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FISICA/
MENTE
LA LUNGA E FATICOSA MARCIA
DELLA SCIENZA
PARTE III: LA SCIENZA NEL RINASCIMENTO
Roberto Renzetti
PREMESSA
Il Rinascimento vide il consolidarsi delle attività artigianali e commerciali che dall'Alto
Medioevo si erano andate affermando ed avevano arricchito un nuovo ceto, la borghesia,
che piano piano si proponeva come imprenditoriale e portatore di nuove istanze culturali. Il
latifondo feudale venne sempre più attaccato. Si sentiva il bisogno di rompere con i vincoli
statici del vecchio potere feudale, dell'intreccio di potere tra nobiltà e clero. La borghesia
pretendeva spazi autonomi di espansione, spazi che riguardavano anche la richiesta e la
ricerca di più ampie visioni culturali. Fu questa borghesia che si mostrò più interessata alla
riscoperta dei classici, al qualcosa di nuovo di cui si sentiva fortemente il bisogno.
Il forte impulso che ebbe la tecnica, il passaggio da produzioni con fortissimi connotati
empirici alla voglia, da più parti avvertita, di tecniche e macchine sempre più affidabili e
quindi alla richiesta di progettazioni più accurate, poneva la pressante richiesta di una
scienza che si affermasse come supporto culturale alla produzione. La richiesta investiva
anche ambiti culturali diversi. La vecchia cultura scolastica risultava chiusa ed opprimente
per un ceto che aveva bisogno di espandersi. Le Università non rispondevano più, non si
mostravano al passo con quanto nasceva e veniva proposto dal mondo civile. Gli
insegnamenti dei docenti aristotelici erano fatti con un linguaggio metafisico che usava
termini come sostanza ed accidente, materia e forma, essenza ed esistenza e vi erano
manuali appositi che ponevano i problemi rimandando, per le soluzioni, alle opere di
Aristotele indicandone la precisa referenza in cui cercare. La fisica era studiata per
disputatio che prevedevano, ad esempio, interminabili sessioni per stabilire se il cioccolato
era un liquido o un solido o cosa sarebbe cambiato nell'uomo se invece di avere cinque dita
ne avesse avute sei. Uno studente che si iscriveva, qualunque fosse l'indirizzo di studi,
doveva invariabilmente cominciare con logica, fisica e metafisica aristoteliche; proseguiva
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poi con la Meteorologia, con la Generatio et Corruptio e la Historia Animalium sempre di
Aristotele; solo a questo punto, se aveva scelto medicina, poteva iniziare con Galeno ed
Ippocrate.
Fino ad allora uno "scienziato" veniva creato da un corso universitario lavorando su
dispute infinite relative a questioni che quasi nulla avevano a che fare con quel mondo
produttivo che invece andava crescendo. A partire dalla metà del '500 alle Università si
affiancò la formazione che veniva data proprio dalle botteghe artigiane. È l'epoca degli
ingegneri, degli architetti, degli idraulici, dei maestri d'opera la cui preparazione nasceva
dalla soluzione di problemi pratici molto distanti dai sillogismi e, comunque, da ogni
preparazione di tipo universitario. Questi "artisti", per la prima volta accompagnarono la
realizzazione delle loro opere con scritti, con elaborazioni teoriche che sarebbero diventate
la base su cui altri avrebbero continuato, iniziando quel processo virtuoso di trasmissione di
conoscenze che andava perfezionandosi. Ed è utile notare che questa esplosione di
produzione, questa richiesta di nuovi saperi sempre più ancorati alla pratica, nasceva dalla
crescente disponibilità di denaro che proveniva essenzialmente dalla Spagna che doveva
armare i suoi eserciti con l'oro e l'argento proveniente dalle Americhe. Di queste ricchezze
ne beneficiarono essenzialmente l'Italia e l'Olanda.
IRROMPE LA MATEMATICA
Ancora nel XV secolo insigni educatori come Erasmo (1466 - 1536) e J. L. Vives
(1492 - 1540) ritenevano non utile la matematica per la formazione delle persone poiché
tendeva a distrarle dai fini pratici della vita. Gli stessi umanisti, che pure iniziarono a
soffermarsi con interesse a guardare il mondo naturale circostante, si preoccuparono
soprattutto della formazione morale dell'uomo aborrendo le dispute logiche che avevano
luogo nelle prime università insieme agli insegnamenti della Scolastica. La sua riscoperta
ebbe un duplice effetto spesso contraddittorio. Da una parte si intuirono le enormi
possibilità ad essa collegate per lo studio della natura ma dall'altra si individuò la via più
facile della numerologia e della mistica dei numeri. Ma questo duplice aspetto riguardava
ogni tema che entrava all'attenzione degli studiosi in quell'epoca. Già si era manifestata una
tale tendenza nella tradizione della Scuola Pitagorica. Ora di nuovo tornava l'armonia delle
figure e delle proporzioni che con i numeri a lato avrebbero permesso di scoprire una
qualche cabala nascosta, ad esempio nella Bibbia, una qualche formula magica che avesse
permesso all'uomo di salvarsi o di scoprire una qualche verità trascendente. Le armonie
divine dovevano avere una qualche relazione con cerchi, triangoli, quadrati ed altre figure
geometriche tra cui, naturalmente, i solidi regolari. La stessa creazione doveva avere una
matrice di matematica "spirituale" che era studiata a tal fine dai pitagorici del
Rinascimento. Naturalmente su questo non vi era unità di pensiero. Coloro che ebbero
approcci medici o chimici alla natura oscillavano tra la necessità delle chiavi matematiche
di spiegazione delle osservazioni e la negazione di ogni influsso della matematica dei
fenomeni. Un primo momento chiarificatore che servì a distinguere la matematica dalla
numerologia si ebbe nella polemica tra Kepler e Rheticus. Secondo quest'ultimo
l'astronomia copernicana non funzionava in quanto proponeva un mondo di 6 e non 7
pianeti (si ricordi che la Luna era considerata satellite e che il 7 era il numero perfetto dei
pitagorici). Kepler, invece, distinse chiaramente le due cose rifiutando fermamente la
numerologia (richiamandosi però ad una mistica che voleva la creazione del mondo come
opera di Dio ed in quanto tale precedere la numerologia che era opera dell'uomo). Ciò che
era in discussione era il primato di un principio esplicativo che molti individuavano
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nell'alchimia ed altri nella medicina(1). La matematica riuscì piano piano a farsi strada per
la forte tradizione Platonica presente e per la sua immediata rapportabilità a temi mistici e
religiosi. Resta comunque l'osservazione che per il suo stesso carattere e per la sua
rappresentazione simbolica, la matematica restava limitata ad un ristretto numero di adepti
che solo nel XVII secolo crebbe relativamente. Ma la matematica dei "classici", alla quale
occorre aggiungere opere originali, delle quali parleremo, che pian piano venivano
elaborate: quelle di algebra di Tartaglia (1500-1557), di Cardano (1501-1576) e Viete
(1540-1603) e l'invenzione dei logaritmi di Napier (1550-1617), da sola avrebbe potuto fare
poco se non accompagnata da una miriade di testi di argomento vario che gradualmente
erano riscoperti, tradotti e portati all'attenzione dei colti. Ma non tutti erano i canonici testi
che oggi chiameremmo di argomento scientifico o quantomeno osservativo. Anzi, opere
magiche, alchimistiche, astrologiche attrassero molto l'attenzione degli studiosi del tempo
che spesso intrecciano loro conoscenze erudite in matematica con studi approfonditi nei
vari rami suddetti.
E' di interesse osservare ancora che la matematica ebbe un merito fondamentale,
quello di iniziare ad unificare un linguaggio che sempre più era per iniziati nelle varie
tradizioni. Dai concetti astratti, dalle similitudini, dalle analogie, dai sillogismi, dalle
proprietà di colori, suoni ed odori, dalle cause ed accidenti si passava sempre più ad un
qualcosa che aveva un linguaggio univoco al quale non si poteva sfuggire con sofismi di
varia natura. Furono essenzialmente i meccanicisti ad usare la matematica ed i suoi metodi
ma, soprattutto, il suo linguaggio. E fu proprio la potenza predittiva di questo "linguaggio",
della sua univocità che permise, alla fine del Seicento l'affermarsi della tradizione
meccanicista. Ma ciò non tragga in inganno: la scena era in gran parte occupata da altre
vicende, da teologia, da magia, alchimia ed astrologia (le controversie su tali problematiche
erano, all'epoca, forse più importanti di quella tra geocentrismo ed eliocentrismo). La
scienza che noi oggi vogliamo vedere laica e scevra da inquinamenti irrazionali nasceva
immersa in questa cultura (quanto si ritiene oggi scientifico nasceva mescolato al mistico
addirittura nello stesso autore).
Tutti gli autori concordano nel ritenere che, a partire da un certo momento storico (tra il
Quattrocento ed il Cinquecento), i portati della tecnica nei campi della meccanica e
dell'architettura civile e militare fecero riconoscere nella matematica uno strumento
indispensabile. Particolarmente in Italia, dove meccanica, architettura ed arte avevano uno
sviluppo clamoroso, si ponevano i problemi di misurazioni sempre più accurate di
lunghezze, angoli, aree. Occorreva calcolare i volumi, fare degli studi prospettici, di
simmetria. Si passò così dalle cose realizzate per mera intuizione alle cose progettate
razionalmente con l'uso di proporzioni, simmetrie ed armonie. Fu nel Quattrocento, in
Italia, che si iniziò la pubblicazione di svariate opere che facevano largo uso della
matematica: opere di Brunelleschi, di Leon Battista Alberti, di Piero della Francesca (che ci
fornì la "divina proporzione", la sezione aurea), di Francesco di Giorgio Martini, di Luca
Pacioli, di Biringuccio, di Agricola. Come si vede si tratta in massima parte di architetti ed
artisti di varia natura che per la prima volta ci offrono opere che nascono ampiamente
studiate e progettate con l'ausilio della matematica. È chiaro che la ricerca era delle migliori
proporzioni, dell'armonia; è quindi evidente che sullo sfondo campeggia l'immagine del
platonismo, sia nella sua veste pitagorica che in quella eudossiana. Elemento di grande
importanza è che svariati autori iniziano a pubblicare trattati di matematica scritti in modo
divulgativo, molto chiaro, accessibile a molti. La matematica inizia anche ad entrare come
insegnamento impartito nelle Università, anche se non allo stesso rango di logica e
dialettica (si pensi che come "matematico" Galileo guadagnava dalle cinque alle dieci volte
meno dei suoi colleghi filosofi che insegnavano nella stessa Università). Gli studenti
cominciano a diventare curiosi ed esigenti. Prima ci si accontentava dell'esposizione degli
"Elementi" di Euclide, ora si volevano conoscere tutte le applicazioni pratiche della
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matematica, si volevano apprendere cose che poi, appena terminati gli studi, sarebbero state
di immediata utilità. La domanda era così grande che addirittura sorse la professione di
matematico pratico (il primo manuale di matematica pratica è l'Aritmetica di Treviso del
1478 - alla quale seguiranno gli Elementi di Euclide in latino nel 1482 - in cui compare la
prima chiara spiegazione della moltiplicazione e della divisione!). E nel frattempo venivano
pubblicate, in traduzione latina, opere di classici greci fino ad allora sconosciute. La prima
edizione latina a stampa di Euclide vide la luce a Venezia nel 1482. Nella prima metà del
Cinquecento vennero pubblicate traduzioni latine di Archimede, Apollonio e Diofanto e da
F. Commandino (intorno al 1560) traduzioni di Euclide, Apollonio, Pappo, Erone,
Archimede ed Aristarco. Pian piano i seguaci di Archimede crebbero. Ed ecco Niccolò
Tartaglia, Guidobaldo dal Monte, Giambattista Benedetti, Giambattista Della Porta,
Gerolamo Cardano.
Niccolò Tartaglia
Geronimo Cardano
Sono tutti grandi matematici che porteranno l'algebra, la geometria e l'aritmetica a
risultati del tutto insospettabili solo qualche decennio prima ed anche nel periodo più
fulgido dei matematici greci. Si realizzò anche una svolta decisiva che vide l'algebra
assumere il primato sulla geometria, a seguito proprio dei suoi più recenti successi
(Tartaglia ci terrà a sottolineare che le sue elaborazioni non sono tratte né da Platone né da
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Plotino). Ed ecco ancora Bombelli, insieme all'intera scuola dei matematici bolognesi, che
riesce ad affrancare la matematica dal suo uso pratico ed a farla marciare per sue linee di
sviluppo totalmente indifferenti ad ogni applicazione pratica.
Ma di tutto questo ci occuperemo nella terza parte di questo lavoro che partirà proprio
dai contributi degli artisti e dei matematici per arrivare a tutte le premesse che saranno
costruite per l'elaborazione dei lavori di Galileo.
GLI ARTISTI E GLI ARCHITETTI
Vediamo qualcosa di questi artisti ed architetti, per capire meglio.
La cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze di Brunelleschi
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La cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze di Brunelleschi. "Vedendo qui
struttura sì grande, erta sopra e' cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e'
popoli toscani, fatta sanza alcuno aiuto di travamenti o di copia di legname, quale
artificio certo, se io ben iudico, come a questi tempi era incredibile potersi, così
forse appresso gli antichi fu non saputo né conosciuto? [Leon Battista Alberti,
De pictura]
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La facciata di Santa Maria Novella di Leon Battista Alberti
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La Madonna dell'uovo di Piero della Francesca
La Flagellazione di Piero della Francesca
Città ideale, attribuito a Piero della Francesca e alla sua scuola ma anche a Luciano Laurana
e Bartolomeo di Giovanni Corradini
Natività di Cristo di Francesco di Giorgio Martini
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Città ideale di Francesco di Giorgio Martini
Città ottagonale a 16 vie radiali ed anulari a
spirale. Da un disegno di Francesco di Giorgio
Martini.
Queste sono alcune delle cose di eccellenza fatte dagli artisti ed architetti del
Rinascimento italiano precedentemente citati. Non è mio compito commentare queste
meraviglie e non serve dire altro per ciò che è di nostro interesse. Vedere in queste opere,
oltre all'infinita fantasia e creatività, una costruzione matematica che si occupa di geometria
e prospettiva è fin troppo facile.
I MATEMATICI
In ordine cronologico il primo nome che incontriamo è quello di Piero della Francesca (c.
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1412 - 1492), uno dei massimi artisti del Quattrocento che fece della ricerca delle
proporzioni guidate dalla matematica, che egli ritiene una scienza superiore e sicura, una
delle caratteristiche delle sue opere. Sul finire della sua vita scrisse l'importante De
Perspectiva Pingendi, il Libellus de quinque corporibus regularibus ed il De Abaco. Per
Piero della Francesca non basta più l'occhio per costruire la prospettiva ma occorre servirsi
della geometria. Infatti egli definisce la prospettiva una vera scientia e dedicò ad essa molto
lavoro anche teorico, nei 3 volumi del De Perspectiva (che non fu mai pubblicata ma data
in omaggio ai duchi di Montefeltro) che è un'opera in cui vi è un intreccio di geometria, con
una
Una pagina del manoscritto De perspectiva Pingendi
precisa impronta euclidea, e disegno anche tecnico ammirevole. Il primo volume si occupa
di geometria piana con molti disegni che lo illustrano, il secondo volume studia la
rappresentazione prospettica dei solidi mentre il terzo prosegue con lo studio della
prospettiva per corpi comunque complessi. Tralasciando il De abaco che è un semplice
manuale di calcolo, è interessante dire qualcosa sul Libellus (pervenutoci in unica copia
manoscritta in un codice rinvenuto nella Biblioteca Vaticana). Lo stesso titolo dice che
l'autore si occupa qui dello studio e del disegno dei 5 solidi regolari (mai prima disegnati in
forma stereometrica), che Platone aveva descritto nel Timeo e dei quali egli cerca relazioni,
e dei solidi semiregolari. Ebbene, quest'opera fu nota fin dai primi anni del Cinquecento
come opera di Luca Pacioli (1445 - dopo 1509) e non di Piero della Francesca.
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Ritratto di Luca Pacioli attribuito a Jacopo de’ Barbari (secolo XVI)
Giorgio Vasari ne Le vite (1550) racconta che Pacioli, che era in rapporti con Piero della
Francesca, nel 1509, pubblicò il suo famoso De divina proportione in
Il ritratto di Luca Pacioli (al centro) che compare
sulla sinistra della Madonna nella Madonna
dell'uovo.
lingua volgare, e che il Libellus entrò all'interno di questo lavoro come uno dei primi plagi
della storia che conosciamo. E' di grande interesse dire che quest'opera del Pacioli fu
illustrata da Leonardo da Vinci, con il quale vi erano stretti rapporti
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Tre disegni di Leonardo nell'opera di Pacioli, De divina proportione
di amicizia (ricordo che Pacioli tentò di istruire Leonardo in matematica). Discutere quindi
dei lavori matematici di Piero della Francesca è discutere di Pacioli che, oltre al De divina
proportione, aveva scritto già un'altra opera degna di nota: Summa de Arithmetica,
Geometria, Proportioni, e Proporzionalità (1494), opera che aveva regalato a Leonardo da
Vinci perché imparasse la matematica. La Summa di Pacioli è una specie di enciclopedia
delle matematiche (aritmetica ed algebra) pure ed applicate che, all'epoca, risultò molto
utile e fu ampiamente utilizzata. In essa viene applicato il calcolo algebrico allo studio delle
proprietà geometriche delle figure, fino alla risoluzione di equazioni di quarto grado. Fatto
notevole è che in questa opera si espone sistematicamente, con dettagli ed esempi, ed in
modo organico gli elementi pratici della contabilità a partita doppia (già nota ma in modo
confuso ed empirico), con cenni al calcolo delle probabilità e dei logaritmi (la borghesia era
sempre più ricca e la finanza e le banche erano in piena attività). Quest'ultima caratteristica,
oltre a far assegnare a Pacioli il titolo di ragioniere, rese l'opera molto richiesta in tutta
Europa dove trovò un continuatore in Stevin di Bruges. Ma l'opera per noi di maggior
interesse, per quanto anticipato, è il Libellus e particolarmente per il fatto che qui si studia
la divina proporzione (oggi nota come sezione aurea) che Pacioli introduce così:
Divina proporzione, opera a tutti gli ingegni perspicaci e curiosi necessaria
ove ciascun studioso di prospettiva, pittura, architettura, musica e altre
matematiche soavissima sottile e ammirabile dottrina conseguirà e dilettarassi
con varie questioni di segretissima scienza
La divina proporzione ha una storia millenaria e, per quanto se ne sa, risale alla scuola di
Pitagora che scoprì alcune proprietà del pentagono che era il simbolo della setta. Se nel
pentagono si tracciano le cinque diagonali esse si incontreranno in cinque punti che, a loro
volta, sono vertici di un altro pentagono regolare. Inoltre ognuno di questi punti divide la
diagonale su cui si trova in due segmenti di diversa lunghezza la più lunga delle quali è
media proporzionale tra l'intera diagonale e la parte rimanente. Cioè:
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diversa lunghezza la più lunga delle quali è media proporzionale tra l'intera diagonale e la
parte rimanente. Cioè, riferendoci alla diagonale EB ed al suo punto d'intersezione F con la
diagonale AD:
EB : BF = BF : EF
ed una tale proporzione si può scrivere per ogni diagonale e per ogni punto in cui un'altra
diagonale la interseca. Ebbene, quella parte di segmento medio proporzionale tra l'intero
segmento e la parte rimanete individua una proporzione divina (in grecia si chiamava
sezione e basta). Se si passa i numeri tale rapporto fornisce un numero Φ (leggi phi) che è
un numero irrazionale con valore Φ = 1,618033989 ... numero che si ricorderà avevamo
trovato anche con i numeri della successione di Fibonacci (vedi articolo precedente). Una
piccola osservazione di passaggio: si è discusso sul fatto se l'irrazionalità fosse stata
scoperta dalla scuola pitagorica qui o nel caso della diagonale del quadrato ma la cosa è
davvero difficile da risolvere in mancanza di documenti.
La divina proporzione trovò adeguata sistemazione nella Proposizione 11 del Libro II
degli Elementi di Euclide:
Dividere una retta data in modo che il rettangolo compreso da tutta la retta e
da una delle parti sia uguale al quadrato della parte rimanente
e la dimostrazione che ne dà Euclide è diversa da quella che usualmente studiamo oggi,
basata su una costruzione con riga e compasso(2).
Nel corso dei secoli questa divina proporzione è stata utilizzata in architettura
(Partenone) ed in opere d'arte (Fidia) ma è nel Rinascimento che essa assume un valore
paradigmatico della ricerca di perfezione attraverso la matematica. E così, a partire da
Leonardo, la troviamo in Piero della Francesca, in Leon Battista Alberti ed in svariati altri
artisti che fanno le loro opere con delle suddivisioni delle scene rappresentate in base alla
divina proporzione. Faccio un solo esempio perché questa discussione esula dallo scopo del
lavoro. Riprendiamo la flagellazione di Piero della Francesca e consideriamo i punti A, B e
C da me riportati. Se si
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esegue una misura si scopre che il centro della scena, Gesù, è sistemato, rispetto alle due
colonne in primo piano, nel punto C che suddivide il segmento AB secondo la divina
proporzione, cioè: AB : AC = AC : BC. A prescindere dalle costruzioni prospettiche che
sono alla base di tutte le opere rinascimentali, analoghe costruzioni a quella ora vista, si
possono fare per la Gioconda, per l'Uomo Vitruviano, per l'Ultima Cena, ma anche per le
facciate delle chiese come Santa Maria Novella, Sant'Andrea di Mantova, ...
Ecco allora che l'ideale rinascimentale inizia a delinearsi con chiarezza: la ricerca di
perfezione, il bello, l'armonia, le proporzioni, tutti elementi sotto i quali soggiace la potenza
della matematica che ora viene riconosciuta come fondamentale elemento di conoscenza.
Esemplificativo di ciò è quanto sostiene il geometra platonico Petrus Ramus (Pierre de la
Ramée, 1515 - 1572):
L'uomo è confinato nei limiti angusti del corpo, come in una prigione, ma la
matematica lo libera, e lo rende più grande dell'intero universo [...] E' la
matematica che gli offre il possesso della sua vera eredità originaria, paterna,
e che lo illumina con le prove di questo prezioso possesso, gliene conferma la
validità, adducendolo fino alla loro origine divina. L'uomo è sballottato qua e
là, senza meta, dalla tempesta violenta delle passioni, la matematica gli
restituisce la pace interiore, risolvendo armoniosamente i moti opposti
dell'anima, e riconducendola sotto la guida della ragione, all'accordo e
all'armonia [Istituzioni dialettiche]
Siamo ancora in ambito platonico, in attesa di incontrare la tradizione empirica.
Per concludere con Luca Pacioli, resta da dire che la sua Summa (ma anche gli altri suoi
lavori) è d'interesse perché segna il confine con i tre secoli precedenti. Da questa opera si
capisce che per centinaia d'anni non s'è fatto nulla e che, se si vuole avanzare, occorre
partire da lì.
Il momento era favorevole ed altre elaborazioni si susseguirono in quegli anni, tali da
iniziare a costruire un importante corpo di conoscenze fondamentali per gli sviluppi
applicativi che non tarderanno(3). Vi è qui da fare un importante inciso. Fino ad ora un
qualunque lavoro di ricerca o compilazione diventava un manoscritto. L'autore dell'opera
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poteva, con somma fatica, farne una copia per donarla ad un amico o poteva pagare un
copista che lavorasse per lui. Chi riceveva l'opera e la riteneva d'interesse poteva egli stesso
fare analoga operazione di moltiplicazione. Di modo che la crescita del numero delle copie
era spesso affidata a una sorta di casualità. Sul finire del Quattrocento entra in uso
l'invenzione che nel 1450 era stata di Gutenberg, la stampa con caratteri mobili(4) che
permette di disporre di molte più copie di uno stesso esemplare manoscritto con il non
piccolo vantaggio di avere copie identiche, senza più il rischio di propagazione di errori e/o
interpretazioni. La stampa comporta anche un qualcosa che Paolo Rossi ha bene
evidenziato: la pubblicazione di incisioni che permettono di vedere ad un grande pubblico
cose prima mai viste. Altro evento notevolissimo del finire del Quattrocento (1453) è la
caduta di Costantinopoli con due conseguenze: il riversarsi in Occidente di molti
manoscritti lì conservati (quelli che non sono andati distrutti) ed anche di vari studiosi in
cerca di scampo. Altro evento che segnerà gli anni di cui discutiamo è la pubblicazione
(1517) da parte di Lutero delle 95 tesi contro la corrotta Chiesa di Roma a che fa mercato di
indulgenze; tale pubblicazione darà l'avvio alla Riforma protestante che nasce proprio per la
diffusione della lettura della Bibbia che la stampa ha permesso ma anche per cause più
profonde da ricercarsi: nell'ostilità della borghesia finanziaria all'insopportabile fiscalismo
della Chiesa, nei nazionalismi che rifiutano la romanità, dalle rivolte sociali contro i
proprietari terrieri, i nobili e la monarchia sempre alleati della Chiesa, nel rifiuto dei dotti
dell'egemonia culturale della Chiesa. E' su questa base che occorre giudicare da ora il
successo e la diffusione delle elaborazioni di scienziati ed artisti. Più oltre entrerà in azione
la Controriforma che, con l'Inquisizione, tenterà di soffocare ogni novità e dissenso, ma ora
è la stampa che interessa per la moltiplicazione delle informazioni che permette. Già le
opere di Pacioli erano state date a stampa e la prima opera stampata su argomento
matematico fu l'Aritmetica di Treviso, scritta in dialetto veneziano da autore ignoto, nel
1478. Su questa opera che ebbe una grande diffusione e che fu imitata dall'Aritmetica
tedesca e dalla Bamberger Rechenbuch del 1483, occorre dire qualcosa. Essa mostra quali
erano i livelli ordinari di conoscenza alla fine del Quattrocento: mentre non si parla di
addizione e sottrazione, si dedica ampio spazio a moltiplicazione e divisione che, a quanto
pare ed in modo che noi non siamo in grado di cogliere appieno, risultavano molto
complesse. Viene trattata la moltiplicazione in colonna (per colonna), quella a croce (per
croxetto), quella con la scacchiera (per scachiero) che si suddivide in cinque modi diversi,
uno dei quali è quello da noi utilizzato. Vi sono poi due modi per fare divisioni, a seconda
del numero delle cifre del divisore, quello in colonna e quello in battello (per batello). Vi
sono poi trattate: la prova del 9, la regola del 3, il calcolo delle mescolanze per determinare
la quantità di metalli preziosi nelle leghe. Seguono vari e diversi problemi, in gran parte di
uso pratico.
Al di là di pochi cenni, non occorre ora andare a ricercare risultati particolari di questo o
quel matematico. Tanto vasta fu la loro opera che un tal lavoro richiederebbe uno spazio
enorme. E' invece utile indicare un clima, un nuovo entusiasmo che a partire dagli algebristi
italiani del triangolo Venezia, Bologna, Milano si diffuse nel resto d'Italia e d'Europa.
Serviva un qualche successo che desse fiducia ai nuovi scienziati e questo venne quando
piano piano furono abbattuti i muri della risoluzione completa delle equazioni di secondo
grado con l'introduzione dei numeri immaginari, con la scoperta di sistemi generali per la
soluzione di equazioni di terzo e quarto grado, con l'introduzione di agili simbologie che
permisero il decollo dell'algebra e la sua conquista del primato rispetto alla geometria. Solo
qualche anno prima Pacioli vedeva come un sogno la soluzione generale delle equazioni di
secondo grado. Ed ora era fatto. Questi successi dettero grande fiducia ai matematici ed essi
inizarono un lavoro molto fruttifero su terreni vergini. Dopo oltre 1500 anni, per la prima
volta iniziò a dissolversi il peso dell'inferiorità rispetto al sapere dei classici ellenisti. Anche
ora era possibile fare cose egregie all'altezza di quelle eccellenti fatte dagli Euclide,
Archimede, Apollonio. Ed era anche possibile volare molto oltre le cose egregie fatte dagli
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arabi. La paralisi che prendeva tutti perché sembrava che tutto fosse stato fatto e sembrava
addirittura blasfemo confrontarsi con gli Elementi, era vinta. Ormai la matematica era
tornata adulta e poteva nutrirsi dei suoi abbondanti prodotti che, da questo momento, non
mancarono alimentando con essi anche le altre scienze che, nel contempo, crescevano.
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Così era raffigurato lo scienziato agli inizi del Cinquecento in una tavola dell'edizione parigina di Boezio del
1503.
Iniziarono Scipione Dal Ferro (1465 - 1526) e Nicolò Tartaglia(5) (c. 1499 - 1557) a
dare, indipendentemente, la soluzione dell'equazione di terzo grado mancante del termine di
secondo grado (ax - b = x3). Restava qualche difficoltà nei casi in cui comparivano le radici
quadrate di numeri negativi. Furono Gerolamo Cardano (1501-1576) insieme al suo
discepolo Ludovico Ferrari (1522-1565) che dettero il metodo di risoluzione delle
equazione di terzo grado complete. E fu Rafael Bombelli (1526-1572) che dette il
contributo decisivo alla risoluzione del problema delle radici ad indice pari di numeri
negativi con l'introduzione dei numeri immaginari. Ciò permise di rimettere mano a tutto
ciò che era restato in sospeso, come la soluzione di equazioni di secondo grado complete,
quelle di terzo e quarto grado nei casi più generali. E' il momento del passaggio definitivo
dall'algebra sincopata all'algebra simbolica.
L'opera che descrisse nel modo più ampio e completo gli ultimi sviluppi e successi
dell'algebra è la famosa Ars Magna di Gerolamo Cardano(6) che segna la data d'inizio
dell'algebra moderna. Troviamo in questa opera lo svolgimento di quella che oggi
conosciamo come teoria generale delle equazioni algebriche. Si discute di relazioni tra
soluzioni e coefficienti, del rapporto esistente tra grado di un'equazione e numero di
soluzioni reali, del modo di trovare soluzioni approssimate, del modo di abbassare di grado
un'equazione quando sia nota qualche sua radice, del modo di realizzare trasformazioni
razionali delle equazioni. A questa opera il Cardano ne fece seguire delle altre che non
ebbero però stesso valore dell'Ars magna a parte la Regula aliza, che ha un titolo
enigmatico che qualcuno dice di provenienza araba (regola complicata). In essa Cardano
studia ancora le equazioni irriducibili e risolve alcuni problemi di massimo. Servirà l'opera
di Bombelli per completare la teoria delle equazioni, per la soluzione completa di quelle di
quarto grado e per la soluzione di quelle irriducibili di terzo grado. Nel tentare tali
soluzioni, tenendo anche d'occhio le difficoltà incontrate da Cardano (che per la verità
aveva qua e là utilizzato senza enfasi qualche radice di numero negativo che egli chiamava
quantità selvatiche, sofistiche e lontane dalla natura dei numeri), egli si scontrò con il
problema dei numeri immaginari. Serviva molto coraggio a fare questo passo ed egli lo
fece. Il rompicapo nasceva dal fatto che anche per avere soluzioni reali occorreva passare
per questi numeri selvatici. E la cosa era stata messa in chiaro dallo stesso Cardano con
esemplificazioni del tipo di quella che riporto di seguito. Supponiamo di avere l'equazione
di terzo grado:
x3 + px - q = 0
nella sua risoluzione incontriamo l'espressione:
e, se siamo in un caso di irriducibilità (secondo membro sotto radice maggiore del primo
membro), tale espressione è radice di numero negativo e quindi un numero immaginario. Il
fatto è che ciò sussiste sempre, anche quando l'equazione ha poi soluzioni reali. Vediamo
un esempio numerico. Sia data la:
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x3 - 15x - 4 = 0
l'espressione vista prima è in questo caso:
anche se l'equazione ammette le tre soluzioni reali:
;
;
Bombelli lavorò molto su queste cose incomprensibili e inventò formule di
trasformazione tali che gli permisero di risolvere il problema solo con l'introduzione di
numeri immaginari (non voglio addentrarmi in tali questioni di grande rilevanza teorica;
dico solo che, ad esempio, il quadrato di due numeri immaginari è un numero reale). A tal
proposito rimane solo da dire che il nome immaginario fu introdotto da Descartes e che il
simbolo (unità immaginaria)
fu introdotto da Leonard Euler.
I risultati di Bombelli furono parzialmente pubblicati nei tre volumi della sua Opera
d'Algebra del 1572 (ma scritta nel 1550). A questi ne seguirono altri due, importanti per
l'apertura all'algebra moderna, nei quali si ricerca la giustificazione dei risultati nell'algebra
stessa senza più passare per la geometria. E' l'apertura completa alla geometria analitica
(Descartes) ed all'analisi infinitesimale (Newton e Leibniz) che, infatti, non tarderanno ad
emergere e ad imporsi (7).
Il lavoro di questi algebristi fu continuato dal francese François Viète (1540 - 1603)
seguace di Platone, di Diofanto e di Cardano che fece anche importanti incursioni nella
trigonometria.
Anche Viète si occupò della risoluzione di equazioni inaugurando lo studio di quelle a
coefficienti negativi o irrazionali e di ogni artificio utile a semplificare equazioni di grado
superiore (Isagoge in artem analyticam, 1591) . Lavorò anche a quelle che oggi
conosciamo come scomposizioni di polinomi. A lui sono dovute le note formule:
a3 + b3 = (a + b)(a2 - ab + b2)
a3 - b3 = (a - b)(a2 + ab + b2)
e studi su espressioni di grado superiore al terzo. Studiò soluzioni approssimate di una
qualsiasi equazione e iniziò a tentare la scomposizione in fattori di un polinomio qualunque.
Introdusse un simbolismo ancora più agile a quello introdotto dagli italiani (una sorta di
parentesi per individuare dei polinomi, un modo più semplice per indicare le radici, delle
lettere al posto di numeri distinguendo le lettere per le incognite da quelle per i termini noti).
Oltre all'algebra, come accennato, Viète dette contributi anche alla trigonometria (Canon
mathematicus, 1571). A lui si deve il teorema del coseno per la risoluzione di triangoli
qualunque, le formule della moltiplicazione degli archi che passano dal 2α e dal 3α all'nα
con un utile strumento per la compilazione di tavole goniometriche, il teorema delle
tangenti (che era già noto in Olanda), le formule di prostaferesi (che erano state introdotte
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da Werner), il teorema delle proiezioni (già enunciato da Thyco). Ma, al di là di supposte
priorità, è importante sottolineare che ogni ramo della matematica nota è ormai maturo ed
altri, fondamentali, se ne aprono. Come chiosa ai lavori di questo grande matematico, non è
banale dire che era molto ricco e che le opere se le pubblicava a sue spese.
Siamo a questo punto arrivati ad intersecare il Seicento, al momento in cui l'insieme del
mio lavoro, che partiva 4000 anni prima, con egizi e babilonesi, termina. Eventuali raccordi
sono abbastanza facili a questo punto ed io, con la matematica lascio. E' invece importante
passare ad un campo di indagine rimasto in ombra per molti secoli, l'astronomia.
L'ASTRONOMIA
Abbiamo intravisto nella carrellata secolare fatta che in astronomia, dai tempi di
Tolomeo, cioè da 1300 anni, non si è andati avanti. Si sono affinati degli strumenti. Si sono
soprattutto fatte molte osservazioni che hanno precisato posizioni e cambiamenti nel cielo.
Il complesso di fisica ed astronomia di Aristotele è dominante attraverso il sistema di
Tolomeo. Qualcuno ha avanzato qualche obiezione, si è fatta qualche modifica ma
quell'imponente impianto è lì con tutti i problemi che comportava e che gli arabi avevano
iniziato a porsi. Soprattutto quello della descrizione di fenomeni che dovessero poi
rappresentare la realtà e non mere costruzioni matematiche. Questo era uno dei problemi
principali: si sono sempre salvate le apparenze secondo il dettato di Platone ma sempre si
sono descritte le cose del cielo in modo assolutamente artificioso, con una matematica di
cerchi e circonferenze che se soddisfano certe spiegazioni sembrano realisticamente
impossibili. In modo dl tutto imprevisto, come un vero fulmine a ciel sereno, nel 1543 viene
pubblicata un'opera di un canonico tedesco-polacco di nome Nicola Copernico, il De
revolutionibus orbium coelestium.
NICCOLÒ COPERNICO
E' utile iniziare con una breve biografia. Niccolò Copernico (1473 - 1543) nacque da
famiglia benestante a Torun, nella Prussia, ai confini con la Polonia ed in una territorio
scosso da continui cambiamenti di frontiera a seguito di guerre, annessioni e cessioni di
territorio.
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Aveva 10 anni quando morì suo padre e fu adottato dallo zio materno, canonico nella
cattedrale di Fraunenburg nella regione di Ermland sotto il controllo della Prussia. Nel 1489
suo zio divenne vescovo di Ermland, una delle quattro diocesi prussiane (incastonata nella
terra dei Cavalieri Teutonici), divenendo anche governatore della regione. Fece i suoi primi
studi prima a Torun, quindi a Wloclawek, sulla Vistola. Alla fine del 1491 entrò
all'Università di Cracovia, una delle più importanti d'Europa sulla quale aveva grande
influenza l'umanesimo. Si iscrisse alla Facoltà delle Arti dove studiò in modo approfondito
l'astronomia aristotelico - tolemaica. Lo zio, per avviarlo alla carriera ecclesiastica, nel
1496 lo
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inviò a studiare Diritto Canonico (Giurisprudenza) a Bologna. Successivamente, nel 1500,
Copernico si trasferì a Roma dove restò per un anno e subì il fascino di Pico della
Mirandola. Nel 1501, tornato in patria, venne nominato canonico di Frauenburg ma riuscì
immediatamente ad avere "licenza" di proseguire gli studi in Italia dove, a Padova, si
iscrisse a Medicina laureandosi poi a Ferrara nel 1503 dove restò alcuni mesi per poi
tornare a Padova. All'inizio del 1506 ritornò ad Ermland dove lo zio riuscì a farlo
"comandare" come suo medico personale ad Heilsberg. Collaborò con lo zio in affari di
governo (occupandosi anche di zecca e di monetazione): si trattava di mantenere la
neutralità della regione di Ermland tra i Cavalieri Teutonici e la Polonia. Proprio ad
Heilsberg, nel 1512, scrisse il Nicolai Copernici de hypothesibus motuum coelestium a se
constitutis commentariolus (noto come Commentariolus) che è una specie di programma
delle sue idee. Questo lavoro rimase sotto forma di manoscritto distribuito a pochi amici,
solo recentemente ritrovato in tre copie distribuite in tre biblioteche (1877 Vienna, 1881
Copenaghen, 1962 Londra). Questo opuscolo conteneva sette petitiones principali:
1) Non esiste un solo centro di tutti gli orbi celesti o sfere (vale a dire: ci sono,
a differenza di quanto affermava Tolomeo, due centri di rotazione: la Terra che
è il centro di rotazione della Luna, il Sole che è il centro di rotazione degli altri
pianeti).
2) Il centro della Terra non coincide con il centro dell'universo, ma solo con il
centro della gravità e della sfera della Luna (questa petitio riapriva il problema
di una spiegazione della gravità).
3) Tutte le sfere ruotano attorno al Sole (che è però eccentrico rispetto al centro
dell'universo).
4) Il rapporto fra la distanza Terra-Sole e l'altezza del firmamento è minore del
rapporto fra il raggio terrestre e la distanza Terra-Sole. Quest'ultima è pertanto
impercettibile in rapporto all'altezza del firmamento (se l'universo ha così
grandi dimensioni, non avverrà che il moto della Terra dia luogo a un moto
apparente delle stelle fisse).
5) Tutti i moti che appaiono nel firmamento non derivano da moti del
firmamento, ma dal moto della Terra. Il firmamento rimane immobile, mentre
la Terra, con gli elementi a lei più vicini (l'atmosfera e le acque della sua
superficie) compie una completa rotazione sui suoi poli fissi in un moto diurno.
6) Ciò che ci appare come movimento del Sole non deriva dal moto dello
stesso Sole, ma dal moto della Terra e della nostra sfera con la quale (come
ogni altro pianeta) ruotiamo attorno al Sole. La Terra ha, pertanto, più di un
movimento.
7) L'apparente moto retrogrado e diretto dei pianeti non deriva dal loro moto,
ma da quello della Terra. Il moto della sola Terra è sufficiente a spiegare tutte
le disuguaglianze che appaiono nel cielo (i cosiddetti «moti retrogradi» dei
pianeti diventano moti apparenti, dato che dipendono dal moto della Terra).
In poco tempo dal Commentariolus gli derivò grande fama anche tra color che non lo
avevano letto. Nello stesso anno morì lo zio e Copernico si trasferì a Frauenburg.
Nel 1514, durante il papato di Leone X (quello della "Taxa Camarae", il tariffario
scandaloso della vendita delle indulgenze), venne invitato al Concilio Laterano per iniziare
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a discutere di Riforma del Calendario, Riforma che poi sarà realizzata nel 1582 (utilizzando
anche i calcoli che compariranno nel suo De Revolutionibus del 1543). Egli rifiutò però di
andare sostenendo di non disporre di osservazioni astronomiche sufficienti (e le cose
stavano proprio così: Copernico basò i suoi lavori su moltissime osservazioni astronomiche
di altri; egli ne realizzò solo 27). A questi anni, probabilmente, risale la prima stesura della
sua opera fondamentale, il De Revolutionibus Orbium Coelestium che sembra sia stata
completata intorno al 1530.
Tra il 1516 ed il 1519 si trasferì ad Allenstein per prendersi cura dei beni della Chiesa (in
questo periodo vi fu la pubblicazione delle Tesi di Lutero). Proprio nel 1519 scoppiò la
guerra tra Cavalieri Teutonici e polacchi ed egli si ritirò dapprima nella fortezza di
Frauenburg e quindi, fino alla fine della guerra (1525), ad Allenstein per occuparsi della
vita politico - amministrativa della diocesi di Ermland.
Nel 1538 un tal Dantyszek, personaggio malato di fondamentalismo che odiava
profondamente i luterani e chiunque fosse sospetto di qualche apertura mentale, fu eletto
vescovo di Ermland. E Copernico risultava essere persona aperta. Proprio in quel periodo lo
stesso Copernico aveva assunto una giovane persona di servizio, Anna Schilling. Iniziarono
una serie di pettegolezzi che furono stroncati dal vescovo con il licenziamento di Anna. La
cosa amareggiò moltissimo il già anziano Copernico e questa amarezza lo accompagnerà
fino alla morte.
Intanto le idee di Copernico che circolavano diffusamente avevano raccolto il favore di
Papa Clemente VII. Nel 1536 il cardinale Nicola von Schoenberg scrisse a Copernico
invitandolo ad esporle in modo più completo e dettagliato. Ma non tutti erano entusiasmi ed
insieme alle critiche favorevoli vi erano anche violente stroncature che già intravedevano
nelle cose sostenute da Copernico, persona che aveva frequentato ambienti liberali in Italia,
qualcosa che era in contrasto con quanto affermato dalla Bibbia. Già nel 1539 lo stesso
Lutero prese chiara posizione affermando che questo mentecatto vuole trasformare tutta
l'arte dell'astronomia. E questo avviene oggi, chi vuole essere considerato saggio deve
inventarsi qualcosa, e ciò è il meglio che si possa fare. Ma non c'è dubbio, come affermano
le Sacre Scritture, che Giosuè comandò al Sole e non alla Terra di fermarsi (e giudizi
analoghi furono anche di Calvino). Per parte sua, anche Calvino, senza citare Copernico,
aveva intimato che le Scritture andavano intese alla lettera. E Copernico non osava
pubblicare i suoi lavori in una epoca delicatissima in cui era molto facile finire sul rogo.
Furono il giovane astronomo tirolese Retico (Retyk) ed il vescovo Giese, amico di
Copernico, ambedue protestanti, a convincerlo a dare alle stampe la sua opera. Il lavoro di
stampa iniziò nel 1542 seguito da vicino da Retico (vi furono però delle difficoltà iniziali:
un protestante che si faceva portatore dell'opera di un cattolico!) il quale prima che l'opera
vedesse la luce, dovette abbandonare. Ma nello stesso 1542 a Roma viene riorganizzata
l'Inquisizione e viene costituito il Tribunale del Santo Uffizio (Paolo III) mentre partono i
lavori per il Concilio di Trento (1544 - 1563) per avviare la Controriforma che vedrà subito
il processo ai cardinali (Morone e Pole) fautori del dialogo con i protestanti e la
conseguenza della proclamazione di Tommaso d'Aquino dottore della Chiesa (Paolo IV,
1565) e dell'istituzione della Congregazione dell'Indice (Pio V, 1571). Il seguimento della
stampa dell'opera di Copernico passò, proprio allora, ad un teologo protestante molto
erudito ed interessato all'opera di Copernico, Andreas Osiander. E questo personaggio è al
centro di una brutta operazione di manipolazione del lavoro di Copernico perché, contro la
volontà di Copernico, vi aggiunse una prefazione non firmata in modo che sembrasse dello
stesso Copernico (e sembra abbia anche manipolato il titolo che doveva essere solo De
Revolutionibus con particolare riferimento al moto della Terra, e non De Revolutionibus
orbium coelestium riferite al generico moto delle varie sfere celesti). In questa prefazione
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praticamente si sosteneva che l'intera opera era basata su una finzione, su una ipotesi
matematica utile per fare i conti. E questo avveniva quando Copernico era sul letto di morte
(1543) ed era impedito a fare qualunque cosa. Ed appena morto Copernico il libro vide la
luce con la manipolazione suddetta (il manoscritto originale, senza manipolazioni, fu poi
ritrovato a Varsavia intorno al 1850). Solo due anni dopo, nel 1545, iniziò il Concilio di
Trento (che si concluderà nel 1563) che dette il via alla Controriforma.
IL DE REVOLUTIONIBUS
Entriamo ora in un campo che è stato discusso infinite volte. Ciò che segue riassume i
termini della questione. La tesi centrale dell'opera di Copernico, la Terra in moto intorno al
Sole immobile, rappresentò una svolta radicale ma più per le conseguenze che altri ne
trassero che non per quello che lo stesso Copernico aveva detto. Egli, partendo da dati
osservativi e per rispondere al vecchio problema del moto della sfera delle stelle fisse (tale
sfera era considerata da Aristotele in moto pur occupando sempre lo stesso luogo), modificò
le posizioni degli astri nel sistema astronomico aristotelico-tolemaico, senza preoccuparsi di
conciliare ciò con tutti gli altri problemi che si aprivano con la nuova organizzazione
planetaria. I ragionamenti che Copernico porta a sostegno della tesi che vuole la Terra in
moto intorno al Sole immobile sono aristotelico-scolastici. Seguiamo questi ragionamenti:
- "Poiché il cielo è la dimora di tutti ..., non si vede perché non si debba
attribuire il moto più al contenuto che al contenente".
- Se la Terra a causa del suo moto dovesse andare distrutta, a maggior ragione
si dovrebbe distruggere la sfera delle stelle.
- La Terra non va distrutta a seguito del suo moto perché esso è naturale e non
violento.
- La caduta non lungo la verticale che dovrebbero avere gli oggetti è spiegata
con l'affermazione che l'aria segue il moto della Terra "perché l'aria,
impregnata di terra e di acqua, vicina alla terra, segue le sue stesse leggi".
- "La condizione di immobilità è considerata [da Aristotele] più nobile e divina
della condizione di cambiamento ed instabilità, la quale quindi è più
appropriata alla Terra che all'Universo".
- Ci vorrebbe un motore enorme per muovere la sfera delle stelle.
- La Terra deve ruotare di moto naturale perché è sferica.
Queste argomentazioni di Copernico creano moltissime difficoltà allo stesso
aristotelismo e mostrano forzature dei ragionamenti. Se non sapessimo che Copernico è
persona dottissima potremmo addirittura dubitare della sua conoscenza di Aristotele.
Vediamo allora le difficoltà nei ragionamenti di Copernico.
- Ha ragione Aristotele quando afferma che la Terra dovrebbe disintegrarsi a
causa del suo moto e non la sfera delle stelle. Infatti la Terra è soggetta a
generazione e corruzione oltre a possedere pesantezza, mentre la sfera delle
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stelle è eterea, eterna e per essa non esiste pesantezza.
- Allo stesso modo, un motore avrebbe mosso più facilmente le parti eteree
dell'universo che non la Terra.
- Anche il Sole è sferico e perché dovrebbe essere immobile ?
- Il sistema infine, anche se nasceva dal proposito di rendere più semplici i
calcoli, era complesso almeno quanto l'aristotelico-tolemaico.
Nonostante il "conservatorismo" di Copernico, si aprivano grosse brecce nel sistema di
Aristotele che qualcuno avrebbe dovuto sistemare se avesse abbracciato il nuovo sistema e
questo perché, come ho ricordato più volte, il sistema astronomico aristotelico-tolemaico è
un tutt'uno con la fisica di Aristotele. E' impensabile modificare un pezzo dell'impianto
senza rendersi conto dei guasti nell'altro. Vediamo quali erano i problemi che si aprivano e
che, al momento, erano senza soluzione:
- Si mette in discussione l'esistenza di due tipi di mondi separati dal cielo della
Luna (la Terra, nel suo moto, "si infila" in mezzo ai due mondi).
- Si distrugge la teoria dei quattro elementi e quella del moto ad essa collegata
tramite la teoria dei luoghi naturali (perché ora un oggetto dovrebbe cadere
sulla Terra?).
- Tutti i moti vengono considerati come naturali e la Terra che si muove di
moto circolare viene a perdere le caratteristiche di peso e leggerezza.
- Con l'ammissione di immobilità dell'ultima sfera (quella delle stelle fisse), in
accordo con Aristotele (l'infinito non può muoversi), si apre alla possibilità di
un mondo "infinito".
Per dirla con Kuhn: Per Copernico la Terra in moto rappresenta un'anomalia in un
universo aristotelico.
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Copernico inizialmente fu accettato grazie alla "prefazione" di A. Osiander. La cosa era
in accordo con quanto sostenuto da Tommaso nella Summa Theologica (parte I, Quaest.
XXXII, art. 1(8)). Secondo Tommaso vi è differenza tra un'ipotesi necessariamente vera (la
fisica) ed un'ipotesi che invece si adatta ai fatti (la matematica). Si possono costruire tutte le
ipotesi matematiche che si vogliono per spiegare i fatti astronomici purché non si cambi la
fisica. E la Chiesa, da un certo punto, userà questo argomento come una clava.
Vediamo qualche dettaglio di questa grande opera in sei libri di Copernico riferendoci
alle parti discorsive del Libro I che sono in gran parte le stesse che Copernico aveva
sviluppato nel Commentariolus (vi sono solo due differenze relative ai calcoli delle
combinazioni degli epicicli e degli eccentrici per il moto dei pianeti).
Dopo una breve introduzione in cui si esalta il cielo, Dio visibile, l'astronomia, regina
delle scienze, Tolomeo il grande sistematore del cielo, ... e dopo aver ricordato, con
Plutarco, che il movimento delle stelle vince la perizia dei matematici, Copernico inizia con
queste parole:
In principio va rilevato che il mondo è sferico, sia perché questa forma è la più
perfetta di tutte, un'integrità totale, non bisognosa di alcuna commessura; sia
perché è la forma più capace, che meglio conviene a tutto comprendere e
custodire; sia anche perché ogni parte separata del mondo - intendo il Sole, la
Luna e le stelle - sono ravvisate in tale forma; sia perché in essa tendono a
determinarsi tutte le cose, come appare nelle gocce d'acqua e negli altri corpi
liquidi, quando tendono a circoscriversi da soli. Perciò nessuno metterà in
dubbio che tale forma sia da attribuirsi ai corpi divini.
parole che ci mettono subito in un mondo aristotelico perché la sfericità è una caratteristica
di perfezione, perfezione che se assegnata all'universo prevede la sua finitezza in quanto
non gli manca nulla, come sosteneva Aristotele. Più oltre si dice che tale sfericità è anche
della Terra come mostrano le ombre delle eclissi e delle acque che sono su di essa come
mostra l'America che è agli antipodi dell'India. Copernico prosegue discutendo del moto
circolare che egli vuole assegnare alla Terra. Tutti sostengono, egli afferma, che la Terra è
immobile ma la cosa non è stata risolta completamente. E qui vengono inserite
considerazioni che riguardano la relatività del movimento, come un oggetto ritenuto
immobile possa essere considerato in moto se osservato da altra situazione e viceversa per
un oggetto in moto. Se si tiene conto di ciò si può ammettere un moto di ciò che è ritenuto
immobile. Inoltre le irregolarità del moto dei pianeti possono essere dovute alla loro
rotazione intorno ad un centro che non è la Terra ma spostato di un poco rispetto alla sfera
delle stelle fisse, in modo tale che la Terra possa essere ammessa in rotazione con moto
circolare alla stessa maniera dei pianeti. Dice Copernico:
Infatti, ogni mutazione locale apparente deriva o dal movimento della cosa
guardata, o da quello di chi guarda, o da mutazione certamente ineguale di
entrambi. Perché fra cose mosse in modo eguale nello stesso senso non si
percepisce movimento, intendo dire fra l'oggetto veduto e colui che lo vede.
Ora è proprio la Terra quella da cui è visto quel circuito celeste e offerto alla
nostra vista. Se dunque si ipotizza qualche movimento della Terra, esso
apparirà in tutte le cose che gli sono esterne come di eguale velocità, ma in
senso opposto, come se quelle cose passassero via, quale è innanzi tutto la
rivoluzione diurna. Questa, infatti, sembra trascinare l'intero mondo, fuorché
la Terra e quelle cose che sono intorno ad essa. Ma se si ammettesse che il
cielo non ha nulla di questo movimento, e invece la Terra ruota da occidente
verso oriente, se qualcuno esaminasse seriamente quanto riguarda l'apparente
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sorgere e tramontare del Sole, della Luna e delle stelle, troverebbe che proprio
così avviene. E poiché è il cielo quello che contiene e abbraccia tutto, il luogo
comune di tutte le cose, apparirà subito perché si debba attribuire un
movimento piuttosto al contenuto che al contenente, a ciò che è collocato
piuttosto che a quello che colloca. [De revolutionibus, cap.V]
Vi sono due cose in questo brano da sottolineare, la prima è quella specie di principio
d'inerzia generalizzato che viene sostenuto in un paio di parole: la Terra e quelle cose che
sono intorno ad essa. Se infatti non si ammette che, ad esempio, l'aria sia solidale al moto
della Terra, varrebbero le obiezioni al suo moto che a suo tempo fecero tutti, compreso
Tolomeo. L'altra questione è invece a quanto avevo annunciato qualche riga più su: i
ragionamenti di tipo aristotelico che dovrebbero giustificare il moto della Terra (contenuta)
piuttosto che la sfera delle stelle (contenente).
Viene poi l'argomento della immensa grandezza della sfera delle stelle rispetto alla Terra.
Ciò rende la terra come un punto e quindi diventa irragionevole pensare che sia la sfera
delle stelle a fare una rotazione completa in 24 ore. Ma se la Terra ruota come gli altri
pianeti e questo fosse il suo solo movimento, in un luogo dovrebbe sempre aversi la
medesima ora con il Sole sempre nella medesima posizione. Occorre allora anche
ammettere una rotazione della Terra su se stessa in 24 ore. Ma se a seguito di tale moto la
Terra dovrebbe disgregarsi, a maggior ragione dovrebbe farlo la gigantesca sfera delle stelle
ad eseguire lo stesso moto in 24 ore.
Dal capitolo VII fino al IX si susseguono le risposte alle obiezioni che si sono sempre
fatte al moto della Terra.
Perciò con varie altre ragioni gli antichi filosofi hanno cercato di sostenere
che la Terra sta nel centro del mondo, e allegano come causa principale la
gravità e la leggerezza. Senza dubbio, l'elemento della terra è il più pesante, e
ad essa si portano tutte le cose pesanti, tendendo verso il suo centro interno.
Infatti, poiché la Terra è rotonda e verso di essa i gravi, da tutte le parti e
perpendicolarmente alla sua superficie, sono portati per loro natura, se non
fossero trattenuti sulla superficie stessa, precipiterebbero verso il suo centro:
come una linea retta perpendicolare alla superficie tangenziale della sfera
conduce al centro. Ora le cose che si portano verso il centro sembra che
necessariamente al centro siano in stato di quiete. Tanto più, dunque, l'intera
Terra sarà in stato di quiete nel centro e ricevendo in sé tutte le cose che
cadono, resterà immobile per il suo peso.
Secondo la teoria del moto di Aristotele, agli elementi pesanti (terra ed acqua) conviene
il moto rettilineo verso il basso, a quelli leggeri (aria e fuoco) quello rettilineo verso l'alto e
solo ai corpi celesti il moto circolare intorno ad un centro. Ricordo che per Aristotele il
moto o è violento o naturale. Violento, il moto della Terra non può essere, perché manca di
motore esterno e perché ogni moto violento ha una durata limitata. Dunque, naturale. Ma il
moto naturale può essere concepito in due modi, dall'alto in basso e in circolo. Il primo non
è possibile, perché ha un principio ed una fine; quindi rientra nella classe del moto violento;
dunque il moto naturale è in circolo. Ma la Terra, non può muoversi circolarmente, perché
questa eventualità e smentita da varie osservazioni, come la sua posizione rispetto alle stelle
fisse, ecc. Dunque, essendo esaurite tutte le ipotesi concettuali di ogni movimento possibile,
si conclude che la terra sta ferma. Questa maniera di ragionare ha creato la mirabile
costruzione della cosmologia antica, perfetta come un organismo logico, ma non
ulteriormente perfettibile che nei suoi particolari, mentre nelle grandi linee essa è statica e
immobile. In definitiva ogni cosa pesante come la Terra con tutto ciò che vi è sopra, non
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può essere dotata di moto circolare perché non sarebbe un moto naturale ma violento. Ma
Copernico ricava dal fatto che gli astri sono sferici, che il movimento che più gli conviene è
il circolare. Questo moto è infatti il più semplice, ed esprime, in atto, la semplicità di quella
forma. Esso è inoltre naturale e indefettibile, mentre il moto retto non compete che ai corpi
che sono espulsi fuori del loro luogo naturale o che vi ritornano. «Nulla ripugna tanto
all'ordine e alla forma dell'universo, quanto l'essere fuori del proprio luogo. Perciò il moto
retto non è dato se non alle cose che non stanno al loro posto e non son perfette per natura,
perché si separano dal loro tutto e ne disertano l'unità». Il moto circolare è così sempre
uguale, avendo una causa che non viene mai meno, quello in alto e in basso invece è
accelerato (o ritardato), perché si affretta a cessare non appena il corpo ha conseguito il
luogo naturale, in cui si arresta. Anche qui la dimostrazione procede con argomenti
chiaramente aristotelici E cioè, mentre per Aristotele il moto retto apparteneva alle parti
elementari, tendenti a congiungersi con la totalità del loro elemento, e il moto circolare al
cielo, con una netta e insuperabile divisione tra il cielo e la terra, per Copernico, invece, il
moto retto è delle parti, il circolare è del tutto, cioè dell'intero astro. Ciò implica una
completa redistribuzione delle due specie di movimenti: v'è infatti un moto retto nei corpi
celesti (quello delle rispettive parti verso il loro tutto) e un moto circolare nella terra (quello
della totalità del globo terrestre); i due moti pertanto, invece di segnare un distacco tra due
ordini di sostanze differenti, sono la prova di una sostanziale affinità di natura tra gli astri e
la Terra. Il dualismo antico e medievale è, potenzialmente, superato. La Terra dunque si
muove in circolo come gli altri astri. Ciò vuol dire che il moto diurno del cielo è mera
apparenza; è la Terra, invece, che ruotando su se stessa, muta la propria posizione rispetto
al cielo.
Se dunque - afferma Tolomeo d'Alessandria - la Terra ruotasse, almeno in una
rivoluzione quotidiana, dovrebbe accadere il contrario di ciò che si è detto
sopra. Infatti bisognerebbe che il movimento fosse velocissimo e la sua celerità
fosse insuperabile, per far compiere in ventiquattro ore l'intero ambito
terrestre. Ma le cose mosse da una rotazione repentina appaiono affatto
incapaci di coesione, e piuttosto, se unite, [paiono portate] a disperdersi,
quando non siano tenute ferme da qualcosa che le fermi; e da gran tempo - egli
dice - la Terra dispersasi sarebbe fuggita dal cielo (il che è del tutto ridicolo!);
tanto più gli esseri animati e tutte le altre masse separate non potrebbero
assolutamente restare ferme. E nemmeno le cose che cadono in linea retta e
perpendicolarmente giungerebbero al luogo destinato, che frattanto sarebbe
stato sottratto dalla grande velocità. E vedremmo anche le nuvole ed ogni cosa
che sta nell'aria portarsi sempre verso occidente.
E qui Copernico dopo aver introdotto una autogiustificazione tanto banale quanto
evidente: se la Terra girasse il suo moto non sarebbe più violento ma naturale, come quello
dei quattro elementi, passa a discutere della temuta infinità dell'universo qualora la Terra si
muovesse. La questione appesa ad una disputa non gli interessa, meglio lasciarla alle
dispute dei naturalisti.
Invano, dunque, Tolomeo teme che la Terra si disperda e [con essa] tutte le
cose terrestri nella rivoluzione che avviene, per azione della natura, che è ben
diversa da quella dell'arte o da quella che può derivare per effetto dell'ingegno
umano. Ma perché non si teme ciò, e anzi di più, per il mondo, il cui
movimento deve essere tanto più veloce, quanto maggiore è il cielo della
Terra? O forse il cielo è divenuto tanto immenso perché il movimento con
indicibile veemenza lo allontana dal centro, e crollerebbe se stesse fermo?
Certamente, se questa ragione fosse valida, anche la grandezza del cielo si
allontanerebbe all'infinito. Infatti, quanto più per lo stesso impeto del
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movimento sarebbe portato in alto, tanto più veloce sarebbe il movimento, per
la circonferenza sempre crescente che dovrebbe percorrere nello spazio di
ventiquattro ore: e viceversa per il crescente movimento crescerebbe
l'immensità del cielo.
Così la velocità aumenterebbe all'infinito la grandezza e la grandezza la
velocità. Ma proprio per quell'assioma di fisica: «ciò che è infinito non può
essere attraversato, né può essere in alcun modo mosso», il cielo
necessariamente si arresterebbe.
Dicono però che fuori del cielo non c'è né corpo, né luogo, né vuoto, e
assolutamente nulla, e quindi non c'è [luogo] dove possa estendersi il cielo; e
allora sarebbe certo sorprendente se qualcosa potesse essere arrestato dal
nulla. Ma se il cielo fosse infinito e finito solo per la concavità interna, forse
diventerebbe ancor più facile capire che non c'è nulla fuori del cielo, perché
tutto sarebbe in lui, di qualunque grandezza fosse, ma il cielo resterebbe
immobile. Infatti la [ragione] principale su cui si fondano per dimostrare che il
cielo è finito è il movimento.
Sia dunque finito o infinito il mondo, lasciamolo alle dispute dei naturalisti,
avendo per certo che la Terra, conclusa nei suoi poli, è limitata da una
superficie sferica. Perché, dunque, esiteremo ancora ad attribuirle una
mobilità conforme per natura alla sua forma piuttosto che estendere l'intero
mondo, di cui si ignorano i confini, né è possibile conoscerli, e perché non
ammetteremo che della sua quotidiana rivoluzione vi è in cielo apparenza, in
Terra verità? Le cose stanno come quando parla l'Enea di Virgilio, dicendo:
"Ci allontaniamo dal porto, terre e città retrocedono".
Riguardo poi alle nuvole che dovrebbero scappare via insieme a tutte le cose non
ancorate alla Terra, viene di nuovo avanzato quella specie di principio d'inerzia
generalizzato, secondo il quale tutte le cose che stanno sulla Terra si muovono allo stesso
modo. Inoltre, con Aristotele si vogliono ribaltare le cose, quando si afferma che il moto
compete di più alle cose meno nobili che non a quelle nobili. Infine, riguardo alla la gravità,
essa è un qualcosa che non esiste solo sulla Terra ma riguarda ogni corpo celeste o globo,
pertanto ognuno avrà la sua di gravità.
Che diremo dunque delle nuvole e delle altre cose che stanno in aria, o
cadono, oppure tendono verso l'alto? Nulla, se non che non soltanto la Terra
con l'elemento acqueo ad essa unito si muove così, ma anche una parte non
piccola dell'aria e tutte le cose che, allo stesso modo, hanno un rapporto con la
Terra. Sia che l'aria vicina, mista di materia terrena ed acquea, segua la
medesima natura della Terra, sia che il movimento dell'aria sia acquisito, ed
essa ne partecipi senza resistenza per contiguità e per il movimento continuo
della Terra.
A ciò si aggiunge ancora che la condizione d'immobilità è giudicata più nobile
e divina di quella di mutazione e di instabilità, che meglio, perciò, si addice
alla Terra che al mondo. Per di più sembra piuttosto assurdo attribuire
movimento al contenente e collocante e non invece al contenuto e collocato,
che è la Terra.
Poiché esistono, dunque, vari centri, anche per quel che riguarda il centro del
mondo non sarà azzardato dubitare che esso sia quello della gravità terrestre
o un altro. Per parte mia, credo che la gravità non sia altro che una certa
brama naturale, attribuita alle parti dalla divina provvidenza dell'artefice di
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tutte le cose, affinché si riuniscano nella loro unità e integrità congiungendosi
in forma di globo. E questa inclinazione è credibile sia insita anche nel Sole,
nella Luna e negli altri splendori erranti, cosicché per la sua efficacia essi
restano in quella rotondità con cui si presentano, sebbene in molti modi
effettuino i loro circuiti.
Nel capitolo X, dopo aver discusso di quale ordine assegnare ai vari pianeti, Copernico ci
offre il disegno semplificato del suo sistema del mondo:
E' qui che leggiamo questo inno al Sole da parte di Copernico:
In mezzo a tutte le cose risiede il Sole. Chi mai porrebbe in questo bellissimo
tempio una tale lampada in altro luogo migliore, donde potesse illuminare
tutto insieme l'universo? Non senza ragione, taluni l'hanno chiamato lucerna
del mondo; altri, mente; altri, rettore. Trismegisto ne ha fatto un dio visibile;
l'Elettra di Sofocle lo ha chiamato onniveggente. Posto come su di un trono
regale, esso governa la famiglia degli astri che gli si affaccenda intorno. La
terra a sua volta non vien defraudata del servigio della luna. Essa si unisce col
sole e ne vien fecondata di anno in anno. In tal modo noi troviamo sotto questo
ordinamento un'ammirevole simmetria del mondo e un nesso armonico del
movimento e della grandezza degli orbi, quali in nessun altro modo potrebbero
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trovarsi.
Nel capitolo XI Copernico descrive i moti della Terra che, secondo lui, dovrebbero
essere ben tre. Il primo è la rotazione annua intorno al Sole; il secondo è la rotazione su se
stessa in 24 ore per permettere l'alternanza del giorno e della notte; il terzo, che sarà
dimostrato presto del tutto innecessario, è un moto del centro della Terra tale da mantenere
il parallelismo dell'asse terrestre (inclinato come si sa) con se stesso al fine dell'alternarsi
delle stagioni.
In (a) è mostrato cosa farebbe l'asse terrestre senza il terzo movimento ipotizzato da
Copernico. Esso doveva riguardare l'asse terrestre ed essere tale (b) da mantenerlo sempre
parallelo a se stesso.
Nei capitoli XII e XIII iniziano conti, presentazione di tabelle di osservazioni (poche le
sue, in gran parte riprese da ogni dato a sua disposizione), e dimostrazioni fatte con il
sistema di Euclide. E qui finisce il Libro I. Poi vi sono gli altri 5 libri che sono tutti un
susseguirsi di misure, di calcoli che giustificano questo e quel movimento, questa e quella
posizione e la mancanza di quegli effetti che invece discenderebbero dall'ammissione di
Terra immobile al centro dell'universo.
Siamo di fronte ad un altro traguardo rinascimentale. Anche nell'astronomia si riescono
a raggiungere le vette di Tolomeo, fino ad allora ritenute insuperabili. L'opera non è un
abbozzo o un commentario. Ha un impianto nuovo con calcoli e determinazioni orbitali
nuove. Finalmente si ha una univoca determinazione dell'ordine successivo dei pianeti
nell'universo. Vi erano naturalmente degli errori ma essi discendevano dalle poche
osservazioni fatte da Copernico e dall'aver preso per buone tutte quelle di Tolomeo. Inoltre
non è proprio il Sole il centro del sistema di Copernico ma il centro dell'orbita della Terra
che per lui non coincide con il Sole (e ciò comportò errori a catena). Infine vi erano molte
complicazioni con il mantenimento dei cerchi e dei moti uniformi. Da una parte spariva
l'indigeribile equante ma dall'altra restavano cerchi che si sommavano a cerchi (si sono però
ridotti a 34) e con la Terra che in qualche modo è determinante per i moti dei pianeti
interni. Come ricorda Dreyer, Kepler osservò che se Copernico avesse avuto più fiducia in
sé piuttosto che muoversi sulle orme di Tolomeo, avrebbe fatto cose eccelse. Ma
Copernico, come disse a Retico, era cosciente dell'enorme lavoro che occorreva fare per
accordare completamente la teoria con le osservazioni.
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Vediamo ora alcune difficoltà del sistema di Copernico. Intanto, come accennato esso
non è eliocentrico perché non è il Sole al centro dell'universo. Più correttamente si può
definire eliostatico. E' vero che con questo sistema il moto retrogrado dei pianeti si risolve
facilmente ed è anche vero che ora si dispone di una base per la determinazione delle
distanze dei pianeti dal Sole e dalla Terra (lo dico tra parentesi: è certo che da questo
momento i principi d'inerzia e di relatività sono al primo punto da dover risolvere per
rendere accettabile il sistema copernicano). Riguardo alla pretesa maggiore semplicità di
questo sistema rispetto a quello tolemaico, essa esiste solo se si considera lo schemino
esemplificativo di cerchi concentrici. In realtà, eliminati gli equanti, occorre anche qui
mantenere epicicli e deferenti per rendere conto delle orbite planetarie che non sono
circolari e la simile complicazione si può osservare dal confronto delle figure seguenti. In A
Da I. B. Cohen.
è rappresentato il sistema tolemaico, in B quello copernicano. Senza entrare in spiegazioni
complesse si vede che nei due sistemi occorre studiare e tener conto di varie circonferenze.
Nella figura seguente si mostra che, in alcuni casi, vi è addirittura identità di trattazione,
previo un mero scambio di ruoli tra Terra e Sole.
Da M. Boas. Nel sistema copernicano C è il Sole centro del sistema; B è la
Terra; E un pianeta esterno. Nel sistema tolemaico C è la Terra; D è il Sole; E
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il centro dell'epiciclo del pianeta; P il pianeta. La linea che congiunge la Terra
al pianeta, nel secondo caso, sarà parallela alla linea che congiunge la Terra al
pianeta nel primo caso. L'angolo tra questa linea e la linea Terra-Sole sarà lo
stesso in entrambi i sistemi. Di conseguenza la posizione apparente del pianeta
è la stessa.
Copernico fu molto ammirato. Gli avevano dato un epiteto non da poco, secondo
Tolomeo. Ma le sue idee non trovarono immediatamente seguaci a parte poche unità di
neoplatonici, oltre Retico, in Germania, Thomas Digges(9) in Gran Bretagna, nessuno in
Francia, Giordano Bruno, Giovanni Battista Benedetti, Francesco Patrizi (ed in genere tutti
i filosofi della natura) in Italia. Non vengono pubblicati commenti, esposizioni e/o
divulgazioni sul sistema di Copernico. Le ragioni di ciò trovano concordi gli storici in due
fattori fondamentali: l'autorità di Aristotele difficile da scalzare e la Rivelazione che crea
una grande paura in tutti ed infatti vi fu l'immediata reazione del domenicano Giovanni
Maria Tolosani, con entrature nel Sacro Palazzo, che mise in guardia contro Copernico (De
veritate Sacrae Scipturae, 1546) e quindi del gesuita padre Clavius (1537 - 1612) del
Collegio Romano (1581) che reiterò i pretesi pericoli delle posizioni copernicane (pur
essendo Clavius un estimatore di Copernico). Tolosani, in particolare, sosteneva che una
scienza inferiore ha bisogno della scienza superiore e Copernico, che risulta abile nella
scienza matematica e astronomica, è difettoso nelle scienze fisiche e dialettiche, ed è
imperito nelle Scritture. Questo testo lo lesse con attenzione il sodale e spregevole
domenicano Tommaso Caccini che nel 1614 si scagliò con violenza contro Galileo e
Copernico.
Le chiese protestanti condannarono subito Copernico ma non intervennero sul piano
dottrinale perché ritenevano evidenti e sufficienti gli argomenti fisici contrari al moto della
Terra (e il fiammingo Simon Stevin lo affermò con chiarezza parlando, sul piano fisico,
delle assurdità e delle complicazioni di Copernico che richiederebbero negli allievi
astrazioni alle quali non sono abituati. Si tenga conto che ciò convinse gli stessi
simpatizzanti di Copernico a continuare ad insegnare Tolomeo). Vi era anche una sorta di
stato d'animo di chi si sente privato di sicurezze. Un conto è pensarsi stabilmente fermi,
altro l'andarsene in giro a grandi velocità in giro per lo spazio. La perdita della centralità per
la Terra e quindi per l'uomo deve aver giocato molto in termini psicologici. Tale centralità
era anche legata all'unicità dell'uomo e quindi del racconto della Genesi. Inoltre questa
costruzione faceva a meno del Primo motore, di quel motore immobile individuato in Dio
che Tommaso aveva sistemato lì. La gerarchia dei costituenti l'universo crolla come sta
crollando l'immutabile gerarchia sociale: la nobiltà ed il celro stanno per cedere
completamente il passo alla borghesia. Tutto ora crollava e da queste macerie si poteva
partire con grande pragmatismo per ricostruire su basi radicalmente differenti. E tal cosa la
scienza riesce sempre a farla perché è nella sua natura ma non può farla la teologia.
GIORDANO BRUNO
Chi scosse la coscienza dell'Europa intera assegnando una valenza molto superiore alla
teoria copernicana, fu Giordano Bruno (1548 - 1600). Non nascondo la mia profonda
ammirazione per questo grande personaggio, uno dei principali sostenitori di tutti i tempi
del libero pensiero contro l'oppressione oscurantista. Di Bruno ho già parlato e scritto molto
e qui dico l'essenziale rimandando a questi scritti che si possono trovare qui e qui, scritti nei
quali vi è anche la biografia di Bruno.
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Il primo grande merito che va ascritto al fecondissimo pensatore di Nola è di aver
propagandato, con forti argomenti e, per la verità, con l'aggiunta di molte idee originali, il
copernicanesimo per tutta Europa. I contributi spettanti a Bruno, nella descrizione
copernicana del mondo, riguardano prima di tutto il problema dell'infinità dell'universo e
della pluralità di mondi e di soli.
Egli prende le mosse da una critica serrata al concetto aristotelico di luogo ed al vecchio
problema dell'ottava sfera. Come abbiamo visto, luogo è per Aristotele il limite adiacente al
corpo contenente. Bruno osserva subito che mettendo insieme i due concetti che vogliono la
finitezza del mondo insieme al fatto che al di là dell'ottava sfera non c'è nulla, si deve
ricavare che il mondo è contenuto dal nulla. Dice Bruno (La cena delle ceneri, Londra
1584):
Se tu dici che non v'è nulla, il cielo, il mondo, certo, non sarà in parte di alcuna
ed aggiunge invece che:
Se il luogo non è la superficie ma un certo spazio, nessun corpo né alcuna
parte del corpo, sia che il medesimo sia grandissimo o minimo, finito o infinito,
sarà senza luogo.
Qual è allora il luogo-spazio per Bruno?
Uno è il loco generale, uno il spacio immenso che chiamar possiamo
liberamente vacuo; in cui sono innumerabili ed infiniti globi, come vi è questo
in cui vivemo e vegetamo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è
raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo... si
diffonde per tutto, penetra il tutto ed è continente, contiguo e continuo al tutto,
e che non lascia vacuo alcuno; eccetto se quello medesimo, come in sito e
luogo in cui tutto si muove, e spacio in cui tutto discorre, ti piacesse chiamar
vacuo, come molti chiamorno.
Ed ancora:
Uno dunque è il cielo, il spacio immenso, il seno, il continente universale,
l'eterea regione per la quale il tutto discorre e si muove. Ivi innumerevoli
stelle, astri, globi, soli e terre sensibilmente si veggono, ed infiniti
raggionevolmente si argumentano. L'universo- immenso ed inifinito è il
composto infinito che resulta di tal spacio e di tanti compresi corpi
Conseguenza immediata di tale concezione di spazio è da una parte il rifiuto della sfera
delle stelle fisse:
Non son più né altramente fisse le altre stelle al cielo, che questa stella, che è
la terra, è fissa nel medesimo firmamento, che è l'aria,
e dall'altra il rifiuto di ogni luogo privilegiato:
dimando se questo spacio che contiene il mondo, ha maggiore aptitudine di
contenere un mondo, che altro spacio sia oltre,
cosicché l'universo copernicano solo per caso è qui e non altrove e quindi non c'è alcun
motivo di considerarlo centro così come nessun altro sole va considerato come centro
dell'universo. Si ha quindi a che fare con un universo infinito e popolato di infiniti mondi.
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In questo universo nessun luogo ha un privilegio particolare rispetto ad un altro. Vi sono
infiniti soli ma vi sono anche infiniti pianeti e tra questi ve ne sono molti popolati.
Certamente questo universo che parte da Copernico, avanza di molto lo spunto da cui era
nato. In esso non c'è più quasi niente della vecchia tradizione aristotelica, neanche le sfere
cristalline su cui erano incastonati i corpi celesti, poiché Bruno, dapprima con
considerazioni diverse e poi da alcune scoperte di comete(10) di Tycho Brache (che
vedremo subito dopo), argomentò l'impossibilità, appunto, della loro esistenza. Non c'è
nulla da dire, le cose sostenute da Bruno hanno un notevole fascino ed una suggestione che
si farà sentire molto, soprattutto dopo le scoperte galileiane col telescopio.
Tra le altre molteplici cose, Bruno mette anche in discussione il fatto che le stelle siano
«fisse». Egli dice:
Quindi accade quello errore, come a noi, che dal centro de l'orizonte, voltando
gli occhi da ogni parte, possiamo giudicar la maggior e minor distanza da, tra,
ed in quelle cose, che son più vicine, ma da un certo termine in oltre tutte ne
parranno equalmente lontane; cossi, alle stelle del firmamento guardando,
apprendiamo la differenza de' moti e distanze d'alcuni astri più vicini, ma gli
più lontani e lontanissimi ne appaiono immobili, ed equalmente distanti e
lontani, quanto alla longitudine ... Dunque che noi non veggiamo mollti moti in
quelle stelle, e non si mostrino allontanarsi ed accostarsi l'une da l'altre, e
l'une all'altre, non è perché non facciano cossi quelle come queste gli lor giri;
atteso che non è raggione alcuna, per la quale in quelle non siano gli medesimi
accidenti che in queste, per i quali medesimamente un corpo, per prendere
virtù da l'altro, debba muoversi circa l'altro. E però non denno esser chiamate
fisse perché veramente serbino la medesima equidistanza da noi e tra loro; ma
perché il lor moto non è sensibile a noi. Questo si può vedere in esempio d'una
nave molto lontana, la quale, se farà un giro di trenta o di quaranta passi, non
meno parrà che la stii ferma, che se non si muove;se punto. Cossi,
proporzionalmente, è da considerare in distanze maggiori, in corpi grandissimi
e luminosissimi, de' quali è possibile che molti altri ed innumerabili sino cossi
grandi e cossi lucenti come il sole e di vantaggio. I circoli e moti di quali molto
più grandi non si veggono; onde se in alcuni astri di quelli accade varietà
d'approssimanza, non si può conoscere, se non per lunghissime osservazioni;
le quali non son state cominciate, né perseguite, perché tal moto nessuno l'ha
creduto, né cercato, né presupposto; e sappiamo che il principio de
l'inquisizione è il sapere e conoscere, che la cosa sii, o sii possibile, e
conveniente", e da quello si cave profitto.
Si osservino le ultime cose" che Bruno dice. Sono significative perché descrivono bene il
«metodo» di Bruno: egli fa un'ipotesi ed attende poi verifiche sperimentali (le
osservazioni); inoltre le osservazioni discendono da preesistenti giudizi e concezioni. Oltre
a ciò Bruno ha modo di negare l'esistenza di ogni sorta di sfera cristallina:
Questi corpi mondani si muovono nell'eterea regione non affissi o inchiodati in
corpo alcuno più che questa terra, che è un di quelli, è affissa.
Infine elimina l'aristotelico «motore immobile» affermando che: «il primo principio non
è quello che muove; ma, quieto ed immobile, da' il poter muoversi».
Bruno era certamente influenzato dalle opere dei grandi dell'antichità classica che proprio
in quegli anni venivano ritrovate in biblioteche in cui erano rimaste sepolte per secoli. Di
questi filosofi egli più volte si trova a tessere le lodi, sostenendo:
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Sono amputate radici che germogliano, sono cose antique che rinvengono,
sono veritadi occulte che si scuoprono: è un nuovo lume che, dopo lunga notte,
spunta all'orizzonte ed emisfero de la nostra cognizione, e a poco a poco
s'avvicina al meridiano de la nostra intelligenza
e certamente il riconoscimento di Bruno servì, come sostiene Kuhn, a scoprire e a spiegare
l'affinità esistente tra la filosofia antica e quella moderna tra l'altro perché "il vuoto infinito
degli atomisti forniva una dimora naturale al sistema solare copernicano o piuttosto a
molti sistemi solari" (Kuhn).
Il riconoscimento dell'affinità propagandata da Bruno servì alla trasformazione del
cosmo copernicano finito in un universo infinito e multipopolato. In questo nuovo universo
si sentiva il bisogno di una nuova fisica e Bruno avvertì ciò cominciando ad argomentare
soprattutto riguardo a problemi cinematici e dinamici a sostegno della Terra in moto intorno
al Sole. Per ciò che ci interessa più direttamente, egli svolse una grossa mole di lavoro,
soprattutto per chiarire e risolvere alcuni problemi che più gli stavano a cuore: quelli che
riguardavano la relatività della posizione, del moto e perfino del tempo e delle lunghezze.
D'altra parte queste convinzioni relativistiche sono alla base anche della sua concezione
dell'universo.
Per Bruno l'affermare l'inesistenza di un centro per l'universo equivale a dire che non c'è
nessun punto in cui si possa dare una descrizione particolare dell'universo stesso. A
soccorrerlo su questa strada erano osservazioni naturali che si potevano effettuare sulla
Terra. Queste osservazioni erano per lo più tratte dalla vita marinara, così come lo saranno
per molti contemporanei, in particolare per Galileo, perché la navigazione aveva avuto
enormi sviluppi in quell'epoca di grandi viaggi.
Secondo Bruno ci possiamo rendere conto di che cosa significa il descrivere in modo
diverso, a seconda di dove lo osserviamo, un avvenimento se solo pensiamo al fatto che da
una barca che corre lungo un fiume sono le rive del fiume che sembrano marciare in verso
opposto. Inoltre quando, di notte, due navi, con mare perfettamente calmo, cambiano la
reciproca posizione c'è impossibile capire quale delle due si stia muovendo. Ciò è
maggiormente vero se è impossibile vedere la costa, ed inoltre, per la verità, non siamo
neanche in grado di dire se tutte e due insieme esse si stiano muovendo. Volendo poi
riguardare le cose più in dettaglio, se ambedue le navi mantenendo fissa la loro posizione
reciproca, si spostano, noi non siamo in grado di percepire questo movimento. In questo
caso il moto e la quiete si equivalgono.
E fin qui le argomentazioni portate sono abbastanza in linea con altri filosofi naturali del
tempo di Bruno. Per quanto riguarda cioè il principio cinematico di relatività non ci sono
problemi che alcuno possa porre. Ma Bruno fa un grande passo in avanti estendendo il
principio di relatività alla dinamica. Questa cosa non era certamente facile perché per la sua
soluzione doveva in qualche modo essere dato il principio d'inerzia. Ma Bruno lo intuì
anche se partendo dalle considerazioni dell'impetus, per cui "la pietra porta con sé la virtù
del motore".
Cerchiamo di capire qual era la difficoltà che Bruno doveva superare.
Secondo la fisica aristotelica ed anche secondo gli scolastici e comunque coloro che
contestavano il copernicanesimo, tutte le esperienze dinamiche che uno può pensare o fare
sulla Terra, portano inevitabilmente ad affermare che la Terra stessa è ferma. E'
evidentemente la dinamica aristotelica priva di principio di inerzia, alla base di questa
erronea conclusione. Bruno parte anche qui da un'osservazione tratta dalla vita marinara.
Egli suppone di avere una nave che marci a gran velocità. Su questa nave un marinaio getta
un grave dall'alto dell'albero maestro. Questo grave cadrà con una traiettoria perpendicolare
al piano della nave, mantenendosi parallelo all'albero, ed andando a finire ai piedi di esso.
Tutto ciò andrà in modo non differente da quando la nave è ferma. Allo stesso modo,
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osserva Bruno, quando la nave, ora vista, è in corsa, se qua1cuno spicca un salto a piedi
pari ricadrà esattamente dove era prima di saltare. In definitiva, secondo Bruno:
le cose che hanno fissioni o simili appartenenze alla nave, si muovono con
quella e se così non fosse, come abbiamo detto: quando la nave corre per il
mare, giammai alcuno potrebbe trarre per diritto qualche cosa da un canto di
quella all'altro, e non sarebbe possibile che uno potesse fare un salto, o
ritornare co' piè, onde li tolse.
Certamente Bruno non possedeva i concetti di moto rettilineo uniforme, di accelerazione
od altro di simile, ma certamente nelle cose ora viste c'è un abbozzo del principio dinamico
di relatività che verrà poi formulato con maggiore precisione da Galileo. Egli comunque
insiste ancora sul concetto che tutti gli oggetti hanno la velocità del corpo che li trasporta
portando un'altra esperienza ideale a sostegno della sua tesi e sviluppando, quindi, con
maggiore precisione i problemi connessi con i moti relativi. Bruno suppone che una barca,
trasportata dalla corrente di un canale, marci velocemente vicinissima alla sponda. Sulla
nave c'è un certo osservatore O e sulla riva un osservatore O'. Ambedue gli osservatori
tengono le braccia tese: O verso la riva e O' verso la nave. Ciascun osservatore ha nella
mano una palla di ferro. Appena O e O' passano a sfiorarsi con le mani, lasciano cadere la
palla di ferro che hanno in mano, in modo che ambedue le palle cadano sulla coperta della
nave. Cosa osserva O dalla nave? La palla che egli ha lanciato è caduta perpendicolarmente
sulla coperta della nave. Mentre la palla lasciata da O' ha seguito, per O, una traiettoria
obliqua tant'è vero che è più indietro rispetto a quella lasciata da O. Pare incredibile, ma qui
Bruno riesce e ribaltare il problema. Con una notevole capacità di persuasione, fa capire che
cambiando punto di osservazione è sulla terra ferma che si hanno deviazioni dalla caduta al
suolo lungo una traiettoria verticale; su una nave, invece, anche se è in moto, le cose vanno
come se essa stesse "ferma". In definitiva per Bruno la palla che O fa cadere non è dotata
solo del moto di caduta ma anche di un moto orizzontale che ha anche quando si stacca
dalla mano perché mantiene "la virtù del motore" e non perché c'è qualche sorta di spinta
che l'aria dà come sosteneva Aristotele.
In definitiva Bruno fu il più grande propagandatore di Copernico per tutta Europa e fu
anche colui che mise in profondo allarme la Chiesa sul potenziale distruttivo per il tomismo
del copernicanesimo. La messa in discussione di un punto di quel sistema avrebbe fatto
crollare tutta la base filosofica colta che sorreggeva la Chiesa medesima e che, in modo
assolutamente incomprensibile, continua ancora a sostenere.
TYCHO BRAHE
Anche per Tycho inizio con una biografia brevissima. Tycho Brahe (1546 - 1601)
nacque a Knudstrop, in Danimarca, nel 1546. È il giovane discendente di una famiglia
nobile e ricca, piuttosto disinteressata alla scienza ed alla cultura in genere (come l'intera
nobiltà danese). Il giovane Tycho invece iniziò subito ad appassionarsi all'astronomia (fu
l'eclisse di Sole del 1560 che lo colpì profondamente) affascinato dall'idea che questa
scienza permettesse di studiare e prevedere i moti dei pianeti. A soli 13 anni, nonostante
l'opposizione della famiglia
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(non era ritenuto degno di un nobile lostudiare) e con l'unico appoggio di uno zio, entrò
all'Università di Copenaghen per studiare lettere. Ma l'eclisse gli fece cambiare idea ed egli
passò subito allo studio dell'Astronomia e di quanto gli poteva servire a sostegno della sua
grande passione. Proseguì i suoi studi a Lipsia, Wittenberg, Rostoch ed a Basilea. Nel 1563
fece la sua prima osservazione celeste importante: la congiunzione Giove - Saturno. Fu
allora che iniziò a rendersi conto della non esattezza delle tavole astronomiche di cui si
disponeva: rispetto alle "Tavole Prussiane" (elaborate da Reinhold) del 1551 questa
congiunzione doveva aver luogo con una differenza di svariati giorni, differenza che
diventava di un mese rispetto alle "Tavole Alfonsine" del XII secolo. Ed in quegli anni altri
studiosi si erano sempre più convinti che occorresse una seria revisione delle tavole
astronomiche. Molti procedettero con correzioni alle tavole esistenti. Tycho invece si rese
conto della necessità di ricominciare a costruire tavole con osservazioni completamente
nuove con tecniche e metodi di osservazione diversi e più accurati. Mentre per Copernico
un errore di 10 minuti era accettabile, per Tycho si inizia a ragionare in termini di frazioni
di minuto e per far ciò non bastano le buone intenzioni ma strumenti molto più avanzati.
Nel 1572 egli osservò una nuova stella nella costellazione di Cassiopea. Ciò gli valse
l'ammirazione ed il successivo sostegno economico del re Federico II. Questi gli regalò una
piccola isola, Hveen, sulla quale finanziò la costruzione di un edificio, Uraniborg,
progettato da Thyco,
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L'isola di Hveen
L'osservatorio di Uraniborg
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L'osservatorio di Uraniborg. Si noti che l'osservatore è seduto su una sedia di marmo fissa al
suolo e che l'osservazione veniva fatta sulla fetta di cielo che andava passandogli davanti
attraverso la piccola fessura in alto a sinistra.
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Due strumenti utilizzati da Thyco
per l'osservazione del cielo. Con le rendita assicuratagli dal re, Thyco, oltre a circondarsi di
una trentina di collaboratori, fece costruire apparecchiature avanzatissime e di grandi
dimensioni, fermo restando che le osservazioni avvenivano ad occhio nudo. Non è che vi
fossero strumenti nuovi dal punto di vista dei principi. Erano appunto le grandi dimensioni
di essi che riducevano di molto gli errori nelle osservazioni (una piccola deviazione di un
millimetro nella lettura di uno strumento si traduceva in errori di vari minuti nella posizione
dell'oggetto osservato). Egli si dotò di un quadrante che aveva un raggio di 6 metri, di una
sfera armillare del diametro di 5,5 metri, di un sestante di quasi due metri di raggio,... Altra
novità era relativa al fatto che gli strumenti erano fissati al luogo dove erano situati, allo
stesso modo che la sedia di marmo che serviva per l'osservazione. Anche della stabilità si
preoccupò Tycho ed in questo senso vari strumenti li sistemò in sotterranei (come
l'osservatorio di Stjerneborg, costruito successivamente da Thyco). L'ostacolo maggiore era
la misura del tempo ed egli si affidò a clessidre a mercurio: il peso del mercurio che usciva
da un piccolo foro gli forniva la misura del tempo. Utilizzò il piombo in polvere ma questo
elemento lo deluse. Fece costruire anche grandi orologi uno dei quali marcava anche i
secondi con la sua ruota principale che aveva un metro di diametro e 1200 denti; il
problema era però la mancanza della conoscenza delle proprietà del pendolo come
regolatore del moto (a questo proposito sarà fondamentale il contributo di Galileo ed
Huygens). L'osservatorio di Uraniborg fu terminato nel 1580 ed in esso Thyco
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L'osservatorio di Uraniborg (castello del cielo) visto dall'alto (da http://www.
vialattea.net )
L'edificio costruito successivamente da Thyco, Stjerneborg (castello delle
stelle) (da http://www.vialattea.net )
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Sezioni dei due laboratori di Thyco (da http://www.vialattea.net )
lavorò incessantemente per 17 anni consecutivi. Durante questo periodo si sposò con una
non nobile, Cristina, e la cosa fu duramente osteggiata da tutta la nobiltà danese. Ma lo
stesso re venne in sostegno di Thyco. E così, con Cristina, Thyco ebbe ben 8 figli. I
problemi di Thyco iniziarono con la morte nel 1588 di Federico II. Molte invidie di nobili
lo costrinsero ad abbandonare il suo osservatorio (1597). Egli si recò in Bohemia dove poté
godere, per poco tempo ancora, della protezione di Rodolfo II che gli trovò una degna
sistemazione a Praga come matematico imperiale. Egli riuscì comunque a portarsi dietro
tutti i suoi manoscritti ed anche parte dei suoi collaboratori, ai quali se ne aggiunsero altri,
tra i quali Kepler. Si spense all'età di 55 anni per essere persona educata che non si alzò da
tavola per non mancare di rispetto, anche se gli era esplosa la vescica.
Scrisse: De Nova et Nullius Aevi Memoria Prius Visa Stella (Copenhagen, 1573); De
Mundi Aetherei Recentioribus Phaenomenis (Uraniborg, 1588); Astronomiae Instauratae
Mechanica (Wandsbeck, 1598); Astronomiae Instauratae Progymnasmata (Praga 1602).
CONTRIBUTI DI THYCO ALLO SVILUPPO DELL'ASTRONOMIA
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Non vi è dubbio che Thyco sarà sempre ricordato per la immensa quantità di
osservazioni fatte con la migliore strumentazione disponibile descritta nella sua Astronomia
instauratae mechanica del 1598 (tra l'altro a lui si deve l'aver riconosciuto per la prima
volta l'influenza della rifrazione atmosferica nelle osservazioni, anche se nello sviluppare
tale concetto mise insieme alcuni errori che nascevano dalla non conoscenza dell'atmosfera
medesima). Queste osservazioni saranno alla base della costruzione delle nuove tavole
astronomiche che saranno pubblicate da Kepler nel 1627 con il nome di Tavole Rudolfine.
Egli, oltre alle osservazioni continue delle posizioni dei vari pianeti, elaborò un catalogo
delle posizioni di quasi 800 stelle. Detto questo vediamo quali furono le idee cosmologiche
di Tycho. Egli partiva da un pregiudizio: la limitatezza dell'universo. Tale pregiudizio,
unito alla non osservazione della parallasse stellare lo convinsero a non accettare il sistema
copernicano. Se infatti l'universo è relativamente piccolo, le stelle sono "vicine" alla Terra
che, secondo Copernico, si muove di moto circolare intorno al Sole. Se il sistema
copernicano corrispondesse al vero, osservando le stelle dalla Terra in posizioni
diametralmente opposte della sua supposta orbita, si dovrebbe avere il fenomeno di
parallasse stellare: osservando cioè le stelle dalla Terra in posizioni diametralmente opposte
della supposta orbita, si dovrebbero vedere proiettate sulla volta celeste in posizioni, anche
se di poco, diverse. Unendo la stella osservata con quelle due posizioni della Terra si
verrebbe a formare un angolo, chiamato di parallasse: Con un universo piccolo, tale angolo
deve essere tanto grande da poter essere misurato. Tycho non riuscì a misurarlo e ne
concluse che la Terra è ferma. Il problema stava nella enorme distanza di una stella che
rendeva quell'angolo così piccolo da non poter essere apprezzato dagli strumenti di cui
Tycho disponeva. Occorreranno altri 300 anni perché una tale parallasse potesse venir
misurata. Per ammettere la non osservazione della parallasse bisognava ammettere che la
distanza delle stelle dalla Terra fosse stata 700 volte la distanza tra Saturno ed il Sole, cosa
che a Tycho sembrò impossibile. Questo fatto lo portò ad elaborare un nuovo sistema
astronomico, ibrido tra quello tolemaico e quello copernicano. La Terra risulta immobile al
centro dell'universo mentre la Luna ed il Sole gli girano intorno. I pianeti, invece, ruotano
tutti intorno al Sole (vedi figura). Un tale sistema ebbe scarso successo ma servì in qualche
modo a far comprendere meglio quello copernicano e risultò l'ultima spiaggia per chi
proprio non voleva abbandonare il sistema tolemaico.
Il sistema tychonico (da http://www.vialattea.net )
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Il sistema tychonico
È interessante anche qui vedere quali sono i motivi che Tycho addusse contro il moto
della Terra, oltre quello per lui probante della non osservazione della parallasse. Intanto la
sua fede nella Bibbia era ferrea. Inoltre non riusciva a concepire "una Terra grave e pigra
muoversi nello spazio". Vi era poi la questione degli oggetti lasciati cadere da una torre che
proprio non volevano saperne di discostarsi dalla verticale. Ed infine il fatto che egli non
riusciva proprio a concepire i tre moti che la Terra avrebbe dovuto avere secondo
Copernico. Vediamo invece dove un tale sistema aiuta all'affermazione di quello
copernicano. Si può subito rendersi conto che nel suo sistema astronomico l'orbita del Sole
interseca quelle di Mercurio, Venere e Marte. Ciò comporta in ogni modo la distruzione
delle sfere cristalline aristoteliche dove tali pianeti sarebbero stati incastonati. Egli si rende
conto di ciò e sarà il primo a trasformare il significato del termine latino 'orbis' da quello di
sfera a quello di orbita. Questo fatto non è per nulla banale, ma dirompente. Infatti le sfere
cristalline sostengono i pianeti a determinate distanze relative; quando le sfere vengono
meno cos'è che sorregge i pianeti ? A partire da questo momento è aperto il problema
dell'individuazione delle forze che agiscono nella dinamica planetaria. Un appunto solo
prima di terminare con Tycho è relativo agli oroscopi, a quella pratica che ha riguardato e
riguarderà la maggior parte degli astronomi dell'antichità. Egli sosteneva, a sostegno di essi
che: "Il Sole, la Luna e le stelle bastano per i nostri usi. Sarebbe inutile mettere insieme i
pianeti in una marcia maestosa, regolati da loro belle leggi, se non avessero un'utilità
propria e diretta che è l'oggetto dell'astrologia". In altra parte sostiene che anche le comete
devono avere una qualche influenza sulle vicende terrene, perché la natura non fa nulla
invano. Infine avanza la strana idea che le stelle hanno la virtù di stimolare le forze dei
pianeti.
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Un oroscopo fatto da Thyco
Nello stesso anno della morte di Tycho, Kepler scriveva al suo amico Maestlin (20
dicembre 1601) dicendo:
L'opera più importante di Tycho sono le sue osservazioni, altrettanti grossi
volumi che annate impiegate in questo lavoro [...] Puoi vedere in qual modo
Dio dispensi i suoi doni. Nessuno può tutto. Tycho ha fatto come Ipparco, ha
gettato le fondamenta dell'edificio e ha compiuto un lavoro enorme. Questo
Ipparco aveva bisogno di un Tolomeo che edificasse, su quella base, le teorie
degli altri cinque pianeti. Io l'ho fatto mentre egli era ancora in vita.
JOHANN KEPLER
Kepler (1571 - 1630) nacque a Weil der Stadt in Württemberg nel 1571. La sua famiglia
era protestante e di modeste condizioni economiche. Dal 1579 studiò a Tubinga dove
divenne un seguace di Copernico. La tentazione dell'epoca di seguire una carriera
ecclesiastica fu rifiutata da Kepler perché si rese immediatamente conto della ristrettezza
delle visuali del clero luterano. Scelse lo studio della scienza accettando (1594) l'incarico di
soprintendente di matematica della Stiria ed insegnò a Graz (ma sembra che la matematica
non fosse il suo forte: gli alunni disertavano le sue lezioni), "arrotondando", come quasi
tutti gli astronomi dell'epoca, facendo oroscopi e predizioni (e poiché qualche predizione si
avverava, venne preso in considerazione come buon astrologo).
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Nel 1595, all'età di 24 anni, pubblicò la sua prima opera, il "Mysterium
Cosmographicum", con la quale credette di aver svelato i segreti del sistema planetario. In
realtà ciò che aveva fatto era la scoperta che vi sono una mole di ragioni per abbandonare il
sistema tolemaico e per abbracciare quello copernicano, ragioni però molto tecniche che
non rappresentavano comunque alcuna "prova", almeno agli occhi del grande pubblico. Il
Mysterium fu mandato sia a Tycho che a Galileo ma aveva un grave difetto, soprattutto se
visto con gli occhi di un personaggio che è uscito dalle pastoie del misticismo, della
numerologia, della magia, dell'animismo e dell'ermetismo: è intriso di tutte le cose dette in
modo esasperato, tanto che oggi ci vuole davvero uno sforzo di ottima volontà a rintracciare
i contributi scientifici originali, che pure vi sono. Un esempio lampante di ciò che dico è il
breve rapporto epistolare che Galileo intrattenne con Kepler. Si scrissero nel 1597 (mentre
Galileo si trovava a Padova); ambedue confidarono il loro essere copernicani; Kepler
apertamente, Galileo titubante perché non si azzardava ad avanzare una qualche teoria
senza avere delle sensate esperienze e dimostrazioni a sostegno di essa. Ma la lettura di
queste lettere, specialmente quella di Galileo a Kepler dell'agosto 1597 (in cui Galileo si
mostra entusiasta del lavoro di Kepler) e quella di Kepler a Galileo dell'ottobre dello stesso
anno, mostra due caratteri diversi, Galileo che faticosamente tentava di uscire dal 1500,
Kepler che, pur muovendosi con idee "moderne", era pienamente impantanato in quel
clima. Sta di fatto che Galileo provava quasi fastidio a leggere gli scritti del suo collega,
noiosi, contorti, difficili e prolissi, scritti dai quali si faceva una enorme fatica a ricavare
qualcosa di utile. Vi sono inoltre moltissimi calcoli errati che poi si sistemano
compensandosi fortunosamente. La differenza tra i due si nota facilmente leggendo un
qualunque brano di Kepler e confrontandolo con un qualunque brano di Galileo. E questo
anche per rispondere a qualche critico che, oggi, rimprovera a Galileo di non aver tenuto
conto dell'ellitticità delle orbite planetarie che Kepler aveva scoperto.
Ma veniamo ad alcune delle cose che fanno da spessa cornice ai contributi scientifici di
Kepler. Innanzitutto la mistica dei numeri governa il mondo. Si tratta di immaginare un
mondo di orbite che si incastrano alternativamente con i cinque solidi regolari (vedi figure).
Si inizia con la sfera di Saturno che è circoscritta ad un cubo; nel cubo è inscritta la sfera di
Giove che, a sua volta, è circoscritta ad un tetraedro; questo tetraedro è circoscritto alla
sfera di Marte che, a sua volta, è inscritta in un dodecaedro; al dodecaedro, per
circoscrizioni ed inscrizioni successive, segue la sfera della Terra, l'icosaedro, la sfera di
Venere, l'ottaedro, la sfera di Mercurio, quindi il Sole al centro dell'intero sistema (si
osservi che, per permettere l'eccentricità delle orbite ellittiche che Kepler scopre, occorre
ammettere che ogni sfera abbia uno spessore tale da poter contenere appunto l'eccentricità
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dell'orbita).
Dal Mysterium Cosmographicum (II edizione, Tubinga 1597). In
alto a destra è riportata in dettaglio la parte più interna della
figura grande.
Un disegno che mostra le successive inscrizioni di solidi regolari e sfere
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Da Harmonices mundi
I conti, con i dati osservativi di Copernico e, soprattutto, con l'enorme mole di quelli di
Tycho, gli tornavano in modo abbastanza approssimato. È poi interessante osservare che
anche numero di pianeti e di solidi erano in accordo. Ancora non si conoscevano i pianeti al
di là di Saturno. E mentre i pianeti sono cresciuti di numero, i solidi regolari sono restati 5.
Ma tant'è. Egli diceva:
Io mi impegno a dimostrare che Dio, nel creare l'Universo e nel regolare
l'ordine del cosmo, aveva in vista i cinque corpi regolari della geometria, così
come sono conosciuti dai tempi di Pitagora e Platone, e che Egli ha stabilito,
in accordo con le loro dimensioni, il numero dei cieli, le loro proporzioni e le
relazioni dei loro movimenti.
Ed in accordo con Pitagora e Platone vi è una visione dell'Universo intrisa di misticismo.
Il Sole è Dio Padre e per questo merita di stare al centro dell'Universo; la Sfera delle stelle è
il Figlio mentre l'Etere, attraverso cui lo spirito del Sole muove i pesanti pianeti, è lo Spirito
Santo. Inoltre, riprendendo temi che già erano stati di Hermes Trismegisto e Marsilio
Ficino, afferma:
Il Sole è il corpo più bello, è l'occhio del mondo. In quanto fonte della luce o
lanterna risplendente, adorna ed abbellisce gli altri corpi del mondo... Per
quanto riguarda il calore, il Sole è il focolare del mondo... La sfera delle stelle
fisse trattiene il calore affinché non si disperda ed è simile ad una parete, ad
una pelle o ad un abito del mondo... Il Sole è l'unico luogo che noi
giudicheremmo degno di Dio altissimo, qualora egli si compiacesse di avere
una dimora materiale e scegliesse un luogo in cui abitare con gli angeli
benedetti... Il Sole è l'unico luogo degno di diventare la casa di Dio.
Ma i numeri e la geometria forniscono a Kepler argomenti contro l'infinità dei mondi
sostenuta da Bruno. Dice Kepler:
La geometria è una ed eterna, splendente nella mente di Dio... Nella geometria
poi, dopo la sfera vi è una famiglia di figure che è la più perfetta di tutte,
quella dei cinque corpi solidi euclidei. Ebbene questo nostro mondo planetario
è disposto secondo la regola ed il modello di questi solidi [descritti più su]... A
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quale scopo sarebbero infiniti, se ciascuno racchiudesse in sé ogni perfezione
[come questo nostro] ?"
Il Libro V di "Harmonices Mundi", che Kepler pubblicò nel 1619 e che contiene
l'enunciato della sua terza legge, ha questo indice:
1 - Sulle cinque figure solide regolari.
2 - Sulle affinità tra esse ed i rapporti armonici.
3 - Compendio sulla dottrina astronomica necessaria per speculare sulle
armonie celesti.
4 - In quali cose pertinenti ai moti planetari le semplici consonanze sono state
espresse e che tutte quelle consonanze che sono presenti nel canto si trovano
nei cieli.
5 - Che le chiavi della scala musicale, o gradi del sistema, e i generi delle
consonanze, il maggiore e il minore, sono espressi in certi moti.
6 - Che i singoli Toni e Modi musicali sono in qualche modo espressi dai
singoli pianeti.
7 - Che i contrappunti o armonie universali di tutti i pianeti possono esistere
ed essere diversi l'uno dall'altro.
8 - Che i quattro tipi di voci sono espressi nei pianeti; soprano, contralto,
tenore e basso.
9 - Dimostrazione che al fine di garantire questa armonica disposizione, quelle
vere eccentricità planetarie che qualunque pianeta ha come proprie, e non
altre, devono essere stabilite.
10 - Epilogo relativo al Sole, per mezzo di molto fertili congetture.
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Una pagina di Harmonices Mundi
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Un oroscopo fatto da Kepler
E tutta questa impalcatura musicale gli serve per mostrare che i pianeti ruotando intorno
al Sole, cantano le lodi del Signore. È un canto eterno ed intonato. Noi non riusciamo a
sentirlo ma esso è dato dai rapporti speciali che esistono tra velocità e distanze dei pianeti
dal Sole. Ogni pianeta ha una sua melodia (vedi figura) e la Terra, in particolare percorre la
sua orbita intonando eternamente un MI-FA-MI e da questo Kepler conclude che "da
questo si può capire che la MI-seria e la FA-mine regnano dovunque in questo mondo".
La scrittura delle note da parte di Kepler in Harmonices Mundi
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Da I. B. Cohen. La traduzione delle note precedenti nei simboli a noi noti.
L'universo di Kepler resta finito e sostanzialmente aristotelico, nonostante le
fondamentali novità introdotte e di cui dirò alla fine di questo scritto.
Concludo questa parte relativa al tormentato misticismo di Kepler con due
considerazioni che fece nel 1610 quando fu informato della scoperta di Galileo dei satelliti
di Giove. Inizialmente ebbe un sussulto ed esclamò: "Che abbia avuto ragione Bruno?".
Quindi scrisse: "Perché [tali satelliti] dovrebbero ruotare intorno a Giove se su questo
pianeta non vi è nessuno a contemplare tale spettacolo?".
Ma torniamo alla succinta biografia del nostro astronomo. Lo avevamo lasciato con la
pubblicazione del Mysterium nel 1595. Nel 1598 l'Arciduca Ferdinando d'Austria, dopo un
pellegrinaggio a Loreto, iniziò una campagna di persecuzione contro i protestanti. Kepler,
cacciato dalla Stiria, fuggì e si rifugiò a Praga, luogo dove Tycho esercitava come
matematico imperiale al servizio di Rodolfo II di Bohemia. Nel 1600 Tycho lo chiamò a
Praga perché gli facesse da assistente. Un anno dopo Tycho moriva e lasciava a Kepler
l'enorme eredità di tutti i suoi manoscritti di dati osservativi. Nel 1602, Rodolfo II lo
nominò al posto di Tycho (alla cui memoria fu sempre fedele, anche se Galileo non si
mostrò d'accordo con questo).
A parte una piccola opera di ottica del 1604 (Ad Vitellionem paralipomena), Kepler
lavorava intensamente ad elaborare i dati di Tycho e nel 1609 pubblicò Astronomia Nova
αιτιολογητος seu Physica coelestis (la parola greca che è nel titolo significa che egli non
si accontenta di una descrizione cinematica ma intende ricercare anche le cause che
producono i fenomeni celesti), opera nella quale, dallo studio delle posizioni di Marte,
ricava le prime sue due leggi (orbite ellittiche e costanza della velocità aereolare) solo in
questo ambito ristretto.
(1ª legge) Le orbite dei pianeti sono delle ellissi di cui il Sole occupa uno dei
due fuochi (questa legge fu stabilita da Kepler nel 1605).
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(2ª legge) Le aree spazzate dal segmento che unisce un pianeta con il Sole
(raggio vettore) sono proporzionali ai tempi impiegati a spazzarle (questa
legge fu la prima ad essere trovata da Kepler nel 1602).
E' interessante notare che Kepler studiò per molti anni i suoi dati su Marte perché le
osservazioni non si accordavano con nulla ed in particolare facevano vacillare per intero il
sistema di Tycho. Ma la sua guerra con Marte la vinse proprio con la scoperta delle due
leggi precedenti. Fu successivamente che Kepler si rese conto che queste leggi
funzionavano bene anche per gli altri pianeti, con il riconoscimento della correttezza non
già del sistema di Tycho ma di quello di Copernico. Riguardo alla scoperta delle orbite
ellittiche, le cose stanno pressappoco così. Kepler aveva iniziato con criticare Copernico per
non aver fatto coincidere il centro dell'universo con il Sole. Egli riteneva che la forza che
muoveva i pianeti provenisse da lì e quindi quello dovesse essere il centro. Ma con alcune
misure si rese conto che il centro esatto non era il Sole S ma un centro C spostato (poi
individuato come uno dei fuochi dell'ellisse). A questo punto Kepler credeva ancora ad un
orbita circolare. Ma i dati lo portavano a sistemare il centro della circonferenza in C e non
in S. Il problema era il seguente: perché i pianeti ruotano intorno a C se la forza che li
muove procede da S ? Fu qui che Kepler escogitò la soluzione, supponendo che ogni
pianeta fosse soggetto a due influenze
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contraddittorie: da una parte la forza del Sole ed un altra che doveva essere localizzata nel
medesimo pianeta. La concomitanza delle due influenze faceva sì che il pianeta alcune
volte si avvicinava ed altre si allontanava dal Sole. Proseguendo in queste considerazioni e
con la convinzione che dal Sole emana la forza principale che muove i pianeti, esso doveva
agire con maggiore forza sul pianeta quando esso era più vicino e minore quando era più
lontano con conseguenze sulle velocità del pianeta, maggiori a più piccola distanza e
viceversa. E furono queste ultime considerazioni che Kepler poté verificare con le
osservazioni, dalle quali uscì fuori per prima la seconda legge. E questo sembrava più
accettabile della distruzione delle circonferenze, anche se, lungo il lungo cammino della
Astronomia Nova, alla fine del capitolo 44, deve ammettere che l'orbita di Marte è ovale. E
su questo ovale lottò ancora mesi. Finché il 4 luglio 1603 non scrisse all' amico Fabricius
queste parole: se la forma fosse semplicemente una ellisse perfetta, tutte le risposte
potrebbero stare nei lavori di Apollonio ed Archimede. Ma dovette ancora lavorare molto
per riuscire a trovare una legge matematica che descriveva il moto di Marte intorno al Sole.
Ci riuscì dopo anni di interminabili calcoli anche se non si rese conto che quella formula
descriveva proprio un'ellisse. Per ironia della sorte questa formula fu rifiutata da Kepler che
fece tabula rasa di tutto e ricominciò i suoi calcoli a partire dall'ipotesi che l'orbita fosse
ellittica ! Dopo altro periodo di lavoro (in totale 4 anni) si accorse che dove era arrivato era
proprio a quella formula che aveva rifiutato.
Nel 1610 scrisse Dissertatio cum Nuntio Sidereo. Accoglieva con entusiasmo i lavori di
Galileo ma, come già detto, non lo convincevano i satelliti di Giove. Sempre nello stesso
anno, nella "Narratio", dopo varie osservazioni al telescopio, darà ragione completa a
Galileo.
Nel 1611 scrisse la Diottrica.
Nel 1615 scrisse la Stereometria doliorum, un trattato sulla cubatura delle botti che darà
un certo impulso a ricerche di analisi infinitesimale.
Tra il 1618 ed il 1620 pubblicò il ponderoso Compendio di astronomia copernicana nel
quale estese le sue due prime leggi a tutti i pianeti. È da notare che questo libro sarà messo
all'Indice nel 1632, in occasione del Processo a Galileo. Solo nel 1821 fu tolto da tale
Indice.
Nel 1619 pubblicò un trattato sulle comete ma, soprattutto, le Harmonices Mundi in cui è
enunciata la sua terza legge che mette in relazione periodi di rotazione dei pianeti intorno al
Sole con distanze di essi dal Sole medesimo.
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(3ª legge) I quadrati dei tempi T, impiegati dai pianeti a percorrere la loro
orbita, sono direttamente proporzionali ai cubi dei semiassi maggiori delle
ellissi descritte dai pianeti.
Nel 1627 pubblicò le Tavole Rudolfine, che sostituiranno definitivamente le precedenti e
che per circa 100 anni saranno la bibbia di astronomi e naviganti. Quest'ultima opera vide la
luce ad Ulm. Prima che in questa città egli aveva soggiornato a Linz ma anche da lì dovette
fuggire a seguito di ulteriori persecuzioni di protestanti da parte dei cattolici. Le
peregrinazioni che dovette affrontare in quell'epoca per tentare di vedere riconosciuti dei
suoi diritti gli minarono la salute. Si spense nel 1630 a Regensburg (Baviera). Ma qui già
siamo in epoca moderna nella quale opera o sta per operare: Galileo, Descartes, Huygens,
Leibniz, Newton, .... Dal Seicento la scienza ricomincia ad acquistare autorità e a diventare
motore di progresso civile e morale nonostante gli ostacoli, a volte criminali, delle varie
chiese del mondo.
È doveroso ricordare che Kepler contribuì molto ad eliminare dal sistema copernicano
molte difficoltà e stonature che rappresentavano ancora un retaggio delle filosofia
aristotelica e della cosmologia tolemaica. Come Tycho mise in dubbio l'esistenza delle sfere
che sostengono i pianeti e iniziò a parlare di "orbite" ed aggiunse anche il fatto che
nell'universo non si hanno moti uniformi. Fu il primo a capire che era necessario
individuare una causa che rendesse conto di questo moto dei pianeti su determinate orbite,
oltre ad aver capito (ed iniziato con ciò ad eliminare le pitagorico-platoniche circonferenze)
l'esistenza di orbite ellittiche.
PRIMI PASSI IN FISICA
La fisica è il capitolo della scienza che più tarda ad affermarsi svincolato da certe
tradizioni aristotelico scolastiche. Inoltre, tale capitolo non godeva di importanti eredità
dalla scienza classica: escludendo Archimede si aveva a che fare piuttosto con dei tecnici.
Vi erano, comunque e come abbiamo visto, varie insoddisfazioni relative alla fisica di
Aristotele ma quell'edificio era impressionante per come era tenuto insieme in modo solido.
Sembrava inattaccabile,m soprattutto da quando era diventato un quasi dogma per la
Chiesa. I tentativi fatti di qualche cambiamento riguardavano o fenomeni nuovi che
Aristotele non aveva potuto prevedere o elaborazioni marginali o il problema del moto con
tutto ciò che oggi conosciamo come cinematica e dinamica (gli sviluppi dei concetti di
massa e peso li ho trattati qui). Su quest'ultimo capitolo la cosa più importante che era stata
fatta riguardava la teoria dell'impetus, quindi la messa in discussione del concetto
aristotelico di luogo, la prima affermazione della relatività del moto, la scoperta di alcuni
teoremi di statica e cose del genere.
Durante il Cinquecento vi è ancora molto poco da dire sulle novità in fisica le quali
riguardano ancora gli argomenti che ho accennato (lo sviluppo storico dell'ottica l'ho
trattato qui). E' evidente che occorrerà aspettare il Seicento, la ricaduta impressionante del
lavoro di Copernico che, come ho accennato, descriveva un universo differente senza
preoccuparsi del rivolgimento completo che ne conseguiva proprio in termini di fisica. Più
il sistema copernicano si faceva strada, più non si capivano bene le leggi del movimento, e
neanche se dovessero esservi o no delle leggi. Prima era tutto finalizzato ed ordinato, ora si
aprivano abissi di ignoranza su tutto. Davvero non si capiva da che parte cominciare a
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descrivere il mondo circostante; era chiara solo la lezione del fare molta attenzione
all'empirismo ingenuo. Sarà Galileo che indirizzerà lo studio della natura su binari certi a
partire dai problemi che la stessa astronomia poneva.
I contributi cinquecenteschi alla meccanica sono alcune cose degli italiani Tartaglia,
Cardano, Dal Monte, Commandino, Maurolico e Benedetti (11) e del fiammingo Stevin.
Nel 1537 Nicolò Tartaglia nel suo libro Nova Scientia, occupandosi di problemi di
meccanica e balistica si convinse che la traiettoria di un proiettile risulta curva fin da
quando il proiettile lascia la bocca che lo ha sparato, aprendo la strada al problema della
composizione dei movimenti. La visione affermata in precedenza era nota come tripartita:
tre momenti distinti del moto del proiettile, come mostrato
in figura. Per Tartaglia il moto violento, quello della prima fase, si incurva a causa della
pesantezza del proiettile, fin dall'inizio anche se tale curvatura non riusciamo ad apprezzarla
ad occhio. Se così non fosse, nella traiettoria tripartita avremmo a che fare con pezzi di
traiettoria rettilinea che, con un angolo, lascia spazio alla
successiva traiettoria rettilinea, una spezzata, insomma. In definitiva Tartaglia richiede che
la curva che descrive il moto del proiettile sia continua. Egli resta nell'alveo della tradizione
ma non così il modo di presentare le cose che, per la prima volta, subiscono un trattamento
di tipo geometrico, alla Euclide. Inoltre egli rifugge da dibattiti filosofici per rivolgersi a
coloro che operavano praticamente con le questioni oggetto di discussione.
Nel 1580 Giovanni Battista Benedetti (1530 - 1590) introdusse il concetto di forza
centrifuga in meccanica, dimostrando che un corpo ruotante, lasciato a se stesso, si sposta
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in linea retta secondo la tangente della traiettoria circolare. Nel far questo fece un grande
sforzo di matematizzare le cose che studiava. Più tardi, nel 1585, nel Diversarum
speculationum mathematicarum et phvsicarum liber, dimostrò l'indipendenza della velocità
di un grave dal suo peso, spiegando l'accelerazione di un corpo cadente con una serie di
successivi impeti. Nel far questo mette in discussione le concezioni assolute di Aristotele su
peso e leggerezza, sostituendoli con la relatività di peso e leggerezza in funzione della
densità dei corpi e del mezzo in cui si trovano. Qui sentiamo chiaramente gli influssi di
Archimede che permettono di superare le concezioni di Aristotele. Benedetti è un fiero
sostenitore dell'impetus (da lui modificato come qualcosa che esiste in linea retta e non su
moti circolari nei quali l'impetus si ritrova solo nell'andarsene un oggetto per la tangente) ed
un avversario delle concezioni aristoteliche del moto: il mezzo è sempre un ostacolo e mai
un sostegno al moto. Più in generale, per Benedetti la critica ad Aristotele è soprattutto su
una cosa: il non aver capito la fondamentale importanza della matematica, un fondamento
indistruttibile, nella descrizione della natura. Senza la matematica non si hanno dei
riferimenti precisi e, ad esempio, non si capisce se un corpo in caduta acceleri nella misura
in cui si avvicini alla meta o nella misura in cui si allontani dal punto di partenza. Insomma
Aristotele ha sbagliato tutto con la sua teoria del moto ed ha fatto un errore più grande di
tutti negando il vuoto per l'impossibilità di moto o per un moto a velocità infinita in esso. Il
moto si avrebbe ugualmente e tale moto sarebbe solo aiutato di quella parte che ora occorre
sottrarre come resistenza del mezzo in cui l'oggetto si muove. E la sua critica si estende alla
teoria dei luoghi naturali di Aristotele, teoria che comporta la sua falsa cosmologia che
prevede inoltre un universo finito. Perché Aristotele dice queste cose false ? Perché non
apprezzava la matematica e non capiva il carattere attuale dell'infinito. Se si dispone, infatti,
di un segmento esso può essere iterativamente diviso a metà e ciò vuol dire che la
molteplicità dell'infinito è tanto reale come quella del finito. Insomma, si vede che siamo
già vicini al nuovo secolo. E' lontano Aristotele tanto quanto è vicino Galileo.
Nel 1586 il fiammingo Simon Stevin (1548 - 1620) nei Principi di statica enuncia la
teoria del piano inclinato (già indagato da Nemorario) e del parallelogramma delle forze,
fondamenti della statica moderna. E' famoso l'apparato di Stevin a proposito dell'equilibrio
sui piani inclinati. Stevin lavorava alla costruzione di dighe, fortificazioni, mulini ad acqua.
Per il suo lavoro erano indispensabili macchine che fossero in grado di alzare grandi pesi.
Stevin cercò di trovare una macchina che realizzasse il moto perpetuo. Per eliminare ogni
facile ironia occorre dire che all'epoca non vi era
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nulla di teorico che impedisse di pensare tale cosa. Non siamo a conoscenza degli apparati
che costruì per realizzare la sua impresa ma, è certo, egli seppe trarre vantaggio dagli
insuccessi iniziando con l'accettare l'impossibilità del moto perpetuo e quindi ricavando da
un apparato che avrebbe potuto dare moto perpetuo, le leggi del massimo che si sarebbe
potuto ottenere e cioè l'equilibrio. Egli realizzò così due piani inclinati poggianti sullo
stesso piano e con medesima altezza, tali che messi insieme avessero formato un prisma
triangolare. Appoggiò sul sistema una catena chiusa con pesanti maglie in grado di
scivolare con pochissimo attrito lungo i due piani inclinati. A prima vista sembrerebbe che
la catena dovrebbe scivolare sulla sinistra della figura perché lì vi è maggiore peso (12
maglie invece di sei). Se ciò avvenisse avremmo realizzato il moto perpetuo perché sempre
sulla sinistra vi sarebbero il doppio delle maglie che a destra. Stevin ebbe a scrivere wonder
en is gheen wonder (un meraviglia che non meraviglia). Si era reso conto che il peso delle
maglie opera tanto meno quanto minore è l'inclinazione del piano. Pertanto i pesi sistemati
su piani inclinati si mantengono in equilibrio se sono proporzionali alle lunghezze dei piani.
Se uno dei piani è perpendicolare alla base, allora il tratto verticale di catena rappresenta la
forza che mantiene in carico sopra il piano obliquo: la forza sta quindi al carico come
l'altezza del piano inclinato alla sua lunghezza. Questa conclusione è molto importante.
Elaborandola si arriva alla regola del parallelogrammo delle forze che Stevin formulò nel
1585 (vedi tratta da Stevin) ma che dovette attendere il 1687 (Varignon) per averne una
formulazione moderna.
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Nella sua Statica, Stevin si occupò anche delle condizioni di equilibrio della leva
riconducendole a quelle di una bilancia a bracci uguali. Un prisma retto omogeneo viene
supposto sospeso per il suo centro (vedi figura), che è nello
stesso tempo il suo centro di gravità, T. È evidente che sarà in in equilibrio. Dividiamolo
mentalmente in sei parti uguali con le rette AD, FG, GH, IK, LM, VO, BC. Uniamo, ancora
mentalmente, le quattro parti di sinistra e le due parti di destra: i loro centri di gravità
rispettivi saranno in S e in X. Sostituiamo ciascuno di tali corpi con un peso uguale sospeso
al centro di gravità di ciascuno, questi essendo uniti da una sbarra rigida: l'equilibrio non ne
sarà modificato. Ora, la distanza che separa T da S e da X è inversamente proporzionale ai
pesi sospesi. E questa proposizione ha valore generale qualunque sia la forma dei corpi in
questione o la maniera in cui sono sospesi alla rigida della bilancia.
Stevin è anche noto per essersi occupato di idrostatica e sempre con lo stesso spirito,
quello della ricerca delle condizioni di equilibrio. Nel 1605 dimostrò che la pressione di un
liquido sul fondo di un recipiente è indipendente dalla forma del recipiente e proporzionale
al peso specifico del liquido (paradosso idrostatico).
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I lavori di Stevin avrebbero avuto certamente attenti lettori se solo fossero state scritte in
lingua diversa dall'olandese che per il suo sciovinismo (la ritiene la lingua più antica del
mondo e la più adatta a scrivere di scienza) egli si ostina ad utilizzare. Purtroppo, oltre a
questo inconveniente le sue opere furono pubblicate molto tardi tra il 1605 ed il 1608 ed
addirittura dopo la sua morte (1634) in traduzione francese.
Nell'ultimo quarto del Cinquecento iniziarono anche i contributi di Galileo, fortificazioni,
meccaniche, compasso geometrico, bilancia idrostatica... ma vanno tutti nel senso delle
cose ora dette: contributi importanti ma non significativi. Non vi sono novità d'interesse e
comunque tali da meritare una trattazione dettagliata. Con il nuovo secolo, con i lavori del
Galileo copernicano, inizia il fondamento della nuova fisica. Ma di tutto questo ho trattato
già abbondantemente in altre pagine che si possono trovare in questo indice, dove tra l'altro
si possono trovare le opere di Giordano Bruno, tutte le opere di Galileo compresa la sua
corrispondenza.
All'articolo precedente.
NOTE
(1) Questi aspetti sono stati studiati in dettaglio nel mio Religione, magia e scienza nel
Rinascimento italiano.
(2) Riferendoci alla figura la costruzione si fa nel modo seguente. Dato il segmento AB si
tracci il cerchio di pari diametro e tangente ad esso in B, quindi la secante
per A passante per il centro C del cerchio. La parte esterna della secante (AE) è la sezione
aurea del segmento, essendo la tangente (AB) media proporzionale tra l’intera secante (AD)
e la sua parte esterna (AE) [per il teorema della tangente e della secante che si trova in
Euclide, Elementi, Libro III, Proposizione 36]. Essendo poi ED = AB e per le proprietà
delle proporzioni (scomponendo ed invertendo) risulta:
AD : AB = AB : AE
=>
=> (AD - AB) : AB = (AB - AE) : AE
AS : AB = SB : AS
=>
=>
AB : AS = AS : SB
e l'ultima espressione è proprio quella che ci fornisce la divina proporzione.
Osservo a parte che esempi di divina proporzione ve ne sono in natura e nella musica.
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(3) Riporto qui i contributi di vari matematici noti e meno noti con le loro opere fino alla
metà del Seicento in modo da fornire un minimo quadro d'insieme dello sviluppo della
matematica, anche se il mio lavoro si fermerà alla fine del Cinquecento. Alcuni dei
matematici qui citati, per l'interesse che hanno ai fini di questo lavoro, li riprenderò
diffusamente nel testo.
- 1484. La più antica notazione del segno delle radici quadrate e cubiche con
l'indice che le determina compare nel trattato di Nicolas Chuquet (1445-1500),
francese, intitolato Le triparty en la science des nombres. Vi compare anche la
prima idea di logaritmo come confronto tra una progressione aritmetica e una
progressione geometrica.
- 1489. Jobann Widmann (1460-?), tedesco, nell' Aritmetica mercantile fa uso
per la prima volta dei segni + e - per indicare eccesso e difetto.
- 1505. Nel trattato di trigonometria De triangulis per maximorum circulorum
segmenta constructis, il tedesco Johann Werner (1468-1528) enuncia le
formule per trasformare in un prodotto la somma o la differenza di due coseni
(formule di prostaferesi).
- 1515. Scipione Dal Ferro (1465-1526), in una lettera a Pompeo Bolognetti,
indica il metodo per risolvere un caso particolare di equazione cubica.
- 1518. Heinrich Schreiber (1496- ?), tedesco, in un trattato di aritmetica
abbandona la considerazione generale della duplicazione e della bisezione
come speciali operazioni, intendendole come casi speciali della moltiplicazione
e divisione.
- 1525. Albrecht Dürer (1471-1528), celebre pittore tedesco, nelle Istituzioni
geometriche si avvale per la rappresentazione di poliedri regolari non solo della
prospettiva, ma anche dello sviluppo su un piano.
- 1526. Girolamo Cardano (1501-1576) scrive a Padova il trattato De Ludo
Aleae, sui giuochi d'azzardo.
- 1527. Il triangolo aritmetico dei coefficienti delle potenze del binomio è
stampato sul frontespizio della 1ª edizione di un'Aritmetica del matematico
tedesco Petrus Apianus (1495-1552).
- 1530. Christopher Rudolf (? -1552), tedesco, in una raccolta di problemi
aritmetici insegna che la divisione di un numero per 10 e 100 si può
agevolmente effettuare collocando una virgola in posizione opportuna e
introduce per disegnare la radice quadrata il segno √.
- 1532. Nel De Rebus Mathematicis, il francese Oronzio Fineo (1494-1555)
studia l'inserzione tra due seguenti rettilinei di due medie proporzionali e la
determinazione del rapporto tra circonferenza e diametro del cerchio.
- 1534. Anton Maria Fiore, in possesso della regola di Dal Ferro per risolvere
equazioni cubiche. lancia una matematica disfida a Niccolò Tartaglia relativa
alla soluzione di problemi implicanti equazioni di terzo grado a cui Tartaglia
risponderà vittoriosamente esponendo la regola della soluzione.
- 1539. Girolamo Cardano nella Practica arithmeticae studia le operazioni sui
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numeri interi, frazionari e irrazionali.
- 1542. Nel De crepuscolis liber Pedro Nuñez (1502-1578), spagnolo, rende
noto un procedimento per stimare la parte frazionata di un intervallo del
cerchio graduato.
- 1544. Il tedesco Michael Stifel (1487-1567) nell'Arithmetica integra
introduce la denominazione di esponente, adotta simboli per più numeri
generali e loro potenze e avvia il calcolo logaritmico fondato sul confronto tra
due progressioni, aritmetica l'una e geometrica l'altra; egli costruisce pure una
tavola dei coefficienti binomiali fino al 17° ordine ed espone le regole per
elevare a potenza un binomio.
- 1545. Girolamo Cardano nel trattato di algebra intitolato Ars magna, discute
le radici negative e immaginarie delle equazioni, stabilendo le relazioni che
legano le radici ai coefficienti di un'equazione, ed espone il sistema di
soluzione algebrica delle equazioni di terzo grado, che gli era stato confidato da
Tartaglia sotto il vincolo del segreto.
- 1545. Luigi Ferrari (1520-1565). allievo del Cardano, a 25 anni trova la
soluzione dell'equazione di 4° grado.
- 1546. Niccolò Fontana, detto Tartaglia (1500-1557), nel nono libro dei
Quesiti et inventioni diverse, enuncia il sistema di soluzione delle equazioni
cubiche ridotte, da lui trovato nel 1534 per rispondere alla sfida di Anton Maria
Fiore.
- 1551. Johannes Reticus (1514-1557), tedesco, nel Canon doctrinae
triangulorum definisce le linee trigonometriche mediante un triangolo
rettangolo mettendone in luce la connessione non con archi di cerchio, ma con
gli angoli da essi sottesi.
- 1556. In uno scritto sull'algebra, Jacques Pélétier (1517-1582), francese,
scopre che, se una equazione algebrica ha l'unità per coefficiente della massima
potenza dell'incognita e interi tutti gli altri coefficienti, ogni sua radice sarà un
divisore del termine noto.
- 1556. Le due prime parti del General Trattato di Numeri et Misure, di
Niccolò Tartaglia sono pubblicate a Venezia. Contengono: il triangolo
aritmetico di Tartaglia, per calcolare le prime 11 potenze del binomio.
- 1557. In un trattato di aritmetica l'inglese Robert Recorde (1510-1558)
introduce l'uso del segno = per indicare uguaglianza di due quantità: poiché
mai due cose possono essere più eguali di due parallele.
- 1558. Appare l'opera Due Brevi e Facili Trattati, il Primo d'Aritmetica,
l'Altro di Geometria di G. F. Peverone, contenente tra l'altro la soluzione di un
semplice problema di calcolo delle probabilità.
- 1560. Le ultime quattro parti del General Trattato di Numeri et misure, di
Niccolò Tartaglia, sono pubblicate postume, da manoscritti dell'autore.
- 1572. Raffaele Bombelli (1530-1572) pubblica un trattato di Algebra in cui
espone il metodo per risolvere le equazioni biquadratiche e bicubiche,
introduce il concetto di numeri immaginari o complessi e dà il procedimento
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dell'estrazione delle radici quadrate mediante lo sviluppo in frazioni continue.
- 1575. Francesco Maurolico (1495- 1575), negli Arithmeticorum libri duo,
applica per primo il principio di induzione matematica, dimostrando che la
somma dei primi numeri dispari è eguale al quadrato di n.
- 1585. Il belga Simon Stevin (1548-1620) a Leida espone, in un trattato di
aritmetica intitolato La Disme, la teoria delle frazioni decimali, auspicando che
esse sostituiscano le normali frazioni anche nei sistemi di misura. Rifiuta
inoltre che solo i numeri interi siano veramente numeri, e afferma la continuità
degli insiemi di numeri reali.
-1589. Giacomo Zabarella (1533-1589) nei De rebus naturalibus libri,
considera la logica come disciplina strumentale della conoscenza scientifica.
- 1591. Il francese François Viète (1540-1603) nel trattato In artem analyticam
isagoge, dà la prima esposizione di algebra simbolica, in cui le lettere sono
usate per indicare tanto le quantità conosciute quanto le incognite usate nel
calcolo algebrico e introduce il nome di polinomio.
- 1592. Galileo Galilei lascia la cattedra di matematica di Pisa per l'ostilità dei
colleghi e la scarsa retribuzione ed è nominato lettore di matematica
all'Università di Padova, dove si tratterrà per diciotto anni da lui detti i più
felici e fecondi della sua vita.
- 1593. François Viète nello scritto di trigonometria Ad logisticen speciosam
notae priores, enuncia le formule trigonometriche della moltiplicazione degli
archi.
- 1593. Adrien van Rooman (1561-1615), olandese, studiando il problema della
quadatura del cerchio trova il valore di π per un poligono di 251.658.240 lati,
uguale a 3,1415926635597931.
- 1593. Adrien van Rooman lancia una sfida agli algebristi proponendo il
problema della soluzione di una equazione di quarantacinquesimo grado che è
risolto brillantemente da François Viète che trova ventitrè soluzioni.
- 1595. Il tedesco Bartholomäus Pitiscus (1561-1613) pubblica a Francoforte il
primo libro intitolato alla trigonometria: Trigonometriae sive de dimensione
triangulorum libri quinque.
- 1596. Ludolph van Ceulen (1540-1610), maestro di scherma olandese, nel De
cerchio dà le formule trigonometriche della trisezione degli archi.
- 1596. Nell'Opus palatinum de triangulis, Valentin Otho (1550- ?)tedesco,
costruisce una tavola trigonometrica calcolando i seni, le tangenti e le secanti di
10 minuti, 10 secondi, essendo il raggio 1010.
- 1598. Adrien van Rooman in uno scritto di algebra espone la procedura per
calcolare potenze quadratiche, cubiche e di grado superiore.
- 1600. Guidobaldo Dal Monte (1545-1607) nei Perspectivae libri sex dimostra
che la proiezione centrale di un sistema di rette parallele è un fascio di rette
concorrenti.
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- 1604. In un capitolo dedicato allo studio delle coniche nei Ad Vitellionem in
paralipomena John Kepler (1571-1630), tedesco, enuncia quello che sarà
chiamato principio di continuità, mostrando come esempio che una parabola è
al tempo stesso caso limite di una ellissi o di una iperbole.
- 1606. Nelle Operazioni del compasso geometrico e militare, Galileo Galilei
(1564-1642) descrive il funzionamento del compasso a settore da lui inventato.
- 1608. Il tedesco Pietro Rothe nell'Arithmetica Philosophica scopre che il
numero delle radici di una equazione algebrica non può superare il grado
dell'equazione.
- 1612. Claude Bachet de Meziriac (1581-1638), francese, descrive in uno
scritto di aritmetica il metodo per risolvere il problema dei resti, di determinare
cioè un numero conoscendo i resti che si ottengono dalla divisione per dati
numeri.
- 1613. Nel Trattato del modo brevissimo di trovare le radici quadrate dei
numeri, Pietro Antonio Cataldi (1552-1626) espone un sistema di estrarre la
radice quadrata di un numero mediante frazioni continue.
- 1613. François d'Aiguillon (1556-1627), belga, studia i sistemi di proiezione
ortogonale e centrale, detta in seguito proiezione stereografica.
- 1614. John Napier (1550-1617) o Nepero, inglese, nell'opera Mirifici
logarithmorum canonis descriptio, espone i principi del calcolo logaritmico,
dando le tavole dei logaritmi dei seni e delle tangenti di tutti gli angoli del
primo quadrante calcolati a sette decimali.
- 1615. Nella Nova stereometria doliorum, Johan Kepler determina il volume
di certi recipienti mediante il sistema degli infinitesimi al posto del precedente
e lungo metodo di esaustione.
- 1615· Nel postumo scritto di François Viète sulle equazioni algebriche si
dimostra come da un'equazione se ne possa derivare un'altra le cui radici siano
eguali a quelle della precedente aumentate o moltiplicate di una o per una
quantità data.
- 1617. John Napier costruisce dei regoli numerati, detti bastoni di Neper, per
effettuare delle moltiplicazioni, e li descrive nei Rabdologiae seu numerationis
per virgulas libri duo, dove viene introdotto l'uso della virgola per i numeri
decimali.
- 1617. Le tavole dei logaritmi decimali dei primi 1000 numeri calcolati con
otto decimali sono pubblicate dall'inglese Henry Briggs (1561-1631).
- 1620. L'inglese Francis Bacon (1561-1626) nel Novum organum, fonda la
nuova logica della scienza naturale essenzialmente basata sull'induzione.
- 1620. Nel Canon triangulorum dell'inglese Edward Gunter (1581- ?)
inventore del regolo calcolatore è contenuta una tavola dei seni e tangenti in cui
compaiono per la prima volta i termini coseno e cotangente.
- 1620. Compaiono a Praga le tavole di antilogaritmi di Jost Bürgi (15521632), svizzero, calcolate indipendentemente da John Napier tra il 1603 e il
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1611.
- 1623. Edward Gunter costruisce un regolo per il calcolo logaritmico.
- 1624. Henry Briggs pubblica a Londra l'Arithmetica logaritmica contenente le
tavole logaritmiche a base 10, con 14 cifre decimali dei numeri da 1 a 20.000 e
da 90.000 a 100.000.
- 1628. L'olandese Adriaan Vlacq (1603-1667) completa le tavole logaritmiche
del Briggs, calcolando i logaritmi dei 70.000 numeri mancanti.
- 1629. Il francese Pierre Fermat (1601-1665) concepisce i principi essenziali
della geometria analitica, a quanto egli stesso dichiara nel 1636, scrivendo a
Roberval, ma non pubblica niente sull'argomento.
- 1629. Albert Girard (1595-1632), francese, nell'Invention nouvelle en algebre,
introduce per primo l'uso delle parentesi algebriche, spiega il metodo di
scomposizione in un polinomio nei suoi fattori ed enuncia il teorema che ogni
equazione algebrica ha tante radici quante sono le unità del suo grado (teorema
fondamentale dell'algebra); usa, inoltre, il segno – inserito tra numeratore e
denominatore per indicare un numero frazionario.
- 1630. Il francese Richard de La Maine, insegnante di matematica a Londra,
nell'opera Grammologia, descrive un regolo calcolatore circolare.
- 1631. Thomas Harriot (1560-1621), inglese, nella Artis analyticae praxis,
introduce i segni > e < per indicare maggiore e minore e rende noto un
procedimento per approssimare le radici di equazioni algebriche.
- 1631. L'inglese William Oughtred (1575-1660) nella Clavis mathematica
introduce il simbolo x, della croce di S. Andrea, per indicare la moltiplicazione.
- 1632. Lo spagnolo Jean de la Faille (1597-1652), in uno scritto sul centro di
gravità delle parti di un circolo e dell'ellissi, determina il baricentro di un
settore circolare dimostrando che si trova sulla corrispondente bisettrice alla
distanza dal centro espressa da 2/3 raggio corda/arco
- 1632. Nella sezione dedicata alla trigonometria sferica del trattato
Directorium generale uranometricum, Bonaventura Cavalieri (1598-1647)
dimostra l'espressione dell'area del triangolo sferico.
- 1633. In una appendice all'opera Cerchi di proporzione, William Oughtred
descrive per la prima volta un regolo calcolatore rettilineo.
- 1635. Bonaventura Cavalieri nella Geometria degli indivisibili, rappresenta le
grandezze geometriche come totalità di elementi primordiali, gli indivisibili,
supposti animati da movimento, la flussione, dalla cui somma derivano le
regole per il calcolo delle lunghezze delle aree dei volumi di figure a contorno
curvilineo.
- 1636. In una lettera a Roberval, Fermat espone le sue idee nuove e
importantissime, sulla geometria analitica, sul calcolo infinitesimale e sui
massimi e minimi.
- 1636. Gerard Desargues (1593-1662), francese, in uno studio sulla
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prospettiva, costruisce proiezioni assonometriche fondate sulla disposizione
che di ogni punto della figura da proiettare si conoscono le coordinate
cartesiane ortogonali.
- 1637. René Descartes (1596-1650), francese, pubblica come appendice al
Discours de la méthode, la Géométrie contenente i fondamenti della geometria
analitica e il metodo per trasformare un problema geometrico in problema
algebrico sino alla risoluzione geometrica delle equazioni di secondo grado.
L'opera contiene pure una teoria delle equazioni algebriche in cui la notazione
è praticamente quella moderna.
- 1637. Pierre Fermat compone il trattato Ad locos planos et solidos isagoge,
dove, indipendentemente da Descartes, pone i fondamenti della geometria
analitica col metodo delle coordinate.
- 1639. Blaise Pascal (1623-1662), francese, scrive a sedici anni l'Essay pour
les coniques, di una sola pagina, che contiene il teorema di Pascal sull'esagono
iscritto in una conica, il mistico esagramma.
- 1639. Gerard Desargues in uno scritto di geometria, stabilisce i fondamenti
della geometria proiettiva formulando i teoremi sul quadrangolo iscritto in una
conica e sui triangoli omologici.
- 1642. Le origini dell'algebra combinatoria sono contenute nel lavoro fatto
dall'inglese John Wallis (1616- 1703) per decifrare corrispondenza dei Realisti
intercettata durante la Guerra Civile.
- 1642. Blaise Pascal costruisce la prima macchina per eseguire
meccanicamente calcoli aritmetici, basata su un sistema di ruote dentate
collegate fra loro. Con questa macchina si potevano ottenere totali fino alle
centinaia di migliaia.
- 1643. Bonaventura Cavalieri nelle Exercitationes geometricae enuncia il
principio degli indivisibili poggiante sull'ipotesi che una grandezza può essere
divisa in un infinito numero di parti
- 1644. Evangelista Torricelli (1608-1647) nella Opera geometrica dimostra la
finitezza del solido generato dalla rotazione di un arco indefinito di iperbole
equilatera intorno a un asintoto ed esegue la quadratura della cicloide e della
coclea.
- 1646. In una lettera a M. Ricci, Evangelista Torricelli enuncia il teorema
relativo alla determinazione del centro di gravità di ogni figura geometrica per
mezzo del rapporto di due integrali.
- 1647. In una lettera al Cavalieri, Evangelista Torricelli descrive le proprietà
della curva logaritmica da lui chiamata hemyperbole logarithmica dimostrando
che essa ha la subtangente costante ed effettuando la quadratura e cubatura del
solido generato dalla sua rotazione.
- 1647. Il frate belga Gregorio di San Vincenzo (1584-1667) nell'Opus
geometricum studia le proprietà di una nuova classe di curve piane di quarto
ordine, le parabole virtuali, e dimostra la possibilità della quadratura
dell'iperbole con l'uso dei logaritmi.
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- 1648. Pierre Fermat in una lettera al Cavalieri espone la regola per quadrare le
parabole di ordine superiore e il metodo di cubatura dei solidi generati dalla
rotazione di qualsiasi parabola intorno al suo asse.
- 1649. In una traduzione latina della Géométrie di Descartes, Franz van
Shooten (? -166I), olandese, enuncia le formule per la trasformazione delle
coordinate.
- 1652. Samuele Morland inventa una macchina calcolatrice capace di
addizionare e sottrarre.
- 1653. Nel Trattato sul triangolo aritmetico Blaise Pascal applica le proprietà
del triangolo da lui inventato al calcolo delle successive potenze di un binomio.
- 1654. Il Cavaliere de Méré propone a Pascal e Fermat il problema di come
ripartire guadagni e perdite tra due giocatori che debbano interrompere una
partita. Nella corrispondenza seguita tra loro, Pascal e Fermat gettano le basi
del calcolo delle probabilità.
- 1656. John Wallis, sulle orme del Cavalieri, approfondisce, nella Arithmetica
infinitorum, i metodi di calcolo degli integrali e introduce nell'analisi il
concetto di limite. Egli usa il simbolo ∞ per indicare l'infinito e propone di
esprimere il numero π come prodotto di infiniti fattori.
- 1657. John Wallis nella Mathesis universalis sive arithmeticum opus
integrum, espone in forma aritmetica il contenuto dei libri II e V di Euclide che
costituiscono il fondamento dell'algebra geometrica e della teoria delle
proporzioni.
- 1657. Nell'opera Canones sinuum, un trattato di trigonometria, William
Oughtred fa uso delle attuali notazioni per le funzioni trigonometriche di seno,
coseno e tangente, e introduce il segno : per indicare la divisione.
- 1657. Christian Huygens (1629-1695), olandese, nel De ratiocinio in ludo
aleae introduce nel calcolo della probabilità, applicato al gioco di azzardo, il
concetto di speranza matematica.
- 1658. Nel trattato Sulla cicloide Blaise Pascal studia la proprietà della curva
descritta da un punto di una circonferenza che rotola su una linea retta.
- 1658. Blaise Pascal, nella memoria Potestatum numericarum summa, studia
l'effettuazione della somma delle potenze simili dei termini di una progressione
aritmetica.
- 1659. L'olandese Johan Hudde (1628-1704) enuncia la regola generale per
riconoscere se una data equazione abbia due o più radici eguali (regola di
Hudde).
- 1659 Pietro Mengoli (1625-1686) nella Geometria speciosa svolge la teoria
dei logaritmi naturali detti anche neperiani.
- 1659. Nell'Algebra tedesca di Johann Rahn compare il segno ÷ per indicare
la divisione.
- 1659· Jobn Wallis in uno scritto sulla cicloide espone il sistema per rettificare
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la cicloide e dimostra che l'area compresa tra la concoide esterna e la propria
base è infinita, mentre è finito il volume che essa genera ruotando intorno alla
base.
(4) La tecnica di Gutenberg consiste nel fondere i singoli caratteri dei segni da riprodurre in
modo da rendere possibile comporre una matrice in cui essi siano, appunto, "mobili",
ovvero riposizionabili e riutilizzabili per praticare altre stampe. Tale procedimento prevede
che, per ogni lettera o segno, venga fabbricato un punzone di metallo molto duro, recante
all’estremità la lettera o il segno incisi a rilievo. Il punzone viene, poi, battuto sulla
cosiddetta punzonatura: un supporto di metallo meno duro, dove il segno rimane impresso
in un incavo, che costituisce la matrice. In essa — introdotta in un apposito apparecchio,
detto staffa — vengono fusi i caratteri tipografici nelle quantità necessarie. Questi risultano,
così, a rilievo, come il punzone dal quale traggono origine. I singoli caratteri tipografici
mobili vengono poi accostati a rovescio, nella sequenza necessaria a formare parole e frasi
e comporre la pagina, in una forma, il compositoio. Questo è un contenitore allungato,
inizialmente in legno, poi in metallo, che serve a comporre le righe del testo da stampare.
La composizione viene poi bagnata con un inchiostro abbastanza liquido (quello usato da
Gutenberg era composto da un pigmento macinato in una vernice di olio di lino, una tecnica
impiegata in quel tempo dai pittori fiamminghi) tanto da non rimanere attaccato al supporto
metallico, ma da poter essere impresso sul foglio di carta con l’aiuto di un tipo di torchio
fino a quel momento adoperato per la spremitura dell’uva. Dopo il processo di stampa, la
sequenza dei caratteri viene scomposta: i caratteri sono, così, pronti per essere riutilizzati.
La tecnica della stampa di Gutenberg può essere ridotta sinteticamente al sistema punzonematrice-carattere-torchio, che si basa sull’uso di tre materiali essenziali: leghe metalliche
per la costruzione degli strumenti del sistema tipografico, inchiostro grasso, carta. I punzoni
sono di ottone e di bronzo, metalli soggetti a deteriorarsi dopo aver battuto le matrici che
inizialmente sono di piombo e, dunque, soggette anch’esse ad una rapida usura per le
continue colate. Sembra, però, che già l’allievo diretto di Gutenberg, Peter Schoeffer,
sostituisca l’ottone e il bronzo con l’acciaio, introducendo inoltre le matrici di rame.
Inizialmente i caratteri sono fabbricati in stagno, poi, per una maggiore resa, in una lega di
stagno e piombo, alla quale, in seguito, viene aggiunto l’antimonio. [Il brano è tratto dal
sito: http://digilander.libero.it/davis2/lezioni/storia/moderna/invenzione%20della%
20stampa.htm].
(5) Nicolò Tartaglia si chiamava in realtà Nicolò Fontana. Venne soprannominato Tartaglia
per un difetto di pronuncia che aveva a seguito di un colpo di sciabola ricevuto alla
mascella da un soldato francese, durante il sacco di Brescia, quando era ancora un ragazzo
(1512). Era di famiglia poverissima e non potendo seguire alcuno studio regolare, fu un
completo autodidatta che per primo tradusse in lingua volgare gli Elementi di Euclide
(Venezia 1543) con importanti commenti, traduzione che si può trovare per intero nel
meritorio progetto di liberliber http://www.liberliber.it/biblioteca/e/euclides/
euclide_megarense_acutissimo_philosopho_solo_introduttor_etc/pdf/euclid_p.pdf
Tartaglia è noto per il suo triangolo, introdotto nella sua General trattato di numeri e
misure del 1556, che fornisce i coefficienti dello sviluppo del binomio (a + b)n. Il triangolo
era già noto comunque tra gli arabi ed in Cina. Anche in Germania vi erano stati libri che lo
avevano introdotto prima di Tartaglia: l'Aritmetica di Bienewitz (Apianus) del 1527 e
l'Arithmetica integra di Stiefel del 1544.
(6) Cardano era un benestante e fece studi regolari fino ad arrivare ad insegnare a Milano ed
a Padova. Era un aristotelico e seguace di AvicennaEra un geniale creatore in ogni ramo
dello scibile che pubblicò 138 opere che non erano che la metà di quelle che scrisse. Ebbe
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purtroppo delle vicende che egli stesso racconta nella sua Autobiografia. Fu accusato di
pedofilia (egli dice ... sul conto mio si andasse divolgando quanto male usassi dei fanciulli)
e rischiò l'Inquisizione ma non per questo, bensì per l'accusa di essere uno stregone, per
avere disapprovato con durezza i processi alle streghe e, come no, di essere un eretico. Ebbe
provocazioni notturne con irruzioni in casa di ignoti personaggi che lo svegliavano per
chiedergli l'assoluzione di streghe condannate per aver provocato degli incantesimi. A circa
70 anni fu imprigionato (1570) e si salvò per l'amicizia dei Cardinali Borromeo e Morone.
Dopodiché se ne andò a Roma sotto la protezione di Papa Pio V (sic!) che gli assegnò
anche una pensione, ma con l'obbligo di non pubblicare più nulla. Poiché era anche
astrologo (ed in genere un mago che credeva a vari fenomeni paranormali e normali) e dal
suo oroscopo risultava dovesse morire nel 1576, sembra si sia ucciso per non smentire i
suoi oroscopi.
(7) Sulla storia del calcolo infinitesimale si può vedere il mio: Appunti per una brevissima
storia della nascita e dello sviluppo del Calcolo Sublime.
(8) Summa Theologica,
Quaestio 32
Proemium
[29771] Iª q. 32 pr. Consequenter inquirendum est de cognitione divinarum
personarum. Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, utrum per rationem
naturalem possint cognosci divinae personae. Secundo, utrum sint aliquae
notiones divinis personis attribuendae. Tertio, de numero notionum. Quarto,
utrum liceat diversimode circa notiones opinari.
Articulus 1
Ad primum sic proceditur. Videtur quod Trinitas divinarum personarum possit
per naturalem rationem cognosci. Philosophi enim non devenerunt in Dei
cognitionem nisi per rationem naturalem, inveniuntur autem a philosophis
multa dicta de Trinitate personarum. Dicit enim Aristoteles, in I de caelo et
mundo, per hunc numerum, scilicet ternarium, adhibuimus nos ipsos
magnificare Deum unum, eminentem proprietatibus eorum quae sunt creata.
Augustinus etiam dicit, VII Confes., ibi legi, scilicet in libris Platonicorum, non
quidem his verbis, sed hoc idem omnino, multis et multiplicibus suaderi
rationibus, quod in principio erat verbum, et verbum erat apud Deum, et Deus
erat verbum, et huiusmodi quae ibi sequuntur, in quibus verbis distinctio
divinarum personarum traditur. Dicitur etiam in Glossa Rom. I, et Exod. VIII,
quod magi Pharaonis defecerunt in tertio signo, idest in notitia tertiae
personae, scilicet spiritus sancti, et sic ad minus duas cognoverunt.
Trismegistus etiam dixit, monas genuit monadem, et in se suum reflexit
ardorem, per quod videtur generatio filii, et spiritus sancti processio intimari.
Cognitio ergo divinarum personarum potest per rationem naturalem haberi.
[29773] Iª q. 32 a. 1 arg. 2 Praeterea, Ricardus de sancto Victore dicit, in libro
de Trin., credo sine dubio quod ad quamcumque explanationem veritatis, non
modo probabilia, imo etiam necessaria argumenta non desint. Unde etiam ad
probandum Trinitatem personarum, aliqui induxerunt rationem ex infinitate
bonitatis divinae, quae seipsam infinite communicat in processione divinarum
personarum. Quidam vero per hoc, quod nullius boni sine consortio potest esse
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iucunda possessio. Augustinus vero procedit ad manifestandum Trinitatem
personarum, ex processione verbi et amoris in mente nostra, quam viam supra
secuti sumus. Ergo per rationem naturalem potest cognosci Trinitas
personarum.
[29774] Iª q. 32 a. 1 arg. 3 Praeterea, superfluum videtur homini tradere quod
humana ratione cognosci non potest. Sed non est dicendum quod traditio
divina de cognitione Trinitatis sit superflua. Ergo Trinitas personarum ratione
humana cognosci potest.
[29775] Iª q. 32 a. 1 s. c. Sed contra est quod Hilarius dicit, in libro II de Trin.,
non putet homo sua intelligentia generationis sacramentum posse consequi.
Ambrosius etiam dicit, impossibile est generationis scire secretum, mens
deficit, vox silet. Sed per originem generationis et processionis distinguitur
Trinitas in personis divinis, ut ex supra dictis patet. Cum ergo illud homo non
possit scire et intelligentia consequi, ad quod ratio necessaria haberi non
potest, sequitur quod Trinitas personarum per rationem cognosci non possit.
[29776] Iª q. 32 a. 1 co. Respondeo dicendum quod impossibile est per
rationem naturalem ad cognitionem Trinitatis divinarum personarum
pervenire. Ostensum est enim supra quod homo per rationem naturalem in
cognitionem Dei pervenire non potest nisi ex creaturis. Creaturae autem
ducunt in Dei cognitionem, sicut effectus in causam. Hoc igitur solum ratione
naturali de Deo cognosci potest, quod competere ei necesse est secundum quod
est omnium entium principium, et hoc fundamento usi sumus supra in
consideratione Dei. Virtus autem creativa Dei est communis toti Trinitati, unde
pertinet ad unitatem essentiae, non ad distinctionem personarum. Per rationem
igitur naturalem cognosci possunt de Deo ea quae pertinent ad unitatem
essentiae, non autem ea quae pertinent ad distinctionem personarum. Qui
autem probare nititur Trinitatem personarum naturali ratione, fidei dupliciter
derogat. Primo quidem, quantum ad dignitatem ipsius fidei, quae est ut sit de
rebus invisibilibus, quae rationem humanam excedunt. Unde apostolus dicit,
ad Heb. XI, quod fides est de non apparentibus. Et apostolus dicit, I Cor. II,
sapientiam loquimur inter perfectos, sapientiam vero non huius saeculi, neque
principum huius saeculi; sed loquimur Dei sapientiam in mysterio, quae
abscondita est. Secundo, quantum ad utilitatem trahendi alios ad fidem. Cum
enim aliquis ad probandam fidem inducit rationes quae non sunt cogentes,
cedit in irrisionem infidelium, credunt enim quod huiusmodi rationibus
innitamur, et propter eas credamus. Quae igitur fidei sunt, non sunt tentanda
probare nisi per auctoritates, his qui auctoritates suscipiunt. Apud alios vero,
sufficit defendere non esse impossibile quod praedicat fides. Unde Dionysius
dicit, II cap. de Div. Nom., si aliquis est qui totaliter eloquiis resistit, longe erit
a nostra philosophia; si autem ad veritatem eloquiorum, scilicet sacrorum,
respicit, hoc et nos canone utimur.
[29777] Iª q. 32 a. 1 ad 1 Ad primum ergo dicendum quod philosophi non
cognoverunt mysterium Trinitatis divinarum personarum per propria, quae
sunt paternitas, filiatio et processio; secundum illud apostoli, I ad Cor. II,
loquimur Dei sapientiam, quam nemo principum huius saeculi cognovit, idest
philosophorum, secundum Glossam. Cognoverunt tamen quaedam essentialia
attributa quae appropriantur personis, sicut potentia patri, sapientia filio,
bonitas spiritui sancto, ut infra patebit. Quod ergo Aristoteles dicit, per hunc
numerum adhibuimus nos ipsos etc., non est sic intelligendum, quod ipse
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poneret ternarium numerum in divinis, sed vult dicere quod antiqui utebantur
ternario numero in sacrificiis et orationibus, propter quandam ternarii numeri
perfectionem. In libris etiam Platonicorum invenitur in principio erat verum,
non secundum quod verbum significat personam genitam in divinis, sed
secundum quod per verbum intelligitur ratio idealis, per quam Deus omnia
condidit, quae filio appropriatur. Et licet appropriata tribus personis
cognoscerent, dicuntur tamen in tertio signo defecisse, idest in cognitione
tertiae personae, quia a bonitate, quae spiritui sancto appropriatur,
deviaverunt, dum cognoscentes Deum, non sicut Deum glorificaverunt, ut
dicitur Rom. I. Vel, quia ponebant Platonici unum primum ens, quod etiam
dicebant esse patrem totius universitatis rerum, consequenter ponebant aliam
substantiam sub eo, quam vocabant mentem vel paternum intellectum, in qua
erant rationes omnium rerum, sicut Macrobius recitat super somnium
Scipionis, non autem ponebant aliquam substantiam tertiam separatam, quae
videretur spiritui sancto respondere. Sic autem nos non ponimus patrem et
filium, secundum substantiam differentes, sed hoc fuit error Origenis et Arii.
Sequentium in hoc Platonicos. Quod vero Trismegistus dixit, monas monadem
genuit, et in se suum reflexit ardorem, non est referendum ad generationem filii
vel processionem spiritus sancti, sed ad productionem mundi, nam unus Deus
produxit unum mundum propter sui ipsius amorem.
[29778] Iª q. 32 a. 1 ad 2 Ad secundum dicendum quod ad aliquam rem
dupliciter inducitur ratio. Uno modo, ad probandum sufficienter aliquam
radicem, sicut in scientia naturali inducitur ratio sufficiens ad probandum
quod motus caeli semper sit uniformis velocitatis. Alio modo inducitur ratio,
non quae sufficienter probet radicem, sed quae radici iam positae ostendat
congruere consequentes effectus, sicut in astrologia ponitur ratio
excentricorum et epicyclorum ex hoc quod, hac positione facta, possunt salvari
apparentia sensibilia circa motus caelestes, non tamen ratio haec est
sufficienter probans, quia etiam forte alia positione facta salvari possent.
Primo ergo modo potest induci ratio ad probandum Deum esse unum, et
similia. Sed secundo modo se habet ratio quae inducitur ad manifestationem
Trinitatis, quia scilicet, Trinitate posita, congruunt huiusmodi rationes; non
tamen ita quod per has rationes sufficienter probetur Trinitas personarum. Et
hoc patet per singula. Bonitas enim infinita Dei manifestatur etiam in
productione creaturarum, quia infinitae virtutis est ex nihilo producere. Non
enim oportet, si infinita bonitate se communicat, quod aliquid infinitum a Deo
procedat, sed secundum modum suum recipiat divinam bonitatem. Similiter
etiam quod dicitur, quod sine consortio non potest esse iucunda possessio
alicuius boni, locum habet quando in una persona non invenitur perfecta
bonitas; unde indiget, ad plenam iucunditatis bonitatem, bono alicuius alterius
consociati sibi. Similitudo autem intellectus nostri non sufficienter probat
aliquid de Deo, propter hoc quod intellectus non univoce invenitur in Deo et in
nobis. Et inde est quod Augustinus, super Ioan., dicit quod per fidem venitur ad
cognitionem, et non e converso.
[29779] Iª q. 32 a. 1 ad 3 Ad tertium dicendum quod cognitio divinarum
personarum fuit necessaria nobis dupliciter. Uno modo, ad recte sentiendum
de creatione rerum. Per hoc enim quod dicimus Deum omnia fecisse verbo suo,
excluditur error ponentium Deum produxisse res ex necessitate naturae. Per
hoc autem quod ponimus in eo processionem amoris, ostenditur quod Deus non
propter aliquam indigentiam creaturas produxit, neque propter aliquam aliam
causam extrinsecam; sed propter amorem suae bonitatis. Unde et Moyses,
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postquam dixerat, in principio creavit Deus caelum et terram, subdit, dixit
Deus, fiat lux, ad manifestationem divini verbi; et postea dixit, vidit Deus
lucem, quod esset bona, ad ostendendum approbationem divini amoris; et
similiter in aliis operibus. Alio modo, et principalius, ad recte sentiendum de
salute generis humani, quae perficitur per filium incarnatum, et per donum
spiritus sancti.
(9) Sarà l'inglese Thomas Digges il primo che, nel 1576, disegnerà un universo in cui le
stelle non sono più sistemate su di un cerchio che fa da corona all'intero sistema solare, ma
sparse al di fuori dell'ultima sfera che è quella dell'ultimo pianeta. Digges giustifica questo
con motivi teologici e non astronomici. Egli dice:
Il disegno del sistema copernicano fatto da Thomas Digges (1543-1575) nella
sua opera A perfit Description of the Caelestiall Orbes del 1576. Da notare che
l'opera è in inglese e quindi si iniziano a volgarizzare le conoscenze.
La sfera delle stesse fisse infinitamente eccelsa si estende sfericamennte in
altezza ed è quindi l'immobile edificio della felicità, ornata di innumerevoli
maestose luci, esternamente risplendenti, di gran lunga superiori al nostro sole
in quantità e qualità, la vera corte degli angeeli celesti, priva di dolore e colma
di assoluta ed eterna gioia; dimora degli eletti
ed aggiunge che noi:
non saremo mai in grado di ammirare a sufficienza l'immensità... di quell'orbe
fisso ornato di mille luci che si estende verso l'alto in altezza sferica infinita.
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Delle quali luci celesti bisogna pensare che noi percepiamo soltanto quelle
situate nelle parti inferiori dell'orbe medesimo, così che, nella misura in cui
sono più alte, sembrano di quantità viepppiù minore, finché, essendo la nostra
vista incapace di andare a concepire oltre, la massima parte di esse ci rimane
invisibile a cagione della distanza inaudita.
Il mondo appare dunque infinito con "centro" nel Sole. Ebbene proprio questa è una
incongruenza del resto già presente ai predecessori medioevali, in quanto ciò che è infinito
non ha centri o luoghi privilegiati. A buona ragione ogni punto dell'infinito è suo centro allo
stesso modo che nessun punto gode di questa caratteristica.
(10) La cometa che, dal di fuori del sistema solare, entra in esso passando intorno al sole ed
andandosene di nuovo verso lo spazio, rappresenta, un corpo materiale che deve
attraversare, appunto, le varie sfere. Facendo ciò queste ultime devono andare in frantumi.
(11) Oltre a quanto dirò nel testo, ricordo che:
Sulle questioni studiate da Tartaglia intervenne nel 1570 anche Girolamo Cardano che,
nell'Opus novum de motuum ponderum sonorum, studiando il moto di un proiettile,
riconobbe l'influenza del mezzo resistente sul moto e la velocità dei proiettili.
Nel 1577, nei Mechanicorum libri, Guidobaldo Dal Monte (1545 - 1607) trattò problemi di
statica, studiando le condizioni di equilibrio dei corpi con numerose applicazioni della leva.
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