PERIODICO UFFICIALE DELL’A.N.T.I. – ASSOCIAZIONE NAZIONALE TRIBUTARISTI ITALIANI
Direttore Responsabile
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Avv. CLAUDIO BERLIRI
ELUSIONE FISCALE
E ABUSO DI DIRITTO
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Anno II • n. 1/2009
Periodico Quadrimestrale
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DOTTRINA
•
LEGISLAZIONE
•
GIURISPRUDENZA
•
CONVEGNI ED
ATTIVITÀ ANTI
ANTI - CONSIGLIO NAZIONALE
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Sommario
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO
“Perché questa scelta e perché questo tema” di Claudio Berliri
4
DOTTRINA
•
Considerazioni generali in tema di elusione fiscale e abuso del diritto
di Franco Paparella
•
Senza affidabilità nella applicazione delle regole, non esiste un “diritto tributario”
di Roberto Lunelli
13
•
Elusione Tributaria: l’abuso del diritto tra norma comunitaria e norma interna
di Ivan Vacca
19
•
Profili Penal-Tributari dell’“Abuso di diritto”
di Ivo Caraccioli
29
•
Elusioni o forzature nell’applicazione dell’imposta di registro
di Gianni Marongiu
31
•
Spunti di metodo in tema di “abuso del diritto”
di Paolo Gentili
36
7
LEGISLAZIONE (CIRCOLARI E ISTRUZIONI MINISTERIALI)
•
Circolare Agenzia Ent. Dir. Centr.
Normativa e contenzioso 13-12-2007, n. 67/E
43
GIURISPRUDENZA
•
Rassegna di Giurisprudenza
48
CONVEGNI ED ATTIVITÀ ANTI
54
PERCHÉ QUESTA SCELTA E PERCHÉ QUESTO TEMA
D
opo il numero 0 dello scorso anno, con questo numero
inizia la sua pubblicazione periodica.
Anche in relazione ai consensi dei lettori, abbiamo confermato la scelta monote-
matica e questo numero della rivista è interamente dedicato al tema della “elusione
fiscale e abuso del diritto”.
Argomento di grande attualità che ha formato oggetto del Convegno organizzato dall’ANTI presso il CNEL il 20 ottobre u.s. La parte dottrinaria di questo numero, è infatti costituita dalla sintesi di alcune relazioni tenute in detto convegno.
Nel settore “Legislazione” riportiamo integralmente la recente circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 67/E del 13 dicembre 2007.
Nella parte riservata alla Giurisprudenza riportiamo le massime delle principali
sentenze di merito e di legittimità intervenute in materia, suddivise per argomenti.
Di particolare interesse appaiono le recentissime sentenze delle Sezioni Unite
della Suprema Corte di Cassazione n. 30055 e 30057/08, depositate il 23 dicembre
2008, e quindi successive al nostro convegno di ottobre.
Con la sentenza n. 30055/08, relativa a fattispecie di Dividend Washing anteriori alla normativa prevista dall’art. 7 bis del D.L. n. 372 del 1992, convertito in L.
n. 429/92, la Suprema Corte ha fra l’altro affermato quanto segue:
“Nel merito, ritengono le Sezioni Unite di questa Corte di dover aderire all’indirizzo di recente affermatosi nella giurisprudenza della Sezione tributaria (si veda, da ultimo, Cass. 10257/08, 25374/08), fondato sul riconoscimento dell’esistenza di un generale principio antielusivo; con la precisazione che la fonte di tale principio, in tema di
tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano”.
“Ed in effetti, i principi di capacità contributiva (art. 53, primo comma., Cost.) e
di progressività dell’imposizione (art. 53, secondo comma, Cost.) costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi. Con la conseguenza
che non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme
costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi
fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di
strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di
quel risparmio fiscale”.
Ed ha altresì rilevato:
“Nessun dubbio può d’altro canto sussistere riguardo alla concreta rilevabilità d’ufficio, in questa sede di legittimità, della inopponibilità del negozio abusivo all’erario”.
“In aggiunta alle considerazioni svolte sub 2.1., giova ricordare che, per costante giurisprudenza di questa Corte, sono rilevabili d’ufficio le eccezioni poste a vantaggio dell’amministrazione in una materia, come è quella tributaria, da essa non disponibile (da
ultimo, Cass. 1605/08). Il carattere elusivo dell’operazione può d’altro canto agevolmente desumersi, senza necessità di alcuna ulteriore indagine di fatto, sulla base della compiuta descrizione che se ne rinviene in atti (in specie nella stessa sentenza impugnata) e,
soprattutto, della esplicita valutazione proveniente dallo stesso legislatore, per quanto si
è osservato sub 2.3. e 2.4.”.
“La sentenza impugnata – fondata sull’implicito presupposto della inesistenza nell’ordinamento di un generale principio antielusivo – risulta dunque erronea e va cassata”:
A sua volta la coeva sentenza n. 30057 ha dettato il seguente principio di diritto:
“È inopponibile all’erario – in virtù di un generale principio di divieto di abuso del
diritto in materia tributaria, desumibile dall’art. 53 Cost. – il negozio con il quale viene
costituito, in favore di una società residente nel territorio dello Stato, un diritto di usufrutto sulle azioni o sulle quote di una società italiana, possedute da un soggetto non residente, in modo da consentire al cedente di trasformare il reddito di partecipazione in
reddito di negoziazione (esente dalla ritenuta sui dividendi di cui all’art. 27, comma 3,
del d.P.R. n. 600 del 1973) ed alla cessionaria di percepire i dividendi, sui quali, oltre
a subire l’applicazione della ritenuta meno onerosa di cui all’art. 27, comma 1, del
d.P.R. n. 600 del 1973 (oltretutto recuperabile in sede di dichiarazione annuale) essa
può avvalersi del credito di imposta previsto dall’art. 14 del d.P.R. n. 917 del 1986, ed
inoltre di dedurre dal reddito di impresa, pro quota annuale, il costo dell’usufrutto,
allorché risulti che il negozio stesso non ha altre ragioni economicamente apprezzabili al
di fuori di quella di conseguire un vantaggio tributario”.
Certamente di tali sentenze si parlerà a lungo, ma il primo pensiero che viene alla
mente è il ben noto proverbio “la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”.
Nessuno infatti dubita delle buone intenzioni della Suprema Corte, ma le vie seguite e le conclusioni cui perviene appaiono… infernali.
In estrema sintesi, e con riserva di futuri sviluppi, si può infatti osservare:
a) che con tali pronunce la Corte ha assunto contemporaneamente le funzioni di
legislatore (ampliando la portata delle norme antielusive, e applicandole retroattivamente) nonché di difensore del ricorrente e di giudice unico e inappellabile, decidendo in base a motivi non dedotti e senza possibilità di difesa e di impugnazione
da parte del soccombente;
b) che le tesi, del tutto innovative sostenute dalla Corte, trovano esclusivo fondamento nei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione di cui
all’art. 53 della Costituzione, principi che per oltre 60 anni non hanno mai consentito di considerare indebito l’uso legittimo e non simulato di strumenti giuridici;
c) che non è dato vedere perché mai debbano essere considerate elusive operazioni poste in essere per soli motivi fiscali, quando gli oneri fiscali costituiscono un
peso tanto rilevante sui risultati economici di una impresa. In base a questo principio sarebbe inopponibile al fisco qualsiasi operazione fiscalmente agevolata, quale,
ad esempio, la rivalutazione agevolata degli immobili e delle partecipazioni agli
effetti delle plusvalenze di cui agli artt. 5 e 7 della legge n. 448 del 2001 – con l’aliquota del 4% – ovvero l’applicazione del condono, posto che ovviamente non sussistano altri motivi se non quello fiscale, che giustificano tali operazioni.
d) che la disciplina relativa alla tassazione dei dividendi è unica e oggettiva, quale
che sia il percipiente dei dividendi, in quanto giustificata dalla tassazione dei redditi in capo alla società erogante. Non è dato quindi vedere come e perché tale disciplina possa essere ignorata in relazione ai motivi che hanno consentito l’incasso dei
dividendi, quando la legge è uguale per tutti.
Ciò posto ritengo che il problema dell’abuso del diritto debba essere ulteriormente approfondito, ed auspicabilmente definito in via legislativa e comunque
riconsiderato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Claudio Berliri
DOTTRINA
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
Considerazioni generali in tema
di elusione fiscale e abuso del diritto
di Franco Paparella
Il compito che mi è stato assegnato è quello di un intervento con finalità meramente introduttive. E poiché
è il primo della sezione riservata agli “interventi de iure
condito” sostanzialmente dovrei provare a delineare lo
stato dell’arte con riferimento a due fenomeni giuridici
del diritto tributario materia – l’elusione fiscale e l’abuso
del diritto – dalle notevoli implicazioni teoriche e pratiche ma dai rilevanti punti di contatto, com’è acutamente colto dal titolo assegnato al convegno1.
Tuttavia, dovendo effettuare una scelta anche rispetto
ai numerosi aspetti problematici individuati dagli stessi
organizzatori del convegno, nelle considerazioni successive mi limiterò ad esporre qualche considerazione introduttiva in tema di “abuso del diritto”2, rinviando ai con1 Sul tema dell’elusione in una visione interna la dottrina è intervenuta copiosamente negli ultimi anni sottolineando il passaggio alla tipizzazione della fattispecie legale a seguito dell’introduzione della clausola antielusiva e prospettando la ricostruzione del fenomeno giuridico
alternativamente nell’ambito della teoria dell’interpretazione allo scopo di distinguere i comportamenti ritenuti illeciti (ad esempio, si veda
RUSSO, Brevi note in tema di disposizioni antielusive, in Rass. Trib.,
1999, 68; VANZ, L’elusione fiscale tra forma giuridica e sostanza economica, in Rass. Trib., 2002, 223; MONTANARI, Elusione fiscale senza
sanzione?, in Giur. It., 2002, 2433) oppure, con maggior rigore, quali
norme che eccedono le regole interpretative in quanto volte a disapplicare le norme regolatrici della fattispecie imponibile secondo il modello riconducibile all’estensione analogica ai casi non espressamente previsti (in questo senso cfr. FEDELE, Appunti dalle lezioni di dir. trib.,
Torino, 2005, 135; LUPI, Diritto tributario, Parte gen., VIII Ed., Milano, 2005, 102; TESAURO, Ist. di dir. trib., I, VIII Ed., Torino, 2003,
247; LA ROSA, Principi di dir. trib., II Ed., Torino, 2006, 23; CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale, Padova, 1992, 140). Tra i contributi più recenti volti a giustificare gli incerti orientamenti giurisprudenziali, cfr. LA ROSA, Sugli incerti confini tra l’evasione, l’elusione e
l’assenza del presupposto soggettivo dell’Iva, in Riv. dir. trib., 2006, II,
619; TABELLINI, L’elusione della norma tributaria, Milano, 2007,
passim; PISTONE, Abuso del diritto ed elusione fiscale, Padova, 1995,
passim; ZOPPINI, Abuso del diritto e dintorni (ricostruzione critica per
lo studio sistematico dell’elusione fiscale), in Riv. dir. trib., 2005, I, 809;
ANDRIOLA, La dialettica tra “aggiramento” e valide ragioni economiche in una serie di ipotesi applicative della norma antielusiva, in Rass.
Trib., 2006, 1897. Infine per interessanti considerazioni recenti riferite
ai profili di compatibilità comunitaria, si veda VACCA, Evoluzione della riforma IRES: considerazioni generali, in Riv. dir. trib., 2007, I, 354.
2 Sull’ampia sfera concettuale della nozione di abuso del diritto nell’ordinamento interno, tra i contributi più significativi, cfr. RESCIGNO, L’abuso del diritto, Il Mulino, 1998, passim; PATTI, Abuso del diritto, in Digesto IV, Disc. priv. sez. civ., Torino, 1987, I, 1; C. SALVI,
tributi dei relatori che seguiranno l’approfondimento
delle numerose questioni controverse che attengono, in
via diretta o mediata, all’ampio oggetto del convegno.
In particolare, senza pretesa di completezza, il mio intervento tenderà solo a fornire qualche spunto di riflessione sulle questioni sostanziali che, a mio avviso, si collocano “a monte” e che condizionano in misura rilevante tutti
gli altri profili irrisolti derivanti dalle ultime pronunce
della Suprema Corte. Queste ultime, infatti, sebbene perseguano l’obiettivo dichiarato di consolidare “principi generali”, ritenendoli addirittura “pacifici”, in realtà, sollevano nuovi interrogativi, che meritano una riflessione approfondita muovendo proprio dall’evoluzione che è possibile cogliere nella giurisprudenza di legittimità.
1. Brevi cenni sugli sviluppi del dibattito
giurisprudenziale desumibile dalle numerose
pronunce rese dalla Suprema Corte
I termini essenziali del dibattito interno sono noti e
risalgono a tre sentenze della Suprema Corte del 2005,
in tema di dividend washing, con le quali è stato ribaltato
l’orientamento precedente sulla base di un originale percorso ricostruttivo3.
In particolare, nel momento in cui la questione sulla
qualificazione in termini di fittizietà/elusività di tali opeAbuso del diritto, I) dir. civ., in Enc. Giur. Treccani, I, Roma, 1998;
GAMBARO, Abuso del diritto, diritto comparato e straniero, ibidem;
MESSINETTI, Abuso del diritto, in Enc. dir., II, Agg., Milano, 1998, 5.
3 Nei confronti di dette operazioni, infatti, i precedenti della Suprema Corte avevano chiarito l’impossibilità di contestarle sia ricorrendo al terzo comma dell’art. 37 del D.P.R. n. 600 del 1973, sia negando efficacia retroattiva alla legge n. 429 del 5 novembre 1992, in
coerenza con quanto riconosciuto dalla stessa Amm. Fin. (cfr. Ris.
Dip. Entrate n. 5/022 del 6 luglio 1993, in Il Fisco, 1993, 8432) al
punto che gli Uffici periferici erano stati invitati ad abbandonare le
controversie pendenti sulla base di un parere reso dall’Avvocatura
Generale dello Stato (per conferma, si veda Circ. Min. n. 87/E del
27 dicembre 2002, in Il Fisco, 2003, 127). Per conferma, si consulti
Cass., n. 3979 del 26 gennaio 2000, in Rass. Trib., 2000, 1267, con
commento nostro Finalmente la Cassazione mette la parola fine alla
questione del campo di applicazione dell’art. 37, comma 3, del D.P.R.
n. 600 del 1973; Cass., n. 11351 del 3 settembre 2001; Cass., n.
3345 del 7 marzo 2002, in Foro It., 2002, I, 1703.
7
8
DOTTRINA
razioni è sembrata definitivamente risolta, sono intervenute tre innovative pronunce, relative al sistema delle imposte sui redditi, che hanno riconosciuto la possibilità di
desumere un “principio tendenziale” in tema di abuso del
diritto “alla luce di alcuni principi ricavabili dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia”4 al punto che, sotto il
profilo processuale, si è ritenuto che “la nullità dei contratti può essere dichiarata d’ufficio – in via incidentale –
anche nel giudizio di legittimità”5.
In realtà, a supporto della conclusione volta a dichiarare la nullità del negozio o dei negozi collegati sono stati utilizzati soprattutto i modelli civilistici di diritto interno al punto che è stata esclusa l’ipotesi della frode alla
legge di cui all’art. 1344 del Cod. Civ. (con l’eccezione
della sentenza n. 20816 del 2005), la nullità per assenza
di interessi meritevoli di tutela ex art. 1322, l’assenza di
un motivo illecito invalidante mentre si è ritenuto sussistente il difetto di causa ai sensi del comma 2 dell’art.
1418, richiamando talune datate pronunce in tema di
accollo del debito d’imposta superate dal comma 2 dell’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente 6.
Tuttavia, sotto il profilo argomentativo, per la prima
volta appare il riferimento ad una non meglio precisata
giurisprudenza comunitaria, in qualche caso non attinente al settore tributario, nonostante sia evidente l’influenza
dei lavori processuali che hanno portato alle tre sentenze
rese dalla Corte di Giustizia, fra le quali ha assunto un rilievo particolare la cosiddetta sentenza Halifax 7.
Ritenendolo applicabile ad operazioni perfezionate quasi dieci
anni prima nonostante altre sentenze dello stesso periodo (ad esempio, Cass. n. 14515 del 29 luglio 2004, in Riv. dir. trib., 2004, II,
272, con nota di ZOPPINI, oppure Cass. n. 19227 del 22 giugno
2006, in Il Fisco, 2006, 1, 5687) avessero più correttamente applicato l’art. 10 della legge n. 408 del 1990 vigente ratione temporis e malgrado sia stata avvertita l’esigenza “di ulteriori specificazioni della giurisprudenza comunitaria”.
5 Cfr. Cass., Sez. Trib., 21 ottobre 2005, n. 20398, in Rass. Trib.,
2006, 295, con commento di STEVANATO, Le ragioni economiche
del dividend washing e l’indagine sulla “causa concreta” del negozio: spunti per un approfondimento; Cass., Sez. Trib., 26 ottobre 2005, n.
20816, in Riv. dir. trib., 2006, II, 691, con nota contraria di GIULIANI, Su talune categorie privatistiche evocate da tre pronunce del Supremo
Collegio in tema di elusione-evasione; Cass., Sez. Trib., 14 novembre
2005, n. 22932, in Giur. Trib., 2006, 212, con commento critico di
BEGHIN, L’usufrutto azionario tra lecita pianificazione fiscale, elusione
tributaria e interrogativi in ordine alla funzione giurisdizionale).
6 Sul punto, sia consentito di richiamare il nostro L’accollo del debito d’imposta, Milano, 2008, 109.
7 Trattasi delle tre sentenze della Corte di Giustizia del 21 febbraio
2006, trattate dall’Avvocato Generale Poiares Maduro nelle conclusioni del 7 aprile 2005, relative alla Causa C-223/03, (in Trusts e attività fiduciarie, 2007, 563, con nota di PAPARELLA, Un’architettura
contrattuale fondata sulla costituzione di un trust e la valutazione in termini di “abuso del diritto” nel sistema dell’I.V.A.), alla Causa C-419/02
4
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
Com’è noto, l’innovativa ed articolata conclusione
enunciata dalla Suprema Corte ha raccolto pochi consensi in dottrina ed i numerosi rilievi critici hanno riguardato indifferentemente gli aspetti sostanziali e processuali,
come è stato ampiamente ribadito in occasione del recente convegno dello scorso 10 luglio8. Non è un caso che il
dibattito giurisprudenziale successivo ha abbandonato
l’approccio iniziale sulla base dei condizionamenti imposti dalla sentenza Halifax posto che, a partire dalle tre
pronunce del 2006 relative all’I.V.A. emesse nello stesso
giorno delle tre sentenze comunitarie9, è possibile cogliere un atteggiamento diverso della Suprema Corte.
Infatti, l’ulteriore evoluzione giurisprudenziale è
contraddistinta dalle due ordinanze del 2006, con le
quali la Corte di Cassazione ha investito del problema le
Sezioni Unite ed ha sollevato una rilevante questione sistematica alla Corte di Giustizia10. In particolare, con la
prima la Suprema Corte, prendendo atto della situazione di incertezza, ha lodevolmente rimesso gli atti alle Sezioni Unite, ritenendo necessario l’esame di “questioni di
diritto involgenti massime di particolare importanza” ai
sensi del comma 2 dell’art. 314 del Cod. Proc. Civ.11.
Con la seconda, invece, poiché si è ritenuto “che siano necessari alcuni chiarimenti al fine di consentire una rigorosa applicazione del principio enunciato dalla sentenza
Halifax”, è stato formulato un rinvio pregiudiziale alla
Corte di Giustizia allo scopo di chiarire se “la nozione di
(cosiddetta BUPA, pubblicata in Corr. Trib., 2006, 1105, con nota di
CENTORE, La detrazione IVA ai confini dell’elusione) ed alla Causa
C-255/02 (cosiddetta Halifax), in Riv. dir. trib., 2006, III, 107, con
nota di POGGIOLI, La Corte di Giustizia elabora il concetto di “comportamento abusivo” in materia d’Iva e ne tratteggia le conseguenze sul
piano impositivo: epifania di una clausola generale antielusiva di matrice
comunitaria?; in Riv. dir. trib., 2007, III, 3, con commento di PISTONE, L’elusione fiscale come abuso del diritto: certezza giuridica oltre le imprecisioni terminologiche della Corte di Giustizia Europea in tema di Iva;
in Rass. Trib., 2006, 1016, con commento di PICCOLO, Abuso del
diritto ed Iva: tra interpretazione comunitaria ed applicazione nazionale.
8 Tra i tanti, si vedano soprattutto gli interventi di MOSCHETTI e SCHIAVOLIN raccolti nell’opuscolo AA. VV., Elusione fiscale.
La nullità civilistica come strumento generale antielusivo, in Atti del
Convegno tenutosi presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova, All. de Il Fisco, n. 43 del 2006, 82 e 93.
9 Il riferimento è alle tre sentenze nn. 10353, 10532 e 11061 del
5 maggio 2006.
10 Per completezza, ed in considerazione del fatto che la questione verte sempre in materia di I.V.A., non è superfluo segnalare anche
l’ordinanza n. 5503 del 9 marzo 2007 in quanto la Suprema Corte
ha formulato un altro rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia
avente ad oggetto il rilievo del principio di proporzionalità rispetto
alle applicazioni del divieto all’abuso del diritto.
11 Per conferma, si veda Cass., Sez. Trib., Ordinanza n. 12031
del 24 maggio 2006, in Corr. Trib., 2006, 2141, con commento di
ZIZZO; in Giur. Trib., 2006, 881, con nota di PINO.
DOTTRINA
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
abuso del diritto o di forme giuridiche, definita dalla sentenze della Corte di Giustizia in causa C-255/02 come
«operazione essenzialmente compiuta al fine di conseguire
un vantaggio fiscale» sia coincidente, più ampia o più restrittiva di quella di «operazione non avente ragioni economiche diverse da un vantaggio fiscale»”12.
Le indicazioni della Corte di Giustizia sono arrivate
con la nota sentenza del 21 febbraio 2008, Causa C425/06 (cosiddetta Part Service), riferita al sistema dell’I.V.A., che ha chiarito “l’esistenza di una prativa abusiva
può essere riconosciuta qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisce lo scopo essenziale dell’operazione o
delle operazione controverse”, specificando che “l’unico
scopo di procurare un vantaggio fiscale” non è una “condizione per l’esistenza di una pratica abusiva” (par. 44)13.
Il sopraggiungere di tale sentenza ha segnato l’avvio
dell’ultimo filone giurisprudenziale, che si è caratterizzato per soluzioni interpretative ulteriormente improntate
alla tutela del principio anti-abuso senza però garantire
adeguate forme di tutela e di contraddittorio al contribuente ed in proposito le critiche sollevate dalla dottrina
meritano un’attenta considerazione.
In definitiva, dalla recente evoluzione giurisprudenziale dell’ultimo periodo è difficile cogliere un principio
tendenziale chiaro in grado di conciliare con equilibrio e
razionalità le contrapposte esigenze dell’Amm. Fin. e del
contribuente a causa del sovrapporsi di pronunce dall’impostazione non sempre univoca su molti aspetti di
fondo e comunque dalle soluzioni in gran parte non
condivise dalla dottrina di maggioranza. In via di principio, con riferimento alle questioni di sistema, sembra
che, allo stato attuale dell’esperienza giuridica, la nozione di abuso abbia ormai assunto una connotazione strettamente comunitaria14 posto che:
12 Cfr. Cass., Sez. Trib., Ordinanza n. 21371 del 10 marzo 2006,
in Il Fisco, 2006, 1, 6585.
13 In Riv. dir. trib., 2008, IV, 252, con ampia nota di POGGIOLI,
Il modello comunitario della “pratica abusiva” in ambito fiscale: elementi
costituivi essenziali e forza di coordinamento rispetto alle scelte legislative
ed interpretative nazionali; in Riv. Giur. Trib., 2008, 750, con commento di CENTORE, Lo «spettro» dell’abuso sulle operazioni soggette ad IVA
14 In questo senso si orientano le pronunce della Corte di Cassazione n. 22023 del 13 ottobre 2006, nonché n. 5503 del 30 novembre
2006. Sul criterio di valutazione degli assetti negoziali nell’ordinamento europeo ai fini del giudizio in termini di elusione o di abuso, cfr.
RIDSDALE, Abuse of right, fiscal neutrality and VAT, in EC Tax review,
2005, 82; FROMMEL, United Kingdom tax law and abuse of rights, in
Intertax, 1991/1992, 54; SHIPWRIGHT, L’esperienza britannica, in
DI PIETRO, a cura di, L’elusione fiscale nell’esperienza europea, Milano,
1999, 107; BURGIO, The abuse of law in the framework of the European tax law, in Intertax, 1991/1992, 82; TERRA-WATTEL, European
tax law, IV Ed., Kluver law international, 140 e 525; KJELLGREN,
On the border of abuse, in European business law review, 2000, 192.
a) si abbandona il sistema delle nullità di diritto intered in questo senso probabilmente hanno giocato un
ruolo decisivo le conclusioni dell’Avvocato Generale con
riferimento alle cause riunite C-439/04 e C-440/04, in
merito all’ordinamento belga, che hanno portato alla
sentenza della Corte di Giustizia del 6 luglio 200616;
b) conseguentemente, sotto il profilo degli effetti della
violazione del principio dell’abuso del diritto, si abbandona il modello della nullità – che prospettava problemi di
coordinamento sistematico con il comma 3 dell’art. 10
dello Statuto dei diritti del contribuente che dispone “le
violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario
non possono essere causa di nullità del contratto” – e si inizia
a fare strada, più propriamente, quello dell’inefficacia nei
confronti dell’Amm. Fin o dell’inopponibilità;
c) infine, è apertamente sollevato il problema del rapporto tra la nozione di abuso e quella di elusione17.
In questa nuova prospettiva, tuttavia, permangono
questioni molto controverse che attengono soprattutto all’ambito oggettivo di applicazione – e, quindi, alla possibilità che la nozione di abuso sia limitata ai tributi di stretta derivazione comunitaria – ed alla difficoltà di recepire i
principi elaborati dalla Corte di Giustizia in considerazione dei vincoli imposti dall’ordinamento nazionale 18.
no15
2. L’ambito di applicazione dell’abuso del diritto
con riferimento ai tributi diversi da quelli più
propriamente comunitari
Come detto, la questione dell’ambito oggettivo di
applicazione del principio anti-abuso è quella sistemati15 Sull’ampio e complesso tema riguardante la possibilità di eccepire ai fini fiscali la nullità di singoli negozi ed assetti collegati o complessi
sulla base dei vizi previsti dal Codice Civile (ad esempio, la violazione
di norme imperative, i vizi funzionali della causa, la nullità per frode alla legge, l’esistenza di motivi illeciti, etc..), tra i tanti, cfr. GAFFURI, La
rilevanza della nullità contrattuale in diritto tributario, in Boll. Trib.,
2006, 453; TABELLINI, L’elusione della norma tributaria, cit., 101;
CECCHINI, Collegamento tra negozi a prestazioni corrispettive e nullità
per mancanza di causa, in AA. VV., Elusione fiscale. La nullità civilistica
come strumento generale antielusivo, cit., 19; BUSA, La nullità civilistica
come strumento generale antielusivo, in Il Fisco, 2006, 1, 15596.
16 In Rass. Trib., 2008, 235, con nota di CARDILLO, Tutela della buona fede e dell’affidamento del soggetto passivo nelle frodi Iva mediante “carosello”.
17 Cfr. Cass., Sez. Trib., 21 febbraio 2006, nn. 10352, 10353 e
11061, in Riv. dir. trib., 2006, II, 619, con commento di LA ROSA,
Sugli incerti confini tra l’elusione, l’evasione e l’assenza del presupposto
soggettivo Iva.
18 Questo profilo è approfondito da SCHIAVOLIN, L’elusione
fiscale come abuso del diritto: allo stato dell’arte, più problemi che soluzioni, in AA. VV., Elusione fiscale. La nullità civilistica come strumento generale antielusivo, cit., 66.
9
10
DOTTRINA
camente più rilevante posto che si tratta di comprendere
se esso sia applicabile al sistema tributario nel suo complesso oppure se sussistono limiti in grado di limitarne
l’applicazione a tributi specifici, escludendo, ad esempio, le imposte sui redditi.
Sul punto, anche le indicazioni più recenti della Suprema Corte sono perentorie posto che con la sentenza n.
21221 del 29 settembre 200619 (ritenuta dalla stessa
Corte “l’espressione più articolata e compiuta di un indirizzo giurisprudenziale che può ormai dirsi pacifico”20), le ordinanze n. 3031 e 3033 del 8 febbraio 2008, in tema di
aiuti di Stato alle cooperative, e, soprattutto, con la più
recente sentenza n. 8772 del 4 aprile 2008 si è pervenuti
alla conclusione, ritenuta desumibile dalla giurisprudenza comunitaria, che “anche nell’imposizione fiscale diretta,
pur essendo questa attribuita alla competenza degli Stati
membri, gli stessi devono esercitare tale competenza nel rispetto dei principi e delle libertà fondamentali contenuti nel
Trattato Ce”21. Ma a tale ampliamento si oppone quanto
evidenziato dalla dottrina che ritiene applicabile la clausola anti-abuso ai soli tributi armonizzati22.
In quest’ultimo senso depongono diversi argomenti
che mi limito solo ad enunciare.
In primo luogo, sotto il profilo metodologico, se si
conviene che il principio anti-abuso abbia una fonte
strettamente comunitaria a me pare coerente desumere
che il suo ambito di applicazione debba essere in primo
luogo definito sulla base di tale sistema normativo e, solo in subordine, in forza dell’ordinamento interno, assumendolo peraltro nel rispetto della totalità dei vincoli
che riguardano sia i profili sostanziali, che quelli più
strettamente procedimentali.
In Dir. e Prat. Trib., 2007, II, 723, con commento di LOVISOLO, Il principio di matrice comunitaria dell’“abuso” del diritto entra nell’ordinamento giuridico italiano: norma antielusiva di chiusura o
clausola generale antielusiva? L’evoluzione della giurisprudenza della
Suprema Corte.
20 Per conferma, si veda la sentenza n. 10257 del 16 gennaio
2008, in Riv. dir. trib., 2008, II, 448, con nota di BEGHIN, Note critiche a proposito di un recente orientamento giurisprudenziale incentrato
sulla diretta applicazione in campo domestico, nel comparto delle imposte
sul reddito, del principio comunitario del divieto di abuso del diritto.
21 In Riv. Giur. Trib., 2008, 695, con commento critico di ORSINI, L’abuso del diritto rende l’atto inefficace: sul contribuente l’onere
della prova.
22 Per conferma, cfr. ZIZZO, L’abuso dell’abuso del diritto, in Riv.
Giur. Trib., 2008, 465; BEGHIN, Abuso del diritto la confusione persiste, in Riv. Giur. Trib., 2008, 649; IDEM, Note critiche a proposito
di un recente orientamento giurisprudenziale, cit., 474; ORSINI,
L’abuso del diritto rende l’atto inefficace, cit., 704; POGGIOLI, Il modello comunitario della “pratica abusiva” in ambito fiscale, cit., 252;
ATTARDI, Il divieto di abuso del diritto nel settore delle imposte sui
redditi, in Il Fisco, 2008, 1, 6661.
19
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
Se tale premessa è condivisa è agevole constatare che
l’abuso del diritto non rientra i principi propri del Trattato, né può essere qualificato alla stregua di un vago e generico “canone ermenutico” in assenza di parametri normativi di riferimento ed, inoltre, che, a partire dalla nota
sentenza Halifax, allorquando la Corte di Giustizia ha
utilizzato detto principio lo ha prevalentemente ancorato
alla violazione delle disposizioni comunitarie riguardanti
tributi specifici ed in primo luogo dell’I.V.A.23. In questo
senso le indicazioni più recenti sono addirittura perentorie posto che con la sentenza del 22 maggio 2008, Causa
C-162/07, la Corte ha specificato al par. 27 che “il principio del divieto all’abuso del diritto … è volto, segnatamente
nel settore dell’I.V.A., a che la normativa comunitaria non
venga estesa sino a comprendere i comportamenti abusivi di
operatori economici”.
Invece, con riferimento al settore delle imposte sui
redditi, a partire dalla sentenza Schweppes24, la Corte di
Giustizia ha prospettato un ragionamento diverso, che
ha avuto la sua elaborazione più compiuta nella sentenza
del 5 luglio 2007, Causa C-321/05 (cosiddetta Kofoed)25, nella quale si legge che il mancato recepimento
nell’ordinamento interno della clausola antielusiva prevista da una direttiva comunitaria consente la perseguibilità della condotta in termini in termini di antielusività a condizione che sussistano norme nazionali in tema
di abuso del diritto, il che, riguardo all’ordinamento nazionale, prospetta un delicato problema di conformità
all’art. 23 della Cost.26.
23 Spunti del medesimo tenore sono prospettati da BASILAVECCHIA, Norma antielusiva e “relatività” delle operazioni imponibili, in Corr. Trib., 2006, 1466; SALVINI, L’elusione Iva nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corr. Trib., 2006, 3099; ATTARDI, L’elusione nell’Iva. L’impatto del divieto comunitario di abuso
del diritto, in Il Fisco, 2007, 1, 4572; IDEM, How the Halifax ECJ’s
decision affects italian tax-payers, in Tax notes intertax, 2006, 613.
24 Si tratta della sentenza della Corte di Giustizia del 12 settembre 2006, Causa C-196/04, in Riv. dir. fin., 2007, II, 3, con commento di CIPOLLINA, CFC legislation e abuso della libertà di stabilimento: il caso Cadbury Schweppes; in Rass. Trib., 2007, 983, con nota di BEGHIN, La sentenza Cadbury-Schweppes ed il “malleabile”
principio della libertà di stabilimento; in Corr. Trib., 2006, 3347, con
commento di DELLA VALLE, Tassazione degli utili della società estera controllata e rispetto del diritto di stabilimento. L’oggettiva difficoltà
di applicare i principi elaborati in materia di I.V.A. al sistema delle
imposte sui redditi in conseguenza della sentenza Schweppes è colta
da PISTONE, L’elusione fiscale come abuso del diritto, cit., 26.
25 In Rass. Trib., 2008, 261, con commento di ANDRIOLA,
Quale incidenza della clausola anti-abuso comunitaria nella imposizione sui redditi in Italia?; al riguardo, inoltre, si veda ATTARDI, Il divieto di abuso del diritto nel settore delle imposte dirette, cit., 6664.
26 Per ulteriori considerazioni sul tema, inoltre, si consultino le
conclusioni dell’avvocato generale Kokott del 8 febbraio 2007. Il
tema della conformità all’art. 23 della Cost. nel dibattito interno è
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
Peraltro, la distinzione tra i diversi settori impositivi è
agevolmente riscontrabile sul piano del diritto positivo
comunitario in quanto è noto che, a fronte dell’assenza
di clausole specifiche per i tributi armonizzati, per le imposte sui redditi una sorta di clausola antiabuso è codificata dalla Direttiva n. 434 del 1990 in tema di operazioni straordinarie di modo che la sua applicazione concreta dovrebbe essere strettamente limitata alle fattispecie
previste dalla Direttiva medesima27.
Il quadro sistematico che si desume dall’ordinamento comunitario, quindi, sembra sufficientemente chiaro
e porta a concludere che il principio anti-abuso è pacificamente applicabile per i tributi armonizzati e con riferimento alle violazioni riguardanti la relativa disciplina
mentre per quelli non armonizzati il parametro normativo di riferimento è di diritto interno ed andrebbe coordinato con gli altri principi generali propri di tale ordinamento di modo che il ripetuto tentativo di codificarlo
in via interpretativa è oltremodo dubbio.
D’altro canto, nonostante l’ampiezza del tessuto argomentativo che contraddistingue la sentenza n. 8772 del
2008, al punto da proporsi come il punto di arrivo di
un’evoluzione giurisprudenziale tormentata, il ragionamento della Corte non è supportato da un percorso teorico in grado di superare l’obiezione di principio in quanto
l’applicazione del principio comunitario dell’abuso del diritto a tutti i settori impositivi è sostenuta con quattro
precedenti della Corte di Giustizia nei quali però il problema era sostanzialmente diverso posto che riguardava la
qualificazione fittizia o fraudolenta dell’operazione28.
Da tale impostazione sostanziale, peraltro, derivano in
una visione interna le ulteriori e rilevanti questioni di natura procedimentale e processuale – in termini di assenza
di contestazione nell’atto di accertamento, di assenza di
contraddittorio in fase endoprocedimentale e di eccepibilità d’ufficio in ogni stato del giudizio sulle quali si soffermeranno gli altri relatori – che effettivamente pregiudicano in misura sostanziale il diritto di difesa del contribuente
a differenza di quanto accade se la contestazione fosse fondata su argomenti di natura più strettamente antielusiva.
ricorrente in dottrina. Tra i tanti, cfr. BEGHIN, Note critiche a proposito di un recente orientamento giurisprudenziale, cit., 461; POGGIOLI,
Il modello comunitario della “pratica abusiva” in ambito fiscale, cit., 264.
27 In senso conforme PLACIDO, Dall’Europa all’Italia avanza il
principio dell’abuso del diritto, in Il Fisco, 2006, 1, 4801.
28 In dottrina, l’esistenza di un “principio immanente” è stata sostenuta da LIPRINO, Il difficile equilibrio tra libertà di gestione e
abuso del diritto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: il caso
Part. Service, in Riv. dir. trib., 2008, II, 112; SANTACROCE,
L’abuso del diritto, dall’Iva comunitaria all’Iva interna, in Dialoghi tributari, 2008, 115.
DOTTRINA
3. La dimensione concettuale della nozione di
abuso del diritto
Per qualche verso collegata alla questione appena esaminata è l’ulteriore profilo che induce a domandarsi se il
principio dell’abuso del diritto costituisca nella nostra
materia un fenomeno giuridico diverso, analogo o più
ampio dell’elusione fiscale alla luce delle indicazioni recate dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973.
In questi termini, gli ultimi interventi della Suprema
Corte sono ancora più asistematici sia perché la prospettazione di un “principio immanente” travolge qualsiasi
tentativo di sistemazione teorica rispetto a due categorie
giuridiche (ovvero l’elusione e la simulazione) – rispetto
alle quali l’elaborazione dottrinale aveva compiuto notevoli progressi – ma soprattutto perchè la nozione di abuso è assunta con una dimensione più ampia di quella codificata dalla giurisprudenza comunitaria, che distingue,
a partire dai fondamentali parr. 74-75 della sentenza
Halifax, la pluralità di cause o motivi sottostanti l’operazione (definiti “elementi obiettivi”) dalla finalità di conseguire un risparmio d’imposta (letteralmente “lo scopo
di ottenere un vantaggio fiscale”) e, soprattutto, richiede il
decisivo parametro della contrarietà rispetto agli obiettivi perseguiti dal diritto comunitario29.
È noto, infatti, che secondo le recenti sentenze della
Suprema Corte n. 8772 del 2008 e n. 10257 del 16 gennaio 2008 la fattispecie dell’“abuso” supera qualsiasi valutazione in termini di scopi economici diversi dal risparmio
fiscale e si risolve nelle “operazioni compiute essenzialmente
per il conseguimento di un vantaggio fiscale” talché la sua
formulazione estrema porterebbe ad escludere qualsiasi
ipotesi di risparmio legittimo d’imposta ed a rilevare che il
comportamento irreprensibile del contribuente dovrebbe
essere ispirato al principio del regime fiscale più oneroso in
contrasto con l’esigenza posta in risalto dalla sentenza n.
21221 del 2006 volta al riconoscimento della “liceità dell’obiettivo della minimizzazione del carico fiscale”.
L’ampliamento della casistica dei fenomeni immeritevoli di tutela, peraltro, è fonte di un’ulteriore irrazionalità dal punto di vista della coerenza sistematica e del
principio di proporzionalità in quanto ribaltando la regola secondo cui alla maggiore intensità del rimedio predisposto dall’ordinamento giuridico deve corrispondere
un livello più elevato di garanzia per il soggetto colpito
dalla misura repressiva:
29 Per una completa ricognizione delle differenze esistenti tra la
visione interna e quella comunitaria si veda CENTORE, Lo «spettro»
dell’abuso sulle operazioni soggette ad IVA, cit., 755, ove ulteriori riferimenti di dottrina.
11
12
DOTTRINA
a) mentre la patologia più grave – ovvero la contestazione in punto di abuso – non sarebbe assistita
da alcuna specifica garanzia in quanto anche la
tendenza giurisprudenziale che sancisce l’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del
contribuente l’onere di dimostrare “l’esistenza di
ragioni economiche, alternative o concorrenti, di carattere non meramente marginale o teorico” è causa
di una confusione concettuale sul rilievo delle
motivazioni di natura extra-fiscale (o, comunque,
diverse dalle ragioni di risparmio fiscale) oltre a
non produrre alcun risultato concreto;
b) quelle più lievi – e cioè l’elusione e la simulazione
– sarebbero contraddistinte da maggiori cautele
sotto il profilo endoprocedimentale, dell’interpello o degli strumenti di prova a disposizione dell’Amm. Fin.30.
In tale contesto evidentemente assume un rilievo più
significativo il tema dell’inapplicabilità delle sanzioni31,
sottolineato dalla Corte di Giustizia a partire dalla sentenza Halifax32, e che, allo stato attuale dell’esperienza
giuridica, non è stato ancora preso in esame dalla giurisprudenza di legittimità a fronte di qualche pronuncia
favorevole della giurisprudenza di merito33.
A mio avviso, l’ultima prospettiva adottata dalla Corte
di Cassazione merita di essere corretta e le soluzioni possono essere diverse in funzione degli strumenti utilizzati.
Da un lato, infatti, sotto il profilo interpretativo, si potrebbe pervenire alla conclusione che per il versante delle
imposte sui redditi il principio anti-abuso corrisponde
con l’elusione fiscale34, di modo che la sua concreta applicazione sarebbe soggetta ai limiti previsti dall’art. 37-bis
del D.P.R. n. 600 del 1972; viceversa, per i soli tributi ar30 Tale aspetti cono acutamente evidenziati, da ultimo, da BASILAVECCHIA, Elusione e abuso del diritto: una integrazione possibile,
in Riv. Giur. Trib., 2008, 741.
31 La delicatezza del profilo sanzionatorio è posta in risalto da
BASILAVECCHIA, Norma antielusiva e “relatività” delle operazioni
imponibili Iva, cit., 1468.
32 Tra le più recenti, si consulti la sentenza della Corte di Giustizia del 6 luglio 2006, nella causa C-439/04, in Riv. Giur. Trib., 2006,
837, con commento di CENTORE, L’evoluzione della giurisprudenza comunitaria in tema di frodi Iva.
33 Per conferma, si veda la corposa sentenza della Comm. Trib.
Prov. di Milano, Sez, XIV, n. 278 del 13 dicembre 2006, in Dialoghi di
dir. trib., 2007, 390, con commenti di STEVANATO, PARA e LUPI.
34 Sul punto, si consulti il contributo di PISTONE, L’elusione fiscale come abuso del diritto, cit., 20, che perviene alla sostanziale equiparazione delle due nozioni sulla base delle imprecisioni terminologiche e di traduzione (sui termini abuso, elusione, evasione e frode)
presenti nella sentenza Halifax confrontate con i precedenti della
Corte. In senso sostanzialmente analogo cfr. CONTRINO, Elusione
fiscale, evasione e strumenti di contrasto, Bologna, 1996, 307.
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
monizzati sarebbero applicabili le regole desumibili dalla
giurisprudenza comunitaria, che prospetta ben altra nozione rispetto a quella equivalente al mero risparmio fiscale desumibile dalle ultime sentenze della Suprema Corte
ed impone maggiori garanzie per il contribuente35.
Dall’altro, invece, potrebbe ipotizzarsi un tentativo
di razionalizzazione tramite l’intervento legislativo sul
modello del par. 42 della legge generale tributaria tedesca del 1977 (Abgabeordnung) talvolta richiamato dalla
stessa Corte di Cassazione.
In questo senso, a me sembra condivisibile il suggerimento di porre fine all’incessante revisione dell’art. 37bis del D.P.R. n. 600 del 1973 e di provvedere alla sua riformulazione in termini di clausola generale in modo da
ricondurre ad unità sistematica anche quelle fattispecie
assai controverse riguardanti, ad esempio, l’imposta di
registro36. In particolare, essa dovrebbe essere svincolata
dall’individuazione di operazioni tipiche e non limitata
a tributi specifici o categorie omogenee di tributi, salvaguardando il sistema delle garanzie volto a garantire la
sfera patrimoniale del contribuente ed a consentire il
sindacato sull’operato dell’Amm. Fin.37.
4. Conclusioni
In definitiva, alla luce delle considerazioni precedenti, mi sembra che, fermo restando il rilievo assunto nell’esperienza giuridica dal principio anti-abuso, la sua dimensione giuridica nel diritto tributario, a prescindere
dalla meritevolezza delle finalità che è preordinato a soddisfare, presenti ancora profili irrisolti allo stato attuale
del dibattito e necessiti di una sistemazione compiuta allo scopo di conferire al sistema piena coerenza rispetto ai
principi di legalità, certezza del diritto, legittimo affidamento e stabilità nei rapporti giuridici.
In questo senso spero di aver contribuito a stimolare
le riflessioni degli altri relatori sui tanti aspetti che ho volutamente trascurato e sugli altri che emergeranno nel
corso della tavola rotonda.
35 In senso conforme BASILAVECCHIA, Norma antielusione e
“relatività” delle operazioni imponibili Iva, cit., 1468.
36 In particolare, sulla dubbia applicazione del principio dell’abuso del diritto con riferimento l’art. 20 del D.P.R. n. 131 del
1986 in tema di interpretazione degli atti ai fini dell’imposta di registro, cfr. STANCATI, Riqualificazione negoziale e abuso della clausola
antielusiva nell’imposta di registro, in Corr. Trib., 2008, 1685. In giurisprudenza, cfr. Cass., n. 10273 del 4 maggio 2007.
37 In questo senso si veda ZIZZO, L’abuso dell’abuso del diritto,
cit., 466.
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
DOTTRINA
Senza affidabilità nella applicazione delle regole,
non esiste un “diritto tributario”
di Roberto Lunelli
A. Premessa
1. A ben poco servono le leggi tributarie se il “diritto
vivente” fa prevalere, su di esse, principi che dichiara “immanenti” nell’ordinamento tributario italiano, ma che, in
realtà, si sono formati nel tempo, sulla scorta neanche della legislazione, ma della giurisprudenza comunitaria.
Fino a tre anni fa, infatti, quei principi – “esterni” all’ordinamento nazionale e riguardanti “tributi comunitari” – non solo erano ancora “in via di formazione”1,
ma non se ne poteva prevedere neanche una applicazione nel settore delle imposte sui redditi (per di più, anche
per il passato).
Oggi, questa situazione determina gravi incertezze e
profondi disagi negli operatori economici e giuridici:
perché viene meno il quadro di riferimento (e le garanzie) che i contribuenti avevano riposto, per i tributi di
pertinenza nazionale, nella legislazione interna (tenuto
conto della riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione); per i tributi di pertinenza comunitaria, nei regolamenti e nelle direttive (sufficientemente precise)
elaborate dal Legislatore dell’Unione Europea: sempre,
dunque, nelle tradizionali fonti scritte.
2. Nel campo tributario sta accadendo che la legislazione, spesso incerta e confusa, viene interpretata dalla
giurisprudenza (in particolare, di legittimità) non tanto
attribuendo ad essa il significato proprio delle parole (secondo la loro connessione e le intenzioni del Legislatore),
quanto, invece, assegnandole il senso che la stessa “dovrebbe avere” per essere “in armonia” con un (qualche)
“sistema”: quello tributario 2, ma anche quello civili1 Cfr. Corte di Cassazione, Sentt. 21 ottobre 2005, n. 20398 e
14 novembre 2005, n. 22932 che affermano “Nella disciplina anteriore all’entrata in vigore dell’art. 37–bis del D.P.R. 29 settembre 1973,
n, 600, introdotto dall’art. 7 del D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, pur
non esistendo nell’ordinamento fiscale italiano una clausola generale
antielusiva, non può negarsi l’emergenza di un principio tendenziale,
desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto
elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono
trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale”.
2 Prospettazione sistematicamente comprensibile, anche se vanno
rispettate – e salvaguardate – le caratteristiche proprie di ogni tributo.
stico3 o quello comunitario4 … La prassi amministrativa, a sua volta, si adegua alla giurisprudenza, anche nelle
oscillazioni, incurante dei suoi “precedenti” e del principio di affidamento dei soggetti passivi …
Sullo sfondo la dottrina, che (spesso) critica la legislazione, contesta la giurisprudenza, disapprova la prassi amministrativa, evoca – giustamente – lo “Statuto dei diritti
del contribuente”… ma non propone un “modello” da
adottare, né persegue, con la necessaria tenacia, quei principi di razionalizzazione, di semplificazione e di sistematicità dell’ordinamento tributario che – se espressi – avrebbero potuto indurre il Legislatore a realizzare, prima, una
serie di Testi Unici (che siano tali anche nei fatti) e, poi, finalmente un Codice tributario (di parte generale e parte
speciale), organico nel contenuto e stabile nel tempo5.
In questo contesto – che pretende l’applicazione di
una legislazione casistica (talora “provvedimentale”) e,
però, fa applicazione anche di “principi” spesso ignoti
anche alla prassi (e neanche consolidati) – il contribuente non sa come comportarsi; e anche se si rivolge a un
(qualificato) tributarista non ottiene certezze, ma risposte prudenti e poco rassicuranti; per cui, ulteriormente
disorientato, o adotta la soluzione a sé più conveniente,
con l’alibi della incertezza; o si assoggetta a una tassazione “precauzionale”, che, però, finisce per danneggiarlo
in termini di competitività e concorrenza. Quale che sia
la sua decisione, sbaglia.
3. È accaduto proprio questo, in materia di elusione
fiscale e abuso del diritto; mettendo a rischio, in questi
ultimi anni, operazioni concluse vent’anni fa, quando si
cominciava a disciplinare le operazioni elusive, ma senza
3 Cfr. le Sentt. 20398/2005 e22932/2005 già citate in nota 1.
4 Cfr. le Sentt. 29 settembre 2006, n. 21221 e, di seguito, 4 aprile 2008, n. 8772; 21 aprile 2008, n. 10257; 15 settembre 2008, n.
23633 e 17 ottobre 2008, n. 25374.
5 Tale “Progetto” era contenuto nella Legge (delega) 7 aprile
2003, n. 80, che – al di là dei tanti limiti – si era posta un obiettivo
“di sistema” e avrebbe potuto e dovuto essere l’occasione per proporre soluzioni ispirate ai principi dello Statuto, da consolidare e mantenere stabili nel tempo … ma alla Legge delega dovevano seguire i decreti delegati, che sono mancati, se si eccettua quello sulla “trasformazione” dell’IRPEG nell’IReS. realizzata con il D.Lgs. 344/2003.
13
14
DOTTRINA
ipotizzare che l’abuso del diritto potesse interessare un
settore impositivo – come quello delle imposte sui redditi – che si stava (appunto) pensando di regolamentare
con la normativa interna.
È vero che il principio dell’art. 23 della Costituzione6
non può essere esteso ai “tributi comunitari”, ma è anche
vero che la preminenza della fonte esterna dovrebbe valere solo in presenza di regolamenti o di direttive sufficientemente precise7; tutt’al più, nel perimetro di pertinenza comunitaria8, ma non anche nel settore delle imposte sui redditi (altro che per particolari e ben individuate operazioni9). In altre parole: i principi elaborati
dalla Corte di Giustizia C.E. non dovrebbero essere utilizzati in un settore, come quello delle imposte sui reddi-
6 Il principio per cui “nessuna prestazione (…) patrimoniale può
essere imposta se non in base alla legge” vale per la normativa interna,
ma non anche per quella comunitaria, con la precisazione, però, che
“le norme comunitarie disciplinanti l’area loro riservata, prevalgono
[solo] sulle norme statali incompatibili” (Cfr. G. Falsitta, Corso istituzionale di diritto tributario, II edizione, Cedam 2007).
7 Cfr. artt. 93 e 249 del Trattato istitutivo della Comunità Europea (ora, Unione Europea). È sufficientemente precisa, la Direttiva
2006/112/CE, relativa alla armonizzazione, nel settore IVA, delle legislazioni degli Stati membri, ai quali non è lasciata discrezionalità in
fase di recepimento: pertanto, fattispecie che non trovino un uniforme trattamento nei diversi Stati, può implicare l’intervento interpretativo della Corte di Giustizia, con effetto vincolante per gli stessi.
8 L’ordinamento comunitario e quello interno sono, infatti, coordinati tra loro avendo riguardo alle “ripartizioni di competenze stabilite e garantite nel Trattato” (istitutivo della Comunità europea), il quale
stabilisce (nell’ambito dei principi) che “la Comunità agisce nei limiti
delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati
dal presente trattato. Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono
essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque …
essere realizzati meglio a livello comunitario. L’azione della Comunità
non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi
del presente trattato” (art. 5). “Dal punto di vista della potestà normativa, la competenza comunitaria, in sostanza, è limitata al campo delle
imposte indirette e segnatamente solo per quanto necessario per l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno (art. 93 del Trattato Ce).”
Il Trattato non prevede una competenza positiva della Comunità in
materia di imposizione diretta, ma solo alcuni modelli per “giungere
all’integrazione comunitaria in materia fiscale” tra i quali “quello fino
ad oggi impiegato, consiste nell’adozione di misure singole, tese a risolvere
specifici problemi che ostacolano il funzionamento del mercato unico. Accanto ad essi … si trovano gli interventi censori della Corte di Giustizia.”
(cfr. Victor Uckmar, “Il ruolo della Corte costituzionale in materia tributaria nell’era della Corte di Giustizia Europea”, in Diritto tributario
e Corte costituzionale, Ed. Scientifiche italiane, 2006).
9 Mi riferisco alle operazioni cd. “madre figlia” o alle operazioni
societarie straordinarie di tipo intracomunitario, di cui rispettivamente alla Direttiva 90/435/CEE (modificata con direttiva
2003/123/CE) e alla Direttiva 90/434/CEE (modificata con direttiva 2005/19/CE).
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
ti, che è rimasto nella disponibilità (conflittuale) dei singoli Stati10; né trovare applicazione fin tanto che non
vengano consacrati in provvedimenti normativi11 (e tanto meno con riferimento a fatti accaduti quando tale
principio era ancora “tendenziale”).
B. La Corte di Giustizia
È noto che la giurisprudenza della Corte di Giustizia
della C.E. ha elaborato, nel tempo, un principio “antiabuso” (del diritto) per contrastare l’elusione relativa ai
tributi di sua pertinenza: innanzitutto per l’IVA, ma anche nel campo dei dazi doganali, delle accise ed eccezionalmente, per talune operazioni societarie ritenute meritevoli di una disciplina (comunitaria) comune nell’imposizione sui redditi.
Si verifica, peraltro, “abuso del diritto” solo quando
vengono “violati” gli obiettivi posti dalla normativa comunitaria: così, per l’IVA, dalle Direttive. Si deve indagare, pertanto, prima di tutto, sulla possibilità (in astratto)
che l’operazione si ponga in conflitto con tale normativa;
e solo poi, se del caso, sullo scopo (in concreto) dell’operazione stessa12: “perché possa parlarsi di un comportamento
abusivo, le operazioni controverse devono … procurare un
10 Fermo restando il rispetto dei “principi base” del Trattato, come la libera circolazione delle persone, dei capitali e dei beni, il rispetto della concorrenza, ecc., (fra i quali, però, non può essere annoverato quello del divieto di “abuso del diritto”): rispetto a detti
principi, la Corte di Giustizia si pone come censore laddove gli Stati
membri non li rispettino. Si veda, nel settore delle imposte sui redditi, la sentenza 5 luglio 2007, C-321/05 [Koford], con cui la CGCE
ha considerato “non abusivo” il comportamento di un soggetto che
si era conformato alle disposizioni, in materia, del diritto nazionale,
ancorché in contrasto con quelle comunitarie. (Si veda, inoltre, la
sentenza 23 aprile 2008, C-201/05, a proposito della libertà di stabilimento, citata in nota 14).
11 Anche volendo riconoscere i poteri che la Corte di Giustizia si è
attribuita, in ordine alla valenza erga omnes dei suoi principi interpretativi, non si può trascurare che “la diretta applicabilità nell’ambito
territoriale di ciascuno Stato” delle sentenze interpretative della Corte
di Giusitizia è prevalente rispetto “solo” al “diritto nazionale difforme” (Cfr. G. Falsitta, già citato); ma quando vi è analogia tra le disposizioni del diritto interno (nel caso specifico, l’art. 37-bis) e i principi
elaborati dalla Corte di Giustizia (nel caso specifico, il divieto di abuso del diritto), non c’è ragione di far prevalere questi ultimi su una disposizione nazionale tutelata dal principio della riserva di legge.
12 Cfr. CGCE, Sentenze 21 febbraio 2006, causa C-255/02; 21
febbraio 2008, causa C-425/06. Per valutare se le operazioni “possano
essere considerate come rientranti in una pratica abusiva, il giudice nazionale deve anzitutto verificare se il risultato perseguito sia un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria a uno o più obiettivi della VI direttiva e, successivamente, se abbia costituito lo scopo essenziale della soluzione contrattuale prescelta”. Ne deriva che lo scopo dell’operazione neanche viene considerato se non emerge un contrasto con la Direttiva.
DOTTRINA
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito” (nel caso, dalla VI Direttiva comunitaria sull’IVA); e “deve (…) risultare, da un insieme di elementi oggettivi, che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale” 13.
to] si traduce nella individuazione di un difetto di causa che
dà luogo alla nullità dei contratti ”. La stessa Sezione Tributaria della Cassazione, peraltro, si rende conto del contrasto esistente nell’ambito della sua stessa giurisprudenza
e rimette la soluzione del problema alle Sezioni Unite17.
Del resto, anche precedentemente, in diverse occasioni14, la Corte di Giustizia (delle Comunità europee)
aveva affermato che le Direttive non impongono all’operatore un percorso obbligatorio, ma lo lasciano libero di
optare per quello che gli assicura un minor carico fiscale:
purché il suo comportamento non contrasti con gli
obiettivi perseguiti dalle stesse.
3. A partire dal 200618, infine, la Corte fa diretta applicazione del principio giurisprudenziale (comunitario)
di divieto di abuso (del diritto); rilevando
• che l’operazione deve essere valutata secondo le finalità “essenziali” (non dovendo dare rilievo a ragioni
economiche solo marginali o teoriche); per cui non
vale opporre – da parte dell’interessato – che la finalità non era “esclusivamente” tributaria19;
• che tale principio “deve essere considerato di generale
applicazione, che trascende non solo i limiti di area dei
c.d. tributi armonizzati, ma (…) l’intera materia tributaria”20; per concludere: “l’ottica dei rapporti elusione/norma legislativa si è così ribaltata e le singole norme
«anti-elusive» vengono invocate non più come eccezioni
a una regola, ma come vero sintomo dell’esistenza di
una regola … Non si dubita, cioè, più della generale applicabilità della «clausola antielusione»”.21
Nonostante le perplessità della dottrina e le conseguenze – talora devastanti – che ne potrebbero derivare a
carico di soggetti che – a suo tempo, quando avevano
concluso le operazioni – avevano rispettato le leggi vigenti (e non potevano certo prevedere tale evoluzione del
“diritto vivente”), questa tendenza è ancora in corso e sta
consolidandosi: il principio dell’abuso del diritto “trova
applicazione anche (…) in riferimento al periodo anteriore all’entrata in vigore del D.P.R. 29 settembre 1973, n.
600, art. 37-bis, introdotto dal D.Lgs. 8 ottobre 1997, n.
358, art. 7, rappresentando, pur in mancanza di una
C. La Corte di Cassazione
La giurisprudenza della Corte di Cassazione presenta
un andamento ondivago, che non si è ancora stabilizzato.
1. Fino a qualche anno fa, essa aveva reiteratamente
affermato che l’“autonomia contrattuale” delle parti e la
libertà di scelta del contribuente non vanno limitati, se
non in presenza di specifiche disposizioni di legge; per
cui “in difetto, si rimane nell’ambito della mera lacuna
della disciplina tributaria” 15.
2. Nel 2005, la svolta: in due Sentenze16, la Corte ritiene che nel diritto tributario (normativa speciale) possano
essere trasposti principi e criteri che sono propri del diritto civile (generale), dichiarando, per la prima volta, che
“l’applicazione del principio [di divieto di abuso del dirit-
13 CGCE, Sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02.
Cfr. CGCE, Sentenze 6 giugno 1995, causa C-4/94; 9 ottobre
2001, causa C-108/99; 30 aprile 2004, cause C-487/01 e C-7/02: “la
soppressione del contesto normativo del quale un soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto ha beneficiato pagando meno imposte, senza che
per questo vi sia una pratica abusiva, non può (…) di per sé, violare un
legittimo affidamento fondato sul diritto comunitario”. A proposito della “libertà di stabilimento”, cfr. Sentenza 23 aprile 2008, causa C201/05, secondo la quale “gli artt. 43CE e 48CE devono essere interpretati nel senso che ostano alla inclusione, nella base imponibile di una
società residente in uno Stato membro, degli utili realizzati da una SEC
stabilita in un altro Stato qualora tali utili siano ivi soggetti ad un livello
impositivo inferiore a quello applicabile nel primo Stato, a meno che tale
inclusione riguardi esclusivamente costruzioni di puro artificio destinate a eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta. L’applicazione di
una misura impositiva siffatta deve essere perciò esclusa ove da elementi
oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la SEC sia realmente impiantata nello Stato
membro di stabilimento, ivi esercitando attività economiche effettive”.
15 Cfr. Cassazione, Sentenze 3 aprile 2000, n. 3979; 3 settembre
2001, n. 11351; 7 marzo 2002, n. 3345; 9 maggio 2002, n. 6599.
16 Sentt. n. 20398/2005 e 22932/2005, già citate.
14
17 Cfr. Ordinanza 24 maggio 2006, n. 12301 e 12302.
18 Cfr. Sentenza 29 settembre 2006, n. 21221.
19 “Una rigorosa applicazione del principio dell’abuso del diritto”,
come definito dalla Corte di giustizia nella sentenza Halifax, “comporta che l’operazione deve essere valutata secondo la sua essenza, sulla
quale non possono influire ragioni economiche meramente marginali o
teoriche, tali, quindi, da considerarsi manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti, rispetto alla finalità di conseguire un risparmio
di imposta”. (Cfr. Sentenza 21221/2006, già citata).
20 Cfr. Sentenza 29 settembre 2006, n. 21221, già citata, secondo la quale “Pur riguardando la pronuncia dei Giudici di Lussemburgo
un campo impositivo di competenza comunitaria (l’Iva), questa Corte
ritiene che, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza comunitaria, anche nella imposizione fiscale diretta, pur essendo questa attribuita alla competenza degli Stati membri, gli stessi devono esercitare tale
competenza nel rispetto dei principi e delle libertà fondamentali contenuti nel trattato CE.”
21 Sentenza 4 aprile 2008, n. 8772; il principio è ribadito anche
con la successiva Sentenza 21 aprile 2008, n. 10257.
15
16
DOTTRINA
clausola generale antielusiva, all’epoca non configurabile
nell’ordinamento fiscale italiano, un canone interpretativo
del sistema, che comporta il disconoscimento del diritto alla
deduzione per oneri derivanti da meccanismi elusivi”22.
Quanto, poi, all’onere della prova, la situazione appare ancora più instabile, dato che, nell’aprile 200823 la
Corte di Cassazione, dopo aver confermato che “non
hanno efficacia, nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, gli atti posti in essere dal contribuente, che costituiscano “abuso di diritto”, cioè che si traducano in operazioni
compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale.”; aveva affermato che “incombe sul contribuente
fornire la prova dell’esistenza di ragioni economiche, alternative o concorrenti, di carattere non meramente marginale
o teorico”. Sei mesi dopo (ottobre 2008), la stessa Sezione
(Tributaria) della Corte (in altra composizione), prima di
tutto, fa rilevare24, che “… lo strumento dell’abuso del diritto deve essere utilizzato dell’Amministrazione finanziaria
con particolare cautela, dovendosi sempre tenere presente
che l’impiego di forme contrattuali e/o organizzative che
consentano un minor carico fiscale costituisce esercizio della
libertà d’impresa e di iniziativa economica, nel quadro
delle libertà fondamentali riconosciute dalla Costituzione e
dall’ordinamento comunitario …” – affermazione, questa,
che va sottolineata e apprezzata – e, poi, precisa che “incombe all’Amministrazione finanziaria” (…) “… l’individuazione dell’impiego abusivo di una forma giuridica …”,
per cui essa “… non potrà (…) limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma dovrà individuare e precisare gli
aspetti e le particolarità che fanno ritenere l’operazione di
reale contenuto economico diverso dal risparmio d’imposta
…”: il giudice di legittimità non può, dunque, ritenere
inopponibile all’Amministrazione finanziaria una operazione di cui quest’ultima non abbia dimostrato, nei termini e nelle forme dovuti, la sua valenza “abusiva”25.
Da ultimo, non va trascurato l’orientamento della
Corte di Cassazione sul piano processuale: “poiché il
principio della irrilevanza fiscale degli atti in abuso di diCfr. Sent. 15 settembre 2008, n. 23633; la quale ha ribadito
che “non possono trarsi benefici da operazioni che, seppur realmente volute ed immuni da invalidità, risultino, da un insieme di elementi obiettivi, compiute essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale.”
23 Cfr. Sentt. 4 aprile, n. 8772 e 21 aprile 2008, n. 10257.
24 Cfr. Sent. 17 ottobre 2008, n. 25374.
25 Sembra un significativo passo verso la riaffermazione ed il ripristino degli ordinari principi in tema di riparto dell’onere della prova,
onere che, salvi i casi di “inversione” probatoria espressamente previsti dalla legge [cfr. ad esempio art. 32, comma 1 n. 2) D.P.R.
600/1973], non può che incombere sull’Amministrazione finanziaria
che, nel processo tributario, riveste (come da sempre rilevato dalla Suprema Corte) il ruolo di “attore sostanziale” (chiamato, dunque, a
provare le proprie ragioni ed i fondamenti delle contestazioni mosse).
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
ritto deriva dalla normativa comunitaria, è consentito
introdurre nel giudizio la problematica dell’abuso del diritto, purché sia ancora aperto (…) un contenzioso sui comportamenti fraudolenti e/o elusivi”26; e ciò in quanto “il
rango comunitario della regola comporta (…) l’obbligo della sua applicazione d’ufficio, a prescindere da specifiche deduzioni di parte, anche per la prima volta nel giudizio di
Cassazione (richiamandosi alla) sentenza delle Sezioni
unite n. 36948 del 18 dicembre 2006, oltre alla (…) sentenza (…) n. 21221/06, nella quale è stato affermato l’obbligo dell’applicazione d’ufficio della regola dell’abuso del
diritto in materia di imposizione diretta” 27.
Se questa conclusione (discutibile e pericolosa) venisse confermata, il giudice non dovrebbe limitarsi a decidere se ricorre (o meno) l’abuso di diritto (o l’elusione), ma
potrebbe dichiarare, di sua iniziativa, inopponibili all’Amministrazione finanziaria atti, fatti e negozi, “a prescindere” dalle contestazioni e dalle prove addotte dall’Amministrazione finanziaria28 … e, questo, anche dopo
una o più fasi processuali nel corso delle quali tale ipotesi
neanche è stata discussa … con inaccettabile (a mio parere) superamento delle regole del processo (avuto riguardo, in particolare, al suo oggetto e alla funzione delle impugnazioni); non solo, ma ne deriverebbe una “confusione” nei ruoli e nei poteri degli Organi istituzionali che a
me pare non solo preoccupante, ma sconvolgente.
D. Contrasto tra Corte di Cassazione e Corte di
Giustizia C.E.
Nel trasporre il principio dell’“abuso del diritto” dal
comparto comunitario (in cui si è sviluppato) a quello
nazionale, la Corte di Cassazione ha ritenuto, dunque
a. di poterlo applicare “trasversalmente”, in quanto
sarebbe “immanente” nell’ordinamento tributario italiano (per cui la sua applicazione potrebbe
avvenire anche in assenza di una norma specifica
di recepimento);
22
26 Cfr. Corte di Cassazione Sent. 21 aprile 2008, n. 10257.
27 Cfr. Sent. 17 ottobre 2008, n. 25374.
28 Senza contare che Il diritto di difesa, costituzionalmente garantito (cfr. art. 24), sarebbe compresso per difetto di contraddittorio che, previsto espressamente dalla disposizione sull’elusione (cfr.
art. 37-bis, commi 4 e 5), è anche imposto dallo Statuto dei diritti
del contribuente (cfr. art. 12) e richiamato come principio generale
dalla giurisprudenza “nel rispetto del principio generale del giusto procedimento, cioè consentendo al contribuente, ai sensi dell’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, di intervenire già in sede procedimentale amministrativa, prima di essere costretto ad adire il giudice tributario” (cfr. Corte di Cassazione Sez. V, Sentenza n. 17229 del
28 luglio 2006).
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
b. di volerlo applicare con modalità diverse da quelle elaborate dalla giurisprudenza comunitaria;
prescindendo, in particolare, dalla previa constatazione che il “vantaggio fiscale” del contribuente
si ponga in contrasto con le disposizioni comunitarie. L’indagine sulla incompatibilità del comportamento contestato con l’ordinamento sarebbe, dunque, superflua quando, invece, la giurisprudenza comunitaria ha sempre considerato
tale contrasto come condizione “di accesso” alla
verifica dello scopo (eventualmente elusivo) dell’operazione.
Viene valutata, dunque, solo la finalità di “vantaggio
fiscale” di una certa operazione rispetto ad altre (più
consuete e onerose) che portino agli stessi risultati sostanziali; vantaggio fiscale che può costituire lo scopo
“essenziale” (e, non necessariamente esclusivo) dell’operazione. In proposito, non va sottaciuto un (ulteriore) rischio, costituito dal fatto che i giudici (esperti in diritto,
ma non nella gestione delle imprese) potrebbero avere
difficoltà nel cogliere le ragioni – non sempre evidenti
(in quanto prospettiche o mediate) – di determinate
scelte imprenditoriali che pure sono “essenziali” e preminenti rispetto al (pur rilevante) risparmio d’imposta,
che è più facile da individuare: per ciò stesso qualificando “in odore di abuso del diritto” anche operazioni
“pensate” con finalità societarie (come un window dressing in un Bilancio); o addirittura pianificazioni fiscali
che determinano un (lecito) “risparmio d’imposta”: il
quale, in astratto, viene riconosciuto legittimo29, ma in
concreto, potrebbe essere considerato “inopponibile” all’Amministrazione finanziaria, perché ottenuto attraverso una o più operazioni che consentono di conseguire le
stesse finalità di altre (ritenute più “normali”), con una
“minore” imposizione.
Ne verrebbe irrimediabilmente compromessa la “certezza” (o, meglio, la “affidabilità”) dell’ordinamento italiano sul piano nazionale e internazionale.
E. Conclusioni
1. Nel nostro ordinamento giuridico non esiste una
disposizione “generale” sull’”abuso del diritto”, ma solo
talune disposizioni specifiche che lo contrastano30.
29 Cfr., da ultimo, quanto riportato sub C: Sent. 17 ottobre
2008, n. 25374.
30 Ad. es. l’art. 833 c.c. sul divieto di atti emulativi; l’art. 96
c.p.c. sul divieto di agire in giudizio in mala fede; alcune ipotesi di
reato previste dal codice penale.
DOTTRINA
Nel comparto tributario, l’istituto giuridico che più
si avvicina a tale concetto – e, forse, meglio lo interpreta31 – si rinviene nell’art. 37-bis del D.P.R. 600/1973,
che, dopo la rubrica “disposizioni antielusive”, reca, in
materia, una normativa “generale”, ancorché a fattispecie predeterminate e a valere solo nel settore delle imposte sui redditi32.
Dato che dell’“elusione” si è interessato il Legislatore
italiano – quando il problema cominciava ad assumere
un certo rilievo (anche ai fini della concorrenza) – se ne
dovrebbe trarre la conferma che il “principio comunitario” di abuso del diritto può trovare applicazione solo
con riferimento a tributi “comunitari”33: non anche,
dunque, in un settore nel quale Parlamento e Governo
sono intervenuti, in più occasioni, per limitare la valenza
tributaria di determinate operazioni, con norme “antielusive” – specifiche o generali – che sarebbero “inutiliter
datae”, se fosse stato applicabile – anche in quel campo –
tale “principio immanente e trasversale”… Anzi, le operazioni che il Legislatore ha ritenuto – ai fini delle imposte sui redditi – “potenzialmente pericolose” sarebbero
addirittura “protette” rispetto alle altre, in considerazione dei limiti alla operatività della normativa antielusiva
nazionale: con un evidente paradosso.
2. Forse è giunto il momento di affrontare il tema
della “elusione tributaria” e dell’”abuso del diritto” in
termini sistematici e nel contesto di una iniziativa legi-
31 Cfr. Sent. 25374/2008 in cui si afferma, con riferimento all’abuso del diritto, che “si tratta della stessa regola, contenuta nell’art.
37-bis D.P.R. 600/1973”. Il riconoscimento di una disposizione nazionale che già disciplina – pur potendo essere migliorata e ampliata
nei contenuti – una fattispecie analoga a quella elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (peraltro in un diverso ambito
impositivo), dovrebbe indurre ad ammettere che manca quel contrasto tra i due ordinamenti – quello interno e quello comunitario –
che consente di far prevalere il secondo sul primo.
32 In sostituzione dell’art. 10 della L. 408/1990, con funzione
deterrente e applicazione subordinata alla presenza di ben individuati comportamenti soggettivi. Che valga solo per le imposte sui redditi è esplicitamente affermato nella Relazione ministeriale che accompagna il provvedimento e nella Circ. Min. (19/12/1997, n. 320/E),
dove si dice che “la norma antielusiva può trovare applicazione soltanto con riferimento al settore delle imposte sui redditi e sempreché sia stata
effettuata una o più delle operazioni predeterminate”.
33 Iva, accise, tributi doganali e, nelle imposte sui redditi, solo
specifiche operazioni: fusioni, scissioni, conferimenti, operazioni
madre–figlia, ecc… Nel caso dell’IVA, ad esempio, dove non vi è
una disposizione nazionale che disciplini l’elusione e dove la Direttiva comunitaria intende realizzare una armonizzazione fra gli Stati
membri, le sentenze interpretative della Corte di Giustizia potrebbero senz’altro colmare il “vuoto legislativo”, cioè valere (e prevalere) in
ambito domestico.
17
18
DOTTRINA
slativa di ampio respiro: con l’introduzione di una disposizione (antielusiva) “a tutto campo”, che si riporti
anche ai principi elaborati dalla giurisprudenza comunitaria (oltre che nazionale), ma a valere solo dalla sua entrata in vigore e con la definizione dei limiti e delle precise condizioni cui può essere applicata.
Attualmente si ha l’impressione che la Corte di Cassazione intenda elevare a “sistema” (ispirato alla capacità contributiva) un ordinamento – come quello tributario italiano – privo di una base stabile e razionale, che
si sviluppa non in base a principi generali, ma a regole
speciali e contingenti, quasi sempre al di fuori di un
“sistema”.
Per perseguire tale obiettivo, viene affermata la presenza di un principio “anti–abuso del diritto”, che, però, non
esiste, e che fino a pochi anni fa, non poteva neanche essere intravisto o previsto (anche se, in futuro, potrebbe costituire uno dei pilastri della legislazione tributaria).
Le finalità sono apprezzabili, ma i risultati sono
inaccettabili, dato che la Corte di Cassazione finisce
per svolgere un ruolo di (sostanziale) “supplenza” (o
addirittura di “sostituzione”) in un comparto – quello
legislativo – che spetta al Parlamento. È il Legislatore
che deve stabilire “le regole” (comprese quelle tributarie) da osservare: siano esse (nella valutazione degli
operatori del diritto) buone o cattive, rigorose o tolleranti, sistematiche o casistiche … e la giurisprudenza
dovrebbe applicare le norme “esistenti”, senza andare
alla ricerca di un “sistema che oggi non c’è”: perché
non è tollerabile che un soggetto che si era conformato
ieri alla legge, alla giurisprudenza e alla prassi amministrativa allora esistente, debba oggi difendersi da eccezioni (del tutto nuove) fatte valere – neanche dall’Amministrazione finanziaria, ma – dai giudici; e fondate
su principi che allora non erano neanche prevedibili e
che si sono sviluppati nel tempo…: perché è evidente
che, a quel punto, lo stesso soggetto, che opera oggi in
base alla attuale legge, giurisprudenza e prassi, teme di
potersi trovare, domani, a doversi difendere nel caso in
cui venissero approvati nuovi provvedimenti (legislativi o amministrativi) o addirittura si affacciassero nuovi
orientamenti giurisprudenziali che pretendono – a posteriori – di contestare (e addirittura sanzionare) un
comportamento che – a priori – non poteva considerarsi illegittimo.
3. Non va trascurata la preoccupazione, grave e diffusa (soprattutto fra gli operatori economici di una certa
dimensione), che una legislazione (nazionale) incerta e
poco chiara, una prassi amministrativa debole e ondivaga, una giurisprudenza di legittimità oscillante ma trop-
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
po forte34, possa indurre le imprese italiane a delocalizzarsi all’estero e le imprese straniere a evitare l’Italia per i
loro insediamenti. Quello fiscale costituisce – infatti, da
sempre – uno dei fattori fondamentali di attrazione (o di
avversione) nella scelta del Paese in cui collocare le strutture produttive e commerciali, da parte degli imprenditori; espressione e parametro, al tempo stesso, di competitività e di concorrenza sul piano internazionale.
La preoccupazione degli operatori economici italiani
è fondata: perché prima ancora che il livello “quantitativo” dell’imposizione è importante la “qualità” dell’ordinamento: non solo sotto il profilo legislativo, ma anche
amministrativo e, soprattutto, giurisprudenziale35.
Senza affidabilità non esiste il diritto e si configura
un (ulteriore) “rischio Paese”: per carenza, questa volta,
del diritto tributario.
34 Che, al di là delle sue (apprezzabili) finalità, se rivolte al futuro
– cioè a sollecitare una maggiore coscienza civica nei contribuenti e,
soprattutto, una maggiore attenzione del legislatore nei confronti di
fenomeni distorsivi come l’elusione e l’evasione – rimette in discussione comportamenti pregressi del contribuente.
35 L’ordinamento non si esaurisce nella legislazione, ma si compone anche della prassi amministrativa e, soprattutto, della giurisprudenza, dato che “il diritto vive nell’interpretazione che ne dà il
giudice” (Francesco Carnelutti, giurista friulano).
DOTTRINA
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
Elusione Tributaria:
l’abuso del diritto tra norma comunitaria
e norma interna
di Ivan Vacca
1. Ormai da più parti si mette l’accento su un malessere evidente del nostro ordinamento fiscale: la sua mancanza di affidabilità e di stabilità, una sua certa opacità
che potrebbe compromettere nel tempo non solo i valori
di equità e democrazia, ma anche un’efficace competizione internazionale e l’attrattiva per gli investitori esteri.
Soprattutto, per quel che concerne l’imposizione delle
attività d’impresa – dove la pianificazione degli investimenti richiede tempi lunghi – ciò che si lamenta è la mancanza di regole sostanziali o procedimentali conoscibili
per tempo, chiare e inequivocabili, relativamente stabili.
I motivi di questo malessere sono di varia natura: un
peso importante va attribuito, sicuramente, a una produzione normativa che è in continuo divenire, prevalentemente per esigenze di gettito (fatto questo che ha indotto
ad introdurre regole impositive non sempre sistematicamente coordinate, con efficacia spesso immediata, se non
retroattiva), oltre che a una attività interpretativa della
pubblica amministrazione sollecitata dagli interpelli dei
contribuenti altrettanto pletorica, spesso indirizzata al
caso specifico e non sempre inquadrabile a sistema1.
Ma al di là di questa sorta di “polverizzazione” delle
regole, un impatto rilevante su queste tematiche, e in un
senso non certo rassicurante, sta assumendo la questione dell’abuso del diritto, “alias” del contrasto all’elusione fiscale.
2. L’“elusione” come è noto è quella zona grigia – non
meglio definita – in cui l’Amministrazione Finanziaria
viene abilitata dall’ordinamento a difendersi non da un
1 Come già rilevato da Assonime nell’audizione del 19 luglio
2006 presso la Commissione consultiva sulla imposizione fiscale della società (c.d. Commissione Biasco) all’epoca istituita dal Ministro
dell’Economia e delle Finanze, la proliferazione degli interpelli anche quelli a carattere ordinario, estranei all’applicazione della norma
antielusiva – sta creando una casistica interpretativa estremamente
variegata con soluzioni volte al caso concreto e non sempre riconducibili ad una impostazione sistematica; sicché soluzioni che pure
possono risultare soddisfacenti per il contribuente istante, talvolta
sottendono interpretazioni non accettabili come principio generale
per gli altri contribuenti.
semplice nascondimento del reddito (dall’evasione “tout
court”), ma dall’uso improprio da parte dei contribuenti
delle norme che predeterminano la fattispecie impositiva
a fini ingiustamente vantaggiosi: a difendersi, cioè, da
quelle operazioni che non dissimulano il reddito, anzi rispettano anche formalmente i canoni della fattispecie legale e, pur tuttavia, attraverso l’uso combinato degli elementi oggettivi della fattispecie legale, realizzano effetti
impositivi contrari alla “ratio legis” e dunque non in linea
con la corretta attuazione del principio di capacità contributiva; effetti, in definitiva, discordanti con le finalità
del sistema o del sottosistema in cui si colloca l’istituto fiscale del quale il contribuente invoca l’applicazione.
Siamo in presenza, dunque, di quella linea di confine
che separa le regole scritte dai principi metagiuridici.
Il rischio è evidente: o che lo Stato non riesca a reagire con sufficiente forza a questa tipologia di operazioni,
realizzate, per la verità, in modo sempre più sofisticato e
con collegamenti transnazionali, ovvero, al contrario
che la reazione sia eccessiva o scomposta, tale da compromettere il fondamentale principio di legalità del nostro sistema tributario, il principio di predeterminazione
della fattispecie impositiva, quale regola di rilevanza anche costituzionale ed espressione imprescindibile della
natura “civil law” del nostro ordinamento giuridico.
È proprio quest’ultima la preoccupazione, evidenziata da più parti, in ordine alle posizioni recentemente assunte in materia dall’Amministrazione finanziaria e dalla giurisprudenza.
L’accusa è chiara: nell’ambito dell’Amministrazione
finanziaria e della giurisprudenza stanno maturando interpretazioni che sembrano consentire al fisco di disapplicare “ad nutum” le regole impositive scritte sulla base
di un giudizio caso per caso dell’esistenza o meno di valide ragioni economiche “extrafiscali”; di un giudizio, oltretutto, non definito o definibile in base a regole precise
e pertanto suscettibile di dar luogo di volta in volta ad interpretazioni soggettive e disparate dell’organo amministrativo o dell’organo giudicante. In altri termini se è pur
vero che è un preciso potere-dovere dell’Amministrazione contrastare il contribuente che si sottragga al dovere
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costituzionale di contribuzione (art. 3 e 53 della Cost.),
vuoi “evadendo” vuoi “eludendo” le norme fiscali, è altrettanto vero che la riserva di legge (art. 23 Cost.) è un
principio di matrice costituzionale “che non svolge una
funzione ornamentale o decorativa del sistema, ma lo
plasma in modo da garantire ai soggetti passivi non soltanto la democraticità delle scelte impositive (non certamente demandabili al giudice) ma anche la certezza (del
diritto) nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria2.
3. Prima di scendere più nel dettaglio di questa tematica, merita prendere atto della complessità della situazione che si è venuta, in concreto, a creare.
Un primo aspetto, su cui riflettere, riguarda il “modus
operandi” dell’Amministrazione finanziaria nell’esplicazione della sua attività di accertamento.
È noto che agli uffici finanziari vengono assegnati
precisi obiettivi nel compimento delle verifiche, obiettivi di efficienza, di razionalizzazione dell’azione accertativa, di suo coordinamento sul territorio nazionale e all’estero, di indirizzo delle verifiche per gruppi economici, per settore produttivo, per tipologia di fattispecie etc.
In questo contesto, non sono indifferenti anche gli
obiettivi di budgets sul numero degli accertamenti annuali da eseguire e sull’entità dei recuperi potenziali. È
chiaro, però, che quest’ultimo aspetto potrebbe condizionare – volente o nolente – non poco la prospettiva in
cui gli accertamenti vengono in concreto condotti, nel
senso che si potrebbe determinare una spinta (sia pur inconsapevole) a “stressare” la pretesa impositiva, fino ad
arrivare ad accertamenti non dico pretestuosi, ma dalle
motivazioni quantomeno discutibili. Ed è proprio nel
campo dell’“elusione” che trova facile sviluppo questo
“modus operandi” – e in particolare, nelle verifiche di
operazioni di riorganizzazione aziendale che costituiscono il cuore, se vogliamo, della fattispecie elusiva indicata
nell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 del 1973 – poiché in
questa materia il disconoscimento degli effetti delle operazioni (considerate le dimensioni che, di regola, esse assumono) possono ingenerare recuperi di una certa entità
e, soprattutto, perché la costruzione della motivazione
della pretesa impositiva, ove si accetti l’impostazione sopra evidenziata (quella cioè di far riferimento sic et simpliciter alla presunta mancanza di valide ragioni econo-
2 Il testo virgolettato è ripreso da “Note critiche a proposito di un
recente orientamento giurisprudenziale incentrato sulla diretta applicazione, in campo domestico, del principio comunitario di divieto di abuso del diritto” (nota a Cass., sez. trib., n. 8772/2008; Cass.,
sez. trib. n. 10257/2008) di BEGHIN in Rivista di Diritto Tributario vol. XVIII luglio-agosto 2008, 465 e ss.
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
miche) si presenta in termini oggettivamente più semplici. Non è da escludere, quindi, che proprio questa situazione sia stata, sia pur indirettamente, una fra le varie
cause che ha in qualche modo favorito, quanto meno
presso l’Amministrazione, lo sviluppo della linea interpretativa sul concetto di elusione dianzi ricordata; linea
interpretativa che, per altro, è seguita e convalidata –
giova ribadirlo – anche dalla recente giurisprudenza.
Comunque, a prescindere da queste illazioni, sta di
fatto che questa tipologia di accertamenti – accertamenti, cioè, volti alla contestazione del fenomeno elusivo –
sono divenuti, a quanto consta, preponderanti e ripetitivi, per lo meno nei confronti delle medie e grosse organizzazioni d’impresa.
4. Un altro aspetto che non può essere trascurato riguarda le scelte legislative che sono state compiute in
materia tributaria.
La ricerca di competitività, di modernità del nostro
sistema fiscale, di comparabilità con gli altri ordinamenti, ha indotto il legislatore, soprattutto in questi ultimi
anni, ad introdurre una serie di istituti e di modelli di
operazioni che pur perseguendo risultati economici a
volte similari a quelli di altre operazioni sottoposte ad
imposizione ordinaria, sono caratterizzati da regimi differenziati, da regimi spesso di favore. Mi riferisco ad
esempio alle operazioni di fusione, scissione e conferimenti di azienda, assistite tradizionalmente dalla disciplina di neutralità fiscale sulle plusvalenze dei beni trasferiti, in ciò differenziandosi dalle liquidazioni societarie o dalla vendita di aziende che hanno, invece, carattere realizzativo. Mi riferisco al regime di consolidamento
fiscale degli imponibili che consente la compensazione
di utili e perdite delle società appartenenti allo stesso
gruppo, ma che opera solo per le società del gruppo sottoposte a controllo di diritto (richiedendo quindi che i
legami partecipativi siano strutturati in un determinato
modo) e ancora, al regime di detassazione delle plusvalenze su partecipazioni societarie che consente indirettamente, attraverso appunto il trasferimento di tali partecipazioni, la circolazione di complessi aziendali in neutralità fiscale (rectius parziale neutralità al 95 per cento)
laddove, invece, la cessione diretta degli assets aziendali è
sottoposta ad imposizione ordinaria etc. Tutti questi regimi sono stati, peraltro, ricondotti con espressa disposizione di legge nell’alveo applicativo della norma antielusiva dell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 del 1973, nel senso
che per la loro applicazione il legislatore ha consentito,
anzi ha imposto all’Amministrazione finanziaria di esercitare il suo potere dovere di controllo sull’eventuale esistenza, caso per caso, di forme di abuso.
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
Ciò induce ad almeno due riflessioni.
Innanzitutto, la norma antielusiva dell’art. 37 bis del
d.p.r. n. 600 nata, come disposizione relativa a talune
fattispecie, è divenuta sostanzialmente di portata generale nell’ambito del reddito d’impresa, caratterizzando
l’applicazione di quasi tutti i regimi fondamentali di determinazione dell’imponibile e tende, a quanto consta,
ulteriormente ad espandersi. Sicché la risalente diatriba
se la clausola antielusiva abbia valenza generale o meno
nel sistema tributario, ha perso sostanzialmente di significato, per lo meno nell’ambito dell’imposizione diretta.
In questo senso il percorso legislativo sta giungendo di
fatto e per via parallela ad un risultato sostanzialmente
non dissimile da quello cui perviene in via interpretativa
la Corte di Cassazione che fonda il suo approccio – come è noto – sulla diretta e generale applicabilità al nostro ordinamento domestico del principio di matrice comunitaria dell’abuso del diritto3.
Ma c’è anche un altro aspetto che non può essere trascurato.
La scelta del legislatore in ordine alle fattispecie dianzi ricordate – conferimenti, fusioni, scissioni, cessioni di
partecipazioni fruenti di esenzione etc. – sono chiare ed
inequivocabili, nel senso che, per motivi di strategia fiscale di varia natura (e che non è il caso qui di sindacare),
sono stati previsti per esse regimi impositivi differenziati, spesso più vantaggiosi rispetto ad operazioni produttive di effetti “latu sensu” similari. E tali regimi, nell’assetto globale del sistema fiscale, sono stati concepiti non
come meramente temporanei o eccezionali, ma come
strutturali alla natura giuridico-formale di tali operazioni, le quali quindi, proprio in aderenza alla volontà del
legislatore, non possono che essere individuate evidentemente se non in base ai corretti criteri ermeneutici che
attengono alla loro disciplina civilistica.
In prima battuta, quindi, non appare razionale, sotto un profilo sistematico, l’idea che molti manifestano –
e che è fonte di vari equivoci – secondo cui l’imposizione
deve tendenzialmente attuarsi secondo il modello impositivo più oneroso; tesi che porterebbe a ricondurre, là
ove possibile, gli atti negoziali anzidetti agli archetipi –
per natura e per qualificazione – di operazioni negoziali
Naturalmente, questa analogia è riscontrabile solo con riguardo alla progressiva estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 37
bis del d.p.r. n. 600 del 1973. L’abuso del diritto – così come ricostruito dalla Cassazione – e la disciplina antielusiva dell’art. 37 bis,
per il resto, presentano rilevanti differenze, tra le quali spicca l’assenza, nel caso di abuso, della garanzia di un contraddittorio preventivo
con l’Amministrazione; contraddittorio che, come è noto, è invece
obbligatorio in base al citato art. 37 bis.
DOTTRINA
produttive di effetti similari ma sottoposte a regime impositivo meno vantaggioso.
È vero tendenzialmente, anzi, il contrario.
La fusione non è una liquidazione anche se condivide con la liquidazione il fatto che una società possa
scomparire e i suoi assets essere trasferiti alla società socia; così come un conferimento d’azienda è un negozio
avente causa giuridico-formale diversa dalla cessione per
compravendita della azienda medesima; e ancora la cessione di partecipazione costituisce fenomeno negoziale
non assimilabile alla vendita diretta della azienda societaria, ancorché l’una e l’altra operazione consente di attuare la circolazione del bene azienda e di realizzarne i
plusvalori latenti.
E il legislatore, ben consapevole di questa distinzione giuridico-formale, ha inteso introdurre regimi differenziati. Se il nostro sistema avesse voluto perseguire
l’effetto contrario, avrebbe dovuto imboccare, evidentemente, la via esattamente opposta. Ad esempio, nell’ambito dei principi contabili internazionali, il superamento delle forme giuridico-negoziali per addivenire
ad un trattamento unitario delle operazioni gestionali
dell’impresa che risultino produttive di risultati economici equivalenti, costituisce uno dei capisaldi di tale sistema volto a realizzare, come è noto, come principale
obiettivo la comparabilità dei bilanci delle imprese a
prescindere dagli ordinamenti giuridici in cui operano
e a beneficio di una informazione omogenea degli investitori. Così a titolo esemplificativo, l’IFRS 3 accomuna in un’unica disciplina i conferimenti e le cessioni
di aziende, le fusioni, le scissioni, i trasferimenti di partecipazioni che determinino il trasferimento del controllo dell’impresa o di parte di essa4. È di tutta evidenza, tuttavia, che questo tipo di interpretazione non può
essere “sic et simpliciter” “importato” in un ordinamento di “civil law”, quale il nostro, che ha il suo fondamento, al contrario, nella predeterminazione della fattispecie legale; soprattutto non può essere valido strumento interpretativo della nostra attuale legislazione
fiscale che – ripetiamo – ha espressamente distinto i regimi impositivi proprio in ragione delle differenti fattispecie legali. Sia allora il legislatore eventualmente a revocare queste scelte, ma attraverso disposizioni specifiche in tal senso.
3
4 La tematica del diverso approccio dei principi contabili internazionali nella rappresentazione contabile delle operazioni di aggregazione aziendale è sviluppata nella circolare Assonime n. 51 del
2008 sulla nuova disciplina dei conferimenti, fusioni e scissioni così
come risultante dalle modifiche apportate dalla legge n. 244 del 2007
(finanziaria per il 2008).
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Quanto detto non mi pare – in prima battuta – possa
essere revocato in dubbio neanche facendo leva sulla
clausola elusiva che, come accennato, accompagna l’applicazione di questi regimi. In linea generale quando un
ordinamento mette a disposizione strumenti operativi
aventi trattamenti fiscali alternativi, è chiaro che i contribuenti si ritengono abilitati ad optare a buon diritto per
quelli che, caso per caso, risultano più rispondenti alla loro pianificazione fiscale. Censurare questa loro scelta solo
perché fondata su motivi di convenienza fiscale appare in
un certo senso una petizione di principio rispetto alla statuizione normativa e, comunque, un surrettizio superamento del principio del legittimo affidamento sulle indicazioni poste dalla stessa norma. L’elusione va ricercata e
la conseguente reazione all’elusione va fatta scattare non
per contrastare i risultati voluti dal legislatore ma per impedire il verificarsi di quelli non voluti, contrari in qualche modo alla “ratio” del sistema o dell’istituto fiscale invocato dal contribuente. Ci vuole, insomma, qualcosa di
più perché possa ravvisarsi un fenomeno elusivo.
Sott’altro profilo, occorre anche aggiungere che i regimi fiscali differenziati di cui si discute non sono frutto di
iniziative legislative avventurose: nel perseguire nelle fattispecie in esame finalità di politica economica, sono state
adottate anche opportune cautele a difesa in qualche modo delle basi imponibili. Così ad esempio, per le operazioni di fusione, scissione e conferimento di azienda il regime di neutralità del trasferimento dei cespiti aziendali si
accompagna al principio di continuità dei loro valori fiscali, sicché la pretesa del fisco si conserva intatta e potrà
esercitarsi in occasione delle successive vicende reddituali
di tali cespiti presso la società beneficiaria. Per tali operazioni, semmai, il problema principale è di evitare l’utilizzo
improprio della compensazione delle perdite fiscali, il c.d.
commercio delle “bare”: un aspetto, cioè, patologico di
un istituto che di per sé sarebbe riguardato con favore dallo stesso legislatore se la compensazione avviene nel gruppo economicamente unitario, ma che assume evidentemente connotati inaccettabili se si trasforma in un “commercio” di “bare fiscali” fra realtà imprenditoriali diverse5.
5 Al riguardo, occorre tuttavia ricordare che l’art. 84, comma 3,
del TUIR, per contrastare il commercio di bare fiscali realizzato attraverso l’acquisto di società in perdita e la modificazione della loro
attività subordina il riporto delle perdite della società acquisita al superamento di un test di vitalità; test cui andavano esenti le società acquisite all’interno dello stesso gruppo. L’art. 36 comma 12 del decreto-legge n. 223 del 2006 ha abolito questa esimente, lasciando prima
facie intendere che il commercio delle bare fiscali possa realizzarsi anche tra società già soggette al medesimo controllo. Per una approfondita analisi del significato e delle conseguenze di questa modifica e si
rinvia alla circolare Assonime n. 31 del 31 maggio 2007.
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
E così ancora, il trasferimento dell’azienda tramite la
cessione delle partecipazioni sociali fruenti di esenzione,
consente senz’altro al soggetto cedente di beneficiare
della non tassazione, nell’immediato, delle relative plusvalenze, diversamente da quanto accade nel trasferimento diretto dei relativi “assets”, ma a ciò si accompagnano specifici meccanismi di recupero di questo beneficio presso l’acquirente delle partecipazioni. In particolare tale soggetto, diversamente che nell’acquisizione diretta dei cespiti aziendali, non può trasferire i maggiori
costi sostenuti per l’acquisto delle partecipazioni sugli
anzidetti cespiti che continuano, di conseguenza, ad assumersi fiscalmente ai valori precedenti. Il legislatore, in
altri termini, sembra aver consapevolmente consentito
che l’obbligazione tributaria possa essere indifferentemente assolta, secondo lo strumento negoziale in concreto scelto dalle parti, dal cedente l’azienda nell’“asset
deal” o dal cessionario nello “share deal” 6. E gli esempi
potrebbero proseguire.
In estrema sintesi, quello che mi sembra opportuno
ribadire è che della clausola antielusiva indubbiamente
c’è bisogno nell’ordinamento fiscale, così come c’è bisogno in qualsiasi ordinamento ispirato alla predeterminazione della fattispecie impositiva e che può presentare
proprio per questo “modus operandi” dei “varchi” non
voluti, delle zone c.d. oscure, ma questa clausola deve
servire a colpire quello che è sfuggito al sistema delle
norme scritte: deve colpire gli effetti indesiderati in
quanto contrari più o meno palesemente alla “ratio” del
sistema, alla logica o alle logiche degli istituti impositivi
così come positivamente disciplinati, non ciò che il legislatore ha realmente e fondatamente perseguito. In questo senso, la clausola antielusiva è una norma non scritta
di chiusura del sistema, non uno strumento per porre
costantemente nel nulla le regole scritte.
6 Nella circolare Assonime n. 32 del 2004 già veniva sottolineata
l’equivalenza sul piano sistematico delle due opzioni confrontando
l’ipotesi di un conferimento in neutralità seguito dalla cessione di
partecipazione in regime di participation exemption (share deal) e
quello di cessione diretta dei beni aziendali (asset deal). Nella prima
ipotesi il regime di neutralità comporta che i plusvalori dell’azienda
rimangano in stato di latenza anche presso il soggetto cessionario, sul
quale, dunque, si conserveranno intatte le pretese del Fisco ad un
successivo recupero a tassazione delle plusvalenze stesse allorché troveranno manifestazione. Viceversa, nell’ipotesi di cessione realizzativa di plusvalenze imponibili, l’applicazione del regime impositivo
ordinario permette una corrispondente lievitazione dei costi dei beni
ceduti presso l’impresa ricevente. Conseguentemente il sistema, senza dar luogo a salti d’imposta o a duplicazioni, viene a rimettere alle
parti che pongono in essere queste operazioni la scelta di chi tra di
esse debba assumere la posizione di contribuente sui plusvalori dei
beni di primo grado.
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
5. Venendo più nel dettaglio all’esame delle posizioni assunte dall’Amministrazione finanziaria e dalla giurisprudenza, può facilmente constatarsi che si tratta di
posizioni molto vicine: sostanzialmente esse incentrano
il fenomeno elusivo, come accennato, sull’assenza di valide ragioni economiche a supporto dell’operazione o
delle operazioni poste in essere dai contribuenti. Si tratta di tesi che sono sviluppate, peraltro, in ambiti diversi:
l’Amministrazione finanziaria ha assunto tale posizione
in sede di applicazione della disposizione antielusiva
prevista dall’art. 37 bis, d.p.r. n. 600 ai fini delle imposte dirette; la giurisprudenza, e segnatamente l’Alta Corte di Cassazione trae questo assunto dal concetto di abuso del diritto di matrice comunitaria, così come interpretato dalla Corte di Giustizia e sulla presunta valenza
generale di tale principio anche nell’ambito della nostra
legislazione domestica e, dunque, a prescindere dalle
previsioni dell’art. 37 bis che verrebbe in quest’ottica ad
essere superato.
Giova, dunque, esaminare distintamente queste posizioni.
Per quanto riguarda l’art. 37 bis del d.p.r. n. 600
molto sinteticamente ricordo che fino agli anni novanta
si riteneva del tutto assente all’ordinamento tributario
una clausola generale antielusiva e ciò in virtù del rigoroso rispetto del principio costituzionale di predeterminazione dell’obbligazione tributaria: la reazione all’elusione veniva affidata ad una moltitudine di norme antielusive specifiche che predefinivano la fattispecie da considerare elusiva e di cui disconoscere gli effetti. Fu, dunque, una novità l’introduzione di una nozione generale
di elusione ad opera dell’art. 10, della Legge n. 408/90,
il quale, pur limitandone l’applicazione solo a particolari
fattispecie – quali le operazioni di aggregazione azienda
e di riduzione del capitale – definì come elusive le operazioni poste in essere allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d’imposta.
Le innovazioni introdotte successivamente sul finire
degli anni novanta con la riformulazione di questa nozione nel nuovo art. 37 bis, del d.p.r. n. 600, non intendevano in alcun modo modificare questo approccio, ma chiarire il concetto di fraudolenza che nella precedente norma aveva dato luogo a dubbi interpretativi, definendone
meglio – per lo meno nelle intenzioni del legislatore – i
caratteri oggettivi: la frode fiscale secondo questa nuova
definizione non deve necessariamente rispondere ad un
concetto penalistico di fraudolenza, non si articola cioè,
nell’impiego di artifizi o raggiri per ottenere vantaggi tributari; essa va più semplicemente colta in quegli atti, fatti
e negozi anche collegati fra loro, privi di valide ragioni
economiche, che risultano diretti ad aggirare obblighi e
DOTTRINA
divieti previsti dall’ordinamento tributario al fine di ottenere riduzioni di imposte o rimborsi altrimenti indebiti.
È evidente l’intenzione di individuare in questo modo una disciplina ai fini tributari simile a quella che in sede civilistica detta l’art. 1344 c.c. sul contratto in frode
alla legge. Non nel senso di trasferire “sic et simpliciter”
questa disciplina civilistica in campo tributario – trattandosi, anzi, di regimi differenti nelle intenzioni e nelle reazioni alla frode7 – quanto nel proporre ai fini fiscali un
“modus operandi” parallelo a quello della norma del codice. Così come in sede civile costituisce negozio in frode
alla legge quello che si pone come mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa – il negozio, cioè,
che secondo una accreditata dottrina (anche se non l’unica) veste con causa negoziale tipica un rapporto che nel
caso di specie realizza viceversa una causa reale vietata,
utilizzando non la simulazione ma la combinazione in
vario modo degli stessi elementi oggettivi del modello
negoziale regolato dalla norma (si conclude, ad esempio,
formalmente un atto di liberalità ma la combinazione degli eventi è tale per cui siamo, in realtà, in presenza di
vendita di beni non commercializzabili) – così pure in sede fiscale costituisce operazione in frode alle regole di imposizione quella che non viola direttamente ma aggira
obblighi e divieti, ottenendo in questo modo vantaggi
che altrimenti sarebbero stati indebiti: l’esistenza in questo contesto delle varie ragioni economiche sembra dunque posta dal legislatore non come diretto (ed unico) sintomo dell’elusione, ma al contrario come possibilità per
il contribuente di superare la configurazione elusiva della
7 Come è noto, in dottrina sono state avanzate diverse ricostruzioni riguardo alla possibilità di invocare l’art. 1344 cc come strumento di contrasto dei fenomeni elusivi. Una serie di autori propende per la tesi negativa in quanto l’art. 1344 cc sarebbe posto a presidio dell’aggiramento di norme imperative di natura proibitiva, laddove invece le disposizioni fiscali, lungi dallo stabilire se un negozio
possa essere stipulato o meno, si limiterebbero a disciplinarne gli effetti (Cfr. FANTOZZI, Il diritto tributario, Utet, 2003, 161; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, parte generale, Milano
2006, 251). Altri autori hanno osservato che gli atti negoziali non rileverebbero in quanto tali ai fini tributari, bensì regredirebbero a
meri elementi della fattispecie, con la conseguenza che l’elusione
della legge tributaria non potrebbe essere arginata con il ricorso al rimedio civilistico dell’art. 1344 cc (LUPI, Usufrutto di azioni: una
norma antielusione non si può inventare, in Rass trib. 1995, 1936).
A diversa conclusione giunge invece la dottrina che ha sostenuto
l’applicabilità dell’art. 1344 cc in materia tributaria, ravvisando nell’elusione tributaria una violazione del dovere solidaristico alla contribuzione di cui all’art. 53 Cost. e prospettando che l’operatività
dello schema della frode alla legge sul piano tributario dovrebbe risolversi non nella nullità civilistica, ma nell’irrilevanza fiscale dell’atto elusivo (GALLO, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione, in Dir. e prat. trib. 1992, 1767 e ss).
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fattispecie. Ed in questo senso si esprime chiaramente la
relazione governativa al provvedimento di legge che ha
introdotto l’art. 37 bis in parola.
Due considerazioni emergono da questa ricostruzione interpretativa.
La prima è che, così come in sede civile la disciplina
dell’art. 1344 c.c. costituisce una norma di chiusura e
dunque di applicazione non ricorrente di un sistema che
resta legalistico e cioè basato su fattispecie determinate
dalla norma, così pure il regime fiscale dell’elusione dovrebbe avere la medesima valenza, cioè dovrebbe porsi
come norma di chiusura di un sistema anch’esso basato,
forse a maggior ragione, sul principio legale della predeterminazione della obbligazione tributaria.
La seconda considerazione è che nel regime antielusivo della norma fiscale costituisce elemento essenziale della frode, prima ancora dell’analisi delle ragioni economiche dell’operazione, l’accertamento di un effettivo aggiramento di obblighi e divieti, cioè l’acclaramento di un effettiva violazione della ratio del sistema fiscale o del sottosistema dalla quale scaturisca un’applicazione della norma in modo non corretto rispetto alla esatta esplicazione
della capacità contributiva. Occorre, cioè, che risultino
violati i principi fondamentali dell’ordinamento, quali il
divieto di doppia deduzione dei costi, il divieto di salto di
imposizione, il commercio di bare fiscali, il commercio,
cioè, di perdite non realizzate nel gruppo ma acquisite appositamente da società inattive per trarne vantaggi dalla
compensazione con i propri imponibili8. Ma soprattutto
emerge da questa ricostruzione – e il punto è esplicitamente sottolineato dalla relazione governativa all’art. 37
bis – che non possono essere considerate elusive le scelte
fra regimi impositivi alternativi messi a disposizione dallo
stesso ordinamento senza limiti o condizioni e ciò anche
quando le operazioni che beneficiano di tali regimi producano risultati economici, in tutto o in parte, equivalenti ad altre operazioni diversamente trattate9. Ad esempio,
è nella libertà dei contribuenti: insediare un’attività economica all’estero tramite stabili organizzazioni o tramite
la costituzione di subsideries con tutto ciò che ne consegue
per ciò che concerne il differente trattamento delle perdite riportabili; ottenere un finanziamento o un capitale di
apporto per attuare gli investimenti di impresa; scegliere
di fruire o meno dell’applicazione di imposte sostitutive;
8 Cfr. la precedente nota 4.
9 In questo senso si veda anche la circolare del Ministero delle finanze n. 320/e del 19 dicembre 1997, che, tra l’altro, richiama la relazione nella parte in cui chiarisce che “non c’è aggiramento fintanto
che il contribuente si limita a scegliere tra due alternative che in modo
strutturale e fisiologico l’ordinamento gli mette a disposizione”.
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
acquisire o spostare partecipazioni per rientrare nel range
del consolidato fiscale; scegliere di cedere l’attività d’impresa della società partecipata trasferendo i relativi assets
con effetti impositivi o, viceversa, cedere le partecipazioni
fruenti di detassazione, e così via10.
Nonostante queste premesse, l’evoluzione interpretativa non ha seguito questa linea. Forse l’art. 37 bis esprimeva concetti dal contenuto semantico non chiaramente
individuabile o comunque non radicato nella tradizione
giuridica, quale in effetti potrebbe risultare la nozione di
“aggiramento di divieti o obblighi” normativi; forse ha
influito la preoccupazione dell’amministrazione di limitare l’efficacia fiscale di operazioni sempre più complesse
di cui non si capiva appieno il contenuto. Sta di fatto che
sotto il profilo teorico si sono sviluppate tesi che hanno
attribuito poca valenza al problema dell’aggiramento della ratio del sistema fiscale e alla distinzione di questo profilo rispetto alla legittima scelta del risparmio di imposte:
mi riferisco a quelle tesi che individuano il fenomeno
elusivo nella semplice esistenza di operazioni definite come “insolite” o “inutilmente complesse e articolate” rispetto agli strumenti tipici a disposizione, in quella sorta
di “abuso delle forme giuridiche adoperate”11. Sotto il
profilo della prassi amministrativa si è giunti – forse come risultato pragmatico di questo tipo di approccio – a
depotenziare completamente il riferimento della norma
all’aggiramento di obblighi e divieti e ad attribuire esclusiva valenza alla esistenza o meno di motivazioni economiche extra tributarie a supporto dell’operazione. Più
precisamente si è realizzata, interpretativamente, una sorta di equivalenza fra l’assenza di finalità extra tributarie
dell’operazione “sub iudice” e il presunto perseguimento
attraverso tali operazioni, e proprio per questa assenza di
finalità extra-tributarie, di vantaggi fiscali indebiti.
Questa semplificazione interpretativa ha determinato una svolta enorme, un cambiamento radicale della visione del problema.
L’effetto più rilevante è stato che ha perso di qualsiasi
significato la circostanza che il regime fiscale di favore di
una determinata operazione sia previsto ex lege. In altri
10 Vedasi, in questo senso, la lucida analisi di LUPI, Manuale
giuridico professionale di diritto tributario, Milano, Ipsoa, 2001 e,
da ultimo, le condivisibili considerazioni di STEVANATO, Trasformazione in s.r.l. agricola ed elusione tributaria: è davvero aggirato lo
spirito della legge? in Corr. Trib. 2008, 1719 e ss.
11 Cfr. RUSSO, Brevi note in tema di disposizioni antielusive, in
Rass. trib. 1999, 72 e TESAURO, Compendio di diritto tributario,
UTET, 2002, le cui definizioni del fenomeno elusivo pongono l’accento sull’anomalia delle scelte negoziali rispetto a quelle a disposizione per ottenere i medesimi effetti economici, lasciando in secondo piano la coerenza di tali scelte con quelle del legislatore.
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
termini il semplice fatto che un’operazione trattata in un
certo modo dal legislatore produca – da sola o in combinazione con altri – un risultato in tutto o in parte equivalente ad altra operazione avente differente e più oneroso regime fiscale, abiliterebbe l’amministrazione a sottoporre tale operazione al sindacato di elusività. Ci sarebbe dunque, una sorta di modello di riferimento da assumere acriticamente come modello principale, per il
solo fatto di comportare conseguenze impositive più
onerose e rispetto al quale l’operazione alternativa meno
onerosa fiscalmente dovrebbe essere sempre (e per questo solo fatto) sottoposta a giudizio di elusività. Ad
esempio, il regime di neutralità della fusione è sindacabile per il solo fatto che l’operazione conduce ad una
estinzione di una delle società che vi partecipa in alternativa alla liquidazione della società medesima, che produrrebbe invece, effetti impositivi12. Analogamente una
scissione che serva a distinguere un ramo industriale da
un ramo immobiliare per cedere le partecipazioni del
primo ad acquirenti interessati e conservare le partecipazioni del secondo, sarebbe tacciabile di elusività perché
consentirebbe di realizzare il trasferimento del ramo industriale con la disciplina della cessione delle partecipazioni che si presenta più favorevole rispetto alla cessione
diretta degli assets dell’azienda industriale13: come dire
che se fin dall’origine il gruppo fosse stato composto da
una società che gestiva l’azienda industriale e una società
che gestiva il ramo immobiliare, la cessione delle partecipazioni del ramo industriale poteva legittimamente essere operata, mentre invece, tale legittimazione non ci sarebbe se la società nella fattispecie gestisce unitariamente
tanto il ramo industriale quanto quello immobiliare e
per operare la cessione del primo venga fatta la scissione.
E ancora è stata tacciata di elusività una trasformazione
di una società per azioni in una società a responsabilità
limitata, perché nella fattispecie il regime impositivo
dell’azienda agricola gestita nella forma di s.p.a. era diverso, e, per certi versi più oneroso di quello previsto per
la gestione dell’azienda agricola da parte di una s.r.l.14.
12 Si veda, in questo senso, il parere del Comitato consultivo per
l’applicazione delle norme antielusive n. 27 del 21 settembre 2005.
13 Il Comitato si è espresso per l’elusività delle scissioni proporzionali del ramo immobiliare nei pareri n. 24 del 25 luglio 2006, n.
27 e 28 del 4 ottobre 2006 pur avendone avallato la validità in altre
occasioni (cfr. parere n. 19 del 21 settembre 2005 e n. 40 del 14 ottobre 2005).
14 Il riferimento è alla risoluzione dell’Agenzia delle entrate n.
177/e del 28 aprile 2008 in Corr. trib. 2008, 1719 e ss. che ha ritenuto elusiva la trasformazione di una s.p.a in s.r.l diretta ad accedere
all’opzione per il regime di tassazione catastale previsto dall’art. 1,
comma 1093 della legge finanziaria 2007.
DOTTRINA
Come dire che una volta eletta una forma societaria a cui
il legislatore attribuisce un determinato regime impositivo non è più possibile scegliere una diversa forma di gestione dell’azienda (pur se del tutto legittima sotto il
profilo civilistico e pur se non vietata espressamente dal
legislatore fiscale), solo perché a questa seconda forma il
legislatore riconduce l’applicazione di altro regime impositivo e tale forma non è stata scelta fin dall’origine.
Non c’è da stupirsi in una logica di questo genere, che se
un gruppo ha una composizione partecipativa che non
gli permette di attivare lo strumento del consolidato fiscale e ricolloca le partecipazioni in modo tale da realizzare i presupposti voluti dalla norma per attivare il consolidato, ciò possa far considerare anche questa un’operazione suscettibile di essere tacciata di elusività a motivo del fatto che l’operazione riorganizzativa sarebbe ispirata da esclusive motivazioni fiscali e cioè dall’esigenza
di poter usufruire di una scelta impositiva messa a disposizione dal legislatore fiscale erga omnes.
Ora al di là della evidente constatazione che posizioni del genere conducono alla configurazione di una legislazione tributaria che opererebbe sulla base di una sorta
di “diritto elettivo” – nel senso che l’organizzazione
d’impresa che è nata in un certo modo, ha una determinata configurazione giuridica, può accedere a determinati regimi tributari e quella che, non avendo questa
configurazione, pone in essere le modificazioni necessarie per realizzarla si troverebbe comunque sbarrata la
strada all’accesso al corrispondente regime tributario –
sta di fatto che questo approccio interpretativo contrasta
proprio con quanto è stato osservato nel precedente paragrafo 4. Non si può, a mio avviso, tacciare di “potenziale” elusività la scelta del contribuente di adottare operazioni produttive di effetti economici similari ad altre,
sol perché le une hanno una disciplina fiscale di maggior
favore rispetto alle altre. Si finirebbe in questo modo, ripeto, per contrastare una precisa volontà legislativa di riferire “quel” determinato regime fiscale a “quella” determinata operazione avente le caratteristiche giuridicoformali indicate dalla norma. E ciò si risolve sostanzialmente – ripeto – in una petizione di principio, oltre che
in un surrettizio superamento dell’affidamento alle indicazioni normative. Fondare il concetto di “elusione” nella assenza di valide ragioni economiche “extra-fiscali”
conduce proprio a questo risultato.
Obiezioni sostanzialmente simili mi sembra che possano muoversi anche alle posizioni assunte dalla Corte
di Cassazione.
Come è noto, la Suprema Corte ha abbandonato la
linea argomentativa che aveva sviluppato nel 2005 e che
si incentrava sulla nullità per difetto di cause o per causa
25
26
DOTTRINA
illecita dei contratti conclusi per finalità fiscali (il riferimento era, in particolare, ai contratti “dividend washing”
e “dividend stripping”)15. Oggi le posizioni sono diverse e
si fondono sulla presunta valenza, come accennato, del
principio di abuso del diritto affermato dall’Alta Corte
di Giustizia in materia di IVA – segnatamene nel caso
Halifax16 – anche ai fini della nostra legislazione interna.
Da più parti sono state mosse ampie critiche sulla effettiva possibilità che tale principio, affermato per l’applicazione di disposizioni comunitarie, possa estendere
la sua applicazione anche ai tributi non armonizzati17.
Prescindendo comunque da questa questione, quel
che mi preme semplicemente segnalare in questa sede è
che il concetto di “abuso del diritto” che la Corte di Cassazione trae dalle conclusioni raggiunte dall’Alta Corte
di Giustizia nel caso di Halifax, è tutt’altro che conforme a queste conclusioni. Come è stato efficacemente
evidenziato in dottrina18, l’Alta Corte individua l’abuso
in quelle operazioni che sono conformi all’“applicazione
formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della VI direttiva e dalla legislazione nazionale
che le traspone” e tuttavia conducono ad un vantaggio
fiscale contrario “all’obiettivo perseguito da quelle stesse
disposizioni”. Dunque, adotta un tipo di interpretazione molto simile a quello fatto proprio nella nostra legislazione dall’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 (ove interpretato
– beninteso – nel senso sopra auspicato e conformemente al testo letterale della norma, non così come secondo
la prassi dell’Amministrazione finanziaria). Non si intende, infatti, colpire qualsiasi vantaggio fiscale ma solo
quelli non giustificabili in quanto contrari alla “ratio”
dell’istituto fiscale di cui si invoca l’applicazione19. MolSi vedano le sentenze della Cassazione 21 ottobre 2005 n.
20398 e 14 novembre 2005 n. 22932 e, anche in merito alla successiva evoluzione, la nota di LOVISOLO, Il principio di matrice comunitaria dell’abuso del diritto entra nell’ordinamento giuridico italiano:norma antielusiva di chiusura o clausola generale antielusiva?
L’evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte, in Dir. e
prat. Trib, 2007, II, 723 e ss.
16 Corte di Giustizia, sentenza 21 febbraio 2006 nella causa C255/02, in GT, Riv. Giur. Trib.,n. 5/2006, 377.
17 Così, tra gli altri, SALVINI, L’elusione IVA nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corr. Trib. 2006, 3097e ss.; TESAURO, Divieto comunitario di abuso del diritto (fiscale) e vincolo
da giudicato esterno incompatibile con il diritto comunitario, in
Giur., It. 2008, 1029 e ss.; ZIZZO, L’abuso del diritto in GT, Riv.
Giur. Trib., 2008, 465; GIANONCELLI, Abuso del diritto nelle
imposte dirette, in Giur. It. 2008, 1297 e ss.
18 Cfr., al riguardo, BEGHIN, Note critiche cit., 473 e ss.; ZIZZO, L’abuso cit., 465.
19 In questo senso, la Corte di giustizia concepisce l’assenza di ragioni extrafiscali semplicemente come un indicatore della possibile esistenza di un abuso, il cui presupposto è costituito fondamentalmente
15
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
to chiara in questo senso è l’affermazione di principio
che l’Alta Corte fà secondo cui in nessun modo può essere impedito al contribuente di scegliere, fra regimi alternativi previsti dal legislatore, quello a lui più favorevole. La Suprema Corte di Cassazione invece traduce
questo concetto di abuso nel senso di identificarlo, come
accennato, sic et simpliciter nelle operazioni “compiute
essenzialmente per il perseguimento di un vantaggio fiscale”, senza alcuna distinzione fra vantaggio legittimo e
vantaggio non legittimo.
Bisogna, dunque, dare atto che l’Alta Corte di Giustizia adotta una impostazione più garantista del principio di legalità nella determinazione della obbligazione
tributaria di quanto non lo faccia la Corte di Cassazione
che pur si pone come interprete di un diritto – quello
domestico – che fa di tale principio un caposaldo costituzionale (art. 23 Cost.).
6. Il tema merita ancora una riflessione.
È chiaro da quanto fin qui detto che la individuazione delle valide ragioni economiche “extra-fiscali” non è
un aspetto essenziale per coloro che, come me, intravedono l’elusione o l’abuso del diritto in quegli atti ed operazioni che pur rispettando formalmente i canoni della
fattispecie legale o tributaria realizzano effetti impositivi
contrari alla loro “ratio” o finalità e per questo risultano
non conformi alla corretta attuazione del principio di
capacità contributiva.
In effetti, la “ratio” “tradita” non sempre si coglie di
primo acchitto; spesso più che di una singola “ratio” occorre parlare di diverse “rationes” in relazione ai vari sotto
sistemi in cui si articola l’ordinamento tributario e questo può rendere più arduo il compito dell’interprete.
Comunque, ove si aderisca a questa impostazione, la dimostrazione dell’esistenza di valide ragioni può eventualmente aver rilievo, caso per caso, come elemento
sintomatico della bontà dell’operazione, laddove ci fossero dubbi sulla sua aderenza alla “ratio legis”, ma – ripeto – non è un punto focale per far scattare o meno la disciplina antielusiva.
Per i sostenitori dell’altra impostazione, viceversa, la
verifica dell’esistenza o meno delle valide ragioni economiche è un punto essenziale, anzi – per essere chiari – è
l’unico elemento regolatore della fattispecie elusiva,
dal conseguimento di un vantaggio contrario agli obiettivi della Direttiva. La valutazione della sussistenza delle ragioni economiche, cioè, rileva, in quanto – come si legge nella parte conclusiva della sentenza C255/02 “deve altresì risultare da un insieme di elementi obiettivi che le
dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale” in contrasto con il diritto comunitario.
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
l’unico canone normativo. E su quali siano queste valide
ragioni economiche e come vadano individuate, si è sviluppata una letteratura tanto ampia quanto fantasiosa.
Ad esempio, è stata negata dal Comitato antielusivo
l’esistenza di queste valide ragioni economiche nell’ipotesi di una fusione societaria motivata dalla necessità di
accorciare la catena partecipativa eliminando una subholding. Ciò in quanto, nella fattispecie, l’operazione
realizzava un risparmio di costi del gruppo e dunque un
interesse della società capogruppo in qualità di socio e
non un interesse organizzativo-imprenditoriale delle società partecipanti alla fusione20. E ancora in tema di scissione non proporzionale è stato ravvisato un interesse
meritevole di tutela (e dunque, l’operazione ha avuto riconoscimento ai fini fiscali) in una fattispecie in cui la
scissione era volta a risolvere un conflitto gestionale insanabile della compagine sociale (si trattava nel caso di
specie di fratelli)21, mentre, invece, queste ragioni non
sono state ritenute valide, come abbiamo già visto, nell’ipotesi di scissione attuata per dividere il ramo industriale dell’azienda da quello immobiliare al fine di destinare l’uno alla vendita (in favore di compratori interessati ad acquisire solo tale ramo), continuando la gestione
dell’altro22. E ancora è stata censurata una fusione perché la ragione economica più importante non era extrafiscale. L’operazione, infatti, interamente realizzata nella
fattispecie fra società appartenenti al medesimo gruppo,
mirava a rendere fruibili in compensazione da parte della società incorporante le perdite della società incorporata che erano in scadenza e che quindi rischiavano di divenire non più utilizzabili; e questa presa di posizione
sulla presunta assenza di valide ragioni economiche è
stata adottata ancorché fossero rispettate, nella fattispecie, le condizioni di vitalità e di patrimonializzazione
previste dall’art. 172 del t.u.i.r. e, dunque, non si trattasse affatto di un commercio di bare fra imprese appartenenti a gruppi diversi23. In un altro caso similare il motivo era stato ravvisato nel fatto che le perdite appartenevano ad una holding che per effetto della riforma fiscale
del 2003 non aveva più redditi imponibili24 (essendo
stata introdotta la detassazione dei dividendi e delle plu20 Cfr. la nota 11.
21 Cfr. il parere n. 22 del 29 settembre 2004 del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive.
22 Si vedano, sul punto, i pareri del Comitato già ricordati nella
nota 12.
23 In terminis, la risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 116 del
24 ottobre 2006 con nota di LUPISTEVANATO in Dialoghi di diritto trib. 2007, 110 e ss.
24 Così il parere del Comitato consultivo per l’applicazione delle
norme antielusive n. 2 del 19 gennaio 2005.
DOTTRINA
svalenze su partecipazioni) sicché l’operazione serviva a
far transitare queste perdite sulla società operativa (figurante come incorporante nella fusione) per poter essere
utilizzate in compensazione con il proprio reddito imponibile. E gli esempi potrebbero continuare.
In definitiva, ci troviamo davanti ad una sorta di
creazione del concetto di valide ragioni economiche affidate all’“estro”, di volta in volta, dell’organo accertatore
o dell’organo giudicante. È chiaro, infatti, che se guardiamo all’archetipo civilistico di queste operazioni – archetipo che come abbiamo visto (par. 4) è stato preso
espressamente a riferimento dal legislatore fiscale per regolarne il regime ai fini tributari – non c’è nessun motivo per distinguere una fusione realizzata per risparmiare
i costi della catena societaria o per rendere più efficiente
l’organizzazione produttiva della società operativa; così
come non c’è alcun motivo per distinguere una scissione
fatta per risolvere conflitti personali dei soci o per venire
incontro alle esigenze di un acquirente interessato a un
ramo di azienda e non all’altro. Si tratta di operazioni
perfettamente valide e perfettamente coerenti – nell’uno
e nell’altro caso – con la causa giuridico-formale del negozio di fusione e del negozio di scissione.
Così come anche sotto il profilo fiscale non si riscontra neanche un “simulacro” di norma che canonizzi in un
ottica, sia pur esclusivamente tributaria, il concetto di
valide ragioni economiche. In definitiva, anche esaminando la questione sotto questa angolatura, appare chiaro che la tesi di ancorare l’accertamento dell’elusione – o
dell’abuso del diritto, che dir si voglia – all’esistenza di
valide ragioni extra-fiscale porta non solo a sconfessare il
principio di legalità e di certezza del diritto che connota
intimamente il nostro ordinamento giuridico e segnatamente il sistema tributario, ma la stessa democraticità
dell’imposizione – valore, come accennato, di rilevanza
anch’esso costituzionale – non potendo la determinazione dell’obbligazione tributaria essere affidata ad un’intuizione soggettiva, anche se risultasse di buon senso, di
un verificatore o di un giudice.
7. Conclusivamente, possono formularsi le seguenti
considerazioni:
– non c’è dubbio che il nostro ordinamento fiscale,
come gli ordinamenti degli altri stati, deve essere in grado di reagire ai comportamenti elusivi dei contribuenti,
tanto più che questi comportamenti stanno assumendo
forme e contenuti sempre più sofisticati;
– è necessario, tuttavia, che questa reazione non si
trasformi in una disapplicazione “ad nutum” delle regole
impositive scritte, sulla base di giudizi soggettivi affidati
all’amministrazione finanziaria o all’organo giudicante;
27
28
DOTTRINA
– questo rischio è concretamente presente nell’impostazione interpretativa seguita dall’Amministrazione finanziaria, in sede di applicazione dell’art. 37 bis del d.p.r.
n. 600 e in quella fatta propria recentemente dalla Suprema corte di Cassazione che ha ritenuto applicabile al nostro ordinamento interno il concetto di abuso di diritto
di stampo comunitario, così come definito dall’Alta Corte di Giustizia e interpretato dalla stessa Cassazione;
– entrambe le accennate posizioni convergono sul
fatto che l’elusione o abuso del diritto è ravvisabile nelle
operazioni poste in essere dai contribuenti mancanti sostanzialmente di valide ragioni economiche extra-fiscali;
– questa tesi può compromettere non poco il principio di predeterminazione “ex lege” dell’obbligazione tributaria e, dunque, di certezza del diritto e di democraticità dell’imposizione, per almeno due ordini di considerazioni: innanzitutto, perché il nostro ordinamento fiscale è costellato di regimi alternativi in ragione delle
diverse tipologie formali-giuridiche delle operazioni,
sicché questa distinzione di trattamenti fiscali risponde
ad una precisa scelta del legislatore che verrebbe sistematicamente disattesa sulla base di un ordine di considerazioni – il giudizio appunto sulle valide ragioni economiche – affidato “ex post” al verificatore o all’organo
giudicante, ciò risolvendosi in una sorta di petizione di
principio e di superamento dell’affidamento sulle indi-
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
cazioni della norma; e inoltre perché – aspetto, questo,
strettamente connesso al primo – non esistono indicazioni normative e canoni ermeneutici sulla definizione
di questo concetto di “valide ragioni economiche” sicché esso è rimesso caso per caso alla intuizione – a volte
di buon senso, a volte no – del verificatore o dell’organo
giudicante;
– meglio sarebbe, dunque, ricondurre la individuazione dell’elusione o dell’abuso del diritto alla distinzione fra le scelte che il contribuente può lecitamente compiere perché rispondenti ad opzioni espressamente messe a disposizioni dal legislatore e quelle che, invece, non
può compiere perché violano la “ratio” dell’istituto e degli istituti di cui si invoca l’applicazione. In particolare,
occorre a questi fini analizzare il contenuto complessivo
dell’operazione, che proprio perché elusiva si presenta di
regola conforme alle applicazioni formali della norma,
ma sostanzialmente produce vantaggi contrari ai suoi
obiettivi. Questo approccio, d’altra parte, è in linea sia
con esplicite prescrizioni dell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600
(che pone riferimento all’aggiramento di obblighi e divieti per ottenere vantaggi altrimenti indebiti) sia con le
indicazioni dell’Alta Corte di Giustizia che – diversamente dalla interpretazione che ne da la Corte di Cassazione – ravvisa l’abuso non in qualsiasi vantaggio fiscale
ma in quello contrario, appunto, alla “ratio legis”.
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
DOTTRINA
Profili Penal-Tributari
dell’“Abuso di diritto”
di Ivo Caraccioli
Il tema dei rapporti tra “elusione fiscale” e reati tributari si è sempre posto in dottrina e giurisprudenza con la
classica domanda: “fino a che punto si rimane nell’ambito dell’elusione, penalmente non sanzionabile, e da quale punto in poi si cade nel reato tributario, punibile”.
Sotto la vigenza della precedente L. 516/82, poiché
la frode fiscale (art. 4 lett. f ) richiedeva l’utilizzazione di
documenti falsi ovvero altri comportamenti fraudolenti,
in giurisprudenza alcuni importanti provvedimenti avevano sostenuto che le ipotesi prospettate (“dividend washing” e “dividend stripping”) non comportavano l’uso di
documenti falsi e neppure atti fraudolenti, tutta la situazione risultando chiaramente dalla contabilità, dai contratti e dai bilanci, e pertanto non erano riconducibili ad
alcuna fattispecie penalmente rilevante.
La situazione è, peraltro, mutata con il D.Lgs. 74/00,
il quale ha introdotto un nuovo reato (“dichiarazione infedele”: art. 4), privo di connotati frodatori e consistente
nel mero occultamento,oltre date soglie quantitative, di
componenti positivi di reddito, anche mediante indicazione di componenti negativi fittizi. Vi è quindi ora il rischio che i verificatori, in casi di questo genere, ossia di
comportamenti genericamente ritenuti “elusivi”, presentino la denunzia alla Procura della Repubblica per tale reato, superandosi la soglia di punibilità.
In proposito occorre, comunque, tenere presente il
seguente importante dato sistematico: la fattispecie in
esame richiede una soglia di punibilità “mista”, relativa
sia all’entità dell’imposta evasa sia all’ammontare dei
componenti di reddito sottratti all’imposizione. Pertanto non è sufficiente che il comportamento sia produttivo
di evasione fiscale, ma occorre che tale risultato sia ottenuto mediante condotte che si risolvono in un vero e
proprio occultamento di componenti di reddito1.
In linea esemplificativa si possono, quindi, ritenere punibili i
seguenti comportamenti:
Ipotesi integranti il reato di dichiarazione infedele ai sensi dell’art.
4 D.Lgs. 74/2000: mancata registrazione a libro giornale di alcune
fatture emesse; registrazione a libro giornale di fatture emesse per un
importo inferiore a quello reale; plurima registrazione a libro giornale di documenti di spesa; registrazione a libro giornale di fatture ricevute per un importo superiore a quello reale; registrazione a libro
1
Si deve, di conseguenza, da parte dei contribuenti e
dei professionisti, esigere che, nella prassi dei verificatori
e degli Uffici, molto spesso ispirata ad ingiustificate preoccupazioni “cautelative”, tendenti ad inviare comunque la denunzia al P.M. (talvolta financo quando non sia
accertato il superamento della soglia), essa venga presentata solo quando effettivamente risultano perfezionati
tutti gli estremi del reato in esame, e non si tratti di mera
evasione (od elusione) solo fiscalmente rilevante (con relativo recupero di imposta ed applicazione di sanzioni
tributarie non penali).
A tale conclusione si deve pervenire anche di fronte
alle specifiche “clausole antielusive” di cui agli artt. 37 c.
3 e 37-bis D.P.R. 600/73, la cui violazione non importa
automaticamente, per quanto detto, la realizzazione di
un reato di dichiarazione infedele.
Chiediamoci ora se l’impostazione sia destinata a
mutare a seguito dell’applicazione in sede giurisprudenziale del nuovo istituto denominato “abuso del diritto”,
per il cui esame specifico, e per la relativa casistica, si fa
rinvio agli scritti in argomento.
Poiché l’essenza dell’istituto attiene alla predisposizione di negozi c.d. ”indiretti”, collegati tra di loro, non
aventi altro scopo che quello di ottenere un risparmio di
imposta, è chiaro che l’attenzione del giudice penale si
deve spostare su tale ulteriore profilo, nel senso di porsi
la domanda se la mera adozione di contratti così qualificati dall’A.F. dia luogo a qualche reato.
giornale di costi fittizi; indicazione nel quadro F del Modello Unico
SC di fittizie variazioni extracontabili in diminuzione; indicazione
nel quadro F del Modello Unico SC di variazioni extracontabili in
aumento per importi inferiori al dovuto.
Ipotesi non integranti il reato di dichiarazione infedele ai sensi
dell’art. 4 D.Lgs. 74/2000: utilizzo di perdite di periodi d’imposta
precedenti, qualora le stesse siano indicate in dichiarazioni regolarmente presentate; mancato adeguamento alle risultanze degli Studi
di Settore; errata indicazione di dati rilevanti ai fini degli Studi di
Settore; errata indicazione di dati rilevanti ai fini della determinazione del reddito minimo da società di comodo; mancata dichiarazione del reddito minimo da società di comodo; l’indicazione nel
quadro N del Modello Unico SC di detrazioni non spettanti; indicazione nel quadro N del Modello Unico SC di crediti d’imposta
non spettanti; errata indicazione di compensazioni d’imposta effettuate tramite F24.
29
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DOTTRINA
Quanto a quello di cui all’art. 4 D.Lgs. 74/00,esso
sta e cade a seconda che nelle dichiarazioni redditi ed
IVA si tengano comportamenti idonei ad occultare
componenti positivi di reddito. Poco importa, quindi,
sotto questo profilo, che il risultato in esame sia ottenuto mediante il ricorso a negozi indiretti o collegati, tale
presupposto di fatto confluendo nel risultato finale della
dichiarazione2.
Si faccia, tra i tanti possibili esempi, il seguente: attraverso negozi indiretti e collegati, privi di qualsiasi scopo economico, si trasferiscono dei costi da una ad altra
società dello stesso gruppo. Il giudice penale, indipendentemente dalla valutazione dei negozi, può pervenire
a dimostrare, con strumenti di indagine propri, che gli
elementi passivi in questione sono “fittizi”3.
Non può, al contrario, essere chiamato in causa il più
grave delitto di “dichiarazione fraudolenta” di cui all’art.
2 Va ricordato che, secondo qualche Autore, peraltro senza particolare approfondimento dell’argomento, la definizione di “imposta
evasa” di cui all’art. 1 lett. f ) D.Lgs. 74/00 legittimerebbe la rilevanza
penale dei fenomeni di “abuso del diritto”. Il ragionamento è sostanzialmente il seguente: l’art. 4 stesso D.Lgs. richiede il “fine di evadere
le imposte”; la citata definizione fa riferimento alla “differenza tra
l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione”. Pertanto, rileverebbe ai fini penali qualunque differenza tra le
due quantità, comunque ottenuta con riguardo a qualsivoglia regola
di computo dell’imposta rilevante in diritto tributario, ivi compresa
quindi l’applicazione della regola dell’”abuso del diritto”. Tale impostazione non pare, peraltro, accettabile, in quanto interpreta il concetto di “imposta dovuta” alla stregua delle norme tributarie, senza
tener conto che, sulla base del principio del “doppio binario”, che caratterizza il settore, l’“imposta dovuta” stessa va ricostruita esclusivamente con i mezzi a disposizione del giudice penale, potendosi discostare dagli accertamenti compiuti dall’A.F., la cui destinazione è
diversa da quella del processo penale. Pertanto, il fatto che l’imposta
ritenuta dovuta in sede fiscale sia di un certo ammontare, in applicazione anche dell’abuso del diritto, non ha alcun valore in sede penale, dove il criterio medesimo – basato su un metodo sostanzialmente
presuntivo con prova contraria, tipico del diritto civile e del diritto
tributario – non ha diritto di cittadinanza.
3 Ipotizziamo ora il caso di un conferimento di azienda asseritamente elusivo, tendente a conseguire l’emersione di una plusvalenza
destinata ad essere compensata con perdite fiscali entro la scadenza
prevista dalla legge. In tale ipotesi è difficile ravvisare l’integrazione
dell’elemento oggettivo della fattispecie di cui all’art. 4 cit., e ciò in
quanto il presunto comportamento elusivo,ossia il conferimento di
azienda, non comporta in alcun modo la presentazione di una dichiarazione, come si usa dire, ”sottomanifestante”, ma anzi presuppone la realizzazione di una plusvalenza.
Alla medesima conclusione si deve pervenire nel caso l’applicazione
della disposizione antielusiva si sostanzi in una mera “riqualificazione” della fattispecie impositiva. In tal caso, infatti, ben difficilmente
il vantaggio fiscale indebito scaturente dall’inopponibilità degli effetti dei singoli atti viene configurato dall’A.F. in termini di occultamento di componenti positivi ovvero di esposizione di componenti
negativi indeducibili della base imponibile.
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
3 stesso D.Lgs., sotto il profilo che la “costruzione” dei
negozi indiretti sia “artificiosa”, in quanto il reato in esame richiede il c.d. ”falso contabile”, il quale, nel caso in
esame, manca assolutamente, tutta la situazione emergendo con chiarezza dalla contabilità e dai bilanci.
Parimenti apparirebbe infruttuoso il ricorso alla fattispecie comune della truffa aggravata (art. 640 cpv.n. 1
c.p.), di cui qualche volta superficialmente si sente parlare, in quanto è pacifico in dottrina che la materia penale
tributaria costituisce un “sistema chiuso” nel quale non
trovano ingresso le fattispecie penali comuni.
DOTTRINA
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
Elusioni o forzature nell’applicazione
dell’imposta di registro
di Gianni Marongiu
1. L’occasione per una riflessione
L’intento del presente lavoro è volto ad esprimere una
motivata riflessione, nei limiti ovviamente delle mie personali possibilità, sul trattamento fiscale, ai fini dell’imposta di registro, di alcune operazioni che hanno dato
luogo a contrastanti soluzioni delle diverse Commissioni tributarie.
In breve si tratta di questo.
Accade che una società “alfa” conferisce un suo ramo
d’azienda (ad esempio di costruzione e vendita di immobili) alla società “beta”, conferimento che, in sede di registrazione, sconta le imposte fisse di registro, ipotecaria
e catastale.
Con un successivo atto la stessa società “alfa” cede a
una terza società “gamma” la sua partecipazione nella società “beta”.
Le Agenzie delle Entrate, invocando l’articolo 20 del
dpr 131/1986 (Testo Unico dell’Imposta di Registro),
riqualificano gli atti presentati per la registrazione come
un’unica operazione di cessione di azienda da parte di
“alfa” a “gamma” e contestando, così, l’autonomia dei
singoli atti e attribuendo loro un unitario “effetto economico” nella considerazione, erronea, che i contribuenti avrebbero posto in essere gli atti con finalità asseritamente elusiva, liquidano e pretendono le relative imposte proporzionali:
Questo essendo il caso da esaminare si osserva, preliminarmente, che esso pone questioni già delicate di per
sé ma che lo divengono vieppiù perché sono affrontate
in una prospettiva che tende a svalutare l’analisi del dettato legislativo e a rovesciare, senza un idoneo sostegno
normativo, indirizzi interpretativi consolidati.
2. La ricognizione della norma applicabile
Al riguardo è appena il caso di ricordare che la disciplina dei tributi è coperta dalla riserva di legge prevista
dall’art. 23 della Costituzione.
Ne consegue che l’amministrazione finanziaria, per
esercitare i propri poteri, deve individuare una norma
che li legittimi.
Ebbene, nelle proprie deduzioni gli Uffici osservano
che “gli avvisi con i quali si accettano e si liquidano i
maggiori tributi principali trovano il loro fondamento
nell’art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (significativamente la prima delle disposizioni contenute nel titolo
terzo “Applicazione dell’imposta”) secondo il quale
“l’imposta di registro è applicata secondo la intrinseca
natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrispondono il titolo o la
forma apparente”.
Su questa norma, in altre parole, si fonda la pretesa di
legare più atti, di tassarli come un atto unico e di pretendere i relativi tributi. Si assume che l’art. 20, ora ricordato, sarebbe una norma antielusiva e si soggiunge, anzi,
che essa sarebbe il sintomo dell’esistenza di una regola,
di una clausola generale antielusiva.
Ebbene, pare a chi scrive che palese sia la duplice forzatura perché l’art. 20 né è né può divenire una norma
eccezionale antielusiva e tantomeno è il sintomo di un
principio che non esiste e che solo il legislatore può introdurre.
3. Il significato dell’art. 20 della legge di registro
L’art. 20, nel momento in cui sancisce che il tributo
di registro colpisce l’atto in relazione al suo contenuto
giuridico, ossia in relazione agli effetti giuridici che esso è
idoneo a produrre, disciplina il principio generale cui
deve uniformarsi l’operazione di interpretazione dell’atto sottoposto a registrazione allo scopo di individuare i
criteri impositivi e la voce della tariffa applicabili.
Orbene, alla stregua della disposizione testè richiamata, il regime fiscale applicabile ai fini del tributo di registro al singolo atto va ricercato avendo riguardo, precipuamente, al contenuto delle clausole negoziali e agli effetti giuridici prodotti dall’atto, indipendentemente dal
nomen iuris attribuito dalle parti all’atto medesimo.
Così, ad esempio, qualora dal contenuto giuridico
dell’atto risulti che trattasi di conferimento di immobile
dovranno applicarsi i relativi criteri impositivi, anche se
in ipotesi l’atto sia intitolato “conferimento d’azienda”: e
ciò in quanto, secondo il dettato normativo, prevale la
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DOTTRINA
effettiva sostanza giuridica emergente dal contenuto dell’atto sul nomen iuris (titolo o forma apparente) attribuito dalle parti all’atto stesso.
Questo è ciò che deve e può fare l’interprete, tassare
l’atto (quell’atto) secondo la sua effettiva sostanza e non
secondo il mero “nomen”.
Altro non può fare come emerge dalla significativa
formulazione dell’art. 20.
Si ricorda, infatti, che una norma analoga era contenuta anche nelle previgenti leggi di registro (cfr. l’art. 19,
d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634 e l’art. 8, r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269).
In particolare l’art. 8 del r.d. n. 3269/1923 disponeva
che “le tasse sono applicate secondo l’intrinseca natura e
gli effetti degli atti o dei trasferimenti, se anche non vi
corrisponde il titolo o la forma apparente”. Secondo la
c.d. Scuola Pavese (che faceva capo a Benvenuto Griziotti) tale disposizione era espressione di un principio generale, secondo cui l’atto doveva essere assoggettato a tassazione secondo gli effetti economici da esso derivanti.
Codesta tesi interpretativa (tesi che si sostenne negli
anni “30”, “40” e “50”), già sconfitta in giurisprudenza,
è stata esplicitamente ripudiata dal legislatore, il quale,
nel formulare l’art. 20 del t.u. del registro, ha espressamente codificato il riferimento agli effetti giuridici dell’atto, già contenuto nell’art. 19, del d.P.R. n. 634/1972.
In sintesi, se l’ufficio può e deve ricostruire, attraverso un’indagine complessiva dell’atto e delle relative
clausole, la reale natura giuridica del medesimo – senza
fermarsi all’intitolazione dello stesso e alla mera interpretazione letterale (così Cass. 7 marzo 1978, n. 1123;
id. 16 ottobre 1980, n. 5563; id. 17 dicembre 1988, n.
6902) e senza essere vincolato da un’inesatta qualificazione operata dalle parti, e quindi dal nomen juris da esse attribuito all’atto – non può, invece, andare al di là
della qualificazione civilistica e degli effetti giuridici desumibili da un’interpretazione complessiva dell’atto. Solo
questa lettura dell’art. 20 T.U. rispetta i principi costituzionali della riserva di legge nell’individuazione del
presupposto impositivo (art. 23 Cost.), della tutela dell’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), e del
principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.) e non
a caso questa è l’interpretazione accolta dalla totalitaria
dottrina (ex plurimis si vedano Uckmar-Dominici, Registro (imposta di), in Digesto discipline privatistiche,
XII, Torino, 1999, p. 260; Santamaria, Registro (imposta di), in Enc. del dir., XXXIX, Milano, 1988, p. 542;
Ferrari, Registro (imposta di), in Enc. giur. Treccani,
XXVI, Roma, 1991).
Nell’esempio fatto la differenza tra vendita e conferimento di ramo di azienda è del tutto evidente sotto il
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
profilo civilistico, del diritto commerciale ed economico
onde, se si operasse nel modo indicato dagli uffici, non
vi sarebbe una puntuale qualificazione dell’atto (quella
che si chiama la “riqualificazione”) ma la sostituzione della volontà delle parti con una presunta diversa volontà.
Il che non può essere perché non è conforme alla legge.
4. L’irrilevanza di eventi successivi all’atto ed
extratestuali
Anche con riguardo alla rilevanza degli elementi extra-testuali, quali ad esempio gli eventi successivi alla stipulazione dell’atto ovvero il comportamento delle parti
preferibile e preferita è l’opinione che esclude la rilevanza di codesti elementi, in quanto, alla stregua della norma in esame, assume rilievo esclusivamente l’atto sottoposto a registrazione.
E non a caso questa è l’opinione preferita dalla dottrina (si vedano Ferrari, op. cit., p. 245 e Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, parte seconda, Padova, Cedam, 2002, p. 245) e della giurisprudenza (ex plurimis si
vedano Cass. n. 4994/1991, in Giust. civ., 1991, I, p.
2280; Cass., n. 353/1990, in Rass. trib., 1990, II, p. 299,
note; Cass. n. 2633/1983; Cass., n. 1123/1978).
Ebbene, è agevole osservare che gli elementi cui gli uffici intendono dare valore per suffragare la propria pretesa (per la verità non sempre si capisce bene quali siano)
sono tutti successivi o esterni all’atto e ai suoi effetti giuridici: un diverso atto? il trascorrere del tempo?
Ne consegue che la tesi dell’Agenzia e di chi la dovesse esplicitamente condividere si pone in netto contrasto
non solo con la formulazione dell’art. 20 ma con l’intero
impianto della disciplina dell’imposta di registro così come intesa dalla dottrina, dalla giurisprudenza e da una
prassi più che secolare.
Occorre, infatti, considerare che, secondo la dottrina e la giurisprudenza assolutamente prevalenti, la qualificazione dell’imposta di registro come “imposta d’atto”
preclude all’ufficio l’utilizzo di elementi extratestuali nell’attività di interpretazione dell’atto assoggettato a registrazione. Si parla di “imposta d’atto” per sottolineare il
fatto che l’imposta colpisce l’atto e non il trasferimento, essendo, tra l’altro, pacificamente riconosciuto che, ai fini
dell’applicazione dell’imposta, non rilevano le vicende
(modificative, novative, revocatorie, ecc.) che gli effetti
giuridici scaturenti dall’atto possono subire successivamente al suo perfezionamento. Addirittura non rileva la
stessa nullità dell’atto (art. 38 T.U.), circostanza, questa,
che dottrina e giurisprudenza, da sempre, valorizzano a
supporto della natura dell’imposta di registro quale
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
“imposta d’atto”. Facendo applicazione dei medesimi
principi, si è poi correttamente ritenuto che l’Ufficio
non può far valere neppure la simulazione di un atto
nell’esercizio della propria attività di interpretazione,
ma deve, a tal fine, promuovere apposita azione giudiziale, essendo equiparato ai terzi ai quali l’art. 1415,
comma 2, c.c., consente di far valere la simulazione con
ogni mezzo di prova.
Il divieto di interpretazione extratestuale dell’atto ai
fini della registrazione è fondato, quindi, sulla natura
stessa dell’imposta di registro, quale si desume dal sistema del testo unico che la disciplina, oltre che sulla disposizione dell’art. 20 T.U.
5. L’inesistenza di un supporto normativo alla tesi
delle Agenzia delle entrate
Vano appare, quindi, il tentativo di aggirare il disposto dell’art. 20 e la sistematica dell’imposta di registro
quali che siano gli scopi più o meno nobili e l’interesse
fiscale sotteso.
In qualunque direzione si intenda procedere si riscontra che il supporto normativo della pretesa del fisco
sfuma fino a liquefarsi.
E invero, se si procede alla riqualificazione dell’atto
sottoposto a registrazione intendendosi per tale l’attività
consistente nell’individuare l’esatta natura giuridica rispetto a quella inesatta o falsa, utilizzata dai contribuenti
erroneamente o artatamente, al fine di usufruire di un
trattamento fiscale più vantaggioso, si rimane all’interno
del perimetro dell’art. 20 della legge di registro.
Se, invece, per tassare un atto si intendono legare fra
loro più negozi, distinti e successivi nel tempo, questo
tentativo, che è quello degli uffici, va ben al di là del
principio della rilevanza dei soli effetti giuridici dell’atto
presentato alla registrazione.
Questo approccio e la relativa pretesa, nella sostanza,
con il riferimento alla “causa reale” degli atti e ad un presunto “intento negoziale oggettivamente unico” riprendono le motivazioni e gli obiettivi della vecchia teoria
“economicistica”, esponendosi alle medesime critiche
cui essa era stata sottoposta.
L’indagine sulla natura economica degli effetti dell’atto si trasforma, inevitabilmente, in una ricerca soggettiva dei motivi delle parti, certamente non consentita e si
pone, comunque, in insanabile contrasto con il precetto
dell’art. 20 e delle norme costituzionali che ne costituiscono il fondamento. Non è certamente compatibile
con la riserva di legge in materia tributaria una lettura
creativa che pretenda di travalicare gli effetti giuridici,
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cui fa espresso riferimento l’art. 20, per ricostruire una
causa reale o una sostanza economica diversa.
Le considerazioni svolte sono a tale punto convincenti (e lo scriviamo proprio perché non sono solo nostre ma sono mutuate da un costante, fermo insegnamento) che, nel tentativo di superare l’inequivocabile significato dell’art. 20, si è invocata del tutto genericamente, con frasi sibilline e non ancorate al dettato normativo, una supposta “funzione antielusiva” della interpretazione qui oppugnata.
6. La tassatività delle previsioni antielusive nella
legge di registro e l’estraneità ad esse delle
fattispecie ipotizzate
Al riguardo è bene precisare che neppure la strada di
ragionamenti “antielusivi” si rivela percorribile perché
anch’essa è priva di qualsiasi supporto e ancoraggio normativo.
È significativa la fumosità del linguaggio dell’amministrazione là dove scrive che “pur tenendo conto della
peculiare natura dell’imposta di registro, sembra possa
fondatamente configurarsi una ratio antielusiva della
predetta norma, e cioè dell’art. 20”.
Il legislatore dell’imposta di registro ha introdotto alcune norme volte a prevenire ed arginare fenomeni elusivi e a queste e solo a queste occorre attenersi.
Proprio perché l’imposta di registro colpisce l’atto
avendo precipuo riguardo al suo contenuto giuridico,
nel presupposto che vi sia una corrispondenza tra il tipo
contrattuale e il substrato economico dell’operazione, il
legislatore ha avvertito l’esigenza di intervenire con apposite disposizioni per reprimere fenomeni di elusione,
caratterizzati da una divergenza tra lo schema negoziale
adottato dalle parti contraenti e gli scopi pratici da esse
perseguiti, diversi ed ulteriori rispetto a quelli connaturati al tipo negoziale.
Esaminiamo qui di seguito le disposizioni antielusive.
a) Secondo il dettato dell’art. 26 i trasferimenti immobiliari posti in essere tra coniugi ovvero tra parenti
in linea retta si presumono donazioni, se l’ammontare
dell’imposta di registro e di ogni altra imposta dovuta
per il trasferimento (imposte ipotecarie e catastali) risulta inferiore a quello delle imposte applicabili in caso di trasferimento a titolo gratuito. Nell’originaria
formulazione l’art. 26 prevedeva una presunzione legale assoluta di gratuità. Con sentenza n. 41/1999 la
Corte costituzionale ha, tuttavia, dichiarato l’incostituzionalità della norma con riferimento agli art. 3 e 53
cost. nella parte in cui escludeva la prova contraria di-
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retta a superare la presunzione di liberalità dei trasferimenti immobiliari.
La disposizione mira ad evitare che le parti eludano
l’applicazione dell’imposta sulle donazioni, ponendo in
essere atti simulatamente onerosi, ma in realtà gratuiti.
Allo scopo di impedire l’operatività della presunzione legale le parti devono specificare se fra loro sussista o meno un rapporto di coniugio o di parentela in
linea retta.
La presunzione di liberalità trova applicazione anche in relazione alle sentenze che accertano l’acquisto
per usucapione della proprietà (o di altri diritti reali) su
immobili.
b) Ai sensi dell’art. 24 nei trasferimenti immobiliari
le accessioni, le pertinenze e i frutti pendenti si presumono trasferiti all’acquirente dell’immobile salvo che
siano espressamente esclusi dalla vendita ovvero si provi,
con atto registrato, l’appartenenza ad un terzo.
c) Nell’ambito delle misure antielusive si colloca anche la norma dettata dall’art. 32 per la dichiarazione di
nomina effettuata oltre i tre giorni dalla data di stipulazione del contratto per persona da nominare.
Alla stregua della disciplina civilistica, allorchè una
delle parti contraenti si riserva di nominare successivamente la persona che acquista i diritti e assume gli obblighi scaturenti dal contratto, la dichiarazione di nomina
deve essere comunicata all’altra parte entro i tre giorni
successivi, salvo che le parti abbiano statuito un termine
diverso (si cfr. gli art. 1401 e 1402 c.c.).
Il legislatore tributario, al fine di evitare che, con il
contratto per persona da nominare, un soggetto possa
acquistare per sé e successivamente rivendere ad un terzo, facendo apparire in luogo del duplice trasferimento
uno solo, ha stabilito che la dichiarazione di nomina in
tutti i casi in cui sia effettuata oltre i tre giorni venga tassata con l’imposta stabilita per l’atto cui si riferisce la dichiarazione.
d) Una ratio antielusiva ispira anche il disposto dell’art. 33, giusta il quale il mandato irrevocabile con dispensa dall’obbligo del rendiconto è soggetto all’imposta
stabilita per l’atto per il quale è stato conferito. Così a titolo esemplificativo il mandato irrevocabile a vendere
con dispensa dall’obbligo del rendiconto è assimilato ai
fini dell’imposta in esame alla vendita, nel presupposto
che esso dissimuli un trasferimento dal mandante al
mandatario dei diritti cui si riferisce.
e) Da ultimo, tra le misure antielusive va menzionato
l’art. 62, a mente del quale “i patti contrari alle disposizioni del presente testo unico, compresi quelli che pongono l’imposta e le eventuali sanzioni a carico della parte
inadempiente, sono nulli anche tra le parti”. La disposi-
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
zione in esame costituisce una applicazione particolare
alla materia de qua del principio generale sancito dall’art. 1418 c.c., che sancisce la nullità dei contratti contrari a norme imperative.
La rassegna svolta porta all’evidenza a due inesorabili
conclusioni: in primo luogo che non esiste, nella disciplina dell’imposta di registro, una generale norma antielusiva; in secondo luogo che la fattispecie qui considerata
non rientra in nessuna delle ipotesi previste esplicitamente dalla legge di registro.
È significativo, del resto, che anche nel sistema dell’imposizione diretta una tale norma generale non esista
tant’è che lo stesso art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre
1973, n. 600, riguarda fattispecie ben determinate.
Norma, quella dell’art. 37, ora ricordata, che certamente non è applicabile all’imposta di registro con la
conseguenza che, non esistendo nessuna norma generale
“antielusiva” nell’ordinamento tributario italiano, la
conclusione è una sola e cioè che il tentativo, nel caso in
esame, di ragionare in termini di “elusività” e “antielusività” è privo di fondamento giuridico.
7. L’arbitrarietà del collegamento tra più atti al di
fuori dei casi tassativamente previsti (dalla legge
di registro)
All’identica conclusione deve pervenirsi ove si affronti il problema sotto un diverso profilo, quello che, muovendo dai ricordati principi, vale a constatare come una
serie univoca di dati normativi depongono inequivocabilmente nel senso dell’irrilevanza del collegamento tra più
atti distinti ai fini della determinazione dell’imposta, al
di fuori dei casi tassativamente previsti.
Si muova dall’art. 20 sopra ampiamente commentato e si proceda nella lettura del testo normativo.
Innanzitutto, l’art. 21 T.U. è assolutamente chiaro
nel condizionare la rilevanza del collegamento tra più
disposizioni alla circostanza che le stesse siano contenute in un medesimo atto. L’art. 22 T.U., eccezionalmente, attribuisce rilevanza ad un precedente atto non registrato in virtù del meccanismo dell’enunciazione, ma
solo nei limiti ivi previsti, al di fuori dei quali, evidentemente, non è consentito all’amministrazione operare.
Analogamente, l’articolo 24, comma 2, T.U., assoggetta
ad un determinato trattamento tributario il trasferimento delle pertinenze, solo se effettuato entro tre anni
dal trasferimento dell’immobile al cui servizio le stesse
sono destinate.
Tutte queste disposizioni assumono una particolare
importanza, ai fini sistematici, in quanto chiariscono
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ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
l’intento del legislatore tributario, che – ai fini dell’imposta di registro – laddove ha voluto attribuire rilevanza
a vicende estranee all’atto oggetto di registrazione, e in
particolare al collegamento tra più atti, lo ha fatto
espressamente. Le norme che attribuiscono rilievo, ai fini
dell’imposta in esame, a tale collegamento sono quindi eccezionali, e non possono essere applicate oltre i casi da esse
considerati. Il che è conforme, lo si ripete, ai principi costituzionali e in particolare alla riserva di legge in materia tributaria, che verrebbe agevolmente elusa attribuendo all’interprete il compito di ricostruire le condizioni e i limiti di rilevanza del collegamento negoziale.
Del resto, tale compito sarebbe oltremodo arduo e condurrebbe a risultati non certo in linea con l’irrinunciabile esigenza di certezza del diritto in materia tributaria:
basti pensare al profilo temporale e quindi all’intervallo
di tempo che dovrebbe intercorrere tra i vari atti costituenti, secondo l’interpretazione criticata, la fattispecie
complessa oggetto di tassazione. Si assume che uno degli elementi adducibili a favore dell’unitarietà della tassazione sarebbe il “breve” intervallo di tempo tra i due
atti ma è facile replicare che se il tempo è elemento costitutivo della fattispecie tassabile il legislatore, e solo il legislatore può sancire quale è il “tempo” giuridicamente rilevante (un mese? un anno? una vita?). È certo che la mancata
determinazione ad opera del legislatore non può essere
supplita né dalla giurisprudenza né tanto meno dalla
burocrazia finanziaria.
8. Conclusioni
Deve, quindi, recisamente negarsi che l’ufficio possa
far valere il collegamento ai fini dell’imposizione di registro, e quindi – interpretando l’atto sottoposto a registrazione unitamente ad altri atti ad esso collegati – tener
conto di un presunto “effetto giuridico unitario”. Ciò che
in realtà rileva, per escludere un tale potere dell’ufficio,
non è tanto la distinzione tra unicità e pluralità di cause
negoziali, come pure affermato da parte della dottrina e
della giurisprudenza, ma piuttosto l’autonomia documentale dei singoli “atti” presentati alla registrazione.
Alla luce di quanto precisato, appare agevole escludere la rilevanza, ai fini dell’imposta di registro, del collegamento esistente, nella fattispecie concreta, tra più atti.
Oltre all’argomento della natura giuridica dell’imposta di registro quale “imposta d’atto”, e alla circostanza,
decisiva, che laddove il legislatore ha inteso attribuire rilevanza al collegamento lo ha effettuato espressamente,
stabilendone i presupposti anche temporali, va comunque evidenziato che l’effetto finale della fattispecie complessa come sopra realizzata non può essere assolutamente equiparato a quello della cessione dell’azienda,
poiché nel patrimonio del terzo acquirente entra non già
quest’ultima, bensì la partecipazione sociale con le ovvie
differenze sia sotto il profilo civilistico che sotto quello
tributario: la differenza degli effetti è talmente evidente
da non necessitare di ulteriori spiegazioni.
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Spunti di metodo
in tema di “abuso del diritto”
di Paolo Gentili
Il tema dell’abuso dei diritto in materia fiscale viene
solitamente proiettato sullo sfondo dei seguenti ordini
di problemi:
a) l’esistenza di un divieto generale di abuso del diritto in materia fiscale;
b) il rapporto di tale ipotetico diritto con le nozioni
di elusione e di evasione fiscale;
c) le fonti, interne e comunitarie, di tale supposto diritto;
d) il problema dell’autonomia negoziale e della certezza del diritto.
Questa impostazione è condivisa sia dai fautori che
dagli avversari della configurazione di una fattispecie generale di abuso del diritto. Tutti ragionano, più o meno,
in questi termini: esistono alcune disposizioni specifiche
(tipo art. 37 bis dpr 600/73 o art. 14 commi 4 bis e 6 bis
dPR 917/86 vecchio testo) dalle quali si ricava che non
sono fiscalmente riconosciuti gli effetti di talune operazioni (fusioni, scissioni, cessioni di aziende, costituzioni
di usufrutto su azioni ecc.) allorchè avvengano in un contesto tale da far ritenere che esse non hanno altra finalità
che il risparmio di imposta. Può trarsi da queste norme la
conclusione che in generale è interdetto al contribuente
porre in essere negozi giuridici i quali non abbiano altra
finalità economica che il risparmio di imposta? E se sì,
quali sono le conseguenze del comportamento difforme?
E, sempre in caso di risposta positiva, attraverso quali
passaggi pervenire ad applicare tali conseguenze?
Nell’impostazione dell’argomento, che si diceva comune a fautori e negatori, il punto meno discusso è il
primo: se cioè dall’esistenza di alcune norme speciali comunemente dette “antielusive” possa trarsi, teoricamente, una norma generale. Tra i negatori tendono infatti a
divenire minoritari (non era così in passato) coloro che
applicano il semplice criterio “ubi lex voluit dixit” e che
quindi escludono radicalmente la possibilità di una norma generale antielusiva perché la scelta legislativa è stata
nel senso di procedere per fattispecie tipiche, tassative e
non estensibili per analogia iuris o legis.
La maggior parte degli interpreti ammette dunque la
possibilità teorica di pervenire ad una norma antielusiva.
Le differenze, radicali e insanabili, iniziano però a questo punto.
I negatori osservano che, se è ammissibile in teoria
(perché rispondente ad un metodo codificato di interpretazione della legge) inferire da norme di specie un principio generale, nel nostro caso ciò non sarebbe concretamente possibile. Osterebbero alla costruzione del principio in questione altri principi, già sicuramente stabiliti
nell’ordinamento e incompatibili con il nuovo che si vorrebbe introdurre: in particolare, si tratterebbe dei principi di autonomia negoziale e di certezza del diritto. Una
volta che i contribuenti hanno posto in essere un negozio
giuridico appartenente ad un tipo ammesso dal diritto
privato, o anche un negozio atipico ammissibile, non si
potrebbero escludere gli effetti di questo in forza di un
suo non precisato né prevedibile rapporto di incompatibilità con il diritto tributario. Il riconoscimento di effetti
garantito al negozio dal diritto privato, dovrebbe operare
per ciò solo anche in tutti gli altri campi del diritto.
Replicano i fautori che l’autonomia negoziale non è
illimitata, poiché lo stesso diritto privato ne contempla
limiti formulati secondo clausole aperte e indefinite: la
nullità per illiceità dei motivi, o per frode alla legge, o
per mancanza di causa in concreto costituirebbero altrettanti limiti riferiti ai singoli negozi stipulati nella realtà; limiti derivanti da concetti di cui non è prevedibile
la concretizzazione in relazione a tali negozi e che divengono operanti solo dopo che di questi si siano potuti apprezzare in pratica gli effetti. Tra i riferimenti dai quali
trarre casi di nullità del genere indicato ben potrebbe
quindi includersi anche il diritto tributario. Il fine di
sottrarsi a talune sue disposizioni dovrebbe entrare nella
valutazione causale dei negozi. Si chiama a conferma il
diritto comunitario, ove la giurisprudenza ha costruito
la regola del “divieto di abuso del diritto comunitario”
inteso come impossibilità di avvalersi di disposizioni tributarie agevolatrici di matrice comunitaria (per lo più
nell’ambito dell’IVA) ponendo in essere negozi che abbiano come finalità unica o essenziale appunto lo sfruttamento di simili norme.
Se si ammette questa possibilità, sorge poi controversia sulla qualificazione del fatto rappresentato dalla stipulazione di un negozio di diritto privato causalmente
non ammissibile per ragioni tributarie. Ci si divide tra
quanti lo considerano un fatto illecito, produttivo di
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
sanzioni, e quanti lo considerano una semplice situazione di inopponibilità del negozio all’amministrazione finanziaria. Questa seconda tesi viene, per la precisione,
sostenuta da quanti, pur nel campo dei fautori, optano
più che per la nullità da illiceità (nella quale è insita la
violazione di un divieto, e con essa la sanzionabilità del
comportamento), per la mancanza assoluta o relativa di
volontà, cioè per la simulazione.
Non mancano, poi, posizioni “miste” o intermedie,
le quali combinano in vario modo le diverse prospettive
qui sommariamente ricordate.
Ho appunto ricordato tali prospettive per dare consistenza alla mia convinzione che perseverando con questa
impostazione non raggiungeremo mai una soluzione generalmente condivisa, di cui si debba soltanto controllare la correttezza delle singole applicazioni.
Credo che il vizio dell’impostazione stia nel metodo.
Si parte dal presupposto per cui l’oggetto primario della
valutazione giuridica da compiere è il negozio giuridico,
e tale valutazione deve essere condotta come valutazione
di diritto privato, cui il diritto tributario fornisce soltanto i riferimenti esterni.
In pratica, è con criterio privatistico che si deve valutare, sempre, se un negozio giuridico sia, p. es., nullo per
illiceità dei motivi. Le norme tributarie di cui il negozio
intendeva, in tesi, evitare o limitare l’applicazione costituiranno per così dire l’innesco della verifica di liceità dei
motivi, ma sarà il diritto privato (ossia l’insieme delle regole da questo elaborate in generale per applicare la regola della nullità per illiceità dei motivi) a determinare se
quelle norme avessero una tale pregnanza da giustificare
la qualificazione come illecito del motivo di eluderle.
Questo aspetto è ancora più chiaro se ci si pone dal
punto di vista della nullità per inesistenza dell’oggetto o
della volontà (simulazione): è solo il diritto privato che
può stabilire quale sia l’oggetto di un negozio al fine di
valutarne la validità, o se un negozio apparente sottenda
una volontà reale (e, in ipotesi, quale). In tutti questi casi, il diritto tributario fornisce insomma i materiali per
una elaborazione che, però, è e deve essere prettamente
di diritto privato.
Come si diceva, questa è anche l’impostazione dei
negatori della regola generale antiabuso, poiché essi fanno leva sui principi di autonomia negoziale e di certezza
delle relazioni giuridiche private; quindi partono anch’essi dal negozio come termine principale del giudizio.
Anche per essi la questione principale sta, in definitiva,
nello stabilire se un determinato negozio giuridico possa
o meno essere considerato produttivo di effetti.
A mio avviso il vizio di impostazione deriva dal fatto
che noi dobbiamo invece risolvere una questione pratica
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che non è di diritto privato, ma di diritto tributario. Tutte le questioni reali in occasione delle quali sorge il dubbio se sussista e vada applicata una regola generale antiabuso sono infatti questioni nelle quali vi è controversia
tra il contribuente e l’amministrazione circa l’operatività
di una determinata norma tributaria (p. es. il credito di
imposta sui dividendi, o la neutralità delle fusioni ecc.).
Allora il punto di vista va rovesciato: bisogna partire
dall’interpretazione della norma tributaria vista in sé,
nella sua autonomia concettuale e, appunto, normativa,
cioè nei suoi presupposti, nella sua ratio e nel suo significato dispositivo. Stabilita così la corretta interpretazione
della norma tributaria di cui è controversa l’applicazione, si dovrà verificare se e con quali effetti sia possibile
sussumere in essa il dato di fatto rappresentato dalla stipulazione di un certo negozio.
Ritengo che, impostando l’argomento in questi termini, buona parte dei problemi che ho sopra ricordato
possano essere superati come sostanzialmente inutili, e
che si possano raggiungere conclusioni operative più
agevolmente praticabili.
Si deve considerare che la nozione di “abuso del diritto” già in termini di teoria generale forma oggetto, non
di un divieto, cioè di una autonoma norma (o di un autonomo principio generale), quanto di un criterio interpretativo delle norme attributive di un diritto soggettivo. L’endiadi abuso del diritto non è scindibile sul piano
logico, per cui non può concepirsi un “abuso del diritto
come fattispecie astratta distinta dal diritto “abusato”. Al
contrario, l’abuso è un elemento logico interno alla ricostruzione della fattispecie del diritto soggettivo: se non si
muove da questa fattispecie, non è possibile configurarne l’abuso (e ciò è evidente); ma reciprocamente è del
pari evidente che la configurazione dell’abuso concorre
alla ricostruzione della fattispecie. I due termini non sono quindi separabili.
In questa prospettiva, l’abuso identifica sinteticamente l’insieme di tutte le situazioni di fatto nelle quali
si pretenda di applicare una norma attributiva di un diritto soggettivo andando oltre il presupposto oggettivo
che costituiva la giustificazione di quella norma.
Si vede quindi che il criterio dell’abuso non può riferirsi a tutti i diritti, ma solo a quelli “di pura creazione
normativa”; creazione giustificata da un presupposto che
colleghi tali diritti ad una fonte sovraordinata, di livello,
quindi, innanzitutto costituzionale.
In breve, dei diritti di immediata attribuzione costituzionale non può abusarsi. Si tratta di quei diritti (si
pensi al diritto alla salute) che nella concretizzazione
giurisprudenziale si sono poi venuti precisando come diritti “assoluti” o “incomprimibili”. Al più potrà rilevarne
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DOTTRINA
un esercizio imprudente (si pensi al diritto alla tutela
giurisdizionale e alla lite temeraria), idoneo a generare
responsabilità risarcitoria, ma mai l’inapplicabilità in
concreto del diritto stesso (per restare all’esempio, la temerarietà della lite non comporta di per sè l’inammissibilità della domanda, cioè la negazione del processo).
Venendo al campo tributario, si vede allora che l’area
a cui riferire il criterio interpretativo dell’abuso (cioè
l’abuso inteso come ricognizione del limite intrinseco
assegnato al diritto soggettivo dal presupposto su cui si
fonda la norma che lo attribuisce, e che trae da tale presupposto la propria giustificazione costituzionale), è
quella dei diritti soggettivi riconosciuti al contribuente
all’interno di un rapporto di imposta.
Occorre che il rapporto di imposta si sia costituito,
cioè che si sia realizzato il presupposto al ricorrere del
quale nasce l’assoggettamento del contribuente ad obblighi di natura tributaria; e che all’interno di questo
rapporto (in cui la posizione soggettiva fondamentale
del contribuente è di soggezione ad obblighi) una norma
attribuisca al contribuente, invece, dei diritti soggettivi;
cioè configuri dei presupposti il cui effetto giuridico è la
limitazione o l’esclusione degli obblighi “di partenza”.
Il rapporto tra norma costitutiva del rapporto tributario e norma attributiva di un diritto al contribuente è
quindi, tipicamente, un rapporto tra norma generale e
norma eccezionale. E, del resto, anche sul piano dei fatti
l’allegazione del presupposto della norma attributiva di
diritti si pone, dal lato del contribuente, come il rilievo
di un’eccezione in senso stretto, cioè come la deduzione
di fatti modificativi o estintivi della pretesa fiscale.
Si avrà dunque abuso tutte le volte in cui si pretenda
di applicare un diritto soggettivo del contribuente all’interno del rapporto di imposta (si pensi, per esprimersi in
sintesi, alle esenzioni, alle esclusioni, alle deduzioni, alle
detrazioni, ai crediti di imposta) in situazioni di fatto
concrete che non corrispondono al tipo astratto del presupposto assunto a propria base e giustificazione dalla
norma attributiva del diritto. In tali situazioni concrete
torna a produrre effetto il presupposto di instaurazione
del rapporto tributario, cioè il presupposto da cui scaturiva l’obbligo del contribuente, cui la norma attributiva
del diritto faceva eccezione.
L’abuso deriva, insomma, dalla pretesa avanzata dal
contribuente ad un diritto soggettivo in una situazione
di non corrispondenza tra la situazione data in concreto
e la situazione astrattamente presupposta dalla norma
attributiva.
Esso è, quindi, nozione totalmente oggettiva. Nell’indagare se un certo diritto del contribuente si pretenda applicabile oltre il limite del suo presupposto norma-
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
tivo, non debbono avere un ruolo necessario considerazioni di ordine soggettivo inerenti alla volontà del contribuente, cioè considerazioni inerenti principalmente
alla qualificazione privatistica del negozio come valido o
viziato. La volontà del contribuente sottostante, p. es.,
alla stipulazione di certi negozi giuridici come potrebbe
essere l’usufrutto di azioni estero/Italia, potrà rilevare
quale elemento utile, ma non indispensabile, della valutazione complessiva e oggettiva del fatto verificatosi e
della sua corrispondenza al presupposto astratto della
norma tributaria attributiva, nell’esempio, del diritto
soggettivo al credito di imposta sui dividendi e alla deduzione delle quote di ammortamento del prezzo pagato
per l’acquisto dell’usufrutto.
Chiarito ciò, si vede allora che nella nozione di abuso
così intesa rifluisce senza residui la nozione di elusione
fiscale (è solo una preferenza lessicale usare l’una o l’altra
espressione). L’elusione fiscale altro non è che l’impiego
di una norma attributiva di diritti all’interno di un rapporto di imposta al di là dei presupposti assunti a propria base dalla norma stessa, in modo da vanificare, per il
tramite di questa, l’applicazione della norma obbligante.
Diverso è il concetto dell’evasione. L’evasione non
comporta impiego “eccedente” (id est abusivo o elusivo)
di una norma di eccezione alla norma da cui scaturisce
l’obbligo. L’evasione è la violazione diretta di tale ultima
norma. La relazione tra il comportamento concreto e la
norma, in questo caso, non è una relazione di “regola/eccezione”, bensì di “osservanza/violazione”. Per configurare un caso di evasione, diviene allora determinante il
riferimento ai profili soggettivi del comportamento del
contribuente. Come ogni condotta illecita, l’evasione
deve evidenziare una componente soggettiva intenzionalmente dolosa. La stipulazione di negozi simulati o
fraudolenti costituirà quindi di regola una forma di evasione, mentre rimarrà estranea al tema dell’abuso e dell’elusione. Da questo punto di vista, l’accentuazione dei
profili soggettivi dell’illecito tributario introdotta dal d.
lgs. 472/97 rende più agevole la distinzione.
Diverse sono anche le conseguenze: nel caso dell’abuso o elusione, la conseguenza sarà l’irrilevanza in concreto nei confronti del fisco, cioè l’inefficacia relativa, del
fatto (astrattamente) costitutivo del diritto del contribuente (id est del fatto modificativo o estintivo della
pretesa fiscale). In quanto eccedente il presupposto, tale
fatto non sarà costitutivo del diritto vantato dal contribuente. Nel caso dell’evasione, la conseguenza sarà la
sanzione.
Si vede quindi, in definitiva, che il tema dell’abuso o
dell’elusione è estraneo al tema dell’autonomia negoziale
e della sua sindacabilità da parte dell’amministrazione o
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
del giudice tributari. L’accertamento propriamente da
compiere in questi casi è di natura, come si diceva, strettamente oggettiva; e, deve ora aggiungersi, autonomamente tributaria.
Si deve, in altri termini, costruire secondo criteri ovviamente tributari la fattispecie della norma (tributaria)
attributiva di diritti (si pensi alle norme sulla deduzione
dei costi di acquisto di un diritto di usufrutto di azioni, e
alle norme sul credito di imposta sui dividendi derivanti
da queste ultime); e verificare se vi sia corrispondenza tra
questa ricostruzione e il fatto concretamente verificatosi.
Non hanno quindi particolare importanza indagini
sulla validità negoziale degli atti posti in essere, cioè sulle
possibili cause di nullità che possano colpirli. Dal punto
di vista civilistico tali atti possono anche essere considerati perfettamente validi. Ciò che rileva è la loro autonoma valutazione tributaria.
In questo quadro, allora, l’indagine sulla finalità economica dell’atto e sulla sua razionale connessione con
una normale gestione dell’impresa assume un valore
centrale. Il criterio dell’insussistenza di valide ragioni
economiche, in quanto criterio puramente oggettivo ed
espressivo della ragione astratta (del presupposto) per
cui la norma tributaria attribuì un certo diritto soggettivo al contribuente, consente di operare questa valutazione strettamente tributaria.
Tutto ciò risolve le questioni concernenti la fonte normativa da cui dedurre il limite costituito dall’abuso. Il parametro alla cui stregua valutare se un fatto concreto si sia
contenuto o abbia ecceduto il presupposto della norma
attributiva di diritto è il principio costituzionale della capacità contributiva; principio che regge tanto le norme
tributarie “di obbligazione” quanto quelle “di esonero”.
Il rapporto di imposta, cioè l’assoggettamento del
contribuente ad obblighi di natura tributaria, può avvenire soltanto se il presupposto di instaurazione del rapporto sia un fatto espressivo di capacità contributiva. La
norma può quindi attribuire, in via di eccezione, un diritto soggettivo al contribuente all’interno di un rapporto di imposta, così da rendere inoperante l’obbligo, solo
qualora identifichi fatti o situazioni non espressive di capacità contributiva, o meritevoli di agevolazione. Dove
il fatto concreto faccia emergere che la capacità contributiva persiste, o che non vi è meritevolezza dell’agevolazione, deve riespandersi la norma generale portante
l’obbligo di imposta.
Esemplificando, se un imprenditore pone in essere la
tipica operazione di “dividend washing” (per stare ad
uno dei casi che ha originato la svolta giurisprudenziale
su cui stiamo riflettendo), cioè un’operazione nella quale
egli acquista delle azioni da un fondo di investimento
DOTTRINA
pagandole al lordo del valore del dividendo di cui è già
stata deliberata la distribuzione, e le rivende al medesimo fondo il giorno successivo, quando la distribuzione è
avvenuta, e a questo punto ovviamente lo fa per un prezzo al netto del valore del dividendo, quell’imprenditore
pone in essere un’operazione priva di ragionevole connessione economica con qualsiasi sana gestione dell’azienda poiché ha programmato un’operazione di acquisto/rivendita necessariamente in perdita e quindi
non collegabile a obiettive ragioni aziendali. È allora evidente che a quell’imprenditore vanno negati la deduzione della perdita così evidenziata e il credito di imposta
sui dividendi riscossi.
Le norme (di eccezione all’obbligo di imposta sul
reddito) che accordano la deduzione dei costi presuppongono infatti che si tratti di costi collegabili alla razionale gestione dell’azienda (questo è il significato proprio
del principio di inerenza, che costituisce la vera giustificazione costituzionale della deducibilità dei costi, molto
più che non il principio di tassazione in base a bilancio,
visto che in sé anche un costo può, dal punto di vista autonomamente tributario, costituire una manifestazione
di capacità contributiva, come dimostra il caso dell’Irap;
sicchè la mera appostazione di esso a conto economico
non ne giustifica solo per ciò la deduzione). Una perdita
derivante da un’operazione che strutturalmente non poteva non produrla non è quindi “inerente” nel senso ora
precisato.
Allo stesso modo, la disposizione che accordava il credito di imposta sui dividendi onde prevenirne la doppia
imposizione economica in capo alla società distributrice
a al socio percettore, presupponeva che il contribuente
avesse acquistato una partecipazione perché lo riteneva
conveniente dal punto di vista economico. Questa valutazione di convenienza economica non doveva, nell’apprezzamento della norma tributaria, essere influenzata
negativamente dal pericolo della doppia imposizione
economica, che avrebbe potuto dissuadere dal compierla;
sicchè la tassazione dei dividendi doveva essere resa neutra attraverso il credito di imposta. Se questo era, come
era, il presupposto di giustificazione costituzionale del
diritto soggettivo al credito di imposta sui dividendi, evidentemente esso non poteva operare qualora la partecipazione fosse stata acquisita scientemente in perdita, cioè
senza alcuna valutazione di convenienza, talchè il solo significato economico dell’operazione potesse rinvenirsi,
appunto, nel credito di imposta sui dividendi.
Se, in altre parole, si ammettesse il credito di imposta
in un caso come il “dividend washing”, ciò implicherebbe leggere la norma attributiva di tale diritto non come se
dicesse: “chi acquista una partecipazione azionaria in base
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ad una valutazione di convenienza di tale operazione ha diritto alla neutralizzazione fiscale dell’operazione stessa tramite un credito di imposta, in modo che la valutazione economica di convenienza dell’operazione non sia alterata dal
pericolo di una doppia imposizione economica dei dividendi
nel passaggio dell’utile dalla società che lo produce al socio
che lo percepisce”; ma come se dicesse, né più né meno:
“ha diritto al credito di imposta sui dividendi chi ha diritto
ai dividendi”. Ma ciò priverebbe il diritto al credito di
imposta della sua giustificazione costituzionale. Infatti
percepire dividendi, sia pure su un utile già tassato in capo alla società distributrice, costituisce comunque una
manifestazione di capacità contributiva (se non altro perché esprime la decisione dei soci di appropriarsi individualisticamente dell’utile anziché accantonarlo a riserva
favorendo l’autofinanziamento della società). Per cui la
neutralizzazione fiscale della percezione di un dividendo
può essere giustificata solo se si postula un presupposto
ulteriore e sostanziale rispetto al mero dato formale della
delibera di distribuzione del dividendo stesso.
In questo caso sono quindi ragioni oggettivamente
economiche e giuridico tributarie (alla luce delle basi
giuridiche costituzionali della normativa fiscale tanto di
imposizione che di esonero) le quali conducono a negare
i diritti soggettivi reclamati dai contribuenti.
Non occorre affatto interrogarsi, invece, sulla validità
negoziale o sulla realtà o simulazione del collegamento
negoziale acquisto/rivendita di partecipazioni azionarie
in cui si compendia il “dividend washing”. È anzi evidente, a mio avviso, che questo collegamento negoziale
alla stregua del diritto privato è valido, reale ed efficace.
Soltanto che non centra il bersaglio del presupposto delle norme tributarie di esonero (deduzione della perdita;
credito di imposta) che aveva di mira.
Considerazioni del tutto analoghe possono farsi a
proposito dell’operazione di usufrutto di azioni
estero/Italia o “dividend stripping”.
Anche qui vengono in esame le norme sulla deduzione delle quote di ammortamento del prezzo di acquisto
dell’usufrutto e sul credito di imposta. Anche qui va rilevato che non può competere deduzione dell’ammortamento per l’acquisto di una partecipazione avvenuto attraverso un contratto palesemente antieconomico (cioè
non “inerente” nel senso pregnante dell’inerenza sopra
precisato). È infatti antieconomico anticipare per intero
e in contanti al proprietario delle azioni senza scontare
alcun interesse da “attualizzazione” i dividendi sperati
per i successivi tre anni; e ottenere in cambio il mero diritto a riscuotere i dividendi stessi anno per anno, lasciando al proprietario stesso (ben poco “nudo”) il potere di gestire la società partecipata e di deliberare (attra-
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
verso il conservato diritto di voto) se e in quale misura
distribuire dividendi (sempre che vi sia utile), riservando
all’usufruttuario il solo diritto di recedere dal contratto
se la delibera di distribuzione non lo soddisfi, ma senza
prevedere neppure alcuna garanzia reale o personale, in
tal caso, del pagamento in restituzione del prezzo pagato
per acquistare l’usufrutto.
Soltanto il credito di imposta sui dividendi dà un senso economico ad un simile “suicidio”; ma si è visto che il
credito di imposta non può giustificarsi con se stesso.
Anche qui, si coglie con nettezza (salvi i casi di preordinazione fraudolenta, che se dimostrati costituiranno
forme di evasione punibile) la superfluità della discussione se il contratto costitutivo dell’usufrutto sia reale o simulato; se sia simulato assolutamente o relativamente (in
quest’ultimo caso, in rapporto ad un presunto contratto
di negoziazione del credito di imposta di cui dovrebbe
poi ulteriormente costruirsi l’illiceità); se sia valido o nullo per mancanza di oggetto o di causa, e ciò in relazione
ad un contratto di per sé atipico o a causa variabile come
è quello avente per oggetto l’usufrutto di azioni.
Ciò che conta è solo che ad un’analisi economica e
giuridico tributaria oggettiva e sostanziale il “dividend
stripping” si dimostra del tutto eccentrico rispetto alle
norme sulla deduzione delle quote di ammortamento e
sul credito di imposta sui dividendi.
Se si condivide che il problema va affrontato dal punto di vista costituzionale e tributario, diviene, infine, superflua non solo la discussione in chiave “privatistica”
dei casi di abuso o elusione, ma anche la discussione sulle implicazioni comunitarie di essi.
Dal diritto comunitario si può trarre, però, una conferma che il problema è reale e che va impostato come
qui ho proposto.
Non mi riferisco tanto alla giurisprudenza in tema di
IVA tipo “Halifax” e séguiti (che pure adotta una logica
tutta fondata sulla ratio oggettiva e autonomamente tributaria delle norme di esonero, mentre si disinteressa
completamente della qualificazione privatistica dei negozi), quanto ad un dato normativo.
L’art. 11 n. 1 della direttiva 90/434/CEE sulla neutralità fiscale delle fusioni dispone, come si sa, che “Uno
Stato membro può rifiutare di applicare in tutto o in parte
le disposizioni dei titoli II, III e IV o revocarne il beneficio
qualora risulti che l’operazione di fusione, di scissione, di
conferimento d’attivo o di scambio di azioni:
a) ha come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione fiscale; il fatto che
una delle operazioni di cui all’articolo 1 non sia effettuata per valide ragioni economiche, quali la ristrutturazione o la razionalizzazione delle attività delle
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
società partecipanti all’operazione, può costituire la
presunzione che quest’ultima abbia come obiettivo
principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione fiscali …”.
Questa norma ha una grande importanza sistematica
perché contiene il riconoscimento che nel diritto tributario comune agli Stati membri l’insussistenza di valide
ragioni economiche di un’operazione costituisce il presupposto per disconoscerne le pretese conseguenze esonerative da obblighi fiscale: infatti il diritto comunitario, nel momento in cui, sovrapponendosi alla sovranità
degli Stati in materia di imposte sul reddito, impone la
neutralità fiscale delle fusioni (cioè, in concreto, la non
tassabilità delle plusvalenze emerse in queste occasioni),
tuttavia precisa che tale imposizione non ha il significato
di comportare che le fusioni siano fiscalmente neutre per
così dire “a prescindere”, cioè per il solo fatto di essere
state effettuate. Al contrario, il diritto comunitario
prende atto che nel diritto degli Stati membri un’operazione può comportare esonero fiscale soltanto se conforme al presupposto economico della norma che lo prevede (cioè “la ristrutturazione o la razionalizzazione delle
attività delle società partecipanti all’operazione”), mentre
la medesima operazione non comporta tale esonero se
economicamente difforme dal presupposto; e dichiara
che ciò vale anche se la norma di esonero trae la propria
fonte dal diritto comunitario.
L’art. 11 ha quindi un valore ricognitivo della effettiva situazione normativa costituzionale e tributaria sussistente negli Stati membri a proposito del problema dell’abuso fiscale. I punti 44 e 45 della sentenza Kofoed, allorché alludono, da un lato, ad una “situazione normativa generale” interna ai singoli Stati membri che possa valere come conformazione implicita all’art. 11, e, dall’altro, alla possibilità di dare del sistema normativo interno
un’interpretazione “conforme” all’art. 11 anche a prescindere da norme espresse di recepimento, mi sembra
che confermino questa ricognizione.
A questo riguardo porto un esempio, proveniente da
una questione pregiudiziale di recente sollevata presso la
Corte di giustizia dalla Corte di cassazione olandese
(causa C-352/08).
La decisione di rinvio pregiudiziale (non pubblicata)
riferisce di una complessa operazione che può sintetizzarsi nei seguenti termini:
1. La società A possiede un immobile commerciale,
distinto dal numero civico 19, adibito a negozio di vendita di abbigliamento. Tale attività costituisce l’oggetto
della società. La società B possiede l’immobile contiguo
(distinto dal numero civico 17), utilizzato anch’esso dalla società A, tramite una locazione, per l’esercizio della
DOTTRINA
suddetta attività di vendita di abbigliamento. Oggetto
della società B è la mera gestione di immobili, e non il
commercio di abbigliamento. Le azioni della società A
sono possedute, tramite una holding, da una persona fisica (“il figlio”) che è figlio delle persone fisiche (“i genitori”) che possiedono le azioni della società B.
2. Le parti intendono realizzare le seguenti operazioni. La società A conferisce l’immobile n. 19 alla società
B. Questa emette azioni che assegna alla società A. I genitori attribuiscono alla società A un’opzione per l’acquisto delle azioni della società B in loro possesso. Una
volta che A sia venuta in tal modo in possesso della totalità delle azioni di B, è prevista una fusione di B in A. Il
risultato finale dell’operazione è che nella società A, totalmente posseduta dal figlio, si riunirà la proprietà dei
due immobili commerciali nn. 17 e 19, che la medesima
società utilizza per svolgere l’attività di vendita di abbigliamento.
3. La prospettata fusione sarebbe esente da imposizione sul reddito della società B, in particolare per quanto riguarda le plusvalenze che ne emergerebbero. La legge olandese sull’imposta sulle società è infatti perfettamente modellata, anche per i rapporti puramente interni (come quello di cui alla causa principale), sulla Direttiva 434/90/CEE, che esenta da tassazione sulle plusvalenze le operazioni di fusione transfrontaliere. In base al
Decreto di attuazione delle imposte sugli atti giuridici,
non dovrebbe neppure applicarsi alcuna imposta sul trasferimento degli immobili n. 17 da A a B, e n. 19 da B
ad A (trasferimento, quest’ultimo, insito nella fusione di
B in A). La decisione di rinvio non chiarisce, ma è probabilmente così, se l’esenzione da imposta sul trasferimento derivi dal recepimento nell’ordinamento olandese della Direttiva 69/335/CEE.
4. La decisione di rinvio invece chiarisce che se la riunione dei due immobili nn. 19 e n. 17 in A fosse avvenuta semplicemente con la vendita del n. 17 da B ad A, o
con la cessione ad A da parte dei genitori delle loro azioni di B, queste due operazioni avrebbero sempre comportato il pagamento dell’imposta sul trasferimento.
5. La decisione di rinvio chiarisce ancora che lo scopo
pratico perseguito da tutte le parti era riunire nella società del figlio la proprietà complessiva degli immobili utilizzati dall’impresa di questo, proprietà che era divisa tra
il figlio (per il n. 19) e i genitori (per il n. 17).
6. Tracciato questo quadro, la decisione di rinvio rileva che il conferimento dell’immobile n. 19 da A a B
poteva apparire privo di scopo commerciale, visto che la
finalità perseguita dalle parti era opposta, e cioè concentrare in A (ossia nel figlio) la proprietà dei due immobili. Per cui l’impiego del conferimento del n. 19 da A a B,
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remunerato con azioni emesse da B e assegnate ad A.,
serviva in sostanza, combinato con l’opzione concessa
dai genitori ad A, soltanto allo scopo di predisporre la
successiva fusione di B in A; e questa a sua volta serviva a
far passare il n. 17 da B ad A senza pagare imposte sul
trasferimento. In ogni altro caso, sarebbe stato inevitabile il pagamento dell’imposta sul trasferimento, tanto
che venisse trasferito direttamente l’immobile n. 17,
quanto che venisse trasferito il pacchetto azionario detenuto in B dai genitori. La finalità essenziale della fusione era quindi, plausibilmente, il risparmio dell’imposta
sul trasferimento.
Il giudice del rinvio si è chiesto allora se a questa fattispecie possa applicarsi l’art. 11 n. 1 lett. a) della Direttiva 434/90/CEE. L’imposta sul trasferimento, osserva il
giudice del rinvio, “non fa parte delle imposte il cui prelievo non deve aver luogo in forza della Direttiva in caso di
una fusione societaria”. Tali imposte sono quelle sulle
plusvalenze, cioè sul reddito, mentre la Direttiva non si
occupa dell’imposta sul trasferimento. L’elusione di questa imposta può, allora, condurre al disconoscimento
dell’esenzione delle plusvalenze?
Sarà interessante conoscere la risposta della Corte di
giustizia, che dovrà necessariamente chiarire quale
estensione si attribuisca, dal punto di vista comunitario,
al riconoscimento del “limite dell’abuso” presente nei
diritti degli Stati membri.
Ma ciò che è già significativo e che merita di essere
qui sottolineato è che il giudice nazionale ha rilevato che
l’operazione di fusione posta in essere nella fattispecie,
benché potesse astrattamente rientrare nel presupposto
dell’esonero da tassazione delle plusvalenze emerse in sede di fusione perché oggettivamente tendeva a concentrare nella società del figlio entrambi gli spazi commer-
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
ciali utilizzati dalla sua azienda, in realtà ne esulava perché era più complessa del necessario: essa infatti “iniziava” con una cessione di azienda dalla società del figlio a
quella dei genitori, cioè con un’operazione di concentrazione esattamente inversa a quella programmata come
fine ultimo dagli interessati. Questo passaggio strutturalmente ed economicamente non necessario aveva soltanto una spiegazione fiscale, riferita all’imposta sul trasferimento. In questo quadro potrebbe allora trovare
nuovamente campo l’imposizione della plusvalenza che
l’operazione “non necessaria” aveva fatto emergere.
Il giudice olandese, insomma, non dubita della realtà
e validità negoziale degli atti posti in essere per realizzare
l’operazione. Nel preciso resoconto della causa principale
che si legge nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale, non si
rinviene alcuna considerazione circa la qualificazione privatistica di tali negozi, che appare scontata e come un argomento del tutto estraneo alla valutazione del caso che il
giudice compie. L’impostazione della questione è tutta e
soltanto basata sulla ricognizione dello scopo economico
perseguito dalle parti e del rapporto di congruità o incongruità strutturale ed economica degli atti posti in essere rispetto a tale scopo. Atti non congrui non possono
fruire dell’esonero perché questo non è concesso in considerazione degli atti visti in sé, ma di un presupposto economico “esterno” che lo giustifica (favorire le concentrazioni aziendali) e dà, solo esso, senso alla norma.
In conclusione, credo che l’impostazione qui proposta possa meglio assicurare la costituzionalità complessiva del sistema impositivo e, insieme, la certezza del diritto per gli operatori, i quali di regola non avranno difficoltà a percepire i casi in cui il rapporto di congruità tra
fini perseguiti e mezzi giuridici usati divenga critico alla
stregua di un criterio di normalità economica.
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
LEGISLAZIONE
Circolare Agenzia Ent. Dir. Centr.
Normativa e contenzioso 13-12-2007, n. 67/E
OGGETTO: Corte di Giustizia delle Comunità Europee – Sentenza del 21 febbraio 2006, causa C-255/02 –
IVA – Comportamento abusivo – Operazioni realizzate
al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale.
1. Premessa
Con sentenza del 21 febbraio 2006, emessa nella
causa C-255/02, la Corte di Giustizia delle Comunità
Europee ha preso in esame – ai fini della verifica della
compatibilità con la normativa comunitaria in materia
di imposta sul valore aggiunto – una serie complessa di
operazioni, collegate tra loro, poste in essere da diversi
soggetti al fine di fruire di determinati vantaggi fiscali altrimenti non conseguibili.
2. La controversia principale e le questioni
pregiudiziali sollevate
La domanda di pronuncia pregiudiziale, avente ad
oggetto l’interpretazione della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE1, ha tratto origine da
una controversia tra alcune società inglesi2 e i Commissioners of Customs & Excise per aver questi ultimi respinto le domande di recupero ovvero di detrazione dell’IVA presentate dalle società medesime nell’ambito di
un piano di riduzione del carico fiscale del gruppo.
In particolare, un istituto bancario inglese intendeva
effettuare lavori di costruzione di alcuni immobili su terreni di proprietà o in locazione; tuttavia, essendo la maggior parte delle proprie prestazioni “attive” (servizi bancari e finanziari) in regime di esenzione da IVA, lo stesso
istituto avrebbe potuto recuperare sui lavori direttamente ad esso fatturati soltanto una parte minima dell’imposta assolta su tali lavori (meno del 5 per cento).
1 Attualmente direttiva n. 2006/112/CE del 28 novembre 2006.
2 Halifax plc, Leeds Permanent Development Services Ltd e
County Wide Property Investments Ltd. I medesimi principi sono
stati affermati dalla Corte di Giustizia nelle sentenze emesse, nella
medesima data del 21 febbraio 2006, nella cause C-419/02 (BUPA
Hospitals Ltd e Goldsborough Developments Ltd) e C-223/03
(University of Huddersfield Higher Education Corporation).
L’istituto bancario ha elaborato un piano che consentiva, attraverso una serie di operazioni che coinvolgevano diverse società controllate (alle quali l’istituto medesimo forniva la relativa provvista), di recuperare in pratica integralmente l’IVA assolta a monte sui predetti lavori
di costruzione.
In sostanza, mediante una serie di contratti e di subappalti i predetti lavori erano stati affidati dall’istituto
bancario a società controllate operanti in regime di imponibilità e con diritto alla detrazione, e da queste – a loro volta – affidati a terzi costruttori indipendenti; tuttavia, il pagamento dei lavori risultava imputabile (ai diversi livelli) allo stesso controllante, il quale in sostanza
finanziava l’operazione complessiva attraverso la concessione di prestiti alle proprie controllate.
L’amministrazione finanziaria del Regno Unito ha
contestato ai predetti soggetti di aver posto in essere le
diverse operazioni al solo fine di recuperare l’intero importo dell’IVA sui lavori e non solamente la quota parte
che sarebbe stata recuperabile dall’istituto bancario in
base al proprio pro-rata di detraibilità; a parere del fisco
britannico l’analisi delle operazioni nel loro complesso
mostrava che – nella sostanza – era stato l’istituto bancario ad ottenere prestazioni edilizie dai costruttori indipendenti e poteva quindi recuperare l’IVA su questi lavori solo nella misura della sua ordinaria percentuale di
recupero.
Nell’ambito del contenzioso insorto, i giudici nazionali hanno sottoposto alla Corte di Giustizia le seguenti
questioni pregiudiziali:
• se un’operazione possa essere considerata una “cessione di beni” o “prestazione di servizi” ovvero
possa essere considerata un atto compiuto nell’ambito di un’“attività economica” ai sensi della sesta
direttiva qualora sia condotta al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale, senza un autonomo
obiettivo economico;
• se, in conformità al generale principio dell’ordinamento comunitario che impone di prevenire abusi
del diritto, le operazioni condotte ai soli fini dell’evasione dell’IVA non devono essere prese in considerazione, applicando, invece, alle operazioni medesime
la sesta direttiva secondo la loro vera natura.
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44
LEGISLAZIONE
3. La sentenza della Corte di Giustizia
Prima di passare ad una compiuta disamina del contenuto della sentenza in esame e dei possibili riflessi sull’operato dell’amministrazione finanziaria, si richiamano
brevemente le conclusioni assunte dai giudici comunitari.
In ordine alla prima questione, la Corte di Giustizia
– dopo aver rilevato che la sesta direttiva stabilisce un sistema comune dell’IVA basato, in particolare, su una definizione uniforme delle operazioni imponibili – ha precisato, facendo ampio richiamo a precedenti giurisprudenziali, che l’analisi delle definizioni delle nozioni di
soggetto passivo, di attività economiche nonché di “cessioni” e “prestazioni” ne mette in rilievo l’ampiezza della
sfera d’applicazione ed il carattere obiettivo; tali nozioni,
quindi, devono essere applicate “indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui trattasi”.
Ne consegue, secondo la Corte, che al fine di stabilire
se una operazione costituisca una cessione di beni ovvero se una prestazione di servizi è un’attività economica ai
sensi degli articoli 4 e seguenti della sesta direttiva, non
rileva il fatto che la stessa sia posta in essere al solo scopo
di ottenere un vantaggio fiscale, senza altro obiettivo
economico, bensì che risultino soddisfatti i criteri oggettivi sui quali le predette nozioni sono fondate.
La Corte ha poi preso posizione – negandolo sulla base
della corretta interpretazione della sesta direttiva – in ordine al diritto del soggetto passivo di detrarre l’IVA assolta
a monte nelle ipotesi in cui le operazioni che hanno fatto
sorgere il diritto integrino un comportamento abusivo.
La Corte – pur riconoscendo, in capo al soggetto passivo, il diritto di scegliere la forma di conduzione degli
affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale – ha affermato che, nel settore IVA, si integra un
comportamento abusivo, quando “le operazioni controverse ..., nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la traspone” siano idonee a “procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da
quelle stesse disposizioni”.
Al riguardo, i giudici comunitari hanno precisato, in
particolare, che permettere ad un soggetto passivo di detrarre la totalità dell’IVA assolta a monte laddove – nell’ambito delle sue normali operazioni commerciali –
nessuna operazione conforme alle disposizioni del sistema delle detrazioni della sesta direttiva o della legislazione nazionale che le traspone glielo avrebbe consentito (o
glielo avrebbe consentito solo in parte), sarebbe contrario al principio di neutralità fiscale e, pertanto, contrario
allo scopo del detto sistema.
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
Il sistema delle detrazioni previsto dalla sesta direttiva
“... intende sollevare interamente l’imprenditore dall’IVA
dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche” ed è a tal fine che il sistema comune dell’IVA garantisce “la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per
tutte le attività economiche, indipendentemente dallo
scopo o dai risultati di tale attività, purché queste siano,
in linea di principio, di per sé soggette all’IVA”.
Affinché si integri un comportamento abusivo, inoltre, “deve altresì risultare da un insieme di elementi
obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente lo
scopo di ottenere un vantaggio fiscale”.
La Corte, infine, ha preso posizione in ordine all’ipotesi in cui sia stato constatato che il contribuente ha posto in essere un comportamento abusivo, come sopra
identificato; in tal caso, “... le operazioni implicate devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione
quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato”.
4. Riflessi sull’operato dell’Amministrazione
finanziaria
I principi espressi dai giudici comunitari nella sentenza in esame appaiono di rilevante interesse per le amministrazioni fiscali dei diversi Stati membri dell’Unione Europea, impegnate nell’azione di contrasto dei comportamenti abusivi dei contribuenti in tema di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto.
La Corte di Giustizia ha evidenziato con chiarezza,
infatti, che la lotta contro ogni possibile frode, evasione
ed abuso è obiettivo non solo riconosciuto, ma anche
promosso dalla sesta direttiva e, pur in assenza nell’ambito dell’ordinamento comunitario di una disciplina positiva di tali fattispecie, deve ravvisarsi – nel sistema dell’IVA – l’esistenza di una clausola generale antiabuso posta a tutela proprio di tale obiettivo di interesse generale.
Le considerazioni svolte in narrativa della sentenza in
esame appaiono, peraltro, di particolare interesse, laddove la Corte, in sostanza, riconosce e motiva l’esistenza in
ambito IVA di una clausola generale antiabuso sulla base
delle medesime argomentazioni sottese alla norma generale antielusiva di cui all’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, applicabile nel nostro ordinamento nazionale con riferimento all’imposizione diretta.
Dall’esame della sentenza emerge che la Corte di
Giustizia distingue nell’ambito dell’ordinamento comunitario le diverse fattispecie di “evasione” e di “abuso”
(rectius di “elusione”) ed, in particolare, individua quest’ultima nelle situazioni in cui – “nonostante l’applica-
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
zione formale delle condizioni previste dalle pertinenti
disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la traspone” – il soggetto passivo possa procurarsi un vantaggio fiscale la cui concessione è contraria
all’obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni.
I giudici comunitari, in sostanza, adottando una impostazione che nell’ordinamento nazionale trova conferma nella prassi dell’Amministrazione finanziaria, oltre
che a livello giurisprudenziale e dottrinario, distinguono
tra situazioni di “evasione”, nelle quali il soggetto passivo si pone direttamente in contrasto con una norma che
gli impone un determinato comportamento quando il
presupposto impositivo si è già verificato, e situazioni di
“elusione o abuso”, nelle quali il soggetti passivo – pur
rispettando formalmente una norma – la aggira al fine di
procurarsi un vantaggio altrimenti non conseguibile e
comunque contrario alle finalità perseguite dalla norma
medesima.
Secondo la Corte, il soggetto passivo ha sempre il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che
gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale (p.
73 della sentenza); tale scelta, tuttavia, secondo una giurisprudenza costante, trova un preciso limite nel divieto
per gli interessati di avvalersi abusivamente del diritto
comunitario.
In sostanza, è escluso che l’applicazione della normativa comunitaria possa estendersi fino a ricomprendere i
comportamenti abusivi degli operatori economici, ovvero le operazioni realizzate non nell’ambito di transazioni
commerciali “normali”, bensì al solo scopo di beneficiare “abusivamente” dei vantaggi previsti dal diritto comunitario.
Dall’esame della sentenza emerge con chiarezza che
tale principio di carattere generale, seppur non espressamente richiamato nel diritto positivo, deve essere riconosciuto come immanente nel sistema della sesta direttiva;
le disposizioni della direttiva medesima devono quindi
essere interpretate nel senso che ostano alla adozione di
comportamenti abusivi, come definiti dalla Corte.
Tutto ciò premesso, occorre osservare che a norma
dell’art. 234 (già art. 177) del Trattato, alla Corte di
Giustizia è riservato in via esclusiva il potere di interpretare in via pregiudiziale le norme comunitarie; in particolare, come affermato dagli stessi giudici comunitari in
precedenti giurisprudenziali, l’interpretazione di una
norma di diritto comunitario, resa dalla Corte di Giustizia nell’ambito delle proprie attribuzioni, chiarisce e
precisa il significato e la portata della norma, quale deve
o avrebbe dovuto essere intesa ed applicata dal momento
della sua entrata in vigore. Una sentenza della Corte che
precisi il significato di una norma comunitaria, determi-
LEGISLAZIONE
nandone ampiezza e contenuto, viene quindi ad integrare e costituisce un tutt’uno con la norma interpretata ed
ha la stessa immediata efficacia – con riguardo agli ordinamenti nazionali – di quest’ultima.
L’accertata esistenza da parte dei giudici comunitari
di una clausola generale antiabuso immanente nel sistema della sesta direttiva, che consente di perseguire determinati comportamenti dei contribuenti nell’ambito
della realizzazione di un obiettivo di carattere generale
dato dalla lotta alle frodi e agli abusi, fa sì che la stessa
integri il contenuto della direttiva medesima e risulti,
quindi, anch’essa direttamente applicabile negli ordinamenti nazionali.
Al riguardo, occorre formulare alcune ulteriori considerazioni circa i riflessi del principio di diritto enunciato
nella sentenza in esame sull’attività accertativa dell’Amministrazione finanziaria.
La Corte di Giustizia afferma che l’elusione in sé
(quale scopo perseguito nel porre in essere l’operazione
economica), non incide sulla qualificazione dell’operazione ai fini IVA, né sulla qualificazione giuridica del
contratto in essere tra le parti come interposizione ma si
riflette sul trattamento fiscale dell’operazione medesima.
Alla luce di quanto sino ad ora esposto, può ritenersi
che l’immanenza nei principi dell’IVA di norme antiabuso, riconosciuta dalla Corte di Giustizia, fa sì che
possa riconoscersi da parte dell’Amministrazione finanziaria la presenza di comportamenti elusivi, senza la necessità di una norma positiva che sancisca tale potere, sia
nell’ordinamento comunitario che nazionale.
Tale affermazione trova esplicita conferma nelle puntuali statuizioni della Corte di Cassazione, la quale –
nella sentenza n. 10352 del 5 maggio 2006 – fa espresso
rinvio ai principi espressi dalla Corte di Giustizia nella
causa C-419/02, emessa sempre in data 21 febbraio
2006 e di tenore sostanzialmente analogo a quella in
commento.
In particolare, la Suprema Corte ha affermato che “...
peraltro, con riferimento all’ordinamento comunitario,
con la recentissima pronuncia del 21 febbraio 2006, nella causa C-419/02, la Corte di Giustizia delle Comunità
europee ha chiarito che la 6° direttiva CEE n.
77/388/CEE, direttamente applicabile in quello nazionale, aggiunge alla tradizionale bipartizione dei comportamenti tenuti dai contribuenti in tema di IVA, fra quello fisiologico e quello patologico (proprio delle frodi fiscali), il primo idoneo a consentire una piena detraibilità
dell’imposta assolta ed il secondo la sua assoluta indetraibilità, una sorta di tertium genus, in dipendenza del
comportamento abusivo ed elusivo del contribuente,
comportante il recupero dell’IVA detratta e l’eventuale
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LEGISLAZIONE
rimborso in favore del soggetto che abbia posto in essere
l’operazione elusiva; .... pertanto, nell’ordinamento comunitario e, quindi, anche in quello interno deve considerarsi vigente il principio di indetraibilità dell’IVA (art.
17 della citata direttiva n. 77/388/CEE) assolta in corrispondenza di comportamenti abusivi, volti cioè a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale
ed autonoma ragione economica giustificatrice delle
operazioni economiche che, perciò, risultano eseguite in
forma solo apparentemente corretta ma, in realtà, sostanzialmente elusiva; ...”.
***
Dopo aver affermato l’esistenza di una clausola generale antiabuso in ambito IVA, i giudici comunitari – con
argomentazioni che, come già evidenziato in precedenza, appaiono ricalcare la struttura logico-sistematica del
giudizio di elusività di un comportamento, come disciplinato ai fini delle imposte sui redditi dal citato art. 37bis del D.P.R. n. 600/1973 – hanno precisato (pp. 74-76
della sentenza in esame) che ad orientare l’attività dell’amministrazione fiscale e del Giudice devono essere i
seguenti elementi:
• le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalla
sesta direttiva e dalla legislazione nazionale che la
traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito
da queste stesse disposizioni.
A tal fine, a parere della Corte, l’amministrazione
ed il Giudice dovranno tenere conto della circostanza che costituisce principio fondamentale della
sesta direttiva e della normativa nazionale che la
trasfonde, quello della “neutralità fiscale”: consentire la detrazione al soggetto quando, nell’ambito
delle sue “normali” operazioni commerciali, ciò
non gli sarebbe stato consentito costituisce una
espressa violazione di tale principio e costituisce
quindi un comportamento abusivo;
• deve altresì risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale.
***
In ordine agli effetti dell’individuazione di un comportamento abusivo, la Corte di Giustizia afferma che le
operazioni relative a tale comportamento “devono essere
ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato”.
In sostanza, la Corte afferma l’esistenza nel sistema
IVA, come disciplinato dalla sesta direttiva, di una regola generale antielusiva che in presenza di determinate
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
circostanze legittima l’amministrazione fiscale nazionale
a disconoscere il vantaggio fiscale ottenuto attraverso
l’effettuazione di operazioni elusive, ovvero poste in essere al solo fine di ottenere un risparmio di imposta, attraverso la riqualificazione delle medesime operazioni in
maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita
senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato (pp. 93-98 della sentenza in esame).
Pertanto l’amministrazione fiscale ha il diritto di
chiedere, con effetto retroattivo, il rimborso delle somme detratte per ciascuna operazione rilevante, consentendo altresì al soggetto passivo di effettuare quelle detrazioni che avrebbe potuto effettuare in assenza del
comportamento abusivo.
Alla luce delle considerazioni sino ad ora esposte, si
ritiene che gli uffici possano (e debbano) tener conto, in
sede di controllo, dei principi enunciati in via generale
dalla Corte di giustizia, in tema di abuso del diritto, facendone applicazione in tutti i casi in cui possono configurarsi i presupposti prima richiamati.
A titolo meramente esemplificativo, oltre al caso di
interposizione soggettiva specificatamente esaminato
dalla Corte di Giustizia nella sentenza citata, si enunciano alcune possibili fattispecie di abuso.
a) Fatturazione anticipata
La fatturazione anticipata (rispetto agli eventi in presenza dei quali l’operazione si considera effettuata), ove
non supportata da valide ragioni economiche da parte di
contribuenti soggetti ad un regime di detraibilità limitata, potrebbe comportare un vantaggio fiscale a favore di
questi ultimi in termini di maggior detrazione con riferimento al pro rata di detraibilità del periodo; ciò ovviamente nei casi in cui lo strumento della rettifica alla detrazione non possa essere utilizzato per correggere questo effetto.
b) Variazioni in diminuzione
La variazione in diminuzione ai sensi dell’art. 26 del
D.P.R. n. 633/1972, rileva nel sistema come mera facoltà del contribuente, posto che la stessa ove anche non
realizzata, non produce di norma effetti distorsivi.
Tuttavia, con riguardo ad operazioni di cessione effettuate – ad esempio – in regime speciale, possono
emergere profili di elusività soprattutto quando l’operazione avviene tra soggetti collegati in base all’appartenenza al medesimo gruppo. Avendo presente che il
cedente emette fattura con l’aliquota propria del bene
ceduto, ma opera la detrazione in maniera forfetaria,
con ciò realizzandosi un vantaggio economico che la
legge riconosce solo al soggetto che opera nell’ambito
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
del predetto regime speciale, si osserva che in caso di
eventi che darebbero luogo ad una variazione in diminuzione, può configurarsi un abuso delle norme disciplinanti il regime speciale qualora si ometta di effettuare detta variazione, con la conseguenza che di fatto parte del vantaggio economico attribuito dal sistema all’operatore in regime speciale transita verso il cliente di
quest’ultimo.
c) Fenomeni di abuso nella prassi commerciale
Ai sensi dell’art. 13 del Regolamento CE n.
1777/2005, recante norme di applicazione della VI direttiva IVA (ora direttiva 112/2006) “allorché un fornitore dei beni o un prestatore di servizi esige che per l’accettazione del pagamento mediante carta di credito o di
debito il cliente paghi un importo a lui stesso o ad un’altra impresa e allorché il prezzo complessivo che tale
cliente deve pagare resta invariato a prescindere dalla
LEGISLAZIONE
modalità di pagamento, tale importo è parte integrante
della base imponibile per la cessione di beni o la prestazione di servizi, a norma dell’articolo 11 della direttiva
77/388/CEE.”.
La ratio della disposizione comunitaria è volta a contrastare possibili fenomeni elusivi sottesi ad alcune pratiche invalse in campo commerciale, che tendono a ridurre, ma solo fittiziamente, la base imponibile dell’IVA.
Ogniqualvolta, si accerti – sulla base di adeguati e rigorosi riscontri – una prassi commerciale ispirata alla finalità che il richiamato Regolamento comunitario intende contrastare, sarà possibile invocare, oltre che la
norma regolamentare richiamata (in quanto direttamente applicabile), anche il più generale principio dell’abuso del diritto contenuto nella sentenza in esame.
***
Le Direzioni regionali vigileranno sulla corretta applicazione delle presenti istruzioni.
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GIURISPRUDENZA
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
Rassegna di Giurisprudenza
A. Sulla (necessità di una) disciplina legislativa
dell’elusione
1. Corte di Cassazione, 03-04-2000, n. 3979
“A fronte di divergenti trattamenti fiscali, a seconda del
soggetto cui faccia capo un certo reddito, la frode alla legge
ex art. 1344 c.c., non è ravvisabile per il solo fatto che un
atto negoziale (reale e non simulato) abbia spostato la titolarità del bene al contribuente “favorito”, occorrendo una
norma che direttamente od indirettamente neghi la facoltà
di trasmigrare con l’atto stesso dall’uno all’altro regime di
tassazione; in difetto, si rimane nell’ambito della mera
lacuna della disciplina tributaria, per non aver prefigurato la possibilità dei contribuenti di optare per assetti privatistici fiscalmente proficui.”
Da questa premessa consegue – nel caso specifico –
che “Nella fattispecie … del c.d. dividend washing … non
è individuabile nella normativa tributaria un divieto del
tipo sopra specificato.
L’ammissibilità e la liceità di detta operazione, in assenza di contraria previsione di legge, trovano sicura conferma
nell’evoluzione normativa successiva ai rapporti in discussione …
Il comma 6-bis dell’art. 14 del D.P.R. 917/1986, aggiunto con effetto ex nunc dall’art. 7-bis del D.L.
372/1992 … nega il credito di imposta correlato alla distribuzione di utili azionari a chi acquisti titoli da un fondo comune di investimento …
Le scelta del legislatore di elidere o attenuare la convenienza fiscale dell’operazione riposa sull’evidente presupposto della liceità della medesima”.
2. Corte di Cassazione, 03-09-2001, n. 11351
“Il potere di disconoscere, ai fini tributari, gli effetti degli atti compiuti dal contribuente è stato riconosciuto per la
prima volta, in modo espresso,dal legislatore con l’art. 10,
legge 29/12/1990, n. 408 … detta disposizione … è priva
di carattere retroattivo, come si desume in modo in equivoco dal suo terzo comma”.
3. Corte di Cassazione, 07-03-2002, n. 3345
“Nella disciplina anteriore alla integrazione dell’art. 14
del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, operata dall’art. 7bis del D.L. 9 settembre 1992, n. 372 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 429 del 1992), che ha aggiunto
al predetto art. 14 il comma 6-bis, … non era … rinvenibile una norma tributaria che negasse la facoltà di far
trasmigrare con un atto reale la titolarità di un bene tra
soggetti sottoposti a trattamenti fiscali divergenti e di
spostare tale titolarità sul soggetto più favorito.
4. CTR Friuli Venezia Giulia, 26-06-2007, n. 45
“Con le modifiche apportate all’art. 14 del T.U.I.R.
dalla legge 429/1992, in base alle quali “le disposizioni
del presente articolo non si applicano agli utili percepiti
dall’usufruttuario allorché la costituzione o la cessione del
diritto di usufrutto sono state poste in essere da soggetti non
residenti, privi nel territorio dello Stato di una stabile organizzazione”, non si è trasformato in lecito ciò che non lo
era, ma si è reso possibile tassare quanto in precedenza
sfuggiva all’imposizione”.
B. Sul concetto di abuso del diritto elaborato dalla
giurisprudenza comunitaria
1. Corte di Giustizia CE, 21-02-2006, causa C-255/02
(Halifax)
“A un soggetto passivo che ha la scelta tra due operazioni
la sesta direttiva non impone di scegliere quella che implica
un maggior pagamento Iva. Al contrario … il soggetto passivo ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli
affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale”. [cfr. par. 73]
Nel settore Iva, “perché possa parlarsi di comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante
l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione
nazionale che le traspone, procurare un vantaggio fiscale
la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni. Non solo. Deve altresì
risultare da un insieme di elementi obiettivi che le dette
operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un
vantaggio fiscale”. [cfr. par. 86]
Occorre altresì ricordare che la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre
a una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco, bensì e semplicemente a
un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’Iva assolta a monte …
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
GIURISPRUDENZA
Ne discende che operazioni implicate in un comportamento abusivo devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato”. [cfr. parr.
93 e 94]
C. Sulla applicabilità nel diritto interno del
principio dell’abuso del diritto elaborato in sede
comunitaria (in assenza di una disposizione
normativa interna che lo preveda) e sulla sua
estensibilità a settori diversi dall’IVA
2. Corte di Giustizia CE, 12-09-2006, causa C-196/04
Sentenza in materia di “Libertà di stabilimento –
Normativa sulle società controllate estere – Inclusione
nella base imponibile della società madre degli utili delle
controllate estere.“Perché sia giustificata da motivi di lotta
a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere
la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul
territorio nazionale.” [cfr. par. 55]
“La constatazione dell’esistenza di una tale costruzione
[di puro artificio] richiede oltre ad un elemento soggettivo
consistente nella volontà di ottenere un vantaggio fiscale,
elementi oggettivi dai quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dall’ordinamento comunitario, l’obiettivo perseguito dalla libertà di stabilimento … non è stato raggiunto”. [cfr. par. 64]
“Gli artt. 43CE e 48CE devono essere interpretati nel senso che ostano all’inclusione, nella base imponibile di una società residente in uno Stato membro, degli utili realizzati da
una società estera controllata stabilita in un altro Stato allorché tali utili sono ivi soggetti ad un livello impositivo inferiore
a quello applicabile nel primo Stato, a meno che tale inclusione non riguardi costruzioni di puro artificio destinate ad eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta. L’applicazione di una misura impositiva siffatta deve perciò essere esclusa
ove da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti
che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la controllata è realmente impiantata nello Stato di stabilimento e
ivi esercita attività economiche effettive”. [Conclusioni]
1. Corte di Cassazione, 21-10-2005, n. 20398
Nella disciplina anteriore all’entrata in vigore dell’art.
37-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, introdotto
dall’art. 7 del d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, pur non esistendo nell’ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l’emergenza di un
principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla
giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono
trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo
scopo di procurarsi un risparmio fiscale.
Da questa premessa consegue – nel caso specifico –
che “In riferimento all’ipotesi in cui l’acquirente di azioni
da un fondo comune d’investimento, dopo averne percepito
i dividendi, abbia rivenduto i titoli al fondo stesso al fine di
consentire l’elusione del regime fiscale previsto dall’art. 9
della legge n. 77 del 1983 (come sostituito dal d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 83) (c.d. “dividend washing”), l’applicazione del predetto principio si traduce nella individuazione di un difetto di causa che dà luogo alla nullità dei
contratti collegati di acquisto e di rivendita delle azioni,
non conseguendo dagli stessi alcun vantaggio economico per
le parti, all’infuori del risparmio fiscale. Tale mancanza di
ragione, che investe nella sua essenza lo scambio tra le prestazioni contrattuali attuato attraverso il collegamento negoziale, comporta l’inefficacia dei contratti nei confronti
del fisco, con conseguente esclusione del credito d’imposta
previsto per l’acquirente dei titoli dall’art. 14 del D.P.R. 22
dicembre 1986, n. 917 (nel testo anteriore all’integrazione
apportatavi dall’art. 7-bis del decreto-legge 9 settembre
1992, n. 372, conv. con modificazioni nella legge 5 novembre 1992, n. 429).”
3. Corte di Giustizia UE, 21-02-2008, causa C-425/06
“La VI Direttiva [IVA] deve essere interpretata nel senso
che l’esistenza di una pratica abusiva può essere riconosciuta qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale dell’operazione o delle operazioni
controverse”. [cfr. par. 45]
Per valutare se determinate “operazioni possano essere
considerate come rientranti in una pratica abusiva, il giudice nazionale deve anzitutto verificare se il risultato perseguito sia un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe
contraria a uno o più obiettivi della VI direttiva e, successivamente, se abbia costituito lo scopo essenziale della
soluzione contrattuale prescelta”. [cfr. par. 58]
2. Corte di Cassazione, 14-11-2005, n. 22932
“Nella disciplina anteriore all’entrata in vigore dell’art.
37-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, introdotto
dall’art. 7 del d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, pur non esistendo nell’ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l’emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal
concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza
comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da
operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale.”
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GIURISPRUDENZA
3. Corte di Cassazione, 05-05-2006, n. 10353
“Costituisce principio consolidato … l’affermazione secondo cui, come confermato dalla pronuncia del 21 febbraio 2006, nella causa C-419/02 (rectius C-255/02), della
Corte di Giustizia UE, la VI Direttiva n. 77/388/CEE
aggiunge nell’ordinamento comunitario, direttamente
applicabile in quello nazionale, alla tradizionale bipartizione dei comportamenti dei contribuenti, in tema di Iva,
in fisiologici e patologici (propri delle frodi fiscali),una sorta di tertium genus, in dipendenza del comportamento
abusivo ed elusivo del contribuente, volto a conseguire il
solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale ed autonoma ragione economica giustificatrice delle operazioni
economiche che risultano eseguite in forma solo apparentemente corretta ma, in realtà, sostanzialmente elusiva; in
queste ultime ipotesi scatta l’indetraibilità dell’Iva”.
4. Corte di Cassazione, 29-09-2006, n. 21221
“Una rigorosa applicazione del principio dell’abuso del
diritto, definito dalla Corte di giustizia nella sentenza Halifax, comporta che l’operazione deve essere valutata secondo la sua essenza, sulla quale non possono influire ragioni
economiche meramente marginali o teoriche, tali, quindi,
da considerarsi manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti, rispetto alla finalità di conseguire un risparmio di imposta. Pur riguardando la pronuncia dei
Giudici di Lussemburgo un campo impositivo di competenza comunitaria (l’Iva), questa Corte ritiene che, come
ripetutamente affermato dalla giurisprudenza comunitaria, anche nella imposizione fiscale diretta, pur essendo
questa attribuita alla competenza degli Stati membri,
gli stessi devono esercitare tale competenza nel rispetto
dei principi e delle libertà fondamentali contenuti nel
trattato CE.
La nozione di abuso del diritto prescinde, pertanto, da
qualsiasi riferimento alla natura fittizia o fraudolenta di
un’operazione, nel senso di una prefigurazione di comportamenti diretti a trarre in errore o a rendere difficile all’ufficio di cogliere la vera natura dell’operazione.. come ha ribadito la sentenza Halifax al punto 2) del dispositivo, il proprium del comportamento abusivo consiste proprio nel
fatto che, a differenza delle ipotesi di frode, il soggetto ha
posto in essere operazioni reali, assolutamente conformi
ai modelli legali, senza immutazioni del vero o rappresentazioni incomplete della realtà”.
5. CTP Padova, 07-03-2007, n. 23
“Non costituisce operazione elusiva quella posta in essere
dopo aver scelto, tra più alternative, il percorso che corrisponde ad una fattispecie prevista dalla vigente legislazione;
segnatamente, la cessione di quote societarie con l’applica-
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
zione dell’imposta sostitutiva del 12,50% non elude l’operazione di cessione di azienda, giacché difetta l’aggiramento
di obblighi e divieti …” [In termini anche CTP Padova
31/01/2007, n. 241]
6. CTR Friuli Venezia Giulia, 26-06-2007, n. 45
In merito all’emergenza del principio dell’abuso del
diritto, affermata dalla giurisprudenza interna, la Commissione regionale osserva“che questo principio è tutto
proprio e deve essere interpretato all’interno delle competenze e prerogative normative della comunità economica
europea e dei suoi organi, anche giurisdizionali: tranne
ipotesi specifiche, e fermi i principi della libera concorrenza
economica tra Paesi, il disinteresse comunitario verso
l’imposizione diretta è la regola: le materia in cui si leggono espressi i principi in questione (fondamentalmente quella dell’Iva) sono e rimangono differenti da quelle delle imposte dirette, e quindi accorta deve essere l’estensione applicativa dei principi che si rinvengono nella giurisprudenza
comunitaria …
Se ne ricava, a giudizio di questo Collegio, che la partita della liceità o meno della causa e dell’operazione debba
essere giocata sul terreno del diritto nazionale, senza incedere in richiami – all’apparenza fuorvianti – al diritto comunitario”.
7. CTR Lombardia, Sez. III, 04-02-2008, n. 85
“L’elencazione delle possibili fattispecie elusive indicate
nell’art. 37-bis del D.P.R. 600/1973 non può ritenersi né
tassativa né esaustiva. Si è, infatti, venuto a configurare
un concetto generale di elusione fiscale, desumibile da tale disposizione e che si delinea come una forma di abuso
da parte del contribuente del proprio diritto di scelta dei
vari strumenti giuridici stabiliti dalla norma tributaria,
fino al punto di porre in essere atti e/o fatti che, pur essendo
rigorosamente rispettosi di previsioni legislative, si traducono, in concreto, in strategie idonee a determinare un vantaggio, formalmente lecito, ma che, nella sostanza, si scontra con i principi di sistema e con le modalità generali dell’ordinamento tributario. In altre parole nell’elusione fiscale il contribuente non si limita a scegliere una soluzione tra
le tante previste dall’ordinamento tributario, ma sfrutta il
sistema tributario per crearsi una particolare situazione di
vantaggio che l’ordinamento stesso normalmente non ammette ed implicitamente vieta”.
8. Corte di Cassazione, 04-04-2008, n. 8772
“Non hanno efficacia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria gli atti posti in essere dal contribuente, che
costituiscano “abuso di diritto”, cioè che si traducano in
operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di
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un vantaggio fiscale. Tale inefficacia non opera, laddove il
contribuente fornisca la prova dell’esistenza di ragioni economiche, alternative o concorrenti, di carattere non meramente marginale o teorico”.
9. Corte di Cassazione, 21-04-2008, n. 10257
“Non hanno efficacia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria quegli atti posti in essere dal contribuente, che costituiscano “abuso di diritto”, cioè che si traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale; ed incombe sul contribuente
fornire la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico”.
10. Corte di Cassazione, 15-09-2008, n. 23633
“L’esame delle operazioni poste in essere dall’imprenditore, ai fini del riconoscimento del diritto alla deduzione
per gli oneri economici “deve essere compiuto anche alla
stregua del principio, desumibile dal concetto di abuso
del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria
(da ultimo, in materia fiscale, sent. della Corte di Giustizia 21 febbraio 2006 in causa C-255/02), secondo cui
non possono trarsi benefici da operazioni che, seppur realmente volute ed immuni da invalidità, risultino, da un
insieme di elementi obiettivi, compiute essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Tale principio
trova applicazione anche … in riferimento al periodo
anteriore all’entrata in vigore del D.P.R. 29 settembre
1973, n. 600, art. 37 bis, introdotto dal D.Lgs. 8 ottobre
1997, n. 358, art. 7, rappresentando, pur in mancanza
di una clausola generale antielusiva, all’epoca non configurabile nell’ordinamento fiscale italiano, un canone interpretativo del sistema, che comporta il disconoscimento
del diritto alla deduzione per oneri derivanti da meccanismi elusivi”.
11. Corte di Cassazione, 17-10-2008, n. 25374
“L’abuso del diritto, quale clausola generale antielusiva nell’ordinamento tributario di matrice comunitaria, si ravvisa ogni qual volta dall’impiego di una forma
giuridica o di un regolamento contrattuale il risparmio
fiscale sia lo scopo principale della forma della transazione svolta, anche laddove siano coinvolte altre finalità
di contenuto economico.
Il rango comunitario della regola comporta l’estensione
del campo applicativo a tutte le fattispecie di entrate tributarie, nonché l’obbligo per il giudice nazionale di applicazione d’ufficio, anche al di fuori di specifica deduzione ed
allegazione di parte ed anche per la prima volta nel giudizio di cassazione.
GIURISPRUDENZA
In tema di abuso di diritto, se, da un canto, l’onere di
dimostrare che l’uso della forma giuridica corrisponde ad
un reale scopo economico, diverso da quello di un risparmio fiscale, incombe al contribuente, dall’altro, l’individuazione dell’impiego abusivo di una forma giuridica
incombe all’amministrazione finanziaria, la quale non
potrà limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma
dovrà individuare e precisare gli aspetti e le particolarità
che fanno ritenere l’operazione priva di reale contenuto
economico diverso dal risparmio d’imposta.
A questi effetti è considerata pratica abusiva – come tale
non opponibile all’amministrazione finanziaria – la conclusione di contratti di locazione finanziaria (leasing), di
finanziamento, di assicurazione e di intermediazione, con
il coinvolgimento di due soggetti appartenenti ad uno stesso
gruppo societario, laddove l’operazione si riveli priva di
adeguata redditività e abbia come risultato la soggezione ad
IVA del solo corrispettivo della concessione in uso del bene.
D. Sulla applicabilità nel diritto interno del
principio dell’abuso del diritto alla luce dei
principi costituzionali
1-2. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 23-12-2008,
nn. 30055-30056
La cognizione del giudice tributario è rivolta essenzialmente all’accertamento della sussistenza della pretesa fiscale
fatta valere – e contestata dal contribuente – secondo gli elementi di fatto e le considerazioni di diritto formulate nell’atto impositivo impugnato, conformemente alla posizione di
“attore sostanziale” del processo tributario dell’Amministrazione finanziaria, sulla quale incombono gli ordinari oneri
probatori ex art. 2697 c.c.. L’indagine del giudice tributario
può rivolgersi a differenti temi (nella specie, esistenza, validità ed opponibilità dell’attività negoziale del privato nei confronti dell’Erario) rispetto all’iniziale assunto formulato dall’Amministrazione finanziaria (nella specie, disconoscimento
di un componente negativo di reddito) all’esito delle deduzioni ed allegazioni della difesa del contribuente.
I principi costituzionali della capacità contributiva e
della progressività dell’imposizione che informano l’ordinamento tributario ostano al conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti attraverso strumenti giuridici
l’adozione ovvero l’utilizzo dei quali sia unicamente rivolto, in assenza di ragioni economicamente apprezzabili, al risparmio d’imposta – anche laddove non ricorra
alcuna violazione o contrasto puntuale ad alcuna specifica disposizione, e l’inopponibilità del negozio abusivo
all’erario può essere rilevata d’ufficio anche in sede di
giudizio di legittimità.
51
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GIURISPRUDENZA
3. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 23-12-2008, n.
30057
È inopponibile all’erario – in virtù di un generale
principio di divieto di abuso del diritto in materia tributaria, desumibile dall’art. 53 Cost., – il negozio con il
quale viene costituito, in favore di una società residente
nel territorio dello Stato, un diritto di usufrutto sulle
azioni o sulle quote di una società italiana, possedute da
un soggetto non residente, in modo da consentire al cedente
di trasformare il reddito di partecipazione in reddito di negoziazione (esente dalla ritenuta sui dividendi di cui al
D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27, comma 3) ed alla cessionaria di percepire i dividendi, sui quali, oltre a subire l’applicazione della ritenuta meno onerosa di cui al D.P.R. n. 600
del 1973, art. 27, comma 1, (oltretutto recuperabile in sede
di dichiarazione annuale) essa può avvalersi del credito di
imposta previsto dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 14, ed
inoltre di dedurre dal reddito di impresa, pro quota annuale, il costo dell’usufrutto, allorché risulti che il negozio stesso non ha altre ragioni economicamente apprezzabili al
di fuori di quella di conseguire un vantaggio tributario.
E. Sul potere dell’Amministrazione di riqualificare i
contratti
1. Corte di Cassazione, 03-09-2001, n. 11351
“Prima dell’entrata in vigore dell’art. 37-bis del D.P.R.
29 settembre 1973, n. 600, introdotto dall’art. 7 del D.LGS.
8 ottobre 1997, n. 358, – che con disposizione, non avente efficacia retroattiva, ha attribuito all’Amministrazione Finanziaria ampio potere di disconoscere, a fini antielusivi, gli effetti degli atti compiuti dal contribuente al fine di beneficiare
di un trattamento fiscale più vantaggioso – detta amministrazione non aveva il potere di riqualificare i contratti
posti in essere dalle parti, prescindendo dalla volontà concretamente manifestata dalle stesse, per assoggettarli ad un trattamento fiscale meno favorevole di quello altrimenti applicabile, neppure in virtù degli artt. 1344 e 1418 cod. civ., che
sanciscono la nullità dei contratti che costituiscono “il mezzo
per eludere l’applicazione di una norma imperativa”.
2. Corte di Cassazione, 26-10-2005, n. 20816
“L’Amministrazione finanziaria, quale terzo interessato alla regolare applicazione delle imposte, è legittimata
a dedurre (prima in sede di accertamento fiscale e poi in
sede contenziosa) la simulazione assoluta o relativa dei
contratti stipulati dal contribuente, o la loro nullità per
frode alla legge, ivi compresa la legge tributaria (art. 1344
cod. civ.); la relativa prova può essere fornita con qualsiasi
mezzo, anche attraverso presunzioni.”
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3. Corte di Cassazione, 06-08-2008, n. 21170
“Non è precluso all’Amministrazione finanziaria, che
si faccia carico di giustificare coerentemente il proprio assunto
sulla scorta delle risultanze acquisite, procedere alla riqualificazione (prima in sede di accertamento fiscale e poi in sede
contenziosa) dei contrati sottoscritti dal contribuente, per
farne valere la simulazione ed assoggettarli ad un trattamento fiscale meno favorevole di quello altrimenti applicabile”.
F. Sul potere del Giudice di qualificare
autonomamente la fattispecie
1. Corte di Cassazione, 21-10-2005, n. 20398
“Il principio secondo cui le ragioni poste a base dell’atto
impositivo segnano i confini del processo tributario, che è
un giudizio d’impugnazione dell’atto, sì che l’ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse e modificare nel corso del giudizio la motivazione dell’atto, non esclude il potere del giudice di qualificare autonomamente la fattispecie posta a fondamento della
pretesa fiscale, né l’esercizio di poteri cognitori d’ufficio,
non potendo ritenersi che i poteri del giudice tributario siano più limitati di quelli esercitabili in qualunque processo
d’impugnazione di atti autoritativi, quale quello amministrativo di legittimità …
Il carattere impugnatorio del processo, comportando
l’identificazione del “petitum” e della “causa petendi” con la
domanda ed i motivi del ricorso, non esclude il potere del giudice di rilevare d’ufficio eventuali cause di nullità di contratti, la cui validità ed opponibilità all’Amministrazione abbia
costituito oggetto dell’attività assertoria del ricorrente.”
2. Corte di Cassazione, 14-11-2005, n. 22932
“Il principio secondo cui le ragioni poste a base dell’atto
impositivo segnano i confini del processo tributario, che è
un giudizio d’impugnazione dell’atto, sì che l’ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse e modificare nel corso del giudizio la motivazione dell’atto, non esclude il potere del giudice di qualificare autonomamente la fattispecie posta a fondamento della pretesa
fiscale, né l’esercizio di poteri cognitori d’ufficio, non potendo ritenersi che i poteri del giudice tributario siano più limitati di quelli esercitabili in qualunque processo d’impugnazione di atti autoritativi, quale quello amministrativo
di legittimità.”
3. Corte di Cassazione, 29-09-2006, n. 21221
“La regola enunciata dalla giurisprudenza di questa
Suprema Corte, secondo cui le ragioni poste a base dell’atto
impositivo, oltre ad identificare il fatto costitutive dell’ob-
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bligazione, segnano i confini del giudizio tributario, che è
un giudizio di impugnazione dell’atto, sì che l’ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse, non deve essere intesa in senso talmente rigido da
escludere l’autonomo potere qualificatorio del giudice o
l’esercizio, da parte dello stesso, dei poteri cognitori ex officio nei casi previsti dalla legge”.
4. Corte di Cassazione, 21-04-2008, n. 10257
“Infine, sul piano processuale: poiché il principio della
irrilevanza fiscale degli atti in abuso di diritti deriva dalla
normativa comunitaria, è consentito introdurre nel giudizio di cassazione la problematica dell’abuso del diritto, purché sia ancora aperto … un contenzioso su comportamenti fraudolenti e/o elusivi”. [In termini Cassazione
04/04/2008, n. 8772]
5. Corte di Cassazione, 15-09-2008, n. 23633
“Tale principio [dell’abuso del diritto], che non esclude
l’operatività del principio di legalità ne’ la liceità di comportamenti volti a minimizzare il carico fiscale, trova applicazione anche nel giudizio di cassazione, quale norma di
diritto comunitario che impone la disapplicazione delle
norme interne con esso eventualmente contrastanti”.
G. Sulla pregiudiziale comunitaria
1. Corte di Cassazione, Ordinanza 04-10-2006, n.
21371
“In tema di IVA, il frazionamento di un unitario contratto di “leasing” in una pluralità di contratti distinti,
conclusi con soggetti diversi ed aventi ad oggetto rispettivamente la concessione in uso del bene ed i servizi di finanziamento e di assicurazione contro la perdita o il deterioramento del bene stesso, comporta che l’imponibile è costituito soltanto dal corrispettivo dell’uso del bene, essendo gli altri servizi, separatamente considerati, operazioni esenti da
imposta, ai sensi dell’art. 10 nn. 1, 2 e 9 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Il ricorso a tale complesso di negozi per
ottenere una riduzione della base imponibile rispetto a
quella prevista per gli ordinari contratti di locazione finanziaria si traduce peraltro in una pratica elusiva, in ordine alla quale (pur non essendo nella specie applicabile,
“ratione temporis”, una clausola generale antielusiva, all’epoca non prevista dall’ordinamento fiscale italiano) trova applicazione il concetto di abuso del diritto, elaborato
dalla giurisprudenza comunitaria, il quale impone di considerare l’operazione come un tutto unitario, disapplicando le norme interne che consentono, attraverso l’abusivo
frazionamento delle forme contrattuali, di determinare
GIURISPRUDENZA
una perdita delle risorse comunitarie proprie derivanti
dall’IVA. A tal fine, va tuttavia rimessa alla Corte di
giustizia delle Comunità europee, affinché si pronunci
in via pregiudiziale, la questione interpretativa volta a
stabilire se, per la configurabilità di tale abuso, sia necessario che il conseguimento del vantaggio fiscale costituisca l’unico scopo dell’operazione, ovvero se esso non
escluda il perseguimento di altre finalità economiche,
comunque inidonee a fornire una spiegazione alternativa dell’operazione, e se un indizio di tale abuso possa
essere costituito dal fatto che l’operazione di finanziamento, considerata nella prassi economica e nell’interpretazione dei giudici nazionali quale componente essenziale del contratto di “leasing”, venga disciplinata
da un contratto separato da quello avente ad oggetto la
concessione in uso del bene.”
2. Corte di Cassazione, Ordinanza 21-12-2007, n.
26996
“Posto che le controversie in materia di IVA sono connaturalmente annoverabili tra quelle che richiedono il rispetto
da parte dello Stato membro di norme comunitarie imperative, in considerazione del ruolo centrale che tale imposta
assume ai fini della costituzione delle risorse proprie della
Comunità, nonché della molteplicità di obblighi che il diritto comunitario imperativamente impone in materia agli
Stati membri, l’applicazione del diritto nazionale in tema
di giudicato esterno, e la connessa proiezione anche oltre il
periodo di imposta che ne costituisce specifico oggetto, potrebbero impedire la compiuta realizzazione del principio
di contrasto dell’abuso del diritto, affermato dalla giurisprudenza comunitaria in tale materia, come strumento teso a garantire la piena applicazione del sistema comunitario d’imposta. Va, pertanto, rimessa alla Corte di giustizia delle Comunità europee, affinché si pronunci in via
pregiudiziale, la questione interpretativa volta a stabilire se il diritto comunitario osti all’applicazione dell’art.
2909 cod. civ., che sancisce il principio dell’autorità di
cosa giudicata, quando da tale applicazione derivino effetti contrari al diritto comunitario, ed in particolare in
materia di IVA e di abuso del diritto posto in essere per
ottenere indebiti risparmi d’imposta, avuto riguardo all’orientamento giurisprudenziale secondo cui nelle controversie tributarie il giudicato esterno, qualora l’accertamento consacrato concerna un punto fondamentale
comune ad altre cause, esplica, rispetto a questo, efficacia vincolante anche se formatosi in relazione ad un diverso periodo di imposta.”
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CONVEGNI ED ATTIVITÀ ANTI
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
A.N.T.I.
Tra i convegni tenuti in questo ultimo scorcio del
2008 - come tradizione tutti pubblicati sul nostro sito
web www.associazionetributaristi.it nella sezione “Tenuti nell’anno” del menu “Incontri e Convegni” - segnaliamo, oltre a quelli ricordati nell’ultimo notiziario:
– il seminario organizzato dalla Sezione VenetoTrentino Alto Adige a Padova il 7 novembre u.s. sul tema: “Profili tributari dei conferimenti in natura e degli apporti in società”. Relatore: Prof. Giuseppe Corasaniti;
– il convegno organizzato a Pescara dalla Sezione
Marche-Abruzzo sempre lo scorso 7 novembre sul tema:
“La riscossione tributaria - Profili di criticità e prospettive di
tutela”. Introduzione e moderazione: Prof. Avv. Lorenzo
Del Federico. Relatori: Prof. Massimo Basilavecchia, Profili evolutivi della riscossione tributaria; Dott. Fabio Zolea,
I nuovi poteri dell’Agente della riscossione; Dott. Christian
Califano, Cartelle di pagamento e avvisi di intimazione:
notificazione, contenuto e vizi; Prof. Sebastiano Maurizio
Messina, Gli strumenti cautelari: fermo amministrativo e
ipoteca; Dott. Francesco Montanari, Strumenti dell’esecuzione forzata tributaria: profili di rischiosità e mezzi di tutela; Dott. Luigi Cinquemani, La riscossione tributaria tra
procedimento amministrativo e processo esecutivo; Dott.ssa
Alessandra Magliaro, La tutela giurisdizionale nella fase
dell’esecuzione forzata tributaria;
– il convegno organizzato dalla Sezione Calabria a
Catanzaro il 24 novembre u.s. sul tema: “Federalismo Fiscale e Mezzogiorno”. Coordinatore: Prof. Avv. Victor
Uckmar. Relatori: Prof. Avv. Salvatore Sammartino, Finanza statale; Prof. Avv. Gianni Marongiu, Finanza regionale; Prof. Avv. Salvatore Muleo, Finanza Locale: Province e Comuni. Tavola Rotonda Moderatore: Dott.
Giuseppe Soluri. Interventi: Dott.ssa Wanda Ferro,
Dott. Emilio Le Donne, On.le Ignazio Loiero, Avv. Salvatore Perugini, Dott. Claudio Siciliotti e Sen. Vincenzo
Speziali. Conclusioni: Prof. Franco Gallo.
Per quanto concerne i convegni in programmazione
(anch’essi pubblicati sul sito nella sezione “In Programmazione” del menu “Incontri e Convegni”), si segnala
quanto segue:
a) Sezione Sicilia Orientale
Ha partecipato all’organizzazione del seminario che si
terrà a Catania nel periodo 23-30 gennaio 2009/6-20-27
febbraio 2009 sul tema: “Diritto Penale Tributario. Programma: 23.01.2009 Prof. Avv. Vito Branca, Evoluzione
normativa, scelte legislative e portata repressiva dell’attuale
sistema penale tributario; 30.01.2009 Avv. Carmelo Peluso, I reati relativi alle dichiarazioni ed alle fatture per operazioni inesistenti; 06.02.2009 Dott. Roberto Passalacqua, Sequestro per equivalente e confisca nei reati tributari;
20.02.2009 Prof. Avv. Ivo Caraccioli, Omesso versamento
di ritenute certificate o di IVA . Indebita compensazione e
sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte;
27.02.2009 T. Col. Dott. Giuseppe Arbore, I reati tributari come delitto presupposto del reato di riciclaggio.
b) Sezione Piemonte-Valle D’Aosta
Ha organizzato a Torino per il 29 gennaio 2009 una
serata sul tema “I trasferimenti generazionali dell’impresa:
strumenti vecchi e nuovi” Relatore: Avv. Notaio Ciro De
Vincenzo.
c) Sezione Veneto-Trentino Alto Adige
Ha organizzato - in collaborazione con la Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università degli studi di Padova per il 13 febbraio 2009 a Padova una giornata di studi in
onore di Gaspare Falsitta sul tema”Per un ordinamento
tributario non confiscatorio e non rinunciatario - Alla ricerca di criteri costituzionali di giustizia tributaria”: I sessione: Il prelievo confiscatorio. Moderatore: Augusto
Fantozzi. Relatori: - G. Marongiu, La giustizia tributaria
nel pensiero di G. Falsitta; R. Schiavolin, La tassazione
della capacità economica disponibile e l’indeducibilità di
ici ed irap dal reddito; G. Zizzo, Abuso di regole volte al
“gonfiamento”della base imponibile nella recente normativa fiscale ed effetti confiscatori del prelievo ad esso collegato;
L. Tosi, La normalizzazione degli imponibili: l’effettività
degli indici di riparto e gli studi di settore. Moderatore:
Gilberto Muraro. Relatori: F. Volpe, Possibili influenze e
interferenze sul diritto tributario delle recenti sentenze del-
ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009
la Corte di Strasburgo e della Corte Costituzionale in tema
di tutela del diritto di proprietà e di equo indennizzo; N.
Bozza, L’imposta confiscatoria nella giurisprudenza e nella
dottrina tedesca dopo la sentenza 10 gennaio 2006 della
Corte Costituzionale germanica; F. Escribano Lopez, Il
divieto di “alcance confiscatorio” del sistema tributario nella costituzione spagnola; F. Moschetti: “Interesse fiscale” e
“ragioni del fisco” nel prisma della capacità contributiva. II
sessione: Il fisco rinunciatario Moderatore: Mario Bertolissi. Relatori: A. Di Pietro, I vuoti d’imposta (aiuti di
stato, agevolazioni e condoni): l’altra faccia del vulnus al
principio di eguaglianza tributaria; M. Beghin, Giustizia
tributaria e indisponibilità dell’imposta nei più recenti
orientamenti dottrinali e giurisprudenziali. La transazione
concordataria e l’accertamento con adesione; G. Falsitta,
Relazione di sintesi e conclusioni
Con l’occasione Vi segnalo la tavola rotonda che si
terrà il 30 gennaio 2009 presso l’Università degli Studi
di Brescia sul tema “Il federalismo fiscale tra autonomia e
solidarietà” patrocinata dalla Fondazione Antonio Uckmar alla quale interverranno, oltre al nostro consocio
Prof. Victor Uckmar in qualità di moderatore, tra gli altri, il Prof. Franco Gallo, il Prof. Mario Bertolissi, il Prof.
Luca Antonini, il Prof. Antonio D’Andrea, il Prof. Silvio
Gambino, il Prof. Gianni Marongiu, il Prof. Antonio
Uricchio, il Prof. Paolo Panteghini, il Dott. Giuseppe
CONVEGNI ED ATTIVITÀ ANTI
Corasaniti, il Prof. Andrea Giovanardi, il Prof. Mario
Gorlani, il Prof. Ennio Agostino Scala, l’On. Daniele
Folgora e il Sen. Guido Galperti.
Vi rammento altresì che, come ogni anno, a partire da
febbraio 2009 si terrà il corso di aggiornamento e perfezionamento su “La fiscalità finanziaria internazionale” organizzato dalla Facoltà di Economia dell’Università degli Studi dell’Insubria e il Centro Studi Bancari di Vezia, al quale
l’ANTI ha sempre offerto il suo sostegno. A questi effetti
Vi indico i link di presentazione del primo e secondo modulo contenenti tutte le informazioni relative al corso:
http://www.csbancari.ch/Moduli/Q6UJ9A00D7LP.asp
http://www.csbancari.ch/Moduli/Q6UJ9A00D7M0.asp
Da ultimo Vi comunico che il Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico “Uniforma” - costituito dalle Università di Bari, Catania, Genova, Milano, Palermo, Roma “La Sapienza” e
“Roma Tre”, Salento e Torino ha organizzato a Padova dal
19 marzo 2009 un corso di aggiornamento professionale
sul tema “Il diritto dei trust”, che riconosce 24 crediti per
la formazione professionale degli avvocati, 15 crediti per
la formazione continua dei notai ed un numero non ancora definito di crediti per i dottori commercialisti ed
esperti contabili. Per ogni ulteriore informazione Vi invito a visitare il sito www.SfidaGlobalizzazione.unige.it .
55
L’A.N.T.I. Associazione Nazionale Tributaristi Italiani è stata costituita
il 13 giugno 1949 e, nei suoi quasi sessant’anni di storia, ha avuto illustri
Presidenti quali: Ernesto D’Albergo, Epicarmo Corbino, Ignazio Manzoni,
Giovanni Adonnino, Victor Uckmar. Attualmente è presieduta dal Prof.
Mario Boidi. L’Associazione, che ha sezioni in tutta Italia, si propone,
attraverso incontri di studio, convegni e pubblicazioni, di approfondire
le tematiche fiscali, sotto il profilo scientifico, ma attenta anche alle
applicazioni professionali. Essa tiene, altresì, contatti con Governo
e Parlamento collaborando quando richiesto allo studio e alla formazione
delle leggi. L’A.N.T.I. è socia della Confédération Fiscale Européenne,
l’unico raggruppamento Europeo di consulenti tributari che opera a livello
Comunitario e nell’anno 2004 è stato presieduto dal Prof. Mario Boidi.
SEDE
Via Alessandro Farnese, 7 • 00192 Roma • Tel. e Fax 06.3201559
PRESIDENZA
Via Andrea Doria, 15 • 10123 Torino • Tel. 011.8126767 • Fax 011.8122300
E-mail: [email protected]
SEGRETERIA GENERALE
Via Alessandro Farnese, 7 • 00192 Roma • Tel. e Fax 06.3201559
E-mail: [email protected]
TESORERIA NAZIONALE
Via Cosimo del Fante, 16 • 20122 Milano • Tel. 02.58310288 • Fax 02.58310285
E-mail: [email protected] • Sito Internet: www.associazionetributaristi.it
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