PERIODICO UFFICIALE DELL’A.N.T.I. – ASSOCIAZIONE NAZIONALE TRIBUTARISTI ITALIANI Direttore Responsabile Dott. MARIO NOLA Comitato di Redazione Avv. CLAUDIO BERLIRI ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO Prof. Avv. IVO CARACCIOLI Prof. Avv. VALERIO FICARI Dott. ROBERTO LUNELLI Prof. Avv. GIANNI MARONGIU Prof. Avv. FRANCO PAPARELLA Prof. Avv. GAETANO RAGUCCI Prof. Avv. FRANCESCO TESAURO Prof. Avv. MARCO VERSIGLIONI Segreteria e Redazione Via Cosimo del Fante, 16 - 20122 Milano Tel. 02.58310288 - Fax 02.58310285 e-mail: [email protected] sito internet: www.associazionetributaristi.it Anno II • n. 1/2009 Periodico Quadrimestrale Registrato presso il Tribunale di Milano il 24/4/2008 con il n. 266 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1, Comma 2 - DCB Roma Service Provider: Register.it - Viale Giovine Italia, 17 - Firenze sito internet: www.associazionetributaristi.it Autorizz. Ministero delle Telecomunicazioni n. 243 del 28/01/1997 Impaginazione e Stampa Istituto Arti Grafiche Mengarelli Via Cicerone, 28 - 00193 Roma DOTTRINA • LEGISLAZIONE • GIURISPRUDENZA • CONVEGNI ED ATTIVITÀ ANTI ANTI - CONSIGLIO NAZIONALE PRESIDENTE Prof. Dott. Mario BOIDI, Torino VICE PRESIDENTI Prof. Dott. Avv. Vito BRANCA, Catania Prof. Avv. Leonardo PERRONE, Roma Notaio Dott. Avv. Ciro DE VINCENZO, Milano SEGRETARIO GENERALE Avv. Claudio BERLIRI, Roma TESORIERE Gr. Uff. Rag. Giuseppe Antonio Ciro BARRANCO DI VALDIVIESO, Milano CONSIGLIERI NAZIONALI (PRESIDENTI DI SEZIONE) Dott. Alessandro ALESSI Prof. Avv. Vito BRANCA Dott. Cosimo CAFAGNA Dott. Giorgio COMINI Dott. Carlo DEIDDA GAGLIARDO Avv. Salvatore IANNELLO Dott. Roberto LUNELLI Prof. Avv. Gianni MARONGIU Prof. Avv. Francesco MOSCHETTI Prof. Dott. Umberto PLATÌ Prof. Avv. Gaetano RAGUCCI Dott. Ernesto RAMOJNO Prof.ssa Paola Valeria RENZI Prof. Dott. Francesco ROSSI RAGAZZI Prof. Avv. Pasquale RUSSO Avv. Giuseppe SERA Prof. Avv. Marco VERSIGLIONI Presidente Sezione Lombardia Presidente Sezione Sicilia Orientale Presidente Sezione Puglia Presidente Sezione Emilia Romagna Presidente Sezione Sardegna Presidente Sezione Sicilia Occidentale Presidente Sezione Friuli Venezia Giulia Presidente Sezione Liguria Presidente Sezione Veneto-Trentino Alto Adige Presidente Sezione Calabria Presidente Sezione Provinciale di Como Presidente Sezione Piemonte-Valle d’Aosta Presidente Sezione Marche-Abruzzo Presidente Sezione Lazio Presidente Sezione Toscana Presidente Sezione Campania Presidente Sezione Umbria FONDATA NEL 1949 Sede Legale e Segreteria Generale: Via Alessandro Farnese, 7 • 00192 Roma • Tel. e Fax 06.3201559 Sito Internet: www.associazionetributaristi.it • E-mail: [email protected] Sommario ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO “Perché questa scelta e perché questo tema” di Claudio Berliri 4 DOTTRINA • Considerazioni generali in tema di elusione fiscale e abuso del diritto di Franco Paparella • Senza affidabilità nella applicazione delle regole, non esiste un “diritto tributario” di Roberto Lunelli 13 • Elusione Tributaria: l’abuso del diritto tra norma comunitaria e norma interna di Ivan Vacca 19 • Profili Penal-Tributari dell’“Abuso di diritto” di Ivo Caraccioli 29 • Elusioni o forzature nell’applicazione dell’imposta di registro di Gianni Marongiu 31 • Spunti di metodo in tema di “abuso del diritto” di Paolo Gentili 36 7 LEGISLAZIONE (CIRCOLARI E ISTRUZIONI MINISTERIALI) • Circolare Agenzia Ent. Dir. Centr. Normativa e contenzioso 13-12-2007, n. 67/E 43 GIURISPRUDENZA • Rassegna di Giurisprudenza 48 CONVEGNI ED ATTIVITÀ ANTI 54 PERCHÉ QUESTA SCELTA E PERCHÉ QUESTO TEMA D opo il numero 0 dello scorso anno, con questo numero inizia la sua pubblicazione periodica. Anche in relazione ai consensi dei lettori, abbiamo confermato la scelta monote- matica e questo numero della rivista è interamente dedicato al tema della “elusione fiscale e abuso del diritto”. Argomento di grande attualità che ha formato oggetto del Convegno organizzato dall’ANTI presso il CNEL il 20 ottobre u.s. La parte dottrinaria di questo numero, è infatti costituita dalla sintesi di alcune relazioni tenute in detto convegno. Nel settore “Legislazione” riportiamo integralmente la recente circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 67/E del 13 dicembre 2007. Nella parte riservata alla Giurisprudenza riportiamo le massime delle principali sentenze di merito e di legittimità intervenute in materia, suddivise per argomenti. Di particolare interesse appaiono le recentissime sentenze delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione n. 30055 e 30057/08, depositate il 23 dicembre 2008, e quindi successive al nostro convegno di ottobre. Con la sentenza n. 30055/08, relativa a fattispecie di Dividend Washing anteriori alla normativa prevista dall’art. 7 bis del D.L. n. 372 del 1992, convertito in L. n. 429/92, la Suprema Corte ha fra l’altro affermato quanto segue: “Nel merito, ritengono le Sezioni Unite di questa Corte di dover aderire all’indirizzo di recente affermatosi nella giurisprudenza della Sezione tributaria (si veda, da ultimo, Cass. 10257/08, 25374/08), fondato sul riconoscimento dell’esistenza di un generale principio antielusivo; con la precisazione che la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano”. “Ed in effetti, i principi di capacità contributiva (art. 53, primo comma., Cost.) e di progressività dell’imposizione (art. 53, secondo comma, Cost.) costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi. Con la conseguenza che non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”. Ed ha altresì rilevato: “Nessun dubbio può d’altro canto sussistere riguardo alla concreta rilevabilità d’ufficio, in questa sede di legittimità, della inopponibilità del negozio abusivo all’erario”. “In aggiunta alle considerazioni svolte sub 2.1., giova ricordare che, per costante giurisprudenza di questa Corte, sono rilevabili d’ufficio le eccezioni poste a vantaggio dell’amministrazione in una materia, come è quella tributaria, da essa non disponibile (da ultimo, Cass. 1605/08). Il carattere elusivo dell’operazione può d’altro canto agevolmente desumersi, senza necessità di alcuna ulteriore indagine di fatto, sulla base della compiuta descrizione che se ne rinviene in atti (in specie nella stessa sentenza impugnata) e, soprattutto, della esplicita valutazione proveniente dallo stesso legislatore, per quanto si è osservato sub 2.3. e 2.4.”. “La sentenza impugnata – fondata sull’implicito presupposto della inesistenza nell’ordinamento di un generale principio antielusivo – risulta dunque erronea e va cassata”: A sua volta la coeva sentenza n. 30057 ha dettato il seguente principio di diritto: “È inopponibile all’erario – in virtù di un generale principio di divieto di abuso del diritto in materia tributaria, desumibile dall’art. 53 Cost. – il negozio con il quale viene costituito, in favore di una società residente nel territorio dello Stato, un diritto di usufrutto sulle azioni o sulle quote di una società italiana, possedute da un soggetto non residente, in modo da consentire al cedente di trasformare il reddito di partecipazione in reddito di negoziazione (esente dalla ritenuta sui dividendi di cui all’art. 27, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973) ed alla cessionaria di percepire i dividendi, sui quali, oltre a subire l’applicazione della ritenuta meno onerosa di cui all’art. 27, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973 (oltretutto recuperabile in sede di dichiarazione annuale) essa può avvalersi del credito di imposta previsto dall’art. 14 del d.P.R. n. 917 del 1986, ed inoltre di dedurre dal reddito di impresa, pro quota annuale, il costo dell’usufrutto, allorché risulti che il negozio stesso non ha altre ragioni economicamente apprezzabili al di fuori di quella di conseguire un vantaggio tributario”. Certamente di tali sentenze si parlerà a lungo, ma il primo pensiero che viene alla mente è il ben noto proverbio “la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”. Nessuno infatti dubita delle buone intenzioni della Suprema Corte, ma le vie seguite e le conclusioni cui perviene appaiono… infernali. In estrema sintesi, e con riserva di futuri sviluppi, si può infatti osservare: a) che con tali pronunce la Corte ha assunto contemporaneamente le funzioni di legislatore (ampliando la portata delle norme antielusive, e applicandole retroattivamente) nonché di difensore del ricorrente e di giudice unico e inappellabile, decidendo in base a motivi non dedotti e senza possibilità di difesa e di impugnazione da parte del soccombente; b) che le tesi, del tutto innovative sostenute dalla Corte, trovano esclusivo fondamento nei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione di cui all’art. 53 della Costituzione, principi che per oltre 60 anni non hanno mai consentito di considerare indebito l’uso legittimo e non simulato di strumenti giuridici; c) che non è dato vedere perché mai debbano essere considerate elusive operazioni poste in essere per soli motivi fiscali, quando gli oneri fiscali costituiscono un peso tanto rilevante sui risultati economici di una impresa. In base a questo principio sarebbe inopponibile al fisco qualsiasi operazione fiscalmente agevolata, quale, ad esempio, la rivalutazione agevolata degli immobili e delle partecipazioni agli effetti delle plusvalenze di cui agli artt. 5 e 7 della legge n. 448 del 2001 – con l’aliquota del 4% – ovvero l’applicazione del condono, posto che ovviamente non sussistano altri motivi se non quello fiscale, che giustificano tali operazioni. d) che la disciplina relativa alla tassazione dei dividendi è unica e oggettiva, quale che sia il percipiente dei dividendi, in quanto giustificata dalla tassazione dei redditi in capo alla società erogante. Non è dato quindi vedere come e perché tale disciplina possa essere ignorata in relazione ai motivi che hanno consentito l’incasso dei dividendi, quando la legge è uguale per tutti. Ciò posto ritengo che il problema dell’abuso del diritto debba essere ulteriormente approfondito, ed auspicabilmente definito in via legislativa e comunque riconsiderato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Claudio Berliri DOTTRINA ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 Considerazioni generali in tema di elusione fiscale e abuso del diritto di Franco Paparella Il compito che mi è stato assegnato è quello di un intervento con finalità meramente introduttive. E poiché è il primo della sezione riservata agli “interventi de iure condito” sostanzialmente dovrei provare a delineare lo stato dell’arte con riferimento a due fenomeni giuridici del diritto tributario materia – l’elusione fiscale e l’abuso del diritto – dalle notevoli implicazioni teoriche e pratiche ma dai rilevanti punti di contatto, com’è acutamente colto dal titolo assegnato al convegno1. Tuttavia, dovendo effettuare una scelta anche rispetto ai numerosi aspetti problematici individuati dagli stessi organizzatori del convegno, nelle considerazioni successive mi limiterò ad esporre qualche considerazione introduttiva in tema di “abuso del diritto”2, rinviando ai con1 Sul tema dell’elusione in una visione interna la dottrina è intervenuta copiosamente negli ultimi anni sottolineando il passaggio alla tipizzazione della fattispecie legale a seguito dell’introduzione della clausola antielusiva e prospettando la ricostruzione del fenomeno giuridico alternativamente nell’ambito della teoria dell’interpretazione allo scopo di distinguere i comportamenti ritenuti illeciti (ad esempio, si veda RUSSO, Brevi note in tema di disposizioni antielusive, in Rass. Trib., 1999, 68; VANZ, L’elusione fiscale tra forma giuridica e sostanza economica, in Rass. Trib., 2002, 223; MONTANARI, Elusione fiscale senza sanzione?, in Giur. It., 2002, 2433) oppure, con maggior rigore, quali norme che eccedono le regole interpretative in quanto volte a disapplicare le norme regolatrici della fattispecie imponibile secondo il modello riconducibile all’estensione analogica ai casi non espressamente previsti (in questo senso cfr. FEDELE, Appunti dalle lezioni di dir. trib., Torino, 2005, 135; LUPI, Diritto tributario, Parte gen., VIII Ed., Milano, 2005, 102; TESAURO, Ist. di dir. trib., I, VIII Ed., Torino, 2003, 247; LA ROSA, Principi di dir. trib., II Ed., Torino, 2006, 23; CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale, Padova, 1992, 140). Tra i contributi più recenti volti a giustificare gli incerti orientamenti giurisprudenziali, cfr. LA ROSA, Sugli incerti confini tra l’evasione, l’elusione e l’assenza del presupposto soggettivo dell’Iva, in Riv. dir. trib., 2006, II, 619; TABELLINI, L’elusione della norma tributaria, Milano, 2007, passim; PISTONE, Abuso del diritto ed elusione fiscale, Padova, 1995, passim; ZOPPINI, Abuso del diritto e dintorni (ricostruzione critica per lo studio sistematico dell’elusione fiscale), in Riv. dir. trib., 2005, I, 809; ANDRIOLA, La dialettica tra “aggiramento” e valide ragioni economiche in una serie di ipotesi applicative della norma antielusiva, in Rass. Trib., 2006, 1897. Infine per interessanti considerazioni recenti riferite ai profili di compatibilità comunitaria, si veda VACCA, Evoluzione della riforma IRES: considerazioni generali, in Riv. dir. trib., 2007, I, 354. 2 Sull’ampia sfera concettuale della nozione di abuso del diritto nell’ordinamento interno, tra i contributi più significativi, cfr. RESCIGNO, L’abuso del diritto, Il Mulino, 1998, passim; PATTI, Abuso del diritto, in Digesto IV, Disc. priv. sez. civ., Torino, 1987, I, 1; C. SALVI, tributi dei relatori che seguiranno l’approfondimento delle numerose questioni controverse che attengono, in via diretta o mediata, all’ampio oggetto del convegno. In particolare, senza pretesa di completezza, il mio intervento tenderà solo a fornire qualche spunto di riflessione sulle questioni sostanziali che, a mio avviso, si collocano “a monte” e che condizionano in misura rilevante tutti gli altri profili irrisolti derivanti dalle ultime pronunce della Suprema Corte. Queste ultime, infatti, sebbene perseguano l’obiettivo dichiarato di consolidare “principi generali”, ritenendoli addirittura “pacifici”, in realtà, sollevano nuovi interrogativi, che meritano una riflessione approfondita muovendo proprio dall’evoluzione che è possibile cogliere nella giurisprudenza di legittimità. 1. Brevi cenni sugli sviluppi del dibattito giurisprudenziale desumibile dalle numerose pronunce rese dalla Suprema Corte I termini essenziali del dibattito interno sono noti e risalgono a tre sentenze della Suprema Corte del 2005, in tema di dividend washing, con le quali è stato ribaltato l’orientamento precedente sulla base di un originale percorso ricostruttivo3. In particolare, nel momento in cui la questione sulla qualificazione in termini di fittizietà/elusività di tali opeAbuso del diritto, I) dir. civ., in Enc. Giur. Treccani, I, Roma, 1998; GAMBARO, Abuso del diritto, diritto comparato e straniero, ibidem; MESSINETTI, Abuso del diritto, in Enc. dir., II, Agg., Milano, 1998, 5. 3 Nei confronti di dette operazioni, infatti, i precedenti della Suprema Corte avevano chiarito l’impossibilità di contestarle sia ricorrendo al terzo comma dell’art. 37 del D.P.R. n. 600 del 1973, sia negando efficacia retroattiva alla legge n. 429 del 5 novembre 1992, in coerenza con quanto riconosciuto dalla stessa Amm. Fin. (cfr. Ris. Dip. Entrate n. 5/022 del 6 luglio 1993, in Il Fisco, 1993, 8432) al punto che gli Uffici periferici erano stati invitati ad abbandonare le controversie pendenti sulla base di un parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato (per conferma, si veda Circ. Min. n. 87/E del 27 dicembre 2002, in Il Fisco, 2003, 127). Per conferma, si consulti Cass., n. 3979 del 26 gennaio 2000, in Rass. Trib., 2000, 1267, con commento nostro Finalmente la Cassazione mette la parola fine alla questione del campo di applicazione dell’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973; Cass., n. 11351 del 3 settembre 2001; Cass., n. 3345 del 7 marzo 2002, in Foro It., 2002, I, 1703. 7 8 DOTTRINA razioni è sembrata definitivamente risolta, sono intervenute tre innovative pronunce, relative al sistema delle imposte sui redditi, che hanno riconosciuto la possibilità di desumere un “principio tendenziale” in tema di abuso del diritto “alla luce di alcuni principi ricavabili dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia”4 al punto che, sotto il profilo processuale, si è ritenuto che “la nullità dei contratti può essere dichiarata d’ufficio – in via incidentale – anche nel giudizio di legittimità”5. In realtà, a supporto della conclusione volta a dichiarare la nullità del negozio o dei negozi collegati sono stati utilizzati soprattutto i modelli civilistici di diritto interno al punto che è stata esclusa l’ipotesi della frode alla legge di cui all’art. 1344 del Cod. Civ. (con l’eccezione della sentenza n. 20816 del 2005), la nullità per assenza di interessi meritevoli di tutela ex art. 1322, l’assenza di un motivo illecito invalidante mentre si è ritenuto sussistente il difetto di causa ai sensi del comma 2 dell’art. 1418, richiamando talune datate pronunce in tema di accollo del debito d’imposta superate dal comma 2 dell’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente 6. Tuttavia, sotto il profilo argomentativo, per la prima volta appare il riferimento ad una non meglio precisata giurisprudenza comunitaria, in qualche caso non attinente al settore tributario, nonostante sia evidente l’influenza dei lavori processuali che hanno portato alle tre sentenze rese dalla Corte di Giustizia, fra le quali ha assunto un rilievo particolare la cosiddetta sentenza Halifax 7. Ritenendolo applicabile ad operazioni perfezionate quasi dieci anni prima nonostante altre sentenze dello stesso periodo (ad esempio, Cass. n. 14515 del 29 luglio 2004, in Riv. dir. trib., 2004, II, 272, con nota di ZOPPINI, oppure Cass. n. 19227 del 22 giugno 2006, in Il Fisco, 2006, 1, 5687) avessero più correttamente applicato l’art. 10 della legge n. 408 del 1990 vigente ratione temporis e malgrado sia stata avvertita l’esigenza “di ulteriori specificazioni della giurisprudenza comunitaria”. 5 Cfr. Cass., Sez. Trib., 21 ottobre 2005, n. 20398, in Rass. Trib., 2006, 295, con commento di STEVANATO, Le ragioni economiche del dividend washing e l’indagine sulla “causa concreta” del negozio: spunti per un approfondimento; Cass., Sez. Trib., 26 ottobre 2005, n. 20816, in Riv. dir. trib., 2006, II, 691, con nota contraria di GIULIANI, Su talune categorie privatistiche evocate da tre pronunce del Supremo Collegio in tema di elusione-evasione; Cass., Sez. Trib., 14 novembre 2005, n. 22932, in Giur. Trib., 2006, 212, con commento critico di BEGHIN, L’usufrutto azionario tra lecita pianificazione fiscale, elusione tributaria e interrogativi in ordine alla funzione giurisdizionale). 6 Sul punto, sia consentito di richiamare il nostro L’accollo del debito d’imposta, Milano, 2008, 109. 7 Trattasi delle tre sentenze della Corte di Giustizia del 21 febbraio 2006, trattate dall’Avvocato Generale Poiares Maduro nelle conclusioni del 7 aprile 2005, relative alla Causa C-223/03, (in Trusts e attività fiduciarie, 2007, 563, con nota di PAPARELLA, Un’architettura contrattuale fondata sulla costituzione di un trust e la valutazione in termini di “abuso del diritto” nel sistema dell’I.V.A.), alla Causa C-419/02 4 ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 Com’è noto, l’innovativa ed articolata conclusione enunciata dalla Suprema Corte ha raccolto pochi consensi in dottrina ed i numerosi rilievi critici hanno riguardato indifferentemente gli aspetti sostanziali e processuali, come è stato ampiamente ribadito in occasione del recente convegno dello scorso 10 luglio8. Non è un caso che il dibattito giurisprudenziale successivo ha abbandonato l’approccio iniziale sulla base dei condizionamenti imposti dalla sentenza Halifax posto che, a partire dalle tre pronunce del 2006 relative all’I.V.A. emesse nello stesso giorno delle tre sentenze comunitarie9, è possibile cogliere un atteggiamento diverso della Suprema Corte. Infatti, l’ulteriore evoluzione giurisprudenziale è contraddistinta dalle due ordinanze del 2006, con le quali la Corte di Cassazione ha investito del problema le Sezioni Unite ed ha sollevato una rilevante questione sistematica alla Corte di Giustizia10. In particolare, con la prima la Suprema Corte, prendendo atto della situazione di incertezza, ha lodevolmente rimesso gli atti alle Sezioni Unite, ritenendo necessario l’esame di “questioni di diritto involgenti massime di particolare importanza” ai sensi del comma 2 dell’art. 314 del Cod. Proc. Civ.11. Con la seconda, invece, poiché si è ritenuto “che siano necessari alcuni chiarimenti al fine di consentire una rigorosa applicazione del principio enunciato dalla sentenza Halifax”, è stato formulato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia allo scopo di chiarire se “la nozione di (cosiddetta BUPA, pubblicata in Corr. Trib., 2006, 1105, con nota di CENTORE, La detrazione IVA ai confini dell’elusione) ed alla Causa C-255/02 (cosiddetta Halifax), in Riv. dir. trib., 2006, III, 107, con nota di POGGIOLI, La Corte di Giustizia elabora il concetto di “comportamento abusivo” in materia d’Iva e ne tratteggia le conseguenze sul piano impositivo: epifania di una clausola generale antielusiva di matrice comunitaria?; in Riv. dir. trib., 2007, III, 3, con commento di PISTONE, L’elusione fiscale come abuso del diritto: certezza giuridica oltre le imprecisioni terminologiche della Corte di Giustizia Europea in tema di Iva; in Rass. Trib., 2006, 1016, con commento di PICCOLO, Abuso del diritto ed Iva: tra interpretazione comunitaria ed applicazione nazionale. 8 Tra i tanti, si vedano soprattutto gli interventi di MOSCHETTI e SCHIAVOLIN raccolti nell’opuscolo AA. VV., Elusione fiscale. La nullità civilistica come strumento generale antielusivo, in Atti del Convegno tenutosi presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova, All. de Il Fisco, n. 43 del 2006, 82 e 93. 9 Il riferimento è alle tre sentenze nn. 10353, 10532 e 11061 del 5 maggio 2006. 10 Per completezza, ed in considerazione del fatto che la questione verte sempre in materia di I.V.A., non è superfluo segnalare anche l’ordinanza n. 5503 del 9 marzo 2007 in quanto la Suprema Corte ha formulato un altro rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia avente ad oggetto il rilievo del principio di proporzionalità rispetto alle applicazioni del divieto all’abuso del diritto. 11 Per conferma, si veda Cass., Sez. Trib., Ordinanza n. 12031 del 24 maggio 2006, in Corr. Trib., 2006, 2141, con commento di ZIZZO; in Giur. Trib., 2006, 881, con nota di PINO. DOTTRINA ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 abuso del diritto o di forme giuridiche, definita dalla sentenze della Corte di Giustizia in causa C-255/02 come «operazione essenzialmente compiuta al fine di conseguire un vantaggio fiscale» sia coincidente, più ampia o più restrittiva di quella di «operazione non avente ragioni economiche diverse da un vantaggio fiscale»”12. Le indicazioni della Corte di Giustizia sono arrivate con la nota sentenza del 21 febbraio 2008, Causa C425/06 (cosiddetta Part Service), riferita al sistema dell’I.V.A., che ha chiarito “l’esistenza di una prativa abusiva può essere riconosciuta qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisce lo scopo essenziale dell’operazione o delle operazione controverse”, specificando che “l’unico scopo di procurare un vantaggio fiscale” non è una “condizione per l’esistenza di una pratica abusiva” (par. 44)13. Il sopraggiungere di tale sentenza ha segnato l’avvio dell’ultimo filone giurisprudenziale, che si è caratterizzato per soluzioni interpretative ulteriormente improntate alla tutela del principio anti-abuso senza però garantire adeguate forme di tutela e di contraddittorio al contribuente ed in proposito le critiche sollevate dalla dottrina meritano un’attenta considerazione. In definitiva, dalla recente evoluzione giurisprudenziale dell’ultimo periodo è difficile cogliere un principio tendenziale chiaro in grado di conciliare con equilibrio e razionalità le contrapposte esigenze dell’Amm. Fin. e del contribuente a causa del sovrapporsi di pronunce dall’impostazione non sempre univoca su molti aspetti di fondo e comunque dalle soluzioni in gran parte non condivise dalla dottrina di maggioranza. In via di principio, con riferimento alle questioni di sistema, sembra che, allo stato attuale dell’esperienza giuridica, la nozione di abuso abbia ormai assunto una connotazione strettamente comunitaria14 posto che: 12 Cfr. Cass., Sez. Trib., Ordinanza n. 21371 del 10 marzo 2006, in Il Fisco, 2006, 1, 6585. 13 In Riv. dir. trib., 2008, IV, 252, con ampia nota di POGGIOLI, Il modello comunitario della “pratica abusiva” in ambito fiscale: elementi costituivi essenziali e forza di coordinamento rispetto alle scelte legislative ed interpretative nazionali; in Riv. Giur. Trib., 2008, 750, con commento di CENTORE, Lo «spettro» dell’abuso sulle operazioni soggette ad IVA 14 In questo senso si orientano le pronunce della Corte di Cassazione n. 22023 del 13 ottobre 2006, nonché n. 5503 del 30 novembre 2006. Sul criterio di valutazione degli assetti negoziali nell’ordinamento europeo ai fini del giudizio in termini di elusione o di abuso, cfr. RIDSDALE, Abuse of right, fiscal neutrality and VAT, in EC Tax review, 2005, 82; FROMMEL, United Kingdom tax law and abuse of rights, in Intertax, 1991/1992, 54; SHIPWRIGHT, L’esperienza britannica, in DI PIETRO, a cura di, L’elusione fiscale nell’esperienza europea, Milano, 1999, 107; BURGIO, The abuse of law in the framework of the European tax law, in Intertax, 1991/1992, 82; TERRA-WATTEL, European tax law, IV Ed., Kluver law international, 140 e 525; KJELLGREN, On the border of abuse, in European business law review, 2000, 192. a) si abbandona il sistema delle nullità di diritto intered in questo senso probabilmente hanno giocato un ruolo decisivo le conclusioni dell’Avvocato Generale con riferimento alle cause riunite C-439/04 e C-440/04, in merito all’ordinamento belga, che hanno portato alla sentenza della Corte di Giustizia del 6 luglio 200616; b) conseguentemente, sotto il profilo degli effetti della violazione del principio dell’abuso del diritto, si abbandona il modello della nullità – che prospettava problemi di coordinamento sistematico con il comma 3 dell’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente che dispone “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto” – e si inizia a fare strada, più propriamente, quello dell’inefficacia nei confronti dell’Amm. Fin o dell’inopponibilità; c) infine, è apertamente sollevato il problema del rapporto tra la nozione di abuso e quella di elusione17. In questa nuova prospettiva, tuttavia, permangono questioni molto controverse che attengono soprattutto all’ambito oggettivo di applicazione – e, quindi, alla possibilità che la nozione di abuso sia limitata ai tributi di stretta derivazione comunitaria – ed alla difficoltà di recepire i principi elaborati dalla Corte di Giustizia in considerazione dei vincoli imposti dall’ordinamento nazionale 18. no15 2. L’ambito di applicazione dell’abuso del diritto con riferimento ai tributi diversi da quelli più propriamente comunitari Come detto, la questione dell’ambito oggettivo di applicazione del principio anti-abuso è quella sistemati15 Sull’ampio e complesso tema riguardante la possibilità di eccepire ai fini fiscali la nullità di singoli negozi ed assetti collegati o complessi sulla base dei vizi previsti dal Codice Civile (ad esempio, la violazione di norme imperative, i vizi funzionali della causa, la nullità per frode alla legge, l’esistenza di motivi illeciti, etc..), tra i tanti, cfr. GAFFURI, La rilevanza della nullità contrattuale in diritto tributario, in Boll. Trib., 2006, 453; TABELLINI, L’elusione della norma tributaria, cit., 101; CECCHINI, Collegamento tra negozi a prestazioni corrispettive e nullità per mancanza di causa, in AA. VV., Elusione fiscale. La nullità civilistica come strumento generale antielusivo, cit., 19; BUSA, La nullità civilistica come strumento generale antielusivo, in Il Fisco, 2006, 1, 15596. 16 In Rass. Trib., 2008, 235, con nota di CARDILLO, Tutela della buona fede e dell’affidamento del soggetto passivo nelle frodi Iva mediante “carosello”. 17 Cfr. Cass., Sez. Trib., 21 febbraio 2006, nn. 10352, 10353 e 11061, in Riv. dir. trib., 2006, II, 619, con commento di LA ROSA, Sugli incerti confini tra l’elusione, l’evasione e l’assenza del presupposto soggettivo Iva. 18 Questo profilo è approfondito da SCHIAVOLIN, L’elusione fiscale come abuso del diritto: allo stato dell’arte, più problemi che soluzioni, in AA. VV., Elusione fiscale. La nullità civilistica come strumento generale antielusivo, cit., 66. 9 10 DOTTRINA camente più rilevante posto che si tratta di comprendere se esso sia applicabile al sistema tributario nel suo complesso oppure se sussistono limiti in grado di limitarne l’applicazione a tributi specifici, escludendo, ad esempio, le imposte sui redditi. Sul punto, anche le indicazioni più recenti della Suprema Corte sono perentorie posto che con la sentenza n. 21221 del 29 settembre 200619 (ritenuta dalla stessa Corte “l’espressione più articolata e compiuta di un indirizzo giurisprudenziale che può ormai dirsi pacifico”20), le ordinanze n. 3031 e 3033 del 8 febbraio 2008, in tema di aiuti di Stato alle cooperative, e, soprattutto, con la più recente sentenza n. 8772 del 4 aprile 2008 si è pervenuti alla conclusione, ritenuta desumibile dalla giurisprudenza comunitaria, che “anche nell’imposizione fiscale diretta, pur essendo questa attribuita alla competenza degli Stati membri, gli stessi devono esercitare tale competenza nel rispetto dei principi e delle libertà fondamentali contenuti nel Trattato Ce”21. Ma a tale ampliamento si oppone quanto evidenziato dalla dottrina che ritiene applicabile la clausola anti-abuso ai soli tributi armonizzati22. In quest’ultimo senso depongono diversi argomenti che mi limito solo ad enunciare. In primo luogo, sotto il profilo metodologico, se si conviene che il principio anti-abuso abbia una fonte strettamente comunitaria a me pare coerente desumere che il suo ambito di applicazione debba essere in primo luogo definito sulla base di tale sistema normativo e, solo in subordine, in forza dell’ordinamento interno, assumendolo peraltro nel rispetto della totalità dei vincoli che riguardano sia i profili sostanziali, che quelli più strettamente procedimentali. In Dir. e Prat. Trib., 2007, II, 723, con commento di LOVISOLO, Il principio di matrice comunitaria dell’“abuso” del diritto entra nell’ordinamento giuridico italiano: norma antielusiva di chiusura o clausola generale antielusiva? L’evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte. 20 Per conferma, si veda la sentenza n. 10257 del 16 gennaio 2008, in Riv. dir. trib., 2008, II, 448, con nota di BEGHIN, Note critiche a proposito di un recente orientamento giurisprudenziale incentrato sulla diretta applicazione in campo domestico, nel comparto delle imposte sul reddito, del principio comunitario del divieto di abuso del diritto. 21 In Riv. Giur. Trib., 2008, 695, con commento critico di ORSINI, L’abuso del diritto rende l’atto inefficace: sul contribuente l’onere della prova. 22 Per conferma, cfr. ZIZZO, L’abuso dell’abuso del diritto, in Riv. Giur. Trib., 2008, 465; BEGHIN, Abuso del diritto la confusione persiste, in Riv. Giur. Trib., 2008, 649; IDEM, Note critiche a proposito di un recente orientamento giurisprudenziale, cit., 474; ORSINI, L’abuso del diritto rende l’atto inefficace, cit., 704; POGGIOLI, Il modello comunitario della “pratica abusiva” in ambito fiscale, cit., 252; ATTARDI, Il divieto di abuso del diritto nel settore delle imposte sui redditi, in Il Fisco, 2008, 1, 6661. 19 ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 Se tale premessa è condivisa è agevole constatare che l’abuso del diritto non rientra i principi propri del Trattato, né può essere qualificato alla stregua di un vago e generico “canone ermenutico” in assenza di parametri normativi di riferimento ed, inoltre, che, a partire dalla nota sentenza Halifax, allorquando la Corte di Giustizia ha utilizzato detto principio lo ha prevalentemente ancorato alla violazione delle disposizioni comunitarie riguardanti tributi specifici ed in primo luogo dell’I.V.A.23. In questo senso le indicazioni più recenti sono addirittura perentorie posto che con la sentenza del 22 maggio 2008, Causa C-162/07, la Corte ha specificato al par. 27 che “il principio del divieto all’abuso del diritto … è volto, segnatamente nel settore dell’I.V.A., a che la normativa comunitaria non venga estesa sino a comprendere i comportamenti abusivi di operatori economici”. Invece, con riferimento al settore delle imposte sui redditi, a partire dalla sentenza Schweppes24, la Corte di Giustizia ha prospettato un ragionamento diverso, che ha avuto la sua elaborazione più compiuta nella sentenza del 5 luglio 2007, Causa C-321/05 (cosiddetta Kofoed)25, nella quale si legge che il mancato recepimento nell’ordinamento interno della clausola antielusiva prevista da una direttiva comunitaria consente la perseguibilità della condotta in termini in termini di antielusività a condizione che sussistano norme nazionali in tema di abuso del diritto, il che, riguardo all’ordinamento nazionale, prospetta un delicato problema di conformità all’art. 23 della Cost.26. 23 Spunti del medesimo tenore sono prospettati da BASILAVECCHIA, Norma antielusiva e “relatività” delle operazioni imponibili, in Corr. Trib., 2006, 1466; SALVINI, L’elusione Iva nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corr. Trib., 2006, 3099; ATTARDI, L’elusione nell’Iva. L’impatto del divieto comunitario di abuso del diritto, in Il Fisco, 2007, 1, 4572; IDEM, How the Halifax ECJ’s decision affects italian tax-payers, in Tax notes intertax, 2006, 613. 24 Si tratta della sentenza della Corte di Giustizia del 12 settembre 2006, Causa C-196/04, in Riv. dir. fin., 2007, II, 3, con commento di CIPOLLINA, CFC legislation e abuso della libertà di stabilimento: il caso Cadbury Schweppes; in Rass. Trib., 2007, 983, con nota di BEGHIN, La sentenza Cadbury-Schweppes ed il “malleabile” principio della libertà di stabilimento; in Corr. Trib., 2006, 3347, con commento di DELLA VALLE, Tassazione degli utili della società estera controllata e rispetto del diritto di stabilimento. L’oggettiva difficoltà di applicare i principi elaborati in materia di I.V.A. al sistema delle imposte sui redditi in conseguenza della sentenza Schweppes è colta da PISTONE, L’elusione fiscale come abuso del diritto, cit., 26. 25 In Rass. Trib., 2008, 261, con commento di ANDRIOLA, Quale incidenza della clausola anti-abuso comunitaria nella imposizione sui redditi in Italia?; al riguardo, inoltre, si veda ATTARDI, Il divieto di abuso del diritto nel settore delle imposte dirette, cit., 6664. 26 Per ulteriori considerazioni sul tema, inoltre, si consultino le conclusioni dell’avvocato generale Kokott del 8 febbraio 2007. Il tema della conformità all’art. 23 della Cost. nel dibattito interno è ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 Peraltro, la distinzione tra i diversi settori impositivi è agevolmente riscontrabile sul piano del diritto positivo comunitario in quanto è noto che, a fronte dell’assenza di clausole specifiche per i tributi armonizzati, per le imposte sui redditi una sorta di clausola antiabuso è codificata dalla Direttiva n. 434 del 1990 in tema di operazioni straordinarie di modo che la sua applicazione concreta dovrebbe essere strettamente limitata alle fattispecie previste dalla Direttiva medesima27. Il quadro sistematico che si desume dall’ordinamento comunitario, quindi, sembra sufficientemente chiaro e porta a concludere che il principio anti-abuso è pacificamente applicabile per i tributi armonizzati e con riferimento alle violazioni riguardanti la relativa disciplina mentre per quelli non armonizzati il parametro normativo di riferimento è di diritto interno ed andrebbe coordinato con gli altri principi generali propri di tale ordinamento di modo che il ripetuto tentativo di codificarlo in via interpretativa è oltremodo dubbio. D’altro canto, nonostante l’ampiezza del tessuto argomentativo che contraddistingue la sentenza n. 8772 del 2008, al punto da proporsi come il punto di arrivo di un’evoluzione giurisprudenziale tormentata, il ragionamento della Corte non è supportato da un percorso teorico in grado di superare l’obiezione di principio in quanto l’applicazione del principio comunitario dell’abuso del diritto a tutti i settori impositivi è sostenuta con quattro precedenti della Corte di Giustizia nei quali però il problema era sostanzialmente diverso posto che riguardava la qualificazione fittizia o fraudolenta dell’operazione28. Da tale impostazione sostanziale, peraltro, derivano in una visione interna le ulteriori e rilevanti questioni di natura procedimentale e processuale – in termini di assenza di contestazione nell’atto di accertamento, di assenza di contraddittorio in fase endoprocedimentale e di eccepibilità d’ufficio in ogni stato del giudizio sulle quali si soffermeranno gli altri relatori – che effettivamente pregiudicano in misura sostanziale il diritto di difesa del contribuente a differenza di quanto accade se la contestazione fosse fondata su argomenti di natura più strettamente antielusiva. ricorrente in dottrina. Tra i tanti, cfr. BEGHIN, Note critiche a proposito di un recente orientamento giurisprudenziale, cit., 461; POGGIOLI, Il modello comunitario della “pratica abusiva” in ambito fiscale, cit., 264. 27 In senso conforme PLACIDO, Dall’Europa all’Italia avanza il principio dell’abuso del diritto, in Il Fisco, 2006, 1, 4801. 28 In dottrina, l’esistenza di un “principio immanente” è stata sostenuta da LIPRINO, Il difficile equilibrio tra libertà di gestione e abuso del diritto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: il caso Part. Service, in Riv. dir. trib., 2008, II, 112; SANTACROCE, L’abuso del diritto, dall’Iva comunitaria all’Iva interna, in Dialoghi tributari, 2008, 115. DOTTRINA 3. La dimensione concettuale della nozione di abuso del diritto Per qualche verso collegata alla questione appena esaminata è l’ulteriore profilo che induce a domandarsi se il principio dell’abuso del diritto costituisca nella nostra materia un fenomeno giuridico diverso, analogo o più ampio dell’elusione fiscale alla luce delle indicazioni recate dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973. In questi termini, gli ultimi interventi della Suprema Corte sono ancora più asistematici sia perché la prospettazione di un “principio immanente” travolge qualsiasi tentativo di sistemazione teorica rispetto a due categorie giuridiche (ovvero l’elusione e la simulazione) – rispetto alle quali l’elaborazione dottrinale aveva compiuto notevoli progressi – ma soprattutto perchè la nozione di abuso è assunta con una dimensione più ampia di quella codificata dalla giurisprudenza comunitaria, che distingue, a partire dai fondamentali parr. 74-75 della sentenza Halifax, la pluralità di cause o motivi sottostanti l’operazione (definiti “elementi obiettivi”) dalla finalità di conseguire un risparmio d’imposta (letteralmente “lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale”) e, soprattutto, richiede il decisivo parametro della contrarietà rispetto agli obiettivi perseguiti dal diritto comunitario29. È noto, infatti, che secondo le recenti sentenze della Suprema Corte n. 8772 del 2008 e n. 10257 del 16 gennaio 2008 la fattispecie dell’“abuso” supera qualsiasi valutazione in termini di scopi economici diversi dal risparmio fiscale e si risolve nelle “operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale” talché la sua formulazione estrema porterebbe ad escludere qualsiasi ipotesi di risparmio legittimo d’imposta ed a rilevare che il comportamento irreprensibile del contribuente dovrebbe essere ispirato al principio del regime fiscale più oneroso in contrasto con l’esigenza posta in risalto dalla sentenza n. 21221 del 2006 volta al riconoscimento della “liceità dell’obiettivo della minimizzazione del carico fiscale”. L’ampliamento della casistica dei fenomeni immeritevoli di tutela, peraltro, è fonte di un’ulteriore irrazionalità dal punto di vista della coerenza sistematica e del principio di proporzionalità in quanto ribaltando la regola secondo cui alla maggiore intensità del rimedio predisposto dall’ordinamento giuridico deve corrispondere un livello più elevato di garanzia per il soggetto colpito dalla misura repressiva: 29 Per una completa ricognizione delle differenze esistenti tra la visione interna e quella comunitaria si veda CENTORE, Lo «spettro» dell’abuso sulle operazioni soggette ad IVA, cit., 755, ove ulteriori riferimenti di dottrina. 11 12 DOTTRINA a) mentre la patologia più grave – ovvero la contestazione in punto di abuso – non sarebbe assistita da alcuna specifica garanzia in quanto anche la tendenza giurisprudenziale che sancisce l’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del contribuente l’onere di dimostrare “l’esistenza di ragioni economiche, alternative o concorrenti, di carattere non meramente marginale o teorico” è causa di una confusione concettuale sul rilievo delle motivazioni di natura extra-fiscale (o, comunque, diverse dalle ragioni di risparmio fiscale) oltre a non produrre alcun risultato concreto; b) quelle più lievi – e cioè l’elusione e la simulazione – sarebbero contraddistinte da maggiori cautele sotto il profilo endoprocedimentale, dell’interpello o degli strumenti di prova a disposizione dell’Amm. Fin.30. In tale contesto evidentemente assume un rilievo più significativo il tema dell’inapplicabilità delle sanzioni31, sottolineato dalla Corte di Giustizia a partire dalla sentenza Halifax32, e che, allo stato attuale dell’esperienza giuridica, non è stato ancora preso in esame dalla giurisprudenza di legittimità a fronte di qualche pronuncia favorevole della giurisprudenza di merito33. A mio avviso, l’ultima prospettiva adottata dalla Corte di Cassazione merita di essere corretta e le soluzioni possono essere diverse in funzione degli strumenti utilizzati. Da un lato, infatti, sotto il profilo interpretativo, si potrebbe pervenire alla conclusione che per il versante delle imposte sui redditi il principio anti-abuso corrisponde con l’elusione fiscale34, di modo che la sua concreta applicazione sarebbe soggetta ai limiti previsti dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1972; viceversa, per i soli tributi ar30 Tale aspetti cono acutamente evidenziati, da ultimo, da BASILAVECCHIA, Elusione e abuso del diritto: una integrazione possibile, in Riv. Giur. Trib., 2008, 741. 31 La delicatezza del profilo sanzionatorio è posta in risalto da BASILAVECCHIA, Norma antielusiva e “relatività” delle operazioni imponibili Iva, cit., 1468. 32 Tra le più recenti, si consulti la sentenza della Corte di Giustizia del 6 luglio 2006, nella causa C-439/04, in Riv. Giur. Trib., 2006, 837, con commento di CENTORE, L’evoluzione della giurisprudenza comunitaria in tema di frodi Iva. 33 Per conferma, si veda la corposa sentenza della Comm. Trib. Prov. di Milano, Sez, XIV, n. 278 del 13 dicembre 2006, in Dialoghi di dir. trib., 2007, 390, con commenti di STEVANATO, PARA e LUPI. 34 Sul punto, si consulti il contributo di PISTONE, L’elusione fiscale come abuso del diritto, cit., 20, che perviene alla sostanziale equiparazione delle due nozioni sulla base delle imprecisioni terminologiche e di traduzione (sui termini abuso, elusione, evasione e frode) presenti nella sentenza Halifax confrontate con i precedenti della Corte. In senso sostanzialmente analogo cfr. CONTRINO, Elusione fiscale, evasione e strumenti di contrasto, Bologna, 1996, 307. ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 monizzati sarebbero applicabili le regole desumibili dalla giurisprudenza comunitaria, che prospetta ben altra nozione rispetto a quella equivalente al mero risparmio fiscale desumibile dalle ultime sentenze della Suprema Corte ed impone maggiori garanzie per il contribuente35. Dall’altro, invece, potrebbe ipotizzarsi un tentativo di razionalizzazione tramite l’intervento legislativo sul modello del par. 42 della legge generale tributaria tedesca del 1977 (Abgabeordnung) talvolta richiamato dalla stessa Corte di Cassazione. In questo senso, a me sembra condivisibile il suggerimento di porre fine all’incessante revisione dell’art. 37bis del D.P.R. n. 600 del 1973 e di provvedere alla sua riformulazione in termini di clausola generale in modo da ricondurre ad unità sistematica anche quelle fattispecie assai controverse riguardanti, ad esempio, l’imposta di registro36. In particolare, essa dovrebbe essere svincolata dall’individuazione di operazioni tipiche e non limitata a tributi specifici o categorie omogenee di tributi, salvaguardando il sistema delle garanzie volto a garantire la sfera patrimoniale del contribuente ed a consentire il sindacato sull’operato dell’Amm. Fin.37. 4. Conclusioni In definitiva, alla luce delle considerazioni precedenti, mi sembra che, fermo restando il rilievo assunto nell’esperienza giuridica dal principio anti-abuso, la sua dimensione giuridica nel diritto tributario, a prescindere dalla meritevolezza delle finalità che è preordinato a soddisfare, presenti ancora profili irrisolti allo stato attuale del dibattito e necessiti di una sistemazione compiuta allo scopo di conferire al sistema piena coerenza rispetto ai principi di legalità, certezza del diritto, legittimo affidamento e stabilità nei rapporti giuridici. In questo senso spero di aver contribuito a stimolare le riflessioni degli altri relatori sui tanti aspetti che ho volutamente trascurato e sugli altri che emergeranno nel corso della tavola rotonda. 35 In senso conforme BASILAVECCHIA, Norma antielusione e “relatività” delle operazioni imponibili Iva, cit., 1468. 36 In particolare, sulla dubbia applicazione del principio dell’abuso del diritto con riferimento l’art. 20 del D.P.R. n. 131 del 1986 in tema di interpretazione degli atti ai fini dell’imposta di registro, cfr. STANCATI, Riqualificazione negoziale e abuso della clausola antielusiva nell’imposta di registro, in Corr. Trib., 2008, 1685. In giurisprudenza, cfr. Cass., n. 10273 del 4 maggio 2007. 37 In questo senso si veda ZIZZO, L’abuso dell’abuso del diritto, cit., 466. ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 DOTTRINA Senza affidabilità nella applicazione delle regole, non esiste un “diritto tributario” di Roberto Lunelli A. Premessa 1. A ben poco servono le leggi tributarie se il “diritto vivente” fa prevalere, su di esse, principi che dichiara “immanenti” nell’ordinamento tributario italiano, ma che, in realtà, si sono formati nel tempo, sulla scorta neanche della legislazione, ma della giurisprudenza comunitaria. Fino a tre anni fa, infatti, quei principi – “esterni” all’ordinamento nazionale e riguardanti “tributi comunitari” – non solo erano ancora “in via di formazione”1, ma non se ne poteva prevedere neanche una applicazione nel settore delle imposte sui redditi (per di più, anche per il passato). Oggi, questa situazione determina gravi incertezze e profondi disagi negli operatori economici e giuridici: perché viene meno il quadro di riferimento (e le garanzie) che i contribuenti avevano riposto, per i tributi di pertinenza nazionale, nella legislazione interna (tenuto conto della riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione); per i tributi di pertinenza comunitaria, nei regolamenti e nelle direttive (sufficientemente precise) elaborate dal Legislatore dell’Unione Europea: sempre, dunque, nelle tradizionali fonti scritte. 2. Nel campo tributario sta accadendo che la legislazione, spesso incerta e confusa, viene interpretata dalla giurisprudenza (in particolare, di legittimità) non tanto attribuendo ad essa il significato proprio delle parole (secondo la loro connessione e le intenzioni del Legislatore), quanto, invece, assegnandole il senso che la stessa “dovrebbe avere” per essere “in armonia” con un (qualche) “sistema”: quello tributario 2, ma anche quello civili1 Cfr. Corte di Cassazione, Sentt. 21 ottobre 2005, n. 20398 e 14 novembre 2005, n. 22932 che affermano “Nella disciplina anteriore all’entrata in vigore dell’art. 37–bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n, 600, introdotto dall’art. 7 del D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, pur non esistendo nell’ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l’emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale”. 2 Prospettazione sistematicamente comprensibile, anche se vanno rispettate – e salvaguardate – le caratteristiche proprie di ogni tributo. stico3 o quello comunitario4 … La prassi amministrativa, a sua volta, si adegua alla giurisprudenza, anche nelle oscillazioni, incurante dei suoi “precedenti” e del principio di affidamento dei soggetti passivi … Sullo sfondo la dottrina, che (spesso) critica la legislazione, contesta la giurisprudenza, disapprova la prassi amministrativa, evoca – giustamente – lo “Statuto dei diritti del contribuente”… ma non propone un “modello” da adottare, né persegue, con la necessaria tenacia, quei principi di razionalizzazione, di semplificazione e di sistematicità dell’ordinamento tributario che – se espressi – avrebbero potuto indurre il Legislatore a realizzare, prima, una serie di Testi Unici (che siano tali anche nei fatti) e, poi, finalmente un Codice tributario (di parte generale e parte speciale), organico nel contenuto e stabile nel tempo5. In questo contesto – che pretende l’applicazione di una legislazione casistica (talora “provvedimentale”) e, però, fa applicazione anche di “principi” spesso ignoti anche alla prassi (e neanche consolidati) – il contribuente non sa come comportarsi; e anche se si rivolge a un (qualificato) tributarista non ottiene certezze, ma risposte prudenti e poco rassicuranti; per cui, ulteriormente disorientato, o adotta la soluzione a sé più conveniente, con l’alibi della incertezza; o si assoggetta a una tassazione “precauzionale”, che, però, finisce per danneggiarlo in termini di competitività e concorrenza. Quale che sia la sua decisione, sbaglia. 3. È accaduto proprio questo, in materia di elusione fiscale e abuso del diritto; mettendo a rischio, in questi ultimi anni, operazioni concluse vent’anni fa, quando si cominciava a disciplinare le operazioni elusive, ma senza 3 Cfr. le Sentt. 20398/2005 e22932/2005 già citate in nota 1. 4 Cfr. le Sentt. 29 settembre 2006, n. 21221 e, di seguito, 4 aprile 2008, n. 8772; 21 aprile 2008, n. 10257; 15 settembre 2008, n. 23633 e 17 ottobre 2008, n. 25374. 5 Tale “Progetto” era contenuto nella Legge (delega) 7 aprile 2003, n. 80, che – al di là dei tanti limiti – si era posta un obiettivo “di sistema” e avrebbe potuto e dovuto essere l’occasione per proporre soluzioni ispirate ai principi dello Statuto, da consolidare e mantenere stabili nel tempo … ma alla Legge delega dovevano seguire i decreti delegati, che sono mancati, se si eccettua quello sulla “trasformazione” dell’IRPEG nell’IReS. realizzata con il D.Lgs. 344/2003. 13 14 DOTTRINA ipotizzare che l’abuso del diritto potesse interessare un settore impositivo – come quello delle imposte sui redditi – che si stava (appunto) pensando di regolamentare con la normativa interna. È vero che il principio dell’art. 23 della Costituzione6 non può essere esteso ai “tributi comunitari”, ma è anche vero che la preminenza della fonte esterna dovrebbe valere solo in presenza di regolamenti o di direttive sufficientemente precise7; tutt’al più, nel perimetro di pertinenza comunitaria8, ma non anche nel settore delle imposte sui redditi (altro che per particolari e ben individuate operazioni9). In altre parole: i principi elaborati dalla Corte di Giustizia C.E. non dovrebbero essere utilizzati in un settore, come quello delle imposte sui reddi- 6 Il principio per cui “nessuna prestazione (…) patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge” vale per la normativa interna, ma non anche per quella comunitaria, con la precisazione, però, che “le norme comunitarie disciplinanti l’area loro riservata, prevalgono [solo] sulle norme statali incompatibili” (Cfr. G. Falsitta, Corso istituzionale di diritto tributario, II edizione, Cedam 2007). 7 Cfr. artt. 93 e 249 del Trattato istitutivo della Comunità Europea (ora, Unione Europea). È sufficientemente precisa, la Direttiva 2006/112/CE, relativa alla armonizzazione, nel settore IVA, delle legislazioni degli Stati membri, ai quali non è lasciata discrezionalità in fase di recepimento: pertanto, fattispecie che non trovino un uniforme trattamento nei diversi Stati, può implicare l’intervento interpretativo della Corte di Giustizia, con effetto vincolante per gli stessi. 8 L’ordinamento comunitario e quello interno sono, infatti, coordinati tra loro avendo riguardo alle “ripartizioni di competenze stabilite e garantite nel Trattato” (istitutivo della Comunità europea), il quale stabilisce (nell’ambito dei principi) che “la Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato. Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque … essere realizzati meglio a livello comunitario. L’azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente trattato” (art. 5). “Dal punto di vista della potestà normativa, la competenza comunitaria, in sostanza, è limitata al campo delle imposte indirette e segnatamente solo per quanto necessario per l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno (art. 93 del Trattato Ce).” Il Trattato non prevede una competenza positiva della Comunità in materia di imposizione diretta, ma solo alcuni modelli per “giungere all’integrazione comunitaria in materia fiscale” tra i quali “quello fino ad oggi impiegato, consiste nell’adozione di misure singole, tese a risolvere specifici problemi che ostacolano il funzionamento del mercato unico. Accanto ad essi … si trovano gli interventi censori della Corte di Giustizia.” (cfr. Victor Uckmar, “Il ruolo della Corte costituzionale in materia tributaria nell’era della Corte di Giustizia Europea”, in Diritto tributario e Corte costituzionale, Ed. Scientifiche italiane, 2006). 9 Mi riferisco alle operazioni cd. “madre figlia” o alle operazioni societarie straordinarie di tipo intracomunitario, di cui rispettivamente alla Direttiva 90/435/CEE (modificata con direttiva 2003/123/CE) e alla Direttiva 90/434/CEE (modificata con direttiva 2005/19/CE). ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 ti, che è rimasto nella disponibilità (conflittuale) dei singoli Stati10; né trovare applicazione fin tanto che non vengano consacrati in provvedimenti normativi11 (e tanto meno con riferimento a fatti accaduti quando tale principio era ancora “tendenziale”). B. La Corte di Giustizia È noto che la giurisprudenza della Corte di Giustizia della C.E. ha elaborato, nel tempo, un principio “antiabuso” (del diritto) per contrastare l’elusione relativa ai tributi di sua pertinenza: innanzitutto per l’IVA, ma anche nel campo dei dazi doganali, delle accise ed eccezionalmente, per talune operazioni societarie ritenute meritevoli di una disciplina (comunitaria) comune nell’imposizione sui redditi. Si verifica, peraltro, “abuso del diritto” solo quando vengono “violati” gli obiettivi posti dalla normativa comunitaria: così, per l’IVA, dalle Direttive. Si deve indagare, pertanto, prima di tutto, sulla possibilità (in astratto) che l’operazione si ponga in conflitto con tale normativa; e solo poi, se del caso, sullo scopo (in concreto) dell’operazione stessa12: “perché possa parlarsi di un comportamento abusivo, le operazioni controverse devono … procurare un 10 Fermo restando il rispetto dei “principi base” del Trattato, come la libera circolazione delle persone, dei capitali e dei beni, il rispetto della concorrenza, ecc., (fra i quali, però, non può essere annoverato quello del divieto di “abuso del diritto”): rispetto a detti principi, la Corte di Giustizia si pone come censore laddove gli Stati membri non li rispettino. Si veda, nel settore delle imposte sui redditi, la sentenza 5 luglio 2007, C-321/05 [Koford], con cui la CGCE ha considerato “non abusivo” il comportamento di un soggetto che si era conformato alle disposizioni, in materia, del diritto nazionale, ancorché in contrasto con quelle comunitarie. (Si veda, inoltre, la sentenza 23 aprile 2008, C-201/05, a proposito della libertà di stabilimento, citata in nota 14). 11 Anche volendo riconoscere i poteri che la Corte di Giustizia si è attribuita, in ordine alla valenza erga omnes dei suoi principi interpretativi, non si può trascurare che “la diretta applicabilità nell’ambito territoriale di ciascuno Stato” delle sentenze interpretative della Corte di Giusitizia è prevalente rispetto “solo” al “diritto nazionale difforme” (Cfr. G. Falsitta, già citato); ma quando vi è analogia tra le disposizioni del diritto interno (nel caso specifico, l’art. 37-bis) e i principi elaborati dalla Corte di Giustizia (nel caso specifico, il divieto di abuso del diritto), non c’è ragione di far prevalere questi ultimi su una disposizione nazionale tutelata dal principio della riserva di legge. 12 Cfr. CGCE, Sentenze 21 febbraio 2006, causa C-255/02; 21 febbraio 2008, causa C-425/06. Per valutare se le operazioni “possano essere considerate come rientranti in una pratica abusiva, il giudice nazionale deve anzitutto verificare se il risultato perseguito sia un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria a uno o più obiettivi della VI direttiva e, successivamente, se abbia costituito lo scopo essenziale della soluzione contrattuale prescelta”. Ne deriva che lo scopo dell’operazione neanche viene considerato se non emerge un contrasto con la Direttiva. DOTTRINA ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito” (nel caso, dalla VI Direttiva comunitaria sull’IVA); e “deve (…) risultare, da un insieme di elementi oggettivi, che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale” 13. to] si traduce nella individuazione di un difetto di causa che dà luogo alla nullità dei contratti ”. La stessa Sezione Tributaria della Cassazione, peraltro, si rende conto del contrasto esistente nell’ambito della sua stessa giurisprudenza e rimette la soluzione del problema alle Sezioni Unite17. Del resto, anche precedentemente, in diverse occasioni14, la Corte di Giustizia (delle Comunità europee) aveva affermato che le Direttive non impongono all’operatore un percorso obbligatorio, ma lo lasciano libero di optare per quello che gli assicura un minor carico fiscale: purché il suo comportamento non contrasti con gli obiettivi perseguiti dalle stesse. 3. A partire dal 200618, infine, la Corte fa diretta applicazione del principio giurisprudenziale (comunitario) di divieto di abuso (del diritto); rilevando • che l’operazione deve essere valutata secondo le finalità “essenziali” (non dovendo dare rilievo a ragioni economiche solo marginali o teoriche); per cui non vale opporre – da parte dell’interessato – che la finalità non era “esclusivamente” tributaria19; • che tale principio “deve essere considerato di generale applicazione, che trascende non solo i limiti di area dei c.d. tributi armonizzati, ma (…) l’intera materia tributaria”20; per concludere: “l’ottica dei rapporti elusione/norma legislativa si è così ribaltata e le singole norme «anti-elusive» vengono invocate non più come eccezioni a una regola, ma come vero sintomo dell’esistenza di una regola … Non si dubita, cioè, più della generale applicabilità della «clausola antielusione»”.21 Nonostante le perplessità della dottrina e le conseguenze – talora devastanti – che ne potrebbero derivare a carico di soggetti che – a suo tempo, quando avevano concluso le operazioni – avevano rispettato le leggi vigenti (e non potevano certo prevedere tale evoluzione del “diritto vivente”), questa tendenza è ancora in corso e sta consolidandosi: il principio dell’abuso del diritto “trova applicazione anche (…) in riferimento al periodo anteriore all’entrata in vigore del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, introdotto dal D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 7, rappresentando, pur in mancanza di una C. La Corte di Cassazione La giurisprudenza della Corte di Cassazione presenta un andamento ondivago, che non si è ancora stabilizzato. 1. Fino a qualche anno fa, essa aveva reiteratamente affermato che l’“autonomia contrattuale” delle parti e la libertà di scelta del contribuente non vanno limitati, se non in presenza di specifiche disposizioni di legge; per cui “in difetto, si rimane nell’ambito della mera lacuna della disciplina tributaria” 15. 2. Nel 2005, la svolta: in due Sentenze16, la Corte ritiene che nel diritto tributario (normativa speciale) possano essere trasposti principi e criteri che sono propri del diritto civile (generale), dichiarando, per la prima volta, che “l’applicazione del principio [di divieto di abuso del dirit- 13 CGCE, Sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02. Cfr. CGCE, Sentenze 6 giugno 1995, causa C-4/94; 9 ottobre 2001, causa C-108/99; 30 aprile 2004, cause C-487/01 e C-7/02: “la soppressione del contesto normativo del quale un soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto ha beneficiato pagando meno imposte, senza che per questo vi sia una pratica abusiva, non può (…) di per sé, violare un legittimo affidamento fondato sul diritto comunitario”. A proposito della “libertà di stabilimento”, cfr. Sentenza 23 aprile 2008, causa C201/05, secondo la quale “gli artt. 43CE e 48CE devono essere interpretati nel senso che ostano alla inclusione, nella base imponibile di una società residente in uno Stato membro, degli utili realizzati da una SEC stabilita in un altro Stato qualora tali utili siano ivi soggetti ad un livello impositivo inferiore a quello applicabile nel primo Stato, a meno che tale inclusione riguardi esclusivamente costruzioni di puro artificio destinate a eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta. L’applicazione di una misura impositiva siffatta deve essere perciò esclusa ove da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la SEC sia realmente impiantata nello Stato membro di stabilimento, ivi esercitando attività economiche effettive”. 15 Cfr. Cassazione, Sentenze 3 aprile 2000, n. 3979; 3 settembre 2001, n. 11351; 7 marzo 2002, n. 3345; 9 maggio 2002, n. 6599. 16 Sentt. n. 20398/2005 e 22932/2005, già citate. 14 17 Cfr. Ordinanza 24 maggio 2006, n. 12301 e 12302. 18 Cfr. Sentenza 29 settembre 2006, n. 21221. 19 “Una rigorosa applicazione del principio dell’abuso del diritto”, come definito dalla Corte di giustizia nella sentenza Halifax, “comporta che l’operazione deve essere valutata secondo la sua essenza, sulla quale non possono influire ragioni economiche meramente marginali o teoriche, tali, quindi, da considerarsi manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti, rispetto alla finalità di conseguire un risparmio di imposta”. (Cfr. Sentenza 21221/2006, già citata). 20 Cfr. Sentenza 29 settembre 2006, n. 21221, già citata, secondo la quale “Pur riguardando la pronuncia dei Giudici di Lussemburgo un campo impositivo di competenza comunitaria (l’Iva), questa Corte ritiene che, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza comunitaria, anche nella imposizione fiscale diretta, pur essendo questa attribuita alla competenza degli Stati membri, gli stessi devono esercitare tale competenza nel rispetto dei principi e delle libertà fondamentali contenuti nel trattato CE.” 21 Sentenza 4 aprile 2008, n. 8772; il principio è ribadito anche con la successiva Sentenza 21 aprile 2008, n. 10257. 15 16 DOTTRINA clausola generale antielusiva, all’epoca non configurabile nell’ordinamento fiscale italiano, un canone interpretativo del sistema, che comporta il disconoscimento del diritto alla deduzione per oneri derivanti da meccanismi elusivi”22. Quanto, poi, all’onere della prova, la situazione appare ancora più instabile, dato che, nell’aprile 200823 la Corte di Cassazione, dopo aver confermato che “non hanno efficacia, nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, gli atti posti in essere dal contribuente, che costituiscano “abuso di diritto”, cioè che si traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale.”; aveva affermato che “incombe sul contribuente fornire la prova dell’esistenza di ragioni economiche, alternative o concorrenti, di carattere non meramente marginale o teorico”. Sei mesi dopo (ottobre 2008), la stessa Sezione (Tributaria) della Corte (in altra composizione), prima di tutto, fa rilevare24, che “… lo strumento dell’abuso del diritto deve essere utilizzato dell’Amministrazione finanziaria con particolare cautela, dovendosi sempre tenere presente che l’impiego di forme contrattuali e/o organizzative che consentano un minor carico fiscale costituisce esercizio della libertà d’impresa e di iniziativa economica, nel quadro delle libertà fondamentali riconosciute dalla Costituzione e dall’ordinamento comunitario …” – affermazione, questa, che va sottolineata e apprezzata – e, poi, precisa che “incombe all’Amministrazione finanziaria” (…) “… l’individuazione dell’impiego abusivo di una forma giuridica …”, per cui essa “… non potrà (…) limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma dovrà individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l’operazione di reale contenuto economico diverso dal risparmio d’imposta …”: il giudice di legittimità non può, dunque, ritenere inopponibile all’Amministrazione finanziaria una operazione di cui quest’ultima non abbia dimostrato, nei termini e nelle forme dovuti, la sua valenza “abusiva”25. Da ultimo, non va trascurato l’orientamento della Corte di Cassazione sul piano processuale: “poiché il principio della irrilevanza fiscale degli atti in abuso di diCfr. Sent. 15 settembre 2008, n. 23633; la quale ha ribadito che “non possono trarsi benefici da operazioni che, seppur realmente volute ed immuni da invalidità, risultino, da un insieme di elementi obiettivi, compiute essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale.” 23 Cfr. Sentt. 4 aprile, n. 8772 e 21 aprile 2008, n. 10257. 24 Cfr. Sent. 17 ottobre 2008, n. 25374. 25 Sembra un significativo passo verso la riaffermazione ed il ripristino degli ordinari principi in tema di riparto dell’onere della prova, onere che, salvi i casi di “inversione” probatoria espressamente previsti dalla legge [cfr. ad esempio art. 32, comma 1 n. 2) D.P.R. 600/1973], non può che incombere sull’Amministrazione finanziaria che, nel processo tributario, riveste (come da sempre rilevato dalla Suprema Corte) il ruolo di “attore sostanziale” (chiamato, dunque, a provare le proprie ragioni ed i fondamenti delle contestazioni mosse). ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 ritto deriva dalla normativa comunitaria, è consentito introdurre nel giudizio la problematica dell’abuso del diritto, purché sia ancora aperto (…) un contenzioso sui comportamenti fraudolenti e/o elusivi”26; e ciò in quanto “il rango comunitario della regola comporta (…) l’obbligo della sua applicazione d’ufficio, a prescindere da specifiche deduzioni di parte, anche per la prima volta nel giudizio di Cassazione (richiamandosi alla) sentenza delle Sezioni unite n. 36948 del 18 dicembre 2006, oltre alla (…) sentenza (…) n. 21221/06, nella quale è stato affermato l’obbligo dell’applicazione d’ufficio della regola dell’abuso del diritto in materia di imposizione diretta” 27. Se questa conclusione (discutibile e pericolosa) venisse confermata, il giudice non dovrebbe limitarsi a decidere se ricorre (o meno) l’abuso di diritto (o l’elusione), ma potrebbe dichiarare, di sua iniziativa, inopponibili all’Amministrazione finanziaria atti, fatti e negozi, “a prescindere” dalle contestazioni e dalle prove addotte dall’Amministrazione finanziaria28 … e, questo, anche dopo una o più fasi processuali nel corso delle quali tale ipotesi neanche è stata discussa … con inaccettabile (a mio parere) superamento delle regole del processo (avuto riguardo, in particolare, al suo oggetto e alla funzione delle impugnazioni); non solo, ma ne deriverebbe una “confusione” nei ruoli e nei poteri degli Organi istituzionali che a me pare non solo preoccupante, ma sconvolgente. D. Contrasto tra Corte di Cassazione e Corte di Giustizia C.E. Nel trasporre il principio dell’“abuso del diritto” dal comparto comunitario (in cui si è sviluppato) a quello nazionale, la Corte di Cassazione ha ritenuto, dunque a. di poterlo applicare “trasversalmente”, in quanto sarebbe “immanente” nell’ordinamento tributario italiano (per cui la sua applicazione potrebbe avvenire anche in assenza di una norma specifica di recepimento); 22 26 Cfr. Corte di Cassazione Sent. 21 aprile 2008, n. 10257. 27 Cfr. Sent. 17 ottobre 2008, n. 25374. 28 Senza contare che Il diritto di difesa, costituzionalmente garantito (cfr. art. 24), sarebbe compresso per difetto di contraddittorio che, previsto espressamente dalla disposizione sull’elusione (cfr. art. 37-bis, commi 4 e 5), è anche imposto dallo Statuto dei diritti del contribuente (cfr. art. 12) e richiamato come principio generale dalla giurisprudenza “nel rispetto del principio generale del giusto procedimento, cioè consentendo al contribuente, ai sensi dell’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, di intervenire già in sede procedimentale amministrativa, prima di essere costretto ad adire il giudice tributario” (cfr. Corte di Cassazione Sez. V, Sentenza n. 17229 del 28 luglio 2006). ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 b. di volerlo applicare con modalità diverse da quelle elaborate dalla giurisprudenza comunitaria; prescindendo, in particolare, dalla previa constatazione che il “vantaggio fiscale” del contribuente si ponga in contrasto con le disposizioni comunitarie. L’indagine sulla incompatibilità del comportamento contestato con l’ordinamento sarebbe, dunque, superflua quando, invece, la giurisprudenza comunitaria ha sempre considerato tale contrasto come condizione “di accesso” alla verifica dello scopo (eventualmente elusivo) dell’operazione. Viene valutata, dunque, solo la finalità di “vantaggio fiscale” di una certa operazione rispetto ad altre (più consuete e onerose) che portino agli stessi risultati sostanziali; vantaggio fiscale che può costituire lo scopo “essenziale” (e, non necessariamente esclusivo) dell’operazione. In proposito, non va sottaciuto un (ulteriore) rischio, costituito dal fatto che i giudici (esperti in diritto, ma non nella gestione delle imprese) potrebbero avere difficoltà nel cogliere le ragioni – non sempre evidenti (in quanto prospettiche o mediate) – di determinate scelte imprenditoriali che pure sono “essenziali” e preminenti rispetto al (pur rilevante) risparmio d’imposta, che è più facile da individuare: per ciò stesso qualificando “in odore di abuso del diritto” anche operazioni “pensate” con finalità societarie (come un window dressing in un Bilancio); o addirittura pianificazioni fiscali che determinano un (lecito) “risparmio d’imposta”: il quale, in astratto, viene riconosciuto legittimo29, ma in concreto, potrebbe essere considerato “inopponibile” all’Amministrazione finanziaria, perché ottenuto attraverso una o più operazioni che consentono di conseguire le stesse finalità di altre (ritenute più “normali”), con una “minore” imposizione. Ne verrebbe irrimediabilmente compromessa la “certezza” (o, meglio, la “affidabilità”) dell’ordinamento italiano sul piano nazionale e internazionale. E. Conclusioni 1. Nel nostro ordinamento giuridico non esiste una disposizione “generale” sull’”abuso del diritto”, ma solo talune disposizioni specifiche che lo contrastano30. 29 Cfr., da ultimo, quanto riportato sub C: Sent. 17 ottobre 2008, n. 25374. 30 Ad. es. l’art. 833 c.c. sul divieto di atti emulativi; l’art. 96 c.p.c. sul divieto di agire in giudizio in mala fede; alcune ipotesi di reato previste dal codice penale. DOTTRINA Nel comparto tributario, l’istituto giuridico che più si avvicina a tale concetto – e, forse, meglio lo interpreta31 – si rinviene nell’art. 37-bis del D.P.R. 600/1973, che, dopo la rubrica “disposizioni antielusive”, reca, in materia, una normativa “generale”, ancorché a fattispecie predeterminate e a valere solo nel settore delle imposte sui redditi32. Dato che dell’“elusione” si è interessato il Legislatore italiano – quando il problema cominciava ad assumere un certo rilievo (anche ai fini della concorrenza) – se ne dovrebbe trarre la conferma che il “principio comunitario” di abuso del diritto può trovare applicazione solo con riferimento a tributi “comunitari”33: non anche, dunque, in un settore nel quale Parlamento e Governo sono intervenuti, in più occasioni, per limitare la valenza tributaria di determinate operazioni, con norme “antielusive” – specifiche o generali – che sarebbero “inutiliter datae”, se fosse stato applicabile – anche in quel campo – tale “principio immanente e trasversale”… Anzi, le operazioni che il Legislatore ha ritenuto – ai fini delle imposte sui redditi – “potenzialmente pericolose” sarebbero addirittura “protette” rispetto alle altre, in considerazione dei limiti alla operatività della normativa antielusiva nazionale: con un evidente paradosso. 2. Forse è giunto il momento di affrontare il tema della “elusione tributaria” e dell’”abuso del diritto” in termini sistematici e nel contesto di una iniziativa legi- 31 Cfr. Sent. 25374/2008 in cui si afferma, con riferimento all’abuso del diritto, che “si tratta della stessa regola, contenuta nell’art. 37-bis D.P.R. 600/1973”. Il riconoscimento di una disposizione nazionale che già disciplina – pur potendo essere migliorata e ampliata nei contenuti – una fattispecie analoga a quella elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (peraltro in un diverso ambito impositivo), dovrebbe indurre ad ammettere che manca quel contrasto tra i due ordinamenti – quello interno e quello comunitario – che consente di far prevalere il secondo sul primo. 32 In sostituzione dell’art. 10 della L. 408/1990, con funzione deterrente e applicazione subordinata alla presenza di ben individuati comportamenti soggettivi. Che valga solo per le imposte sui redditi è esplicitamente affermato nella Relazione ministeriale che accompagna il provvedimento e nella Circ. Min. (19/12/1997, n. 320/E), dove si dice che “la norma antielusiva può trovare applicazione soltanto con riferimento al settore delle imposte sui redditi e sempreché sia stata effettuata una o più delle operazioni predeterminate”. 33 Iva, accise, tributi doganali e, nelle imposte sui redditi, solo specifiche operazioni: fusioni, scissioni, conferimenti, operazioni madre–figlia, ecc… Nel caso dell’IVA, ad esempio, dove non vi è una disposizione nazionale che disciplini l’elusione e dove la Direttiva comunitaria intende realizzare una armonizzazione fra gli Stati membri, le sentenze interpretative della Corte di Giustizia potrebbero senz’altro colmare il “vuoto legislativo”, cioè valere (e prevalere) in ambito domestico. 17 18 DOTTRINA slativa di ampio respiro: con l’introduzione di una disposizione (antielusiva) “a tutto campo”, che si riporti anche ai principi elaborati dalla giurisprudenza comunitaria (oltre che nazionale), ma a valere solo dalla sua entrata in vigore e con la definizione dei limiti e delle precise condizioni cui può essere applicata. Attualmente si ha l’impressione che la Corte di Cassazione intenda elevare a “sistema” (ispirato alla capacità contributiva) un ordinamento – come quello tributario italiano – privo di una base stabile e razionale, che si sviluppa non in base a principi generali, ma a regole speciali e contingenti, quasi sempre al di fuori di un “sistema”. Per perseguire tale obiettivo, viene affermata la presenza di un principio “anti–abuso del diritto”, che, però, non esiste, e che fino a pochi anni fa, non poteva neanche essere intravisto o previsto (anche se, in futuro, potrebbe costituire uno dei pilastri della legislazione tributaria). Le finalità sono apprezzabili, ma i risultati sono inaccettabili, dato che la Corte di Cassazione finisce per svolgere un ruolo di (sostanziale) “supplenza” (o addirittura di “sostituzione”) in un comparto – quello legislativo – che spetta al Parlamento. È il Legislatore che deve stabilire “le regole” (comprese quelle tributarie) da osservare: siano esse (nella valutazione degli operatori del diritto) buone o cattive, rigorose o tolleranti, sistematiche o casistiche … e la giurisprudenza dovrebbe applicare le norme “esistenti”, senza andare alla ricerca di un “sistema che oggi non c’è”: perché non è tollerabile che un soggetto che si era conformato ieri alla legge, alla giurisprudenza e alla prassi amministrativa allora esistente, debba oggi difendersi da eccezioni (del tutto nuove) fatte valere – neanche dall’Amministrazione finanziaria, ma – dai giudici; e fondate su principi che allora non erano neanche prevedibili e che si sono sviluppati nel tempo…: perché è evidente che, a quel punto, lo stesso soggetto, che opera oggi in base alla attuale legge, giurisprudenza e prassi, teme di potersi trovare, domani, a doversi difendere nel caso in cui venissero approvati nuovi provvedimenti (legislativi o amministrativi) o addirittura si affacciassero nuovi orientamenti giurisprudenziali che pretendono – a posteriori – di contestare (e addirittura sanzionare) un comportamento che – a priori – non poteva considerarsi illegittimo. 3. Non va trascurata la preoccupazione, grave e diffusa (soprattutto fra gli operatori economici di una certa dimensione), che una legislazione (nazionale) incerta e poco chiara, una prassi amministrativa debole e ondivaga, una giurisprudenza di legittimità oscillante ma trop- ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 po forte34, possa indurre le imprese italiane a delocalizzarsi all’estero e le imprese straniere a evitare l’Italia per i loro insediamenti. Quello fiscale costituisce – infatti, da sempre – uno dei fattori fondamentali di attrazione (o di avversione) nella scelta del Paese in cui collocare le strutture produttive e commerciali, da parte degli imprenditori; espressione e parametro, al tempo stesso, di competitività e di concorrenza sul piano internazionale. La preoccupazione degli operatori economici italiani è fondata: perché prima ancora che il livello “quantitativo” dell’imposizione è importante la “qualità” dell’ordinamento: non solo sotto il profilo legislativo, ma anche amministrativo e, soprattutto, giurisprudenziale35. Senza affidabilità non esiste il diritto e si configura un (ulteriore) “rischio Paese”: per carenza, questa volta, del diritto tributario. 34 Che, al di là delle sue (apprezzabili) finalità, se rivolte al futuro – cioè a sollecitare una maggiore coscienza civica nei contribuenti e, soprattutto, una maggiore attenzione del legislatore nei confronti di fenomeni distorsivi come l’elusione e l’evasione – rimette in discussione comportamenti pregressi del contribuente. 35 L’ordinamento non si esaurisce nella legislazione, ma si compone anche della prassi amministrativa e, soprattutto, della giurisprudenza, dato che “il diritto vive nell’interpretazione che ne dà il giudice” (Francesco Carnelutti, giurista friulano). DOTTRINA ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 Elusione Tributaria: l’abuso del diritto tra norma comunitaria e norma interna di Ivan Vacca 1. Ormai da più parti si mette l’accento su un malessere evidente del nostro ordinamento fiscale: la sua mancanza di affidabilità e di stabilità, una sua certa opacità che potrebbe compromettere nel tempo non solo i valori di equità e democrazia, ma anche un’efficace competizione internazionale e l’attrattiva per gli investitori esteri. Soprattutto, per quel che concerne l’imposizione delle attività d’impresa – dove la pianificazione degli investimenti richiede tempi lunghi – ciò che si lamenta è la mancanza di regole sostanziali o procedimentali conoscibili per tempo, chiare e inequivocabili, relativamente stabili. I motivi di questo malessere sono di varia natura: un peso importante va attribuito, sicuramente, a una produzione normativa che è in continuo divenire, prevalentemente per esigenze di gettito (fatto questo che ha indotto ad introdurre regole impositive non sempre sistematicamente coordinate, con efficacia spesso immediata, se non retroattiva), oltre che a una attività interpretativa della pubblica amministrazione sollecitata dagli interpelli dei contribuenti altrettanto pletorica, spesso indirizzata al caso specifico e non sempre inquadrabile a sistema1. Ma al di là di questa sorta di “polverizzazione” delle regole, un impatto rilevante su queste tematiche, e in un senso non certo rassicurante, sta assumendo la questione dell’abuso del diritto, “alias” del contrasto all’elusione fiscale. 2. L’“elusione” come è noto è quella zona grigia – non meglio definita – in cui l’Amministrazione Finanziaria viene abilitata dall’ordinamento a difendersi non da un 1 Come già rilevato da Assonime nell’audizione del 19 luglio 2006 presso la Commissione consultiva sulla imposizione fiscale della società (c.d. Commissione Biasco) all’epoca istituita dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, la proliferazione degli interpelli anche quelli a carattere ordinario, estranei all’applicazione della norma antielusiva – sta creando una casistica interpretativa estremamente variegata con soluzioni volte al caso concreto e non sempre riconducibili ad una impostazione sistematica; sicché soluzioni che pure possono risultare soddisfacenti per il contribuente istante, talvolta sottendono interpretazioni non accettabili come principio generale per gli altri contribuenti. semplice nascondimento del reddito (dall’evasione “tout court”), ma dall’uso improprio da parte dei contribuenti delle norme che predeterminano la fattispecie impositiva a fini ingiustamente vantaggiosi: a difendersi, cioè, da quelle operazioni che non dissimulano il reddito, anzi rispettano anche formalmente i canoni della fattispecie legale e, pur tuttavia, attraverso l’uso combinato degli elementi oggettivi della fattispecie legale, realizzano effetti impositivi contrari alla “ratio legis” e dunque non in linea con la corretta attuazione del principio di capacità contributiva; effetti, in definitiva, discordanti con le finalità del sistema o del sottosistema in cui si colloca l’istituto fiscale del quale il contribuente invoca l’applicazione. Siamo in presenza, dunque, di quella linea di confine che separa le regole scritte dai principi metagiuridici. Il rischio è evidente: o che lo Stato non riesca a reagire con sufficiente forza a questa tipologia di operazioni, realizzate, per la verità, in modo sempre più sofisticato e con collegamenti transnazionali, ovvero, al contrario che la reazione sia eccessiva o scomposta, tale da compromettere il fondamentale principio di legalità del nostro sistema tributario, il principio di predeterminazione della fattispecie impositiva, quale regola di rilevanza anche costituzionale ed espressione imprescindibile della natura “civil law” del nostro ordinamento giuridico. È proprio quest’ultima la preoccupazione, evidenziata da più parti, in ordine alle posizioni recentemente assunte in materia dall’Amministrazione finanziaria e dalla giurisprudenza. L’accusa è chiara: nell’ambito dell’Amministrazione finanziaria e della giurisprudenza stanno maturando interpretazioni che sembrano consentire al fisco di disapplicare “ad nutum” le regole impositive scritte sulla base di un giudizio caso per caso dell’esistenza o meno di valide ragioni economiche “extrafiscali”; di un giudizio, oltretutto, non definito o definibile in base a regole precise e pertanto suscettibile di dar luogo di volta in volta ad interpretazioni soggettive e disparate dell’organo amministrativo o dell’organo giudicante. In altri termini se è pur vero che è un preciso potere-dovere dell’Amministrazione contrastare il contribuente che si sottragga al dovere 19 20 DOTTRINA costituzionale di contribuzione (art. 3 e 53 della Cost.), vuoi “evadendo” vuoi “eludendo” le norme fiscali, è altrettanto vero che la riserva di legge (art. 23 Cost.) è un principio di matrice costituzionale “che non svolge una funzione ornamentale o decorativa del sistema, ma lo plasma in modo da garantire ai soggetti passivi non soltanto la democraticità delle scelte impositive (non certamente demandabili al giudice) ma anche la certezza (del diritto) nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria2. 3. Prima di scendere più nel dettaglio di questa tematica, merita prendere atto della complessità della situazione che si è venuta, in concreto, a creare. Un primo aspetto, su cui riflettere, riguarda il “modus operandi” dell’Amministrazione finanziaria nell’esplicazione della sua attività di accertamento. È noto che agli uffici finanziari vengono assegnati precisi obiettivi nel compimento delle verifiche, obiettivi di efficienza, di razionalizzazione dell’azione accertativa, di suo coordinamento sul territorio nazionale e all’estero, di indirizzo delle verifiche per gruppi economici, per settore produttivo, per tipologia di fattispecie etc. In questo contesto, non sono indifferenti anche gli obiettivi di budgets sul numero degli accertamenti annuali da eseguire e sull’entità dei recuperi potenziali. È chiaro, però, che quest’ultimo aspetto potrebbe condizionare – volente o nolente – non poco la prospettiva in cui gli accertamenti vengono in concreto condotti, nel senso che si potrebbe determinare una spinta (sia pur inconsapevole) a “stressare” la pretesa impositiva, fino ad arrivare ad accertamenti non dico pretestuosi, ma dalle motivazioni quantomeno discutibili. Ed è proprio nel campo dell’“elusione” che trova facile sviluppo questo “modus operandi” – e in particolare, nelle verifiche di operazioni di riorganizzazione aziendale che costituiscono il cuore, se vogliamo, della fattispecie elusiva indicata nell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 del 1973 – poiché in questa materia il disconoscimento degli effetti delle operazioni (considerate le dimensioni che, di regola, esse assumono) possono ingenerare recuperi di una certa entità e, soprattutto, perché la costruzione della motivazione della pretesa impositiva, ove si accetti l’impostazione sopra evidenziata (quella cioè di far riferimento sic et simpliciter alla presunta mancanza di valide ragioni econo- 2 Il testo virgolettato è ripreso da “Note critiche a proposito di un recente orientamento giurisprudenziale incentrato sulla diretta applicazione, in campo domestico, del principio comunitario di divieto di abuso del diritto” (nota a Cass., sez. trib., n. 8772/2008; Cass., sez. trib. n. 10257/2008) di BEGHIN in Rivista di Diritto Tributario vol. XVIII luglio-agosto 2008, 465 e ss. ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 miche) si presenta in termini oggettivamente più semplici. Non è da escludere, quindi, che proprio questa situazione sia stata, sia pur indirettamente, una fra le varie cause che ha in qualche modo favorito, quanto meno presso l’Amministrazione, lo sviluppo della linea interpretativa sul concetto di elusione dianzi ricordata; linea interpretativa che, per altro, è seguita e convalidata – giova ribadirlo – anche dalla recente giurisprudenza. Comunque, a prescindere da queste illazioni, sta di fatto che questa tipologia di accertamenti – accertamenti, cioè, volti alla contestazione del fenomeno elusivo – sono divenuti, a quanto consta, preponderanti e ripetitivi, per lo meno nei confronti delle medie e grosse organizzazioni d’impresa. 4. Un altro aspetto che non può essere trascurato riguarda le scelte legislative che sono state compiute in materia tributaria. La ricerca di competitività, di modernità del nostro sistema fiscale, di comparabilità con gli altri ordinamenti, ha indotto il legislatore, soprattutto in questi ultimi anni, ad introdurre una serie di istituti e di modelli di operazioni che pur perseguendo risultati economici a volte similari a quelli di altre operazioni sottoposte ad imposizione ordinaria, sono caratterizzati da regimi differenziati, da regimi spesso di favore. Mi riferisco ad esempio alle operazioni di fusione, scissione e conferimenti di azienda, assistite tradizionalmente dalla disciplina di neutralità fiscale sulle plusvalenze dei beni trasferiti, in ciò differenziandosi dalle liquidazioni societarie o dalla vendita di aziende che hanno, invece, carattere realizzativo. Mi riferisco al regime di consolidamento fiscale degli imponibili che consente la compensazione di utili e perdite delle società appartenenti allo stesso gruppo, ma che opera solo per le società del gruppo sottoposte a controllo di diritto (richiedendo quindi che i legami partecipativi siano strutturati in un determinato modo) e ancora, al regime di detassazione delle plusvalenze su partecipazioni societarie che consente indirettamente, attraverso appunto il trasferimento di tali partecipazioni, la circolazione di complessi aziendali in neutralità fiscale (rectius parziale neutralità al 95 per cento) laddove, invece, la cessione diretta degli assets aziendali è sottoposta ad imposizione ordinaria etc. Tutti questi regimi sono stati, peraltro, ricondotti con espressa disposizione di legge nell’alveo applicativo della norma antielusiva dell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 del 1973, nel senso che per la loro applicazione il legislatore ha consentito, anzi ha imposto all’Amministrazione finanziaria di esercitare il suo potere dovere di controllo sull’eventuale esistenza, caso per caso, di forme di abuso. ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 Ciò induce ad almeno due riflessioni. Innanzitutto, la norma antielusiva dell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 nata, come disposizione relativa a talune fattispecie, è divenuta sostanzialmente di portata generale nell’ambito del reddito d’impresa, caratterizzando l’applicazione di quasi tutti i regimi fondamentali di determinazione dell’imponibile e tende, a quanto consta, ulteriormente ad espandersi. Sicché la risalente diatriba se la clausola antielusiva abbia valenza generale o meno nel sistema tributario, ha perso sostanzialmente di significato, per lo meno nell’ambito dell’imposizione diretta. In questo senso il percorso legislativo sta giungendo di fatto e per via parallela ad un risultato sostanzialmente non dissimile da quello cui perviene in via interpretativa la Corte di Cassazione che fonda il suo approccio – come è noto – sulla diretta e generale applicabilità al nostro ordinamento domestico del principio di matrice comunitaria dell’abuso del diritto3. Ma c’è anche un altro aspetto che non può essere trascurato. La scelta del legislatore in ordine alle fattispecie dianzi ricordate – conferimenti, fusioni, scissioni, cessioni di partecipazioni fruenti di esenzione etc. – sono chiare ed inequivocabili, nel senso che, per motivi di strategia fiscale di varia natura (e che non è il caso qui di sindacare), sono stati previsti per esse regimi impositivi differenziati, spesso più vantaggiosi rispetto ad operazioni produttive di effetti “latu sensu” similari. E tali regimi, nell’assetto globale del sistema fiscale, sono stati concepiti non come meramente temporanei o eccezionali, ma come strutturali alla natura giuridico-formale di tali operazioni, le quali quindi, proprio in aderenza alla volontà del legislatore, non possono che essere individuate evidentemente se non in base ai corretti criteri ermeneutici che attengono alla loro disciplina civilistica. In prima battuta, quindi, non appare razionale, sotto un profilo sistematico, l’idea che molti manifestano – e che è fonte di vari equivoci – secondo cui l’imposizione deve tendenzialmente attuarsi secondo il modello impositivo più oneroso; tesi che porterebbe a ricondurre, là ove possibile, gli atti negoziali anzidetti agli archetipi – per natura e per qualificazione – di operazioni negoziali Naturalmente, questa analogia è riscontrabile solo con riguardo alla progressiva estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 del 1973. L’abuso del diritto – così come ricostruito dalla Cassazione – e la disciplina antielusiva dell’art. 37 bis, per il resto, presentano rilevanti differenze, tra le quali spicca l’assenza, nel caso di abuso, della garanzia di un contraddittorio preventivo con l’Amministrazione; contraddittorio che, come è noto, è invece obbligatorio in base al citato art. 37 bis. DOTTRINA produttive di effetti similari ma sottoposte a regime impositivo meno vantaggioso. È vero tendenzialmente, anzi, il contrario. La fusione non è una liquidazione anche se condivide con la liquidazione il fatto che una società possa scomparire e i suoi assets essere trasferiti alla società socia; così come un conferimento d’azienda è un negozio avente causa giuridico-formale diversa dalla cessione per compravendita della azienda medesima; e ancora la cessione di partecipazione costituisce fenomeno negoziale non assimilabile alla vendita diretta della azienda societaria, ancorché l’una e l’altra operazione consente di attuare la circolazione del bene azienda e di realizzarne i plusvalori latenti. E il legislatore, ben consapevole di questa distinzione giuridico-formale, ha inteso introdurre regimi differenziati. Se il nostro sistema avesse voluto perseguire l’effetto contrario, avrebbe dovuto imboccare, evidentemente, la via esattamente opposta. Ad esempio, nell’ambito dei principi contabili internazionali, il superamento delle forme giuridico-negoziali per addivenire ad un trattamento unitario delle operazioni gestionali dell’impresa che risultino produttive di risultati economici equivalenti, costituisce uno dei capisaldi di tale sistema volto a realizzare, come è noto, come principale obiettivo la comparabilità dei bilanci delle imprese a prescindere dagli ordinamenti giuridici in cui operano e a beneficio di una informazione omogenea degli investitori. Così a titolo esemplificativo, l’IFRS 3 accomuna in un’unica disciplina i conferimenti e le cessioni di aziende, le fusioni, le scissioni, i trasferimenti di partecipazioni che determinino il trasferimento del controllo dell’impresa o di parte di essa4. È di tutta evidenza, tuttavia, che questo tipo di interpretazione non può essere “sic et simpliciter” “importato” in un ordinamento di “civil law”, quale il nostro, che ha il suo fondamento, al contrario, nella predeterminazione della fattispecie legale; soprattutto non può essere valido strumento interpretativo della nostra attuale legislazione fiscale che – ripetiamo – ha espressamente distinto i regimi impositivi proprio in ragione delle differenti fattispecie legali. Sia allora il legislatore eventualmente a revocare queste scelte, ma attraverso disposizioni specifiche in tal senso. 3 4 La tematica del diverso approccio dei principi contabili internazionali nella rappresentazione contabile delle operazioni di aggregazione aziendale è sviluppata nella circolare Assonime n. 51 del 2008 sulla nuova disciplina dei conferimenti, fusioni e scissioni così come risultante dalle modifiche apportate dalla legge n. 244 del 2007 (finanziaria per il 2008). 21 22 DOTTRINA Quanto detto non mi pare – in prima battuta – possa essere revocato in dubbio neanche facendo leva sulla clausola elusiva che, come accennato, accompagna l’applicazione di questi regimi. In linea generale quando un ordinamento mette a disposizione strumenti operativi aventi trattamenti fiscali alternativi, è chiaro che i contribuenti si ritengono abilitati ad optare a buon diritto per quelli che, caso per caso, risultano più rispondenti alla loro pianificazione fiscale. Censurare questa loro scelta solo perché fondata su motivi di convenienza fiscale appare in un certo senso una petizione di principio rispetto alla statuizione normativa e, comunque, un surrettizio superamento del principio del legittimo affidamento sulle indicazioni poste dalla stessa norma. L’elusione va ricercata e la conseguente reazione all’elusione va fatta scattare non per contrastare i risultati voluti dal legislatore ma per impedire il verificarsi di quelli non voluti, contrari in qualche modo alla “ratio” del sistema o dell’istituto fiscale invocato dal contribuente. Ci vuole, insomma, qualcosa di più perché possa ravvisarsi un fenomeno elusivo. Sott’altro profilo, occorre anche aggiungere che i regimi fiscali differenziati di cui si discute non sono frutto di iniziative legislative avventurose: nel perseguire nelle fattispecie in esame finalità di politica economica, sono state adottate anche opportune cautele a difesa in qualche modo delle basi imponibili. Così ad esempio, per le operazioni di fusione, scissione e conferimento di azienda il regime di neutralità del trasferimento dei cespiti aziendali si accompagna al principio di continuità dei loro valori fiscali, sicché la pretesa del fisco si conserva intatta e potrà esercitarsi in occasione delle successive vicende reddituali di tali cespiti presso la società beneficiaria. Per tali operazioni, semmai, il problema principale è di evitare l’utilizzo improprio della compensazione delle perdite fiscali, il c.d. commercio delle “bare”: un aspetto, cioè, patologico di un istituto che di per sé sarebbe riguardato con favore dallo stesso legislatore se la compensazione avviene nel gruppo economicamente unitario, ma che assume evidentemente connotati inaccettabili se si trasforma in un “commercio” di “bare fiscali” fra realtà imprenditoriali diverse5. 5 Al riguardo, occorre tuttavia ricordare che l’art. 84, comma 3, del TUIR, per contrastare il commercio di bare fiscali realizzato attraverso l’acquisto di società in perdita e la modificazione della loro attività subordina il riporto delle perdite della società acquisita al superamento di un test di vitalità; test cui andavano esenti le società acquisite all’interno dello stesso gruppo. L’art. 36 comma 12 del decreto-legge n. 223 del 2006 ha abolito questa esimente, lasciando prima facie intendere che il commercio delle bare fiscali possa realizzarsi anche tra società già soggette al medesimo controllo. Per una approfondita analisi del significato e delle conseguenze di questa modifica e si rinvia alla circolare Assonime n. 31 del 31 maggio 2007. ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 E così ancora, il trasferimento dell’azienda tramite la cessione delle partecipazioni sociali fruenti di esenzione, consente senz’altro al soggetto cedente di beneficiare della non tassazione, nell’immediato, delle relative plusvalenze, diversamente da quanto accade nel trasferimento diretto dei relativi “assets”, ma a ciò si accompagnano specifici meccanismi di recupero di questo beneficio presso l’acquirente delle partecipazioni. In particolare tale soggetto, diversamente che nell’acquisizione diretta dei cespiti aziendali, non può trasferire i maggiori costi sostenuti per l’acquisto delle partecipazioni sugli anzidetti cespiti che continuano, di conseguenza, ad assumersi fiscalmente ai valori precedenti. Il legislatore, in altri termini, sembra aver consapevolmente consentito che l’obbligazione tributaria possa essere indifferentemente assolta, secondo lo strumento negoziale in concreto scelto dalle parti, dal cedente l’azienda nell’“asset deal” o dal cessionario nello “share deal” 6. E gli esempi potrebbero proseguire. In estrema sintesi, quello che mi sembra opportuno ribadire è che della clausola antielusiva indubbiamente c’è bisogno nell’ordinamento fiscale, così come c’è bisogno in qualsiasi ordinamento ispirato alla predeterminazione della fattispecie impositiva e che può presentare proprio per questo “modus operandi” dei “varchi” non voluti, delle zone c.d. oscure, ma questa clausola deve servire a colpire quello che è sfuggito al sistema delle norme scritte: deve colpire gli effetti indesiderati in quanto contrari più o meno palesemente alla “ratio” del sistema, alla logica o alle logiche degli istituti impositivi così come positivamente disciplinati, non ciò che il legislatore ha realmente e fondatamente perseguito. In questo senso, la clausola antielusiva è una norma non scritta di chiusura del sistema, non uno strumento per porre costantemente nel nulla le regole scritte. 6 Nella circolare Assonime n. 32 del 2004 già veniva sottolineata l’equivalenza sul piano sistematico delle due opzioni confrontando l’ipotesi di un conferimento in neutralità seguito dalla cessione di partecipazione in regime di participation exemption (share deal) e quello di cessione diretta dei beni aziendali (asset deal). Nella prima ipotesi il regime di neutralità comporta che i plusvalori dell’azienda rimangano in stato di latenza anche presso il soggetto cessionario, sul quale, dunque, si conserveranno intatte le pretese del Fisco ad un successivo recupero a tassazione delle plusvalenze stesse allorché troveranno manifestazione. Viceversa, nell’ipotesi di cessione realizzativa di plusvalenze imponibili, l’applicazione del regime impositivo ordinario permette una corrispondente lievitazione dei costi dei beni ceduti presso l’impresa ricevente. Conseguentemente il sistema, senza dar luogo a salti d’imposta o a duplicazioni, viene a rimettere alle parti che pongono in essere queste operazioni la scelta di chi tra di esse debba assumere la posizione di contribuente sui plusvalori dei beni di primo grado. ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 5. Venendo più nel dettaglio all’esame delle posizioni assunte dall’Amministrazione finanziaria e dalla giurisprudenza, può facilmente constatarsi che si tratta di posizioni molto vicine: sostanzialmente esse incentrano il fenomeno elusivo, come accennato, sull’assenza di valide ragioni economiche a supporto dell’operazione o delle operazioni poste in essere dai contribuenti. Si tratta di tesi che sono sviluppate, peraltro, in ambiti diversi: l’Amministrazione finanziaria ha assunto tale posizione in sede di applicazione della disposizione antielusiva prevista dall’art. 37 bis, d.p.r. n. 600 ai fini delle imposte dirette; la giurisprudenza, e segnatamente l’Alta Corte di Cassazione trae questo assunto dal concetto di abuso del diritto di matrice comunitaria, così come interpretato dalla Corte di Giustizia e sulla presunta valenza generale di tale principio anche nell’ambito della nostra legislazione domestica e, dunque, a prescindere dalle previsioni dell’art. 37 bis che verrebbe in quest’ottica ad essere superato. Giova, dunque, esaminare distintamente queste posizioni. Per quanto riguarda l’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 molto sinteticamente ricordo che fino agli anni novanta si riteneva del tutto assente all’ordinamento tributario una clausola generale antielusiva e ciò in virtù del rigoroso rispetto del principio costituzionale di predeterminazione dell’obbligazione tributaria: la reazione all’elusione veniva affidata ad una moltitudine di norme antielusive specifiche che predefinivano la fattispecie da considerare elusiva e di cui disconoscere gli effetti. Fu, dunque, una novità l’introduzione di una nozione generale di elusione ad opera dell’art. 10, della Legge n. 408/90, il quale, pur limitandone l’applicazione solo a particolari fattispecie – quali le operazioni di aggregazione azienda e di riduzione del capitale – definì come elusive le operazioni poste in essere allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d’imposta. Le innovazioni introdotte successivamente sul finire degli anni novanta con la riformulazione di questa nozione nel nuovo art. 37 bis, del d.p.r. n. 600, non intendevano in alcun modo modificare questo approccio, ma chiarire il concetto di fraudolenza che nella precedente norma aveva dato luogo a dubbi interpretativi, definendone meglio – per lo meno nelle intenzioni del legislatore – i caratteri oggettivi: la frode fiscale secondo questa nuova definizione non deve necessariamente rispondere ad un concetto penalistico di fraudolenza, non si articola cioè, nell’impiego di artifizi o raggiri per ottenere vantaggi tributari; essa va più semplicemente colta in quegli atti, fatti e negozi anche collegati fra loro, privi di valide ragioni economiche, che risultano diretti ad aggirare obblighi e DOTTRINA divieti previsti dall’ordinamento tributario al fine di ottenere riduzioni di imposte o rimborsi altrimenti indebiti. È evidente l’intenzione di individuare in questo modo una disciplina ai fini tributari simile a quella che in sede civilistica detta l’art. 1344 c.c. sul contratto in frode alla legge. Non nel senso di trasferire “sic et simpliciter” questa disciplina civilistica in campo tributario – trattandosi, anzi, di regimi differenti nelle intenzioni e nelle reazioni alla frode7 – quanto nel proporre ai fini fiscali un “modus operandi” parallelo a quello della norma del codice. Così come in sede civile costituisce negozio in frode alla legge quello che si pone come mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa – il negozio, cioè, che secondo una accreditata dottrina (anche se non l’unica) veste con causa negoziale tipica un rapporto che nel caso di specie realizza viceversa una causa reale vietata, utilizzando non la simulazione ma la combinazione in vario modo degli stessi elementi oggettivi del modello negoziale regolato dalla norma (si conclude, ad esempio, formalmente un atto di liberalità ma la combinazione degli eventi è tale per cui siamo, in realtà, in presenza di vendita di beni non commercializzabili) – così pure in sede fiscale costituisce operazione in frode alle regole di imposizione quella che non viola direttamente ma aggira obblighi e divieti, ottenendo in questo modo vantaggi che altrimenti sarebbero stati indebiti: l’esistenza in questo contesto delle varie ragioni economiche sembra dunque posta dal legislatore non come diretto (ed unico) sintomo dell’elusione, ma al contrario come possibilità per il contribuente di superare la configurazione elusiva della 7 Come è noto, in dottrina sono state avanzate diverse ricostruzioni riguardo alla possibilità di invocare l’art. 1344 cc come strumento di contrasto dei fenomeni elusivi. Una serie di autori propende per la tesi negativa in quanto l’art. 1344 cc sarebbe posto a presidio dell’aggiramento di norme imperative di natura proibitiva, laddove invece le disposizioni fiscali, lungi dallo stabilire se un negozio possa essere stipulato o meno, si limiterebbero a disciplinarne gli effetti (Cfr. FANTOZZI, Il diritto tributario, Utet, 2003, 161; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, parte generale, Milano 2006, 251). Altri autori hanno osservato che gli atti negoziali non rileverebbero in quanto tali ai fini tributari, bensì regredirebbero a meri elementi della fattispecie, con la conseguenza che l’elusione della legge tributaria non potrebbe essere arginata con il ricorso al rimedio civilistico dell’art. 1344 cc (LUPI, Usufrutto di azioni: una norma antielusione non si può inventare, in Rass trib. 1995, 1936). A diversa conclusione giunge invece la dottrina che ha sostenuto l’applicabilità dell’art. 1344 cc in materia tributaria, ravvisando nell’elusione tributaria una violazione del dovere solidaristico alla contribuzione di cui all’art. 53 Cost. e prospettando che l’operatività dello schema della frode alla legge sul piano tributario dovrebbe risolversi non nella nullità civilistica, ma nell’irrilevanza fiscale dell’atto elusivo (GALLO, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione, in Dir. e prat. trib. 1992, 1767 e ss). 23 24 DOTTRINA fattispecie. Ed in questo senso si esprime chiaramente la relazione governativa al provvedimento di legge che ha introdotto l’art. 37 bis in parola. Due considerazioni emergono da questa ricostruzione interpretativa. La prima è che, così come in sede civile la disciplina dell’art. 1344 c.c. costituisce una norma di chiusura e dunque di applicazione non ricorrente di un sistema che resta legalistico e cioè basato su fattispecie determinate dalla norma, così pure il regime fiscale dell’elusione dovrebbe avere la medesima valenza, cioè dovrebbe porsi come norma di chiusura di un sistema anch’esso basato, forse a maggior ragione, sul principio legale della predeterminazione della obbligazione tributaria. La seconda considerazione è che nel regime antielusivo della norma fiscale costituisce elemento essenziale della frode, prima ancora dell’analisi delle ragioni economiche dell’operazione, l’accertamento di un effettivo aggiramento di obblighi e divieti, cioè l’acclaramento di un effettiva violazione della ratio del sistema fiscale o del sottosistema dalla quale scaturisca un’applicazione della norma in modo non corretto rispetto alla esatta esplicazione della capacità contributiva. Occorre, cioè, che risultino violati i principi fondamentali dell’ordinamento, quali il divieto di doppia deduzione dei costi, il divieto di salto di imposizione, il commercio di bare fiscali, il commercio, cioè, di perdite non realizzate nel gruppo ma acquisite appositamente da società inattive per trarne vantaggi dalla compensazione con i propri imponibili8. Ma soprattutto emerge da questa ricostruzione – e il punto è esplicitamente sottolineato dalla relazione governativa all’art. 37 bis – che non possono essere considerate elusive le scelte fra regimi impositivi alternativi messi a disposizione dallo stesso ordinamento senza limiti o condizioni e ciò anche quando le operazioni che beneficiano di tali regimi producano risultati economici, in tutto o in parte, equivalenti ad altre operazioni diversamente trattate9. Ad esempio, è nella libertà dei contribuenti: insediare un’attività economica all’estero tramite stabili organizzazioni o tramite la costituzione di subsideries con tutto ciò che ne consegue per ciò che concerne il differente trattamento delle perdite riportabili; ottenere un finanziamento o un capitale di apporto per attuare gli investimenti di impresa; scegliere di fruire o meno dell’applicazione di imposte sostitutive; 8 Cfr. la precedente nota 4. 9 In questo senso si veda anche la circolare del Ministero delle finanze n. 320/e del 19 dicembre 1997, che, tra l’altro, richiama la relazione nella parte in cui chiarisce che “non c’è aggiramento fintanto che il contribuente si limita a scegliere tra due alternative che in modo strutturale e fisiologico l’ordinamento gli mette a disposizione”. ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 acquisire o spostare partecipazioni per rientrare nel range del consolidato fiscale; scegliere di cedere l’attività d’impresa della società partecipata trasferendo i relativi assets con effetti impositivi o, viceversa, cedere le partecipazioni fruenti di detassazione, e così via10. Nonostante queste premesse, l’evoluzione interpretativa non ha seguito questa linea. Forse l’art. 37 bis esprimeva concetti dal contenuto semantico non chiaramente individuabile o comunque non radicato nella tradizione giuridica, quale in effetti potrebbe risultare la nozione di “aggiramento di divieti o obblighi” normativi; forse ha influito la preoccupazione dell’amministrazione di limitare l’efficacia fiscale di operazioni sempre più complesse di cui non si capiva appieno il contenuto. Sta di fatto che sotto il profilo teorico si sono sviluppate tesi che hanno attribuito poca valenza al problema dell’aggiramento della ratio del sistema fiscale e alla distinzione di questo profilo rispetto alla legittima scelta del risparmio di imposte: mi riferisco a quelle tesi che individuano il fenomeno elusivo nella semplice esistenza di operazioni definite come “insolite” o “inutilmente complesse e articolate” rispetto agli strumenti tipici a disposizione, in quella sorta di “abuso delle forme giuridiche adoperate”11. Sotto il profilo della prassi amministrativa si è giunti – forse come risultato pragmatico di questo tipo di approccio – a depotenziare completamente il riferimento della norma all’aggiramento di obblighi e divieti e ad attribuire esclusiva valenza alla esistenza o meno di motivazioni economiche extra tributarie a supporto dell’operazione. Più precisamente si è realizzata, interpretativamente, una sorta di equivalenza fra l’assenza di finalità extra tributarie dell’operazione “sub iudice” e il presunto perseguimento attraverso tali operazioni, e proprio per questa assenza di finalità extra-tributarie, di vantaggi fiscali indebiti. Questa semplificazione interpretativa ha determinato una svolta enorme, un cambiamento radicale della visione del problema. L’effetto più rilevante è stato che ha perso di qualsiasi significato la circostanza che il regime fiscale di favore di una determinata operazione sia previsto ex lege. In altri 10 Vedasi, in questo senso, la lucida analisi di LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, Ipsoa, 2001 e, da ultimo, le condivisibili considerazioni di STEVANATO, Trasformazione in s.r.l. agricola ed elusione tributaria: è davvero aggirato lo spirito della legge? in Corr. Trib. 2008, 1719 e ss. 11 Cfr. RUSSO, Brevi note in tema di disposizioni antielusive, in Rass. trib. 1999, 72 e TESAURO, Compendio di diritto tributario, UTET, 2002, le cui definizioni del fenomeno elusivo pongono l’accento sull’anomalia delle scelte negoziali rispetto a quelle a disposizione per ottenere i medesimi effetti economici, lasciando in secondo piano la coerenza di tali scelte con quelle del legislatore. ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 termini il semplice fatto che un’operazione trattata in un certo modo dal legislatore produca – da sola o in combinazione con altri – un risultato in tutto o in parte equivalente ad altra operazione avente differente e più oneroso regime fiscale, abiliterebbe l’amministrazione a sottoporre tale operazione al sindacato di elusività. Ci sarebbe dunque, una sorta di modello di riferimento da assumere acriticamente come modello principale, per il solo fatto di comportare conseguenze impositive più onerose e rispetto al quale l’operazione alternativa meno onerosa fiscalmente dovrebbe essere sempre (e per questo solo fatto) sottoposta a giudizio di elusività. Ad esempio, il regime di neutralità della fusione è sindacabile per il solo fatto che l’operazione conduce ad una estinzione di una delle società che vi partecipa in alternativa alla liquidazione della società medesima, che produrrebbe invece, effetti impositivi12. Analogamente una scissione che serva a distinguere un ramo industriale da un ramo immobiliare per cedere le partecipazioni del primo ad acquirenti interessati e conservare le partecipazioni del secondo, sarebbe tacciabile di elusività perché consentirebbe di realizzare il trasferimento del ramo industriale con la disciplina della cessione delle partecipazioni che si presenta più favorevole rispetto alla cessione diretta degli assets dell’azienda industriale13: come dire che se fin dall’origine il gruppo fosse stato composto da una società che gestiva l’azienda industriale e una società che gestiva il ramo immobiliare, la cessione delle partecipazioni del ramo industriale poteva legittimamente essere operata, mentre invece, tale legittimazione non ci sarebbe se la società nella fattispecie gestisce unitariamente tanto il ramo industriale quanto quello immobiliare e per operare la cessione del primo venga fatta la scissione. E ancora è stata tacciata di elusività una trasformazione di una società per azioni in una società a responsabilità limitata, perché nella fattispecie il regime impositivo dell’azienda agricola gestita nella forma di s.p.a. era diverso, e, per certi versi più oneroso di quello previsto per la gestione dell’azienda agricola da parte di una s.r.l.14. 12 Si veda, in questo senso, il parere del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive n. 27 del 21 settembre 2005. 13 Il Comitato si è espresso per l’elusività delle scissioni proporzionali del ramo immobiliare nei pareri n. 24 del 25 luglio 2006, n. 27 e 28 del 4 ottobre 2006 pur avendone avallato la validità in altre occasioni (cfr. parere n. 19 del 21 settembre 2005 e n. 40 del 14 ottobre 2005). 14 Il riferimento è alla risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 177/e del 28 aprile 2008 in Corr. trib. 2008, 1719 e ss. che ha ritenuto elusiva la trasformazione di una s.p.a in s.r.l diretta ad accedere all’opzione per il regime di tassazione catastale previsto dall’art. 1, comma 1093 della legge finanziaria 2007. DOTTRINA Come dire che una volta eletta una forma societaria a cui il legislatore attribuisce un determinato regime impositivo non è più possibile scegliere una diversa forma di gestione dell’azienda (pur se del tutto legittima sotto il profilo civilistico e pur se non vietata espressamente dal legislatore fiscale), solo perché a questa seconda forma il legislatore riconduce l’applicazione di altro regime impositivo e tale forma non è stata scelta fin dall’origine. Non c’è da stupirsi in una logica di questo genere, che se un gruppo ha una composizione partecipativa che non gli permette di attivare lo strumento del consolidato fiscale e ricolloca le partecipazioni in modo tale da realizzare i presupposti voluti dalla norma per attivare il consolidato, ciò possa far considerare anche questa un’operazione suscettibile di essere tacciata di elusività a motivo del fatto che l’operazione riorganizzativa sarebbe ispirata da esclusive motivazioni fiscali e cioè dall’esigenza di poter usufruire di una scelta impositiva messa a disposizione dal legislatore fiscale erga omnes. Ora al di là della evidente constatazione che posizioni del genere conducono alla configurazione di una legislazione tributaria che opererebbe sulla base di una sorta di “diritto elettivo” – nel senso che l’organizzazione d’impresa che è nata in un certo modo, ha una determinata configurazione giuridica, può accedere a determinati regimi tributari e quella che, non avendo questa configurazione, pone in essere le modificazioni necessarie per realizzarla si troverebbe comunque sbarrata la strada all’accesso al corrispondente regime tributario – sta di fatto che questo approccio interpretativo contrasta proprio con quanto è stato osservato nel precedente paragrafo 4. Non si può, a mio avviso, tacciare di “potenziale” elusività la scelta del contribuente di adottare operazioni produttive di effetti economici similari ad altre, sol perché le une hanno una disciplina fiscale di maggior favore rispetto alle altre. Si finirebbe in questo modo, ripeto, per contrastare una precisa volontà legislativa di riferire “quel” determinato regime fiscale a “quella” determinata operazione avente le caratteristiche giuridicoformali indicate dalla norma. E ciò si risolve sostanzialmente – ripeto – in una petizione di principio, oltre che in un surrettizio superamento dell’affidamento alle indicazioni normative. Fondare il concetto di “elusione” nella assenza di valide ragioni economiche “extra-fiscali” conduce proprio a questo risultato. Obiezioni sostanzialmente simili mi sembra che possano muoversi anche alle posizioni assunte dalla Corte di Cassazione. Come è noto, la Suprema Corte ha abbandonato la linea argomentativa che aveva sviluppato nel 2005 e che si incentrava sulla nullità per difetto di cause o per causa 25 26 DOTTRINA illecita dei contratti conclusi per finalità fiscali (il riferimento era, in particolare, ai contratti “dividend washing” e “dividend stripping”)15. Oggi le posizioni sono diverse e si fondono sulla presunta valenza, come accennato, del principio di abuso del diritto affermato dall’Alta Corte di Giustizia in materia di IVA – segnatamene nel caso Halifax16 – anche ai fini della nostra legislazione interna. Da più parti sono state mosse ampie critiche sulla effettiva possibilità che tale principio, affermato per l’applicazione di disposizioni comunitarie, possa estendere la sua applicazione anche ai tributi non armonizzati17. Prescindendo comunque da questa questione, quel che mi preme semplicemente segnalare in questa sede è che il concetto di “abuso del diritto” che la Corte di Cassazione trae dalle conclusioni raggiunte dall’Alta Corte di Giustizia nel caso di Halifax, è tutt’altro che conforme a queste conclusioni. Come è stato efficacemente evidenziato in dottrina18, l’Alta Corte individua l’abuso in quelle operazioni che sono conformi all’“applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della VI direttiva e dalla legislazione nazionale che le traspone” e tuttavia conducono ad un vantaggio fiscale contrario “all’obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni”. Dunque, adotta un tipo di interpretazione molto simile a quello fatto proprio nella nostra legislazione dall’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 (ove interpretato – beninteso – nel senso sopra auspicato e conformemente al testo letterale della norma, non così come secondo la prassi dell’Amministrazione finanziaria). Non si intende, infatti, colpire qualsiasi vantaggio fiscale ma solo quelli non giustificabili in quanto contrari alla “ratio” dell’istituto fiscale di cui si invoca l’applicazione19. MolSi vedano le sentenze della Cassazione 21 ottobre 2005 n. 20398 e 14 novembre 2005 n. 22932 e, anche in merito alla successiva evoluzione, la nota di LOVISOLO, Il principio di matrice comunitaria dell’abuso del diritto entra nell’ordinamento giuridico italiano:norma antielusiva di chiusura o clausola generale antielusiva? L’evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte, in Dir. e prat. Trib, 2007, II, 723 e ss. 16 Corte di Giustizia, sentenza 21 febbraio 2006 nella causa C255/02, in GT, Riv. Giur. Trib.,n. 5/2006, 377. 17 Così, tra gli altri, SALVINI, L’elusione IVA nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corr. Trib. 2006, 3097e ss.; TESAURO, Divieto comunitario di abuso del diritto (fiscale) e vincolo da giudicato esterno incompatibile con il diritto comunitario, in Giur., It. 2008, 1029 e ss.; ZIZZO, L’abuso del diritto in GT, Riv. Giur. Trib., 2008, 465; GIANONCELLI, Abuso del diritto nelle imposte dirette, in Giur. It. 2008, 1297 e ss. 18 Cfr., al riguardo, BEGHIN, Note critiche cit., 473 e ss.; ZIZZO, L’abuso cit., 465. 19 In questo senso, la Corte di giustizia concepisce l’assenza di ragioni extrafiscali semplicemente come un indicatore della possibile esistenza di un abuso, il cui presupposto è costituito fondamentalmente 15 ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 to chiara in questo senso è l’affermazione di principio che l’Alta Corte fà secondo cui in nessun modo può essere impedito al contribuente di scegliere, fra regimi alternativi previsti dal legislatore, quello a lui più favorevole. La Suprema Corte di Cassazione invece traduce questo concetto di abuso nel senso di identificarlo, come accennato, sic et simpliciter nelle operazioni “compiute essenzialmente per il perseguimento di un vantaggio fiscale”, senza alcuna distinzione fra vantaggio legittimo e vantaggio non legittimo. Bisogna, dunque, dare atto che l’Alta Corte di Giustizia adotta una impostazione più garantista del principio di legalità nella determinazione della obbligazione tributaria di quanto non lo faccia la Corte di Cassazione che pur si pone come interprete di un diritto – quello domestico – che fa di tale principio un caposaldo costituzionale (art. 23 Cost.). 6. Il tema merita ancora una riflessione. È chiaro da quanto fin qui detto che la individuazione delle valide ragioni economiche “extra-fiscali” non è un aspetto essenziale per coloro che, come me, intravedono l’elusione o l’abuso del diritto in quegli atti ed operazioni che pur rispettando formalmente i canoni della fattispecie legale o tributaria realizzano effetti impositivi contrari alla loro “ratio” o finalità e per questo risultano non conformi alla corretta attuazione del principio di capacità contributiva. In effetti, la “ratio” “tradita” non sempre si coglie di primo acchitto; spesso più che di una singola “ratio” occorre parlare di diverse “rationes” in relazione ai vari sotto sistemi in cui si articola l’ordinamento tributario e questo può rendere più arduo il compito dell’interprete. Comunque, ove si aderisca a questa impostazione, la dimostrazione dell’esistenza di valide ragioni può eventualmente aver rilievo, caso per caso, come elemento sintomatico della bontà dell’operazione, laddove ci fossero dubbi sulla sua aderenza alla “ratio legis”, ma – ripeto – non è un punto focale per far scattare o meno la disciplina antielusiva. Per i sostenitori dell’altra impostazione, viceversa, la verifica dell’esistenza o meno delle valide ragioni economiche è un punto essenziale, anzi – per essere chiari – è l’unico elemento regolatore della fattispecie elusiva, dal conseguimento di un vantaggio contrario agli obiettivi della Direttiva. La valutazione della sussistenza delle ragioni economiche, cioè, rileva, in quanto – come si legge nella parte conclusiva della sentenza C255/02 “deve altresì risultare da un insieme di elementi obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale” in contrasto con il diritto comunitario. ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 l’unico canone normativo. E su quali siano queste valide ragioni economiche e come vadano individuate, si è sviluppata una letteratura tanto ampia quanto fantasiosa. Ad esempio, è stata negata dal Comitato antielusivo l’esistenza di queste valide ragioni economiche nell’ipotesi di una fusione societaria motivata dalla necessità di accorciare la catena partecipativa eliminando una subholding. Ciò in quanto, nella fattispecie, l’operazione realizzava un risparmio di costi del gruppo e dunque un interesse della società capogruppo in qualità di socio e non un interesse organizzativo-imprenditoriale delle società partecipanti alla fusione20. E ancora in tema di scissione non proporzionale è stato ravvisato un interesse meritevole di tutela (e dunque, l’operazione ha avuto riconoscimento ai fini fiscali) in una fattispecie in cui la scissione era volta a risolvere un conflitto gestionale insanabile della compagine sociale (si trattava nel caso di specie di fratelli)21, mentre, invece, queste ragioni non sono state ritenute valide, come abbiamo già visto, nell’ipotesi di scissione attuata per dividere il ramo industriale dell’azienda da quello immobiliare al fine di destinare l’uno alla vendita (in favore di compratori interessati ad acquisire solo tale ramo), continuando la gestione dell’altro22. E ancora è stata censurata una fusione perché la ragione economica più importante non era extrafiscale. L’operazione, infatti, interamente realizzata nella fattispecie fra società appartenenti al medesimo gruppo, mirava a rendere fruibili in compensazione da parte della società incorporante le perdite della società incorporata che erano in scadenza e che quindi rischiavano di divenire non più utilizzabili; e questa presa di posizione sulla presunta assenza di valide ragioni economiche è stata adottata ancorché fossero rispettate, nella fattispecie, le condizioni di vitalità e di patrimonializzazione previste dall’art. 172 del t.u.i.r. e, dunque, non si trattasse affatto di un commercio di bare fra imprese appartenenti a gruppi diversi23. In un altro caso similare il motivo era stato ravvisato nel fatto che le perdite appartenevano ad una holding che per effetto della riforma fiscale del 2003 non aveva più redditi imponibili24 (essendo stata introdotta la detassazione dei dividendi e delle plu20 Cfr. la nota 11. 21 Cfr. il parere n. 22 del 29 settembre 2004 del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive. 22 Si vedano, sul punto, i pareri del Comitato già ricordati nella nota 12. 23 In terminis, la risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 116 del 24 ottobre 2006 con nota di LUPISTEVANATO in Dialoghi di diritto trib. 2007, 110 e ss. 24 Così il parere del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive n. 2 del 19 gennaio 2005. DOTTRINA svalenze su partecipazioni) sicché l’operazione serviva a far transitare queste perdite sulla società operativa (figurante come incorporante nella fusione) per poter essere utilizzate in compensazione con il proprio reddito imponibile. E gli esempi potrebbero continuare. In definitiva, ci troviamo davanti ad una sorta di creazione del concetto di valide ragioni economiche affidate all’“estro”, di volta in volta, dell’organo accertatore o dell’organo giudicante. È chiaro, infatti, che se guardiamo all’archetipo civilistico di queste operazioni – archetipo che come abbiamo visto (par. 4) è stato preso espressamente a riferimento dal legislatore fiscale per regolarne il regime ai fini tributari – non c’è nessun motivo per distinguere una fusione realizzata per risparmiare i costi della catena societaria o per rendere più efficiente l’organizzazione produttiva della società operativa; così come non c’è alcun motivo per distinguere una scissione fatta per risolvere conflitti personali dei soci o per venire incontro alle esigenze di un acquirente interessato a un ramo di azienda e non all’altro. Si tratta di operazioni perfettamente valide e perfettamente coerenti – nell’uno e nell’altro caso – con la causa giuridico-formale del negozio di fusione e del negozio di scissione. Così come anche sotto il profilo fiscale non si riscontra neanche un “simulacro” di norma che canonizzi in un ottica, sia pur esclusivamente tributaria, il concetto di valide ragioni economiche. In definitiva, anche esaminando la questione sotto questa angolatura, appare chiaro che la tesi di ancorare l’accertamento dell’elusione – o dell’abuso del diritto, che dir si voglia – all’esistenza di valide ragioni extra-fiscale porta non solo a sconfessare il principio di legalità e di certezza del diritto che connota intimamente il nostro ordinamento giuridico e segnatamente il sistema tributario, ma la stessa democraticità dell’imposizione – valore, come accennato, di rilevanza anch’esso costituzionale – non potendo la determinazione dell’obbligazione tributaria essere affidata ad un’intuizione soggettiva, anche se risultasse di buon senso, di un verificatore o di un giudice. 7. Conclusivamente, possono formularsi le seguenti considerazioni: – non c’è dubbio che il nostro ordinamento fiscale, come gli ordinamenti degli altri stati, deve essere in grado di reagire ai comportamenti elusivi dei contribuenti, tanto più che questi comportamenti stanno assumendo forme e contenuti sempre più sofisticati; – è necessario, tuttavia, che questa reazione non si trasformi in una disapplicazione “ad nutum” delle regole impositive scritte, sulla base di giudizi soggettivi affidati all’amministrazione finanziaria o all’organo giudicante; 27 28 DOTTRINA – questo rischio è concretamente presente nell’impostazione interpretativa seguita dall’Amministrazione finanziaria, in sede di applicazione dell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 e in quella fatta propria recentemente dalla Suprema corte di Cassazione che ha ritenuto applicabile al nostro ordinamento interno il concetto di abuso di diritto di stampo comunitario, così come definito dall’Alta Corte di Giustizia e interpretato dalla stessa Cassazione; – entrambe le accennate posizioni convergono sul fatto che l’elusione o abuso del diritto è ravvisabile nelle operazioni poste in essere dai contribuenti mancanti sostanzialmente di valide ragioni economiche extra-fiscali; – questa tesi può compromettere non poco il principio di predeterminazione “ex lege” dell’obbligazione tributaria e, dunque, di certezza del diritto e di democraticità dell’imposizione, per almeno due ordini di considerazioni: innanzitutto, perché il nostro ordinamento fiscale è costellato di regimi alternativi in ragione delle diverse tipologie formali-giuridiche delle operazioni, sicché questa distinzione di trattamenti fiscali risponde ad una precisa scelta del legislatore che verrebbe sistematicamente disattesa sulla base di un ordine di considerazioni – il giudizio appunto sulle valide ragioni economiche – affidato “ex post” al verificatore o all’organo giudicante, ciò risolvendosi in una sorta di petizione di principio e di superamento dell’affidamento sulle indi- ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 cazioni della norma; e inoltre perché – aspetto, questo, strettamente connesso al primo – non esistono indicazioni normative e canoni ermeneutici sulla definizione di questo concetto di “valide ragioni economiche” sicché esso è rimesso caso per caso alla intuizione – a volte di buon senso, a volte no – del verificatore o dell’organo giudicante; – meglio sarebbe, dunque, ricondurre la individuazione dell’elusione o dell’abuso del diritto alla distinzione fra le scelte che il contribuente può lecitamente compiere perché rispondenti ad opzioni espressamente messe a disposizioni dal legislatore e quelle che, invece, non può compiere perché violano la “ratio” dell’istituto e degli istituti di cui si invoca l’applicazione. In particolare, occorre a questi fini analizzare il contenuto complessivo dell’operazione, che proprio perché elusiva si presenta di regola conforme alle applicazioni formali della norma, ma sostanzialmente produce vantaggi contrari ai suoi obiettivi. Questo approccio, d’altra parte, è in linea sia con esplicite prescrizioni dell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 (che pone riferimento all’aggiramento di obblighi e divieti per ottenere vantaggi altrimenti indebiti) sia con le indicazioni dell’Alta Corte di Giustizia che – diversamente dalla interpretazione che ne da la Corte di Cassazione – ravvisa l’abuso non in qualsiasi vantaggio fiscale ma in quello contrario, appunto, alla “ratio legis”. ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 DOTTRINA Profili Penal-Tributari dell’“Abuso di diritto” di Ivo Caraccioli Il tema dei rapporti tra “elusione fiscale” e reati tributari si è sempre posto in dottrina e giurisprudenza con la classica domanda: “fino a che punto si rimane nell’ambito dell’elusione, penalmente non sanzionabile, e da quale punto in poi si cade nel reato tributario, punibile”. Sotto la vigenza della precedente L. 516/82, poiché la frode fiscale (art. 4 lett. f ) richiedeva l’utilizzazione di documenti falsi ovvero altri comportamenti fraudolenti, in giurisprudenza alcuni importanti provvedimenti avevano sostenuto che le ipotesi prospettate (“dividend washing” e “dividend stripping”) non comportavano l’uso di documenti falsi e neppure atti fraudolenti, tutta la situazione risultando chiaramente dalla contabilità, dai contratti e dai bilanci, e pertanto non erano riconducibili ad alcuna fattispecie penalmente rilevante. La situazione è, peraltro, mutata con il D.Lgs. 74/00, il quale ha introdotto un nuovo reato (“dichiarazione infedele”: art. 4), privo di connotati frodatori e consistente nel mero occultamento,oltre date soglie quantitative, di componenti positivi di reddito, anche mediante indicazione di componenti negativi fittizi. Vi è quindi ora il rischio che i verificatori, in casi di questo genere, ossia di comportamenti genericamente ritenuti “elusivi”, presentino la denunzia alla Procura della Repubblica per tale reato, superandosi la soglia di punibilità. In proposito occorre, comunque, tenere presente il seguente importante dato sistematico: la fattispecie in esame richiede una soglia di punibilità “mista”, relativa sia all’entità dell’imposta evasa sia all’ammontare dei componenti di reddito sottratti all’imposizione. Pertanto non è sufficiente che il comportamento sia produttivo di evasione fiscale, ma occorre che tale risultato sia ottenuto mediante condotte che si risolvono in un vero e proprio occultamento di componenti di reddito1. In linea esemplificativa si possono, quindi, ritenere punibili i seguenti comportamenti: Ipotesi integranti il reato di dichiarazione infedele ai sensi dell’art. 4 D.Lgs. 74/2000: mancata registrazione a libro giornale di alcune fatture emesse; registrazione a libro giornale di fatture emesse per un importo inferiore a quello reale; plurima registrazione a libro giornale di documenti di spesa; registrazione a libro giornale di fatture ricevute per un importo superiore a quello reale; registrazione a libro 1 Si deve, di conseguenza, da parte dei contribuenti e dei professionisti, esigere che, nella prassi dei verificatori e degli Uffici, molto spesso ispirata ad ingiustificate preoccupazioni “cautelative”, tendenti ad inviare comunque la denunzia al P.M. (talvolta financo quando non sia accertato il superamento della soglia), essa venga presentata solo quando effettivamente risultano perfezionati tutti gli estremi del reato in esame, e non si tratti di mera evasione (od elusione) solo fiscalmente rilevante (con relativo recupero di imposta ed applicazione di sanzioni tributarie non penali). A tale conclusione si deve pervenire anche di fronte alle specifiche “clausole antielusive” di cui agli artt. 37 c. 3 e 37-bis D.P.R. 600/73, la cui violazione non importa automaticamente, per quanto detto, la realizzazione di un reato di dichiarazione infedele. Chiediamoci ora se l’impostazione sia destinata a mutare a seguito dell’applicazione in sede giurisprudenziale del nuovo istituto denominato “abuso del diritto”, per il cui esame specifico, e per la relativa casistica, si fa rinvio agli scritti in argomento. Poiché l’essenza dell’istituto attiene alla predisposizione di negozi c.d. ”indiretti”, collegati tra di loro, non aventi altro scopo che quello di ottenere un risparmio di imposta, è chiaro che l’attenzione del giudice penale si deve spostare su tale ulteriore profilo, nel senso di porsi la domanda se la mera adozione di contratti così qualificati dall’A.F. dia luogo a qualche reato. giornale di costi fittizi; indicazione nel quadro F del Modello Unico SC di fittizie variazioni extracontabili in diminuzione; indicazione nel quadro F del Modello Unico SC di variazioni extracontabili in aumento per importi inferiori al dovuto. Ipotesi non integranti il reato di dichiarazione infedele ai sensi dell’art. 4 D.Lgs. 74/2000: utilizzo di perdite di periodi d’imposta precedenti, qualora le stesse siano indicate in dichiarazioni regolarmente presentate; mancato adeguamento alle risultanze degli Studi di Settore; errata indicazione di dati rilevanti ai fini degli Studi di Settore; errata indicazione di dati rilevanti ai fini della determinazione del reddito minimo da società di comodo; mancata dichiarazione del reddito minimo da società di comodo; l’indicazione nel quadro N del Modello Unico SC di detrazioni non spettanti; indicazione nel quadro N del Modello Unico SC di crediti d’imposta non spettanti; errata indicazione di compensazioni d’imposta effettuate tramite F24. 29 30 DOTTRINA Quanto a quello di cui all’art. 4 D.Lgs. 74/00,esso sta e cade a seconda che nelle dichiarazioni redditi ed IVA si tengano comportamenti idonei ad occultare componenti positivi di reddito. Poco importa, quindi, sotto questo profilo, che il risultato in esame sia ottenuto mediante il ricorso a negozi indiretti o collegati, tale presupposto di fatto confluendo nel risultato finale della dichiarazione2. Si faccia, tra i tanti possibili esempi, il seguente: attraverso negozi indiretti e collegati, privi di qualsiasi scopo economico, si trasferiscono dei costi da una ad altra società dello stesso gruppo. Il giudice penale, indipendentemente dalla valutazione dei negozi, può pervenire a dimostrare, con strumenti di indagine propri, che gli elementi passivi in questione sono “fittizi”3. Non può, al contrario, essere chiamato in causa il più grave delitto di “dichiarazione fraudolenta” di cui all’art. 2 Va ricordato che, secondo qualche Autore, peraltro senza particolare approfondimento dell’argomento, la definizione di “imposta evasa” di cui all’art. 1 lett. f ) D.Lgs. 74/00 legittimerebbe la rilevanza penale dei fenomeni di “abuso del diritto”. Il ragionamento è sostanzialmente il seguente: l’art. 4 stesso D.Lgs. richiede il “fine di evadere le imposte”; la citata definizione fa riferimento alla “differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione”. Pertanto, rileverebbe ai fini penali qualunque differenza tra le due quantità, comunque ottenuta con riguardo a qualsivoglia regola di computo dell’imposta rilevante in diritto tributario, ivi compresa quindi l’applicazione della regola dell’”abuso del diritto”. Tale impostazione non pare, peraltro, accettabile, in quanto interpreta il concetto di “imposta dovuta” alla stregua delle norme tributarie, senza tener conto che, sulla base del principio del “doppio binario”, che caratterizza il settore, l’“imposta dovuta” stessa va ricostruita esclusivamente con i mezzi a disposizione del giudice penale, potendosi discostare dagli accertamenti compiuti dall’A.F., la cui destinazione è diversa da quella del processo penale. Pertanto, il fatto che l’imposta ritenuta dovuta in sede fiscale sia di un certo ammontare, in applicazione anche dell’abuso del diritto, non ha alcun valore in sede penale, dove il criterio medesimo – basato su un metodo sostanzialmente presuntivo con prova contraria, tipico del diritto civile e del diritto tributario – non ha diritto di cittadinanza. 3 Ipotizziamo ora il caso di un conferimento di azienda asseritamente elusivo, tendente a conseguire l’emersione di una plusvalenza destinata ad essere compensata con perdite fiscali entro la scadenza prevista dalla legge. In tale ipotesi è difficile ravvisare l’integrazione dell’elemento oggettivo della fattispecie di cui all’art. 4 cit., e ciò in quanto il presunto comportamento elusivo,ossia il conferimento di azienda, non comporta in alcun modo la presentazione di una dichiarazione, come si usa dire, ”sottomanifestante”, ma anzi presuppone la realizzazione di una plusvalenza. Alla medesima conclusione si deve pervenire nel caso l’applicazione della disposizione antielusiva si sostanzi in una mera “riqualificazione” della fattispecie impositiva. In tal caso, infatti, ben difficilmente il vantaggio fiscale indebito scaturente dall’inopponibilità degli effetti dei singoli atti viene configurato dall’A.F. in termini di occultamento di componenti positivi ovvero di esposizione di componenti negativi indeducibili della base imponibile. ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 3 stesso D.Lgs., sotto il profilo che la “costruzione” dei negozi indiretti sia “artificiosa”, in quanto il reato in esame richiede il c.d. ”falso contabile”, il quale, nel caso in esame, manca assolutamente, tutta la situazione emergendo con chiarezza dalla contabilità e dai bilanci. Parimenti apparirebbe infruttuoso il ricorso alla fattispecie comune della truffa aggravata (art. 640 cpv.n. 1 c.p.), di cui qualche volta superficialmente si sente parlare, in quanto è pacifico in dottrina che la materia penale tributaria costituisce un “sistema chiuso” nel quale non trovano ingresso le fattispecie penali comuni. DOTTRINA ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 Elusioni o forzature nell’applicazione dell’imposta di registro di Gianni Marongiu 1. L’occasione per una riflessione L’intento del presente lavoro è volto ad esprimere una motivata riflessione, nei limiti ovviamente delle mie personali possibilità, sul trattamento fiscale, ai fini dell’imposta di registro, di alcune operazioni che hanno dato luogo a contrastanti soluzioni delle diverse Commissioni tributarie. In breve si tratta di questo. Accade che una società “alfa” conferisce un suo ramo d’azienda (ad esempio di costruzione e vendita di immobili) alla società “beta”, conferimento che, in sede di registrazione, sconta le imposte fisse di registro, ipotecaria e catastale. Con un successivo atto la stessa società “alfa” cede a una terza società “gamma” la sua partecipazione nella società “beta”. Le Agenzie delle Entrate, invocando l’articolo 20 del dpr 131/1986 (Testo Unico dell’Imposta di Registro), riqualificano gli atti presentati per la registrazione come un’unica operazione di cessione di azienda da parte di “alfa” a “gamma” e contestando, così, l’autonomia dei singoli atti e attribuendo loro un unitario “effetto economico” nella considerazione, erronea, che i contribuenti avrebbero posto in essere gli atti con finalità asseritamente elusiva, liquidano e pretendono le relative imposte proporzionali: Questo essendo il caso da esaminare si osserva, preliminarmente, che esso pone questioni già delicate di per sé ma che lo divengono vieppiù perché sono affrontate in una prospettiva che tende a svalutare l’analisi del dettato legislativo e a rovesciare, senza un idoneo sostegno normativo, indirizzi interpretativi consolidati. 2. La ricognizione della norma applicabile Al riguardo è appena il caso di ricordare che la disciplina dei tributi è coperta dalla riserva di legge prevista dall’art. 23 della Costituzione. Ne consegue che l’amministrazione finanziaria, per esercitare i propri poteri, deve individuare una norma che li legittimi. Ebbene, nelle proprie deduzioni gli Uffici osservano che “gli avvisi con i quali si accettano e si liquidano i maggiori tributi principali trovano il loro fondamento nell’art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (significativamente la prima delle disposizioni contenute nel titolo terzo “Applicazione dell’imposta”) secondo il quale “l’imposta di registro è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrispondono il titolo o la forma apparente”. Su questa norma, in altre parole, si fonda la pretesa di legare più atti, di tassarli come un atto unico e di pretendere i relativi tributi. Si assume che l’art. 20, ora ricordato, sarebbe una norma antielusiva e si soggiunge, anzi, che essa sarebbe il sintomo dell’esistenza di una regola, di una clausola generale antielusiva. Ebbene, pare a chi scrive che palese sia la duplice forzatura perché l’art. 20 né è né può divenire una norma eccezionale antielusiva e tantomeno è il sintomo di un principio che non esiste e che solo il legislatore può introdurre. 3. Il significato dell’art. 20 della legge di registro L’art. 20, nel momento in cui sancisce che il tributo di registro colpisce l’atto in relazione al suo contenuto giuridico, ossia in relazione agli effetti giuridici che esso è idoneo a produrre, disciplina il principio generale cui deve uniformarsi l’operazione di interpretazione dell’atto sottoposto a registrazione allo scopo di individuare i criteri impositivi e la voce della tariffa applicabili. Orbene, alla stregua della disposizione testè richiamata, il regime fiscale applicabile ai fini del tributo di registro al singolo atto va ricercato avendo riguardo, precipuamente, al contenuto delle clausole negoziali e agli effetti giuridici prodotti dall’atto, indipendentemente dal nomen iuris attribuito dalle parti all’atto medesimo. Così, ad esempio, qualora dal contenuto giuridico dell’atto risulti che trattasi di conferimento di immobile dovranno applicarsi i relativi criteri impositivi, anche se in ipotesi l’atto sia intitolato “conferimento d’azienda”: e ciò in quanto, secondo il dettato normativo, prevale la 31 32 DOTTRINA effettiva sostanza giuridica emergente dal contenuto dell’atto sul nomen iuris (titolo o forma apparente) attribuito dalle parti all’atto stesso. Questo è ciò che deve e può fare l’interprete, tassare l’atto (quell’atto) secondo la sua effettiva sostanza e non secondo il mero “nomen”. Altro non può fare come emerge dalla significativa formulazione dell’art. 20. Si ricorda, infatti, che una norma analoga era contenuta anche nelle previgenti leggi di registro (cfr. l’art. 19, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634 e l’art. 8, r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269). In particolare l’art. 8 del r.d. n. 3269/1923 disponeva che “le tasse sono applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti o dei trasferimenti, se anche non vi corrisponde il titolo o la forma apparente”. Secondo la c.d. Scuola Pavese (che faceva capo a Benvenuto Griziotti) tale disposizione era espressione di un principio generale, secondo cui l’atto doveva essere assoggettato a tassazione secondo gli effetti economici da esso derivanti. Codesta tesi interpretativa (tesi che si sostenne negli anni “30”, “40” e “50”), già sconfitta in giurisprudenza, è stata esplicitamente ripudiata dal legislatore, il quale, nel formulare l’art. 20 del t.u. del registro, ha espressamente codificato il riferimento agli effetti giuridici dell’atto, già contenuto nell’art. 19, del d.P.R. n. 634/1972. In sintesi, se l’ufficio può e deve ricostruire, attraverso un’indagine complessiva dell’atto e delle relative clausole, la reale natura giuridica del medesimo – senza fermarsi all’intitolazione dello stesso e alla mera interpretazione letterale (così Cass. 7 marzo 1978, n. 1123; id. 16 ottobre 1980, n. 5563; id. 17 dicembre 1988, n. 6902) e senza essere vincolato da un’inesatta qualificazione operata dalle parti, e quindi dal nomen juris da esse attribuito all’atto – non può, invece, andare al di là della qualificazione civilistica e degli effetti giuridici desumibili da un’interpretazione complessiva dell’atto. Solo questa lettura dell’art. 20 T.U. rispetta i principi costituzionali della riserva di legge nell’individuazione del presupposto impositivo (art. 23 Cost.), della tutela dell’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), e del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.) e non a caso questa è l’interpretazione accolta dalla totalitaria dottrina (ex plurimis si vedano Uckmar-Dominici, Registro (imposta di), in Digesto discipline privatistiche, XII, Torino, 1999, p. 260; Santamaria, Registro (imposta di), in Enc. del dir., XXXIX, Milano, 1988, p. 542; Ferrari, Registro (imposta di), in Enc. giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991). Nell’esempio fatto la differenza tra vendita e conferimento di ramo di azienda è del tutto evidente sotto il ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 profilo civilistico, del diritto commerciale ed economico onde, se si operasse nel modo indicato dagli uffici, non vi sarebbe una puntuale qualificazione dell’atto (quella che si chiama la “riqualificazione”) ma la sostituzione della volontà delle parti con una presunta diversa volontà. Il che non può essere perché non è conforme alla legge. 4. L’irrilevanza di eventi successivi all’atto ed extratestuali Anche con riguardo alla rilevanza degli elementi extra-testuali, quali ad esempio gli eventi successivi alla stipulazione dell’atto ovvero il comportamento delle parti preferibile e preferita è l’opinione che esclude la rilevanza di codesti elementi, in quanto, alla stregua della norma in esame, assume rilievo esclusivamente l’atto sottoposto a registrazione. E non a caso questa è l’opinione preferita dalla dottrina (si vedano Ferrari, op. cit., p. 245 e Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, parte seconda, Padova, Cedam, 2002, p. 245) e della giurisprudenza (ex plurimis si vedano Cass. n. 4994/1991, in Giust. civ., 1991, I, p. 2280; Cass., n. 353/1990, in Rass. trib., 1990, II, p. 299, note; Cass. n. 2633/1983; Cass., n. 1123/1978). Ebbene, è agevole osservare che gli elementi cui gli uffici intendono dare valore per suffragare la propria pretesa (per la verità non sempre si capisce bene quali siano) sono tutti successivi o esterni all’atto e ai suoi effetti giuridici: un diverso atto? il trascorrere del tempo? Ne consegue che la tesi dell’Agenzia e di chi la dovesse esplicitamente condividere si pone in netto contrasto non solo con la formulazione dell’art. 20 ma con l’intero impianto della disciplina dell’imposta di registro così come intesa dalla dottrina, dalla giurisprudenza e da una prassi più che secolare. Occorre, infatti, considerare che, secondo la dottrina e la giurisprudenza assolutamente prevalenti, la qualificazione dell’imposta di registro come “imposta d’atto” preclude all’ufficio l’utilizzo di elementi extratestuali nell’attività di interpretazione dell’atto assoggettato a registrazione. Si parla di “imposta d’atto” per sottolineare il fatto che l’imposta colpisce l’atto e non il trasferimento, essendo, tra l’altro, pacificamente riconosciuto che, ai fini dell’applicazione dell’imposta, non rilevano le vicende (modificative, novative, revocatorie, ecc.) che gli effetti giuridici scaturenti dall’atto possono subire successivamente al suo perfezionamento. Addirittura non rileva la stessa nullità dell’atto (art. 38 T.U.), circostanza, questa, che dottrina e giurisprudenza, da sempre, valorizzano a supporto della natura dell’imposta di registro quale ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 “imposta d’atto”. Facendo applicazione dei medesimi principi, si è poi correttamente ritenuto che l’Ufficio non può far valere neppure la simulazione di un atto nell’esercizio della propria attività di interpretazione, ma deve, a tal fine, promuovere apposita azione giudiziale, essendo equiparato ai terzi ai quali l’art. 1415, comma 2, c.c., consente di far valere la simulazione con ogni mezzo di prova. Il divieto di interpretazione extratestuale dell’atto ai fini della registrazione è fondato, quindi, sulla natura stessa dell’imposta di registro, quale si desume dal sistema del testo unico che la disciplina, oltre che sulla disposizione dell’art. 20 T.U. 5. L’inesistenza di un supporto normativo alla tesi delle Agenzia delle entrate Vano appare, quindi, il tentativo di aggirare il disposto dell’art. 20 e la sistematica dell’imposta di registro quali che siano gli scopi più o meno nobili e l’interesse fiscale sotteso. In qualunque direzione si intenda procedere si riscontra che il supporto normativo della pretesa del fisco sfuma fino a liquefarsi. E invero, se si procede alla riqualificazione dell’atto sottoposto a registrazione intendendosi per tale l’attività consistente nell’individuare l’esatta natura giuridica rispetto a quella inesatta o falsa, utilizzata dai contribuenti erroneamente o artatamente, al fine di usufruire di un trattamento fiscale più vantaggioso, si rimane all’interno del perimetro dell’art. 20 della legge di registro. Se, invece, per tassare un atto si intendono legare fra loro più negozi, distinti e successivi nel tempo, questo tentativo, che è quello degli uffici, va ben al di là del principio della rilevanza dei soli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione. Questo approccio e la relativa pretesa, nella sostanza, con il riferimento alla “causa reale” degli atti e ad un presunto “intento negoziale oggettivamente unico” riprendono le motivazioni e gli obiettivi della vecchia teoria “economicistica”, esponendosi alle medesime critiche cui essa era stata sottoposta. L’indagine sulla natura economica degli effetti dell’atto si trasforma, inevitabilmente, in una ricerca soggettiva dei motivi delle parti, certamente non consentita e si pone, comunque, in insanabile contrasto con il precetto dell’art. 20 e delle norme costituzionali che ne costituiscono il fondamento. Non è certamente compatibile con la riserva di legge in materia tributaria una lettura creativa che pretenda di travalicare gli effetti giuridici, DOTTRINA cui fa espresso riferimento l’art. 20, per ricostruire una causa reale o una sostanza economica diversa. Le considerazioni svolte sono a tale punto convincenti (e lo scriviamo proprio perché non sono solo nostre ma sono mutuate da un costante, fermo insegnamento) che, nel tentativo di superare l’inequivocabile significato dell’art. 20, si è invocata del tutto genericamente, con frasi sibilline e non ancorate al dettato normativo, una supposta “funzione antielusiva” della interpretazione qui oppugnata. 6. La tassatività delle previsioni antielusive nella legge di registro e l’estraneità ad esse delle fattispecie ipotizzate Al riguardo è bene precisare che neppure la strada di ragionamenti “antielusivi” si rivela percorribile perché anch’essa è priva di qualsiasi supporto e ancoraggio normativo. È significativa la fumosità del linguaggio dell’amministrazione là dove scrive che “pur tenendo conto della peculiare natura dell’imposta di registro, sembra possa fondatamente configurarsi una ratio antielusiva della predetta norma, e cioè dell’art. 20”. Il legislatore dell’imposta di registro ha introdotto alcune norme volte a prevenire ed arginare fenomeni elusivi e a queste e solo a queste occorre attenersi. Proprio perché l’imposta di registro colpisce l’atto avendo precipuo riguardo al suo contenuto giuridico, nel presupposto che vi sia una corrispondenza tra il tipo contrattuale e il substrato economico dell’operazione, il legislatore ha avvertito l’esigenza di intervenire con apposite disposizioni per reprimere fenomeni di elusione, caratterizzati da una divergenza tra lo schema negoziale adottato dalle parti contraenti e gli scopi pratici da esse perseguiti, diversi ed ulteriori rispetto a quelli connaturati al tipo negoziale. Esaminiamo qui di seguito le disposizioni antielusive. a) Secondo il dettato dell’art. 26 i trasferimenti immobiliari posti in essere tra coniugi ovvero tra parenti in linea retta si presumono donazioni, se l’ammontare dell’imposta di registro e di ogni altra imposta dovuta per il trasferimento (imposte ipotecarie e catastali) risulta inferiore a quello delle imposte applicabili in caso di trasferimento a titolo gratuito. Nell’originaria formulazione l’art. 26 prevedeva una presunzione legale assoluta di gratuità. Con sentenza n. 41/1999 la Corte costituzionale ha, tuttavia, dichiarato l’incostituzionalità della norma con riferimento agli art. 3 e 53 cost. nella parte in cui escludeva la prova contraria di- 33 34 DOTTRINA retta a superare la presunzione di liberalità dei trasferimenti immobiliari. La disposizione mira ad evitare che le parti eludano l’applicazione dell’imposta sulle donazioni, ponendo in essere atti simulatamente onerosi, ma in realtà gratuiti. Allo scopo di impedire l’operatività della presunzione legale le parti devono specificare se fra loro sussista o meno un rapporto di coniugio o di parentela in linea retta. La presunzione di liberalità trova applicazione anche in relazione alle sentenze che accertano l’acquisto per usucapione della proprietà (o di altri diritti reali) su immobili. b) Ai sensi dell’art. 24 nei trasferimenti immobiliari le accessioni, le pertinenze e i frutti pendenti si presumono trasferiti all’acquirente dell’immobile salvo che siano espressamente esclusi dalla vendita ovvero si provi, con atto registrato, l’appartenenza ad un terzo. c) Nell’ambito delle misure antielusive si colloca anche la norma dettata dall’art. 32 per la dichiarazione di nomina effettuata oltre i tre giorni dalla data di stipulazione del contratto per persona da nominare. Alla stregua della disciplina civilistica, allorchè una delle parti contraenti si riserva di nominare successivamente la persona che acquista i diritti e assume gli obblighi scaturenti dal contratto, la dichiarazione di nomina deve essere comunicata all’altra parte entro i tre giorni successivi, salvo che le parti abbiano statuito un termine diverso (si cfr. gli art. 1401 e 1402 c.c.). Il legislatore tributario, al fine di evitare che, con il contratto per persona da nominare, un soggetto possa acquistare per sé e successivamente rivendere ad un terzo, facendo apparire in luogo del duplice trasferimento uno solo, ha stabilito che la dichiarazione di nomina in tutti i casi in cui sia effettuata oltre i tre giorni venga tassata con l’imposta stabilita per l’atto cui si riferisce la dichiarazione. d) Una ratio antielusiva ispira anche il disposto dell’art. 33, giusta il quale il mandato irrevocabile con dispensa dall’obbligo del rendiconto è soggetto all’imposta stabilita per l’atto per il quale è stato conferito. Così a titolo esemplificativo il mandato irrevocabile a vendere con dispensa dall’obbligo del rendiconto è assimilato ai fini dell’imposta in esame alla vendita, nel presupposto che esso dissimuli un trasferimento dal mandante al mandatario dei diritti cui si riferisce. e) Da ultimo, tra le misure antielusive va menzionato l’art. 62, a mente del quale “i patti contrari alle disposizioni del presente testo unico, compresi quelli che pongono l’imposta e le eventuali sanzioni a carico della parte inadempiente, sono nulli anche tra le parti”. La disposi- ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 zione in esame costituisce una applicazione particolare alla materia de qua del principio generale sancito dall’art. 1418 c.c., che sancisce la nullità dei contratti contrari a norme imperative. La rassegna svolta porta all’evidenza a due inesorabili conclusioni: in primo luogo che non esiste, nella disciplina dell’imposta di registro, una generale norma antielusiva; in secondo luogo che la fattispecie qui considerata non rientra in nessuna delle ipotesi previste esplicitamente dalla legge di registro. È significativo, del resto, che anche nel sistema dell’imposizione diretta una tale norma generale non esista tant’è che lo stesso art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, riguarda fattispecie ben determinate. Norma, quella dell’art. 37, ora ricordata, che certamente non è applicabile all’imposta di registro con la conseguenza che, non esistendo nessuna norma generale “antielusiva” nell’ordinamento tributario italiano, la conclusione è una sola e cioè che il tentativo, nel caso in esame, di ragionare in termini di “elusività” e “antielusività” è privo di fondamento giuridico. 7. L’arbitrarietà del collegamento tra più atti al di fuori dei casi tassativamente previsti (dalla legge di registro) All’identica conclusione deve pervenirsi ove si affronti il problema sotto un diverso profilo, quello che, muovendo dai ricordati principi, vale a constatare come una serie univoca di dati normativi depongono inequivocabilmente nel senso dell’irrilevanza del collegamento tra più atti distinti ai fini della determinazione dell’imposta, al di fuori dei casi tassativamente previsti. Si muova dall’art. 20 sopra ampiamente commentato e si proceda nella lettura del testo normativo. Innanzitutto, l’art. 21 T.U. è assolutamente chiaro nel condizionare la rilevanza del collegamento tra più disposizioni alla circostanza che le stesse siano contenute in un medesimo atto. L’art. 22 T.U., eccezionalmente, attribuisce rilevanza ad un precedente atto non registrato in virtù del meccanismo dell’enunciazione, ma solo nei limiti ivi previsti, al di fuori dei quali, evidentemente, non è consentito all’amministrazione operare. Analogamente, l’articolo 24, comma 2, T.U., assoggetta ad un determinato trattamento tributario il trasferimento delle pertinenze, solo se effettuato entro tre anni dal trasferimento dell’immobile al cui servizio le stesse sono destinate. Tutte queste disposizioni assumono una particolare importanza, ai fini sistematici, in quanto chiariscono DOTTRINA ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 l’intento del legislatore tributario, che – ai fini dell’imposta di registro – laddove ha voluto attribuire rilevanza a vicende estranee all’atto oggetto di registrazione, e in particolare al collegamento tra più atti, lo ha fatto espressamente. Le norme che attribuiscono rilievo, ai fini dell’imposta in esame, a tale collegamento sono quindi eccezionali, e non possono essere applicate oltre i casi da esse considerati. Il che è conforme, lo si ripete, ai principi costituzionali e in particolare alla riserva di legge in materia tributaria, che verrebbe agevolmente elusa attribuendo all’interprete il compito di ricostruire le condizioni e i limiti di rilevanza del collegamento negoziale. Del resto, tale compito sarebbe oltremodo arduo e condurrebbe a risultati non certo in linea con l’irrinunciabile esigenza di certezza del diritto in materia tributaria: basti pensare al profilo temporale e quindi all’intervallo di tempo che dovrebbe intercorrere tra i vari atti costituenti, secondo l’interpretazione criticata, la fattispecie complessa oggetto di tassazione. Si assume che uno degli elementi adducibili a favore dell’unitarietà della tassazione sarebbe il “breve” intervallo di tempo tra i due atti ma è facile replicare che se il tempo è elemento costitutivo della fattispecie tassabile il legislatore, e solo il legislatore può sancire quale è il “tempo” giuridicamente rilevante (un mese? un anno? una vita?). È certo che la mancata determinazione ad opera del legislatore non può essere supplita né dalla giurisprudenza né tanto meno dalla burocrazia finanziaria. 8. Conclusioni Deve, quindi, recisamente negarsi che l’ufficio possa far valere il collegamento ai fini dell’imposizione di registro, e quindi – interpretando l’atto sottoposto a registrazione unitamente ad altri atti ad esso collegati – tener conto di un presunto “effetto giuridico unitario”. Ciò che in realtà rileva, per escludere un tale potere dell’ufficio, non è tanto la distinzione tra unicità e pluralità di cause negoziali, come pure affermato da parte della dottrina e della giurisprudenza, ma piuttosto l’autonomia documentale dei singoli “atti” presentati alla registrazione. Alla luce di quanto precisato, appare agevole escludere la rilevanza, ai fini dell’imposta di registro, del collegamento esistente, nella fattispecie concreta, tra più atti. Oltre all’argomento della natura giuridica dell’imposta di registro quale “imposta d’atto”, e alla circostanza, decisiva, che laddove il legislatore ha inteso attribuire rilevanza al collegamento lo ha effettuato espressamente, stabilendone i presupposti anche temporali, va comunque evidenziato che l’effetto finale della fattispecie complessa come sopra realizzata non può essere assolutamente equiparato a quello della cessione dell’azienda, poiché nel patrimonio del terzo acquirente entra non già quest’ultima, bensì la partecipazione sociale con le ovvie differenze sia sotto il profilo civilistico che sotto quello tributario: la differenza degli effetti è talmente evidente da non necessitare di ulteriori spiegazioni. 35 36 DOTTRINA ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 Spunti di metodo in tema di “abuso del diritto” di Paolo Gentili Il tema dell’abuso dei diritto in materia fiscale viene solitamente proiettato sullo sfondo dei seguenti ordini di problemi: a) l’esistenza di un divieto generale di abuso del diritto in materia fiscale; b) il rapporto di tale ipotetico diritto con le nozioni di elusione e di evasione fiscale; c) le fonti, interne e comunitarie, di tale supposto diritto; d) il problema dell’autonomia negoziale e della certezza del diritto. Questa impostazione è condivisa sia dai fautori che dagli avversari della configurazione di una fattispecie generale di abuso del diritto. Tutti ragionano, più o meno, in questi termini: esistono alcune disposizioni specifiche (tipo art. 37 bis dpr 600/73 o art. 14 commi 4 bis e 6 bis dPR 917/86 vecchio testo) dalle quali si ricava che non sono fiscalmente riconosciuti gli effetti di talune operazioni (fusioni, scissioni, cessioni di aziende, costituzioni di usufrutto su azioni ecc.) allorchè avvengano in un contesto tale da far ritenere che esse non hanno altra finalità che il risparmio di imposta. Può trarsi da queste norme la conclusione che in generale è interdetto al contribuente porre in essere negozi giuridici i quali non abbiano altra finalità economica che il risparmio di imposta? E se sì, quali sono le conseguenze del comportamento difforme? E, sempre in caso di risposta positiva, attraverso quali passaggi pervenire ad applicare tali conseguenze? Nell’impostazione dell’argomento, che si diceva comune a fautori e negatori, il punto meno discusso è il primo: se cioè dall’esistenza di alcune norme speciali comunemente dette “antielusive” possa trarsi, teoricamente, una norma generale. Tra i negatori tendono infatti a divenire minoritari (non era così in passato) coloro che applicano il semplice criterio “ubi lex voluit dixit” e che quindi escludono radicalmente la possibilità di una norma generale antielusiva perché la scelta legislativa è stata nel senso di procedere per fattispecie tipiche, tassative e non estensibili per analogia iuris o legis. La maggior parte degli interpreti ammette dunque la possibilità teorica di pervenire ad una norma antielusiva. Le differenze, radicali e insanabili, iniziano però a questo punto. I negatori osservano che, se è ammissibile in teoria (perché rispondente ad un metodo codificato di interpretazione della legge) inferire da norme di specie un principio generale, nel nostro caso ciò non sarebbe concretamente possibile. Osterebbero alla costruzione del principio in questione altri principi, già sicuramente stabiliti nell’ordinamento e incompatibili con il nuovo che si vorrebbe introdurre: in particolare, si tratterebbe dei principi di autonomia negoziale e di certezza del diritto. Una volta che i contribuenti hanno posto in essere un negozio giuridico appartenente ad un tipo ammesso dal diritto privato, o anche un negozio atipico ammissibile, non si potrebbero escludere gli effetti di questo in forza di un suo non precisato né prevedibile rapporto di incompatibilità con il diritto tributario. Il riconoscimento di effetti garantito al negozio dal diritto privato, dovrebbe operare per ciò solo anche in tutti gli altri campi del diritto. Replicano i fautori che l’autonomia negoziale non è illimitata, poiché lo stesso diritto privato ne contempla limiti formulati secondo clausole aperte e indefinite: la nullità per illiceità dei motivi, o per frode alla legge, o per mancanza di causa in concreto costituirebbero altrettanti limiti riferiti ai singoli negozi stipulati nella realtà; limiti derivanti da concetti di cui non è prevedibile la concretizzazione in relazione a tali negozi e che divengono operanti solo dopo che di questi si siano potuti apprezzare in pratica gli effetti. Tra i riferimenti dai quali trarre casi di nullità del genere indicato ben potrebbe quindi includersi anche il diritto tributario. Il fine di sottrarsi a talune sue disposizioni dovrebbe entrare nella valutazione causale dei negozi. Si chiama a conferma il diritto comunitario, ove la giurisprudenza ha costruito la regola del “divieto di abuso del diritto comunitario” inteso come impossibilità di avvalersi di disposizioni tributarie agevolatrici di matrice comunitaria (per lo più nell’ambito dell’IVA) ponendo in essere negozi che abbiano come finalità unica o essenziale appunto lo sfruttamento di simili norme. Se si ammette questa possibilità, sorge poi controversia sulla qualificazione del fatto rappresentato dalla stipulazione di un negozio di diritto privato causalmente non ammissibile per ragioni tributarie. Ci si divide tra quanti lo considerano un fatto illecito, produttivo di ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 sanzioni, e quanti lo considerano una semplice situazione di inopponibilità del negozio all’amministrazione finanziaria. Questa seconda tesi viene, per la precisione, sostenuta da quanti, pur nel campo dei fautori, optano più che per la nullità da illiceità (nella quale è insita la violazione di un divieto, e con essa la sanzionabilità del comportamento), per la mancanza assoluta o relativa di volontà, cioè per la simulazione. Non mancano, poi, posizioni “miste” o intermedie, le quali combinano in vario modo le diverse prospettive qui sommariamente ricordate. Ho appunto ricordato tali prospettive per dare consistenza alla mia convinzione che perseverando con questa impostazione non raggiungeremo mai una soluzione generalmente condivisa, di cui si debba soltanto controllare la correttezza delle singole applicazioni. Credo che il vizio dell’impostazione stia nel metodo. Si parte dal presupposto per cui l’oggetto primario della valutazione giuridica da compiere è il negozio giuridico, e tale valutazione deve essere condotta come valutazione di diritto privato, cui il diritto tributario fornisce soltanto i riferimenti esterni. In pratica, è con criterio privatistico che si deve valutare, sempre, se un negozio giuridico sia, p. es., nullo per illiceità dei motivi. Le norme tributarie di cui il negozio intendeva, in tesi, evitare o limitare l’applicazione costituiranno per così dire l’innesco della verifica di liceità dei motivi, ma sarà il diritto privato (ossia l’insieme delle regole da questo elaborate in generale per applicare la regola della nullità per illiceità dei motivi) a determinare se quelle norme avessero una tale pregnanza da giustificare la qualificazione come illecito del motivo di eluderle. Questo aspetto è ancora più chiaro se ci si pone dal punto di vista della nullità per inesistenza dell’oggetto o della volontà (simulazione): è solo il diritto privato che può stabilire quale sia l’oggetto di un negozio al fine di valutarne la validità, o se un negozio apparente sottenda una volontà reale (e, in ipotesi, quale). In tutti questi casi, il diritto tributario fornisce insomma i materiali per una elaborazione che, però, è e deve essere prettamente di diritto privato. Come si diceva, questa è anche l’impostazione dei negatori della regola generale antiabuso, poiché essi fanno leva sui principi di autonomia negoziale e di certezza delle relazioni giuridiche private; quindi partono anch’essi dal negozio come termine principale del giudizio. Anche per essi la questione principale sta, in definitiva, nello stabilire se un determinato negozio giuridico possa o meno essere considerato produttivo di effetti. A mio avviso il vizio di impostazione deriva dal fatto che noi dobbiamo invece risolvere una questione pratica DOTTRINA che non è di diritto privato, ma di diritto tributario. Tutte le questioni reali in occasione delle quali sorge il dubbio se sussista e vada applicata una regola generale antiabuso sono infatti questioni nelle quali vi è controversia tra il contribuente e l’amministrazione circa l’operatività di una determinata norma tributaria (p. es. il credito di imposta sui dividendi, o la neutralità delle fusioni ecc.). Allora il punto di vista va rovesciato: bisogna partire dall’interpretazione della norma tributaria vista in sé, nella sua autonomia concettuale e, appunto, normativa, cioè nei suoi presupposti, nella sua ratio e nel suo significato dispositivo. Stabilita così la corretta interpretazione della norma tributaria di cui è controversa l’applicazione, si dovrà verificare se e con quali effetti sia possibile sussumere in essa il dato di fatto rappresentato dalla stipulazione di un certo negozio. Ritengo che, impostando l’argomento in questi termini, buona parte dei problemi che ho sopra ricordato possano essere superati come sostanzialmente inutili, e che si possano raggiungere conclusioni operative più agevolmente praticabili. Si deve considerare che la nozione di “abuso del diritto” già in termini di teoria generale forma oggetto, non di un divieto, cioè di una autonoma norma (o di un autonomo principio generale), quanto di un criterio interpretativo delle norme attributive di un diritto soggettivo. L’endiadi abuso del diritto non è scindibile sul piano logico, per cui non può concepirsi un “abuso del diritto come fattispecie astratta distinta dal diritto “abusato”. Al contrario, l’abuso è un elemento logico interno alla ricostruzione della fattispecie del diritto soggettivo: se non si muove da questa fattispecie, non è possibile configurarne l’abuso (e ciò è evidente); ma reciprocamente è del pari evidente che la configurazione dell’abuso concorre alla ricostruzione della fattispecie. I due termini non sono quindi separabili. In questa prospettiva, l’abuso identifica sinteticamente l’insieme di tutte le situazioni di fatto nelle quali si pretenda di applicare una norma attributiva di un diritto soggettivo andando oltre il presupposto oggettivo che costituiva la giustificazione di quella norma. Si vede quindi che il criterio dell’abuso non può riferirsi a tutti i diritti, ma solo a quelli “di pura creazione normativa”; creazione giustificata da un presupposto che colleghi tali diritti ad una fonte sovraordinata, di livello, quindi, innanzitutto costituzionale. In breve, dei diritti di immediata attribuzione costituzionale non può abusarsi. Si tratta di quei diritti (si pensi al diritto alla salute) che nella concretizzazione giurisprudenziale si sono poi venuti precisando come diritti “assoluti” o “incomprimibili”. Al più potrà rilevarne 37 38 DOTTRINA un esercizio imprudente (si pensi al diritto alla tutela giurisdizionale e alla lite temeraria), idoneo a generare responsabilità risarcitoria, ma mai l’inapplicabilità in concreto del diritto stesso (per restare all’esempio, la temerarietà della lite non comporta di per sè l’inammissibilità della domanda, cioè la negazione del processo). Venendo al campo tributario, si vede allora che l’area a cui riferire il criterio interpretativo dell’abuso (cioè l’abuso inteso come ricognizione del limite intrinseco assegnato al diritto soggettivo dal presupposto su cui si fonda la norma che lo attribuisce, e che trae da tale presupposto la propria giustificazione costituzionale), è quella dei diritti soggettivi riconosciuti al contribuente all’interno di un rapporto di imposta. Occorre che il rapporto di imposta si sia costituito, cioè che si sia realizzato il presupposto al ricorrere del quale nasce l’assoggettamento del contribuente ad obblighi di natura tributaria; e che all’interno di questo rapporto (in cui la posizione soggettiva fondamentale del contribuente è di soggezione ad obblighi) una norma attribuisca al contribuente, invece, dei diritti soggettivi; cioè configuri dei presupposti il cui effetto giuridico è la limitazione o l’esclusione degli obblighi “di partenza”. Il rapporto tra norma costitutiva del rapporto tributario e norma attributiva di un diritto al contribuente è quindi, tipicamente, un rapporto tra norma generale e norma eccezionale. E, del resto, anche sul piano dei fatti l’allegazione del presupposto della norma attributiva di diritti si pone, dal lato del contribuente, come il rilievo di un’eccezione in senso stretto, cioè come la deduzione di fatti modificativi o estintivi della pretesa fiscale. Si avrà dunque abuso tutte le volte in cui si pretenda di applicare un diritto soggettivo del contribuente all’interno del rapporto di imposta (si pensi, per esprimersi in sintesi, alle esenzioni, alle esclusioni, alle deduzioni, alle detrazioni, ai crediti di imposta) in situazioni di fatto concrete che non corrispondono al tipo astratto del presupposto assunto a propria base e giustificazione dalla norma attributiva del diritto. In tali situazioni concrete torna a produrre effetto il presupposto di instaurazione del rapporto tributario, cioè il presupposto da cui scaturiva l’obbligo del contribuente, cui la norma attributiva del diritto faceva eccezione. L’abuso deriva, insomma, dalla pretesa avanzata dal contribuente ad un diritto soggettivo in una situazione di non corrispondenza tra la situazione data in concreto e la situazione astrattamente presupposta dalla norma attributiva. Esso è, quindi, nozione totalmente oggettiva. Nell’indagare se un certo diritto del contribuente si pretenda applicabile oltre il limite del suo presupposto norma- ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 tivo, non debbono avere un ruolo necessario considerazioni di ordine soggettivo inerenti alla volontà del contribuente, cioè considerazioni inerenti principalmente alla qualificazione privatistica del negozio come valido o viziato. La volontà del contribuente sottostante, p. es., alla stipulazione di certi negozi giuridici come potrebbe essere l’usufrutto di azioni estero/Italia, potrà rilevare quale elemento utile, ma non indispensabile, della valutazione complessiva e oggettiva del fatto verificatosi e della sua corrispondenza al presupposto astratto della norma tributaria attributiva, nell’esempio, del diritto soggettivo al credito di imposta sui dividendi e alla deduzione delle quote di ammortamento del prezzo pagato per l’acquisto dell’usufrutto. Chiarito ciò, si vede allora che nella nozione di abuso così intesa rifluisce senza residui la nozione di elusione fiscale (è solo una preferenza lessicale usare l’una o l’altra espressione). L’elusione fiscale altro non è che l’impiego di una norma attributiva di diritti all’interno di un rapporto di imposta al di là dei presupposti assunti a propria base dalla norma stessa, in modo da vanificare, per il tramite di questa, l’applicazione della norma obbligante. Diverso è il concetto dell’evasione. L’evasione non comporta impiego “eccedente” (id est abusivo o elusivo) di una norma di eccezione alla norma da cui scaturisce l’obbligo. L’evasione è la violazione diretta di tale ultima norma. La relazione tra il comportamento concreto e la norma, in questo caso, non è una relazione di “regola/eccezione”, bensì di “osservanza/violazione”. Per configurare un caso di evasione, diviene allora determinante il riferimento ai profili soggettivi del comportamento del contribuente. Come ogni condotta illecita, l’evasione deve evidenziare una componente soggettiva intenzionalmente dolosa. La stipulazione di negozi simulati o fraudolenti costituirà quindi di regola una forma di evasione, mentre rimarrà estranea al tema dell’abuso e dell’elusione. Da questo punto di vista, l’accentuazione dei profili soggettivi dell’illecito tributario introdotta dal d. lgs. 472/97 rende più agevole la distinzione. Diverse sono anche le conseguenze: nel caso dell’abuso o elusione, la conseguenza sarà l’irrilevanza in concreto nei confronti del fisco, cioè l’inefficacia relativa, del fatto (astrattamente) costitutivo del diritto del contribuente (id est del fatto modificativo o estintivo della pretesa fiscale). In quanto eccedente il presupposto, tale fatto non sarà costitutivo del diritto vantato dal contribuente. Nel caso dell’evasione, la conseguenza sarà la sanzione. Si vede quindi, in definitiva, che il tema dell’abuso o dell’elusione è estraneo al tema dell’autonomia negoziale e della sua sindacabilità da parte dell’amministrazione o ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 del giudice tributari. L’accertamento propriamente da compiere in questi casi è di natura, come si diceva, strettamente oggettiva; e, deve ora aggiungersi, autonomamente tributaria. Si deve, in altri termini, costruire secondo criteri ovviamente tributari la fattispecie della norma (tributaria) attributiva di diritti (si pensi alle norme sulla deduzione dei costi di acquisto di un diritto di usufrutto di azioni, e alle norme sul credito di imposta sui dividendi derivanti da queste ultime); e verificare se vi sia corrispondenza tra questa ricostruzione e il fatto concretamente verificatosi. Non hanno quindi particolare importanza indagini sulla validità negoziale degli atti posti in essere, cioè sulle possibili cause di nullità che possano colpirli. Dal punto di vista civilistico tali atti possono anche essere considerati perfettamente validi. Ciò che rileva è la loro autonoma valutazione tributaria. In questo quadro, allora, l’indagine sulla finalità economica dell’atto e sulla sua razionale connessione con una normale gestione dell’impresa assume un valore centrale. Il criterio dell’insussistenza di valide ragioni economiche, in quanto criterio puramente oggettivo ed espressivo della ragione astratta (del presupposto) per cui la norma tributaria attribuì un certo diritto soggettivo al contribuente, consente di operare questa valutazione strettamente tributaria. Tutto ciò risolve le questioni concernenti la fonte normativa da cui dedurre il limite costituito dall’abuso. Il parametro alla cui stregua valutare se un fatto concreto si sia contenuto o abbia ecceduto il presupposto della norma attributiva di diritto è il principio costituzionale della capacità contributiva; principio che regge tanto le norme tributarie “di obbligazione” quanto quelle “di esonero”. Il rapporto di imposta, cioè l’assoggettamento del contribuente ad obblighi di natura tributaria, può avvenire soltanto se il presupposto di instaurazione del rapporto sia un fatto espressivo di capacità contributiva. La norma può quindi attribuire, in via di eccezione, un diritto soggettivo al contribuente all’interno di un rapporto di imposta, così da rendere inoperante l’obbligo, solo qualora identifichi fatti o situazioni non espressive di capacità contributiva, o meritevoli di agevolazione. Dove il fatto concreto faccia emergere che la capacità contributiva persiste, o che non vi è meritevolezza dell’agevolazione, deve riespandersi la norma generale portante l’obbligo di imposta. Esemplificando, se un imprenditore pone in essere la tipica operazione di “dividend washing” (per stare ad uno dei casi che ha originato la svolta giurisprudenziale su cui stiamo riflettendo), cioè un’operazione nella quale egli acquista delle azioni da un fondo di investimento DOTTRINA pagandole al lordo del valore del dividendo di cui è già stata deliberata la distribuzione, e le rivende al medesimo fondo il giorno successivo, quando la distribuzione è avvenuta, e a questo punto ovviamente lo fa per un prezzo al netto del valore del dividendo, quell’imprenditore pone in essere un’operazione priva di ragionevole connessione economica con qualsiasi sana gestione dell’azienda poiché ha programmato un’operazione di acquisto/rivendita necessariamente in perdita e quindi non collegabile a obiettive ragioni aziendali. È allora evidente che a quell’imprenditore vanno negati la deduzione della perdita così evidenziata e il credito di imposta sui dividendi riscossi. Le norme (di eccezione all’obbligo di imposta sul reddito) che accordano la deduzione dei costi presuppongono infatti che si tratti di costi collegabili alla razionale gestione dell’azienda (questo è il significato proprio del principio di inerenza, che costituisce la vera giustificazione costituzionale della deducibilità dei costi, molto più che non il principio di tassazione in base a bilancio, visto che in sé anche un costo può, dal punto di vista autonomamente tributario, costituire una manifestazione di capacità contributiva, come dimostra il caso dell’Irap; sicchè la mera appostazione di esso a conto economico non ne giustifica solo per ciò la deduzione). Una perdita derivante da un’operazione che strutturalmente non poteva non produrla non è quindi “inerente” nel senso ora precisato. Allo stesso modo, la disposizione che accordava il credito di imposta sui dividendi onde prevenirne la doppia imposizione economica in capo alla società distributrice a al socio percettore, presupponeva che il contribuente avesse acquistato una partecipazione perché lo riteneva conveniente dal punto di vista economico. Questa valutazione di convenienza economica non doveva, nell’apprezzamento della norma tributaria, essere influenzata negativamente dal pericolo della doppia imposizione economica, che avrebbe potuto dissuadere dal compierla; sicchè la tassazione dei dividendi doveva essere resa neutra attraverso il credito di imposta. Se questo era, come era, il presupposto di giustificazione costituzionale del diritto soggettivo al credito di imposta sui dividendi, evidentemente esso non poteva operare qualora la partecipazione fosse stata acquisita scientemente in perdita, cioè senza alcuna valutazione di convenienza, talchè il solo significato economico dell’operazione potesse rinvenirsi, appunto, nel credito di imposta sui dividendi. Se, in altre parole, si ammettesse il credito di imposta in un caso come il “dividend washing”, ciò implicherebbe leggere la norma attributiva di tale diritto non come se dicesse: “chi acquista una partecipazione azionaria in base 39 40 DOTTRINA ad una valutazione di convenienza di tale operazione ha diritto alla neutralizzazione fiscale dell’operazione stessa tramite un credito di imposta, in modo che la valutazione economica di convenienza dell’operazione non sia alterata dal pericolo di una doppia imposizione economica dei dividendi nel passaggio dell’utile dalla società che lo produce al socio che lo percepisce”; ma come se dicesse, né più né meno: “ha diritto al credito di imposta sui dividendi chi ha diritto ai dividendi”. Ma ciò priverebbe il diritto al credito di imposta della sua giustificazione costituzionale. Infatti percepire dividendi, sia pure su un utile già tassato in capo alla società distributrice, costituisce comunque una manifestazione di capacità contributiva (se non altro perché esprime la decisione dei soci di appropriarsi individualisticamente dell’utile anziché accantonarlo a riserva favorendo l’autofinanziamento della società). Per cui la neutralizzazione fiscale della percezione di un dividendo può essere giustificata solo se si postula un presupposto ulteriore e sostanziale rispetto al mero dato formale della delibera di distribuzione del dividendo stesso. In questo caso sono quindi ragioni oggettivamente economiche e giuridico tributarie (alla luce delle basi giuridiche costituzionali della normativa fiscale tanto di imposizione che di esonero) le quali conducono a negare i diritti soggettivi reclamati dai contribuenti. Non occorre affatto interrogarsi, invece, sulla validità negoziale o sulla realtà o simulazione del collegamento negoziale acquisto/rivendita di partecipazioni azionarie in cui si compendia il “dividend washing”. È anzi evidente, a mio avviso, che questo collegamento negoziale alla stregua del diritto privato è valido, reale ed efficace. Soltanto che non centra il bersaglio del presupposto delle norme tributarie di esonero (deduzione della perdita; credito di imposta) che aveva di mira. Considerazioni del tutto analoghe possono farsi a proposito dell’operazione di usufrutto di azioni estero/Italia o “dividend stripping”. Anche qui vengono in esame le norme sulla deduzione delle quote di ammortamento del prezzo di acquisto dell’usufrutto e sul credito di imposta. Anche qui va rilevato che non può competere deduzione dell’ammortamento per l’acquisto di una partecipazione avvenuto attraverso un contratto palesemente antieconomico (cioè non “inerente” nel senso pregnante dell’inerenza sopra precisato). È infatti antieconomico anticipare per intero e in contanti al proprietario delle azioni senza scontare alcun interesse da “attualizzazione” i dividendi sperati per i successivi tre anni; e ottenere in cambio il mero diritto a riscuotere i dividendi stessi anno per anno, lasciando al proprietario stesso (ben poco “nudo”) il potere di gestire la società partecipata e di deliberare (attra- ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 verso il conservato diritto di voto) se e in quale misura distribuire dividendi (sempre che vi sia utile), riservando all’usufruttuario il solo diritto di recedere dal contratto se la delibera di distribuzione non lo soddisfi, ma senza prevedere neppure alcuna garanzia reale o personale, in tal caso, del pagamento in restituzione del prezzo pagato per acquistare l’usufrutto. Soltanto il credito di imposta sui dividendi dà un senso economico ad un simile “suicidio”; ma si è visto che il credito di imposta non può giustificarsi con se stesso. Anche qui, si coglie con nettezza (salvi i casi di preordinazione fraudolenta, che se dimostrati costituiranno forme di evasione punibile) la superfluità della discussione se il contratto costitutivo dell’usufrutto sia reale o simulato; se sia simulato assolutamente o relativamente (in quest’ultimo caso, in rapporto ad un presunto contratto di negoziazione del credito di imposta di cui dovrebbe poi ulteriormente costruirsi l’illiceità); se sia valido o nullo per mancanza di oggetto o di causa, e ciò in relazione ad un contratto di per sé atipico o a causa variabile come è quello avente per oggetto l’usufrutto di azioni. Ciò che conta è solo che ad un’analisi economica e giuridico tributaria oggettiva e sostanziale il “dividend stripping” si dimostra del tutto eccentrico rispetto alle norme sulla deduzione delle quote di ammortamento e sul credito di imposta sui dividendi. Se si condivide che il problema va affrontato dal punto di vista costituzionale e tributario, diviene, infine, superflua non solo la discussione in chiave “privatistica” dei casi di abuso o elusione, ma anche la discussione sulle implicazioni comunitarie di essi. Dal diritto comunitario si può trarre, però, una conferma che il problema è reale e che va impostato come qui ho proposto. Non mi riferisco tanto alla giurisprudenza in tema di IVA tipo “Halifax” e séguiti (che pure adotta una logica tutta fondata sulla ratio oggettiva e autonomamente tributaria delle norme di esonero, mentre si disinteressa completamente della qualificazione privatistica dei negozi), quanto ad un dato normativo. L’art. 11 n. 1 della direttiva 90/434/CEE sulla neutralità fiscale delle fusioni dispone, come si sa, che “Uno Stato membro può rifiutare di applicare in tutto o in parte le disposizioni dei titoli II, III e IV o revocarne il beneficio qualora risulti che l’operazione di fusione, di scissione, di conferimento d’attivo o di scambio di azioni: a) ha come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione fiscale; il fatto che una delle operazioni di cui all’articolo 1 non sia effettuata per valide ragioni economiche, quali la ristrutturazione o la razionalizzazione delle attività delle ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 società partecipanti all’operazione, può costituire la presunzione che quest’ultima abbia come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione fiscali …”. Questa norma ha una grande importanza sistematica perché contiene il riconoscimento che nel diritto tributario comune agli Stati membri l’insussistenza di valide ragioni economiche di un’operazione costituisce il presupposto per disconoscerne le pretese conseguenze esonerative da obblighi fiscale: infatti il diritto comunitario, nel momento in cui, sovrapponendosi alla sovranità degli Stati in materia di imposte sul reddito, impone la neutralità fiscale delle fusioni (cioè, in concreto, la non tassabilità delle plusvalenze emerse in queste occasioni), tuttavia precisa che tale imposizione non ha il significato di comportare che le fusioni siano fiscalmente neutre per così dire “a prescindere”, cioè per il solo fatto di essere state effettuate. Al contrario, il diritto comunitario prende atto che nel diritto degli Stati membri un’operazione può comportare esonero fiscale soltanto se conforme al presupposto economico della norma che lo prevede (cioè “la ristrutturazione o la razionalizzazione delle attività delle società partecipanti all’operazione”), mentre la medesima operazione non comporta tale esonero se economicamente difforme dal presupposto; e dichiara che ciò vale anche se la norma di esonero trae la propria fonte dal diritto comunitario. L’art. 11 ha quindi un valore ricognitivo della effettiva situazione normativa costituzionale e tributaria sussistente negli Stati membri a proposito del problema dell’abuso fiscale. I punti 44 e 45 della sentenza Kofoed, allorché alludono, da un lato, ad una “situazione normativa generale” interna ai singoli Stati membri che possa valere come conformazione implicita all’art. 11, e, dall’altro, alla possibilità di dare del sistema normativo interno un’interpretazione “conforme” all’art. 11 anche a prescindere da norme espresse di recepimento, mi sembra che confermino questa ricognizione. A questo riguardo porto un esempio, proveniente da una questione pregiudiziale di recente sollevata presso la Corte di giustizia dalla Corte di cassazione olandese (causa C-352/08). La decisione di rinvio pregiudiziale (non pubblicata) riferisce di una complessa operazione che può sintetizzarsi nei seguenti termini: 1. La società A possiede un immobile commerciale, distinto dal numero civico 19, adibito a negozio di vendita di abbigliamento. Tale attività costituisce l’oggetto della società. La società B possiede l’immobile contiguo (distinto dal numero civico 17), utilizzato anch’esso dalla società A, tramite una locazione, per l’esercizio della DOTTRINA suddetta attività di vendita di abbigliamento. Oggetto della società B è la mera gestione di immobili, e non il commercio di abbigliamento. Le azioni della società A sono possedute, tramite una holding, da una persona fisica (“il figlio”) che è figlio delle persone fisiche (“i genitori”) che possiedono le azioni della società B. 2. Le parti intendono realizzare le seguenti operazioni. La società A conferisce l’immobile n. 19 alla società B. Questa emette azioni che assegna alla società A. I genitori attribuiscono alla società A un’opzione per l’acquisto delle azioni della società B in loro possesso. Una volta che A sia venuta in tal modo in possesso della totalità delle azioni di B, è prevista una fusione di B in A. Il risultato finale dell’operazione è che nella società A, totalmente posseduta dal figlio, si riunirà la proprietà dei due immobili commerciali nn. 17 e 19, che la medesima società utilizza per svolgere l’attività di vendita di abbigliamento. 3. La prospettata fusione sarebbe esente da imposizione sul reddito della società B, in particolare per quanto riguarda le plusvalenze che ne emergerebbero. La legge olandese sull’imposta sulle società è infatti perfettamente modellata, anche per i rapporti puramente interni (come quello di cui alla causa principale), sulla Direttiva 434/90/CEE, che esenta da tassazione sulle plusvalenze le operazioni di fusione transfrontaliere. In base al Decreto di attuazione delle imposte sugli atti giuridici, non dovrebbe neppure applicarsi alcuna imposta sul trasferimento degli immobili n. 17 da A a B, e n. 19 da B ad A (trasferimento, quest’ultimo, insito nella fusione di B in A). La decisione di rinvio non chiarisce, ma è probabilmente così, se l’esenzione da imposta sul trasferimento derivi dal recepimento nell’ordinamento olandese della Direttiva 69/335/CEE. 4. La decisione di rinvio invece chiarisce che se la riunione dei due immobili nn. 19 e n. 17 in A fosse avvenuta semplicemente con la vendita del n. 17 da B ad A, o con la cessione ad A da parte dei genitori delle loro azioni di B, queste due operazioni avrebbero sempre comportato il pagamento dell’imposta sul trasferimento. 5. La decisione di rinvio chiarisce ancora che lo scopo pratico perseguito da tutte le parti era riunire nella società del figlio la proprietà complessiva degli immobili utilizzati dall’impresa di questo, proprietà che era divisa tra il figlio (per il n. 19) e i genitori (per il n. 17). 6. Tracciato questo quadro, la decisione di rinvio rileva che il conferimento dell’immobile n. 19 da A a B poteva apparire privo di scopo commerciale, visto che la finalità perseguita dalle parti era opposta, e cioè concentrare in A (ossia nel figlio) la proprietà dei due immobili. Per cui l’impiego del conferimento del n. 19 da A a B, 41 42 DOTTRINA remunerato con azioni emesse da B e assegnate ad A., serviva in sostanza, combinato con l’opzione concessa dai genitori ad A, soltanto allo scopo di predisporre la successiva fusione di B in A; e questa a sua volta serviva a far passare il n. 17 da B ad A senza pagare imposte sul trasferimento. In ogni altro caso, sarebbe stato inevitabile il pagamento dell’imposta sul trasferimento, tanto che venisse trasferito direttamente l’immobile n. 17, quanto che venisse trasferito il pacchetto azionario detenuto in B dai genitori. La finalità essenziale della fusione era quindi, plausibilmente, il risparmio dell’imposta sul trasferimento. Il giudice del rinvio si è chiesto allora se a questa fattispecie possa applicarsi l’art. 11 n. 1 lett. a) della Direttiva 434/90/CEE. L’imposta sul trasferimento, osserva il giudice del rinvio, “non fa parte delle imposte il cui prelievo non deve aver luogo in forza della Direttiva in caso di una fusione societaria”. Tali imposte sono quelle sulle plusvalenze, cioè sul reddito, mentre la Direttiva non si occupa dell’imposta sul trasferimento. L’elusione di questa imposta può, allora, condurre al disconoscimento dell’esenzione delle plusvalenze? Sarà interessante conoscere la risposta della Corte di giustizia, che dovrà necessariamente chiarire quale estensione si attribuisca, dal punto di vista comunitario, al riconoscimento del “limite dell’abuso” presente nei diritti degli Stati membri. Ma ciò che è già significativo e che merita di essere qui sottolineato è che il giudice nazionale ha rilevato che l’operazione di fusione posta in essere nella fattispecie, benché potesse astrattamente rientrare nel presupposto dell’esonero da tassazione delle plusvalenze emerse in sede di fusione perché oggettivamente tendeva a concentrare nella società del figlio entrambi gli spazi commer- ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 ciali utilizzati dalla sua azienda, in realtà ne esulava perché era più complessa del necessario: essa infatti “iniziava” con una cessione di azienda dalla società del figlio a quella dei genitori, cioè con un’operazione di concentrazione esattamente inversa a quella programmata come fine ultimo dagli interessati. Questo passaggio strutturalmente ed economicamente non necessario aveva soltanto una spiegazione fiscale, riferita all’imposta sul trasferimento. In questo quadro potrebbe allora trovare nuovamente campo l’imposizione della plusvalenza che l’operazione “non necessaria” aveva fatto emergere. Il giudice olandese, insomma, non dubita della realtà e validità negoziale degli atti posti in essere per realizzare l’operazione. Nel preciso resoconto della causa principale che si legge nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale, non si rinviene alcuna considerazione circa la qualificazione privatistica di tali negozi, che appare scontata e come un argomento del tutto estraneo alla valutazione del caso che il giudice compie. L’impostazione della questione è tutta e soltanto basata sulla ricognizione dello scopo economico perseguito dalle parti e del rapporto di congruità o incongruità strutturale ed economica degli atti posti in essere rispetto a tale scopo. Atti non congrui non possono fruire dell’esonero perché questo non è concesso in considerazione degli atti visti in sé, ma di un presupposto economico “esterno” che lo giustifica (favorire le concentrazioni aziendali) e dà, solo esso, senso alla norma. In conclusione, credo che l’impostazione qui proposta possa meglio assicurare la costituzionalità complessiva del sistema impositivo e, insieme, la certezza del diritto per gli operatori, i quali di regola non avranno difficoltà a percepire i casi in cui il rapporto di congruità tra fini perseguiti e mezzi giuridici usati divenga critico alla stregua di un criterio di normalità economica. ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 LEGISLAZIONE Circolare Agenzia Ent. Dir. Centr. Normativa e contenzioso 13-12-2007, n. 67/E OGGETTO: Corte di Giustizia delle Comunità Europee – Sentenza del 21 febbraio 2006, causa C-255/02 – IVA – Comportamento abusivo – Operazioni realizzate al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. 1. Premessa Con sentenza del 21 febbraio 2006, emessa nella causa C-255/02, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha preso in esame – ai fini della verifica della compatibilità con la normativa comunitaria in materia di imposta sul valore aggiunto – una serie complessa di operazioni, collegate tra loro, poste in essere da diversi soggetti al fine di fruire di determinati vantaggi fiscali altrimenti non conseguibili. 2. La controversia principale e le questioni pregiudiziali sollevate La domanda di pronuncia pregiudiziale, avente ad oggetto l’interpretazione della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE1, ha tratto origine da una controversia tra alcune società inglesi2 e i Commissioners of Customs & Excise per aver questi ultimi respinto le domande di recupero ovvero di detrazione dell’IVA presentate dalle società medesime nell’ambito di un piano di riduzione del carico fiscale del gruppo. In particolare, un istituto bancario inglese intendeva effettuare lavori di costruzione di alcuni immobili su terreni di proprietà o in locazione; tuttavia, essendo la maggior parte delle proprie prestazioni “attive” (servizi bancari e finanziari) in regime di esenzione da IVA, lo stesso istituto avrebbe potuto recuperare sui lavori direttamente ad esso fatturati soltanto una parte minima dell’imposta assolta su tali lavori (meno del 5 per cento). 1 Attualmente direttiva n. 2006/112/CE del 28 novembre 2006. 2 Halifax plc, Leeds Permanent Development Services Ltd e County Wide Property Investments Ltd. I medesimi principi sono stati affermati dalla Corte di Giustizia nelle sentenze emesse, nella medesima data del 21 febbraio 2006, nella cause C-419/02 (BUPA Hospitals Ltd e Goldsborough Developments Ltd) e C-223/03 (University of Huddersfield Higher Education Corporation). L’istituto bancario ha elaborato un piano che consentiva, attraverso una serie di operazioni che coinvolgevano diverse società controllate (alle quali l’istituto medesimo forniva la relativa provvista), di recuperare in pratica integralmente l’IVA assolta a monte sui predetti lavori di costruzione. In sostanza, mediante una serie di contratti e di subappalti i predetti lavori erano stati affidati dall’istituto bancario a società controllate operanti in regime di imponibilità e con diritto alla detrazione, e da queste – a loro volta – affidati a terzi costruttori indipendenti; tuttavia, il pagamento dei lavori risultava imputabile (ai diversi livelli) allo stesso controllante, il quale in sostanza finanziava l’operazione complessiva attraverso la concessione di prestiti alle proprie controllate. L’amministrazione finanziaria del Regno Unito ha contestato ai predetti soggetti di aver posto in essere le diverse operazioni al solo fine di recuperare l’intero importo dell’IVA sui lavori e non solamente la quota parte che sarebbe stata recuperabile dall’istituto bancario in base al proprio pro-rata di detraibilità; a parere del fisco britannico l’analisi delle operazioni nel loro complesso mostrava che – nella sostanza – era stato l’istituto bancario ad ottenere prestazioni edilizie dai costruttori indipendenti e poteva quindi recuperare l’IVA su questi lavori solo nella misura della sua ordinaria percentuale di recupero. Nell’ambito del contenzioso insorto, i giudici nazionali hanno sottoposto alla Corte di Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali: • se un’operazione possa essere considerata una “cessione di beni” o “prestazione di servizi” ovvero possa essere considerata un atto compiuto nell’ambito di un’“attività economica” ai sensi della sesta direttiva qualora sia condotta al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale, senza un autonomo obiettivo economico; • se, in conformità al generale principio dell’ordinamento comunitario che impone di prevenire abusi del diritto, le operazioni condotte ai soli fini dell’evasione dell’IVA non devono essere prese in considerazione, applicando, invece, alle operazioni medesime la sesta direttiva secondo la loro vera natura. 43 44 LEGISLAZIONE 3. La sentenza della Corte di Giustizia Prima di passare ad una compiuta disamina del contenuto della sentenza in esame e dei possibili riflessi sull’operato dell’amministrazione finanziaria, si richiamano brevemente le conclusioni assunte dai giudici comunitari. In ordine alla prima questione, la Corte di Giustizia – dopo aver rilevato che la sesta direttiva stabilisce un sistema comune dell’IVA basato, in particolare, su una definizione uniforme delle operazioni imponibili – ha precisato, facendo ampio richiamo a precedenti giurisprudenziali, che l’analisi delle definizioni delle nozioni di soggetto passivo, di attività economiche nonché di “cessioni” e “prestazioni” ne mette in rilievo l’ampiezza della sfera d’applicazione ed il carattere obiettivo; tali nozioni, quindi, devono essere applicate “indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui trattasi”. Ne consegue, secondo la Corte, che al fine di stabilire se una operazione costituisca una cessione di beni ovvero se una prestazione di servizi è un’attività economica ai sensi degli articoli 4 e seguenti della sesta direttiva, non rileva il fatto che la stessa sia posta in essere al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale, senza altro obiettivo economico, bensì che risultino soddisfatti i criteri oggettivi sui quali le predette nozioni sono fondate. La Corte ha poi preso posizione – negandolo sulla base della corretta interpretazione della sesta direttiva – in ordine al diritto del soggetto passivo di detrarre l’IVA assolta a monte nelle ipotesi in cui le operazioni che hanno fatto sorgere il diritto integrino un comportamento abusivo. La Corte – pur riconoscendo, in capo al soggetto passivo, il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale – ha affermato che, nel settore IVA, si integra un comportamento abusivo, quando “le operazioni controverse ..., nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la traspone” siano idonee a “procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni”. Al riguardo, i giudici comunitari hanno precisato, in particolare, che permettere ad un soggetto passivo di detrarre la totalità dell’IVA assolta a monte laddove – nell’ambito delle sue normali operazioni commerciali – nessuna operazione conforme alle disposizioni del sistema delle detrazioni della sesta direttiva o della legislazione nazionale che le traspone glielo avrebbe consentito (o glielo avrebbe consentito solo in parte), sarebbe contrario al principio di neutralità fiscale e, pertanto, contrario allo scopo del detto sistema. ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 Il sistema delle detrazioni previsto dalla sesta direttiva “... intende sollevare interamente l’imprenditore dall’IVA dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche” ed è a tal fine che il sistema comune dell’IVA garantisce “la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di tale attività, purché queste siano, in linea di principio, di per sé soggette all’IVA”. Affinché si integri un comportamento abusivo, inoltre, “deve altresì risultare da un insieme di elementi obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale”. La Corte, infine, ha preso posizione in ordine all’ipotesi in cui sia stato constatato che il contribuente ha posto in essere un comportamento abusivo, come sopra identificato; in tal caso, “... le operazioni implicate devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato”. 4. Riflessi sull’operato dell’Amministrazione finanziaria I principi espressi dai giudici comunitari nella sentenza in esame appaiono di rilevante interesse per le amministrazioni fiscali dei diversi Stati membri dell’Unione Europea, impegnate nell’azione di contrasto dei comportamenti abusivi dei contribuenti in tema di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto. La Corte di Giustizia ha evidenziato con chiarezza, infatti, che la lotta contro ogni possibile frode, evasione ed abuso è obiettivo non solo riconosciuto, ma anche promosso dalla sesta direttiva e, pur in assenza nell’ambito dell’ordinamento comunitario di una disciplina positiva di tali fattispecie, deve ravvisarsi – nel sistema dell’IVA – l’esistenza di una clausola generale antiabuso posta a tutela proprio di tale obiettivo di interesse generale. Le considerazioni svolte in narrativa della sentenza in esame appaiono, peraltro, di particolare interesse, laddove la Corte, in sostanza, riconosce e motiva l’esistenza in ambito IVA di una clausola generale antiabuso sulla base delle medesime argomentazioni sottese alla norma generale antielusiva di cui all’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, applicabile nel nostro ordinamento nazionale con riferimento all’imposizione diretta. Dall’esame della sentenza emerge che la Corte di Giustizia distingue nell’ambito dell’ordinamento comunitario le diverse fattispecie di “evasione” e di “abuso” (rectius di “elusione”) ed, in particolare, individua quest’ultima nelle situazioni in cui – “nonostante l’applica- ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 zione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la traspone” – il soggetto passivo possa procurarsi un vantaggio fiscale la cui concessione è contraria all’obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni. I giudici comunitari, in sostanza, adottando una impostazione che nell’ordinamento nazionale trova conferma nella prassi dell’Amministrazione finanziaria, oltre che a livello giurisprudenziale e dottrinario, distinguono tra situazioni di “evasione”, nelle quali il soggetto passivo si pone direttamente in contrasto con una norma che gli impone un determinato comportamento quando il presupposto impositivo si è già verificato, e situazioni di “elusione o abuso”, nelle quali il soggetti passivo – pur rispettando formalmente una norma – la aggira al fine di procurarsi un vantaggio altrimenti non conseguibile e comunque contrario alle finalità perseguite dalla norma medesima. Secondo la Corte, il soggetto passivo ha sempre il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale (p. 73 della sentenza); tale scelta, tuttavia, secondo una giurisprudenza costante, trova un preciso limite nel divieto per gli interessati di avvalersi abusivamente del diritto comunitario. In sostanza, è escluso che l’applicazione della normativa comunitaria possa estendersi fino a ricomprendere i comportamenti abusivi degli operatori economici, ovvero le operazioni realizzate non nell’ambito di transazioni commerciali “normali”, bensì al solo scopo di beneficiare “abusivamente” dei vantaggi previsti dal diritto comunitario. Dall’esame della sentenza emerge con chiarezza che tale principio di carattere generale, seppur non espressamente richiamato nel diritto positivo, deve essere riconosciuto come immanente nel sistema della sesta direttiva; le disposizioni della direttiva medesima devono quindi essere interpretate nel senso che ostano alla adozione di comportamenti abusivi, come definiti dalla Corte. Tutto ciò premesso, occorre osservare che a norma dell’art. 234 (già art. 177) del Trattato, alla Corte di Giustizia è riservato in via esclusiva il potere di interpretare in via pregiudiziale le norme comunitarie; in particolare, come affermato dagli stessi giudici comunitari in precedenti giurisprudenziali, l’interpretazione di una norma di diritto comunitario, resa dalla Corte di Giustizia nell’ambito delle proprie attribuzioni, chiarisce e precisa il significato e la portata della norma, quale deve o avrebbe dovuto essere intesa ed applicata dal momento della sua entrata in vigore. Una sentenza della Corte che precisi il significato di una norma comunitaria, determi- LEGISLAZIONE nandone ampiezza e contenuto, viene quindi ad integrare e costituisce un tutt’uno con la norma interpretata ed ha la stessa immediata efficacia – con riguardo agli ordinamenti nazionali – di quest’ultima. L’accertata esistenza da parte dei giudici comunitari di una clausola generale antiabuso immanente nel sistema della sesta direttiva, che consente di perseguire determinati comportamenti dei contribuenti nell’ambito della realizzazione di un obiettivo di carattere generale dato dalla lotta alle frodi e agli abusi, fa sì che la stessa integri il contenuto della direttiva medesima e risulti, quindi, anch’essa direttamente applicabile negli ordinamenti nazionali. Al riguardo, occorre formulare alcune ulteriori considerazioni circa i riflessi del principio di diritto enunciato nella sentenza in esame sull’attività accertativa dell’Amministrazione finanziaria. La Corte di Giustizia afferma che l’elusione in sé (quale scopo perseguito nel porre in essere l’operazione economica), non incide sulla qualificazione dell’operazione ai fini IVA, né sulla qualificazione giuridica del contratto in essere tra le parti come interposizione ma si riflette sul trattamento fiscale dell’operazione medesima. Alla luce di quanto sino ad ora esposto, può ritenersi che l’immanenza nei principi dell’IVA di norme antiabuso, riconosciuta dalla Corte di Giustizia, fa sì che possa riconoscersi da parte dell’Amministrazione finanziaria la presenza di comportamenti elusivi, senza la necessità di una norma positiva che sancisca tale potere, sia nell’ordinamento comunitario che nazionale. Tale affermazione trova esplicita conferma nelle puntuali statuizioni della Corte di Cassazione, la quale – nella sentenza n. 10352 del 5 maggio 2006 – fa espresso rinvio ai principi espressi dalla Corte di Giustizia nella causa C-419/02, emessa sempre in data 21 febbraio 2006 e di tenore sostanzialmente analogo a quella in commento. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che “... peraltro, con riferimento all’ordinamento comunitario, con la recentissima pronuncia del 21 febbraio 2006, nella causa C-419/02, la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha chiarito che la 6° direttiva CEE n. 77/388/CEE, direttamente applicabile in quello nazionale, aggiunge alla tradizionale bipartizione dei comportamenti tenuti dai contribuenti in tema di IVA, fra quello fisiologico e quello patologico (proprio delle frodi fiscali), il primo idoneo a consentire una piena detraibilità dell’imposta assolta ed il secondo la sua assoluta indetraibilità, una sorta di tertium genus, in dipendenza del comportamento abusivo ed elusivo del contribuente, comportante il recupero dell’IVA detratta e l’eventuale 45 46 LEGISLAZIONE rimborso in favore del soggetto che abbia posto in essere l’operazione elusiva; .... pertanto, nell’ordinamento comunitario e, quindi, anche in quello interno deve considerarsi vigente il principio di indetraibilità dell’IVA (art. 17 della citata direttiva n. 77/388/CEE) assolta in corrispondenza di comportamenti abusivi, volti cioè a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale ed autonoma ragione economica giustificatrice delle operazioni economiche che, perciò, risultano eseguite in forma solo apparentemente corretta ma, in realtà, sostanzialmente elusiva; ...”. *** Dopo aver affermato l’esistenza di una clausola generale antiabuso in ambito IVA, i giudici comunitari – con argomentazioni che, come già evidenziato in precedenza, appaiono ricalcare la struttura logico-sistematica del giudizio di elusività di un comportamento, come disciplinato ai fini delle imposte sui redditi dal citato art. 37bis del D.P.R. n. 600/1973 – hanno precisato (pp. 74-76 della sentenza in esame) che ad orientare l’attività dell’amministrazione fiscale e del Giudice devono essere i seguenti elementi: • le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalla sesta direttiva e dalla legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni. A tal fine, a parere della Corte, l’amministrazione ed il Giudice dovranno tenere conto della circostanza che costituisce principio fondamentale della sesta direttiva e della normativa nazionale che la trasfonde, quello della “neutralità fiscale”: consentire la detrazione al soggetto quando, nell’ambito delle sue “normali” operazioni commerciali, ciò non gli sarebbe stato consentito costituisce una espressa violazione di tale principio e costituisce quindi un comportamento abusivo; • deve altresì risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale. *** In ordine agli effetti dell’individuazione di un comportamento abusivo, la Corte di Giustizia afferma che le operazioni relative a tale comportamento “devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato”. In sostanza, la Corte afferma l’esistenza nel sistema IVA, come disciplinato dalla sesta direttiva, di una regola generale antielusiva che in presenza di determinate ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 circostanze legittima l’amministrazione fiscale nazionale a disconoscere il vantaggio fiscale ottenuto attraverso l’effettuazione di operazioni elusive, ovvero poste in essere al solo fine di ottenere un risparmio di imposta, attraverso la riqualificazione delle medesime operazioni in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato (pp. 93-98 della sentenza in esame). Pertanto l’amministrazione fiscale ha il diritto di chiedere, con effetto retroattivo, il rimborso delle somme detratte per ciascuna operazione rilevante, consentendo altresì al soggetto passivo di effettuare quelle detrazioni che avrebbe potuto effettuare in assenza del comportamento abusivo. Alla luce delle considerazioni sino ad ora esposte, si ritiene che gli uffici possano (e debbano) tener conto, in sede di controllo, dei principi enunciati in via generale dalla Corte di giustizia, in tema di abuso del diritto, facendone applicazione in tutti i casi in cui possono configurarsi i presupposti prima richiamati. A titolo meramente esemplificativo, oltre al caso di interposizione soggettiva specificatamente esaminato dalla Corte di Giustizia nella sentenza citata, si enunciano alcune possibili fattispecie di abuso. a) Fatturazione anticipata La fatturazione anticipata (rispetto agli eventi in presenza dei quali l’operazione si considera effettuata), ove non supportata da valide ragioni economiche da parte di contribuenti soggetti ad un regime di detraibilità limitata, potrebbe comportare un vantaggio fiscale a favore di questi ultimi in termini di maggior detrazione con riferimento al pro rata di detraibilità del periodo; ciò ovviamente nei casi in cui lo strumento della rettifica alla detrazione non possa essere utilizzato per correggere questo effetto. b) Variazioni in diminuzione La variazione in diminuzione ai sensi dell’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972, rileva nel sistema come mera facoltà del contribuente, posto che la stessa ove anche non realizzata, non produce di norma effetti distorsivi. Tuttavia, con riguardo ad operazioni di cessione effettuate – ad esempio – in regime speciale, possono emergere profili di elusività soprattutto quando l’operazione avviene tra soggetti collegati in base all’appartenenza al medesimo gruppo. Avendo presente che il cedente emette fattura con l’aliquota propria del bene ceduto, ma opera la detrazione in maniera forfetaria, con ciò realizzandosi un vantaggio economico che la legge riconosce solo al soggetto che opera nell’ambito ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 del predetto regime speciale, si osserva che in caso di eventi che darebbero luogo ad una variazione in diminuzione, può configurarsi un abuso delle norme disciplinanti il regime speciale qualora si ometta di effettuare detta variazione, con la conseguenza che di fatto parte del vantaggio economico attribuito dal sistema all’operatore in regime speciale transita verso il cliente di quest’ultimo. c) Fenomeni di abuso nella prassi commerciale Ai sensi dell’art. 13 del Regolamento CE n. 1777/2005, recante norme di applicazione della VI direttiva IVA (ora direttiva 112/2006) “allorché un fornitore dei beni o un prestatore di servizi esige che per l’accettazione del pagamento mediante carta di credito o di debito il cliente paghi un importo a lui stesso o ad un’altra impresa e allorché il prezzo complessivo che tale cliente deve pagare resta invariato a prescindere dalla LEGISLAZIONE modalità di pagamento, tale importo è parte integrante della base imponibile per la cessione di beni o la prestazione di servizi, a norma dell’articolo 11 della direttiva 77/388/CEE.”. La ratio della disposizione comunitaria è volta a contrastare possibili fenomeni elusivi sottesi ad alcune pratiche invalse in campo commerciale, che tendono a ridurre, ma solo fittiziamente, la base imponibile dell’IVA. Ogniqualvolta, si accerti – sulla base di adeguati e rigorosi riscontri – una prassi commerciale ispirata alla finalità che il richiamato Regolamento comunitario intende contrastare, sarà possibile invocare, oltre che la norma regolamentare richiamata (in quanto direttamente applicabile), anche il più generale principio dell’abuso del diritto contenuto nella sentenza in esame. *** Le Direzioni regionali vigileranno sulla corretta applicazione delle presenti istruzioni. 47 48 GIURISPRUDENZA ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 Rassegna di Giurisprudenza A. Sulla (necessità di una) disciplina legislativa dell’elusione 1. Corte di Cassazione, 03-04-2000, n. 3979 “A fronte di divergenti trattamenti fiscali, a seconda del soggetto cui faccia capo un certo reddito, la frode alla legge ex art. 1344 c.c., non è ravvisabile per il solo fatto che un atto negoziale (reale e non simulato) abbia spostato la titolarità del bene al contribuente “favorito”, occorrendo una norma che direttamente od indirettamente neghi la facoltà di trasmigrare con l’atto stesso dall’uno all’altro regime di tassazione; in difetto, si rimane nell’ambito della mera lacuna della disciplina tributaria, per non aver prefigurato la possibilità dei contribuenti di optare per assetti privatistici fiscalmente proficui.” Da questa premessa consegue – nel caso specifico – che “Nella fattispecie … del c.d. dividend washing … non è individuabile nella normativa tributaria un divieto del tipo sopra specificato. L’ammissibilità e la liceità di detta operazione, in assenza di contraria previsione di legge, trovano sicura conferma nell’evoluzione normativa successiva ai rapporti in discussione … Il comma 6-bis dell’art. 14 del D.P.R. 917/1986, aggiunto con effetto ex nunc dall’art. 7-bis del D.L. 372/1992 … nega il credito di imposta correlato alla distribuzione di utili azionari a chi acquisti titoli da un fondo comune di investimento … Le scelta del legislatore di elidere o attenuare la convenienza fiscale dell’operazione riposa sull’evidente presupposto della liceità della medesima”. 2. Corte di Cassazione, 03-09-2001, n. 11351 “Il potere di disconoscere, ai fini tributari, gli effetti degli atti compiuti dal contribuente è stato riconosciuto per la prima volta, in modo espresso,dal legislatore con l’art. 10, legge 29/12/1990, n. 408 … detta disposizione … è priva di carattere retroattivo, come si desume in modo in equivoco dal suo terzo comma”. 3. Corte di Cassazione, 07-03-2002, n. 3345 “Nella disciplina anteriore alla integrazione dell’art. 14 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, operata dall’art. 7bis del D.L. 9 settembre 1992, n. 372 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 429 del 1992), che ha aggiunto al predetto art. 14 il comma 6-bis, … non era … rinvenibile una norma tributaria che negasse la facoltà di far trasmigrare con un atto reale la titolarità di un bene tra soggetti sottoposti a trattamenti fiscali divergenti e di spostare tale titolarità sul soggetto più favorito. 4. CTR Friuli Venezia Giulia, 26-06-2007, n. 45 “Con le modifiche apportate all’art. 14 del T.U.I.R. dalla legge 429/1992, in base alle quali “le disposizioni del presente articolo non si applicano agli utili percepiti dall’usufruttuario allorché la costituzione o la cessione del diritto di usufrutto sono state poste in essere da soggetti non residenti, privi nel territorio dello Stato di una stabile organizzazione”, non si è trasformato in lecito ciò che non lo era, ma si è reso possibile tassare quanto in precedenza sfuggiva all’imposizione”. B. Sul concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria 1. Corte di Giustizia CE, 21-02-2006, causa C-255/02 (Halifax) “A un soggetto passivo che ha la scelta tra due operazioni la sesta direttiva non impone di scegliere quella che implica un maggior pagamento Iva. Al contrario … il soggetto passivo ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale”. [cfr. par. 73] Nel settore Iva, “perché possa parlarsi di comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che le traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni. Non solo. Deve altresì risultare da un insieme di elementi obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale”. [cfr. par. 86] Occorre altresì ricordare che la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre a una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco, bensì e semplicemente a un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’Iva assolta a monte … ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 GIURISPRUDENZA Ne discende che operazioni implicate in un comportamento abusivo devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato”. [cfr. parr. 93 e 94] C. Sulla applicabilità nel diritto interno del principio dell’abuso del diritto elaborato in sede comunitaria (in assenza di una disposizione normativa interna che lo preveda) e sulla sua estensibilità a settori diversi dall’IVA 2. Corte di Giustizia CE, 12-09-2006, causa C-196/04 Sentenza in materia di “Libertà di stabilimento – Normativa sulle società controllate estere – Inclusione nella base imponibile della società madre degli utili delle controllate estere.“Perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale.” [cfr. par. 55] “La constatazione dell’esistenza di una tale costruzione [di puro artificio] richiede oltre ad un elemento soggettivo consistente nella volontà di ottenere un vantaggio fiscale, elementi oggettivi dai quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dall’ordinamento comunitario, l’obiettivo perseguito dalla libertà di stabilimento … non è stato raggiunto”. [cfr. par. 64] “Gli artt. 43CE e 48CE devono essere interpretati nel senso che ostano all’inclusione, nella base imponibile di una società residente in uno Stato membro, degli utili realizzati da una società estera controllata stabilita in un altro Stato allorché tali utili sono ivi soggetti ad un livello impositivo inferiore a quello applicabile nel primo Stato, a meno che tale inclusione non riguardi costruzioni di puro artificio destinate ad eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta. L’applicazione di una misura impositiva siffatta deve perciò essere esclusa ove da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la controllata è realmente impiantata nello Stato di stabilimento e ivi esercita attività economiche effettive”. [Conclusioni] 1. Corte di Cassazione, 21-10-2005, n. 20398 Nella disciplina anteriore all’entrata in vigore dell’art. 37-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, introdotto dall’art. 7 del d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, pur non esistendo nell’ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l’emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale. Da questa premessa consegue – nel caso specifico – che “In riferimento all’ipotesi in cui l’acquirente di azioni da un fondo comune d’investimento, dopo averne percepito i dividendi, abbia rivenduto i titoli al fondo stesso al fine di consentire l’elusione del regime fiscale previsto dall’art. 9 della legge n. 77 del 1983 (come sostituito dal d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 83) (c.d. “dividend washing”), l’applicazione del predetto principio si traduce nella individuazione di un difetto di causa che dà luogo alla nullità dei contratti collegati di acquisto e di rivendita delle azioni, non conseguendo dagli stessi alcun vantaggio economico per le parti, all’infuori del risparmio fiscale. Tale mancanza di ragione, che investe nella sua essenza lo scambio tra le prestazioni contrattuali attuato attraverso il collegamento negoziale, comporta l’inefficacia dei contratti nei confronti del fisco, con conseguente esclusione del credito d’imposta previsto per l’acquirente dei titoli dall’art. 14 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel testo anteriore all’integrazione apportatavi dall’art. 7-bis del decreto-legge 9 settembre 1992, n. 372, conv. con modificazioni nella legge 5 novembre 1992, n. 429).” 3. Corte di Giustizia UE, 21-02-2008, causa C-425/06 “La VI Direttiva [IVA] deve essere interpretata nel senso che l’esistenza di una pratica abusiva può essere riconosciuta qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale dell’operazione o delle operazioni controverse”. [cfr. par. 45] Per valutare se determinate “operazioni possano essere considerate come rientranti in una pratica abusiva, il giudice nazionale deve anzitutto verificare se il risultato perseguito sia un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria a uno o più obiettivi della VI direttiva e, successivamente, se abbia costituito lo scopo essenziale della soluzione contrattuale prescelta”. [cfr. par. 58] 2. Corte di Cassazione, 14-11-2005, n. 22932 “Nella disciplina anteriore all’entrata in vigore dell’art. 37-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, introdotto dall’art. 7 del d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, pur non esistendo nell’ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l’emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale.” 49 50 GIURISPRUDENZA 3. Corte di Cassazione, 05-05-2006, n. 10353 “Costituisce principio consolidato … l’affermazione secondo cui, come confermato dalla pronuncia del 21 febbraio 2006, nella causa C-419/02 (rectius C-255/02), della Corte di Giustizia UE, la VI Direttiva n. 77/388/CEE aggiunge nell’ordinamento comunitario, direttamente applicabile in quello nazionale, alla tradizionale bipartizione dei comportamenti dei contribuenti, in tema di Iva, in fisiologici e patologici (propri delle frodi fiscali),una sorta di tertium genus, in dipendenza del comportamento abusivo ed elusivo del contribuente, volto a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale ed autonoma ragione economica giustificatrice delle operazioni economiche che risultano eseguite in forma solo apparentemente corretta ma, in realtà, sostanzialmente elusiva; in queste ultime ipotesi scatta l’indetraibilità dell’Iva”. 4. Corte di Cassazione, 29-09-2006, n. 21221 “Una rigorosa applicazione del principio dell’abuso del diritto, definito dalla Corte di giustizia nella sentenza Halifax, comporta che l’operazione deve essere valutata secondo la sua essenza, sulla quale non possono influire ragioni economiche meramente marginali o teoriche, tali, quindi, da considerarsi manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti, rispetto alla finalità di conseguire un risparmio di imposta. Pur riguardando la pronuncia dei Giudici di Lussemburgo un campo impositivo di competenza comunitaria (l’Iva), questa Corte ritiene che, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza comunitaria, anche nella imposizione fiscale diretta, pur essendo questa attribuita alla competenza degli Stati membri, gli stessi devono esercitare tale competenza nel rispetto dei principi e delle libertà fondamentali contenuti nel trattato CE. La nozione di abuso del diritto prescinde, pertanto, da qualsiasi riferimento alla natura fittizia o fraudolenta di un’operazione, nel senso di una prefigurazione di comportamenti diretti a trarre in errore o a rendere difficile all’ufficio di cogliere la vera natura dell’operazione.. come ha ribadito la sentenza Halifax al punto 2) del dispositivo, il proprium del comportamento abusivo consiste proprio nel fatto che, a differenza delle ipotesi di frode, il soggetto ha posto in essere operazioni reali, assolutamente conformi ai modelli legali, senza immutazioni del vero o rappresentazioni incomplete della realtà”. 5. CTP Padova, 07-03-2007, n. 23 “Non costituisce operazione elusiva quella posta in essere dopo aver scelto, tra più alternative, il percorso che corrisponde ad una fattispecie prevista dalla vigente legislazione; segnatamente, la cessione di quote societarie con l’applica- ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 zione dell’imposta sostitutiva del 12,50% non elude l’operazione di cessione di azienda, giacché difetta l’aggiramento di obblighi e divieti …” [In termini anche CTP Padova 31/01/2007, n. 241] 6. CTR Friuli Venezia Giulia, 26-06-2007, n. 45 In merito all’emergenza del principio dell’abuso del diritto, affermata dalla giurisprudenza interna, la Commissione regionale osserva“che questo principio è tutto proprio e deve essere interpretato all’interno delle competenze e prerogative normative della comunità economica europea e dei suoi organi, anche giurisdizionali: tranne ipotesi specifiche, e fermi i principi della libera concorrenza economica tra Paesi, il disinteresse comunitario verso l’imposizione diretta è la regola: le materia in cui si leggono espressi i principi in questione (fondamentalmente quella dell’Iva) sono e rimangono differenti da quelle delle imposte dirette, e quindi accorta deve essere l’estensione applicativa dei principi che si rinvengono nella giurisprudenza comunitaria … Se ne ricava, a giudizio di questo Collegio, che la partita della liceità o meno della causa e dell’operazione debba essere giocata sul terreno del diritto nazionale, senza incedere in richiami – all’apparenza fuorvianti – al diritto comunitario”. 7. CTR Lombardia, Sez. III, 04-02-2008, n. 85 “L’elencazione delle possibili fattispecie elusive indicate nell’art. 37-bis del D.P.R. 600/1973 non può ritenersi né tassativa né esaustiva. Si è, infatti, venuto a configurare un concetto generale di elusione fiscale, desumibile da tale disposizione e che si delinea come una forma di abuso da parte del contribuente del proprio diritto di scelta dei vari strumenti giuridici stabiliti dalla norma tributaria, fino al punto di porre in essere atti e/o fatti che, pur essendo rigorosamente rispettosi di previsioni legislative, si traducono, in concreto, in strategie idonee a determinare un vantaggio, formalmente lecito, ma che, nella sostanza, si scontra con i principi di sistema e con le modalità generali dell’ordinamento tributario. In altre parole nell’elusione fiscale il contribuente non si limita a scegliere una soluzione tra le tante previste dall’ordinamento tributario, ma sfrutta il sistema tributario per crearsi una particolare situazione di vantaggio che l’ordinamento stesso normalmente non ammette ed implicitamente vieta”. 8. Corte di Cassazione, 04-04-2008, n. 8772 “Non hanno efficacia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria gli atti posti in essere dal contribuente, che costituiscano “abuso di diritto”, cioè che si traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 un vantaggio fiscale. Tale inefficacia non opera, laddove il contribuente fornisca la prova dell’esistenza di ragioni economiche, alternative o concorrenti, di carattere non meramente marginale o teorico”. 9. Corte di Cassazione, 21-04-2008, n. 10257 “Non hanno efficacia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria quegli atti posti in essere dal contribuente, che costituiscano “abuso di diritto”, cioè che si traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale; ed incombe sul contribuente fornire la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico”. 10. Corte di Cassazione, 15-09-2008, n. 23633 “L’esame delle operazioni poste in essere dall’imprenditore, ai fini del riconoscimento del diritto alla deduzione per gli oneri economici “deve essere compiuto anche alla stregua del principio, desumibile dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria (da ultimo, in materia fiscale, sent. della Corte di Giustizia 21 febbraio 2006 in causa C-255/02), secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni che, seppur realmente volute ed immuni da invalidità, risultino, da un insieme di elementi obiettivi, compiute essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Tale principio trova applicazione anche … in riferimento al periodo anteriore all’entrata in vigore del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, introdotto dal D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 7, rappresentando, pur in mancanza di una clausola generale antielusiva, all’epoca non configurabile nell’ordinamento fiscale italiano, un canone interpretativo del sistema, che comporta il disconoscimento del diritto alla deduzione per oneri derivanti da meccanismi elusivi”. 11. Corte di Cassazione, 17-10-2008, n. 25374 “L’abuso del diritto, quale clausola generale antielusiva nell’ordinamento tributario di matrice comunitaria, si ravvisa ogni qual volta dall’impiego di una forma giuridica o di un regolamento contrattuale il risparmio fiscale sia lo scopo principale della forma della transazione svolta, anche laddove siano coinvolte altre finalità di contenuto economico. Il rango comunitario della regola comporta l’estensione del campo applicativo a tutte le fattispecie di entrate tributarie, nonché l’obbligo per il giudice nazionale di applicazione d’ufficio, anche al di fuori di specifica deduzione ed allegazione di parte ed anche per la prima volta nel giudizio di cassazione. GIURISPRUDENZA In tema di abuso di diritto, se, da un canto, l’onere di dimostrare che l’uso della forma giuridica corrisponde ad un reale scopo economico, diverso da quello di un risparmio fiscale, incombe al contribuente, dall’altro, l’individuazione dell’impiego abusivo di una forma giuridica incombe all’amministrazione finanziaria, la quale non potrà limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma dovrà individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l’operazione priva di reale contenuto economico diverso dal risparmio d’imposta. A questi effetti è considerata pratica abusiva – come tale non opponibile all’amministrazione finanziaria – la conclusione di contratti di locazione finanziaria (leasing), di finanziamento, di assicurazione e di intermediazione, con il coinvolgimento di due soggetti appartenenti ad uno stesso gruppo societario, laddove l’operazione si riveli priva di adeguata redditività e abbia come risultato la soggezione ad IVA del solo corrispettivo della concessione in uso del bene. D. Sulla applicabilità nel diritto interno del principio dell’abuso del diritto alla luce dei principi costituzionali 1-2. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 23-12-2008, nn. 30055-30056 La cognizione del giudice tributario è rivolta essenzialmente all’accertamento della sussistenza della pretesa fiscale fatta valere – e contestata dal contribuente – secondo gli elementi di fatto e le considerazioni di diritto formulate nell’atto impositivo impugnato, conformemente alla posizione di “attore sostanziale” del processo tributario dell’Amministrazione finanziaria, sulla quale incombono gli ordinari oneri probatori ex art. 2697 c.c.. L’indagine del giudice tributario può rivolgersi a differenti temi (nella specie, esistenza, validità ed opponibilità dell’attività negoziale del privato nei confronti dell’Erario) rispetto all’iniziale assunto formulato dall’Amministrazione finanziaria (nella specie, disconoscimento di un componente negativo di reddito) all’esito delle deduzioni ed allegazioni della difesa del contribuente. I principi costituzionali della capacità contributiva e della progressività dell’imposizione che informano l’ordinamento tributario ostano al conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti attraverso strumenti giuridici l’adozione ovvero l’utilizzo dei quali sia unicamente rivolto, in assenza di ragioni economicamente apprezzabili, al risparmio d’imposta – anche laddove non ricorra alcuna violazione o contrasto puntuale ad alcuna specifica disposizione, e l’inopponibilità del negozio abusivo all’erario può essere rilevata d’ufficio anche in sede di giudizio di legittimità. 51 52 GIURISPRUDENZA 3. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 23-12-2008, n. 30057 È inopponibile all’erario – in virtù di un generale principio di divieto di abuso del diritto in materia tributaria, desumibile dall’art. 53 Cost., – il negozio con il quale viene costituito, in favore di una società residente nel territorio dello Stato, un diritto di usufrutto sulle azioni o sulle quote di una società italiana, possedute da un soggetto non residente, in modo da consentire al cedente di trasformare il reddito di partecipazione in reddito di negoziazione (esente dalla ritenuta sui dividendi di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27, comma 3) ed alla cessionaria di percepire i dividendi, sui quali, oltre a subire l’applicazione della ritenuta meno onerosa di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27, comma 1, (oltretutto recuperabile in sede di dichiarazione annuale) essa può avvalersi del credito di imposta previsto dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 14, ed inoltre di dedurre dal reddito di impresa, pro quota annuale, il costo dell’usufrutto, allorché risulti che il negozio stesso non ha altre ragioni economicamente apprezzabili al di fuori di quella di conseguire un vantaggio tributario. E. Sul potere dell’Amministrazione di riqualificare i contratti 1. Corte di Cassazione, 03-09-2001, n. 11351 “Prima dell’entrata in vigore dell’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, introdotto dall’art. 7 del D.LGS. 8 ottobre 1997, n. 358, – che con disposizione, non avente efficacia retroattiva, ha attribuito all’Amministrazione Finanziaria ampio potere di disconoscere, a fini antielusivi, gli effetti degli atti compiuti dal contribuente al fine di beneficiare di un trattamento fiscale più vantaggioso – detta amministrazione non aveva il potere di riqualificare i contratti posti in essere dalle parti, prescindendo dalla volontà concretamente manifestata dalle stesse, per assoggettarli ad un trattamento fiscale meno favorevole di quello altrimenti applicabile, neppure in virtù degli artt. 1344 e 1418 cod. civ., che sanciscono la nullità dei contratti che costituiscono “il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”. 2. Corte di Cassazione, 26-10-2005, n. 20816 “L’Amministrazione finanziaria, quale terzo interessato alla regolare applicazione delle imposte, è legittimata a dedurre (prima in sede di accertamento fiscale e poi in sede contenziosa) la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal contribuente, o la loro nullità per frode alla legge, ivi compresa la legge tributaria (art. 1344 cod. civ.); la relativa prova può essere fornita con qualsiasi mezzo, anche attraverso presunzioni.” ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 3. Corte di Cassazione, 06-08-2008, n. 21170 “Non è precluso all’Amministrazione finanziaria, che si faccia carico di giustificare coerentemente il proprio assunto sulla scorta delle risultanze acquisite, procedere alla riqualificazione (prima in sede di accertamento fiscale e poi in sede contenziosa) dei contrati sottoscritti dal contribuente, per farne valere la simulazione ed assoggettarli ad un trattamento fiscale meno favorevole di quello altrimenti applicabile”. F. Sul potere del Giudice di qualificare autonomamente la fattispecie 1. Corte di Cassazione, 21-10-2005, n. 20398 “Il principio secondo cui le ragioni poste a base dell’atto impositivo segnano i confini del processo tributario, che è un giudizio d’impugnazione dell’atto, sì che l’ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse e modificare nel corso del giudizio la motivazione dell’atto, non esclude il potere del giudice di qualificare autonomamente la fattispecie posta a fondamento della pretesa fiscale, né l’esercizio di poteri cognitori d’ufficio, non potendo ritenersi che i poteri del giudice tributario siano più limitati di quelli esercitabili in qualunque processo d’impugnazione di atti autoritativi, quale quello amministrativo di legittimità … Il carattere impugnatorio del processo, comportando l’identificazione del “petitum” e della “causa petendi” con la domanda ed i motivi del ricorso, non esclude il potere del giudice di rilevare d’ufficio eventuali cause di nullità di contratti, la cui validità ed opponibilità all’Amministrazione abbia costituito oggetto dell’attività assertoria del ricorrente.” 2. Corte di Cassazione, 14-11-2005, n. 22932 “Il principio secondo cui le ragioni poste a base dell’atto impositivo segnano i confini del processo tributario, che è un giudizio d’impugnazione dell’atto, sì che l’ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse e modificare nel corso del giudizio la motivazione dell’atto, non esclude il potere del giudice di qualificare autonomamente la fattispecie posta a fondamento della pretesa fiscale, né l’esercizio di poteri cognitori d’ufficio, non potendo ritenersi che i poteri del giudice tributario siano più limitati di quelli esercitabili in qualunque processo d’impugnazione di atti autoritativi, quale quello amministrativo di legittimità.” 3. Corte di Cassazione, 29-09-2006, n. 21221 “La regola enunciata dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo cui le ragioni poste a base dell’atto impositivo, oltre ad identificare il fatto costitutive dell’ob- ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 bligazione, segnano i confini del giudizio tributario, che è un giudizio di impugnazione dell’atto, sì che l’ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse, non deve essere intesa in senso talmente rigido da escludere l’autonomo potere qualificatorio del giudice o l’esercizio, da parte dello stesso, dei poteri cognitori ex officio nei casi previsti dalla legge”. 4. Corte di Cassazione, 21-04-2008, n. 10257 “Infine, sul piano processuale: poiché il principio della irrilevanza fiscale degli atti in abuso di diritti deriva dalla normativa comunitaria, è consentito introdurre nel giudizio di cassazione la problematica dell’abuso del diritto, purché sia ancora aperto … un contenzioso su comportamenti fraudolenti e/o elusivi”. [In termini Cassazione 04/04/2008, n. 8772] 5. Corte di Cassazione, 15-09-2008, n. 23633 “Tale principio [dell’abuso del diritto], che non esclude l’operatività del principio di legalità ne’ la liceità di comportamenti volti a minimizzare il carico fiscale, trova applicazione anche nel giudizio di cassazione, quale norma di diritto comunitario che impone la disapplicazione delle norme interne con esso eventualmente contrastanti”. G. Sulla pregiudiziale comunitaria 1. Corte di Cassazione, Ordinanza 04-10-2006, n. 21371 “In tema di IVA, il frazionamento di un unitario contratto di “leasing” in una pluralità di contratti distinti, conclusi con soggetti diversi ed aventi ad oggetto rispettivamente la concessione in uso del bene ed i servizi di finanziamento e di assicurazione contro la perdita o il deterioramento del bene stesso, comporta che l’imponibile è costituito soltanto dal corrispettivo dell’uso del bene, essendo gli altri servizi, separatamente considerati, operazioni esenti da imposta, ai sensi dell’art. 10 nn. 1, 2 e 9 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Il ricorso a tale complesso di negozi per ottenere una riduzione della base imponibile rispetto a quella prevista per gli ordinari contratti di locazione finanziaria si traduce peraltro in una pratica elusiva, in ordine alla quale (pur non essendo nella specie applicabile, “ratione temporis”, una clausola generale antielusiva, all’epoca non prevista dall’ordinamento fiscale italiano) trova applicazione il concetto di abuso del diritto, elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, il quale impone di considerare l’operazione come un tutto unitario, disapplicando le norme interne che consentono, attraverso l’abusivo frazionamento delle forme contrattuali, di determinare GIURISPRUDENZA una perdita delle risorse comunitarie proprie derivanti dall’IVA. A tal fine, va tuttavia rimessa alla Corte di giustizia delle Comunità europee, affinché si pronunci in via pregiudiziale, la questione interpretativa volta a stabilire se, per la configurabilità di tale abuso, sia necessario che il conseguimento del vantaggio fiscale costituisca l’unico scopo dell’operazione, ovvero se esso non escluda il perseguimento di altre finalità economiche, comunque inidonee a fornire una spiegazione alternativa dell’operazione, e se un indizio di tale abuso possa essere costituito dal fatto che l’operazione di finanziamento, considerata nella prassi economica e nell’interpretazione dei giudici nazionali quale componente essenziale del contratto di “leasing”, venga disciplinata da un contratto separato da quello avente ad oggetto la concessione in uso del bene.” 2. Corte di Cassazione, Ordinanza 21-12-2007, n. 26996 “Posto che le controversie in materia di IVA sono connaturalmente annoverabili tra quelle che richiedono il rispetto da parte dello Stato membro di norme comunitarie imperative, in considerazione del ruolo centrale che tale imposta assume ai fini della costituzione delle risorse proprie della Comunità, nonché della molteplicità di obblighi che il diritto comunitario imperativamente impone in materia agli Stati membri, l’applicazione del diritto nazionale in tema di giudicato esterno, e la connessa proiezione anche oltre il periodo di imposta che ne costituisce specifico oggetto, potrebbero impedire la compiuta realizzazione del principio di contrasto dell’abuso del diritto, affermato dalla giurisprudenza comunitaria in tale materia, come strumento teso a garantire la piena applicazione del sistema comunitario d’imposta. Va, pertanto, rimessa alla Corte di giustizia delle Comunità europee, affinché si pronunci in via pregiudiziale, la questione interpretativa volta a stabilire se il diritto comunitario osti all’applicazione dell’art. 2909 cod. civ., che sancisce il principio dell’autorità di cosa giudicata, quando da tale applicazione derivino effetti contrari al diritto comunitario, ed in particolare in materia di IVA e di abuso del diritto posto in essere per ottenere indebiti risparmi d’imposta, avuto riguardo all’orientamento giurisprudenziale secondo cui nelle controversie tributarie il giudicato esterno, qualora l’accertamento consacrato concerna un punto fondamentale comune ad altre cause, esplica, rispetto a questo, efficacia vincolante anche se formatosi in relazione ad un diverso periodo di imposta.” 53 54 CONVEGNI ED ATTIVITÀ ANTI ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 A.N.T.I. Tra i convegni tenuti in questo ultimo scorcio del 2008 - come tradizione tutti pubblicati sul nostro sito web www.associazionetributaristi.it nella sezione “Tenuti nell’anno” del menu “Incontri e Convegni” - segnaliamo, oltre a quelli ricordati nell’ultimo notiziario: – il seminario organizzato dalla Sezione VenetoTrentino Alto Adige a Padova il 7 novembre u.s. sul tema: “Profili tributari dei conferimenti in natura e degli apporti in società”. Relatore: Prof. Giuseppe Corasaniti; – il convegno organizzato a Pescara dalla Sezione Marche-Abruzzo sempre lo scorso 7 novembre sul tema: “La riscossione tributaria - Profili di criticità e prospettive di tutela”. Introduzione e moderazione: Prof. Avv. Lorenzo Del Federico. Relatori: Prof. Massimo Basilavecchia, Profili evolutivi della riscossione tributaria; Dott. Fabio Zolea, I nuovi poteri dell’Agente della riscossione; Dott. Christian Califano, Cartelle di pagamento e avvisi di intimazione: notificazione, contenuto e vizi; Prof. Sebastiano Maurizio Messina, Gli strumenti cautelari: fermo amministrativo e ipoteca; Dott. Francesco Montanari, Strumenti dell’esecuzione forzata tributaria: profili di rischiosità e mezzi di tutela; Dott. Luigi Cinquemani, La riscossione tributaria tra procedimento amministrativo e processo esecutivo; Dott.ssa Alessandra Magliaro, La tutela giurisdizionale nella fase dell’esecuzione forzata tributaria; – il convegno organizzato dalla Sezione Calabria a Catanzaro il 24 novembre u.s. sul tema: “Federalismo Fiscale e Mezzogiorno”. Coordinatore: Prof. Avv. Victor Uckmar. Relatori: Prof. Avv. Salvatore Sammartino, Finanza statale; Prof. Avv. Gianni Marongiu, Finanza regionale; Prof. Avv. Salvatore Muleo, Finanza Locale: Province e Comuni. Tavola Rotonda Moderatore: Dott. Giuseppe Soluri. Interventi: Dott.ssa Wanda Ferro, Dott. Emilio Le Donne, On.le Ignazio Loiero, Avv. Salvatore Perugini, Dott. Claudio Siciliotti e Sen. Vincenzo Speziali. Conclusioni: Prof. Franco Gallo. Per quanto concerne i convegni in programmazione (anch’essi pubblicati sul sito nella sezione “In Programmazione” del menu “Incontri e Convegni”), si segnala quanto segue: a) Sezione Sicilia Orientale Ha partecipato all’organizzazione del seminario che si terrà a Catania nel periodo 23-30 gennaio 2009/6-20-27 febbraio 2009 sul tema: “Diritto Penale Tributario. Programma: 23.01.2009 Prof. Avv. Vito Branca, Evoluzione normativa, scelte legislative e portata repressiva dell’attuale sistema penale tributario; 30.01.2009 Avv. Carmelo Peluso, I reati relativi alle dichiarazioni ed alle fatture per operazioni inesistenti; 06.02.2009 Dott. Roberto Passalacqua, Sequestro per equivalente e confisca nei reati tributari; 20.02.2009 Prof. Avv. Ivo Caraccioli, Omesso versamento di ritenute certificate o di IVA . Indebita compensazione e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte; 27.02.2009 T. Col. Dott. Giuseppe Arbore, I reati tributari come delitto presupposto del reato di riciclaggio. b) Sezione Piemonte-Valle D’Aosta Ha organizzato a Torino per il 29 gennaio 2009 una serata sul tema “I trasferimenti generazionali dell’impresa: strumenti vecchi e nuovi” Relatore: Avv. Notaio Ciro De Vincenzo. c) Sezione Veneto-Trentino Alto Adige Ha organizzato - in collaborazione con la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Padova per il 13 febbraio 2009 a Padova una giornata di studi in onore di Gaspare Falsitta sul tema”Per un ordinamento tributario non confiscatorio e non rinunciatario - Alla ricerca di criteri costituzionali di giustizia tributaria”: I sessione: Il prelievo confiscatorio. Moderatore: Augusto Fantozzi. Relatori: - G. Marongiu, La giustizia tributaria nel pensiero di G. Falsitta; R. Schiavolin, La tassazione della capacità economica disponibile e l’indeducibilità di ici ed irap dal reddito; G. Zizzo, Abuso di regole volte al “gonfiamento”della base imponibile nella recente normativa fiscale ed effetti confiscatori del prelievo ad esso collegato; L. Tosi, La normalizzazione degli imponibili: l’effettività degli indici di riparto e gli studi di settore. Moderatore: Gilberto Muraro. Relatori: F. Volpe, Possibili influenze e interferenze sul diritto tributario delle recenti sentenze del- ELUSIONE FISCALE E ABUSO DI DIRITTO • 1/2009 la Corte di Strasburgo e della Corte Costituzionale in tema di tutela del diritto di proprietà e di equo indennizzo; N. Bozza, L’imposta confiscatoria nella giurisprudenza e nella dottrina tedesca dopo la sentenza 10 gennaio 2006 della Corte Costituzionale germanica; F. Escribano Lopez, Il divieto di “alcance confiscatorio” del sistema tributario nella costituzione spagnola; F. Moschetti: “Interesse fiscale” e “ragioni del fisco” nel prisma della capacità contributiva. II sessione: Il fisco rinunciatario Moderatore: Mario Bertolissi. Relatori: A. Di Pietro, I vuoti d’imposta (aiuti di stato, agevolazioni e condoni): l’altra faccia del vulnus al principio di eguaglianza tributaria; M. Beghin, Giustizia tributaria e indisponibilità dell’imposta nei più recenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali. La transazione concordataria e l’accertamento con adesione; G. Falsitta, Relazione di sintesi e conclusioni Con l’occasione Vi segnalo la tavola rotonda che si terrà il 30 gennaio 2009 presso l’Università degli Studi di Brescia sul tema “Il federalismo fiscale tra autonomia e solidarietà” patrocinata dalla Fondazione Antonio Uckmar alla quale interverranno, oltre al nostro consocio Prof. Victor Uckmar in qualità di moderatore, tra gli altri, il Prof. Franco Gallo, il Prof. Mario Bertolissi, il Prof. Luca Antonini, il Prof. Antonio D’Andrea, il Prof. Silvio Gambino, il Prof. Gianni Marongiu, il Prof. Antonio Uricchio, il Prof. Paolo Panteghini, il Dott. Giuseppe CONVEGNI ED ATTIVITÀ ANTI Corasaniti, il Prof. Andrea Giovanardi, il Prof. Mario Gorlani, il Prof. Ennio Agostino Scala, l’On. Daniele Folgora e il Sen. Guido Galperti. Vi rammento altresì che, come ogni anno, a partire da febbraio 2009 si terrà il corso di aggiornamento e perfezionamento su “La fiscalità finanziaria internazionale” organizzato dalla Facoltà di Economia dell’Università degli Studi dell’Insubria e il Centro Studi Bancari di Vezia, al quale l’ANTI ha sempre offerto il suo sostegno. A questi effetti Vi indico i link di presentazione del primo e secondo modulo contenenti tutte le informazioni relative al corso: http://www.csbancari.ch/Moduli/Q6UJ9A00D7LP.asp http://www.csbancari.ch/Moduli/Q6UJ9A00D7M0.asp Da ultimo Vi comunico che il Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico “Uniforma” - costituito dalle Università di Bari, Catania, Genova, Milano, Palermo, Roma “La Sapienza” e “Roma Tre”, Salento e Torino ha organizzato a Padova dal 19 marzo 2009 un corso di aggiornamento professionale sul tema “Il diritto dei trust”, che riconosce 24 crediti per la formazione professionale degli avvocati, 15 crediti per la formazione continua dei notai ed un numero non ancora definito di crediti per i dottori commercialisti ed esperti contabili. Per ogni ulteriore informazione Vi invito a visitare il sito www.SfidaGlobalizzazione.unige.it . 55 L’A.N.T.I. Associazione Nazionale Tributaristi Italiani è stata costituita il 13 giugno 1949 e, nei suoi quasi sessant’anni di storia, ha avuto illustri Presidenti quali: Ernesto D’Albergo, Epicarmo Corbino, Ignazio Manzoni, Giovanni Adonnino, Victor Uckmar. Attualmente è presieduta dal Prof. Mario Boidi. L’Associazione, che ha sezioni in tutta Italia, si propone, attraverso incontri di studio, convegni e pubblicazioni, di approfondire le tematiche fiscali, sotto il profilo scientifico, ma attenta anche alle applicazioni professionali. Essa tiene, altresì, contatti con Governo e Parlamento collaborando quando richiesto allo studio e alla formazione delle leggi. L’A.N.T.I. è socia della Confédération Fiscale Européenne, l’unico raggruppamento Europeo di consulenti tributari che opera a livello Comunitario e nell’anno 2004 è stato presieduto dal Prof. Mario Boidi. SEDE Via Alessandro Farnese, 7 • 00192 Roma • Tel. e Fax 06.3201559 PRESIDENZA Via Andrea Doria, 15 • 10123 Torino • Tel. 011.8126767 • Fax 011.8122300 E-mail: [email protected] SEGRETERIA GENERALE Via Alessandro Farnese, 7 • 00192 Roma • Tel. e Fax 06.3201559 E-mail: [email protected] TESORERIA NAZIONALE Via Cosimo del Fante, 16 • 20122 Milano • Tel. 02.58310288 • Fax 02.58310285 E-mail: [email protected] • Sito Internet: www.associazionetributaristi.it