CS 2010
Letteratura latina
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L’ELEGIA LATINA
Il problema delle origini
In età augustea nasce l’elegia a
carattere soggettivo che si incentra
tutta sull’esperienza amorosa del
poeta, a differenza dell’elegia ellenistica, a carattere oggettivo, che raccontava miti ricchi di pathos.
Riguardo all’origine dell’elegia latina due sono le teorie più accreditate:
a) teoria di Friedrich Leo, secondo la quale l’elegia latina deriverebbe direttamente da una
forma di elegia ellenistica a carattere erotico-soggettivo, che a
sua volta risentirebbe
dell’influsso della Commedia
Nuova nella caratterizzazione
dell’innamorato nei confronti
della sua amata etèra;
b) teoria di Felix Jacoby, secondo
la quale l’elegia latina deriverebbe la sua soggettività
dall’epigramma ellenistico.
Già nella poesia di Catullo compaiono elementi strutturali che saranno
tipici del genere elegiaco: fusione di
generi letterari diversi, ampliamento
di temi epigrammatici, trattazione
del mito come approfondimento di
sentimenti personali (ricorda a tal
proposito il carme 68A con il mito di
Protesilao e Laodamia che si sovrappone alla storia d’amore fra Lesbia e il poeta e che permette a Catullo di ricordare la morte del fratello, avvenuta nella stessa Troade ove
fu ucciso Protesilao).
L’elegia latina va dunque intesa, come dice il Fedeli come un movimento poetico che, se da un lato ripro-
pone ancora elementi ellenistici già
accolti e sfruttati dalla poesia neoterica, dall’altro sviluppa in modo
originale tendenze che non costituivano una componente dominante
della produzione dei poetae novi.
Già gli antichi individuarono con
chiarezza questa linea di continuità:
Properzio nell’elegia 2,34, nel proporre un canone dei poeti elegiaci,
parte da Varrone Atacino (poeta neoterico), cita Catullo, Calvo, Cornelio
Gallo, per giungere infine a parlare
di sé (Anche Varrone, finito il “Giasone”, cantò la sua ardente fiamma per Leucadia; tali furono le poesie del voluttuoso
Catullo, per cui Lesbia è famosa più della
stessa Elena; questo pure proclama
l’opera del dotto Calvo, cantando la morte
dell’infelice Quintilia. E Gallo, morto ieri
per la bella Licoride quante ferite si deterge nell’acqua infernale! Così Cinzia, lodata nel verso di Sesto Properzio, gloria avrà, se a costoro mi vorrà accostare la
fama). Interessante inoltre notare che
il Gallo ricordato da Properzio è
quel Cornelio Gallo, costretto da
Augusto a togliersi la vita, al quale
Partenio aveva dedicato gli ÑErvti
kå payÆmata, storie d’amore
tristi di dèi ed eroi; quello stesso
Gallo che, condannato alla damnatio
memoriae costrinse Virgilio a rivedere il finale delle Georgiche con la
favola di Aristeo.
TIBULLO
Fonti per le scarse notizie biografiche le sue poesie, quelle dei suoi amici e una vita Tibulli, di probabile
derivazione svetoniana. Nacque fra
il 55 e il 50, forse a Pedum, fra Tivoli e Preneste, o forse a Gabi; ap-
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partenne al circolo di Messalla Corvino, ove si componeva poesia lasciva, sotto il segno di Eros, deprecando guerre e negotia, nel nome di un
edonismo sottilmente corrosivo. Nel
27 a.C. Tibullo partecipò alla spedizione di Messalla in Aquitania; con
Messalla fu anche in Oriente (el.
1,3) e vi fu colto da malattia, per cui
si fermò a Corcira. Ovidio scrisse un
commosso epicedio nell’elegia 3,9
degli Amores, per la morte di Tibullo. Si tende a fissare la morte del poeta intorno al 19 a.C.
Ci sono stati tramandati tre libri di
elegie: i primi due sicuramente autentici; il terzo fu diviso in due parti,
divisione poi consacrata dal Voss a
fine XVIII secolo: la prima parte ha
sei elegie con il nome di Ligdamo,
da non identificarsi con Tibullo, come non vanno attribuiti a Tibullo il
Panegyricus Messallae e undici elegie sugli amori della poetessa Sulpicia per il giovane Cerinto. Probabilmente di tutto il terzo libro sono tibulliane solo le due ultime elegie per
la puella innominata. Si è pensato
che Ligdamo potesse essere identificato con Ovidio, dato che entrambi i
poeti indicano il 43 a.C. come il loro
anno di nascita. La tendenza di
Ligdamo a trasformare in tenero
pianto l’empito della passionalità
catulliana imprime al distico elegiaco una natura dolce e levigata, vicina alla trascolorante musicalità di
Tibullo. Ligdamo ama Neera, la
vuole sposa, ma ella, spergiura, non
lo vorrà, ed egli chiederà al vino
l’oblio delle sue pene, poiché gli è
ancora cara (odi et amo di Catullo).
La poesia di Tibullo è più ricca di
motivi: fonde il motivo erotico con
quello agreste. Canta Delia nel libro
primo, Nemesi nel secondo libro.
Apuleio in un passo dell’Apologia ci
rivela che Delia, donna sposata, come la Lesbia di Catullo, si chiamava
Plania, ma non si sa nulla di più. Sia
Delia che Nemesi sono rappresentate infedeli ed avide; la campagna di
Tibullo, salvo qualche tratto di maggiore spontaneità, ha troppi colori
virgiliani per non essere un raffinato
riecheggiamento letterario. Quintiliano gli diede la palma fra i poeti
elegiaci e lo definì tersus atque elegans. Il mondo poetico di Tibullo,
benché libresco, realizza un clima di
sogno, soffuso di malinconia.
L’ideale della morigeratezza e serena vita di campagna costruisce una
sottile trama di allusioni ai poeti
contemporanei del regime: nella entusiastica esaltazione della paupertas della vita rustica e della Pace
brilla l’exemplum di una moralità
d’altri tempi, dove pure tuttavia trova posto la forza soggiogante dell’amore. Tematiche augustee sono
presenti soprattutto nel secondo libro: la celebrazione della festa agricola degli Ambarvalia (el. 1) e la nomina di Messalino nel collegio sacerdotale dei quindecemviri sacris
faciundis et Sybillinis libris inspiciundis (el. 5).
L’ideale del poeta elegiaco (così anche Properzio) appare dunque profondamente anticonformistico:
•
rifiuto dell’impegno militare e
politico;
•
aspirazione individualistica
3
all’otium;
ruolo
totalizzante
dell’esperienza amorosa;
figure femminili dominanti che
impongono le regole del gioco,
che godono di estrema libertà
nei rapporti con il sesso maschile, negli spettacoli, negli
svaghi;
massima dignità accordata alla
poesia erotica, con presenza di
numerosi termini desunti dal
linguaggio militare, poiché
quella dell’amante è una militia
amoris e suoi sono gli accampamenti di Venere.
all’attenzione dei lettori contemporanei un canzoniere amoroso in cui
una donna occupa il ruolo centrale.
È impossibile dedurre dai carmi di
Properzio la cronaca del suo rapporto con Cinzia: il tentativo di ricostruire un romanzo d’amore è destinato a sicuro fallimento, perché
più di un’elegia fornisce elementi e
situazioni in aperto contrasto con
elementi e situazioni di altre elegie.
(Fedeli). Nel libro primo del 28 a.C.
si afferma: la mia donna crea il mio
ingegno. Nel libro infatti l’amore
per Cinzia che già dalla prima elegia si caratterizza come sofferenza
(Cinzia per prima con i suoi occhi catturò me mi-
PROPERZIO
Sesto Properzio nacque nell’Umbria,
forse intorno al 47 e morì verso il 14
a.C. Con i suoi quattro libri di elegie
rivendicò a sé il merito di aver portato in primo piano a Roma l’elegia
erotica derivata da Callimaco e Filita. Le terre di Properzio furono spartite fra i veterani dopo Filippi. Mortogli il padre, quando era bambino,
la madre lo condusse a Roma, ove si
dedicò alla poesia.
Sulla sensibilità amareggiata e raffinata del poeta piombò l’amore per
Cinzia (Apuleio dice che si chiamasse Hostia), raffinata e dissoluta meretrix. Tuttavia l’elemento biografico nella poesia d’amore del I secolo,
se esiste realmente, costituisce comunque un’occasione di rielaborazione poetica e subisce un processo
di trasformazione e riadattamento:
ciò che veramente importa non è
d’altra parte il fatto che si canti una
donna reale, ma che si proponga
sero, nessun Amorino mi aveva ancora ferito. Allora Amore mi fece abbassare lo sguardo sempre
sprezzante, mi pose i piedi sul capo e premette,
finché mi indusse, spietato, ad avere a noia le caste
fanciulle e a vivere privo di senno. Da un anno
intero questa follia non mi lascia, ed intanto sono
•
•
•
costretto ad avere contrari gli dèi)
riempie
tutto, salvo le due elegie finali, con
il dolore per la patria e la famiglia
distrutte. Come Tibullo, il poeta dichiara che i fati vogliono che egli sia
assoggettato non ad altra milizia che
non sia quella d’amore. Le favole
mitologiche d’amore, fornitegli dalla
poesia ellenistica, erudite e particolari, entrano copiose nei suoi carmi.
È quasi orgoglio per Properzio constatare che egli ama come hanno amato gli dèi e gli eroi dei miti. Alludendo alla veemenza in essi contenuti, Ovidio definì ignes i versi di
Properzio. A questo intimo fuoco divoratore si adegua l’espressione robusta fino all’oscurità, densa fino al
preziosismo, ma sempre entro una
severa eleganza. Anche i vocaboli
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spesso assumono significati diversi
dai soliti e rendono enigmatica
l’espressione.
Il secondo libro fu pubblicato nel 25
a.C. e dedicato a Mecenate (come il
terzo). Si accenna soltanto al desiderio di trattare altri argomenti, ma il
poeta non si ritiene in grado di celebrare le imprese del princeps (recusatio), rifiuta quindi il poema epicostorico e tutto nel libro parla ancora
di Cinzia: le dice che non presterà
orecchio a nessuna diceria sul suo
conto; le giura di amarla, sulle ossa
del padre e della madre e che le ceneri di entrambi gli pesino sul cuore, se non è vero. Se Cinzia si ammala dice a Giove che sarebbe delitto il suo, se facesse morire tanta bellezza.
Nel terzo libro, pubblicato intorno al
22, dedica qualche svogliata nota
alla celebrazione delle gesta di Augusto (spedizione contro i Parti, vittoria di Azio); quel poco che Properzio concede alla poesia officiosa è
dovuto alla stanchezza della sua vena erotica, in seguito alle delusioni
provate con Cinzia e, nel chiudere il
libro, il poeta nota che noi ci fingiamo a piacer nostro la donna che amiamo.
Nasce poi nel 14 a.C. il quarto libro,
dove Properzio appaga le attese di
Mecenate: parla dei tempi leggendari di Evandro, del dio Vertunno, di
Tarpea, della vittoria di Azio, di Ercole e Caco, delle origini del culto di
Giove Feretrio. Confessa in queste
elegie di imitare Callimaco nella
eziologia.
VIRGILIO
Publio Virgilio Marone nacque il 15
ottobre del 70 a.C.
ad Andes, un villaggio presso Mantova. I biografi fanno del padre un
campagnolo;
la
biografia falsamente attribuita a Probo
gli dà
l’appellativo di rusticus. Ebbe Virgilio a Cremona la prima educazione
letteraria, fino alla toga virile, che
prese nel 55. Studiò poi retorica a
Milano, da dove si trasferì a Roma.
A Roma studiò per divenire oratore,
ma era timido e di difficile parola.
Entrò in rapporti con Pollione e Cornelio Gallo, apprese da Sirone la filosofia epicurea, che lo affascinò anche attraverso l’opera di Lucrezio.
Alla giovinezza appartiene il Culex,
ritenuto autentico da Lucano Marziale e Stazio (vi si parla di una zanzara
che svegliandolo salva un contadino dal
morso di un serpente; uccisa però dal contadino irriconoscente, gli apparirà in sogno).
La Ciris (del 49) è un epillio sul tipo della Zmyrna di Cinna e canta la
passione delittuosa di Scilla.
Alcuni Catalepton (poesie spicciole), se autentici, vengono dopo
l’Eneide.
Le ecloghe (Bucoliche) rivelano gli
aspetti sereni e rigeneranti della natura, di tipo epicureo. Scritte dal 41
al 39 sono dieci: forse la prima in
ordine di tempo è la seconda, serenata del pastore Coridone al giovinetto Alessi; seconda è la terza, dia-
5
logo e contrasto fra due giovani cantori. Nella quinta il poeta lamenta la
morte di Dafni e ne esalta la trasfigurazione, alludendo probabilmente
alla morte e alla apoteosi di Cesare.
Nel 41, dopo la vittoria di Filippi, i
triumviri spartirono fra i veterani le
terre nella Gallia Cisalpina ed arrivarono ad intaccare il territorio di
Mantova. Asinio Pollione, forse intercedendo presso Ottaviano, riuscì
ad ottenere la revoca dell’esproprio
ai danni di Virgilio (c’è l’eco dei fatti nella bucolica I).
Nell’ecloga IV, distaccandosi dalla
tradizione teocritea, Virgilio compone un canto più elevato (Sicelides
Musae, paulo maiora canamus!):
esalta il ritorno dell’età dell’oro dopo anni di guerre civili, preannunciata dalla nascita di un fanciullo,
forse il figlio di Asinio Pollione.
Dopo Pollione governò la Cisalpina
il giurista Alfeno Varo, assistito da
Cornelio Gallo. Fu allora che Virgilio perse il podere; la poetica protesta è nell’ecloga IX; dello stesso periodo è l’ecloga VI, importante per
la recusatio in essa contenuta (Talia,
la mia musa, mi concesse all’inizio
di poetare in verso siracusano e non
arrossì di abitare nei boschi. Quando però mi accinsi a cantare di re e
battaglie, Cinzio – epiteto di Apollomi tirò l’orecchio e mi ammonì: «Al
pastore, Titiro, si addice di pascolare le pecore grasse, ma di comporre una canzone dimessa») e per
l’esplicita adesione alla dottrina epicurea (i pastori Cromi e Mnasillo,
sotto i cui nomi si celano forse Virgilio stesso e Varo, sorprendono Si-
leno ubriaco in una grotta e lo
costringono a cantare. Sileno, sotto
le cui spoglie si può leggere
un’allusione al filosofo Sirone, a
narrazioni mitologiche unisce motivi tipici della filosofia epicurea,
congiunta, come in Lucrezio a riflessioni di matrice empedoclea (v.31:
cantava infatti come nel vuoto immenso si trovassero ammassati gli
atomi della terra, dell’aria, del mare
e insieme del puro fuoco; come da
questi primi elementi si condensassero tutte le cose e lo stesso molle
globo del mondo). Importante è
anche la decima bucolica, in cui
Virgilio chiede alla ninfa Aretusa
l’ispirazione per scrivere versi di
consolazione per l’amico Cornelio
Gallo che soffre per amore di Licoride.
Dal cocente ricordo dell’esproprio,
dal disorientamento degli agricolae
italici, dall’inestinguibile amore per
la natura agreste in cui trovar pace
Virgilio concepì le GEORGICHE. Si
rifece al modello delle Opere di
Esiodo e alla trattatistica latina, da
Catone a Varrone e forse anche al
cartaginese Magone, ma il cammino
gli fu indicato da Lucrezio. La
natura va intesa anche nella sua
bellezza purificatrice: in ciò Virgilio
si stacca dal duro utilitarismo della
concezione esiodea. In tutto il poema l’afflato lirico insidia la
trattazione più strettamente didascalica. I quattro libri trattano:
cerealicoltura, culture arboree, specie le viti, allevamento del bestiame, apicoltura. L’opera si chiude
con la favola di Aristeo. Tra i passi
6
più importanti commentati insieme
ricorda:
a. le cosiddette lodi dell’Italia nel
libro II (la terra dei Medi ricchissima di vegetazione boschiva, il
maestoso Gange e l’Ermo opaco
d’oro non gareggiano con le glorie
dell’Italia e neanche Battra e l’India
e la Pancaia ricca di sabbie sature
d’incenso…)
b.
la costruzione del tempio all’inizio del libro III che preannuncia il progetto dell’Eneide
(in un verde campo edificherò un
tempio di marmo vicino alle acque
dove scorre il grande Mincio…).
L’ENEIDE
La Vita donatiana ci riporta che Virgilio prima stendeva in prosa i dodici libri del poema e poi dava loro veste poetica: la notizia rende bene la
fatica compositiva dell’opera. Virgilio gareggia con Omero: da questo
trae insegnamento nelle immaginose
similitudini e nelle formule fisse ricorrenti ad ogni ripetizione di una
data circostanza; Ennio gli offrì il
destro per patinare di arcaico linguaggio e stile. Virgilio riecheggiò i
primi sei libri dall’Odissea, gli ultimi sei dall’Iliade. Nell’amore di Didone Apollonio Rodio rappresenta
uno degli stimoli principali della
fantasia di Virgilio. Dall’amore infelice tra Enea e Didone si consacra
l’eterna inimicizia tra Roma e Cartagine, secondo una tradizione già presente nel Bellum Punicum di Nevio.
Il pius Aeneas, a cui la provvidenza
assegna un compito eccezionale, è
protagonista del poema e prototipo
della virtus Romana, che è pazienza,
fermezza, virile rinuncia, devozione
agli dèi. Perciò l’Eneide assurse subito alla dignità di poema nazionale
italico. Grande celebrazione della
grandezza futura di Roma è soprattutto:
a. nella descrizione fatta da Anchise nell’Ade al figlio Enea
dei personaggi che si preparano
a scendere sulla terra, fino al
commovente ricordo della prematura morte di Marcello e dei
trionfi di Ottaviano
b. nell’¶kfrasiw dello scudo di
Enea con la storia d’Italia e dei
trionfi romani.
Accanto alle note dell’epica c’è lo
spirito romano più fraterno, più umano, più pensosamente complesso:
il secondo libro, con la descrizione
della rovina di Troia, scopre in Virgilio una nota quasi sconosciuta ai
poemi omerici, la pietà per i vinti
oppressi e straziati; questa sensibilità fece sì che non a torto i poeti elegiaci d’amore dell’età augustea si
rivolgessero a Virgilio come al loro
fratello maggiore. Così il poeta della romanità diveniva anche il precursore dell’umanità nuova, il poeta pagano in cui traluceva in anticipo il
primo raggio della grande palingenesi operata dal Cristianesimo.
Nel 19 Virgilio decise un viaggio in
Grecia e in Asia per verificare personalmente particolari del poema. Ad
Atene incontrò Augusto, reduce
dall’Oriente e decise di rientrare a
Roma con lui. A Megara si ammalò
e durante il viaggio di ritorno morì a
Brindisi il 21 settembre dello stesso
anno. Fu sepolto nella prediletta Na-
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poli. Augusto dette disposizioni a
Vario di pubblicare l’Eneide, contro
la volontà dello stesso Virgilio .
L’opera si affermò subito come la
più alta opera poetica della latinità;
nel corso del I sec. il grammatico
Remmio Palemone, incoraggiando
nelle scuole la lettura di Virgilio,
consacrò l’Eneide a testo formativo
della gioventù studiosa. Si deve probabilmente al grammatico Probo
l’edizione che divenne la base definitiva per la costituzione del testo.
ORAZIO
Quinto Orazio Flacco, figlio di un
liberto, esattore delle aste pubbliche,
nacque l’8 dicembre del 65 a.C. a
Venosa. A venti anni andò ad Atene
per studiare filosofia. Dopo
l’uccisione di Cesare raggiunse il
grado di tribunus militum sotto Bruto. Nell’ode 2,7 rievoca la rotta di
Filippi che gli fece svanire
l’infatuazione stoica e repubblicana
(relicta non bene parmula). Dopo
l’amnistia concessa ai superstiti
dell’esercito repubblicano, tornato in
patria, ebbe confiscati la casa e il
podere a vantaggio dei veterani che
avevano combattuto con Antonio e
Ottaviano. Per vivere Orazio fece lo
scriba quaestorius. Sono di questo
periodo la conversione
all’epicureismo e al desiderio
dell’otium contemplativo e la ribellione titanica, quasi romantica, di
Orazio (vd. l’aspra seconda satira
del primo libro, la terza, l’ottava e
buona parte degli epodi, ove si ritrova più la fiambikØ fid°a di Archiloco
e Ipponatte che non le raffinate
smorzatore di Callimaco).
Nel 38 Virgilio e Vario lo presentarono a Mecenate (Sat. 1,6) ed Orazio
uscì dallo sconforto. Nel 37 partecipò al viaggio di Mecenate a Brindisi
(Sat. 1,5). Nel 35 Orazio pubblicò il
primo libro delle Satire, dedicato a
Mecenate (le chiamò sermones, distinguendole dalla poesia di grande
impegno). La gnomica oraziana non
si presenta qui come la sola messa a
frutto dei buoni insegnamenti paterni (sat. 1,6), ma come l’applicazione
di quanto professato dalle filosofie
ellenistiche, soprattutto quella epicurea, e dalla diatriba cinico-stoica:
principi fondamentali sono la metriòtes (ricerca del giusto mezzo) e
l’autàrkeia (autosufficienza del saggio). La ricerca del giusto mezzo
consente a Orazio di conciliare
l’esigenza - molto avvertita nella società romana del tempo - di una morale più salda, con l’edonismo di
fondo che è tipico di chi, come lui,
resta pur sempre un Epicuri de grege porcus (Fedeli).
Il successo dell’opera spinse Orazio
a scrivere un secondo libro, ove però
il repertorio degli spunti diatribici
finì per prendergli la mano e per imbarcarlo in una inesorabile condanna
di tutti gli appetiti umani. Lentamente si convertì alla politica di Augusto, così negli epodi I e IX egli, il
deprecatore delle guerre civili, si trasformò nel cantore della battaglia di
Azio, decisiva per l’assetto dello
Stato romano. Nel 30 furono pubblicati il Libro degli Epodi e il secondo
libro delle Satire. Si apre ora il periodo più schiettamente lirico del-
8
l’attività poetica di Orazio. Nel 23
pubblicò i libri delle Odi che
nell’impianto originario dovevano
essere soltanto tre: conclusiva infatti
risulta essere l’Ode 3,30, ove il poeta esprime nel congedo la consapevolezza del risultato raggiunto (Ho
innalzato un monumento più duraturo del bronzo, più alto della mole
regale delle piramidi;…si dirà di me
che da umile divenuto potente, per
primo ho trasportato nei ritmi italici
il carme eolio).
Subito dopo tornò alla poesia dei
sermones nella forma dell’epistola
poetica; videro così la luce nel 20 il
primo libro delle Epistole e nel 13 il
secondo, con l’epistola ad Augusto,
quella a Floro, e quella ai Pisoni, più
comunemente nota con il nome di
Ars poetica. Fonte di quest’ultima è
soprattutto il peripatetico Neottolemo di Pario, che Orazio riprese attraverso la confutazione
dell’epicureo Filodemo.
Nel 17 Augusto gli commissionò il
Carmen Saeculare. Nel 15 lo stesso
Augusto (stando alla maldicenza di
Svetonio) volle che il poeta celebrasse la vittoria dei figliastri Tiberio e Druso sui Reti e sui Vindelici:
nacque perciò il quarto libro delle
Odi (che Orazio dichiarò di scrivere
sotto l’urgenza di un nuovo amore,
quello nei confronti di Ligurino) incentrato sulle odi 4 e 14 in cui il
poeta emula Pindaro, di cui pur sostiene l’inimitabilità (Ode 4,2).
Mai poeta lirico ebbe come Orazio il
rispetto religioso per l’altezza della
poesia e l’ufficio del vates: ma nel
vates egli scorgeva, secondo i detta-
mi dello stoicismo, principalmente
l’educatore, il pedagogo del proprio
popolo, e quindi cercava di assumere atteggiamenti non disdicevoli alla
gravitas del compito scelto. Gli abbandoni più schietti se li concedeva
nei levia carmina, cioè nelle scherzose poesie d’amore, con sensi epicurei. Figure di donna cantate: Glicera, Barine, Licoride, Lidia, Leuconoe, Clori, Mirtale; l’amore non deve compromettere l’indispensabile
equilibrio dell’anima. E Orazio è ancora nella moderazione in qualsiasi
momento della vita; il motivo delcarpe diem non va quindi inteso come sfrenata gioia di vivere, ma senso di incertezza delle gioie umane e
tentativo di cogliere ciò che di positivo si può trovare in ogni momento
della vita.
Orazio morì il 27 novembre dell’8
a.C., subito dopo Mecenate.
9
DA TIBERIO A NERONE
La fine del mecenatismo
La scomparsa di Augusto e di
Mecenate ed il venir meno della loro
accorta opera di mediazione fra il
potere politico e l'élite intellettuale
provocò un distacco che non si sarebbe più ricomposto se non in modo occasionale e precario (per esempio nei primi anni del principato neroniano). La crisi del mecenatismo è
già manifesta con Tiberio che non
sembra nemmeno porsi il problema
di organizzare un programma di egemonia culturale. Prende vigore intanto una storiografia contraria al
principato, con quell'atteggiamento
di ostilità verso la dinastia giulioclaudia il quale avrebbe esteso i1 suo influsso sino a Svetonio e a Tacito,
e a cui risale l'immagine che dei sovrani di quella famiglia si sarebbe
trasmessa alla posterità.
La letteratura si distacca dalla scena
politica e si ritira nelle sale di lettura. Predomina la ricerca dell'effetto,
di uno stile asiano brillante e prezioso, ricco di pathos e colores. Anche
l'oratoria si confronta su temi fittizi,
non più legati alla realtà forense
(ricorda la polemica di Quintiliano,
di Tacito nel Dialogus e la tirata di
Encolpio contro il retore Agamennone nei primi capitoli del Satyricon).
LA POESIA ASTRONOMICA
Lo studio degli astri non ha solo
fine scientifico o erudito; è strettamente
connesso con la filosofia e la religione. Gli
stoici, ad esempio, dànno grande impor-
tanza al rapporto dell'uomo con il cosmo e
al legame tra destino umano e leggi naturali. Anche nella religione popolare è frequente il concetto di predestinazione astrale, regolata da attrazioni celesti.
Germanico, figlio adottivo di Tiberio, ucciso forse per un complotto politico,
tradusse negli Aratea (dedicati a Tiberio) i
Fenomeni di Arato e nei Prognostica fornì
una rielaborazione molto libera dei Pronostici dello stesso Arato.
Nulla si sa della vita di Manilio.
Scrisse gli Astronomica, poema didascalico in cinque libri, fra il principato di Augusto e quello di Tiberio (utile elemento di
datazione è l'influsso delle Metamorfosi di
Ovidio, nel gusto sentimentale e rococò di
certe digressioni mitologiche che si staccano nettamente dal contesto astronomico).
Lo studio degli astri predice gli eventi e
ciò reca un beneficio all'umanità; in ciò
Manilio è vicino allo spirito didascalico di
Lucrezio, anche se nella dottrina ne è agli
antipodi, poiché l'astrologia si basa su leggi naturali fissate da uno spirito divino, la
ratio cosmica che muove la grande macchina dell'universo. Sua fonte forse fu lo
stoico greco Posidonio.
STORIOGRAFIA
DEL CONSENSO
.
VELLEIO PATERCOLO nacque ad
Eclano, nell'Irpinia. Fu in Germania con
Tiberio, come capo della cavalleria; fu
pretore ed infine si ritirò a vita privata.
Scrisse due libri storiografici Ad Marcum
Vinicium (pubblicati nel 29), compendio di
storia universale, dalle origini fino ai tempi dello scrittore. Le epoche più antiche
sono trattate sinteticamente, quasi in forma
di compendio, mentre Velleio si dilunga
sulla storia contemporanea; esalta le doti
militari e politiche di Tiberio, sì che la storiografia libertaria del secolo scorso lo definì vile cortigiano. I1 suo stile, drammatico e patetico, costituisce il miglior ponte
di passaggio fra Sallustio e Tacito.
10
LA VISIONE ROMANZESCA
DELLA STORIA
CURZIO RUFO La composizione della
sua opera risale ai primi anni del regno di
Claudio; 1'Historia Alexandri Magni è in
dieci libri (perduti i primi due, la fine del
quinto e l'inizio del sesto). Si tratta di una
vita romanzata, in cui si mira a rievocare
con i colori più avvincenti del1'asianesimo
un'impresa che sa di favoloso; siamo sulla
falsariga del romanzo ellenistico d'avventura, con gusto frivolo, ghiotto del particolare
curioso e solleticante: seduzione di terre
lontane, usi sfarzeschi d'Oriente e sue misteriose meraviglie.
LA FAVOLA
FEDRO nacque in Tracia e a Roma
fu liberto di Augusto. Fece della favola la sua unica forma d'arte. Nella raffinatezza metrica e nella sorvegliata
brevità si ritrova l'aspetto del poeta di
tipo alessandrino. I primi due libri dovettero essere composti sotto il regno
di Tiberio poiché nel proemio al terzo
libro si parla d'un processo che Seiano aveva intentato all'autore, sospettando nelle favole malevole allusioni.
Nelle Nozze del Sole (in greco ¥liow,
dunque assai vicino al nome Elio di
Seiano) le rane, tipico simbolo esopico per indicare la gente comune, sono
nel panico: se già da solo il Sole scotta (cioè Seiano è molesto con il popolo) cosa accadrà dopo la nascita dei
figli?
A proposito della favola Quintiliano Inst. V, 11 cita Esiodo, come
iniziatore del genere, Esopo, Menenio
Agrippa col suo famoso apologo e
Orazio; tralascia di parlare di Fedro.
Di lui non si ricorda neanche il contemporaneo Seneca che nella Consolatio ad Polybium esorta
quest’ultimo, al fine di vincere il do-
lore per la morte del fratello, a scrivere fabellas et aesopeos logos, intemptatum Romanis ingeniis opus. A Fedro accenna invece Marziale III 20 l
Ògouw improbi Phaedri (le favole
dell’impertinente Fedro).
L'opera completa di Fedro comprendeva cinque libri; ne abbiamo i proemi e gruppi di favole presi qua e là da
ogni libro. Nel Medioevo non fu conosciuto direttamente, ma attraverso
un corpus di favole in prosa, da cui si
ricavò una raccolta che prese il nome
di Romulus o Aesopus latinus.
SENECA .
Seneca pone più che mai l'accento sul problema morale,
sotto l'urgenza della crisi
spirituale della Roma
contemporanea; egli è
più che un austero maestro di precetti etici un
tormentato agitatore di problemi morali.
Le certezze morali su cui, alla
fine del secolo XIX, la cultura tedesca fondava i suoi autocompiacimenti; i modelli sempre presenti di ideali
sistemi filosofici organicamente costruiti, a Seneca però estranei ed impossibili; la ricercata uniformità di
uno stile facilmente definibile, non
certo vario ed inquieto, imprevedibile
ed inafferrabile come quello di Seneca, giustificano i giudizi pronunciati
dai giganti della storiografia e della
filologia classiche (Mommsen, Wilamowitz , Vahlen, Schwartz), tanto
severi al nostro orecchio ed intollerabilmente negativi. Sfuggiva a costoro
come l'artista ed il politico potessero
11
essere uomini a “più dimensioni” e
non paradigmi di moralità proclamata e sempre vissuta, non prevedevano
come il secolo XX, allora al suo
schiudersi, culturalmente sarebbe
stato segnato proprio dall'apertura
drammatica sui variegati abissi
dell'animo, dalla scoperta e dall'analisi delle contraddizioni esistenziali,
quali si verificano nella condizione
umana, dalla frantumazione di un
crudele ordine sociale che si credeva
valido per l'eternità. Non la critica
del XIX secolo, ma quella del XX può
dirsi quindi strutturalmente attrezzata per avvicinarsi all'enigma rappresentato da Seneca e tentare di risolverlo; solo periodi storici incerti e
dubbiosi della validità di un ordine
precario, angosciati dalla percezione
delle proprie debolezze politico-morali, possono accoglierne il messaggio.
Due motivi opposti tengono in tensione drammatica la vita di Seneca: da
una parte l'educazione familiare ricevuta, le pressioni esercitate su di lui
dal padre a ché intraprendesse la
carriera forense e quindi politica,
dall'altra gli insegnamenti filosofici
ricevuti in gioventù, che mettendo in
discussione, ridicolizzando i valori
fondamentali della società romana
(potere, gloria, denaro), gli proponevano un tipo di vita «contemplativa»,
basata sulla riflessione, sullo studio.
Su questi due punti estremi poggiano
dunque la sua vita vissuta (attiva e
moralmente reprensibile) e la sua vita sognata («contemplativa» e valida
come esempio per gli altri). Ed egli è
ben conscio della discrasia nevrotizzante cui la sua personalità così sog-
giace. (Viansino). Significativa al riguardo la testimonianza dell’epistola
60, in cui Seneca scrive: Ancora ti
auguri ciò che per te si augurarono
la nutrice, il pedagogo, la madre?
Non capisci ancora quanto male ti
hanno augurato? Quanto sono negativi per noi i voti delle persone che ci
vogliono bene! Ormai non mi meraviglio se tutti i mali CI perseguitano:
SIAMO cresciuti tra i voti malaugurati dei nostri genitori.
Seneca nacque a Cordova intorno al 4 a.C., da Seneca il Vecchio.
Compì i suoi studi a Roma, sotto la
guida di Papirio Fabiano, retore e filosofo stoico, dello stoico Attalo, del
cinico Demetrio e del neopitagorico
Sozione.
Terminati gli studi a Roma, si
recò in Egitto. Tornato a Roma fu introdotto nell'ambiente di Caligola e
ottenne la questura. Esercitò l'arte
oratoria. Nel 39 un suo discorso gli
attirò l'ira di Caligola e a stento salvò
la vita, ma nel 41, coinvolto in un
processo, fu esiliato in Corsica, ove
rimase otto anni. Forse appartengono
a questo periodo i tre libri De ira, dedicati al fratello Anneo Novato, dove
si vede ancora l'esercitazione ad effetto. A Polibio, liberto di Claudio, Seneca inviò una consolatio per la morte del fratello: lo scopo è di adulare
l'imperatore per tornare a Roma. Più
vibrata la consolatio ad Helviam matrem, sempre dall'esilio. Dello stesso
periodo è il De providentia: spiega
che non bisogna meravigliarsi se la
Provvidenza divina mette a dura prova proprio i più virtuosi; con il dolore
infatti si temprano le anime più gran-
12
di.
Suppliziata Messalina dal marito, la
nuova imperatrice, Agrippina minore,
fece richiamare Seneca dall'esilio (49
d.C.) per farne il precettore di Nerone. A questi il filosofo istillò ideali di
saggezza ed equilibrio, ma anche il
senso di una religiosa venerazione
che nella civiltà ellenistico-orientale
circondava il despota.
Morto Claudio, scrisse il Ludus de
morte Claudii, critica spietata all'apoteosi del morto imperatore.
Dell'azione di governo, Seneca
fu più l'ispiratore occulto che non il
responsabile diretto. Dedicò a Nerone
il De clementia, in tre libri, ove si difende l'idea di un principato illuminato e conciliativo. Nei sette libri del De
beneficiis è una trattazione completa
sugli obblighi reciproci fra beneficiati
e benefattori e sui modi del beneficio
e dell'ingratitudine. Sempre nel periodo della sua vita politica, Seneca
scrisse il De vita beata (ove spiega, a
chi gli rinfacciava la propria fortuna,
che per il saggio la vera beatitudine è
nella coscienza della propria virtù) e
il De costantia sapientis, ove mostra
con quale animo getti in un canto le
calunnie e le ingiurie scagliategli contro. Nel De tranquillitate animi il
filosofo ribatte l'accusa di essere usuraio, spiega perché ha intrapreso
l’attività politica e si professa seguace
degli stoici (de tranq. animi 10: sono
deciso a seguire la via dei precetti e a
mettermi in mezzo alla vita politica:
ho deciso di ottenere cariche pubbliche non certo perché portato fuori
strada dalla porpora e dalle verghe,
ma per essere più disponibile agli
amici, ai parenti, a tutti i concittadini,
agli uomini. Ben deciso seguo Zenone, Cleante e Crisippo, nessuno dei
quali fece tuttavia politica, eppure
tutti e tre spinsero a farla. Aiutano a
r a g g i u n g e re l a t r a n q u i l l i t à
dell’animo anche l’amicizia dei buoni, la parsimonia e la frugalità, la serena accettazione delle avversità e
della morte).
Nel De otio è affrontato il tema
dell'otium e del negotium: forse rimpiangeva gli ozi di Corsica e presagiva che i negotia della sua vita politica
stavano per venir meno; vi è conciliazione fra l’ideale stoico e quello epicureo.
Influenza della dottrina epicurea si riscontra
anche altrove, ad esempio nelle Troiane
vv. 372-494 dove il coro si esprime sul destino riservato all’uomo dopo la morte (È
vero o è solo una favola che illude la nostra
paura, è vero che un’ombra rimane quando
il corpo è sepolto, quando il consorte sugli
occhi ci ha disteso le mani e l’ultimo giorno
ha bloccato la luce di tutti i soli ed una triste urna ha rinchiuso le ceneri? Dunque
non serve abbandonare l’anima alla morte
ma agli infelici rimane da vivere ancora? O
forse moriamo del tutto e non rimane più
nulla di noi, quando in un soffio fuggente il
nostro respiro è diventato nube, si è perduto
nell’aria e la fiamma ha toccato il cadavere?). Per fugare ogni dubbio di incoerenza
rispetto al pensiero stoico, cui Seneca dichiara di appartenere, basta leggere quanto
lui stesso afferma nell’epistola 12 “quod
verum est, meum est...Isti qui in verba iurant nec quid dicatur aestimant, sed a quo,
sciant quae optima sunt esse communia”.
Al medesimo momento critico del De
otio è legato il De brevitate vitae, dedicato al prefetto dell'annona Paolino:
vi dice che è da sciocchi lamentarsi
della brevità della vita; siamo noi che
impieghiamo male il tempo che ci è
concesso.
13
Già Quintiliano, che scrisse pochi decenni dopo la morte di Seneca, ricorda che vengono comunemente citate
con il titolo complessivo di Dialogi le
seguenti opere: Consolatio ad Marciam, Consolatio ad Polybium, De
ira, De brevitate vitae, De vita beata,
De tranquillitate animi, De otio, De
providentia, De con stantia sapientis.
In effetti quelli di Seneca non sono
dialoghi alla maniera platonica o ciceroniana, in cui la discussione si articola fra due o piu personaggi, in una
cornice drammatica con ambientazione storica, sia pure inventata. Nei dialoghi Seneca parla sempre in prima
persona ed ha come interlocutore unico il dedicatario dell’opera, che tuttavia è assente (unica eccezione il De
tranquillitate animi dove Seneca dialoga con l’amico Anneo Sereno). Frequente è anche l’introduzione di domande e obiezioni di un interlocutorre fittizio, portavoce delle opinioni
comuni o di posizioni diverse da
quella dell’autore. In ciò si ha un
chiaro influsso dalla diatriba cinicostoica.
Le tragedie
Si è discusso a lungo se le tragedie di Seneca furono scritte per la
rappresentazione sulla scena o per la
lettura. A favore di questa ultima ipotesi, forse la più plausibile, stanno i
seguenti elementi: i lunghi excursus
narrativi, i cori di andamento per lo
più lirico-filosofico, la mancanza di
evoluzione psicologica dei personaggi. Knoche parla di exempla filosofici
di carattere stoico, quasi dimostrazioni pratiche e contrario di quell'ideale
di equilibrio esposto nei trattati filosofici (p.es. egli interpreta il Tieste
come 1'exemplum dei mali cui può
condurre l'ira, con esplicito riferimento al trattato senecano De ira).
E' opinione prevalente che Seneca abbia composto le sue tragedie
(Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemno, Thyestes, Hercules Oetaeus)
in un unico ciclo, subito dopo il ritiro
dall'attività politica e c'è chi in molte
di esse ha voluto vedere l'atteggiamento di rivendicazione della libertà
contro la tirannide neroniana. Suo
modello preferito fu Euripide, che più
analizza le umane passioni. Oltre agli
antecedenti drammatici è sensibile
l'influsso di Ovidio e Virgilio.
C'è ricerca di perfezione metrica: gli
intermezzi corali si modulano spesso
sui ritmi oraziani e nel trimetro giambico si introduce la medesima disciplina delle sostituzioni che Orazio
aveva introdotto nei metri lirici.
Ricorda il gusto del macabro che è
diretta ripresa delle tragedie di Pacuvio.
Fra le tragedie i manoscritti ci hanno
conservato una praetexta l'Octavia,
che sceneggia la morte di Ottavia,
moglie di Nerone e fra i personaggi è
lo stessso Seneca. Deve forse trattarsi
dell'opera di un imitatore.
Le Naturales quaestiones sono
l'unica opera di Seneca di carattere
scientifico. Vi sono trattati i fenomeni
atmosferici e celesti, dai temporali, ai
terremoti, alle comete. È il frutto di
un vasto lavoro di compilazione.
Le Epistulae morales ad Lucilium in 20 libri sono il capolavoro
della filosofia e della prosa di Seneca.
È ancora sub iudice se si tratti di un
epistolario reale o fittizio; costituisce
14
comunque un unicum nel panorama
letterario-filosofico antico. Modelli:
Platone ed Epicuro. Le epistulae vogliono essere uno strumento di crescita morale, un diario delle conquiste
dello spirito nel lungo itinerario verso
la sapientia di uno straordinario percettore di stati d’animo, attraverso un
esempio quotidiano di vita che, sul
piano pedagogico, si rivela più efficace dell’insegnamento dottrinale.
(ep. 27: ascolta me, dunque, come se
parlassi con me stesso. Io ti ammetto
al mio segreto e, fattoti entrare, faccio i conti con me stesso).
Gli argomenti delle lettere, al di fuori
di ogni sistema filosofico, sono svariati, ma generalmente ricondotti alle
tematiche della tradizione diatribica:
autosufficienza del saggio, indifferenza alle seduzioni mondane, disprezzo
delle opinioni correnti, distacco dalle
passioni.
Nel 65, scoperta la congiura antineroniana dei Pisoni, di cui faceva
parte il nipote Lucano, Seneca fu costretto ad uccidersi.
EVOLUZIONE
DEL GENERE EPICO
LUCANO nacque a Cordova nel 39
d.C. A Roma fu educato dallo stoico
Anneo Cornuto, poi fu ad Atene per
perfezionarsi. Nerone lo volle fra i
suoi e lo fece questore. A ventisei anni, quando morì aveva composto la
Farsaglia in dieci libri (o Bellum civile), la tragedia Medea, quattordici fabulae salticae (libretti per pantomimi), ed altre opere minori.
La biografia del Vacca parla di gelosi-
a di Nerone nell'arte, sì che gli proibì
di scrivere versi. Forse l'ardore di Lucano per gli ideali tradizionalisti ed
anticesariani si accrebbe sinceramente sotto il colpo della proibizione:
contro il poema di Virgilio che celebrava l'origine e la missione divina
della Gens Iulia, il suo poema storico
deprecava la guerra di Cesare e quindi il diritto di Nerone al principato.
Ricorda la tecnica antifrastica nella
ripresa di Virgilio e le profezie di
sventure.
I1 poema non è completo nel decimo libro: forse doveva giungere sino alle Idi di marzo con l'uccisone di
Cesare da parte dei congiurati.
La retorica asiana si adegua nel
poema al rovente furore ideologico
del giovane poeta. I1 poema di Lucano è accesa polemica contro il principato dispotico, contro Virgilio ed il
poema di argomento mitologico, contro lo sperare nella TÊxh) anziché
poggiarsi sulla virtù. Per Lucano il
poema storico deve servire da vera e
propria documentazione critica dei
fatti narrati. Vi è anche molta erudizione storico-geografica. Lo stile è
uggiosamente retorico, la struttura
sintattica è fra le più ricercate ed artefatte. 1'Asianesimo in veste poetica fa
qui le sue prove supreme: periodi brevi, sentenziosi, sapientemente spezzati e concettosi, aura d'incertezza nei
vocaboli scelti; c'è brama decadentistica del macabro, del tenebroso,
dell'orripilante come nella scena della
tessala maga Erictho che risuscita un
soldato.
La Farsaglia non ha come 1'Eneide
un personaggio principale, un vero e
15
proprio eroe: l'azione ruota intorno
alle figure di Cesare, Pompeo e Catone 1'Uticense. Ognuno di loro incarna
un preciso modello ed ideale di vita:
Cesare, l'eroe negativo che emana fascino sinistro rappresenta il trionfo di
quelle forze irrazionali (furor, ira, impatientia) che nell'Eneide venivano
domate e sconfitte; Pompeo è un personaggio in declino, affetto da una
sorta di senilità politica e militare,
colpito dal destino avverso (un antiEnea); in Catone si consuma la crisi
dello stoicismo tradizionale che garantiva il dominio della ragione: di
fronte alla consapevolezza della malvagità di un fato che cerca unicamente la distruzione di Roma, diviene impossibile per Catone l'adesione alla
volontà del destino che lo stoicismo
pretendeva dal saggio. Nasce la ribellione titanistica: Catone non si sottomette al volere degli dèi, si impegna
nella guerra, con piena consapevolezza della sconfitta alla quale va incontro (victrix causa deis placuit, sed
victa Catoni - Phars. I, 128).
L'opera di Lucano ebbe grande
fortuna; Stazio celebrò l'ingegno del
poeta e il suo martirio (morì suicida
coinvolto nella congiura dei Pisoni)
nel Genethliacon Lucani, dedicato
alla vedova Polla Argentaria. Nel periodo arcaizzante del II sec. non riuscì
gradito; nel M.Evo invece fu letto ed
ammirato per l'intonazione moralistica (Dante lo pone al quarto posto nel
limbo fra quelli che si fanno incontro
a Virgilio).
LA SATIRA
PERSIO, come ci dice la biografia
contenuta nel De poetis di Svetonio,
nacque a Volterra da famiglia equestre, il 4 dic. 34 d.C. All'età di dodici
anni si trasferì a Roma ed ebbe maestri Remmio Palemone per la grammatica e Virginio Flavo per la retorica. A sedici anni conobbe il filosofo
stoico Anneo Cornuto che molto influì sul suo modo di sentire. Morì a
ventotto anni. Cornuto, editore postumo delle sue opere, pubblicò soltanto
le Satire (sei in un unico libro), opera
in cui Persio, pur rifacendosi alla tradizione oraziana se ne discosta per
numerose innovazioni: la forma
dell'invettiva e della denuncia spietata
(lo si è definito predicatore calvinista) prende il posto del tono confidenziale e garbato, del sorriso autoironico, dell'indulgente comprensione per
le debolezze umane. Si può parlare di
un ritorno al modello di Lucilio, sostenuto da un rigorismo cinico-stoico.
Molto in Persio suona falso e libresco; egli cercò la frase ad effetto,
con possibili cadenze del linguaggio
plebeo, che sono anch'esse vuota imitazione, poiché non ricavate dalla vita
che ebbe comoda e ricca. L'innaturalità impone anche al discorso inverosimili contorsioni e goffe oscurità. Poco si salva dell'arte di Persio; questi
portò nella satira il vezzo dello stile
oscuro, architettato con costrutti preziosi e la deformazione macabra del
reale.
Molte iuncturae sono diretta ripresa
di Orazio, come alcune immagini e
descrizioni, per esempio:
1. sat.5,66 motivo del carpe diem
2. sat.5, 36 sgg. Persio parla di Anneo Cornuto con parole simili a
quelle usate da Orazio quando
ricorda il padre
16
3.
sat. 5,58 la iunctura “lapidosa
chiragra” = “la petrosa chiragra” richiama Orazio, epist. 1
1,31 “nodosa chiragra”, tanto
più che subito dopo Persio paragona le articolazioni colpite dalla chiragra ai rami nodosi di un
vecchio faggio.
Di Persio ricordiamo anche il componimento in quattordici coliambi che
fa da introduzione alle satire. Qui il
poeta si dichiara semipaganus, cioè
semirusticus, lontano dalla ispirazione divina e dalla raffinatezza dei poeti
cittadini, forse sulla suggestione di
Orazio, sat. 1,4 in cui il poeta augusteo non si collocava in quanto autore
di satire fra i veri e propri poeti. Altra
allusione ad Orazio potrebbe esservi
nella critica a coloro che fanno poesia
spinti dal bisogno (Orazio aveva dichiarato infatti che dopo Filippi
l’audax paupertas, la povertà che rende audaci, lo aveva spinto a scrivere).
Nel proemio di Persio, come sottolinea A. La Penna, bisogna scorgere
anche traccia del dibattito se
all’origine delle arti sia l’ispirazione
divina o, come nella teoria democritea ed epicurea, lo stato di necessità e il
senso dell’utile (xre¤a).
IL ROMANZO
PETRONIO Ciò che colpisce è il silenzio su Petronio Arbitro, conservato
dagli scrittori della seconda metà del I
sec. e di tutto il II: ne tace Quintiliano, ne tace Marziale, forse perché si
aveva pudore a ricordare l'opera sua
che, pur adoperando la forma della
menippea, era un romanzo erotico, di
stampo popolare (ricorda l'influsso
della fabula milesia, così chiamata da
Aristide di Mileto, scrittore greco del
II-I a.C., che diede dignità letteraria
alla novellistica popolare). Nel Satyricon sono presenti cinque novelle
(raccontate da personaggi diversi che
affermano di essere stati protagonisti
o spettatori): tre, piuttosto brevi, di
cui due di magia, sono raccontate da
commensali durante il banchetto di
Trimalchione, le altre due, messe in
bocca a Eumolpo, sono storielle erotiche, di cui la più lunga, la Matrona di
Efeso, compare in una versione sbiadita anche fra le favole di Fedro.
Petronio è del tempo di Nerone e vani
risultano i tentativi, specie del secolo
scorso, di negare l'identità col Petronio Arbitro degli Annali di Tacito
(XVI, 18-19).
Nel festino di Trimalchione, parte maggiore che ci resta, Petronio volle, contro la raffinatezza da lui introdotta presso la corte di Nerone, caratterizzare la volgarità di quei villani
rifatti che ormai dominavano la vita
economica dell'impero. Petronio si
propone osservatore lucidissimo di un
mondo diverso e lontano dal suo, tumultuoso e caotico, senza mostrare né
simpatia, né partecipazione, ma mantenendo sempre un neutrale ed aristocratico distacco; si tratta di quell’atteggiamento che con felice iunctura
Canali ha definito realismo del distacco.
Dai frammenti del Satyricon si è
tentato di ricavare la patria dell'autore: Marsiglia, Campania, Roma. Si è
supposto che il romanzo comprendesse sedici o diciassette libri (la Cena
equivarrebbe a due).
I1 Satyricon è un misto di prosa e
17
versi: tutta una pungentissima parodia, a cominciare dalla vecchia trama
degli innamorati, che Petronio trasforma in due omosessuali. Petronio,
all'occorrenza, si mette a parlare il
linguaggio delle cortigiane, dei tavernieri, dei liberti ignoranti, dando un
calcio a tutta la tradizione togata. Protagonista Encolpio, il più anziano dei
due omosessuali, strano tipo di esteta
in bolletta, capace di bassezze, ma odiatore di tutto ciò che è grossolano.
I1 romanzo è raccontato in prima persona (come succedeva per Clitofonte
di Achille Tazio).
Altri personaggi: Gitone, Ascilto,
Quartilla, Eumolpo. Da quest'ultimo
Petronio fa criticare il tipo di poema
storico bandito da Lucano e gli fa
cantare un frammento De bello civili,
in cui però riprendono il loro posto le
divinità messe al bando da Lucano, sì
che il brano risulta parodia al contempo di Lucano e dei suoi avversari.
L'altro frammento poetico, sempre
recitato da Eumolpo, potrebbe essere
parodia di una tragedia di Nerone.
Lo stile: Petronio si manifesta
avverso a tutto il marciume della retorica esotica; sembra amare le espressioni passate antiasiane, e nello stesso
tempo nel suo tono saltellante, pieno
di frizzi, si mostra un perfetto seguace dello stile asiano. Ricorda l'uso
frequente del sermo cotidianus (per
esempio nei discorsi tra liberti durante la Cena di Trimalchione).
Da Vespasiano a Domiziano
Con l'età dei Flavi, specie con
Vespasiano, si ebbe il tentativo di una
restaurazione politica e spirituale
dell'età augustea; la cultura e la lingua
di Roma hanno il loro momento di
maggior diffusione. Il frutto più completo e significativo di questa rinnovata coscienza della romanità trionfante si ha nel libro decimo della Institutio di Quintiliano, in quella categorica affermazione del valore della
letteratura latina in confronto con la
greca, e talvolta addirittura della sua
eccellenza sulla letteratura genitrice e
rivale.
L’EPICA
Publio Papinio STAZIO, figlio di un
maestro di retorica, nacque a Napoli
fra il 40 e il 50 d.C.; a Napoli morì
negli ultimi anni del I sec. d.C. Verso
il 92 vide la luce la Tebaide, poema
epico in dodici libri, dedicato a Domiziano; ebbe poco successo; forse
migliore sarebbe riuscito l'altro poema, 1'Achilleide, rimasto interrotto a
metà del secondo libro.
Nella Tebaide, che narra la guerra fra
Eteocle e Polinice (il tema della guerra fratricida è ripresa di Lucano),
l'imitazione di Virgilio è vuota e del
tutto esteriore, basti pensare che la
ripresa degli errores (cioè le peregrinazioni) di Enea diventano nei primi
sei libri di Stazio un inutile riempitivo: viaggio e imprese degli eroi prima
di arrivare sotto le mura di Tebe.
Le divinità epiche tradizionali appaiono come svuotate ed appiattite: le forze divine più vitali sono invece personificazioni di idee astratte ed allegoriche. Predomina il Fato e la predestinazione. Assente è l'evoluzione psicologica del personaggio, sempre uguale a se stesso dall'inizio alla fine del
poema: Eteocle è il tiranno, Tideo
l'incarnazione dell'ira, Capaneo il be-
18
stemmiatore, Ippomedonte una sorta
di macchina da guerra.
La maggioranza dei critici ritiene lo
Stazio migliore quello delle Silvae,
un'opera in cinque libri che ci offre
uno spaccato dell’epoca, rivelando
mentalità ed atteggiamento di un ceto
colto e benestante, impegnato in una
fitta vita di relazione e spesso occupato nel sistema del governo della burocrazia imperiale. Emergono bene i valori che guidano questo sistema sociale: da un lato il ripiegamento sulla vita privata (passione per le arti, consumi di lusso, estetismo, affettività familiare), dall'altro l'ideologia del pubblico servizio inserito nelle strutture
del potere imperiale.
Il titolo silvae sta ad indicare il carattere occasionale, vario e miscellaneo
di questo tipo di poesia, scritta per
commissione.
L'opera di Stazio fu il prototipo delle
tante raccolte liriche per nozze, funerali e occasioni varie.
VALERIO FLACCO Di lui sappiamo (Quint. Inst. X 1,90) che morì poco prima del 92 d.C. Nella sua opera,
gli Argonautica, egli cerca di arricchire il poema di Apollonio Rodio, introducendo nuovi episodi, modellati
sull’Eneide. Contro Lucano torna al
puro poema mitologico; c'è molta amplificazione, qualche squarcio di poesia verso la fine. Fondamentale è l'influsso di Virgilio: Valerio restituisce a
Giasone la sua elevatezza epica
(Apollonio ne aveva fatto un eroe
problematico e chiaroscurale); il Fato
provvidenziale virgiliano controlla
tutti gli eventi; ed ancora, da Virgilio
è ripreso l'approfondimento psicologico dei personaggi , una sorta di par-
tecipazione personale dell'autore alle
vicende dei suoi eroi, la bipartizione
del poema (prima parte viaggio, seconda guerra), di contro alla tripartizione di Apollonio Rodio: viaggio di
andata, avvenimenti nella Colchide,
viaggio di ritorno. Influsso da Ovidio
è invece nella caratterizzazione di
Medea ora vista come perfida maga
che non prova raccapriccio di fronte a
nulla, sulla falsariga della sesta epistola delle Heroides, ora come donna
innamorata e ingenua, così come appare nell’epistola dodicesima, sempre
delle Heroides; nel tratteggiare questo
aspetto inoltre Valerio risente della
descrizione omerica del personaggio
di Nausicaa.
SILIO ITALICO nacque nel 26 d.C.
Fu legato, alla cerchia di Nerone che
lo elesse console. Nel 101, a causa di
un tumore, si lasciò morire di inedia.
Scrisse i Punica in 17 libri, in cui
trattava la seconda guerra punica dalla spedizione di Annibale in Spagna
al trionfo di Scipione dopo Zama; ebbe come fonte soprattutto Tito Livio
e, in secondo piano, Ennio. Nevio risultava troppo arcaico per essere direttamente imitabile. La narrazione
procede secondo il metodo annalistico; accade così che Scipione può entrare in scena solo nel XIII libro
(dove compie una discesa agli Inferi,
sulla scia di Enea), lasciando praticamente protagonista di tutto il poema
Annibale, eroe negativo. In ciò Silio
si trova molto vicino al mondo della
Tebaide con i suoi eroi neri. Le digressioni mitologiche sono di gusto
ovidiano. Vi sono influssi anche da
Lucano: come Lucano pone al centro
del poema la battaglia di Farsalo, così
19
Silio tratta della battaglia di Canne.
Vi è tuttavia una fondamentale differenza: dalla sconfitta di Canne si ha
lo sprone per la riscossa che condurrà
al successo finale.
L’ENCICLOPEDISMO
PLINIO IL VECCHIO nacque a Como nel
23 d.C. A Tito dedicò la Naturalis historia,
in 37 libri. L'opera comincia con una descrizione del cosmo, cui fa seguito una sezione
di geografia, di antropologia, di zoologia,
di botanica, di mineralogia ed una di storia
dell'arte, il tutto in un enorme sforzo di sistemazione del sapere. Plinio si mostra scettico sulle credenze strane ed ingenue, ma in
realtà ne accoglie in gran numero, perché
non sa resistere al suggerimento di un'opera
letta. Il suo enciclopedismo è di natura frettolosamente praticistica; il linguaggio è lontano dalla temperie classica.
Opere perdute: una storia delle guerre
germaniche, un trattato di pronuncia e morfologia, una biografia del poeta tragico
Pomponio Secondo.
L’EPIGRAMMA: MARZIALE
L'origine dell'epigramma risale
all'età greca arcaica, ove aveva funzione funeraria e commemorativa (es.
l'epigramma di Simonide per i caduti
alle Termopili); in età ellenistica, pur
conservando la brevità, ci appare
svincolato dalla funzione pratica ed
epigrafica; diventa un genere letterario atto ad esprimere nel giro di pochi
versi la sensazione di un momento, di
un attimo fuggente. I temi sono erotici, simposiali, satirici e parodistici..
A Roma l'epigramma fu valorizzato da Catullo, ma colui che lo portò
a perfezione fu Marziale, rivendicando ancor più l'aderenza alla vita concreta, un forte realismo dunque, e facendo acquistare all'epigramma una
fisionomia tutta particolare, con la
tecnica del fulmen in clausula, con la
stoccata finale, un effetto che bruscamente sorprende il lettore e scarica la
tensione in un paradosso, in un'impennata illuminante.
Marziale nacque a Bilbili, nella
Spagna Tarragonese, intorno al 40.
Verso il 64 si trasferì a Roma e qui
esercitò la professione di cliens per
trentacinque anni, in una povertà rasentante la miseria. Scrisse esclusivamente epigrammi. La sua prima raccolta, dell'80, è in occasione dell'inaugurazione dell'Anfiteatro flavio e l'imperatore gli concesse la dignità di tribunus militum e lo ius trium liberorum. Nell'84 altra raccolta per i Saturnali: gli Xenia e gli Apophoreta. Poi
viene lo straordinario numero di epigrammi sulle turpitudini dei ceti elevati. Nel 102 pubblicò il dodicesimo
ed ultimo libro; nel 104 morì nella
nativa Bilbili.
Per Marziale si oscilla fra la celebrazione più entusiastica e la più
sdegnata severità. Non gli mancano
l'abilità nella versificazione, l'acutezza e la battuta pungente. Egli aveva
una natura poetica raccolta e riflessa,
di quelle che oggi si chiamerebbero
crepuscolari, con tratti di nostalgica
poesia agreste o sinceri abbandoni alla raffigurazione della sua angustiata
miseria. I Flavi avrebbero voluto di
più, ma egli aveva coscienza dei propri limiti e sentiva il fastidio per un
poema di vaste proporzioni. La sua
opera pertanto non riscosse l'entusiastico favore imperiale, ed egli visse
quasi nell'indigenza (Plinio il Giovane gli pagò il viaggio per tornare a
Bilbili!). Grandissimo fu invece il fa-
20
vore del pubblico e l'influenza nel
campo delle lettere (Ausonio, Claudiano, Sidonio Apollinare).
Il programma educativo
di Quintiliano
M. Fabio Quintiliano nacque anche lui nella Spagna Tarragonese, intorno al 35 d.C. Fu a scuola dal grammatico Remmio Palemone e dal retore Domizio Afro rappresentanti del
dominante asianesimo. Ma Quintiliano fu avverso all'asianesimo ed ammirò Cicerone.
Vespasiano lo stipendiò con centomila sesterzi annui per una cattedra di
retorica, la prima pubblica in Roma.
Pubblicò un trattato De causis corruptae eloquentiae, perduto. Vi condannava lo stile di Seneca e intracciava le cause della corruzione dell'eloquenza nel decadimento dei costumi e
nell'immoralità degli insegnanti.
Altri testi di riferimento sulla questione della decadenza dell’oratoria in età
imperiale sono i primi capitoli del Satyricon con la critica di Encolpio al
retore Agamennone e il Dialogus de
oratoribus di Tacito (vd. pag. 22 ).
Tra il 93 e il 96 compose i dolici libri
dell'Institutio oratoria, in cui segue
l'oratore dalla puerizia fino all'affermazione. I1 primo libro costituisce il
più completo trattato di pedagogia
dell'antichità, particolarmente interessante per i filologi per le notizie
sull'apprendimento della pronuncia e
della grammatica.
Dal terzo libro Quintiliano segue la
canonica disposizione di tutti i trattati
retorici (inventio, dispositio, elocutio,
memoria, actio) e idoleggia Cicerone.
Per Quintiliano, secondo le teorie di
Ermagora il Vecchio, rielaborate da
Cicerone, l'arte del dire è il centro di
tutte le altre attività culturali: l'oratore
deve essere un vir bonus dicendi peritus, con purezza morale.
I1 decimo libro contiene i famosi giudizi su autori greci e latini da proporre come lettura all'aspirante retore: vi
si riscontra un continuo confronto tra
Greci e Romani ed il continuo tentativo di dimostrare l’uguaglianza, se
non addirittura la superiorità di
quest’ultimi (da ricordare: il giudizio
su Seneca, quello su Cicerone, la presentazione della satira e dell’elegia
latine).
E' singolare che Quintiliano, scrivendo di getto, si esprima secondo i modi
spigliati, sbrigativi ed ellittici dell'asianesimo, quindi il suo attaccamento
a Cicerone era un vuoto ideale, irrealizzabile.
Un problema particolare pone il
dodicesimo libro: si accenna alla questione del rapporto tra 1'oratore e il
principe. Quintiliano accetta il principato come una necessità; vuole però
che sia basato sulla moralità; soltanto
così l'oratore può recuperare lo spazio
per una missione civile altrettanto aliena dalla sterile opposizione, quanto
dal servilismo avvilente.
Da Traiano a Marc'Aurelio
GIOVENALE
Decimo Giunio Giovenale nacque ad Aquino fra il 50 e il 60 d.C.
Ebbe educazione da retore, visse in
modeste condizioni, con una casetta a
Roma ed un poderetto a Tivoli.
Giovenale lancia l'estremo grido
21
dell'anima italica e provinciale, legata
alla vecchia sobrietà ed onestà; la sua
protesta nasce dalla inadattabilità ai
tempi in cui la gravitas romana viene
sommersa dai preponderanti influssi
stranieri. Si è supposto che sia morto
fra il 135 e il 140. Si è parlato molto
di morte in esilio per essere dispiaciuto a un favorito (Antinoo?) dell'imperatore.
Le sedici satire furono divise in cinque libri; la sesta, lunghissima, è contro le donne.
Giovenale nei momenti più felici della sua musa reagisce al retoricume e
richiama all'onestà del passato con il
suo spirito sano e ardente, sottile e
profondo. Sin dalla satira prima egli
afferma che se la prende con i morti,
perché sarebbe pericoloso attaccare i
vivi: e ciò è una sferzata ai contemporanei. Giovenale non ha riguardi per
nulla e per nessuno: il suo intransigente culto dell'onestà gli fa dare del
libertino a Clodio, dell'assassino a
Milone e gli fa giudicare ladro l'aristocratico Verre. Nel suo atteggiamento c'è forse il rancore del poeta
povero e retto contro gli aristocratici,
come ad esempio nella quarta satira,
dove Giovenale critica i senatori che
hanno permesso lo strapotere di un
tiranno (l'imperatore convoca il Senato semplicemente per chiedere parere
su come cucinare un grosso rombo!).
Nella prima satira Giovenale parla di
indignatio che gli detta i versi, ma
l'indignazione non è stata mai buona
matrice di poesia, la quale esige serenità e distacco. Il moralismo fa sì che
in molti luoghi Giovenale non sia
poeta, ma predicatore accalorato e reboante, che esprime il suo sdegno ri-
correndo alle arti della retorica; si
viene così a trovare quasi agli antipodi della castigatezza e urbanità oraziana. Emerge comunque dalla sua
opera un sincero desiderio di una restaurazione morale della società e
della rifondazione di una accettabile
condizione umana e civile; in tal senso alla corrotta Roma viene contrapposta, idealizzandola, la vita provinciale, come esempio di conservatorismo religioso di schiette tradizioni
avite (sat. 3,169-179).
Più felice è forse la vena del poeta
nell’esprimere certi quadretti di intima vita familiare, dove assurge a delicato lirismo, soprattutto nella sua seconda produzione (a partire dall’ottava satira) dove l’indignatio si
stempera e si ha un ritorno propositivo ai temi della tradizione satirica.
PLINIO IL GIOVANE
P. Cecilio Secondo nacque a Como nel 61 o nel 62 d.C. Fu alla scuola
di Quintiliano e di Niceta Smirneo e
fu amico di Tacito. Assunse il nome
di Gaio Plinio Cecilio Secondo poiché nel 79 divenne figlio adottivo dello zio, per testamento.
La ricchezza, la soddisfatta fatuità del
letterato, la facilità di vita condotta
non posero mai Plinio in condizione
di sperimentare la sua tempra morale.
Nel 100, incaricato di pronunciare la
gratiarum actio all'imperatore, per
l’elezione a console, scrisse il Panegirico a Traiano, unica orazione pervenutaci: ci rivela lo stile oratorio di
Plinio, l'atteggiamento politico perseguito da Traiano e imposto al Senato,
per mezzo di temperamenti ingenui e
vanitosi come Plinio. Lo stile è garba-
22
to, con cadenza del sermo familiaris;
in complesso non si solleva mai al di
sopra di un piacevole chiacchiericcio
di un uomo azzimato e compìto. Rifugge dalla magniloquenza ciceroniana, ma non si abbandona neppure alle
patetiche contorsioni dell'asianesimo.
Nel celebrare punto per punto tutte le
azioni di Traiano, mediante un confronto con l'opera dei predecessori,
Plinio non si accorgeva di offrire
all'imperatore un saggio di culto esclusivo alla sua personalità.
Vale forse la pena ricordare che il termine panegyricus fino all’epoca di
Plinio servì ad individuare i discorsi
che erano stati pronunciati in Grecia
alle feste Panatenee o ai Giochi Olimpici. Lo scritto di Isocrate del 365
a.C. l’Evagora, glorificazione del padre di Nicocle, contribuì ad estendere
tale denominazione a discorsi di carattere elogiativo. Su esempio di Plinio, prese l’avvio una raccolta di altri
undici discorsi pronunciati davanti a
Imperatori nei secoli III e IV da parte
di oratori della Gallia. La raccolta,
più volte rimaneggiata, dal titolo Panegyrici latini veteres, fu completata
facendo precedere quasi a titolo di
produzione esemplare il testo del Panegirico di Traiano, benché quasi due
secoli intercorressero fra la data
dell’orazione pliniana e quella del più
antico fra i successivi discorsi
(Panegirico di Massimiano del 289).
La medesima alternanza di fatuità ingenua e di simpatica cordialità
caratterizza l'opera maggiore di Plinio: nove libri di lettere. Dopo la sua
morte fu aggiunto un decimo libro
contenente le lettere scambiate tra
Traiano e Plinio durante il governo
della Bitinia (111-113). La provincia
della Bitinia e del Ponto era stata creata da Pompeo nel 74 a.C., a seguito
delle fortunate azioni contro Mitridate; era stata propretoria dal 74 al 27;
senatoria successivamente e imperiale
a partire dal 111, l’anno appunto del
mandato conferito a Plinio. Le lettere
ci rivelano tutto il carattere di Plinio:
signore bonario e accomodante, che
ama trasformare tutta la sua vita in
accademia letteraria. Nell'epistolario
con Traiano si ritrova il solito Plinio
garbato ed indeciso e la risolutezza
invece di Traiano. Ricorda le testimonianze sulla persecuzione dei Cristiani. Il decimo libro del carteggio probabilmente prima della pubblicazione
fu censurato in quelle parti che potevano rivelare segreti di Stato, forse in
merito ad una progettata spedizione
contro i Parti.
LA STORIOGRAFIA
Di Cornelio TACITO s’ignora-no il prenome, la patria, le date di
nascita e di morte. Secondo alcune fonti nacque a Terni, ma più probabilmente egli vide la luce nella Gallia Narbonese, da una famiglia equestre intorno al 55 d.C.
Il suo primo campo di attività fu
l'oratoria: al suo noviziato retorico si
vuole attribuire il Dialogus de oratoribus, dedicato a Fabio Giusto. Il dialogo si immagina al tempo di Vespasiano fra Curiazio Materno, M. Apro,
Giulio Secondo e Vipstano Messalla.
Si discute sulle cause del declino dell’oratoria. La tesi sostenuta da Materno, che rispecchia il pensiero di Taci-
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to, è di grande acutezza. Mentre infatti i suoi interlocutori si lasciano andare a luoghi comuni sull’inadeguatezza della scuola, sull’impreparazione dei retori, sulla dilagante immoralità, Materno propone una spiegazione socio-politica: più che per cattivi
metodi educativi, l'oratoria si è corrotta per il nuovo regime politico che
favorisce sì la quiete, ma toglie la libertà di cui ha bisogno la grande oratoria per fiorire. Il Decembrio attribuì
il dialogo a Tacito, quando nel 1455
fu ritrovato; scettico in proposito il
Paratore.
Divenuto un brillante avvocato, Tacito pensò di percorrere il cursus honorum, sotto la protezione del generale
Cn. Giulio Agricola, di cui sposò la
figlia. Nel 93 mori Agricola, sulla fine del dominio di Domiziano, si suppose per veleno. Cinque anni dopo
pubblicò il De vita Iulii Agricolae,
una commemorazione del suocero e
forse un primo bilancio sul luttuoso
ultimo periodo del regno di Domiziano; l'operetta è in parte orazione funebre, in parte narrazione storico-biografica. Sotto l'aspetto politico,
l'opuscolo è la migliore espressione
del respiro di sollievo che l'oligarchia
senatoria emise alla caduta di Domiziano.
L’intera monografia è un inno di lode
ad Agricola, non solo per le sue virtutes, ma soprattutto per la moderatio di
cui seppe dar prova in tempi tanto difficili. Sembra proprio che il messaggio di Tacito possa essere riassunto in
queste poche parole: piuttosto che imitare il modello dello stoico che si
oppone a tutti i costi al regime autoritario, è meglio conformarsi ad un
ideale di condotta più realistico. I Cesari avevano bisogno di servitori leali
e capaci, sia in patria che all’estero. I
provinciali erano accorti e solerti.
Non si lasciavano influenzare né da
rancori, né da idealismi. L’epoca dei
grandi uomini e delle splendide virtù
era ormai tramontata (Syme).
Da un punto di vista stilistico nell’Agricola si avverte che l'oratoria ha
la stessa veemenza di tutti i retori asianeggianti, ma è più curata nel lessico, annunciando il risorgente atticismo.
Allo stesso 98 risale il De origine et situ Germanorum, che per alcuni doveva essere un invito ai Romani
a modellarsi su quei popoli guerrieri,
per altri doveva richiamare l'attenzione sul pericolo rappresentato da queste popolazioni così valide, frugali,
bellicose. Lo stile è asiano, con succosa ed allettante brevità sentenziosa.
Le Historiae, di cui abbiamo
quattro libri e i primi 26 capitoli del
libro quinto, narravano le vicende
dall'uccisione di Nerone (68) a quella
di Domiziano (96). Ci restano gli avvenimenti dal 68 al 70, dall'assunzione al trono di Galba fino a Vespasiano
che restaura l’autorità dell'impero.
L'opera è una ricerca del modo in cui
l'impero, dall'anarchia sia pervenuto
alla definitiva tranquillità e dignità
del regime di Nerva e Traiano. Tacito
non pone in discussione la legittimità
del potere imperiale, anzi fa dire a
Galba che si impone il governo di uno solo, purché questo princeps sappia regnare con senno e giustizia. Tacito si attiene scrupolosamente alla
forma annalistica della narrazione,
con elenco di prodigi, con interpreta-
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zioni della volontà divina, secondo la
mentalità tradizionale romana. Modello prediletto è Sallustio, fonti: Aufidio Basso, Plinio il Vecchio, Servilio Noniano, Cluvio Rufo, Fabio Rustico, Curbolone, le memorie di Agrippina Minore, gli Acta Senatus, gli
Acta diurna. Il tutto è fuso in un severo moralismo, portando al culmine
l'eredità della storiografia ellenistica
attraverso Sallustio. Lo stile è un contemperamento di atticismo nelle coloriture lessicali e asianesimo nella brevità sentenziosa e nel congegno capriccioso della frase, nel gusto per
l'ellissi e la variatio, forse eredità tucididea.
Gli Annales narrano gli avvenimenti
che vanno dalla morte di Augusto fino a quella di Nerone. Ci sono rimaste solo la narrazione del regno di Tiberio, gli ultimi anni del regno di
Claudio e il regno di Nerone fino a
due anni prima del crollo. Il fascino
artistico degli Annales è in una serie
infinita di guizzi e bagliori subitanei,
che gettano una livida luce su abissi
di perversione o su quadri paurosi,
lasciando una lunga vibrazione nell'animo agghiacciato del lettore. Nello
stato romano si avvertono solo ombre, sospetti, degradanti abiezioni e
Tacito lamenta che se Livio ebbe il
compito di celebrare la gloriosa ascesa di Roma, lui è condannato a registrarne il doloroso tramonto. Tutta la
macchina statale appare a Tacito tarlata e sconnessa per le colpe del potere centrale, fatto di delazioni, di congiure di palazzo, di intrighi criminosi.
Tacito intuì che anche Traiano, come
Caligola, Nerone, Domiziano, aveva
instaurato in modo definitivo il prin-
cipato autoritario e dopo di lui potevano rinnovarsi gli orrori del passato.
Gli Annales ci presentano la triste
conclusione della parabola della spiritualità romana: dopo essersi aperta
nel circolo degli Scipioni alla filosofia greca, dopo aver toccato l'apice con
l'arte di Virgilio e la celebrazione della stirpe con Livio, Roma si perdeva
in una scia di lutti e di sangue.
Tacito è forse lo storico che meglio si possa accostare a Tucidide, per
la complessità dei suoi interessi: non
gli è estranea la curiosità per problemi di economia e finanza; la politica
religiosa degli imperatori richiama la
sua attenzione; il problema delle milizie è vicino ai suoi pensieri; il famoso
contrasto fra lodatori e detrattori del
principato di Augusto all’inizio degli
Annales (I, 9-10) è la prima acuta diagnosi della precarietà del compromesso augusteo; i capitoli quinto e
sesto del libro IV degli Annales contengono un modello di analisi delle
capacità amministrative dell’impero
romano. Sono tutti quesiti, problemi,
interessi di cui non avvertiamo quasi
il sentore in Sallustio e neppure in Livio (Paratore).
SVETONIO
Di C. Svetonio Tranquillo s'ignora la patria; si suppone nato fra il
70 e il 75 e morto fra il 140 e il 150.
Fu studioso di retorica, avvocato, ma soprattutto un erudito. Plinio
gli fece concedere da Traiano lo ius
trium liberorum, quando era con lui
in Bitinia; forse aveva già composto il
De viris inlustribus. Quest'opera, la
prima raccolta di biografie dopo il De
poetis di Varrone, dedicate esclusiva-
25
mente a uomini di lettere latini, si
presenta articolata in sezioni: de poetis, de oratoribus, de historicis, de
philosophis, de grammaticis et rhetoribus. Il carattere succinto delle biografie dei grammatici e dei retori ha
incoraggiato l'ipotesi che questa sezione sia stata composta più tardi, come stanca aggiunta. Della sezione De
poetis ci sono rimaste le biografie di
Orazio, Lucano, Terenzio, Virgilio;
del De historicis va ricordata la biografia di Plinio il Vecchio. Gli ispiratori di Svetonio furono Santra, Varrone, Cornelio Nepote. È tipica di Svetonio la frequenza di particolari ghiotti e scandalosi sulla vita privata dei
personaggi esaminati.
Opera della maturità fu il De vita Caesarum, suo capolavoro. Comprende le vite degli imperatori da Cesare a Domiziano. L'opera è comunemente nota con il titolo Le vite dei dodici Cesari. Rispetto a Tacito Svetonio manifesta una più avida e fedele
propensione alla letteratura libellistica, fiorita nel I sec. dell'Impero, sì
che la critica, soprattutto dell’Ottocento, lo ha posto in una luce negativa, per una presunta scarsa affidabilità e profondità di pensiero.
Svetonio ha applicato ai sovrani dell’impero romano la forma biografica
e il metodo che erano stati elaborati
in funzione di poeti e filosofi (e tenuti
quindi giudiziosamente lontani da re,
condottieri e uomini di Stato); ma più
che di una ripresa della biografia alessandrina sembra giusto parlare di
una tecnica biografica svetoniana
(Gugel), ove è una sorta di contaminatio tra l’indirizzo peripatetico e
quello alessandrino. Tutte le vite, in-
fatti, cominciano con una esposizione
cronologica delle notizie relative alla
famiglia del princeps, all’anno e al
luogo di nascita, fino all’avvento al
potere; a questo punto si passa ad una
esposizione analitico-descrittiva per
species (cioè per rubriche).
Nei primi anni Cinquanta si è assistito
ad un risveglio degli studi su Svetonio che si è andato sempre più configurando come un processo di riabilitazione della sua opera, che fra l’altro
permette di analizzare la storia latina
da un punto di vista che conosciamo
meno: quella della classe equestre.
Tutte le Vite sono piene di riferimenti
ai cavalieri; ed è stato notato che i
giudizi sono spesso in funzione dell’atteggiamento che i Cesari assunsero nei confronti del ceto equestre
(Della Corte).
IL ROMANZO
Apuleio nacque a Madaura, in
Africa, intorno al 125 d.C.
Tipico sofista che nel mondo latino
rispecchia la cultura greca, mistica ed
orientaleggiante, studiò grammatica e
retorica a Cartagine, Atene, Roma.
Unico fatto accertato della sua
vita fu il processo di magia contro di
lui, del quale è rimasto documento
nella sua Apologia: Apuleio fu accusato di magia, consistente nell'aver
fatto perdere il senno a Pudentilla ed
averla piegata al matrimonio per avidità di denaro, e nell'aver fatto morire
Ponziano, suo compagno di studi e
figlio di Pudentilla. I1 processo si celebrò a Sàbratha in uno degli ultimi
anni del regno di Antonino Pio.
L'Apologia è l'opera che rivela un
maggiore influsso dello stile cicero-
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niano, in una civettuola scioltezza di
eloquio, in un'alternanza saltellante e
frizzante di toni, con del preziosismo
asiano. Tale ricercatezza si fa ancora
più leziosa nei Florida, antologia
messa insieme successivamente dai
quattro libri di declamazioni pronunciate da Apuleio a Cartagine. Sono
estratti, cioè loci praecipue notabiles,
grondanti di esteriore esibizionismo
retorico, su futilissimi argomenti.
Le Metamorfosi sono l'unico romanzo latino che possediamo integralmente: undici libri, dei quali l'ultimo è per intero frutto sicuro dell'inventiva apuleiana; gli altri dieci derivano dai primi due libri dei Lògoi
diàphoroi di Lucio di Patre. Senza
meno di Apuleio è comunque il prestigioso impasto stilistico, con arcaismi, volgarismi, ricercati giri di frase
della più pura retorica, forzature sintattiche e semantiche, neologismi. Al
libro undicesimo, col racconto della
rigenerazione del protagonista, la superficiale festevolezza narrativa si
tramuta in commossa enfasi edificatoria e l'atmosfera si purifica, fornendo
una chiave di lettura mistica per
l’in-tero romanzo.
Significato mistico rivestono pure
la favola di Amore
e Psiche, la storia di Carite
nell’ottavo libro e la storia del medico saggio nel libro decimo; in tutti
questi racconti sono ravvisabili analogie con il mito di Iside e Osiride e
con le tappe di iniziazione del mista
(ricorda gli studi del Merkelbach).
Fozio, patriarca di Costantinopoli del
sec. IX nella sua Biblioteca ci dà noti-
zia dell'opera di Lucio di Patre (trasformazione d'un giovane in asino e
suo ritorno all'aspetto umano grazie
ad un cespo di rose). L’Asino attribuito a Luciano potrebbe essere un riassunto dei primi due libri del Patrense;
oggi si è persuasi che sia lo Pseudoluciano, sia Apuleio abbiano attinto a
Lucio di Patre.
La tecnica autobiografica, cioè
la narrazione in prima persona, deriva dal romanzo greco e dai Discorsi
Sacri di Elio Aristide.
Di Apuleio sono ancora da ricordare i tre trattati: De mundo, De Platone et eius dogmate, De deo Socratis. Quest'ultimo, il più importante dei
tre, rappresenta la trattazione (esposta
in una conferenza, probabilmente risalente al soggiorno romano) più sistematica a noi pervenuta dall’antichità sulla dottrina dei demoni, gli intermediari tra gli dèi e gli uomini.
È in Apuleio una fusione tra elementi
ripresi da Platone e dalla dottrina aristotelica.
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Letteratura latina 2010 - Liceo Classico Benedetto da Norcia