ANTOLOGIA
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IL SATYAGRAHA
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[ultima consultazione giugno 2009]Cfr. Robert Payne, Gandhi, Seuil Parigi 1972, pp. 312-313
“Non violenza e codardia si accompagnano male. Posso immaginare un uomo armato fino ai
denti che sia, in cuor suo, un codardo. Il possesso di armi implica un elemento di paura, se non di
vigliaccheria. La vera non-violenza è invece impossibile ove non si possegga un indomito coraggio.
La non-violenza non deve mai essere usata a mo’ di scudo per la codardia. Essa è un’arma per
il valoroso. Non scorgo né eroismo né sacrificio nel distruggere vite o proprietà, per offesa o per
difesa.
La prova del nove della non-violenza è che, in un conflitto non-violento, non vi sono
strascichi di rancore e, alla fine, i nemici si tramutano in amici. Di ciò ho fatto esperienza in
Sudafrica con il generale Smuts. Questi fu, dapprima, il mio più accanito avversario. Oggi è il mio
amico più affettuoso.
Questo è, in sostanza, il principio della non-collaborazione non-violenta. Ne consegue che
esso deve affondare le sue radici nell’amore. Il suo scopo non dev’essere quello di punire o di
infliggere ferite all’avversario. Pur non collaborando con lui, dobbiamo fargli sentire che in noi egli
ha un amico, e dobbiamo tentare di toccargli il cuore rendendogli servigi umanitari ogni volta che ci
è possibile.
La verità (satya) implica amore, e la fermezza (agraha) genera - e quindi ne è sinonimo - la
forza. Perciò ho preso a chiamare satyagraha il movimento per l’indipendenza dell’India.
Vale a dire: una forza che nasce dalla verità, dall’amore, dalla non-violenza. Ahimsa è attributo
dell’anima e, quindi, deve esser praticato da chiunque, in ogni faccenda della vita. Se non vien
messo in pratica in ogni settore, non ha alcun valore pratico.
L’ahimsa non è quella cosa rozza che si è voluto far apparire. Non nuocere ad alcun essere
vivente fa, senza dubbio, parte dell’ahimsa. Però ne è solo un’espressione secondaria. Al principio
dell’ahimsa nuoce qualsiasi pensiero malvagio, nuoce l’indebita fretta, nuocciono le menzogne,
l’odio, il malaugurio, l’invidia. Questo principio viene altresì violato quando si tiene per sé ciò di
cui il mondo ha bisogno.
In un’epoca come questa, in cui la forza bruta detta legge, è quasi impossibile, per chiunque,
credere che qualcuno possa rifiutare la legge della supremazia della forza bruta. Perciò ricevo
lettere anonime in cui mi si consiglia di non interferire nella campagna della non-collaborazione,
anche qualora da essa nascessero atti di violenza. Altri vengono da me e, presumendo che io,
segretamente, stia tramando violenza, mi chiedono quando verrà il felice momento in cui le ostilità
violente saranno apertamente dichiarate. Gli inglesi - mi assicurano costoro - non cederanno mai se
non alla violenza, aperta o clandestina.
Altri ancora - mi si informa - credono ch’io sia il più gran mascalzone vivente in India, poiché
non rivelo mai le mie vere intenzioni, mentre essi non hanno alcun dubbio ch’io, dentro di me,
creda nella violenza al pari di quasi tutti gli altri.
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Siccome la dottrina della spada è così radicata nella maggior parte degli uomini, siccome il
successo della non-collaborazione dipende soprattutto dalla rinuncia a ogni violenza dal principio
alla fine, e siccome le mie tesi al riguardo determinano la condotta di un gran numero di persone,
desidero precisare questi concetti nel modo più chiaro possibile.
Credo fermamente che, laddove non ci sia da scegliere che tra codardia e violenza, si debba
consigliare la violenza. Perciò, quando il mio figlio maggiore mi chiese come si sarebbe dovuto
comportare qualora fosse stato presente allorché io, nel 1908, venni aggredito e ridotto quasi in fin
di vita (scappar via e lasciare che mi ammazzassero, oppure seguire il suo istinto e usar la propria
forza fisica per difendermi), io gli risposi che sarebbe stato suo dovere difendermi, anche a costo di
usare violenza.
Però credo fermamente che la non-violenza sia mille volte superiore alla violenza, che il
perdono sia più virile del castigo. «Il perdono nobilita il soldato». Ma l’astensione dal castigo
equivale al perdono soltanto allorché si ha il potere di punire; non ha senso, invece, quando
proviene da una creatura impotente. Un topo non perdona il gatto nel momento in cui non può far
altro che lasciarsi sbranare. Io, perciò, apprezzo il sentimento di quanti reclamano l’esemplare
punizione del generale Dyer e dei suoi pari. Lo farebbero a pezzi, se potessero. Ma non credo che
l’India sia impotente. Non considero me stesso una creatura impotente. Solo, intendo usare la mia
forza e la forza dell’India per uno scopo migliore.
Non mi si fraintenda. La forza non deriva dalla capacità fisica. Proviene da un’indomita
volontà. Uno zulu medio è in grado di sopraffare, in qualsiasi momento, un inglese medio, in un
combattimento a corpo a corpo. Però fugge di fronte a un ragazzino inglese, poiché teme la sua
rivoltella o quelli che l’userebbero per lui. Teme la morte e perde coraggio nonostante la prestanza
fisica. Noi in India potremmo anche renderci conto da un momento all’altro che centomila inglesi
non debbono spaventare trecento milioni di esseri umani. In questo caso, certo, il perdono
significherà il sicuro riconoscimento della nostra forza. Assieme al perdono illuminato verrà
senz’altro a noi, come un’onda, una gran forza, e allora non sarà più possibile a un generale Dyer o
a un Frank Johnson recare affronto all’India remissiva. Importa poco che, per il momento, io non
riesca a inculcare il mio principio. Ci sentiamo troppo umiliati, adesso, per non nutrire rabbia e
desiderio di vendetta. Ma non posso astenermi dal dire che l’India ha tutto da guadagnare
rinunciando al suo diritto di punire. Abbiamo un lavoro migliore da svolgere, una missione più alta
da compiere per il mondo intero.
Non sono un visionario. Mi reputo un idealista pratico. La religione della non-violenza non è
intesa soltanto per i rishi [saggi indù] e per i santi. È intesa anche per la gente comune. La nonviolenza è la legge della nostra specie, come la violenza è la legge dei bruti. Lo spirito giace in
letargo, nel bruto, ed egli non conosce altra legge che quella della possanza fisica. La dignità umana
richiede che si obbedisca a una legge più alta: alla forza dello spirito.
Mi son quindi azzardato a proporre all’India l’antica legge del sacrificio-di-sé. Poiché il
satyagraha e le sue diramazioni - la non-collaborazione e la resistenza civile - non sono altro che
nuovi nomi per la legge della sofferenza. Quei rishi che scoprirono la legge della non-violenza nel
bel mezzo della violenza eran dei geni più grandi di Newton. Ed eran guerrieri più grandi di
Wellington. Benché esperti nell’uso delle armi, essi ne compresero l’inutilità e insegnarono a un
mondo affranto che la sua salvezza non poteva venire dalla violenza, bensì dalla non-violenza.
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Non-violenza, nella sua condizione dinamica, significa cosciente sofferenza. Non significa
mite sottomissione alla volontà dei malvagi, ma comporta l’impegno di tutta l’anima a opporsi alla
volontà del tiranno. Operando in nome di questa legge interiore, risulta impossibile per un singolo
individuo sfidare tutto il potere di un ingiusto impero per salvare il proprio onore, la propria
religione, la propria anima e adoperarsi per la caduta di quell’impero o per la sua rigenerazione.
Dunque, non chiedo all’India di praticare la non-violenza perché è debole. Voglio ch’essa la
pratichi essendo ben conscia della sua propria forza, del suo proprio potere. Nessun addestramento
alle armi è necessario per dispiegare questa forza. Si può credere di averne bisogno perché si pensa
di essere soltanto un corpo inerte. Voglio che l’India si renda conto di avere un’anima che non può
perire, ma che è capace di elevarsi trionfalmente al di sopra di ogni debolezza fisica e di sfidare il
mondo intero.
Qual è il significato di Rama, semplice essere umano, che, aiutato da un’orda di scimmie, si
oppone alla forza insolente di Ravana dalle dieci teste, il quale si crede al sicuro perché circondato
da acque impetuose, nell’isola di Sri Lanka? Non sta forse a significare la vittoria della forza
spirituale sulla possanza fisica? Però, essendo un uomo pratico, non aspetterò che l’India scopra da
sé l’efficacia dell’arma spirituale nella lotta politica. L’India si ritiene impotente e si paralizza di
fronte alle mitragliatrici, ai carri armati e agli aeroplani degli inglesi. E fa derivare la noncollaborazione dalla sua debolezza. Tuttavia essa servirà allo stesso scopo, cioé a liberarla
dall’oppressione inglese, dal peso di questa ingiustizia, se un numero sufficiente di persone la
metteranno in pratica.
Io distinguo questo movimento di non-collaborazione dal movimento indipendentista
irlandese, il sinn Fein, poiché il nostro non è conciliabile in alcun modo con la violenza. Tuttavia
invito anche gli adepti della scuola della violenza a provare invece con la pacifica noncollaborazione, o resistenza passiva.
Se fallisse, non sarebbe a causa della sua intrinseca debolezza. Potrebbe fallire per una
scarsità di adesioni. Allora il pericolo sarebbe davvero grave. Gli uomini d’animo nobile
- che non posson tollerare più a lungo l’umiliazione della loro patria - vorranno dare sfogo
alla rabbia. Si voteranno alla violenza. Per quel che ne so io, periranno però senza liberare se stessi
e il Paese dall’oppressione. Se l’India adottasse la dottrina della spada, potrebbe conseguire una
vittoria momentanea. Allora, però, cesserebbe di essere l’orgoglio del mio cuore. Io sono sposato
all’India poiché a essa debbo tutto di me. Credo, assolutamente, che essa abbia una missione nel
mondo. Non deve imitare ciecamente l’Europa. Se l’India accettasse la dottrina della spada, io
verrei messo allora a dura prova. Spero di non venir trovato in difetto. La mia fede in essa, questa
fede vivente trascenderà il mio stesso amore per l’India. La mia vita è votata a servire l’India
mediante la religione della non-violenza che, secondo me, sta alla radice dell’induismo.
Frattanto sollecito coloro che non si fidano di me a non disturbare il pacifico andamento della
lotta appena cominciata, incitando alla violenza perché convinti che io desideri la violenza. Detesto
i sotterfugi, l’insincerità. Si dia modo a questa gente di metter alla prova la noncollaborazione nonviolenta, e ci si accorgerà che io non ho e non ho mai avuto riserve mentali di sorta.
La forza della non-violenza è di gran lunga più meravigliosa e arcana delle forze materiali
della natura, come l’elettricità. La forza generata dalla non-violenza è infinitamente maggiore della
forza di tutte le armi inventate dall’ingegno umano.
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Sebbene la non-collaborazione sia una delle principali armi nell’arsenale del satyagraha, non
va però dimenticato che non è, dopotutto, altro che un mezzo per assicurarsi la collaborazione
dell’avversario, in armonia con la verità e la giustizia.
Troncare ogni rapporto con le potenze avversarie non sarà mai, quindi, consono ai fini del
satyagraha, il quale mira invece a trasformare o purificare quei rapporti.
La disobbedienza civile rientra fra i diritti di qualsiasi cittadino. Nessuno può rinunciarvi
senza cessare di essere uomo. Alla disobbedienza civile non tiene mai dietro l’anarchia. La
disobbedienza criminale può invece condurvi. Ogni Stato reprime con la forza la violenza
criminale. Perirebbe, se così non facesse. Ma reprimere la disobbedienza civile equivale a cercar di
incarcerare le coscienze.
Non credo nelle scorciatoie violente al successo. Per quanto io ammiri i nobili motivi e
simpatizzi con essi, sono incondizionatamente avverso ai metodi violenti, anche se al servizio della
causa più giusta. L’esperienza mi ha convinto che un bene permanente non potrà mai esser frutto di
non-verità e di violenza.
La non-violenza implica la volontaria sottomissione alle pene previste per la noncollaborazione con il male.
Chiudo questo mio scritto suggerendo alcune norme e direttive da mettersi subito in pratica.
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Non si devono accettare volontari impreparati per le grandi dimostrazioni.
Pertanto solo i più esperti dovranno porsi alla testa dei cortei.
I volontari dovranno avere con sé un opuscolo con le istruzioni generali.
Nell’imminenza di una dimostrazione, si dovranno passare in rassegna i volontari e
impartire loro speciali istruzioni.
Nelle stazioni, i volontari non dovranno concentrarsi tutti in un solo punto, presso il
comitato di ricevimento, ma dovranno essere scaglionati qua e là tra la folla.
Alle stazioni non dovranno accedere grandi folle. Non farebbero che intralciare il
traffico. C’è altrettanto onore nell’entrare in stazione, quanto nel restarne fuori.
Primo compito dei volontari sarà far sì che i bagagli degli altri passeggeri non
vengano calpestati.
I dimostranti non entreranno in stazione molto prima dell’ora d’arrivo prevista.
Si dovrà lasciare un varco per consentire ai passeggeri di raggiungere il treno.
Un secondo corridoio dovrà restare aperto al centro della dimostrazione, per il
passaggio delle personalità.
Non si formino catene. È umiliante.
I dimostranti non si muovano finché le personalità non abbiano raggiunto le loro
carrozze, o finché non abbiano ricevuto un segnale convenuto da un volontario
autorizzato.
Gli slogan nazionali debbono essere prestabiliti e non vanno lanciati comunque, in
qualsiasi momento o tutto il tempo, bensì solo all’arrivo del treno, allorché le
personalità salgono in carrozza, e poi, durante il corteo, a giusti intervalli.
Non si obietti che, in tal modo, la dimostrazione diverrebbe meccanica e tutt’altro
che spontanea. La spontaneità dipenderà da quanto saranno nutrite le grida, dalla
reazione a esse e dall’atteggiamento generale dei dimostranti, non già dal gran
numero di slogan scomposti né dall’intensità delle grida. È l’addestramento di cui i
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partecipanti danno prova a caratterizzare le dimostrazioni. Un maomettano che in
silenzio prega nella sua moschea non è meno «dimostrativo» di un indù che, al
tempio, produce gran clamore con la voce, con il gong o con entrambi.
Lungo il percorso la folla deve allinearsi e non seguire le carrozze. Se del corteo
fanno parte pedoni, essi debbono prender posto in silenzio e ordinatamente, e non
partecipare o astenersi a loro piacimento.
La folla non dovrà far ressa sulle personalità, ma scostarsi da esse.
Chi si trova ai margini della cerchia non dovrà premere in avanti né opporre
resistenza a una pressione in senso contrario.
Se vi sono donne in mezzo alla folla, esse vanno protette.
Non si dovranno portare tra la folla bambini piccoli.
Alle riunioni, i volontari si disperdano tra la folla. Imparino a far segnali con
bandierine o mediante fischietti al fine di comunicarsi istruzioni, qualora a voce non
sia possibile.
Non spetta al pubblico mantenere l’ordine. Basta, per questo, che sia fermo e in
silenzio.
Soprattutto, ciascuno deve obbedire alle istruzioni dei volontari senza fare domande.
Il mio amico Shaukat Ali sembra dare la massima importanza alla violenza e ritenere che
uccidere il proprio nemico sia il dharma dell’uomo. Quindi, egli segue la legge della non-violenza
con il cuore gonfio di odio. Secondo lui, la non collaborazione è un’arma dei deboli, inferiore,
quindi, alla resistenza attiva. Ciononostante, si è unito a me perché ha capito che, a parte la noncollaborazione o resistenza passiva, non v’è alcun altro metodo efficace per tener alto l’onore della
sua fede.
Faccio appello a quanti non hanno fede in me, affinché seguano il mio amico Shaukal Ali.
Non occorre che credano nella purezza delle mie motivazioni, ma devono chiaramente rendersi
conto che violenza e non-collaborazione non possono andar insieme. Il maggior ostacolo al lancio
di una grande campagna di resistenza passiva è proprio il timore che da essa si scatenino violenze.
Coloro che hanno pronte le armi debbono metterle da parte fintanto che è in corso la non
collaborazione.
A mio avviso, il giorno in cui la forza bruta dettasse legge in India, ogni distinzione fra Est e
Ovest, fra antico e moderno, verrebbe a scomparire. Quello sarà il giorno del giudizio, per me. Io
sono fiero di considerare l’India mia patria, poiché ritengo che essa sia in grado di dimostrare al
mondo la supremazia della forza d’animo. Qualora l’India accettasse la supremazia della forza
bruta, non sarei più felice di chiamarla mia patria. Sono convinto che il mio dharma non riconosce
limiti fra le varie sfere del dovere, né confini geografici. Prego Dio affinché io possa essere in grado
di provare che il mio dharma non si dà alcun pensiero della mia persona né è limitato a un campo
particolare.
Il satyagraha è una forza che può venir impiegata sia da individui sia da comunità. Può usarsi
sia negli affari politici sia in quelli domestici. La sua applicabilità universale ne dimostra la
permanenza e l’invincibilità. Può esser usato da uomini, donne e bambini. Non corrisponde affatto
al vero dire che è una forza che possono usare solo i deboli in quanto non potrebbero rispondere alla
violenza con la violenza.
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In questa età di grandi prodigi nessuno dirà che una cosa o un’idea non vale niente perché è
nuova. Dirlo è impossibile, in quanto non sarebbe consono allo spirito dell’epoca. Oggi si vedono
cose di cui un tempo non ci si sognava neppure, l’impossibile sta diventando sempre più possibile.
Restiamo stupefatti, di continuo, di fronte alle attuali invenzioni e scoperte nel campo della
violenza. Ma io sostengo che scoperte ancor più meravigliose, un tempo impensate e in apparenza
impossibili, saranno effettuate nel campo della non-violenza.
La non-violenza è la più grande forza a disposizione del genere umano. È più potente della
più micidiale arma che l’ingegno umano possa inventare.
Dobbiamo fare della verità e della non-violenza non materia di pratica individuale bensì di
gruppi, di comunità, di Nazioni. Questo è comunque il mio sogno.
Vivrò e morirò per tentare di realizzarlo.
La fede mi aiuta a scoprire ogni giorno nuove verità"
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