, insicurezza e incerte prospettive
alimentata da campagne elettorali e dibattici politici fortemente
emotivi produce problemi i cui effetti si constatano quotidianamente,
ha avviato una campagna denominata Miteinander (insieme). Alla
campagna biennale, finanziata con 24 milioni di scellini, collaborano
molte istituzioni non governative e in particolare il Wien integration
fund, un’associazione non profit per la promozione di una vita
«rispettabile, eguale e aperta» per tutti gli abitanti. Alcune delle sue
richieste non sono ancora state ufficialmente accolte dalle autoritàad esempio l’introduzione del diritto di voto per gli immigranti nelle
elezioni locali, il diritto ad affittare alloggi di proprietà municipale
indipendentemente dalla cittadinanza e dalla durata della residenza,
l’esenzione della riunificazione familiare dalle quote annuali, il
libero accesso al mercato del lavoro, la realizzazione di una legge
nazionale contro la discriminazione- ma il fondo esercita una
pressione molto importante. La campagna, il cui motto centrale è
«diamo una possibilità alla coesistenza», è costruita su pochi punti
molto concreti e facilmente comprensibili e su alcuni progetti pilota
in cinque principali settori di intervento: una gamma variata e ben
organizzata di corsi di lingua, dei programmi di addestramento e di
istruzione superiore per i giovani, un forte sostegno alle donne in
diversi ambiti, il miglioramento di parti di città degradate, la
costruzione di nuovi edifici per obiettivi sociali, soprattutto scuole,
un intenso e capillare lavoro contro la discriminazione e il razzismo.
Dal momento che le minoranze etniche, come altri gruppi
svantaggiati, sono considerati più un peso che un valore e che dove si
verifica una conpresenza di persone con problemi sociali e di povere
condizioni abitative, inevitabilmente la possibilità di conflitti è alta,
il lavoro per l’integrazione è cominciato nei quartieri dove la
percentuale di immigrati raggiunge il 30%. Rinnovo senza
espulsioni, costruzione di nuovi edifici pubblici e di quartieri
residenziali, prudente apertura delle abitazioni di proprietà
municipale agli immigrati, lotta contro gli speculatori, introduzione
di contributi finanziari per la casa a tutti, austriaci e immigrati sono
gli strumenti applicati per migliorare la situazione abitativa (Briem,
2001).
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Contemporaneamente è stata affidata agli esperti di una società di
pubbliche relazioni una vera e propria campagna di marketing
sociale. E’ interessante, mentre imperversano le azioni di marketing
urbano tese a far credere che, per competere, le città devono
perseguire l’ineguaglianza e la frammentazione sociale, il significato
attribuito al marketing sociale, un significato più ampio di quello
della cosiddetta pubblicità sociale, che denota semplicemente l’uso
di tecniche pubblicitarie per far conoscere dei problemi d’interesse
generale, ad esempio gli inviti al rispetto del codice della strada o a
non bruciare i boschi. L’idea centrale del marketing sociale è che
anche i valori intangibili, come i modelli sociali e le idee politiche e
religiose, sono scambiati in condizioni di mercato, vale a dire in
competizione con altri. Ne deriva la necessità, per vincere le
resistenze più forti, di concentrarsi, nella scelta dei gruppi target, sui
segmenti del mercato più difficili da raggiungere, di godere di una
posizione di monopolio nei mezzi di comunicazione e di poter
svolgere una funzione di canalizzazione di tutti messaggi. Infine, una
campagna di marketing sociale può funzionare solo se alla
comunicazione attraverso i media si accompagnano forme di
comunicazione diretta. Per questo, oltre all’affissione di grandi
manifesti sui muri della città, alle inserzioni sui quotidiani e
settimanali, agli adesivi sui mezzi di trasporto pubblici e sui taxi, si è
accompagnata la spedizione di un opuscolo di otto pagine a 400.000
famiglie. Nell’opuscolo si spiega che integrazione è una parola
«ombrello» che significa molte cose: ridurre le differenze tra ricchi e
poveri, dare eguali opportunità ad uomini e donne e a giovani e
anziani nel mercato del lavoro, migliorare l’accesso all’educazione,
alla sanità, alla casa, ai servizi sociali, promuovere il rispetto per altri
sistemi di valori e la coesistenza di diversi stili di vita e tra i diversi
gruppi etnici e le varie minoranze. Pochi mesi fa, l’amministrazione
municipale ha vinto le elezioni e l’assessore è giustamente fiero del
successo riportato grazie ai manifesti che propagandano i vantaggi
dell’integrazione- e non a quelli che promettono sicurezza a spese
dell’integrazione!
In tutt’altro contesto, opera da alcuni anni la Racial diversity task
force di Oak Park, il cui obiettivo principale è di preservare la
diversità dei propri residenti, cioè una relativa mescolanza di bianchi
e neri superiore a quella che si registra in generale nell’area
metropolitana di Chicago, tuttora una delle più segregate degli Stati
Uniti, facendone emergere gli effetti positivi in termini di vitalità
economica e di stabilità residenziale. Come a Vienna, i settori di
intervento privilegiati sono la casa e una campagna di informazione
per spiegare che la segregazione non è un fenomeno naturale, che
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dalla segregazione derivano svantaggi di ogni genere per tutta la
società, che «l’integrazione residenziale è essenziale per un buon
piano di città» e che a livello locale molto si può fare. Oltre a far
adottare ordinanze per prevenire ogni pratica discriminatoria da parte
delle agenzie immobiliari e a svolgere indagini per tenere sotto
costante controllo la situazione e bloccare l’eventuale instaurarsi di
fenomeni di segregazione, l’organizzazione promuove una serie di
misure complementari, dalla concessione di incentivi per indurre le
attività economiche a restare nell’area al ridisegno dei confini dei
distretti scolastici per aumentare la diversità degli studenti e per
impedire la risegregazione, dimostrando che le stesse tecniche
abitualmente usate per favorire la segregazione possono essere
impiegate con fini opposti. Le circostanze ed i contesti nei quali sono
sorte e si sono sviluppate le esperienze di Vienna e di Chicago sono
sicuramente non confrontabili, ma entrambe confermano la necessità
di prestare attenzione, oltre che al dibattito sui diritti di cittadinanza,
al funzionamento attuale e potenziale delle istituzioni nelle quali
questi diritti sono messi in pratica.
La società è costruita spazialmente, nel senso che le strutture
spaziali che gli uomini creano non esistono indipendentemente dalla
società che riflettono, ma possono amplificare certe tendenze e
ridurne altre. Qualsiasi cosa si intenda per integrazione, è certo che la
mancanza di integrazione è inestricabilmente legata a un
disequilibrio di potere. L’esclusione dalla casa o l’esclusione
attraverso la casa aggravano la frammentazione sociale e la
segregazione residenziale è contemporaneamente una manifestazione
di ineguaglianza ed un elemento che sostiene tale ineguaglianza.
Conversamente, l’accesso alla casa non è sinonimo di integrazione, è
una condizione necessaria, ma non sufficiente, al punto da far
ritenere ad alcuni che la segregazione, se volontaria, può essere
positiva in termini di maggiore solidarietà e possibilità di autodifesa.
La teorica possibilità di risiedere ovunque non garantisce
l’integrazione sociale, se persistono le cause dell’ineguaglianza, ma è
anche vero che vietare l’insediamento residenziale comporta una
serie di effetti indotti, perchè accredita la legittimità di altre forme di
ineguaglianza, nel lavoro, nell’istruzione e in genere nella vita
associata. Le politiche color blind, apparentemente neutrali, se non
sono integrate e fortemente sostenute, non solo non producono una
maggiore integrazione, ma possono avere effetti perversi, perché
suscitano reazioni ostili dei gruppi che si sentono ingiustamente
defraudati a presunto vantaggio di «non aventi diritto/i».
L’integrazione richiede un alto grado di sensibilità urbanistica e di
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professionalità, per evitare la concentrazione di problemi sociali e il
sorgere di conflitti fra le domande democraticamente motivate dalla
popolazione locale e l’obiettivo di combattere la segregazione. Per
cambiare le relazioni interetniche, e le relazioni fra qualsiasi gruppo
sociale, è necessario cambiare i giudizi circa la desiderabilità di un
determinato stato di relazioni.
Boal F. W. (a cura di) (2000), Ethnicity and Housing. Accommodating
differences, Ashgate, Aldershot
Borjas G. J. (1990), Friends or Strangers, Basic Books, New York
Briem W. (2001), «Dem Zusammenleben Chancen geben», Perspektiven, p.
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Commission of the European Communities (novembre 2000),
Communication from the Commission to the Council and the European
Parliament on a Community Immigration Policy, Bruxelles
HBE Netherlands Journal of Housing and the Built Environment (1998),
vol. 13, n. 1, numero speciale dedicato a «segregazione spaziale,
concentrazione e formazione del ghetto», Delft University Press
Huttmann E. D. (a cura di) (1991), Urban Housing. Segregation of
Minorities in Western Europe and the United States, Duke University Press
OECD (1996), Strategies for Housing and Social Integration in Cities,
OECD, Parigi
Sennett R., (1995), «Something in the City», Times Literary Supplement,
23 settembre
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Casa, integrazione e segregazione