Materiale in consultazione utilizzato nel corso delle lezioni 19 marzo 2007 LE DIMENSIONI DEL RISCHIO Il rischio viene definito e analizzato in maniera distinta da diversi approcci disciplinari. Se i modelli quantitativi si rivelano inadeguati per affrontare la complessità delle questioni oggi sul tappeto, (permeate da una forte incertezza, o non conoscenza), occorre riconoscere la multidimensionalità del concetto di rischio e accettare la coesistenza di diversi paradigmi. [email protected] 19 marzo 2008 La probabilità “oggettiva” Per introdurre la nozione di rischio, così come è presente nella società moderna, è opportuno rifarci all’ambito economico. In questo ambito il rischio si collega alla necessità di prevedere l’esito di investimenti in condizioni di incertezza (appunto i mercati finanziari). Le prime rappresentazioni matematiche del rischio derivano dalla necessità di quantificare quindi la possibilità di un guadagno e sono utilizzate come base nelle decisioni di investimento. La probabilità “oggettiva” Il paradigma sotteso è quello dell’attore razionale che ha l’obiettivo di ottimizzare il proprio beneficio e che sceglie fra possibili opzioni, a lui tutte note e fra loro confrontabili numericamente, grazie alla riduzione dei costi e dei benefici ad un unica unità di misura, il denaro. Il concetto di rischio non assume quindi in prima battuta una connotazione negativa, ma si presenta come opportunità di un esito positivo e voluto: maggiore il rischio, maggiore la possibilità di guadagno. La probabilità “oggettiva” Tuttavia in altri ambiti (fenomeni naturali, incidenti industriali, malattie, epidemie), il rischio rimanda ad un esito negativo, non voluto, associato all'idea di perdita, danno, catastrofe. Questa connotazione negativa del concetto di rischio è profondamente moderna. La probabilità “oggettiva” Infatti, se tutte le culture e le comunità umane hanno sviluppato il concetto di pericolo, quello di rischio emerge solo nel momento in cui si realizzano specifici saperi, capacità di azione e modi di concepire l'azione stessa. QUALE DIFFERENZA? La probabilità “oggettiva” La distinzione più chiara tra rischio e pericolo è stata formulata da Luhmann (1991): Si ha un pericolo quando un evento dannoso si verifica indipendentemente da una qualsiasi decisione Si ha un rischio quando il verificarsi di un evento, dannoso o vantaggioso (come una vincita alla roulette), è connesso a una decisione. Vi è poi un terzo elemento che entra in gioco, quello di incertezza: - se si ha un rischio quando è possibile calcolare la probabilità del verificarsi di un evento - si ha incertezza quando questo calcolo non è possibile. La probabilità “oggettiva” L’analisi del rischio comporta lo sforzo di individuare, nel modo più sistematico possibile, catene di cause ed effetti, a partire da un evento o da un insieme di eventi che si ritengono rilevanti. Lo sviluppo del calcolo delle probabilità e il sempre più frequente ricorso alla statistica hanno consentito di analizzare tali catene anche in assenza di certezze sui meccanismi di causazione. In un primo momento, dunque, l’analisi dei rischi vale a rafforzare la convinzione che la crescita della società industriale e il progetto di controllo della natura si svolga in condizioni di accettabile tranquillità. Ciò ha favorito lo sviluppo di attività di previsione e gestione dei rischi che, pur senza offrire sicurezze, garantiscono, quanto meno, la loro accettabilità sociale e individuale. La probabilità “oggettiva” Ma, specie nel XX secolo, le trasformazioni ambientali indotte dalla tecnologia sono di tale peso da fare apparire sempre più improbabile l’idea di un controllo efficace di ogni possibile fonte di rischio. Infatti, quasi paradossalmente, lo stesso affinamento dell’apparato scientifico e tecnologico usato per scoprire e valutare i diversi tipi di minacce che gravano sui sistemi sociali, ha portato a evidenziare una molteplicità talmente ampia di cause di rischio da rendere sempre meno credibile l’ipotesi di una loro neutralizzazione generalizzata. La probabilità “oggettiva” Inoltre, in molti casi, l’avanzamento della ricerca fa scoprire che l’interazione tra diverse cause e tra queste e i loro effetti è di una complessità non rappresentabile se non con modelli concettuali altrettanto complessi, disponibili, nel migliore dei casi, solo per un ristretto numero di specialisti, ma scarsamente adatti a fornire rassicurazioni sociali. La probabilità “soggettiva” È possibile effettuare diverse quantificazioni di probabilità dello stesso evento (valutazioni del rischio)? Quando si devono valutare i rischi connessi a sistemi tecnologici complessi (centrali nucleari, industria petrolchimica) e alle loro ripercussioni sull’ambiente e sulla salute, si ricorre normalmente alle probabilità soggettive: - perché mancano serie storiche di dati su cui costruire probabilità oggettive esaurienti - perché nella valutazione entrano elementi di conoscenza ed esperienza personale, che spiegano differenti risultati. La probabilità “soggettiva” In questi casi, le discrepanze nell’analisi del rischio (e nel calcolo della probabilità ad esso connessa) possono essere originate da: - scelte tecniche contrastanti - considerazioni di tipo psicologico, culturale, sociale, etico e politico amministrativo. È indagando su queste ultime che si mette in discussione la possibilità di una univoca definizione del concetto di rischio. La misurazione del rischio In ogni valutazione del rischio entrano almeno quattro ordini di fattori: 1. Ambito L’ambito fenomenico entro cui si intende condurre l’analisi dei rischi. Ad esempio un contesto territoriale, un sistema socioeconomico o socio-tecnico (per esempio un impianto produttivo) o un insieme di attività cui fare riferimento come orizzonte all'interno del quale si concentra l'attenzione. La misurazione del rischio 2. Probabilità All’interno dell’ambito individuato, occorre identificare la possibilità di accadimento di un certo evento, al quale si cercherà di associare una probabilità P di accadimento. La possibilità di accadimento può essere espressa in termini probabilistici, anche se non sempre possibile a causa della complessità di certe questioni, da cui derivano delle irriducibili incertezze. La misurazione del rischio 2. Probabilità Ad esempio, sulla base di serie storiche di dati si può calcolare con una certa precisione la probabilità di morti a causa di incidenti stradali in un determinato anno o ancora la probabilità di un guasto ad una singola componente di un sistema tecnologico. Molto più problematico è invece quantificare la probabilità di malfunzionamento di un intero sistema tecnologico. La misurazione del rischio 2. Probabilità Quindi il calcolo della probabilità di accadimento si rivela talvolta insufficiente, particolarmente: - quando si applica a sistemi complessi, le cui componenti sono strettamente connesse e possono interagire tra loro in maniera imprevista e imprevedibile - quando si parla di fenomeni complessi, quali il cambiamento climatico, o nuove tecnologie, quali l’ingegneria genetica. Non a caso se gruppi di esperti distinti eseguono delle valutazioni del rischio partendo dagli stessi dati, si possono produrre risultati anche molto diversi, ma non per questo scorretti. La misurazione del rischio 3. Magnitudo Occorre poi descrivere le conseguenze indesiderate che potrebbero essere causate dagli eventi di cui sopra; ad ogni conseguenza si cercherà di associare una misurazione della gravità del danno atteso (ovvero della sua magnitudo M). La misurazione del rischio 3. Magnitudo Il calcolo della magnitudo delle conseguenze di un evento potenzialmente dannoso, diventa difficile - quando l’evento non sia puntuale, circoscritto nel tempo e nello spazio - quando cioè non si tratta di perdere un certo investimento finanziario o una certa posta alla roulette - ma si tratta di perdere la salute, la propria vita, o le risorse naturali indispensabili ad essa. La misurazione del rischio 3. Magnitudo In questi casi la difficoltà non è solo quella di quantificare le conseguenze negative, ma prima ancora di concettualizzarle. Alcune incertezze non sono riducibili ad espressioni numeriche, perché toccano alcuni degli aspetti fondamentali della nostra vita individuale e collettiva. La misurazione del rischio 4. Fattore di utilità Infine, l'analisi del rischio presuppone la presenza di criteri di valore, che consentano di valutare: - l’utilità delle attività potenzialmente rischiose - l’indesiderabilità delle conseguenze attese eventualmente distinguendo tra punti di vista di soggetti diversi nello stabilire l'intensità tanto della prima, quanto della seconda. La misurazione del rischio La formula del rischio Allo scopo di introdurre anche la considerazione degli aspetti soggettivi, relativi alla valutazione dei vantaggi o danni attesi, la formula del rischio è espressa in modo da comprendere anche un fattore di utilità U. Dunque la formula è R = f (P, M, U) La sociologia e la misurazione del rischio Che fa? Deve garantire che i criteri “oggettivi” assicurino un'adeguata inclusione delle variabili relative ai sistemi sociali e alle diverse categorie di soggetti coinvolti. Tenere presente che: - uno stesso progetto/impianto/azione possono manifestare e generare benefici e costi che incidono in maniera diversa in vari contesti territoriali - una decisione trascina con sé rischi che, a parità di intensità e probabilità, si manifestano in modo diverso in funzione delle caratteristiche dei singoli contesti. La sociologia e la misurazione del rischio Presupporre che vi sia a priori una unanimità di giudizi su ciò che è desiderabile e indesiderabile, in molte situazioni può comportare non solo la parzialità della valutazione del rischio, ma anche il moltiplicarsi delle occasioni di fraintendimento nel corso del processo decisionale. Ad esempio, tutti i soggetti coinvolti possono accettare di assumere come punti di riferimento il principio del vantaggio economico e quello della tutela ambientale, ma possono discordare nel giudizio sulla priorità da assegnare all'uno o all'altro o, anche, nelle modalità con cui applicarli. La sociologia e la misurazione del rischio Un secondo, più radicale tipo di conflitto può sorgere qualora vi sia discordanza nella stessa scelta dei criteri, addirittura nei presupposti culturali che giustificano tale scelta. È possibile che sorga quello che Socco (1999) chiama il problema del relativismo culturale nella valutazione degli effetti: ad esempio, la comunità locale maggiormente coinvolta dal progetto può ritenere grave il fatto che le proprie tradizioni siano messe a repentaglio dalle trasformazioni indotte, mentre i proponenti (o gli esperti) possono pensare che tali mutamenti rappresentino una evoluzione positiva verso la modernità. La sociologia e la misurazione del rischio Questo problema assume una rilevanza particolare quando esistono forti divari culturali tra coloro che propongono un’opera e le popolazioni interessate, come è nel caso di progetti proposti da soggetti provenienti da paesi occidentali ad elevato sviluppo, da realizzarsi in contesti rurali di paesi in via di sviluppo, con forte presenza di popolazioni native. La dimensione delle preferenze e dei valori mostra dunque come il concetto di rischio sia complesso e multidimensionale e non riconducibile a semplici formule matematiche. La sociologia e la misurazione del rischio In sostanza le scienze sociali: se da una parte non negano l’utilità del calcolo economico quantitativo, quale strumento preliminare per interrogarsi sui caratteri di un progetto da realizzare dall’altra ritengono che una misura basata esclusivamente sul calcolo economico – valore monetario delle risorse sottratte e dei danni – al fine di risarcire delle “vittime” non sia adeguata. La sociologia e la misurazione del rischio Basarsi solo su un calcolo economico quantitativo permette infatti di determinare solo i costi diretti, tralasciando quelli indiretti, scaricati sul contesto sociale e sulle comunità. Quale deve essere quindi l’unità di misura da utilizzare per valutare conseguenze e impatti? La maggior parte dei costi e dei benefici non hanno un valore oggettivo equivalente a un prezzo di mercato, ma hanno un valore sociale. La sociologia e la misurazione del rischio Per esempio la compensazione monetaria per la sottrazione dei terreni irrigui di fondovalle a quelle comunità implicate nella costruzione di un bacino non affronta il problema nella sua interezza. Ci sarà una frattura nel sistema socio economico, in quanto il valore di riferimento riguarda il modo di essere e di riprodursi di una comunità nel suo insieme. = ? La sociologia e la misurazione del rischio Quando si misura la probabilità che una decisione possa generare dei rischi, occorre impostare il problema su: - la contestualizzazione e la delimitazione dell’ambito in cui collocare il rischio - l’analisi della percezione e dell’accettabilità sociale del rischio - la multidisciplinarietà nell’affrontare le problematiche che derivano dalla decisione - il coinvolgimento dei soggetti sociali interessati, attraverso la comunicazione e la partecipazione. La sociologia e la misurazione del rischio Questo modo di operare, che non fornisce una risposta definitiva alle catene causali e all’impatto di un intervento su un sistema sociale, consente tuttavia di agire in un ambito di consapevolezza. La percezione del rischio La spinta iniziale per gli studi sulla percezione del rischio deriva essenzialmente dalla necessità di capire perché alcune tecnologie (per esempio quella nucleare) suscitino così forti obiezioni nell’opinione pubblica. L’ipotesi interpretativa di politici e tecnici in principio era molto grossolana, così come la proposta di soluzione: La gente non capisce la matematica, la statistica, le probabilità. Diamo loro i numeri esatti, spieghiamo loro che si tratta di dati oggettivi, ed elimineremo le loro irrazionali paure, l’avversione verso innovazioni tecnologiche sicure, come dimostrano i risultati dei nostri calcoli. In pratica si tratta di convincere la gente ad accettare certi rischi sulla base della loro ridotta probabilità di verificarsi. La percezione del rischio All’inizio degli anni ‘70 si riteneva che: l’analisi dei rischi dovesse consistere nell’applicazione, da parte di esperti, di procedure di routine basate su un presupposto di causalità lineare, di conseguenza per la gestione dei rischi, le indicazioni sarebbero derivate dai risultati di tale analisi. La percezione del rischio Invece il «rischio» si rivela come un costrutto concettuale in cui entrano una molteplicità di aspetti il cui peso relativo varia in diversi individui, gruppi, aree geografiche. La “gente comune” costruisce i propri atteggiamenti e giudizi attraverso percorsi interpretativi che sono certamente distinti da quelli degli “esperti”, ma non per questo devono essere etichettati come irrazionali. Proviamo a disegnare un “profilo di rischio”, individuando le variabili che influenzano la percezione. La percezione del rischio Tali variabili possono essere: La volontarietà o meno dell'esposizione: la gente tende a trovare inaccettabili rischi a cui è stata esposta contro la propria volontà o a propria insaputa. La percezione del rischio La distribuzione di rischi e benefici: quando i primi ricadono su alcuni, mentre dei secondi si avvantaggino altri (o tutti). L’insorgere di molte comunità locali contro l'installazione di linee elettriche e antenne per la telefonia mobile costituisce un buon esempio di questo tipo di atteggiamento. La percezione del rischio Il controllo che si ritiene di avere (direttamente o indirettamente) su una situazione/azione che comporti l’esposizione ad un potenziale danno. A prescindere dalle statistiche di mortalità per incidenti, essere alla guida della propria auto conferisce un controllo maggiore sul mezzo di trasporto che volare su un aeroplano di linea. La percezione del rischio La conoscenza, sia scientifica sia personale: la gente sembra essere maggiormente disposta a convivere con rischi che le sono familiari, o perché ampiamente studiati dagli esperti, o perché in qualche modo rientrano nel suo «panorama cognitivo». Si pensi a quanti abitano senza eccessive preoccupazioni in una zona sismica, sulle pendici di un vulcano, o accanto ad un impianto chimico o una centrale nucleare. La percezione del rischio Fenomeni naturali o attività umane: i danni derivanti da fenomeni naturali sono più facilmente accettati di quelli causati da attività umane. La percezione del rischio Dall’analisi di queste variabili risulta abbastanza chiaro che le persone non basano assolutamente la propria preferenza o avversione per certe situazioni o attività su stime esclusivamente quantitative. In pratica, si scalfisce la concezione che abbia senso parlare nei termini di un «rischio reale o oggettivo» in contrapposizione ad un «rischio percepito» La percezione del rischio Inoltre, elementi soggettivi di valutazione (pur se appoggiati ad una conoscenza tecnica) entrano inevitabilmente nel processo, a cominciare dal modo di inquadrare il problema. La convinzione che le incertezze possano essere eliminate e che possa esistere una forma di controllo totale sui sistemi che generano i rischi, attraverso l'aumento della conoscenza scientifica e lo sviluppo della tecnologia, è stata progressivamente intaccata da eventi che ne hanno dimostrato l'inconsistenza. La percezione del rischio Incidenti industriali, collassi di infrastrutture, effetti non previsti nell’uso di prodotti chimici e farmaceutici, casi di inquinamento hanno mostrato esattamente l’opposto, ovvero la mancanza di controllo, la possibilità di «sorprese» e il permanere di ineliminabili incertezze. La percezione del rischio Dunque il rischio gestito da sistemi esperti, non si rivela più efficace, e questo processo è accompagnato dalla conseguente perdita di fiducia nelle istituzioni scientifiche e politiche. La gente non si sente più protetta dagli “esperti”, che non solo non sembrano in grado di controllare i rischi, ma addirittura contribuiscono a crearne o amplificarne gli effetti. La percezione del rischio Le popolazioni vedono spesso respinte come prive di razionalità (attendibilità scientifica) le osservazioni e le conoscenze che derivano dal loro «sapere locale» e dalla loro esperienza quotidiana. Può capitare che la richiesta di maggiore sicurezza, da parte di una comunità che convive stabilmente con certi rischi, venga disattesa, in quanto non giustificata da dati scientifici che provino l’esistenza di possibili danni alla salute o all’ambiente. La percezione del rischio Vi è in ciò un aspetto paradossale: per ottenere il crisma della validazione scientifica, questa comunità deve aspettare fino a che i primi segnali di pericolo, che essa ha già ravvisato, si trasformino in rischi, sindromi conclamate e danni diffusi. ESEMPI? La percezione del rischio VAJONT 9 ottobre 1963: una frana di notevoli proporzioni (circa 260 milioni di mc di materiale), staccatasi dal monte Toc, precipitò nel bacino artificiale del Vajont (un bacino creato dalla più alta diga del mondo (267 m). Il materiale caduto riempì l'invaso per una lunghezza di 1,8 km ed un'altezza di 152 m al di sopra del livello idrico. Il violento impatto provocò un'ondata di oltre 200 metri che, dopo avere lambito gli abitati di Erto, Casso e S. Martino, posti a monte, si abbatté sulla diga asportandone la parte superiore; quindi si incanalò nella profonda gola del Vajont, raggiungendo la sottostante Valle del Piave e cancellando in pochi minuti il grosso centro di Longarone ed altri abitati minori. La percezione del rischio La percezione del rischio La percezione del rischio La percezione del rischio Un sasso è caduto in un bicchiere, l’acqua è uscita sulla tovaglia. Tutto qua. Solo che il sasso era grande come una montagna, il bicchiere alto centinaia di metri, e giù sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. E non è che si sia rotto il bicchiere; non si può dar della bestia a chi lo ha costruito perché il bicchiere era fatto bene, a regola d’arte, testimonianza della tenacia e del coraggio umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro. Anche dal punto di vista estetico. DA “IL RACCONTO DEL VAJONT “ Garzanti 1997, pp.7-13 di Marco Paolini e Gabriele Vacis La percezione del rischio Il Monte Toc è una montagna delle Alpi alta 1.921 m. È situato sul confine tra la provincia di Pordenone e la provincia di Belluno, tra la val Gallina, la valle del Piave e la valle del Vajont. È divenuto tristemente famoso per il disastro del Vajont: una frana cadde dai fianchi dirupati del monte nella diga del Vajont, che straripò e distrusse diverse frazioni di Erto e Casso e travolse Longarone. L'origine del nome proviene dalla parlata locale: la radice "Toc" in gran parte del triveneto significa "pezzo", ma in lingua friulana indica anche qualcosa di "guasto", "avariato", "sfatto", condividendo lo stesso etimo dell'aggettivo "Patoc" che peraltro significa "zuppo" o "marcio". Probabilmente pertanto venne così chiamato per la sua nota franosità, poiché tutto il versante sovrastante era di natura calanchiva. La percezione del rischio I numerosi studi eseguiti successivamente posero in evidenza una serie di cause, alcune delle quali tuttora scarsamente conosciute, che in concomitanza avrebbero condotto alla catastrofe. Dall’insieme dei predetti studi sembra di potere concludere che le caratteristiche strutturali hanno certamente assunto un ruolo importante in rapporto ad altre circostanze sia naturali che indotte, per cui il fenomeno non poteva essere previsto e valutato precedentemente in sede di studio e progettazione della diga, mentre forse il disastro poteva essere limitato nelle nefaste conseguenze umane, qualora fosse stata valutata l’importanza di certi eventi osservati in precedenza localmente e che, considerati a posteriori appaiono molto indicativi. (VVFF Belluno) La percezione del rischio CULTURA E SAPERE LOCALE Quindi non c'è spazio i fatti risultanti dalla conoscenza indigena, da considerarsi invece complementi indispensabili per la comprensione della dinamica dei sistemi complessi. In conclusione, il fatto di considerare, nell’ambito della percezione del rischio, la presenza di elementi altamente soggettivi, quali la cultura, l’appartenenza, la scala dei valori, le mappe mentali ecc., permette di spiegare perché su alcuni eventi o fenomeni si verifica una mobilitazione sociale molto forte e su altri, giudicati dagli esperti come maggiormente preoccupanti, ciò non accada. La comunicazione del rischio L’espressione «comunicazione del rischio» è stata coniata in anni in cui tale attività veniva concepita come un passaggio a senso unico di informazioni quantitative dagli esperti al pubblico, i primi nel ruolo attivo di docenti, il secondo in quello passivo di discenti. La comunicazione del rischio I sette stadi di sviluppo della comunicazione L’analisi effettuata attraverso la ricostruzione riflette i cambiamenti avvenuti nella concettualizzazione del rischio, ovvero il passaggio dalla considerazione dei modelli quantitativi come uniche fonti legittime di valutazione, all’inclusione progressiva di aspetti relativi alla percezione e all'accettabilità sociale dei rischi. La comunicazione del rischio 1. In un primo stadio, la comunicazione del rischio non esiste. Gli esperti lavorano in isolamento e si dedicano a compiti tecnici, per migliorare il disegno e il funzionamento delle tecnologie. Il loro motto è: «Tutto ciò che dobbiamo fare è trovare i numeri giusti». Tale splendido isolamento può essere mantenuto solo fin tanto che la questione del rischio non si ponga pubblicamente, ovvero per un tempo usualmente molto breve. II silenzio diviene allora segnale comunicativo molto forte, interpretato solitamente come indisponibilità a far sapere, o volontà di nascondere. La comunicazione del rischio 2. La risposta di tecnici, analisti e manager a questa manifestazione di sfiducia è: «Tutto ciò che dobbiamo fare è comunicare i numeri». Ma i numeri non parlano da soli, essendo spesso (ed inevitabilmente) il risultato anche di stime soggettive. La comunicazione del rischio 3. Si passa allora allo stadio del: «Tutto ciò che dobbiamo fare è spiegare che cosa intendiamo con i numeri», e lo sforzo si concentra nella selezione di quei numeri che possono avere maggior senso e più chiaro significato per i soggetti a cui ci si rivolge. Tuttavia spiegare i numeri in un linguaggio non tecnico è compito arduo e per di più spesso la gente non chiede numeri, ma risposte alle proprie curiosità o preoccupazioni. La comunicazione del rischio 4. Il motto degli esperti diviene dunque: «Tutto ciò che dobbiamo fare è mostrare loro che hanno accettato simili rischi in passato» . La strategia comunicativa diventa quella di comparare le statistiche di morte relative, ad esempio, agli incidenti nucleari e all’abitudine al fumo. La comunicazione del rischio 5. Si arriva allo stadio successivo, identificabile con lo slogan: «Tutto ciò che dobbiamo fare è mostrare che è un buon affare per loro». In termini temporali questi primi cinque stadi coprono il decennio 1975-1984, in cui era largamente prevalente fra i tecnici la convinzione che la gente sia mossa da paure irrazionali, generate dall'ignoranza e debba dunque essere convinta che la valutazione degli esperti è la base più solida per le decisioni. Si stava ormai accumulando una vasta mole di studi sulla percezione del rischio, ma c'era una diffusa tendenza ad interpretare i loro risultati come una conferma dell'irrazionalità della gente comune. La comunicazione del rischio 6. Sesto stadio: «Tutto ciò che dobbiamo fare è trattarli gentilmente». Copre approssimativamente l’intero decennio successivo (19851994) e segna una svolta nello stile della comunicazione. Si comincia a tenere conto dei bisogni, delle aspettative, delle percezioni della gente, si presta attenzione all’aspetto della credibilità delle fonti, a quello della fiducia, e così via. La comunicazione del rischio La svolta successiva, che si prolunga fino a oggi, non è dettata soltanto da considerazioni di opportunità, ma anche dalla presa d'atto di un cambiamento sociale profondo. Ci troviamo nel settimo stadio, il cui motto è: «Tutto ciò che dobbiamo fare è renderli partner». Ai “cittadini qualunque” viene riconosciuto un ruolo più attivo nelle questioni del rischio e della sicurezza, sia perché si crede che essi possano effettivamente offrire un fattivo contributo, sia perché non se ne può fare a meno. La comunicazione del rischio Oggi, ma non sempre e non dappertutto A livello locale, si moltiplicano gli esempi di tavoli allargati a tutti gli stakeholders su una determinata questione: l’ampliamento di un aeroporto, l’insediamento di un impianto a rischio, l’installazione di un’antenna per la telefonia mobile, la conversione d’uso di un determinato territorio, ecc. Focus group, giurie di cittadini, comitati pubblici, mediazioni e negoziazioni ambientali sono esperienze comuni ormai in tutta Europa, e non solo nei paesi scandinavi e anglosassoni in cui hanno avuto origine. La comunicazione del rischio La comunicazione del rischio è cambiata: l'informazione non fluisce più a senso unico, dagli esperti alla gente, il suo contenuto non è più codificato in forma esclusivamente numerica, le relazioni sono improntate al dialogo. Tutto ciò non significa affatto che esista un maggiore consenso: al contrario i conflitti risultano spesso esacerbati, ma l’esistenza di una pluralità di prospettive non può ormai essere ignorata.