l’antifascista
mensile degli antifascisti di ieri e di oggi
Fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini anno LIX - n° 1, 2, 3 - Gennaio - Febbraio - Marzo 2012
L’editoriale
di Antonella Amendola
Se penso che il primo direttore è
stato Sandro Pertini mi viene un brivido e mi sento piccola piccola. Cari
lettori, nell’assumere la direzione
dell’Antifascista forte è la commozione, perché questo giornale ha accompagnato la vita della mia famiglia
e di tante persone care: lo ricordo nel
formato più grande, ben impilato
nella severa biblioteca di mio padre
Pietro Amendola.
Fin da bambina ero curiosa di leggerlo, andavo soprattutto a cercare tra
le pagine le fotografie, perché quei
volti di persone sobrie, dallo sguardo leale, sapevano raccontarmi con
semplicità e concretezza le mille storie dell’antifascismo italiano, tutte
diverse e pur tutte uguali nel comune denominatore di rigore morale e
amore per la libertà. L’antifascista è
qualcosa di più di una pubblicazione
cartacea, è quasi un piccolo organismo vivente che racchiude il tesoro
inestimabile dell’esperienza vissuta e
della memoria: i padri lo consegnano
ai figli con trepidazione.
Sono passati tanti anni, viviamo in
un altro secolo, in un altro millennio, eppure quella tragica vicenda di
dittatura, violenza, guerra che il nostro Paese ha vissuto rimane vicina,
ancora ci inquieta. Troppo evidente
è stata, da parte di certi ambienti, in tempi recenti, la tentazione di
rovesciare il tavolo delle regole e di
oscurare la Costituzione. Troppo
smaccata la corsa verso l’illegalità
conclamata. Del resto non vivremmo
oggi la stagione del governo tecnico
se la politica, nel senso più nobile
della parola, avesse mantenuto saldo
nelle sue mani il governo della difficile situazione.
C’è ancora bisogno di antifascisti,
cari lettori. Noi siamo sentinelle vigili pronte a cogliere i malesseri derivanti dal mancato riconoscimento
dei diritti delle minoranze, dai nuovi
10 febbraio Giorno del ricordo e suoi equivoci
Nazionalismi, fascismo, nazismo, comunismo in Venezia Giulia, Istria, Dalamazia
di Nicola Terracciano
Uno storico degno di questo nome non teme di affrontare con coraggio, lucidità,
alcun tema, perché egli è mosso, deve essere mosso solo dallo “spirito di verità”,
cercando di avvicinarsi con scrupolo di informazione e di metodo, per quanto è
possibile (essendo la vicenda storica di una complessità inimmaginabile), sulla
segue a pagina 2
Manifesto ufficiale del Giorno del Ricordo 2012
I luoghi della storia
Attualità
Convegno Bufalini
a pagina 5
PORTA S. PAOLO
di Mario Tempesta
È tra le più imponenti e meglio conservate porte originali
dell’intera cerchia muraria di Roma Antica risalente al III
secolo d.C., forse sul luogo ov’era la Porta Raudusculana. Ad
oriente ed occidente della Piramide Cestia (fatta edificare
dal septemviro Caio Cestio Epulone tra il 18 e 12 a.C.) furono
costruite due porte che davano il passo alla Via Ostiense, la
strada che collega Roma ad Ostia - e quindi al suo antico porto,
e ad una sua biforcazione tracciata nell’immediato esterno
delle Mura. La duplicazione dell’asse stradale e degli ingressi
urbani era stata necessaria dall’intensità dei traffici tra Roma
e il Porto di Ostia. E la Piramide, quasi come un immenso
spartitraffico, divideva l’ingresso orientale, che dava origine al
“Vicus portae Raudusculanae” fino alla sommità dell’Aventino,
da quella occidentale che portava alla vera via Ostiense verso
gli “horrea”, i granai, della “Marmorata” lungo le sponde del
Tevere. Quest’ultima fu edificata come una piccola porta ma
venne presto chiusa sia per la crescita d’importanza del porto
segue a pagina 12
Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma
Cultura
Pino Aprile
a pagina 8
Memorie
Renzo Laconi
a pagina 16
Noi
Garibaldo 100 anni
a pagina 18
Lettere
... a Terracciano
a pagina 23
2
Attualità
L’editoriale
razzismi, dalle politiche che non
perseguono l’interesse nazionale, la
promozione del lavoro, dei giovani,
delle donne, ma solo i propri miopi
interessi di cassetta, la disgregazione
territoriale.
Troverete un giornale rinnovato e
più ricco di rubriche, più al passo coi
tempi. Ma come sempre il meglio arriverà da voi, con i vostri contributi,
con la testimonianza della vita associativa dell’Anppia, il cui presidente
Guido Albertelli voglio oggi ringraziare per la fiducia che mi dà.
Ricordatevi che i grandi protagonisti che hanno qualcosa da insegnare
siete voi.
base di documenti (senza documenti
non c’è storia, ma altra cosa), a come
sono andati “realmente”, “veramente”
i fatti.
Le vicende storiche che hanno
toccato le comunità di cultura, di
lingua italiane in Venezia Giulia
(con epicentro Trieste), l’Istria (con
epicentro Pola e Fiume), la Dalmazia
(con epicentro Zara e Spalato) sono
complesse e intricate ed ancora oggi
dividono e arroventano la memoria
collettiva.
Quelle aree hanno conosciuto insediamenti di origine veneziana, quindi
di cultura italiana, dall’epoca medievale, legati all’espansione economica,
culturale della “Serenissima Repubblica di Venezia”, che aveva il dominio
dell’Adriatico, divenuto per secoli
quasi un lago veneziano, contendendolo da un lato al mondo musulmano
e dall’altro al mondo austriaco, che
si era impadronito dell’area di Trieste dal 1382 (che conserverà tuttavia
una larga autonomia e rivendicherà
sempre la sua appartenenza, a partire
dalla lingua, alla civiltà italiana) e poi
di quasi tutta l’area iugoslava odierna
(dalla Slovenia, alla Croazia, alla
Serbia).
Nei secoli le comunità di civiltà
italiana si sono concentrati nell’area
costiera, distinguendosi socialmente
ed economicamente dalle aree interne,
abitate da comunità slovene, croate,
serbe, montenegrine, di diversa
cultura, religione (ortodossa, islamica),
di diversa economia, contadina, più
che cittadina e commerciale.
Questo dualismo, pur implicando
uno strisciante stato endemico di
tensione, non aveva provocato situazioni conflittuali clamorose fino
alla crisi dell’impero multietnico
austriaco che, di fronte al processo
nazionale italiano ottocentesco, per
contrastarlo, appoggiò da un lato un
sentimento-anti-italiano negli sloveni
e nei croati, largamente utilizzati
nella repressione dei moti nazionali
italiani, sia alimentando un nazionalismo serbo, sempre in funzione
anti-italiana, secondo la tattica antica
del dividere, per continuare a governare quel complesso impero di origine
medievale.
Risale quindi all’Austria, nella sua
opposizione al processo di unificazione italiana, la prima lucida politica
di aizzamento degli odi tra italiani
e sloveni, croati, serbi, che avrà altri
dolorosi capitoli tra Ottocento e Novecento.
Si ebbero interventi repressivi
contro l’identità italiana delle comunità esistenti all’interno dell’impero
asburgico, colpendo scuole, tradizioni,
ruoli sociali, suscitando per reazione
nelle comunità italiane quel fenomeno
storico che si chiama “irredentismo”,
il desiderio cioè di ricongiungersi alla
madrepatria italiana, a quella civiltà
italiana, che erano la matrice della loro
identità storica.
L’Italia nello slancio ancora risorgimentale rispose a quell’appello
entrando per questo motivo nella I
guerra mondiale, accettata e sentita
come quarta guerra di indipendenza
dall’Austria, per completare il processo
di unificazione con il ritorno del Trentino, della Venezia Giulia, dell’Istria e
delle comunità costiere della Dalmazia. Questa era la sostanza dell’accordo
segreto di Londra, col quale nel 1915 il
Regno d’Italia entrò in guerra contro
l’Austria, la Germania, la Turchia.
La vittoria con un prezzo inimmaginabile di sacrifici e di morti (600.000
morti e 1.200.000 feriti su una popolazione intorno ai venti milioni, che
provocò una voragine generazionale, delle migliori energie giovanili
del paese, che fu la causa profonda
della crisi del dopoguerra) significò
il sostanziale compimento del Risorgimento con il ricongiungimento di
Trento, Trieste, Gorizia, l’Istria, ma
con limitazioni nei confronti degli
accordi, nel senso che rimasero fuori
le comunità dalmate, compensate con
la conquista dell’Alto Adige, del Sud
Tirolo austriaco.
Si aprì allora una divisione politica ed ideologica nel paese, con
il mito falso della “vittoria mutilata”, portata avanti da ambienti
nazionalisti (si pensi a D’Annunzio) e del primo fascismo, che
arroventò i rapporti tra il Regno
d’Italia ed il neonato Regno di Iugoslavia, che rivendicava secondo lo
stesso principio nazionale richiamato dagli italiani la maggioritaria
presenza croata, slava da Fiume in
giù, appoggiato dalle altre potenze
vincitrici come Francia, Inghilterra,
Stati Uniti (col presidente Wilson).
Sarebbe occorso il prevalere della
linea della preveggente saggezza di
un Gaetano Salvemini, che proponeva (con accuse isteriche subìte di
“disfattista”) di cedere l’Alto Adige,
meglio Sud Tirolo, territorio sostanzialmente austriaco, di lingua e
cultura tedesche (come è anche
oggi) e richiedere dall’alto di questo
comportamento il riconoscimento
dei diritti storici delle comunità
italiane costiere della Dalmazia.
Invece prevalse un atteggiamento
accesamente nazionalista italiano,
accortamente utilizzato dal fascismo nella sua propaganda e nel
suo affermarsi. Mussolini definiva
gli slavi barbari, il cui numero non
poteva essere titolo di diritti contro
gli esponenti minoritari della secolare civiltà italiana.
Quando ci fu l’avvento pieno del
totalitarismo nero, fu attuata “una
italianizzazione forzata e violenta”
di tutti i territori conquistati con
la I guerra mondiale, dall’Alto
Adige, all’Istria, colpendo l’uso
della lingua, i sistemi scolastici, le
forme organizzative austriache,
slovene, croate, slave, suscitando
una reazione sorda anti-italiana e
antifascista, ponendo le basi delle
tragedie successive.
Risale quindi al fascismo in modo
massiccio e diretto la principale
responsabilità delle sanguinose
vicende dei decenni successivi.
Con la conquista della Iugoslavia nel 1941 tra Germania nazista
e Italia fascista, ci fu un ulteriore
processo di italianizzazione forzata,
estesa alla Slovenia, ad aree croate,
che non poteva non suscitare, come
in altre aree dell’Europa, una “Resistenza iugoslava” che ebbe varie
3
Attualità
La scomparsa di Giorgio Bocca
Era un giornalista non comune. Non comune per molti aspetti. Per esempio era sincero, roccioso, presuntuoso. Un po’ il carattere
degli uomini piemontesi di Giustizia e Libertà che frequentò durante la Resistenza, periodo formativo della sua giovinezza.
Di fatto quando incontrava una persona che non gli piaceva, sparava con la penna e così si fece molti nemici. Il suo pregio era la sincerità, l’amore per la verità e la ricerca della documentazione
Quello che pochi giornalisti hanno, come lui, è l’efficacia dello scritto, la sintesi del pensiero, il destare piacere nella lettura.
Viveva negli ultimi anni in un Paese che non sentiva suo, così lontano
da quello per cui aveva combattuto, così che la denuncia era l’aspetto
più comune nei suoi articoli. Nei suoi libri più recenti predominante
era l’amore per la sua terra, per i posti nei quali aveva fatto il partigiano, le montagne dove d’inverno è freddo, il mitra nella neve e
dove nei casali dei contadini si poteva trovare un po’ di caldo, senza
paura del tradimento.
Noi antifascisti l’abbiamo amato perché lo sentivamo nostro e nostre
sentivamo le sue battaglie giornalistiche contro il sistema senza ideali che ci attanaglia da anni.
Bocca assomigliava molto a Enzo Biagi nella qualità della persona
e nel coraggio rispetto ai potenti. Non per caso entrambi facevano
parte delle formazioni Giustizia e Libertà.
Giorgio Bocca
Guido Albertelli
componenti ideologiche e politiche
(dagli autonomisti ai comunisti, ai
socialisti, ai monarchici).
La repressione fascista fu
durissima con crimini di guerra
(fucilazioni, distruzioni di villaggi
con eccidi di bambini, donne,
bambini), per i quali la Iugoslavia
ha invano nel dopoguerra richiesto di processore criminali italiani,
come il generale Roatta (già implicato nel delitto fascista dei Fratelli
Rosselli in Francia).
Il baratro degli odi tra italiani,
visti tutti come fascisti assassini
direttamente o complici, e l’elemento sloveno, croato, serbo si
accrebbe, fino a divenire un abisso,
che fu alla base degli eccidi degli
anni successivi, così come avvenne
in tante altre parti dell’Europa
orientale.
Sono stati il fascismo, anzitutto, soprattutto, e il nazismo,
ad essere responsabili di fronte
al tribunale della storia e dell’umanità, perché sono stati essi con
i loro comportamenti storici di
violenza e prepotenza disumane a
creare le condizioni storiche tragiche e terribili delle rese di conti,
delle vendette che da parte slovena,
croata, serba, si sono avute negli
anni successivi.
Il fascismo si rese ulteriormente responsabile anche dopo la
sua caduta a Roma nel luglio 1943,
quando Mussolini, liberato da Hitler,
costituì nel Centro-Nord la nuova
versione fascista-nazista della Repubblica Sociale di Salò, attuando con i
nazisti ulteriori crimini, collaborando
anche per lo sterminio degli ebrei, per
la Shoah, che si svolse anche in territorio italiano con il campo di sterminio
della Risiera di San Saba a Trieste.
La Resistenza iugoslava, specialmente
nella
sua
componente
comunista, che faceva capo a Tito,
portò avanti azioni di vendetta in
modo maggioritario contro fascisti che si erano macchiati di crimini o
di attiva complicità con il regime, ma
coinvolse anche innocenti, che furono
atrocemente massacrati e buttati negli
inghiottitoi carsici dell’area, chiamati,
“foibe”, o annegandoli con pietra al
collo lungo la costa.
Le cifre parlano di 5.000-15.000
vittime tra il 1943-1945, comprendendo
anche quelli che furono mandati in
campi di concentramento, dove morirono per le condizioni drammatiche di
quegli ambienti.
Già allora cominciò il primo esodo
giuliano-dalmata, quello che si definisce “l’esodo nero”, cioè di quei fascisti
direttamente o indirettamente responsabili di crimini e azioni poco chiare,
che scapparono.
Gli aspetti atroci di quelle vendette
e del successivo tragico fenomeno
dell’esodo di circa 250.000 italiani
della Venezia Giulia, dell’Istria, della
Dalmazia dopo il 1945 e fino al 1956
sono da imputare al totalitarismo
comunista iugoslavo, che impose un
regime unico violento e una slavizzazione forzata di quei territori,
coinvolgendo nella repressione non
solo gli italiani, ma anche gli oppositori anti-comunisti.
Quei 250.000 italiani costretti all’esodo furono ospitati in 109 campi
disseminati in varie parti d’Italia o
emigrarono in altri paesi, integrandosi
a poco a poco nella Comunità italiana,
pur con episodi e momenti infami di
settori della componente comunista
italiana, che li giudicava con gli occhi
ideologici di filo-fascisti o di anticomunisti.
Quindi nella fase finale delle
vendette atroci e dell’esodo è stato il
terzo tragico totalitarismo del Novecento, quello comunista, pur nella
versione titoista, non russa, (che portò
simpatie occidentali ad esso e quindi
tendenza a non chiamarlo al tribunale
della storia) ad essere il responsabile, accanto al fascismo, al nazismo
già richiamati, a provocare la tragedia
giuliano-dalmata.
Essa non può assolutamente essere
messa a confronto con la Shoah, sia
per le dimensioni numeriche (si pensi
solo ai 6 milioni di morti ebrei, di cui
due milioni di bambini), sia per le
forme demoniache di eliminazione, sia
perché gli ebrei non si erano macchiati
di alcun fenomeno di violenza contro
4
Attualità
i tedeschi, gli italiani, gli austriaci, i
polacchi o altri popoli che in modo
diretto o indiretto collaborarono allo
sterminio.
Chiunque compie questo paragone è
un infame di fronte alla storia e all’umanità.
Gli unici che non possono e non
devono ricordare la tragedia giulianodalamata sono i fascisti e loro eredi,
perché sono essi i principali responsabili, con i nazisti e i comunisti, di
quell’evento. Possono farlo con spirito
di umanità e di giustizia storica solo
quelli che non sono stati e non sono
fascisti-postfascisti, clericali, comunisti-postcomunisti.
È giusto il “Giorno del Ricordo”, è
giusto che un popolo si pieghi a esplorare momenti neri e duri della propria
storia, ma non doveva essere scelto il
10 febbraio, sia perché troppo vicino
al 27 gennaio, “Giorno della Memoria” della Shoah, sia perché contesta
sostanzialmente (in modo equivoco
e indegno) quel trattato di Pace di
Parigi del 10 febbraio 1947 tra l’Italia e
le Potenze Alleate, che è vero segnò la
concessione di quelle aree alla Iugoslavia, come avvenne per decine e decine
di aree dell’Europa (si pensi al ritorno
di aree tedesche alla Polonia), ma non
implicò ad esempio la divisione dell’Italia, come avvenne per la Germania.
L’Italia, pur essendo una delle
principali responsabili con il suo totalitarismo fascista della più devastante
e disumana guerra della storia, alleata
con il totalitarismo nazista di Hitler e
di Auschwitz, del militarismo giapponese, non fu punita con la divisione del
paese, come avvenne per la Germania,
ad esempio, e quindi quel trattato del
Resti dalle foibe da: blog.armandoleotta.com
10 febbraio non va condannato e collegato ad un evento di disumanità. Era
il massimo che si poteva concedere ad
una nazione responsabile e sconfitta
e l’Italia fu salvata da altre punizioni
giuste solo per la dignità di popolo
espressa dall’antifascismo e dalla
Resistenza, come richiamarono solennemente i presidenti del consiglio dopo
la Liberazione, Ferruccio Parri, uno
dei capi della Resistenza, ed Alcide De
Gasperi, che firmò a Parigi il trattato.
Il “Giorno del Ricordo”, pur doveroso, anche per l’ostracismo che veniva
e viene dal mondo comunista e postcomunista e dagli ambienti militari,
doveva avere altra data, altro richiamo
e stare lontano dal 27 gennaio.
Esso è stato volpinamente, machiavellicamente approvato come legge
della Repubblica del 30 marzo 2004
n. 92 con il II Governo Berlusconi,
che aveva l’appoggio di forze di derivazione fascista o post-fascista (e le
doveva quindi assecondare e premiare)
e al suo interno anche fascisti espliciti
(come Tremaglia) o post-fascisti (come
Fini, Alemanno, Gasparri), clericali
come Buttiglione, leghisti indegni,
nemici dell’Italia, che hanno appoggiato ogni iniziativa che implicava e
implica critica all’Italia come nazione,
trasformisti e traditori di tutte le
risme, incapaci di uno scatto di dignità
di fronte alla propria storia e alla storia
del proprio paese.
Fascisti, post-fascisti, clericali, leghisti si sono impadroniti di un evento, così
strumentalizzandolo e offendendolo,
che potesse servire ad oscurare o attenuare soprattutto, anzitutto l’effetto
dirompente annuale del “Giorno della
Memoria” del 27 gennaio, che chiama
continuamente e giustamente e
impietosamente al tribunale della
memoria e della storia fascisti e clericali, qualunquisti e opportunisti.
Come ulteriore tentativo volpino,
machiavellico, di contrapporsi al 27
gennaio, quel governo ha approvato
e considerato il 10 febbraio come
“solennità civile” (art. 1, comma 3),
qualifica e riconoscimento che non
ha il “Giorno della Memoria” della
Shoah (vedi il testo della legge 20
luglio 2000, n.211).
Il fatto che il 10 febbraio sia solennizzato spesso solo da ambienti
fascisti, post-fascisti e clericali
(che non hanno nessun titolo a
farlo, anzi sono i responsabili di
quella tragedia), nell’ostracismo,
nel disinteresse delle forze comuniste e post-comuniste, testimonia
come su questa vicenda ci sia non
un doveroso e solenne impegno di
verità e di umanità, ma sostanzialmente, secondo una considerazione
personale, una lotta sorda e infame
ideologica, di potere e di memoria tra l’egemone potere possente
clerical-fascista-postfascista e suoi
servi o utilizzatori opportunisti (tipo Berlusconi col codazzo di
traditori di tutte le risme del suo
governo e del suo schieramento,
tipo Bossi col suo infame leghismo
secessionista), interessati soprattutto ad allontanare al massimo da
sé il collegamento con la Shoah e ad
appiattire antistoricamente fascismo, nazismo, comunismo, quando
il comunismo è stato dal 1941 al
1945 in prima linea alleato di Stati
Uniti, Inghilterra, Francia contro
nazismo, fascismo, militarismo
giapponese con un costo di milioni
e milioni di morti e che il campo
di sterminio nazista di Auschwitz
fu
liberato
emblematicamente
dall’Armata Rossa, e il mondo
comunista-post-comunista,
ferocemente attaccato al suo potere,
ancora possente e pervasivo, incapace di una doverosa autocritica
feroce di tanti aspetti tragici del
passato comunista, leninista e stalinista, nazionale e internazionale.
Attualità
Un convegno di successo nel decennale della scomparsa
Paolo Bufalini e la costruzione dell’Italia democratica
Negli interventi ricordato l’antifascista, l’uomo politico, l’umanista
di Jolanda Bufalini
I
l 15 dicembre 2011 si è tenuto a palazzo Giustiniani un convegno in ricordo di Paolo Bufalini a 10 anni dalla morte.
L’iniziativa si è svolta a palazzo Giustiniani, in una affollata sala Zuccari. La prestigiosa sede del Senato è stata scelta
e concessa perché Paolo Bufalini è stato senatore dal 1963 al 1992: trenta anni cruciali della prima repubblica durante
i quali egli ha dato il suo contributo alla costruzione della democrazia e di una maggiore giustizia sociale, in battaglie
epocali che vanno dalla difesa dei braccianti agricoli di Avola, contro cui, il 2 dicembre 1968, la polizia aprì il fuoco,
all’impegno per il superamento della Guerra Fredda, al lavoro – in collaborazione con il presidente del Consiglio di allora
Bettino Craxi, per il nuovo Concordato. Tante erano le persone arrivate da Roma, i tanti che sono stati suoi compagni di
partito o anche avversari ma che avevano nei suoi confronti stima e affetto (cito fra gli altri Alfredo Reichlin, Antonio
Rubbi, Mario Quattrucci, Gianni Cervetti, Giulio Spallone, Bice e Franca Chiaromonte, Marisa Rodano, sapendo di fare
torto ai moltissimi che ci hanno onorato della loro presenza), tanti giovani come l’attuale segretario del Pd romano Marco
Miccoli, dalla Sicilia (Mimmi Bacchi, Simona Mafai, Marina Marconi), dall’Abruzzo (dove papà è ricordato in particolare
per le lotte nelle terre dei Torlonia, nel Fucino, e dove, ora, mio fratello Marcello svolge principalmente la sua attività di
musicista), da Bologna, dove viveva
mio fratello Delio e, poiché i nipoti
di Paolo sono sparsi a studiare in
diversi paesi d’Europa, Alessandro
Bufalini e Luca Mazzacuva sono
arrivati dalla Spagna e dall’Olanda,
Francesco Mazzacuva da Milano.
Giovani e anziani mescolati, in
una combinazione che apre il cuore
perché tiene insieme, nel ricordo di
una persona a molti cara, la storia
di generazioni diverse. Tanta era la
gente, che era affollata anche una
saletta adiacente collegata in videoconferenza.
Il convegno è stato il frutto di una
mia proposta a cui hanno risposto
con entusiasmo e prontezza Guido
Il presidente Napolitano saluta i relatori prima del convegno dal sito del Quirinale
Albertelli, presidente dell’Anppia e
Giuseppe Vacca, presidente del Gramsci, e si è avvalso della preziosa collaborazione di Giovanni Matteoli, che è stato per
molti anni stretto collaboratore di Paolo e ora lavora presso la presidenza della Repubblica nello staff di Giorgio Napolitano, di Silvio Pons (direttore della fondazione Gramsci), di Giuseppe Mennella, funzionario alla presidenza del Senato,
di Simonetta Carolini dell’Anppia, di Franca Franchi del Gramsci.
In prima fila, su uno scranno al centro della Sala sedeva, ad ascoltare il contributo dei relatori, il capo dello Stato Giorgio Napolitano, che con Paolo ha condiviso, nel Pci, battaglie e impostazione ideale, entrambi collocati nell’area riformista
di quel grande partito che ha organizzato nell’antifascismo e nei primi 50 anni della Repubblica il mondo del lavoro.
In sala c’erano anche Clio e il figlio maggiore di Napolitano, Giovanni, coetaneo e amico, soprattutto, di mio fratello
Marcello: il rapporto fra le famiglie Napolitano e Bufalini, infatti, è stato non solo politico ma di amicizia e consuetudine
di incontri, nelle case o anche, in occasione di festività, di pranzi insieme.
Il mondo di relazioni amicali di mio padre era vastissimo, non solo politico perché egli era persona di grande cultura.
Non dico un intellettuale perché Paolo considerava la sua posizione di politico colto come “superiore” a quella dell’intellettuale puro, che spesso – secondo la sua idea – con l’impoliticità pecca di schematismo. Fra i suoi amici c’erano poeti,
come Michele Parrella e storici (Santo Mazzarino, Paolo Spriano, Giuseppe Boffa), artisti (Renato Guttuso). Nel tempo
che io ricordo, le sue frequentazioni più assidue alle quali alla passione politica si combinava l’amicizia che coinvolgeva
le famiglie erano queste: Giorgio e Pietro Amendola, Enrico e Letizia Berlinguer, Maurizio e Marcella Ferrara, Franco e
Giuliana Ferri, Pietro e Laura Ingrao, Pio e Giuseppina La Torre, Emanuele Macaluso, Giorgio e Clio Napolitano, Antonello e Fulvia Trombadori. Un gruppo di romani: Annamaria Ciai e Renzo Trivelli, Claudio Verdini e Giuliana Gioggi.
Il medico di Togliatti, Mario Spallone e il compagno di lotte in Abruzzo, Giulio Spallone. Prima del 1968 c’era anche
Aldo Natoli, ancora negli album fotografici ci siamo noi ragazzini con i figli dei Natoli. Ma con la scissione del Manifesto i rapporti si interruppero, tale era la durezza dell’epoca. Prima ancora, a Palermo, i Colajanni, Panzieri, Lombardo
Radice. Una grande amicizia ci fu a Roma con Pancrazio De Pasquale che le lotte politiche interne avevano allontanato
da Palermo quando mio padre vi arrivò
Al convegno del 15 dicembre 2011 gli oratori che hanno rievocato le diverse fasi della vita di Bufalini sono stati il presidente del Senato Renato Schifani, la presidente del gruppo Pd Anna Finocchiaro, Emanuele Macaluso, Albertina Vittoria,
5
6
Attualità
Nicola Mancino, Ivano Dionigi, Gennaro Acquaviva, Guido
Albertelli, Giuseppe Vacca; non mi dilungo sugli interventi
perché l’Anppia sta preparando la pubblicazione degli atti.
Il presidente della Repubblica non ha parlato in quella
occasione ma ha trovato il modo di ricordare Paolo Bufalini
poco dopo, in occasione della cerimonia per la laurea honoris
causa tributatagli dalla Università di Bologna. Riportiamo
dall’articolo di Ilaria Venturi apparso su Repubblica Bologna il 30 gennaio 2012: “Napolitano ha tenuto a far avere
al rettore Ivano Dionigi anche un altro testo, ricordando
il comune interesse intellettuale che li lega alla figura del
senatore Paolo Bufalini: l’Ode rivolta a Mecenate di Orazio
tradotta dallo stesso Bufalini «curando sino alle sfumature».
Il Capo dello Stato ha concluso la sua lezione magistrale non
a caso ricordando Nino Andreatta e Paolo Bufalini per «la
stesura della risoluzione in Senato nell’autunno del 1977 con
cui per la prima volta anche il maggior partito della sinistra
italiana si riconobbe nell’impegno europeistico e nell’alleanza Nato». Il Centro studi per la permanenza del classico
dell’Ateneo di Bologna, fondato da Dionigi e ora diretto dai I partecipanti nella Sala Zuccari del Senato dal sito del Quirinale
suoi allievi, sta pubblicando la nuova edizione delle traduzioni di Orazio e i quaderni con gli appunti personali dello stesso Bufalini. Per questo Napolitano ha anche portato una
dedica a lui dello stesso Bufalini in latino, elogio a un suo discorso: «Tibi gratulor mihi gaudeo».
Toponomastica “romana”: intitoliamo una strada al fascista e
razzista Giorgio Almirante
Il sindaco di Roma, Alemanno, ha
riproposto di intitolargli una via
Il segretario de La Destra, Francesco Storace, ha chiesto al sindaco di
Roma, Gianni Alemanno, di mantenere la promessa fatta ai suoi elettori
di intitolare una via della città a Giorgio Almirante.
Gli antifascisti e i democratici tutti
non possono ignorare i trascorsi di
Almirante. Questi fu segretario de
La difesa della razza, rivista quindicinale che apparve tra il 1938 e il 1943,
espressione del più convinto razzismo
del regime fascista. Fu caporedattore della rivista Il Tevere - periodico
che si distinse per una campagna anti
ebraica prima ancora della promulgazione delle leggi razziali - e tra i
firmatari del Manifesto della razza,
precursore delle leggi razziali medesime.
Dopo l’8 settembre, Almirante aderì
alla famigerata Repubblica di Salò i cui scherani, al fianco dei nazisti,
carceravano, fucilavano e deportavano
partigiani e patrioti che combattevano per la libertà d’Italia - firmando
egli stesso gli ordini di fucilazione. Nel
Roma 1969. Almirante con i giovani fascisti davanti alla facoltà di Giurisprudenza
1947 fu infatti condannato per il suo collaborazionismo. In anni più recenti,
nel 1973, la Camera dei deputati autorizzò la Procura generale di Milano a
procedere contro di lui per “tentata ricostituzione del partito fascista’.
Non si può consentire che Roma, città medaglia d’oro della Resistenza, possa
accettare tale proposta. L’intitolazione di una via o di una piazza deve rappresentare la storia e l’identità di un Paese per fornire ai cittadini, e ancor più alle
nuove generazioni, un esempio di vita e un modello di cittadinanza: che esempio sarebbe intitolare una via a un fascista collaborazionista che contribuì in
prima persona alla persecuzione antiebraica? E proprio a Roma che ha visto
lo scempio dei 1024 deportati ebrei il 16 ottobre 1943?, che ha visto la barbarie
delle Fosse Ardeatine?
Attualità
La scomparsa di Oscar Luigi Scalfaro
È morto nel sonno il 29 gennaio, a 93 anni. Per suo volere le esequie sono state celebrate in forma privata anziché con
funerale di Stato, come previsto per i presidenti emeriti della Repubblica
L’ attività politica di O. L. Scalfaro, classe 1918, cominciò prestissimo nella sua Novara. Dirigente dell’Azione cattolica, durante il ventennio aiutò gli antifascisti nella lotta clandestina. Nel 1946 fu eletto deputato alla Costituente e, da
allora, fu sempre rieletto nella sua circoscrizione (Torino-Novara-Vercelli). In quella veste fu membro della commissione
giustizia e nella giunta delle autorizzazioni a procedere. Magistrato, fu vice presidente della commissione speciale per
la Corte costituzionale e ricoprì la carica di segretario e vice presidente del suo gruppo parlamentare. Consigliere nazionale della Dc, entrò nella direzione del partito durante la segreteria De Gasperi. Sottosegretario al Lavoro nel primo
gabinetto Fanfani, nel governo Scelba fu sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e anche allo Spettacolo. Promosse
in quel periodo la nascita dell’Opera nazionale ciechi civili e si batté attivamente per il ritorno di Trieste all’Italia e per la
sistemazione degli esuli della terra istriana. Come sottosegretario allo Spettacolo mise a segno il risanamento degli enti
lirici, teatrali e cinematografici dipendenti dallo Stato.
Sottosegretario alla Giustizia nei governi Segni e Zoli, dopo le elezioni del 1958 fu eletto presidente della commissione
Interni della Camera; dal ’59 al ’62 fu sottosegretario all’Interno.
Ebbe il primo incarico da ministro, ai Trasporti, nel terzo governo Moro, carica ricoperta anche nel secondo governo
Leone. Nuovamente ministro dei Trasporti nel primo governo Andreotti, nel secondo fu nominato alla Pubblica istruzione e poi eletto alla vice
presidenza della Camera. Rieletto
deputato il 3 giugno 1979, Scalfaro
fece parte della commissione Esteri
e riconfermato nel ruolo di vice
presidente della Camera.
Nel 1983, rieletto deputato per la
decima volta, fu ministro dell’Interno nel primo e secondo governo
Craxi, ultimo incarico di governo
da lui svolto. I funzionari che collaborarono con lui lo ricordano
«mattiniero, efficiente, instancabile, uomo di grande dirittura
morale e correttezza». Craxi, all’epoca presidente del Consiglio, gli
conferì la delega per sottoscrivere
accordi bilaterali internazionali in
tema di lotta al traffico di stupefa- Oscar Luigi Scalfaro Foto di archivio storico
centi e contro il terrorismo. Scalfaro all’Interno si pose il problema dell’ordine pubblico negli stadi, e costituì il primo
comitato nazionale in collaborazione col Coni.
Nel 1987 il Presidente della Repubblica Cossiga gli affidò l’incarico di formare il governo, incarico al quale rinunciò.
Come magistrato, Scalfaro fu Pubblico ministero presso le corti d’assise speciali di Novara ed Alessandria e, lo ha ricordato più volte, visse un’esperienza di profondo travaglio che segnò la sua vita: sostenne l’accusa in un processo contro un
fascista poi condannato a morte pur dichiarandosi, già allora, contrario alla pena capitale.
Nel 1992 ritornò ai vertici delle istituzioni prima con una breve parentesi da presidente della Camera quindi - in una
situazione politica assai complessa: si era in piena “tangentopoli” e la pressione della mafia sugli apparati dello Stato
culminava nell’assassinio del giudice Falcone a Capaci - con il salto al Quirinale, il 25 maggio. Un settennato complesso
e caratterizzato soprattutto dal lungo confronto-scontro con il primo governo Berlusconi. Nel 1999 il passaggio delle
consegne a Carlo Azeglio Ciampi e il trasferimento a Palazzo Giustiani come senatore a vita.
Strenuo difensore della Carta costituzionale, al quale spetta di diritto il riconoscimento di Padre della Patria, nel 2006
fu presidente del Comitato “Salviamo la Costituzione”, poi divenuto Associazione e del quale l’Anppia è stata tra i fondatori, e capeggiò il Comitato per il NO al referendum sulla riforma costituzionale, composto dai partiti del centro sinistra,
dalle principali organizzazioni sindacali, dai Comitati Dossetti e dalle associazioni Libertà e giustizia, Acli, Giovani per
la Costituzione ed altri.
Per dieci anni è stato presidente dell’INSMLI (Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia)
sostenendo la difesa della memoria e dei valori della Resistenza, partecipando a tutte le iniziative utili alla diffusione e
alla conoscenza dei principi e delle regole della democrazia italiana che aveva contribuito a delineare nella sua veste di
Costituente. Per questo prediligeva il rapporto coi giovani, con i quali riusciva ad instaurare un rapporto grande empatia. Tutta l’Anppia – il nazionale e le federazioni provinciali con le quali ha costantemente collaborato – sente il vuoto
lasciato, ancora una volta, da figure come Oscar Luigi Scalfaro nella società civile, nella politica attiva, in tutte quelle
forme di espressione che mettono al centro della vita di una nazione moderna la partecipazione responsabile di ogni
cittadino, nel nome e nel segno della democrazia attuata e non agognata.
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8
Cultura
Fratelli-coltelli: l’epopea dell’unità vista dal Sud
Intervista a Pino Aprile, autore del caso letterario dell’anno scorso, Terroni, in cui narra la storia dell’unità d’Italia vista dal Sud
di Antonella Amendola
C
on il suo primo libro «Terroni», rilettura impietosa della conquista del
Sud da parte dei piemontesi, ha venduto 250.000 copie. Un fatto straordinario per un libro di storia nel nostro Paese. Ora Pino Aprile, che continua
a definirsi semplicemente giornalista, con «Giù al Sud», quasi un’opera corale
ricca di voci e spunti, investiga i tanti fermenti di un Sud che non vuole più essere
solo il grande deposito di braccia per lo sviluppo del Nord. In questa intervista
esclusiva l’autore torna sul Risorgimento mancato, inficiato dal sangue, esamina
la politica nei confronti del Sud dalla prima repubblica a oggi e consiglia al
governo Monti di affrontare al più presto il tema bollente.
Secondo lei «Terroni», caso letterario strepitoso dello scorso anno,
ha provocato qualche scossone nel
dibattito degli storici togati? Pino
Aprile è riuscito a seminare il dubbio
sulla versione più patinata dell’unità d’Italia?
«All’inizio, c’è stato il silenzio. Poi,
qualcuno, e con particolare riferimento
alle stragi, ha detto che si trattava di
fantasiose ricostruzioni. Probabilmente,
da accademico, trovava fastidioso il
raccontare la storia in modo così divulgativo, sentimenti inclusi. Ma io ero
emozionato (avvilito, furioso, deluso,
addolorato) mentre scrivevo di quelle
pagine buie del Risorgimento e della
discriminazione a danno del Sud,
ancora dopo 150 anni. E, con una scelta
che chiunque può legittimamente criticare, ho deciso di riportare anche le
emozioni che mi agitavano, mentre ne
riferivo. Mi è parsa una forma di onestà
in più, invece di fingere un distacco e
una freddezza che non avevo. E non ho.
Quando l’imprevista dimensione del
Pino Aprile foto di Massimo Sestini
successo di “Terroni” non ha potuto più
giustificare il silenzio, alcuni (quelli di prima, ma non solo) hanno detto che si trattava di cose note. Vero, ma non a tantissimi, se la reazione più comune, fra i lettori,
è lo stupore, lo sconcerto. Direi che a chiudere questo genere di polemiche è stato
il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che il 14 agosto 2011, nel centocinquantesimo anniversario della strage di Pontelandolfo, tramite Giuliano Amato,
presidente del comitato per le celebrazioni dell’Unità, con un suo messaggio ha chiesto perdono agli abitanti di Pontelandolfo per il massacro compiuto dai bersaglieri
guidati dal colonnello Pier Eleonoro Negri. Da 50 anni i sindaci del paese domandavano ai diversi presidenti della Repubblica il riconoscimento di paese martire,
senza avere risposta. “Lei non è uno storico”, mi ha obiettato un accademico. Vero,
mai preteso di esserlo: sono un giornalista, ovvero un divulgatore e uso linguaggio
e tecniche proprie della mia professione. La più letta storia d’Italia l’ha scritta un
giornalista, Montanelli».
In sintesi che cosa accadde al Sud in quegli anni? Lei ritiene che l’impresa
di Garibaldi e il piano strategico dei piemontesi siano assimilabili a una
mera guerra di conquista coloniale?
«Di sicuro Garibaldi non voleva quel che poi accadde, ebbe l’onestà di dirlo e
di denunciare le sofferenze, l’oppressione alle quali furono sottoposti i meridionali. Persino Bixio si lamentò in Parlamento del troppo sangue che si spargeva al
Sud. Detto da lui, fucilatore seriale!
Cavour si sarebbe accontentato di
un regno del Nord. Ma colse l’occasione e governò gli eventi. Nessuno
dei “padri della patria” era mai stato
al Sud, e molti non ci andarono mai
nemmeno dopo: ne sapevano (e il
verbo può trarre in inganno) per
sentito dire. E dire male. Il Sud non
era più povero del Nord, non era
arretrato, aveva oltre il doppio degli
studenti universitari del resto d’Italia messo insieme. Quanto al regime
oppressivo, mentre il Piemonte
giustiziava quasi il doppio dei
condannati a morte della Francia
che era quattro volte più popolosa, il
Regno delle Due Sicilie mandava sul
patibolo solo Agesilao Milano, che
aveva infilato la sua baionetta nella
pancia del re! Conquistato il Sud, i
massacri furono tali che, a detta di
Napoleone III, alleato del Piemonte,
i Savoia fecero in un anno quello che
i Borbone non avevano fatto in un
secolo. Il Sud venne trasformato in
colonia interna, e tale è ancora oggi,
sulla scorta del sistema inaugurato
dalla Gran Bretagna per avviare la
rivoluzione industriale. Si pensi che
cosa erano Irlanda, Scozia, Galles per
la Gran Bretagna. Le aziende meridionali, fra le più grandi d’Italia,
furono chiuse o fatte fallire. Le colonie interne devono fornire clienti e
braccia a buon mercato, non merci in
concorrenza».
Che giudizio dà dei Borboni? È
d’accordo con quanto affermato
recentemente da Paolo Mieli e
cioè che i Borboni persero il regno
perché trascurarono di coltivare le alleanze internazionali,
in particolare il rapporto con gli
inglesi?
«Completamente d’accordo. Lo
dico ora e vi avevo fatto cenno (con
minori argomenti) nel mio libro. Il
mondo mutava velocemente in quegli
anni. Forse si può fare un parallelo con quel che avviene oggi, con
il crollo dell’impero sovietico, la
comparsa di una forma molto potente
e aggressiva di revanscismo islamico,
l’irrompere di paesi eufemisticamente in via di sviluppo nel ruolo di
9
Cultura
potenze economiche mondiali, dalla
Corea, al Brasile, alla Cina. Chi,
come il Regno delle Due Sicilie, non
entrò nel gioco grosso, alleandosi
ai forti per abbattere i deboli (non
necessariamente piccoli: fu disintegrato l’impero austroungarico, poi
quello ottomano), invece di governare
il cambiamento lo patì. Mieli lo ha
raccontato come meglio non si può».
Ritiene che la politica nei
confronti del Sud, nei governi
della prima repubblica, dal dopoguerra, fu male impostata? A che
cosa servì la Cassa per il Mezzogiorno?
«Il Sud fu ed è il bancomat d’Italia. Chi accusa il Sud del “sacco del
Nord” trascura la curiosa circostanza di un ladro che diventa
sempre più povero del derubato! Già
nei primi mesi dell’Unità d’Italia ci
sono osservatori del Nord e del Sud
che raccontano la spoliazione del
Mezzogiorno. Inascoltati, dileggiati,
costretti a lasciare il Parlamento.
Francesco Saverio Nitti poi mostra,
con le carte a sua disposizione, in
quanto Presidente del Consiglio,
come i soldi del Sud vengono rastrellati e portati al Nord, con tasse
squilibrate, spesa pubblica concentrata al Nord, commesse statali solo
al Nord. La Cassa per il Mezzogiorno
nacque con ottime intenzioni, fece
molto bene, all’inizio, poi divenne
sempre più uno strumento per fornire
risorse a potentati e clientele locali,
gregari di quello economico settentrionale, e dirottare la gran parte
dei fondi al Nord. Il massimo che si
spese, con la Cassa, per fare quello
che nel resto d’Italia si faceva di più e
meglio e prima (strade, fogne, ponti,
bonifiche) fu lo 0,5 per cento del
prodotto lordo: un duecentesimo. E
il restante 99,5? Oggi non è cambiato
niente: andate a vedere, su www.
nelMerito.it, la ricerca del professor
Gianfranco Viesti, su come sono stati
spesi circa 46 miliardi di euro di fondi
per le aree sottoutilizzate (Fas: quasi
tutti i soldi sono stati sottratti e usati
per altro, specie al Nord)».
Il governo Monti per ora non
ha parlato di Sud. Ritiene che ci
possa essere un nuovo impegno in
quella direzione?
«Credo (spero) che Monti si sia
reso conto dell’errore fatto nel dimenticare il Sud, come fosse un fardello
appeso alla sola parte d’Italia di cui
valga la pena occuparsi. Sospetto che
il suo ministro per la Coesione nazionale, Fabrizio Barca, lo abbia aiutato
a comprendere come stanno le cose. E
il suo incontro con gli amministratori
regionali e comunali del Mezzogiorno
può avergli fornito elementi utili: è uno
che prende appunti. E poi, per quel che
s’è visto finora, persino li rilegge».
Lei è forse il primo scrittore che ha
parlato del movimento dei Forconi
nel suo secondo libro, “Giù al Sud”.
Di che cosa si tratta? Può essere una
riedizione del Boia chi molla?
«Non credo. Ho conosciuto alcuni
fondatori del Movimento, mentre
il Movimento nasceva: dei disperati, non rassegnati. Imprenditori
agricoli, zootecnici, che hanno visto le
loro aziende, magari attive da generazioni, sfiorire o chiudere per debiti
con l’Inps (50mila su 200mila, in circa
tre anni, mi dissero) svenduti a esattori di Equitalia. Aziende alle quali lo
Stato chiede il rispetto di norme fiscali,
contrattuali e sanitarie. Tutto giusto
e costoso; peccato che quello Stato
non garantisca, poi, anche il valore
del prodotto così ottenuto, che va sul
mercato allo stesso prezzo di quelli che
giungono da paesi dell’Est o africani,
ai quali non si impongono gli stessi
obblighi, gli stessi costi. La rivolta dei
Forconi è genuina, nasce dal mancato
ascolto delle ragioni di gente operosa e
trascurata. Il che non esclude che organizzazioni opportunistiche, criminali
(la mafia) o politiche cerchino di usarla.
Ma almeno finora i Forconi hanno
mostrato di sapersi difendere».
Tra le tante realtà meridionali
portate alla luce da «Giù al Sud»
quali crede che possano fare da
volano a un’effettiva ripresa del
Mezzogiorno?
«Tutto il Sud si sta muovendo, in
modo scoordinato, ma sempre più alla
ricerca di progetti, azioni unificanti.
Non è detto che riesca a farlo davvero.
Ma quello che sta accadendo in Calabria
è stupefacente, con i giovani magnifici
di “Io resto in Calabria”, di “E adesso
ammazzateci tutti” e cooperative e
associazioni. Non so dove porterà tutto
questo, so che non c’era mai stato».
La secessione invocata dai leghisti, nel quadro dell’Europa in crisi, è
diventata un vuoto slogan o ancora
c’è chi ci crede?
«C’è chi ci crede, minoranze, al Nord e
al Sud. Al Nord ne parlano; al Sud, se la
disattenzione e l’insulto continueranno,
la tentazione può diventare più seria,
diffusa (e persino giustificata) che al
Nord».
La copertina del nuovo libro di Pino Aprile
Tra i pensatori meridionalisti del
passato chi ancora oggi è d’attualità?
«Tutti, perché ognuno di loro ha
portato ricerca, saggezza, conoscenza,
cui chiunque voglia occuparsi dell’argomento deve abbeverarsi. E quei
meridionalisti sono sempre stati i
migliori uomini del loro tempo: Fortunato, Nitti, Salvemini, Dorso, Rossi
Doria, Zanotti Bianco, Saraceno, Fiore».
Umanamente come si è trovato
a dirigere grandi settimanali del
Nord?
«Benissimo. Il Nord non è il razzismo
dei Borghezio, dei Calderoli, dei sindaci
che vogliono usare gli extracomunitari
come lepri per allenare i cacciatori. Gli
inglesi dicono che è il barattolo vuoto
che fa più rumore, e poi non dimentichi che io ero il meridionale, ma pure il
direttore (o vicedirettore). Per cui potevi
sentirti dire: “Sei meridionale, ma sei
bravo”. Frase nella quale, nascosto da
un doppio complimento, si celava un
pregiudizio inconsapevole».
Quale sarà il suo prossimo impegno di scrittore?
«Ho ancora qualcosa da dire sul Sud.
Abbiamo in troppi taciuto per troppo
tempo».
10
Cultura
UNA BELLA SORPRESA
“Spegni la luce che passa Pippo”
di Fabio Ecca
V
i sono scoperte che avvengono quasi per caso.
Qualche giorno fa, cercando su internet pubblicazioni e ricerche sulla Grande Guerra, mi sono
imbattuto in un volume curioso dal titolo certamente enigmatico. Ho scoperto così che “Spegni la luce che passa Pippo”
di Cesare Bermani è una preziosa ricerca sulle voci, le
leggende e i miti della storia contemporanea. È raro pensare
al XX secolo come un periodo ricco di tradizioni orali ma a
ben vedere queste interessano vari aspetti della nostra
quotidianità. La loro natura storica è rimasta però a lungo
inesplorata e il volume di Bermani cerca di colmare questa
lacuna. Il titolo si riferisce giustappunto ad una delle tradizioni più diffuse della Seconda Guerra Mondiale, quella
dell’aereo – il “Pippo”- che passava di notte e il cui ronzio
era portatore di speranza o di morte. Il libro analizza i prin-
per tutto il novarese seguendo gli scioperi e le altre
manifestazioni. Nella zona si svilupparono quindi molti
racconti, più o meno reali, di scioperanti che aspettavano di vedere apparire all’orizzonte la “macchina rossa”
che iniziava così ad avere un significato simbolico. Nella
battaglia di Lumellogno dell’agosto 1922, in cui si scontrarono fascisti e proletari antifascisti della zona agricola
della bassa Novarese, alcuni contadini racconteranno di
aver creduto di vedere proprio l’autovettura di Ramella
nella mani degli aggressori in camicia nera. Proprio tale
evento avrebbe sancito la sconfitta del movimento del
proletariato agricolo in quella sanguinosa battaglia.
In tutta l’Italia il fascismo dal 1940 aveva iniziato a
diffondere la voce che gli aeroplani anglo-americani
lanciassero sul territorio nazionale “caramelle avvelenate” insieme a matite o penne esplosive. A supportare la
nascita di tale leggenda, esisteva una cospicua diffusione
di materiale di propaganda italiana e tedesca. Si trattava
quindi di un vero e proprio atto di terrorismo mediatico
messo in atto nei confronti dei bambini dal fascismo.
Contemporaneamente, si era diffusa anche la leggenda
del “Pippo”, un aeroplano antropomorfo, metà uomo e
metà macchina, che passava e dispensava morte. Si trattava ,diceva la leggenda, di un aviatore solitario che agiva
esclusivamente per mitragliare treni, camion e carretti
civili. La leggenda serviva per accusare l’esercito avversario di essere crudele e di voler uccidere gli italiani. Non
a caso a Bologna il mitico aereo veniva anche chiamato
il “Pippetto ferroviere”, poiché bombardava vicino alle
reti ferrate e ai suoi snodi, mentre al Sud avrebbe preso
il nome di “Ciccio ‘o ferroviere”. La leggenda aveva però
anche un altro scopo: convincere gli italiani, anche i più
piccoli, di spegnere le luci quando, la notte, si temevano
i bombardamenti. A dimostrazione di tutto ciò, nasceva
persino una filastrocca che veniva cantata ai bambini:
«Sono Pippo,
volo dritto:
Se vedo un lumicino
butto un bombolino
se vedo un lumicione
butto un bombolone».
cipali miti sviluppatisi in Italia nel periodo contemporaneo
e comprende, tra le altre, la trattazione degli amuleti di
prima linea, delle lettere a catena e della storia del carro
armato del PCI.
Tra le più interessanti, si può leggere la leggenda socialista della “macchina rossa”. Secondo Ramella era il segretario
della Federterra novarese nel 1918-1921, composta all’epoca
da cinquantamila lavoratori. Ramella era l’uomo di punta
dell’organizzazione socialista e dirigeva le grandi lotte
contro il “caporalato” e a favore dell’introduzione delle otto
ore per i lavoratori ortofrutticoli. La Camera del Lavoro di
Novara gli aveva messo a disposizione una macchina rossa,
con dipinte sul retro della carrozzeria “falce, martello e
spiga”, e con questa il leggendario segretario si spostava
Anche Giovanni De Luna menziona in “La televisione
e la nazionalizzazione della memoria storica”, la leggenda
del Pippo che egli definisce come «la voce più inquietante
prodotta dall’Italia in guerra» (p.212).
Insomma, “Spegni la luce che passa Pippo” di Cesare
Bermani, edito da Odradek nel 1996, è un libro particolare, curioso per i suoi contenuti ma attento nel rispettare
la più rigorosa ricerca scientifica. Un libro prezioso da
conservare e da consultare ogni volta che un mito, una
storia o una leggenda si presenta davanti a noi.
Cultura
La Resistenza a Roma nei quartieri Prati e Trionfale
I
l Circolo Giustizia e Libertà, fondato da partigiani
attivi nella Resistenza romana, vive da oltre
sessant’anni in Via Andrea Doria 79 ed è impegnato
nella trasmissione della memoria storica. Ha tra l’altro
già organizzato un ciclo di convegni titolati “Momenti di
libertà” nei quali si ricorda agli studenti e ai cittadini
residenti la storia del quartiere nel periodo di Roma
occupata dai nazisti, dal 10 settembre 1943 al 4 giugno
1944. Negli ultimi anni ha già realizzato quelli relativi ai
Municipi XVII, V e XI.
Il successo di questi eventi ha indotto il Circolo ad
ideare in collaborazione con la Scuola Romana dei
Fumetti un libretto, curato da giovani sceneggiatori e
disegnatori, sulla Resistenza nei quartieri Prati, Trionfale e Valle dell’Inferno (ora Valle Aurelia) che risulti
efficace per cogliere l’interesse e la curiosità di altri
giovani per un tempo che sembra lontano ma è sempre
vivo nei ricordi di chi lo ha vissuto e dei loro figli e
che rappresenta un simbolo dei valori morali e civili
della città. Sono stati scelti per essere rappresentati nei
fumetti cinque personaggi con storie diverse ma tutti
simboli della lotta al fascismo e al nazismo.
Questa pubblicazione, costata un anno di lavoro, è
destinata gratuitamente agli studenti della terza media
delle scuole pubbliche romane. Il Circolo, assolutamente
apartitico, garantisce l’obiettività dei racconti e la verità
La graphic novel sulla Resistenza a Roma curata dalla Scuola Romana dei Fumetti
dei fatti tutti documentati. La speranza che lo anima è
quella di riuscire a pubblicare, con il patrocinio del Comune di Roma e dei Municipi, le storie di tutti i quartieri romani
coinvolti in avvenimenti dolorosi ma eroici ad un tempo, durante l’occupazione nazista. Il Circolo GL ringrazia la sensibilità della consigliera di Roma Capitale Maria Gemma Azuni per il contributo economico assegnato e l’ANPPIA che ha
reso possibile la stampa dell’opuscolo.
INVITO ALLA LETTURA
Carlo Pisacane
LA RIVOLUZIONE
a cura di Aldo Romano, 2a ed. 2011, pag. 432, con foto, 20,00
La parola progresso suona nella bocca degli uomini d’ogni condizione, d’ogni partito, ma è
da pochissimi, anzi quasi da nessuno compresa. I sorprendenti trovati della scienza che, applicati all’industria, al commercio, al vivere in generale, trasformano in mille guise i prodotti,
sono fatti innegabili: noi vediamo, ove erano gruppi di capanne, sorgere superbe città; campi
aspri e selvaggi squarciati dall’aratro, e resi fecondi; selve, monti, mari, superati; rozzi velli
trasformati in finissime stoffe; le intemperie vinte con l’arte; le tenebre cacciate da fulgidissima luce; il navigar contro i venti; il percorrere con portentosa celerità sterminate distanze;
finanche il fulmine reso rapido messaggiero dell’uomo; l’immensità dei cieli, le viscere della
terra esplorate; gli astri, gli animali, i vegetabili, i minerali, tutti studiati, classificati, misurati... Se questo è il progresso, niuno può negarlo o non comprenderlo.
“Edizione integrale dell’opera più famosa e più importante di Pisacane, controllata sul
manoscritto originale, con le correzioni e le cancellature operate dall’autore, preceduta
da un lungo saggio introduttivo sulla vita, sulla spedizione di Sapri e sul pensiero rivoluzionario di Carlo Pisacane, un combattente dimenticato del Risorgimento italiano, ma il
cui pensiero è ancora” oggi attuale.
L’opera può essere richiesta direttamente a [email protected] oppure telefonando al n. 0974 62028
Al prezzo di copertina si aggiungono le spese di spedizione: piego di libro ¤ 1,50, raccomandata ¤ 3,60, contrassegno ¤ 5,50.
Chi vuole può anticipare l’importo sul conto corrente postale n. 16551798 intestato a Giuseppe Galzerano.
11
I luoghi della storia
12
segue da pagina 1
di Fiumicino sia perché i granai del
Tevere erano meglio collegati tramite
la via Portuense; demolita nel 1888
ne resta soltanto una descrizione di
Rodolfo Lanciani: “essa misura m.
3,60 di luce ed ha le spalle murate con
massi di travertino grossi m. 0,67. I
battenti della porta sono formati da
cornici intagliate, poste verticalmente,
la soglia monolite di travertino è lunga
oltre m. 4 e si trova nello stesso piano
della Piramide”. Il nome originale
della porta superstite era “Porta
Ostiensis”, perché da lì iniziava, come
tuttora inizia, la via Ostiense. La
storia di ogni porta, oltre alle proprie
caratteristiche architettoniche, è
fatta anche di aneddoti e curiosità che
restituiscono la “vita quotidiana” delle
varie epoche. È ricordata, fra l’altro,
dallo storico Ammiano Marcellino
perché, nel 357 d.C, “venne trascinato
con somma cura attraverso la porta
Ostiense” l’obelisco che attualmente si
erge in piazza S. Giovanni in Laterano.
Con la perdita d’importanza del porto
di Ostia anche il ruolo preminente della
porta venne meno finché, coinvolta nel
processo di cristianizzazione di tante
altre porte romane, fu ribattezzata
col nome attuale di “Porta S. Paolo”
perché era l’uscita per la Basilica di
S. Paolo “fuori le mura”, che aveva
ormai ereditato l’importanza che
fino a qualche secolo prima era del
porto. Di conseguenza, non era più
necessario mantenere i due fornici,
che, anzi, in caso di pericolo esterno
avrebbero comportato una maggiore
difficoltà difensiva. Infatti, quando
tra il 401 e il 403, l’imperatore Onorio
ristrutturò buona parte delle mura
e delle porte, provvide anche, come
in quasi tutti gli altri interventi, a
ridurre ad uno solo i fornici d’ingresso
(ma non la controporta) demolendo
la parte centrale e ricostruendola con
una sola arcata (ad un livello circa
un metro più alto della precedente)
ed a fornire la facciata di un attico
con una fila di finestre ad arco per
dar luce alla camera di manovra.
Con l’occasione rinforzò le due torri
rialzandole di merli e finestre. La
lapide commemorativa dei lavori che
Onorio ha lasciato su ogni intervento
da lui effettuato sulle mura o sulle
porte, sembra fosse presente almeno
fino al 1430. L’attuale “Porta S. Paolo”
- molto rimaneggiata dai successivi
restauri di Massenzio, del citato
Onorio, di Belisario, forse anche di
Narsete, e dei papi Niccolò V, Pio IV,
Alessandro VII, Benedetto XIV, ecc.
fino ai nostri giorni - è quindi ad un
solo fornice chiusa fra due alte torri,
con un cortiletto che la separa dalla
controporta, sul quale si affaccia un bel
tabernacolo medievale con l’immagine
di S. Pietro.Era in origine unita alla
basilica di S. Paolo da un lungo portico
coperto oggi non più esistente ed
ha vissuto anch’essa la sua parte di
storia romana: nel 549 vide entrare
i Goti di Totila che da qui riuscirono
a penetrare nella città a causa del
tradimento della guarnigione, che
lasciò la porta aperta; nel 1407 accolse
re Ladislao ma tre anni dopo fu teatro
di uno scontro cruento fra lo stesso
Ladislao ed i Romani; nel 1522 vi entrò
in Roma Adriano VI appena eletto
papa, in un alternarsi di avvenimenti
belli e brutti. Per molti secoli, le
porte della città hanno scandito la
vita di Roma con la loro apertura e
chiusura perché, oltre alla funzione
militare di difesa per la quale le Mura
erano state costruite, hanno avuto in
passato altri compiti e destinazioni: di
collegamento con le strade principali,
di controllo di polizia delle persone,
di cordoni sanitari, dell’attività di
dogana.
Già dal V secolo ed almeno fino al
XV, è attestato - come prassi normale
- l’istituto della “concessione in
appalto e della vendita a privato delle
porte cittadine e della riscossione del
pedaggio” per il relativo transito. In
un documento del 1467 è riportato
un bando che specifica le modalità di
vendita all’asta delle porte cittadine
per un periodo di un anno pagabile in
“rata semestrale”. Il prezzo d’appalto
per la porta “S. Paulo” non era molto
alto perché a quell’epoca il traffico
cittadino - per quella porta - non era
intenso come una volta, ancorché
sufficiente ad assicurare un congruo
guadagno al compratore. Guadagno
regolamentato da precise tabelle che
riguardavano la tariffa di ogni tipo di
merce ma che era abbondantemente
arrotondato da abusi di ogni genere
a giudicare dalla quantità di “gride”,
editti e minacce che venivano emessi.
All’interno del “Castelletto” - la
controporta che sembra una piccola
fortificazione – è attualmente ospitato
il “Museo della Via Ostiense”, con
la ricostruzione dei porti di Ostia
e dei monumenti ritrovati lungo la
“via Ostiensis”.
La struttura della porta è in
travertino ed è fiancheggiata da
due torri a base semicircolare
(a ferro di cavallo). Sul suo lato
interno Massenzio, all’inizio del
IV secolo, ne edificò un’altra con
funzione di controporta (l’unica
controporta delle mura aureliane
interamente conservata), sempre
a due fornici in travertino,
collegata alla precedente da due
muri chiusi a tenaglia a formare
una sorta di piccola fortificazione
chiamata “Castelletto”, all’interno
1943, granatieri a Porta S. Paolo foto di archivio
della quale doveva trovar posto
sia la guarnigione militare che
la stazione dei gabellieri per la
riscossione del pedaggio sulle merci
in entrata e in uscita. Di certo, gli
interventi hanno comunque reso
l’intera struttura asimmetrica,
irregolare e architettonicamente
squilibrata, con il fornice esterno
non in linea con quelli interni, le
torri poco più alte della facciata e,
in generale, dimensioni piuttosto
sproporzionate. All’altezza della
controporta, sul lato orientale, in
corrispondenza dell’attuale via
R. Persichetti, doveva trovarsi
una “posterula”, di cui però non
rimane nulla perché quel punto
I luoghi della storia
13
è stato devastato nel 1943 in
occasione di un bombardamento
aereo. Una strana particolarità
della controporta, unica in tutta
Roma, è che la chiusura era verso la
città anziché, come normalmente
accadeva, verso l’interno della
struttura. Soprattutto in epoca
medievale quando i nemici
esterni
rappresentavano
un
pericolo paragonabile a quello
delle fazioni armate interne alla
città, la Porta doveva costituire
una sorta di piccola fortezza
per una guarnigione armata che
all’occorrenza avrebbe potuto
rinchiudersi all’interno. La porta
ha infatti subìto diversi attacchi
S. Paolo e nel bastione predisposto
intorno alla vicina piramide di Caio
Cestio. L’8 gennaio, dopo 3 giorni di
assedio, Porta S. Paolo cadde insieme
alla Porta Appia, seguite a un mese
di distanza dalla Porta Tiburtina e
dalla Porta Prenestina, lasciando via
libera all’ingresso trionfale in Roma
del nuovo papa. Sulla torre orientale
è presente un’iscrizione a memoria
dei lavori che Benedetto XIV effettuò
nel 1749 per il restauro di tutta la
cinta muraria da qui a Porta Flaminia.
Intorno al 1920 la Porta fu isolata
dalle Mura Aureliane per agevolare
il traffico dell’area adiacente sul lato
orientale ed in seguito, a causa del
bombardamento durante la II Guerra
eventuali attacchi da qualsiasi altra
provenienza”. L’Armistizio era stato
firmato il 3 settembre a Cassibile,
in Sicilia, ma doveva restare segreto
per alcuni giorni per dar modo agli
italiani di sganciarsi dai tedeschi.
Vista però l’eccessiva titubanza del
Governo e degli alti comandi militari
italiani, il Gen. Dwight Eisenhower,
comandante in capo delle forze alleate
anglo-americane, che nel frattempo
aveva avviato le manovre per lo
sbarco di Salerno e “non intendeva
continuare la sanguinosa farsa di
combattere contro truppe di fatto
fuorigioco”, rese pubblico l’Armistizio
mettendo gli italiani di fronte al
fatto compiuto. La dichiarazione
proprio dall’interno, soprattutto
nel 1410. In quell’anno la città era
in mano al re Ladislao di Napoli
e tre papi – Benedetto XIII,
Alessandro V, Giovanni XXIII
(!) - si combattevano per ottenere
il
riconoscimento
ufficiale,
spalleggiati dalle più potenti
famiglie romane in lotta fra loro;
il popolo romano, in preda alla più
totale anarchia, al seguito degli
Orsini, sostenitori dell’antipapa
Alessandro V Filargo di Creta
(1409-1410), fu protagonista di
diversi violenti scontri lungo
le mura, culminati nell’attacco
alla
guarnigione
napoletana
asserragliata proprio nella Porta
Mondiale, andò distrutto anche il
tratto di mura occidentale che la
collegavano alla Piramide Cestia.
Nel tragico settembre del 1943
proprio sulle mura di Porta S. Paolo
si svolse uno degli avvenimenti più
popolari che dettero inizio alla guerra
civile che dilaniò l’Italia da quel
momento sin’oltre la fine della II Guerra
Mondiale. Tutto incominciò la sera
dell’8 settembre dopo che le stazioni
radio avevano diffuso il messaggio
del Capo del Governo, Maresciallo
Pietro Badoglio, che annunciava
l’armistizio: “… ogni atto di ostilità
contro le forze angloamericane deve
cessare da parte delle forze italiane in
ogni luogo. Esse però reagiranno ad
dell’Armistizio (e qualche tempo
dopo anche il capovolgimento
delle alleanze) determinò l’estrema
incertezza dei responsabili politici e
militari nell’adottare le decisioni con
ripercussioni su tutti i fronti nei quali
erano impegnati i reparti italiani.
Lo sconcertante vuoto di direttive
politiche e militari ebbe tremende
conseguenze e provocò la rabbiosa
reazione e repressione da parte delle
truppe tedesche. Infatti, temendo il
cambio di fronte degli Italiani, Hitler
aveva predisposto che le armate di
Rommel a Nord e quelle di Kesserling al
Centro-Sud, impegnate a contrastare
l’avanzata degli anglo-americani,
fossero pronte a neutralizzare gli alti
I luoghi della storia
14
comandi politico-militari italiani
secondo il piano segreto “Alarico”. A
Roma era altissima la concentrazione
di truppe italiane per la presenza di
ben 6 Divisioni. Di queste la Divisione
“Granatieri di Sardegna” composta da
11.000 uomini, già dalla fine di luglio
del ’43, era stata spiegata nella periferia
Sud-Ovest di Roma con apprestamenti
difensivi su 13 capisaldi e 14 posti di
blocco collocati in corrispondenza
delle strade di accesso alla Capitale,
concepiti, però, per contrastare un
eventuale attacco anglo-americano.
Ogni caposaldo aveva un posto di
blocco con sbarramento sulla strada
principale e varie postazioni di tiro di
cannoni. Scattato il piano “Alarico”,
Kesserling, scampato ad un duro
bombardamento alleato su Frascati
ove aveva il suo Quartier Generale,
ordinò al gen. Kurt Student di
muovere su Roma con la 2° Divisione
Paracadutisti, accampata tra Ostia e
Pratica di Mare. Qualche ora dopo,
al caposaldo 5 di Ponte MaglianaOstiense, un’autocolonna tedesca
cercò di occupare il posto di blocco.
Qui ebbe inizio l’epopea tragica che si
concluderà con il conosciuto episodio
di “Porta S. Paolo”, dove si svolsero
i combattimenti che, nell’accezione
comune, corrispondono a quella che
1943, Porta S. Paolo foto di archivio
comandante della Divisione Granatieri
di Sardegna, gen. Gioacchino Solinas,
ordinò alla sua batteria di cannoni di
aprire il fuoco dalla collina dell’EUR
contro i tedeschi.
I combattimenti che interessarono
la Divisione Granatieri di Sardegna
ed i reparti ad essa dati di rinforzo
(a seguito della richiesta del Solinas
al gen. Carboni, comandante di tutte
le truppe dislocate in Roma) presero
l’avvio alle ore 21 circa del giorno 8
settembre presso il caposaldo n. 5
dislocato nella zona del Ponte della
1943, Porta S. Paolo foto di archivio
viene definita “La Difesa di Roma”. In
effetti, lì, si ebbero gli scontri finali di
una battaglia che durò circa 3 giorni e
si sviluppò lungo un arco virtuale di
circa 28 km. a sud della Capitale, da via
Boccea a via Collatina, con i militari
coadiuvati da numerosi gruppi di
civili. In assenza di ordini coerenti
dallo Stato Maggiore Generale, il
Magliana - Ponte della Creta - E
42, ora EUR, e proseguirono fino a
circa le 17.00 del giorno 10 settembre
coinvolgendo in diversa misura i
restanti capisaldi e, dopo il loro
ripiegamento, la zona della Piramide
Cestia e di Porta S. Paolo. L’inaspettata
reazione degli italiani costrinse i
tedeschi ad arretrare ma, poco dopo,
una seconda colonna di 1000
uomini si presentò al caposaldo
6 sulla Laurentina, lanciando
un attacco. I loro corazzati però
stentarono ad avanzare per il fuoco
dei cannoni dei Granatieri.
Il
primo
episodio
della
Resistenza italiana era iniziato;
uomini che - a fronte della fuga
di Vittorio Emanuele III, il “resoldato”,
dell’erede
Umberto,
del Governo, del Capo di Stato
Maggiore
Vittorio
Ambrosio
e dei Capi di Stato Maggiore
dell’Esercito, Mario Roatta, della
Marina, Raffaele De Courten, e
dell’Aereonautica, Renato Sandalli
con i loro familiari - combatterono
strenuamente contro i tedeschi.
Numerosi scontri a fuoco si ebbero
anche all’interno della città come a
S. Giovanni e al Colosseo, ad opera
di cittadini accorsi a combattere
contro l’ex-alleato. La mattina del
10 una parte dei militari, che aveva
avuto la peggio altrove ed era stata
costretta a ritirarsi, si riunì intorno
a Porta S. Paolo; ad essi si unirono
civili giunti spontaneamente od
organizzati dai partiti antifascisti.
Fino al pomeriggio del 10 settembre
1943 Porta S. Paolo fu teatro di uno
degli scontri legati all’occupazione
tedesca di Roma. Qui ebbero
luogo i furiosi combattimenti tra
i Granatieri di Sardegna, che il
giorno precedente si erano rifiutati
di lasciarsi disarmare dai tedeschi,
e numerosi gruppi di “uomini e
donne di ogni età e condizione”.
“La Difesa di Roma” fu fatta sia
dai militari che dai civili i quali
I luoghi della storia
poterono combattere anche con
un migliaio di armi corte e lunghe,
cedute dal Servizio Informazioni
Militari (SIM) e prelevate dai
depositi clandestini del SIM di via
Silla 91, dal Museo dei Bersaglieri di
Porta Pia, dall’Officina Scattoni di
via Galvani e dall’officina biciclette
Collalti a Campo dé Fiori. Questo
importante contributo politicomilitare è stato attestato dal
futuro deputato del PCI Antonello
Trombadori, che nel suo “Diario”
racconta: “Mi trovavo a Roma al
Grand Hotel con Longo ed altri per
conferire con l’aiutante di Giacomo
Carboni e col figlio di Carboni,
Guido (capitano). Luigi Longo ed io
eravamo lì perché grazie alla rete di
contatti messa in piedi da Giuseppe
Di Vittorio, dovevamo accordarci
con il SIM (sempre Carboni) per
la consegna di armi in vista di una
sollevazione popolare”.
Nonostante
la
schiacciante
superiorità
numerica
e
d’armamento
delle
truppe
tedesche, il fronte resistenziale
riuscì ad attestarsi lungo le mura di
Porta S. Paolo innalzando barricate
e facendosi scudo con le vetture
dei tram rovesciate. Nel corso
della battaglia, il generale Giacomo
Carboni si prodigò nel tenere alto
il morale dei soldati e mandò i
carabinieri a staccare i manifesti
“disfattisti”, che davano imminenti
le trattative con i tedeschi.
Alle 15,30 del giorno 10, gli
ufficiali dei Granatieri, cui si era
aggiunto il tenente in congedo
assoluto per ferita sul fronte grecoalbanese Raffaele Persichetti,
decisero di ripartire all’attacco
dando ordine ad un plotone del
“Genova Cavalleria” ed a un
gruppo di civili di porsi a guardia
delle alture del quartiere S. Saba,
che dominano la piazza di Porta S.
Paolo. Contemporaneamente alla
stazione Ostiense sul binario 3 c’era
un “commando” di civili e militari
del nascente CNL, capitanati dal
magg. Carlo Benedetti. Alle 16.00, il
gen. Giorgio Carlo Calvi di Bèrgolo,
genero di Vittorio Emanuele III e
comandante di Corpo d’Armata,
comunicò al gen. Solinas l’avvenuta
firma dell’armistizio con i tedeschi
e l’ordine di cessazione delle ostilità. Tra le condizioni dell’armistizio, che dichiarava
“Roma Città Aperta”, c’era la consegna delle armi e lo scioglimento dei reparti; ma nei
dettati segreti di Hitler, “accettati con riluttanza da Kesserling”, c’era la deportazione
in Germania dei soldati italiani.
Nel primo pomeriggio la Resistenza fu travolta dai mezzi corazzati tedeschi e il Capo
di Stato Maggiore della Divisione “Centauro”, colonnello Leandro Giaccone, firmò la
resa a Frascati, presso il Quartier Generale tedesco. La “Difesa di Roma” costò 1167
militari caduti o dispersi e secondo dati “ufficiali” 241 civili, fra cui 43 donne (il dato
“stimato” è di oltre 400 civili). Tra i molti cittadini che pagarono il loro eroismo con la
morte figurano l’operaio diciottenne Maurizio Cecati e il fruttivendolo Ricciotti che,
finito il lavoro ai Mercati Generali, si improvvisò eccezionale tiratore. Morì colpito
Porta S. Paolo oggi foto Maurizio Galli
da una scheggia il professore di Storia dell’Arte al Liceo classico Visconti, Raffaele
Persichetti, uno degli ultimi caduti a Porta S. Paolo; decorato con Medaglia d’oro al
V.M. - la prima Medaglia d’Oro della Resistenza - il suo nome è divenuto simbolo di
quanti, soldati e civili, si sono sacrificati nella Difesa di Roma.
La “battaglia di Porta S. Paolo” è considerata il vero e proprio esordio della
Resistenza italiana e in essa si può misurare emblematicamente il comportamento dei
vari protagonisti, indifferenti poi alla campagna di terrore seminata dal Maresciallo
Rodolfo Graziani a proposito delle “notti di S. Bartolomeo” che avrebbero atteso
infallibilmente tutti i militari che non avessero ubbidito agli ordini del nuovo “Stato
Nazionale Repubblicano”, più noto come “Repubblica di Salò”.
Quattro lapidi apposte sulle Mura ricordano vicende dolorose che hanno segnato
col sangue la difesa della Libertà e della Democrazia: i fatti del 10 settembre 1943; lo
sbarco di Anzio; i Caduti della Resistenza; i Caduti del Terrorismo.
A circa settanta anni da quegli eventi, la Porta sfrutta una delle sue particolarità:
quella di formare con la Piramide di Caio Cestio ed i cipressi del Cimitero Acattolico
un quadretto di particolare suggestione, riprodotto in innumerevoli dipinti.
Mario Tempesta, Roma, 22 febbraio 2012
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16
Memorie
Renzo Laconi, un politico da riscoprire
di Maurizio Orrù
A
l giorno d’oggi capita spesso che illustri protagonisti della nostra storia
patria diventino improvvisamente obsoleti e dimenticati. Ahimè!
Questa amara considerazione vale anche per Renzo Laconi, indimenticabile protagonista delle vicende politiche e culturali della Sardegna del secondo
Novecento.
Il Nostro è stato un intellettuale raffinato e acuto, un oratore “trascinatore di
folle” e un appassionato cultore ed estimatore delle lezioni politiche di Antonio
Gramsci. Molte sono le riflessioni e gli scritti nei quali Renzo Laconi riprende le
argomentazioni gramsciane, elaborandole e collocandole all’interno del mondo
culturale sardo e nazionale del suo tempo.
Il Nostro è stato un uomo di cultura giuridica e istituzionale, esponente di una
giovane generazione venuta al socialismo e al comunismo attraverso l’esperienza
della ferrea dittatura mussoliniana. Egli incentrava il suo pensiero e azione, in
Sardegna, sul nesso autonomia regionale, rinascita economico e sociale e una
rigorosa e credibile programmazione democratica, nella Costituente e nel Parlamento, sui rapporti tra democrazia e trasformazione sociale.
Renzo Laconi è stato un valente dirigente politico nazionale del Pci, apprezzato
e fidato collaboratore di Palmiro Togliatti. Fu uno dei maggiori e brillanti protagonisti dell’elaborazione della Carta Costituzionale, cui apportò un contributo
fondamentale sulle tematiche autonomiste. A tale scopo scrive Eugenio Orrù,
direttore dell’Istituto Gramsci della Sardegna, nella sua recente pubblicazione,
La caverna di Platone, Ed. Tema, 2010:
“(…) La sua concezione autonomistica non consente banalizzazioni, che non sono
mancate. Egli si propone e si presenta come uno degli artefici principali della Costituzione regionalista, uno degli uomini più aperti, certo nella specificità culturali
e politiche del suo tempo, agli approdi costituzionali più moderni e alle tematiche
oggi più attuali. Non è perciò retorica richiamare, nell’era della globalizzazione, l’attualità del pensiero di Renzo Laconi, di colui che ha svolto un ruolo essenziale nella
costruzione del dettato costituzionale, di colui che è stato il più lucido assertore della
specialità artefice e protagonista indiscusso della battaglia per la Rinascita (…)”.
Renzo Laconi fu ininterrottamente per quattro legislature deputato al Parlamento della Repubblica (1948-1967), membro del Comitato Centrale del Pci e
Segretario regionale dal 1957 al 1962 e vicepresidente del Gruppo Parlamentare
del Partito comunista. Ruoli politici e istituzionali che Laconi portò avanti con
coerenza e rettitudine, con passione e orgoglio in senso comunista e antifascista. Laconi pensava e rifletteva che se la “sua Sardegna” voleva uscire dall’atavico
sottosviluppo (che ancora oggi permane assoluto) l’autonomia regionale poteva
essere la migliore panacea ai tanti mali che affliggevano le genti sarde, ovvero
delineare una forma di autogoverno democratico, attraverso l’ascesa delle masse
popolari a responsabilità di governo.
A tale riguardo, scrive Maria Luisa Di Felice nel suo saggio introduttivo, Renzo
Laconi. Per la Costituzione, scritti e discorsi, Ed. Carocci, 2010:
“(…) Il pensiero di Laconi conosceva ulteriori, fondamentali sviluppi quando individuava nell’autonomia uno strumento basilare per la crescita democratica e civile,
per la trasformazione sociale ed economica della Sardegna. Laconi fu tra i protagonisti nel processo che portò i comunisti sardi a guardare con convinzione verso
l’autonomia. Era Togliatti a ribadire la necessità che i compagni sardi si uniformassero maggiormente alla linea del partito, e nel II Consiglio Nazionale (aprile 1945) li
invitava a non temere di essere autonomisti, poiché l’autonomia era una “rivendicazione democratica rispondente agli interessi del popolo sardo”.
Ancora oggi, viene ricordato nella memoria collettiva dei sardi, e non solo, per la
sua oratoria brillante ed estremamente rigorosa.
Scrive Enrico Berlinguer, indimenticato segretario nazionale del PCI:
“(…) Egli fu, come tutti ben sappiamo, fra i nostri oratori più efficaci e brillanti, tanto nelle aule parlamentari quanto sulle piazze: La sua oratoria era sottile
e insieme appassionata fino alla veemenza polemica più spietata, logica e rigorosa e insieme semplice e prontamente umana, e raggiungeva a volte, soprattutto
quando si rivolgeva ai lavoratori
più poveri della sua terra, quasi gli
accenti dell’apostolato. Credo che i
suoi comizi saranno a lungo ricordati
e rimpianti dalle decine di migliaia di
lavoratori, non solo sardi, che hanno
avuto anche una sola volta occasione
di ascoltarlo (dal discorso commemorativo al Comitato centrale del PCI,
10 luglio 1967).”
Renzo Laconi con la sua poderosa
personalità politica e culturale non
può e non deve essere rimosso dalla
Storia sarda e nazionale; è necessario approfondire il suo pensiero
e le sue riflessioni. È necessario
ripensare a quest’uomo per meglio
interpretare il presente evanescente
e un futuro denso di incognite.
17
Memorie
La Cattiva Reputazione
La storia non è come una macchina, che quando si fa vecchia deve essere per forza revisionata. Eppure sembra che per alcuni
sia così. Hanno iniziato i finti storici, gli pseudo-storici, ora anche gli storici veri e propri. Riscoprire un documento, osservare,
studiare con il distacco del tempo e la mente fredda, a dire il vero, ha aiutato a comprendere e scoprire molti fatti scomparsi
dalla memoria comune, evidenziando talvolta situazioni molto più importanti di quanto pensassimo. Ma troppo forte è la tentazione di farsi portatori di nuove verità a distanza di decenni, soprattutto se le verità che si vuole riportare a galla sono considerate più vere di quelle vecchie, perché necessarie a nuove teorie, ad un nuovo mondo. La storia la scrivono i vincitori si dice,
e se in parte è vero, è vero anche che i figli, i nipoti dei perdenti hanno molto spesso la tentazione di riscriverla. Ecco spuntare
quindi i Petacco, i Pansa, pure i Bruno Vespa, pronti a presentare volumoni di centinaia di pagine, con il nulla dentro dal punto
di vista scientifico e bibliografico, ma che con l’aiuto del marketing, con la polemica costruita ad arte, con l’uso della televisione,
riescono a farsi passare da storici, quelli veri dico, e le loro teorie diventano nuove teorie, per molta gente, purtroppo.
Dario Biocca non è uno storico di quel tipo, è uno storico veramente. Cosa l’avrà portato a scrivere di Gramsci e del “ravvedimento” di quest’ultimo a distanza di ottant’anni? Che tornaconto ne poteva avere, visto che per addurre elementi inconfutabili
alle sue teorie non ha esitato ad appoggiarsi all’art. 176 del Codice penale, per lui in uso già dal 1934, ma che invece il professor
Joseph A. Buttigieg ha dimostrato essere del 1962?. Malafede? Errore filologico? Qui non si sta parlando di una persona qualsiasi, ma di Antonio Gramsci, di un uomo morto in carcere per difendere le sue idee. Eppure Biocca non ha esitato a mettere in
piazza le sue teorie sul fatto che Gramsci avesse chiesto i domiciliari, perché ravveduto, come obbligava l’art. 176. Nella risposta
a Buttigieg, su “La Repubblica” del 19 marzo 2012, Biocca - dopo avere incassato il colpo - conclude sostenendo che comunque
Gramsci, negli ultimi due anni di carcere si chiuse in un silenzio che si protrasse fino alla morte, insinuando senza troppi veli
che la teoria sul ravvedimento del politico qualche appiglio lo potrebbe comunque avere.
Biocca, il silenzio di Gramsci è stato un grande esempio, anche per lei. A star zitti alle volte si guadagna in stima, in autorevolezza e successo. Invece no, meglio parlare, anzi, sparlare.
cattivareputazione.blogspot.it
Serra Pietro di Serramanna, ammonito perché Pentecostale
di Lorenzo Di Biase
La Circolare Ministeriale n.
600/158 del 9 aprile 1935 conosciuta
come la “Circolare Buffarini-Guidi”
(dal nome del Sottosegretario
all’Interno che la firmò) era rivolta
ai Prefetti del territorio nazionale
per proibire il culto pentecostale in
tutto il Regno perché esso “si estrinseca e concreta in pratiche religiose
contrarie all’ordine sociale e nocive
all’integrità fisica e psichica della
razza”. Di conseguenza fu messo al
bando il movimento pentecostale,
furono chiusi tutti i luoghi di culto
e avvennero molti arresti, ammonizioni, invii al confino sia di semplici
credenti che di pastori pentecostali.
Nonostante la persecuzione religiosa posta in atto dal regime i
pentecostali continuavano a riunirsi
in località campestri e remote o in
casa di qualcuno di essi ma sempre
con il timore di essere scoperti e
perseguitati.
Nelle maglie del regime fascista nel 1942, in quanto adepto
della Chiesa Cristiana Pentecostale, incappò anche il sardo Serra
Rafaele Pietro, residente a Roma
in Via Frontino 33, ma originario di Serramanna. Egli nacque
nel centro agricolo campidanese il
27 luglio 1901 alle ore 13 da Antonio
e fu Collu Maria. Il Serra fu sorpreso
il 19 febbraio 1942 in una casa di Via
Muzio Attendolo “assieme a numerosi
pentecostieri all’atto di svolgere il loro
culto” e per tale motivo fu denunziato
alla Commissione Provinciale per
l’Ammonizione, così recita un verbale
stilato dalla Questura di Roma in data
28 marzo ’42 conservato nel fascicolo
n. 106943 del Fondo Casellario Politico
Centrale presso l’Archivio Centrale
dello Stato. In una lettera del 16 marzo
1942 - indirizzata all’Ufficio Confino e
al Casellario Politico Centrale - a firma
del Capo della Polizia Carmine Senise,
riportante tutto un elenco di persone
da sottoporre al provvedimento
del confino o della ammonizione,
appare anche quello di Pietro Serra. E
quest’ultimo fu sottoposto ai vincoli
dell’Ammonizione dalla Commissione
Provinciale riunitasi il 17 marzo 1942
nei locali della Regia Prefettura di
Roma sotto la direzione del Prefetto
Fusco Comm. Umberto. Alla riunione
inoltre parteciparono il Questore
Petrunti Comm. Nicola, il Procuratore del Re Gatta Comm. Enrico,
il Colonnello dei Reali Carabinieri
Frignani Cav. Uff. Ercole, il Console
della M.V.S.N. Guglielmi Cav. Nicola
e il Commissario Aggiunto in veste di
Segretario della Commissione Santini
Dott. Arnaldo. Il provvedimento consisteva in una serie di limitazioni tra le
quali spiccava quella di non ritirarsi la
sera più tardi “dell’Avemaria” né uscire
al mattino più presto dell’alba. Inoltre
fu inserito in un elenco di persone da
arrestarsi in determinate circostanze
(inserito nell’elenco 5° - pregiudicati
per delitti comuni). Poi, in seguito al
ventennale della marcia su Roma Serra
Pietro fu prosciolto dai vincoli dell’ammonizione con atto di clemenza del
Duce. Per disposizione del Questore
di Roma fu sottoposto a vigilanza da
parte della polizia politica del regime.
Serra Rafaele Pietro morì in Roma
il 28 luglio 1973. La Circolare Buffarini-Guidi che diede la stura alla
persecuzione religiosa venne abolita
il 16 aprile 1955, dopo vent’anni dalla
sua emanazione e dopo ben sette
anni dalla entrata in vigore della
Costituzione repubblicana. Fatto apparentemente inspiegabile!
1818
Noi
I 100 anni di Garibaldo, una vita per la democrazia
L
ivorno, 31 gennaio 2011. Benifei
accompagnato dall’inseparabile
Osmana arriva al Teatro Civico
poco dopo le 17. L’atrio è già stracolmo di
persone che vogliono festeggiare Garibaldo. Entra, guarda con stupore prima
e con emozione poi (gli avevano
nascosto i festeggiamenti, tanto che era
un po’ stupito del fatto che nessuno si
ricordasse di un anniversario così
importante) le tantissime persone che lo
vogliono salutare, stringergli la mano.
Garibaldo e sua moglie Osmana
vengono accompagnati verso due grandi
e comode poltrone, ed il primo saluto è
quello delle loro nipoti che eseguono dei
pezzi di musica classica.
Arrivano poi i saluti del coordinatore
della Società Volontaria di Soccorso del
comune di Livorno, dell’Ammiraglio del
Porto di Livorno, del Presidente Nazionale dell’ANPPIA, del Sindaco della
Città Alessandro Cosimi, del Presidente
della Provincia e dei rappresentanti di
tutte le organizzazioni nate a Livorno
per volontà di Garibaldo. Vengono letti
i telegrammi augurali del Vescovo di
Livorno e dell’ex Questore e vengono
consegnate a Benifei delle pergamene di
ringraziamento per l’impegno sociale,
culturale e politico profuso da sempre
per la difesa della democrazia.
Nel teatro segue una lunga intervista a Garibaldo, e alle domande che gli
sono poste, risponde con la solita ironia
e simpatia.
Un abbondante buffet, organizzato da
varie associazioni tra cui la Cooperativa 8 Marzo, accoglie i numerosissimi
intervenuti. Ma Garibaldo e Osmana
mangiano ben poco, impegnati come
sono a stringere mani e a fare foto. Tutti
vogliono farsi ritrarre con loro. L’atrio
del teatro è addobbato con le foto di
Garibaldo e su uno schermo si susseguono le immagini più significative di
Garibaldo e Osmana, nei momenti d’impegno sociale e politico.
Si suonano le chitarre, s’intonano
i canti della Resistenza, tutto in un
clima gioioso, tutti vogliono ringraziare
questo piccolo grande uomo, che ha dato
veramente tanto alla città di Livorno.
Da Campiglia a Livorno, gli anni della
formazione
Garibaldo Benifei nasce, ultimo di
dodici figli, il 31 gennaio 1912 a Campiglia marittima. Il padre, Garibaldo,
iscritto al Partito repubblicano, muore
tre mesi prima della sua nascita. La
madre si chiama Maria Mariani. La
famiglia Benifei si trova da subito a
vivere in difficilissime condizioni
economiche: la bottega del calzolaio
del padre passa in gestione al figlio
maggiore, Antonio; il secondogenito,
Rito, lavora come muratore. L’uno
socialista, l’altro anarchico, nell’immediato dopoguerra i due fratelli si
impegnano nella lotta politica. Antonio viene eletto consigliere comunale
nel 1919.
Dal 1920 le squadracce fasciste
cominciano a fare irruzione nelle
case, distruggono le sedi di partito,
aggrediscono i rappresentanti delle
associazioni dei lavoratori. La casa di
via Cavour della famiglia Benifei viene
incendiata e devastata nel giugno del
1921 e nel luglio 1922, in cerca di Antonio e Rito, i quali però erano già fuggiti
da Livorno. Al resto della famiglia
(Garibaldo, la madre, il fratello Eros
e le altre sorelle) viene intimato di
lasciare il paese entro poche ore. Così
dalla stazione di Campiglia, una sera
di luglio del 1922, Garibaldo raggiunge
per la prima volta Livorno, dove si
stabilisce definitivamente nel 1923.
A 12 anni lascia la scuola e comincia
a lavorare come “portantino” presso
la Vetreria Rinaldi insieme al fratello
Eros: vi rimane tre anni, durante i
quali partecipa alla sua prima riunione
sindacale e allo sciopero indetto dagli
operai anziani organizzatisi per protestare contro le difficili condizioni di
lavoro nella fabbrica. Fa poi il garzone,
prima al bar Bizzi in via Solferino
(luogo di ritrovo degli antifascisti
livornesi), poi al caffè Bristol, all’angolo di piazza Cavour (frequentato
invece da molti dirigenti fascisti).
Nel 1923 entra nella sezione giovanile della Pubblica Assistenza (SVS).
L’antifascismo militante
e il carcere
Il suo impegno diretto nella politica
attiva e nelle file del Partito comunista
si ha nel 1931, quando il fratello Eros,
entrato nel 1928 nell’organizzazione
clandestina del partito, gli chiede di
recapitare a Roberto Vivaldi del materiale di propaganda fatto entrare di
nascosto dalla Francia: volantini,
manifesti, copie dell’Unità, di Stato
Operaio.
Negli anni successivi l’impegno
politico clandestino di Garibaldo
si fa più vico e attivo. È anche tra i
dirigenti della Federazione giovanile del partito che, in occasione
dei funerali del comunista Mario
Camici nel luglio 1933, ricevono il
compito di coinvolgere e far scendere in piazza il maggior numero
possibile di giovani.
La partecipazione dei livornesi è
massiccia e la polizia fascista non
interviene.
Garibaldo viene arrestato la
prima volta nel luglio del 1933; in
Questura è picchiato selvaggiamente. Trasferito a Roma, viene
condannato dal Tribunale speciale a
un anno di reclusione per il reato di
propaganda comunista. In carcere
prima a Regina Coeli, poi a Livorno,
in regime d’isolamento, ai Domenicani, conosce Sandro Pertini, il
futuro Presidente della Camera e
dell’Assemblea Costituente. Uscito
nell’estate del 1934, viene assunto in
una fabbrica di radiatori e riprende
l’attività politica di opposizione al
regime, come molti altri giovani
livornesi negli anni tra il 1936 e il
1939, sull’onda dell’entusiasmo per
gli avvenimenti di Spagna, con le
vittorie del fronte repubblicano. Ed
è solo per un caso fortuito che, una
sera alla fine del 1937 sfugge all’arresto e al confino, mentre insieme
ad altri compagni sta per imbarcarsi su un grosso motoscafo che
dal Calambrone doveva raggiungere, appunto, la Spagna.
Alla fine di agosto del 1939 il
gruppo dirigente livornese del
partito decide di mandare in stampa
ben diecimila volantini contro la
guerra, sentita ormai come imminente, e contro le violenze del
nazi-fascismo. Alla diffusione dei
volantini, la reazione della milizia
fascista è durissima e Garibaldo,
che si occupava delle sottoscrizioni
per il Soccorso rosso e del materiale di propaganda a stampa, è
nuovamente arrestato. Nel marzo
del 1940 è a Roma, processato dal
Tribunale speciale e condannato a
7 anni per attività sovversiva. Nei
primi di giugno del 1940 è trasferito
nel carcere di Castel franco Emilia
19
Noi
(Modena). La scarcerazione avviene
il 26 agosto del 1943, un mese dopo
la caduta di Mussolini.
La lotta partigiana e la liberazione
Rientrato a Livorno, devastata dai
bombardamenti, partecipa da subito
Vincenzo.
Alla fine di giugno il Comando
militare alleato comunica che le
formazioni partigiane dovevano essere
sciolte e disarmate. Garibaldo, insieme
ad altri, chiede con insistenza che si
lasci proseguire ai partigiani la lotta
gennaio 1945 dal sindaco Furio Diaz,
nella casa comunale del Villaggio di
Ardenza. Nel febbraio del 1945 Garibaldo e Osmana vengono inviati dal
partito, per risolvere alcune questioni
delle locali sezioni, prima all’Isola d’Elba e poi a Piombino, dove li
raggiunge la notizia della fine della
guerra e della liberazione del Paese.
Inizia così un sodalizio di vita nutrito
non solo dall’amore reciproco, ma
anche dalla condivisione dei valori di
libertà e giustizia sociale.
L’impegno nella cooperazione e nella
solidarietà
Il depliant pubblicato da Comune di Livorno e Istoreco per i cento anni di Benifei
alle prime riunioni della Concentrazione antifascista. Tra il settembre
e l’ottobre del 1943 nasce ufficialmente, seguendo le indicazioni dei
dirigenti nazionali, il Comitato di
Liberazione Nazionale livornese:
Garibaldo è incaricato di mantenere i collegamenti tra il Comitato
di Liberazione dell’area di Livorno e
quelli degli altri paesi della provincia e anche dell’area pisana. Fino
all’estate del 1944mprtende parte
attivamente alla guerra di liberazione nelle file partigiane. Il CLN
comincia ad assumere una dimensione sempre più interprovinciale
e Garibaldo coordina le azioni e
le attività dei distaccamenti tra
Livorno e Grosseto, in particolare operando tra Castagneto e San
al fianco dell’esercito alleato, ma non
ottenendo l’approvazione considera
terminata la sua esperienza nella Resistenza. Così fa ritorno prima a Vada,
dove prende contatti con il Comitato federale del Pci, e poi a Livorno,
proprio il giorno dopo la liberazione
della città dai tedeschi (19 luglio 1944).
Osmana
In quella stessa estate del 1944
comincia frequentare Osmana Benetti,
tuttora compagna della sua vita. Anche
lei militante nel Pci, aveva preso parte
alle lotte partigiane con funzioni di
collegamento e di diffusione del materiale di propaganda, organizzatrice e
protagonista dei Gruppi di difesa della
donna. Garibaldo e Osmana si fidanzano; il matrimonio è celebrato il 24
A Piombino gioca un ruolo fondamentale
nella
ricostruzione,
il
movimento cooperativo (in particolare
la cooperativa “La Proletaria”), che si
diffonde via via nei paesi vicini. Gran
parte del ruolo di Garibaldo all’interno
del partito, in quegli anni, è proprio
verso il rafforzamento di questa realtà,
che conosce un rapidissimo sviluppo a
Livorno e provincia. Nel 1946 è eletto
presidente provinciale della Lega
delle Cooperative e in seguito entra
anche nel consiglio nazionale: compito
questo che svolge con grande passione,
perché da sempre convinto che la
pratica della cooperativa sia la realizzazione concreta di molti degli ideali
di unità e fratellanza che avevano
animato le lotte antifasciste e la Resistenza. Nel 1948, a causa del mutato
clima politico, nel pieno della “guerra
fredda”, Garibaldo è accusato insieme
a molti altri responsabili di organismi
cooperativi di violazione delle leggi
sui dazi doganali (per una questione di
“pacchi dono” inviati dagli Stati Uniti).
Si trova così nuovamente, dopo gli anni
del regime, a vivere in clandestinità
per circa un anno; arrestato e condannato a tre mesi di reclusione, trascorre
tre giorni nel carcere dei Domenicani.
In appello la pena gli viene cancellata e può riprendere i suoi incarichi ai
vertici del movimento e all’interno del
partito.
Nel 1957 Garibaldo è uno dei soci
fondatori dell’ARCI, di cui firma
personalmente l’atto costitutivo a
Firenze. Da sempre impegnato nelle
attività di assistenza ai più deboli e nel
volontariato, ricopre negli anni successivi a Livorno veri incarichi direttivi:
principalmente nell’ECA (Ente comunale di Assistenza) e nella Società
Volontaria di Soccorso.
Dell’Eca di Livorno è nominato
20
Noi
presidente verso la metà degli anni
Settanta, succedendo a Ernesto Santopadre. È sua l’iniziativa di far nascere,
nei locali di fianco alla sede dell’associazione, un asilo per i bambini
intitolato a Primetta Marrucci.
Nella SVS di Livorno rimane volontario in servizio attivo per un lungo
periodo. Partecipa, già dagli anni
Sessanta, allo sviluppo del movimento
regionale e nazionale delle Pubbliche
Assistenza, in cui ricopre anche incarichi dirigenziali. Dal 1981 al 1987 viene
nominato presidente: in questi anni fa
ristrutturare la vecchia sede dell’associazione, ancora danneggiata dai
bombardamenti, provvede all’apertura di nuovi ambulatori tuttora attivi,
istituisce il primo servizio con medico
a bordo in ambulanza. Al termine del
mandato continua la sua partecipazione alla vita dell’associazione anche
nel ruolo attivo di presidente del collegio dei Probiviri, che mantiene ancora
oggi.
Verso il futuro: i giovani nel villaggio
globale
Garibaldo, credendo fermamente
nei valori della pace, dei diritti umani,
della solidarietà internazionale e del
rispetto tra i popoli, convinto che “una
società dove molti sono gli esclusi è
una società senza futuro”, è anche uno
dei fondatori, ancora oggi nell’esecutivo, dell’Associazione Livornese di
solidarietà con il Popolo Saharawi. Dal
1993 l’associazione promuove scambi
interculturali tra bambini e famiglie, gemellaggi, adozioni a distanza
e molteplici iniziative finalizzate a
costruire una solidarietà concreta tra
il popolo saharawi e quello livornese,
nell’ottica di una sempre più ricca interazione tra queste due culture così
differenti.
Nel 2002 riceve una targa d’argento
dal comune di Livorno come riconoscimento per l’impegno civile e la
continua testimonianza ai giovani dei
valori di libertà e giustizia. Nel 2007
è presidente onorario dell’Istituto
Storico della Resistenza e della Società
Contemporanea nella provincia di
Livorno.
Ma l’impegno più appassionato di
Garibaldo dal dopoguerra ad oggi è
quello all’interno dell’Anppia, di cui
è fondatore a livello nazionale con
Umberto Terracini, e presidente,
a Livorno, fino ai giorni nostri. Un
impegno assiduo il suo nel portare
testimonianza di storia e di vita nelle
scuole (interviste, progetti, viaggi con
le classi sui luoghi degli eccidi fascisti
e nazisti) affinché i giovani comprendano i valori della democrazia, della
giustizia, della libertà.
DA PARMA
N
on si cancellano la storia e il
valore
della
Resistenza
jugoslava
Fascisti, leghisti e destre anticomuniste vorrebbero fosse eliminata
l’intitolazione a Tito della piccola
strada di Parma esistente dagli anni
’80, e in alternativa introdotta “via
martiri delle foibe”.
È una richiesta grave e assolutamente inaccettabile, espressione di
quel “revisionismo storico” mirante
a sminuire il valore della Resistenza
antifascista, oscurare i crimini fascisti
e nazisti, e rivalutare in qualche modo
il fascismo.
Morti delle foibe, nel settembreottobre ’43 e nel maggio ’45, furono
alcune centinaia di italiani (migliaia
aggiungendo dispersi e fucilati in
guerra, deportati e morti in campi di
concentramento jugoslavi, ecc.) in gran
parte militari, capi fascisti, dirigenti
e funzionari dell’amministrazione
italiana occupante la Jugoslavia, collaborazionisti. Morti per atti di giustizia
sommaria, vendette ed eccessi, da
parte di partigiani jugoslavi, derivanti
dall’odio popolare e dalla rivolta nei
confronti dell’Italia fascista. Considerare questi morti indistintamente,
accomunarli tutti insieme, non rende
giustizia a quella parte di loro che
furono vittime innocenti. Vittime,
non martiri. La stessa legge statale del
2004 istitutiva del “giorno del ricordo
delle vittime delle foibe” non usa mai
la parola “martiri”.
Violenza di proporzioni di gran
lunga superiori, sistematica e pianificata, e precedente, è stata quella del
fascismo a partire dal 1920. Azioni
delle squadracce contro centri culturali, sedi sindacali, cooperative
agricole, giornali operai, politici e
cittadini di “razza slava”, poi, nel
ventennio, la chiusura delle scuole
slovene e croate, il cambiamento della
lingua e dei nomi, l’italianizzazione
forzata, infine, nell’aprile del ’41, l’aggressione militare, l’invasione della
Jugoslavia da parte dell’esercito
del re e di Mussolini, pochi giorni
dopo quella da parte della Germania nazista. L’Italia si annesse
direttamente
alcuni
territori
(come Lubiana e parte della Slovenia), altri tenne sotto controllo, in
condizioni di occupazione particolarmente dure e crudeli, non meno
di quelle naziste. Distruzione di
interi villaggi sloveni e croati, dati
alla fiamme, massacro di decine di
migliaia di civili, campi di concentramento.
Di qui la rivolta contro l’Italia
fascista, lo sviluppo impetuoso del
movimento partigiano delle formazioni repubblicane e comuniste
guidate da Tito, la grande lotta antifascista e antinazista nei Balcani.
Enorme è stato il tributo
jugoslavo alla guerra contro il nazifascismo: su una popolazione di
18 milioni di abitanti dell’intero
Paese, furono al comando di Tito
300.000 combattenti alla fine del
’43 e 800.000 al momento finale
della liberazione, 1.700.000 furono
i morti in totale, sul campo 350.000
i partigiani morti e 400.000 i feriti
e dispersi. Da 400.000 a 800.000,
ovvero da 34 a 60 divisioni,
furono i militari tedeschi e italiani
tenuti impegnati nella lotta, con
rilevanti perdite inflitte ai nazifascisti. Una lotta partigiana su vasta
scala, che paralizzò l’avversario e
passò progressivamente all’offensiva, un’autentica guerra, condotta
da quello che divenne un vero e
proprio esercito popolare e che fece
di Tito più di un capo partigiano,
un belligerante vero e proprio, riconosciuto e considerato a livello
internazionale.
La Resistenza della Jugoslavia è stata di primaria grandezza
in Europa e da quella esperienza la
Jugoslavia è uscita come il paese
più provato e al tempo stesso più
trasformato. La Resistenza jugoslava ancor più di altre è stata più
di una guerriglia per la liberazione
del proprio territorio, è stata empito
universale di una nuova società,
ansia di superamento delle barriere
nazionali, anelito di pace, libertà e
giustizia sociale, da parte di tanti
uomini e tante donne del secolo
scorso.
Ai partigiani jugoslavi si unirono,
l’indomani dell’8 settembre ’43,
21
Noi
quarantamila soldati italiani, la
metà dei quali diedero la vita in
quell’epica lotta nei Balcani; essi,
col loro sacrificio, riscattarono l’Italia dall’onta in cui il fascismo l’aveva
gettata. A questi italiani devono
andare il ricordo e la riconoscenza
della Repubblica democratica nata
dalla Resistenza.
Comitato Antifascista e per la Memoria
Storica – PARMA
DA VERONA
R
iprendono nel 2012 le numerose iniziative scaligere.
L’Istituto veronese per la
storia della Resistenza e dell’età
contemporanea, l’ANPI, l’ANPPIA e
l’ANED, per ricordare il GIORNO
DELLA MEMORIA, hanno organizzato una serie di iniziative di cui
diamo conto qui di seguito.
14 gennaio
Presso la sala “Berto Perotti”
dell’IVrR, è stato presentato il libro
Quella del Vajont Tina Merlin,
una donna contro di Adriana
Lotto (Cierre 2011).
Ha presentato il volume Lorenza
Costantino alla presenza dell’Autrice.
“Il nome di Tina Merlin resta
legato alla tragedia del Vajont.
Fu infatti la prima giornalista, e
unica fino alla catastrofe, a denunciare l’operato della Sade (Società
Adriatica di Elettricità) di voler
realizzare la diga che, con la nazionalizzazione dell’energia elettrica,
sarà ceduta all’Enel. Tina Merlin
era una cronista di vaglia, una
voce libera che dalle colonne de
“l’Unità” dava spazio ai timori
dei montanari sui pericoli incombenti per le popolazioni della valle.
Aveva partecipato alla Resistenza
e per ricordare il contributo delle
donne alla lotta di liberazione
scrisse un libro di racconti partigiani Menica e le altre. Animata da
grande passione per il suo mestiere,
viveva il lavoro come una missione
occupandosi fra l’altro di emigrati,
di territorio ferito, di montagna
abbandonata, di sviluppo sostenibile e di ecologia. Si occupò sempre
di emancipazione femminile che
secondo lei, moglie e madre, era
inscindibile dal lavoro. Per le sue
denunce sui pericoli della costruzione
della diga del Vajont fu denunciata per
turbativa dell’ordine pubblico, processata e infine assolta. Rimase ai margini
della grande stampa, quasi fosse stato
attuato nei suoi confronti una sorta
di ostracismo. Morirà a Belluno il 22
dicembre 1991 a 65 anni”.
21 gennaio
Presso la sala “Berto Perotti” dell’IVrR, il 21 gennaio è stato proiettato
il documentario E come potevamo
noi cantare. Milano 1943 – 1945. Le
deportazioni. Un film di Vera Paggi,
Dario Venegoni, Leonardo Visco
Gilardi. Regia di Massimo Buda. Era
presente Dario Venegoni.
E come potevamo noi cantare con
il piede straniero sopra il cuore tra
i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al
figlio crocifisso al palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento’.
(Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei
salici – 1945)
4 febbraio
Presso la sala “Berto Perotti” dell’IVrR ha avuto luogo l’incontro: Storia
di Luisa. Una bambina ebrea di
Mantova, conversazione di Donatella Levi con Maria Bacchi e Fernanda
Goffetti, curatrici della ricerca che è
stata pubblicata nel 2011 dall’editore
Gianluigi Arcari di Mantova. Ha introdotto l’incontro Roberto Bonente
“Storia di Luisa, mette bambini e
Adriana Lotto autrice del libro su Tina Merlin
adolescenti al centro: sia come oggetti
di ricerca che come soggetti attivi
nella trasmissione delle conoscenze sul
passato. Un passato, quello compreso
tra il 1938 e il 1945, di cui si parla e sul
quale ci si «emoziona» ma sul quale
troppo poco ancora si riflette e si
studia. Chi l’ha vissuto direttamente
ed è in grado ricordarlo ora è anziano
e a quel tempo aveva l’età delle ragazze
e dei ragazzi a cui ci rivolgiamo oggi;
si tratta di difficili ricordi d’infanzia”.
Il violino di Andrea Testa ha accompagnato alcuni momenti dell’incontro.
11 febbraio
Si è tenuta la conferenza dal titolo:
Prima della Shoha, relatore Carlo
Saletti, introdotta da Roberto Buttura.
Carlo Saletti è curatore con Ernesto De Cristofaro del libro Precursori
dello sterminio. Binding e Hoche all’origine dell’eutanasia dei malati di
mente nella Germania nazista, edito
nel 2012 dalla casa editrice ombre
corte di Verona.
“Tra i primi sostenitori della necessità di procedere a eliminazioni
programmate di vite umane erano
stati, agli inizi degli anni Venti, il
giurista Karl Binding e lo psichiatra Alfred Hoche. Nell’abiura dei più
elementari principi umanitari, questi
precursori dello sterminio, che predicavano la soppressione di tutti quei
malati giudicati dalla scienza medica
inguaribili, affidarono il loro messaggio a un breve libro destinato a fare
scuola’.
18 febbraio
Nella sede dell’ANPPIA, ANPI e
IVrR, sala “Berto Perotti” è stata
indetta la Giornata del tesseramento
22
Noi
Verona, 25 febbraio il relatore Roberto Bonente
ANPPIA 2012. L’incontro ha avuto
come tema: Fare oggi la storia
dell’antifascismo.
L’esperienza modenese, Tema trattato da Claudio Silingardi, direttore
dell’Istituto storico di Modena. Ha
introdotto Roberto Bonente, consigliere nazionale ANPPIA.
Claudio Silingardi è uno dei curatori
del Dizionario storico dell’antifascismo modenese realizzato dall’istituto
per la storia della Resistenza e della
società contemporanea in provincia di
Modena. L’obiettivo fondamentale del
Dizionario è quello di restituire volti
e voci, per quanto possibile, ai molteplici fenomeni e casi di opposizione al
fascismo dall’inizio degli anni Venti
fino alla svolta dell’8 settembre 1943,
adottando come contesto spaziale di
riferimento l’intera provincia modenese.
25 febbraio
Organizzato un incontro-conversazione con Roberto Bonente, tenuto
presso la sala “Berto Perotti” dell’IVrR
dal titolo: In memoria dei veronesi
caduti nei campi di deportazione.
Nel 1966, per celebrare il XX anniversario della Liberazione, la sezione
veronese dell’Associazione nazionale
ex deportati pubblicò un piccolo ma
prezioso libretto: In memoria dei veronesi caduti nei campi di deportazione.
Scritto da Alfredo Molin, deportato
a Mauthausen e che sarà in seguito
presidente dell’Aned di Verona, con
una presentazione di Augusto Tebaldi,
deportato a Flossenburg, voleva essere
«uno scarno tremendo rendiconto
finale di una inumana operazione, la
cui impressionante vastità è rispecchiata anche per questo angolo
d’Europa da nomi e cifre: una pagina
indimenticabile di dolore e di sacrificio, troppo spesso dimenticata e
misconosciuta».
Nella guerra che si combatte nel mondo tra il bene e il male,
dovete dare il vostro nome
alla
bandiera
del
bene
e avversare senza tregua il male.
(Giuseppe Mazzini)
DA MILANO
Il Coordinamento ANPI Milano e il
Comitato Antifascista per la difesa
della Democrazia zona Sei di Milano
ci inviano il comunicato stampa
sull’ennesima provocazione fascista di
Forza Nuova
O
ggi 10 febbraio 2012 “Giorno
del Ricordo” ore 17.00 presso
la Sala Polifunzionale del
Comune di Milano “SEICENTRO” in
Via Savona 99 a Milano (Zona sei) alle
ore 17.00 circa, una quindicina di
persone con viso coperto da maschere
e passamontagna hanno fatto irruzione nella sala Teseo dove è in esposizione, a cura della Fondazione
Memoria della Deportazione con il
Patrocinio del Consiglio di zona sei la
Mostra: FASCISMO FOIBE ESODO
“La tragedia del confine orientale”.
Imbrattare i cartelloni, lanciare
volantini firmati Forza Nuova,
urlare contro la commessa e i cittadini in sala, ecco l’azione vile dei
“visitatori”. Al contrasto deciso dei
presenti, i quindici lasciavano la
sala senza potere continuare l’opera
di danneggiamento dei cartelloni.
Sdegno e piena condanna dalle
forze Democratiche della zona,
l’ANPI di Zona e Il Comitato
Antifascista per la difesa della
Democrazia zona sei Milano INVITANO tutti i cittadini a visitare
la mostra domani… proprio per
capire che la verità dà sempre fastidio ai “fascisti” e proprio la verità
particolare del Giorno del Ricordo
ancor più infastidisce chi da sempre
confonde, infanga, inquina, revisiona, fatti e azioni che sono la
nostra storia.
Milano città medaglia d’Oro
della Resistenza, non può accettare questa forma di violenza fisica
e di pensiero, ancora una volta la
nostra risposta democratica, civile
e di presidio antifascista si muoverà
sul territorio raccontando verità
portando cultura e chiedendo alle
Istituzioni e cittadini tutti, vigilanza e negazione di qualsiasi
spazio al fascismo, al razzismo.
DA TORINO
Lutto a Torino
Carmela Mayo ci ha lasciati
I
l 18 gennaio è deceduta a
Torino Carmela Mayo vedova
Levi che faceva parte del Comitato Direttivo della Federazione
Anppia di Torino. Aveva appena
compiuto 97 anni era nata il 14
gennaio 1914).
Nata a Gradisca d’Isonzo (Gorizia), la sua famiglia giunse profuga
a Torino nel 1915. Dopo una iniziale
adesione al fascismo, che la vide
protagonista delle attività delle
“Giovani italiane”, Carmela inizia
un percorso di ribellione alle
ingiustizie e alla propaganda anti
semita. Le leggi razziali segnano
il suo definitivo distacco dal fascismo e l’inizio di un percorso che la
porterà alla militanza antifascista.
Nel novembre 1943 aveva sposato
23
Noi
Mario Levi, noto ebreo antifascista,
membro del PCI, condannato a 3
anni di reclusione perché, ufficiale
dell’esercito, aveva fornito armi ai
“sovversivi” durante l’occupazione
delle fabbriche ed era stato difeso
dall’on. Terracini dinanzi al Tribunale Militare. A inizio guerra era
stato poi internato, con altri ebrei,
ad Ateleta, in Abruzzo. Per sfuggire
alle ricerche dei tedeschi, durante
la Resistenza la coppia si rifugia
nelle Valli Valdesi sotto falso nome
(Olaro). Qui Carmela si unisce alla
105a Brigata partigiana Garibaldi
“Carlo Pisacane” e opera quale staffetta portaordini tra la brigata e il
comando di Torino e come redattrice
di un giornale clandestino. È significativa la sua partecipazione ai Gruppi
di difesa della donna, che dà inizio alla
sua attività politica dedicata al mondo
femminile.
Dopo la Liberazione Carmela si
adopera nel settore sociale riunendo
l’Associazione
Pionieri
d’Italia
(ragazzi fino ai 15 anni) e difendendo
i diritti delle donne. Nell’Anppia, da
vedova, ha dato un valido contributo di
idee e di attività insieme a Rita Comoglio ved. Bazzanini, tuttora viva e
quasi coetanea.
Carmela Mayo in una rara foto giovanile
Lettere
Sollecitati a replicare allo “sfogo” pubblicato nel numero scorso, i lettori rispondono
Due Risposte a Terracciano
La lettera di Nicola Terracciano
pubblicata sul mensile L’antifascista
dell’ottobre - dicembre 2011 (p.
2) dipinge dell’Italia attuale un
quadro a nero di pece, dove tutto è
buio e non si distinguono forme.
Mentre si legge, in certo modo vi si
ritrova se stessi, perché ognuno di noi
(intendo noi democratici e antifascisti)
soffre nelle proprie viscere la bruttura
del mondo quale si è andato delineando
da qualche decennio a questa parte.
Per noi italiani in particolare si
aggiunge l’umiliazione di un paese
in preda all’illegalità e alla rapina.
Eppure, proseguendo nella lettura
delle due “colonne infami” si ricevono
stilettate ulteriori, non più ascrivibili
all’oggetto rappresentato, ma inerenti
alla rappresentazione stessa. Insieme al
presente, viene coperto di fango anche il
passato, anche quello più nobile, quello
che dovrebbe e forse potrebbe segnare la
via del riscatto. Giudizi gettati qua e là,
così perentori e ingiusti che non possono
essere lasciati senza risposta puntuale.
“… imperversano partiti e loro
cinghie di trasmissione che sono i
sindacati di cosiddetto centro-destra
e di cosiddetto centro-sinistra…”.
Anche la CGIL, anche la FIOM,
che si stanno battendo contro, che
continuano a lottare, che sono ancora
l’unica organizzazione di massa contro
l’arbitrio finanziario? Un po’ di solidarietà
non stonerebbe. Già, ma a rileggere
daccapo l’articolo, si scopre che aveva
preso le mosse proprio dall’arbitrio
finanziario, assunto però come “mercato”
e “fiducia” (sfiducia) degli altri paesi
nei confronti di un’Italia peccatrice.
Terracciano assume la finanza nazionale
e internazionale come termometro,
laddove sappiamo tutti che è il cancro.
“… la cara miracolosa democrazia
repubblicana conquistate [sic!] con lacrime e
sangue dall’Antifascismo e dalla Resistenza,
specialmente non comunisti [sic!]……”.
Palesemente la foga rabbiosa fa smarrire
all’autore il rispetto, oltre che della verità,
delle concordanze grammaticali. A parte
questo, ognuno ha il diritto giuridico
di essere anticomunista nella maniera
e nella misura che crede, ma affermare
che la democrazia e la repubblica furono
riconquistate in Italia grazie alla Resistenza
soprattutto non comunista è un falso
storico, una pura e semplice menzogna!
E, tra l’altro, vogliamo ricordarci, se
non altro un pochino, l’oscuro lavorio
nell’ombra di certi “resistenti non
comunisti”, come ad esempio Pacciardi e
Sogno, golpisti in futuro, ma all’opera già
allora per una democrazia imbrigliata?
Ma vediamo il seguito della frase:
“… non comunisti (cioè non bacati,
contorti, capovolti, ridimensionati dal mito
totalitario stalinista)…”. Personalmente,
sono nato alla politica come socialista; mi
iscrissi al PSI nel 1963 all’età di 23 anni; vi
militai fino al 1976 quando, disgustato dalle
prime avvisaglie del craxismo, passai con
convinzione e passione al PCI, del quale
era allora segretario e guida Berlinguer.
Sottoscrizioni
Anna Canitano (Morlupo) 25,00
Bruno Bevilacqua (Mi): 15,00
Eolo Passalacqua (Vi) in memoria
del padre Luigi: 130,00
Maria Rosa Militano (Mi) in memoria del marito perseguitato politico Pasquale Melara: 60,00
Mirella Bertolino (To) in memoria
del padre Guglielmo: 170,00
Neviana Dusi (Cesenatico) in memoria del padre Luigi Dusi e della
madre Ada Pagan: 30,00
Pina Specchio Quagliotti (Ao):
10,00
Valentina Lucchi (Bo) in ricordo del
marito Medardo Anderlini: 100,00
Lettere
Non ho mai cambiato le mie idee e i miei
valori di fondo, salvo che su questioni
di analisi contingente, ad esempio sul
grado di snaturamento raggiunto prima
dal PSI (negli anni del centro-sinistra),
poi dal PCI (negli anni Ottanta). Non
posso perciò che essere d’accordo che
lo stalinismo sia stato una tragedia per il
comunismo internazionale e anche per il
comunismo italiano: nel suo sbandamento
totale dopo la Bolognina ha certo avuto
parte non secondaria il crollo del mito
sovietico, che nei cuori di troppi comunisti
si legava troppo inestricabilmente con
l’ideale comunista. Ma come negare che,
nonostante quest’ipoteca, e in parte anche
grazie ad essa, il PCI, dal ’45 all’84, fece
molte grandi cose? Vogliamo elencarle?
Sarebbe troppo lungo! Facciamo a capirci!
“… il sostanziale “colpo di stato” del
novembre-dicembre 1945 ordito dal
Vaticano, dai democristiani di De
Gasperi, dai comunisti di Togliatti, dai
socialisti proletari di Nenni, dai liberali
di Croce e di altri contro il governo del
rinnovamento radicale democratico
dell’azionista liberal-socialista Parri…”.
Si salvi chi può! Ma si salva solo Parri. La
carta costituzionale, un capolavoro politico
e giuridico riconosciuto come tale da
tutto il mondo, compresi storici e giuristi,
viene declassato a colpo di stato! Data
l’ammucchiata dei personaggi elencati non
sembra trattarsi solo della questione della
costituzionalizzazione del Concordato
con la Chiesa cattolica, ma anche di altro:
di che cosa? Terracciano avrebbe fatto
bene a spiegare. A questo punto viene il
dubbio che, nonostante le sue precedenti
professioni mercatiste e anticomuniste,
egli avrebbe vagheggiato, dopo la caduta
del fascismo, la rivoluzione socialista
immediata e una sorta di repubblica
sovietica (fatalmente, gli piaccia o no,
egemonizzata da Stalin). Questo avrebbero
dovuto fare nel ’45-’48 Togliatti, Nenni e i
loro “antagonisti-complici”? Saggiamente,
non vollero farlo. Ma, se anche avessero
voluto, non avrebbero potuto, dati i vincoli
internazionali oggettivi. La storia non
è così semplice, e non la si capisce con
la rabbia e il disprezzo generalizzato.
“Maggioranze eroiche politiche e
intellettuali con il “vero popolo lavoratore”
[la maggioranza silenziosa?] hanno
compiuto il miracolo della “ricostruzione’,
con l’aiuto degli Alleati e in particolare
degli Stati Uniti d’America…”.
Viva la DC! Viva Saragat! Viva la CIA!
Non ne verrà nulla di buono, se all’attuale
sfascio aggiungiamo lo smarrimento della
memoria, l’oblio di quanto fece la classe
lavoratrice che, con l’aiuto determinante
delle sue organizzazioni sindacali e
politiche, sognò un mondo migliore
e, mentre sognava, trasformò davvero
l’Italia e tante altre nazioni in paesi
civili, o anche soltanto meno incivili.
Giovanni Cerri (Roma)
Sull’ultimo numero della nostra rivista
ho letto l’articolo del signor Nicola
Terracciano. Sono rimasta esterrefatta
ed ho pensato ad un uomo molto
infelice e, soprattutto, inutile a se stesso
e pericoloso per la società nella quale
vive; dirò brevemente il perché, anche
se il nostro “amico” è di quel genere
di persone che non si convince.
Ho partecipato – come modesta
staffetta – alla lotta di Liberazione
nel bolognese in una Brigata gloriosa
– la “Bolero’. Io ero – e sono rimasta
– COMUNISTA anche se mi adeguo
alle ginnastiche politiche attuali. Nella
Brigata i comunisti erano la maggioranza
(ed anche i Caduti), ma anche altre
ideologie – o assenza di ideologie – erano
presenti ed attive: lo scopo era unitario,
cacciare i nazi-fascisti e conquistare
la LIBERTÁ e la DEMOCRAZIA.
Finita la guerra ci siamo dedicati
TUTTI (cioè tutto il popolo e non solo
una minoranza americaneggiante)
alla ricostruzione materiale e morale.
Partiti, Sindacati, Istituzioni tutti per un
unico scopo. E sono stati anni lunghi e
colmi di battaglie politiche e sindacali.
Occorrerebbero libri molto grossi per
descriverle anche per sommi capi.
Io ho fatto a lungo parte di queste battaglie,
all’interno delle Istituzioni. Oggi ho quasi
86 anni, ne ho lavorati 47 e vivo della
mia pensione in un appartamento che
non è mio. Non ho mai preso nulla che
non fosse frutto del mio lavoro, neppure
quando ho fatto parte di organi dirigenti.
Ma non soltanto io ho vissuto in modo
onesto e pulito: come me milioni di
italiani ed anche sindaci, politici,
sindacalisti, giudici, poliziotti ecc. ecc.
Certo la corruzione esiste, la mafia,
la ‘ndrangheta ecc. sono realtà
vere e pericolose. La corruzione ci
opprime, specie dopo la triste epopea
berlusconiana che tutto copriva (e copre).
La maggioranza degli italiani è convinta
che è necessario lottare “contro” e lo fa,
anche se spesso il prezzo è molto alto.
Pensa di mettere nel “mucchio” dei
corrotti anche i tanti giudici, poliziotti,
sindacalisti, intellettuali, politici abbattuti
vigliaccamente? E studenti, e popolo?
Inoltre, le sembrano “corrotti” milioni
di persone (lavoratori, donne, studenti,
pensionati, disoccupati ecc.) che lottano
nelle piazze? O sono la maggioranza del
Paese convinta ed unita dei propri diritti
e nel nome di chi tutto ha sacrificato?
Sono d’accordo soltanto su una citazione
della lettera del signor Terracciano:
la nobiltà della figura di Parri. Ma era
a capo di un partito molto piccolo
(anche se intellettualmente di livello
alto) e da solo non avrebbe potuto
fare molto. Ma Lui lavorava assieme
agli altri Partiti del CLN nati dalla
Resistenza e composti da persone
oneste e decise. Anche i Comunisti.
Per quanto riguarda il “colpo di
stato” del novembre-dicembre 1945,
provi ad indagare sui suoi amici
americani e sul Convegno di Yalta…
Lei, signor Terracciano, che cosa ha
fatto o fa per cambiare la situazione?
Dalla sua lettera emerge una persona
pericolosa per la società italiana:
rabbiosa, astinente e comodamente
inutile, per poter dire “l’avevo detto”…
Gabriella Zocca (Bologna)
l’antifascista
Mensile dell’ANPPIA
Associazione Nazionale Perseguitati
Politici Italiani Antifascisti
Direttore Responsabile:
Antonella Amendola
REDAZIONE:
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Sostenitore: da 20,00 euro
Ccp n. 36323004 intestato a “l’antifascista”
Chiuso in redazione il: 5 aprile 2012
finito di stampare il: 16 Aprile 2012
Registrazione al Tribunale di
Roma n. 3925 del 13.05.1954
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L`editoriale I luoghi della storia