CS 2010 Letteratura latina 1 L’ELEGIA LATINA Il problema delle origini In età augustea nasce l’elegia a carattere soggettivo che si incentra tutta sull’esperienza amorosa del poeta, a differenza dell’elegia ellenistica, a carattere oggettivo, che raccontava miti ricchi di pathos. Riguardo all’origine dell’elegia latina due sono le teorie più accreditate: a) teoria di Friedrich Leo, secondo la quale l’elegia latina deriverebbe direttamente da una forma di elegia ellenistica a carattere erotico-soggettivo, che a sua volta risentirebbe dell’influsso della Commedia Nuova nella caratterizzazione dell’innamorato nei confronti della sua amata etèra; b) teoria di Felix Jacoby, secondo la quale l’elegia latina deriverebbe la sua soggettività dall’epigramma ellenistico. Già nella poesia di Catullo compaiono elementi strutturali che saranno tipici del genere elegiaco: fusione di generi letterari diversi, ampliamento di temi epigrammatici, trattazione del mito come approfondimento di sentimenti personali (ricorda a tal proposito il carme 68A con il mito di Protesilao e Laodamia che si sovrappone alla storia d’amore fra Lesbia e il poeta e che permette a Catullo di ricordare la morte del fratello, avvenuta nella stessa Troade ove fu ucciso Protesilao). L’elegia latina va dunque intesa, come dice il Fedeli come un movimento poetico che, se da un lato ripro- pone ancora elementi ellenistici già accolti e sfruttati dalla poesia neoterica, dall’altro sviluppa in modo originale tendenze che non costituivano una componente dominante della produzione dei poetae novi. Già gli antichi individuarono con chiarezza questa linea di continuità: Properzio nell’elegia 2,34, nel proporre un canone dei poeti elegiaci, parte da Varrone Atacino (poeta neoterico), cita Catullo, Calvo, Cornelio Gallo, per giungere infine a parlare di sé (Anche Varrone, finito il “Giasone”, cantò la sua ardente fiamma per Leucadia; tali furono le poesie del voluttuoso Catullo, per cui Lesbia è famosa più della stessa Elena; questo pure proclama l’opera del dotto Calvo, cantando la morte dell’infelice Quintilia. E Gallo, morto ieri per la bella Licoride quante ferite si deterge nell’acqua infernale! Così Cinzia, lodata nel verso di Sesto Properzio, gloria avrà, se a costoro mi vorrà accostare la fama). Interessante inoltre notare che il Gallo ricordato da Properzio è quel Cornelio Gallo, costretto da Augusto a togliersi la vita, al quale Partenio aveva dedicato gli ÑErvti kå payÆmata, storie d’amore tristi di dèi ed eroi; quello stesso Gallo che, condannato alla damnatio memoriae costrinse Virgilio a rivedere il finale delle Georgiche con la favola di Aristeo. TIBULLO Fonti per le scarse notizie biografiche le sue poesie, quelle dei suoi amici e una vita Tibulli, di probabile derivazione svetoniana. Nacque fra il 55 e il 50, forse a Pedum, fra Tivoli e Preneste, o forse a Gabi; ap- 2 partenne al circolo di Messalla Corvino, ove si componeva poesia lasciva, sotto il segno di Eros, deprecando guerre e negotia, nel nome di un edonismo sottilmente corrosivo. Nel 27 a.C. Tibullo partecipò alla spedizione di Messalla in Aquitania; con Messalla fu anche in Oriente (el. 1,3) e vi fu colto da malattia, per cui si fermò a Corcira. Ovidio scrisse un commosso epicedio nell’elegia 3,9 degli Amores, per la morte di Tibullo. Si tende a fissare la morte del poeta intorno al 19 a.C. Ci sono stati tramandati tre libri di elegie: i primi due sicuramente autentici; il terzo fu diviso in due parti, divisione poi consacrata dal Voss a fine XVIII secolo: la prima parte ha sei elegie con il nome di Ligdamo, da non identificarsi con Tibullo, come non vanno attribuiti a Tibullo il Panegyricus Messallae e undici elegie sugli amori della poetessa Sulpicia per il giovane Cerinto. Probabilmente di tutto il terzo libro sono tibulliane solo le due ultime elegie per la puella innominata. Si è pensato che Ligdamo potesse essere identificato con Ovidio, dato che entrambi i poeti indicano il 43 a.C. come il loro anno di nascita. La tendenza di Ligdamo a trasformare in tenero pianto l’empito della passionalità catulliana imprime al distico elegiaco una natura dolce e levigata, vicina alla trascolorante musicalità di Tibullo. Ligdamo ama Neera, la vuole sposa, ma ella, spergiura, non lo vorrà, ed egli chiederà al vino l’oblio delle sue pene, poiché gli è ancora cara (odi et amo di Catullo). La poesia di Tibullo è più ricca di motivi: fonde il motivo erotico con quello agreste. Canta Delia nel libro primo, Nemesi nel secondo libro. Apuleio in un passo dell’Apologia ci rivela che Delia, donna sposata, come la Lesbia di Catullo, si chiamava Plania, ma non si sa nulla di più. Sia Delia che Nemesi sono rappresentate infedeli ed avide; la campagna di Tibullo, salvo qualche tratto di maggiore spontaneità, ha troppi colori virgiliani per non essere un raffinato riecheggiamento letterario. Quintiliano gli diede la palma fra i poeti elegiaci e lo definì tersus atque elegans. Il mondo poetico di Tibullo, benché libresco, realizza un clima di sogno, soffuso di malinconia. L’ideale della morigeratezza e serena vita di campagna costruisce una sottile trama di allusioni ai poeti contemporanei del regime: nella entusiastica esaltazione della paupertas della vita rustica e della Pace brilla l’exemplum di una moralità d’altri tempi, dove pure tuttavia trova posto la forza soggiogante dell’amore. Tematiche augustee sono presenti soprattutto nel secondo libro: la celebrazione della festa agricola degli Ambarvalia (el. 1) e la nomina di Messalino nel collegio sacerdotale dei quindecemviri sacris faciundis et Sybillinis libris inspiciundis (el. 5). L’ideale del poeta elegiaco (così anche Properzio) appare dunque profondamente anticonformistico: • rifiuto dell’impegno militare e politico; • aspirazione individualistica 3 all’otium; ruolo totalizzante dell’esperienza amorosa; figure femminili dominanti che impongono le regole del gioco, che godono di estrema libertà nei rapporti con il sesso maschile, negli spettacoli, negli svaghi; massima dignità accordata alla poesia erotica, con presenza di numerosi termini desunti dal linguaggio militare, poiché quella dell’amante è una militia amoris e suoi sono gli accampamenti di Venere. all’attenzione dei lettori contemporanei un canzoniere amoroso in cui una donna occupa il ruolo centrale. È impossibile dedurre dai carmi di Properzio la cronaca del suo rapporto con Cinzia: il tentativo di ricostruire un romanzo d’amore è destinato a sicuro fallimento, perché più di un’elegia fornisce elementi e situazioni in aperto contrasto con elementi e situazioni di altre elegie. (Fedeli). Nel libro primo del 28 a.C. si afferma: la mia donna crea il mio ingegno. Nel libro infatti l’amore per Cinzia che già dalla prima elegia si caratterizza come sofferenza (Cinzia per prima con i suoi occhi catturò me mi- PROPERZIO Sesto Properzio nacque nell’Umbria, forse intorno al 47 e morì verso il 14 a.C. Con i suoi quattro libri di elegie rivendicò a sé il merito di aver portato in primo piano a Roma l’elegia erotica derivata da Callimaco e Filita. Le terre di Properzio furono spartite fra i veterani dopo Filippi. Mortogli il padre, quando era bambino, la madre lo condusse a Roma, ove si dedicò alla poesia. Sulla sensibilità amareggiata e raffinata del poeta piombò l’amore per Cinzia (Apuleio dice che si chiamasse Hostia), raffinata e dissoluta meretrix. Tuttavia l’elemento biografico nella poesia d’amore del I secolo, se esiste realmente, costituisce comunque un’occasione di rielaborazione poetica e subisce un processo di trasformazione e riadattamento: ciò che veramente importa non è d’altra parte il fatto che si canti una donna reale, ma che si proponga sero, nessun Amorino mi aveva ancora ferito. Allora Amore mi fece abbassare lo sguardo sempre sprezzante, mi pose i piedi sul capo e premette, finché mi indusse, spietato, ad avere a noia le caste fanciulle e a vivere privo di senno. Da un anno intero questa follia non mi lascia, ed intanto sono • • • costretto ad avere contrari gli dèi) riempie tutto, salvo le due elegie finali, con il dolore per la patria e la famiglia distrutte. Come Tibullo, il poeta dichiara che i fati vogliono che egli sia assoggettato non ad altra milizia che non sia quella d’amore. Le favole mitologiche d’amore, fornitegli dalla poesia ellenistica, erudite e particolari, entrano copiose nei suoi carmi. È quasi orgoglio per Properzio constatare che egli ama come hanno amato gli dèi e gli eroi dei miti. Alludendo alla veemenza in essi contenuti, Ovidio definì ignes i versi di Properzio. A questo intimo fuoco divoratore si adegua l’espressione robusta fino all’oscurità, densa fino al preziosismo, ma sempre entro una severa eleganza. Anche i vocaboli 4 spesso assumono significati diversi dai soliti e rendono enigmatica l’espressione. Il secondo libro fu pubblicato nel 25 a.C. e dedicato a Mecenate (come il terzo). Si accenna soltanto al desiderio di trattare altri argomenti, ma il poeta non si ritiene in grado di celebrare le imprese del princeps (recusatio), rifiuta quindi il poema epicostorico e tutto nel libro parla ancora di Cinzia: le dice che non presterà orecchio a nessuna diceria sul suo conto; le giura di amarla, sulle ossa del padre e della madre e che le ceneri di entrambi gli pesino sul cuore, se non è vero. Se Cinzia si ammala dice a Giove che sarebbe delitto il suo, se facesse morire tanta bellezza. Nel terzo libro, pubblicato intorno al 22, dedica qualche svogliata nota alla celebrazione delle gesta di Augusto (spedizione contro i Parti, vittoria di Azio); quel poco che Properzio concede alla poesia officiosa è dovuto alla stanchezza della sua vena erotica, in seguito alle delusioni provate con Cinzia e, nel chiudere il libro, il poeta nota che noi ci fingiamo a piacer nostro la donna che amiamo. Nasce poi nel 14 a.C. il quarto libro, dove Properzio appaga le attese di Mecenate: parla dei tempi leggendari di Evandro, del dio Vertunno, di Tarpea, della vittoria di Azio, di Ercole e Caco, delle origini del culto di Giove Feretrio. Confessa in queste elegie di imitare Callimaco nella eziologia. VIRGILIO Publio Virgilio Marone nacque il 15 ottobre del 70 a.C. ad Andes, un villaggio presso Mantova. I biografi fanno del padre un campagnolo; la biografia falsamente attribuita a Probo gli dà l’appellativo di rusticus. Ebbe Virgilio a Cremona la prima educazione letteraria, fino alla toga virile, che prese nel 55. Studiò poi retorica a Milano, da dove si trasferì a Roma. A Roma studiò per divenire oratore, ma era timido e di difficile parola. Entrò in rapporti con Pollione e Cornelio Gallo, apprese da Sirone la filosofia epicurea, che lo affascinò anche attraverso l’opera di Lucrezio. Alla giovinezza appartiene il Culex, ritenuto autentico da Lucano Marziale e Stazio (vi si parla di una zanzara che svegliandolo salva un contadino dal morso di un serpente; uccisa però dal contadino irriconoscente, gli apparirà in sogno). La Ciris (del 49) è un epillio sul tipo della Zmyrna di Cinna e canta la passione delittuosa di Scilla. Alcuni Catalepton (poesie spicciole), se autentici, vengono dopo l’Eneide. Le ecloghe (Bucoliche) rivelano gli aspetti sereni e rigeneranti della natura, di tipo epicureo. Scritte dal 41 al 39 sono dieci: forse la prima in ordine di tempo è la seconda, serenata del pastore Coridone al giovinetto Alessi; seconda è la terza, dia- 5 logo e contrasto fra due giovani cantori. Nella quinta il poeta lamenta la morte di Dafni e ne esalta la trasfigurazione, alludendo probabilmente alla morte e alla apoteosi di Cesare. Nel 41, dopo la vittoria di Filippi, i triumviri spartirono fra i veterani le terre nella Gallia Cisalpina ed arrivarono ad intaccare il territorio di Mantova. Asinio Pollione, forse intercedendo presso Ottaviano, riuscì ad ottenere la revoca dell’esproprio ai danni di Virgilio (c’è l’eco dei fatti nella bucolica I). Nell’ecloga IV, distaccandosi dalla tradizione teocritea, Virgilio compone un canto più elevato (Sicelides Musae, paulo maiora canamus!): esalta il ritorno dell’età dell’oro dopo anni di guerre civili, preannunciata dalla nascita di un fanciullo, forse il figlio di Asinio Pollione. Dopo Pollione governò la Cisalpina il giurista Alfeno Varo, assistito da Cornelio Gallo. Fu allora che Virgilio perse il podere; la poetica protesta è nell’ecloga IX; dello stesso periodo è l’ecloga VI, importante per la recusatio in essa contenuta (Talia, la mia musa, mi concesse all’inizio di poetare in verso siracusano e non arrossì di abitare nei boschi. Quando però mi accinsi a cantare di re e battaglie, Cinzio – epiteto di Apollomi tirò l’orecchio e mi ammonì: «Al pastore, Titiro, si addice di pascolare le pecore grasse, ma di comporre una canzone dimessa») e per l’esplicita adesione alla dottrina epicurea (i pastori Cromi e Mnasillo, sotto i cui nomi si celano forse Virgilio stesso e Varo, sorprendono Si- leno ubriaco in una grotta e lo costringono a cantare. Sileno, sotto le cui spoglie si può leggere un’allusione al filosofo Sirone, a narrazioni mitologiche unisce motivi tipici della filosofia epicurea, congiunta, come in Lucrezio a riflessioni di matrice empedoclea (v.31: cantava infatti come nel vuoto immenso si trovassero ammassati gli atomi della terra, dell’aria, del mare e insieme del puro fuoco; come da questi primi elementi si condensassero tutte le cose e lo stesso molle globo del mondo). Importante è anche la decima bucolica, in cui Virgilio chiede alla ninfa Aretusa l’ispirazione per scrivere versi di consolazione per l’amico Cornelio Gallo che soffre per amore di Licoride. Dal cocente ricordo dell’esproprio, dal disorientamento degli agricolae italici, dall’inestinguibile amore per la natura agreste in cui trovar pace Virgilio concepì le GEORGICHE. Si rifece al modello delle Opere di Esiodo e alla trattatistica latina, da Catone a Varrone e forse anche al cartaginese Magone, ma il cammino gli fu indicato da Lucrezio. La natura va intesa anche nella sua bellezza purificatrice: in ciò Virgilio si stacca dal duro utilitarismo della concezione esiodea. In tutto il poema l’afflato lirico insidia la trattazione più strettamente didascalica. I quattro libri trattano: cerealicoltura, culture arboree, specie le viti, allevamento del bestiame, apicoltura. L’opera si chiude con la favola di Aristeo. Tra i passi 6 più importanti commentati insieme ricorda: a. le cosiddette lodi dell’Italia nel libro II (la terra dei Medi ricchissima di vegetazione boschiva, il maestoso Gange e l’Ermo opaco d’oro non gareggiano con le glorie dell’Italia e neanche Battra e l’India e la Pancaia ricca di sabbie sature d’incenso…) b. la costruzione del tempio all’inizio del libro III che preannuncia il progetto dell’Eneide (in un verde campo edificherò un tempio di marmo vicino alle acque dove scorre il grande Mincio…). L’ENEIDE La Vita donatiana ci riporta che Virgilio prima stendeva in prosa i dodici libri del poema e poi dava loro veste poetica: la notizia rende bene la fatica compositiva dell’opera. Virgilio gareggia con Omero: da questo trae insegnamento nelle immaginose similitudini e nelle formule fisse ricorrenti ad ogni ripetizione di una data circostanza; Ennio gli offrì il destro per patinare di arcaico linguaggio e stile. Virgilio riecheggiò i primi sei libri dall’Odissea, gli ultimi sei dall’Iliade. Nell’amore di Didone Apollonio Rodio rappresenta uno degli stimoli principali della fantasia di Virgilio. Dall’amore infelice tra Enea e Didone si consacra l’eterna inimicizia tra Roma e Cartagine, secondo una tradizione già presente nel Bellum Punicum di Nevio. Il pius Aeneas, a cui la provvidenza assegna un compito eccezionale, è protagonista del poema e prototipo della virtus Romana, che è pazienza, fermezza, virile rinuncia, devozione agli dèi. Perciò l’Eneide assurse subito alla dignità di poema nazionale italico. Grande celebrazione della grandezza futura di Roma è soprattutto: a. nella descrizione fatta da Anchise nell’Ade al figlio Enea dei personaggi che si preparano a scendere sulla terra, fino al commovente ricordo della prematura morte di Marcello e dei trionfi di Ottaviano b. nell’¶kfrasiw dello scudo di Enea con la storia d’Italia e dei trionfi romani. Accanto alle note dell’epica c’è lo spirito romano più fraterno, più umano, più pensosamente complesso: il secondo libro, con la descrizione della rovina di Troia, scopre in Virgilio una nota quasi sconosciuta ai poemi omerici, la pietà per i vinti oppressi e straziati; questa sensibilità fece sì che non a torto i poeti elegiaci d’amore dell’età augustea si rivolgessero a Virgilio come al loro fratello maggiore. Così il poeta della romanità diveniva anche il precursore dell’umanità nuova, il poeta pagano in cui traluceva in anticipo il primo raggio della grande palingenesi operata dal Cristianesimo. Nel 19 Virgilio decise un viaggio in Grecia e in Asia per verificare personalmente particolari del poema. Ad Atene incontrò Augusto, reduce dall’Oriente e decise di rientrare a Roma con lui. A Megara si ammalò e durante il viaggio di ritorno morì a Brindisi il 21 settembre dello stesso anno. Fu sepolto nella prediletta Na- 7 poli. Augusto dette disposizioni a Vario di pubblicare l’Eneide, contro la volontà dello stesso Virgilio . L’opera si affermò subito come la più alta opera poetica della latinità; nel corso del I sec. il grammatico Remmio Palemone, incoraggiando nelle scuole la lettura di Virgilio, consacrò l’Eneide a testo formativo della gioventù studiosa. Si deve probabilmente al grammatico Probo l’edizione che divenne la base definitiva per la costituzione del testo. ORAZIO Quinto Orazio Flacco, figlio di un liberto, esattore delle aste pubbliche, nacque l’8 dicembre del 65 a.C. a Venosa. A venti anni andò ad Atene per studiare filosofia. Dopo l’uccisione di Cesare raggiunse il grado di tribunus militum sotto Bruto. Nell’ode 2,7 rievoca la rotta di Filippi che gli fece svanire l’infatuazione stoica e repubblicana (relicta non bene parmula). Dopo l’amnistia concessa ai superstiti dell’esercito repubblicano, tornato in patria, ebbe confiscati la casa e il podere a vantaggio dei veterani che avevano combattuto con Antonio e Ottaviano. Per vivere Orazio fece lo scriba quaestorius. Sono di questo periodo la conversione all’epicureismo e al desiderio dell’otium contemplativo e la ribellione titanica, quasi romantica, di Orazio (vd. l’aspra seconda satira del primo libro, la terza, l’ottava e buona parte degli epodi, ove si ritrova più la fiambikØ fid°a di Archiloco e Ipponatte che non le raffinate smorzatore di Callimaco). Nel 38 Virgilio e Vario lo presentarono a Mecenate (Sat. 1,6) ed Orazio uscì dallo sconforto. Nel 37 partecipò al viaggio di Mecenate a Brindisi (Sat. 1,5). Nel 35 Orazio pubblicò il primo libro delle Satire, dedicato a Mecenate (le chiamò sermones, distinguendole dalla poesia di grande impegno). La gnomica oraziana non si presenta qui come la sola messa a frutto dei buoni insegnamenti paterni (sat. 1,6), ma come l’applicazione di quanto professato dalle filosofie ellenistiche, soprattutto quella epicurea, e dalla diatriba cinico-stoica: principi fondamentali sono la metriòtes (ricerca del giusto mezzo) e l’autàrkeia (autosufficienza del saggio). La ricerca del giusto mezzo consente a Orazio di conciliare l’esigenza - molto avvertita nella società romana del tempo - di una morale più salda, con l’edonismo di fondo che è tipico di chi, come lui, resta pur sempre un Epicuri de grege porcus (Fedeli). Il successo dell’opera spinse Orazio a scrivere un secondo libro, ove però il repertorio degli spunti diatribici finì per prendergli la mano e per imbarcarlo in una inesorabile condanna di tutti gli appetiti umani. Lentamente si convertì alla politica di Augusto, così negli epodi I e IX egli, il deprecatore delle guerre civili, si trasformò nel cantore della battaglia di Azio, decisiva per l’assetto dello Stato romano. Nel 30 furono pubblicati il Libro degli Epodi e il secondo libro delle Satire. Si apre ora il periodo più schiettamente lirico del- 8 l’attività poetica di Orazio. Nel 23 pubblicò i libri delle Odi che nell’impianto originario dovevano essere soltanto tre: conclusiva infatti risulta essere l’Ode 3,30, ove il poeta esprime nel congedo la consapevolezza del risultato raggiunto (Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo, più alto della mole regale delle piramidi;…si dirà di me che da umile divenuto potente, per primo ho trasportato nei ritmi italici il carme eolio). Subito dopo tornò alla poesia dei sermones nella forma dell’epistola poetica; videro così la luce nel 20 il primo libro delle Epistole e nel 13 il secondo, con l’epistola ad Augusto, quella a Floro, e quella ai Pisoni, più comunemente nota con il nome di Ars poetica. Fonte di quest’ultima è soprattutto il peripatetico Neottolemo di Pario, che Orazio riprese attraverso la confutazione dell’epicureo Filodemo. Nel 17 Augusto gli commissionò il Carmen Saeculare. Nel 15 lo stesso Augusto (stando alla maldicenza di Svetonio) volle che il poeta celebrasse la vittoria dei figliastri Tiberio e Druso sui Reti e sui Vindelici: nacque perciò il quarto libro delle Odi (che Orazio dichiarò di scrivere sotto l’urgenza di un nuovo amore, quello nei confronti di Ligurino) incentrato sulle odi 4 e 14 in cui il poeta emula Pindaro, di cui pur sostiene l’inimitabilità (Ode 4,2). Mai poeta lirico ebbe come Orazio il rispetto religioso per l’altezza della poesia e l’ufficio del vates: ma nel vates egli scorgeva, secondo i detta- mi dello stoicismo, principalmente l’educatore, il pedagogo del proprio popolo, e quindi cercava di assumere atteggiamenti non disdicevoli alla gravitas del compito scelto. Gli abbandoni più schietti se li concedeva nei levia carmina, cioè nelle scherzose poesie d’amore, con sensi epicurei. Figure di donna cantate: Glicera, Barine, Licoride, Lidia, Leuconoe, Clori, Mirtale; l’amore non deve compromettere l’indispensabile equilibrio dell’anima. E Orazio è ancora nella moderazione in qualsiasi momento della vita; il motivo delcarpe diem non va quindi inteso come sfrenata gioia di vivere, ma senso di incertezza delle gioie umane e tentativo di cogliere ciò che di positivo si può trovare in ogni momento della vita. Orazio morì il 27 novembre dell’8 a.C., subito dopo Mecenate. 9 DA TIBERIO A NERONE La fine del mecenatismo La scomparsa di Augusto e di Mecenate ed il venir meno della loro accorta opera di mediazione fra il potere politico e l'élite intellettuale provocò un distacco che non si sarebbe più ricomposto se non in modo occasionale e precario (per esempio nei primi anni del principato neroniano). La crisi del mecenatismo è già manifesta con Tiberio che non sembra nemmeno porsi il problema di organizzare un programma di egemonia culturale. Prende vigore intanto una storiografia contraria al principato, con quell'atteggiamento di ostilità verso la dinastia giulioclaudia il quale avrebbe esteso i1 suo influsso sino a Svetonio e a Tacito, e a cui risale l'immagine che dei sovrani di quella famiglia si sarebbe trasmessa alla posterità. La letteratura si distacca dalla scena politica e si ritira nelle sale di lettura. Predomina la ricerca dell'effetto, di uno stile asiano brillante e prezioso, ricco di pathos e colores. Anche l'oratoria si confronta su temi fittizi, non più legati alla realtà forense (ricorda la polemica di Quintiliano, di Tacito nel Dialogus e la tirata di Encolpio contro il retore Agamennone nei primi capitoli del Satyricon). LA POESIA ASTRONOMICA Lo studio degli astri non ha solo fine scientifico o erudito; è strettamente connesso con la filosofia e la religione. Gli stoici, ad esempio, dànno grande impor- tanza al rapporto dell'uomo con il cosmo e al legame tra destino umano e leggi naturali. Anche nella religione popolare è frequente il concetto di predestinazione astrale, regolata da attrazioni celesti. Germanico, figlio adottivo di Tiberio, ucciso forse per un complotto politico, tradusse negli Aratea (dedicati a Tiberio) i Fenomeni di Arato e nei Prognostica fornì una rielaborazione molto libera dei Pronostici dello stesso Arato. Nulla si sa della vita di Manilio. Scrisse gli Astronomica, poema didascalico in cinque libri, fra il principato di Augusto e quello di Tiberio (utile elemento di datazione è l'influsso delle Metamorfosi di Ovidio, nel gusto sentimentale e rococò di certe digressioni mitologiche che si staccano nettamente dal contesto astronomico). Lo studio degli astri predice gli eventi e ciò reca un beneficio all'umanità; in ciò Manilio è vicino allo spirito didascalico di Lucrezio, anche se nella dottrina ne è agli antipodi, poiché l'astrologia si basa su leggi naturali fissate da uno spirito divino, la ratio cosmica che muove la grande macchina dell'universo. Sua fonte forse fu lo stoico greco Posidonio. STORIOGRAFIA DEL CONSENSO . VELLEIO PATERCOLO nacque ad Eclano, nell'Irpinia. Fu in Germania con Tiberio, come capo della cavalleria; fu pretore ed infine si ritirò a vita privata. Scrisse due libri storiografici Ad Marcum Vinicium (pubblicati nel 29), compendio di storia universale, dalle origini fino ai tempi dello scrittore. Le epoche più antiche sono trattate sinteticamente, quasi in forma di compendio, mentre Velleio si dilunga sulla storia contemporanea; esalta le doti militari e politiche di Tiberio, sì che la storiografia libertaria del secolo scorso lo definì vile cortigiano. I1 suo stile, drammatico e patetico, costituisce il miglior ponte di passaggio fra Sallustio e Tacito. 10 LA VISIONE ROMANZESCA DELLA STORIA CURZIO RUFO La composizione della sua opera risale ai primi anni del regno di Claudio; 1'Historia Alexandri Magni è in dieci libri (perduti i primi due, la fine del quinto e l'inizio del sesto). Si tratta di una vita romanzata, in cui si mira a rievocare con i colori più avvincenti del1'asianesimo un'impresa che sa di favoloso; siamo sulla falsariga del romanzo ellenistico d'avventura, con gusto frivolo, ghiotto del particolare curioso e solleticante: seduzione di terre lontane, usi sfarzeschi d'Oriente e sue misteriose meraviglie. LA FAVOLA FEDRO nacque in Tracia e a Roma fu liberto di Augusto. Fece della favola la sua unica forma d'arte. Nella raffinatezza metrica e nella sorvegliata brevità si ritrova l'aspetto del poeta di tipo alessandrino. I primi due libri dovettero essere composti sotto il regno di Tiberio poiché nel proemio al terzo libro si parla d'un processo che Seiano aveva intentato all'autore, sospettando nelle favole malevole allusioni. Nelle Nozze del Sole (in greco ¥liow, dunque assai vicino al nome Elio di Seiano) le rane, tipico simbolo esopico per indicare la gente comune, sono nel panico: se già da solo il Sole scotta (cioè Seiano è molesto con il popolo) cosa accadrà dopo la nascita dei figli? A proposito della favola Quintiliano Inst. V, 11 cita Esiodo, come iniziatore del genere, Esopo, Menenio Agrippa col suo famoso apologo e Orazio; tralascia di parlare di Fedro. Di lui non si ricorda neanche il contemporaneo Seneca che nella Consolatio ad Polybium esorta quest’ultimo, al fine di vincere il do- lore per la morte del fratello, a scrivere fabellas et aesopeos logos, intemptatum Romanis ingeniis opus. A Fedro accenna invece Marziale III 20 l Ògouw improbi Phaedri (le favole dell’impertinente Fedro). L'opera completa di Fedro comprendeva cinque libri; ne abbiamo i proemi e gruppi di favole presi qua e là da ogni libro. Nel Medioevo non fu conosciuto direttamente, ma attraverso un corpus di favole in prosa, da cui si ricavò una raccolta che prese il nome di Romulus o Aesopus latinus. SENECA . Seneca pone più che mai l'accento sul problema morale, sotto l'urgenza della crisi spirituale della Roma contemporanea; egli è più che un austero maestro di precetti etici un tormentato agitatore di problemi morali. Le certezze morali su cui, alla fine del secolo XIX, la cultura tedesca fondava i suoi autocompiacimenti; i modelli sempre presenti di ideali sistemi filosofici organicamente costruiti, a Seneca però estranei ed impossibili; la ricercata uniformità di uno stile facilmente definibile, non certo vario ed inquieto, imprevedibile ed inafferrabile come quello di Seneca, giustificano i giudizi pronunciati dai giganti della storiografia e della filologia classiche (Mommsen, Wilamowitz , Vahlen, Schwartz), tanto severi al nostro orecchio ed intollerabilmente negativi. Sfuggiva a costoro come l'artista ed il politico potessero 11 essere uomini a “più dimensioni” e non paradigmi di moralità proclamata e sempre vissuta, non prevedevano come il secolo XX, allora al suo schiudersi, culturalmente sarebbe stato segnato proprio dall'apertura drammatica sui variegati abissi dell'animo, dalla scoperta e dall'analisi delle contraddizioni esistenziali, quali si verificano nella condizione umana, dalla frantumazione di un crudele ordine sociale che si credeva valido per l'eternità. Non la critica del XIX secolo, ma quella del XX può dirsi quindi strutturalmente attrezzata per avvicinarsi all'enigma rappresentato da Seneca e tentare di risolverlo; solo periodi storici incerti e dubbiosi della validità di un ordine precario, angosciati dalla percezione delle proprie debolezze politico-morali, possono accoglierne il messaggio. Due motivi opposti tengono in tensione drammatica la vita di Seneca: da una parte l'educazione familiare ricevuta, le pressioni esercitate su di lui dal padre a ché intraprendesse la carriera forense e quindi politica, dall'altra gli insegnamenti filosofici ricevuti in gioventù, che mettendo in discussione, ridicolizzando i valori fondamentali della società romana (potere, gloria, denaro), gli proponevano un tipo di vita «contemplativa», basata sulla riflessione, sullo studio. Su questi due punti estremi poggiano dunque la sua vita vissuta (attiva e moralmente reprensibile) e la sua vita sognata («contemplativa» e valida come esempio per gli altri). Ed egli è ben conscio della discrasia nevrotizzante cui la sua personalità così sog- giace. (Viansino). Significativa al riguardo la testimonianza dell’epistola 60, in cui Seneca scrive: Ancora ti auguri ciò che per te si augurarono la nutrice, il pedagogo, la madre? Non capisci ancora quanto male ti hanno augurato? Quanto sono negativi per noi i voti delle persone che ci vogliono bene! Ormai non mi meraviglio se tutti i mali CI perseguitano: SIAMO cresciuti tra i voti malaugurati dei nostri genitori. Seneca nacque a Cordova intorno al 4 a.C., da Seneca il Vecchio. Compì i suoi studi a Roma, sotto la guida di Papirio Fabiano, retore e filosofo stoico, dello stoico Attalo, del cinico Demetrio e del neopitagorico Sozione. Terminati gli studi a Roma, si recò in Egitto. Tornato a Roma fu introdotto nell'ambiente di Caligola e ottenne la questura. Esercitò l'arte oratoria. Nel 39 un suo discorso gli attirò l'ira di Caligola e a stento salvò la vita, ma nel 41, coinvolto in un processo, fu esiliato in Corsica, ove rimase otto anni. Forse appartengono a questo periodo i tre libri De ira, dedicati al fratello Anneo Novato, dove si vede ancora l'esercitazione ad effetto. A Polibio, liberto di Claudio, Seneca inviò una consolatio per la morte del fratello: lo scopo è di adulare l'imperatore per tornare a Roma. Più vibrata la consolatio ad Helviam matrem, sempre dall'esilio. Dello stesso periodo è il De providentia: spiega che non bisogna meravigliarsi se la Provvidenza divina mette a dura prova proprio i più virtuosi; con il dolore infatti si temprano le anime più gran- 12 di. Suppliziata Messalina dal marito, la nuova imperatrice, Agrippina minore, fece richiamare Seneca dall'esilio (49 d.C.) per farne il precettore di Nerone. A questi il filosofo istillò ideali di saggezza ed equilibrio, ma anche il senso di una religiosa venerazione che nella civiltà ellenistico-orientale circondava il despota. Morto Claudio, scrisse il Ludus de morte Claudii, critica spietata all'apoteosi del morto imperatore. Dell'azione di governo, Seneca fu più l'ispiratore occulto che non il responsabile diretto. Dedicò a Nerone il De clementia, in tre libri, ove si difende l'idea di un principato illuminato e conciliativo. Nei sette libri del De beneficiis è una trattazione completa sugli obblighi reciproci fra beneficiati e benefattori e sui modi del beneficio e dell'ingratitudine. Sempre nel periodo della sua vita politica, Seneca scrisse il De vita beata (ove spiega, a chi gli rinfacciava la propria fortuna, che per il saggio la vera beatitudine è nella coscienza della propria virtù) e il De costantia sapientis, ove mostra con quale animo getti in un canto le calunnie e le ingiurie scagliategli contro. Nel De tranquillitate animi il filosofo ribatte l'accusa di essere usuraio, spiega perché ha intrapreso l’attività politica e si professa seguace degli stoici (de tranq. animi 10: sono deciso a seguire la via dei precetti e a mettermi in mezzo alla vita politica: ho deciso di ottenere cariche pubbliche non certo perché portato fuori strada dalla porpora e dalle verghe, ma per essere più disponibile agli amici, ai parenti, a tutti i concittadini, agli uomini. Ben deciso seguo Zenone, Cleante e Crisippo, nessuno dei quali fece tuttavia politica, eppure tutti e tre spinsero a farla. Aiutano a r a g g i u n g e re l a t r a n q u i l l i t à dell’animo anche l’amicizia dei buoni, la parsimonia e la frugalità, la serena accettazione delle avversità e della morte). Nel De otio è affrontato il tema dell'otium e del negotium: forse rimpiangeva gli ozi di Corsica e presagiva che i negotia della sua vita politica stavano per venir meno; vi è conciliazione fra l’ideale stoico e quello epicureo. Influenza della dottrina epicurea si riscontra anche altrove, ad esempio nelle Troiane vv. 372-494 dove il coro si esprime sul destino riservato all’uomo dopo la morte (È vero o è solo una favola che illude la nostra paura, è vero che un’ombra rimane quando il corpo è sepolto, quando il consorte sugli occhi ci ha disteso le mani e l’ultimo giorno ha bloccato la luce di tutti i soli ed una triste urna ha rinchiuso le ceneri? Dunque non serve abbandonare l’anima alla morte ma agli infelici rimane da vivere ancora? O forse moriamo del tutto e non rimane più nulla di noi, quando in un soffio fuggente il nostro respiro è diventato nube, si è perduto nell’aria e la fiamma ha toccato il cadavere?). Per fugare ogni dubbio di incoerenza rispetto al pensiero stoico, cui Seneca dichiara di appartenere, basta leggere quanto lui stesso afferma nell’epistola 12 “quod verum est, meum est...Isti qui in verba iurant nec quid dicatur aestimant, sed a quo, sciant quae optima sunt esse communia”. Al medesimo momento critico del De otio è legato il De brevitate vitae, dedicato al prefetto dell'annona Paolino: vi dice che è da sciocchi lamentarsi della brevità della vita; siamo noi che impieghiamo male il tempo che ci è concesso. 13 Già Quintiliano, che scrisse pochi decenni dopo la morte di Seneca, ricorda che vengono comunemente citate con il titolo complessivo di Dialogi le seguenti opere: Consolatio ad Marciam, Consolatio ad Polybium, De ira, De brevitate vitae, De vita beata, De tranquillitate animi, De otio, De providentia, De con stantia sapientis. In effetti quelli di Seneca non sono dialoghi alla maniera platonica o ciceroniana, in cui la discussione si articola fra due o piu personaggi, in una cornice drammatica con ambientazione storica, sia pure inventata. Nei dialoghi Seneca parla sempre in prima persona ed ha come interlocutore unico il dedicatario dell’opera, che tuttavia è assente (unica eccezione il De tranquillitate animi dove Seneca dialoga con l’amico Anneo Sereno). Frequente è anche l’introduzione di domande e obiezioni di un interlocutorre fittizio, portavoce delle opinioni comuni o di posizioni diverse da quella dell’autore. In ciò si ha un chiaro influsso dalla diatriba cinicostoica. Le tragedie Si è discusso a lungo se le tragedie di Seneca furono scritte per la rappresentazione sulla scena o per la lettura. A favore di questa ultima ipotesi, forse la più plausibile, stanno i seguenti elementi: i lunghi excursus narrativi, i cori di andamento per lo più lirico-filosofico, la mancanza di evoluzione psicologica dei personaggi. Knoche parla di exempla filosofici di carattere stoico, quasi dimostrazioni pratiche e contrario di quell'ideale di equilibrio esposto nei trattati filosofici (p.es. egli interpreta il Tieste come 1'exemplum dei mali cui può condurre l'ira, con esplicito riferimento al trattato senecano De ira). E' opinione prevalente che Seneca abbia composto le sue tragedie (Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemno, Thyestes, Hercules Oetaeus) in un unico ciclo, subito dopo il ritiro dall'attività politica e c'è chi in molte di esse ha voluto vedere l'atteggiamento di rivendicazione della libertà contro la tirannide neroniana. Suo modello preferito fu Euripide, che più analizza le umane passioni. Oltre agli antecedenti drammatici è sensibile l'influsso di Ovidio e Virgilio. C'è ricerca di perfezione metrica: gli intermezzi corali si modulano spesso sui ritmi oraziani e nel trimetro giambico si introduce la medesima disciplina delle sostituzioni che Orazio aveva introdotto nei metri lirici. Ricorda il gusto del macabro che è diretta ripresa delle tragedie di Pacuvio. Fra le tragedie i manoscritti ci hanno conservato una praetexta l'Octavia, che sceneggia la morte di Ottavia, moglie di Nerone e fra i personaggi è lo stessso Seneca. Deve forse trattarsi dell'opera di un imitatore. Le Naturales quaestiones sono l'unica opera di Seneca di carattere scientifico. Vi sono trattati i fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali, ai terremoti, alle comete. È il frutto di un vasto lavoro di compilazione. Le Epistulae morales ad Lucilium in 20 libri sono il capolavoro della filosofia e della prosa di Seneca. È ancora sub iudice se si tratti di un epistolario reale o fittizio; costituisce 14 comunque un unicum nel panorama letterario-filosofico antico. Modelli: Platone ed Epicuro. Le epistulae vogliono essere uno strumento di crescita morale, un diario delle conquiste dello spirito nel lungo itinerario verso la sapientia di uno straordinario percettore di stati d’animo, attraverso un esempio quotidiano di vita che, sul piano pedagogico, si rivela più efficace dell’insegnamento dottrinale. (ep. 27: ascolta me, dunque, come se parlassi con me stesso. Io ti ammetto al mio segreto e, fattoti entrare, faccio i conti con me stesso). Gli argomenti delle lettere, al di fuori di ogni sistema filosofico, sono svariati, ma generalmente ricondotti alle tematiche della tradizione diatribica: autosufficienza del saggio, indifferenza alle seduzioni mondane, disprezzo delle opinioni correnti, distacco dalle passioni. Nel 65, scoperta la congiura antineroniana dei Pisoni, di cui faceva parte il nipote Lucano, Seneca fu costretto ad uccidersi. EVOLUZIONE DEL GENERE EPICO LUCANO nacque a Cordova nel 39 d.C. A Roma fu educato dallo stoico Anneo Cornuto, poi fu ad Atene per perfezionarsi. Nerone lo volle fra i suoi e lo fece questore. A ventisei anni, quando morì aveva composto la Farsaglia in dieci libri (o Bellum civile), la tragedia Medea, quattordici fabulae salticae (libretti per pantomimi), ed altre opere minori. La biografia del Vacca parla di gelosi- a di Nerone nell'arte, sì che gli proibì di scrivere versi. Forse l'ardore di Lucano per gli ideali tradizionalisti ed anticesariani si accrebbe sinceramente sotto il colpo della proibizione: contro il poema di Virgilio che celebrava l'origine e la missione divina della Gens Iulia, il suo poema storico deprecava la guerra di Cesare e quindi il diritto di Nerone al principato. Ricorda la tecnica antifrastica nella ripresa di Virgilio e le profezie di sventure. I1 poema non è completo nel decimo libro: forse doveva giungere sino alle Idi di marzo con l'uccisone di Cesare da parte dei congiurati. La retorica asiana si adegua nel poema al rovente furore ideologico del giovane poeta. I1 poema di Lucano è accesa polemica contro il principato dispotico, contro Virgilio ed il poema di argomento mitologico, contro lo sperare nella TÊxh) anziché poggiarsi sulla virtù. Per Lucano il poema storico deve servire da vera e propria documentazione critica dei fatti narrati. Vi è anche molta erudizione storico-geografica. Lo stile è uggiosamente retorico, la struttura sintattica è fra le più ricercate ed artefatte. 1'Asianesimo in veste poetica fa qui le sue prove supreme: periodi brevi, sentenziosi, sapientemente spezzati e concettosi, aura d'incertezza nei vocaboli scelti; c'è brama decadentistica del macabro, del tenebroso, dell'orripilante come nella scena della tessala maga Erictho che risuscita un soldato. La Farsaglia non ha come 1'Eneide un personaggio principale, un vero e 15 proprio eroe: l'azione ruota intorno alle figure di Cesare, Pompeo e Catone 1'Uticense. Ognuno di loro incarna un preciso modello ed ideale di vita: Cesare, l'eroe negativo che emana fascino sinistro rappresenta il trionfo di quelle forze irrazionali (furor, ira, impatientia) che nell'Eneide venivano domate e sconfitte; Pompeo è un personaggio in declino, affetto da una sorta di senilità politica e militare, colpito dal destino avverso (un antiEnea); in Catone si consuma la crisi dello stoicismo tradizionale che garantiva il dominio della ragione: di fronte alla consapevolezza della malvagità di un fato che cerca unicamente la distruzione di Roma, diviene impossibile per Catone l'adesione alla volontà del destino che lo stoicismo pretendeva dal saggio. Nasce la ribellione titanistica: Catone non si sottomette al volere degli dèi, si impegna nella guerra, con piena consapevolezza della sconfitta alla quale va incontro (victrix causa deis placuit, sed victa Catoni - Phars. I, 128). L'opera di Lucano ebbe grande fortuna; Stazio celebrò l'ingegno del poeta e il suo martirio (morì suicida coinvolto nella congiura dei Pisoni) nel Genethliacon Lucani, dedicato alla vedova Polla Argentaria. Nel periodo arcaizzante del II sec. non riuscì gradito; nel M.Evo invece fu letto ed ammirato per l'intonazione moralistica (Dante lo pone al quarto posto nel limbo fra quelli che si fanno incontro a Virgilio). LA SATIRA PERSIO, come ci dice la biografia contenuta nel De poetis di Svetonio, nacque a Volterra da famiglia equestre, il 4 dic. 34 d.C. All'età di dodici anni si trasferì a Roma ed ebbe maestri Remmio Palemone per la grammatica e Virginio Flavo per la retorica. A sedici anni conobbe il filosofo stoico Anneo Cornuto che molto influì sul suo modo di sentire. Morì a ventotto anni. Cornuto, editore postumo delle sue opere, pubblicò soltanto le Satire (sei in un unico libro), opera in cui Persio, pur rifacendosi alla tradizione oraziana se ne discosta per numerose innovazioni: la forma dell'invettiva e della denuncia spietata (lo si è definito predicatore calvinista) prende il posto del tono confidenziale e garbato, del sorriso autoironico, dell'indulgente comprensione per le debolezze umane. Si può parlare di un ritorno al modello di Lucilio, sostenuto da un rigorismo cinico-stoico. Molto in Persio suona falso e libresco; egli cercò la frase ad effetto, con possibili cadenze del linguaggio plebeo, che sono anch'esse vuota imitazione, poiché non ricavate dalla vita che ebbe comoda e ricca. L'innaturalità impone anche al discorso inverosimili contorsioni e goffe oscurità. Poco si salva dell'arte di Persio; questi portò nella satira il vezzo dello stile oscuro, architettato con costrutti preziosi e la deformazione macabra del reale. Molte iuncturae sono diretta ripresa di Orazio, come alcune immagini e descrizioni, per esempio: 1. sat.5,66 motivo del carpe diem 2. sat.5, 36 sgg. Persio parla di Anneo Cornuto con parole simili a quelle usate da Orazio quando ricorda il padre 16 3. sat. 5,58 la iunctura “lapidosa chiragra” = “la petrosa chiragra” richiama Orazio, epist. 1 1,31 “nodosa chiragra”, tanto più che subito dopo Persio paragona le articolazioni colpite dalla chiragra ai rami nodosi di un vecchio faggio. Di Persio ricordiamo anche il componimento in quattordici coliambi che fa da introduzione alle satire. Qui il poeta si dichiara semipaganus, cioè semirusticus, lontano dalla ispirazione divina e dalla raffinatezza dei poeti cittadini, forse sulla suggestione di Orazio, sat. 1,4 in cui il poeta augusteo non si collocava in quanto autore di satire fra i veri e propri poeti. Altra allusione ad Orazio potrebbe esservi nella critica a coloro che fanno poesia spinti dal bisogno (Orazio aveva dichiarato infatti che dopo Filippi l’audax paupertas, la povertà che rende audaci, lo aveva spinto a scrivere). Nel proemio di Persio, come sottolinea A. La Penna, bisogna scorgere anche traccia del dibattito se all’origine delle arti sia l’ispirazione divina o, come nella teoria democritea ed epicurea, lo stato di necessità e il senso dell’utile (xre¤a). IL ROMANZO PETRONIO Ciò che colpisce è il silenzio su Petronio Arbitro, conservato dagli scrittori della seconda metà del I sec. e di tutto il II: ne tace Quintiliano, ne tace Marziale, forse perché si aveva pudore a ricordare l'opera sua che, pur adoperando la forma della menippea, era un romanzo erotico, di stampo popolare (ricorda l'influsso della fabula milesia, così chiamata da Aristide di Mileto, scrittore greco del II-I a.C., che diede dignità letteraria alla novellistica popolare). Nel Satyricon sono presenti cinque novelle (raccontate da personaggi diversi che affermano di essere stati protagonisti o spettatori): tre, piuttosto brevi, di cui due di magia, sono raccontate da commensali durante il banchetto di Trimalchione, le altre due, messe in bocca a Eumolpo, sono storielle erotiche, di cui la più lunga, la Matrona di Efeso, compare in una versione sbiadita anche fra le favole di Fedro. Petronio è del tempo di Nerone e vani risultano i tentativi, specie del secolo scorso, di negare l'identità col Petronio Arbitro degli Annali di Tacito (XVI, 18-19). Nel festino di Trimalchione, parte maggiore che ci resta, Petronio volle, contro la raffinatezza da lui introdotta presso la corte di Nerone, caratterizzare la volgarità di quei villani rifatti che ormai dominavano la vita economica dell'impero. Petronio si propone osservatore lucidissimo di un mondo diverso e lontano dal suo, tumultuoso e caotico, senza mostrare né simpatia, né partecipazione, ma mantenendo sempre un neutrale ed aristocratico distacco; si tratta di quell’atteggiamento che con felice iunctura Canali ha definito realismo del distacco. Dai frammenti del Satyricon si è tentato di ricavare la patria dell'autore: Marsiglia, Campania, Roma. Si è supposto che il romanzo comprendesse sedici o diciassette libri (la Cena equivarrebbe a due). I1 Satyricon è un misto di prosa e 17 versi: tutta una pungentissima parodia, a cominciare dalla vecchia trama degli innamorati, che Petronio trasforma in due omosessuali. Petronio, all'occorrenza, si mette a parlare il linguaggio delle cortigiane, dei tavernieri, dei liberti ignoranti, dando un calcio a tutta la tradizione togata. Protagonista Encolpio, il più anziano dei due omosessuali, strano tipo di esteta in bolletta, capace di bassezze, ma odiatore di tutto ciò che è grossolano. I1 romanzo è raccontato in prima persona (come succedeva per Clitofonte di Achille Tazio). Altri personaggi: Gitone, Ascilto, Quartilla, Eumolpo. Da quest'ultimo Petronio fa criticare il tipo di poema storico bandito da Lucano e gli fa cantare un frammento De bello civili, in cui però riprendono il loro posto le divinità messe al bando da Lucano, sì che il brano risulta parodia al contempo di Lucano e dei suoi avversari. L'altro frammento poetico, sempre recitato da Eumolpo, potrebbe essere parodia di una tragedia di Nerone. Lo stile: Petronio si manifesta avverso a tutto il marciume della retorica esotica; sembra amare le espressioni passate antiasiane, e nello stesso tempo nel suo tono saltellante, pieno di frizzi, si mostra un perfetto seguace dello stile asiano. Ricorda l'uso frequente del sermo cotidianus (per esempio nei discorsi tra liberti durante la Cena di Trimalchione). Da Vespasiano a Domiziano Con l'età dei Flavi, specie con Vespasiano, si ebbe il tentativo di una restaurazione politica e spirituale dell'età augustea; la cultura e la lingua di Roma hanno il loro momento di maggior diffusione. Il frutto più completo e significativo di questa rinnovata coscienza della romanità trionfante si ha nel libro decimo della Institutio di Quintiliano, in quella categorica affermazione del valore della letteratura latina in confronto con la greca, e talvolta addirittura della sua eccellenza sulla letteratura genitrice e rivale. L’EPICA Publio Papinio STAZIO, figlio di un maestro di retorica, nacque a Napoli fra il 40 e il 50 d.C.; a Napoli morì negli ultimi anni del I sec. d.C. Verso il 92 vide la luce la Tebaide, poema epico in dodici libri, dedicato a Domiziano; ebbe poco successo; forse migliore sarebbe riuscito l'altro poema, 1'Achilleide, rimasto interrotto a metà del secondo libro. Nella Tebaide, che narra la guerra fra Eteocle e Polinice (il tema della guerra fratricida è ripresa di Lucano), l'imitazione di Virgilio è vuota e del tutto esteriore, basti pensare che la ripresa degli errores (cioè le peregrinazioni) di Enea diventano nei primi sei libri di Stazio un inutile riempitivo: viaggio e imprese degli eroi prima di arrivare sotto le mura di Tebe. Le divinità epiche tradizionali appaiono come svuotate ed appiattite: le forze divine più vitali sono invece personificazioni di idee astratte ed allegoriche. Predomina il Fato e la predestinazione. Assente è l'evoluzione psicologica del personaggio, sempre uguale a se stesso dall'inizio alla fine del poema: Eteocle è il tiranno, Tideo l'incarnazione dell'ira, Capaneo il be- 18 stemmiatore, Ippomedonte una sorta di macchina da guerra. La maggioranza dei critici ritiene lo Stazio migliore quello delle Silvae, un'opera in cinque libri che ci offre uno spaccato dell’epoca, rivelando mentalità ed atteggiamento di un ceto colto e benestante, impegnato in una fitta vita di relazione e spesso occupato nel sistema del governo della burocrazia imperiale. Emergono bene i valori che guidano questo sistema sociale: da un lato il ripiegamento sulla vita privata (passione per le arti, consumi di lusso, estetismo, affettività familiare), dall'altro l'ideologia del pubblico servizio inserito nelle strutture del potere imperiale. Il titolo silvae sta ad indicare il carattere occasionale, vario e miscellaneo di questo tipo di poesia, scritta per commissione. L'opera di Stazio fu il prototipo delle tante raccolte liriche per nozze, funerali e occasioni varie. VALERIO FLACCO Di lui sappiamo (Quint. Inst. X 1,90) che morì poco prima del 92 d.C. Nella sua opera, gli Argonautica, egli cerca di arricchire il poema di Apollonio Rodio, introducendo nuovi episodi, modellati sull’Eneide. Contro Lucano torna al puro poema mitologico; c'è molta amplificazione, qualche squarcio di poesia verso la fine. Fondamentale è l'influsso di Virgilio: Valerio restituisce a Giasone la sua elevatezza epica (Apollonio ne aveva fatto un eroe problematico e chiaroscurale); il Fato provvidenziale virgiliano controlla tutti gli eventi; ed ancora, da Virgilio è ripreso l'approfondimento psicologico dei personaggi , una sorta di par- tecipazione personale dell'autore alle vicende dei suoi eroi, la bipartizione del poema (prima parte viaggio, seconda guerra), di contro alla tripartizione di Apollonio Rodio: viaggio di andata, avvenimenti nella Colchide, viaggio di ritorno. Influsso da Ovidio è invece nella caratterizzazione di Medea ora vista come perfida maga che non prova raccapriccio di fronte a nulla, sulla falsariga della sesta epistola delle Heroides, ora come donna innamorata e ingenua, così come appare nell’epistola dodicesima, sempre delle Heroides; nel tratteggiare questo aspetto inoltre Valerio risente della descrizione omerica del personaggio di Nausicaa. SILIO ITALICO nacque nel 26 d.C. Fu legato, alla cerchia di Nerone che lo elesse console. Nel 101, a causa di un tumore, si lasciò morire di inedia. Scrisse i Punica in 17 libri, in cui trattava la seconda guerra punica dalla spedizione di Annibale in Spagna al trionfo di Scipione dopo Zama; ebbe come fonte soprattutto Tito Livio e, in secondo piano, Ennio. Nevio risultava troppo arcaico per essere direttamente imitabile. La narrazione procede secondo il metodo annalistico; accade così che Scipione può entrare in scena solo nel XIII libro (dove compie una discesa agli Inferi, sulla scia di Enea), lasciando praticamente protagonista di tutto il poema Annibale, eroe negativo. In ciò Silio si trova molto vicino al mondo della Tebaide con i suoi eroi neri. Le digressioni mitologiche sono di gusto ovidiano. Vi sono influssi anche da Lucano: come Lucano pone al centro del poema la battaglia di Farsalo, così 19 Silio tratta della battaglia di Canne. Vi è tuttavia una fondamentale differenza: dalla sconfitta di Canne si ha lo sprone per la riscossa che condurrà al successo finale. L’ENCICLOPEDISMO PLINIO IL VECCHIO nacque a Como nel 23 d.C. A Tito dedicò la Naturalis historia, in 37 libri. L'opera comincia con una descrizione del cosmo, cui fa seguito una sezione di geografia, di antropologia, di zoologia, di botanica, di mineralogia ed una di storia dell'arte, il tutto in un enorme sforzo di sistemazione del sapere. Plinio si mostra scettico sulle credenze strane ed ingenue, ma in realtà ne accoglie in gran numero, perché non sa resistere al suggerimento di un'opera letta. Il suo enciclopedismo è di natura frettolosamente praticistica; il linguaggio è lontano dalla temperie classica. Opere perdute: una storia delle guerre germaniche, un trattato di pronuncia e morfologia, una biografia del poeta tragico Pomponio Secondo. L’EPIGRAMMA: MARZIALE L'origine dell'epigramma risale all'età greca arcaica, ove aveva funzione funeraria e commemorativa (es. l'epigramma di Simonide per i caduti alle Termopili); in età ellenistica, pur conservando la brevità, ci appare svincolato dalla funzione pratica ed epigrafica; diventa un genere letterario atto ad esprimere nel giro di pochi versi la sensazione di un momento, di un attimo fuggente. I temi sono erotici, simposiali, satirici e parodistici.. A Roma l'epigramma fu valorizzato da Catullo, ma colui che lo portò a perfezione fu Marziale, rivendicando ancor più l'aderenza alla vita concreta, un forte realismo dunque, e facendo acquistare all'epigramma una fisionomia tutta particolare, con la tecnica del fulmen in clausula, con la stoccata finale, un effetto che bruscamente sorprende il lettore e scarica la tensione in un paradosso, in un'impennata illuminante. Marziale nacque a Bilbili, nella Spagna Tarragonese, intorno al 40. Verso il 64 si trasferì a Roma e qui esercitò la professione di cliens per trentacinque anni, in una povertà rasentante la miseria. Scrisse esclusivamente epigrammi. La sua prima raccolta, dell'80, è in occasione dell'inaugurazione dell'Anfiteatro flavio e l'imperatore gli concesse la dignità di tribunus militum e lo ius trium liberorum. Nell'84 altra raccolta per i Saturnali: gli Xenia e gli Apophoreta. Poi viene lo straordinario numero di epigrammi sulle turpitudini dei ceti elevati. Nel 102 pubblicò il dodicesimo ed ultimo libro; nel 104 morì nella nativa Bilbili. Per Marziale si oscilla fra la celebrazione più entusiastica e la più sdegnata severità. Non gli mancano l'abilità nella versificazione, l'acutezza e la battuta pungente. Egli aveva una natura poetica raccolta e riflessa, di quelle che oggi si chiamerebbero crepuscolari, con tratti di nostalgica poesia agreste o sinceri abbandoni alla raffigurazione della sua angustiata miseria. I Flavi avrebbero voluto di più, ma egli aveva coscienza dei propri limiti e sentiva il fastidio per un poema di vaste proporzioni. La sua opera pertanto non riscosse l'entusiastico favore imperiale, ed egli visse quasi nell'indigenza (Plinio il Giovane gli pagò il viaggio per tornare a Bilbili!). Grandissimo fu invece il fa- 20 vore del pubblico e l'influenza nel campo delle lettere (Ausonio, Claudiano, Sidonio Apollinare). Il programma educativo di Quintiliano M. Fabio Quintiliano nacque anche lui nella Spagna Tarragonese, intorno al 35 d.C. Fu a scuola dal grammatico Remmio Palemone e dal retore Domizio Afro rappresentanti del dominante asianesimo. Ma Quintiliano fu avverso all'asianesimo ed ammirò Cicerone. Vespasiano lo stipendiò con centomila sesterzi annui per una cattedra di retorica, la prima pubblica in Roma. Pubblicò un trattato De causis corruptae eloquentiae, perduto. Vi condannava lo stile di Seneca e intracciava le cause della corruzione dell'eloquenza nel decadimento dei costumi e nell'immoralità degli insegnanti. Altri testi di riferimento sulla questione della decadenza dell’oratoria in età imperiale sono i primi capitoli del Satyricon con la critica di Encolpio al retore Agamennone e il Dialogus de oratoribus di Tacito (vd. pag. 22 ). Tra il 93 e il 96 compose i dolici libri dell'Institutio oratoria, in cui segue l'oratore dalla puerizia fino all'affermazione. I1 primo libro costituisce il più completo trattato di pedagogia dell'antichità, particolarmente interessante per i filologi per le notizie sull'apprendimento della pronuncia e della grammatica. Dal terzo libro Quintiliano segue la canonica disposizione di tutti i trattati retorici (inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio) e idoleggia Cicerone. Per Quintiliano, secondo le teorie di Ermagora il Vecchio, rielaborate da Cicerone, l'arte del dire è il centro di tutte le altre attività culturali: l'oratore deve essere un vir bonus dicendi peritus, con purezza morale. I1 decimo libro contiene i famosi giudizi su autori greci e latini da proporre come lettura all'aspirante retore: vi si riscontra un continuo confronto tra Greci e Romani ed il continuo tentativo di dimostrare l’uguaglianza, se non addirittura la superiorità di quest’ultimi (da ricordare: il giudizio su Seneca, quello su Cicerone, la presentazione della satira e dell’elegia latine). E' singolare che Quintiliano, scrivendo di getto, si esprima secondo i modi spigliati, sbrigativi ed ellittici dell'asianesimo, quindi il suo attaccamento a Cicerone era un vuoto ideale, irrealizzabile. Un problema particolare pone il dodicesimo libro: si accenna alla questione del rapporto tra 1'oratore e il principe. Quintiliano accetta il principato come una necessità; vuole però che sia basato sulla moralità; soltanto così l'oratore può recuperare lo spazio per una missione civile altrettanto aliena dalla sterile opposizione, quanto dal servilismo avvilente. Da Traiano a Marc'Aurelio GIOVENALE Decimo Giunio Giovenale nacque ad Aquino fra il 50 e il 60 d.C. Ebbe educazione da retore, visse in modeste condizioni, con una casetta a Roma ed un poderetto a Tivoli. Giovenale lancia l'estremo grido 21 dell'anima italica e provinciale, legata alla vecchia sobrietà ed onestà; la sua protesta nasce dalla inadattabilità ai tempi in cui la gravitas romana viene sommersa dai preponderanti influssi stranieri. Si è supposto che sia morto fra il 135 e il 140. Si è parlato molto di morte in esilio per essere dispiaciuto a un favorito (Antinoo?) dell'imperatore. Le sedici satire furono divise in cinque libri; la sesta, lunghissima, è contro le donne. Giovenale nei momenti più felici della sua musa reagisce al retoricume e richiama all'onestà del passato con il suo spirito sano e ardente, sottile e profondo. Sin dalla satira prima egli afferma che se la prende con i morti, perché sarebbe pericoloso attaccare i vivi: e ciò è una sferzata ai contemporanei. Giovenale non ha riguardi per nulla e per nessuno: il suo intransigente culto dell'onestà gli fa dare del libertino a Clodio, dell'assassino a Milone e gli fa giudicare ladro l'aristocratico Verre. Nel suo atteggiamento c'è forse il rancore del poeta povero e retto contro gli aristocratici, come ad esempio nella quarta satira, dove Giovenale critica i senatori che hanno permesso lo strapotere di un tiranno (l'imperatore convoca il Senato semplicemente per chiedere parere su come cucinare un grosso rombo!). Nella prima satira Giovenale parla di indignatio che gli detta i versi, ma l'indignazione non è stata mai buona matrice di poesia, la quale esige serenità e distacco. Il moralismo fa sì che in molti luoghi Giovenale non sia poeta, ma predicatore accalorato e reboante, che esprime il suo sdegno ri- correndo alle arti della retorica; si viene così a trovare quasi agli antipodi della castigatezza e urbanità oraziana. Emerge comunque dalla sua opera un sincero desiderio di una restaurazione morale della società e della rifondazione di una accettabile condizione umana e civile; in tal senso alla corrotta Roma viene contrapposta, idealizzandola, la vita provinciale, come esempio di conservatorismo religioso di schiette tradizioni avite (sat. 3,169-179). Più felice è forse la vena del poeta nell’esprimere certi quadretti di intima vita familiare, dove assurge a delicato lirismo, soprattutto nella sua seconda produzione (a partire dall’ottava satira) dove l’indignatio si stempera e si ha un ritorno propositivo ai temi della tradizione satirica. PLINIO IL GIOVANE P. Cecilio Secondo nacque a Como nel 61 o nel 62 d.C. Fu alla scuola di Quintiliano e di Niceta Smirneo e fu amico di Tacito. Assunse il nome di Gaio Plinio Cecilio Secondo poiché nel 79 divenne figlio adottivo dello zio, per testamento. La ricchezza, la soddisfatta fatuità del letterato, la facilità di vita condotta non posero mai Plinio in condizione di sperimentare la sua tempra morale. Nel 100, incaricato di pronunciare la gratiarum actio all'imperatore, per l’elezione a console, scrisse il Panegirico a Traiano, unica orazione pervenutaci: ci rivela lo stile oratorio di Plinio, l'atteggiamento politico perseguito da Traiano e imposto al Senato, per mezzo di temperamenti ingenui e vanitosi come Plinio. Lo stile è garba- 22 to, con cadenza del sermo familiaris; in complesso non si solleva mai al di sopra di un piacevole chiacchiericcio di un uomo azzimato e compìto. Rifugge dalla magniloquenza ciceroniana, ma non si abbandona neppure alle patetiche contorsioni dell'asianesimo. Nel celebrare punto per punto tutte le azioni di Traiano, mediante un confronto con l'opera dei predecessori, Plinio non si accorgeva di offrire all'imperatore un saggio di culto esclusivo alla sua personalità. Vale forse la pena ricordare che il termine panegyricus fino all’epoca di Plinio servì ad individuare i discorsi che erano stati pronunciati in Grecia alle feste Panatenee o ai Giochi Olimpici. Lo scritto di Isocrate del 365 a.C. l’Evagora, glorificazione del padre di Nicocle, contribuì ad estendere tale denominazione a discorsi di carattere elogiativo. Su esempio di Plinio, prese l’avvio una raccolta di altri undici discorsi pronunciati davanti a Imperatori nei secoli III e IV da parte di oratori della Gallia. La raccolta, più volte rimaneggiata, dal titolo Panegyrici latini veteres, fu completata facendo precedere quasi a titolo di produzione esemplare il testo del Panegirico di Traiano, benché quasi due secoli intercorressero fra la data dell’orazione pliniana e quella del più antico fra i successivi discorsi (Panegirico di Massimiano del 289). La medesima alternanza di fatuità ingenua e di simpatica cordialità caratterizza l'opera maggiore di Plinio: nove libri di lettere. Dopo la sua morte fu aggiunto un decimo libro contenente le lettere scambiate tra Traiano e Plinio durante il governo della Bitinia (111-113). La provincia della Bitinia e del Ponto era stata creata da Pompeo nel 74 a.C., a seguito delle fortunate azioni contro Mitridate; era stata propretoria dal 74 al 27; senatoria successivamente e imperiale a partire dal 111, l’anno appunto del mandato conferito a Plinio. Le lettere ci rivelano tutto il carattere di Plinio: signore bonario e accomodante, che ama trasformare tutta la sua vita in accademia letteraria. Nell'epistolario con Traiano si ritrova il solito Plinio garbato ed indeciso e la risolutezza invece di Traiano. Ricorda le testimonianze sulla persecuzione dei Cristiani. Il decimo libro del carteggio probabilmente prima della pubblicazione fu censurato in quelle parti che potevano rivelare segreti di Stato, forse in merito ad una progettata spedizione contro i Parti. LA STORIOGRAFIA Di Cornelio TACITO s’ignora-no il prenome, la patria, le date di nascita e di morte. Secondo alcune fonti nacque a Terni, ma più probabilmente egli vide la luce nella Gallia Narbonese, da una famiglia equestre intorno al 55 d.C. Il suo primo campo di attività fu l'oratoria: al suo noviziato retorico si vuole attribuire il Dialogus de oratoribus, dedicato a Fabio Giusto. Il dialogo si immagina al tempo di Vespasiano fra Curiazio Materno, M. Apro, Giulio Secondo e Vipstano Messalla. Si discute sulle cause del declino dell’oratoria. La tesi sostenuta da Materno, che rispecchia il pensiero di Taci- 23 to, è di grande acutezza. Mentre infatti i suoi interlocutori si lasciano andare a luoghi comuni sull’inadeguatezza della scuola, sull’impreparazione dei retori, sulla dilagante immoralità, Materno propone una spiegazione socio-politica: più che per cattivi metodi educativi, l'oratoria si è corrotta per il nuovo regime politico che favorisce sì la quiete, ma toglie la libertà di cui ha bisogno la grande oratoria per fiorire. Il Decembrio attribuì il dialogo a Tacito, quando nel 1455 fu ritrovato; scettico in proposito il Paratore. Divenuto un brillante avvocato, Tacito pensò di percorrere il cursus honorum, sotto la protezione del generale Cn. Giulio Agricola, di cui sposò la figlia. Nel 93 mori Agricola, sulla fine del dominio di Domiziano, si suppose per veleno. Cinque anni dopo pubblicò il De vita Iulii Agricolae, una commemorazione del suocero e forse un primo bilancio sul luttuoso ultimo periodo del regno di Domiziano; l'operetta è in parte orazione funebre, in parte narrazione storico-biografica. Sotto l'aspetto politico, l'opuscolo è la migliore espressione del respiro di sollievo che l'oligarchia senatoria emise alla caduta di Domiziano. L’intera monografia è un inno di lode ad Agricola, non solo per le sue virtutes, ma soprattutto per la moderatio di cui seppe dar prova in tempi tanto difficili. Sembra proprio che il messaggio di Tacito possa essere riassunto in queste poche parole: piuttosto che imitare il modello dello stoico che si oppone a tutti i costi al regime autoritario, è meglio conformarsi ad un ideale di condotta più realistico. I Cesari avevano bisogno di servitori leali e capaci, sia in patria che all’estero. I provinciali erano accorti e solerti. Non si lasciavano influenzare né da rancori, né da idealismi. L’epoca dei grandi uomini e delle splendide virtù era ormai tramontata (Syme). Da un punto di vista stilistico nell’Agricola si avverte che l'oratoria ha la stessa veemenza di tutti i retori asianeggianti, ma è più curata nel lessico, annunciando il risorgente atticismo. Allo stesso 98 risale il De origine et situ Germanorum, che per alcuni doveva essere un invito ai Romani a modellarsi su quei popoli guerrieri, per altri doveva richiamare l'attenzione sul pericolo rappresentato da queste popolazioni così valide, frugali, bellicose. Lo stile è asiano, con succosa ed allettante brevità sentenziosa. Le Historiae, di cui abbiamo quattro libri e i primi 26 capitoli del libro quinto, narravano le vicende dall'uccisione di Nerone (68) a quella di Domiziano (96). Ci restano gli avvenimenti dal 68 al 70, dall'assunzione al trono di Galba fino a Vespasiano che restaura l’autorità dell'impero. L'opera è una ricerca del modo in cui l'impero, dall'anarchia sia pervenuto alla definitiva tranquillità e dignità del regime di Nerva e Traiano. Tacito non pone in discussione la legittimità del potere imperiale, anzi fa dire a Galba che si impone il governo di uno solo, purché questo princeps sappia regnare con senno e giustizia. Tacito si attiene scrupolosamente alla forma annalistica della narrazione, con elenco di prodigi, con interpreta- 24 zioni della volontà divina, secondo la mentalità tradizionale romana. Modello prediletto è Sallustio, fonti: Aufidio Basso, Plinio il Vecchio, Servilio Noniano, Cluvio Rufo, Fabio Rustico, Curbolone, le memorie di Agrippina Minore, gli Acta Senatus, gli Acta diurna. Il tutto è fuso in un severo moralismo, portando al culmine l'eredità della storiografia ellenistica attraverso Sallustio. Lo stile è un contemperamento di atticismo nelle coloriture lessicali e asianesimo nella brevità sentenziosa e nel congegno capriccioso della frase, nel gusto per l'ellissi e la variatio, forse eredità tucididea. Gli Annales narrano gli avvenimenti che vanno dalla morte di Augusto fino a quella di Nerone. Ci sono rimaste solo la narrazione del regno di Tiberio, gli ultimi anni del regno di Claudio e il regno di Nerone fino a due anni prima del crollo. Il fascino artistico degli Annales è in una serie infinita di guizzi e bagliori subitanei, che gettano una livida luce su abissi di perversione o su quadri paurosi, lasciando una lunga vibrazione nell'animo agghiacciato del lettore. Nello stato romano si avvertono solo ombre, sospetti, degradanti abiezioni e Tacito lamenta che se Livio ebbe il compito di celebrare la gloriosa ascesa di Roma, lui è condannato a registrarne il doloroso tramonto. Tutta la macchina statale appare a Tacito tarlata e sconnessa per le colpe del potere centrale, fatto di delazioni, di congiure di palazzo, di intrighi criminosi. Tacito intuì che anche Traiano, come Caligola, Nerone, Domiziano, aveva instaurato in modo definitivo il prin- cipato autoritario e dopo di lui potevano rinnovarsi gli orrori del passato. Gli Annales ci presentano la triste conclusione della parabola della spiritualità romana: dopo essersi aperta nel circolo degli Scipioni alla filosofia greca, dopo aver toccato l'apice con l'arte di Virgilio e la celebrazione della stirpe con Livio, Roma si perdeva in una scia di lutti e di sangue. Tacito è forse lo storico che meglio si possa accostare a Tucidide, per la complessità dei suoi interessi: non gli è estranea la curiosità per problemi di economia e finanza; la politica religiosa degli imperatori richiama la sua attenzione; il problema delle milizie è vicino ai suoi pensieri; il famoso contrasto fra lodatori e detrattori del principato di Augusto all’inizio degli Annales (I, 9-10) è la prima acuta diagnosi della precarietà del compromesso augusteo; i capitoli quinto e sesto del libro IV degli Annales contengono un modello di analisi delle capacità amministrative dell’impero romano. Sono tutti quesiti, problemi, interessi di cui non avvertiamo quasi il sentore in Sallustio e neppure in Livio (Paratore). SVETONIO Di C. Svetonio Tranquillo s'ignora la patria; si suppone nato fra il 70 e il 75 e morto fra il 140 e il 150. Fu studioso di retorica, avvocato, ma soprattutto un erudito. Plinio gli fece concedere da Traiano lo ius trium liberorum, quando era con lui in Bitinia; forse aveva già composto il De viris inlustribus. Quest'opera, la prima raccolta di biografie dopo il De poetis di Varrone, dedicate esclusiva- 25 mente a uomini di lettere latini, si presenta articolata in sezioni: de poetis, de oratoribus, de historicis, de philosophis, de grammaticis et rhetoribus. Il carattere succinto delle biografie dei grammatici e dei retori ha incoraggiato l'ipotesi che questa sezione sia stata composta più tardi, come stanca aggiunta. Della sezione De poetis ci sono rimaste le biografie di Orazio, Lucano, Terenzio, Virgilio; del De historicis va ricordata la biografia di Plinio il Vecchio. Gli ispiratori di Svetonio furono Santra, Varrone, Cornelio Nepote. È tipica di Svetonio la frequenza di particolari ghiotti e scandalosi sulla vita privata dei personaggi esaminati. Opera della maturità fu il De vita Caesarum, suo capolavoro. Comprende le vite degli imperatori da Cesare a Domiziano. L'opera è comunemente nota con il titolo Le vite dei dodici Cesari. Rispetto a Tacito Svetonio manifesta una più avida e fedele propensione alla letteratura libellistica, fiorita nel I sec. dell'Impero, sì che la critica, soprattutto dell’Ottocento, lo ha posto in una luce negativa, per una presunta scarsa affidabilità e profondità di pensiero. Svetonio ha applicato ai sovrani dell’impero romano la forma biografica e il metodo che erano stati elaborati in funzione di poeti e filosofi (e tenuti quindi giudiziosamente lontani da re, condottieri e uomini di Stato); ma più che di una ripresa della biografia alessandrina sembra giusto parlare di una tecnica biografica svetoniana (Gugel), ove è una sorta di contaminatio tra l’indirizzo peripatetico e quello alessandrino. Tutte le vite, in- fatti, cominciano con una esposizione cronologica delle notizie relative alla famiglia del princeps, all’anno e al luogo di nascita, fino all’avvento al potere; a questo punto si passa ad una esposizione analitico-descrittiva per species (cioè per rubriche). Nei primi anni Cinquanta si è assistito ad un risveglio degli studi su Svetonio che si è andato sempre più configurando come un processo di riabilitazione della sua opera, che fra l’altro permette di analizzare la storia latina da un punto di vista che conosciamo meno: quella della classe equestre. Tutte le Vite sono piene di riferimenti ai cavalieri; ed è stato notato che i giudizi sono spesso in funzione dell’atteggiamento che i Cesari assunsero nei confronti del ceto equestre (Della Corte). IL ROMANZO Apuleio nacque a Madaura, in Africa, intorno al 125 d.C. Tipico sofista che nel mondo latino rispecchia la cultura greca, mistica ed orientaleggiante, studiò grammatica e retorica a Cartagine, Atene, Roma. Unico fatto accertato della sua vita fu il processo di magia contro di lui, del quale è rimasto documento nella sua Apologia: Apuleio fu accusato di magia, consistente nell'aver fatto perdere il senno a Pudentilla ed averla piegata al matrimonio per avidità di denaro, e nell'aver fatto morire Ponziano, suo compagno di studi e figlio di Pudentilla. I1 processo si celebrò a Sàbratha in uno degli ultimi anni del regno di Antonino Pio. L'Apologia è l'opera che rivela un maggiore influsso dello stile cicero- 26 niano, in una civettuola scioltezza di eloquio, in un'alternanza saltellante e frizzante di toni, con del preziosismo asiano. Tale ricercatezza si fa ancora più leziosa nei Florida, antologia messa insieme successivamente dai quattro libri di declamazioni pronunciate da Apuleio a Cartagine. Sono estratti, cioè loci praecipue notabiles, grondanti di esteriore esibizionismo retorico, su futilissimi argomenti. Le Metamorfosi sono l'unico romanzo latino che possediamo integralmente: undici libri, dei quali l'ultimo è per intero frutto sicuro dell'inventiva apuleiana; gli altri dieci derivano dai primi due libri dei Lògoi diàphoroi di Lucio di Patre. Senza meno di Apuleio è comunque il prestigioso impasto stilistico, con arcaismi, volgarismi, ricercati giri di frase della più pura retorica, forzature sintattiche e semantiche, neologismi. Al libro undicesimo, col racconto della rigenerazione del protagonista, la superficiale festevolezza narrativa si tramuta in commossa enfasi edificatoria e l'atmosfera si purifica, fornendo una chiave di lettura mistica per l’in-tero romanzo. Significato mistico rivestono pure la favola di Amore e Psiche, la storia di Carite nell’ottavo libro e la storia del medico saggio nel libro decimo; in tutti questi racconti sono ravvisabili analogie con il mito di Iside e Osiride e con le tappe di iniziazione del mista (ricorda gli studi del Merkelbach). Fozio, patriarca di Costantinopoli del sec. IX nella sua Biblioteca ci dà noti- zia dell'opera di Lucio di Patre (trasformazione d'un giovane in asino e suo ritorno all'aspetto umano grazie ad un cespo di rose). L’Asino attribuito a Luciano potrebbe essere un riassunto dei primi due libri del Patrense; oggi si è persuasi che sia lo Pseudoluciano, sia Apuleio abbiano attinto a Lucio di Patre. La tecnica autobiografica, cioè la narrazione in prima persona, deriva dal romanzo greco e dai Discorsi Sacri di Elio Aristide. Di Apuleio sono ancora da ricordare i tre trattati: De mundo, De Platone et eius dogmate, De deo Socratis. Quest'ultimo, il più importante dei tre, rappresenta la trattazione (esposta in una conferenza, probabilmente risalente al soggiorno romano) più sistematica a noi pervenuta dall’antichità sulla dottrina dei demoni, gli intermediari tra gli dèi e gli uomini. È in Apuleio una fusione tra elementi ripresi da Platone e dalla dottrina aristotelica.