Matteo Residori
“TASSO”
Profili di Storia Letteraria
ed. Il Mulino
©2009
Riassunto a cura di Alessandro Iannella
per l’esame di Letteratura Italiana I (12CFU)
Università degli Studi di Pisa - Lettere (Triennale)
“LA VITA LIETA”
MARCO VEGLIA
I. UNA POESIA INQUIETA
1.1 IL MITO DI TASSO
Aspetti fondamentali della sua vita drammatica sono:
- Conflitto Poeta-Principe come scissione paradossale
- Prigionia a Sant’Anna, simbolo di repressione dell’animo libero e nobile
- Follia, vista come una forte sensibilità che condanna alla solitudine e all’incomprensione
- Amori Infelici
- Sradicamento, Fuga e Viaggi, simboli di un forte senso di non-appartenenza.
Questi hanno portato a:
- 1500-1600: opere romanzate sulla sua vita;
- Romanticismo: l’autore diviene protagonista di un “mito letterario”, come in Goethe;
- Positivismo: l’autore viene analizzato da un punto di vista patologico;
- Oggi: ci si concentra sull’analisi dell’opera e sul suo contesto ma si è compreso che lo stesso Tasso abbia inserito
nelle sue opere un autoritratto consapevolmente fuori dal comune. 1.2 FRAMMENTI DI UN AUTORITRATTO
L’autoritratto è ben visibile in tutto il Corpus.
- Epistolario (2000 lettere di comunicazione privata ma destinate alla pubblicazione; di argomento pratico, letterario
o cortigiano)
Nell’opera la vita interiore evidenzia un’indole malinconica, una forte instabilità d’umore vista come un’infermità
congenita che lo porta ad avere tormentose allucinazioni (sopratutto nel periodo della reclusione), simbolo di forte
facoltà immaginativa. Parla qui inoltre della sua follia, considerata in modo ambiguo:
a) prende l’accusa con distanza ironica
b) la considera una forma di simulazione che lo protegge dalle accuse dei principi
c) evoca figure storiche e mitologiche che nobilitano la sua condizione (Sofocle, Democrito, Ercole)
- Dialoghi
Sono su modello platonico e hanno spesso come protagonista il Forestiero Napoletano, personaggio
autobiografico segnato da una condizione di esilio ed estraneità, osservatore affascinato della commedia
cortigiana, analista erudito delle proprie allucinazioni malinconiche.
- Opere per la Committenza Estense
“Aminta” (favola pastorale): Tirsi è il personaggio autobiografico che incarna l’integrità del poeta in una comunità
raffinata dominata dall’autorità generosa del principe. “Gerusalemme Liberata” (poema epico): il personaggio autobiografico è un “peregrino errante” salvato dal duca
Alfonso in un naufragio, segno di un rapporto più complesso con l’autorità.
- Produzione Lirica
Genere deputato all’espressione dell’io, vien visto diversamente dal modello petrarchesco. Non è imperniato sulla
conversione del soggetto dall’amore terreno a quello divino ma evidenzia una storia individuale dominata dalla
fortuna ostile, all’insegna dell’erranza, dell’esclusione e di una vocazione precoce all’infelicità. Tasso infatti utilizza come controfigure personaggi mitologiche dalle storie forti come Fetonte, Ulisse, Issione e
Polissena.
1.3 UN AUTORE DELLA CRISI
La crisi personale di Tasso è simbolo della crisi degli intellettuali nel periodo dell’ “autunno del
Rinascimento” (*Ossola), ovvero quella del rapporto Intellettuale-Corte.
A livello biografico Tasso ha infatti una Scissione Paradossale:
- da una parte il poeta ambisce ad un’autonomia intellettuale impossibile, quella del filosofo o del poeta-teologo.
- dall’altra, per necessità materiali e bisogno di riconoscimento, cerca la protezione del principe divenendone
servo.
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E’ importante la figura del duca di Ferrara, una sorta di padre dispensatore di onori e protezione, ma anche
ispiratore di una rivalità aggressiva dovuta all’orgoglio del poeta per le sue origini nobili.
A livello storico i suoi spostamenti (Ferrara-> Roma) sono segno delle forti tensioni tra Chiesa e Aristocrazia.
Il duca Alfonso II d’Este, vassallo del Papa, è infatti in una posizione fragile perché non riesce ad assicurarsi una
discendenza legittima ed è inoltre malvisto per motivi religiosi, come la conversione al calvinismo della madre.
Questo porterà, alla sua morte, alla devoluzione di Ferrara (1598), ovvero all’annessione della città allo Stato
Pontificio, segno della fine di un’importante stagione culturale.
A livello di produzione letteraria, la “Gerusalemme Liberata” riflette questo clima di sospetto e paura (non solo
individuale!) ed è manifesto del “bifrontismo Tassiano” (*Caretti), presentandosi sia come un epos del
cattolicesimo trionfante, sia come un’ elegia per i valori di un mondo aristocratico destinato a sparire.
1.4 POESIA E VERITA’
La letteratura è per Tasso uno strumento di conoscenza e di esperienza etica.
Ne difende in particolare il linguaggio, soprattuto quello poetico, perché capace di esprimere significati universali e
di rappresentare la complessità del reale. Per l’analisi della sua poetica individuiamo due fasi:
1.
fino al 1579: poetica del Verosimile.
Nei “Discorsi dell’Arte Poetica” e nella “Gerusalemme Liberata” è manifesta la persuasione aristotelica di
una poesia vera perché arricchita da una finzione né ironica né arbitraria o sfrenata. La verosimiglianza ha, a livello morale, la funzione catartica di far aderire emotivamente il lettore, che si
identifica con i personaggi anche per mezzo del linguaggio, teso alla mozione degli affetti. La letteratura deve essere arricchita da diverse discipline, quali storia, teologia, politica e filosofia morale,
utilizzando un unico linguaggio universale, quello letterario. 2.
dal 1579 (inizio reclusione a S. Anna): centralità del Vero, fedeltà a fonti autorevoli per nobilitare la letteratura. Nei “Dialoghi”, nella “Gerusalemme Conquistata” e nel “Mondo Creato”, la scrittura diviene enciclopedica e
allegorica e Tasso oltre ad essere storico, filosofo e teologo assume un atteggiamento pedagogico,
incoraggiando nel lettore non più la catarsi quanto il giudizio spassionato, benché guidato. Il progetto di nobilitazione della letteratura è però ritenuto astratto perché il vero di Tasso non è quello proprio
della letteratura, quindi mobile-prospettico-contraddittorio, ma è fin troppo univoco e autorevole.
A livello critico il cambiamento è considerato un’involuzione quasi patologica, dovuto ad una adeguamento di una
personalità stanca ormai arresasi al clima culturale della Controriforma.
1.5 SCRITTURA E RISCRITTURA
Sempre nel contesto della sua crisi, a livello personale e di produzione letteraria, si nota come il grandissimo corpus
di Tasso sia sempre stato oggetto, in particolare con l’avvento della prigionia, di una revisione e di una forte
correzione.
Ne è emblema la “Gerusalemme Liberata”, stampata nel 1581 contro la volontà dell’autore, che viene rivisitata da
Tasso divenendo la “Gerusalemme Conquistata”, da lui pubblicata solo nel 1593. Questa revisione è stata considerata una sorta di autocensura, dovuta ad un’interiorizzazione delle critiche dei
revisionisti romani o ad una cessione ad esse. Oggi è invece vista come una piena autonomia di giudizio, perché
affiancata dalle revisioni di altre opere e da opere di commento, e perché segno della volontà del poeta, vittima del
successo, di riappropriarsi orgogliosamente della propria opera.
Per i filologi moderni lo studio delle opere di Tasso deve pertanto essere accompagnato da una stratificazione
diacronica, quindi da due o più stadi dell’evoluzione di un’opera da pubblicare parallelamente.
1.6 Il POEMA DI UNA VITA
La “Gerusalemme” accompagna la vita dello scrittore già come piccolo progetto alla fine degli anni cinquanta, per
poi svilupparsi nella “Liberata” e nella “Conquistata” ed essere infine commentata dal testo “Giudicio sovra la
Gerusalemme da lui medesimo riformata”.
L’opera, che esprime le aspirazioni ufficiali dell’Europa Cattolica e fornisce nuovi modelli di comportamento per
l’aristocrazia, coniuga perfettamente elementi diversi come “uno” e “molteplice”, o “meraviglioso” e “verosimile”. Ha inoltre una rigorosa struttura gerarchica fondata su un principio di funzionalità narrativa e di subordinazione
delle parti al tutto che però concede gran spazio alla lirica dell’interiorità autobiografica, sempre ambigua, divisa e
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La sua fama, evidente dalle numerose rielaborazioni e imitazioni, ha segnato fortemente la stagione classicista
partecipando anche ad un’importante fenomeno di “spining-off” in quanto molti episodi e personaggi vengono
isolati e hanno vita propria in quadri, balletti e altre opere ricavate.
La componente patetica dell’opera ha contribuito all’emergere del melodramma promuovendo una dilatazione
degli spazi dell’interiorità e la nascita del mondo morale moderno, dominato dall’ambiguità, dall’irrisolutezza, dalla
fantasticheria e dal “non so che”.
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II. LA GIOVINEZZA
2.1 UN’INFANZIA ERRANTE
Tasso nasce a Sorrento nel 1544 da una famiglia nobile ma non ricca, figlio di Bernardo Tasso, letterato e
segretario del principe di Salerno Ferrante Sanseverino, e di Porzia de’Rossi, pistoiese imparentata con
l’aristocrazia napoletana. Si sposta da Sorrento a Salerno e poi nel 1551 a Napoli, dove frequenta la scuola dei Gesuiti, accompagnato dalla
madre e dalla sorella Cornelia. Nel 1552 Bernardo viene bandito dal Regno a causa dello schieramento del principe
Ferrante con il popolo napoletano insorto nel 1547 contro il viceré di Napoli don Pedro de Toledo per l’introduzione
del Tribunale dell’Inquisizione a Napoli.
Nel 1554 Tasso segue il padre a Roma, la madre invece muore nel 1556.
Questi eventi segnano subito Torquato che sperimenta la fragilità del nucleo familiare e le conseguenze dei violenti
conflitti politico-religiosi dell’Italia del Cinquecento.
2.2 UNA FORMAZIONE MOLTEPLICE DALLA MOBILITA‘ (1556) A FERRARA (1565)
In questi anni Tasso è accompagnato dal padre che lo introduce in diversi ambienti di corte e lo associa ad alcune
sue elaborazioni delle proprie opere di stampo cavalleresco. Questo rapporto porta Bernardo a divenire un modello negativo per il figlio che lo ritiene un venduto umiliato dalla
condizione cortigiana e che non ne apprezza le opere, come il poema cavalleresco “Amadigi di Gaula” (1560).
Assieme i due conoscono diversi centri culturali italiani: Roma, Bergamo, Pesaro, Urbino, Venezia, Padova,
Bologna, Mantova e infine Ferrara.
Questa condizione viene vissuta da Tasso come uno sradicamento ma contribuisce, per la sua ampiezza
geografico-culturale, a garantirgli la sperimentazione di nuove culture, di nuovi tipi di pubblico e di diverse
concezioni di letteratura in base alle diversi Istituzioni con cui entra in contatto.
Le Corti
Vive con il padre alla corte del duca di Urbino, Guidobaldo II della Rovere, (1557-1559) a quella del duca di
Ferrara Luigi d’Este (1562), a quella del duca di Mantova Guglielmo Gonzaga (1563).
Alla corte di Pesaro è poi compagni di studio del giovane principe Francesco Maria della Rovere: questo
comporta una tensione latente in quanto, pur conoscendo il suo posto, Tasso aspira ad una parità impossibile
con i suoi signori e il suo desiderio di riconoscimento letterario é complicato da sentimenti di invidia e rivolta.
Tuttavia il pubblico di corte si presenta come un destinatario ideale perché è laico, raffinato ma non
specialistico, colto ma non troppo erudito, attento all’etica ma non bigotto, ed obbedisce non tanto a regole
quanto ad “usi” e a “mode”. E’ inoltre qui che si può sperimentare l’imitazione dell’antico, che acquista un senso solo in rapporto al presente.
L’Editoria Veneziana (1559-60)
A Venezia Tasso entra in contatto con l’editoria veneziana, conoscendo i due editori Dolce e Ruscelli.
Qui la concezione della letteratura è invece più pragmatica, eclettica, legata ad esigenze materiali ed
economiche. Il pubblico è ovviamente più ampio, meno raffinato ma capace di determinare il riconoscimento
immediato o l’oblio definitivo di un autore. In campo editoriale, l’esperienza di Tasso sarà tormentata: tenterà di rivolgersi il più possibile al pubblico
“mezzano” (non proprio volgare), non avrà buoni rapporti con gli editori e dovrà vedersela con le pubblicazioni
non autorizzate delle proprie opere.
Le Accademie (1559-1567)
A Venezia frequenta l’Accademia della Fama di Domenico Venier, dove elabora un ambizioso programma
enciclopedico. A Padova, nel 1564, entrerà nell’Accademia degli Eterei, promossa dall’amico Scipione Gonzaga, in cui sarà
importante la filosofia, la retorica e la poesia (1567, “Rime degli Accademici Eterei”). Dal 1565 Tasso è Ferrara, al servizio del cardinale Luigi d’Este, e nel 1567 inaugura l’Accademia Ferrarese.
L’ambiente accademico, seppur controllato da un principe, permette un confronto su questioni letterarie sia di
tipo tecnico che teorico considerando il testo in sé non come una realtà meramente verbale ma alla luce della
filosofia, della scienza, dell’etica e di altre discipline. La letteratura diviene pertanto una forma di conoscenza ed
esperienza morale. RIASSUNTO A CURA DI ALESSANDRO IANNELLA
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Le Università di Padova e Bologna (1560-1562)
Nel 1560 Tasso frequenta Diritto all’università di Padova ma nel 1561 passa ai corsi di Filosofia ed Eloquenza,
che continua nel 1562 a Bologna. Viene però espulso per aver scritto un testo satirico contro un docente.
Nel periodo universitario Tasso studia soprattutto la “Poetica” di Aristotele, che gli umanisti del Cinquecento
stavano interpretando per fornire una codificazione meticolosa dei diversi generi letterari. Il contributo di Tasso a tal proposito é visibile nei “Discorsi dell’Arte Poetica”, iniziati proprio in quest’anno (1562)
La volontà letteraria di Tasso é al di là del desiderio di gloria e dell’eclettismo ma è incentrata sulla realizzazione
di un’opera che sia universale, che riesca ad abbracciare una totalità.
Per far questo privilegia il genere del “poema narrativo”, che in quest’opera paragona ad un “picciuol mondo”.
2.3 GLI INIZI DELLA SPERIMENTAZIONE NARRATIVA: IL GIERUSALEMME (1559-60)
Nel 1559-1560 Tasso compone il primo libro (116 ottave) di un poema sulla crociata, chiamato “Gierusalemme”, ma
che viene presto abbandonato e riscoperto inedito solo nel 1700.
Quest’opera si colloca in quello che è il “dibattito cinquecentesco sul poema epico-cavalleresco”:
“Orlando Furioso” (Ariosto, 1532)
Seppur di grande successo tra il pubblico, la critica evidenzia come il poema non segua le 3 categorie
aristoteliche e si presenti licenzioso, troppo ironico e eccessivamente favoloso. A difesa dell’opera nel 1554 intervengono a Ferrara, con gli opuscoli “I Romanzi” e “Discorso intorno al
comporre de’romanzi e delle commedie”, i critici Pigna e Giraldi Cinzio, che collocano il poema nel genere
romanzesco che, sconosciuto agli antichi, non può essere analizzato secondo i principi aristotelici. A Venezia invece gli editori puntano su commenti, illustrazioni e prefazioni che dimostrino la conformità
dell’opera ai modelli dell’epica classica e alle regole della morale.
Il modello ariostesco sembra agli intellettuali classicisti sempre di più inadeguato: si preferisce pertanto
tornare all’epica su modello greco. “Italia liberata da’ Goti” (Trissino, postuma 1547-1548)
A differenza di Ariosto, il poema tratta di un evento storico preciso (la spedizione bizantina contro gli Ostrogoti
nel Vi secolo), rispettando le 3 regole di Aristotele e presupponendo come modello l’ “Iliade”, in particolare
nelle ripetizioni formulari e nelle descrizioni particolareggiate.
Si abbandona l’ottava e si sceglie l’endecasillabo sciolto, più simile sonoramente all’esametro. L’opera si rivela un insuccesso ma è importante come denuncia di un’esigenza della restaurazione
neoclassica del genere epico e di un suo radicamento nella storia vera (l’opera era dedicata all’imperatore
Carlo V).
“Gierusalemme” (Tasso, 1559-60)
Tasso mantiene la scelta di un episodio storico preciso, quello della prima crociata (1096-99) guidata da
Goffredo di Buglione, e in particolare dell’ultima fase dell’impresa con la conquista di Gerusalemme. Come dall’incipit (“antiqua tela”, un arazzo) si chiarisce la storicità reale della materia, basata sulla cronaca
“Belli Sacra Historia” di Guglielmo di Tiro, definendo una fitta toponomastica e numenastica reale. L’autore vuole inoltre ricreare il fervore originario, lo slancio eroico e religioso, attraverso un racconto che sia
epico e che quindi, poiché il tema è quello della Guerra Santa (centrale nel filone carolingio), si opponga al
modello ariostesco perché mette al centro la guerra con il suo pathos e la sua serietà. L’Invocazione al Dio Cristiano
Di stampo epico tradizionale (vd. Omero), in quest’invocazione sono importanti i crociati, che non sembrano
soldati quanto più pellegrini impazienti di raggiungere la Città Santa, un corpo saldamente coeso (uno) e che
avanza con assoluta concordia d’intenti verso una meta comune. I soldati parlano infatti con una voce sola,
come un coro, in qualsiasi occasione e rappresentano una sorta di fiume che travolge tutto ciò che incontra. Il ritmo del racconto è reso inoltre incalzante dalle figure di ripetizione anafora e polisindeto, mentre le climax
sottolineano la progressione emotiva del percorso e numerose metafore trasferiscono le vibrazioni del
pellegrinaggio al contesto che lo circonda.
L’importanza della crociata non è il fatto storico in sé quanto l’ “ideale politico attuale”: dalle ottave iniziali si
vede infatti l’auspicio a Guidobaldo II della Rovere, dedicatario del poema, di imitare l’esempio di Goffredo e di
conquistare addirittura tutto il vicino Oriente, fino all’India. Il progetto ovviamente non è di stampo realistico quanto più che altro una movenza retorica che si innesta sul
mito della crociata, tradizionale negli elogi dei principi cristiani. RIASSUNTO A CURA DI ALESSANDRO IANNELLA
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Dal punto di vista della storicità contemporanea l’opera si colloca perfettamente dal momento che, a causa
del dominio commerciale sul Mediterraneo, si stanno intensificando i contrasti tra stati europei e impero
ottomani. Da un punto di vista religioso l’importanza é notevole anche perché la crociata cristiana non é solo italica,
quanto anche spagnola, francese, tedesca, inglese, e pertanto é indice di un’ispirazione utopica alla pace tra i
popoli cristiani in un’Europa dilaniata dai conflitti religiosi.
Ad avvicinare Tasso al modello di Trissino sono la storicità della materia, la dimensione collettiva, la serietà
epica, e il simbolismo politico ma Tasso sceglie ed esalta l’ottava, tipica cavalleresca. Rifiuta inoltre l’omerismo ieratico-arcaizzante, preferendo la narrazione virgiliana scorciata e patetica, e
riprendendo molti stilemi della tradizione cavalleresca. Inoltre chiarisce fin da subito la volontaria aggiunta di finzione, che adorni l’opera (vd. episodio dell’ambasceria
dei musulmani Alete e Argante). L’abbandono di quest’opera è forse dovuto a difficoltà di tipo strutturale: lo slancio epico non è forse
sufficiente a sostenere un solo poema, e la fedeltà storica rischia di creare una trama troppo lineare ed
uniforme. La soluzione si avrà nella “Gerusalemme Liberata”, e ancor meglio in quella “Conquistata”, quando Tasso avrà
capito come introdurre, al fianco dell’ “unitarietà”, la “molteplicità”.
2.4 IL RINALDO (1562)
Poema di dodici canti in ottave è dedicato al cardinale Luigi d’Este.
Proemio: è un documento autobiografico, chiarisce la posizione dell’autore in merito al dibattito sul poema
narrativo.
Tasso, presentandosi come un giovane ambizioso che ha scelto la carriera poetica, richiama con vanto i noti
nomi veneti di chi lo ha indirizzato su questa strada: Cataneo, Pavesi, Venier, Molino, Sigonio, Pigna e Speroni. Chiarisce poi che l’opera vuole discostarsi dall’ “Orlando Furioso” e dall’ “Amadigi” ed essere più di impronta
epico-antica e rispettare le leggi d’Aristotele pur inserendo elementi di diletto, la materia infatti è favolosa. In particolare:
- garantisce unità alla storia perché, al di là dell’intreccio, si concentra sulle vicende di un solo personaggio;
- limita al massimo gli interventi del narratore eliminandone i giudizi o gli elementi autobiografici tipici di
Ariosto ma che non fanno parte della tradizione antica.1
Modelli: sono la tradizione cavalleresca italiana (Boiardo), con imprese eroiche intrecciate alle vicende amorose
di stampo arturiano, e i modelli classici (Virgilio). Per il protagonista ci si ispira al poema quattrocentesco “L’innamoramento di Rinaldo” (Boiardo) rinnovato
classicisticamente; mentre alcuni episodi richiamano i modelli classici, ad esempio gli amori di Rinaldo e
Floriana sono una riscrittura in chiave positiva di quelli di Enea e Didone. La struttura è di ispirazione classica: i canti sono dodici come i dodici libri dell’ “Eneide”, al contrario dei 100
canti dell’ “Amadigi”. Trama: la storia narra le avventure di Rinaldo, solo o con gli amici Isoliero e Florindo, pronto a dimostrare il
proprio valore guerresco e divenire degno dell’amore di Clarice, alla quale dopo diverse traversie alla fine si
ricongiunge. Rinaldo: protagonista del ciclo carolingio e presente sia nell’ “Orlando Innamorato” che nel “Furioso”, è qui
visto nelle vicende antecedenti a queste opere. Tasso quindi si oppone ai molti continuatori di Ariosto. Questo “ritorno al passato” lo si vede anche a livello narrativo nel diffuso arcaismo delle avventure, degli
elementi magici e dei ritratti dei personaggi.
Perché quest’opera
La scelta di un tema narrativo arcaico, organizzato secondo gli standard classicisti aristotelici e utilizzando una
poesia convenzionale, sono forse dovuti ad una scommessa: Tasso ha tentato di recuperare un materiale
si veda Aristotele, nella “Poetica”: “il poeta è tanto migliore quanto più imita, e tanto imita più quanto meno egli parla come poeta e più
introduce altri a parlare”.
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poetico datato e poco popolare per piegarlo all’esigenza della nuova poetica. *Casadei sostiene infatti la presenza di effetti di dissonanza, accumulo e stilizzazione manieristica, indizi di un
forte distacco dalla tradizione. Probabilmente, inoltre, l’opera è una sorta di “auto-apprendistato” del poeta, che si sta preparando a grandi
opere, infatti nella dedica a Luigi d’Este nell’ultimo canto si preannuncia un “maggior carme” “più degno di
Musa”.
Inoltre, nel congedo, si ha un richiamo all’ “Amadigi” del padre, forse un omaggio e una dichiarazione di fedeltà
letteraria a quel modello lirico.
Rinaldo-Tasso: la lettura meta-letteraria
A livello autobiografico, alcuni critici hanno individuato nella figura di Rinaldo, un paladino alle prime armi che
vuole affermarsi tra i più forti, un’eco della volontà di Tasso di tentar di “farsi largo in un mondo letterario già
popolato da troppi campioni” (*Zatti). In questo senso è infatti importante l’invidia di Rinaldo per il cugino Orlando, più celebre di lui, e il fatto che fin
dalla prima impresa Rinaldo debba confrontarsi con Amadigi, l’eroe cantato proprio dal padre. 2.5 I DISCORSI DELL’ARTE POETICA (1562-64; pub. 1587)
Pubblicati senza autorizzazione nel 1587 (ma risalenti al 1562-64), sono dedicati al cardinale mantovano Scipione
Gonzaga, amico e protettore di Tasso.
Seppur vicinissimi al “Rinaldo” la distanza teorica dei “Discorsi” è impressionante: si parla sempre di poema
narrativo e si vuol sempre rifondare il genere ma ora non più in maniera meramente pragmatica.
Posto che esistono opere “irregolari”, come l’ “Orlando Furioso”, che smentiscono la validità universale delle
regole di Aristotele, Tasso non riconosce l’esistenza del genere “romanzo” ma nemmeno sostiene che i tratti
romanzeschi-irregolari non debbano esistere. Sostiene che un poema regolare debba assorbire tali tratti per divenire un poema eroico: bisognerà quindi tentare
una sintesi tra valori incompatibili (es. “meraviglioso e verosimile”) e iscrivere l’opposizione di tali valori (“unità e
varietà”, “utile e diletto”) nell’architettura stessa del poema.
I Discorsi sono tre e rispettano la tripartizione retorica classica:
Inventio, sull’argomento del poema che deve essere subordinato all’esigenza del verosimile.
Il poeta dovrebbe infatti ingannare i lettori con un’illusione vivida e coinvolgente. 1.
L’argomento deve essere quindi tratto dalla storia e da una storia credibile, nobile e autorevole come quella
cristiana, in modo tale da potervi accordare il “meraviglioso” (il soprannaturale divino, eliminato ad esempio
da Ariosto). La distanza cronologica tra lettori e evento storico deve essere intermedia in modo da permettere di evitare
sia un eccessivo divario nei “costumi” sia l’impossibilità di “fingere” derivante dalla forte familiarità dei lettori
con la storia contemporanea. In genere è la storia medievale. L’elemento della finzione è importante perché pone una differenza: la storia ricostruisce le cose “come sono
state”, la poesia “come dovrebbero essere state”, avendo come oggetto non il “particolare” quanto
“l’universale”.
2.
Dispositio, sulla struttura narrativa.
La forma del poema può garantire all’evento storico una verità poetica che sia “universale”: i fatti caotici e
molteplici devono essere ordinati secondo un’unitarietà coesa.
Tutto ciò si ricolloca nel dibattito letterario cinquecentesco: come si garantisce l’unità evitando la monotonia,
come si realizza la varietà, fonte del diletto, senza anarchia strutturale? Tasso propone l’unità mista, che risulta da una varietà organizzata gerarchicamente, un molteplice
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interconnesso e subordinato ad un fine comune.2
Pertanto il poeta deve imitare il Creatore per realizzare nel suo poema la “discorde concordia” che caratterizza
la varietà ordinata del mondo trasformando la verità grezza della storia in un organismo poetico complesso ma
facilmente leggibile perché fatto di parti legate e ordinate. 3.
Elocutio sullo stile, che deve essere magnifico e capace di suscitare meraviglia3 del lettore. Il linguaggio non deve essere troppo piano, umile o comico ma essere peregrino, singolare e straniante che
trasporti il lettore in qualcosa di diverso, estraneo al quotidiano, per interessarlo. Deve essere anche presente una certa energia nelle descrizioni.
Tasso individua uno spettro stilistico che come poli il “tragico” e il “lirico”: il poeta deve mantenersi
equidistante da entrambi ma può esplorarne la gamma espressiva compresa tra essi quando lo richiede la
materia.
I “Discorsi dell’arte poetica” individuano quindi un poema eroico che ancora non esiste ma che non è irrealizzabile
o ideale, infatti sarà la “Gerusalemme”, anticipato da due tentativi falliti, il “Gierusalemme” e il “Rinaldo”.
Tuttavia i “Discorsi” non sono da considerare un “programma da seguire”, anzi verranno approfonditi nel tempo
grazie allo scambio teoria-scrittura che caratterizzano il pensiero di Tasso. Altre Opere Giovanili sull’Ideale Stilistico e Narrativo
- Lezione sul sonetto “Questa vita moral” di Della Casa (1568, all’A. Ferrarese):
Gravità
Tasso analizza il testo mettendo in luce lo stile “magnifico” del sonetto che mostra come la poesia possa essere
profonda senza abbandonare la semplicità del lessico e dei concetti che permettono quindi il diletto. Questo perché Della Casa usa: metafore accorte, buona disposizione delle parole improntata a “gravità”, iati
frequenti, rifiuto di facili simmetrie, complessità e ampiezza sintattica, rotture ritmiche, enjambements musicali.
Suspence
- “Considerazioni” sulle tre canzoni di Pigna (1572):
Seppur sia uno scritto occasionale, forse più un omaggio all’autore che al suo modello letterario, sviluppa una
riflessione originale sulle tecniche narrative: a colpirlo è per lo più la progressione “dal confuso al distinto”, che
crea suspence nel lettore e una conoscenza indiziaria della realtà. “Gravità” dellacasiana e “suspence” pignana verranno utilizzati nella “Gerusalemme”.
si vedano le pagine 35-36 del “Secondo Discorso “in cui Tasso riprende l’analogia neoplatonica tra poema e mondo descrivendo la
natura umana variegata che fa parte di un “uno”, ovvero il mondo, che appunto racchiude il molteplice. Parimenti la poesia deve essere
un piccolo mondo, in cui si legga di svariate avventure ed elementi ma che siano tutti interconnessi e dipendenti così che se solo
qualcosa viene tolto questo rovini il tutto perché la forma e la favola sono solo una.
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per meraviglia si intenda un’emozione estetica forte, un misto di stupore, ammirazione, sorpresa e turbamento.
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III. A FERRARA
3.1 SPLENDORE E CRISI DELLA CORTE ESTENSE
Dal 1565 Tasso entra al servizio degli Este a Ferrara: é il periodo di massima felicità creativa e si divide in due parti:
1.
1565-1571: Tasso è al servizio del cardinale Luigi d’Este.
2.
1571-1578: è cortigiano del duca Alfonso II d’Este, grazie al quale diverrà insegnante presso lo studio
ferrarese (1574) e storiografo ducale (1576).
Il passaggio corrisponde all’accresciuto prestigio di Tasso ma non cambia la sua condizione: egli gode di una certa
libertà di movimento e non ha obblighi precisi tranne prender parte ad alcuni viaggi ufficiali (1570-1571 in Francia;
1572-1573 dal nuovo papa Gregorio VIII a Roma; 1574 a Venezia per accogliere Enrico III di Valois), per il resto
compone opere che allietino la vita di corte e che celebrino i suoi signori.
La Situazione a Ferrara
Centro politico e culturale di primo piano in Italia, Ferrara ha però diversi segnali di crisi.
- Piano politico-religioso: nonostante il lungo periodi di pace dopo il trattato di Cateau-Cambrésis, gli Este
(feudatari papali) perderanno i loro possedimenti se Alfonso II muore senza eredi legittimi, cosa che accadrà
determinando la “devoluzione di Ferrara” nel 1598.
Questo clima teso determina un impegno da parte degli Este nella promozione del proprio fervore religioso che
culmina nella repressione del dissenso religioso, in particolare del calvinismo. - Tasso: la disgrazia cortigiana del poeta è legata a questo clima. Infatti, seppur la sua opera contribuisca a costruire l’immagine degli Este come “campioni della fede”,
personalmente egli è tormentato da inquietudini religiose tanto da presentarsi spontaneamente all’Inquisizione
di Ferrara per confessarsi ed essere assolto (1576). - La Corte Estense: nonostante tutto la situazione è ancora culturalmente vivace, espressione di una forte fedeltà
all’ethos cavalleresco, per quanto spesso troppo irrigidito (vd. la casistica del duello). In letteratura si predilige il Romanzo, mantenendo viva la memoria di Boiardo e Ariosto, protetti degli Este.
A corte l’Amore ha un ruolo importante ed ispira giochi, feste e narrazioni letterarie: in questo contesto si
iscrivono molte rime amorose di Tasso e le “Conclusioni Amorose” (difese pubblicamente in occasione del
matrimonio tra Lucrezia d’Este e Francesco Maria della Rovere nel 1570).
Questi scritti riprendono luoghi comuni neoplatonici sull’amore ma esprimono un’etica più spregiudicata,
riflesso dei liberi costumi di corte, legandosi talvolta alla filosofia greca e alla poesia latina (Lucrezio, Catullo,
Ovidio). A corte si tengono numerosi spettacoli: Alfonso II incoraggia l’attività musicale, in particolare in ambito
madrigalistico, e il teatro ferrarese, di genere pastorale, va sempre più affermarsi a partire da Giraldi Cinzio
(“Egle”, 1545).
3.2 LE RIME
Il Corpus di rime tassiane conta oltre 1700 testi e, per la sua lunghezza, è lungi da ogni tipo di sistemazione. La pubblicazione risale solo agli anni ’80 del ‘500 quando Tasso, reagendo alle stampe non autorizzate, concepisce
un’edizione rielaborata e della sua opera poetica.
L’edizione si rivela una volontaria selezione delle proprie rime, che vengono riscritte ed ordinate in base al tema:
amoroso, encomiastico e sacro.
Le pubblicazioni sono due: “Prima parte delle Rime” (1591) dedicata ai testi d’amore, e “Seconda parte delle
Rime” (1593) che raccoglie le liriche encomiastiche in onore delle nobildonne. I testi raccolti sono circa 300.
Le Problematiche Filologiche
A causa della selezione oculata di Tasso é evidente che la produzione abbia perso in qualità e in quantità. Gli studiosi (*Caretti, *Isella, *Poma, *Gavazzeni, *Martignone) hanno proposto una selezione editoriale
complessa: si rispetta la tripartizione ma si aggiunge una scansione diacronica per rendere conto
dell’evoluzione dei testi. Le tre parti delle Rime vengono pertanto pubblicate secondo la versione definitiva, ma per quelle amorose si
fornisce anche una precedente sistemazione attestata da un manoscritto Chigiano (1583-84). E’ inoltre prevista un’appendice con le raccolte d’autore più occasionali (come le 42 liriche contenute in “Rime
degli Accademici Eterei”) e i testi rimanenti sono pubblicati in un volume di “Rime Sparse”.
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L’edizione completa delle “Rime” è per ora quella che risale alla fine dell’Ottocento, curata da *Solerti e
riproposta di recente da *Basile.
Oggi lo sguardo critico alle rime mette in primo piano le scelte di sistemazione adottate dallo stesso Tasso per poi
considerare anche l’insieme della sua opera lirica, impossibile da catalogare in una forma precisa.
Rime d’Amore
“Rime degli Accademici Eterei” (1567)
Sono 42 testi, sistemati dall’autore, di tematica amorosa e seguono un’impostazione narrativa lineare: il poeta
si innamora di una donna, ne loda la bellezza e poi evoca le fasi alterne di un amore contrastato e segnato dalla
lontananza, manifesta desideri di rottura perché si sente tradito finché non di chiara il suo sdegno quando la
donna sposa un altro. L’ispiratrice dei testi è Lucrezia Bendidio, famosa cantante damigella di Leonora d’Este ma non possiamo
capire appieno il significato del sentimento di Tasso: é probabile che si tratti solo di un rituale galante,
sicuramente non è di spessore esistenziale come accade in Petrarca e questo si vede nelle situazioni
raccontate, tipiche della vita cortigiana. Il modello petrarchesco è spesso presente ma è emulativo, manieristico, variato e rincarato (si veda RVF 45
sul tema delle donne alle specchio che in Tasso assume un forte valore simbolico).
Prima Revisione
Durante la reclusione a S. Anna, in seguito alle pubblicazioni non autorizzate delle sue rime, Tasso revisiona
156 poesie.
Quest’operazione non viene pubblicata ma si conserva in un manoscritto della Biblioteca Vaticana (Codice
Chigiano L VIII 302) ed è divisa in due libri: 1) il primo composto da testi d’amore per Lucrezia Bendidio
2) il secondo, più evanescente nella trama e impostato più metaforicamente, da quelli per la mantovana Laura
Peperara4, altra donna di spicco della corte. I due libri comprendono anche testi rivolti ad altre donne: questa pluralità non appare problematica (vedi “Tre
gran donne vidi io ch’in esser belle”, in cui si elogia 3 sorelle) e anzi è addirittura accompagnata anche da
passi saffici (“Di nettare amoroso ebro la mente”). Il carattere “spregiudicato”, distante da Petrarca e dal neoplatonismo, è dovuto all’influenza di Catullo5 e
Ovidio.
“Prima Parte delle Rime” (1591, Mantova)
Questa revisione delle poesie d’amore, evoluzione della precedente, ne comprende 180 e, nonostante le
aggiunte e la divisione in due libri non sia più presente, i due nuclei originari sono ancora riconoscibili. Non è presente una distanza cronologica: il poeta, seppur invecchiato, non rievoca la giovinezza. Le novità principali sono:
- un un maggior approfondimento formale, volto ad un miglioramento del testo poetico che diviene più
equilibrato (si veda XCIII “Ecco sparir le stelle e spirar l’Aura” che diventa il madrigale Rime 143 “Ecco
mormorar l’onde e tremolar le fronde”). - l’aggiunta delle “Esposizioni”, autocommenti in prosa che accompagnano le poesie e che hanno un valore
filosofico, enciclopedico e di spessore intellettuale (con citazioni, non sempre troppo pertinenti, ad autori
antiche per sottolineare l’intertestualità).
“Rime Sparse”
Le liriche tassiane d’amore sono multiformi: per questo molte rimangono fuori dai limiti che l’autore impone e
vanno a far parte delle “Rime Sparse”. Sono per lo più occasionali, non solo perché legate alla movimentata
vita cortigiana e quindi estranee ad una “pianificazione”, ma soprattutto perché tendono ad esaltare aspetti
contingenti ed effimeri della realtà. Si tratta, infatti, di una poesia del presente, di percezione dello scorrere del
Tasso utilizza la stessa paranomasia di Petrarca per “Laura”, “aura”, “lauro” e “aurora” ma in maniera più preziosa e diversamente
contestualizzata: si veda la ballata XCIII dove la brezza (aura) comincia un lungo percorso naturale.
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L’incipit di un sonetto rivolto a una certa “Ielle” è uguale ad un’ode di Catullo (Viviamo, amianci, o mia gradita Ielle).
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tempo da cui si cerca di estratte attimi: si punta sul particolare, quindi sul dettaglio e sul singolare.
Molti testi sono incentrati sui dettagli: parti del corpo (capelli, collo, petto), gesti isolati (sguardo, sospiro,
stretta di mano), oggetti (specchio, nastro, fazzoletto); o su temi insoliti: un’ape, una zanzara, un pappagallo,
una nana, una donna brutta. A livello poetico Tasso coglie l’aspetto instabile e metamorfico della realtà, nella quale la bellezza è in
continua trasformazione come anche l’io, che si presenta malleabile, passivo e si lascia sedurre dagli infiniti
aspetti della realtà cangiante (Rime 205).6 Modelli sono la lirica alessandrina, famosa per il gusto del paradosso e della malizia. Ad essa si aggiungono i
poeti dello stilnovo, i lirici contemporanei ed altre contaminazioni peregrine.
Metricamente e stilisticamente Tasso sperimenta molto, sempre con gusto raffinato, prediligendo forme brevi
e il madrigale cinquecentesco (endecasillabi e settenari liberamente rimati), comune nelle rime sparse perché
musicale, duttile e sinuoso, adatto quindi alle immagini naturali. Utilizza strutture per lo più paratattiche, volte anche a produrre effetti di suspence.
Rime d’Encomio
Seppur spesso amore ed encomio coincidano quando la lirica è rivolta ad una nobildonna di corte, le liriche
encomiastiche sono dominanti sul piano quantitativo, e sono circa 1000. Cronologicamente esse aumentano da dopo il 1578-80 quando il poeta, oramai in disgrazia, cerca di
assicurarsi protezione aristocratica e compensi materiali.
Gli encomi sono dunque, come scrive lo stesso Tasso, dovuti alla crisi, alla servitù a cui va incontro l’autore. Tuttavia presentano un forte interesse storico e letterario, sia perché documento dell’immagine ideale che si
costruisce l’aristocrazia della fine del ‘500, sia perché modello di “retorica della lode” che influenzerà l’epoca
barocca. Modelli sono ora Pindaro e Claudiano.
Come è costruita l’immagine ideale dell’Aristocrazia
- gli uomini dell’aristocrazia feudale sono esaltati non tanto per le virtù militari quanto per l’eroica temperanza,
la capacità di “vincere i propri vizi” come se sconfiggessero i nemici;
- le nobildonne vengono lodate non tanto per la bellezza quanto per l’onestà; - si sottolinea la pietà cristiana dei principi e la loro sottomissione al pontefice;
- si celebra l’antichità genealogica delle stirpi dei principi.
Modalità Espositive
- forme metriche imponenti (canzone in particolare);
- allusioni preziose e oscure, metafore, trapassi ellittici;
- sintassi ampia e complessa;
- stile arguto;
- ricorso frequente alla mitologia classica e alla storia greco-romana per sottolineare la superiorità degli eroi
contemporanei sui loro antenati.
“Seconda Parte delle Rime” (1593)
Comprende le rime d’encomio per le nobildonne e qualche epitalamio, trova la sua importanza nelle
“Esposizioni” dell’autore, opera teoretica che riflette su questo genere e sui suoi modelli. Non è presente l’auto-encomio, che Tasso adopera durante la prigionia a Sant’Anna in una sessantina di
poesie (raccolte nel quaderno “Alle Signore Principesse di Ferrara”) per ottenere il perdono del duca e la
riammissione a corte. In questi auto-elogi, Tasso ammette le sue colpe ma pone l’accento sulla sua lealtà sollecitando figure illustri
(Lucrezia, Leonora e il cardinale Luigi d’Este) per ispirare “pietà” ad Alfonso II d’Este. Come modello per questa strategia sceglie l’Ovidio delle opere dell’esilio7 (“Tristia”, “Epistulae ex Ponto”),
molto attento al discorso autobiografico e alla difesa.
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al contrario di quanto accade in Petrarca, in cui si presuppone l’unità del soggetto.
descrivendosi - allo stesso modo - abbattuto da un “fulmine” che il principe, “Giove irato”, ha scagliato contro di lui.
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Talvolta Tasso utilizza “sfortunate” controfigure mitologiche, come Polissena, Fetonte ed Ulisse, mentre in altri
casi si pone al centro dell’attenzione, come protagonista di un’ “acerba istoria” come in “O figlie di Renata”.
“O del grand’Appennino” o “Canzone al Metauro” (1578)
E’ la canzone autobiografica più importante, risalente al 1578, quando Tasso si trova alla corte di Francesco
Maria II della Rovere. Benché incompiuta è uno dei testi fondatori del “mito di Tasso”.
Nella prima strofa egli chiede ospitalità al principe trasformando lo stemma della casata, la “Quercia”, in un
simbolo di protezione dalle avversità dovute alla sorte.
Nelle due stanze successive narra, con tono quasi epico, delle avversità della sua vita: la separazione dalla
madre, l’esilio e la povertà negli anni al seguito del padre errante, la misera vecchiaia, la malattia e la morte del
genitore. Negli ultimi versi il poeta rende onore all’anima paterna, immaginata in paradiso, e accoglie con eroica
rassegnazione le sofferenze che lo aspettano.8
3.3 AMINTA (r. 1573, p. 1580)
Alla corte ferrarese il teatro risulta essere particolarmente importante per il diletto: Tasso cura spesso allestimenti
teatrali ma individua in questo genere soprattutto un risvolto letterario importante.
Al biennio 1573-74 risalgono infatti due opere: la favola pastorale “Aminta” e l’inizio di “Re Torrismondo” (ultimata
nel 1587).9
Di destinazione cortigiana, “Aminta” viene rappresentata prima nel 1573 dagli Este, e poi nel 1574 dai Della
Rovere. La prima edizione del testo, non autorizzata, appare invece a Venezia nel 1580.
L’opera è esclusa dai progetti di rielaborazione, forse per il carattere licenzioso in contrasto con la severità morale
dell’ultimo Tasso, forse perché inclassificabile attraverso i generi aristotelici, o forse perché lontana e superata.
La trama vede le vicende di Aminta, pastore innamorato di Silvia, ninfa cacciatrice che invece lo rifiuta e che è allo
stesso tempo insidiata da un satiro ben più determinato.
Le Novità nel Genere Pastorale Ferrarese
Tasso porta in scena i personaggi della tradizione bucolica, presenti in Teocrito, Virgilio e Sannazzaro, ma:
- elimina il senso arcaico ed esotico tipico di Cinzio, Beccari, Lollio e Argenti;
- non intervengono divinità pagane;
- non ci sono riferimenti a culti o usanze dell’antichità;
- l’ambientazione non è l’Arcadia ma un paesaggio contemporaneo, forse quello ferrarese10 ;
- sono presenti nell’opera alcuni personaggi che alludono a persone reali della corte (questo è suggerito
dall’innovativa corrispondenza tra ambientazione e luogo della prima rappresentazione).
Le Allusioni ai Personaggi Storici
Tasso è il ventinovenne pastore Tirsi (nel 1573 T. ha davvero 29 anni), che è stato innamorato di Licori (Lucrezia
Bendidio) e che può dedicarsi del tutto alla poesia grazie ad un protettore “divino” (Alfonso II d’Este). Elpino è invece Pigna, Batto è Guarini, su Mopso l’identificazione é controversa, mentre Dafne era una
nobildonna ferrarese. La funzione delle allusioni è duplice: - di stampo encomiastico11 - sono volte a costruire un sistema di corrispondenze e antitesi tra realtà e finzione.
Dafne e Tirsi: il riflesso della Corte
Dafne e Tirsi, confidenti esperti dei due protagonisti, hanno un ruolo di registi e le loro scene si sviluppano
parallelamente. Nel primo atto la ninfa tenta invano di convincere Silvia a conoscere l’amore per Aminta,
mentre Tirsi consola il pastore respinto; nel secondo invece i due escogitano un piano per far incontrare i
giovani alla fonte di Diana; nel terzo lo stratagemma si scopre catastrofico a causa dell’arrivo del satiro che
peggiora la situazione. 8
utilizzando le stesse parole di Cristo prima della Passione: “a me versato il mio dolor sia tutto”.
9
a completare la triade tipica del dramma rinascimentale troviamo la commedia “Intrichi d’Amore”, la cui paternità è controversa.
10
siamo nei pressi di una “gran cittade in ripa al fiume”, forse Ferrara.
11
si veda l’elogio di Augusto nelle Bucoliche: “deus nobis haec otia fecit”, come in Tasso “O Dafne, a me quest’ozi ha fatto Dio:...”.
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Dafne e Tirsi pertanto non contribuiscono alla progressione dell’intreccio ma hanno una funzione di
commento e contro-canto rispetto all’azione principale del dramma, incarnando un’etica cortigiana matura
(tra spregiudicatezza e scetticismo malinconico) che si oppone all’ingenuità dei protagonisti. Il loro ruolo è quello di personaggi-specchio del pubblico dell’opera, riflesso della corte che sta
contemplando un mondo di innocenza perduta. L’Innocenza del Mondo Pastorale: i Cori
A differenza delle altre opere ferraresi di stampo bucolico, Tasso introduce maggiore complessità e ambiguità. Per comprendere le coordinati morali del dramma bisogna concentrarsi sui cori, frapposti tra gli atti secondo il
modello della tragedia greca: “O bella età de l’oro” (Atto I) Celebra il motivo esiodeo e virgiliano dell’età del loro ma in maniera nuova: l’età mitica non è esaltata come
stagione di pace e armonia, ma come epoca di gioiosa libertà sensuale in cui il piacere naturale non è ancora
contrastato dalle leggi severe e vane dell’onore del mondo civilizzato (“S’ei piace, ei lice”, v. 681). Il contrasto è netto: da una parte spensieratezza e promiscuità, dall’altra invece corpi rivestiti, gesti e parole
disciplinate per “onore”, sguardi abbassati, con il risultato che l’amore può esser colto solo con inganno e
violenza e perde la sua gratuità e reciprocità (“che furto sia quel che fu don d’Amor”, v. 707). Nell’ultima strofa si capisce l’identità del coro: un gruppo di pastori che invita l’onore ad abbandonare il loro
mondo per poter tornare a vivere secondo “l’uso de l’antiche genti”.
Libertà sensuale e spontaneità descritte dal coro non sono però presenti nell’opera, dove infatti il desiderio
amoroso è frustato dalla rigida castità di Silvia che non vuole ascoltare il richiamo “della natura” benché sia
parecchio maliziosa e conscia del proprio potere di seduzione. La civiltà ha quindi già corrotto il mondo dell’ “Aminta”, dove la libera espressione del desiderio è intralciata
dai costumi cittadini che hanno contaminato l’universo pastorale (stranezza). “Non so se il molto amaro” (Atto V)
E’ affidato all’io dell’autore, incarna il punto di vista di uno spettatore disincantato che, commentando il lieto
fine della storia, si chiede se la felicità ottenuta da Aminta possa compensare il precedente dolore sofferto. Ironicamente il coro augura per sé, invece, una storia d’amore in cui l’amata si conceda prima (il tono è più
spregiudicato del primo coro).
Romanzo di Formazione
Silvia e Aminta, lontani dalla licenza libertina e dalla libertà naturale, evolvono all’interno della storia: la ninfa
abbandona la castità per l’amore tenero, il pastore abbandona i suoi scrupoli divenendo più coraggioso. Come annunciato nel prologo dal dio stesso trionfa l’Amore (“Omnia vincit Amor”), accompagnato da una forte
componente morale: il matrimonio e l’approvazione da parte dei genitori.
Gli Elementi Tragici
1. Equivoco e Peripezia
Tasso fa un uso saggio dell’equivoco, in particolare del suicidio, riprendendo il mito di Piramo e Tisbe,
ispiratore della storia di Romeo e Giulietta (che invece finiscono diversamente). Tra quarto e quinto atto, Aminta, credendo che Silvia sia morta perché ne trova un velo insanguinato, si getta
da una rupe e la ninfa, quando lo viene a sapere, dichiara il suo amore: il pastore tuttavia è stato salvato dai
cespugli e vedrà finalmente ricambiati i propri sentimenti. Lo schema tragico della peripezia, viene pertanto
invertito producendo la felicità di Aminta e il lieto fine della storia. 2.
Rispetto delle Unità L’opera è conforme sia all’unità di tempo che di luogo: l’azione si svolge tutta in un solo giorno e lo spazio
coincide sempre con uno stesso luogo di passaggio - il “luogo di passo” - dove si incontrano i personaggi. Da questo dipende una particolarità dell’opera: molti episodi importanti vengono raccontati da testimoni, in
modo tale da evitare anche scene scabrose (lo stupro di Silvia da parte del satiro) o difficili da mettere in
scena (il suicidio di Aminta). 3.
Forma Metrica
Tasso adotta la libera successione di endecasillabi e settenari, per lo più non ritmati, prendendo a modello la
“”Canace”” di Sperone Speroni (1546). RIASSUNTO A CURA DI ALESSANDRO IANNELLA
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4.
Stile Tragico
L’opera è lontana dalla gravità tipica della tragedia ed è molto varia per tono e stile: importante è la
soggettività dei personaggi (elemento fondamentale per il fatto che molte scene sono raccontate) e la liricità
che determina un effetto “a madrigale” (l’uso metrico determina forti modulazioni emotive e musicali del
testo). 5.
Ispirazione Greca
Non è presente la comicità grossolana delle precedenti opere bucoliche ferraresi, quanto più un tono leggero
e talvolta maliziosamente epigrammatico, (componente alessandrina, si veda l’episodio dell’innamoramento di
Aminta12, ispirato da “Gli Amori di Leucippe e Clitofonte” di Achille Tazio). Il prologo riprende invece un idillio di Mopso, “Amor fuggitivo”, in quanto si narra la storia di Amore che da
piccolo scappa al controllo della madre Venere per impiegare le sue armi come gli pare. Il racconto è fortemente allegorico: Venere vorrebbe che Amore frequentasse solo le “corti” (Tragedia), mentre
Amore vuole soggiornare “tra le selve” (genere Pastorale). Tasso spiega così che l’amore, nell’opera, sarà trattato non solo con l’umiltà tipica del genere pastorale, ma in
maniera degna in pieno stile tragedia e infatti, nei versi successivi, similmente all’ “Ippolito” di Euripide, Amore
annuncia la punizione per la “cruda ninfa”, insensibile all’amore. Lo stile elevato della tragedia è però alleggerito grazie all’idillio alessandrino, e l’esito tragico cambia in
extremis. 6.
“Ambigua Armonia” (*Da Pozzo)
Tutti questi elementi producono un’ambigua armonia, formula che riassume bene come si è evoluta
l’interpretazione dell’opera: a lungo ha prevalso una lettura dell’opera che ne sottolineava l’armonia, la
musicalità lirica, la freschezza e che vedeva in essa un importante periodo di “felicità creativa” di Tasso nel
contesto di cortigiano. Più recentemente invece si è insistito sulle tensioni presenti nell’opera, sulle ambiguità ideologiche, sul
potenziale tragico e sulle deformazioni manieristiche che complicano il rispecchiamento tra corte e mondo
pastorale. L’ “Aminta” non è una parentesi felice ma un’opera ancora una volta segnata dai conflitti che turbano
l’autore: in questo senso sono importanti due episodi, espressioni di voluta violenza critica.
Atto I: il primo è quello di Mopso, forse identificabile in Sperone Speroni (intellettuale ostile alla corte ferrarese),
che cerca di dissuadere Tirsi dal recarsi alla “gran cittade in ripa al fiume”, luogo di impostura, calunnia e di
degradazione morale (c’è quindi una ritratto crudele della corte). Tirsi tenta poi una replica fortemente elogiativa della corte. L’episodio complica fortemente il gioco di specchi tra realtà e finzione, e non è sempre presente in tutte le
stampe dell’opera (è forse un’aggiunta successiva). Atto II: il secondo episodio è quello del satiro, che all’inizio di quest’atto pronuncia un lungo monologo in cui
esprime la propria sofferenza d’amore e che, come dirà dopo Tirsi, tenta di violentare la ninfa Silvia. Questo personaggio, rappresentante dello stato di natura, riprende la critica della civiltà che troviamo nel
coro subito precedente (“O bell’età de l’oro”): ai suoi occhi l’ostacolo all’amore è la venalità delle donne che,
adottando i costumi cittadini, disprezzano gli amanti poveri.
Non per questo il satiro rinuncia al suo progetto ma, anzi, si serve della sua arma naturale, la violenza. Benché
lontanissimo dal comportamento “di corte” e dalla raffinatezza e dolcezza pastorale, il satiro ha tratti non
troppo ferini o comici, ma ha un’eloquenza grave e un grande talento argomentativo, volte ad aumentare
l’ambiguità dell’opera.
Inoltre il momento della violenza, in cui Silvia è legato con i suoi capelli ad un albero, è sensualmente il più
forte del dramma, segnato da un intenso voyeurismo condiviso perfino da Tirsi. Il mondo morale dell’Aminta è particolarmente ambiguo: come sottolinea *Silvio Zatti, Tasso adotta una “forte
struttura antitetica” e una “tecnica del contrappunto” che permettono di far convivere vicine le voci più diverse,
incoraggiando nel lettore identificazioni contraddittorie e esplorando con acutezza le ragioni e i limiti di ogni
ideologia.
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ha più componenti: ingenuità infantile, malizia sensuale, gusto per le antitesi argute. E’ l’episodio del bacio e della puntura dell’ape.
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IV. LA GERUSALEMME LIBERATA: GENESI E STRUTTURA
4.1 UNA LUNGA VICENDA COMPOSITIVA
Entrato in servizio nel 1565 alla corte del cardinale Luigi d’Este, Tasso si pone come impegno letterario la
composizione di un poema di stampo epico, il cui argomento, come egli stesso scrive nella “Lettera 1551”, è ancora
da decidere: sono in ballo la spedizione di Goffredo contro gli infedeli, quella di Belisario contro i Goti e le imprese
di Carlo Magno.13
La scelta dell’autore (o del cardinale?) ricade sull’impresa di Goffredo: Tasso può quindi sia proseguire il lavoro del
“Gierusalemme” che contrapporsi ad Ariosto (materia carolingia) e a Trissino (materia bizantina). L’Importanza Contemporanea della Crociata
La tematica della Guerra Santa è assai attuale politicamente perché siamo negli anni precedenti la costituzione di
una Lega Santa Cattolica e la vittoria di Lepanto sulla flotta ottomana (1571).
Inoltre agli Estensi, i cui rapporti con il papa sono tormentati, conviene essere associati a tale tematica, come
discendenti di Goffredo. Nel 1565 ha inizio la composizione.
Su modello virgiliano, “Gottifredo” o “Goffredo” è il primo nome dato dell’opera data la preminenza del
protagonista.
Negli anni seguenti la stesura continua ma la dedica passa, nel 1571, da Luigi al duca Alfonso II d’Este, quando
Tasso cambia protettore. Grazie alle “Lettere Poetiche” sappiamo che, nel 1575 Tasso inizia ad inviare i propri canti a Scipione Gonzaga,
che ha riunito un piccolo gruppo di lettori affinché revisionino e giudichino il testo dal punto di vista letterario,
religioso e morale. I “revisori romani” sono: lo scrittore e retore Speroni, il poeta Piero Angeli da Barga, il filosofo
Flaminio de’ Nobili, il teologo Silvio Antoniano.
Le “Lettere Poetiche” sono le missive che Tasso manda da Ferrara a Roma ai suoi corrispondenti romani per
reagire e rispondere ai giudizi, e sono importanti per più motivi:
- evidenziano una forte riflessione teorica sul poema eroico (verranno infatti stampate nel 1587 in appendice ai
“Discorsi dell’Arte Poetica”)
- documentano il grande confronto tra le idee del poeta e le opinioni severe (e bigotte) dei revisori, tutti vicinissimi
alla curia romana e quindi rappresentanti della cultura cattolica post-tridentina. - mostrano importanti discussioni su 3 tematiche: l’unità mista, la presenza degli amori, il ruolo degli incanti.
In un primo momento Tasso si mostra fiducioso e accetta tutte le critiche dei revisori, difendendo ovviamente
decisioni e aspetti che ritiene essenziali, e non tarda ad accorgersi che spesso i giudizi sono meramente malevoli. A
poco a poco comincia ad esser chiaro che tra lui e alcuni revisori, in particolare il teologo Silvio Antoniano, c’è un
dissenso profondo in merito alla natura e alla destinazione della poesi. Tasso non accetta le critiche sull’utilizzo della verità storica e sulla finzione in quanto l’opera poetica è vera se
universale (se può permettersi di “dire molte cose apparenti contra la verità”), e dice inoltre che nonostante il tema
sacro l’opera è destinata ad un pubblico laico (cortigiani, cavalieri, mezzano), mentre Antoniano vorrebbe fosse
letta da “religiosi e monache”. Tasso pertanto capisce che a Roma la situazione è cambiata e che c’è il rischio che la sua opera venga proibita:
anche a Venezia la pubblicazione non sarebbe una soluzione (si veda l’esempio di Sigonio). Inizia così a pentirsi
della richiesta di revisione e ad essere censore di sé stesso. Egli taglia o riscrive alcuni passi decidendo di
ricorrere all’allegoria per legittimare alcuni elementi del testo14 (come amori e incanti) che appaiono problematici
da un punto di vista morale o religioso.
Tuttavia il progetto di revisione viene abbandonato nel 1576, quando ha inizio il periodo di crisi: egli subisce
un’aggressione da parte di un altro cortigiano della corte di Ferrara e poi, nel giugno del 1577, si confessa
all’Inquisizione di Ferrara, temendo di essere incorso in eresia, che lo assolve. Poco dopo però, credendo di essere
spiato da un servo, lo aggredisce con un coltello. La conseguente reclusione nel convento di San Francesco, la fuga da questo e i molti viaggi in Italia (Sorrento,
Roma, Mantova, Padova, Venezia, Pesaro, Urbino...) non gli lasceranno la possibilità di continuare l’opera e, quando
nel marzo 1579, il poeta viene rinchiuso per pazzia nell’ospedale di Sant’Anna, la stesura del “Goffredo” si può
considerare del tutto abbandonata e ferma allo stadio di tre anni prima.
si noti che il periodo storico scelto è lo stesso, quello medievale, d’accordo con i principi di poetica espressi nel primo dei Discorsi
dell’Arte Poetica. Si noti inoltre che tutte le 3 tematiche si confanno al nuovo clima ideologico della Controriforma.
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scrive un’Allegoria, in prosa, per legittimare ogni parte del testo all’interno di un disegno allegorico di stampo platonico.
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Mentre Tasso è imprigionato incominciano a circolare tra gli editori, a sua insaputa, copie del “Goffredo”: dopo due
stampe parziali (Genova 1579, Venezia 1580) vengono così pubblicate nel 1581 le prime edizioni complete del
poema (Parma, Casalmaggiore) con il titolo “Gerusalemme Liberata”, deciso dal curatore Angelo Ingegneri su
modello dell’ “Italia liberata da’ Goti”. A Ferrara gli Este non possono sopportare tale spregio, essendo il poema scritto in loro onore e sotto la loro
protezione, e pubblicano, curate dal letterato Febo Bonnà, due edizioni dedicate al duca Alfonso.
E’ solo in questo caso che Tasso viene consultato ma egli né partecipa all’allestimento dell’opera né ne autorizza
stampa. Il successo dell’opera è clamoroso e ispira commenti, illustrazioni e imitazioni: già nel 1583 appare un seguito del
poema, i “Cinque Canti”, di Camillo Camilli; nel 1585 il genovese Scipio Gentili dedica alla regina Elisabetta
d’Inghilterra i primi due libri della “Solymeis”, traduzione dell’opera in esametri latini. Altre traduzioni appariranno
entro la fine del secolo nelle principali culture europee. La “Gerusalemme Liberata” si impone quindi non solo come best-seller ma anche come un classico, un poema
epico moderno capace di eguagliare i modelli dell’antichità.
La posizione di Tasso a riguardo è ambigua: egli ripudia il testo, che considera illegittimo, ma è al contempo
triste di non beneficiare del successo. Col passare degli anni prevale però un senso di distacco: quando nasce la polemica che oppone Ariosto a Tasso,
alimentata dai testi di Camillo Pellegrino (“Il Carrafa o vero della epica poesia”, 1584) e in risposta quella dei
Cruscanti15 (“Difesa dell’Orlando Furioso”, 1585), Tasso se entra in campo è solo perché vuole difendere (con l’
“Apologia della Gerusalemme Liberata”, 1585) l’ “Amadigi” del padre Bernando, attaccato dall’Accademia della
Crusca. Nell’ “Apologia della Gerusalemme liberata” non mancano difese al suo poema benché egli si mostri
estraneo alla stesura pubblicata: dopo la liberazione del 1586 da Sant’Anna egli, nel 1588, inizia la nuova
revisione che finalmente, nel 1593, verrà pubblicata come “Gerusalemme Conquistata”.
Non solo Tasso non ha mai autorizzato la pubblicazione della “Gerusalemme Liberata”, ma non l’ha nemmeno
davvero riconosciuta a posteriori: l’opera è come se per lui non sia mai esistita in quanto redazione intermedia e
provvisoria dell’edizione del 1593. Tuttavia l’enorme successo dell’opera ha reso vano l’imposizione dell’opera come “legittima”, perlomeno per la sua
fama.
Questo rifiuto e dissociazione spiegano il perché non ci sia un’edizione critica della “Gerusalemme Liberata”,
ovvero un’edizione conforme all’ultima volontà dell’autore, ovviamente in questo caso contraddittoria.
Da alcuni decenni, Luigi Poma e i suoi allievi pavesi stanno portando avanti un progetto di quest’edizione critica
e hanno permesso di ricostruire con esattezza le varie fasi di elaborazione del poema, chiarendo come si sia
costituito il testo delle sue prime stampe. Lo scopo di quest’edizione critica è però limitato ed è quello di ricostruire il testo “privato” del manoscritto
abbandonato nel 1576 da Tasso, un testo incompiuto, segnato dai tagli e dalle correzioni ispirati dalla revisione
romana.
L’edizione critica non potrà certamente sostituire la “vulgata” del poema (l’edizione divulgata con le prime edizioni).
Sulla vulgata, e in particolare su una delle stampe ferraresi del 1581, si basa il testo critico della “Gerusalemme
Liberata” più recente, quello di metà novecento, allestito da Lanfranco Caretti.
4.2 LA TRAMA DELL’OPERA
Il poema, in 20 canti, racconta la fase finale della prima crociata, quando l’esercito cristiano guidato da Goffredo
di Buglione giunge sotto le mura di Gerusalemme, la cinge d’assedio, e dopo alcuni mesi di guerre e battaglie
individuali sconfigge le truppe musulmane e conquista la Città Santa.
La Protasi Riassuntiva
“Canto l’arme pietose e ‘l capitano
che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo. Molto egli oprò co ‘l senno e con la mano, molto soffrì nel glorioso acquisto; e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
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nasce proprio in seguito a quest’evento, per motivazioni politiche, la fiorentina Accademia della Crusca.
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Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi segni ridusse i suoi compagni erranti.”
vv.1-2: si parte dalla fine della vicenda, ovvero dalla liberazione della tomba di Cristo a opera di Goffredo (‘l
capitano) e di un esercito animato da fervore religioso (‘l gran sepolcro). Fin qui gli elementi sono noti al pubblico e contano pertanto quelli successivi, che narrano delle circostanze e dei
modi con i quali si arriva a queste conclusioni.
vv. 3-4: si ricordano le qualità intellettuali di Goffredo (senno, mano), l’energia attiva (molto egli oprò) e
parallelamente la capacità di sopportazione (molto soffrì) dimostrate nell’impresa di conquista (acquisto). vv. 5-6: si parla di chi ha preso vanamente parte all’impresa, quindi gli avversari (Inferno, d’Asia e di Libia il popol
misto).
vv. 7-8: si parla delle forze che han contribuito alla vittoria: il Cielo (parallelo all’Inferno) e i compagni, colpevoli però
di un’erranza, di una dispersione sia fisica che morale che il capitano riesce però ad arginare riunendoli sotto i
vessilli crociati, “santi segni”.
I Conflitti
L’ottava proemiale annuncia quindi gli assi portanti del racconto.
Al conflitto militare cristiani-musulmani, si aggiungono e si sovrappongono altri due conflitti: quello
supernaturale Cielo-Inferno e quello interno all’esercito tra Goffredo e i suoi compagni:
- Il conflitto supernaturale tra Cielo ed Inferno, che è quello dell’eterna lotta tra Bene e Male, in cui consiste
secondo la visione cristiana la storia della Redenzione: la crociata, promossa da Dio e osteggiata da Satana, appare
quindi legittimata come Guerra Santa al servizio della fede d’accordo con l’ideologia cristiana dell’epoca.
- Il conflitto interno all’esercito cristiano tra Goffredo ed i suoi compagni “erranti”, quindi di natura morale e
politica: all’interno dell’esercito si fronteggiano caratteri, passioni e ideali diversi con il rischio di compromettere
l’unità necessaria per compiere l’impresa. Questi due livelli di conflitto si incrociano continuamente alimentandosi a vicenda: le forze dell’Inferno non
intervengono solo sul campo di battaglia ma agiscono anche sulle passioni (orgoglio-amore) dei crociati. Tali elementi permettono di caratterizzare con quella “meraviglia”, ovvero tensione narrativa e varietà tematica,
che permette il “diletto” e l’ “efficacia morale della poesia”.
I CANTI
I-III: Avviso della fase finale della Crociata
I: Dio dà impulso all’azione tramite l’arcangelo Gabriele che esorta Goffredo a riunire le truppe cristiane, ferme da
diversi mesi a svernare a Tortosa, per guidarle a Gerusalemme.
L’investitura “divina” del capitano, garanzia di coesione dell’esercito, viene confermata da Pietro l’Eremita e
approvata per acclamazione dagli altri capi cristiani. I crociati si mettono in marcia e arrivano velocemente a
Gerusalemme.
II: Il re musulmano di Gerusalemme, Aladino, prepara le difese e infierisce sui cristiani locali, dando alla giovane
Sofronia l’occasione di un sacrificio eroico che sarà sventato in extremis dalla nobile guerriera musulmana Clorinda. Due ambasciatori egiziani, Alete e Argante, propongono invano un patto di pace a Goffredo.
III: Cominciano i primi scontri sotto le mura di Gerusalemme, che mettono in luce sia il valore che le passioni
segrete dei guerrieri che interferiscono con la logica della Guerra Santa (es. amore). Tra i cristiani si distinguono
Dudone, ucciso da Argante, Rinaldo e il principe normanno Tancredi. Tancredi rivela nel pieno della battaglia il suo amore per la nemica Clroinda ed è a sua volta oggetto d’amore della
principessa musulmana Erminia, che lo ammira dalle alte mura. IV-VII: Controffensiva dell’Inferno
IV-V: Plutone, nome classico di Satana, riunisce i suoi mostruosi sudditi in un concilio infernale per organizzare la
difesa di Gerusalemme. I demoni potranno utilizzare due tipi di armi: la “forza”, ovvero il concreto sostegno militare
dato alle truppe musulmane, e l’ “inganno”, una strategia che agisce perversamente sull’indole e sulle emozioni dei
crociati. Il primo attacco sferrato è del secondo tipo: Armida, bellissima principessa siriana esperta di arti magiche, racconta
ai crociati una falsa storia pietosa per farsi soccorrere. La sua forza di seduzione è tale che neanche Goffredo riesce
a impedire la partenza clandestina di numerosi cavalieri. Un demonio invece sobilla il norvegese Gernando a insultare Rinaldo, suo rivale nella successione a Dudone: ne
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nasce un duello, Gernando viene ucciso e Rinaldo, per non sottoporsi al giudizio di Goffredo, abbandona
l’accampamento in cerca di nuove avventure. L’esercito crociato rimane privato del suo guerriero più forte.
VI: Tancredi, benché ferito dopo un duello con Argante, si allontana nottetempo dal campo cristiano per inseguire
una donna che porta l’armatura di Clorinda ma che in realtà è Erminia, uscita da Gerusalemme per portare soccorso
all’amato. Perse le tracce della donna, Tancredi capita nel castello dove Armida ha imprigionato le sue vittime e
viene catturato. VII: l’anziano Raimondo tiene testa bene ad Argante ma mentre sta per sopraffarlo le forze infernali fanno
degenerare il duello in una zuffa convulsa (multiforme) e poi scatenano una grandiosa tempesta che mette fine al
combattimento.
VIII-XIII: Alterne vicende della guerra attorno a Gerusalemme con progressivo aggravarsi della situazione dei
crociati. In un’atmosfera notturna e cupa, l’esercito cristiano deve affrontare attacchi sanguinosi, sommosse interni ed
inganni demoniaci sempre più insidiosi e raffinati. Solimano di Nicea (o Soldano), guerriero musulmano, stermina interamente le truppe del danese Sveno (VIII), e poi
sferrerà (IX) un attacco notturno al campo crociato. Nel frattempo (VIII) si sparge la falsa notizia della morte di Rinaldo: il crociato Argillano ,sobillato da una Furia, dà la
colpa a Goffredo incitando i soldati alla rivolta ma questi riesce a placarne gli animi e a punire il sedizioso. Goffredo
verrà poi colpito fisicamente da una freccia, che sarà tuttavia medicata (XI).
La situazione resta poi globalmente equilibrata grazie all’aiuto di Dio che manda l’arcangelo Michele a cacciare i
demoni (IX) e viene ringraziato dai crociati con una processione al Monte Oliveto (XI). Tancredi e gli altri guerrieri prigionieri di Armida riappaiono improvvisamente e raccontano di essere stati liberati da
Rinaldo, quindi vivo, e descrivono le arti magiche della donna (X).
Diversi ostacoli impediscono poi la conquista di Gerusalemme: Argante e Clorinda incendiano la torre d’assedio
cristiana (XII), poi il mago Ismeno rende inaccessibile la foresta di Saron, dove si trova il legname necessario a
ricostruire la torre. E’ qui che inoltre si trova l’episodio del duello tra Tancredi e Clorinda: la guerriera, che ha saputo di essere nata da
genitori cristiani, viene sorpresa in una sortita notturna da Tancredi che non riconoscendola la uccide in un duello:
in punto di morte ella chiede il battesimo e viene riconosciuta dal guerriero disperato (XII).
Nel XIII Dio esaudisce le preghiere di Goffredo mettendo fine alla siccità con una pioggia ristoratrice e decretando
che per i cristiani cominci un “novello ordin di cose”. XIV-XVIII: Reintegrazione di Rinaldo e Allargamento Geografico
XIV: Goffredo, istruito da un sogno profetico, incarica i cavalieri Carlo e Ubaldo di partire alla ricerca di Rinaldo per
riportarlo a Gerusalemme. Giunti ad Ascalona, sulle rive mediterranee, i due incontrano un mago cristiano che li
ragguagli sulla sorte del guerriero, divenuto a sua volta prigioniero e poi amante di Armida e portato da lei su una
delle Isole Fortunate, in mezzo all’oceano Atlantico. XV-XVI: i crociati raggiungono il giardino di Armida dopo aver viaggiato a bordo di una nave magica, guidata dalla
Fortunata, ed essere andati in contro a diverse peripezie. Rinaldo, con spirito battagliero, decide di lasciare l’isola nonostante le suppliche della maga. XVII: mentre a Gaza si è radunato l’esercito egiziano (con Armida pronta a vendicarsi), Rinaldo, Carlo e Ubaldo
raggiungano Ascalona dove l’eroe riceve una nuova armatura e viene istruito sulla sua illustre discendenza, che
culmina con i principi estensi. XVIII: accolto e perdonato da Goffredo, Rinaldo confessa i suoi peccati a Pietro l’Eremita e si sottopone ad un rito
purificatorio sul Monte Oliveto. Il cavaliere si reca poca nella selva di Saron dove resiste agli inganni demoniaci e
mette fine agli incanti di Ismeno.
La selva è ora di nuova accessibile per la costruzioni di macchinari da guerra in legno. XVIII-XX: Riprende l’azione bellica, ora vittoriosa
XVIII: i crociati, grazie all’impeto di Rinaldo e all’abilità strategica di Goffredo, penetrano dentro le mura di
Gerusalemme e fanno strage di nemici, costringendo i capi musulmani a rifugiarsi nella torre di David. XIX: nel frattempo, Tancredi, riprende il duello interrotto con Argante, uccidendo il nemico ma restando a sua volta
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gravemente ferito. Vafrino, spia cristiana, è inviato all’accampamento egiziano di Gaza, dove scopre le trame che minacciano Rinaldo e
Goffredo e dove incontra Erminia. La donna torna con la spia verso Gerusalemme, gli confida le pene d’amore e i
due incontrano Tancredi ferito. XX: l’ultimo giorno, in una splendida mattina soleggiata, l’esercito crociato e quello egiziano si schierano l’uno di
fronte all’altro nella pianura sotto Gerusalemme. Dopo le allocuzioni di Goffredo ed Emireno comincia la battaglia,
che si trasforma presto in una mischia sanguinosa.
Raimondo uccide Aladino, Rinaldo uccide Solimano e Tisaferno, poi salva Armida dal suicidio e si riconcilia con lei.
Goffredo uccide Emireno e si reca al sepolcro di Cristo, dove appende le proprie armi a indicare l’adempimento del
voto. 4.3 UNITA’ E VARIETA’ Nei “Discorsi dell’Arte Poetica”, Tasso raccomandava di cercare un compresso tra unità e varietà, iscrivendo la
varietà all’interno dell’unità in modo da creare un “piccolo mondo” armonioso e variegato.
Nella “Gerusalemme Liberata” Tasso ha perfezionato questa formula: unità e varietà non appaiono conciliate ma
sono rappresentate come due forze in conflitto, due poli opposti tra i quali si sviluppa la tensione che struttura il
racconto. Questo conflitto viene infatti ad incarnarsi, a livello narrativo, nei personaggi, nei luoghi, nei valori, e
presiede al rapporto del poema con i suoi modelli letterari. Livello Narrativo
Goffredo è l’inflessibile tutore dell’unità cristiana e deve fronteggiare sia le forze che disgregano l’esercito
cristiano (compagni erranti) sia la massa confusa e informe dei nemici pagani (il popol misto). Già dall’inizio infatti si nota una certa varietà nel campo crociato: i campioni cristiani sono dominati da
passioni forti e discordanti (desiderio di gloria, ambizione, amore). Per questo Goffredo è investito di un potere
di tipo monarchico che dovrebbe garantire all’esercito unità d’intenti e scongiurare l’anarchia e l’erranza. Tuttavia l’autorità di Goffredo non è sufficiente, a partire dal IV libro si nota l’effettiva divisione e dispersione
dei crociati come da volontà di Satana nel concilio infernale: si assiste così ad omicidi, alla diserzione dei
crociati sedotti da Armida, alla partenza di Rinaldo e Tancredi, alla rivolta di Argilano. Parallelamente si frantuma anche l’unità del racconto: il narratore non può più concentrarsi sullo scontro
frontale tra i due eserciti ma deve seguire, anche in modo intermittente, le molteplici traiettorie individuali. Solo con il ritorno degli altri crociati e in particolare, a tre canti dalla fine, con quello di Rinaldo, l’esercito
cristiano ritrova la sua unità e il racconto può tornare a concentrarsi sullo scontro tra i due eserciti. Ora Goffredo può finalmente dedicarsi al fronte esterno del conflitto, affrontando con le sue truppe l’esercito
nemico, variopinto e dominato da discordia e confusione: la vittoria finale dei crociati segna la vittoria dell’unità
sulla varietà. Livello Scenografico
Il racconto distingue infatti nettamente un centro, Gerusalemme, e una variegata periferia: la selva di Saron,
le foreste in cui si perdono Tancredi ed Erminia, le rive del Giordano, il castello di Armida sul mar Morto, le
distese desertiche attraversate da Solimano, la grotta subacquea del mago d’Ascalona, il viaggio sulla nave
nel mediterraneo, l’accampamento di Gaza, il palazzo magico di Armida sulle isole Fortunate. Sembrerebbe quindi mancare l’unità di luogo ma in realtà la molteplicità di luoghi è rigorosamente
gerarchizzata e connotata moralmente: ogni movimento è definito e valutato in rapporto al centro immobile
presidiato da Goffredo, che incarna la costanza dell’obiettivo epico-religioso della guerra. L’erranza non è un
carattere positivo, come in genere avviene nella tradizione romanzesca dell’avventura (si veda Ariosto), quanto
un errore morale che distoglie dal dovere: pertanto più la “devianza” è grande più la distanza spaziale sarà
ampia. La geografia dell’opera è pertanto “moralizzata”: questo elemento è vero anche se si considerano le
descrizioni dei luoghi. Tasso rispetta la geografia reale della Terra Santa ma aggiunge una forte coerenza e
pregnanza simbolica (anche biblica) in modo tale da permettere ai luoghi di divenire lo specchio di una
condizione spirituale.
Ad esempio il palazzo e il giardino di Armida sono un’immagine di confusione morale e di artificio ingannevole;
le rive del mar Morto rappresentano la sterile desolazione del peccato; la foresta di Saron rende visibili i
fantasmi del desiderio e del rimorso; il monte Oliveto è un luogo di purezza e rinascita spirituale.
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Gli Episodi
L’architettura narrativa del poema è assai rigorosa e questo si nota anche nei numerosi episodi interni. Tasso ritiene che gli episodi siano un ingrediente essenziale che può dare piacere ai lettori garantendo sorpresa
e varietà: tuttavia questi non sono per niente sganciati dalla storia principale, anzi sono ad essa funzionali. Gli episodi funzionali possono:
- ritardare il racconto (dal concilio infernale dell’IV canto)
- favorire la progressione del racconto (dall’iniziativa divina dei canti XIV-XVII: il viaggio di Carlo e Ubaldo è una
parentesi colorita che però ha l’importantissima funzione di permettere il ritorno dell’eroe principale garantendo
la risoluzione della storia). Altri episodi sono invece relativi all’iniziativa umana, alle passioni o al caso: è a causa di un equivoco che
Tancredi finisce nel castello di Armida ed è uno scherzo della sorte che gli fa uccidere Clorinda. Altro caso è la decisione, da parte di Goffredo, di spedire come spia Vafrino: quest’episodio permetterà ai
cristiani di sapere che Goffredo e Rinaldo sono vivi e di salvare Tancredi ferito. Tuttavia diversi episodi non sono funzionali, come ad esempio il sacrificio di Sofronia e del suo innamorato
Olindo, il soggiorno di Erminia tra i pastori, la riconciliazione di Armida e Rinaldo durante la battaglia Campale. Tasso sa che questi episodi sono importanti per altri elementi, come la coerenza simbolica, la varietà tonale o la
curiosità narrativa, ma tuttavia il criterio della funzionalità è per lui così importante da farsi convincere da
alcune critiche dei revisionisti e da eliminarne alcuni. Il poema si rivela pertanto equilibrato e ordinato, ma anche dinamico in quanto l’equilibrio stesso nasce
dall’interazione di forze opposte, dal gioco di spinte e controspinte che si radicano nei conflitti del racconto.
La Suspence
Tasso ricorre spesso a questa tecnica narrativa, che nelle “Lettere Poetiche” descrive così: “Il lasciar l’auditor
sospetto, procedendo dal confuso al distinto, dall’universale a’ particolari”.
Essa rompe la razionalità e l’equilibrio del poema andando ad aggiungere ambiguità e incertezza. - Erminia: all’inizio (III) non si capisce bene il suo discorso su Tancredi quando lo vede dalle mura; poi si sa che
è stata in passato sua prigioniera (VI); infine la vicenda viene raccontata dalla principessa a Vafrino, con più
dettagli e intensità emotiva (XIX). - Armida e Rinaldo: dopo la partenza del giovane (V) non si hanno più sue notizie fino all’VIII canto, quando si
pensa che sia morto. Nel X canto si dissipa questo timore quando i prigionieri della maga dicono di essere stati
liberati da lui; poi si risente parlare di Rinaldo nella profezia di Pietro l’Eremita (XIII), nel sogno di Goffredo (XIV)
e infine nell’episodio del mago d’Ascalona che racconta a Carlo e Ubaldo la cattura del giovane da parte di
Armida. Lo scopo della tecnica non è solo quello di tenere lo spettatore in uno stato di tensione e curiosità, quanto
piuttosto è un modo per complicare, frammentare e sfaccettare il racconto con i diversi punti di vista dei
personaggi: in questo modo il lettore si trova in una condizione di incertezza conoscitiva simile a quella dei
personaggi del poema e anche ai suoi occhi la varietà si manifesta per gradi.
4.4 I MODELLI
Ispirazione ai Modelli Classici Tasso instaura un rapporto di filiazione diretta iscrivendosi esplicitamente nel genere epico degli insuperabili Omero
e Virgilio.
“Iliade”
- si parla di un lungo assedio
- Erminia addita i nemici dalle mura di Gerusalemme, come Elena a Priamo dalle mura di Troia (III)
“Eneide”
- Il primo verso ricalca pari pari l’incipit, come un’ “etichetta” di genere per l’opera
- l’impresa è collettiva e guidata da un condottiero “pio” e assisto dalle potenze celesti (II)
- il ferimento di Goffredo ricalca quello di Enea (XII)
- l’apparizione dell’esercito immortale come gli dèi che partecipano alla presa di Troia (II)
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- si ha la rassegna delle truppe, topos epico
- la sortita notturna di Argante e Clorinda imita quelle di Ulisse e Diomede (Il. X), e di Eurialo e Niso (En. IX)
- le armi e lo scudo di Rinaldo sono esemplati su quelli di Achille (Il. XVIII) e soprattutto di Enea (En. VIII) Lo Stile Virgiliano
Tasso imita per lo più Virgilio (siamo in un’epoca in cui i poemi omerici sono ritenuti arcaici da un punto di vista
letterario e morale) oltre che nella narrazione anche nello stile epico, elegante e patetico. Troviamo spesso interi passi che ricalcano, o traducono, l’ “Eneide”: interventi solenni o commossi del
narratore, immagini del campo di battaglia, dettagli crudeli della lotta, gesti e parole di coraggio, pietà, lunghe
similitudini che evocano animali, piante e fenomeni naturali.
Ispirazione ai Modelli Contemporanei-Cavallereschi
Il genere romanzesco-cavalleresco (“Orlando Furioso”) è invece un modello negativo, o meglio negato: il suo
apporto è notevole ma si situa per lo più sul versante oscuro del poema, dalla parte delle forze che minacciano
l’unità narrativa e strutturale. L’influsso del romanzo cavalleresco si situa quindi sul versante della varietà, alimentano gli episodi che
ritardano il compimento della Guerra Santa. In questo caso però non si ha una ripresa precisa quanto più un
rinvio a temi o motivi tipici:
- l’arrivo di Armida al campo crociato ricorda quello di Angelica alla corte di Carlo Magno, ma il suo
personaggio assomiglia a tutte le belle e perseguitate giovani che chiedono aiuto nei poemi romanzeschi. E
Armida, inoltre, assomiglia ad Alcina e a tante altre seduttrici del suo stampo;
- la fuga di Erminia attraverso la foresta imita quella di Angelica ma richiama in genere tutti gli inseguimenti
labirintici e paradossali dei poemi cavallereschi;
- la vicenda di Tancredi e Clorinda riprende la tipica interferenza galante di “arme” e “amori”;
il viaggio di Carlo e Ubaldo (elemento, però, positivo e finalizzato all’unità).
In realtà non c’è una netta separazione tra modelli classici e cavallereschi, quanto più una tendenza: lo stesso
“Orlando Furioso” presenta motivi epici, e inoltre la “Gerusalemme Liberata” attinge a numerosi altri modelli (le
“Metamorfosi” di Ovidio, la “Divina Commedia” di Dante, le “Etiopiche” di Eliodoro, il “Decamerone” di
Boccaccio). Questa scelta di genere si inscrive tuttavia all’interno di un conflitto di valori attuale, con una rilevanza
non solo letteraria quanto piuttosto politica e morale.16 Studi recenti nord-americani hanno attribuito a epica e romanzo due ideologie differenti: la prima è chiusa, unitaria, gerarchia,
collettiva e verticale-finalistica ed esprimerebbe una concezione provvidenziale della storia e la vittoria della razionalità sul
disordine delle passioni; l’altra è invece molteplice, aperta, orizzontale e digressiva, e manifesterebbe il dominio del caso e del
principio di piacere (*Zatti).
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V. LA GERUSALEMME LIBERATA: TEMI, PERSONAGGI E STILE
5.1 IL NUOVO EROISMO CRISTIANO: GOFFREDO E RINALDO
Parallelamente ad Agamennone e Achille nell’ “Iliade”, anche nella “Gerusalemme Liberata” i protagonisti sono due,
Goffredo e Rinaldo, in questo caso rappresentanti di due generi letterari ed etici distinti: epica e romanzo.
Goffredo di Buglione17 , personaggio storico, è l’incarnazione del perfetto eroe epico, con caratteristiche pietose
di stampo cristiano: non vuole ambizione, ricchezza o potere ma solo assicurare unitarietà all’esercito. I segni della sua investitura divina sono diversi (messaggi celesti, segni profetici) e la sua caratterizzazione di
“primus inter pares” è diametralmente opposta a quella del califfo egiziano, altezzoso e superbo (vd. tematiche
della tragedia greca). In tutte le situazioni si rivela fermo, clemente ed estremamente diplomatico: la sua autorità è
inoltre segno di una grande disciplina sulle proprie passioni (es. quando Armida tenta invano di sedurlo, V).
In ambito militare Goffredo non vuole primeggiare individualmente, quanto piuttosto vuole assicurare il successo
collettivo: il suo unico tentativo di agire come “privato guerrier” viene condannato da Raimondo come una deroga ai
suoi doveri di capitano e pertanto viene punito da una ferita che lo costringe ad abbandonare l’impresa. Il suo ruolo è quindi strategico, egli organizza l’assedio, dispone le truppe, stabilisce modi e tempi.
Inoltre controlla gli animi dei crociati, li punisce se sono feroci, avidi o indisciplinati: non a caso il suo ultimo
gesto militare (rifiutare l’offerta del nemico Altamoro di risparmiarlo in cambio di ricchezze) è all’insegna del
disinteresse. Goffredo ha un distacco ascetico dalle cose del mondo e in un episodio (XIV, 1-19), ispirato al “somnium
Scipionis” di Cicerone, è trasportato in un sogno fino al Cielo, dove incontra l’anima di Ugone, personaggio morto
all’inizio della crociata e qui ricompensato per il suo martirio assieme ad altri guerrieri della fede: Goffredo vorrebbe
raggiungerlo ma il beato gli ricorda che prima deve affrontare l’impegno della crociata, ma che lo raggiungerà
presto. Il capitano guarda poi in basso, verso la terra, che ai suoi occhi si manifesta come piccola e insignificante.
Rinaldo, invece, non è un personaggio realmente esistito ma il protagonista della tradizione cavalleresca. E’ più giovane, bello, ed ha un’inclinazione ai piaceri sensuali; è inoltre spinto non da un desiderio cristiano ma da
un desiderio d’onore tutto cavalleresco e: è il perfetto eroe romanzesco. L’eroe fa parte degli “avventurieri”, ovvero quei cavalieri fedeli all’ethos cavalleresco, eredi di quelli della Tavola
Rotonda. Il suo valore militare e il suo rispetto del codice cavalleresco lo si nota nel comportamento che ha in
seguito alla vicenda dell’uccisione del capo Dudone: la vendetta supera addirittura i tentativi di seduzione di
Armida. Inoltre il suo comportamento impetuoso si vede nello scontro con Gernando e nella sua decisione di
andare via, lontano dall’autorità oppressiva di Goffredo. Il suo esilio ricalca quello di Achille ma l’eroe ribelle, in questo caso, non solo si rifiuta di combattere ma
abbandona anche il racconto: per molti canti non sappiamo nulla di lui, finché non veniamo a conoscenza dell’isola
dove lo tiene prigioniero la maga. Questo luogo e l’avventura “di curiosità” dell’eroe hanno gusto tutto delizioso e romanzesco (riprende Ariosto). Il ritorno in campo di Rinaldo, determinante per la risoluzione della storia, fa capire che l’elemento cavalleresco
è funzionale a quello epico, ma benché le qualità eroiche di Rinaldo aumentino, egli è sempre subordinato a
Goffredo, che infatti sarà l’unico a compiere il gesto devoto sulla tomba di Cristo. Il senso di questa duplicità e complementarità tra i due personaggi è simbolico: Goffredo è il capo che
concepisce i piani migliori, Rinaldo è la mano che li esegue (XIV, 13). Come Tasso scrive nell’ “Allegoria”, leggendo il poema in chiave platonica come conflitto tra le parti dell’anima,
Goffredo è l’intelletto, che deve sottomettere le parti irascibili e concupiscibili dell’anima, incarnate dai compagni
erranti e da Rinaldo, per far trionfare la virtù, rappresentata dalla vittoria. I caratteri dei due sono infatti ben scindibili: il capitano è impassibile e ascetico, l’eroe è impulsivo, energico e
sensuale. Tuttavia questo conflitto non ha solo una valenza etica-psicologica universale ma si iscrive in un
preciso contesto storico: il poema garantisce ai lettori un’identificazione spontanea nei costumi dei personaggi. Importanti sono per questo la dedica e la genealogia relative alla famiglia Este, in particolare ad Alfonso II che
infatti è associato sia a Rinaldo (quando è fanciullo e da prova di valore sul campo; XVII), che a Goffredo (quando è
maturo ed eccelle nell’arte del governo; I). L’elogio di Alfonso permette pertanto di attenuare il conflitto tra i due personaggi, strettamente coerenti tra loro, e ci
fa capire come il poema rappresenti le tensioni di un’epoca in cui il potere aristocratico è costretto a piegarsi in
diversi modi al nuovo ordine morale e politico imposto dalla Controriforma. su questo personalmente non sono d’accordo: l’eroe omerico andava alla ricerca di un forte riconoscimento a livello sociale, si veda
l’elemento della morte.
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Tasso assecondò quest’evoluzione costruendo un modello di eroismo in cui la religione e l’ascetismo disciplinano
gli eccessi dell’ethos cavalleresco, ma il poema ebbe successo in particolare grazie al fascino persistente dei valori
che quel modello imponeva di abbandonare.
5.2 “SOAVI LICOR” E “SUCCHI AMARI”: L’AMORE
Benché il poema subordini la varietà all’unità, sono tuttavia presenti i valori condannati dall’ideologia posttridentina.
Tasso lo annuncia subito nello spazio metapoetico (I, 2-4): nella seconda ottava chiede alla Musa Cristiana, che
incarna la verità e la moralità, di perdonarlo per aver “intessuto fregi al ver” aver adornato l’opera di “diletti” , e
nella terza spiega il valore pedagogico di questa introduzione.
Dice infatti che in un mondo troppo sensibile alla poesia profana, il poeta cristiano non può presentare i suoi
messaggi morali con la loro assoluta verità ma li deve condire con elementi piaceri, per convincere tutti i lettori.18 Il
“miscere utile dulci” non è però solo una mescolanza ma anche un inganno: utile e dilettevole non possono
conciliare armoniosamente, perché si oppongono come “succhi amari” a “soavi licor”: bisognerà pertanto
dissimulare la severità della lezione morale sotto la piacevolezza ingannevole della poesia. Nella quarta ottava invece Tasso inserisce la dedica e, per l’unica volta, parla di se stesso presentandosi come
un naufrago salvato in extremis dalla guida del suo signore, esprimendo così una forte metafora sulla sua
angosciosa e instabile vita. Questo ruolo che il poeta si dà è strettamente legato alla tematica del poema, errante
anche nella narrazione.
La “Seduzione Lasciva” di Armida
Gli episodi d’amore sono svariati e sono utili per adeguarsi al “gusto profano” del mondo, come già accadeva in
Ariosto con la miscela di armi e amori. Trattare l’amore non vuol dire andare contro la morale in quanto lo si può affrontare in maniera conforme
all’ideologia epico-cristiana, e questo lo si vede bene dal proemio in cui, a differenza di quello dell’ “Orlando
Furioso”, non si parla di donne e di amore. L’amore è pertanto elemento o dovuto all’erranza dei cavalieri, o dovuto alle forze infernali che tentano di
svincolare i cristiani dal loro obiettivo: è una forza quasi del tutto antagonistica. L’amore non è più un alleato, come nel codice cavalleresco, ma un avversario: questo lo si vede bene
nell’episodio di Armida, spinta a sedurre i cristiani dallo zio, il mago Idroate, ispirato da un diavolo.
La donna non è una fanciulla indifesa, ma una nemica intelligente, consapevole della propria bellezza e pronta a
utilizzarla per sconfiggere i cristiani, quindi per motivi di orgoglio religioso e patriottico. Adotta pertanto una tecnica sottile, fondata sulla simulazione e sull’ambiguità e sa adattarsi ai comportamenti
di ogni personaggio, tanto da renderli gelosi gli uni degli altri e da seguirla come in un “trionfo d’amore”, in cui
Amore sembra essere però un demone tenebroso. Armida è pertanto personificazione allegorica della seduzione diabolica a cui i crociati non riescono a
resistere. Tuttavia il lettore si identifica nei protagonisti che, invece, non vengono influenzati.
Le allegorie continuano anche a livello scenico: il castello di Armida si trova sulle rive del Mar Morto, vicino le
città maledette di Sodoma e Gomorra, ma l’aspetto desolato del luogo, immagine della punizione divina, è
occultato per magia da un ameno giardino di delizie (X): ed è qui che la maga trasforma i crociati in pesci,
ricordando Circe e Alcina, e sottolineando il carattere degradante della passione amorosa.
L’Evoluzione di Armida
Nei canti XIV-XVI, dedicati ai due personaggi, la figura di Armida acquista un ruolo più patetico, dovuto alla
sua condizione di donna abbandonata-innamorata. Parallelamente, palazzo e giardino di Armida sembrano essere il riflesso della prigionia d’amore: il giardino è
preceduto da un labirinto intricato e sulle porte del palazzo ci sono le effigi di celebri episodi di passione
degradante di Ercole che lavora per Onfale o di Antonio che attende la morte di Cleopatra.
L’immagine di Rinaldo, quando viene trovato da Carlo e Ubaldo, è simile a quest’ultima: l’eroe è steso sul
grembo di Armida, come uno schiavo, e regge il suo specchio cercando invano di attirare il suo sguardo;
quando poi ella se ne va, Rinaldo rimane prigioniero del giardino, dove passeggia come una sorta di animale. I crociati inoltre contemplano la bellezza della donna e gli “atti amorosi” dei due: queste immagini entrano a far
parte dell’ideologia edonistica che scandisce l’episodio, sia in XIV che XV.
Gli elementi da prendere in considerazione sono i tre discorsi: quello della “sirena” che addormenta con il suo
canto Rinaldo, quello delle “donzellette” nude che tentano di sedurre i due giovani, quello del “pappagallo” che
vola nel giardino di Armida: essi esprimono la concezione epicurea della bellezza e della sensualità che si
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per spiegare questo Tasso riprende il motivo classico lucreziano, esprimibile con le parole oraziane “miscere utile dulci”, qui più
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possono cogliere nella giovinezza (vd. Catullo, Ariosto e Orazio), un periodo effimero e fuggitivo come la
freschezza delle rose (XIV 15). Nonostante gli inviti piacevoli, Carlo e Ubaldo, solo per intervento della ragione,
riescono a rifiutarli e lo stesso Rinaldo, non appena si vede riflesso nello scudo con aspetto effeminato, rinuncia
ai piaceri per tornare in guerra. A questo punto Armida fa svanire nell’aria il palazzo e il giardino, a conferma del loro valore ingannevole di
finzione demoniache, ma questo sottolinea ancora di più il fatto che il dovere epico-cristiano non tollera i
piaceri o che forse l’ideologia epicurea abbia qualche fondamento di ragione.
La maga diviene poi una trasposizione di eroine come Didone, Arianna e Olimpia: ella cerca di convincere
Rinaldo a rimanere, considerandosi una “sprezzata ancella”, dimentica dell’orgoglio religioso, puntando sulla
“pietà”, che però non è sufficiente a trattenere Rinaldo-Enea, ligio a ciò che il Cielo gli comanda. Una volta rifiutata, dopo aver minacciato l’eroe (vedi Didone), sviene e quando si sveglia decide di vendicarsi
lasciando l’isola e raggiungendo in fretta l’accampamento egizio a Gaza per arruolarsi.
La vicenda si riallaccia così alla trama epica, ma le motivazioni per cui Armida combatte sono cambiate: la
donna agisce ormai per motivi privati e passionali, spinta dall’odio - l’amore tradito - per Rinaldo.
Tuttavia, sul campo di battaglia, la figura di Armida non è rappresentativa di odio e di guerra, anzi è una
parentesi positiva-melodrammatica, nella vicenda: ella, con la freccia che scocca, spera di non raggiungere
davvero Rinaldo (che tra l’altro non ci fa caso: segno della sua insensibilità amorosa), come infatti avviene.
Anche Rinaldo però a questo punto cambia: una volta assicuratosi la vittoria sui pagani, il giovane torna a
ricordarsi dei suoi sentimenti e dei suoi obblighi cortesi verso la donna, e nell’ultimo canto si lancia al suo
inseguimento per evitare il suicidio.
Una volta raggiunta, Armida sviene ma viene poi risvegliata dalle lacrime dell’eroe: i due poi piangono insieme
finché Rinaldo non promette alla donna di proteggerla e si augura che si converta al cristianesimo, come avviene
nei versi successivi.
Il poema ha quindi una sorta di duplice fine: una di motivo cristiano ed epico (quella di Goffredo) e una più
romanzesca-patetica. La storia di Rinaldo e Armida mostra dunque che l’amore non è solo strumento dell’offensiva infernale o schiavitù
dei sensi, ma è anche rappresentazione della sfera privata che coinvolge il lettore emotivamente. Inoltre il sentimento avvalora e rende moderna la figura dell’eroe e dà un duplice significato al termine “arme
pietose”: le armi non sono solo mosse dal fervore religioso o solo temperate (Goffredo), ma anche capaci di
assecondare l’affettuosità in modo da rifondare pace e civiltà tramite l’amore (Rinaldo). E’ infatti probabile che da un possibile matrimonio tra Armida e Rinaldo avrà proprio origine la stirpe estense. 5.3 GUERRA EPICA E GUERRA AMOROSA: ERMINIA, TANCREDI E CLORINDA
Il finale romanzesco fu oggetto di critica da parte dei revisori romani e fu infatti cassato dal poema in un
manoscritto del 1576: l’amore nella “Gerusalemme” può infatti esprimersi solo a patto che sia privo di lieto fine,
quindi malinconico o tragico. Sono gli Amori Infelici. Si parla in questo caso di amori ascrivibili alla dimensione dell’erranza, non legati al volere infernale, come per il
triangolo Erminia-Tancredi-Clorinda, votato all’infelicità a causa delle diversità religiose e delle non corresponsioni
d’amore. Erminia, principessa musulmana, ama il crociato Tancredi che a sua volta ama non riamato la guerriera
Clorinda: questi amori infelici condannano i personaggi alla malinconia e all’incomprensione, ad un ripiegarsi nella
propria interiorità (si vedano i monologhi lirici, fatti per lo più di ricordi). Le Guerre Amorose e L’Amore Infelice
Tali passioni, seppur individuali, entrano a livello sintattico in conflitto con la logica dell’epos attraverso l’utilizzo
ambiguo del linguaggio militare, che esprime sia la guerra sia la fenomenologia dolorosa dell’amore non
corrisposto (l’amata è nemica; l’amore ferisce e uccide). I personaggi erranti sovrappongono alla Guerra Santa la loro guerra amorosa:
- Tancredi è indotto in paralisi quando vede Clorinda (III), non combatte più e anzi offre materialmente il proprio
cuore a colei a cui “già appartiene”. Stessa cosa succede quando, in IV, Tancredi è scelto per affrontare Argante
in un duello da cui dipende la sorte della guerra, tanto che è Ottone a dover affrontare il nemico, perdendo così
la vita. RIASSUNTO A CURA DI ALESSANDRO IANNELLA
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- Erminia19 mentre parla con Aladino, quando vede dall’alto delle mura Tancredi combattere (III), esprime parole
ostili sul suo conto, chiaramente segno di desiderio nei suoi confronti. Se Tancredi diviene passivo nel suo amore, Erminia è invece attiva e si lancia all’avventura per curare Tancredi
ferito (VI), mettendo a repentaglio il proprio “onore” e vestendosi con la dura armatura di Clorinda. Tuttavia la missione di Erminia attira lo sguardo di due sentinelle cristiane che si lanciano al suo inseguimento:
la fanciulla fugge in mezzo ai boschi finché non è accolta, sulle rive del Giordano, da una famiglia di pastori
(VII). Dell’equivoco è però vittima anche Tancredi, che si lancia all’inseguimento di Clorinda e che capita, a
causa delle tenebre e dell’intrico della foresta, nel castello di Armida.
L’erranza morale diviene, pertanto, erranza fisica e allontana i personaggi dal centro della storia, Gerusalemme:
Erminia tornerà solo nell’XIX canto, quando la spia Vafrino la incontra per caso a Gaza e la riporta a
Gerusalemme; Tancredi viene invece liberato da Rinaldo nel canto X e torna tranquillamente al suo dovere di
crociato in XI. Tuttavia, in XII, Tancredi è destinato al duello contro Clorinda che, per uscire da Gerusalemme e incendiare le
macchine d’assedio crociate, ha indossato un’armatura “nera e ruginosa”. Complice la notte ha inizio il duello che, seppur inizi “cortesemente” con Tancredi che scende dal cavallo per non
aver vantaggio sulla nemica appiedata, si trasforma in uno scontro selvaggio, di cui Tasso riesce a cogliere alcuni
aspetti erotici (sembra infatti un amplesso: “tre volte il cavalier la donna stringe con le robuste braccia...”). Tancredi non riconosce la donna, che non risponde all’eroe che le chiede il nome, finché non la uccide con un
colpo nel petto: in punta di morte la donna chiede il battesimo, essendo venuta da poco a conoscenza delle sue
origini cristiane, e solo il dovere eroico-cristiano impedisce a Tancredi, che l’ha riconosciuta, di morire anche lui
dal dolore. E’ in XIX, nel duello contro Argante, che Tancredi torna a dare prova del suo valore militare 20 e proprio la morte
della donna ha come cambiato le motivazioni del conflitto, iniziato in VI: Argante vuole vendicare la compagna
d’armi, Tancredi vuole lavare l’ingiuria che gli ha fatto il nemico chiamandolo “de le donne uccisor”.
Sconfitto il nemico pagano, Tancredi è moribondo, in uno stato dipendente sia dal conflitto che dall’infermità
amorosa: è ora che la sua storia si intreccia di nuovo con quella di Erminia, che lo incontra mentre torna da Gaza
con Vafrino. Erminia crede Tancredi morto e ne riecheggia la bellezza funerea oltre a dichiarare di voler morire
con lui (come già avviene per Tancredi quando muore Clorinda), ed è qui che Tasso pone fine alla storia della
principessa che, con una nota dolce-amara ritorna nel mondo delle emozioni interiori dovute all’amore infelice,
legata all’uomo (“aprì le labra e con le luci schiuse, un suo sospir con que‘ di lei confuse”) ma anche da lui
distante (“e tu chi sei, medica mia pietosa?”). Tancredi ritorna per l’ultima volta nella battaglia campale (XX) con qualche tratto di infermità dovuto alla sua
affascinante modernità morale. L’amore è per i due fonte di desiderio di una morte vissuta come ricongiungimento, stato garante di estrema
felicità.
Gildippe ed Odoardo: Matrimonio Guerriero
Tasso introduce, oltre agli amori sopraelencati, una coppia di guerrieri inglesi sposati: Gildippe ed Odoardo.
E’ una novità senza precedenti sia nella letteratura classica, dove l’eroismo femminile esclude vincoli amorosi,
che in quella romanza, dove il vero amore esclude il matrimonio, ma è in perfetta armonia con il clima della
Controriforma. Il comportamento eroico degli sposi è infatti simbolo della paradossale “unità di due in una sola carne”, ovvero
del sacramento del matrimonio, promosso intensamente dalla Chiesa dopo il Concilio di Trento (“e spesso è l’un
ferito, e l’altro langue”). L’unità della coppia, definita “concorde” (XX) non si smentisce lungo tutto il poema e,
anzi, viene sigillata pateticamente dalla morte comune in battaglia (“e congiunte se ‘n van l’anime pie” XX, 100).
Olindo e Sofronia: Religione e Sacrificio
Altra coppia è quella di Olindo e Sofronia (II), protagonisti di un episodio eccentrico ma connesso alla trama da un
punto di vista simbolico. Preoccupato dell’avanzata cristiana, il re Aladino, su consiglio di Ismeno, fa sequestrare
un’immagine della Madonna, venerata dai cristiani di Gerusalemme, e la colloca in una Moschea, pensando così
di rendere la città inespugnabile. Di notte l’icona però scompare e il re, incapace di trovare un colpevole, minaccia
Le avventure notturne di Erminia offrono a Tasso la possibilità di utilizzare espressioni liriche di stampo petrarchesco (“l’innamorata
donna iva co’l cielo, le sue fiamme sfogando ad una ad una...”, VI).
19
si vedano prima il sogno in XII, il desiderio di morire per raggiungere Clorinda, il tentativo di rompere l’incanto della selva di Saron
fallito quando vede sgorgare sangue da un albero e sente la voce della donna.
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una crudele rappresaglia contro tutti i cristiani: si presenta così al cospetto del re la bella cristiana Sofronia, che
si accusa di averla rubata e bruciata. Il re condanna la donna a morire sul rogo, e quando ella sta per esser bruciata interviene l’innamorato Olindo,
che si accusa a sua volta del furto: entrambi sono condannati a bruciare, sullo stesso palo.
Quando il fuoco li sta già lambendo, interviene Clorinda che, convinta della loro innocenza, ottiene dal re la loro
grazia: Sofronia, commossa dal gesto di Olindo, ricambia il suo amore e lo sposa. Secondo *Guntert questa coppia ha un’unità “antitetica-ossimorica” in quanto i due obbediscono a due
moventi opposti: Sofronia agisce in nome del dovere cristiano, trascendente e insieme collettivo, mentre Olindo
si sacrifica per amore, quindi per un impulso individualistico e passionale. Questa antitesi, sottolineata dalla loro posizione sul rogo (faccia a faccia), si esprime nelle loro parole: la vergine
pensa alla ricompensa eterna del suo martirio e tiene lo sguardo fisso verso il Cielo, a cui sa di esser destinata;
mentre Olindo passa dalla disperazione di non poter consumare il suo amore alla morbosa euforia di essere
“consorte” della donna almeno sul rogo, augurandosi di poter esalare assieme a lei quello che più che l’ultimo
sospiro è uno spasimo supremo di piacere.
Benché l’episodio sembri slegato dalla trema, e sia stato criticato dai revisori romani tanto da indurre Tasso a
promettere di cassarlo (come avviene nella “Gerusalemme Conquistata”), è comunque importante per più motivi: - annuncia i grandi amanti infelici del poema: Tancredi ed Erminia, che come lui esprimono la loro passione
nell’immaginazione lirica o in morbose fantasticherie mortuarie;
- sintetizza la formula strutturale del poema, in cui fede e amore, sacro e profano, individuale e collettivo si
coniugano in un’unità paradossale e precaria.
5.4 “CIELO” E “INFERNO”, CRISTIANI E PAGANI D’accordo con i principi espressi nei “Discorsi dell’Arte Poetica”, Tasso inserisce il “meraviglioso” nel suo poema,
come indispensabile all’eroismo e subordinato con chiarezza ad un sistema di cause soprannaturali, articolate
secondo la visione cristiana in “Cielo” e “Inferno”. Tasso elimina l’ambiguità e confusione del meraviglioso dei poemi cavallereschi, conferendo a Cielo e Inferno un
ruolo narrativo (*Baldassarri): è infatti Dio che nel primo canto dà l’avvio alla vicenda, mentre il concilio infernale
dell’IV canto è all’origine della dispersione d’azione e di narrazione che caratterizza l’impresa.
La raffigurazione delle potenze celesti e infernali è di tipo classico e quindi antropomorfica.
Dio, raffigurato come una sorta di Giove (I), dispone degli arcangeli messaggeri Gabriele e Michele (IX), e può inoltre
scatenare la pioggia e sancire l’inizio dell’ordine (XIII).
Solo in un caso (IX), la descrizione del Cielo è, benché di pura volontà suggestiva, abbastanza legata alla teologia
cristiana: Tasso evoca infatti il mistero della Trinità, la paradossale eguaglianza dei beati e la soggezione a Dio
delle potenze terrene quali Natura, Fato, Fortuna, Moto, Tempo e Spazio. Plutone, il dio greco degli Inferi, rappresenta Satana, e al suo concilio si presentano molti mostri classici: Arpie,
Centauri, Sfingi, Gorgoni, Scille, Idre, Pitoni, Polifemi, Chimere, Gerioni e la Furia Aletto, distintasi nell’Eneide. Questo riuso infernale della mitologia classica è di gusto dantesco, ma ha in Tasso un significato diverso: in
quanto serve a iscrivere nella dimensione soprannaturale la distinzione tra uno e molteplice: all’unico Dio si
oppone una moltitudine di mostruose creature infernali. Tasso crea così una continuità e una confusione ideologica tra l’idolatria antica e la religione musulmana: i
nemici dei crociati sono pagani, designazione negativa, che accomuna tutti gli avversari (antichi e moderni) della
fede cristiana. Del monoteismo musulmano il poema non dice nulla, limitandosi a citare qualche volta il culto per
Macone (Maometto). E’ in questo modo che Tasso si conforma all’ideologia cinquecentesca della crociata come
guerra agli Infedeli, guerra del Cielo contro l’Inferno, del Bene contro il Male. Tuttavia anche gli dei soprannaturali, in particolare quelli infernali, hanno una loro ambiguità:
Plutone, descritto in maniera orrida e con mostruosi attributi, viene dotato di una sua “orrida maestà”, e il suo
discorso (IV) durante il concilio impressiona per solennità di tono e sapienza retorica. Plutone ricostruisce così, da un punto di vista straniante e nuovo, l’intera storia che lo oppone a Dio: dopo aver
fallito il tentativo di rivolta, lui e gli altri angeli ribelli sono stati esiliati in un abisso oscuro, e alla morte di Cristo
hanno subito l’affronto dell’incursione vittoriosa del figlio di Dio, venuto a rapire le anime più nobili. Ora poi, l’esercito crociato, minaccia di conquistare “Asia” e “Giudea”, possedimenti legittimi dell’Inferno, e di
privarlo del “solito tributo” di anime, convertendo gli infedeli al cristianesimo: bisogna perciò reagire.
Plutone, pertanto, non parla come l’incarnazione del male assoluto, ma come un nobile sovrano sconfitto,
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proponendo una lettura “politica” del conflitto Inferno-Cielo. Come scrive *Zatti: “la separazione di bene e male, virtù e peccato, non è di ordine morale, ma è dipesa soltanto
dagli esiti di una guerra, e si è attuata come legge imposta dal vincitore al vinto”.
Un Inferno Ambiguo
La polarità Inferno-Cielo, pertanto, è un puro scontro tra forze opposte e non vuole orientare moralmente il
conflitto militare o il lettore. Chi legge, infatti, osserva che la contrapposizione cristiani-musulmani non è
sempre così netta 21: ad esempio Clorinda non si distingue solo per le sue qualità militari, ma anche per la sua
magnanimità e per il suo senso di giustizia (salva Olindo e Sofronia dal rogo). E la sua integrità morale la si nota
quando l’eunuco Arsete le comunica le sue origini cristiane: la ragazza rifiuta, fino a prima della morte, la
conversione perché ritiene la religione un elemento contingente l’educazione e un segno d’appartenenza
politica.
Le conversioni nel testo, d’altronde, sono molte: Ismeno era un mago cristiano, Rambaldo diviene musulmano
per amore di Armida, il mago d’Ascalona era pagano, il principe armeno Clemente diviene il musulmano Emireno. Queste conversioni si rispecchiano ambiguamente: il “chiasmo” che unisce i due maghi è, ad esempio, indizio di
come la magia resti un territorio di frontiera, con incroci e sconfinamenti. Inoltre, il fascino involontario di Sofronia (II, 18) è legato alla studiata ritrosia della seduttrice Armida (IV, 29-33), e
sia Tancredi che Argante hanno un forte legame passionale per Clorinda
Al di là di questo, si nota, però, soprattutto nelle scene di battaglia, la negativa solidarietà tra forze musulmane
e forze infernali: ad esempio (IX 15), la sera prima dell’attacco notturno di Solimano, il calare delle tenebre si
confonde con il sordo scaturire dei demoni degli abissi infernali, accompagnato da presagi sinistri. Nel pieno della battaglia, poi, si nota che la collaborazione diabolica diviene pratica, militare (IX, 53).
La situazione ritorna poi favorevole ai cristiani quando l’arcangelo Michele interviene (IX 62) e i diavoli vengono
cacciati. Alcuni personaggi musulmani, inoltre, sembrano identificarsi con le creature mostruose infernali: Argante, in II
91, ha metaforicamente gli occhi infiammati, e in VI 33 prende le sembianze di una Furia, la cui vista paralizza il
nemico. Solimano, in IX 25, ha invece un elmo adorno di un serpente che sembra conferire anche a lui l’aspetto di una
Furia anguicrinita.
Tuttavia la fisionomia dei musulmani non è solo demoniaca ma anche grande e nobile: Solimano, come Plutone,
è un sovrano che è stato spodestato dai cristiani del regno di Turchia ed è stato costretto all’esilio in Egitto. Egli,
pertanto, non agisce per difendere la religione musulmana o per odio del cristianesimo, ma vuole vendicare la
sua sconfitta e non desidera nemmeno recuperare il suo regno, ma è spinto da un eroico spirito di resistenza
che si prolunga anche dopo la morte (IX 99). E’ quindi, in chiave positiva, un saggio stoico che si oppone all’ostilità della Fortuna, ed è anche spinto da moti
passionali, come l’amore per il paggio Lesbino, la cui uccisione in battaglia susciterà il suo pianto e una vendetta
ancor più efferata.
Solimano è inoltre colui che ci mostra l’insensata violenza di un conflitto in cui sembra esprimersi la sostanza
tragica della vita stessa: in XX 73, prima di morire, sale sulla torre di David e osserva lo scontro dall’atto.
Attraverso questo personaggio Tasso rinuncia all’ideologia epico-cristiana, secondo cui la guerra sarebbe lo
strumento legittimo del piano provvidenziale, ritenendola un’assurda carneficina comandata dai “gran giochi del
caso e de la sorte”.
Nonostante inganno, vigliaccheria e crudeltà siano caratteristiche più diffuse tra i musulmani, e nonostante
l’accampamento del Califfo sia caratterizzato da mollezza e lusso barbarico, alcuni guerrieri orientali, quelli più
valorosi, incarnano perfettamente i valori occidentali: Solimano è quindi simbolo di orgoglio aristocratico,
eroismo individuale, etica di vendetta e costanza stoica. Ma è anche il simbolo della resistenza al nuovo ordine
etico-politico della Controriforma: contesta la logica stessa del conflitto religioso.
La sostanza tragica della vita stessa è presente più volte nel poema: negli scherzi atroci del destino (Tancredi e
Clorinda), nell’assurdità patetica delle morti giovanili, nella caducità di ogni cosa come il dominio crociato su
Gerusalemme in X 23, e, come già detto, nell’orrore irredimibile di una guerra in cui vince solo la Morte (“vincitrice
la Morte errar per tutto”, IX 93). 21
Clorinda, secondo *Quint, impedisce la distinzione netta tra Bene e Male, tra Amico e Nemico.
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Il fascino dei grandi nemici, come Plutone e Solimano, supera la pietas per gli sconfitti tipica dell’ “Eneide”: il
lettore non compatisce l’umanità afflitta dei nemici, ma riesce ad aderire ai valori che essi incarnano22. L’alterità
demoniaca rappresenta la parte più segreta e inconfessabile dell’io. Un esempio di “identificazione trasgressiva” è l’episodio magico della selva di Saron: con il suo incantesimo,
Ismeno impedisce a Goffredo di ricavare dalla legna le macchine da guerra, quindi di piegare la materia informe e
germogliante alla razionalità del progetto epico (*Raimondi). L’incantesimo attira nella selva numerosi spiriti,
attivando la materia ad assumere le forme più diverse (“selvaggio orrore”, locus amoenus, città infernale...) e
producendo suoni vari, cupi e struggenti. Nessun cristiano resiste alla fantasmagoria della selva che rimane
inviolata, simbolo di una resistenza oscura al progetto epico. La resistenza è interna: l’efficacia dell’incantesimo diabolico dipende dal suo carattere soggettivo, ovvero dalla
sua capacità di dar corpo alle paure e ai rimorsi segreti dei diversi personaggi: i taglialegna hanno una paura
immotivata che ricorda quella infantile per il buio e per i mostri (“imaginando pur mostri e portenti”, XIII 18); Alcasto
vede le fiamme della città infernale di Dite e fugge “prima di aver temuto” (XIII 24-29); Tancredi si sente in colpa
per la morte di Clorinda e non resiste quando sente la voce della donna fuoriuscire da un cipresso: il suo rimorso
supera il coraggio. In XVIII, Rinaldo sconfigge l’incantesimo replicando di fronte al fantasma di Armida la stessa fermezza che aveva
dimostrato prima (XVI) con l’abbandono di Armida sull’isola. La selva ritorna al suo stato naturale e l’eroe esclama “Oh vane sembianze! e folle chi per voi rimane!” (XVIII 38)
sottolineando il suo stupore sul come semplici apparenze abbiano potuto aver turbato i compagni: in effetti la
magia infernale nell’opera non vuole creare pericoli concreti, quanto produrre immagini inconsistenti e
allucinatorie che condizionino potentemente le azioni dei personaggi. Tasso è riuscito a tradurre in immagini memorabili, spesso in veri e propri miti moderni, i fantasmi interiori che
rendono perplesso e contraddittorio l’agire umano, riprendendo la tematica catartica della tragedia greca.
5.5 LO STILE “MAGNIFICO” DEL RACCONTO
Lo stile del poema eroico deve incoraggiare l’adesione emotiva del lettore all’inganno benefico della poesia. Per
fare questo bisogna far dimenticare il carattere fittizio della poesia, colpendo potentemente sensi e passioni del
lettore e attrarlo in maniera ipnotica nel suo universo illusorio23.
Gli Ingredienti
Il Poeta Passionato
Gli interventi sono molto limitati e mai all’inizio del canto (come nella poesia cavalleresca). Il lettore non viene
quindi introdotto per gradi nell’universo narrativo ma è gettato subito in medias res.
La voce del narratore non è quella di una figura artefice e dominatrice della storia, ma quella di un poeta
“passionato” (*Raimondi) perché soccombe lui stesso all’inganno patetico della poesia. Egli ha quindi momenti di esaltazione, segno, pietà e stupore: ha una voce epico-cristiana e infatti spesso
sottolinea l’empietà dei nemici, l’eroismo dei campioni cristiani e l’orrore delle macchinazioni infernali. Benché abbia un ruolo epico egli condivide gli abbagli personali dei personaggi erranti (Rinaldo, Tancredi e
Erminia) e ha una certa simpatia per i nemici (Armida, Solimano) in cui, come detto prima, a volte confonde la
sua voce. E‘ una figura proteiforme che rafforza l’efficacia emotiva del racconto permettendo nel lettore identificazioni
multiple e contraddittorie. Egli esalta i molteplici punti di vista. Energia 24
E’ la qualità “sensibile” della poesia, capace di creare con le parole immagini vivide e coinvolgenti che si
manifestano di fronte agli occhi del lettore. Questo è permesso tramite le descrizioni vere e proprie e
l’attenzione costante ai dettagli visivi e uditivi, ai contrasti di luce e di colore, alle qualità dei luoghi, dei tempi
e dei climi. Si ricordano in particolare le evocazioni della notte, dell’alba, dell’aridità desertica, della pioggia, delle distese
marine, del suono delle trombe, dello sfavillare delle armature, del cozzo delle armi in battaglia.
*Zatti scrive: “l’opera è probabilmente il primo esempio manifesto nella letteratura italiana di un’identificazione consapevole, ma
rifiutata a livello di ideologia, con le forze del male”.
22
23
Ariosto, invece, tratta con distanza e ironia il mondo dei “cavalieri antiqui”.
24
da enargeia (chiarezza) ed energeia (efficacia).
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Non sono però descrizioni troppo minuziosi e oggettive (vd. Omero, Trissino) quanto evocazioni scorciate ed
ellittiche, rappresentazioni non di paesaggi ma di atmosfere.
Come avviene nella descrizione dell’alba nell’episodio della penitenza di Rinaldo, spesso le immagini sono
mediate dal punto di vista dei personaggi e risultano oblique, interne, mobili, sospese tra realtà e fantasia
(XVIII 12). Cosa simile avviene in XVI 17 quando Carlo e Ubaldo spiano, gradualmente “tra fronde e fronde”
RInaldo e Armida nel giardino. In IV 31-32 i soldati invece si spingono con il pensiero tra le pieghe della veste
di Armida, per contemplare cose a cui lo sguardo non può arrivare.
Spesso le immagini sono chiaro-oscurate, come ad esempio nella descrizione dell’elmo di Solimano (IX 25) in
cui non si capisce se la serpe che lo decora sputi davvero fuoco (IX 25). Analogamente l’apparizione dell’angelo minaccioso che avrebbe aiutato Goffredo a reprimere la sommossa di
Argillano è attribuita ad una “fama leggendaria” (VIII 84). Lessico “Peregrino”
Non sono presenti tratti comici, volgari, umili e quotidiani tipici della tradizione cavalleresca.
La lingua è elevata, solenne, conforme alla nobiltà della materia eroica. E’ anche straniante e “straniera” in
quanto attrae il lettore in un mondo diverso, in cui si evita tutto ciò che è proprio e naturale, preferendo la
singolarità dei termini (il “peregrino”), con arcaismi, latinismi, parole nuove o di origine straniera. Parlar Disgiunto
Il poeta sovverte spesso l’ordine sintattico delle frasi con iperbati, anastrofi, legami ad sensum di carattere
emotivo-obliquo invece che logico-sintattici. Tasso lo chiama “parlar disgiunto”, in quanto procede “per l’unione dependenza dei sensi, che per copula o
altra congiunzione di parole”. Questa tecnica, tipica di Virgilio e Della Casa, contribuisce, con il lessico
“peregrino” e le inversioni sintattiche, a creare intoppi alla lettura, grumi di oscurità, sospensioni del senso:
Tasso vuole evitare la limpidezza e la fluidità che caratterizzano la precedente poesia in ottave perché gli
sembrano incompatibili con la “gravità” del poema eroico. Ritmo e Metrica Ricorre spesso allo iato tra parole contigue, all’enjambement (Della Casa) e alla sfasatura tra unità sintattica e
unità metrica del discorso che creano, secondo *Fubini, “pause irrazionali di intenso valore espressivo e
patetico”. Critiche alla Lingua
L’Accademia della Crusca attaccò il poema nel 1584-1585 soprattutto nella lingua, definita impropria rispetto
al sistema tosco-fiorentino e insofferente alla naturalità linguistica (*Vitale). Più in generale i cruscanti reagirono negativamente proprio alla nuova lingua letteraria, impostata in modo
eclettico su un’ampia base italiana e che diventerà preso un modello per tutti gli scrittori. Galileo Galilei, nel 1590, scrisse “Considerazioni al Tasso”, note di lettura acute e umorali in cui mostra la sua
preferenza per Ariosto denunciando spesso, con una verve comica irresistibile, la goffaggine e l’assurdità
della “Gerusalemme Liberata”. Scrive però che la poesia di Tasso ricorda “una pittura intarsiata” piuttosto
che una “dipinta ad olio”, sottolineando metaforicamente la discontinuità e l’accidentatezza del poema
rispetto all’armonia di Ariosto. Questa metafora è vera anche per quanto riguarda le fonti letterarie e la gestione
dei registri stilistici.
Imitazione dei Modelli
Il gruppo di autori citati da Tasso, antichi e moderni, è molto eterogeneo e le loro riprese sono espresse
esplicitamente e non in maniera dissimulata. Registri Stilistici
Non si ha un passaggio fluido tra i registri, né di fusione né graduale, ma un netto trapasso, un contrasto
frontale, motivato dall’opposizione etica tra la “severità epica” e la “mollezza lirica”. Tasso accoglie anche il registro lirico, su modello petrarchesco,25 limitandolo ad alcune zone narrative o a
certi ambiti tematici, come quelli dell’ “errore” amoroso o del “languore” malinconico. 25
non come in Ariosto per elevare uniformemente lo stile narrativo del poema conferendo ordine ed equilibrio alla struttura dell’ottava.
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Testura Retorica
Tasso, nelle ottave, combina simmetria e asimmetria, inserendo parallelismi, antitesi, chiasmi, sfasature
frequenti, scarti improvvisi di registro e ritmo narrativo. Queste figure non vogliono mettere ordine quanto
orchestrare la tensione drammatica tra forze o punti di vista opposti, una tensione che cresce in climax,
esplodendo nel distico finale dell’ottava con soventi forme esclamative, iperboliche, paradossali.
L’ottava, che in Ariosto era perfettamente bilanciata sul modello petrarchesco, è ora il luogo di un equilibrio
precario, di un’unità tesa e dinamica: anche a livello metrico e retorico si manifesta il carattere conflittualeossimorico in cui risiede la forza profonda dell’opera intera. RIASSUNTO A CURA DI ALESSANDRO IANNELLA
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VI. LE OPERE TARDE
6.1 GLI ULTIMI ANNI
Sono due gli eventi traumatici che segnano Tasso: la reclusione a Sant’Anna (1579-86) e l’abbandono definitivo
della corte di Ferrara alla ricerca continua di nuovi protettori (1586-95).
Le ragioni della carcerazione, voluta dal duca, furono varie (diplomatiche, personali e religiose) ma nei suoi scritti
Tasso la vede come una punizione dei suoi eccessi di libertà intellettuale. I sette anni di prigionia incisero sulla salute del poeta e sul suo morale ma soprattutto sulla sua concezione
dell’impegno letterario: Tasso diviene molto più sensibile ai meccanismi del controllo e della censura, e tende ad
interiorizzarli nevroticamente.
Questa tendenza si vede nella revisione di molte opere e negli auto-commenti (“Apologia della Liberata”,
“Esposizioni delle Rime”, “Giudicio sulla Conquistata”), e si avverte nella scrittura, più circospetta e che tende ad
anticipare le critiche corredandosi di dimostrazioni e giustificazioni puntigliose. Per Tasso ora la letteratura deve dialogare direttamente con la verità della storia, della filosofia e della teologia
(egli legge moltissimo i testi antichi), e non può più elaborare una sua verità autonoma (vero poetico) attraverso il
“verosimile”. Tasso aspira ad incarnare la figura ideale del poeta filosofo-teologo, che coniuga poesia e conoscenza alla
ricerca di una fortissima autonomia intellettuale.
Questo cambiamento è dovuto anche all’esclusione dell’autore dall’universo della corte e dalla società, e infatti
si esplica nella tipologia di opere che l’autore scrive, per lo più scritti di corrispondenza o dialogici. Per fare ciò si ispira ai modelli dell’antichità: i “Dialoghi” imitano Platone, la tragedia “Re Torrismondo” è un
nuovo “Edipo Re”, la poesia encomiastica rivaleggia con Pindaro, e la “Gerusalemme Conquistata” riscrive
Omero.
Questo percorso a ritroso culmina con “Il Mondo Creato” (opera che si confronta con il testo più antico e sacro, i
primi versetti della “Genesi”, dove si confondono e rispecchiano l’origine della scrittura e quella del mondo) che
vuole annullare l’evoluzione dei costumi e delle mode letterarie, ignorando quel complesso di opinioni,
convenzioni, attese del pubblico con cui Tasso si era confrontato nella prima parte della carriera. Seppur lontano dal pubblico della corte e alla ricerca di autonomia, Tasso non esclude una persistente dipendenza,
materiale e simbolica, dal mondo della corte: gli ultimi dieci anni della vita di Tasso sono infatti segnati dalla sua
continua e vana ricerca di nuovi protettori e dall’esplosione della scrittura encomiastica. Il suo sogno di essere un gentiluomo-letterato libero da dipendenze materiali si poteva realizzare a Napoli, dove
tornò più volte (1588, 1592 e 1594) sperando, invano, di recuperare l’eredità materna. Sarà la Chiesa Cattolica a offrigli l’ultimo “porto”: Tasso conosce da vicino non solo le bellezze di una Roma
riportata agli antichi fasti (vd. allegorie nella “Gerusalemme Conquistata”, e descrizioni nel dialogo “Il Conte”), ma,
inoltre, frequenta nel 1592 la corte romana di Cinzio Passeri, nipote di papa Clemente VIII, che accoglie
intellettuali come Patrizi e Guarini, che influenzano “neoplatonicamente” gli ultimi scritti di Tasso, con elementi
esoterici. I Conventi: la Poesia Sacra
Ad affascinare Tasso da un punto di visto spirituale saranno i conventi, come quello di Monte Oliveto e quello di
Sant’Onofrio al Gianicolo, dove il poeta morirà nel 1595. A questa spiritualità monastica dedica due poemetti incompiuti, “Monte Oliveto” e un abbozzo di “Vita di San
Benedetto”, e sono presenti anche altri testi religiosi (“Lagrime di Maria e di Gesù”, 1593) e le numerose rime
sacre volte a trovare una pace eterna al di là dei vincoli terreni. L’aspetto più notevole di questa poesia sacra non è l’abbandono ascetico, quanto la presenza di un rimorso che
nessun pentimento può cancellare, ovvero l’impossibilità di essere innocenti.
6.2 I DIALOGHI
Sono 25 e appartengono a diversi periodi.
1578: “Forno overo de la nobilità”
1579-86 (Reclusione a S.Anna): 18 dialoghi, sottoposti a continue revisioni
1587-1595: 7 dialoghi
Il progetto è un’attività di tipo occasionale, dovuta a stimoli contingenti come richieste-letture-incontri, e non ha
pertanto un’architettura organica (si possono individuare pochi raggruppamenti). Il destino editoriale è segnato
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dall’occasionalità: i dialoghi vengono inizialmente stampati individualmente, senza consenso e controllo dell’autore,
poi vengono racchiusi da Tasso in un progetto mai realizzato di un’edizione definitiva, “Prose”, che avrebbe
compreso anche “Lettere” e “Discorsi”. A livello filologico, a causa dell’assillo formale del poeta che ha portato a diverse stesure in particolar modo per
ragioni religiose e politiche, sono state utilizzate due soluzioni editoriali:
- *Raimondi: privilegia le testimonianze degli autografi, ordinando i testi secondo l’incerta cronologia di
composizione e per rendere conto della vicenda redazionale stampa anche le edizioni precedenti alle definitive;
- *Ossola e *Prandi: si basano non sui manoscritti quanto sulle prime stampe messe in circolazione (in particolare
l’edizione veneziana “Deuchino”, 1612). Motivazioni di Scrittura
Sono importanti a livello biografico in quanto caratterizzanti soprattutto del periodo della reclusione: hanno
permesso al poeta di trovare un sostituto alla consuetudine dialogica degli scambi mondani e intellettuali a cui
l’autore era abituato. Gli interlocutori sono infatti personaggi reali, per lo più del mondo cortigiano che
frequentava Tasso: si tratta di una corte alternativa. La vena autobiografica è più volte presente: nel viaggio in Piemonte in “Padre di Famiglia” (1580),
nell’apparizione di un essere soprannaturale in “Messaggiero” (1580), nel primo arrivo a Ferrara e nel desiderio di
unirsi a corte in “Gianluca overo delle maschere” (1585).
Al centro di questo universo fittizio si ha infatti un personaggio autobiografico, il “Forestiero
Napoletano” (ispirato allo “straniero ateniese” di Platone in “Le Leggi”),
Al di là di questi elementi narrativi, l’operazione autobiografica è finalizzata alla costruzione di un’immagine
ideale dell’autore, a una “strategia di costruzione della propria identità destinata a uno sguardo, esterno quanto
interno, che osserva e giudica” (*Rossi). Il dialogo è quindi strumento di apologia per Tasso, che vuole dimostrare la propria dignità intellettuale e il
proprio rispetto per le verità ufficiali, rifiutando le accuse di follia ed eterodossia. L’immagine che si viene a creare, secondo *Raimondi, è quella del poeta-filosofo malinconico, sradicato,
“straniero” ma impegnato in un’ardua avventura conoscitiva nei vari campi del sapere.
I titoli, che rispecchiano questa volontà, mettono in luce i temi classici della riflessione filosofica (piacere,
amore, arte, bellezza, virtù) e gli argomenti etico-politici legati al contesto cortigiano contemporaneo (epitaffio,
gioco, maschere, conclusioni amorose, idoli, imprese).
Classificazione Tassiana
Nel testo teorico “Discorso dell’Arte del Dialogo” (1585), Tasso divide i dialoghi in:
- Dialoghi Civili, che elaborano un sapere pratico. Ad esempio “Il padre di famiglia” contiene precetti relativi al
governo della casa e della famiglia;
- Dialoghi Speculativi, che hanno un‘ambizione teoretica. “Il Minturno overo della bellezza” (1593) ha come
obiettivo l’individuazione di una definizione della bellezza. Questa divisione è però per lo più inutile in quanto spesso, anche se il tema è etico-politico, il dialogo ha uno
scopo speculativo: Tasso, infatti, non vuole elaborare modelli comportamentali quanto costruire percorsi di
conoscenza.
I Modelli
Tasso conosce bene le caratteristiche “polifoniche” (teatralità, relativismo e sfumatura) degli autori
cinquecenteschi di dialoghi, come Speroni e Castiglione, ma ambisce a restaurare il potenziale conoscitivodialettico del dialogo, non quello retorico. Imita pertanto Platone, di cui riprende la tecnica maieutica attribuendo le domande ai personaggi che “sanno” e
le risposte a quelli che “non sanno” (*Prandi), sottolineando come la conoscenza sia il risultato di un serrato
confronto dialettico, non un patrimonio già dato.
*Baldassarri, *Basile e *Russo hanno sottolineato come questi dialoghi siano stati influenzati dalle numerose
letture di Tasso durante la prigionia: testi antichi (Platone, Aristotele, Plotino, Plutarco, Ateneo, Agostino) e di
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dibattito contemporaneo (Castelvetro, Patrizi, Mazzoni, Scaligero). Questo avviene però soprattutto a livello ornamentale.
Valore Filosofico
I dialoghi di Tasso non hanno un autentico valore filosofico perché:
- nella prosa tassiana la dialettica non è una tecnica rigorosa quanto “uno stile, un ritmo, un pretesto per
intrecciare voci e architetture verbali” (*Bozzola);
- le indagini conoscitive non hanno per oggetto la verità, che è per l’autore la rivelazione cristiana, in quanto
sono confinate nell’ambito dell’opinione (*Baldassarri), che si presenta come una massa enorme ed eterogenea
di idee, teorie ed esempi che Tasso eredita dalla sapienza antica.
Scrittura-Oralità
Per Tasso il dialogo riesce a fissare attraverso la scrittura26 le idee che l’oralità condanna alla dispersione, al
disordine e alla manipolazione sofistica (“Il Cataneo overo de le conclusioni amorose”).
Il Teatro Mentale
Sfruttando l’etopea, cioé la rappresentazione efficace di un carattere, Tasso inscena l’incessante conflitto di
idee che minaccia l’integrità dell’io, e che lo spingono talvolta (in “Malpiglio secondo overo del fuggir la
moltitudine”, 1585) ad abbracciare lo “scetticismo cristiano” promosso da Michel de Montaigne. Osserva così la molteplicità contraddittoria delle opinioni umane, che ha il suo esatto opposto nella “Pace
Metafisica”, a cui la conclusione del “Rangone” eleva un inno filosofico, ovvero una “perfetta congiunzione in cui
l’unione si congiunge con la divisione”. Immagini di molteplicità armoniosa vengono colte anche nei luoghi del mondo terreno: nella cucina
dell’ospedale di Beaune (“Il padre di famiglia”), nella biblioteca di Malpiglio (“Il Malpiglio secondo...”),
nell’arsenale di Venezia (“Il Ficino overo de l’arte”). Il conflitto tra uno e molteplice, tra ordine e caos, è indagato con gli strumenti concettuali del neoplatonismo,
e come nella “Gerusalemme” va a caratterizzare i “Dialoghi” con malinconia ed erudizione.
6.3 RE TORRISMONDO (1587)
Iniziata nei primi anni ’70 e pubblicata, senza autorizzazione, nel 1582 come “Tragedia non finita”, il “Re
Torrismondo“ viene rielaborato e sviluppato in 5 atti, pubblicati nel 1587 a Bergamo con una dedica al nuovo
protettore di Tasso, Vincenzo Gonzaga, che lo aveva liberato da S. Anna. Tipologia di Tragedia
Sin dalla “Sofonisba” di Trissino (1524) la tragedia in lingua volgare tiene conto sia della “Poetica” aristotelica,
sia dei modelli greco-latini quali Sofocle e Seneca. Nell’ambiente ferrarese sono due i principali modelli: l’
“Orbecche” di Cinzio (1543) e la “Canace” di Speroni (1546). Tasso non dedica al genere tragico una riflessione specifica, tranne che qualche osservazione nei “Discorsi”:
tuttavia il suo stile tragico manifesta sia una notevole consapevolezza teorica, sia una grande originalità:
- a livello formale si adottano le convenzioni tipiche della tragedia cinquecentesca: cinque atti intervallati da
cori, con dialoghi in endecasillabi sciolti e parti corali in metri lirici (”Sofonisba”, “Orbecche”). Lo stile è
sostenuto e grave, non eccessivo ma semplice (anche lirico-amoroso, vd. “Canace”) per rispettare il carattere
orale. Come da modello la storia tragica è ambientata in un contesto sociale elevato. - l’argomento è nuovo in quanto viene messo in scena un racconto di fantasia ambientato in un luogo esotico:
alla corte di Torrismondo, re dei Goti, in Scandinavia, in un passato medievale imprecisato.27
La scelta è dovuta alla possibilità di avere un’ampia libertà di invenzione, impossibile se la storia fosse familiare al
26
si capovolge l’opinione di Platone espressa nel Fedro.
fungono da modelli storici: “Historia gentium septentrionalium” del vescovo di Uppsala Olao Magno (1490) e “Gothorum
Suenonumque Historia” del fratello Giovanni (1488).
27
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pubblico, e al vantaggio di poter accrescere “meraviglia” e “peregrino” con la rappresentazione di strane usanze.
Inoltre il paesaggio nordico, ostile e aspro, tempestoso e ghiacciato, riflette l’interiorità dei personaggi.
Dall’ “Historia” di Giovanni Magno Tasso ricava le linee generali dell’antefatto: il re di Svezia Germondo ama
segretamente la principessa norvegese Alvida, ma non può chiederla in moglie a causa dell’odio tra le due famiglie.
Organizza allora un inganno assieme all’amico Torrismondo, che gli promette di chiedere la mano di Alvida per poi
darla a lui in sposa. Qui entra in gioco un elemento di novità rispetto all’ “Historia”, ispirato forse alle vicende di
Tristano e Isotta: Torrismondo e Alvida, costretti da una tempesta a rifugiarsi in una grotta, soccombono alla
passione. Ha inizio ora la storia: alla reggia di Gozia, Alvida, ignara del patto tra i due, è stupita della freddezza di
Torrismondo, dilaniato dal senso di colpa e incapace a trovare una soluzione al conflitto tra amicizia e amore (I).
Viene però individuata una soluzione: le nozze tra Germondo e la sorella di Torrismondo, Rosmonda, destinata alla
vita monacale ma ben presto convinta dalla madre (II). Quando arriva Germondo, Torrismondo tenta invano di
confessargli il proprio amore per Alvida e di convincerlo a sposare Rosmonda. Ma la sorella, che non si rassegna
alle nozze, accenna ad una remota vicenda che mette in dubbio la sua identità (III). Arriva così la peripezia, da cui scaturisce l’esito tragico (catastrofe) della vicenda: Rosmonda rivela infatti di
essere stata adottata e dà avvio ad un’inchiesta che - con l’aiuto di un indovino, del servo Frontone e di un
messaggero - approda alla rivelazione che la vera sorella di Torrismondo è Alvida. Quest’agnizione provoca un forte spostamento negli equilibri del dramma: dalla polemica amicizia-amore si
passa a quella dell’incesto, che non può ammettere soluzioni in quanto già consumato.
Alvida e Torrismondo si suicidano insieme e, prima di morire, il re affida a Germondo il proprio regno, Rosmonda e
la madre.
Il Rapporto con i Modelli
La svolta tematica corrisponde ad un cambiamento dei modelli e delle fonti: Tasso passa repentinamente
dall’“Historia” all’ “Edipo Re” di Sofocle (il titolo “Re Torrismondo” non è un caso), benché il finale sia diverso
(Giocasta si suicida ed Edipo si cava gli occhi), con elementi sempre relativi all’opera di Speroni, la “Canace”. Tale combinazione di fonti è parsa ai critici come:
- una stravaganza manieristica; - un artificio per sbloccare la situazione drammatica senza via d’uscita;
- un desiderio dell’autore di misurarsi con l’opera tragica per eccellenza secondo Aristotele, l’ “Edipo
Re” (incesto).
La tragedia è tuttavia piuttosto coerente in quanto l’agnizione è uno sbocco naturale della tensione accumulata
a causa dei diversi segreti celati dai personaggi. La tematica dell’incesto è motivo di confronto anche con la “Canace” di Speroni, incentrata su questo tema, in
cui esso però è volontario e scellerato da parte dei fratelli Canace e Macareo: proprio questo elemento
(l’ignoranza di Torrismondo e Alvida) garantisce nel “Re Torrismondo” l’identificazione catartica dello
spettatore. Al contrario, come in Speroni e diversamente da Sofocle la vicenda di Torrismondo e Alvida è passionale
dall’inizio alla fine: all’inizio la colpa sembra essere limitata all’adulterio (si veda Dante: Paolo e Francesca), ma
entrambi i personaggi sono già oppressi da cupi presagi e dal sentimento di una “colpa latente” più grave. D’altra parte, la rivelazione dell’incesto non cambia i loro rapporti e non è il vero motivo del suicidio: Alvida si
uccide perché si sente tradita da Torrismondo che, invece, si uccide per seguire la donna amata. La loro è pertanto una morte d’amore (simile a quella di Tristano e Isotta e a quelle sognate da Olindo con
Sofronia e da Erminia con Tancredi), e i sentimenti di Torrismondo (pietà e orrore), espressi nelle ultime parole,
sono proprio quelli che per Aristotele permettono la catarsi: il nucleo tragico risiede insomma nella fatale
impossibilità della felicità amorosa.
Come sottolinea *Zatti, “la rivelazione dell’incesto non toglie la centralità del conflitto amore-amicizia, quanto
piuttosto ne accentua il carattere di surdeterminazione tragica”. L’emergere del secondo nodo tragico mostra che il conflitto di cui è prigioniero Torrismondo non è solo dovuto
ad una debolezza umana, ma è sovradeterminato da una colpa metafisica, nel quale il desiderio non può avverarsi
ed è destinato ad esiti funesti. Torrismondo è, secondo *Martignone, il re dello “scacco”, dell‘ “inazione
disperata”. “Amore e Onore” nel Corpus di Tasso
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*Chiodo afferma che la forma tragica permette a Tasso di esprimere in quest’opera gli esiti estremi di un
conflitto che percorre tutto il suo corpus: quello tra “amore” e “onore”. Nell’ “Aminta” questo conflitto ispira la nostalgia per una perduta felicità sensuale, e spinge più volte l’azione
sull’orlo della tragedia, finché la pietà non rende possibile il lieto fine.
Nella “Gerusalemme Liberata” questo conflitto condanna Erminia all’erranza e mina gravemente il valore
eroico di Tancredi, che si ostina a cercare un’alleanza tra amore e onore: tale impossibilità è sancita dall’esito
tragico del suo amore per Clorinda. Anche Tancredi, infatti, si sarebbe suicidato se la salvezza e la felicità eterna
non lo avessero richiamato tra le fila dell’esercito, salvezza impossibile nel Torrismondo in cui agisce solo il
destino di Morte (come si nota nell’ultimo coro: “Ahi lacrime, ahi dolore...”, in cui il conflitto amore-amicizia è
ormai irrilevante di fronte al naufragio di ogni valore e ogni speranza).
6.4 LA GERUSALEMME CONQUISTATA (1594) Dal 1588 al 1593 Tasso revisiona la “Gerusalemme Liberata”, finché non verrà pubblicata nel 1594 a Roma con
l’approvazione esplicita dell’autore, una dedica a Cinzio Passeri Aldobrandini e il nuovo titolo.
Inoltre vengono scritte due opere teoretiche: i “Discorsi del poema eroico” (rifacimento dei “Discorsi dell’arte
poetica”, ripresi e arricchiti di excursus) pubblicati nel 1594, e il “Giudicio sovra la Gerusalemme da lui medesimo
riformata”, opera incompiuta che esplicita i fondamenti del poema e ne commenta molti passi. Revisione rispetto alla Gerusalemme Liberata
- vengono resi effettivi i tagli maturati durante la revisione del 1575-76 ma che erano stati ignorati dalle stampe
illegittime della “Gerusalemme Liberata”: scompaiono gli episodi troppo romanzeschi o incompatibili con l’unità
del poema, come quello di Olindo e Sofronia, il viaggio alle Isole Fortunate, la riconciliazione tra Rinaldo e Armida,
il soggiorno di Erminia dai pastori;
- l’opera è più lunga (24 canti) in quanto vengono dilatati, sopratutto sul piano formale, molti episodi con
l’espansione di discorsi e descrizioni. Tasso infatti paragona il rifacimento all’attività di un poeta che “colorisce i
suoi disegni”: la vecchia opera è un abbozzo che va trasformato e arricchito in ogni dettaglio. Si nota il gusto per la magnificenza delle immagini, soprattutto nella descrizione di cerimonie, processioni,
trionfi, edifici solenni e fastosi, corredo di un’autorità ormai regale attribuita a Goffredo;
- Rapporto con le Fonti Storiche
Diviene più stretto in nome di un’ideale di “verità”: Tasso elimina infatti gli episodi inventati per aggiungerne di
storici (es. la descrizione di un padiglione istoriato in III che permette di ricostruire gli antefatti della guerre), e
inserisce notizie erudite che precisano l’ambientazione storica. Il paesaggio, pertanto, cambia: non è più vago
e vario quanto un’enorme carta geografica ricca di nomi, monumenti e memorie storiche;
- cambiano molti nomi: Rinaldo diviene Riccardo, Erminia diviene Nicea;
- Rapporto con l’ “Iliade”
E’ molto più esteso, esplicito ed esclusivo, a scapito dell’ “Eneide” e dei romanzi moderni-cavallereschi: la
Gerusalemme Conquistata si presenta come un “epos in fotocopia” (*Bruscagli) dell’ “Iliade”, sacrificando
tutta l’originalità. Questo viene fatto per rendere il poema più epico e innalzarlo al rango del più illustre poema dell’antichità e
archetipo stesso del genere epico, ma in questo modo il poema tende ad annullarsi in esso.
- la trasformazione interessa la fisionomia dei personaggi, la struttura narrativa e la dimensione del poema.
Ci sono infatti 24 canti come i 24 libri di Omero.
- il conflitto tra Goffredo e Rinaldo è ormai controfigura di quello tra Agamennone e Achille: Riccardo
(Rinaldo) ha come Achille una madre apprensiva (Lucia) e come lui torna a combattere dopo una lunga
assenza per vendicare l’uccisione del compagno amatissimo Ruperto (equivalente di Patroclo);
- Nicea (Erminia) eredita molti tratti del personaggio di Elena;
- Argante è rimodellato sul troiano Ettore e ha come lui una moglie e un figlioletto a cui dà uno struggente
addio prima di morire in battaglia; - vengono aggiunti nuovi personaggi: l’anziano Giovanni, replica del saggio Nestore, e i due Roberti,
corrispondenti dei due Aiaci dell’Iliade, protagonisti della battaglia di Joppe, introdotta per imitare l’episodio
iliadico del combattimento presso le navi, caratterizzato dalle immagini crude tipiche dell’ “Iliade”.
- Forte Sfiducia nella “licenza del fingere”
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“LA VITA LIETA”
MARCO VEGLIA
Il verosimile viene meno in quanto il poeta non inventa più ma trascrive e basta la verità storica delle cronache,
riproducendo pedissequamente i modelli antichi. La poesia è ora strumento di rappresentanza delle verità
eterne;
- Logica Figurale e Religiosità Estrema
Gli episodi della crociata vengono messi in parallelo con gli eventi della storia biblica dell’ “Antico” e “Nuovo
Testamento”, che sembrano anticiparli puntualmente e in questo modo ne chiariscono il senso nella storia della
salvezza. Tali corrispondenze si hanno spesso anche con episodi della storia medievale e contemporanea: la
crociata è pertanto un semplice episodio di Guerra Santa che attraversa i secoli, una guerra metastorica che
oppone sempre allo stesso modo fedeli e infedeli. Un esempio è in XXIV, in cui, il sole si ferma in mezzo al cielo per dare tempo ai crociati di espugnare
Gerusalemme: come il testo precisa, quest’evento corrisponde sia al prodigio che secondo la “Bibbia” permise
a Giosué di sconfiggere gli Amorrei, sia anticipa il miracolo che, stando alla propaganda imperiale
cinquecentesca, salutò la vittoria di Carlo V sulle truppe protestanti nella battaglia di Muhlberg (1547);
- Dimensione dell’Invisibile
L’opera rappresenta la realtà trascendente del Cielo e dell’Inferno, traducendo in immagini le verità
intelligibili. Tasso introduce infatti nel nuovo poema molte visioni, sogni profetici, episodi allegorici. Dio non ha
più una rappresentazione antropomorfica ma si complica di simboli biblici e di nozioni teologiche, come quella
della “teologia apofatica” (Dio è conoscibile solo attraverso il paradosso, la negazione e il silenzio), espressa in
XIX. Un episodio importante a tal proposito è la visione celeste di Goffredo, dilatata in XX rispetto alla
“Gerusalemme Liberata”, in cui Tasso propone una sintesi vertiginosa della storia della salvezza, dall’antichità
biblica alle guerre di religione del Cinquecento, descrivendo la Gerusalemme celeste sulla scorta dell’
“Apocalisse”, di testi patristici (Agostino, Pseudo-Dionigi) e del “Paradiso” dantesco. Sono presenti, pertanto, diverse allegorie, spesso inserite in episodi nuovi, come il sogno di Clorinda (XV) e la
descrizione dei cinque “fonti misteriosi” (VIII e XXI);
- il linguaggio è maggiormente moralistico, in particolare volto alla condanna sistematica dell’empietà e della
malvagità dei nemici;
- la tensione tra uno e molteplice è allentata;
- le linee portanti della trama si perdono in una compagine più estesa e affollata;
- la progressione del racconto è intralciata da excursus storici, visioni abbaglianti, cerimonie sontuose;
- il dialogismo, l’ambiguità (sopratutto nei sentimenti) e la compassione vengono meno: l’amore è ad esempio
ridimensionato al suo ruolo negativo, come dimostrato dalla fine della storia di Armida, vittima di una
celebrazione allegorica simbolo della nuova severità morale del testo;
- cambia anche la destinazione del testo: il pubblico non è più quello mezzano, che nella poesia cerca diletto,
quanto piuttosto quello “impassibile e intendentissimo”, che sappia decifrare tutti gli enigmi teologici del testo,
apprezzarne l’erudizione storica e condividerne l’austero messaggio morale.
Pertanto, il senso del testo, non è definito dalla dialettica narrativa tra le sue parti, come avveniva nella Liberata,
quanto dalla chiarezza assiologica di ciascun elemento: Tasso trascura infatti la sintassi per concentrarsi sulla
significazione, “privilegiando la dimensione paradigmatica rispetto a quella dintagmatica” (*Godard).
6.5 IL MONDO CREATO (1607)
Iniziato tra 1590 e 1592, e finito prima della morte (1595), questo “poema sacro” sulla creazione del mondo viene
pubblicato postumo, prima in forma parziale (Venezia, 1600), poi in quella completa (Viterbo, 1607).
Il ritardo è probabilmente dovuto all’intervento del cardinale Cinzio Passeri, ultimo protettore del poeta,
preoccupato per l’ortodossia religiosa del poema (la Chiesa vedeva male la letteratura d’ispirazione biblica e aveva
proibito le traduzioni in volgare della “Bibbia” per scoraggiare il libero esame dell’opera). Divisa in Sette Giorni, l’opera si riallaccia alla tradizione antica dell’ esamerone (gr. “sei giorni”), un genere
omiletico utile all’insegnamento della dottrina cristiana. Modelli sono infatti gli “Esameroni” in latino di Sant’Ambrogio (IV s.), e quelli in greco di San Basilio (IV s.), e
alcuni contatti potrebbero essere con “La sepmaine ou Création du monde” (1578) del calvinista Salluste du
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“LA VITA LIETA”
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Bartas. Il poema si apre con una solenne invocazione alla Trinità, e in particolare allo Spirito Santo, a cui l’autore chiede
sostegno e ispirazione sentendosi uno strumento del Creatore, una cetra attraversata dal suo soffio.
Così come scompare la figura del poeta-artefice, anche la poesia assume un ruolo diverso, quello non di creare
mondi autonomi immaginari (no finzione), quanto quello di raccontare la creazione del mondo (sì trascrizione del
vero custodito nei testi sacri). Questa trasformazione, già annunciata con la “Gerusalemme Conquistata”, è di
grande importanza sia per Tasso che per la letteratura del Rinascimento perché può essere interpretata come una
sconfessione aperta dei fondamenti umanistici e laici dell’attività letteraria.
Tuttavia questo non comporta né l’annullamento ascetico della poesia né l’eliminazione dell’ambiguità e
dell’inquietudine tipiche dell’autore. Tasso adotta l’endecasillabo sciolto, usato nel Cinquecento per la poesia didascalica, per accentuare il fluire
maestoso del discorso poetico, ricco di epiteti, figure di ripetizioni, anafore e polisindeti che espandono
ampiamente la sintassi. I versi del poema esemplificano l’abbondanza e la varietà della creazione divina sia
attraverso lo stile che per mezzo di una fitta nomenclatura, che evoca un universo ricco di elementi. Oltre che abbondanza, per Tasso, la creazione è anche armonia e ordine: egli quindi, oltre a riprendere la scansione
in sei giorni del racconto della “Genesi” (luce e tenebre; firmamento; acqua, terra e piante; sole e luna; animali
dell’acqua e dell’aria; animali terrestri e uomo), introduce anche ulteriori tassonomie, distinzioni, raggruppamenti.
L’opera sembra quindi essere una sorta di enciclopedia, resa tale anche dalla minuzia analitica usata nel
descrivere il mondo naturale (es. costruzione degli alveari). La narrazione è più loquace di quella della “Gerusalemme”, in quanto omiletica: il poeta, come un predicatore
dal pulpito, si rivolge al lettore per attirarne l’attenzione, anticiparne le domande, chiarire i punti più difficili.
Talvolta la sua voce è anche polemica: mette in guardia contro miti profani, spiegazioni fallaci, teorie eterodosse,
ricavando i suoi argomenti polemici dalla schedatura puntigliosa di molti testi antichi e moderni (Tommaso
d’Aquino, Pico della Mirandola, Plinio, Agostino, Aristotele...). Un esempio di confutazione è quella delle “teorie astrologiche” (2° Giorno) di libero arbitrio, ma più in generale
tutto il poema è una confutazione di una teoria, evocata in contro-luce, quella di Democrito e dell’atomismo. Ogni verso del “Mondo Creato” vuole dimostrare e rappresentare poeticamente la razionalità provvidenziale
della Creazione, anche in una sorta di risposta al “De Rerum Natura” di Lucrezio. Il poeta vuole non solo guidare il lettore nell’esplorazione del creato, ma indicargli anche il modo corretto per
osservarlo e interpretarlo: l’indagine razionale - libera - è infatti ritenuta vana e presuntuosa. Tasso ha il gusto per i “mirabilia naturae”, le stranezze e le mostruosità naturali, che accomunano l’opera alla
letteratura pseudo-scientifica (i “Wunderkammern”): egli utilizza notizie prese dalle fonti più strane e
“peregrine” (es. la leonessa uccisa dagli artici del piccolo durante il parto) per ispirare nel lettore stupefazione
attonita e meraviglia, unici tributi all’incomprensibile grandezza del creato.
Il Poeta Simbolista
Tuttavia il poeta si configura in una posizione più alta rispetto all’uomo in quanto riesce ad essere un “tramite”
che metta in chiara luce le cose che agli dei mortali non sono visibili (metafora del subacqueo e dell’anello
veneziano). Egli persegue una verità, non scientifica, quanto simbolico-allegorica: il Creato è un insieme di segni da
decifrare e a chi sa leggere il “libro della natura” si manifestano di continuo, anche negli elementi più miseri, la
Fede e la grandezza creatrice di Dio.
Il Bestiario Moralizzato (*Basile)
La rassegna dei fenomeni e degli essere naturali è accompagnata costantemente da un’interpretazione che
ne dichiara il senso allegorico, positivo e negativo: ad esempio la cicogna è simbolo di rispetto per i genitori, il
granchio è immagine dell’uomo insidioso, il rapido appassire dell’erba indica la caducità della vita, le metamorfosi
del baco da seta ricordano ai mortali la promessa della resurrezione, argomento della vicenda mitica della Fenice,
a cui Tasso dedica un ampio excursus. L’opera non è solo un’enciclopedia devota ed illustra, o un’opera polemica di un apologeta cristiano, in quanto non
è tutto coerente con l’ottimismo provvidenziale dell’ideologia su cui essa si impianta. Sono infatti presenti, come
osserva *Zatti, elementi di “stanchezza”, “miseria”, “fatica” attribuiti all’esistenza materiale in particolari dei primi
uomini ed animali. Tasso tende quindi ad avvicinare spesso l’inizio (Creazione) alla fine dei tempi (Apocalisse/
Distruzione) annullando di conseguenza tutta la storia umana e limitando al peccato originale l’unico momento
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“LA VITA LIETA”
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di libero agire dell’uomo nel mondo. Il Testamento
Inoltre l’idea della pienezza significante di un mondo pervaso da immagini divine è in contraddizione con
l’adesione di Tasso alla “teologia negativa”, che avvolge Dio nelle tenebre di un’inconoscibilità assoluta: questo è
descritto ai versi 1110-1127 del VII giorno, in cui il mondo vecchio, solo e disperato, si rivolge a un Dio
invisibile.
Questi versi, espressi con forte pathos autobiografico, sono una sorta di testamento dell’autore, ormai assai
vicino alla morte, il cui operato seppur ricco di slanci eroici e spirituali non ha mai escluso un senso malinconico
di vecchiezza del mondo, e in cui balena il “nulla” di un mondo separato radicalmente da Dio. 28
“Ma fuor di me pur ti ricerco e piango. Dove sei? Dove sei? Chi mi ti asconde? Chi mi t’invola, o mio Signore e Padre? Misero, senza
te son nulla!. Ahi lasso! E nulla spero: ahi lasso! E nulla bramo. E che posso bramar, se ‘l tutto e nulla, Signor senza tua grazia?...”
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Torquato Tasso - M. Residori