- ANNO XXXIX N. 9 SETTEMBRE 1991 MENSILE DELL'AICCRE ASSOCIAZIONE UNITARIA DI COMUNI PROVINCE REGIONI dal quartiere alla regione per una Comunità europea federale Sacharov: l'eroica marcia nel deserto . .oh dolente per sempre colui... di Umberto Serafini A B a oh giornate del nostro riscatto! oh dolente per sempre colui che da lunge, dal labbro d'altrui, come un uomo straniero, le udrà! Siamo ai primi moti del Risorgimento italiano: la nostra lotta è elemento di quella per ÒY l'indipendenza delle nazionalità, di tutte le 8 nazionalità. Difatti l'ode manzoniana, «marzo 182l», è dedicata valla illustre memorialdi Teodoro Kornerlpoeta e soldato/della indi$ pendenza germanicalmorto sul campo di Lipg a 3 ~ i sialil giorno XVIII d'ottobre MDCCCXIIII nome caro a tutti i popoli/che combattono per difenderelo per riconquistare/una patria». Ancora nel 1882 il discorso di Carducci «per la morte di Giuseppe Garibaldi~- malgrado gli svolazzi retorici («E l'aquila romana tornò a distendere la larghezza delle ali tra il mare e il monte, ecc.») - celebra Garibaldi come «cavaliere del genere umano», che «oltrepassando i monti ed i mari» va «a ricercare e riscaldare gli oppressi per tutte le terre». I1 principio di nazionalità non era ancora deca- duto a ottuso e arrogante nazionalismo, ma non si era avvertito che il vero progresso non consisteva nel cambiamento di regime negli Stati ma fra gli Stati. Si era ancora in qualche modo sulla scia dell'illuminismo e, pur tra mille errori, si credeva nelle svolte della storia e nella capacità degli uomini «buoni» di guidarle a buon fine. La lotta per la pace non era ancora irrisa e Garibaldi, con Victor Hugo, era stato uno dei protagonisti del congresso per la pace svoltosi a Ginevra nel 1867. Insomma era ancora lontano il tempo in cui Benedetto Croce (in «Pagine sulla guerrau, la prima guerra mondiale) avrebbe scritto: «Chiamare la guerra, chiamare questa genero(segue a pag. 22) Lessico e materia prima In questa stagione di soprendenti mutazioni di regimi politici, in Europa e nel mondo, il problema di scomposizione ed eventuale ricomposizione di Unioni fra Stati, della morte di false federazioni, di comparsa o ricomparsa di etnìe e comunque di minoranze di ogni genere e di conseguenti separatismi e micronazionalismi, deve farsi chiarezza non tanto sulla parola federazione - divenuta ostica a popoli che ne avevano subita una falsa, perchè totalitaria e tutt'altro che rispettosa dell'unità nelle diversità - quanto sul concetto sottostante; poi, almeno fra gli addetti ai lavori - politici e giornalisti, per esempio - le parole devono riacquistare il loro significato corretto e il loro valore e permettere di esprimerci sinteticamente e rapidamente, senza malintesi. Invece c'è confusione sia nella sostanza che nelle parole. Beninteso, in gran parte della cultura europea c'è una sorta di allergia per tutto quello che ha a che fare col federalismo. Aprendo a caso l'Enciclopedia Britannica - sia pure nella un pò pasticciata edizione anglo-americanadel 1962 - non trovate Lionel Curtic: e, aggiungo, ben pochi non dico giornalisti, ma storici e politologi italiani non si scandalizzeranno della mancanza di questo grande autore protagonista del federalismo, che per loro è un Carneade (anche se ha avuto I'onore dell'interessamento di Benedetto Croce negli anni trenta). In Francia se parlate di Proudhon le persone di cultura medio-alta vi diranno che era un socialista mutualista, ma non che era un federalista integrale. In Gemzania anche persone di elevata cultura mostreranno di non conoscere Costantin Franz. Ma in Italia, dove per altro c'è un movimento federalista di grande tradizione, le cose vanno peggio: stampa e politici (non si sa se la stampa si adegui ai politici o i politici siano «fomzati e informati» male dalla stampa) navigano in un mare di imprecisioni. Un campione rappresentativo del modesto hinterland federalista di questa gente è la popolarissima Enciclopedia universale Gananti - la celebre Ganantina - che politici, giornalisti e scolari tengono a portata di mano per una prima notizia su Mina (Anna Maria Mazzini), cantante di musica leggera «di squillante vocalità», o sullo scrittore svedese Artur Lundkvist, sulgenerale americano Patton o su Budge Patty, tennista vincitore a Wimbledon: ebbene, la Ganantina - che ricorda Spinello Aretino, morto nel 1410 - salta Spinelli Altiero (che compare di sfuggita alla voce «europeismo»),tace di Bowie (che con Friedrich ha composto per la Haruard i famosi «studi sulfederalismo»)-'ma c'è Bowie David, cantante inglese pop -, ignora il famoso Fullbright che presentò al Congresso americano la mozione sugli Stati Uniti d'Europa, a cui si ispirò in buona parte il Piano Marshall; c'è ilgiornalista Bocca Giorgio, di Cuneo, ma manca il leader federalista Bolis Luciano, eroe della Resistenza («Il mio granello di sabbia))) som ma rio 1 2 3 5 5 7 8 10 13 15 e lucido scrittore politico; c'è 17ARCI,associazione ricreativa, ma mancano il CCRE - cioè noi, Il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa - e Z'AEDE, Association européenne des Enseignants. Ma fermiamoci un momento sulla grande stampa. Mischa Kamenetski era negli anni trenta un diligente alunno del liceo-ginnasio «Tasso» di Roma - una scuola molto rigorosa e con insegnanti di ottimo livello (al liceo insegnava storia efilosofia nella sezione C un grande antifascista, che era anche un maestro di federalismo, Aldo Ferrari) -; poi, se ben ricordiamo, Mischa ha dovuto troncare l'università ed è andato negli Stati Uniti d'America, dove ha soggiornato a lungo, venendo in contatto, come giornalista ma anche come uomo colto, con l'élite culturale e politica americana: insomma ha respirato a lungo I'atmosfera del Paese di Hamilton, di Jay, di Madison. Attualmente dirige il «Corriere della Sera». Ordunque il suo giornale, in tena pagina di martedì 27 agosto, sotto un titolo a sette colonne con lettere di scatola ( « A lSoviet Supremo i funerali dellJURSS»)portava ilsottotitolo, in un vistoso neretto, contenente questa perla: G . . . i deputati ribelli ora pensano a una Confederazione di stile elvetico con poteri ridotti per Mosca». Il corrispondente da Mosca, Paolo Valentino, nell'articoloriportava virgolettato il punto focale dell'intervento di Nazarbaiev, il capo Kazako: «LIURSS non può più essere una Federazione»; poi ci raccontava che Nazarbaiev aveva affemzato che la nuova Unione delle libere Re~ubblichesovrane «non dovrebbe avere nè consiglio dei ministri né Parlamento»;finalmente, fuori virgolette, aggiungeva di suo o riferiva acquiescente dal Kazako: - Sarà una «Confederazione» di stampo elvetico -. Si dice che il 28 agosto Pellegrino Rossi sia comparso in sogno a Kamenetski per protestare: la Confederazione Elvetica, che è una classica federazione, era stata scambiata (scusate I'apparente bisticcio di parole, che è semplicemente l'imbroglio creato da un relitto lessicale, che copre una nuova sostanza costituzionale) per una confederazione! In realtà tutti i quotidiani italiani andrebbero letti, per la materia che ci inferessa,col lapis rosso-blu del professore secondario. E divertente l'uso che fanno in questi giorni della parola «Commonwealth». D'accordo: il Commonwealth britannico non è mai stato, neanche lontanamente, una Federazione, malgrado gli ammonimenti di Lord Lothian o del sopra ricordato Lionel Curtis e le richieste di qualche Dominion (per esempio la Nuova Zelanda): lo sanno tutti e non c'è bisogno di leggersi le 29 pagine e passa che vi dedica l'Enciclopedia Britannica (quando eravamo giovani, nei primi anni trenta, circolava in Italia uno splendido libro di un autore, che crediamo liberale, Scipione Gemma, intitolato «L'impero britannico», stampato dalla Zanichelli sotto gli auspici dell'lstituto fascista di cultura - si badi: non ancora Istituto di cultura fascista -: si descrivevano assai cowettamente la mancata evoluzione e i limiti del Commonwealth. (britannico).Ma i nostri giornalisti usano la parola Commonwealth come se nella tradizione e nell'uso politico della lingua inglese per Commonwealth si dovesse intendere necessariamente una comunità corrispondente a quella britannica. Il «concise Oxford» dell'edizione del 1940 affermava: «Commonwealth: Body politic, indipendent community; repubblic (alsofig., as C. of learning); republican government in England, 1649-80;title offederated Australian States; company of actors sharing receipts; (fomerly)public welfare...» In realtà un libro classico, direi sconosciuto in Italia, «The Russian Revolution» di Manuendra Nath Roy - ex capo deldipartimento orientale del Comintern, poi marxista revisionista, poi radicale - (Calcutta 1949, Renaissance Publischers), parla di un ideale, prezioso Commonwealth - ovviamente una Unione politica - che sarebbe decisivo, se si creasse nell'Europa democratica, per evitare una tena guerra mondiale, tra URSS e USA. Amici giornalisti, c'è da temere che dietro le vostre incertezze lessicali (e anche storiche) ci sia una rilevante confusione mentale. E nei politici? Un presidente italiano per la lULA . Riccardo Triglia, presidente del19Anci,è stato eletto, a fine giugno ad Oslo, presidente mondiale della IULA, con l'appoggio caloroso del CCRE e particolarmente della sezione italiana (AICCRE) - ...oh dolente per sempre colui, di Umberto Serafini - Lessico e materia prima, di ARGO - Più cultura e democrazia e meno mercato, di Alexander Lainger - I lavori della conferenza intergovernativa sul13UEM, di Roberto Santaniello - Dimenticare Keynes?, di Giancarlo Piombino - I1 progetto del CCRE: un contributo essenziale al19UEM - ~ i l parole e ai fatti, di Raimond Vautier - II dibattito politico sul federalismo - Un'intervista a Biasutti - Una antologia del buon senso, a cura di M.M. e R.S. SETTEMBRE 1991 più cultura e democrazia e meno mercato Nuovo regionalismo e federalismo europeo Una lezione importante da imparare di Alexander Langer* No allYEuropaantidemocratica degli esecutivi, sì a una Europa autenticamente federale. Potenziare il Parlamento Europeo e battersi per i suoi poteri costituenti, rendere i confini (tutti i confini) sempre meno incisivi, costruire un 'Europa di regioni a vocazione plurilingua e pluriculturale. Aprirsi da federalisti al1'Est europeo. Creare una spinta decisiva delle autonomie territoriali e della democrazia di base I1 «sogno jugoslavo» di uno stato multi-etnico, capace di federare e far convivere in un comune progetto popoli tormentati da conflitti e rancori storici, sembra essersi definitivamente infranto. La comprensibile e generalizzata volontà di forgiare finalmente la propria storia, che nell'est europeo caratterizza il dopo-comunismo, si sta faticosamente snodando tra sperimentazioni democratiche spesso ipotecate dalla pura e semplice imitazione o addirittura importazione di modelli occidentali, impossibili rincorse del tardo capitalismo, risvegli etno-nazionali e talvolta revanscismi sciovinisti, fervore religioso, nostalgie restauratrici e tumultuose delusioni, non ha ancora trovato vie maestre affidabili e convincenti. Così si dovrà mettere in conto un lungo e rischioso cammino jn cui è possibile che velleità e scorciatoie di ogni genere prendano il sopravvento nella testa delle persone e dei popoli: I'autodeterminazione, come affermazione e costruzione di sovranità democratica sul proprio destino, assumerà la semplicistica forma dell'«autodecisione nazionale», magari senza badare ai costi ed alle conseguenze, la ricerca di un maggior benessere economico si manifesterà come massiccia ricerca di evasione individuale dai vincoli del proprio contesto economico-sociale giudicato irrimediabilmente arretrato, la rivendicazione di riappropriarsi della propria storia ed identità ricondurrà non di rado verso antiche intolleranze etniche o religiose... e lo spettro di avventure autoritarie e militari resta minaccioso sullo sfondo. Tutte le idee di fratellanza, di progresso, di internazionalismo, di vocazione globale ed universale, di umanesimo che nei decenni passati avevano caratterizzato le ideologie e le retoriche dominanti, si rivelano ora appiccicaticce, basate sulla costrizione della dittatura, non su convinzioni collettive maturate dal profondo del corpo sociale. Nel caso jugoslavo sorprende la rapidità con cui nel giro di 2-3 anni è cresciuta la diffusa persuasione dell'incompatibilità tra popoli sino a poco fa ancora fortemente intrecciati ed assai mescolati in molte regioni del paese (oltre che nell'emigrazione). Ma il demone nazionalista è così: si diffonde con grande rapidità, opera una semplificazione collettiva di inimitabile efficacia (al pari del razzismo o del fanatismo religioso), distingue * Deputato verde e sudtirolese al Parlamento Europeo SETTEMBRE 1991 con nettezza tra «noi» (amici) e «loro» (nemici), fa rapidamente proseliti, emargina (e magari punisce) come traditore chi non è d'accordo e non canta nel coro, suggerisce di passare dalle parole ai fatti e di rendere più netta (possibilmente fisica) la separazione tra amici e nemici, si nutre di simboli e richiami che rafforzano l'identità collettiva ed aiutano a compattare tutti, nasconde e rimuove bene - almeno temporaneamente - i problemi economici e sociali ed unisce ricchi e poveri in nome di un «noi» etnocentrico che esclude (O sottomette) gli «altri», per includere invece, persino forzatamente, tutti quelli della propria parte. Ormai in Jugoslavia si è arrivati a non poter più tenere il conto dei morti, dei feriti, dei torturati, degli espulsi dai loro villaggi e dalle loro case, e si assiste alla veloce distruzione del «fondo comune» che teneva insieme genti diverse. Probabilmente non si può sperare di suggerire o addirittura di imporre dall'esterno una soluzione soddisfacente - per quanto le sollecitazioni esterne abbiano un grande peso, anche nella spinta verso le indipendenze nazionali, nutrite non poco da compiacenti ammiccamenti esteri, soprattutto «mitteieuropei». Ma dovremo almeno chiederci cosa ha da imparare l'Europa da quella lezione, e dall'e- Alexander Langer sperienza baltica e piu in generale dalla dissoluzione dell'impero sovietico-zarista, e dai risorgenti rigurgiti di antiche o recenti domande di autoaffermazione etnica o nazionale, che possono affacciarsi dovunque, dalla Scozia al Sudtirolo, dalla Transilvania alla Catalagna. Bisognerà affrontare senza reticenze il dibattito sul disagio che ormai non poche strutture falsamente nazionali o insufficientemente sovra-nazionali ingenerano. E se non si vuole che la risposta consista in una miope ricaduta verso la fede negli stati nazionali (nuovi, da costruire, o vecchi, da difendere), bisognerà aprire coraggiosamente una prospettiva regionalistica e federalista insieme. Un'Europa unita e federalista, ovviamente ben più larga dell'odierna C.E., dovrà saper essere fantasiosa nel ridisegnare la mappa dei tessuti regionali, anche al di là degli odierni confini di stato. Esistono in Europa situazioni di questo genere, e non di rado potrebbero offrire una soluzione pacifica e non troppo traumatica a domande da lungo tempo insoddisfatte di diversa aggregazione politico-statuale o di diverso assetto autonomisticoistituzionale. Basti pensare alla realtà dei Paesi Baschi (in Spagna ed in Francia), all'Istria e forse le regioni vicine (1'Istria viene ora a trovarsi divisa tra Slovenia e Croazia, ed ha comunque legami stretti anche con il Friuli-Venezia Giulia), all'antico Tirolo (oggi diviso tra Alto Adige/Sudtirolo, Trentino e Tirolo austriaco), e piu ampiamente alle diverse comunità alpine inter-regionali già esistenti (Arge Alp, Alpe Adria), o alla Savoia ed all'Occitania nelle Alpi occidentali, o alla regione che tra Basilea, Strasburgo e Lussemburgo si estende al di qua ed al di 16 del Reno o ad altre situazioni ancora, che si stanno aprendo soprattutto nell'Europa centrale ed orientale. L'alternativa all'emergere di pericolosissime spinte all'esclusivismo etnico («tanti gli stati quante le etnie», «ogni stato per un'etnia sola», «non si può star bene se non si è etnia esclusiva o maggioritaria sul territorio») o di tendenze a spostare confini, può essere solo superata rendendo tali confini sempre meno incisivi, e facilitando la ripresa di antichi rapporti di comunanza storica, culturale, linguistica ed economica, amputati spesso dalla logica di potenza degli stati nazionali. Ma ovviamente tale riattivazione o addirittura la crescita di nuovi tessuti regionali non potrebbe avvenire nella cornice degli attuali stati nazionali: si arriverebbe immeCOMUNI D'EUROPA diatamente a nuove controversie territoriali ed a pericolosissimi conflitti inter-etnici o inter-statuali. Ecco perché occorre pensare ad m'Europa unita e federalista, nella quale gli attuali stati nazionali via via si stemperino nella loro sovranità ed esclusività, e nella nitidezza dei loro confini, ed entrino a far parte di un comune tessuto federativo, nel quale il decentramento di reali poteri e la costruzione di nuovi rapporti tra regioni limitrofe possano crescere con il ritmo «omeopatico» della società civile e non invece attraverso le rotture «chirurgiche» di traumatiche successioni o annessioni. E naturalmente le future regioni europee dovranno saper sviluppare tutta la loro vocazione pluri-lingue e pluri-culturale, per far crescere la convivenza e le interrelazioni tra popolazioni che insieme abitano e curano territori contigui. A questo proposito va preso atto, finalmente, che la costruzione dell'unità europea, cui giustamente i cittadini italiani hanno assegnato da tempo, ed anche attraverso la loro massiccia e convinta risposta al referendum contemporaneo all'elezione del Parlamento europeo nel 1989, un grande valore, si trova oggi davanti ad un bivio cruciale. Abbiamo da scegliere tra la routine dei piccoli passi verso una più compiuta <(Europadei 12 + ...P (cioè più qualcuno che sarà via via ritenuto degno di entrare in questo club), sempre però ancora dominata dalla logica degli Stati nazionali tra loro più o meno confederati, o viceversa una decisa svolta in avanti verso una Unione dell'Europa democratica che ovviamente non può più partire dal carbone, dall'acciaio, dal nucleare, dalle sovvenzioni agricole, dall'economia o dalla comune moneta europea, ma che dovrà basarsi sul comune patrimonio storico e culturale, sui comuni valori dei diritti umani e della democrazia, oggi finalmente piu liberi di affermarsi al di là ed al di quà della profonda ferita che aveva spaccata l'Europa, e su un comune progetto di solidarietà europea verso il resto del mondo, ed in particolare l'emisfero meridionale del pianeta. Da dove possono venire le forze capaci di immettere nuovi stimoli ed impulsi finora inediti nella costruzione europea? Difficilmente dal Consiglio dei 12 governi, o da essi singolarmente presi, visto che obbediscono ad una logica di sovranità nazionale. Altrettanto vale, temo, per gran parte dei Parlamenti nazionali dei 12 Stati membri della Comunità (ma mi auguro di sbagliare per eccesso di pessimismo). Ma neanche la Commissione esecutiva della C.E., pur assai più vicina al ruolo di un governo europeo comunitario (nominato però dai governi nazionali, non certo da una rappresentanza democraticamente eletta dei cittadini d'Europa), è oggi in grado di rappresentare ed affermare un punto di vista che vada coraggiosamente oltre il miraggio del ((mercato unico» che sembra poi essere la quintessenza dell'attuale progetto europeo. Sotto questo profilo, tra le istituzioni in campo, il Parlamento europeo - pur nella sua cronica carenza dei poteri - può essere già più indicato a svolgere un ruolo propositivo e di intensa messa in mora delle procedure e delle logiche attualmente prevalenti. Ma non basta: oggi si sente il bisogno di una nuova spinta, una sorta di nuovo mandato che venga dai cittadini d'Europa che vogliono arrivare all'unità politica democratica del nostro continente ed al superamento degli stati nazionali eredidati dal passato, in nome del superamento di vecchi steccati, ma anche di una domanda di maggiore e più reale partecipazione. Ecco dove si vedono entrare in campo due nuovi protagonisti, sinora (forzatamente) troppo assenti o marginali nella costruzione europea: i popoli dell'Europa centrale ed orientale, da un lato, e le autonomie locali ed in particolare le regioni, i Laender, le altre autonomie territoriali sovracomunali - dall'altro. Entrambi postulano un'Europa unita piu convinta, più reale e più larga, ma anche più articolata e più democratica, più capace di accogliere e valorizzare le diversità e le peculiarità, più attenta a non diventare davvero una superpotenza economica (e in futuro ma- gari anche politico-militare) telecomandata dagli eurocrati di Bruxelles e dai grandi gruppi finanziari. Alle regioni, alle autonomie, alle «democrazie locali» non serve, penso, una futura rappresentanza corporativa, nè semplicemente dei terminali più efficaci tra centro e periferia. Esse esigono, al contrario, una costruzione europea veramente policentrica, capace di far convivere le diversità senza annullarle e di sviluppare la cittadinanza europea senza umiliare ed appiattire la cittadinanza regionale, in tanti casi ricca di valori ed identità cresciute ed affermate nella storia. D i fronte alle conferenze interparlamentari, inter-governative ed interistituzionali sul futuro dell'unione europea che si stanno svolgendo, c'è un gran bisogno che si levino voci che chiedano queste tre cose: 1) che si acceleri e si approfondisca il processo di integrazione europea, dandogli finalmente una qualità democratica e politica che assegni il primato all'«Unione politica» invece che al ((mercato comune»; ciò richiederà fra l'altro - un serio rafforzamento dal Parlamento europeo ed il riconoscimento del suo potere costituente; 2) che l'Europa unita non si accontenti dei 12 attuali soci comunitari, ma si apra ad una reale unità europea, dove la comune eredità storica e culturale faccia premio su presunte ragioni di omogeneità socio-economica; 3 ) che l'unione europea si faccia in termini davvero federalisti, ridisegnando una mappa dei poteri, delle competenze e delle autonomie tale da garantire che dei poteri attualmente detenuti dagli Stati c.d. nazionali altrettanti vadano a finire «verso il basso» (le autonomie locali, i cittadini) quanti «verso l'alto» (l'unione europea, la federazione), e che i vecchi confini statali comincino a diluirsi soprattutto là dove il buon vicinato interregionale consente la maturazione verso «regioni europee». Non sarebbe tollerabile (e diventerebbe giustificata l'eventuale resistenza dei parlamenti nazionali) un trasferimento di sovranità e di poteri dalle attuali assemblee rappresentative «nazionali» verso organi sovra-nazionali, privi di legittimazione e controllo democratico, e sarebbe altrettanto intollerabile un accentramento di poteri e competenze che finisse per esautorare di fatto non solo le istanze locali, ma soprattutto i cittadini, che si troverebbero in tal caso alle prese con interlocutori sempre piu lontani e più inafferrabili. In tal caso non dovremmo meravigliarci troppo se sempre nuove spinte isolazioniste e secessioniste emergeranno. Penso che le assemblee legislative delle Regioni (e Province Autonome) che vorranno intervenire e far sentire la loro voce in relazione alla tappa oggi matura dell'unificazione europea, potrebbero dare un importante contributo a far maturare queste (ed ancora altre) istanze che oggi molti cittadini avvertono, sapendo di essere al contempo pienamente «europei» e pienamente «indigeni» nelle loro realtà locali e sul territorio affidato alla loro ¤ cura. SETTEMBRE 1991 i lavori della Conferenza intergovernativa sull'UEM Da Bruxelles brutte nuove per l'Europa Rallenta ancora il convoglio comunitario di Roberto Santaniello* La proposta olandese riaccende le polemiche sull'Europa a due velocità. Unfantomatico Istituto monetario europeo dovrebbe sostituire nella fase di transizione la Banca centrale europea. Il progetto inglese rientra dalla finestra dopo essere stato cacciato dalla porta. All'Italia, esclusa dalla Comunità di serie A, si prospettano 3 opzioni dilemmatiche. L'unica possibile è quella di difendere il Piano Delors e di fare finalmente sul serio nella gestione dell'economia Dimenticare Keynes? Sul rispetto dei termini concordati al Vertice europeo di Roma (dicembre 1990) per l'avvio dell'unione monetaria, si è aperta, come noto, una vasta discussione. L'attuale presidenza di turno della Comunità europea - olandese ne rovescia in qualche modo l'impostazionefin qui seguita: ne attenua fortemente il contenuto politico e le caratteristiche strutturali (meglio: istituzionali) per accentuarne gli aspetti libero scambisti. L'Unione si fa con i Paesi che hanno economia fortemente convergente. A sostegno di questa tesi, per nascondere la sua sostanziale miopia con un richiamo alla prospettiva dei grandi progetti, si collega il richiamo «severo» ai doveri che cadranno sull'Europa occidentale per il sostegno dell'ex impero sovietico. Non è intenzione, tuttavia, di questa nota affrontare la discussione sollevata dagli olandesi ne ricordare la pur impeccabile - anche politicamente - risposta di Guido Carli. Lo scopo è diverso e forse più modesto: è proprio scontato che lo sviluppo economico e quello sociale dell'Europa comunitaria deve fondarsi su una politica monetaria restrittiva? Ci sembra che dovrebbe essere concesso, almeno, il diritto a dubitarne. Dall'esperienza del new dea1 in poi i governanti hanno sempre guardato con estrema attenzione ai grandi aggregati dell'economia, in particolare all'arnpiezza della domanda globale. Toccare quest'ultima, nel senso di ridurla, non può non aprire la strada a fasi recessive, di grandezza variabile a secondo della pesantezza dell'intervento. È possibile? e utile? a vantaggio di chi va una simile operazione? Certamente l'operazione è possibile introducendo forti correzioni nel bilancio pubblico sia dal lato delle entrate che da quello delle spese. È in sostanza quello che si chiede da più parti - sia da destra che da sinistra - ai ministri dell'economia italiani. Ma non c'è dubbio che l'operazione sarebbe assai dolorosa. Da un paese che presenta un elevato tasso di disoccupazione e che sembra avviarsi - seguendo quanto avviene in tutto il mondo - ad una crisi più o meno consistente nel settore industriale, la riduzione delle domande non può che accentuare entrambi i fenomeni: aumentare la disoccupazione e - ma si tratta ovviamente di due aspetti della stessa realtà - il numero delle industrie in crisi. Con quale vantaggio? Probabilmente una riduzione dell'inflazione, ma unSETTEMBRE 1991 che questo è dubbio. Se l'attuale tasso di inflazione italiano proviene piuttosto dal lato dei costi che da quello della domanda, è su altri meccanismi che occorre agire (automatismi nel determinare il costo del lavoro?), non sulla domanda globale. Forse una maggiore competitività sul mercato internazionale? Anche questo è possibile, ma non assolutamente certo. Occorrerebbe dimostrare che tutti i fattori che rendono competitivi prodotti e servizi (per esempio la qualità) sono già dalla parte dei produttori italiani. Se cosi non fosse, la riduzione dei costi avrebbe solo il risultato di farci rimanere nella fascia dei produttori poco costosi ma di basso livello. E non è questo - almeno si spera - l'obiettivo della settima (o quinta) potenza industriale del mondo. Il caso italiano, meglio conosciuto, è stato introdotto non per una difesa - anche se legittima - di una parte che opera nell'ambito di un contesto europeo, ma per introdurre un discorso «europeo». È accettabile - guardando al futuro - che la politica economica venga istituzionalmente legata ai parametri del bilancio in pareggio - o quasi - degli Stati membri, ignorando quanto è stato detto (Keynes e la sua scuola) e fatto (da tutti gli Stati democratici dalla fine della guerra almeno siamo alla prima crisi petrolifera)? Ignorando altresi che lo sviluppo degli anni '80 è stato trainato è vero dagli USA con ilgoverno repubblicano di Reagan, ma mettendo in atto - per unanime valutazione - la più vasta operazione keynesiana della storia? Di tutto questo non si parla o quasi. La polemica tra le parti preferisce individuare possibili argomenti di critica spicciola poco preoccupandosi delle prospettive; o meglio, piegando le prospettive alle ragioni della critica di ogni giorno, poco curando di verificare se le affermazionifatte sono collegate da una linea di coerenza e dal rispetto per la propria tradizione e la propria storia. Vorremmo su questi temi una discussione più aperta, sincera e coraggiosa, introducendo nel dibattito - accanto ai temi della stabilità monetaria e della bilancia dei conti con l'estero quelli della crescita economica e dell'occupazione. Per verificareverso quale strada l'economia europea intende avviarsi e se esiste un reale consenso su di essa. Giancarlo Piombino Nella primavera scorsa all'indomani della presentazione del non-paper Lussemburghese sulla struttura del Trattato relativa all'unione politica c'era chi sussurrava che se i lavori delle due conferenze si fossero protratti per altri sei mesi si correva il rischio di mettere in discussione il patrimonio comunitario accumulato dal 1957 e smantellare una buona parte dell'attuale Comunità europea. Questi voci, a priva vista eccessivamente catastrofiche, che si levavano dalle fonti dei soliti «bene informati» nascondevano un fondo di verità. Per rendersene conto è sufficiente constatare ciò che sta avvenendo dopo la ripresa dell'attività politica delle istituzioni comunitarie. Per liquidare in una battuta le notizie di ciò che sta avvenendo in questi giorni a Bruxelles lo slogan potrebbe essere: «brutte nuove per l'Italia dall'Europa, ma soprattutto brutte notize per il futuro della costruzione comunitaria». Ma cosa è accaduto di tanto sensazionale da farci assumere un tono così preoccupato? È accaduto che, smaltita la pausa estiva, turbata comunque dall'emergenza jugoslava e sovietica, l'attività delle conferenze intergovernative ha subito una scossa violenta con la presentazione di un documento deiia presidenza di turno (quella olandese) che rimodella (stravolgendoli) i tempi ed i modi per la realizzazione dell'unione economica e monetaria. Le battute di arresto si susseguono senza sosta: dopo il tentativo del governo lussemburghese (con la complicità sotterranea della Francia) di spezzare l'unicità della struttura del Trattato per 1'Uniorie politica (introducendo una pericolosa tripartizione delle competenze comunitarie attraverso una sorta di «Farsa Unica Tris») andato a monte per la tempestiva opposizione della Commissione Cee, la presidenza olandese - con il tacito ma sostanzioso sostegno della Germania e del Regno unito - ha avanzato una nuova proposta che smentisce di fatto le conclusioni del Consiglio europeo di Roma dell'ottobre 1990 e sconvolge in gran parte i risultati conseguiti fino ad oggi per la creazione di una banca centrale europea e una moneta unica. Nel solito «non paper» di turno, un documento che non è considerato tale, il governo olandese (da tempo allineato con il nascente asse anglo-tedesco) propone alcune condizioni per i1 presunto consolidamento, dell'inte- Assistente al Parlamento Europeo COMUNI D'EUROPA esse sono già conosciute, altre introducono elementi di tale portata da sconfessare la filosofia che è alla base dell'integrazione comunitaria. Queste condizioni sono in tutto sei e possono essere cosl riassunte: - potranno entrare nella nuova Europa solo quei partners che avranno una finanza pubblica in ordine e non avranno svalutato la propria moneta all'interno della banda ristretta dello SME; - il livello dell'inflazione dei paesi comunitari deve. convergere con quello dei partners che hanno raggiunto i migliori risultati; - i disavanzi di bilancio non devono essere eccessivi (non dovranno superare il 314% del Pil e l'indebitamento non deve andare al di sopra del 60% del Pil); - i tassi di interesse devono essere armonizzati con i livelli piii bassi presenti nella Cee; - nella seconda fase la Banca centrale europea (inizialmente prevista per l'inizio del 1994) potrà essere sostituita con un Istituto monetario internazionale; - per passare dalla seconda alla terza fase sarà sufficiente la partecipazione della metà degli Stati membri della Comunità. Le prime quattro condizioni non aggiungono molto a quanto previsto in precedenza. Anche nel documento conclusivo del Consiglio europeo di Roma dell'ottobre 1990 erano state inserite per i1 passaggio alla fase definitiva dell'lJem delle severe regole riguardanti la stabilità dei prezzi, una finanza pubblica sana ad un tasso di inflazione contenuto. Le novità piii importanti riguardano gli ultimi due punti che costituiscono lo specifico contributo del governo olandese. Al posto delllEurofed opererebbe inizialmente un fantomatico Istituto monetario europeo con il generico compito di «preparare gli strumenti della politica monetaria». Accogliendo la vecchia impostazione della Bundesbank, ma soprattutto quella del governo britannico (basta esaminare il documento britannico del dicembre 1989 dal titolo «an evolutionary approach to economic and monetary union»), la presidenza olandese introduce degli elementi di ambiguità nei riguardi della fase di transizione. Quali saranno gli effettivi compiti dell'Ime e su quale statuto poggerà la sua attività? Le ambiguità interpretative prendono il posto di alcune certezze che si erano faticosamente raggiunte nei mesi precedenti (si pensi, per esempio, all'avanzata elaborazione dello statuto della futura Banca centrale). I1 risultato è stato quello di alimentare le posizioni dei due gruppi che si fronteggiano (in maniera trasversale come si direbbe in Italia) all'interno della conferenza sull'Uem, quello dei frenatori e quello dei propulsori. Tra i primi troviamo la Bundesbank (con la complicità del Ministero tedesco delle finanze), la Gran Bretagna, i danesi ed i belgi. Tra i secondi la cancelleria tedesca, i francesi e gli italiani. Tra gli incerti si annoverano i paesi del fronte orientale e cioè la Spagna, il Portogallo, la Grecia con l'aggiunta dell'Irlanda. La seconda novità introduce un pericoloso precedente per il rispetto della solidarietà comunitaria ed una variante ancora più insidio- sa rispetto all'oramai noto concetto dell'Europa a geometria variabile. Alla terza fase dell'unione economica e monetaria, che prevede in ultima analisi un sistema di cambi fissi, potranno partecipare i primi sei Stati membri (mentre nelle precedenti proposte era prevista la partecipazione di otto stati) che avranno le carte in regole in tema di inflazione, bilancio e debito pubblico. Contrariamente al concetto di «geometria variabile» che contiene un elemento volontarista, la proposta olandese prevede delle vere e proprie condizioni per accedere nei clubs dei piii forti (la Comunità di serie A). Di fatto questi sei Stati esistono già e sono la Germania (che tuttavia ha un debito pubblico pari al 5% del Pil), la Francia, il Benelux e la Danimarca. Per un paese come l'Italia (ma il medesimo discorso vale anche per gli altri) l'ammissione all'Uem, richiede un dimezzamento dell'inflazione, ma soprattutto una politica di severo controllo delle altre variabili macroeconomiche poichè le future regole prevedono un'assoluta stabilità dei cambi (dunque impossibilità di svalutazione) ed un abbassamento dell'attuale livello dei tassi di interesse. Con la presenza di questi vincoli «esterni» e senza una politica economica tendente a rilanciare la produttività del lavoro e a dare linfa all'intero comparto industriale il nostro paese rischia una durissima recessione economica dai costi occupazionali traumatici e foriera di nuovi conflitti sociali. Ma quali sono i motivi dell'improvvisa severità olandese? La posizione dei Paesi bassi trova in parte la sua giustificazione nella constatazione che prima o poi la Comunità dovrà aprire ad Est e che se non lo farà con le opportune misure, rischierà di importare nuova inflazione ed ulteriore confusione monetaria. Non è un caso del resto che il membro olandese della Commissione Franz Andriessen, da tempo unico oppositore del presidente del collegio europeo Jacques Delors è il più convinto assertore di un immediato allargamento della Comunità europea ai vicini orientali. Ad ogni modo, il modello «olandese» ha il sapore riconoscibilissimo di una realpolitik economica poiché, sposando un approccio concorrenziale ed evolutivo di stampo britannico (si tratta nella sostanza di un ulteriore affinamento del metodo della «concorrenza tra sistemi») e prevedendo una forma piii flessibile e morbida di autorità monetaria (l'Istituto monetario), consentirebbe ai paesi piii forti di assumere la funzione di un vero e proprio direttori0 europeo imponendo di fatto scelte politiche insostenibili dagli altri paesi con la quasi certezza di provocare nuovi e piii gravi squilibri nelle aree meno sviluppate della Comunità. Ed è quello delle aree territoriali meno favorite un delicato nodo da sciogliere soprattutto perché con la liberalizzazione dei capitali non è affatto scontato che il flusso degli investimenti si diriga verso quelle aree più bisognose di capitale per accelerare il proprio sviluppo economico e sociale. A questo proposito, la proposta che il Comitato direttivo del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa ha indirizzato alla conferenza intergovernativa sull'Uem di creare un Istituto europeo per il credito agli enti locali, assume un'importanza particolare poiché permetterebbe una equilibrata perequazione delle risorse del bilancio comunitario anche alla luce dell'insufficiente autonomia impositiva e finanziaria delle collettività territoriali. Proprio per il grave rischio di aumentare gli squilibri regionali, al primo appuntamento importante, il Consiglio dei Ministri economici, i1 piano olandese è stato duramente criticato dal fronte meridionale della Cee (ma solo parzialmente dalla Francia che propone un ritmo di realizzazione dell'Uem piii moderato) e da Jacques Delors che vede sfumare il suo ambizioso progetto. Non si è trattato però di una bocciatura, ma semplicemente di una pausa di riflessione al termine della quale i nodi verranno nuovamente al pettine. La Commissione come è avvenuto in occasione della presentazione del documento lussemburghese sull'unione politica dovrà battersi per evitare lo smembramento di tutte le proposte originarie tenendo presente che i margini di manovra politica si sono molto ristretti e che molti dei suoi aileati si sono per il momento persi per strada. Tra questi vi è ancora l'Italia che pur essendo l'avanguardia dell'europeismo si trova in una posizione contrattuale debolissima. Le cifre parlano chiaro: il disavanzo nei primi otto mesi ha superato quello del 1990 del 23%; l'inflazione non accenna a diminuire e tutto il sistema produttivo mostra chiari sintomi di malessere (le crescita economica è infatti solo de11'1,5%); i conti con l'estero sono in forte peggioramento e l'afflusso di capitali è in forte diminuzione. Con queste cifre che credibilità all'Italia di fronte agli altri Stati membri? La nostra debolezza, abbinata al tentativo di costruire un'unione economica e monetaria a velocità unica, potrebbe essere il pretesto per un rinvio sine die delllUem al quale segretamente pensa la stessa Germania che culla l'idea di diventare i1 fulcro delle nuove relazioni con l'Europa dell'Est libera da stretti vincoli comunitari. Di fronte a questo stato di cose tre sembrano le opzioni dilemmatiche del nostro paese: - la prima è quella di difendere strenua- mente il piano Delors originale nella sua ortodossia a condizione di operare nei prossimi quattro anni una correzione di rotta nella gestione dell'economia; - la seconda è quella di permettere la realizzazione immediata dell'Uem «modello olandese» e di accettare le imposizioni dei partners piii forti; - la terza è quella di pretendere di entrare in un Uem frutto di un pasticciato compromesso sapendo di contribuire al suo fallimento con una gestione della nostra economia approssimata ed incerta. Scartata la seconda opzione perchè incompatibile con la solidarietà e la terza perché contraria al comune senso del pudore (sarebbe infatti l'Italia a sancire il fallimento del1'Uem) al nostro paese non rimane che la prima: contribuire alla creazione di un'Europa solidale, efficiente e democratica e, al suo interno, porre fine una volta per sempre agli (segue a pag. 22) SETTEMBRE 1991 il progetto del CCRE: un contributo essenziale all'UEM La proposta per la creazione di un istituto comunitario specializzato per il credito agli enti territoriali Il completamento del mercato unico e la libera cricolazione dei capitali all'interno della CE non sarà senza conseguenze per le economie regionali. La necessità di governare democraticamente il processo di integrazione in atto anche attraverso nuovi organismi che permettano agli Enti locali e regionali di beneficiare dei vantaggi di una maggiore integrazione. Di queste necessità si è fatto interprete il CCRE che ha creato un gruppo di lavoro ad hoc sulla finanza locale. Dall'attività di questo gruppo è nata la proposta inviata alla presidenza della Conferenza intergovernativa I1 CCRE è l'associazione europea dei Comuni, delle Province, delle Regioni e delle altre collettività locali creata nell'ormai lontano 1952 allo scopo di promuovere i'unità europea nei principi del pluralismo, della democrazia e del federalismo. In tale prospettiva il CCRE svolge una continua azione per garantire agli enti associati una sempre pi6 consistente presenza sullo scenario europeo. Fedele ai suoi principi, il CCRE ha sempre diretto il suo appoggio ideale e la sua azione politica verso il processo di unificazione europea e I'affermazione del mercato unico, purché questo sia inquadrato in un'autentica Unione politica, la cui necessità è stata più volte riaffermata dal CCRE, ultimamente dai suoi XVIII Stati generali di Lisbona, nonché dalla Commissione e dal Parlamento europeo (si veda la comunicazione della Commissione alla conferenza intergovernativa per l'Unione politica e la risoluzione del Parlamento europeo del 12 dicembre 1990). I1 CCRE, nella costruttiva ricerca di utilizzare al meglio ogni occasione di maggior integrazione, pur considerando tutti i vantaggi che potranno derivare dalla libera circolazione dei capitali, non può sottacere alcuni interrogativi e preoccupazioni che il mercato unico, se non opportunamente «governato», potrebbe comportare rispetto al raggiungimento di alcuni obiettivi, che le istituzioni comunitarie hanno da sempre considerato come essenziali (coesione, superamento degli squilibri territoriali, ecc.). Appare, pertanto, prioritario promuovere i processi di armonizzazione necessari a garantire nel territorio un equilibrato e omogeneo sviluppo. Quindi, non per ragioni corporative e settoriali ma nel generale interesse della maggiore integrazione della Comunità, il CCRE ha messo allo studio, creando un apposito gruppo di lavoro europeo, il problema del credito agli enti locale e regionali, connesso con quello dello stato della finanza pubblica, centrale e locale, nei vari Paesi, con l'obiettivo dell'affermazione della moneta unica e dell'armonizzazione fiscale. Oggi, infatti, la situazione degli enti locali e regionali è molto diversificata dal punto di vista della struttura del finanziamento. Nella mozione approvata a Lisbona il 6 ottobre 1990 in occasione dei propri Stati Generali il CCRE sottolineava come, nella prospettiva dell'unione economica e monetaria, diventi prioritario mettere in grado le collettività territoriali di far fronte alla maggior -parte delle loro spese, facendo appello a quelle imposte locali, delle quali il potere politico SETTEMBRE 1991 locale, nel regolarle, può fissare liberamente il tasso. Tuttavia, tenuto conto delllineguale distribuzione del gettito fiscale, occorrerebbe dare completezza alle entrate locali con una ripartizione delle risorse degli Stati membri secondo regole obiettive. Ma l'autonomia impositiva presuppone adeguate politiche a livello comunitario dirette a garantire il raggiungimento dei livelli standards, onde evitare che nelle aree più deboli, a parità di sforzo fiscale, la quantità di servizi pubblici a disposizione sia minore degli standards prefissati, aggravando così le sperequazioni territoriali già esistenti. L'obiettivo dovrebbe essere quello di consentire agli enti territoriali e regionali di avvalersi di tutte le prospettive economiche e finanziarie che offre il libero mercato, salvaguardando nel contempo il diritto di espansione economica delle comunità più progredite ed il dovere di solidarietà nei confronti delle collettività meno dotate. In questo senso può giocare un ruolo anche un momento europeo di gestione del credito locale regionale. Sia come canale cui far affluire i fondi del bilancio comunitario finalizzati alla perequazione territoriale, sia come istituzione creditizia garante del mantenimento delle condizioni medie di mercato nei confronti di tutte le collettività territoriali. Nel quadro dell'unione economica e monetaria in via di formazione vi sono, infatti, due validi motivi per prevedere un momento europeo di gestione del credito locale: Una riunione a Roma del gruppo di lavoro sulla finanza locale a) nella fase di transizione verso la realizzazione di un sistema efficace di federalismo fiscale, il credito rappresenta l'unico strumento adeguato per far fronte alle difficoltà finanziarie degli enti che non sono ancora in grado di poter disporre di risorse proprie sufficienti. In queste condizioni l'istituzione europea di credito per gli enti locali - sia questa una apposita sezione specializzata della BEI, ovvero un istituto ad hoc creato con la partecipazione degli attuali istituti di credito locale esistenti nei Paesi membri, od infine un semplice luogo europeo di gestione congiunta delle risorse dei predetti istituti - potrebbe garantire nel breve periodo un flusso adeguato di finanziamenti, nel quadro di regole severe stabilite nel Trattato istitutivo dell'unione economica e monetaria per controllare l'indebitamento complessivo degli enti locali. b) occorre evitare che la liberalizzazione dei movimenti di capitale renda piu difficile la situazione soprattutto per quegli enti locali e regionali, che hanno maggiori difficoltà di accesso al mercato europeo dei capitali e che possono risentire maggiormente delle politiche restrittive imposte in qualche Stato membro per riequilibrare la propria finanza pubblica nella prospettiva dell'unione economica e monetaria. Si tratterebbe, quindi, di offrire agli enti locali e regionali la possibilità di accedere a nuove fonti di finanziamento, distinte ed indipendenti da quelle concesse dagli Stati, in modo da metterli al riparo dalle incertezze delle politiche monetarie nazionali. In linea con I'affermazione del libero mercato, non si tratterebbe, quindi, di ricercare ancora paternalistiche erogazioni di credito agevolato a favore degli enti locali e regionali, bensì di creare strumenti idonei per agevolare l'accesso al credito da parte di questi. Nella mozione approvata a Lisbona il CCRE si è espresso a favore della creazione di un'istituzione creditizia finalizzata al finanziamento degli enti locali e regionali, che sia di tipo federale e consenta la partecipazione degli istituti che già oggi si occupano a livello nazionale del credito agli enti locali. Nel governo dell'istituzione dovrebbe essere garantita la partecipazione delle rappresentanze degli enti territoriali. Essa si dovrebbe approviggionare sul mercato europeo dei capitali, dovrebbe essere in grado di scongiurare che la concorrenza provocata dal grande mercato interno penalizzi le collettività locali piu deboli e di offrire a queste un'assistenza tecni(segue a pag. 9) COMUNI D'EUROPA dalle parole ai fatti Non è solo economico il ritardo dell'Italia Siamo ultimi anche nel recepire le direttive CE di Raymond Vautier I ritardi del nostro paese nel recepire la legislazione comunitaria non sono ancora colmati, malgrado l'adozione della prima legge comunitaria. Delle 120 misure previste dal Libro Bianco l'Italia ne ha trasposte complessivamente 52, mentre ne rimangono da recepire nel nostro ordinamento circa settanta. Per sanare il ritardo occorre soprattutto un impegno amministrativo. La situazione comunitaria e ciò che resta per completare il calendario della Commissione. Ancora una volta l'Italia è l'ultima della classe nella Comunità europea. Non basta solamente il dissesto della finanza pubblica per farci riconoscere come un paese con gravi ritardi amministrativi; l'Italia è infatti il paese comunitario che ha recepito meno direttive riguardanti il completamento del mercato interno. E quello che più salta agli occhi è il margine che ci divide dal paese che ci precede in questa speciale classifica, ben 20 atti legislativi. Delle circa 120 misure previste dal Libro Bianco della Commissione, l'Italia ne ha trasposte complessivamente 52, mentre ne rimangono da recepire nel nostro ordinamento molto più della metà, esattamente 70. È una situazione spaventosamente deficitaria che getta molte ombre sulla già traballante credibilità della nostra pubblica amministrazione. La cosa è altrettanto piu grave se si pensa che lo scorso 20 dicembre i due rami del Parlamento italiano hanno adottato la prima legge comunitaria nella quale solo in apparenza sono stati trasposti nel nostro ordinamento pid di 100 atti legislativi comunitari. La prima «Legge La Pergola», prevede diversi strumenti di recepimento tra i quali il principale è costituito dalla delega legislativa al governo che, attraverso i vari dicasteri, dovrebbe adottare i relativi decreti legislativi. Ma l'esecutivo è in grave ritardo ed è così che l'Italia, pur dotandosi di uno strumento moderno spesso preso a modello dagli altri paesi comunitari, si ritrova ad essere per un'ennesima volta nella lista dei cattivi. Al di là della situazione italiana, la percentuale di trasposizione di diritto nazionale delle misure comunitarie è stata superiore al 72%, contro il 69% registrato a dicembre del 1990. L'aumento è particolarmente modesto se si considera che sono nel frattempo entrati in vigore 20 nuovi atti legislativi previsti dal Libro bianco. I paesi che hanno compiuto gli sforzi maggiori sono stati la Francia e la Grecia, accelerando sensibilmente il ritmo di trasposizione delle misure comunitarie nelle loro legislazioni nazionali. Altri Stati membri, in particolare, l'Olanda, il Lussemburgo, l'Irlanda e la Spagna non hanno rispettato le scadenze necessarie. In generale, il paese comunitario che ha trasposto fino ad oggi la maggior parte delle direttive già in vigore è la Danimarca con 108 misure seguito da vicino dalla Francia (102). In ottima posizione, con ben 97 misure recepite, risulta esser il Portogallo, la cui amministrazione deve aver compreso che l'essere al passo con l'Europa è molto vantaggioso per la situazione del proprio paese. I1 Portogallo ha in pratica la stessa situazione della Gran Bretagna paese con una tradizione amministrativa certamente pid radicata del paese lusitano. Seguono poi la Germania (95), il Belgio (90), l'Olanda (86), il Lussemburgo (82) e 1'Irlanda. L'Italia è preceduta dunque anche da Grecia e Spagna rispettivamente con 87 ed 84 misure del Libro bianco recepite nel proprio ordinamento. Più complessa è l'analisi qualitativa delle direttive recepite nei singoli ordinamenti nazionali. Per quanto riguarda la soppressione delle frontiere fisiche, il settore che registra i progressi pid sensibili è quello dei controlli veterinari e fitosanitari. Sono entrate infatti in vigore 35 direttive. Italia, Belgio, Olanda e Grecia sono i paesi che sono in ritardo nel recepimento di queste direttive. Nell'ambito della soppressione delle frontiere tecniche, l'armonizzazione tecnica e la standardizzazione sono i due settori in cui i progressi sono stati più importanti. I1 livello di trasposizione generale è molto alto ed è pari al 76%. I ritardi si registrano soprattutto nel settore dei prodotti alimentari ed in quello dei concimi. La trasposizione delle due uniche direttive in vigore riguardanti l'apertura degli appalti pubblici, forniture e lavori, ha segnato un netto miglioramento rispetto allo scorso anno. Solo l'Italia e l'Olanda non hanno ancora recepito la direttiva forniture e a questi si aggiungono la Spagna, il Lussemburgo e il Portogallo per la direttiva «lavori». In materia di libera circolazione dei lavoratori, i termini di tempo per la trasposizione della direttiva su un sistema di riconoscimento dei diplomi del ciclo superiore d'insegnamento che sancisce formazioni professionali per un periodo minimo di tre anni sono scaduti il 4 gennaio 1991. E stata trasposta in Francia, Gran Bretagna, Danimarca, Irlanda e Germania. La situazione è molto più critica per la direttiva riguardante il mutuo riconoscimento delle qualifiche di operatore commerciale essendo stata trasposta solamente da tre Stati. Nel settore dei servizi finanziari, la trasposizione delle direttive attinenti alle banche ha accumulato notevoli ritardi (sono state adot- tate solamente il 48% delle misure). Di fatto, solamente la Francia ed il Portogallo hanno trasposto le tre direttive riguardanti i fondi propri, il tasso di solvibilità e la seconda direttiva sulle attività creditizie. Ritardi si registrano anche nel campo delle assicurazioni. Metà degli Stati membri ha provveduto al recepimento delle direttive, mentre per l'altra metà la procedura è ancora in corso. Nel campo del diritto societario, solamente l'Italia e la Grecia non hanno provveduto ad adottare misure di applicazione per il Geie, il Gruppo europeo di interesse economico. Un notevole ritardo si registra nell'ambito della proprietà intellettuale ed industriale. Solamente la direttiva sulla protezione dei circuiti integrati è in vigore in tutti gli Stati membri della Cee. La convenzione sul brevetto comunitario non è stata ratificata da nessuno Stato membro mentre per la sua applicabilità è necessario il deposito di tutti gli strumenti di ratifica dei dodici partners. Questa è in breve la situazione riguardante lo stato di applicazione delle direttive del Libro bianco già in vigore. Un discorso a parte merita la questione dell'adozione delle proposte di legislazione della Commissione che sono ancora sul tavolo del Consiglio dei Ministri e del Parlamento europeo. Secondo la Commissione, il ritmo di adozione delle restanti proposte del Libro Bianco è troppo insufficiente. Nella sesta relazione sullo stato di avanzamento dei lavori per il completamento del mercato interno si legge che «anche se è consentito pensare che, nei prossimi mesi saranno compiuti passi avanti, si è lungi da una situazione che garantisca che tutte le decisioni saranno effettivamente approvate rispettando le scadenze». Dallo scorso dicembre, i1 Consiglio ha approvato solamente 11 misure nuove, mentre sono ancora all'esame dei ministri 89 proposte della Commissione. L'esecutivo in un suo documento inviato direttamente ai capi di Stato e di Governo in occasione del Consiglio europeo di Lussemburgo analizza la situazione nel dettaglio, attribuendo le ragioni di questa situazione a tre fattori principali. In primo luogo, al ritardo accumulato dal Parlamento europeo in alcuni dossiers in cui l'accordo del Consiglio potrebbe intervenire rapidamente. In secondo luogo, alla dispersione di differenti dossier tra i diversi Consigli che ha determinato, secondo l'esecutivo, una ripartiSETTEMBRE 1991 zione squilibrata ed un indebolimento della pressione politica del Consiglio europeo. I n terzo luogo, al fatto che diversi dossiers dipendano da decisioni politiche determinanti da prendere nei singoli Stati membri. La Commissione si è affrettata a ricordare che essa utilizzerà le disposizioni previste dall'articolo 100B del Trattato Cee che le permettono di riconoscere l'equipollenza delle norme nazionali che non fossero state già armonizzate dagli Stati membri in base alle procedure del Trattato. Le questioni più spinose che incontrano maggiori ostacoli in seno al Consigli dei Ministri riguardano principalmente la libera circolazione delle persone, la cooperazione tra imprese, la libertà di stabilimento e i servizi nonché i problemi riguardanti l'armonizzazione della fiscalità diretta ed indiretta. Sulla libera circolazione delle persone i problemi sul tappeto sono fin troppo noti. Peraltro, sono stati raggiunti dei progressi come la stipulazione della Convenzione di Dublino sulla responsabilità in materia di esame delle domande di asilo, l'attuazione di una prima forma di cooperazione tra forze di polizia nell'ambito del Gruppo Trevi., l'approvazione di una posizione comune sulla direttiva relativa all'acquisto ed alla detenzione di armi. Le difficoltà piii grandi si registrano in sostanza in materia di controlli alle frontiere esterne dove il dibattito si incentra sull'interpretazione giuridica da dare alla definizione di spazio economico senza frontiere. Nel campo della cooperazione tra imprese, nessun progresso significativo è stato compiuto in particolare sui dossiers riguardanti il marchio comunitario, il consolidamento dei passivi delle società e sulle fusioni di società di Stati differenti. Sulla libertà di stabilimento e sui servizi i problemi sono svariati e riguardano soprattutto la definizione dei campi di applicazione delle direttive settoriali. Ad esempio, nel campo della libertà di stabilimento il completamento dei lavori dipende dall'estensione del riconoscimento dei diplomi a tutte le professioni sottoposte a norme e dalla riforma dell'accesso dei lavoratori, delle famiglie nonché al diritto di soggiorno per agevolare la loro mobilità. Un'ultima annotazione riguarda i rapporti interistituzionali tra gli organi responsabili del processo decisionale comunitario. La commissione ha chiuso puntualmente la presentazione di tutte le proposte previste dal suo Libro bianco. Ricordiamo che dal 1985 l'esecutivo comunitario ne ha avanzate 196 (che si sono aggiunte alle 86 che erano originariamente all'esame del Consiglio). Alla Commissione ora spetta il compito di vigilare sull'applicazione delle direttive, contestando agli Stati membri eventuali infrazioni e l'attuazione di un centinaio di atti di esecuzione delle direttive o regolamenti già in vigore. Inoltre l'esecutivo comunitario metterà in atto azioni di accompagnamento nel campo dell'informazione in favore delle imprese e dei cittadini. I1 Consiglio dei Ministri non ha rispettato nessuna scadenza indicativa che prevedeva, SETTEMBRE 1991 progetto del CCRE entro il giugno 199 1, l'adozione del 75% delle proposte inserite nel Libro Bianco. JJ Per smaltire piu rapidamente i dossiers in ritardo la Commissione propone di affidarne gran parte al Consiglio Mercato interno al fine di trovare una istanza che abbia capacità di negoziare e decidere in maniera piii rapida ed efficace. Infine il Parlamento europeo: 35 dossiers devono essere ancora esaminati dall'Assemblea di Strasburgo e su di essi si prospettano alcuni problemi poiché su di essi il Consiglio dei Ministri dovrà decidere con voto unanime. Tradizionalmente, infatti, su dossiers che richiedono il consenso unanime, la posizione del Parlamento europeo diviene piii scomoda e quindi più «franante». Un'ultima annotazione sulla procedura di cooperazione. I1 suo funzionamento è giudicato soddisfacente dalla Commissione anche se il Consiglio ha ripreso solamente il 32% degli emendamenti proposti dal Parlamento europeo. È dunque ancora lunga la strada che porta alla completa realizzazione del mercato interno europeo. Essa passa, in primo luogo, per una rapida adozione delle proposte che sono ancora sul tavolo del Consiglio di cui alcune di importanza fondamentale per il pieno successo di tutta l'operazione 1992. I n secondo luogo, ed è questo forse l'aspetto più importante, occorre assicurare una rapida e globale trasposizione degli atti legislativi già approvati. Per questa seconda sfida, perché di ciò si tratta, saranno necessarie delle azioni complementari di grande respiro: una buona informazione e formazione delle amministrazioni nazionali che dovranno gestire in modo convergente le medesime regole, azioni informative da organizzare in particolare da parte dei Dodici e dalle organizzazioni professionali affinché imprese e cittadini possano conoscere i loro nuovi diritti; meccanismi adatti di scambi di informazione affinché sia possibile intraprendere una efficace cooperazione tra le amministrazioni naziona! e tra esse ed i servizi della Commissione. E un lavoro enorme per l'Europa degli anni 2000. co-finanziaria, che consenta loro di affrontare efficacemente la nuova situazione. Nelle more il CCRE chiede in via pregiudiziale il superamento dell'art. 68 del Trattato CEE, che finora impedisce alle collettività locali di emettere od assumere prestiti negli altri Stati membri senza l'accordo preventivo degli Stati interessati. Questa disposizione è in effetti ormai, e maggiormente dopo la liberalizzazione dei movimenti di capitale, in evidente contraddizione con l'apertura di uno spazio finanziario europeo. Nelle surriportate considerazioni sono espresse le ragioni per cui il CCRE ha ritenuto necessario ed urgente portare a conoscenza della Conferenza intergovernativa sull'unione economica e monetaria, in base ai primi risultati del lavoro svolto, l'esigenza e gli orientamenti che intende perseguire in questo campo, con riserva di sviluppare, con riferimento alla Conferenza, o parallelamente ad essa, alcuni specifici aspetti, che caratterizzano questo complesso, ma così importante, problema. Proprio nella prospettiva di una sempre piii accentuata visione «europea» dei fenomeni economici e finanziari, compreso il problema essenziale della «spesa pubblica», appare necessaria la partecipazione delle Regioni e degli Enti locali all'azione della Comunità europea (partecipazione che, del resto, Parlamento europeo e Commissione hanno più volte auspicato). Per questo motivo il CCRE partecipa già ora all'attività del Consiglio Consultivo delle Regioni ed Enti locali creato con decisione 18 giugno 1988 della Commissione e sostiene la proposta contenuta nel progetto di Trattato per l'Unione politica europea (rapporto dell'on. Emilio Colombo) adottata dal Parlamento europeo il 12 dicembre 1990, contenente la creazione di una apposita istituzione (Comitato Consultivo delle Regioni e degli Enti locali) rappresentativo dei diversi livelli di autorità territoriali. (segue da pag. 7) La Corte di Giustizia della Comunità europea COMUNI D'EUROPA il dibattito politico sulle istituzioni Tre Regioni italiane indicano la via federale e la regionalizzazione per la costruzione europea Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Va1 d'Aosta sollecitano in tre diversi documenti l'affermazione di un autentico federalismo europeo. L'importanza del processo di regionalizzazione nel rispetto dei principi di democrazia e sussidiarietà. Federalismo e regionalismo hanno dato risultati positivi dal punto di vista storico. Un binomio che è in grado di affrontare i nuovi e complessi problemi degli anni novanta e conferire nuova forza e spinta creativa al processo di unità europea. Il Trentino-Alto Adige sollecita il Parlamento italiano ad affrontare tempestivamente le riforme istituzionali dello Stato sulla base di un modello federale, secondo le più evolute esperienze europee Le riforme istituzionali italiane e il federalismo (11) Sotto questo stesso titolo abbiamo pubblicato nel numero di aprile di quest'anno una relazione dell'ex segretario politico della federazione piemontese dell'AICCRE, Roberto Palea, preceduta da un nostro corsivo e invitando Soci istituzionali e individuali al dibattito. Come nel corsivo precedente, torniamo a ricordare ai Soci e ai Lettori che I'AICCRE è nata con questo problema: come realizzare lo Stato regionale nel nostro congresso nazionale di Forlì, nel 1955 (relatore Costantino Mortati), chiedemmo l'attuazione delle Regioni a Statuto ordinario, che tanto tardava ed è tardata, mentre alla fondazione del CCE a Ginevra, nel 1951, avevamo pour cause inserito nella delegazione italiana un rappresentante delle Regioni a Statuto speciale, nella persona dell'Assessore siciliano D'Angelo - e come verificare nello stesso tempo gli eventuali limiti dello Stato regionale, né carne né pesce fra l'unitario a decentramento burocratico flessibile (come talvolta abbiamo definito la Repubblica francese degli anni cinquanta) e il federale (la Germania). Lo Stato regionale teorizzato da Ambrosini aveva tenuto presenti due esperienze che potevano sembrare ormai superate, quella della Costituzione austriaca degli anni venti e quella della Costituzione democratica del 1931 della Repubblica spagnola: le riserve comunque erano soprattutto sulle materie dell'art. 11 7 della nostra Costituzione, ormai criticato dagli stessi autori, in una Italia non più prevalentemente agricola, con esigenze sociali e di economia moderna che richiedevano un coordinamento (se non piace la parola programma) tra tutti gli aspetti dello sviluppo a un primo livello pubblico, appunto quello regionale, e infine la presenza del quadro comunitario europeo. Approfondendo il discorso abbiamo sempre più considerato non rinunciabile un Senato delle Regioni, quel Bundesrat italiano che spaventa a torto tanti colleghi, mentre dovrebbe tranquillizzarli, perché finirebbe per coordinare e rendere trasparenti le spese periferiche, permettendo il confronto con la spesa centrale. Ci siamo espressi a favore del Senato delle Regioni con la Commissione bicamerale presieduta a suo tempo dal sen. Cossutta e crediamo che, in fondo, ad essa volessero pervenire ragionevolmente diversi nostri saggi costituenti. Abbiamo a suo tempo sostenuto poi che, simultaneamente con l'attuazione radicale del sistema regionale, andava compiuta una riforma dell'amministrazione dello Stato e abbiamo critiCOMUNI D'EUROPA di ARGO cato l'interruzione che è stata fatta dell'opera iniziata con competenza da M.S. Giannini (per l'occasione ministro). Finalmente siamo da tempo critici della legge elettorale regionale (e ci sono sembrati condivisibili gli argomenti ripetutamente addotti da Maccanico), proprio perché quella attuale rende più difficile la formazione di una adeguata classe politica regionale. Infine - ci si riconosca il merito - abbiamo condotto uno degli studi più completi (in Europa, non solo in Italia) sul «federalismofiscale tedesco» (è lo studio effettuato dalla ricercatrice Sigrid Esser sotto la nostra guida), che ancora una volta ci fa domandare se non convenga - anche per ragioni strettamente funzionali - compiere il passo avanti verso una più coerente struttura federale rispetto alla incerta e - diciamo talvolta contraddittoria struttura dello Stato regionale. Con questa premessa lunga, ma purtroppo insufficiente, siamo intanto lieti di riportare tre prese di posizioni, a favore di una struttura federale, di tre Regioni, la Trentino-Alto Adige, la Valdaostana e la Friuli-Venezia Giulia. L'orientamento dell'ultima essendo legato a aria presa di posizione assunta con lieve magioratzza dal Consiglio regionale (e con incertezze all'intemo di ciascuno dei gruppi consiliari maggiori, su una mozione presentata dai Verdi), abbiamo pensato utile di riportare una interessante intervista del Presidente Biasutti, sottolineando che la Regione Friuli-Venezia Giulia ha spesso in materia condotto un attento, studiato discorso di avanguardia: a suo tempo ci ha aiutato nella compilazione del volume (1971), «La Regione italiana nella Comunità europea», di cui siamo assai orgogliosi. Sottolineiamo infine che questo discorso ci pare del tutto tempestivo, mentre si approssima la Conferenza di novembre indetta (è la seconda) dal Parlamento Europeo sul problema della regionalizzazione europea. X- S * P.S.: Una prossima volta faremo il discorso sulla differenza tra le Regioni autonome (o, se volete, sui Laender italiani) e le Regioni autarchiche, nonché sulla differenza tra Laender come componenti federate di uno Stato federale e Laender con pretese di autodeterminazione o separatismo, insomma Laender confederati. Pare che queste precisazioni, come quella di mercato comune italiano ed europeo e di misure sociali sovranazionali, siano divenute utili. Il ''voto " del Consiglio regionale del Trentino-Alto A dige I principi federalistici godono in Europa di una crescente attenzione e gli indiscussi successi rappresentati dallo sviluppo regionale e dalla collaborazione tra l'Europa orientale e quella occidentaIe vi hanno contribuito in maniera determinante. Contemporaneamente cresce però anche il pericolo di una falsa interpretazione dei principi federalistici ordinamentali e strutturali. Un'Europa unita non può nascere solamente da determinate decisioni nazionali prese ad alto livello poiché ne deriverebbero solamente un'«europeizzazione» di compiti e funzioni che fino ad ora erano propri degli Stati nazionali ed una nazionalizzazione di attribuzioni che fino ad ora avevano carattere regionale e questo violerebbe il principio di sussidiarietà e svilirebbe il significato della potestà decisionale politica regionale, e quindi legislativa e di programmazione. Questi principi debbono invece venire rafforzati ed ancorati nel diritto comunitario. Un'Unione politica europea costituita su principi federativi deve quindi distinguere nettamente: l'ambito europeo come sfera di una futura politica strutturale ed ordinamentale europea per la definizione di attribuzioni sovranazionali; I'ambito di Stato nazionale come sfera legislativa ed ordinamentale nazionale; I'ambito regionale come sfera di realizzazione delle molteplici e differenziate condizioni di vita dei nostri cittadini. In relazione a questa sostanziale distinzione, neU'Europa unita deve venire concepito, deciso e realizzato europeisticamente tutto ciò che a livello di singolo Stato non può venire accortamente superato. L'impostazione dei rapporti regionali economici, culturali e sociali deve al contrario continuare ad essere propria delle Regioni. Provvedere ad una fondamentale suddivisione delle attribuzioni non significa disconoscere le attuali realtà europee. Nei Paesi della Comunità Europea le strutture regionali sono differentemente accentuate, ed accanto agli Stati con una propria sovranità statale ed alle Regioni con un'ampia autonomia ci sono anche degli organismi che sono poco più di un'unità amministrativa in un rigido apparato statale centrale. I1 processo europeo di regionalizzazione si svolge per questo con una velocità ed un'intensità differente per ogni singolo Stato. Ed è quindi tanto più importante, ne1 processo di unificazione europea, assicurare politicamenSETTEMBRE 1991 te e giuridicamente la partecipazione degli Stati e delle Regioni alla formazione delle decisioni comunitarie, cosi come renderne percepibile la libertà decisionale attraverso numerosi esempi di sperimentata solidarietà tra le Regioni europee. Non solo le Regioni autonome e quelle economicamente pre'dominanti debbono partecipare a tali processi: anche nei rapporti tra le Regioni più forti e quelle più deboli deve regnare uno spirito di solidarietà e di partecipazione, ed in questo contesto possono svolgere un ruolo importante gemellaggi e collaborazione concreta in programmi per la creazione di infrastrutture economiche e di comunicazione. Un'Europa dei cittadini si realizza in modo ottimale in un'Europa costituita da Regioni consapevoli, efficienti e che collaborano cooperativamente. Ed una rete di collaborazione regionale in Europa incentiva anche il processo di armonizzazione europeo. La collaborazione di istituzioni regionali nell'ambito delle politiche educative e culturali, della ricerca scientifica e tecnologica, delle politiche sul traffico e di molti altri settori può produrre solamente uno sviluppo esemplare di comuni istituzioni, discipline, procedimenti sovranazionali. Si accelera cosi il processo di riequilibrio della qualità dei servizi, si intensifica lo scambio di esperienze in campo scientifico, tecnico, ecologico e sociale, si promuove la creazione di infrastrutture e si sollecita quindi lo sviluppo di comuni condizioni di base. Proprio quelle persone che vivono in regioni di confine usufruiscono cosi, nella vita quotidiana, di svariate facilitazioni. Ma anche il processo di unificazione europea sperimenta in complesso un'ulteriore notevole dinamica ed ha la possibilità di indicare e dimostrare, alla base di progressi concreti, il possibile conseguimento del grande obiettivo prefisso: l'Unione politica. L'integrazione europea deve implicare l'ampio coinvolgimento di tutti gli Stati, di tutte le Regioni e Comunità autonome della Comunità europea. Ciò vale anche per la discussione sulla costituzione europea, atto necessario in un prossimo futuro. E tale discussione non potrà aver luogo senza la partecipazione delle Regioni; al contrario essa dovrà trasferire il peso politico dal centralismo europeo ad un federalismo europeo. In questo modo si eviterebbe anche il conflitto delle Regioni con la Comunità Europea e la loro forza verrebbe impiegata nell'opera di unificazione europea. Ambedue le Province autonome dell'Alto Adige e del Trentino, ma anche la Regione Trentino - Alto Adige unitamente alle altre Province e Regioni dovrebbero fungere da forza motrice di questo sviluppo europeo. Negli ultimi anni è diventata sempre più evidente la crisi irreversibile di ogni concezione centralistica dello Stato. Sta diventando senso comune la consapevolezza che solo un potere piu vicino al cittadino è in g a d o di garantire effettivamente i diritti di cittadinanza: nel dibattito politico internazionale sempre piu spesso si insiste sul «principio di sussidiariet2i», sulla «priorità della piccola unità rispetto alla grande», e sulSETTEMBRE 1991 la Regione Valle d'Aosta Una corretta applicazione del federalismo Il Consiglio regionale della Regione autonoma Valle d'Aosta, nella seduta dellJ8 marzo 1991 approva all'unanimità la seguente mozione: L'idea federalista è senza dubbio la migliore chiave per la soluzione dei problemi politici del nostro continente. È grazie ai principi fondamentali di questa dottrina che potranno essere armonizzate le differenze culturali, diminuite le differenze economiche e rinforzati i legami di solidarietà tra i popoli europei nel rispetto delle identità proprie di ciascuno di essi. Ilfederalismo non richiama solamente la delega dei poteri a livello europeo, con un impoverimento crescente dei livelli di decisione da parte delle autorità politiche di livello inferiore, siano esse regionali o nazionali. Un'applicazione corretta e coerente dei principi federalisti esige una redistribuzione equilibrata dei poteri legislativi ed amministrativi ai differenti livelli; la regola fondamentale di questa redistribuzione deve essere il principio di sussidiarietà, per il quale tutte quelle competenze che non possono essere esercitate correttamente dai livelli politici inferiori devono essere attribuite a livello superiore. Allo stesso tempo noi constatiamo che il processo di regionalizzazione in Europa avanza ad una velocità differente da un paese all'altro. Seguendo le differenti realtà economiche e culturali che distinguono ciascuno dei paesi membri della CE, le Regioni (o Laender o comunità autonome) acquistano una coscienza pid o meno forte del loro molo e delle loro funzioni. In Italia noi abbiamo assistito, nel corso degli ultimi anni, ad una netta involuzione delle Regioni e ad un ritorno assai marcato ad una politica <<neo-centralista». Ciò contrasta evidentemente con la generale tendenza ad associare le Regioni al processo di integrazione europea ed a farne il motore dinamico della costruzione europea. Appare dunque indispensabile rinforzare sensibilmente le Regioni ed i loro poteri, trasformando la stmttura politica e costituzionale dello Stato italiano in un'autentica Unionefederale. Le Regioni italiane, trasformate in Stati membri della federazione italiana, parte integrante dellJUnionepolitica europea, saranno anch'esse direttamente implicate nel dibattito sulla futura Unione europea. Esse assumeranno nello stesso tempo il molo che gli compete nella gestione delle risorse economiche, nel miglioramento della qualità della vita e nell'affermazione delle identità regionali. Per tutte queste ragioni, il Consiglio regionale della Va1 d'Aosta impegna il governo regionale a manifestare al Governo italiano e al Parlamento italiano la volontà di una riforma dello Stato basata sulla creazione di un autentico Stato federale. ¤ COMUNI D'EUROPA la superiorità del federalismo per realizzare in modo equilibrato i principi dell'autonomia, della responsabilità e della partecipazione. I1 regionalismo e il federalismo non hanno solo dato risultati positivi da un punto di vista storico: essi si stanno rivelando come la struttura istituzionale più adeguata e flessibile per affrontare i nuovi e complessi problemi degli anni '90 e sono condizione essenziale per conferire nuova forza e creatività al processo di unità europea, verso la costituzione di un'Europa delle Regioni. Una radicale riforma regionalista dello Stato si sta dunque rivelando il modo ottimale per rispondere ad una triplice crisi: la crisi della politica, la crisi fiscale, la crisi dello Stato nazionale. Tali crisi hanno già determinato D i fronte a questa situazione di crisi del vecchio modello statalistico, non è più possibile limitarsi a puntare su uno sviluppo puramente quantitativo dell'ordinamento regionale italiano attuale e neppure su semplici aggiustamenti della normativa esistente. Si deve andare molto più in là, fino ad una vera e propria «rifondazione federalistica dello Stato», fino a dar vita ad un vero «Stato federale». La trasformazione dell'attuale ordinamento statale in senso federalistico è processo evidentemente assai complesso il cui assetto definitivo può essere solo il risultato di un grande dibattito in tutto il Paese. Una simile 'rivoluzione copernicana' fondata in primo luogo su una reale ed effettiva la Regione Friuli-Venezia Giulia Riforma dello Stato e federalismo Il Consiglio regionale della Regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia, nella seduta del 19 dicembre 1990, tenuto conto dell'ampio dibattito in corso nella società italiana in merito alle proposte di riforma istituzionale; ritenendo necessario esprimere, sia pure a grandi linee, una posizione chiara del Consiglio regionale in questa materia; impegna la Giunta regionale ad espowe al Governo ed al Parlamento italiano la volontà di una riforma dello Stato in senso federalista. (approvato con 19 sì, 16 no, 4 astenuti) a livello europeo l'interessante fenomeno spontaneo della riscoperta della dimensione regionale. Proprio per effetto dell'internazionalizzazione dell'economia, della tendenziale omologazione culturale a livello planetario, dell'interdipendenza crescente, si afferma un marcato bisogno di identità locale rispetto alla dimensione dello Stato nazionale. Non a caso oggi la spinta in questo senso si presenta particolarmente significativa in quelle aree forti (Lombardia, Catalogna, ecc.) che vivono già con particolare intensità la dimensione sovranazionale come fatto quotidiano. autonomia impositiva, dovrà consentire alle attuali Regioni e Province autonome l'esercizio di competenze molto piii ampie, non solo rispetto a quelle attualmente previste per le Regioni a Statuto ordinario, ma anche rispetto a quelle delle stesse Regioni e Province a Statuto speciale, secondo i piii avanzati e collaudati modelli del federalismo europeo. I n definitiva risulta essenziale procedere tempestivamente ad una riforma che: - realizzi condizioni piii avanzate per il processo dell'Europa delle Regioni; - superi la crisi del modello centralistico dello Stato e la moltiplicazione e sovrapposizione reciprocamente negativa d i competenze; - inverta la logica attuale dell'articolo 117 della Costituzione definendo solo i compiti dello Stato e considerando tutti gli altri attribuiti alle Regioni, ivi compreso l'ordinamento subregionale; - realizzi condizioni di autonomia ampia e responsabile attribuendo alle Regioni potestà impositiva con devoluzione parziale allo Stato anche per le funzioni perequative; - decentri gli enti statali e le funzioni ministeriali; - riveda il sistema del bicameralismo parlamentare istituendo la Camera delle Regioni e promuova quindi il superamento del controllo governativo sugli atti delle regioni. La particolare e consolidata esperienza dell'autonomia speciale dell'Alto Adige e del Trentino, che va comunque salvaguardata ed ulteriormente rafforzata dinamicamente, sviluppatasi anche in rapporti fattivi di collaborazione con gli Stati federali dell'arco alpino, affida a questa Terra di confine un compito propositivo e propulsore a favore di un ulteriore processo di regionalizzazione del Paese. Per queste ragioni e ciò permesso, il Consiglio regionale del Trentino-Alto Adige nella seduta del 19 febbraio 1991, a maggioranza di voti legalmente espressi, fa voto affinché il Parlamento affronti tempestivamente la riforma istituzionale dello Stato tesa alla realizzazione di uno Stato federale second o le piii evolute esperienze europee e in direzione dell'Europa delle Regioni. Tale riforma deve tener conto delle esigenze specifiche delle Regioni a Statuto speciale, ed in particolare della Regione Trentino-Alto Adige, della Provincia autonoma di Trento e della Provincia autonoma di Bolzano come dell'Accordo internazionale di Parigi. m COMUNI D'EUROPA SETTEMBRE 1991 un'intervista a Biasutti del 27 marzo 1991 ederalismo, democrazia, autonomia così lo Stato deve cambiare Il Presidente della Regione Friuli- Venezia Giulia afferma che ilfederalismo è nel cuore di tutti gli autonomisti e che la richiesta di più federalismo nelle istituzioni italiane è lo specchio delle nuove esigenze che pone la società civile. È su questo modello che debbono orientarsi le modifiche alle strutture istituzionali dello Stato italiano. Il dibattito sul Senato delle Regioni e su una maggiore trasparenza e coerenza della finanza regionale e locale. Il dibattito sulle Leghe «Non si ~ u andare ò avanti tosi». Foderate di compunta sobrietà, queste parole tremende le ha scodellate davanti alla Camera, nel primo round del confronto Stato-Regioni, della cui conferenza è presidente. Non è stata la prima volta che su Biasutti si accendevano i riflettori nazionali. Da qualche mese la stampa nazionale lo... pedina; addirittura lo rincorre da quando ha sollevato il tema di una riforma sulla quale era scivolata - chissà perché anche l'attenzione dei più agguerriti soloni istituzionali: l'autogoverno, lo Stato delle autonomie. ((Vuoleaffettare l'Italia per servirla con contorno di Verdi*, «Vuole spiazzare Bossi togliendogli l'aria dalla bocca e la terra dai piedi»: è stato questo il tam-tam che ha accompagnato Biasutti dopo quel 19 dicembre quando, in consiglio regionale, appose la sua firma in calce a un documento sulla «riforma dello Stato in senso federalista». Federalista come? Come la Germania, ha precisato. E il Friuli - Venezia Giulia? Come la Baviera. La chiosa rimanda alla vecchia amicizia con Franz Josef Strauss, ma anche a una lettura attenta del Grundgeseiz, la «legge fondamentale» della Germania; più ancora, a un approfondimento sostanziale dell'insegnamento dei padri fondatori del suo partito, gli Sturzo e i De Gasperi, alla cui scuola s'è formato e alla cui dottrina si è attenuto da quando ha cominciato a parlare - anni fa di «terza fase* della vita regionale. L'ostinazione e la lucidità intellettuali hanno fatto il resto. Biasutti ha portato in superficie, chiariti, ordinati e razionalizzati, pensieri e proposte che fanno parte della storia dc e della cultura italiana, dal Gioberti in poi. E, con un fiuto che amici e avversari gli riconoscono acuto e gli predicono vincente, li ha attualizzati sul piano politico. Di questo, Biasutti qui parla. E di quanto ci ha detto (mercoledì dell'altra settimana) stralciamo alla lettera alcuni passi. Perché convinti, con De Saussure, che «la parola è la cosa». E. S. Le Regioni sterilizzate - Lei ha parlato più volte d'ammodernamento delle istituzioni. Che cosa intendeva dire? «Intendo dire questo. Siamo di fronte a un Paese fortemente cresciuto, con grandi capacità produttive, ma anche con grandi squilibri e diversità tra zona e zona, categoria e categoria. E quindi un paese che ha bisogno di un altro salto di qualità: ha bisogno, cioè, di approntare servizi e infrastrutture capaci di assicurare una risposta alle esigenze di questa società, fortemente cambiata. La domanda che noi ci poniamo è se questo Stato, cosi com'è organizzato, è in grado di farlo. Noi diSETTEMBRE 1991 ciamo di no, perché questo Stato è condizionato da una mentalità di tipo centralistico, che ha fatto nascere le Regioni e poi le ha sostanzialmente sterilizzate: che ha tutto un apparato di autonomie locali, ma non conferisce a esse reali poteri, reali risorse. Conseguenza: si sta inceppando. Non funziona lo Stato centrale, rischiano di non funzionare le Regioni, soprattutto quelle a statuto ordinario; è in difficoltà tutto il corpo degli enti locali. Insomma, il marchingegno è sostanzialmente logoro». - Il livello di autonomia non garantisce di per sé soluzione ai problemi. Per esempio la Sicilia, che gode di ampia autonomia (speciale) e di entrate rilevanti, non per questo sembra fare buon uso. «C'è un altro fatto, collegato alla qualità della politica. Io non voglio dire cose avventate nei confronti della Sicilia o del Sud. Questo non attiene alle riforme istituzionali: questo è un problema del tutto diverso». - Ma le Regioni, così come sono adesso, e con esse altri enti locali, non hanno responsabilità di spesa. Tutto finisce nel calderone del debito pubblico. «Questo è il problema vero. Oggi abbiamo uno Stato fondato su Regioni speciali e ordinarie. Le prime hanno risorse più o meno adeguate alle competenze. Diciamo che le speciali, al di là di qualche diversità tra la Sicilia e il Friuli - Venezia Giulia, sono strutture in grado di funzionare. Hanno semmai problemi di riverificare determinate competenze. Nel nostro caso, le entrate. La Sicilia ha i nove decimi, noi abbiamo i quattro. Non è che puntiamo al nove, ma qualcosa di più chiediamo. Le Regioni ordinarie vivono invece soltanto di finanza trasferita; cioè non hanno entrate proprie. E quindi non hanno risorse con cui realizzare programmi autonomi. Perciò non hanno neppure le competenze che abbiamo noi, Regioni autonome. In questo contesto, che cosa è successo? E successo che, dopo anni di grosse difficoltà di funzionamento della conferenza delle Regioni (i cui presidenti erano eletti e turno), abbiamo capito di essere giunti al livello più basso di rappresentatività e abbiamo deciso di tentare il salto di qualità. E hanno eletto me ~residente,con un anno di mandato. La mia elezione è stata una scelta politica. «Ebbene in questa sede abbiamo fatto un ragionamento molto semplice, dicendo: portiamo la vicenda sul terreno della politica, quindi cerchiamo di dire ai partiti politici, ai gruppi parlamentari che così come stanno le cose non si può andare avanti, che dobbiamo trovare - tra di noi - una linea capace di . farci superare la diatriba tra Regioni ordinarie e speciali». - In che modo? «Tutti riconoscono il ruolo storico delle speciali: nessuno contesta che le speciali non abbiano titoli storici, economici, etnici, diversità che le rendono tipiche. Per quanto riguarda le ordinarie, invece, la nostra richiesta è duplice: da una parte, responsabilizzarne-le amministrazioni chiedendo anche per queste una compartecipazione erariale, inferiore comunque ai decimi che abbiamo noi; dall'altra, accertare, individuare le competenze, per non duplicare la spesa dello Stato. Nello stesso tempo chiediamo per tutti - vecchia richiesta di tutti gli autonomisti - la capacità di poter usare la leva fiscale». - Coordinandola con quella dello Stato? «Mettendoci d'accordo. La leva fiscale, però, dev'essere manovrata Regione per Regione, cosicchè chi intende offrire un servizio lo fa pagare ai suoi cittadini, si conironta con la sua comunità. Questa è la logica nostra. Ma c'è anche quella delle Leghe. La protesta, sbracata, dalle Leghe, conseguenza d'un malessere, risponde con la proposta d'una confederazione Nord-Centro-Sud parodia d'una dimensione nazionale». Un senato alla tedesca I1 dibattito sull'autonomismo pare entrato nel vivo. Lo misureremo adesso con la verifica di governo, nella quale chiediamo l'inserimento di questo tema, come pare sia avvenuto, nei suoi tratti fondamentali, per quanto riguarda le riforme istituzionali. C'è poi questa iniziativa della Commissione affari costituzionali della Camera che ha fatto delle proposte interessanti, discutibili fin che si vuole, ma finalmente interessanti: soprattutto la determinazione, una volta per tutte, deile competenze dello Stato. A questa si riconduce il tema della seconda Camera, fatto che noi abbiamo sempre richiesto e che è fonte di garanzia del ruolo delle autonomie.. .» - I1 Senato cambierebbe i suoi connotati e la sua funzione? «Cambierebbe natura. C'è chi prevede un Senato eletto dalle Regioni, sul modello tedesco. C'è invece chi chiede sia eletto direttamente, con pari dignità, rispetto alla Camera, ma con funzioni specifiche: le leggi d'indirizzo e le leggi di principio. Comunque, è un tema che finalmente è entrato nel dibattito politico. Su questo tema si sono esercitati in punta di matita, l'altro giorno, esponenti di primo piano della vita parlamentare. Per la prima volta c'è stato un dibattito aperto tra COMUNI D'EUROPA le forze politiche, un dibattito che ha avuto un impatto notevole. Qualcuno ci ha detto: attenti-a non fare fughe in avanti». - E una fuga in avanti aver votato, il 19 dicembre, la mozione Cavaiio e altri in consiglio regionale? «Non ho votato». - Ma ha fimato. «Ho affermato che il federalismo è nel cuore di tutti gli autonomisti. Tutti quelli che credono nell'autonomismo hanno nel cuore il federalismo, nella sua accezione più corretta. Ci rendiamo conto che in uno Stato come il nostro, con venti Regioni, pensare a un loro collegamento federale diventa cosa difficile. Si sono espressi in maniera analoga Trensino - Alto Adige, Emilia, Valle D'Aosta. E la spia - questa richiesta di federalismo - della necessità di un autonomismo molto più forte, avvallato dall'esperienza che stiamo vivendo nel settore della sanità, che mette in chiaro come lo Stato abbia difficoltà enormi nel funzionare e nel mantenersi in equilibrio finanziario. Nella sanità ci sono gravissime difficoltà; noi non nascondiamo errori e responsabilità regionali, ma resta il fatto che lo Stato trasferisce tutte le responsabilità sulle Regioni, senza però dar loro tutti i poteri. Questo è il problema». Noi abbiamo sì il problema delle leghe, ma lo potremmo superare facendo ragionare la gente, facendola riflettere. La lega chiede soltanto di frazionare lo Stato. Sul terreno della serietà delle proposte non si è mai esercitata. Protesta contro le manchevolezze - e fin qui può anche aver ragione - ma, dopo aver protestato si limita a proporre unlItalia divisa in tre. Non è mai entrata nella valutazione vera dei livelli istituzionali e anche del rapporto vero tra Stato e Regione, perché non ha la capacità di scandagliare queste proposte. Io mi rendo conto che questo discorso può essere insufficiente. Mi soccorre l'altro, cui accennavo prima, della qualità della politica. Le istituzioni possono essere disegnate nel modo più perfetto possibile, ma se poi il rapporto tra i partiti - e tra questi e la gente funziona nel modo sbagliato allora non funzionano neppure le istituzioni». Vicini al punto di rottura «Quando sono nate le Regioni, c'è stata una grossa ventata di autonomismo. Ma invece del contestuale processo di ammodernamento delle strutture- centrali, invece d'una Toro raziònalizzazione, ~onstatiamoche i ministeri sono aumentati. E stato creato perfino il ministero per le aree urbane, materia di tipica competenza delle Regioni. Con la scusa che le Regioni non funzionano che sono inefficienti, lo Stato ha accentrato tutto, ma non riesce più a spendere. Se non si cambia, noi prevediamo di arrivare a un punto di rottura. Una rottura pericolosa per questo Paese». - Come per gli enti dichiarati inutili, e poi sopravvissuti ai proclamati scioglimenti, non cè pericolo che, in prospettiva, le competenze delle Regioni si possano sovrapporre a quelle dello Stato? Con esiti esiziali per la spesa pubblica. «I1 nostro problema è definire realmente le competenze. Dello Stato e delle Regioni. Poi le Regioni debbono avere il coraggio di decentrare a loro volta ai Comuni, alle Province». - E come concilia la necessità di contenere la spesa pubblica? «E questo il sistema per contenerla. A competenze ben delimitate si assegnino le risorse, utilizzando il sistema della leva fiscale anche in capo agli enti locali, alle autonomie locali, con ciò responsabilizzando I'amministratore davanti agli amministrati. La sanità è finita nel caos perché pagava a piè di lista. Cost è avvenuto per molti altri settori. Siamo arrivati al punto che il marchingegno non funziona più. La nostra impressione è che si sia giunti al punto limite». - Qualcuno ha detto che lei ha tuato fuori dalla manica questa proposta per tagliare l'erba sotto i piedi a certi autonomisti o per occupare precipitosamente spazi che si sarebbero potuti conquistare la lega o le leghe. «Questa è un'interpretazione riduttiva. COMUNI D'EUROPA Adriano Biasutti, presidente della Regione Friuli Venezia Giulia - Lei dà alla qualità della politica caratura e significato assai innovativi, di rinnovamento radicale. Ritiene che, nel suo partito, quest'impegno sia ugualmente avvertito? «Le dico, con franchezza, di essere un pò preoccupato in questo momento. Quello che era il partito delle autonomie rischia di farsi sopravanzare da altri. C'è una cautela eccessiva, mentre occorrerebbero un atto di coraggio e un rapporto vero con la gente. C'è stato un periodo, nella prima parte della gestione De Mita, in cui queste tematiche avevano g a n d e rilievo: quando l'ex segretario parlava del cambiamento delle regole del gioco e metteva assieme istituzioni e qualità della politica. Oggi mi pare che l'argomento sia stato messo un pò in sordina, anche se noi lavoriamo per far capire ai vertici della Dc che l'inerzia, questa volta, sarebbe colpevole». - Non soltanto ai vertici. Il 19 dicembre lei non fu compreso neppure da qualche suo collega di partito. «L'iniziativa cui lei si riferisce fu un pò improvvisa; c'era un ordine del giorno.. .» - Ma può essere impreparato un partito che pur «L'ordine del giorno era abbastanza robusto. .» - Lei agì d'impulso o per lanciare un sasso nello stagno? «Io intimamente credo al federalismo; ma non credo possa essere realizzato facilmente in Italia. Era una provocazione, una forte sollecitazione». ... ... - Prima, lei ha postulato un compromesso per mantenere d'accordo le Regioni ordinarie con quelle speciali; si tratta di ricercare un analogo compromesso per mettere d'accordo anche i vari partiti? «Si. Mi pare che le cose stiano evolvendo in modo positivo. Le di~tanzenon sono molte. In questi giorni, sui giornali, ci sono dei partiti che fanno quasi propaganda elettorale sul tema delle Regioni. Socialisti, democratici. ..» - Comunisti.. «Comunisti. Qualcuno dice: temono le leghe. Però io noto che il problema non è più soltanto confinato agli addetti ai lavori. Entra nel dibattito corrente tra le forze politiche, le più rappresentative». . Quelle regole antiquate - C'è voglia, lei ha detto, di una nuova qualità deiia politica. Questo vuol dire cambiare anche certi assetti consolidati del potere, certe sclerotizzazioni, per esempio burocratiche? «Si, i partiti hanno regole abbastanza antiquate. Le classi dirigenti nuove emergono con grande difficoltà; quando un giovane sostituisce qualcun altro, meno giovane, si parla di colpo di Stato». - Come si e detto di lei? «Si dice cost di tutti. Si parla sempre di regicidio. C'è poi il problema dei mandati: certo, ci sono gli Andreotti, i Fanfani, i De Mita o i Craxi che possono stare (nel Palazzo, ndr) anche tutta la vita; niente da eccepire, perché sono dei personaggi di grande spessore. Oggi, però, la politica è diventata - quando è amministrazione ben fatta - un impegno sofisticato. Perciò abbisogna di conoscenza, di approfondimento e di competenza». - Lei si è richiamato più volte all'esperienza tedesca, a quella bavarese in particolare.. «Al federalismo. Quello tedesco è un sistema proporzionale con uno Stato federale che assomma le competenze fondamentali, (l'estero, la giustizia, la grande economia). E ha un sistema proporzionale, con una seconda Camera direttamente collegata ai Laender. Però ha lo sbarramento: è un sistema proporzionale con uno sbarramento del 5% e ciò ha consentito la formazione di forze politiche e la loro alternanza; cosa che nel nostro governo, fondato sulle coalizioni, rischia di non succedere». - In Friuli ci sono forze politiche che reclamano un'autonomia più accentuata rispetto a Trieste. Qualcuno pensa a una soluzione modello Trentina-Alto Adige. «E un discorso superato». - Superato nel Nord-Est? Anche a livello regionale. Riproporre le diversità fra Trieste e Udine, che esistono, che ci sono, come elemento di divisione, non significa alcunché. Credo che tutte e due le città come ho spiegato molte volte, possano stare in equilibrio in questa regione. L'importante è che la Regione abbia una funzione, un ruolo, una competenza, le risorse. Questo è il problema. Malesseri esistono anche altrove. Emilia e Romagna prospettanoi diversità di questo genere. Ma non sono questi i fatti capaci di minare la validità di un forte regionalismo». . = SETTEMBRE 1991 la lettura federalista degli anni della perestroika Una antologia del buon senso Quando federalismo signif"1ca chiaroveggenza a cura di M.M. e R.S. La più recente storia continentale è quella che vede al centro del palcoscenico gli avvenimenti dell'Europa centrale ed orientale. Ma è soprattutto la storia dell'affermazione del concetto di interdipendenza planetaria. Colui che ha avuto il merito di riaprire le porte a questo concetto è stato Michail Gorbaciov dando di fatto ragione alle istanze dell'ex dissidente Sacharov. L'antologia che vi proponiamo, non a caso definita del buon senso, vuole offrire ancora una volta la chiave di lettura federalista agli avvenimenti politici che hanno contraddistinto la recente storia sovietica della perestroika. I pericoli, le contraddizioni e le speranze di un'avventura che ha corso il rischio di frantumarsi contro le tre lunghe giornate dell'agosto moscovita, e le chiaroveggenze dei giudizi e dell'analisi politica nelle pagine di 3 annate di Comuni d'Europa. A l centro il concetto di autogoverno contrapposto a quello di autodeterminazione Urgenza e modi di integrare i sistemi mondiali «La politica internazionale delle due superpotenze mondiali (gli Stati Uniti e l'unione Sovietica) deve basarsi sull'accettazione di alcuni principi, chiaramente definiti, che per il momento potremo formulare in questi termini: I. Tutti hanno il diritto di decidere il proprio destino con una libera espressione di volontà. Questo diritto sarà garantito da un controllo internazionale dell'osseruanza da parte di tutti i governi della «Dichiarazione dei diritti dell'uomo». Tale controllo internazionale presuppone sia l'uso di sanzioni economiche sia quello delle forze militari delle Nazioni Unite in difesa dei «diritti dell'uomo». 2. Tutte le forme di esportazione della rivoluzione e della controrivoluzione, sia militari che economico-militari, sono illegali ed equivalgono a un'aggressione. 3. Tutti i paesi si impegnano all'assistenza reciproca nei problemi economici culturali e di organizzazione generale, allo scopo di eliminare, senza turbamenti, qualsiasi difficoltà interna ed internazionale e di impedire un inasprimento delle tensioni internazionali ed un rafforzamento dei gruppi reazionari. 4. La politica internazionale non mira a sfruttare condìzioni locali specifiche per allargare le zone di influenza e creare difficoltàad altri paesi Lo scopo della politica internazionale è quello di assicurare l'attuazione universale della «Dichiarazione dei diritti dell'uomo» e di impedire l'inasprimento delle tensioni internazionali e il rajforzamento delle tendenze militariste e nazionaliste. Il problema della «geogiene» (igiene della tewa) è molto complesso e strettamente connesso con i problemi sociali ed economici. Questo problema non può quindi esser risolto a livello nazionale e tanto meno locale. La salvezza del nostro ambiente naturale esige che noi superiamo le nostre divisioni e la pressione di interessi temporanei e locali. Altrimenti l'Unione Sovietica finirà con l'avvelenare gli Stati Uniti con i suoi scarichi, e viceversa. Attualmente questo sembra soltanto un paradosso. Ma con un aumento annuale del 10% dgli scarichi, in 100 anni l'aumento sarà di 20.000 volte tanto». Riflessione di fine anno (...) Gorbaciov si è reso conto che occorre dare la priorità, nel mondo, ail'unità nella diversità - e quindi dare il congruo potere alle Nazioni Unite, embrione di governo mondiale -: no, per sempre, aila guerra; attenzione comune alla casa di tutti (l'ecologia) - pertanto uno sviluppo comune, giusto e concordato -. In questo quadro si capisce il passaggio dall'idea di violenza, matrice di storia, alla non violenza: è l'addio al letto di Procuste utilizzato da tutte le ideologie, ma non è il pragmatismo che rinuncia all'utopia, ossia al fine razionale ed etico che può essere condiviso da tutti, ma che la sclerotica società [L'A. prevede due possibile alternative per I'umanith, di cui una è la continuazione dell'anarchia internazionale, che conduce ail'annientamento, e l'altra un progresso verso l'ordine internazionale, attraverso la ipotesi di quattro fasi - che dopo una evoluzione del sistema sovietico verso una ((rafforzata democrazia), ed un eventuale pluripartitismo (come alternativa a partiti comunisti che rifiutino, «per una ragione o per l'altra, il ruolo del metodo scientifico democratico richiesto dalla storia),), la convergenza dei paesi capitalistici verso il socialismo, l'applicazione deila tassa del 20% sul reddito nazionale dei paesi sviluppati per risolvere «il problema di salvare la metà più povera del mondo» (e la parailela attuazione del disarmo) - condurrà «aila creazione di un governo mondiale e all'appianamento deile contraddizioni nazionali (1980-2000)»]. -I ,e,"~*",., «Durante questo periodo [la fase quarta e conci usi va^ si possono sperare progressi decisivi nel campo dell'energia nucleare, sia sulla base dell'uranio e del torio sia probabilmente del deuterio e del litio. Durante questo periodo l'esplorazione dello spazio richiederà che migliaia di persone lavorino e vivano continuamente su altri pianeti, sulla luna, su satelliti artificiali e su asteroidi, le cui orbite vewanno modificate da esplosioni nucleari. La sintesi di materiali che sono superconduttori a temperatura ambiente potrebbe rivoluzionare totalmente la tecnologia elettrica, la cibernetica, i trasporti e le comunicazioni. Il progresso della biologia (in questo e nei periodi successivi) renderà possibile un effettivo controllo e una reale direzione di tutti i processi vitali a livello delle cellule, degli organismi, delle ecologie e della società, a partire dalla fertilità fino ad agire sui processi psichici e sul meccanismo della ereditarietà. Una rivoluzione scientifica e tecnologica di questo genere, che promette vantaggi incalcolabili all'umanità, richiederà per essere possibile la massima capacità di previsione e di cura scientifica e interesserà tutti i valori umani di carattere etico, personale e morale. (Ho accennato brevemente al pericolo di un incondizionato uso burocratico della rivoluzione scientifica e tecnologica in un mondo diviso, nella sezione [del libro] intitolata «Pericoli», ma si potrebbero aggiungere molte altre cose). Tale rivoluzione potrà realizzarsi solo sotto una guida mondiale di altissimo livello intellettuale...» Andrei Dmitrievic Zacharov (da Comuni d'Europa n. 3-1972) SETTEMBRE 1991 "m*" i Mss*<4e,*. #a V,*".*rm .,.. S*?~ $1 &. P.*~, o* < I 1- ,sui- .*n<, ,%"I^l:/ ".i'<l;:r,iru p,: *%.,cd,".c ..' ~4" o.h 8. ."".3'.- --. "i*.<. .,. ,." . I , C*-'*.& ue .:l> ,M.. ia,. >*)/,l" L_.,. /*'L> 11 "I" ,.,*%,,://n *i >,"> I "U/l,l",*/% l* .h, 4,.m h & n .r....i..,."ri.r U1(Lii.* ".,l, I.* .. ""/t O"1I,. -,, *.*. ,-,a ,.k:&? ,,*,,a e',?8,,e I<<",>* ""*. i."b ** . &,l- *"U arnrp,, ,* ._e,..* *.allll:. <I<"i,> i ilc*iln: K,.,X1lZ *^. umana non offre a portata di mano. L'utopia, dunque, per la quale dobbiamo batterci: e una utopia che, in definitiva, è il federalismo. Ho citato Gorbaciov, si badi, per quel che ha detto di pensare - che è fondamentale -, non nella previsione sicura del suo successo, che tanto dispiacerebbe ai profeti di sciagure e ai nemici della «imprudente» distensione. Enzo Bettiza, autore non sospetto, ha citato in questi giorni con favore il libro ((Gorbaciov, la trama della svolta» di Fernardo Mezzetti e ne ha riportato con simpatia un COMUNI D'EUROPA passo: {(Indipendentemente da quello che potrà ancora fare, Michail il Segnato si è già guadagnato un posto di rilievo nella storia». Cioè: lanciare da un posto di alta responsabilità, in una situazione che ti ribolle sotto, certe idee è già un'operazione pratica, che incide inevitabilmente - nel successo o nell'insuccesso - sulla prossima storia. (...) Umberto Serafini (da Comuni d'Europa n. 12-1988) Non una fortezza chiusa ma una federazione aperta Negli anni cinquanta il Movimento Federalista (sezione italiana) lanciò un opuscolo intitolato «Cominciare subito». D i fronte a disegni vaghi, pre-thatcheriani, di una «grande» (ma sempre occidentale) Europa, si affermava che è meglio, anche se si tratta di un nucleo pre-federale abbastanza ristretto, cominciare subito: in quel tempo - si badi i disegni settoriali o funzionali di unificazione - d'ispirazione monnettiana - si dichiaravano apertamente strumentali alla creazio- * * ** Ponsacco per l'Europa -. (t -.-W*. m -W, i0-1 e-,". o*.. R ,-,. ..liiop ~i-Lm<.rd.i..).,".*m.t. u.ub>. *n'.M. <n*- aami I ii~r.-brnm.onimi.r~~.~~o~* Riflessione di fine anno (utile anche per il 1989) J/ L&>& ne degli Stati Uniti d'Europa, cioè di una Unione politica federale. Gli inglesi tentarono successivamente a lungo di sabotare i Trattati di Roma (i francesi gollisti, aiutati da Guy Mollet, si contentarono di castrare 1'Euratom rispetto alle proposte di Monnet), adducendo che si danneggiavano l'OECE (!) e il Patto Atlantico; ma poi, dal momento che ormai esisteva un «mercato comune istituzionale» (in costruzione, con l'intenzione di «porre le fondamenta di una unione sempre più stretta fra i popoli europei»), ci ripensarono, piagnucolarono a lungo per entrare bloccati per un pò da De Gaulle, ma non cert o per motivi di rigore federalista - e alla fine entrarono con grandi reiterate promesse, si potrebbe dire adesso «da marinai» (per es. - per non citare gli Stati generali del CCRE a Londra nel 1970 - la Dichiarazione con- giunta italo-inglese sull'Europa - rilasciata dai Ministri Stewart e Nenni - del 28 aprile 1969: «l'integrazione economica e l'integrazione politica sono due fenomeni entrambi essenziali ... nè l'una nè l'altra possono procedere indipendemente ... ecc. ecc.»; questa unità poteva e doveva essere raggiunta con quanti altri Paesi condividessero gli stessi «ideali»). L'esistenza del MEC ebbe una suggestione anche sui sovietici, tanto vero che - dopo una violenta definizione del processo di unificazione come un armeggio anticomunista inventato dalla NATO - si riconobbe, con Kruscev al potere, che una comunità economica europea era, tutto sommato, un portato logico del progresso economico e delle reali esigenze delle parti contraenti (ci pare di ricordare in merito un famoso articolo dell'economista Arzumanian). Da questo punto di vista ancora oggi bisogna «cominciare subito» e neanche fra tutti e dodici i Paesi della Comunità, ma - per usare le parole di Mitterrand - fra «ceux qui voudront» (coloro che vorranno) conferire un mandato costituente al Parlamento Europeo e non costruire solo l'Europa dei mercanti che potrebbe corporativizzarsi e diventare senz'altro una «fortezza chiusa» - quanto piuttosto e senza riserve una Unione politica democratica: solo una Unione sovranazionale democratica può avere un significato positivo, durevolmente positivo, per l'Est europeo, per la grande, grandissima Europa e - diciamolo - per la costruzione della pace a livello planetario. C'è per l'altro un «ma»! Solleva, oltre che ironie ben risposte, anche un ragionevole sospetto un proclamarsi fautori della patria europea, concorde e democratica, e non preoccuparsi simultaneamente - metà della Germania, quella a ovest, si invita a costruire questa retorica patria - di una chiara e impegnata (il che non vuol dire rinunciataria, ma semplicemente onesta) Ostpolitik europea. Chi scrive crede di essere stato il primo (cf. Sergio Pistone, «La Germania e l'unità europea», cap. «Dalla dottrina di Hallstein alla Ostpolitik», Napoli 1978) a porre il problema in una grande assise europea, gli Stati generali del CCRE, non a caso tenuti a Francoforte sul Meno, nell'ottobre 1956. I n questo senso l'editoriale di Pelikan, che pubblichiamo in questo numero, non ha cento, ma mille ragioni dalla sua. L'Europa - I'unità di una parte dell'Europa occidentale - non può, in un mondo sempre più chiaramente interdipendente, limitarsi ad essere «un buon affare»: servono le istituzioni democratiche, serve un primo nucleo federale europeo, che deve rispondere in partenza alla classica domanda «l'Europa per che fare?». Giustamente i federalisti italiani si accingono a tenere, a marzo a Roma, il loro congresso nazionale al lume delle due irrinunciabili parole d'ordine: unire l'Europa per rinnovare la democrazia; e unire l'Europa per unire il mondo. Sotto questo profilo l'Unione europea non crea un abisso rispetto al resto dell'Europa e del mondo, ma getta un ponte, sul quale transita una fraterna proposta. U.S. (da comuni d'Europa n. 2-1989) Su molti fronti Urgenza della democrazia documento npprovato nli'unanitnità &l ConrigLio nazionale delI'AfCCRE il 27 otiobre 1989 I1 grande moto di liberalizzazione e di riforma, che vede come protagonisti i popoli dell'Est europeo, ha il suo motore e le sue prospettive positive nel processo avviato nell'Unione Sovietica: è in definitiva a quest'ultimo che bisogna anzitutto guardare per favorire la stabilità della distensione, un radicale disarmo, l'avvio a una profonda cooperazione internazionale, in una parola «la pace». Non si tratta quindi di incoraggiare l'autodeterminazione - che in questo caso potrebbe significare piuttosto secessione e rinascita di vetero-nazionalismi - dei singoli Paesi dell'Est e, peggio, delle comunità nazionali all'interno dell'URSS quanto di stimolare e aiutare la loro democratizzazione e il loro autogoverno e, complessivamente, la trasformazione dell'URSS d a federazione solo formale in federazione reale, che è la via maestra offerta a Gorbaciov per uscire dalle enormi difficoltà attuali ed evitare il passaggio dal centralismo autoritario alla balcanizzazione. Ma quale influenza esemplare e quale coerente rapporto potrà avere con tutto il processo dell'Est un'Europa volta solo a una maggiore affermazione economica e una maggiore ricchezza - insomma la cosiddetta Europa dei mercanti - e incapace di divenire essa stessa Unione politica e democratica? I n pari tempo e coerentemente il buonsenso e l'intuito della gran massa dei tedeschi si rende conto che una soluzione razionale e possibile al problema della separazione della Germania non si pone come alternativa al processo di unificazione europea: questa, al contrario, crea il contesto agibile per risolvere il rapporto con la DDR. I n sostanza la prospettivazione di una «grande casa europea» non deve essere l'alibi degli «occidentali» per rallentare la creazione di un primo nucleo federato all'ovest (l'unione Politica Europea) e per appoggiare i nazionalismi all'Est e tale da distogliere la Germania di Bonn dalla realtà SETTEMBRE 1991 politica sovranazionale, paga del suo successo economico e succube di una minoranza interna nostalgica se non razzista - che ha del resto un corrispettivo reazionario in quasi tutti gli altri Paesi della Comunità (. ..). (da Comuni d'Europa n. 11-1989) La bussola nella burrasca (...) Il federalismo sembra un'utopia, ma invece guarda in faccia la realtà; e preferirà ridivenire minoranza, se si vorranno ripetere errori scontati. Ma diremmo subito che, di fronte alle buone novelle dell'Est, gli europei occidentali non possono permettersi di continuare a percorrere le vie del passato. Incipit vita nova. La prima guerra mondiale non aprì abbastanza gli occhi ai pastori dei popoli, nè modificò la sostanza arretrata di molte ideologie: la guerra si continuò a considerare «inevitabile»; l'autoderminazione dei popoli fu considerata ancora un principio inattaccabile; la democrazia non fu considerata un sistema da estendere effettivamente ai rapporti fra gli Stati; la Società delle Nazioni che ne scaturì non ebbe poteri. La seconda guerra mondiale ha di nuovo tradito quelle che potremmo chiamare le attese dei popoli e la logica delle realtà: ma una lunga guerra fredda ha forse insegnato più cose di quanto si potesse immaginare. L'equilibrio del terrore ha fatto cambiare molte idee sulla guerra; i disastri ecologici, la fame nel mondo, le emigrazioni forzate, la bomba demografica, le paurose guerre calde locali hanno rappresentato il resto della lezione. Le vittorie statuali o ideologiche devono far posto all'unità nella diversità: cioè il persistere delle diversità senza la priorità dell'unità, oltre ad essere il principio su cui si regge ogni nazionalismo (right or wrong, my country) rappresenta quell'anarchia internazionale che può precedere la fine del mondo e della storia. L'anarchia odierna, infatti, ha un terribile alleato: la razionalizzazione tecnologica. La razionalizzazione al di là o al di fuori della ra- e"_ .,I.* "..*" - lP*U.lk * Y . -_( *. &Ak.~%-.0 m *W' k -*r,-wn.idrLlx. i ia.r5..*rx rn*m*"uiwn*l .ahtrrW.ahins"ui~li r.b.a4u*%<b-rrb-r,.*>iun"".@r-i - -ai <iWl ua .a* M*un<pri."dr,&u --<-ar r.xri," .o,.-&- -- **~,* --*. *"" nai<l--b , wsr.'rdi rrM z4'IX*I. 1-r. e I "uail" "i"". *l i s % lq.rr* b * -wk*-.-*~"=eia*ra. <od-x-"u i, di r.il.w&"li-LnL..a..rXI ' -*,m b ~ " ~ - e e ".air.ii.iry..m.&l.ra>"* n*d3'.."udr,r.lluM.*I -"rLar h."-- ."a**a U.arir<irar.ripU-rw- , .- IwVIW>.-LY>" DIm M r r . ii*oix<**rnin<" .Caanr a* <."ir-kprlxrlrnph 'Luii- .-**&_-SI _UDI <~ , ~ c * ~ c e .riarxalbnarllrrm ~ ~ , a ' - *v'.xls"*?4*#tr*'a.r* ~&~.d~l*iW..c~". -*. -- ..*h7Ad.CclY1111X p c _ X ~ < I I U <* m ~ Y " * n o r ~ . .I ^m- -'.',M"~L*-rrii"m,mLMX Yrurr.mim.-i ridirr---b.-,isr h * W p , h U - . .~WW"LL~M."~.S%~VC -."nr->.Ci4aUY. M -*iFLn.*&Ll*.XI-r iriuabdMi"ii#",m-L erur>.a.n-. -*..i~a--n**Sa ----*.&,*iurnilM1 i SETTEMBRE 1991 ~ ~ gione ha portato ad abnormi crescite «settoriali~,che contrastano con la stessa abitabilità del pianeta. Non ci si può quindi neanche abbandonare alle cosiddette leggi di mercato: il mercato è un indice necessario, una forma di referendum permanente, uno strumento ausiliario, ma la cooperazione sovranazionale va guidata, va governata. Agli accordi contingenti - nei quali il forte diventa più forte occorre via via sostituire le istituzioni permanenti, multinazionali e sovranazionali. La lotta per le libertà e la giustizia aiuta la creazione delle istituzioni federali, nazionali e sovranazionali: le istituzioni federali permettono a loro volta la tutela di tutte le libertà e l'avvio all'eguaglianza. Non a caso l'imperialismo del Regno unito ha impedito, dopo il primo slancio liberale, che il Commonwealth britannico si trasformasse in una Federazione. Al di là, quindi, di ogni giuoco di equilibri, che offre soluzioni facili, provvisorie e parziali ma a portata di mano, bisogna verificare se il «parziale» di oggi sembra coerente con la via che ci porta al fine ultimo e sostanziale oppure rappresenta la deviazione o lo scantonamento per una strada alternativa. E poi tout se tient: ossia - guardando sempre al fine lontano occorre verificare come scelte su singoli punti concordino fra di loro, diano un frutto per i successivi sviluppi federativi. Altro che pragmatismo! (. ..) Spesso abbiamo invocato l'impegno per una Ostpolitik europea dei Paesi della Comunità, che lasciavano sola la Germania ad affrontarla: ora è il momento di chiamare la Germania (occidentale) a non limitarsi al problema tedesco e alle sue giustificazioni, ma nella sua qualità di componente essenziale della Federazione europea in fieri - a pronunciarsi con noi sul domani di tutto l'Est europeo, dell'urss e della «Casa comune europea». Ecco, la democratizzazione dei paesi exsatelliti del17Urssdeve convergere con la mutazione dei rapporti del Patto di Varsavia nei riguardi della NATO e con la concessione di un adeguato autogoverno alle comunità nazionali all'interno dell'URSS - cioè con 1'URSS che diviene una Federazione autentica -. È una prospettiva grandiosa, ancora incerta, che va aiutata coerentemente. Gli entusiasmi vaghi per la «Casa comune europea» non servono; così come hanno la loro parte di pericolo i rapporti dei singoli Stati dell'Europa occidentale con i Paesi dell'Est «liberati». I1 motore a occidente è il procedere esemplare dell'unione politica (a dodici o a undici); a oriente è il trionfo della perestroika. La «Casa comune» può coprire molte ambiguità: non ha niente a che fare, comunque, con una larga zona di libero scambio o altri accordi, che la CEE può opportunamente concedere a Gorbacev; non può nascondere un'alternativa a una completa integrazione economica della CEE (e anzi vale qui la pena di citare sagge parole di Genscher: «I Paesi che vogliono aderire alla CEE devono essere disposti a percorrere con noi il cammino dell'unione politica»); non può ricacciare gli americani di là dall' Atlantico proprio quando hanno ricominciato a capire il valore del processo federativo europeo; non deve, infine, distogliere noi tutti dal problema del Terzo Mondo e dalla lotta contro un imperialismo economico occidentale, che talvolta fingiamo di non vedere. I1 problema dei problemi è tutto lì: fare avanzare il federalismo e organizzare la pace permanente nel mondo. L'Europa, grande o piccola, è solo un corollario. Argo (da Comuni d'Europa n. 12-1989) *" qua,\,sr* ",la .eg,pin cor u n i CI">,i1^*"UiEW" .-*e Per 1'AICCRE e per tutto il CCRE il 1990 è un anno di gravi responsabilità. Questa non è l'affermazione un po' retorica che si fa all'inizio di ogni nuovo anno. Non è neanche l'effetto - o soltanto l'effetto - della rivoluzione riformatrice (si può dire così?) avvenuta al13Esteuropeo. È soprattutto la consapevolezza che su gravi problemi preesistenti si sono sovrapposti i problemi dell'Est europeo, i quali debbono essere collocati nella nostra strategia democratica e federalista, e non farcela dimenticare o stravolgere: l'entusiasmo per quel che è successo all'Est - giusto entusiasmo - non ci deve impedire di affrontare razionalmente una situazione, che tutto sommato noi abbiamo previsto e auspicato - anche se tutto è avvenuto assai più rapidamente, apparendoci come una valanga -, quando alla chisura del 1988 abbiamo salutato come un'affermazione epocale e decisiva quella di Gorbacev, che cioè il Mondo è composto da Paesi interdipendenti, e l'organizzazione di questa interdipendenza - certamente in modo democratico - è più importante della vittoria delle rispettive ideologie. Su questo criterio unitario, e non sul vecchio criterio della semplice attenzione a conservare gli equilibri - finché è possibile -, va riorganizzato il Mondo: sempre che si tenga simultaneamente conto di una nostra coerente preoccupazione - preoccupazione di tutto il CCRE -, COMUNI D'EUROPA che è quella, di mano in mano che si affermi la gestione sovranazionale, della creazione dei contrappesi nelle varie forme di autogoverno a tutti i livelli e nel rilancio della democrazia locale, 'col pieno rispetto del principio di sussidiarietà. Oggi il contributo dell'Europa a superare l'anarchia del Mondo e a costruire stabilmente la pace è dato anzitutto da due motori: il progresso nell'unità politica dell'Europa dei dodici - primo nucleo esemplare di federazione sovranazionale nel continente - e il successo della perestroika, con tutte le conseguenze inerenti - la soluzione dei problemi della nazionalità interni alI'URSS col passaggio da una federazione nominale a un sistema federale reale; la trasformazione del Patto di Varsavia (e della Nato), da una organizzazione militare a uno strumento politico per portare avanti il disarmo; non la dissoluzione del COMECON ma la sua evoluzione in una associazione paritetica di cooperazione economica fra più Paesi dell'Est aperta ad accordi con la C E E e col resto del mondo; la convertibilità del rublo; eccetera (...) mocratico, e che si volevano rendere reciprocamente inoffensivi, strutturalmente inoffensivi, con la gestione comune di due minerali essenziali per l'economia ma anche - specie ancora allora - per fare la guerra: ma la CECA, come poi l'EURATOM e il MEC, valevano essere un embrione, anche territorialmente aperto a tutte le adesioni di popoli, che volessero e anche - certamente - potessero unirsi per la libera scelta. Non era una provocazione, quella di Monnet, ma un invito: «Come potranno continuare a minacciarsi la guerra i due blocchi», diceva il grande funzionalista (che peraltro mirava ad un capolinea federale), «se pare inevitabile che si mettano (redazionale) (da Comuni d'Europa n. 1-1990) Europa piccola, grande, grandissima Gli sconvolgenti eventi del Centro e dell'Est Europa hanno in più casi contribuito, con la proposta della Casa comune, a confondere le idee sulle dimensioni dell'Europa. I più vecchi ricorderanno (ora queste cose si studiano nelle nostre scuole sempre di meno) che, agli inizi del nostro Risorgimento italiano, molti patrioti si adiravano, giustamente, perché l'Italia era considerata una «espressione geografica». Ora non è l'Europa «espressione geografica» che ci interessa: ma qualsiasi dimensione della nostra Europa pensiamo che sia da valutare in funzione della qualità della sua consistenza politica. La «grande Europa» - dall'Atlantico agli Urali - di De Gaulle non era in realtà grande, perché essa - l'Europa delle patrie - era in realtà molto piccola, assai più piccola della «piccola Europa» di Jean Monnet: essa combatteva quel poco di Europa sovranazionale che si voleva costruire funzionalmente, perché voleva che la «piccolissima» nazione tornasse intangibile, a fare da perno al sistema europeo come a qualsiasi sistema. Ma perché la «piccola» Europa era piccola? Dipende. Quella di Churchill - che non era poi tanto piccola - aveva i suoi limiti, perché essa era strumentale: di là i comunisti, di qua gli anticomunisti, e inevitabilmente rientrava nella filosofia dei blocchi, senza uno spiraglio, una promessa, una scommessa per l'avvenire. Quella di Jean Monnet, che cominciò con la CECA - se gli inglesi non vollero aderire, si vada a domandare ad essi -, si rivolse prioritariamente a due Paesi Francia e Germania -, che erano stati due volte all'origine di un conflitto mondiale e ora (si badi) avevano entrambi un regime de- d'accordo per conquistare insieme la Luna?». E al tempo di Krusciov un economista sovietico riconobbe su una nota rivista internazionale di ispirazione orientale: «I1 MEC non è figlio della NATO, ma è una esigenza obiettiva di economia di scala di Paesi di grandi capacità tecnologiche». Comunque agli inizi degli anni cinquanta un amico di Spinelli, Aldo Garosci, scrisse un opuscolo - fautore di un immediato, piccolo nucleo federato europeo (la piccola, piccolissima Europa) - intitolandolo «Cominciare subito»: cominciare, appunto, per non finire qui. Oggi si parla spesso, in maniera incerta se non ambigua, di grande Casa comune europea: si pensa ai suoi motori? I suoi motori non possono essere che tre. Uno: l'Europa (piccola) dei mercanti non cessi di unirsi, ma si unisca democraticamente, subito e in maniera esemplare. Due: Gorbaciov, malgrado gli ostacoli tremendi di ogni genere, continui la trasformazione di una federazione sulla carta in una federazione reale - una impresa immensa, che può regalare un contributo definitivo alla pace del mondo -. Tre: i Paesi «liberati e liberatisi» del Centro e delllEst europeo non tornino alle risse del nazional-liberalismo (ammesso e non concesso che la loro tradizione pre-comunista fosse per tutti di effettiva democrazia), cioè non tornino al torbido «dopo Versailles», ma collaborino questo sì - alla costruzione «sovrannazionale» della grande Casa comune. In questo quadro - ecco il punto - occorre affrontare con le idee chiare la Helsinkj 2. Argo (da Comuni d'Europa n. 3-1990) Non moltiplicare i confini ma superarli (...) Più che mai, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, è richiesta nella fase storica presente una forte tensione ideale verso obiettivi di convivenza pluri-nazionale, di culture ed ordinamenti pluri-etnici, di nuove forme di autonomismo e di federalismo. Oggi - giustamente - molti popoli non si riconoscono più nei confini e negli stati nazionali loro imposti, e quindi vacillano i tabù più solidi dell'attuale diritto internazionale: la definitività e l'inviolabilità dei confini, la sovranità nazionale, la presunzione dello Stato «nazionale». Un popolo, uno stato, una ]ingua, una cultura, magari una religione ...: tutto questo regge sempre meno, anche perché con evidenza non potrebbe essere dato a tutti, e la stessa disputa su chi abbia diritto di considerarsi una nazione la dice lunga. Le risposte a queste rivendicazioni teoricamente potrebbero essere di due tipi: spostare («correggere») i confini, nel tentativo disperato di renderli più «giusti» e più rispondenti alla realtà etno-linguistica ... o invece tendere ad abolirli (superarli); moltiplicare le sovranità nazionali (e quindi gli ordinamenti statuali) nel tentativo di dare a tutti i popoli un loro Stato, o invece tendere a decentrare sovranità ed autogoverno a comunità locali in forme meno «stataliste»; tentare di eliminare le differenze per preservare l'«unità nazionale» intesa come sorta di omologazione, o invece valorizzarle in strutture accoglienti per una pluralità di etnie, culture e lingue; rivendicare autodecisioni come atto unico e referendario per decidere sul proprio assetto statale o sviluppare invece il massimo di reale autodeterminazione diffusa e quotidiana; esaltare le indipendenze e le sovranità nazionali, o procedere verso forme di federalismo e composizione sovrannazionale e sovra-statuale di convivenza tra popoli e tra persone. Proprio la nostra piccola esperienza sudtirolese, nella quale le forze inter-etniche hanno lavorato da molti anni - e contro corrente - non solo per la conciliazione tra comunità etno-linguistiche differenti, ma anche per elaborare visioni autonomistiche all'altezza di questa situazione, ci ha insegnato quanto illusoria e generatrice di nuovi conflitti sarebbe la prima delle due soluzioni teoriche: riaggiustare i confini, spostandoli, e superare gli stati nazionali, moltiplicandoli, non è una soluzione di pace, ma sarebbe la premessa di molti nuovi lutti e di sicure insoddisfazioni. SETTEMBRE 1991 Al contrario gli stati nazionali di oggi sono al tempo stesso troppo piccoli (e ritagliati spesso male) e troppo grandi (e ritagliati spesso male) per garantire efficacemente il buon governo dei popoli e la pace tra essi. Ecco perché occorre superarli verso il basso (con nuove e ricche autonomie) e verso l'alto, con ordinamenti federalisti sovrannazionali, come in Europa si sta faticosamente sperimentando. Alexander Langer (da Comuni d'Europa n. 4-1990) &C noi amiamo 5 LI-". -iM Autodeterminazione e autogoverno Afferma giustamente Konrad Lorenz (in «Der Abbau des Menschlichen»): «Lo spirito umano ha creato situazioni nuove, che la disposizione naturale dell'uomo non è ancora preparata ad affrontare. Molte norme del comportamento (sia norme dettate dall'«istinto», cioè geneticamente programmate, sia norme prodotte dall'evoluzione della cultura) che in un recente passato erano ancora delle virtù, producono oggi conseguenze rovinose». Ma lo stesso Lorenz osserva: «Molti uomini credono che il corso della storia universale segua un cammino prestabilito, diretto verso una meta già fissata. In realtà l'evoluzione della creazione organica si compie per vie imprevedibili. Sia la nostra fede nella possibilità di una evoluzione creativa, sia la fede nella libertà e soprattutto nella responsabilità dell'uomo si fondano sulla consapevolezza di questa verità». Gli uomini e molte delle culture correnti non sono preparati a sentire «con animo perturbato e commosso», per dirla con Vico, e a ragionare «con mente pura» in vista di una società planetaria formata da paesi interdipendenti come mai è successo dalla preistoria ad SETTEMBRE 1991 oggi. La lotta per l'assoluta indipendenza nazionale o per la spasmodica difesa della propria etnia, gelosamente chiusa ai rapporti costruttivi con le altre etnie, vengono ancora considerate virtù - anche se sempre più in maniera dubbiosa: ma dubbiosa per motivi di opportunità più che morali -. Di qui la confusione frequente fra due concetti: I'autodeterminazione (selfdetemzination) e l'autogoverno (selfgovemment). Autodeterminazione vuol dire alla lettera «libera scelta del proprio ordinamento», ma oggi viene abitualmente intesa come «libertà di secessione» da un ordinamento sovraordinato e sgradito. Insomma libertà di lasciare un complesso sovrannazionale o superetnico e fare parte per sé, prescindendo da qualsiasi dovere che vada al di là dei propri confini (e talvolta, irragionevolmente, anche da qualsiasi interesse, che anch'esso sconfini) e rimanendo sul terreno - diciamo cosi, - di un diritto soggettivo, senza preoccuparsi di difendere e affermare il proprio diritto entro il complesso precedente, sino alla più che lecita richiesta di riformarlo radicalmente, in accordo democratico con le altre sue componenti (nazionali o etniche). Autogoverno, con evidenza, significa «libertà di governarsi da sé», ma generalmente viene considerato come corrispettivo di «autonomia», che è una facoltà di dettare norme nel proprio ambito per tutto quello che è contemplato dal principio di sussidiarietà, tenendo tuttavia conto, appunto, di norme sovraordinate - emanate ovviamente in termini democratici - su problemi che a livello superiore abbiano una soluzione complessivamente più razionale, cioè ottimale; e senza trascurare che, a tutti i livelli, si afferma un'interdipendenza, che non può (o non deve) essere rescissa o comunque non riconosciuta: in parole povere le autonomie, territoriali e non, alle soglie del Duemila non sono quelle del secolo XVIII e neanche del XIX. Insomma oggi difese «disperate» e isolazioniste della nazione o dell'etnia non solo non sono realistiche, ma non rappresentano neanche una virtù, anche se compiute con rilevante sacrificio. Richiedere invece la democrazia e, se vogliamo, la struttura federale al livello sovraordinato rimane, ancor più che per il passato, non solo un diritto, ma un dovere. Come è un dovere correlato battersi per la pace, contribuendo ad organizzarla: anzi è la virtù odierna per eccellenza, accanto al salvataggio - per il bene di tutti e di ciascuno dell'ecosistema planetario, e all'impegno autentico per una distribuzione equilibrata non secondo la rapina attuale da parte del Nord ai danni del Sud - dei beni della Terra. Nel libro citato Lorenz ricorda Aldous Huxley («Brave New World» e «Brave New World Revisited»). Ebbene, l'avvio al necessario governo mondiale - che non è impossibile, come non è impossibile la scomparsa della guerra, del fenomeno empirico chiamato abitualmente «guerra», ritenuto invece inevitabile e insopprimibile da qualche filosofo tardo-romantico -, questo avvio non è peraltro sicuro. Sicura è l'alternativa: il declino dell'uomo, la sua «demolizione» (è 1'Abbau di Lorenz). Ma i1 governo mondiale presenta anche il rischio di una tirannia mondiale - ipotizzata in «Brave New Worldn -, di una pianificazione genetica totalitaria, di omogeneizzazione «stalinista» dell'umanità: frattanto il villaggio globale nel campo dell'informazione e il mercato «orientato» da lorsignori nel campo dell'economia rappresentano un'altra forma di «demolizione» dell'uomo, l'uomo dotato di una «sensibilità per i valori, per la bontà, per la bellezza», per richiamare ancora una volta Lorenz. Allora i concetti correlati di «autogoverno» e di «autonomia» acquistano un valore non completamente nuovo nel pensiero degli «autonomisti», ma certo ancora più attuale: quello di un irrinunciabile contrappeso a ogni centralismo oppressivo ed anche di un perenne elemento di base di rilancio delle libertà individuali sempre che le autonomie siano all'altezza di una società complessa e schiacciasassi, e quindi, contro tutti i monopoli, offrano ai cittadini gli strumenti di base di espressione democratica e permettano la restaurazione della «politica» in senso etico (l'interesse generale), difendendoli dall'invasione corporativa (o neo-feudalesimo dell'èra supertecnica). Non nascondiamo che tutto quello che abbiamo detto fin qui rientra nella strategia del federalismo: il quale - oltre e prima di tutto - insegna che l'educazione alla civiltà consiste nell'essere - e sentirsi - diversi ma saper vivere comunque sotto una legge comune; anche perché ogni diverso da noi non insidia la nostra tana ma può arricchirci spiritualmente e - perché no? - materialmente. Rivediamo dunque alla luce del federalismo e non per ragioni di «opportunità» i giudizi incerti e titubanti che si danno ogni giorno sulI'indipendentismo lituano, sulle «leghe» regionaliste, sugli integralismi religiosi (che non sono un «più puro spirito religioso»). Affrontiamo alla luce del federalismo il problema COMUNI D'EUROPA del razzismo, che richiede soluzioni locali e simultaneamente planetarie (Nord-Sud). Per cominQare - ecco il punto - chiariamoci bene i concetti distinti di «autodeterminazione» (che è, a detta di Walter Lippmann - «U.S. War Aims» -, matrice dell'anarchia internazionale) e di «autogoverno» Argo (da Comuni d'Europa n. 4-1990) Da Vladivostock a San Francisco Prima dell'incredibile 1989 Joseph Preston Baratta, coordinatore dell'ufficio delle Nazioni Unite della World Association of World Federalists, ha scritto un breve saggio, che la rivista «I1 Federalista» ha pubblicato in italiano nel n. 1 del 1987 (e che noi ringraziamo per il permesso che ci ha dato di riproduzione): «I1piano Baruch come precedente per il disarmo e per i1 governo federale del mondo». Nel giugno 1946 gli Stati Uniti si trovavano a negoziare con Stalin: ora si trovano a negoziare - e l'Europa occidentale con loro con Gorbaciov. Gorbaciov, che va anzitutto e soprattutto chiamato in causa per la teorizzazione dell'interdipendenza planetaria, può cadere e comunque riserbarci sorprese. Gli Stati Uniti (d'America) non hanno più quel potere egemonico che avevano nel 1946. Ma 1'URSS - Gorbaciov o no - non è più e difficilmente tornerà ad essere l'impero compatto dei tempi di Stalin: forse, in un momento di convulsione interna, potrebbe rappresentare all'esterno una minaccia di guerra atomica, ma non avrà più la capacità (anche teorica) di minacciare agli europei una guerra convenzionale (sempre che gli europei non facciano di tutto per rendere tale ultima minaccia credibile). Gli Stati Uniti, a loro volta - salvo i difensori di ben identificabili interessi costituiti -, si sono convinti della irrazionalità della progettazione di una cosiddetta «guerra stellare»: uomini come Mc Namara - che non è un fratello americano di Carlo Cassola - già a suo tempo hanno bollato tale prospettiva. Inoltre, dal 1946 a oggi, non si è realizzata l'Europa unita e vagheggiata pour cause da Fullbright e sottintesa dall'iniziativa del piano Marshall, ma, se vogliamo e malgrado la vergognosa esitazione di Dodici (dodici) governi nazionali - e di molti partiti presunti democratici e «internazionalisti» -, I'abbiamo a portata di mano. In un mondo così diverso una lucida ragionevolezza dovrebbe portarci a capire che - entro certi limiti il negoziato e il patto proposto dal Piano Baruch è tra le cose oggi possibili: se ne rendono conto gli scienziati americani, sovietici, europei, talvolta cinesi che annualmente si recano ai Seminari di Erice in Sicilia. . I1 grosso della tecnologia specifica e dell'armamentario atomico - quello nei «magazzini» e quello agevolmente riproducibile - e anche il grosso delle industrie che possono produrre le nefandezze idonee per la guerra chimica e batteriologica, nonché i mezzi per «servirsi» di tutto ciò, si trova nello spazio tra Vladivostock e San ~rancisco.Perché non negoziare? Perché non avanzare un piano in qualche modo analogo a quello del 1946 ma in situazione diversa e tanto più favorevole? (Ripeto: rendiamoci conto, con autentico realismo, dei mutati rapporti in fatto di guerra convenzionale.. . 0 temiamo l'esercito ukraino?). Certo: c'è il Sud del mondo. Una corretta impostazione del confronto Est-Ovest lascia aperto il terribile confronto Nord-Sud. In tutti i sensi: bellici, sociali, sociali legati ad aspetti bellici. Per ora, dunque, niente «pace perpetua», rilancio sbilenco delle Nazioni Unite, nessun avanzamento e forse un salvataggio assai limitato della democrazia; e quindi niente rapporti «democratici» tra tutti i Paesi del Pianeta. Ma questo secondo problema non è un buon motivo per non affrontare il primo: la cui soluzione, fra l'altro, implicando una lotta senza quartiere contro tanti vested interests e tanti pregiudizi, ci renderebbe anche più preparati e disponibili ad affrontare squilibri economici mondiali, bomba demografica, Sud e intero Terzo Mondo, fondamentalismo islamico, preoccupazioni cinesi, neo-nazionalismo del Pacifico. I1 federalismo è ragione e decisione a non contemplare la ragione, ma ad agire «secondo ragione». Senza alcuna certezza di successo, beninteso. Mi dànno quindi fastidio i libri «sociologici» come quello di Robert Gilpin, «Guerra e mutamento della politica internazionale» (Bologna, 1989), che nell'incertezza del «successo» - incertezza che senza dubbio esiste - non tiene conto della imprevedibilità del buono o del cattivo uso che gli uomini faranno della ragione. Gilpin così moderno, Gilpin così aggiornato - ammette senz'altro l'interdipendenza economica del pianeta, la sovranazionalità delle esigenze ecologiche, ecc. ecc. -, poi si rifà a Tucidide e alla guerra del Peloponneso per ciò che concerne la presunta psicologia umana e le relazioni internazionali; e constata, non con spavento od orrore, ma con burbanza sociologica, la montante marea del nazionalismo un po' da per tutto. Ma è verissimo: senonché sta a noi studiare il fenomeno per individuarne le cause e anche per ammettere le nostre responsabilità. Non si tratta, insomma, di «leggi dello spirito»: c'è di vero soltanto che moralità media e istituzioni politiche sogliono avanzare come le lumache di fronte alla catastrofica velocità del cosiddetto progresso tecnologico. Chi non vede, d'altra parte, accanto a un discutibile amore per «la libertà», il neonazionalismo, il razzismo, l'etnicismo scatenato nel Centro e nell'Est d'Europa? Chi non vede una balcanizzazione alle porte? Ma non c'è niente da teorizzare: succederebbe tutto nello stesso modo se gli europei occidentali procedessero compatti e rapidi verso 1'Unione politica e democratica? I1 destino, caro lettore, è nelle nostre mani, non in quelle dei sociologi di seconda categoria o dei ministri improvvisati che ci considerano «sognatori». Sono loro a esser piuttosto dei camaleontici cretini - o, se vogliamo esprimerci in termini più sofisticati, degli idioti polimorfi - (oltre che probabilmente degli immoralissimi schiavi del loro piccolo, immediato successo quotidiano, impazienti, saputi e frivoli). Riflettiamo dunque, per quel che può ancora valere, al Piano Baruch. Qualche lettura utile? Un libretto semplice per ripassare, con sufficiente onestà (tutto relativo), un po' di storia è «Da Yalta alla Perestroika» dello specialista Giuseppe Mammarella (Bari, 1990). Un altro, utile per conoscere, almeno in parte, un po' dell'articolato pensiero americano su fatti internazionali (ha anche, in fondo, una ricca e comoda bibliografia), è la raccolta a cura di Elena Aga Rossi intitolata «Gli Stati Uniti e le origini della guerra fredda» (Bologna, 1984): libri così fanno bene sia a certi atlanticisti acritici, che non valgono più di quattro soldi, sia a certi «studiosi» usciti di recente dal culto del socialismo reale, ma succubi ancora delle vecchie sedimentazioni (parlano del Trattato della CED - Comunità europea di difesa - come fossero a un comizio del 1952 o '53 contro il «fascismo» di De Gasperi o magari di Altiero Spinelli). E poi (perché non leggerlo?) c'è il libro «La casa comune europea» di Mikhail Gorbaciov (Milano 1989): ricordo l'abominevole aria di sufficienza con cui un conservatore italiano (dico «conservatore» così non scontento nessuna testa d'uovo della partitocrazia nazionale e nazionalista -) lo presentò in occasione di un premio letterario. È una raccolta di articoli, discorsi, scritti vari, semplici e coraggiosi: ma parecchi astuti politici e acuti politologi ancora pensano che ci sia sotto la fregatura. O mi sbaglio? (...) U.S. (da Comuni d'Europa n. 7/8-1990) SETTEMBRE 1991 Federalismo e confederalismo (.. .) «altro è il caso. .. del federalismo di facciata, dietro al quale si annida la triste realtà del partito unico come nei paesi che stavano "oltre cortinaM»:qui in realtà non si tratta di federazione, nel senso che senza democrazia o con una democrazia assai parziale il federalismo è cosa diversa da quello di cui stiamo discutendo, anche se il nome resta lo stesso. In questi Stati totalitari, nominalmente federali, a parer mio si può anche ipotizzare siamo sul terreno delle opinioni - che occorra reculer pour mieux sauter, cioè retrocedere ad una confederazione di parti che, sciolte da vincoli, si democratizzino più agevolmente, per poi - aggiungiamo noi - riproporsi un progresso verso un'autentica federazione, magari allargata ad altre componenti o decurtata di alcune delle vecchie. Ci sono dei vantaggi e dei rischi, ma - perché no? - è pur sempre un'opinione che risponde ad una logica. Per altro La Pergola non si ferma qui (. ..) [egli aspira a un neo-confederalismo come obiettivo ultimo e supremo] dopo giorno quel po' di indipendenza che ci è rimasta e non siamo garantiti da una federazione, che ce la farebbe riguadagnare a un livello più alto. Comunque l'idea di unirci di nascosto sovranazionalmente, zitti zitti, un po' per volta, francamente fa ridere. E anche un po' schifo. Argo (da Comuni d'Europa n. 11-1990) L'Europa e la pace dopo il Golfo (...) L'Europa corre il rischio di tornare all'equilibrio di potenze del periodo tra le due Umberto Serafini (da Comuni d'Europa n. 9-1990) Il realismo furbo ed astratto (...) bisogna rendersi conto che la storia procede a folate: i veri realisti se ne debbono rendere conto. Gorbaciov, l'est europeo, il portentoso '89 e la riunificazione della Germania, è un vortice: e qualche alchimista pensa, palam et clam, di far l'Europa della borsa, alla quale - magari tutti uniti nello sbaglio, democraticamente incontrollato - si farà seguire l'Europa della spada? poi ci affidiamo alla Provvidenza? Noi crediamo, da autentici realisti, che è assai incerto che l'Europa vinca la sfida storica che la sovrasta: forse il suo destino, anche per colpa nostra, è segnato negativamente. Ma in ogni caso vincerà la sfida solo se un grande ideale, unito a una grande paura - la fine del mondo o di un mondo vivibile convincerà una maggioranza di europei, ben consapevoli, a superare una serie di interessi costituiti e di posizioni di comodo e ad appoggiare radicalmente una sovranità sovranazionale. Sarà una battaglia durissima, tutta ancora da fare: alle élites deve subentrare il fronte democratico europeo. E se c'è, vivente, qualche autentico statista, cerchi di accorgersi che gli umori popolari sono quasi ovunque favorevoli alla grande avventura, se rapida come cavarsi un dente. Se si tergiversa troppo, riemergono invece tutte le manie e i pregiudizi, come nelle assemblee condominiali dei casoni di periferia. O si rinuncia, dunque, all'unità europea o si punta chiaramente alla Federazione: la gente non si fida più, in questa età tecnotronica e senza dubbio radiotelevisiva, dei pasticci dei politici che si affidano ai «piccoli passi», che sono passi spesso ambigui e puzzano di opportunismo: coi quali, soprattutto, perdiamo giorno SETTEMBRE 1991 guerre mondiali, frantumandosi in una serie di piccole aspirazioni nazionali. Per contrastare in modo efficace quella che sarebbe una autentica degenerazione, con conseguenze sciagurate per la pace e per la nostra stessa reale indipendenza, è indispensabile che si costituisca nel Vecchio Continente un forte nucleo politico di dimensioni adeguate alle misure planetarie della politica internazionale dei nostri tempi. Questo nucleo - caratterizzato da volontà di pace, da autentico costume democratico, ma anche da istituzioni valide ed efficienti - deve essere il polo intorno al quale costruire un nuovo equilibrio europeo. E fin troppo evidente (non fosse altro per esclusione: basta vedere quello che accade in Unione Sovietica) che questo nucleo non può che essere rappresentato dall'Europa comunitaria divenuta una vera Europa federale: essa costituirà, tra l'altro, un punto di riferimento, nella prospettiva di una necessaria integrazione dei paesi excomunisti dell'Est (ma anche deile schegge impazzite jugoslave?), ed un esempio per una corretta risistemazione dell'urss su autentiche basi federali, unica soluzione positiva alle gravi turbolenze odierne (. ..) Giancarlo Piombino (da Comuni d'Europa n. 2-1991) Sovranità popolare e federalismo (. ..) Premesso tutto ciò, nacque il problema di come si dovesse esternare la sovranità popolare. A seconda della sua definizione - immediata ed emotiva o distesa in un tempo ragionevole e informata o mediata nella storia, nella tradizione o nelle successive esperienze - mutavano i caratteri e le esigenze della esternazione. Ci si accorse, insomma, che il concetto di sovranità popolare era ricco di differenti prospettive e probabilmente era opportuna la ricerca di un meccanismo di espressione che potesse evitare il taglio di un nodo gordiano e viceversa permettesse di tener conto di una larga parte di questa ricchezza di aspetti della detta sovranità. Pensandoci meglio, ci si rese conto che valeva presumibilmente la pena di risalire, attraverso l'aggettivo «popolare», ai fini essenziali degli uomini che compongono un popolo, qualsiasi popolo, tutti i popoli. Un filosofo del Settecento, Kant, aveva affermato - a sua volta confessando di avere avuto l'ispirazione da un altro pensatore, che consideriamo uno dei padri della democrazia moderna, Rousseau -, aveva dunque affermato che, facendo attenzione, si scopriva che anche l'uomo più volgare è in condizione di sentire dentro di sé la «voce della ragione»: a condizione, aggiungiamo noi, di non frastornarlo, anzi d i aiutarlo disinteressatamente a sentirlo. Ebbene, la «voce della ragione» dice agli uomini, a ciascun uomo, che per evitare di cadere neil'uso «irrazionale» della forza bruta è necessario fra l'altro che la sovranità popolare tenda ad essere unica per tutto il genere umano, per tutta l'umanità, ovvero che si addivenga a conciliare tutte le sovranità popolari, senza fermarsi a nessun singolo Stato o a nessuna singola Nazione. La sovranità popolare non può vivere di autentica vita autonoma che nell'ambito di una federazione di tutti i popoli, per quanto chimerica essa possa parere. La federazione è la regolatrice della coesistenza delle diverse sovranità popolari e le fa convergere verso una unica sovranità popolare terrestre. Ecco, il nostro timore è che, zitti zitti e sotto un subdolo manto di modernità (magari come presunta difesa da un micronazionalismo etnico, anarchico) abbandonati come siamo dalla «grazia di Dio» si tenda a far coincidere di nuovo la sovranità popolare con la sovranità nazionale e con una sovranità nazionale illimitata. (. ..) u . S. (da Comuni d'Europa n. 6-1991) COMUNI D'EUROPA Brutte nuove per l'Europa ...oh dolente per sempre colui.. . (segue da pag. 6) (segue da pag. 1) endemici mali economici che ne impediscono un sano ed equilibrato sviluppo. sa ecatombe alla quale la vecchia Europa si è afferta fidente nell'avvenire e guardando ai Cigli dei figli, chiamarla (come usano gli umanitari e i massoni) «resto di barbarie e sopravvivenza d'istituti sanguinarb, è tal giudizio che basterebbe a rendere chiara la insanabile inferiorità, la pochezza, l'ottusità della forma mentale massonica». Senza dubbio c'era una certa confusione fra le intenzioni rispettabili di alcuni combattenti e l'obiettivo anacronismo della guerra, e Croce era meno rozzo di Marinetti: ma l'ironia sui «sacri principi» trionfava quasi ovunque. I1 Risorgimento italiano, poi, era visto dalla «cultura fascista» (Gentile in testa) - e non solo da questa amputato di tutti i suoi slanci internazionalisti: l'idea, inoltre, che il nostro Risorgimento fosse un «rientro nelllEuropa», come mi insegnava al liceo, ai miei diciottanni - fra il 1934 e i1 '35 -, il mio professore antifascista Aldo Ferrari, era considerata al minimo una sciocca astrazione di tardo illuminismo. Futuri maestri di marxismo, come Dalla Volpe e Cantimori - per restare in Italia -, flirtavano con pensatori tedeschi pre-nazisti o nazisti confessi. Come risultavano antiche e «superate» le giornate del «nostro riscatto»! Ma una voce risorgimentale, genuina, squillò dall'esilio francese, quella di Carlo Rosselli: dal Risorgimento italiano al Risorgimento europeo. Subito dopo l'avvento di Hitler (1933) Rosselli scrisse, irriso da larga parte della sinistra democratica esule, da Modigliani a. Nenni (con l'eccezione di Saragat): «La guerra viene, la guerra verrà, perché milioni di giovani sono alleati nel delirio a volerla, perché i dittatori e padroni di mezzo continente vi saranno trascinati come alla prova suprema e alla risorsa estrema ... Sarà tra due anni. Tra cinque. Magari tra dieci anni, quando la corsa agli armamenti, la minaccia reciproca, il delirio patriottico avranno avvelenato la vita e la politica di tutti i popoli, così da renderli tutti egualmente responsabili della catastrofe ... La guerra viene». E nel 1935 Rosselli indicava, solo ma forte nelle sue idee, un esaltante riscatto: «In questa tragica vigilia non esiste altra salvezza. Non esiste, per la sinistra europea, altra politica estera. Stati Uniti d'Europa. Assemblea europea. I1 resto è fkztus vocis, il resto è catastrofe*. I1 grande obiettivo può essere fare l'Europa, e deve essere popolarizzato fra le masse: «...Prospettare loro sin d'ora la convocazione di un'assemblea europea, composta di delegati eletti dai popoli, che in assoluta parità di diritti e di doveri elabori la prima costituzione federale europea, nomini il primo governo europeo, fissi i principi fondamentali della convivenza europea, svalorizzi frontiere e dogane, organizzi una forza al servizio del nuovo diritto europeo e dia vita agli Stati Uniti d'Europa ... Armati di questa formidabile idea-forza [i governi del171nghilterrae della Francia] solleverebbero una ondata di entusiasmo religioso in Europa, spezzando il plumbeo blocco dell'opinione totalitaria nei paesi fascisti». Come viceversa si comportassero vergognosamente i governi inglese e francese è ben noto. La Resistenza europea - su cui si fa spesso un discorso strumentale, e di parte - intui- Ma al di là del caso italiano, che costituisce solo uno dei Dodici partners comunitarii, il problema è quello di non lasciarsi sfuggire di mano un obiettivo che rimane sempre piu di attualità alla luce della crisi di identità dell'Unione sovietica e della grave situazione geopolitica in Jugoslavia. Stiamo parlando è chiaro dell'obiettivo federale. Questo obiettivo, o meglio «la vocazione federale» dell'unione è ora inserito nelle proposte riguardanti 1'UPe. Ma questo riferimento non è certamente sufficiente poichè non fa che enunciare una finalità lontana (e non una realtà attuale) senza che siano previste le necessarie modifiche istituzionali per trasformare la Cee in un'autentica Unione europea. Ci si limita ad istituzionalizzare le formule del rinvio ed a prevedere che una nuova conferenza intergovernativa sia convocata nel 1996 per apportare al Trattato le riforme indispensabili per raggiungere questo obiettivo. Si tratta di un comodo escamotage per rinviare ancora una questione divenuta sempre piu urgente. Sembra già lontano quel 14 aprile del 1990 quando Kohl e Mitterrand formularono in una lettera al Consiglio europeo la proposta di realizzare senza indugi l'Unione politica. Confrontato con i magri risultati delle due conferenze intergovernative il documento francotedesco appare oggi solo un'utopia. I governi europei come ha rilevato Pier Virgilio Dastoli in un recente saggio (I cantieri della nuova Europa, numero 319 1, maggiolgiugno 1991, pag. 538 e ss) non hanno compreso in pieno che dopo le rivoluzioni democratiche nei paesi dell'Europa comunista e la crescita incontrollata delle economie dei paesi dell'Europa capitalista è importante definire valori ed istituzioni europee che rispondano effettivamente ai bisogni e alle aspirazioni europee ... Secondo Dastoli «occorre elaborare proposte che coinvolgano nello stesso tempo i1 decentramento negli Stati nazionali, la regolazione delle forze economiche attraverso l'organizzazione dell'intervento del sistema di governo europeo in un coerente disegno di programmazione e la definizione di obiettivi e regole generali, una politica sociale comune che favorisca un sistema di auto-organizzazione sociale, la fondazione di istituzioni pubbliche basate sui principi della separazione dei poteri e della partecipazione dei cittadini». Alla base di questo progetto non c'è che il modello federale, l'unico che consenta di superare la paralisi dello stanco ed asfittico negoziato intergovernativo. I1 modello funzionalista che è alla base di questo negoziato ha oramai esaurito il suo compito perché incapace di dare slancio al processo di integrazione politica ed economica. Per encludere con le parole di P.V. Dastoli «la margherita federalista - al centro la federazione e intorno i petali della confederazione - deve prendere il posto del carciofo intergovernativo». m COMUNI D'EUROPA sce il «nuovo riscatto» ed è pronta, anche in una larga fascia popolare, a superare l'éra delle autodeterminazioni nazionali - che sono divenute separatismo fisico e spirituale dal resto dell'umanità - e ad impegnarsi per la pace attraverso il federalismo, l'unità nelle diversità, l'essere diversi e saper convivere sotto una legge comune. Ma scoppiata la pace - che è piuttosto un armistizio - e pervenuti alla divisione di Yalta, un primo nucleo di governi nazionali, democratici, occidentali è lento o, peggio, insufficiente, come contesta l'Appello di Esslingen (1955) del CCRE, «nella creazione di un Potere politico sovranazionale*, insomma nel «fare l'Europa», come chiedeva Rosselli. Del resto a metà dell'Ottocento un grande storico inglese, il Seeley, aveva detto: «Le federazioni che siano solo il frutto di intese tra i governi sono una farsa ...» E poi: la Federazione, che è una unione di popoli, «non sarà mai raggiungibile» reiterava Seeley «coi mezzi diplomatici, o attraverso la mera azione dei governi, ma solo grazie ad un generale movimento popolare». I federalisti emersi dalla Resistenza europea - riuniti formalmente, in prima battuta (1947), nell'Union européenne des fédéralistes - compiono un'opera, da non sottovalutare, di consiglieri del principe, di elaborazione culturale e di «diffusione di idee». ma non suscitano e organizzano il movimento popolare. I1 CCRE, promosso nel 1950 e fondato nel '5 1 da federalisti, svolge un lavoro di massa e capillare, ma - pur puntando apertamente dal 1964 al «fronte democratico europeo» trova un limite nella carenza di equadri» politici e culturali - e qui l'incapacità dell'UEF di fornirglieli pesa decisamente - e quindi cede più facilmente alle tentazioni corporative: il CCRE rischia via via di diventare una «agenzia di servizi» per amministratori locali e regionali meno attenti alla politica - alla vera politica, basata su problemi da risolvere e non su potere da spartire - dei loro colleghi degli anni cinquanta e sessanta. Fallisce infine il tentativo - dopo il 1964 - di trasformare in «fronte democratico europeo» il Movimento Europeo, consorzio, nato nel 1948, delle forze e dei movimenti sociali e politici, che in tutto o in parte si richiamano all'unità europea. Comunque, dopo anni di incerta e contraddittoria evoluzione dell'Europa comunitaria, nel 1979 si arriva a un appuntamento decisivo: le prime elezioni europee a suffragio universale e diretto. Sono precedute dai grandiosi Stati generali di Vienna (1975) del CCRE - a cui partecipa in qualità di Commissario delle Comunità Altiero Spinelli -, ove si chiede quel che poi lo stesso Spinelli e il Club del Coccodrillo hanno intrapreso subito nella prima legislatura e realizzato nel 1984: l'iniziativa autonoma di redigere un progetto di Costituzione europea da parte di un Parlamento Europeo uscito da elezioni sovranazionali. I due statisti che, per venire incontro a una pressione che cominciava a farsi sentire dal basso, hanno persuaso i colleghi europei a «fare le elezioni» sono stati il francese Giscard d'Estaing e il tedesco Helmut Schmidt. Le vicende seguenti sono nella memoria di tutti, il tira e molla che non può suscitare che sdegno, ma che va analizzato, prima che lamentato, per decidere consapevolmente i1 nostro «che fare?». Ma un commento va avanzaSETTEMBRE 1991 to subito: si tenga conto della nazionalizzazione successiva delle elezioni europee, della mancata formazione di partiti europei, del ricatto delle segreterie dei partiti nazionali nei riguardi dei parlamentari di Strasburgo «troppo europei». Pertanto il Parlamento Europeo ha le spalle scoperte, e qui si pone un nuovo compito di un «fronte democratico europeo». E d ecco che la Storia comincia a correre. L'uomo che muove il macigno iniziale è il sovietico Gorbaciov: richiama dal confino Sakharov, dà ai suoi concittadini l'incredibile possibilità di esprimersi liberamente - e quindi di formare correnti di opinione -, dichiara anche in sede internazionale che il primo atto che si presenta a tutti i politici del mondo è l'interdipendenza di tutti i Paesi (la guerra è oltretutto un non-senso e non c'è credo ideologico che possa giustificarla). Saltiamo a questo punto a piè pari quel che poi è intercorso (1989-'91) e veniamo all'oggi, dell'Europa e del mondo. Oggi siamo di fronte a uno scenario affascinante e terribile: tutto può accadere. Noi che dobbiamo fare? Suscitano pena quei numerosi politici, politologi e giornalisti, che fanno una caricatura del già discutibile Hegel: non ricorrono alla Ragione - una Ragione autonoma - per poter decidere i1 da farsi (i più non sanno più cos'è la Ragione in sé e per sé - siamo in piena «eclisse della Ragione», come direbbe Horkheimer -, anzi sfottono decisamente chi ci crede), ma arzigogolano nel predire chi e che cosa vincerà, dando per «razionale» - e quindi da appoggiare sin da ora - quel che prevedono (beati loro) che stia per succedere. Schiavi a priori di quel che accadrà, che dànno già, passivamente, per accaduto. Poi c'è questa fastidiosa scoperta della crisi delle ideologie. Se per ideologia s'intende con Gramsci (posso citarlo?) qualcosa di non necessariamente negativo, ma semplicemente una visione del mondo e del come affrontarlo, è abbastanza senza senso questa «crisi delle ideologie*. Le ideologie, come è ovvio, non sono - non dovrebbero essere-dogmi, ma visioni del mondo e strategie operative lecite, anzi necessarie - se non si vuol procedere come «gattini ciechi» (lo diceva Stalin: posso anch'io?) nel cosiddetto «pragmatismo» dei cretini -: ma tendono a ossificarsi e a divenire strumenti del potere; quindi sono, di volta in volta, da aggiornare, da abbandonare o da abbattere. Stiamo attenti, tuttavia: spesso è da abbandonare un'analisi del mondo, che ormai si è sperimentato come diverso o mutato; spesso l'esperienza ci mostra che l'ipotesi pratica, operativa, connessa a una ideologia, era chiaramente sbagliata e ha dato pessimi risultati; ma con ciò occorre attentamente vagliare che non vadano perduti i valori da cui voleva partire detta ideologia. Alcune ideologie non sono partite invece, secondo noi, da valori (valori? ci vengo), ma da visioni demoniache - il nazismo, ad esempio - e queste si possono buttare tutte quante a mare senza scrupoli. Sui valori non vorrei premettere a un modesto articolo di giornale - anche se «pensoso» da quasi quarant'anni - un capitolo d i filosofia morale: ma vorrei richiamarli come postulati e sottolineare come siano spesso sostanzialmente analoghi in ideologie pur tanto SETTEMBRE 1991 diverse, tutte «umanitarie». Talvolta i valori sono stati messi in ombra dai presupposti operativi di una ideologia che hanno finito per emarginarli e schiacciarli, funzionando da letto di Procuste per gli «sconsiderati» di altra parrocchia; e questo succede inevitabilmente quando una ideologia, ossificata, è diventata strumento di potere. Comunque noi vogliamo partire, nel discutere come affrontare l'oggi, dal federalismo, che è anch'esso una ideologia: la quale si dà, per altro, troppo spesso per conosciuta e scontata, mentre ha bisogno di confronto e specificazioni con situazioni del tutto impreviste. Nel nome del federalismo vogliamo poi, con durezza e coerenza, divenire o restare i protagonisti del «riscatto europeo»: sapendo che il futuro non è mai certo, mentre deve essere certo che, sconfitti, non cambieremmo idea, poiché le idee si cambiano non quando si perde, ma quando ci si accorge di aver torto. I1 Risorgimento Europeo - questo è il punto - è anche nelle nostre mani: chiaro? Affrontiamo dunque lo scenario affascinante e terribile, e leggiamolo in chiave federalista. L'impero sovietico è parso dissolversi e, prima, con Gorbaciov ha proposto la fine della guerra fredda: ma le armi, capaci di distruggere il mondo, sono ancora là. I n mano di chi? Di una Unione, articolata e prevalentemente democratica e con l'intenzione di costruire una pace stabile? o divisa, per quanto riguarda le armi «decisive», tra due o tre repubbliche dagli incerti legami e dalle altrettanto incerta linea politica? o invece in mano a strutture dell'antico impero totalitario non ancora debellate e in agguato per riprendersi fette consistenti di potere? Certo, le armi invecchiano, l'economia sovietica o delle singole componenti è assai fragile, la parte opposta - occidentale - è in condizione, invece, di aggiornarsi: ma il pericolo rimane e, in questo quadro, non si avanza molto sul terreno della pace stabile, che per noi federalisti non può non basarsi alla fin fine che su un governo mondiale (ONU con garanzie democratiche e potere). I1 patto di Varsavia si è sciolto: ma nelllEuropa centro-orientale quale ordine sovranazionale sta per stabilirsi? I n parte sembra di essere ritornati all'Europa centro-orientale del 1919 (URSS esclusa), in parte peggio: infatti è scatenato un etnicismo o micronazionalismo, che fa francamente paura. La Germania si è riunita: ma in quale quadro politico-istituzionale si va a collocare? Appena riunita, durante il semestre irlandese di presidenza della Comunità europea, Kohl e Mitterrand chiesero di incontrarsi coi partners per decidere sull'unione politica europea: ma poi proprio dalla Francia di Mitterrand vennero, attraverso il ministro degli Esteri Dumas, le proposte piu assurde e, francamente, provocatorie. E lo stesso Mitterrand che fa? pensa al destino dell'Europa e, in essa, della Francia o a residue ambizioni personali, di tipo nazional-nazionalista? Del resto i Dodici governi - chi più, chi meno guardano più a una Unione purchessia che non a un primo pilastro, esemplare, di democrazia europea sovranazionale. I n questo quadro gli Stati Uniti d'America più che a un mondo unito sono spinti a pensare a ,un mondo retto dall'egemonia americana. E una egemonia assai problematica, e il presidente degli USA cerca di appoggiarsi sempre più all'ONU: ma ad una O N U che non è chiaro q a l e profilo voglia e possa assumere. Comunque una O N U strumento americano perde presto ogni autorevolezza; e gli stessi USA, quando potrebbero, nulla fanno per uscire dalle strettoie della ragion di Stato: la grande Conferenza per l'Ambiente e lo sviluppo (Earth Summit), indetta dall'ONU per il 1992 in Brasile, trova proprio negli USA i maggiori ostacoli. La situazione così precaria si accompagna a problemi e minacce precedenti all'evoluzione sovietica, ma che da quest'ultima si sperava potessero ricevere una spinta decisiva a risolversi con accordi generalizzati. L'episodio recente dall'Irak non è che un esempio di una polveriera mondiale che, anche caduto il confronto e l'antagonismo delle due massime potenze nucleari, rende precaria la pace terrestre: anzi, il duopolio sovietico-americano in questo caso era più una garanzia che una aggravante. E l'integralismo islamico (non limitato all'Africa del Nord e al Vicino Oriente)? E le grandi migrazioni dai Paesi poveri e sovrappopolati del Terzo Mondo? quelle migrazioni che hanno fatto sostenere a uno studioso italiano molto noto (anche se con qualche tendenza all'enfasi) che, nei primi decenni del 2000, due miliardi di uomini e di donne del Terzo Mondo premeranno dal Sud sull'Europa (per non parlare di spinte analoghe verso altre zone ricche della Terra)? Lasciamo dunque le preoccupazioni particolari degli USA e vediamo come, obiettivamente, all'Europa e al Mondo si presenti una gestione ragionevole del futuro, che per noi non può non essere federalista. Vorremmo anzi caricare ulteriormente il nostro discorso: una gestione ragionevole del futuro e un modo nuovo di far politica, di cui si parla così spesso senza alcuna seria intenzione di cambiare realmente. Si tratta di una serie di problemi concatenati, che vanno affrontati globalmente con una coerenza implacabile. L'Europa dei Dodici e l'esigenza di federarsi (a Dodici o fra aceux qui voudronto, come diceva tempo fa Mitterrand) non è una alternativa alla costruzione di una grande Casa europea, e solo alcuni bari (e sono sovente ministri e capi di governo o perfino dirigenti di istituzioni europee) possono sostenere il contrario: in realtà questi signori vogliono bloccare i1 processo federativo, esemplare (continuo a ripetere questo aggettivo), della «piccola» Europa e giuocare con la diplomazia tradizionale, tinta di falso verde, all'Est europeo. L'allergia di molti Paesi e popoli al Centro e all'Est europeo, e nell'unione sovietica, verso la prospettiva federale e verso la stessa parola federazione va poi capita, per l'uso falso che del concetto e della parola veniva fatto nei regimi totalitari: si capisce che, ad evitare gattopardismi probabili di vecchi dominatori, tutti reclamino l'indipendenza; ma non può accettarsi che una indipendenza «di partenza» per trattare subito dopo, in eguaglianza e su comuni basi democratiche, i necessari vincoli sovranazionali, rispettando il principio di sussidiarietà. La balcanizzazione non può essere un obiettivo accettabile in un Mondo ove la guerra è non solo nucleare, ma chimica e biologica - aperta ai poveri -, e un'altra bomba, quella demografica, minaccia tutti COMUNI D'EUROPA (fermo rimanendo che il principale contraccettivo è la distribuzione equa della ricchezza della Terra). La cultura dklle etnìe ha indubbiamente preso la mano: già l'aveva presa a un presunto federalista, il riverito professor Guy Héraud, che auspicava Regioni monoetniche. E a mio avviso sintomatico che in varie parti dell'Europa (e, perchè no? del Mondo) si chieda prima l'autodeterminazione (separazione) e non I'autogoverno: le zone «separate» che faranno? come saranno trattate le minoranze delle minoranze? e, maltrattate nonché prive di forza politica negoziale, non resterà a queste ultime che il terrorismo? Ma c'è di peggio: non ci si preoccupa dell'autonomia per eccellenza, quella della persona umana. Nella «Carta europea delle libertà locali» (1952'53!) il CCRE si preoccupò dell'autonomia di base e affermò: occorrono «i mezzi stabili (pemanent facilities) perchè ogni cittadino, cosciente di essere membro della comunità è vincolato alla collaborazione per il sano sviluppo della comunità stessa, prenda p a n e attiva alla vita locale» (insomma niente bombe terroristiche ma «mezzi stabili» per tutti). Ciò premesso, vorrei aggiungere che c'è attualmente un vezzeggiamento delle «culture minoritarie», che deve guardarsi da due errori: uno è quello di considerare solo previcatrici e negative tutte le culture nazionali (queste sono sovente degenerate nel nazionalismo, ma non di rado hanno dietro di sé rilevanti intelletti e il fondamento morale di aver lottato contro localismi miopi ed egoisti, anche se poi - e questo è altrettanto grave - fanno parte di complessi «nazionali» fortemente inquinati di corporativismo, che è la negazione della politica in senso nobile e del diritto); l'altro è che tutte le culture «particolari» devono poi aver sempre presente che, per rimanere autentiche «culture», debbono riconoscersi parti di una sola cultura, che non conosce confini e parla per tutta l'umanità (il test di saper stringere rapporti «interculturali» è decisivo per verificare che esse non sono degenerate). Poi c'è la forza di attrazione della Comunità europea sui Paesi «emancipati» del CentroEst europeo. Domanda: attrazione da parte di una Comunità prefederale (o ritenuta tale) oppure del suo libero mercato, senza alcun interesse per la costruzione d i istituzioni democratiche sovranazionali? Penso che la Comunità europea deve essere molto attenta a evitare la politica del carciofo: strappare e aggre-. garsi uno dopo l'altro i Paesi reduci dalla egemonia sovietica, lasciando chi resta - Unione sovietica compresa ovvero il coacervo delle sue repubbliche «indipendenti» - ad arrangiarsi. Ma la Comunità europea deve evi- tare anche gli aiuti per singoli Paesi, nazionalisti o no che siano: ricordiamo che il Piano Marshall fu proposto all'Europa su un presupposto di Unione federale in fieri o quanto meno dell'edificazione di un «mercato istituzionale» (come si diceva venti o anche trent'anni fa) comune; i governi europei rifiutarono questa intelligente proposta, usarono il Piano per occhiute ricostruzioni nazionali e le conseguenze si sono viste. Infine c'è tutto il capitolo dei rapporti extraeuropei delllEuropa («piccola» e «grande»): è il capitolo su come si aiuta effettivamente la costruzione di un governo mondiale. Quale fu il comportamento dello stesso governo italiano verso il controllo da parte del1'ONU o di una sua Agenzia delle ricchezze giacenti sul fondo degli oceani, in acque non territoriali? Questo capitolo sarebbe lungo, ma lo lasciamo all'intuizione del lettore. Torniamo ancora allo scenario aaffascinante e terribile». Ebbene, è l'ora del federalismo: o lo capiamo o commetteremo un suicidio europeo e mondiale. Sorvegliamo i nostri governi mossa su mossa; critichiamoli apertamente (ma non per fini strumentali delle singole opposizioni nazionali); richiamiamo alle loro responsabilità i partiti nazionali, che non sono (non debbono essere) clan privati, ma strumenti di noi tutti, pubblici e aperti al pubblico; fustighiamo le loro burocrazie nazionaliste, fisse alle piccole contabilità elettorali; finalmente organizziamo intorno al federalismo il «fronte democratico europeo». E il CCRE? Ricordiamolo: esso è nato come associazione politica, decisa a fare uscire il federalismo da movimento elitario e confidando sul senso civico e la moralità politica degli eletti locali e regionali, cioè dei rappresentanti della democrazia di base, incorrotti rispetto alla ragion di Stato. Nel 1987 abbiamo lanciato il Manifesto di Bordeaux (ove si era svolto un congresso dei Comuni gemellati): rileggiamolo. Abbiamo dato vita, insieme ad alcuni elementi lungimiranti delllUnion européenne des fédéralistes, alla Convenzione europea per l'Unione democratica: il buon successo avuto, riuscendo a mobilitare rilevanti «forze vive» della società europea, risulterà effimero, se non saremo capaci di continuare e allargare l'esperienza fondamentale del «fronte democratico europeo». Moltiplichiamo i gemellaggi e i seminari col Centro e con l'Est europei, gemellaggi che - come tutti gli altri - debbono essere politici e intransigenti: lo «spirito europeo» è un flatus vocis, se ad esso non corrisponde la consapevolezza degli obiettivi politici e istituzionali da raggiungere e se non si è capaci di cogliere in flagrante i pastori dei popoli, sovranazionali, europeisti e federalisti a parole. La no- mensile dell'AICCRE Direttore responsabile: Umberto Serafini Condirettore: Giancarlo Piombino Direzione e redazione: Piazza di Trevi 86 - 00187 Roma Indir. telegrafico: Comuneuropa - Roma tel. 6840461-2-3-4-5, fax 6793275 Questo numero è stato finito di stampare il 31/10/1991 Abbonamento annuo: per la Comunità europea, inclusa l'Italia L. 30.000 Estero L. 40.000; per Enti L. 150.000 Sostenitore L. 500.000 Benemerito L. 1.000.000 stra azione quotidiana deve smuovere le montagne: coraggio! O h giornate del nostro riscatto ... Umberto Serafini P.S. Mentre, in fine di settembre, chiudo il mio editoriale, il Presidente degli Stati Uniti d'America fa quel che noi avevamo giudicat o possibile e razionale nell'inserto «Da Vladivostock a San Francisco» in «Comuni d'Europa» di luglio-agosto 1990. Era - ed è - logico che, nel mutato rapporto di forze convenzionali fra Est ed Ovest, dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia ma, ancor più, la riunione della Germania e quale che sia il destino dell'unione ex sovietica - cioè perfino nell'ipotesi di un nuovo golpe - tocchi all'occidente, rappresentato dagli USA (la Federazione dei 12 per ora non esiste), proporre alla controparte il disarmo atomico. Non entriamo qui nelle procedure e nei dettagli, armi strategiche e armi tattiche: la proposta può essere radicale. Dopo la proposta americana, i fatti - a parte qualche dimostrativo exploit unilaterale - dipenderanno dalla risposta altrui, che , a sua volta, dipenderà dalle reazioni «interne», nell'unione e in alcune singole repubbliche e dall'atteggiamento dei miniatomici europei occidentali. Questi ultimi (Francia e Inghilterra), europei per il mercato e forse per le armi convenzionali, si sentono mondiali - e arroganti per le armi atomiche: staremo a vedere se, almeno i francesi, riescono a entrare nella logica comunitaria. I successivi sviluppi dipenderanno infine da un reale accordo USA-ex URSS-Europa federata, tale da potere rilanciare unitamente I'ONU. Più che a distruggere tutte le loro armi atomiche i Paesi dell'«accordo» dovranno inizialmente controllarle insieme, finché non sia organizzato il controllo mondiale (e poi la distruzione) di ogni e qualsiasi armamento atomico (e simultaneamente di ogni preparazione di produzioni chimiche e batteriologiche). Come si vede tutto ciò implica l'inizio di un vero e proprio governo mondiale, su difesa, produzione industriale e - rimando all'editoriale - politica ecologica: sul momento invito cordialmente i lettori a rileggere il bel saggio di Joseph Preston Baratta sul «piano Baruch» americano del 1946, da noi riprodotto (dalla rivista «I1 Federalista») nel citato numero di «Comuni d'Europa» dopo il corsivo «Da Vladivostock a San Francisco». Una copia L. 3.000 (arretrata L. 5.000) I versamenti devono essere effettuati: 1) sul c/c bancario n. 300.008 intestato: AICCRE c/o Istituto bancario San Paolo di Torino, sede a Roma, Via della Stamperia, 64 - 00187 Roma, specificando la causale del versamento; 2) sul c.c.p. n. 38276002 intestato a "Comuni d'Europan,piazzadiTrevi, 86 - 00187 Roma; 3 ) a mezzo assegno circolare - non trasferibiie - intestato a: AICCRE, specificando la causale del versamento. Aut. Trib. di Roma n. 4696 dell'll-6-1955. Tip. Della Valle F. via Spoleto, 1 Roma Fotocomposizione: Graphic Art 6 s.r.l., Via Ludovico Muratori 9/11/13 - Roma Associato all'USPI - Unione Stampa periodica italiana SETTEMBRE 1991