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ritenersi non indispensabili come criteri di
delega.
Se dovessi, allora, pensare di « riempire » in sede parlamentare l’articolo 2 proverei a cambiare la sua impostazione da
codice unico ad un sistema che, invece,
persegue una linea simile alla riforma che
Vanoni, con Steve ed Arena, aveva pensato
nel 1942.
Creerei un sistema, in cui esiste un
codice generale per tutti i tipi di imposte,
con principi generali riguardanti l’accertamento, il rimborso, i presupposti e cosı̀
via, e, successivamente, determinerei una
serie di testi unici, che però non sono il
codice e che devono riflettere a raggiera i
principi generali.
Non riesco a pensare ad un codice
unico per tutte le imposte, in quanto
bisognerebbe compiere una operazione di
passaggio da un sistema attuale, casistico,
tassativo, descrittivo, ad uno da cui estrapolare principi generali per ogni tributo.
Bisognerebbe, ad esempio, definire il reddito e, poi, lasciare al legislatore secondario le applicazioni ed i regolamenti.
Si tratta di un’impresa quasi impossibile da portare avanti nel breve termine,
in quanto bisognerebbe cambiare la filosofia del legislatore e la sua cultura; sarebbe meglio, allora, fissare un corpus
juris centrale, che si irradi verso i testi
unici, scritti in maniera corretta, come un
ponte verso un futuro codice unico.
Per quanto riguarda la genericità della
riforma sono andato ad esaminare la giurisprudenza della Corte costituzionale e la
dottrina ed ho ricevuto l’impressione che
anche in caso di genericità non è mai stata
negata natura di legge in senso formale
alla legge delega; semmai essa è stata
intesa come una legge principio o una
legge quadro. L’indagine costituzionale
non è stata compiuta sulla legge delega,
bensı̀ sul decreto delegato, che a volte è
stato dichiarato in questi casi incostituzionale per carenza od eccesso di delega.
La Corte costituzionale non ha mai operato dunque sulla legge delega, bensı̀ sul
decreto delegato per la sua eventuale dichiarazione di incostituzionalità.
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Ho quindi l’impressione che se non
riempite di contenuti gli articoli 2, 3, 6 e
7 del disegno di legge delega ci sia forse
materia per sollevare in seguito una questione di incostituzionalità riguardo al decreto delegato.
Questo discorso vale anche per l’articolo 3: capisco le valutazioni che hanno
fatto gli economisti ed ho letto anche
alcune indagini statistiche fatte in via –
credo – del tutto induttiva. Però se leggiamo l’articolo 3 del disegno di legge ci
rendiamo conto che, a parte il fatto di
sapere che esistono due aliquote (23 per
cento e 33 per cento) e due scaglioni (divisi
da una soglia di centomila euro), per il
resto non abbiamo alcun dato quantitativo
e pochi principi. Siamo tutti d’accordo,
come mi sembra, nel voler mantenere una
certa progressività dell’imposta, anche se
non si tratta di quella degli anni settanta,
con più scaglioni, ma di una più limitata
scaturente da detrazioni e da deduzioni.
Anche se fossimo innamorati della vecchia
progressività, di fatto la globalizzazione
non ce lo consentirebbe: ormai l’imposta
dell’articolo 3 non è più un’imposta sui
redditi tout court, ma un’imposta sui redditi di lavoro dipendente e autonomo.
Vorrei ribadire, quindi, come ormai
l’IRPEF sia un’imposta sul lavoro che non
grava più sul reddito elevato da investimenti finanziari, tassato con imposte sostitutive oppure tassato all’estero. Essa
non può prevedere aliquote troppo alte.
Tuttavia, mi sembra troppo ampio il primo
scaglione e troppo bassa l’aliquota del 33
per cento sullo scaglione più alto; al riguardo, sono d’accordo con il professor
Muraro: mi attesterei su un sistema a tre
aliquote con un’aliquota finale intorno al
39 o 40 per cento e con un’aliquota
iniziale che corrisponda ad uno scaglione
fino a 80 milioni di lire perché il passo
fino a centomila euro mi sembra troppo
lungo. Questo, comunque, è un discorso
che lascio fare agli economisti perché,
come dicevo, credo che la progressività si
possa costruire anche sulle deduzioni e,
meglio, sulle detrazioni.
Ora, dalla relazione governativa sembrerebbe che le deduzioni saranno co-
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struite in modo tale da essere consistenti
per la fascia più bassa dei contribuenti,
mentre per la fascia più alta saranno quasi
inesistenti. Se è cosı̀, a mio avviso questo
non è sufficiente per fare degli esercizi
previsionali sulla progressività; al riguardo, vorrei che fosse il Governo a
spiegare meglio cosa ha in mente. Posso
dire soltanto che può anche accadere che
questo tipo di operazione comporti un
guadagno generalizzato, sia per i contribuenti al livello più basso che per quelli a
livello più alto. La mia impressione, però,
è che – sarà pure un ottimo paretiano –
possano guadagnare meno quelli piccoli e
più quelli grandi. È vero che dal punto
vista generale e politico può darsi che chi
ne trae benefici, anche se ridotti, non
protesti perché guadagnano di più i ceti
più abbienti: ecco l’ottimo paretiano; tuttavia, ho l’impressione che venga prodotta
una discriminazione in termini di uguaglianza, perché tutti ci guadagnano, ma c’è
chi guadagna di più, e credo che occorra
evitare ciò. A mio avviso, con il sistema
delle tre aliquote e con gli scaglioni meglio
distribuiti forse questo effetto è superabile.
Come dicevo prima, qui emerge la
vaghezza della delega. Ad esempio, non
sappiamo come saranno costruite le deduzioni; inoltre, non conosciamo l’ammontare del minimo imponibile. Al riguardo, si
afferma che sarà in relazione alla soglia di
povertà, tuttavia non si precisa il minimo
imponibile. Quindi, come fate voi economisti a costruire delle indagini proiettando
delle soluzioni che non mi risultano confermate dall’analisi dell’articolo 3 del disegno di legge delega ? Come giurista...
PRESIDENTE. Sono le condizioni migliori per gli economisti...
FIORELLA
KOSTORIS
PADOA
SCHIOPPA, Presidente dell’ISAE. Esatto:
stavo per dire anch’io la stessa cosa !
Siamo liberi di fare qualunque cosa !
FRANCO GALLO, Professore ordinario
di diritto tributario presso la LUISS. Ciò
vuol dire che il Parlamento legifera la-
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sciando l’esecutivo libero di fare le sue
scelte: problemi vostri ! Personalmente, ci
terrei a sapere quale sia l’indirizzo che
segue il Governo ! In questa ottica, quindi,
non saprei che interpretazione dare: può
darsi che l’imposizione rimanga progressiva, oppure che vi sia una progressività
un po’ anomala nel senso che si rivolge
alle categorie di contribuenti in modo
discriminante; certo è che non riesco a
comprendere quale tipo di imposta venga
fuori in termini di equità verticale.
Per quanto riguarda gli effetti di questa
riforma dell’IRPEF, il primo effetto che mi
preoccupa, ed in questo mi ricollego a
quanto affermato precedentemente dal
professor Muraro, è il collegamento con il
federalismo fiscale; perché in futuro potremmo avere, come del resto abbiamo già
adesso, un aumento delle addizionali e
delle sovraimposte all’IRPEF da parte degli enti locali. Ebbene, se attraverso la
deduzione riduciamo la base imponibile,
indirettamente abbassiamo il gettito delle
addizionali perché tali imposte si parametrano alla base imponibile dell’IRPEF. Ribadisco: se operiamo sulle deduzioni, sottraiamo base imponibile agli enti locali e
quindi occorre di conseguenza tenerne
conto, anche nell’ottica del collegamento
con il Titolo V della Costituzione.
Un altro effetto si presenta in termini
di evasione. Infatti, ho l’impressione che se
tutte le deduzioni si addensano su un
unico scaglione, quello più basso, e saranno pressoché eliminate in quello più
alto, si corre il rischio che chi è più ricco,
cioè chi sta almeno al margine inferiore
dello scaglione superiore, tenderà a rifluire nello scaglione più basso per godere
e fruire delle deduzioni. Non è un problema da niente: già nel passato questo
addensamento dei contribuenti intorno a
dei regimi fiscali, di cui uno favorevole e
l’altro, prossimo, del tutto sfavorevole, ha
creato problemi. In questo caso, avremmo
un soggetto che non può dedurre e che per
dedurre potrebbe essere indotto ad evadere. Da quanto ho detto, quindi, c’è una
conferma della necessità di integrare l’articolo 3.
Camera dei Deputati
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Vorrei passare ora all’esame dell’articolo 6 del disegno di legge delega. Anche
l’articolo 6 mi sembra carente in termini
di criteri di delega là dove si stabilisce di
unificare cinque tributi in uno solo. Vorrei
segnalare che si tratta di cinque tributi
completamente diversi: imposta di registro
e altre imposte anche storicamente generate da filoni diversi. Come si fa, allora, a
creare un’unica imposta partendo da un
unico presupposto ? Si tratta di un’altra
cosa ! E quale è il criterio ? Nel disegno di
legge non viene indicato.
Per quanto attiene, invece, alla copertura finanziaria, vorrei segnalare che ho
compiuto un’indagine di tipo giuridico, ho
letto bene l’articolo 9 ed ho tratto alcune
conclusioni. In primo luogo, la modifica
dell’IRPEF contenuta nell’articolo 3 comporta sgravi di notevole entità, come ha
affermato precedentemente il professor
Longobardi, perché questa riforma tende a
ridurre la pressione fiscale. Non ne conosco tuttavia l’entità: si potrà andare da 20
mila miliardi di lire, come sostengono gli
economisti ad 80 mila miliardi di lire a
seconda di come si operi sulle deduzioni;
comunque, esiste un problema di copertura finanziaria. In effetti, a mio avviso
correttamente, l’articolo 3 rimanda per la
copertura alle leggi finanziarie dei prossimi anni; quindi sarà la sessione di bilancio a stabilire la modifica per l’anno
successivo, cosı̀ come avviene in tutte le
leggi finanziarie. Da questo punto di vista,
quindi, non trovo nulla da eccepire: in
questo caso la legge delega opera come
una sorta di norma quadro che si concretizza in disposizioni legislative, ciascuna con una propria copertura.
Tuttavia, il comma 2 dell’articolo 9 del
disegno di legge delega prevede successivamente per lo stesso articolo 3 una
disciplina diversa accomunando la riforma
dell’IRPEF a quella delle altre imposte
contenute negli articoli da 4 a 8. Cosa
dispone al riguardo il comma 2 dell’articolo 9 del disegno di legge ? Dispone che
non debbono derivare oneri aggiuntivi per
il bilancio dello Stato. Il primo commento
per l’interprete è di sbigottimento: infatti,
abbiamo detto che l’articolo 3 deve com-
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portare e comporta una riduzione della
pressione fiscale e invece l’articolo 9 dispone che non debbono derivare oneri
aggiuntivi per il bilancio dello Stato. Evidentemente, c’è qualcosa che non funziona.
Lasciamo perdere l’IRPEF, perché può
trattarsi di un errore. Mettiamo cioè che
per l’articolo 3 rimanga valida la copertura prevista nell’ultimo comma; tuttavia,
negli articoli 4, 6, 7 e 8 si determina la
cancellazione totale o parziale dell’IRAP,
con un costo di 60 mila miliardi nel primo
caso e di 35 mila miliardi nel secondo. È
un problema attinente alle regioni, ma in
un comma è scritto che a tale riduzione
delle entrate si farà fronte con trasferimenti statali. Comunque, abbiamo anche
un accorpamento di cinque imposte in
un’unica imposta, provvedimenti sulle accise, sull’IVA, sulle rendite finanziarie, che
bene o male daranno un perdita di gettito
spostata in avanti nel tempo, giungendo
cosı̀ ad un costo complessivo di oltre 60
mila miliardi, che pone senza dubbio un
problema di copertura.
Nell’articolo 9 si sostiene che non esiste
una perdita di gettito, però nel DPEF e in
alcune dichiarazioni del ministro Tremonti sembrerebbe che tale eventualità,
derivante dalla manovra sull’IRAP, sarà
fronteggiata ricorrendo all’IRPEG, determinandone il raddoppio.
Lo stesso articolo 9 si pone in via
subordinata il problema degli oneri finanziari derivanti dall’applicazione della riforma e dispone che nel caso di maggiori
oneri il ministro dell’economia e delle
finanze, dopo aver dato tempestiva comunicazione, provvederà ad intervenire.
Nella mia esperienza governativa di
alcuni anni fà i funzionari mi ricordavano
l’esistenza della legge n. 468 del 1968 in
materia di copertura, che impone di determinarne l’entità ex ante e non ex post.
Si tratta, quindi, di un problema di
natura politica e non di tipo tecnico,
perché in ultima analisi attraverso la richiamata disposizione subordinata si vuole
finanziare la riforma tributaria con il
metodo del supply side. Il che significa, per
le tesi ispirate al neoliberismo economico,
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attendere che l’economia sia rilanciata e
che si allarghi la base imponibile per
ottenere l’autofinanziamento. Tuttavia,
non credo che il nostro sistema legislativo
consenta di varare una norma, attenderne
l’effetto supply side ed, eventualmente, intervenire a posteriori con una modifica
delle aliquote: è una pratica, che viola la
legge n. 468 del 1978. È pur vero, però,
che il Parlamento è sovrano e può votare
una norma precisa, in cui si afferma che
il sistema di copertura è ad intervento
posteriore, modificando esplicitamente la
legge citata. Credo, comunque, che dal
punto di vista economico generale si tratti
di un passo indietro.
Non mi scandalizza la cancellazione
dell’IRAP, quale fonte di finanziamento
della spesa sanitaria, se tale scelta di
politica economica e fiscale di colpire di
meno la produzione risulta coerente. Non
si dimentichi che storicamente si è colpita,
insieme ai redditi di lavoro e di capitale
anche la produzione, attraverso un sistema
di imposte che, oramai, è lo stesso da
cinquant’anni. L’IRAP non è altro che il
risultato della razionalizzazione di 5-6
imposte, che per 40-50 anni hanno sempre
gravato sulla produzione; la sua alternativa sarebbe stata colpire i consumi con
un’altra IVA, di tipo monofase, o, invece,
il reddito prodotto dalla generalità dei
soggetti. Tuttavia, non era possibile colpire
i consumi con la monofase, perché si
sarebbe determinato un duplicato dell’IVA
e la Corte di Lussemburgo non lo avrebbe
permesso, come per la Danimarca, mentre
gravare sulla collettività con un’imposta
generale sul reddito significava aumentare
le aliquote dell’IRPEF, ben oltre i limiti
attuali, già molto elevati.
Per reperire, quindi, 60 mila miliardi
per la sanità, l’unica via possibile è stata
determinare un imposta più razionale
sulla produzione. Ora, se si abbandona
l’IRAP e se non si può raddoppiare l’IRPEG, il Governo ha un grosso problema
per trovare i 60 mila miliardi necessari.
Ogni esercizio di fantasia mi ha portato a
risultati negativi.
Nel caso di abolizione dell’IRAP, oltretutto, per il Governo si creerebbero alcune
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questioni di incostituzionalità, relativamente al titolo V della Costituzione. È vero
che l’IRAP è stata istituita con una legge
statale, ma è anche vero che, strada facendo, si è trasformata in un’imposta
regionale, non solo in termini di gettito ma
anche di autonomia impositiva, entrando
ormai nell’ambito delle imposte regionali.
Nutro qualche dubbio sul fatto che potrebbe essere abolita un’imposta, oramai
regionale, senza un accordo delle regioni.
Per quanto riguarda la costruzione del
sistema di tassazione delle società, operato
con l’articolo 4, ritengo che si tratti di una
norma accettabile ed è un passo avanti
rispetto al sistema precedente, non perché
fosse peggiore, ma in quanto era un sistema di passaggio da uno vecchio tipo di
imposizione non neutrale, come sottolineava prima Muraro, ad uno più neutrale.
Comunque, l’ex ministro Visco ha raggiunto obiettivi notevoli con la sua riforma
e, applicando la DIT, ha detassato le
imprese più di Tremonti. Mi pare ormai
scontato che la DIT a regime avrebbe
determinato un’aliquota media dell’IRPEG
al 25-26 per cento ed anche la Confindustria è allineata su tali dati. Sicuramente,
l’IRPEG di Tremonti si applicherà al 33
per cento come espressamente previsto
nell’articolo 4.
Non dimenticate l’effetto negativo che
risulta dalla cancellazione della DIT al 30
giugno 2001 e dall’applicazione dell’aliquota al 33 per cento che scatterà nel
2004. Infatti, dal 2001 al 2004, le imprese
che andranno a capitalizzare o che inizieranno nuove attività non potranno
fruire né della DIT, né del 33 per cento,
ma avranno un’imposizione al 36 per
cento.
Quindi, oltre che per altre ragioni, la
recente legislazione varata dal centrosinistra era sicuramente più favorevole alle
imprese anche se era abbastanza complicata. Ad esempio, tale sistema tributario
ha detassato le plusvalenze, colpendole
con un’aliquota al 19 per cento (quelle
prodotte all’interno del gruppo riferite alle
fusioni, ai disavanzi di fusione, alle cessioni di azienda, alle cessioni di partecipazioni); però ha creato un sistema com-
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plicato in cui bisognava, ad esempio, calcolare il credito di imposta attraverso i
cosiddetti basket (i canestri) mediante calcoli non facili per le piccole e medie
imprese e con sistemi di arbitraggi delicati
perché, obiettivamente, si tassava la plusvalenza al 19 per cento e magari si
deduceva l’asset al 36 per cento.
Dunque, a mio avviso, da questo punto
di vista la linea di Tremonti è una continuazione semplificatoria del regime della
riforma Visco operata optando per il regime raccomandato dalla Commissione europea nel senso di tassare non più il socio
ma soltanto la società evitando, quindi, la
doppia tassazione economica e giuridica
(si tratta di novità che mi sembrano molto
interessanti). La conseguenza di ciò è
l’eliminazione sia del credito di imposta e
della legislazione che vi era intorno, sia
della tassazione dei dividendi infragruppo
(al 95 per cento attraverso un meccanismo
tecnico, non al 100 per cento). Ciò comporta anche una detassazione delle plusvalenze da cessioni di partecipazioni,
perché si afferma che la plusvalenza non
è altro che o una anticipazione di dividendi non imponibili, o di dividendi già
tassati a suo tempo. In verità, ciò non è del
tutto vero perché la plusvalenza può anche
rimanere latente e non è detto che poi vi
saranno dei dividendi che verranno tassati;
però direi che, forfettariamente, questo
ragionamento funziona: è un vantaggio
accettabile.
Il problema – qui la cosa si fa un po’
più delicata – è che in questo modo si
discrimina tra plusvalenze da cessioni di
partecipazioni e plusvalenze da cessioni di
azienda o ramo d’azienda (di asset), perché
in questo caso, nel sistema Tremonti, la
plusvalenza è pienamente tassata, mentre
nel sistema Visco veniva tassata al 19 per
cento, come le altre plusvalenze. Credo
che la risposta di chi ha scritto la normativa sia che, se si vuole essere detassati,
occorre conferire gli assets in una società
e cedere le partecipazioni in esenzione. Ma
si tratta di un discorso solo economico, e
il legislatore non può incentivare il conferimento in società di asset solo per avere
i vantaggi, anche se è un’elusione legittima.
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La norma, infatti, deve prevedere un sistema « a bocce ferme » che non sia discriminante.
In più, è vero che, se le plusvalenze
vengono tassate in capo al cedente (si
parla sempre di plusvalenze da cessioni di
azienda), il cessionario può dedurre l’ammortamento e, quindi, il costo corrispondente. Ma questo effetto non comporta
una compensazione del carico fiscale,
perché i due soggetti sono distinti: il
cessionario ha il vantaggio di detrarre, il
cedente ha lo svantaggio di pagare l’imposta. Per ovviare a tale inconveniente
viene fatto anche qui un discorso economico: quando si fissa il prezzo di vendita
dell’azienda, si sconta che il cessionario
avrà il vantaggio dell’ammortamento mentre il cedente avrà lo svantaggio dell’imposta. Ma ciò non funziona, perché non si
può scrivere una norma presupponendo
un patteggiamento tra le parti. Dunque,
qui c’è obiettivamente una discriminazione. Come si supera tale discriminazione ? Detassando anche le plusvalenze da
cessioni di azienda; tuttavia, in questo caso
si riaffaccia il problema del gettito, perché
esso si riduce ulteriormente e va quindi
coperto.
Tale sistema – che, come avete notato,
mi sembra molto più chiaro ed in linea
con il sistema tedesco e con quello di altri
paesi occidentali (alcuni, come la Gran
Bretagna e la Francia, lo stanno approntando) – è sicuramente più semplice, si
presta meno ad arbitraggi (salvo questo
inconveniente della discriminazione) e può
finalmente dar luogo al consolidato.
Per quanto riguarda il consolidato, vorrei esprimere qualche lieve perplessità, nel
senso che questo è un consolidato di tipo
fiscale e non di tipo civile. Ha soltanto un
valore fiscale ed è simile più al consolidato
dell’IVA di gruppo che ai consolidati di
alcuni paesi occidentali. Quindi, si tratta
di un sistema che serve soltanto a far sı̀
che nell’ambito del gruppo alcune società
partecipate optino per il sistema di tassazione di gruppo (o di consolidato fiscale).
Quando il gruppo è interno, addirittura
alcune possono optare ed altre no.
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Quale è l’obiettivo ? È quello di far sı̀
che, siccome si fa il consolidato « al saldo »
– vale a dire che nella dichiarazione della
partecipante non concorrono le singole
componenti positive o negative ma solamente il saldo – si produca nel gruppo
una compensazione di perdite con utili.
Insomma, se la società partecipante presenta delle perdite o degli utili, li compenserà con le perdite o gli utili delle
partecipate. In fondo cosa facevano, finora, i grandi gruppi ? Svalutavano e deducevano la svalutazione: il risultato era lo
stesso, ma raggiunto in modo diverso.
Quale è allora il problema che l’articolo 4
pone ? Mi sembra che il disegno di legge di
delega sia molto denso di dati tecnici,
tuttavia mancano tre o quattro punti fondamentali che forse dovreste scrivere. Infatti, non viene indicato, in primo luogo,
chi sia il responsabile in caso di controllo
ed accertamento del reddito dichiarato
della capogruppo. In secondo luogo, non
viene indicato nei confronti di chi debba
effettuarsi l’accertamento. Non è indicato,
inoltre, se anche le società partecipate
debbano fare la dichiarazione. Non è indicato nei confronti di chi va realizzato il
recupero. Queste carenze derivano dal
fatto che, se vi fosse un’identità con la
definizione di gruppo civilistica sapremmo
chi è il responsabile civile (è il caso, ad
esempio, in cui le partecipazioni sono
all’80 per cento o al 90 per cento) e
avremmo il partecipante che controlla in
modo talmente pregnante le partecipate da
divenire il responsabile dell’andamento
della gestione delle partecipate stesse. In
questo caso, invece, siccome il controllo è
al 50,1 per cento, diretto o indiretto, non
si può porre a carico della partecipante la
responsabilità solo per i fatti fiscali, che
esorbitano i dati del bilancio civile. Ma
allora questo sistema che funzionamento
può avere se non si riesce a stabilire chi
è il responsabile, chi paga l’imposta, chi
deve rispondere e cosı̀ via ? L’unica strada
può essere quella di prevedere una coobbligazione solidale fra i due soggetti (partecipante e partecipate), magari assumendo la partecipante come coobbligato
solo sussidiaria.
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FIORELLA
KOSTORIS
PADOA
SCHIOPPA, Presidente dell’ISAE. La delega
fiscale chiesta dal Governo nel campo
della tassazione del reddito delle famiglie
prevede l’accorpamento delle aliquote e
degli scaglioni di reddito dalle cinque
attualmente in vigore a due (23 per cento
fino al 100 mila euro, circa 200 milioni di
lire, e 33 per cento oltre tale livello di
reddito). Le altre indicazioni principali
fornite dalla delega riguardano l’individuazione di un nuovo livello di reddito esente,
da definire in funzione della soglia di
povertà, la trasformazione delle detrazioni
di imposta in deduzioni dal reddito ai fini
del calcolo dell’imponibile (da concentrare
sui redditi bassi e medi), la modulazione
delle deduzioni stesse in funzione di una
serie di criteri, quali la famiglia, la casa, la
sanità, l’istruzione, la formazione, la ricerca, la previdenza, il non profit, il volontariato, le confessioni religiose, nonché
i costi per la produzione del reddito da
lavoro. Sono rivisti inoltre i criteri di
determinazione dell’imponibile relativo al
reddito di impresa delle famiglie.
Con riguardo alla riforma dell’IRPEF
che discenderà dalla delega, va sottolineato che, in attesa dei decreti attuativi, il
disegno non appare definito, e dunque la
valutazione di effetti macro e microeconomici derivano necessariamente da ipotesi di studio. Nell’ambito del dibattito che
ha preceduto la presentazione del disegno
di legge delega sono stati indicati alcuni
altri elementi di cui può esser utile tenere
conto. Ad esempio, il DPEF del luglio
scorso affermava che « i redditi intorno ai
22 milioni fruiranno, in funzione della
composizione del nucleo familiare, di
un’esenzione totale ». Inoltre, nell’audizione parlamentare del 29 gennaio scorso,
il ministro dell’economia e delle finanze
Giulio Tremonti ha interpretato il nuovo
sistema come un regime a tre aliquote: 0,
23 per cento e 33 per cento. Un’altra
considerazione riguarda la discriminazione categoriale tra reddito dipendente ed
autonomo, non esplicitamente menzionata
nel testo del disegno di legge delega: non
è chiaro se questa possa eventualmente
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essere riproposta attraverso una differenziazione delle deduzioni per i costi di
produzione del reddito da lavoro.
Un punto molto rilevante è poi la
previsione di una « clausola di salvaguardia », contenuta nel disegno di legge, la
quale impone che « il nuovo regime risulti
sempre più favorevole o uguale, mai peggiore del precedente ». Se questa clausola
va applicata al singolo contribuente, cioè
se nessuno deve subire una perdita e
qualcuno deve guadagnare rispetto alla
situazione a legislazione vigente, si deve
concludere che gli alleggerimenti fiscali
potranno essere compensati direttamente
nell’ambito della stessa imposta soltanto
da nuovi redditi o da neo-occupati, a loro
volta creati da effetti tipo keynesiano (moltiplicativi), da ragioni di supply side (incentivi ad offrire lavoro e ad emergere),
nonché da crescita della produttività nel
periodo quinquennale nel quale la riforma
fiscale andrà a regime. Tale copertura sarà
probabilmente solo parziale, talché l’articolo 9 della delega prevede la « sostanziale
invarianza dei saldi economici e finanziari
netti dei singoli settori istituzionali », tenuto anche conto di altri interventi estranei alla delega fiscale. L’invarianza dei
saldi deve riguardare, poi, secondo l’articolo 9, l’insieme degli interventi oggetto
della delega, talché, laddove queste condizioni non siano automaticamente soddisfatte, « il ministro dell’economia e delle
finanze dopo averne dato tempestiva notizia al Parlamento, assume le conseguenti
iniziative, predisponendo... un apposito
decreto, che, variando opportunamente le
aliquote delle singole imposte corregga
l’andamento del gettito per ripristinare
una situazione di invarianza ». Da questo
punto di vista è importante considerare la
valutazione del costo complessivo del
provvedimento offerta dal ministro Giulio
Tremonti nel corso dell’audizione già citata, con l’indicazione che il gettito dell’imposta sul reddito potrebbe risultare
ridimensionato per circa 40-45 mila miliardi.
In proposito, l’ISAE ha elaborato alcune stime usando due diverse banche
dati. Da un lato, il modello di microsimu-
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lazione Itaxmod è basato sui dati del
campione dell’indagine sui bilanci delle
famiglie italiane della Banca d’Italia riferiti al 1998. La normativa e l’imponibile
sono aggiornati al 2002. Si deve premettere che le valutazioni effettuate cercano
di cogliere soprattutto gli effetti distributivi sulle famiglie, mentre l’impatto stimato
sul gettito complessivo risente del fatto che
redditi del data base derivano da un’indagine campionaria e non sono quelli dell’anagrafe tributaria. Dall’altro lato, sono
utilizzate le informazioni più recenti rese
disponibili sull’universo dei contribuenti di
fonte Sogei. Queste ultime appaiono, però,
molto datate, riguardando le dichiarazione
dei redditi delle persone fisiche presentate
nel 1996 e relative ai redditi del 1995.
Approfitto di questa circostanza ufficiale
per informare che nel nostro Paese, ad un
ente pubblico di ricerca, chiamato a rispondere a richieste cosı̀ pressanti e delicate come la riforma tributaria da parte
del Governo e del Parlamento – oltre che
dell’opinione pubblica – sono rese disponibili da un altro ente finanziato dal
contribuente le stesse informazioni che
all’uomo della strada con altrettanto (deplorevole) ritardo.
Di seguito presenterò alcune analisi
sugli effetti macroeconomici e distributivi
della delega fiscale in materia di imposta
sul reddito. Essi sono valutati, da un lato,
con riferimento agli individui sulla base di
figure tipo: in questo caso si ipotizza la
sostituzione delle detrazioni da lavoro dipendente e autonomo con deduzioni generalizzate. Dall’altro lato, si presentano
varie micro simulazioni, riferite come già
accennato alle famiglie: in questo secondo
caso si assumono diversi tipi di variazioni
delle aliquote ed esenzione del reddito, ma
lasciando tutte le detrazioni e deduzioni
oggi presenti, salvo, poi, indicare le implicazioni macroeconomiche che si otterrebbero, in alternativa, abbandonando alcune
detrazioni oggi vigenti.
Tornando ora alle quantificazioni di
gettito complessivo, il costo per le finanze
pubbliche della mera revisione delle aliquote, a prescindere da qualsiasi altro
intervento sulle esenzioni, le detrazioni e
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le deduzioni, che quindi rimarrebbero
uguali alle attuali, risulta dalle microsimulazioni molto contenuto, pari a circa
1000 miliardi. Infatti, il minor gettito sui
redditi marginali più alti è compensato in
larga misura dal maggiore introito assicurato dall’incremento dal 18 per cento al 23
per cento dell’aliquota del primo scaglione. Una verifica, effettuata sui dati
fiscali disponibili, conferma che le entrate
complessive non risentirebbero significativamente di una simile manovra. I costi
pagati dai contribuenti a reddito basso
(primo, secondo ed una parte del terzo
scaglione) sarebbero peraltro molto elevati, e questo è in contraddizione con la «
clausola di salvaguardia »: il confronto con
la situazione vigente, illustrato dalla tabella 1, è convincente.
Preliminarmente, vale la pena di verificare gli effetti su alcuni livelli di reddito
indicativi, rispetto alla legislazione vigente,
di una tassazione a tre aliquote (0, 23 per
cento, 33 per cento), con esenzione del
reddito fino a 20 milioni di lire per tutti
i contribuenti. Va evidenziato che si considera l’esenzione a 20 milioni come sostitutiva di quella garantita attualmente
dalle detrazioni sul reddito lavoro (ricordo
che sono esentasse i redditi da lavoro
dipendente fino a 12 milioni e quelli da
lavoro autonomo fino a 6), mentre non si
ipotizzano cambiamenti delle deduzioni
dal reddito.
La tabella 2 (vedi allegato 6) riporta
alcuni degli elementi che si tenta di simulare, cioè l’ammontare delle imposte e
le aliquote medie e marginali per lavoratori dipendenti e autonomi. Nelle prime
colonne si fa riferimento alla legislazione
vigente, tenendo conto delle detrazioni per
lavoro dipendente e autonomo. Per un
reddito da lavoro dipendente di 12 milioni,
cosı̀ come per un reddito da lavoro autonomo di 6 milioni, evidentemente, la riforma non produce variazioni di imposta.
Su un reddito di 20 milioni (pari al limite
del primo scaglione, cui attualmente è
applicata l’aliquota più bassa del 18 per
cento) si pagano 2,55 milioni con le detrazioni per lavoro dipendente, e 3,4 milioni se si può applicare solamente la più
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contenuta detrazione per reddito da lavoro
autonomo e/o impresa. Con la riforma, se
si attuasse la delega, secondo le ipotesi
sopra formulate, cioé con l’esenzione fino
a 20 milioni per tutti, si ottengono riduzioni di imposta sempre più alte via via
che si sale agli scaglioni più elevati, mentre
lo scarto tra le aliquote medie prima e
dopo l’intervento si cresce fino a 200
milioni e poi si arresta e anzi cala lievemente. Il risparmio di imposta a livelli alti
di reddito è estremamente consistente,
superando i 30 milioni a 200 milioni di
imponibile e raggiungendo circa i 45 milioni a 300.
Nel caso del lavoratore autonomo gli
andamenti sono simili. Il maggiore risparmio di imposta è ascrivibile all’ipotesi
adottata, che non riproduce l’attuale discriminazione nelle detrazioni per redditi
da lavoro. Se un trattamento uniforme del
reddito da lavoro dipendente o autonomo
effettivamente discendesse dalla riforma,
si raggiungerebbe una maggiore equità
fiscale, superando l’attuale meccanismo
fondato essenzialmente sulla presunzione
di evasione da parte dei lavoratori che non
versano all’erario attraverso il sostituto
d’imposta. Tuttavia, come sopra evidenziato, la discriminazione tra lavoro dipendente o autonomo nel futuro regime potrebbe essere ripristinata attraverso la modulazione delle detrazioni per costo di
produzione del reddito.
Un’ipotesi come quella sopra delineata
implica un onere per il bilancio pubblico
che supera largamente quello indicato
come plausibile del corso dell’audizione
del ministro Tremonti. Nel caso in cui,
oltre alla modifica delle aliquote, venisse
introdotta infatti l’esenzione dei primi 20
milioni di reddito per tutti i contribuenti
(aliquota zero) e, in aggiunta, restassero
valide le vecchie detrazioni, il costo, stimato con il modello di microsimulazione,
risulterebbe superiore a 100 mila miliardi
di lire, ma scenderebbe a oltre 80 mila
miliardi se fossero eliminate le detrazioni
oggi esistenti per lavoro dipendente o
autonomo, essendo sostituite dalle deduzioni. Si badi che la perdita di gettito
deriverebbe essenzialmente dall’ipotesi
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adottata con riguardo all’ampliamento dell’esenzione. Si tratta di un’ipotesi di studio
evidentemente interessante ai fini della
comprensione dei possibili effetti di un
intervento del tipo flat rate tax, ma lontana
dalle cifre auspicabili.
Gli effetti distributivi sono indicati
nelle tabelle 3-6. Le prime due mostrano
che più dell’85 per cento delle famiglie
trarrebbe vantaggio dalla riforma, mentre
resterebbe indifferente il 14 per cento. I
nuclei la cui posizione risulti invariata
sono essenzialmente quelli a reddito basso
(più della metà del primo quintile di
reddito, quasi il 30 per cento delle famiglie
residenti al Sud), e questo è dovuto fenomeno dell’incapienza. Il guadagno medio
dei beneficiari , come illustrato nel tabelle
4 e 5, risulta pari a circa 6 milioni 200
mila lire e cresce da 1 milione e 800 mila
lire nel primo quintile a 11 milioni circa
nell’ultimo e da 4,9 milioni al Sud a 6, 8
milioni al Nord.
Un’ipotesi di gran lunga meno dispendiosa, perché darebbe infatti 15 mila miliardi di deficit ottenuta attraverso il nostro modello di microsimulazione Itaxmod,
è quella che limita l’esenzione redditi
imponibili inferiori o uguali a 20 milioni
(quindi, solo i redditi fino a 20 milioni
otterrebbero le esenzioni). Come si vede
dalla tabella 6, analoga alla tabella 2
prima citata, fino a 20 milioni di imponibile la situazione è invariata rispetto alla
situazione precedente (e dunque migliorata rispetto alla condizione attuale dei
contribuenti). Un lavoratore dipendente
con 30 milioni subisce invece un aggravio
di imposta di circa due milioni. In effetti,
per i redditi appena superiori a 20 milioni
si verifica addirittura una situazione di
« trappola della povertà »: ad esempio, con
21 milioni di reddito imponibile, l’imposta
supera i 4,8 milioni e il reddito disponibile
cala a poco più di 16 milioni. Pertanto,
non è conveniente guadagnare più di 20 e
meno di 26 milioni. Passando ai contribuenti con 60 milioni di reddito, si evidenzia di nuovo un risparmio di imposta
di circa 1 milione. Il vantaggio cresce in
seguito fino a toccare 40 milioni con un
imponibile di 300 milioni annui. I dati
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mostrano, rispettivamente per i lavoratori
dipendenti e autonomi, le differenze tra le
imposte dovute con e senza l’intervento e
l’andamento delle aliquote medie, che
dopo la riforma si pongono al di sopra del
livello pre-riforma a circa 30 milioni di
reddito.
Gli effetti distributivi per le famiglie,
calcolati nel caso in cui l’esenzione sia
concessa solamente a coloro che dispongono di un reddito fino a 20 milioni (a
parità di detrazioni) sono indicate nelle
tabelle 7-12. Le famiglie avvantaggiate sarebbero, in questo caso, pari al 43 per
cento; tale percentuale crescerebbe al 25
per cento il primo quintile, al 66 per cento
dell’ultimo, dal 40 per cento del Sud al 44
per cento del Nord e al 47 per cento del
Centro, ma altrettante subirebbero una
perdita, soprattutto nei quintili centrali ),
al Nord e al Centro. I nuclei non toccati
dalla riforma sarebbero, come prima, concentrati principalmente nel primo quintile.
Il guadagno medio dei beneficiari, pari a
circa 2,6 milioni, crescerebbe da 900 mila
circa a 5,2 milioni nel passare a quintili
via via più elevati, e dai 2 milioni del Sud
ai 2, 8 del Nord e ai 2,9 del Centro. La
perdita media dei soggetti svantaggiati risulterebbe di poco superiore alle 900 mila
lire e crescerebbe fino al quarto quintile
per ridursi nell’ultimo. La distribuzione
territoriale risulterebbe più omogenea. Il
guadagno medio per la società sarebbe
pari a 717 mila lire, l’1,2 per cento del
reddito medio disponibile equivalente.
Come si vede, questa ipotesi, sebbene
poco « costosa » per le finanze pubbliche,
non rispetta la « clausola di salvaguardia »,
la quale prevede che nessun contribuente
sia svantaggiato dalla riforma. Pertanto, si
deve immaginare un intervento più complesso sugli oneri deducibili ai fini del
calcolo del reddito imponibile, immaginando un’esenzione decrescente al crescere del reddito stesso.
La riforma si collocherà ad un livello
intermedio tra i due estremi sopra esaminati. Una ipotesi ancora di studio, ma più
vicina probabilmente alle intenzioni del
Governo, sia dal punto di vista dell’aggravio di bilancio, sia da quello del vincolo
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distributivo (la clausola di salvaguardia), si
ottiene supponendo che il reddito esente si
riduca gradualmente oltre i 20 milioni di
imponibile, per annullarsi oltre i 60 milioni. Le microsimulazioni effettuate indicano in 54 mila miliardi i costi di un
sistema di questo tipo. Si deve osservare
ancora che le elaborazioni effettuate non
modificano i livelli delle attuali detrazioni
e deduzioni. Se l’esenzione ipotizzata fosse
considerata sostitutiva di tutte o di alcune
detrazioni e deduzioni esistenti, il gettito
calerebbe in misura più contenuta. In
particolare ci si avvicinerebbe ai 35 mila
miliardi.
Gli effetti distributivi sono presentati
nelle tabelle 13-16. Nessuna famiglia subisce perdite. L’86 per cento dei nuclei
familiari ottiene un guadagno, e tale percentuale cresce nel passare a quintili di
reddito via via più elevati, dal 48 per cento
nel primo quintile al 99 per cento nell’ultimo. Dal punto di vista territoriale, la
frequenza di famiglie favorite dalla riforma è meno elevata al Sud (73 per
cento) rispetto alle altre due macro aree
(92 per cento). Considerando le sole famiglie che guadagnano, esso supera di
poco i 3 milioni, ed aumenta al crescere
del reddito da 1,3 milioni nel primo quintile a 5,4 nell’ultimo. Il vantaggio medio è
pari a 2,4 milioni al Sud, contro i 3,3 e 3,2
milioni, rispettivamente, al Nord e al Centro.
Volendo contenere l’esposizione, continuo la relazione sul disegno di legge
delega.
L’ipotesi più plausibile tra quelle di cui
l’ISAE ha fin qui simulato gli effetti (nell’incertezza di lettura della delega), sembra
essere l’ultima, sia per quanto riguarda
l’ammontare dell’onere per il bilancio
pubblico, sia perché è rispettata la clausola di salvaguardia.
Vorrei in conclusione sottolineare gli
aspetti positivi che deriverebbero dalla
delega. Il primo consiste nella semplificazione del meccanismo dell’imposta, che
discende dalla riduzione a due del numero
di aliquote e dalla eliminazione della detrazioni a favore delle deduzioni, sempre
che l’applicazione di un’articolazione delle
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deduzioni in funzione di tutti i 10 criteri
indicati nella delega non richieda una
modulazione delle stesse talmente complessa da rendere nuovamente confuso
l’insieme, il che non avverrebbe se i 10
criteri fossero conglobati in uno-due parametri (tipo le scale di equivalenza ISEE).
Il secondo riguarda gli effetti di impulso all’economia tramite i fattori di
demand e di supply side (con riduzione
dell’incentivo all’evasione ed un aumento
del incentivo al lavoro, data un’aliquota
marginale massima inferiore di 12 punti a
quella vigente, e dunque con possibile
recupero e allargamento di base imponibile). Infine, la delega fiscale oggi in
discussione garantisce a tutti di non subire
perdite e in molti casi di ottenere un
vantaggio: si tratta pertanto di una situazione Pareto superiore dal punto di vista
delle famiglie. I più favoriti sono i benestanti, il che lascerebbe intendere una
minore equità distributiva. Ma essa va
giudicata anche nel tempo, oltre che nello
spazio. Da questo punto di vista non si
può dimenticare che le manovre tributarie
attuate negli anni scorsi, e ancora con la
legge Finanziaria per il 2002, per lo più
hanno garantito benefici alle fasce mediobasse di reddito, offrendo relativamente
poco o nulla a quelle medio-alte, che pure
hanno pagato costi consistenti nella fase di
estremo rigore di bilancio che ha preceduto l’ingresso nell’Unione monetaria europea.
Per converso, può essere non gradito
quanto dall’ultima simulazione appare
chiaro, che cioè le zone meno sviluppate
del nostro Paese, benché avvantaggiate
dalla delega, lo siano relativamente meno
del Centro-Nord. Ciò tenderà ad aumentare la divaricazione territoriale. Questo
problema non può essere probabilmente
risolto nell’ambito dell’imposta sui redditi,
ma dovrebbe indurre ad altri interventi
volti a ristabilire un equilibrio livello territoriale.
NICOLA ROSSI. Il professore Longobardi valuta di fatto il costo della riforma
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in circa 50 miliardi di euro, equivalenti ad
una riduzione della pressione fiscale dell’1
per cento all’anno.
Per quanto riguarda gli effetti redistributivi della riforma, diverse valutazioni
presentate fanno pensare che non sia
peregrina l’ipotesi che la riforma avvantaggi sostanzialmente le fasce di reddito
più elevate. Il professor Longobardi dispone di valutazioni quantitative che renderebbero comprensibile per quali condizioni tale effetto non potrebbe verificarsi ?
Inoltre, vorrei conoscere il suo giudizio
sulle interessanti osservazioni a proposito
del concetto di giusta imposta presente
nella relazione di presentazione del provvedimento.
GIORGIO BENVENUTO. Desidererei
disporre di qualche altro elemento riguardante l’attualità della riforma, che con
granitica determinazione e coerenza il ministro Tremonti aveva già delineato nel
libro bianco del 1994, nell’ultima campagna elettorale e nell’opuscolo presentato in
occasione delle elezioni europee. L’unico
elemento di novità che pare registrarsi
rispetto ad allora riguarda la de-tax.
La riforma non si collega a mutamenti
rilevanti intervenuti nel tempo, come il
rapporto tra l’imposizione fiscale statale e
decentrata. È un aspetto importante, che
potrebbe determinare un aumento del carico fiscale, sebbene si parli, invece, di
diminuirlo.
Non riusciamo a comprendere perché
la legge delega, da questo punto di vista,
sia cosı̀ evanescente. Esiste innanzitutto
l’enorme problema dell’IRAP; esiste poi il
problema del modo in cui il disegno di
legge si pone nei confronti delle regioni e
delle province. Per fare un esempio concreto, ricordo che in questi giorni è stato
siglato il contratto di lavoro per i pubblici
dipendenti che – posso dirlo con cognizione di causa – è il migliore degli ultimi
quindici anni quanto a generosità ed elementi contrattuali, ma ha un impatto
fortissimo sullo autonomie locali perché,
tra dipendenti dei comparti della sanità e
degli enti locali, sono più di 1 milione e
300 mila i lavoratori che non potranno
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beneficiare degli impegni economici assunti. Mi chiedo pertanto come sia possibile conciliare questa politica a livello
centrale con una politica a livello decentrato,
Mi chiedo inoltre se una politica di
riduzione della pressione fiscale – molto
sentita negli anni novanta – sia tanto
all’attenzione dell’opinione pubblica e dell’economia da richiedere interventi cosı̀
forti e se, al contrario, non si scontri con
nuove esigenze e diversi problemi. Penso,
ad esempio, alle questioni e agli impegni
per l’ambiente, che richiedono un intervento dello Stato o delle autonomie decentrate; penso anche agli impegni per la
scuola, per la quale è previsto un programma consistente. Come si colloca questa delega nel contesto di una situazione
mutata, di nuove esigenze e di nuove
politiche fiscali ?
Aggiungo che gli interventi di politica
economica sono stati realizzati attraverso
una serie di provvedimenti non strutturali
ma congiunturali, come quelli dei 100
giorni (ma non solo). Ebbene, come si
conciliano questa entrate congiunturali
con un abbattimento strutturale cosı̀ rilevante della pressione fiscale ? Vorrei citare
solo un esempio: l’emersione dal sommerso, cosı̀ com’è, sarà un clamoroso
fallimento, nonostante la normativa sia
stata modificata tre volte. Si prevedeva di
recuperare dall’emersione 9-10 mila miliardi di lire, ma neppure con il massimo
ottimismo si può prevedere che ciò si
realizzi. Il professor Longobardi ha parlato di scommessa: a me sembra piuttosto
una politica di azzardo.
Infine, la professoressa Padoa Schioppa
ha posto un problema delicato, che attiene
alla della capacità di comunicazione, quasi
una sorta di demagogia della comunicazione. Si è tentato di calcolare quanti
uscirebbero dalla povertà con questa riforma e la professoressa ha sottolineato
come i soggetti al di sotto delle soglie dei
6 e dei 12 milioni di lire siano già esenti
e non traggono alcun beneficio da una
modifica gigantesca del sistema fiscale,
pari a 45 mila miliardi. Anzi, se a fronte
di una politica di riduzione della pressione
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fiscale e dovesse verificarsi la riduzione
delle prestazioni dello Stato per il welfare,
questi soggetti subirebbero addirittura una
beffa: altro che principio etico di redistribuzione a favore della famiglia !
MAURIZIO LEO. Apprezzo molto il
contributo che ci viene offerto dagli studiosi di economia ed in particolare dal
professor Gallo, che ha affrontato le problematiche giuridiche. Apprezzo tale contributo in misura ancora maggiore se si
tiene conto del fatto che muoversi su
questi lineamenti generali della delega è
estremamente arduo e difficile, come ha
ben detto il professor Gallo, perché si
tratta di principi che dovranno in seguito
trovare completamento e contenuto. Infatti, siamo in una work in progress, e
dovremo fornire il nostro contributo per
rendere più dettagliate le previsioni normative; inoltre, le compatibilità finanziarie
dovranno essere ben individuate ed esattamente puntualizzate nella legge finanziaria. Ci troviamo oggi in una fase ordinamentale destinata ad indicare i criteri
guida mentre sarà la finanziaria a fissare
nel dettaglio gli aspetti economici.
Apprezzo moltissimo lo sforzo compiuto dalla professoressa Padoa Schioppa,
che è entrata cosı̀ nel dettaglio e che è
riuscita a fornire delle quantificazioni abbastanza convincenti, a seconda o meno
che siano giusti i presupposti. Teniamo
presente che l’imponderabile è correlato
proprio all’effetto detrazioni/deduzioni: in
questo ambito, la delega non è estremamente puntuale, perché non dice come si
intenderà modulare il meccanismo delle
detrazioni e delle deduzioni.
Vorrei ricollegarmi a quanto riferiva
prima il professor Longobardi per quanto
riguarda la tonnage tax, che ritengo uno
strumento da importare sicuramente nel
nostro ordinamento perché, come sapete,
il naviglio si muove in modo molto veloce
e rapido. Il dubbio che nutriva il professor
Longobardi riguardava la forfettizzazione
ed il fatto che fosse riferita al reddito o
all’imposta: a mio avviso – ma su questo
vorrei una sua valutazione – dovrebbe
essere sul reddito, tenendo tuttavia conto
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di certe componenti perché è logico determinare forfetariamente i ricavi, ma non
mi sembra altrettanto logico determinare
forfetariamente elementi che sono straordinari, quali le plusvalenze, rispetto alla
determinazione ordinaria dell’utile di esercizio derivante dai ricavi. Inoltre, esistono
una serie di complessità che possono
emergere all’entrata o all’uscita nel sistema; al riguardo, penso ad un soggetto
sottoposto al sistema ordinario che entri
nel sistema forfetario: cosa accade agli
ammortamenti e alle altre vicende che
attengono che alle componenti positive e
negative del reddito ?
Il professor Gallo, invece, ha puntualmente evidenziato gli aspetti di questa
riforma che devono essere completati. Per
quanto concerne le riorganizzazioni aziendali, il professor Gallo ha sollevato l’attenzione sul fatto che viene eliminata tutta
la tassazione oggi prevista, più favorevole,
al 19 per cento. In pratica, lasceremmo in
piedi il meccanismo dei conferimenti,
perché il conferimento neutrale resta,
mentre verrebbe eliminato il meccanismo
« elusivo » correlato ai disavanzi, sia da
annullamento, sia da concambio, che oggi
potrebbero fruire dell’affrancamento: infatti, attraverso il cedente che ha pagato le
imposte sul capital gain, il cessionario
potrà utilizzare tali disavanzi in franchigia
d’imposta. Da questo punto di vista si
configurerebbe una penalizzazione, a
fronte, tuttavia, dell’effetto corrispondente
per cui chi cede tale partecipazione non
paga le imposte.
Il dubbio che mi rimane riguarda le
cessioni d’azienda che non vedo perché
penalizzare: in quanto tale, la cessione di
azienda dovrebbe avere un trattamento
agevolato. Il decreto legislativo n. 358 del
1997 sulle riorganizzazioni aziendali potrebbe venir meno e rimanere in vita solo
per la parte relativa alla cessione
d’azienda: non vedo altra soluzione.
Per quanto attiene al consolidato, il
professor Gallo ha affrontato bene la questione perché, effettivamente, non si tratta
di un consolidato civilistico o fiscale ma
un qualcosa di più rispetto al consolidato
IVA del decreto del Presidente della Re-
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pubblica n. 633 del 1972 ed al consolidato
previsto dall’articolo 43-ter del decreto
Presidente della Repubblica n. 602 del
1973, che costituisce una cessione di credito infragruppo. In questo caso, si trasferiscono e si compensano redditi e perdite. Per quanto riguarda il problema
dell’accertamento, sollevato dal Professor
Gallo, anche se non è scritto nella delega
si dovrebbe arrivare alla conclusione che
dal momento che c’è una compensazione
del saldo finale (quindi del reddito e della
perdita), è obbligata sempre la società
controllata, nel soggetto che ha determinato imponibile, che può essere positivo o
negativo ma va a compensarsi.
Tale soggetto a cui dobbiamo rivolgere
le attenzioni accertative è, sicuramente,
quello controllato.
VITTORIO EMANUELE FALSITTA.
Per la mia preparazione giuridica, ho
qualche difficoltà nel seguire i riflessi
economici, di cui, pure, riconosco la centralità.
È importante comprendere se i sacrifici
saranno equi oppure se i più ricchi beneficeranno della riforma in modo maggiore,
ma credo che la stessa apporti un miglioramento per tutti, anche se esso è più
evidente per le fasce più alte.
Vorrei comprendere il significato della
de-tax e quale congegno si trovi nel meccanismo tracciato nella relazione e, poi,
riprodotto, faticosamente, nel tessuto normativo del disegno di legge. Quali sono le
vostre opinioni sul concetto di « non tassa » ? Ho riflettuto sugli elementi di connotazione del tributo, come la tassa ed il
contributo, e li sto cercando nella definizione di « non tassa », che, comunque, ha
qualcosa della tassa, dell’onere deducibile,
della detrazione e per certi versi ricorda
una donazione. A quale istituto può essere
avvicinata ? Non può essere concepita
come una deduzione, in quanto non rientra nella base imponibile.
NICOLA ROSSI. Il problema sulla natura della de-tax è comune un po’ a tutti.
Ho letto, recentemente, un lungo e corposo
intervento di Gordon Brown, che descrive
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una lunga casistica dei possibili interventi
per aiutare i paesi in via sviluppo: sono
elencate molte soluzioni, ma la de-tax non
compare.
PRESIDENTE. Il professor Gallo affermava che nella riforma si determina la
prima applicazione della supply side per la
copertura delle imposte; tuttavia, nell’articolo 9 si sostiene esattamente il contrario: la manovra non può avere effetti sul
deficit. Di conseguenza, vuol dire che la
stessa può essere finanziata solamente
quando altre partite di bilancio lo renderanno possibile nel rispetto delle regole e
dei principi di copertura previsti nella
nostra normativa di bilancio.
Un altro argomento tanto discusso concerne i beneficiari della riforma: molti
hanno dubitato del senso della stessa nel
momento in cui avvantaggia i ricchi. Tuttavia, se fino a 20 milioni non si è soggetti
a tassazione, quale altro vantaggio si può
conferire ? Nelle vostre opinioni l’imposta
ha un compito perequativo dei redditi ed
ha ancora importanza tale nozione ?
Nell’articolo 53 della Costituzione la
progressività rappresenta un principio che
attribuisce la responsabilità della copertura della spesa pubblica a coloro che
godono di un reddito più alto, il che non
significa la sua diminuzione con lo strumento fiscale. Se vuole essere introdotto,
allora, un principio di maggiore eguaglianza nella distribuzione dei redditi,
dobbiamo procedere in altri modi diversi
dal sistema fiscale.
FRANCO GALLO, Professore ordinario
di diritto tributario presso la facoltà di
giurisprudenza della LUISS. La progressività e l’equità verticale ed orizzontale
rappresentano scelte politiche e non credo
nell’esistenza di un « comando » costituzionale al riguardo che, se non eseguito,
comporta problemi di costituzionalità. La
progressività può intendersi diversamente:
nel secondo comma dell’articolo 53 della
Costituzione è riferita al sistema e non alle
imposte. Semmai vedrei il problema più
nell’ottica del principio espresso dall’articolo 3 della Costituzione: l’uguaglianza
come coerenza e razionalità del sistema.
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Se si adotta un sistema di tipo neoliberale o liberista, può essere corretto che
chi è più abbiente abbia maggiori vantaggi,
ma si tratta, comunque, anche qui di una
scelta politica.
Personalmente, trovo non necessaria la
proporzionalità dei vantaggi; tuttavia,
trovo anche ingiustificata e discutibile
un’operazione di politica economica e fiscale che riduce la pressione fiscale determinando vantaggi per tutti, ma maggiori per i ricchi.
Dalla relazione al disegno di legge sembra arguirsi che il ministro Tremonti segue
le teorie classiche neoliberiste, secondo cui
il più ricco spende di più e quindi aiuta in
tal modo i più poveri a uscire dallo stato
di povertà.
Per quanto riguarda la supply side, ho
letto nel comma 2 dell’articolo 9 che la
riforma si farà ad invarianza di gettito; se
poi comporterà oneri finanziari (che dovranno essere verificati), successivamente
si interverrà sulle aliquote.
Che vuol dire intervenire sulle aliquote
ai sensi dell’articolo 9 ? Vuol dire che se si
crea un sistema di riforma fiscale in cui vi
sono delle scelte di politica economica
molto chiare (tipo di deducibilità, riduzione maggiore o minore dell’imposizione,
determinazione del minimo imponibile) e
se
successivamente,
per
raggiungere
l’obiettivo dell’invarianza del gettito, vengono ritoccate le aliquote, c’è il rischio che
si rompa la coerenza del sistema originario di riforma.
FIORELLA
KOSTORIS
PADOA
SCHIOPPA, Presidente dell’ISAE. Nella mia
versione del disegno di legge si parla di
invarianza non del gettito, ma dei saldi
(Commenti). Mai di gettito: invarianza dei
saldi !
FRANCO GALLO, Professore ordinario
di diritto tributario presso la facoltà di
giurisprudenza della LUISS. La progressività e l’equità verticale ed orizzontale
rappresentano scelte politiche e non credo
nell’esistenza di un « comando » costituzionale al riguardo che, se non eseguito,
comporta problemi di costituzionalità. La
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progressività può intendersi diversamente:
nel secondo comma dell’articolo 53 della
Costituzione è riferita al sistema e non alle
imposte. Semmai vedrei il problema più
nell’ottica del principio espresso dall’articolo 3 della Costituzione: l’uguaglianza
come coerenza e razionalità del sistema.
Se si adotta un sistema di tipo neoliberale o liberista, può essere corretto che
chi è più abbiente abbia maggiori vantaggi,
ma si tratta, comunque, anche qui di una
scelta politica.
Personalmente, trovo non necessaria la
proporzionalità dei vantaggi; tuttavia,
trovo anche ingiustificata e discutibile
un’operazione di politica economica e fiscale che riduce la pressione fiscale determinando vantaggi per tutti, ma maggiori per i ricchi.
Dalla relazione al disegno di legge sembra arguirsi che il ministro Tremonti segue
le teorie classiche neoliberiste, secondo cui
il più ricco spende di più e quindi aiuta in
tal modo i più poveri a uscire dallo stato
di povertà.
Per quanto riguarda la supply side, ho
letto nel comma 2 dell’articolo 9 che la
riforma si farà ad invarianza di gettito; se
poi comporterà oneri finanziari (che dovranno essere verificati), successivamente
si interverrà sulle aliquote.
Che vuol dire intervenire sulle aliquote
ai sensi dell’articolo 9 ? Vuol dire che se si
crea un sistema di riforma fiscale in cui vi
sono delle scelte di politica economica
molto chiare (tipo di deducibilità, riduzione maggiore o minore dell’imposizione,
determinazione del minimo imponibile) e
se
successivamente,
per
raggiungere
l’obiettivo dell’invarianza del gettito, vengono ritoccate le aliquote, c’è il rischio che
si rompa la coerenza del sistema originario di riforma.
PRESIDENTE. Secondo la sua lettura,
dunque, le regioni saranno libere di stabilire un proprio sistema tributario ?
FRANCO GALLO, Professore ordinario
di diritto tributario presso la LUISS. È una
delle conseguenze di questa nuova normativa.
Camera dei Deputati
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PRESIDENTE. Mi scusi, ma non ne
segue che allora lo Stato deve limitarsi alla
sua materia propria e poi sperare che le
regioni non facciano disastri ?
FRANCO GALLO, Professore ordinario
di diritto tributario presso la LUISS. Esiste
il sistema tributario statale e quello regionale. Come affermano gli economisti, il
sistema tributario deve essere coordinato
nel suo complesso sia per ragioni macroeconomiche, sia per le norme comunitarie e, soprattutto, perché vi sono principi
fondamentali come l’omogeneità, la razionalità, la coerenza...
PRESIDENTE. È giusto: con la riforma
dell’articolo 117 della Costituzione non
abbiamo più un luogo (una volta si chiamava il Parlamento) nel quale realizzare
questo contemperamento.
FRANCO GALLO, Professore ordinario
di diritto tributario presso la LUISS. È la
legge statale che fissa i principi fondamentali, che sono préalables rispetto all’attività
delle regioni. Ma se lo Stato non interviene
la regione, al limite, troverebbe un limite
soltanto nei principi fondamentali cosı̀
enucleati ma non scritti. Credo sia importante, invece, che lo Stato fissi tali principi.
PRESIDENTE. È giusto, solo che non
so se la parola « principi fondamentali »
sarà sufficiente a evitare gli effetti di una
legislazione...
FRANCO GALLO, Professore ordinario
di diritto tributario presso la LUISS. Questo sarà un problema che avrete prossimamente. L’ultima questione che intendo
trattare riguarda le questioni poste dall’onorevole Leo. Sono d’accordo sul fatto
che, probabilmente, sono le società partecipate che devono fare la dichiarazione e
rispondere. Facciamo però un esempio: se
le società partecipate continuano ad essere
il punto di riferimento ai fini del controllo
fiscale, potrebbe allora accadere che una
partecipata abbia una perdita rilevantissima ed un patrimonio minimo inesistente.
Indagine conoscitiva – 5
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SEDUTA DEL
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FEBBRAIO
2002
Chi risponde in tale caso, visto che la
partecipata non ha nulla da perdere ?
MAURIZIO LEO. Se la società partecipata presenta una perdita rilevante ed ha
determinato i suoi componenti positivi e
negativi è lei, quindi, responsabile di tutto.
FRANCO GALLO, Professore ordinario
di diritto tributario presso la LUISS. La
imputa il dichiarante, la compensa ?
MAURIZIO LEO. È chiaro che esiste un
problema di solidarietà, che in tal caso si
pone un problema di obbligazione solidale...
FRANCO GALLO, Professore ordinario
di diritto tributario presso la LUISS. A mio
avviso, se il controllo da parte della società
partecipante è oltre l’85 o il 90 per cento,
si può dire che anche civilisticamente
esiste un controllo assoluto da parte della
partecipante, e quindi se la responsabilità
civilistica si imputa ad essa, è più facile
imputare alla stessa anche la responsabilità fiscale; se è sotto l’80- 85 per cento,
dovrebbe essere invece la partecipata ad
essere obbligata e la partecipante al massimo ad essere coobbligata in via sussidiaria.
MAURIZIO LEO. La delega non chiarisce il limite del controllo: riporta semplicemente che deve essere minimo quello
dell’articolo 2359, punto 1, del codice
civile però si può attestare, come in Germania, al 70 per cento. Tutto deve essere
stabilito in seguito dai decreti legislativi.
FRANCO GALLO, Professore ordinario
di diritto tributario presso la LUISS. Vorrei
concludere rispondendo ai quesiti posti
dall’onorevole Benvenuto. Benvenuto ha
posto una domanda provocatoria, perché è
chiaro che, a mio avviso, leggendo la
delega e soprattutto la relazione governativa di accompagnamento, l’obiettivo del
Governo è quello di operare all’inverso.
Finora, infatti, i governi hanno per lo più
operato tentando di ridurre la spesa e
cercando di fare seguire a tale riduzione le
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riforme fiscali riduttive della pressione
fiscale e del debito pubblico; in questo
caso, invece, sembra che si ragioni nel
senso inverso di cercare di ridurre la
pressione fiscale in modo che inevitabilmente lo Stato abbia minori risorse per
effettuare interventi sociali e quindi
spenda meno. È una scelta politica anche
questa.
ERNESTO LONGOBARDI, Direttore dipartimento dell’Università di Bari. Mi limito a rispondere alle tre domande che
l’onorevole Rossi mi ha posto direttamente. La prima è evidente: non ritengo
che la riforma costi l’1 per cento l’anno
per cinque anni per un totale di 150 mila
miliardi di lire. Non intendevo dire questo,
ma richiamavo il Documento di programmazione economico-finanziaria solo per
ricordare l’esistenza di un precedente
esposto a livello programmatico dal Governo.
Per quanto riguarda la perdita di gettito, è difficile fare previsioni; se le previsioni dell’istituto di ricerca presieduto
dalla
professoressa
Kostoris
Padoa
Schioppa sono ancora molto incerte (come
non possono non esserlo), neppure io sono
in grado di dare risposte precise; da quello
che posso intuire, esclusa l’IRAP, la cifra
della perdita di gettito del comparto IRPEF non dovrebbe essere meno di 60 mila
miliardi. Mi sembra quindi che si avvicini
alla cifra di 54 mila miliardi che riferiva
la professoressa Padoa Schioppa ed è
l’ipotesi che mi appare come la più realistica per quanto riguarda la connessione
tra il minimo imponibile e l’andamento
delle deduzioni.
Per quanto riguarda gli effetti distributivi, forse c’è un equivoco. Se l’obiettivo
infatti è quello di ridurre la progressività
formale dell’imposta, è inevitabile che una
tantum, nel passaggio da un regime all’altro, le aliquote medie dei livelli più elevati
di reddito si riducono di più delle aliquote
medie a livelli più bassi, altrimenti non si
ridurrebbe la progressività. Se prendiamo
qualsiasi misura della progressività, come
ad esempio l’average rate progression, cioè
la derivata dell’aliquota media (ve ne sono
Indagine conoscitiva – 5
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diverse), è chiaro che se intendo abbattere
la derivata dell’aliquota media, vale a dire
che voglio rendere la curva dell’aliquota
media meno pendente, devo abbassare più
in alto che in basso. Si tratta di un
problema che è sempre esistito sin quando
dalla metà degli anni ottanta in Italia si è
iniziato a discutere di questo argomento,
peraltro da parte di forze di sinistra,
attente ai problemi distributivi e favorevoli
alla progressività fiscale. Era un problema
già presente allora, nel periodo 1985-86,
quando si parlava della riforma Reagan,
della flat rate income.
Intendo semplicemente dire che mi
preoccupa poco in termini di impatto
redistributivo complessivo se la frequenza
è modesta nelle fasce alte. Tali indici,
infatti, come l’onorevole Rossi sa, avendo
scritto molto su tali questioni, sono determinati dalla pressione fiscale media e dagli
indici di concentrazione. Paradossalmente,
sono sicuro che, quando faremo i calcoli,
la riduzione dell’impatto redistributivo
complessivo della manovra deriverà maggiormente dalla riduzione dell’incidenza
media che dalla progressività. Se si diminuisce l’incidenza media, l’impatto redistributivo complessivo è ridotto. Sono abbastanza convinto che l’effetto della progressività sarà più modesto rispetto a ciò
che deriverà, in termini di riduzione dell’impatto distributivo, dalla riduzione della
pressione fiscale complessiva.
Nella relazione non esiste un concetto
di giusta imposta, bensı̀ una matrice culturale abbastanza precisa, che non è solamente di destra, di sfiducia nella possibilità (lo richiamava prima il Presidente
La Malfa) di sviluppare efficaci politiche
distributive attraverso le imposte, in particolare quelle sul reddito: si tratta di
un’idea che ha una matrice abbastanza
lontana e se non è filologicamente corretto
citare Vanoni, è giusto però per De Viti De
Marco, Einaudi e Steve. Sono tre economisti che hanno scritto molto sulla inefficacia della politica distributiva affidata
all’imposta sul reddito. La nostra letteratura si salda con quella americana risalente alla fine degli anni ’60 e agli anni ’70.
Dewey ed altri hanno compiuto studi sulla
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ritenersi non indispensabili come criteri di delega. Se dovessi, allora