Materiale in consultazione
utilizzato nel corso delle lezioni
19 marzo 2007
LE DIMENSIONI DEL RISCHIO
Il rischio viene definito e analizzato in
maniera distinta da diversi approcci
disciplinari.
Se i modelli quantitativi si rivelano
inadeguati per affrontare la complessità
delle questioni oggi sul tappeto,
(permeate da una forte incertezza, o
non conoscenza), occorre riconoscere
la multidimensionalità del concetto di
rischio
e accettare la coesistenza di diversi
paradigmi.
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19 marzo 2008
La probabilità “oggettiva”
Per introdurre la nozione di rischio, così come è
presente nella società moderna, è opportuno rifarci
all’ambito economico.
In questo ambito il rischio si collega alla necessità di
prevedere l’esito di investimenti in condizioni di
incertezza (appunto i mercati finanziari).
Le prime rappresentazioni matematiche del rischio
derivano dalla necessità di quantificare quindi la
possibilità di un guadagno e sono utilizzate come base
nelle decisioni di investimento.
La probabilità “oggettiva”
Il paradigma sotteso è quello dell’attore razionale che
ha l’obiettivo di ottimizzare il proprio beneficio e che
sceglie fra possibili opzioni, a lui tutte note e fra loro
confrontabili numericamente,
grazie alla riduzione dei costi e dei benefici ad un unica
unità di misura, il denaro.
Il concetto di rischio non assume quindi in prima
battuta una connotazione negativa, ma si presenta come
opportunità di un esito positivo e voluto: maggiore il
rischio, maggiore la possibilità di guadagno.
La probabilità “oggettiva”
Tuttavia in altri ambiti (fenomeni naturali, incidenti
industriali, malattie, epidemie), il rischio rimanda ad un
esito negativo, non voluto, associato all'idea di perdita,
danno, catastrofe.
Questa connotazione negativa del concetto di rischio è
profondamente moderna.
La probabilità “oggettiva”
Infatti, se tutte le culture e le comunità umane hanno
sviluppato il concetto di pericolo, quello di rischio emerge
solo nel momento in cui si realizzano specifici saperi, capacità
di azione e modi di concepire l'azione stessa.
QUALE DIFFERENZA?
La probabilità “oggettiva”
La distinzione più chiara tra rischio e pericolo è stata formulata da Luhmann
(1991):
Si ha un pericolo quando un evento dannoso si verifica indipendentemente da una
qualsiasi decisione
Si ha un rischio quando il verificarsi di un evento, dannoso o vantaggioso (come
una vincita alla roulette), è connesso a una decisione.
Vi è poi un terzo elemento che entra in gioco, quello di incertezza:
- se si ha un rischio quando è possibile calcolare la probabilità del verificarsi di un
evento
- si ha incertezza quando questo calcolo non è possibile.
La probabilità “oggettiva”
L’analisi del
rischio
comporta lo
sforzo di
individuare, nel
modo più
sistematico
possibile, catene
di cause ed
effetti, a partire
da un evento o
da un insieme di
eventi che si
ritengono
rilevanti.
Lo sviluppo del calcolo delle
probabilità e il sempre più
frequente ricorso alla statistica
hanno consentito di analizzare
tali catene anche in assenza di
certezze sui meccanismi di
causazione.
In un primo momento, dunque, l’analisi
dei rischi vale a rafforzare la
convinzione che la crescita della società
industriale e il progetto di controllo
della natura si svolga in condizioni di
accettabile tranquillità.
Ciò ha favorito lo
sviluppo di
attività di
previsione e
gestione dei
rischi che, pur
senza offrire
sicurezze,
garantiscono,
quanto meno, la
loro accettabilità
sociale e
individuale.
La probabilità “oggettiva”
Ma, specie nel XX secolo,
le trasformazioni
ambientali indotte dalla
tecnologia sono di tale
peso da fare apparire
sempre più improbabile
l’idea di un controllo
efficace di ogni possibile
fonte di rischio.
Infatti, quasi paradossalmente,
lo stesso affinamento
dell’apparato scientifico e
tecnologico usato per scoprire e
valutare i diversi tipi di minacce
che gravano sui sistemi sociali,
ha portato a evidenziare una
molteplicità talmente ampia di
cause di rischio da rendere
sempre meno credibile
l’ipotesi di una loro
neutralizzazione
generalizzata.
La probabilità “oggettiva”
Inoltre, in molti casi, l’avanzamento della
ricerca fa scoprire che
l’interazione tra diverse cause e tra
queste e i loro effetti è di una complessità
non rappresentabile se non con modelli
concettuali altrettanto complessi,
disponibili, nel migliore dei casi, solo per
un ristretto numero di specialisti,
ma scarsamente adatti a fornire
rassicurazioni sociali.
La probabilità “soggettiva”
È possibile effettuare diverse quantificazioni di probabilità dello
stesso evento (valutazioni del rischio)?
Quando si devono valutare i rischi connessi a sistemi tecnologici
complessi (centrali nucleari, industria petrolchimica) e alle loro
ripercussioni sull’ambiente e sulla salute, si ricorre normalmente
alle probabilità soggettive:
- perché mancano serie storiche di dati su cui costruire probabilità
oggettive esaurienti
- perché nella valutazione entrano elementi di conoscenza ed
esperienza personale, che spiegano differenti risultati.
La probabilità “soggettiva”
In questi casi, le discrepanze nell’analisi
del rischio (e nel calcolo della probabilità
ad esso connessa) possono essere
originate da:
- scelte tecniche contrastanti
- considerazioni di tipo psicologico,
culturale, sociale, etico e politico
amministrativo.
È indagando su queste ultime che si mette
in discussione la possibilità di una
univoca definizione del concetto di
rischio.
La misurazione del rischio
In ogni valutazione del rischio entrano almeno quattro ordini di fattori:
1. Ambito
L’ambito fenomenico entro cui si intende condurre l’analisi dei rischi.
Ad esempio un contesto territoriale, un sistema socioeconomico o socio-tecnico
(per esempio un impianto produttivo) o un insieme di attività cui fare
riferimento come orizzonte all'interno del quale si concentra l'attenzione.
La misurazione del rischio
2. Probabilità
All’interno dell’ambito individuato, occorre
identificare la possibilità di accadimento di un
certo evento, al quale si cercherà di associare una
probabilità P di accadimento.
La possibilità di accadimento può essere espressa in
termini probabilistici, anche se non sempre
possibile a causa della complessità di certe
questioni, da cui derivano delle irriducibili
incertezze.
La misurazione del rischio
2. Probabilità
Ad esempio, sulla base di serie storiche di
dati si può calcolare con una certa
precisione la probabilità di morti a causa
di incidenti stradali in un determinato anno
o ancora la probabilità di un guasto ad una
singola componente di un sistema
tecnologico.
Molto più problematico è invece
quantificare la probabilità di
malfunzionamento di un intero sistema
tecnologico.
La misurazione del rischio
2. Probabilità
Quindi il calcolo della probabilità di accadimento si rivela talvolta
insufficiente, particolarmente:
- quando si applica a sistemi complessi, le cui componenti sono
strettamente connesse e possono interagire tra loro in maniera
imprevista e imprevedibile
- quando si parla di fenomeni complessi, quali il cambiamento
climatico, o nuove tecnologie, quali l’ingegneria genetica.
Non a caso se gruppi di esperti distinti eseguono delle valutazioni
del rischio partendo dagli stessi dati, si possono produrre risultati
anche molto diversi, ma non per questo scorretti.
La misurazione del rischio
3. Magnitudo
Occorre poi descrivere le conseguenze
indesiderate che potrebbero essere causate
dagli eventi di cui sopra;
ad ogni conseguenza si cercherà di associare
una misurazione della gravità del danno atteso
(ovvero della sua magnitudo M).
La misurazione del rischio
3. Magnitudo
Il calcolo della magnitudo delle
conseguenze di un evento
potenzialmente dannoso, diventa
difficile
- quando l’evento non sia puntuale,
circoscritto nel tempo e nello spazio
- quando cioè non si tratta di perdere un
certo investimento finanziario o una
certa posta alla roulette
- ma si tratta di perdere la salute, la
propria vita, o le risorse naturali
indispensabili ad essa.
La misurazione del rischio
3. Magnitudo
In questi casi la difficoltà non è solo quella di quantificare le
conseguenze negative, ma prima ancora di concettualizzarle.
Alcune incertezze non sono riducibili ad espressioni numeriche,
perché toccano alcuni degli aspetti fondamentali della nostra vita
individuale e collettiva.
La misurazione del rischio
4. Fattore di utilità
Infine, l'analisi del rischio presuppone la presenza di criteri di
valore, che consentano di valutare:
- l’utilità delle attività potenzialmente rischiose
- l’indesiderabilità delle conseguenze attese
eventualmente distinguendo tra punti di vista di soggetti diversi
nello stabilire l'intensità tanto della prima, quanto della seconda.
La misurazione del rischio
La formula del rischio
Allo scopo di introdurre anche la considerazione degli aspetti
soggettivi, relativi alla valutazione dei vantaggi o danni attesi, la
formula del rischio è espressa in modo da comprendere anche un
fattore di utilità U.
Dunque la formula è
R = f (P, M, U)
La sociologia e la misurazione del rischio
Che fa?
Deve garantire che i criteri “oggettivi” assicurino un'adeguata
inclusione delle variabili relative ai sistemi sociali e alle diverse
categorie di soggetti coinvolti.
Tenere presente che:
- uno stesso progetto/impianto/azione possono manifestare e
generare benefici e costi che incidono in maniera diversa in vari
contesti territoriali
- una decisione trascina con sé rischi che, a parità di intensità e
probabilità, si manifestano in modo diverso in funzione delle
caratteristiche dei singoli contesti.
La sociologia e la misurazione del rischio
Presupporre che vi sia a priori una unanimità di giudizi su ciò che
è desiderabile e indesiderabile, in molte situazioni può comportare
non solo la parzialità della valutazione del rischio, ma anche il
moltiplicarsi delle occasioni di fraintendimento nel corso del
processo decisionale.
Ad esempio, tutti i soggetti coinvolti possono accettare di assumere
come punti di riferimento il principio del vantaggio economico e
quello della tutela ambientale,
ma possono discordare nel giudizio sulla priorità da assegnare
all'uno o all'altro o, anche, nelle modalità con cui applicarli.
La sociologia e la misurazione del rischio
Un secondo, più radicale tipo di conflitto può sorgere qualora vi sia
discordanza nella stessa scelta dei criteri, addirittura nei presupposti
culturali che giustificano tale scelta.
È possibile che sorga quello che Socco (1999) chiama il problema
del relativismo culturale nella valutazione degli effetti:
ad esempio, la comunità locale maggiormente coinvolta dal
progetto può ritenere grave il fatto che le proprie tradizioni siano
messe a repentaglio dalle trasformazioni indotte, mentre i
proponenti (o gli esperti) possono pensare che tali mutamenti
rappresentino una evoluzione positiva verso la modernità.
La sociologia e la misurazione del rischio
Questo problema assume una rilevanza particolare quando esistono
forti divari culturali tra coloro che propongono un’opera e le
popolazioni interessate, come è nel caso di progetti proposti da
soggetti provenienti da paesi occidentali ad elevato sviluppo, da
realizzarsi in contesti rurali di paesi in via di sviluppo, con forte
presenza di popolazioni native.
La dimensione delle preferenze e dei valori mostra dunque come il
concetto di rischio sia complesso e multidimensionale e non
riconducibile a semplici formule matematiche.
La sociologia e la misurazione del rischio
In sostanza le scienze sociali:
se da una parte non negano l’utilità del calcolo economico
quantitativo, quale strumento preliminare per interrogarsi sui
caratteri di un progetto da realizzare
dall’altra ritengono che una misura basata esclusivamente sul
calcolo economico – valore monetario delle risorse sottratte e
dei danni – al fine di risarcire delle “vittime” non sia adeguata.
La sociologia e la misurazione del rischio
Basarsi solo su un calcolo economico quantitativo permette infatti
di determinare solo i costi diretti, tralasciando quelli indiretti,
scaricati sul contesto sociale e sulle comunità.
Quale deve essere quindi l’unità di misura da utilizzare per
valutare conseguenze e impatti? La maggior parte dei costi e dei
benefici non hanno un valore oggettivo equivalente a un prezzo di
mercato, ma hanno un valore sociale.
La sociologia e la misurazione del rischio
Per esempio la compensazione monetaria per la sottrazione dei terreni irrigui
di fondovalle a quelle comunità implicate nella costruzione di un bacino non
affronta il problema nella sua interezza.
Ci sarà una frattura nel sistema socio economico, in quanto il valore di
riferimento riguarda il modo di essere e di riprodursi di una comunità nel suo
insieme.
=
?
La sociologia e la misurazione del rischio
Quando si misura la probabilità che una
decisione possa generare dei rischi, occorre
impostare il problema su:
- la contestualizzazione e la delimitazione
dell’ambito in cui collocare il rischio
- l’analisi della percezione e
dell’accettabilità sociale del rischio
- la multidisciplinarietà nell’affrontare le
problematiche che derivano dalla decisione
- il coinvolgimento dei soggetti sociali
interessati, attraverso la comunicazione e la
partecipazione.
La sociologia e la misurazione del rischio
Questo modo di operare, che non fornisce una risposta definitiva alle catene
causali e all’impatto di un intervento su un sistema sociale, consente tuttavia di
agire in un ambito di consapevolezza.
La percezione del rischio
La spinta iniziale per gli studi sulla percezione del rischio deriva essenzialmente
dalla necessità di capire perché alcune tecnologie (per esempio quella nucleare)
suscitino così forti obiezioni nell’opinione pubblica.
L’ipotesi interpretativa di politici e tecnici in principio era molto grossolana, così
come la proposta di soluzione:
La gente non capisce la matematica, la statistica, le probabilità.
Diamo loro i numeri esatti, spieghiamo loro che si tratta di dati oggettivi, ed
elimineremo le loro irrazionali paure,
l’avversione verso innovazioni tecnologiche sicure,
come dimostrano i risultati dei nostri calcoli.
In pratica si tratta di convincere la gente ad accettare certi rischi sulla base della
loro ridotta probabilità di verificarsi.
La percezione del rischio
All’inizio degli anni ‘70 si riteneva che:
l’analisi dei rischi dovesse consistere
nell’applicazione, da parte di esperti, di
procedure di routine basate su un
presupposto di causalità lineare,
di conseguenza per la gestione dei rischi, le
indicazioni sarebbero derivate dai risultati
di tale analisi.
La percezione del rischio
Invece il «rischio» si rivela come un costrutto
concettuale in cui entrano una molteplicità di
aspetti il cui peso relativo varia in diversi
individui, gruppi, aree geografiche.
La “gente comune” costruisce i propri
atteggiamenti e giudizi attraverso percorsi
interpretativi che sono certamente distinti da quelli
degli “esperti”, ma non per questo devono essere
etichettati come irrazionali.
Proviamo a disegnare un “profilo di rischio”,
individuando le variabili che influenzano la
percezione.
La percezione del rischio
Tali variabili possono essere:
La volontarietà o meno
dell'esposizione:
la gente tende a trovare
inaccettabili rischi a cui è stata
esposta contro la propria volontà
o a propria insaputa.
La percezione del rischio
La distribuzione di rischi e benefici:
quando i primi ricadono su alcuni, mentre
dei secondi si avvantaggino altri (o tutti).
L’insorgere di molte comunità locali
contro l'installazione di linee elettriche e
antenne per la telefonia mobile costituisce
un buon esempio di questo tipo di
atteggiamento.
La percezione del rischio
Il controllo che si ritiene di
avere (direttamente o
indirettamente) su una
situazione/azione che comporti
l’esposizione ad un potenziale
danno.
A prescindere dalle statistiche
di mortalità per incidenti,
essere alla guida della propria
auto conferisce un controllo
maggiore sul mezzo di
trasporto che volare su un
aeroplano di linea.
La percezione del rischio
La conoscenza, sia scientifica sia
personale:
la gente sembra essere
maggiormente disposta a convivere
con rischi che le sono familiari, o
perché ampiamente studiati dagli
esperti, o perché in qualche modo
rientrano nel suo «panorama
cognitivo».
Si pensi a quanti abitano senza
eccessive preoccupazioni in una
zona sismica, sulle pendici di un
vulcano, o accanto ad un impianto
chimico o una centrale nucleare.
La percezione del rischio
Fenomeni naturali o attività umane: i danni
derivanti da fenomeni naturali sono più
facilmente accettati di quelli causati da attività
umane.
La percezione del rischio
Dall’analisi di queste variabili risulta
abbastanza chiaro che le persone non
basano assolutamente la propria
preferenza o avversione per certe
situazioni o attività su stime
esclusivamente quantitative.
In pratica, si scalfisce la
concezione che abbia senso parlare
nei termini di un «rischio reale o
oggettivo» in contrapposizione ad
un «rischio percepito»
La percezione del rischio
Inoltre, elementi soggettivi di valutazione (pur se appoggiati ad
una conoscenza tecnica) entrano inevitabilmente nel processo, a
cominciare dal modo di inquadrare il problema.
La convinzione che le incertezze possano essere eliminate e che
possa esistere una forma di controllo totale sui sistemi che generano
i rischi,
attraverso l'aumento della conoscenza scientifica e lo sviluppo
della tecnologia,
è stata progressivamente intaccata da eventi che ne hanno
dimostrato l'inconsistenza.
La percezione del rischio
Incidenti industriali, collassi di infrastrutture, effetti non
previsti nell’uso di prodotti chimici e farmaceutici, casi di
inquinamento hanno mostrato esattamente l’opposto,
ovvero la mancanza di controllo, la possibilità di
«sorprese» e il permanere di ineliminabili incertezze.
La percezione del rischio
Dunque il rischio gestito da sistemi esperti, non si rivela più
efficace, e questo processo è accompagnato dalla conseguente
perdita di fiducia nelle istituzioni scientifiche e politiche.
La gente non si sente più protetta dagli “esperti”, che non solo non
sembrano in grado di controllare i rischi, ma addirittura
contribuiscono a crearne o amplificarne gli effetti.
La percezione del rischio
Le popolazioni vedono spesso respinte come prive di razionalità
(attendibilità scientifica) le osservazioni e le conoscenze che
derivano dal loro «sapere locale» e dalla loro esperienza
quotidiana.
Può capitare che la richiesta di maggiore sicurezza, da parte di una
comunità che convive stabilmente con certi rischi, venga disattesa,
in quanto non giustificata da dati scientifici che provino l’esistenza
di possibili danni alla salute o all’ambiente.
La percezione del rischio
Vi è in ciò un aspetto paradossale: per ottenere il crisma della
validazione scientifica, questa comunità deve aspettare fino a che i
primi segnali di pericolo, che essa ha già ravvisato, si trasformino in
rischi, sindromi conclamate e danni diffusi.
ESEMPI?
La percezione del rischio
VAJONT
9 ottobre 1963: una frana di notevoli proporzioni (circa 260 milioni di mc di
materiale), staccatasi dal monte Toc, precipitò nel bacino artificiale del Vajont (un
bacino creato dalla più alta diga del mondo (267 m).
Il materiale caduto riempì l'invaso per una lunghezza di 1,8 km ed un'altezza di 152
m al di sopra del livello idrico.
Il violento impatto provocò un'ondata di oltre 200 metri che, dopo avere lambito gli
abitati di Erto, Casso e S. Martino, posti a monte, si abbatté sulla diga asportandone
la parte superiore; quindi si incanalò nella profonda gola del Vajont, raggiungendo la
sottostante Valle del Piave e cancellando in pochi minuti il grosso centro di
Longarone ed altri abitati minori.
La percezione del rischio
La percezione del rischio
La percezione del rischio
La percezione del rischio
Un sasso è caduto in un bicchiere,
l’acqua è uscita sulla tovaglia.
Tutto qua. Solo che il sasso era
grande come una montagna, il
bicchiere alto centinaia di metri, e
giù sulla tovaglia, stavano
migliaia di creature umane che
non potevano difendersi. E non è
che si sia rotto il bicchiere; non si
può dar della bestia a chi lo ha
costruito perché il bicchiere era
fatto bene, a regola d’arte,
testimonianza della tenacia e del
coraggio umani. La diga del
Vajont era ed è un capolavoro.
Anche dal punto di vista estetico.
DA “IL RACCONTO DEL VAJONT “
Garzanti 1997, pp.7-13
di Marco Paolini e Gabriele Vacis
La percezione del rischio
Il Monte Toc è una montagna
delle Alpi alta 1.921 m. È
situato sul confine tra la
provincia di Pordenone e la
provincia di Belluno, tra la val
Gallina, la valle del Piave e la
valle del Vajont. È divenuto
tristemente famoso per il
disastro del Vajont: una frana
cadde dai fianchi dirupati del
monte nella diga del Vajont, che
straripò e distrusse diverse
frazioni di Erto e Casso e
travolse Longarone.
L'origine del nome proviene
dalla parlata locale: la radice
"Toc" in gran parte del triveneto
significa "pezzo", ma in lingua
friulana indica anche qualcosa
di "guasto", "avariato", "sfatto",
condividendo lo stesso etimo
dell'aggettivo "Patoc" che
peraltro significa "zuppo" o
"marcio". Probabilmente
pertanto venne così chiamato
per la sua nota franosità, poiché
tutto il versante sovrastante era
di natura calanchiva.
La percezione del rischio
I numerosi studi eseguiti successivamente posero in evidenza una
serie di cause, alcune delle quali tuttora scarsamente conosciute, che
in concomitanza avrebbero condotto alla catastrofe.
Dall’insieme dei predetti studi sembra di potere concludere che le
caratteristiche strutturali hanno certamente assunto un ruolo
importante in rapporto ad altre circostanze sia naturali che indotte,
per cui il fenomeno non poteva essere previsto e valutato
precedentemente in sede di studio e progettazione della diga, mentre
forse il disastro poteva essere limitato nelle nefaste conseguenze
umane, qualora fosse stata valutata l’importanza di certi eventi
osservati in precedenza localmente e che, considerati a posteriori
appaiono molto indicativi.
(VVFF Belluno)
La percezione del rischio
CULTURA E SAPERE LOCALE
Quindi non c'è spazio i fatti risultanti dalla conoscenza indigena, da
considerarsi invece complementi indispensabili per la
comprensione della dinamica dei sistemi complessi.
In conclusione, il fatto di considerare, nell’ambito della percezione
del rischio, la presenza di elementi altamente soggettivi, quali la
cultura, l’appartenenza, la scala dei valori, le mappe mentali ecc.,
permette di spiegare perché su alcuni eventi o fenomeni si verifica
una mobilitazione sociale molto forte e su altri, giudicati dagli
esperti come maggiormente preoccupanti, ciò non accada.
La comunicazione del rischio
L’espressione «comunicazione del rischio» è stata coniata in anni in
cui tale attività veniva concepita come
un passaggio a senso unico di informazioni quantitative dagli esperti
al pubblico,
i primi nel ruolo attivo di docenti, il secondo in quello passivo di
discenti.
La comunicazione del rischio
I sette stadi di sviluppo della comunicazione
L’analisi effettuata attraverso la ricostruzione riflette i cambiamenti
avvenuti nella concettualizzazione del rischio,
ovvero il passaggio dalla considerazione dei modelli quantitativi
come uniche fonti legittime di valutazione,
all’inclusione progressiva di aspetti relativi alla percezione e
all'accettabilità sociale dei rischi.
La comunicazione del rischio
1. In un primo stadio, la comunicazione del rischio non esiste.
Gli esperti lavorano in isolamento e si dedicano a compiti tecnici,
per migliorare il disegno e il funzionamento delle tecnologie.
Il loro motto è: «Tutto ciò che dobbiamo fare è trovare i numeri
giusti».
Tale splendido isolamento può essere mantenuto solo fin tanto che
la questione del rischio non si ponga pubblicamente, ovvero per un
tempo usualmente molto breve. II silenzio diviene allora segnale
comunicativo molto forte, interpretato solitamente come
indisponibilità a far sapere, o volontà di nascondere.
La comunicazione del rischio
2. La risposta di tecnici, analisti e manager a questa manifestazione
di sfiducia è: «Tutto ciò che dobbiamo fare è comunicare i
numeri».
Ma i numeri non parlano da soli, essendo spesso (ed
inevitabilmente) il risultato anche di stime soggettive.
La comunicazione del rischio
3. Si passa allora allo stadio del: «Tutto ciò che dobbiamo fare è
spiegare che cosa intendiamo con i numeri»,
e lo sforzo si concentra nella selezione di quei numeri che possono
avere maggior senso e più chiaro significato per i soggetti a cui ci si
rivolge.
Tuttavia spiegare i numeri in un linguaggio non tecnico è compito
arduo e per di più spesso la gente non chiede numeri, ma risposte
alle proprie curiosità o preoccupazioni.
La comunicazione del rischio
4. Il motto degli esperti diviene dunque: «Tutto ciò che dobbiamo
fare è mostrare loro che hanno accettato simili rischi in passato» .
La strategia comunicativa diventa quella di comparare le statistiche
di morte relative, ad esempio, agli incidenti nucleari e all’abitudine
al fumo.
La comunicazione del rischio
5. Si arriva allo stadio successivo, identificabile con lo slogan:
«Tutto ciò che dobbiamo fare è mostrare che è un buon affare per
loro».
In termini temporali questi primi cinque stadi coprono il decennio
1975-1984, in cui era largamente prevalente fra i tecnici la
convinzione che la gente sia mossa da paure irrazionali, generate
dall'ignoranza e debba dunque essere convinta che la valutazione
degli esperti è la base più solida per le decisioni.
Si stava ormai accumulando una vasta mole di studi sulla
percezione del rischio, ma c'era una diffusa tendenza ad
interpretare i loro risultati come una conferma dell'irrazionalità
della gente comune.
La comunicazione del rischio
6. Sesto stadio: «Tutto ciò che dobbiamo fare è trattarli
gentilmente».
Copre approssimativamente l’intero decennio successivo (19851994) e segna una svolta nello stile della comunicazione.
Si comincia a tenere conto dei bisogni, delle aspettative, delle
percezioni della gente, si presta attenzione all’aspetto della
credibilità delle fonti, a quello della fiducia, e così via.
La comunicazione del rischio
La svolta successiva, che si prolunga fino a oggi, non è dettata
soltanto da considerazioni di opportunità, ma anche dalla presa
d'atto di un cambiamento sociale profondo.
Ci troviamo nel settimo stadio, il cui motto è: «Tutto ciò che
dobbiamo fare è renderli partner».
Ai “cittadini qualunque” viene riconosciuto un ruolo più attivo nelle
questioni del rischio e della sicurezza, sia perché si crede che essi
possano effettivamente offrire un fattivo contributo, sia perché non
se ne può fare a meno.
La comunicazione del rischio
Oggi, ma non sempre e non dappertutto
A livello locale, si moltiplicano gli esempi di tavoli allargati a tutti
gli stakeholders su una determinata questione: l’ampliamento di un
aeroporto, l’insediamento di un impianto a rischio, l’installazione di
un’antenna per la telefonia mobile, la conversione d’uso di un
determinato territorio, ecc.
Focus group, giurie di cittadini, comitati pubblici, mediazioni e
negoziazioni ambientali sono esperienze comuni ormai in tutta
Europa, e non solo nei paesi scandinavi e anglosassoni in cui hanno
avuto origine.
La comunicazione del rischio
La comunicazione del rischio è cambiata: l'informazione non fluisce
più a senso unico, dagli esperti alla gente, il suo contenuto non è più
codificato in forma esclusivamente numerica, le relazioni sono
improntate al dialogo.
Tutto ciò non significa affatto che esista un maggiore consenso: al
contrario i conflitti risultano spesso esacerbati, ma l’esistenza di una
pluralità di prospettive non può ormai essere ignorata.
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Rischio ambientale - Parte B