Università degli studi La Sapienza di Roma - «Rinascimento italiano in prospettiva europea» - XX ciclo Université Paris 8 - Vincennes-Saint-Denis - Doctorat en études italiennes Commedia regolare e comici sregolati Farsa, novella e “mercato” dello spettacolo tra Francia e Italia alle soglie del Rinascimento Tesi per ottenere il grado di Thèse pour obtenir le grade de Dottore di ricerca dell’Università La Sapienza di Roma & Docteur de l’Université Paris 8 présentée par presentata da Valerio IACOBINI discussa pubblicamente il 14 novembre 2008 soutenue publiquement le 14 novembre 2008 discipline : letteratura, teatro, studi comparati discipline : littérature, théâtre, études comparées direttori di ricerca recherches dirigées par prof. Giulio Ferroni, Univ. La Sapienza & prof. Françoise Decroisette, Univ. Paris 8 commissione jury prof. Beatrice Alfonzetti (Univ. La Sapienza), prof. Anna Fontes Baratto (Univ. Paris III), prof. Françoise Decroisette, prof. Giulio Ferroni Commedia regolare e comici sregolati. Farsa, novella e “mercato” dello spettacolo tra Francia e Italia alle soglie del Rinascimento. Il problema principale nello studio dei primi contatti fra drammaturgia italiana e francese alle soglie del Rinascimento è la carenza di fonti. Attraverso una ricostruzione che si avvale di diversi strumenti critici come la bibliografia testuale, la storia della stampa e la linguistica, il presente studio intende superare questa penuria di testimonianze sulla performance della fine del medioevo, ripercorrendo la rete di relazioni culturali sui due lati delle Alpi fra 1464 e 1548, nelle province del nord francese ed a Lione. Le teorie sulla modularità di farse e sottie, (generi dominanti nella Francia del XV e XVI secolo) consentono di stabilire un parallelo di carattere strutturale fra teatro francese e novella italiana; parallelo che a sua volta trova riscontro nella circolazione delle trame e dei plot drammatici. Si sono ricercate le tracce precoci se non dei comici, almeno delle maestranze dello spettacolo italiano, in primo luogo analizzando la permeabilità culturale italo-francese durante le guerre d’Italia ed il teatro come strumento di propaganda; secondariamente prendendo in analisi i dati principali sul flusso migratorio; ed infine, effettuando un confronto fra una curiosa incisione contenuta in un libro d’ore ed alcuni repertori gestuali di epoca successiva. E non si sono tralasciati casi singolari come quello di Giovan Giorgio Alione e Pierre Gringore. Elementi forse noti ma mai raggruppati in un discorso critico unitario e che rivelano una comunanza di interessi fra lettere profane italiane e francesi, tale da costituire un humus in grado di far fruttificare in Francia la cultura del tardo Rinascimento italiano, quella più matura sotto il profilo teatrale. Parole chiave: farsa, novella, sottie, teatro profano, Rinascimento. Comédie régulière et comédiens déréglés. Farce, nouvelle et « marché » du spectacle entre France et Italie à la Renaissance. Le problème principal pour l’étude des premiers contacts établis entre dramaturgies italienne et française au début de la Renaissance est la pénurie des sources. Grace à une reconstruction qui utilise plusieurs outils critiques (bibliographie matérielle, histoire de l’imprimerie, linguistique), cette étude voudrait surmonter les lacunes documentaires sur la performance à la fin du Moyen Âge, en reconstituant le réseau de relations culturelles entre les deux côtés des Alpes pour la période 1464-1548 dans le provinces du Nord de la France et à Lyon. Les théories sur la modularité de la farce et de la sottie, (genres dominants en France aux XVe et XVIe siècles) nous permettent d’établir un parallèle structural entre théâtre français et nouvelle italienne ; vérifié également dans la circulation des schémas dramatiques. Nous avons cherché sinon les traces précoces des comédiens, au moins celles des ouvriers du spectacle italien, premièrement en analysant la perméabilité culturelle italo-française pendant les guerres d’Italie (où le théâtre devient un moyen de propagande politique) ; deuxièmement en considérant les données sur la migration des Italiens en France ; finalement en comparant une étrange gravure contenue dans un livre d’heures avec trois répertoires gestuels. Dans ce contexte les cas singuliers d’auteurs comme Pierre Gringore et Giovan Giorgio Alione ne manquent pas. Il s’agit de données en partie déjà connues, mais jamais regroupées dans un discours critique unitaire, qui révèle une concordance d’intérêts entre lettres profanes italiennes et françaises, apte à construire un milieu capable de faire fructifier plus tard en France la Renaissance théâtrale italienne. Mots clés : farce, nouvelle, sottie, théâtre profane, Renaissance. Regular Comedy & Disorderly Comedians. Farce, novel, and performing arts’ “market” between Italy and France during the early Renaissance. The essential problem in studying contacts between Italian and French dramaturgy during the early Renaissance is the shortage of sources. By a reconstruction that uses several critical tools such as textual bibliography, history of press and linguistic studies, our thesis wants to transcend this scarcity. In this aim we thought back the net of cultural relationships on the two sides of the Alps between 1464 and 1548, particularly in Lyon and Paris. Theories about farcical modularity (farce and “sotties” are the most important “dramas” in France at our given time) identify a structural analogy in French theater and Italian novels; an analogy that can be also verified in plots’ repetitiveness. We looked for traces of all kinds, sometimes not directly linked to the theater, like the presence in the court of Italian arts workers or the general cultural permeability between Italy and France during the Italian Wars, where the theater became an important propaganda device. Then, we analyzed migration data and finally we compared a strange woodcut in a devotional book with three gestural repertoires. In this context we didn’t forget singular cases such as Pierre Gringore and Giovan Giorgio Alione. Maybe all these elements are known singularly, but they have never been dealt with together, and we think that in a coherent frame all these phenomenons reveal a common background that permitted the late settling of Italian theatrical Renaissance culture in France. Keywords: Farce, Novel, Sottie, Secular Theater, Renaissance. 2 all’imprevisto che ha guidato questa mia avventura 3 Indice 0. Introduzione 0.1 - Fonti documentarie e problemi. 0.2 - Limiti cronologici: sviluppo della farsa ed egemonia del modello comico italiano. 0.3 - Influenze tematiche e storiche in seno a novella e farsa. 0.4 – Italia ferum victorem cepit. 0.5 – Della utilità pratica di questo studio. Avanguardie drammatiche e performative fra medioevo e Rinascimento 1.1 – Il problema dei generi e delle classificazioni. 1.1.1 – Il dibattito critico. 1.1.2 – Dati storici, repertori e reciprocità. 1.2 – Il problema della performance. 1.2.1 – Spettacoli come varietà drammatici. 1.2.2 – Funzioni “epiche” e moventi pratici. 1.2.3 – Modi della rappresentazione. 1.3 – Modernità estetica di farsa e sottie. 1.3.1 – Il teatro come espressione dello stereotipo. 1.3.2 – Drammaturgia in pezzi. 1.3.3 – Farsare, farcire, falsare o il teatro delle azioni. 1.3.4 – Intrecci brevi e complessi. 1.4 -Trepperel e la madre degli stolti. Due progetti editoriali. 1.4.1 – Le Jeu du Prince des Sotz fra disimpegno e politica. 1.4.2 – La stampa teatrale. 1.5 – Difficoltà di metodo. Inquinamenti, furti, prestiti, plagiat. 1.5.1 – Jeu de ruse demoniaco: la passione di Gréban. 1.5.2 – Un quadro generale della circolazione novellistica. 1.5.3 – Moduli ricombinanti. 7 10 15 18 21 24 24 35 44 44 49 60 70 70 77 87 99 104 104 112 124 124 130 140 4 Luoghi letterari, repertori e risorse novellistiche 2.1 – Forbici, mantelli, jeux de ruses. 2.1.1 – Esopet dà di matto. 2.1.2 – Divinità e tabarri. 2.1.3 – Chi sa il trucco non lo insegni. 2.1.4 -“Signali” rubati e un testamento eclettico. 2.2 – Gioie (e noie) del matrimonio. 2.2.1 – Pax familiae. 2.2.2 – Misoginia, appagamento erotico, mal marié(e). 2.2.3 – Professioni erotiche e mariti ciechi. 2.2.4 – Ostinazione ed educazione violenta delle mogli. 2.2.5 – L’autorità come oggetto scenico. 2.2.6 – Galanti, astuzie e parti prematuri. 2.2.7 – Altri tradimenti, nascondigli, travestimenti. 2.2.8 – Punizioni degli amanti. 2.3 – Millanterie guerriere e borghesi. 2.3.1 – Miles gloriosus e compagni civili. 2.3.2 – La corruzione dei preti. 2.3.3 – Niais, badin, stupidi, ignoranti. 2.3.4 – Falsi morti, aldilà, aldiquà, rêverie. 2.3.5 – Valletti, cerretani e chiacchieroni. La fortuna dei vinti 3.1 – Circolazione di uomini, idee, pratiche. 152 152 159 163 168 179 179 186 193 201 206 217 229 238 245 245 252 258 268 272 284 3.1.1 – Due feste fra medioevo francese e rinascenza italiana. 3.1.2 – Invasione o festa viaggiante? 3.1.3 – Fra scenografia artificiale e naturale. Altre feste. 3.1.4 – Centro, periferia, Lione. 3.1.5 – Un’immigrazione di lusso. 3.1.6 – Lo spazio fra libri e memoria. 3.1.7 – Le commedie in libri. 284 291 300 311 321 328 332 3.2 – La strana vicenda delle tracce perdute dei comici italiani 345 3.2.1 – Concorrenza sleale: farsa o passione? 3.2.2 – Ipotesi bibliografica per una vicenda di censura. 3.2.3 – Confronto con i repertori gestuali. 3.2.4 – Propaganda politica e giochi da sot. 3.3 – Esterofilia per scelta: lo strano caso di Giovan Giorgio Alione. 3.3.1 – Un passato critico tormentato. 3.3.2 – Le stampe. 3.3.3 – Di alcune farse nell’Opera piacevole. 3.3.4 – Carattere dell’Opera piacevole. 3.3.5 – Qualche considerazione sui versi par signification. Un tentativo di conclusione 345 360 371 382 398 398 404 409 427 434 442 5 Annessi Tavole chirogrammatiche di Bulwer Frottolette in factum Graziano da Lucca Bettuzzo da Cottignola Simeone Litta da Milano Tavola dei riscontri cronologici e tematici per le farse di Alione Stampe di Francesco da Silva Bibliografia Repertori drammatici, favolistici e narrativi. Repertori gestuali. Bibliografici, storici, eruditi, specialistici. Libro antico. Edizioni critiche, saggi, studi. Web. Indici Indice delle tavole illustrate. Indice dei nomi e delle opere. 447 448 451 451 454 457 462 466 470 471 471 473 474 485 488 489 6 0. Introduzione 0.1 - Fonti documentarie e problemi. In epoca positivista e fino ai primi anni del ventesimo secolo, la critica letteraria ha fantasticato sulle antiche origini dei rapporti reciproci fra drammaturgia italiana e francese, cozzando da subito contro un ostacolo insormontabile: la mancanza di un numero adeguato di fonti documentarie per il periodo di poco precedente alla prima grande stagione teatrale italiana in Francia. Tradotto in date ciò significa che ad onta di una rimarchevole abbondanza di fonti per il periodo che va dagli anni ’30 e ‘40 del 1500 fino alla più matura fase di scambi ed imitazioni d’epoca manierista e barocca, per gli anni compresi fra la fine del XV e gli albori del XVI secolo è problematico uscire dal seminato delle poche fonti note ed accoglierne di nuove. Si potrebbe obiettare che come nelle scienze esatte, anche in quelle letterarie sforzarsi ad osservare un oggetto inesistente possa ingannare lo sguardo al punto di descrivere e dimostrare l’esistenza di fenomeni illusori, o peggio, avvalorare artefatti concettuali per giustificare contesti o ipotesi non meno artificiali. Qui più che altrove bisognerà chiedersi in prima istanza per quale ragione si ricercano rapporti e coincidenze fra due ambiti letterari “nazionali” che d’acchito sembrano negare ostinatamente, ancora alle soglie del Rinascimento, comunanze esatte di mezzi e scopi drammaturgici. La risposta a tale 7 domanda coinvolge da un lato lo stato delle fonti documentarie e dall’altro lato più generali prospettive storiche e critiche di qualità, insomma, “sistemica”. Secondo una logica conforme alla storiografia teatrale tradizionale, quando si vogliano verificare influenze e contatti fra due contesti performativi, le fonti verranno reperite sul territorio d’accoglienza delle recite, le testimonianze dello spettacolo essendo di carattere ibrido, solo raramente letterario, più sovente materiale o giuridico e pertanto legate al territorio in cui si è svolta la messa in scena. La presenza di determinate pratiche teatrali – di per sé effimere poiché sempre declinate al presente dell’azione e sempre difficili da trasmettere ai posteri – può infatti trovare utili conferme nelle cronache locali, negli atti ufficiali o nelle ricevute di pagamento delle varie professionalità che concorrono alla realizzazione dello spettacolo. Da questo punto di vista però, si è consumata nel passato una grande tragedia per l’oggetto dei nostri studi, vale a dire la dispersione in un rovinoso incendio occorso al Palace de Justice nella notte fra il 5 ed il 6 marzo del 1618 di una grossa parte dei documenti in cui v’erano certamente informazioni essenziali per descrivere con maggiore esattezza la parabola storica di quelle “compagnie di bontempi” che a vario titolo gestivano lo spettacolo nella capitale francese e che in alcuni casi avevano il privilegio di potersi riunire alla «Table de marbre» del palazzo. Fra la fine del 1400 ed il primo 1500 è quindi pressoché impossibile una sicura verifica documentaria di eventuali maestranze italiane assoldate dalla municipalità o dal regnante per l’allestimento dei fasti cittadini o delle recite nobiliari. La dispersione dei documenti ha lasciato largo spazio alla fantasia, specie quando s’è scoperto che le fonti superstiti non restavano completamente mute sugli spettacoli e che esse (assieme ad antiche opere storiografiche che poterono beneficiare dell’integrità degli archivi, è il caso ad esempio di un trattato di Pierre de Miraulmont1) facevano filtrare notizie dell’intensa attività spettacolare nella capitale, riportando anche radi fenomeni di collaborazione con maestranze “sceniche” italiane. Non ci è dato supporre di più, ma il deficit documentario e le vaghe notizie sulla concreta realizzazione degli spettacoli e sui rapporti con non meglio precisati «compagnons» italiani hanno creato nella storiografia di questo ultimo scorcio di medioevo francese, una miscela esplosiva di falsificazioni, infiltratesi poi facilmente fin nelle storie del teatro più recenti, nella progressiva deformazione che sempre si verifica qualora si segua un principio d’approccio secondario alle fonti. 1 MIRAULMONT. 8 E tuttavia dobbiamo domandarci il perché di tanta ostinazione critica e perseveranza in negativo, dal momento che l’avventata curiosità non può giustificare di per sé tutto un sistema. E qui veniamo alle prospettive storiche e critiche, le quali, viziate da una visione evoluzionista, hanno avuto la cattiva coscienza di mettere sul medesimo piano eventi spesso lontani nel tempo e soprattutto di applicare le categorie dello spettacolo moderno (la troupe, la mercatura della scena, la Commedia dell’Arte, l’improvviso, etc…) a quello che, pur con certi elementi di novità, nella Francia del periodo era ancora un insieme variegato di linguaggi e tecniche medievali. E non hanno contribuito a chiarificare questo scorcio di storia teatrale neanche quelle scuole critiche che hanno cercato da entrambi i lati delle Alpi di rivendicare il primato di fenomeni spesso tutt’altro che nazionali e che anzi proprio dal contatto fra cultura italiana e francese avevano ricavato temi e forza espressiva. Ma certo, in quella scuola storica positivista c’era anche molto di buono. L’apertura degli studi in questo settore, innanzi tutto, che poggiava sulla stessa innegabile destrezza bibliofila che dette vita ai primi felici tentativi di collezione integrale dei testi del primo teatro comico francese. Ma soprattutto il lavoro di questi studiosi ci aiuta oggi a porre alcune domande cruciali, che vorrebbero essere il centro di questo studio e che è bene mettere qui subito in evidenza, in un elenco che sembrerà forse brutale, ma che ci aiuterà a dare una chiave di lettura ad episodi apparentemente lontani fra di loro e dal processo di formazione dello spettacolo moderno. Possiamo ammettere che le profonde relazioni fra spettacolo italiano e francese abbiano avuto inizio solo nella seconda metà del 1500 e nel segno d’una radicale discontinuità col passato, e cioè in quanto fenomeni di rottura con il Medioevo e di trapianto del pensiero moderno? Non contrasta questa “scoperta subitanea” della drammaturgia italiana con gli intensi rapporti di scambio culturale e letterario occorsi in altri ambiti fra le due aree geografico-culturali a ridosso del e durante il Rinascimento? In che modo un pubblico di gusto medievale poté accogliere istantaneamente il teatro italiano, se esso era così lontano dal suo “gusto naturale” e dalla sua formazione culturale? Possiamo ragionevolmente ammettere che nessuna manifestazione teatrale italiana ebbe luogo sul territorio francese in un contesto di formidabile scambio transalpino in cui si distinguono fenomeni sociali importanti come la presenza delle manifatture italiane a Lione o le guerre d’Italia? 9 Ed infine, come è possibile che un genere teatrale di largo successo come il teatro medievale profano, abbia ceduto il passo così repentinamente alla pur potente novità italiana? Le perplessità che talvolta governarono la fantasia d’un manipolo di bibliofili (soprattutto francesi) del primo Novecento restano insomma valide ancor oggi: crediamo che sia importante porsi a distanza di tempo le stesse domande irrisolte, anche se sulla base di quasi identiche fonti documentarie, se non altro perché oggi strumenti di analisi come il confronto iconografico e la bibliografia testuale (o “materiale”, come viene meglio definita in Francia) sono stati efficientemente perfezionati. Forse i nostri risultati sembreranno a tratti incerti o eclettici: per colmare le lacune documentarie si è fatto ricorso a materiali e problemi diversi; a molteplici teorie sulle farse e sulla sottie, ad esempio, o al confronto d’una stampa contenuta in un libro devozionale con alcuni repertori gestuali di epoca successiva; ed ancora si sono presi in considerazione i dati principali sul generale flusso migratorio italiano in Francia ed il contesto delle influenze fra la novella italiana e le forme del teatro profano francese. Elementi ben noti, almeno a chi si occupa degli studi di settore, ma che mai sono stati raggruppati in un discorso critico unitario: quasi che il problema performativo della farsa non riguardasse che la Francia o come se l’installazione del teatro italiano al di là delle Alpi avvenisse su un campo neutro; ed i prototipi letterari di largo successo popolare (le novelle, i fabliau) non avessero nulla a che fare con la nascita della nuova commedia. 0.2 - Limiti cronologici: sviluppo della farsa ed egemonia del modello comico italiano. La questione dell’egemonia del contesto teatrale italiano è fondamentale in quanto in essa si concentra il problema dei limiti cronologici ad quem che assegniamo al nostro studio. La storia del teatro registra tradizionalmente due eventi capitali per le relazioni teatrali fra l’Italia e la Francia, o meglio, per stabilire il concreto inizio degli influssi in terra francese da parte della nascente estetica della scena italiana. 10 Il primo, l’influenza della commedia di matrice umanistica ed erudita, che sarebbe iniziata a partire dal 1548 quando La Calandria venne rappresentata a Lione per l’entrata di Enrico II e Caterina de’ Medici con il contributo anche di un importante interprete italiano, Domenico Barlachia2. Il secondo è invece l’attività dei comici professionisti in terra francese, a partire dagli anni ’70 del 1500, con lo sbarco delle troupe comiche nostrane in Parigi ed il grande successo di Arlecchino sui palcoscenici transalpini. Ciò va preso a caso esemplare quando si sottometta l’idea di influenza particolarmente agli aspetti performativi del linguaggio scenico; ma se si ampliasse la visione al complesso degli elementi che fanno lo spettacolo (ed alle singolari elaborazioni teoriche d’ogni disciplina che vi contribuisce) gli eventi da rubricare sarebbero in realtà di più. Rispetto alla formazione dell’idea di architettonica di teatro, ad esempio, il capitale De Re Aedificatoria di Leon Battista Alberti risale ad un periodo assai precoce, il 1452: vide la luce a stampa nel 1485 e a Parigi uscì ancora in latino nel 1512; bisognerà però attendere il 1553 per la prima edizione in volgare francese, quella curata da Jean Martin ed uscita per le officine di Kerver, sempre nella capitale. Per cui, sebbene l’opera ebbe una indubbia influenza nel pensiero architettonico francese, solo durante la seconda metà del 1500 ebbe una reale applicazione nelle pratiche nella scena. Un altro intellettuale italiano, Giovanni Giocondo, lavorò intensamente in Francia aderendo al programma culturale di Carlo VIII: la sua opera, il Vitruvius per Iocundum solito castigatior factus cum figuris, fu stampata a Venezia nel 1511. Sebbene egli fosse pratico anche di argomento scenico, non ci restano tracce di una sua eventuale attività in questo settore durante la collaborazione col circolo del Cenacolo di Amboise: è d’altra parte certo che egli contribuì non meno di Alberti alla diffusione di Vitruvio, dal momento che sappiamo che tenne lezioni sul teorico latino allo stesso umanista Guillaume Budé. Più prossimo alle problematiche materiali della scena fu Il secondo libro di perspettiva di Sebastiano Serlio, che però ancora una volta non vide la luce in Parigi prima del 1545. È stata già ampiamente verificata da altri una contiguità fra le pratiche teatrali alte e popolari ed il valore della trattatistica nel contesto spettacolare rinascimentale3: il momento artistico si identifica in questo periodo quasi sempre con quello teorico. Già prima della nascita di una teoria “scientifica” del teatro nel XVII secolo, l’approccio teorico è un valore integrante della prassi scenica ed il trattatista è quasi sempre anche un artista: dunque sebbene il trattato abbia già in questo periodo finalità 2 3 BRANTOME, vol. III : pp. 256-258. E. PARATORE, 1974 e F. MAROTTI, 1974. 11 documentative e di studio, esso presenta caratteri fluidi, spaziando dalla raccolta di appunti “in opera” fino alla forma compiuta del “saggio”, contribuendo largamente alla formazione di idea di teatro dominante durante tutto lo spettacolo moderno. Anche nel campo della trattatistica teatrale possiamo facilmente verificare che i Discorsi del Giraldi Cinthio escono solo nel 1554 e che altri due scritti teorici fondamentali per il teatro moderno, i Dialoghi di Leone de’ Sommi e la Poesia rappresentativa di Angelo Ingegneri risalgono soltanto alla fine del secolo decimosesto. E pensiamo pure alla biografia di personaggi ad “alto coefficiente teatrale”, come Sebastiano Serlio, per il quale il periodo di residenza oltralpe coincide ancora una volta col quarto decennio del 1500: ricevette l’invito di Francesco I a recarsi in Francia per partecipare alla costruzione di Fontainebleau e alla fine del 1541 si stabilì con la famiglia nella capitale per poi approdare a Lione nel 1547 al seguito del Cardinale Ippolito D’Este, ove per sei anni disegnò diversi progetti mai realizzati, ma soprattutto si occupò nel 1552 degli apparati per l’entrata lionese del Cardinale di Tournon e realizzò i suoi fondamentali Sette libri sull’architettura. Tutti questi dati insieme cospirano insomma a confermare la data simbolica del 1548 quale limite cronologico estremo per la nostra trattazione. La formazione dell’idea di spettacolo nell’Umanesimo si svolge nell’ampio quadro di restituzione dell’antichità come ideale di vita e cultura; tale movimento intellettuale subisce però un ritardo d’esportazione nelle arti spettacolari: il teatro italiano moderno funzionerà come vettore culturale internazionale del classico, ma in Francia avrà effetti reali solo più tardi, rispetto ad altre “più serie” occupazioni umanistiche, come la filologia, la filosofia, la storia antica. Prima di questo fenomeno di trapianto (che corrisponde storicamente al Rinascimento francese ed agli inizi anche di una autonoma egemonia culturale transalpina) esistono tuttavia una serie di elementi di contatto e scambio fra la cultura della narrazione italiana e quella spettacolare francese, elementi che a nostro modo di vedere consentirono il successo oltralpe della scena italiana e che sono i fenomeni oggetto del nostro studio. Se si guarda all’evoluzione letteraria del teatro rinascimentale ci si accorge che lo sviluppo d’una supremazia italiana fu anch’esso ancorato alla seconda metà del 1500, seppure il vero laboratorio della drammaturgia fosse stato quello umanistico, che più precocemente fugò le incertezze sui generi teatrali e si caricò dell’onere di fissarli in forme precise. 12 Già nel 1426 Leon Battista Alberti scrisse il Philodoxus; appena dopo comparse la Poliscena di Leonardo della Serrata e cioè nel 1433, quando si verificava anche uno dei rari casi di performance accademica documentata in periodo umanistico: Tito Livio de’ Frulovisi, allievo di Guarino Guarini, che fra il ’33 ed il ’35 fece recitare ai suoi discepoli le commedie Corollaria, Claudi Duo, Emporia, Symmachus, Oratoria.4 Mezzo secolo dopo, negli anni ’90, assistiamo alla comparsa della Chrysis di Enea Silvio Piccolomini e dell’anonima Aetheria, stilate nello stesso periodo in cui Poliziano teneva le lezioni sull’Andria di Terenzio5. È un periodo esaltante, in cui la cultura umanistica, in particolare ferrarese, sembrerebbe aver raggiunto un equilibrio perfetto nella realizzazione del retroterra classicheggiante in operazioni spettacolari di alto prestigio: i volgarizzamenti di Terenzio e Plauto rimaneggiati ed adattati al pubblico mostrano tutta la vitalità dell’antico attuando quel progetto di continuità col passato cui tutto l’umanesimo anelava. Sulla scena la cultura classica si rendeva finalmente disponibile a confrontarsi col presente: per comprendere lo scarto fra il contesto dello spettacolo italiano e quello francese basti pensare che già nel 1486 i Menechini vennero messi in scena in onore di Eleonora D’Aragona, andata in sposa ad Ercole D’Este. Si tratta della prima recita moderna con un “pubblico di massa” e diversi altri eventi meravigliosi d’analoga portata si succedettero nella corte di Ferrara fino al 1493; mentre alle medesime coordinate cronologiche in Francia l’interesse per la farsa da parte dell’editoria ci fa soltanto presagire il successo di un genere che se da una parte già possiede la coscienza della mercatura dello spettacolo e certi rudimenti linguistici che vedremo, d’altra parte non manifesta ancora caratteri estetici regolari e grandi sforzi normativi. In Italia a questo punto è già tempo per la stesura di Cassaria e Suppositi, cui segue l’innesto delle tematiche novellistiche e boccaccesche nei nuovi testi drammatici: apice di questo filone toscaneggiante e poi romano è naturalmente Calandra, di Bernardo Dovizi da Bibbiena, splendido prototipo della nuova commedia, perfettamente teso in una letterarietà tutta teatrale, in cui alla parola classica corrisponde sempre l’efficacia del gesto e dell’allusione attoriale. La risonanza europea della nuova commedia italiana nella seconda metà del XV secolo è tale che oltre alla già citata recita francese del 1548 se ne registrano anche imitazioni in altre lingue romane: l’Egloga de Placida y Vitoriano del 1512 di Juan Del Elcina e la Propalladia del 1517 di Bartolomè de Torres Naharro. E risalgono agli anni ’40 del 1500 anche le traduzioni francesi dei Suppositi: una in versi del 1545 4 5 R. SABBADINI, 1934; A. STAÜBLE, 1936; L. MARZARI, 1977. F. DOGLIO, 1971; V. PANDOLFI e E. ARTESE, 1965; L. BRADNER, 1957. 13 firmata da Jacques Bourgeois (Les Amours d’Érostrate & Polymneste), un’altra del 1552 nella prosa di Jean Pierre de Mesmes (La Comédie des Supposez, impressa a Parigi); mentre Jean de la Taille traduce il Negromante nel 1573. Lorenzino de’ Medici scrive Aridosia, nel 1536: verrà rifatta in francese da Pierre de Larivey, con il titolo de Les Esprits (uscita in raccolta nel 1579); o ancora registriamo il caso di Alessandro Piccolomini, autore de L’amor costante, rappresentato per il seguito di Carlo V nel 1536 e poi de L’Alessandro, del 1544, messo in scena a Siena ed in Francia solo più tardi6 e concludiamo con Gli Ingannati, di incerta attribuzione, che dopo un grande successo nella Penisola valica le Alpi nel 1543, per la traduzione di Charles Estienne intitolata les Abusez. Si sono contate ben ventuno traduzioni di commedie italiane circolanti in Francia fra il 1543 e 16117: la commedia letteraria italiana inizia insomma la sua “presa d’Europa” attorno agli anni ’30 del 1500, sebbene le sue origini affondino nel più antico rinnovamento culturale umanistico. Le edizioni esportate sono soprattutto quelle dei torchi veneziani: la città lagunare, se non ha ancora un primato nello spettacolo, è certamente uno dei centri più avanzati in Italia in fatto di stampa e commercializzazione dei testi, ambito in cui si esprimeva a pieno la voga plautina e terenziana: solo le officine di Pencio da Lecco e Zoppino pubblicano diversi volgarizzamenti in meno di un decennio (i Menechini e l’Asinara nel 1528, il Penolo nel 1520). In questo secondo scorcio del XVI secolo sono talvolta anche gli italiani all’estero che contribuiscono alla diffusione della commedia italiana: oltre all’acerba attività dei comici professionisti esistono casi di residenza (più o meno forzata) all’estero come accade a Luigi Alamanni, che, esule in Francia, si dedica alla scrittura per le scene, facendo rappresentare a Fontainebleau nel 1555 una Flora poi pubblicata in Firenze nel 15568. Chiudiamo questa rapida rassegna con l’Angelica di Fabrizio de Fornaris, stampata a Parigi nel 1585, quando ormai il panorama della commedia regolare ed umanistica italiana sfumava definitivamente nell’esaltante stagione della Commedia dell’Arte: nuova arte e pratica dei catafalchi che inventerà la “mercatura” del palcoscenico e lo spettacolo compiutamente moderno e che in terra francese si installerà su tutto un contesto di generi profani, che scopriremo non dissimili, almeno nei principi, dall’estetica del nuovo teatro professionistico. 6 M. ROSSI, 1910-11. Per questa notizia e la seguente, si rimanda a M. LAZARD, 1980. 8 H. HAUVETTE, 1903. 7 14 La questione di stabilire invece un terminus a quo è più vaga, in quanto il contesto teatrale francese profano occupa un periodo di circa cento anni compreso più o meno fra il 1450 ed il 1550, ma ha in verità incerto cominciamento. La più antica farsa a noi conosciuta è infatti quella detta del Garçon et de l’aveugle, che rimonta alla seconda metà del XIII secolo; dopo di che, un lungo periodo di silenzio ci separa dal Pathelin, che oltre ad essere l’esemplare senza dubbio più solido e moderno del genere è anche quello che ne inaugura il successo. La prima stampa di questa farsa risale infatti al 1464, e l’opera fu probabilmente concepita fra gli anni ’50 e ’60 del secolo: è solo l’inizio di una felicissima stagione di edizioni profane che caratterizzarono il mercato spettacolare di Parigi e di Lione. Inutile specificare che l’apparizione di una farsa nel XIII secolo e poi la comparsa di un vero capolavoro dopo ben due secoli di silenzio è un fatto quanto mai singolare da cui si può desumere che nelle province francesi forme analoghe di narrazione fossero ampiamente praticate, almeno in forma orale, ma che esse furono consegnate all’eternità della scrittura (e poi della stampa) solo quando approdarono dalla provincia al vero e proprio mercato culturale della capitale. Per noi comunque resta prioritaria la data di impressione di Pathelin, soprattutto perché tale evento lega la storia del teatro francese a quella della imprimerie, elemento fondamentale nell’ottica di una analisi in chiave materiale dei testi profani. Abbiamo allora chiarito i limiti generali del nostro studio: esso muove su un periodo compreso fra il 1464 ed il 1548 e trae la maggior parte delle informazioni da archivi e fondi francesi, secondo un classico metodo storiografico teatrale, cui si aggiungono però l’analisi iconografica, bibliografica, testuale. Rispetto all’area geografica, per via dell’abbondanza di fonti e dell’intensa attività editoriale ci occuperemo soprattutto di Parigi, con poche eccezioni rappresentate dalle province caratterizzate da particolari attitudini teatrali (Normandia, Piccardìa) o da felici rapporti con l’italico lato delle Alpi (Lione). 0.3 - Influenze tematiche e storiche in seno a novella e farsa. Inizieremo il nostro studio cercando di introdurre la farsa francese, genere pressoché misconosciuto in Italia ma dal quale non si può prescindere se si voglia perseguire una seria prospettiva comparatista, che esige la conoscenza di entrambi i contesti letterari e dei problemi ad essi connessi. 15 Nel primo capitolo parleremo pertanto del dibattito critico sul genere della farsa e su quelle che abbiamo voluto definire “forme liminari”, sperando così di sottolineare gli esili pregiudizi critici che hanno innalzato declinazioni farsesche come la sottie al rango di veri e propri generi. Sottocategorie come i pois pillés, la parade, o la farce de collège sono per noi del tutto artificiali ed è importante segnalare fin dall’introduzione la basilare continuità di tutte le manifestazioni spettacolari profane francesi di questo periodo, che si differenziano fra di loro semmai da un punto di vista dialettale e lessicale, ma che serbano astuzie estetiche sostanzialmente identiche. A tal fine ci addentreremo nel denso dibattito critico che con fortune alterne ha segnato la lettura del teatro francese medievale e nello stesso contesto forniremo utili informazioni di carattere storico che possano aiutare il lettore ad orientarsi nella selva di temi comuni che verrà presentata nel secondo capitolo intitolato alle “risorse novellistiche”. Se l’analisi formale delle pièce comiche dell’ultimo scorcio di medioevo francese ci guiderà nella valutazione più oggettiva possibile delle singole posizioni critiche e teoriche, nel capitolo dedicato ai luoghi letterari effettueremo dunque un tentativo di schematizzazione dei temi narrativi scoprendo che se una relazione diretta fra letteratura teatrale profana italiana e francese è pressoché inintelligibile, esiste d’altra parte un complesso rapporto di reciprocità “in chiaro” fra la novella italiana e lo spettacolo profano transalpino. Le affinità fra due generi discreti come la novella italiana e la farsa francese (rispettivamente prosa contro versi, trama scarna contro trama complessa, ambiguità psicologica contro “istinto biomeccanico”, etc…) si riveleranno così per la loro effettiva natura narrativa e strutturale e ci aiuteranno a descrivere una curiosa parabola storica in cui la circolazione di temi e di espedienti linguistico-narrativi è come un pendolo oscillante fra i due lati delle Alpi. Sappiamo che prima del nostro arco cronologico d’indagine la novella italiana si nutrì di molti dei temi propri al fabliau francese: se il fabliau influenzò direttamente anche lo sviluppo della scena francese, alcune farse mostrano chiaramente come talvolta gli schemi narrativi siano stati filtrati dai novellieri italiani prima di re-inverarsi sul catafalco. Assunto che il fabliau ispirò la novella italiana cercheremo di mettere in evidenza come quest’ultima ispirò a sua volta la farsa francese, seguendo per questo il solco degli studi di Piero Toldo9. La vivacità improvvisa con cui la commedia italiana fa il suo ingresso in Francia negli anni ’30 del Cinquecento ha spinto molti studiosi sul difficile terreno di una retrodatazione del fenomeno, nella 9 In particolare due: P. TOLDO, 1895 e 1902. 16 convinzione che già prima dell’ingresso conclamato dei comici italiani nelle attività per la corte, esistesse una precoce attività italiana: la nostra posizione non intende stabilire retrodatazioni ma vuole porre l’accento sulla comunanza di interessi che si manifesta in questo periodo fra le due letterature profane, ipotizzando che una delle chiavi del successo degli italiani in Francia sia questo humus, o milieu, in grado di accogliere e far fruttificare la cultura del tardo Rinascimento italiano, quella cioè più matura sotto il profilo teatrale. Influenze reciproche che non coinvolgono banalmente solo le trame e le storie, ma che si impongono pure sul piano delle forme e dell’organizzazione testuale: recenti studi dedicati alla farsa hanno ampiamente dimostrato la possibilità che le sottie fossero dei contenitori narrativi atti a giustificare in modo “metascenico” la successione delle farse in un varietà drammatico10. Erano esse parodie della rappresentazione in cui si vedevano i sot ed i loro eclettici compari discutere delle pièce più in voga e decidere quali rappresentare, prima di saltare nelle “maschere” di Jehan, Mahuet o Pathelin per eseguire concretamente quanto annunciato poco prima in forma di sketch. Questa organizzazione dello spettacolo consentiva con ogni probabilità di combinare il repertorio delle farse in modo da ottenere “varietà scenici” sempre nuovi, e soprattutto favoriva uno sviluppo modulare delle varie pièce, per lo più brevi e dalle fattezze eclettiche, spesso dotate di un senso narrativo solo se accorpate ad altre analoghe azioni. Su questa struttura per contestualizzazioni (che si avvale di strumenti linguistici assai moderni, i quali talvolta sembrano tolti al teatro dell’assurdo contemporaneo) si possono fare due considerazioni importanti: la prima, che essa somiglia moltissimo alla poetica dei lazzi della Commedia dell’Arte, in cui la costruzione del movimento narrativo complesso (lo spettacolo nell’insieme) è l’accumulo di pezzi precotti sulla base di un itinerario stabilito (il canovaccio); la presenza d’un repertorio – che fra l’altro è avvalorata anche dalle pratiche di stampa – è un fatto singolare e significativo, poiché essa informa il gusto del pubblico francese ad una specifica estetica e lo adatta in anticipo a cogliere le future pratiche del repertorio italiano. Non solo. La struttura modulare e la presentazione di micro-narrazioni in un insieme di più ampio respiro è formula d’ampio successo proprio nella letteratura novellistica, che anche oltralpe trova in Boccaccio – pure se in un Boccaccio tutto particolare, fortemente denaturato dalle traduzioni e dai 10 In particolare quello di B. REY-FLAUD, 1984. Nel corso della nostra trattazione forniremo ulteriori e più puntuali dettagli critico bibliografici. 17 furti quando non mutilato e storpiato – non solo le trame, ma anche un sicuro modello di riferimento strutturale. L’insieme solidale di farsa-sottie sembra insomma strettamente legato all’estetica dei novellieri e per paradosso forme apparentemente discontinue fra di loro, presentano più relazioni di quante non ne abbiano direttamente il contesto drammaturgico italiano con quello francese. Siffatta teoria d’insieme della farsa francese in rapporto con la letteratura dei novellieri costituisce il centro della prima parte della nostra trattazione sullo spettacolo moderno e l’eredità medievale, nel cui contesto cercheremo anche di valutare la giusta importanza del gruppo farsa-sottie nel processo di formazione del teatro moderno. 0.4 – Italia ferum victorem cepit. La seconda parte della trattazione è dedicata alla “fortuna dei vinti”, al successo cioè di quell’Italia che, come recita il ritornello millenario, «ferum victorem cepit»; quell’Italia che, soggiogata dalle potenze europee, si trasformò in campo di battaglia, ma che mantenne ancora a lungo un primato fondamentale nelle arti e nello sviluppo del pensiero moderno. Fortuna dei vinti: mentre una Francia che ha da poco consolidato la sua unità definitiva e superato il nodo delle guerre di religione arma la letteratura (ed in particolare il teatro) per intraprendere la battaglia pubblicistica antipapale ed anti-italiana, alla Penisola non restano che il pensiero raffinato della rinascenza e le competenze delle sue celebri maestranze. Nel rimescolamento sociale e nel continuo andirivieni fra Italia e Francia dei protagonisti di questa stagione si celano forse clandestinamente anche i primi comici professionisti italiani: non troppo diversi ancora dai cerretani e dagli imbonitori da fiera, diversissimi quasi certamente dai quei comici che solo più tardi correranno in lungo ed in largo per le strade di Francia, ma forse già abbastanza interessanti per battere Pierre Gringore nella competizione sul catafalco. Siamo arrivati al capitolo dedicato a questo precoce autore teatrale francese, del quale si intende ripercorrere le accidentate informazioni biografiche a nostra disposizione, ma soprattutto il solco di una dimenticata teoria di Emile Picot, da noi completata usando un metodo iconografico già sperimentato da Alba Ceccarelli Pellegrino.11 11 A. CECCARELLI PELLEGRINO, 1998. 18 Si tratterà di confrontare un’incisione misteriosa che compare in una rarissima emissione delle Heures de nostre dame risalente al 1525, con tre celebri repertori gestuali, di Andrea De Jorio (MIMICA), di Giovanni Bonifaccio (ARTE DE’ CENNI), di John Bulwer (CHIROLOGIA), per cercare di vedere in che misura possa essere fondata l’ipotesi che Gringore abbia improvvisamente abbandonato lo spettacolo parigino a causa dell’irresistibile successo di ignoti comici italiani. Si obietterà che, essendo d’epoca successiva, tali repertori saranno inadeguati alla nostra analisi: rispondiamo che la tradizione gestuale è di lunghissima durata in Europa, e che le tre opere hanno il merito di ereditare una tradizione che affonda solide radici nella retorica antica, la medesima che riscuote successo nella civiltà classicheggiante del Rinascimento. In questo settore, imbattendoci e segnalando anche un errore del catalogo “opale-plus” della Biblioteca Nazionale, speriamo di avere fornito qualche lume in più sulle affascinanti posizioni di Emile Picot. Utile sezione di questo secondo capitolo saranno alcune considerazioni sulla letteratura teatrale di propaganda francese, che conobbe grande prolificità durante il periodo di “tradimento” di papa Giulio II e in conseguenza del più generico sviluppo delle pressioni militari della Francia sul bel paese: antagonismo fertile per la nostra analisi anche e soprattutto perché nel suo contesto si sviluppa il caso del tutto singolare di Giovan Giorgio Alione, autore italiano che impegnandosi sul medesimo fronte di Pierre Gringore e praticando anche ampiamente la lingua e la letteratura volgari francesi rispecchia tutta l’ambiguità territoriale e politica dell’Italia nordoccidentale del periodo. Notabile astigiano, Alione scrive farse per il “mercato” italiano e francese: siamo su un terreno non accademico, popolare nel senso che Michail Michailovič Bachtin dona a questa parola. Egli non si spinge oltre un gusto solo endemico per il maccheronico, banalizzando tale genere eminentemente intellettuale: ma anche a dispetto d’una scarsa conoscenza del latino e d’una approssimativa cultura letteraria12 le sue farse sono vivacissime nel linguaggio e polemiche nei contenuti, che sull’esempio della letteratura farsesca sono di chiara derivazione novellistica. Altro aspetto che lo rende interessante ai nostri occhi è la singolarità della sua esperienza drammatica, in un contesto piemontese fatto soprattutto di misteri e sacre rappresentazioni. Una curiosità letteraria, certamente, ed un caso più unico che raro, incapace di per sé di dimostrare una significativa influenza “al contrario” rispetto all’italo-centrismo di certa critica risorgimentale ed 12 Questi dettagli d’uso del maccheronico in Alione sono studiati con precisione dall’edizione critica della Macarronea resa da M. CHIESA, 1982. Per lo studio della produzione farsesca di Giovan Giorgio Alione ci siamo serviti dell’edizione di Enzo BOTTASSO (1953). 19 anzi, secondo Enzo Bottasso – ultimo ad essersi dedicato all’insolita fama dell’autore astigiano – originale modello a sua volta per alcune farse francesi. Il caso di Alione resta tuttavia indicativo almeno di come i rapporti italo-francesi del periodo siano ben più complessi di quanto non si creda ed in questo senso verrà usato nella nostra trattazione, cercando al contempo di chiarire gli elementi di novità che egli introduce al genere teatrale profano francese. L’ultimo capitolo del percorso che qui inizia sarà incentrato sui dati fattuali della presenza italiana oltre le Alpi: si riprenderanno a tal fine alcuni recenti studi sui flussi demografici e professionali degli italiani in Francia, dedicati in special modo alla parte del XVI secolo che ci interessa, e ci si concentrerà anche sulle relazioni editoriali, (di cui del resto si rende conto un po’ durante tutta la trattazione, essendo l’analisi del libro e dell’editoria uno degli strumenti più potenti a nostra disposizione per avvalorare congetture ed ipotesi, orfane, altrimenti, di dati probanti). A tal fine trascriviamo anche lo spoglio dei fondamentali cataloghi Rothschild e Renouard,13 effettuato con il fine di identificare le opere in cui si registri l’apporto di uno o più italiani. Da questo spoglio abbiamo ricavato soprattutto un dato: che a dispetto della grande abbondanza di intellettuali italiani nelle opere di storia, filologia, diritto, non registriamo in Francia prima della seconda metà del XVI secolo la stampa di commedie umanistiche originali o di versioni di pièce latine che pure nella Penisola avevano già conosciuto una messa in scena. L’enigma non è complicato da risolvere: l’importazione delle opere in Francia si deve soprattutto all’attività degli stampatori di lusso, unici ad avere accesso ad una rete internazionale di conoscenze; il fine di costoro fu primariamente quello di colmare il gap culturale che esisteva fra l’avanzato umanesimo italiano ed il contesto francese: privilegiarono così in un primo periodo soltanto quelle opere che facevano parte della basilare dieta culturale dell’umanista (la priorità è data ovviamente alla voce dei classici), per poi darsi più avanti nel tempo (col crescere di valore che acquisiva la letteratura comica classicheggiante in volgare, originale o tradotta) anche alla stampa di prodotti più singolari. Circolazione di libri e circolazione di uomini ed idee, appunto, fra personalità più o meno celebri della intellighenzia italiana: dal fin troppo noto Leonardo da Vinci all’oscuro Betuzzo da Cottignola, per analizzare la qualità di un flusso migratorio diverso da tutti gli altri perché fortemente caratterizzato dal lusso, dal privilegio sociale e dalla specializzazione artistico-professionale. 13 Rep. RENOUARD ; cat. ROTHSCHILD. 20 In Francia gli italiani sono soprattutto manifatturieri e professionisti cui si dà accesso all’ambito stato di bourgeois, chiamati a volte per mettere in atto lo sviluppo economico di una regione, attenti alla tutela dei propri beni e pronti a chiedere esenzioni da importanti privilegi reali come il droit d’aubaine, che eleggeva il re di Francia ad erede universale del morituro straniero. Italiani sono gli artisti, le rappresentanze diplomatiche, i segretari di stato, una buona parte del clero; italiane le manifatture di ceramica e seta e fortemente italianizzati sono centri urbani nevralgici come Lione: il fenomeno dell’esportazione della cultura peninsulare e la polemica transalpina fra filo- ed anti-italiani che si dipanerà fino ad oggi, conoscono un primo impulso proprio in coincidenza col nostro periodo di interesse. Solo in chiusura accenneremo appena al problema dell’esportazione della trattatistica architettonica e cercheremo di delineare rapidamente gli influssi dell’architettura teatrale italiana specialmente a Parigi. 0.5 – Della utilità pratica di questo studio. Ma fermiamoci qui perché ci pare di avere già anticipato a sufficienza il percorso e gli intenti della nostra trattazione e crediamo di avere impostato con questa introduzione almeno la lente attraverso la quale chi legge dovrà guardare la vasta ed eterogenea quantità di informazioni che gli verranno proposte. Dobbiamo ammettere che (soprattutto per un lettore italiano) l’opera non sarà propriamente di “facile beva”, almeno non nella sua prima parte, e questo non già per una intrinseca difficoltà dell’argomento, ma perché, come si è accennato in apertura, nella maggior parte dei casi gli storici del teatro italiano sono digiuni di questa letteratura certo minore se messa a confronto con più autorevoli esempi drammaturgici, ma che come tutte le lettere minori può essere prioritaria nella comprensione di fenomeni di più ampio respiro. Chiudiamo ponendoci l’ultima e forse più cruciale domanda, almeno ai fini del buon successo di questa lettura, in quanto sempre è lecito chiedersi in cosa si troverà utile l’opera che ci si accinge a leggere. L’auspicio (ed è ancora un auspicio diretto allo studioso italiano) è che si possa qui trovare, oltre che un percorso generale sul teatro profano francese fra Quattro e Cinquecento, anche una ricca 21 bibliografia di base sull’argomento e utili dati storici sulla farsa per lo più introvabili nel lato peninsulare delle Alpi e negletti anche dalle storie del teatro più puntuali. Per lo studioso francese, invece, le novità di questa trattazione si spera risiederanno soprattutto nella sua impostazione critica “ibrida” e nella ricerca di una più chiara organizzazione storica di una materia ampiamente trattata in area francofona, ma quasi mai in prospettiva comparatista. E non meno utili saranno anche le parti che abbiamo dedicato all’approfondimento della figura di Alione e alla sintesi delle varie istanze critiche sulla farsa ed il suo linguaggio. Detto ciò ci auguriamo d’aver reso un approccio il più possibile originale alla materia e che i principi metodologici e le nostre posizioni storiche possano essere utili strumenti di ricerca anche per il conoscitore più avvertito. Ma di ciò solo chi legge potrà dire. 22 1 Avanguardie drammatiche e performative fra medioevo e Rinascimento Avvertenza Trascriviamo i titoli delle farse cercando di adottare il più possibile quelli stabiliti nei principali repertori moderni e cioè in ortografia “normalizzata” e formato sintetico. Tuttavia, quando ci sembrava utile, abbiamo fornito il titolo completo e complesso dell’originale o indicato eventuali varianti. In alcuni casi, abbiamo preferito mantenere elementi del titolo in francese medievale (chaudronnier che resta chaulderonnieur; couturier invariato come cousturier…) quando ci sembrava che così facendo si potessero restituire ad un orecchio italofono i giochi linguistici o il comico verbale. Abbiamo tentato di trovare un compromesso fra le abitudini scientifiche più diffuse e la maggiore funzionalità per la nostra trattazione. Del resto un criterio generale ed univoco di trascrizione delle farse non è stato mai stabilito: ad esempio per i plurali alcuni studiosi conservano la z in luogo della s, nei nomi allegorici è incerto l’uso della maiuscola e grande incostanza v’è pure nella trascrizione delle doppie consonanti. La stessa progressione numerica dei versi è assente nelle principali raccolte. Per i versi francesi adottiamo la maiuscola all'inizio d’ogni linea, così come è fatto dalla maggior parte degli studiosi, benché nelle cinquecentine e negli incunaboli originali non si rispetti alcun criterio certo. In generale, tranne che ove diversamente segnalato, per le citazioni dalle pièce teatrali abbiamo usato una o più trascrizioni moderne in cui l’ortografia è già in parte normalizzata. La fedeltà all’originale e la coerenza dei testi sotto il profilo morfo-linguistico dipende in special modo dalla data del repertorio in uso e dal suo più o meno spiccato scrupolo filologico. Ove la trascrizione del testo è stata fatta da noi direttamente abbiamo indicato l’opera e la sua edizione originale a pié di pagina ed in quei casi abbiamo tentato di mantenere il più possibile il testo così come si legge sul suo supporto antico. 23 1.1 – Il problema dei generi e delle classificazioni. 1.1.1 – Il dibattito critico. Il primo problema di un approccio storico-critico al teatro francese fra medioevo ed umanesimo è l’incertezza dei confini fra generi drammatici. Si potrebbe obiettare che ad onta di una sempre utile necessità critica di categorie storiche e stilistiche, le schematizzazioni della materia artistica e testuale sono sempre inadeguate al caso specifico ed alla realtà letteraria, la quale esiste e si manifesta al di là, o a monte, dei paradigmi critici. La questione dell’imprendibilità dei generi drammatici medievali non è però così ovvia, in quanto la profonda diversità di questa letteratura dalle categorie letterarie del critico moderno coincide con la differenza radicale dell’intero sistema culturale dall’attuale, specie nel settore delle discipline teatrali, ancora “deregolate”. Il nodo dei generi è tanto più stretto quanto più ci avviciniamo ai testi per la scena, le cui forme sono imprendibili per definizione perché legate ad un dato artistico immateriale, all’ampio ed insondabile campo dell’esecuzione performativa. Nella Francia a cavallo fra XV e XVI secolo lo spettacolo non conosce ancora un sistema produttivo né si è costituito in forme estetiche coerenti; è per questo che nella rappresentazione medievale ci permettiamo di parlare di avanguardia: non tanto col valore di “frattura delle regole” che si usa donare a questa categoria critica (ma vedremo come alcuni abbiano 24 cercato e trovato – invero con alterna fortuna – nella sottie e nella farsa i prodromi delle avanguardie storiche), ma intendendo all’opposto la libertà assoluta dell’autore drammatico alle soglie della modernità. Libertà che trova moventi nell’assenza di forme autorevoli e che aiuta a costruire la scena come linguaggio e codice nella selezione di molteplici possibilità espressive, per scegliere via via le più adeguate al mezzo scenico. Ecco allora in che consiste il principio di sperimentazione del teatro francese medievale alle porte del Rinascimento: nella ricerca delle forme, attraverso il “carotaggio” più o meno consapevole dei territori possibili della rappresentazione umana. Dalla farsa alla sottie, alla moralità, ai misteri, l’espressione drammaturgica, quando esiste cambia forme, intenzioni, colori, toni, prescindendo da ogni criterio di tradizione formale se questo non è a vantaggio dell’esecuzione materiale. Non esistono forme stabili né dal punto di vista testuale (dramma) né da quello esecutivo, (modi della rappresentazione) e la stessa vaghezza del genere letterario drammatico torna nelle pratiche sceniche, che si confondono volentieri con le forme oratorie e del sermone o con le non meglio precisate recite pubbliche di novelle, poesie o favolelli, quando non direttamente alle filippiche e alle strofe degli imbonitori da mercato e degli incantatori della pubblica piazza. Del resto finanche il ruolo del recitator1 rimane dubbio. Non siamo sicuri in quale misura il termine implicasse davvero che qualcuno recitasse, ma sicuramente ciò non avveniva nel senso codificato moderno (attore, palcoscenico, luogo deputato): le uniche verifiche certe di cui disponiamo per conoscere le pubbliche recite rimangono le cronache o le note di scena interne al testo. Ma la differenza di sensibilità dei cronisti di allora col contemporaneo, rende le già rare testimonianze di performance spesso inutili, impegnate a descrivere particolari insignificanti, senza meglio precisare quei dati dell’evento indispensabili allo storico del teatro per una lettura prospettica delle pratiche sceniche. Dove inizia la farsa e dove finisce il monologo? Che cosa è esattamente un mistero e cosa lo differenzia dalla moralità? Come distinguere una sottie da una canzone e da un favolello? Il totale disinteresse normativo da parte degli scrittori della fine del XV secolo e la disinvoltura con cui applicavano tale o talaltra definizione alle loro opere non agevola l’impresa di rispondere a queste domande. La difficoltà di stabilire classificazioni in un periodo come il crepuscolo del Medioevo è 1 Vi si fa menzione in numerosi testi comici di matrice classica (e particolarmente nella nota edizione lionese di Terenzio, il Terentii Comoediae sex a Guidone Juvenale explanatae, uscita nel 1493 per i tipi dell’editore Trechsel con le incisioni di un artista italiano, Jacopo del Badia), ma anche nei sermoni gioiosi, nei débat e nei monologhi. 25 congenita: l’idea di genere degli uomini e degli intellettuali del periodo è confusa, quasi sempre lontana da criteri omogenei, in una parola asistematica. E così si può dire anche di numerosi tentativi di classificazione dei generi da parte della critica. De nombreuses sotties portent le nom de « farces », comme la Farce nouvelle fort joyeuse à trois personnages : le prince, le premier Sot, le second Sot, la Farce nouvelle des Esbahis ou la Farce moralisée des Gens nouveaulx, etc. ; il en est pareillement des moralités : celle de Bien mondain est appelée Farce nouvelle, fort joyeuse et morale, celle de Vouloir divin de Guillaume des Autels – « dialogue moral », et, écho des modes nouvelles, celle du Pape malade – « comédie », de l’Homme justifié par Foi de Henry de Barran – « tragi-comédie ». Certaines pièces à deux personnages portent le nom de « dialogues », comme Beaucoup voir ou MM. de Mallepaye et Baillevent, alors que d’autres de type semblable sont dénommées « farces », p. ex. la Confession de Margot ou le Gaudisseur qui, du reste, est plutôt une sottie. Enfin tel monologue est, sans raison visible, qualifié de « sermon », comme le grivois Ramoneur de cheminées, de « dits » comme Me Aliboron qui de tout se mêle, « discours joyeux » comme les Friponniers ou encore Dyalogue (de Placebo) pour un homme seul.2 Tale è la confusione, che alcuni critici hanno rinunciato a priori ad ogni tentativo di classificazione; gli stessi Louis Petit de Julleville, Gustave Cohen ed Eugénie Droz – fini conoscitori delle tematiche dello spettacolo comico medievale ed apripista degli studi in questo settore – hanno accantonato l’idea di un coerente sistema di classificazione delle pièce di questo periodo. Si veda a tale proposito la polemica di Sergio Cigada con Lambert Cedric Porter3 sulla definizione di genere letterario nel medioevo: in una recensione Cigada criticò il tentativo classificatorio contenuto nel saggio la Farce et la sottie, sottolineando la naturale estraneità del periodo a categorie letterarie moderne e suscitando la risposta di Porter, in difesa del diritto della critica contemporanea a generare categorie ed indici. Siamo particolarmente interessati alla replica finale di Sergio Cigada in quanto i principi generali che vi si espongono hanno informato il nostro criterio di analisi e crediamo aiutino a comprendere anche da che punto di vista vadano osservate le teorie “sociali” e “politiche” sulla farsa e la sottie. «Storicamente […] alla fine del Medioevo non esisteva alcuna distinzione, né per gli autori né per il pubblico, fra farce e sotie: le stesse opere si trovano in manoscritti diversi con i due diversi titoli, ovvero le due denominazioni sono accomunate come un unicum semantico. Ora per noi questo fatto è sufficiente ad abolire il dibattito: l’oggetto della critica non può che essere il concreto storico, ciò che esisté negli spiriti e nella coscienza di coloro che operarono; ammesso che la distinzione in questione non esisteva per coloro che operavano […]. […] i generi letterari nascono dalla concezione classicista dell’arte, che è didascalica (e, infatti, il Porter si deve preoccupare, nelle sue distinzioni, del contenuto sociale e del fine pratico cui rispondessero farce e sotie); o, nel 2 H. LEWICKA, 1974 : p.9. Ecco i termini bibliografici della polemica: S. CIGADA, 1960a. La lettera di risposta di Lambert Cedric Porter con il commento di Sergio Cigada è in S. CIGADA, 1960b. Il saggio da cui muove la polemica è L. C. PORTER, 1959. 26 3 miglior caso, rispondono a distinzioni tecniche. Per questo secondo caso vale la risposta storicistica, per la quale di fatto non esistono al XV secolo differenze fra farce e sotie, e la distinzione tecnicamente è improponibile. Ma la questione di fondo, essenziale, sta nel concetto di una critica interpretativa e non didascalica. Dalla concezione classico-didascalica dell’arte nasce, infatti, anche una concezione didascalica della critica: di una critica cioè che impone ab externo schemi intellettuali entro i quali adattare le opere storicamente date […] [che] può solo rappresentare una pretesa soggettiva di categorizzazione, sempre controvertibile […]. Ora noi ci rifiutiamo a tale critica, che stimiamo razionalista e moralista, cioè legata ad altre attività dello spirito (logico-razionali o pratico-morali) che non sono il proprio dell’arte. E affermiamo viceversa una critica storicista e propriamente estetica, che, partendo esclusivamente dal concreto testuale, tenda ad individuare non schemi generali, che non esistono se non come astrazioni statistiche, ma le leggi proprie ed interne della singola opera, e l’evoluzione storica (di contenuti e di tecniche) che lega un’opera all’altra […]. »4 Convinto come Porter che forma e strutture linguistiche siano fatti letterari concretamente verificabili per costruire una nozione di genere, Omer Jodogne5 propone una divisione che impieghi rigorosi criteri formali; ma i risultati del suo tentativo non sono meno nebulosi. Così nel suo “sistema” vediamo appartenere ad un medesimo gruppo pièce distanti fra loro già ad una superficiale lettura tematica. Un’eventuale schematizzazione per generi non può non tenere conto dei contenuti delle opere al di là del dato tecnico formale: Halina Lewicka “compensa” la propria rinuncia ad ogni tentativo di schematizzazione sistematica suggerendo il criterio forse più efficiente; l’adozione, cioè, di coordinate non unilaterali, flessibili ed adattate alle composizioni drammatiche quasi caso per caso, secondo il buonsenso dello studioso.6 Così facendo si esce da ogni ambizione sistemica e classificatoria, per un critica non didascalica, appunto, unica in grado di accordarsi allo spirito di questa letteratura e di fornire ragionevoli interpretazioni anche degli immancabili “casi limite”. È curioso che nella superfetazione dei tentativi di categorizzazione del teatro profano francese fatti dal XIX secolo in poi, la falla metodologica più importante sia la totale assenza di una prospettiva cronologica e geografica: il criterio evoluzionista ha creduto di descrivere a grandi linee una tendenza generale di tutte le forme di espressione drammaturgica verso il testo teatrale moderno, senza troppo preoccuparsi della differenza di contesti ed archi cronologici delle raccolte che costituiscono la base dei repertori. Un periodo di attività comica di oltre cento anni e fortemente legato alle forme più tradizionali del profano medievale è stato insomma considerato alla stregua di un blocco unico, pressoché identico nel tempo, quando invece le osservazioni condotte su forme liminari più 4 S. CIGADA, 1960b : p.487, [corsivi miei, n.d.r.]. O. JODOGNE, 1969. 6 H. LEWICKA, 1974. 5 27 documentate – come i misteri – ne hanno messo in luce la fluidità ed importanti interferenze estetiche col cambiamento dei contesti produttivi e del panorama politico anche locale. Un menu détail qu’il faudrait ajouter ici, se rapporte à la chronologie. C’est que, si le nouvel art dramatique, en quelque sorte l’Ars nova du théâtre, s’établit pendant la période 1450-1550, on ne pourra certes pas assumer, gratuitement que, justement pendant cette éclosion nonpareille, aucun développement dans l’art du théâtre, aucune évolution dans le savoir-faire, aucun changement dans le public ne se soit produit. Je serais certainement avocat, ici, d’une différenciation dans le temps. Il est totalement exclu sinon hautement improbable que, à partir des premières farces du début du XVe siècle, en passant par l’inévitable Pathelin jusqu’aux farces conservées du début du XVIe siècle – voire plus tardives – aucun changement ne se soit produit. Pour emprunter une similitude au théâtre religieux : si la Passion d’Arras, datant d’autour de 1435, et la Passion de Valenciennes, de 1547, voire celle de Tournai (1552) racontent en essence la même histoire, sa fonction et son impact diffèrent nettement (ne serait-ce qu’à cause du passage de la Réforme). Le public à Arras en 1435 n’est certes pas celui de Tournai en 1552 prêt à discuter des subtilités théologiques, prêt à affirmer qu’il veut un vrai Dieu et non un Dieu de « paste cuite ». De même, les sotties parisiennes sous Louis XII n’ont pas de rapport nécessaire avec les sotties genevoises de 1523-1524 (dont la seconde devait avoir le duc de Savoie parmi le public, mais il ne vint pas) ni, a fortiori, avec les sotties rouennaises d’autour de 1550 (et les sotties tardives lyonnaises […]).7 Il naufragio delle fonti a stampa è forse testimone di un’altra dispersione: quella delle più antiche fonti manoscritte delle performance medievali che avrebbero potuto annoverare esempi di farse e sottie già molto indietro nel tempo, soprattutto in ragione del fatto che fra gli incunaboli compaiono alcune testimonianze di grande maturità estetica in contrasto con l’idea di un’arte nascente o neonata, di un’ars nova. Agli antipodi della rinuncia tout court ad una definizione di genere troviamo alcuni estremi tentativi di sistematizzazione; in particolare quello di Ian Maxwell,8 il quale – a furia di cozzare contro le irregolarità minime di ogni pièce – è costretto a ridurre la farsa a mero incidente drammatico non lontano dall’idea di intermezzo, il cui fine principale sarebbe unicamente il riso grossolano; e quello già citato di Lambert Cedric Porter, secondo il quale nel XIV secolo la farsa si sarebbe sostituita, per così dire “naturalmente”, al ruolo sociale del fabliau. Barbara Bowen,9 invece, con l’intenzione di corrodere l’estremismo di chi individua nella farsa le forme ancestrali della moderna drammaturgia politica, preferisce parlare di un tentativo di resistenza umana benigno e giocoso, con i tratti stilistici propri più del divertissement che d’una eventuale “drammaturgia militante”. Ma se il metodo di Barbara Bowen è efficace nell’ottica di risanamento degli anacronismi prodotti dalla critica “sociale” di marca marxista, il principale suo limite è che 7 J. KOOPMANS, 2004a : p.3. I. MAXWELL, 1946. 9 B. BOWEN, 1964. 8 28 comporta l’esclusione automatica di tutte le pièce ove siano innegabili contenuto politico “impegnato” e carica ideologica diretta o esplicita, il cui numero, specie nel periodo delle campagne d’Italia, non è secondario. Per cui adottando questo sguardo si deve escludere un numero consistente di opere (fra cui una delle più interessanti proprio per la ricostruzione archeologica degli eventi spettacolari: il “varietà medievale” de le Jeu du Prince des Sotz10 di Pierre Gringore) trasformando la farsa in un genere più che minore e ponendo un problema di classificazione forse più grande per le residue pièce ideologiche. Ed arriviamo ad uno dei problemi principali della critica degli anni ’60 e ’70 del XXI secolo: è possibile parlare di critica politica per le innumerevoli pièce che presentano una dialettica fra i personaggi stereotipati attinti da reali classi sociali? Pensiamo, ad esempio, al soldato fanfarone, al prete corrotto, al venditore di indulgenze e al mercante cornuto o truffatore di cui la maggior parte delle composizioni drammatiche di questo periodo è infarcita: si tratta di semplici stereotipi narrativi? Fino a che punto è possibile individuare valori ideologici nello stereotipo? Come dobbiamo interpretare le figure allegoriche che fra una capriola ed uno slancio a testa in giù attaccano la Riforma o la corruzione clericale? A nostro avviso tali domande sono importanti in sé, in quanto ci permettono di avere un approccio problematico alla materia narrativa e drammatica, ma da esse è difficile ricavare una qualche risposta. La chiave di volta del linguaggio comico è l’ambiguità e la continua confusione di prospettive fra la descrizione consensuale della realtà, le sue declinazioni parodiche e la compromissione con lo status quo: le incertezze sul problema della politicità più o meno manifesta ed intenzionale del comico si perdono in questa contraddizione di partenza, che a ben guardare è ciò che “produce significato” nel meccanismo drammatico “basso”. Per questo è ozioso cercare ad esempio un confronto politico nel débat fra un servo ed un padrone. Operazioni critiche rischiose come quella di Alan E. Knight,11 (che esagera la digressione sullo sperimentalismo linguistico fino ad individuare relazioni fra farsa e moderno teatro dell’assurdo), evidenziano l’esplosione cui le forme drammatiche medievali sottopongono il linguaggio, utilizzato con audacia eclettica trasgressiva, in un procedimento dialettico fra arte e mondo. Sotto un’ottica antropologica il ruolo del mondo dei folli è sovvertire quello dei savi, ma bisogna pur considerare che la “corrosione del sistema” di cui si fa carico la follia nelle espressioni narrative e 10 11 P. GRINGORE, Le jeu du prince des sotz et mère Sotte…, Paris, s.d. (1511), (A. HINDLEY, 2000). A. E. KNIGHT, 1971. 29 performative dell’età medievale è un metodo tutt’altro che antisociale di esorcizzare il disordine; il quale, nella stessa organizzazione dei villaggi e della società “corporativa” del medioevo, è contrapposto positivamente all’ordine sociale, che proprio attraverso la follia esprime la sua irrinunciabilità. Il mondo al contrario nella società del medioevo è un elemento utile ed attivo, parte della “dieta igienica” del sistema12 e non già un grimaldello contro lo status vigente. Linguisticamente sposiamo l’associazione di Knight fra teatro medievale e avanguardie contemporanee, in quanto questa ottica strutturalista è utile per una corretta lettura storica delle finalità della farsa e delle sue forme liminari. Non si deve dimenticare, però, che lo spirito anarchico della sperimentazione farsesca sussiste in quanto manifestazione linguistica ex-nihilo, a partire cioè da una tabula rasa che rendeva necessario il “carotaggio” espressivo, come si è detto, delle possibili forme: l’avanguardia del Novecento anche al di là degli esiti specifici vuol essere invece una forma di contestazione politica opponendosi al sistema linguistico normativo preesistente. Il successo delle forme profane del teatro medievale francese ha dunque sul finire del medioevo un significato che si discosta e va allontanato dagli assunti e dalle problematiche delle avanguardie del XX secolo che rappresentano invece forme consapevoli di contestazione del sistema delle arti e dello spettacolo. Nondimeno quello delle farse e delle sottie è un riso feroce che attacca la corruzione e la falsità di valori costituiti come il matrimonio e i legami di parentela, mettendo in luce la differenza che sussiste fra le idee e la loro applicazione nella vita materiale, ma sempre in toni corrivi e generici. Farsa e sottie se non una critica attivano un giudizio sulla realtà, ciò che contraddice anche chi (i bibliofili francesi del XIX secolo) vorrebbe stabilire una prima generale differenze fra i due generi sul piano dell’attenzione realistica; teoria sintetizzabile con la proporzione matematica sottie : astrazione = farsa : realtà Su questo tema torneremo, per il momento ci basti citare da Petit de Julleville. Les limites des deux genres sont trop indécises. Trop de farces ont pu être jouées par des sots sans être tout à fait des sotties, les sujets traités, les situations mises en scène dans les farces et dans les sotties sont souvent trop analogues, pour qu'on puisse séparer les unes et les autres sans s'exposer à des redites et à des confusions.13 Le prime espressioni drammatiche letterarie francesi che mostrano una precoce e timida “politica editoriale” si legano alla progressione culturale delle fasce sociali produttive, la cui visione del mondo 12 13 P. CAMPORESI, 1991. L. PETIT DE JULLEVILLE, 1886 : pp.68-73. 30 è intessuta spesso di moralismo ed amaro pessimismo, con tendenze alla generalizzazione ed uno sguardo distaccato, ironico, sulla vita politica e civile. La fine della farsa dipenderà in larga parte dai due generi importati d’oltralpe e di cui nel nostro studio indaghiamo le prime timide eco in Francia: la Commedia dell’Arte nel sostrato popolare e la commedia italiana per quanto riguarda l’ambito alto dell’umanesimo. La riforma del teatro francese non avverrà “per sostituzione”, ma in continuità con il passato, sulle ceneri fertili dell’antico contesto del teatro profano farsesco. Ciascun ipotesi classificatoria di farsa e sottie aiuta a chiarire aspetti particolari del fenomeno del teatro profano, generando altrove deformazioni ottiche ed omissioni. Il criterio di classificazione per contenuti ha come risultato insiemi piuttosto omogenei di composizioni, soprattutto in virtù della ricorrenza e della resistenza di alcune tematiche (pensiamo al marito tradito e alla vita matrimoniale o le varie composizioni processuali) ma tali svolgimenti sono formalmente trasversali: il contenuto non vincola, insomma, qualità, consapevolezza della scrittura e tecniche linguistiche adottate, se non in modo molto generico. Una distinzione linguistico-strutturale delle pièce è parimenti insufficiente: secondo tale criterio la sottie si avvarrebbe di un registro semantico più basso rispetto alla farsa, di cui sarebbe l’abbozzo schematico. Effettivamente possiamo rilevare come nelle storie di sot i termini delle vicende si presentino assai sommariamente e per lo più in modo astruso e fantastico, con grande ricorso ad allegorie, in una forma chiusa, incentrata su cortocircuiti semantici in una ambiente completamente autoreferenziale. Il linguaggio vi si presenta “in sé” e non è raro che il comico scaturisca da scomposizioni secondarie di parole e frasi, “contrepèterie” e associazioni anarchiche fra significato e significante. Ma sia la brevità che l’eclettismo verbale non sono di per sé dati classificatori sufficienti: esistono infatti sottie molto lunghe e farse molto brevi, mentre la comicità linguistica caratterizza sempre indistintamente entrambi i tipi di pièce. E si è tentata anche la strada di un confronto sugli svolgimenti drammatici: se nella sottie l’azione sarebbe per lo più inesistente o inconcludente, nella farsa si baderebbe maggiormente alla meccanica della narrazione. Seguendo il modello realistico della novella e del favolello i personaggi farseschi 31 sarebbero parte di un tranche de vie pedissequamente imitato dalla realtà ed avulso da qualsiasi giudizio su di essa.14 A questo terzo criterio si potrà obiettare come di fatto siano rari i casi in cui la farsa sviluppa atmosfere e plot coerenti e che molte di queste composizioni – anche quando di larga circolazione e successo – non avevano per trama che una secca e prolissa disputa fra matti, segno che la solidità narrativa non era considerata un carattere fondamentale. La realtà è che non esiste una vera distinzione fra farsa e sottie, che del resto riposano su identici espedienti tecnici e motivi formali: fra di essi il più ricorrente e modellizzante è certo il comico verbale, l’inversione, cioè, in senso anarchico e sovversivo, del linguaggio mediante l’uso e l’abuso di figure del discorso; o, secondo Halina Lewicka «l’incompréhension d’une expression toute faite consistant à délexicaliser une unité phraséologique, en ranimant le sens primitif de ses éléments».15 Questa figura del discorso è praticamente onnipresente nelle farse (in particolare in quelle che contengono parodie giudiziarie e processi giocosi) e riproduce l’ossessione che la categoria mercantile destinataria manifestava per la precisione del linguaggio delle formule giuridiche e contrattuali. Del resto, la forma dialogica dei processi influenza tutto il teatro profano francese fra XV e XVI secolo, ivi comprese le rappresentazioni che nulla hanno a che vedere con i temi tecnici della legge e del diritto. Il comico verbale è quindi una prerogativa di tutti i generi drammatici francesi di questo periodo: se vogliamo accettare passivamente le definizioni che di volta in volta gli autori (per lo più anonimi) ci consegnano nei titoli stessi delle loro opere, dalla processione al mistero, dalla sottie alla farsa, dal fabliau alla parata è tutto un pullulare di fraintendimenti linguistici e di applicazioni dei principi basilari della comicità verbale: da les Femmes qui font escurer leur chauldrons a Jeninot qui fit un roi de son chat fino a le Savetier qui ne répond que chansons,16 le dichiarazioni di comico verbale interne al titolo stesso delle pièce mettono in luce come siffatto espediente retorico fosse centrale in ambito drammatico profano. Nelle migliori prove estetiche della farsa il comico verbale ed il fraintendimento riescono anche a creare un filo narrativo coerente; basti citarne una su tutte, Mahuet Badin17, dove il protagonista 14 È la posizione di Barbara BOWEN (1964), più avanti si vedrà come queste storie di folli contengano non di rado personaggi e deus ex machina allegorici e come si basino su procedimenti formali antirealistici. 15 H. LEWICKA, 1974 : pp.68-69. 16 Rispettivamente in: ATF : t.II, pp.90-104 e t.I, pp.289-304; Rép. COHEN, n°XXXVII, pp.287-294. 17 Rec. LEROUX, t.III, n°10. 32 incaricato di vendere le sue mercanzie «au prix de marché» cerca al mercato un acquirente con questo nome. Nella maggior parte dei casi, però, il comico verbale priva le pièce d’un vero e proprio sviluppo: si pensi ai numerosi casi di proverbi in azione in cui la trama è solo un pretesto per la messa in scena di espressioni idiomatiche. Esemplare la farsa degli Esveilleurs du chat qui dort18 che ci mostra un gruppo di idioti intenti a svegliare un gatto, in un moto narrativo praticamente nullo. Abbiamo visto che se è possibile individuare qualche gruppo tematico, tale operazione non è sufficiente a tracciare confini precisi fra generi, in quanto ad un tema non corrisponde mai esattamente un gruppo di artifici retorici. Il tema inoltre, si estende sovente a più gruppi diversi di composizioni perché moralità, sottie, processioni giocose e farse spesso fanno riferimento ad un unico patrimonio narrativo. Impossibile anche stabilire una definizione di massima dei generi drammatici valutandone il livello di aggressione polemica per le ragioni esposte poco sopra e perché gli atteggiamenti più o meno antagonisti al sistema sono difficilmente ascrivibili ad un gruppo di composizioni formalmente omogenee, ed è ozioso anche qualsiasi tentativo di schematizzazione attraverso la denominazione delle pièce o la presenza o meno di un sot sulla scena. Or s’il est vrai que la sottie est principalement peuplée de « sots » ou de « fous », ceux-ci ne lui appartiennent pas en propre. Ainsi on trouve des fous dans les farces conjugales du Pauvre Jouhan, de Janot, Janette, l’Amoureux, le Fol, le Sot, [et dans] Le Fol, le mari, la femme et le curé. Les trois galants et Philipot que Picot a inséré dans son Recueil de sotties se rattache au cycle farcesque des soldats bravaches et les Trois Coquins est de la même veine que la célèbre farce du Pâté et de la tarte où on a également deux coquins, dénommés seulement « le premier » et le « second ». Des fous apparaissent aussi dans les moralités et dans les épisodes comiques des mystères.19 Allo stesso modo non è dato per scontato che il personaggio allegorico qualifichi necessariamente una moralità o una sottie: abbiamo infatti diverse allegorie inserite in temi tipici del teatro comico e novellistico ed in pièce ascrivibili alla farsa o al teatro profano: è il caso di Sire Haine e Dame Hainieuse,20 ma anche di Cauteleux, Barat et Vilain.21 Inoltre alcuni tipi fissi o nomi qualificanti (il caso tipico è Jehan con tutte le sue molteplici declinazioni) sono talmente diffusi che nel leggere farse e sottie sembra sovente di passare da un capitolo all’altro della stessa saga; un fatto che ci fa pensare ad un contesto scenico generalizzato, ad 18 Rép. COHEN, n° XXXIV, pp.269-272. H. LEWICKA, 1974: pp.11-12. 20 Rec. MONTAIGLON – RAYNAUD, t.I, pp.97-110. 21 Rép. COHEN, n° XII, pp.89-94. 19 33 un orizzonte spettacolare molto compatto che rifugge da qualsivoglia rigida nomenclatura in forme drammatiche precise. La trasversalità dei personaggi è totale e un nome noto può servire da punto di rotazione d’una pièce, allo stesso modo che un incidente comico. Possiamo prendere la Reformeresse22 quale esempio pratico di inadeguatezza di tutti i sistemi classificatori del sistema farsa-sottie ed attraverso di essa mostrare la problematicità di siffatte operazioni critiche. Il tema della pièce – probabilmente realizzata per il mondo artigiano dell’imprimerie – è tutt’altro che disimpegnato: vi si parla del ruolo dei torchi per la libertà d’espressione e li si associa alle volontà riformiste (genericamente morali o civili, ma evidenti sono i rapporti anche con il protestantesimo). Al movente vagamente erotico – un Badin che corteggia la grande signora – si affiancano in modo rudimentale digressioni politiche e considerazioni morali. Nell’opera compaiono elementi ritenuti tipici della sottie, come le “attrazioni biomeccaniche” qui introdotte dal Badin, personaggio-prototipo a vario titolo stolto o faceto e protagonista indiscusso di tutte le sotte aventure in farsa o parata che siano. Nel nostro caso avendo questi cantato una filastrocca licenziosa sull’entrata dell’imperatore Carlo V in Parigi riceve i complimenti della protagonista ed introduce anche il tema della farsa, che si configura come una sorta di elogio della stampa – la grande Riformatrice, appunto – campionessa della propagazione delle idee, e per questo lancia da brandire contro chi abusa del potere. La lunghezza della composizione, che si attesta a 280 versi, è quella di una sottie,23 eppure le continue allusioni all’attualità dovrebbero inserirla nel “casellario” delle farse: quando anche esse evidenzino un certo “realismo” possiamo facilmente constatare che tutta la composizione fa in realtà ampio uso di allegorie, ed anzi, è a sua volta una lunga allegoria. Protagonista è infatti Reformeresse con tanto di lettera maiuscola, ciò che riporterebbe la composizione ai tratti della sottie. Il dialogo schematico col suo procedere per battute monotone e senza movimento ricorda infine un’azione drammatica semplice, un débat. Ed abbiamo così uno specimen della rete di paradossi in cui si incappa quando si cerca di tracciare confini netti nel vasto territorio letterario della farsa e delle sue forme liminari. Farsa e sottie erano solo secondariamente fenomeni letterari, ma il materiale testuale che le riguarda è l’unica e più dettagliata testimonianza di quelle performance. Tali composizioni trovavano la propria specificità non tanto nella qualità letteraria – nella maggior parte dei casi appunto deludente – ma 22 Rec. LEROUX, t.I, n°17. Nulla ci induce infatti ad ipotizzare che la farsa sia incompleta: a nostro avviso l’ultima battuta suona esplicitamente come conclusione, benché si può ammettere che lo svolgersi della trama rimanga ad uno stadio non soddisfacente. 34 23 nell’esecuzione concreta. Le definizioni basate su criteri rigidamente letterari sono sempre improprie perché per una esaustiva e coerente divisione in generi si dovrebbe tenere conto delle condizioni di realizzazione oggettiva degli spettacoli: dell’apporto concreto degli attori, dell’organizzazione scenica, dei costumi, degli inserti meta-testuali (canzoni, filastrocche, proverbi e litanie) e delle eventuali differenti “grane” interpretative. L’incompletezza delle trame o la loro smaccata ripetitività dovevano essere ampiamente compensate da tali condizioni materiali. Una classificazione che tenga conto di tutto ciò sarebbe l’unica davvero efficiente, perché aggiungerebbe ai dati letterari e stilistici quelli più rilevanti della performance, ma purtroppo solo in rarissimi casi è possibile stabilire con certezza le modalità di esecuzione in pubblico o anche soltanto se le nostre pièce fossero destinate ad essere giocate. Le funzioni esecutive e metatestuali ci sono quasi del tutto ignote: André Tissier, nel suo breve repertorio commentato di poesia drammatica francese del medioevo è stato il solo a sentire l’esigenza di una minuziosa e seria indagine della farsa in quanto fatto scenico, incrociando elementi interni alle farse letterarie, non senza, bisogna ammetterlo, alcune considerevoli fantasie teoriche.24 1.1.2 – Dati storici, repertori e reciprocità. All’interno della farsa è possibile scorgere le più disparate influenze formali e tematiche: dalla letteratura popolare alla novella, dal dominio classico all’umanesimo, dalle leggende e storie tedesche a quelle di area francese o italiana. Si tratta per lo più di influenze involontarie, ricordi lontani e reminiscenze verbali scarsamente consapevoli. In prospettiva storico-critica questa varietà e sovrapposizione dei generi crea altre sovrapposizioni ed incertezze. V’è poi un problema quantitativo: il numero esiguo di composizioni che sono giunte fino a noi non consente lo sviluppo di una casistica consistente, specie per quanto riguarda la sottie, la cui composizione per lo più occasionale e legata ad altre forme di rappresentazione non è sempre pensata per l’impressione seriale. Ma cerchiamo di vedere sinteticamente qualche dato storico concreto. 24 Rec. TISSIER. 35 Il periodo di maggiore produzione di farse scritte è quello compreso fra il 1460 ed il 1530, ma l’attività in questo settore si sviluppa su termini cronologici più largi, a dire fra il 1450 ed il 1550 ed esercita una considerevole influenza anche sui primi tentativi francesi di commedia regolare. Bisogna tenere conto della possibilità di una oscillazione dei due termini, in particolare del primo, che può risentire di una più consistente imprecisione dovuta alla differenza di diffusione e conservazione delle opere prima e dopo la stampa. La maggior parte delle pièce a noi giunte proviene da sei importanti raccolte.25 1. Manoscritto La Vallière: 74 fra pièce comiche, sermoni gioiosi, moralità, sottie e 31 farse. La prima edizione moderna si deve a Antoine Leroux de Lincy e Francisque Michel, con introduzione ma senza commento (Rec. LEROUX). 2. Raccolta del British Museum (comunemente detta Recueil de Londres): la legatura dei testi è moderna. Pubblicata con numerosi errori ed omissioni nei primi tre volumi di Ancien théâtre françois (ATF, t.I-III) di Viollet-Le-Duc. Contiene 40 farse su 64 pièce. 3. Il Recueil Rousset del 1612 e il Recueil de Copenhague del 1619 sono stati ripresi e pubblicati da Caron, Picot e Nyrop in più tranche nel XIX secolo. 4. Il Recueil de Florence, fu edito da Gustave Cohen con qualche nota critica nel 1949 e contenente 40 farse (Rép. COHEN). 5. Il famoso Recueil Trepperel, edito fra il 1935 ed il 1966 da Eugénie Droz (TREPPEREL I, II e f.s.). Tale edizione moderna ha riformato il settore di studi dedicati alla farsa. 6. Paul Aebischer ha trovato qualche farsa inedita pubblicata in modo sparso nel 1923 (FRAGMENTS) e nel 1924 (TROIS FARCES).26 7. Il repertorio Tissier fornisce utili ipotesi di ricostruzione materiale e letteraria delle performance (Rec. TISSIER) ed i testi di pièce già pubblicate, riviste e corrette. Contro la rinuncia a rigide classificazioni abbiamo già avuto modo di menzionare Barbara Bowen,27 specie per quanto concerne la supposta “inettitudine politica” della farsa: ma la studiosa inglese sostiene comunque la “ragionevole” possibilità di definire un limite fra farsa e sottie, escludendo le pièce particolarmente eclettiche e tenendo conto della possibilità che una categorizzazione – per 25 Rimandiamo alla bibliografia dedicata ai repertori delle pièce per l’elenco completo delle raccolte. Di altre pièce sparse (alcune sempre pubblicate da AEBISCHER) renderemo conto di volta in volta. 27 Oltre all’opera citata sopra si veda la sua raccolta di saggi (B. BOWEN, 2004). 26 36 quanto si sforzi di essere completa – non collima mai esattamente con la realtà letteraria nella sua interezza e che pertanto rappresenta sempre una scelta interpretativa di campo. Il criterio di Barbara Bowen è “concettuale” e coinvolge più facce dell’imperfetto pentaprisma comico: vorrebbe cioè informare gli aspetti stilistici, tematici ed onomastici in unico insieme di parametri capaci di restituire un quadro completo della fisionomia drammatica profana: la farsa si configurerebbe come un genere che aspira ad una visione “particolare” (o protorealistica) laddove la sottie ha un anelito più “generale” (o generico, astratto, surreale). Questo motivo del generale e del particolare viene in primo luogo applicato alla “qualità” (nel metodo descrittivo) ed alla “quantità” dei personaggi: troviamo così una ulteriore distinzione, che vede nella farsa uno scarso numero di individui meglio caratterizzati ed invece nelle sottie una superfetazione di interventi a mo’ di parata giocosa e dunque uno sconfinamento nel superfluo a danno del contenuto narrativo. Nella farsa le “presenze sceniche” tendono effettivamente ad essere meno simboliche: da battute e ambientazioni possiamo dedurre la loro condizione sociale ed economica, qualche abitudine, se hanno moglie od attività commerciale, ma anche valori come la fedeltà o il danaro.28 I personaggi delle sottie sarebbero molto più numerosi e designati da un numero, (segno di serialità), o da un sostantivo che li intaglia in modo assoluto e monolitico, con maggiore propensione per figure fisse o allegoriche e con interventi che non si reggono su alcuna direzione narrativa consequenziale. Anche questo metodo, sebbene molto convincente, andrebbe preso con beneficio di inventario. Si tratta infatti di un tentativo un po’ meccanico di costruire una “teoria del dramma medievale” in coerenza con la visione storiografica evoluzionista che vede nelle forme premoderne dello spettacolo un progressivo avvicinamento al teatro realistico e psicologico; teoria che come è noto si basa sull’idea che si siano avvicendate nel tempo fasi successive di caratterizzazione chiaroscurale del personaggio, in una evoluzione dai débat alla farsa alla Commedia dell’Arte fino a Goldoni passando per Molière. Dobbiamo fare attenzione a non adottare in assoluto questa prospettiva “modernocentrica”: assieme alla sottie, cui è solidale, la farsa è e rimane un genere proto-moderno in cui l’incerta idea drammaturgica è sottomessa alle tonalità “umorali” degli sghembi protagonisti che vi partecipano e 28 Se volessimo identificare i destinatari della farsa in un gruppo sociale non avremmo dubbi ad individuarli nella società “medio-borghese”, professionale e mercantile, ma le attrazioni eclettiche dei farceur usano, di fatto, un linguaggio opportunista ed universale che non limita le loro opere ad alcun settore della società in particolare. L’impressione è che si verifichi una circolazione “ariosa” fra cultura “alta” e “bassa”. 37 ad una attitudine tutta scenica, dunque irregolare da un punto di vista strettamente letterario. Il problema del realismo come fattore di evoluzione stilistica positiva è poi assai relativo e rispecchia una visione delle cose “a posteriori”, filtrata cioè dall’idea di dramma moderno, senza tener conto di mezzi e scopi di farsa e forme liminari. Dalle pur acutissime posizioni della studiosa anglosassone si può mendacemente arrivare alla conclusione che per temi, situazioni ed espressioni, la farsa costituisca un’importante anticipazione della commedia. Noi cercheremo di vedere che farsa e commedia effettuano entrambe un riuso attivo del patrimonio novellistico ed orale; tale è il dato che le avvicina, ma dal quale si dipanano anche le differenze essenziali fra genere comico moderno e poesia teatrale medievale. I personaggi grotteschi delle forme drammatiche francesi delle origini fondavano la propria esistenza direttamente sulle pratiche del teatro (esecuzione, performance, gioco); si innalzavano cioè dal marasma degli imbonitori da mercato per intraprendere le prime vere “professioni della ciarla”. Lo stesso passaggio dalla forma orale alla stampa, avvenuto in questo periodo, implicava la nascita di un qualche mercato dello spettacolo e la prima timida circolazione di una cultura della performance, cui peraltro – viste le numerose edizioni, tutte di scarsa qualità, che ci sono pervenute – le nuove classi sociali produttive manifestavano un singolare interesse. Lasciano sperare in una più accurata ricostruzione del teatro comico medievale i tentativi “strutturalisti” di Jelle Koopmans, che sta cercando in questi anni di adottare il medesimo metodo sviluppato da Graham Runnalls29 per la storia del teatro religioso: si tratta di considerare ad un tempo il contenuto testuale, le battute dei personaggi, le cronologie ed i contesti locali ed incrociare i dati con una seria attività di datazione e bibliografia testuale. La studiosa olandese considera la sottie (e non la farsa come è stato paventato fino ad oggi in conformità col principio che mette la qualità dell’intreccio sopra ogni altra), come il contributo più importante del teatro francese al dramma medievale, funzionante come una specie di cornice “modulare” per l’esecuzione e la contestualizzazione delle farsa. Lo statuto generico della sottie ha reso problematica una delimitazione precisa dei suoi rapporti con la farsa: così le varie risposte e soluzioni che sono state individuate dalla critica a partire dalla fine del XIX secolo non hanno addotto risposte chiare alla domanda su quali fossero le diverse funzioni drammatiche dei due gruppi. Jelle Koopmans è convinta, e noi con lei, che sia superfluo tracciare 29 J. KOOPMANS, 2007 e 1997. G. A. RUNNALLS, 1999. 38 una precisa linea di demarcazione fra sottie e farsa poiché la loro ragion d’essere sta in due diversi e distinti ruoli in reciproca interferenza nell’economia dello spettacolo. La sottie presenta delle formule narrative iper-generiche rispetto alla farsa: uno dei tratti caratteristici dei giochi degli stolti è l'avant-jeu, per cui nel corso della recita i personaggi si domandano in una specie di allegra parata quale sia il pezzo comico da recitare. Sotto questa luce la farsa prende la forma del “teatro nel teatro” e la sottie quella di contesto “reale” per narrazioni “artificiali”: una cornice di tipo novellistico per l’esecuzione d’una fiction scenica. La differenza cruciale fra farsa e sottie starebbe dunque nella “sospensione dell’incredulità”: ove la farsa racconta una storia illusoria, la sottie funziona da tessuto connettivo “metateatrale” dell’evento spettacolare. Una nuova ed originale base teorica per lo studio dello spettacolo comico nel medioevo dovrebbe essere sviluppata a partire da questi assunti, per precisare con maggiore attendibilità il ruolo che le performance dovevano ricoprire nel contesto urbano e provinciale. Farsa e sottie sono la manifestazione di un medesimo fenomeno letterario, prospettiva che anche dal punto di vista dei personaggi viene confortata dalla quasi totale identificazione del sot con lo stolto niais. Certo, i sot sono figure proprie delle forme primordiali del teatro francese e nella loro specificità comportamentale e drammatica hanno pochi corrispettivi non francofoni;30 ma la storia di queste figure si perde nella notte dei tempi, essendo in sostanza la storia di un topos, quello del folle, dell’insensato, del sacro imbecille: in un’epoca in cui la libertà di espressione era vincolata ai capricci della municipalità o del signore o del re, il sot albergava in un mondo al contrario, dove potevano prendere vita gli istinti e le parole non consentiti nella vita reale. Evidenziare i rapporti con il 30 A tal proposito leggiamo in Picot «D’Ancona (1891: t.II, p.206) relève pourtant en Italie des traces de la fête des fous»: siamo andati a sfogliare la fonte e ci siamo accorti che anche il D’Ancona non fa che un breve accenno alle origini francesi in Italia della festa dei pazzi e che pure lui a sua volta rimanda al “Bibliophile Jacob” (P. LACROIX, 1858). Una congettura che dopo la consultazione del pure appassionante libro di Jacob ci rivela come sia sempre necessario dubitare della critica ottocentesca: l’episodio di festa dei folli di cui si parla è legato alla rivoluzione e vide fra i protagonisti dell’iniziativa André Chenier. Ma il fatto che nel 1800 ci fosse una tale pubblica rappresentazione non ha nulla a che vedere, ovviamente, con la festa dei folli. Stupisce che il D’Ancona, nella sua assai minuziosa opera sulla nascita del teatro italiano, abbia omesso di consultare tale fonte. Nell’Europa del sud il successo delle feste dei folli fu molto inferiore: in Spagna abbiamo il personaggio del Bobo, corrispondente al Badin francese, e sempre presente negli autos sacramentales; Torres Naharro riprende alcuni moduli della sottie francese e li innesta negli introito con i quali cominciano le sue pièce. Anche qui non abbiamo alcun rapporto fra l’introito e l’opera centrale: si tratta di scene burlesche dove un attore comico raccomanda l’attenzione degli spettatori, condendo le battute con facezie di ogni tipo. 39 carnevale è superfluo, mentre è utile ribadire che il ribaltamento del mondo non risponde alle ideologie sociali del XX secolo. Diciamo quindi che il sot è una declinazione particolare dello stolto e che esso ricopre una funzione nota a tutta la letteratura ed in particolar modo a quella novellistica e drammatica europea. Sulla questione della politicizzazione delle pièce come criterio di nomenclatura Barbara Bowen non fa che riprendere l’opinione ottocentesca di Emile Picot, secondo cui la sottie presenta una vena satirica, inversa e critica rispetto alla realtà. Qualsiasi verve critica e sociale è qui debole, sfaldata, soggetta a balzi narrativi improvvisi e ad una logica acritica ed opportunistica del derisorio, più che alla costruzione di un vero impianto satirico programmatico. Nella maggior parte dei casi, le sottie sono incoerenti ed indiscriminati attacchi a tutto e tutti: usi, costumi e pratiche sociali sono sovvertiti e la presenza di episodi storici concreti è spesso depistata dietro forme ed affermazioni oscure. Questo spirito anarchico è comune alla farsa che non esita mai a mettere in scena una società inospitale e crudele, per lo più basata sulla competizione spregiudicata e su una sorta di selezione naturale in cui non c’è differenza - se non negli specifici coefficienti di idiozia e brutalità - fra la crudeltà burattinesca dell’avvocato e l’opportunismo del pastore; fra la malizia del sarto, l’aggressività del cliente che lo bastona e lo spirito di vendetta dell’apprendista che ha ordito l’inganno. Che si voglia vedere in ciò una critica alla società oppure no, siffatto mondo di folli e sanguinari ruba da un altro “genere” medievale francese piuttosto incongruo, la «fatrasie» o «fatras», il cui nome – letteralmente “guazzabuglio” – sottolinea ancora una volta il dato della molteplicità ed imprendibilità delle forme: si trattava infatti di una serie di pezzi rimati senza una vera relazione fra di loro, compattati in forma di proverbi, motti popolari, o più semplicemente capitomboli e frottole, smagliati in una imprendibile varietà metrica e con l’intento corrivo di far ridere il pubblico. Secondo Emile Picot31 il fatras avrebbe dato origine a due tipi diversi di sottie: una destinata alla recitazione all’interno dei concorsi di retorica e l’altra più espressamente teatrale. Ma al di là del fatto che non ci risulta l’esistenza di una “sottie retorica”, una tale distinzione interna alla sottie è forzata, essendo già difficile, come abbiamo visto, tracciare una linea di confine fra sottie, e farce. A tale divisione Emile Picot ne aggiunge un’altra più strettamente legata alle pratiche teatrali. Da una parte le pièce satiriche delle confraternite dei mestieri e delle bazoche, in cui la velleità verbale si accompagnava ad un elemento corrosivo ed irriverente nelle figure dei capuchons de fous, prototipi 31 Questa e le seguenti considerazioni di Emile Picot sono nell’apparato critico di RGS. 40 comici delle maschere con orecchie da somaro e toga, riprese poi dalla tradizione corporativa e goliardica. Dall’altra parte il modello base per la formazione del teatro professionale: saltimbanchi ed imbonitori da fiera, le figure insomma più somiglianti a questi performer ante-litteram di cui numerose sono le testimonianze nelle farse e nelle sottie. Lo studioso francese ricorda a questo proposito la farsa dei Trompeurs trompés par trompeurs,32 in cui si raccontano le disavventure di un gruppetto di «Enfants Sans-Soucy» cui vengono rubati i vestiti per vendetta. Detto per inciso questa farsa di D’Adonville come per la Reformeresse basta da sola a mettere in evidenza la paradossalità di ogni classificazione per generi, rivelando una volta di più che non esiste un confine preciso fra favolello, farsa e sottie: ad onta di una storiella tutta farsesca, con un riferimento preciso alle situazioni della goliardia parigina cui D’Adonville partecipò da giovane (supposto dato realistico della farsa), vediamo che i personaggi non hanno alcuna caratterizzazione nominale comparendo piuttosto come generici Trompeurs (supposto dato allegorico della sottie), dal punto di vista formale, inoltre, manca ogni forma di dialogo, ma in compenso è presente un acteur che parla in versi (modello formale del fabliau). Ed anche nozioni sul mondo dello spettacolo parigino che fin qui sono state date per scontate (come l’esistenza nelle varie città di gruppi teatrali dagli stili ben caratterizzati e costanti nel tempo e la precisa regolamentazione corporativa di questi gruppi) sono in realtà da rivedere, dal momento che dalle cronache del periodo gli Enfants Sans-Soucy si confondono facilmente con i membri della “bazoche” e questi con i clerc della Sorbona. […] je dirai que des « solutions » comme la Basoche (difficile à circonscrire), les Enfants-sans-Soucy (qu’en saiton, en fait ?), comme les collèges (la Cène des dieux: « un des rares exemples que nous ayons de l’ancien théâtre de collège » selon Eugénie Droz et Halina Lewicka), comme le peuple sont d’une part d’une trop grande gratuité et soulèvent d’autre part d’insurmontables problèmes. Les explications sont anciennes, en quelque sorte, et l’on a toujours cherché à faire rentrer les nouvelles informations, les nouveaux textes, dans les rangs des « anciennes informations ». Il est temps, peut-être, de procéder à une révision de ces vues.33 Seguendo la divisione proposta da Emile Picot, arriviamo ad un altro sottogenere di sottie denominate secondo lo studioso jeu de pois pilés, più espressamente pensate per la messa in atto di vere e proprie azioni sceniche o letture pubbliche.34 32 ATF, t.II, p.244-263. J. KOOPMANS, 2004a : p.2. 34 RGS : t.I, pp.V-VI, n. 33 41 Da questa schematizzazione della critica tardo-positivista emerge una sola differenza fra i jeu de pois pilés e la sottie di tipo “non performativo”: la divisione in strofe, che ancora una volta però non può essere un elemento sufficiente di caratterizzazione. Emile Picot in generale esagera con il suo tentativo di storicizzazione dei primi fenomeni letterari drammatici in chiave rigidamente diacronica, ripetendo un atteggiamento mentale proprio del XIX secolo: secondo tale opinione “evoluzionista” intorno al XIV secolo iniziò il tramonto della «fatrasie», superata dalla sottie, benché questo mélange insensato e giocoso si reincarnasse poco dopo sotto la forma del coq-à-l’âne. Quest’ultimo “genere” si caratterizza ancora per il disinteresse al senso generale della trama: l’espressione «sauter du coq à l'âne» equivale infatti in francese all’italiano «saltare di palo in frasca». Dopo l’invenzione del coq-à-l’âne – prosegue Emile Picot – la definizione «fatras» continuò ad essere utilizzata in particolare per le raccolte di opere poetiche brevi, la cui struttura narrativa entrò a far parte di combinazioni casuali all’interno delle raccolte. Un esempio può essere il testo di Antoine Du Saix che prende il titolo di Petitz fatras d’ung Apprentis, più noto sotto il nome di Esperonnier de discipline;35 il primato della composizione del coq-à-l’âne è attribuito a Clément Marot, ma Picot ci segnala come esista un esemplare di questo genere poetico di poco precedente: la prima «epistola» di Marot a Lyon Jamet è del 1531 mentre Eustorg de Beaulieu pubblicò un coq-àl’âne nel 1530 nei suoi Divers Rapportz.36 Sono evidenti gli anacronismi nel discorso di Picot, che fa menzione anche di due ulteriori declinazioni del coq-à-l’âne: quella politica e quella “provinciale” – detta «fricassée» – che si sviluppa in Normandia e la cui caratteristica, oltre alla lingua intrisa di dialettismi, è l’inserimento nel tessuto poetico di canzoni popolari, motti e detti (fatto che per quanto ci riguarda è assai comune pure nelle farse e nelle sottie). E ci segnala così l’esempio più importante, la Fricassée crotestillonée (1557), composizione giocosa ricca di formule infantili e canzoni tradizionali, da cui deriverebbero altre forme più tarde e più espressamente teatrali come la Comédie des Proverbes (1633) e la Comédie des Chansons (1640). Emile Picot non solo sostiene la necessità di divisione dei generi, ma inquadra anche una serie piuttosto precisa di sottogeneri e sottocategorie, tutte con la precisa intenzione di sviluppare una evoluzione storica in continuum dello spettacolo medievale verso Molière. Innanzi tutto, ci dice, le sottie si dichiarano tali nel titolo; in secondo luogo si caratterizzano per i personaggi, designati col 35 A. DU SAIX, l’Esperonnier de discipline, Lyon, O. Arnoullet, 1538. C. MAROT, L’épistre du Coq en l’Asne, s.d.n.l., f.b5., (P. R. AUGUIS, 1824 : t.I, p.500) e Eustorg de Beaulieu, Divers Rapportz, (M. A. PEGG, 1964). 42 36 nome di “sot”, “fou”, “galant”, “compagnon”, “pèlerin”, “ermite”; ed infine per la presenza di una o più caratteristiche proprie della fatrasie. Anche la processione giocosa viene giustificata nel medesimo plesso teorico: inserite in un più ampio contesto festivo le sottie avrebbero progressivamente preso la forma di rappresentazioni pubbliche e di piazza, diventando trionfi carnevaleschi e parate. 43 1.2 – Il problema della performance. 1.2.1 – Spettacoli come varietà drammatici. Le farse contengono di tanto in tanto indicazioni di scena che segnalano una notevole attenzione all’aspetto esecutivo sul catafalco. Cercheremo qui di vedere qualche esempio di indizio performativo contenuto nelle pièce. Nella Farce du pasté et de la tarte37 il Coquin si rivolge direttamente al pubblico, dichiarando le proprie finalità mendaci in modo rapido, con uno scatto metateatrale degno di Shakespeare o Molière; nella sconcia farsa delle Femmes qui font escurer leurs chalderons38 una serie di scenette e metafore oscene è seguita da un consiglio diretto ai gentiluomini del pubblico: che non tralascino di aver cura del calderoni delle mogli perché il nostro attore-riparatore è stanco delle attenzioni delle donne d’altri. La farsa delle donne Malle teste et tendre du cul – altro procedimento dialogico osceno improntato per paradosso formale sulle forme della conversazione filosofica – esprime in più passi indicazioni di esecuzione piuttosto significative, che lasciano intendere come la pièce fosse pensata per la rappresentazione: non compare alcuna indicazione tipografica esplicita per marcare i cambi di scena, 37 38 ATF, t.II, pp.64-79. ATF, t.I, pp.90-105. 44 è vero, ma in un passo del dialogo il marito taglia artificialmente la conversazione con un «Icy concluons qu’il n’est femme | Qu’il n’ayt mal cul ou malle teste»;39 subito dopo si dà per scontata l’uscita di scena dei due uomini e vediamo le due donne impegnate in una conversazione intima e segreta. Più avanti la nota di scena “esce” dalla battuta e si fa esplicita: in un passo tragi-grottesco si legge ad esempio il gerundio plorando. L’uso del latino per esprimere una attitudine scenica indica il rapporto di queste composizioni “popolari” con la retorica, anche se più avanti l’enfasi gestuale è delegata al language familier quando in una nota di scena per simulare uno scatto d’ira e di disperazione si indica all’attrice di prendere il marito per il volto, o nei vari «en chantant», «en riant», indicati di fianco alle battute. Per la fine del XV e l’inizio del XVI secolo la storiografia classica ha di solito distinto le rappresentazioni straordinarie – organizzate ad intervalli irregolari da preti o borghesi che avevano un approccio amatoriale e quindi occasionale alla scena – dalle recite “professionali”, che venivano eseguite da veri mestieranti con maggiore regolarità. Le prime erano eventi municipali, esecuzioni di misteri celebrati con pompa a rappresentanza delle città, che concorrevano fra di loro per esibire fasto e prestigio, in un’ottica competitiva fra borgate, confraternite ed unità produttive della città. Alla fine del medioevo il lusso delle scene e dei costumi, il numero di personaggi e la durata dello spettacolo sembrano avere proporzioni sempre crescenti e non esiste una vera differenza di investimenti fra la provincia e Parigi. Le recite dei primi commedianti di professione (per lo più imbonitori di strada e cerretani) non esigevano al contrario una particolare messa in scena: gli attori, sollecitati anche dalla mobilità e dalla ricerca di piazze, avevano poche cose con loro ed i materiali di scena “da asporto” si riducevano a qualche tavola in legno ed ai costumi, privilegiando l’utile al fasto. In questo caso le rappresentazioni avevano una maggiore varietà di forme e moduli stilistici e le attitudini performative della professione dell’attore divenivano decisive e compensavano in creatività quanto mancava dal punto di vista materiale. Non si deve tuttavia pensare a due contesti distinti: come sarà per il teatro “dell’Arte” l’ambito pubblico e quello professionale anche nel medioevo francese spesso coincidevano ed erano permeabili; in Parigi ad esempio non era raro che alle rappresentazioni delle municipalità partecipassero gli attori dei “faubourg”, come quelli “residenti” alla rue saint Denis: il momento del festeggiamento cittadino era una sorta di zona franca in cui – approfittando della provvisoria deregulation sociale che sempre accompagnava le celebrazioni – alle 39 ATF, t.I, pp.145-178 : pp.152-153. 45 rappresentazioni ufficiali potevano unirsi facilmente tutte quelle pratiche artistiche a vario titolo legate al mondo del mercato, delle fiere e degli imbonitori. Nei secoli si fanno sempre più numerosi i decreti parlamentari e municipali che attestano la presenza di attività spettacolari di rappresentanza sia in Parigi che nella provincia; ma un dubbio sulla crescente quantità di questo genere di fonti rimane: bisogna cioè chiedersi se la maggiore menzione negli editti municipali delle “compagnie”, più che il segno dell’aumento del numero assoluto di questi mestieranti dello spettacolo, non sia invece da imputare al progressivo consolidamento delle istituzioni municipali e delle loro funzioni burocratiche e normative. Gli atti ufficiali presentano inoltre un limite significativo: è impossibile trarne indizi sulla tipologia delle rappresentazioni o sull’effettiva professionalità degli attori. Le rappresentazioni delle confraternite si svolgevano anche al di fuori delle feste cittadine e spesso erano organizzate per iniziative ed eventi legati alla vita privata dei confratelli: e capitava pure che le sottie venissero eseguite dopo le cerimonie funebri: ne è testimone un passaggio del diario di Poncelet, «Meusnier» di Troyes: «1545. Le Ier jour d’aoust, en ceste ville, le prince Gombault et ses sots jouerent la galée, ou trespas du prince Mauroy, lesdicts autres sots trespassés; et ensuite commencerent à jouer la sottise.»40 Le recite delle varie confraternite Sans-Soucy sono quelle che ci donano anche una idea di massima sullo svolgimento dei cartelloni comici: eventi multipli con una scaletta che dalle pur scarse testimonianze in nostro possesso la critica ha voluto immaginare rigidamente organizzata e che invece sembra fosse assai variabile. L’unica regola di massima sembra fosse l’assemblaggio di più pezzi drammaturgici in un varietà drammatico unitario: tranne qualche raro caso, insomma, le pièce non erano composte per essere rappresentate da sole. Secondo la visione classica della critica i varietà spettacolari cominciavano con una sottie e si chiudevano con una moralità ed una farsa; l’elementarità e l’insensatezza dello sketch iniziale erano caratteristiche perfette per l’apertura delle recite: il pubblico poteva sopraggiungere anche durante gli spettacoli, senza aver bisogno di conoscerne il tema. Inoltre la facilità dei giochi di scena costituiva una sicura attrazione per le platee, ed esercitava una funzione di richiamo del pubblico. La moralità, centro dell’evento, era la pièce più complessa ed articolata; aveva un contenuto religioso tratto più che dalle scritture, dalla tradizione popolare e municipale, e per questo non privo di una certa verve d’intrattenimento comico. 40 N. DARE, 1882 : p.437. 46 In realtà sulla successione del programma non regna alcuna chiarezza: ed è vero che siffatto “varietà” viene provato da una sola fonte storica certa, attendibile e non lacunosa; la rilegatura originale di diverse pièce nell’unico volume del Jeu du prince de sots di Pierre Gringore. Ma non ci è dato sapere se oltre alle recite municipali questa struttura venisse adottata anche in altri ambiti dello spettacolo e se costituisse davvero un’aspettativa per il pubblico. Se non siamo sicuri sul loro ordine di successione, tuttavia non ci sono dubbi sul fatto che i pezzi drammatici fossero concepiti in abbinamento fra di loro, non foss’altro per la brevità delle pièce e la loro frequente allusione allo svolgimento di altri spettacoli. A prescindere se funzionasse o meno come cornice, un genere di ridotto respiro e durata come la sottie doveva avere all’incirca gli stessi moventi dell’intermezzo del teatro di corte italiano: doveva funzionare cioè da giuntura e snodo in un contesto scenico narrativo complesso e variegato. La sottie era poi strettamente imparentata con le forme dell’”esibizionismo sociale”, meno formalizzate, è vero, ma non per questo di minore influenza sul processo di formazione dello spettacolo moderno: è il caso dei cry, i richiami dei mestieri o delle scenette orchestrate per la vendita dei prodotti al mercato – formule da allibratori o da circo magico – di cui le sottie non di rado riproducono parodicamente i toni. Questa attitudine mimetica riscontrabile sia nella farsa che nella sottie è un’altra prova della labilità d’una classificazione secondo criterio di realismo: la sottie, genere astratto, si mostra “mimetica” quanto la farsa, cui invece si è tentato di attribuire – con una mostruosità storica oggi evidente – tutti i tratti della letteratura borghese, con le rivendicazioni socialiste dei matti da una parte e la difesa dei princìpi dell’ancien régime dall’altra. Le pièce che si auto-qualificano sottie ricordano sovente il passaggio estemporaneo di vari “cerretani”, in parate che non avevano alcun senso, se non quello di catturare gli sguardi, ma che evocavano anche uno sconfinamento della vita nel teatro: dalla strada il mendicante o il venditore passava al palcoscenico e vi entrava quasi per gradi, giocando all’inizio della rappresentazione a far propria la piazza. Laddove un intermezzo eclettico è un fatto straordinario per un’avanguardia del Novecento, che deve vincere contro il teatro borghese dominante e che usa il nonsense come strumento “agitprop”, la contiguità fisica con la piazza e l’inesistenza di una tradizione normativa rendono naturale (neutrale) nella farsa dell’evo medio un simile procedimento. Se poi esistono dei riferimenti precisi e reciproci fra farse e sottie, nella maggior parte dei casi le allusioni non sono vincolanti e possiamo immaginare l’organizzazione di uno spettacolo come la 47 composizione di un puzzle, in cui ogni elemento può essere ricombinato con gli altri, nella formazione di eventi spettacolari sempre diversi. Anche le stampe antiche di un buon numero di pièce profane assecondano questa “logica modulare” dello spettacolo: come nella raccolta Trepperel, esse erano impresse in fascicoli tascabili che potevano essere accorpati a più riprese, a seconda probabilmente delle circostanze della recita e delle diverse scalette da giocare. Eventi così implicavano spesso la realizzazione di raccolte come quella, appena citata, del Jeu du Prince des Sotz di Pierre Gringore; si ha poi il caso della Moralité de Mundus, Caro, Demonia la quale però ci è pervenuta rilegata soltanto con una farsa – quella, celebre, dei deux Savetiers – e che si ipotizza fosse preceduta originariamente da una breve composizione poetica, forse, appunto, una sottie. Nel Journal d’un bourgeois de Paris al mese di aprile 1515 leggiamo le notizie sull’attività di un certo mastro Cruche imbonitore di folle e performer dalla lingua biforcuta:41 il prete viene citato anche da Pierre Grognet come uno dei più eccellenti attori-autori di farse del suo tempo.42 Il fatto ci interessa soprattutto perché da esso si evince una differente struttura dello spettacolo, per cui la sottie non avrebbe altro scopo che quello di attrarre il pubblico. Secondo il nostro borghese, alla scenetta dell’inizio seguirebbero un monologo o un sermone gioioso (che dovevano mettere di buon umore gli spettatori) ad introdurre la moralità: la farsa viene menzionata per ultima ed avrebbe lo scopo di chiudere lo spettacolo in allegria. Questa cronaca aggiunge al cartellone la recita d’un ulteriore modulo, il sermone gioioso o il monologo, e cambia la successione degli eventi, allontanando reciprocamente la rappresentazione 41 « En ce temps lorsque le roi estoit a Paris, y eut un prestre qui se faisoit appeler monsr Cruche, grand fatiste, lequel, un peu devant, avec plusieurs autres, avoit joué publiquement a la place Maubert, sur eschafaulx, certains jeux et moralitez, c'est assavoir sottye, sermon, moralité et farce; dont la moralité contenoit des seigneurs qui portoient le drap d'or a credo et emportoient leurs terres sur leurs espaules, avec autres choses morales et bonnes remonstrations. Et à la farce fut le dit monsieur Cruche et avec se complices, qui avait une lanterne, par la quelle voyait toutes choses, et, entre autres, qu’il y avait une poule qui se nourrissait sous une salamandre : laquelle poule portait sur elle une chose qui était assez pour faire mourir dix hommes. Laquelle chose était à interpréter que le Roi aimait et jouissait d’une femme de Paris qui était fille d’un conseiller à la cour de Parlement, nommé monsieur le Coq. Et icelle était mariée à un avocat en parlement très habille homme, nommé monsieur Jacques Dishomme, qui avait tout plein de biens dont le Roi se saisit. Tôt ou après le Roi envoya huit ou dix des principaux de ses gentilshommes, qui allèrent souper à la taverne du Château, rue de la Juifverie; et là y fut mandé, à fausses enseignes, le dit messire Cruche, faignant lui faire jouer la dite farce; dont lui venu au soir à torches, il fut contraint par les gentilshommes jouer la dite farce; par quoi incontinent et du commencement, celui-ci fut depouillé en chemise, battu de sangles et merveilleusement et mis en grande misère. A la fin il y avait un sac tout prêt pour le mettre dedans et pour le jeter par les fenêtres, et finalement pour le porter à la rivière; et c’eût été fait, n’eût été que le pauvre homme criait très fort, leur montrant sa couronne de prêtre qu’il avait en la tête; et furent ces choses faites comme avouées de ce faire du Roi. » L. LALANNE, 1854 : pp.13-14. 42 Pierre GROGNET, la Louange et excellence des bons facteurs qui ont composé en rime in Motz dorez du grand et saige Cathon, Janot - Longis, 1533 : t.II, ff.22r-24v. 48 della farsa e della sottie: ciò che è in contrasto con la rilegatura del Jeu di Gringore. Tuttavia il pezzo iniziale del Jeu di Gringore, incluso nella sottie, è un cry, appello per far accorrere pubblico e sot ed è costruito sui moduli formali dei vari sermoni da strada. Un altro cronista e storico del periodo, Jehan de Roye, ci riferisce come per la pace di Arras del 23 dicembre 1482 il cardinale di Bourbon avesse commissionato nelle sue abitazioni parigine una moralità, accompagnata da una sottie e da una farsa,43 cartellone più vicino a quello del Jeu di Gringore, ma rispetto ad esso più esiguo. Si direbbe che le testimonianze appena scorse sono lì a mostrare semplicemente come le messe in scena fossero fatte di registri variabili e che difficilmente uno spettacolo poteva comporsi di una sola pièce, trattandosi piuttosto di menu articolato su molteplici registri: si potevano inserire farse e sottie senza alcun legame con il centro dell’evento e con una grande disinvoltura nella successione e nell’alternarsi dei vari episodi performativi. Da qui a cercare di individuare una pratica comune a tutti i menu o varietà medievali la strada è in salita, vista l’esiguità delle fonti che non autorizza statistiche attendibili: bisogna chiedersi se non sia allora un errore il voler individuare una prassi rigida nella successione degli spettacoli. 1.2.2 – Funzioni “epiche” e moventi pratici. La fama storica dei sot risiede probabilmente nell’abilità esecutiva di pezzi “acrobatici”. Durante misteri e moralità non è raro vedere alcune loro sporadiche comparse: può accadere sia per fornire informazioni al di fuori della finzione (in una momentanea “sospensione della credulità”), sia per appelli diretti allo spettatore. Rileviamo allora un dato fondamentale, e cioè che questa particolare categoria di imbecilli scenici – che si differenziano dai niais soprattutto per una certa carica enigmatica ed una ridotta attitudine ad orchestrare tranelli e jeu de ruse – possiede un buon coefficiente di freddezza scenica, che con anacronismo brechtiano potremmo nominare “epica del ruolo”: il sot è un personaggio esterno alla narrazione. A differenza del niais, non attiva nessuna machine à rire e può servire da supplemento esterno, didascalia o segno marcato di finzione. Questa natura straniante del sot è più evidente nei 43 L. PETIT DE JULLEVILLE, 1886 : p.343. 49 pezzi seri: troviamo per esempio “figurini biomeccanici” nel mistero della Passion de Troyes o nella moralità di Saint Bernard de Menthon. Le comparse “fuori contesto” assecondano una pratica scenica probabilmente consolidata: sappiamo che a Parigi i sot partecipano alla “cultura scenica ufficiale” e li vediamo prendere parte agli allestimenti delle confraternite della Passione. Si registrano per esempio lazzi di sot nelle rappresentazioni sacre e profane donate all’Hôpital de la Trinité, all’Hôtel de Flandres ed all’Hôtel de Bourgogne, fino all’installazione in pianta stabile di una non meglio precisata confraternita “sottesca” in una casa detta dei Sotz Attendans, in Parigi, rue Darnétal.44 Si aggiunga anche il caso del mistero di Saincte Barbe45 dove i sot subiscono una mutazione rustica, diventando niais impiegati a stemperare i toni drammatici e riportare l’azione ad un contesto triviale. In questi casi di ibridazione, fra l’altro molto comuni, si possono scorgere talvolta i riflessi della satira rusticale, modulata a partire dalla commedia latina e dalle atellane e che possiede molti tratti in comune con lo spirito sovversivo del medesimo personaggio presente nella pastorale italiana o nell’attività ben più corrosiva di Ruzzante. Questo esercito di niais, sot e Jehan si trasformerà, con spiccata assonanza, nello “stoltoastuto” Zanni (Giovanni | Gianni) italiano. Nel mistero di Saint Adrien,46 rappresentato nella seconda metà del XV secolo in area fiamminga, la metamorfosi sembra essere già avvenuta e vediamo il catafalco popolarsi di paesani incolti, i Rustieur. La linea di sovrapposizione con la pastorale viene confermata anche nella Incarnation et Nativité de nostre Saulveur et Redempteur Jesuchrist,47 mistero di area rouennese probabilmente realizzato nel 1474, dove il ruolo del pazzo è ricoperto appunto da un pastore: sappiamo del resto come la poesia a sfondo villanesco funzionava frequentemente come cornice per storie di più impegnato orizzonte morale. Tutti questi casi di ibridazione dimostrano da una parte come sia quasi impossibile distinguere un sot da un niais e come questi personaggi eclettici si prestino particolarmente ad assolvere funzioni intermediali nell’economia degli spettacoli: quando non si tratta di presenze 44 Oggi rue Greneta, nella parte che collega la rue St. Martin con la rue Saint-Denis. Nomi antichi della via sono rue d’Arnetal ou Darnetal, Dernetat, Drenetat, Darnestat. Darnetal, è parola normanna che designa un vallone: l’installazione successiva sulla strada di un grosso granaio e di un commercio di semi sono all’origine dell’attuale toponomastica. La rue Darnetal veniva anche chiamata rue de la Trinité a causa della vicinanza con l’Hôpital de la Trinité che venne edificato sotto Filippo-Augusto e che durante il regno di Francesco I era stato convertito nella “Cour de Bleus”, collegio per l’istruzione professionale degli orfani. La sala più grande della Trinità fu trasformata in teatro dai Maîtres Gouverneurs e dai Confrères de la Passion et Résurrection de Notre-Seigneur: per circa un secolo questa zona di Parigi fu lo scenario di misteri, farse e moralità. 45 M. LONGTIN, 1996. 46 E. PICOT, 1895. 47 I. M. FANGER, 1972-1973. 50 parlanti, i sot esercitano semplicemente le loro attitudini “biomeccaniche” sulla scena, a stemperare l’azione drammatica delle vite dei santi o delle imprese religiose. In un passaggio della farsa del Bateleur48 il protagonista invita il valletto ad imparare i suoi salti. Sus! faictes, le sault: hault deboult; Le demy tour, le souple sault, Le faict, le defaict, sus! J’ey chault, J’ey froid. Est il pas bien appris En efect? Nous avrons le pris De badinage, somme toute.49 Lo stesso Jehan d’Abundance introduce nella Moralité, Mystere et Figure de la Passion de nostre Seigneur Jesus Christ giochi fisici e lazzi: nella pièce compaiono ben cinque intermezzi eclettici, ed è significativa l’esistenza di una distinzione interna al mistero fra azione comica ed azione seria, segno di un cosciente dispositivo di dosaggio dei pezzi comici, a dimostrare come almeno nel panorama dei misteri l’attenzione degli autori fosse focalizzata sul gradimento del pubblico. Anche nel primo teatro moderno italiano l’intermezzo funziona come un importante territorio di sperimentazione scenica, incoraggiata dalla libertà propria del ruolo funzionale di questi nell’evento scenico; e dai modi dell’intermezzo “manierista” prenderanno forma il teatro musicale e la pastorale. Non ci sorprende pertanto che le composizioni “interstiziali” del teatro comico francese (che convenzionalmente continuiamo a chiamare sottie, ma che a seguito delle considerazioni fatte fino ad ora sul problema di genere potremmo anche definire “farse brevi”) fossero quelle in cui la sperimentazione ricopriva un ruolo centrale. Tali intermezzi, caratterizzati nella scena italiana da una forte tendenza plastica e figurativa – il cui apice sarà nel XVII secolo la messa a punto della scenotecnica moderna – sembrano delegati in Francia interamente all’abilità dell’attore, con modalità che somigliano straordinariamente a quelle della commedia professionale italiana. Leggiamo sovente nell’opera di Jean D’Abundance indicazioni di scena come queste: «Icy faut une passée de sot, ce temps pendant qu’ilz vont devant Moyse», «Icy faut une clause de sot, ce temps pendant, que Nature va devers le Prince»,50 che sottintendono la presenza se non proprio di un repertorio, di un certo margine di convenzionalità nella definizione di ruoli e personaggi. 48 Rec. LEROUX, t.IV, n°17. Con un ottimo commento introduttivo anche in Rec. TISSIER, t.II, pp.185-228. 49 Ibidem : p.195. 50 Jehan d’ABUNDANCE, Moralite mystere et figure de la Passion Jesus Christ, Benoist Rigaud, Lyon, s.d., (XVI sec.). 51 Queste testimonianze mettono in risalto come – sebbene in seguito la Commedia dell’Arte impose forme, modi e pratiche in Francia con ascendente senza eguali – la cultura scenica d’oltralpe fosse pronta a recepire la drammaturgia del lazzi proprio perché verso la fine del medioevo si era già formato un pubblico abituato a consumare questo tipo di performance. Certo è che da un approccio occasionale, la Commedia dell’Arte traghettò lo spettacolo ad una dimensione più espressamente commerciale, slegata dalle feste. Basta una lettura anche superficiale per constatare come le sottie fossero una miniera di battute, salti e capriole: le parole «sot» e «saut» sono frequentemente usate per fraintendimenti e giochi linguistici basati sull’ambiguità fonetica: la casistica di questi divertissement verbali è tale che la medesima origine del nome dei protagonisti va forse ricondotta all’attitudine scenica del salto. Abbiamo anche qualche testimonianza a confortare la “biomeccanica sottesca”. Pare ad esempio che il celeberrimo Jehan Du Pont-Alais fosse un abile saltatore e che la sua tecnica fosse assai evoluta; nelle Satyres chrestiennes de la cuisine papale51 di Pierre Viret lo si fregia di una complicata capacità: il difficile «saut à la mode ionique». Da menzionare il caso de les Bateleurs ove si impiegano termini specifici per salti ed acrobazie: è segno dell’esistenza di tecniche e repertori gestuali specifici? I costumi dei sot erano caratterizzati da un «sac a coquillons» ovvero «chaperon a fol», completato da orecchie d’asino, farsetto, calzamaglia colorata: una delle testimonianze grafiche più celebri del costume del sot è la nota marca “Mere Sotte”, utilizzata in numerose edizioni fra XV e XVI secolo, ed in special modo adottata come segno distintivo da Pierre Gringore. Clement Marot fornisce una descrizione dettagliata del personaggio del sot nella sua seconda Epistre du coq-à-l’âne. Attache moy une sonnette Sur le front d’un moine crotté, Une oreille a chasque costé Du capuchon de sa caboche Voilà un sot de la Bazoche Aussi bien painct qu'il est possible.52 Ancora nel 1616 Parigi ospitava le pubbliche rappresentazioni di sot, benché la drammaturgia francese fosse passata per il profondo rinnovamento messo in atto dai poeti della Pléiade e dalle performance per la casa reale dei comici dell’arte: all’inizio del ‘600 la confraternita della Bazoche 51 52 Pierre VIRET (?), Satyres chrestiennes de la cuisine papale, Conrad Badius, Genève, 1560. Clement MAROT, L’épistre du Coq en l’Asne, s.d.n.l., f.b5., (P. R. AUGUIS, 1824 : t.I, p.500). 52 aveva ancora la sua sede presso l’Hôtel de Bourgogne, suo principe supremo era un tale Nicolas Joubert, signore d’Angoulevent, che ingaggiò anche un’aspra polemica con l’«archipoete des Pois Pillez», ulteriore autorità estemporanea del mondo comico della capitale francese. È questo il periodo per il quale abbiamo il maggior numero di fonti storiche accreditate: l’errore di metodo più importante della storiografia teatrale fra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo è forse proprio quello di avere plasmato il proprio punto di vista sul teatro francese della fine del XV secolo usando artificialmente queste fonti, posteriori di almeno cento anni: si spiega così la forte attenzione manifestata da questi studiosi a forme artificiali (ed affascinanti) di classificazione come i vari regni di Bazoche, Sans-Soucy e Poiz Pillés. Comunque, l’associazione di questi sot parigini venne sciolta nel 1632, assieme anche alla confraternita della Passione che, come è noto, contro la Commedia dell’Arte ingaggiò una battaglia furiosa per la conservazione delle sale di rappresentazione sulla città.53 L’esistenza dello spettacolo e la messa in atto dei testi in scena pone di riflesso anche la questione del pubblico: nessun studioso fino a questo momento è stato sufficientemente chiaro a questo proposito e nella maggior parte dei casi gli storici non hanno fatto che sviluppare le proprie impressioni personali, in molti casi suggestive ma per lo più prive di analiticità. C’est qu’au sujet du public de ces pièces, tous les manuels, toutes les études ont leur réponse, conventionnelle ou toute faite, mais celle-ci ne repose, le plus souvent, que sur une impression personnelle de l’auteur. Le public « populaire », les « badauds de Paris », la marginalité estudiantine: autant de constructions de l’esprit, autant d’affirmations gratuites. Citons en exemple la récente histoire du théâtre médiéval de Mazouer. A propos de la farce, celle-ci affirme: « Le plus souvent théâtre de plein air, théâtre populaire et ouvert à tous, gratuit (…) la farce dressait ses tréteaux sur la place publique » (p.313) et puis « Quelques peintures ou gravures nous montrent… ». Or, l’écrasante majorité des farces et sotties conservées nous viennent de Paris, du début du XVIe siècle, mais les « quelques peintures ou gravures » nous viennent des Pays-Bas et sont plus tardifs. En quoi, d’ailleurs, une « Kermesse de village » attesterait une situation parisienne. Pour les sotties, le même savant affirme « il faut imaginer le dispositif commun au Moyen Âge » (p.383), mais pour certaines sotties-jugements « une salle close, avec une porte et des fenêtres », alors que « Pour les autres sotties, on utilisait sans doute un dispositif proche de celui des farces ou des moralités » (p.383). […] Avant de problématiser les choses, notons simplement qu’à cette date, la critique a privilégié le problème du public des genres à celui du public des textes – quitte à admettre que pas toutes les farces ne s’adressent à un même public, quitte à concéder que le public des sotties parisiennes de la période 1490-1529 n’est pas celui des sotties de Genève de 1523 et 1524 ni, a fortiori, celui des sotties normandes du manuscrit La Vallière, issues des controverses religieuses. Ma proposition serait de partir de l’étude d’exemples concrets, de textes connus, de documents d’archives univoques, avant de se laisser aller à cœur joie à des affirmations générales mais gratuites qui, à ce jour, font autorité. Mille choses seraient à revoir : le dispositif scénique des farces 53 La querelle e gli ostracismi della confraternita della Passione contro i comici dell’arte sono documentati minuziosamente in Siro FERRONE (1993). 53 (basé gratuitement sur des documents iconographiques du Nord, voire des Pays-Bas sans que leur représentativité soit jamais questionnée), la position de la Farce de maître Pathelin (nullement représentative, mais considérée comme le modèle du genre : une farce qui « rompt avec la tradition des farces » vers 1460, selon Michel Rousse, alors que selon ce même savant, ce genre date des années 1460-1560 !) […]. A revoir également, mais là la mer à boire devient un océan, les datations et localisations de bien des farces et sotties […]. 54 È necessaria una visione critica più prossima alla sensibilità della critica moderna, perché fino a questo momento si sono trascurate le problematiche della performance, tralasciando anche di effettuare una verifica minuziosa delle teorie spesso astruse prodotte dalla storiografia di marca ottocentesca. Si è detto che l’immagine deformata di questo periodo dipende in parte dalla convinzione che fosse un blocco monolitico, senza evoluzioni dinamiche interne. Non si capisce per quale ragione le altre forme drammaturgiche, come la moralità ed il mistero, siano state considerate al contrario come un insieme fluido e dinamico nel tempo. E bisogna riflettere innanzi tutto sulle fonti principali della prima drammaturgia francese, senza troppo mescolarle con i giudizi a priori maturati nell’analisi delle fonti successive (soprattutto del XVII secolo). Ricapitolando quanto detto in alto, le farse ci sono pervenute attraverso un numero piuttosto limitato di fonti: il capolavoro comico è Pathelin, che viene stampato attorno al 1485, da solo.55 Abbiamo poi delle sottie manoscritte difficili da datare ma che possiamo collocare con un certo margine di sicurezza alla fine del XV secolo; i prodotti delle presse parigine del libraio specializzato Trepperel, rimontano invece al periodo 1507-21 e rappresentano una buona metà del repertorio attualmente a nostra conoscenza, costituendosi in due raccolte di base: la Trepperel, appunto, e la più recente (per data media di impressioni e per rinvenimento in età contemporanea) Recueil de Florence. Poi c’è la raccolta detta del British Museum, il cui assemblaggio rimonta al 1550, e che è di origine lionese, pur includendo alcune impressioni dovute ancora alla famiglia Trepperel. A queste fonti principali possiamo aggiungere il manoscritto rouennese La Vallière, che rimonta al 1575. Si tratta quindi di un insieme tutt’altro che compatto di testi, e per giunta collocato in un arco storico in cui anche il più piccolo spostamento nell’Esagono implica grosse differenze linguistiche e 54 J. KOOPMANS, 2004a : p.2. Rec. JACOB, 1859, pp.19-117. La prima edizione della farsa di Pathelin fu pubblicata con ogni probabilità attorno al 1485 da Guillaume Le Roy (cfr. Repertorio TCHEMERZINE, t.IX, p.123, l’edizione anastatica di E. PICOT (1907) e A. CLAUDIN, 1900-1914 : t.III, p.89. L’esemplare conservato alla BNF, sala Y, è l’unico noto esistente della tiratura ed è tronco dei ff. 8, 37, 43 e 44, rimpiazzati “à la plume”dal bibliofilo anticamente proprietario del testo, Walter Arthur Copinger, che li ha estratti dall’edizione successiva del 1489. 54 55 culturali: si va dalla Parigi di Luigi XII alla Lione italianizzata del 1550, passando per Rouen, capoluogo normanno sferzato dai disordini religiosi. Perché allora questo corpus è stato considerato unico ed omogeneo fino ad ora? La risposta è che ha sempre prevalso l’ipotesi secondo la quale, ad onta della loro data di acquisizione in repertorio o della loro impressione a stampa, tali testi dovessero rimontare ad una tradizione di ben più lunga durata: all’alto medio evo addirittura per alcuni, che ipotizzavano una lunga opera di trasmissione in forma manoscritta. È chiaro che anche analizzando i repertori drammatici – ciò che faremo noi stessi nel prossimo capitolo a partire proprio dalla traccia della critica positivista – ci si rende conto di alcune straordinarie affinità nel tempo fra letterature popolari di ogni tipo e farse, a prescindere dalla zona geografica di origine. Alcune storie ed espedienti narrativi provengono dalle ricche collezioni di leggende indiane ed orientali, un fatto che è plausibile da un punto di vista, per così dire, concettuale, specie per grandi aree di interesse tematico. Del resto la storia delle culture non si sviluppa a compartimenti stagni e pertanto è sempre possibile trovare corrispondenze d’ogni tipo, più o meno dirette, esplicite, consapevoli. Quando però si parla di trasmissione diretta ed influenze reciproche fra repertori bisogna avere in mente coordinate cronologiche e geografiche limitate per una ragionevole comprensione dei fenomeni storico-letterari che ci interessano. È poco realistico affermare che una forma di espressione come la farsa abbia radici dirette nel profondo nel Medioevo, giacché sarebbe inspiegabile il fatto che una letteratura così prolifica già dai propri principi stilistici (che sono la modularità, la serialità, l’imitazione) non abbia lasciato dietro di sé alcuna traccia. Se ne ricava che non bisogna confondere fra radici tematiche, linee di tradizioni narrative ed evento letterario in sé e che è bene considerare il fenomeno letterario come un insieme più o meno complesso, senza mai dimenticare che esso è hic et nunc, manifestazione singolare di contesti ed urgenze contemporanee. In questo modo ci si può riallacciare più fedelmente al senso del teatro comico francese delle origini e si potranno visualizzare i dati storici senza troppe astrazioni critiche: la raccolta Trepperel e quella di Firenze conterrebbero pièce parigine del XVI secolo; la serie del British Museum opere per il “mercato” lionese della metà del 1500, ed il manoscritto La Vallière un repertorio normanno della seconda metà del XVI secolo. Armati di una simile prospettiva storica l’immagine del teatro profano francese cambia drasticamente e si annullano quelle ipotesi che, volendo vedere a tutti i costi in questi testi drammatici la fioritura 55 di una tradizione radicata nel passato o la base di un processo di consolidamento stilistico futuro, ne hanno spesso denaturato il patrimonio genetico. Tout cela peut nous amener à un premier constat. Un PUBLIC des farces et sotties, il n’y en a probablement pas eu. Des farces et des sotties ont eu des publics. Parfois celui-ci est à trouver dans un monde universitaire (Toulouse, Caen, Paris), parfois il s’agit d’un public mixte. Parfois celui-ci est nettement contestataire, parfois il assiste à de simples divertissements. […] D’une part le public des représentations mérite d’être circonscrit avec plus de précision; d’autre part le public des textes, qu’ils soient manuscrits ou imprimés attend toujours une définition plus nette. […] Une représentation suppose un public […] quand on interroge la documentation – tout en se posant des questions au sujet de la représentativité de celle-ci – l’image d’un répertoire fermé s’impose, et par là aussi l’image d’un public plus ou moins fermé. Ce qui semble impliquer, en même temps, une certaine connivence entre les pièces et leur public. […]. Retenons, pour l’instant, la possibilité d’une proximité du monde du théâtre et du monde de l’imprimerie. Essayons de nous figurer la possibilité selon laquelle les lecteurs et les spectateurs appartiennent à un même monde culturel. En 1522, de toute manière, ce sont les fatistes et les imprimeurs (au pluriel) qui seront emprisonnés pour avoir joué et imprimé une suite de pièces qui ne nous sont parvenues que grâce à un manuscrit qui est une transcription des pièces imprimées, une transcription copiant même – en couleur – les bois gravés de l’édition imprimée et mettant en scène, chose plus étonnante encore, le Livre comme personnage qui débite son propre colophon et qui thématise par là la vente d’éditions imprimées au sein même de la suite de pièces jouées 56. […] Selon moi, il n’y a pas de théâtre français du Moyen Age. Du théâtre, il y en a eu même si ce n’était pas, pour l’époque, du théâtre au sens strict. Des représentations, il y en a eu dans l’espace de l’Hexagone actuel, mais aussi ailleurs. Toutefois, il n’est nulle part établi que le Sponsus, le Jeu d’Adam, le Jeu de la Feuillée fassent partie d’une même tradition, d’une évolution claire et univoque (comme le veut par exemple Mazouer).57 Il rapporto della stampa con il teatro profano francese è un fenomeno che merita particolare attenzione, perché si profila autonomo e parallelo al contesto performativo in sé. Opere come la Reformeresse, ma anche le numerose allusioni contenute in varie farse e sottie sembrano dimostrare come stampa e stampatori non fossero meri vettori di trasmissione dei testi performativi, ma anche animatori, in un certo senso, del contesto spettacolare. Oltre alle influenze e alle ingerenze dirette della stampa sulla produzione drammatica, l’evoluzione del genere comico è influenzata da molteplici fattori locali. Nel nord della Francia, ad esempio, essa è determinata dalle gare drammatiche ed i testi alludono esplicitamente all’apparato burocratico che vi ruotava attorno: scambi e competizioni urbane, presenza delle giurie e del notabilato di paese, diverse influenze delle confraternite dei mestieri rispetto al contesto cittadino. Spesso ad influenzare il testo sono le cronache locali o le querelle estemporanee fra specifici gruppi culturali. 56 57 APF, t.XII,193-237 : pp.193-194 e 218. J. KOOPMANS, 2004a : pp.5 e sgg. 56 A Paris, par exemple, il peut s’agir de l’université qui défend l’honneur de Jeanne de France contre Anne de Bretagne et, partant, contre Louis XII ; à Toulouse, il s’agit de l’université qui s’en prend à des nominations récentes et vise directement le roi et le pape dans une défense des libertés Gallicanes ; à Genève il s’agit de la défense de l’alliance avec les cantons suisses, les Eidgnots, contre les partisans du duc de Savoie, les Mammelus ; à Caen, il s’agit dans la Farce de Pattes-Ouaintes de la réaction des suppôts de l’université contre l’imposition de la décime (par le roi et le pape), et de l’épidémie syphilitique de 1494 dans la Cène des dieux »58. È allora opportuno domandarsi se il pubblico fosse unico o diverso di volta in volta, non solo in relazione al testo o al genere, come è stato fatto fino ad ora, ma alle occasioni ed ai contesti cui esso è legato. Vediamo una serie di esempi che possano chiarire meglio questa differenza storiografica sottile, ma fondamentale. Sappiamo che la farsa de Pates-Ouaintes59 venne giocata a Caen nel 1494, per strada, e che essa entrava nel vivo del dibattito cittadino, ciò che implicò modalità singolari per la messa in scena: fu rappresentata davanti a duemila suppôt dell’università, ed in un luogo non “neutrale”, davanti cioè alla casa del prefetto per le tasse, Hugues Buriau, oggetto delle contestazioni accademiche. Il pubblico, gli attori, e i protagonisti reali si confondevano in una specie di protesta generalizzata, in un uso “pubblicistico” della scena. Si verificava qui un misto di connivenze fra i vari elementi del teatro (pubblico, palcoscenico, attori, compositori) ed una spiccata e deliberata confusione fra mondo e mondo del teatro (personaggio reale / personaggio fittizio). Nel 1496 Pierre de Lesnauderie (che nelle Pattes aveva partecipato come attore)60 “intraprende” la farsa della Cène des dieux61 in associazione con tale Sainct-Loys e maître Jehan de Caux con «leurs compagnons». L’opera – secondo Eugénie Droz e Halina Lewicka non riconducibile né alle farse né alle moralità, esempio di un non meglio definito théâtre de collège, cioè di teatro organizzato nello specifico del contesto studentesco – era uno speciale mystère parodico, dove si vedeva Dio pretendere che gli uomini fossero indegni del creato e di qualsivoglia forma di salvazione. Il lettore non è mai messo al corrente della nuova cosmologia che si prepara per gli abitanti della terra, ma la nostra entità soprannaturale tanto per cominciare ha inviato una punizione molto terrena, seminando la sifilide fra la gente. Anche questa pièce testimonia come il contesto di rappresentazione influenzi le tematiche in campo: la cronaca (le epidemie di sifilide che facevano attualità) si abbinava all’interesse scientifico di chi 58 Ibidem. P. LEMONNIER, 1843. Sulla farsa si veda il recente contributo di S. LAÎNÉ, 2007. 60 K. SCHOELL, 1992. 61 TREPPEREL II, n°VIII. 59 57 probabilmente praticava solo per l’occasione le tavole del palcoscenico e cioè gli studenti di medicina, che furono quasi certamente il contesto produttivo dello spettacolo.62 Per due pièce provenienti da Toulouse (Moralité du Nouveau Monde e la Sotise à huit personnages corrispondente)63 il cui testo si è conservato grazie alle edizioni parigine del noto stampatore Guillaume Eustache, la polemica morale sconfina ancora nella contingenza politica: se si accetta l’esistenza di una «école de Toulouse» (che avrebbe teorizzato, a partire dalle striscianti posizioni anticonciliari e ultramondane, quella che poi sarà la pratica dell’assolutismo nell’Ancien Régime) non possiamo negare che gli autori di queste due composizioni drammatiche ne fossero bene a conoscenza. Ed infatti l’opera ha tutta l’aria di essere una tirata polemica contro questa scuola politica, e manifesta una certa aderenza alle tematiche della liberalità umanista. La verve antipapale risulta essere cosa comune nel contesto popolare francese, intriso di gallicanesimo esacerbato dai conflitti religiosi e dagli interessi reali: quindi non ci stupiamo di vedere dipinto qui un Papa guignolesco che parla un improbabile italiano maccheronico. Più interessante è la singolare presenza di un re idiota, le prince Quelqu’un, che rappresenterebbe una critica simmetrica proprio alla scuola assolutista di Tolosa, che probabilmente toccava corde sensibili della mentalità dei retori accademici. Tuttavia la posizione simbolica e mediana fra assolutismo e guelfismo inficia il senso politico più corrosivo della polemica trasformando la pièce in una generica protesta antiautoritaria. La Pragmatica Sanzione compare qui come personaggio allegorico: ispirata dallo Spirito Santo, fa la 62 « De toute manière, vers 1515, toujours à Caen, « le nouveau général » joue ou fait jouer la farce du Voyage et pèlerinage de sainte Caquette. Tissier (II,15-72, pp.20-21) se pose la question « Fut-elle écrite pour les étudiants en médecine et jouée devant eux ? » avant de signaler que la fameuses Morale comoedie de celuy qui avoit espoué une femme mute (Rabelais, Tiers Livre ch.34) fut également jouée par des étudiants en médecine. Pour la Sottie de l’Astrologue, l’éditeur Emile Picot (RGS, t.I, 195-231) affirme « les expressions latines » et les « traits décochés contre le Châtelet et le Parlement (…) nous montrent que [l’auteur] était un basochien parisien ». Je dirais le contraire : la critique contre le Parlement montre qu’elle ne peut relever de la Basoche. On peut aller plus loin : la pièce dénonce avec véhémence le mariage de Louis XII avec Anne de Bretagne, la dissolue Venus et défend ouvertement les intérêts de Jeanne de France, la vertueuse Virgo. Or nous savons que c’est justement l’université de Paris qui s’est illustrée en défendant Jeanne de France – et Jean Standonck, réformateur du Collège Montaigu, a même été exilé à cause de sa position prononcée dans l’affaire. » J. KOOPMANS, 2004a : p.7. 63 O. A. DUHL, 2005. J. KOOPMANS, 2004b. « D’autre part je crains bien devenir, dans la formule si bien tournée d’un collègue anonyme au sujet d’un collègue également anonyme, « devenir moi-même ma principale source d’inspiration », en d’autres mots, il y a un certain art de recyclage dans cette communication. Dans mon enthousiasme pour un texte dramatique inédit – au sujet d’une élection épiscopale, dans un contexte polémique autour de la Pragmatique Sanction (il s’agit d’un texte connu, à tort d’ailleurs, sous le titre Moralité du Nouveau Monde) – j’avais proposé d’en parler à un colloque sur le Moyen Français à Milan – et Jennifer Brittnell, qui travaillait sur la Pragmatique et le théâtre, a sollicité une certaine concertation pour sa communication. À Milan, j’ai revu le titre et la localisation de la pièce. » La presente citazione: J. KOOPMANS, 2008. 58 parte della padrona, mentre Diritto e Ragione, difesi da donna Università, opprimono nelle loro decisioni Papa e Re stolto. Entrambe le opere esaltano l’università di Tolosa, ciò che rende altamente probabile una loro appartenenza diretta al contesto della goliardia accademica: in quegli anni i suppôt vedevano attentata la propria autorità sia dalla politica papale che da quella reale e la pièce può ascriversi perfettamente a siffatto contesto politico. Sulla circolazione delle pièce (e sui loro pubblici) Jelle Koopmans fa notare un dettaglio significativo: che il l’imprimerie parigina era interessata da altri contesti spettacolari specifici della vita locale della provincia. Caen e Tours esportavano nella capitale qualche pièce che se per il pubblico originario era una specie di attualità politica, nel contesto di ricezione parigino diventava divertimento in sé. Lo dimostrano le edizioni parigine di alcune opere di provincia: è il caso di tre pièce che dopo la circolazione in provincia approdano al repertorio a stampa parigino, ma per le quali purtroppo non abbiamo alcuna notizia di rappresentazione sui catafalchi della capitale francese: si tratta delle già citate Pates-Ouaintes e Cène des dieux con la Farce du voyage et pèlerinage de sainte Caquette.64 Le cas de Toulouse a intéressé Paris, trois ans plus tard : on s’interroge sur cet intérêt, inspiré sans doute par la reprise de la querelle gallicane (cf. Gringore en 1512). Dans un contexte légèrement analogue: Jean Janot, à sa mort, laisse 750 exemplaires du Jeu du Prince des Sots de Gringore (invendus ou fraîchement imprimés?). Là, toutefois, nous entrons dans le monde de l’édition parisienne – sujet qui me tient à cœur, certes, mais que je ne compte pas traiter in extenso ici – et nous risquons de perdre de vue notre public.65 Ribadiamo ancora la necessità di una analisi più problematica dei rapporti fra farsa e sottie, che tenga conto in modo dettagliato del contesto storico contemporaneo, degli indizi geografici interni ed esterni al testo e del pubblico in quanto interlocutore privilegiato del fatto teatrale: c’è insomma la necessità di diversificare le analisi sulla base delle diverse funzioni dello spettacolo, dell’esecuzione e del periodo della loro comparsa (letteraria e sul catafalco). 64 65 TREPPEREL II, n°VII. J. KOOPMANS, 2004 : p.8. 59 1.2.3 – Modi della rappresentazione. Il comico di situazione proprio della farsa e delle sue forme liminari ha varianti limitate che spesso hanno indotto la critica ad emettere giudizi di merito assai sbrigativi quando non del tutto negativi. Il ribaltamento delle situazioni, i quiproquo, la comparsa di più o meno prevedibili deus ex machina o colpi di scena, rendono il panorama farsesco piuttosto ripetitivo ed addirittura ingenuo agli occhi di noi contemporanei. Le lacune documentarie sullo svolgimento materiale delle recite restano incolmabili, ma i dati letterari interni possono aiutare a formulare ipotesi o costruire un’idea di massima su quanto doveva accadere in scena. Innanzi tutto gli eclettici scambi di battute, basati su onomatopee e monorematiche, privi d’un vero significato nella forma scritta, ci inducono ad ipotizzare che le farse prendessero davvero vita e senso compiuto solo in un contesto performativo. È il caso ad esempio di un curioso dialogo fra Teste Creuse e Sotin nella farsa dei Coppieurs et lardeurs. TESTE CREUSE Ho! SOTIN Qui tonne? TESTE CREUSE Se ce cech SOTIN (en chantant) Machère… TESTE CREUSE Houp SOTIN Estont, estront TESTE CREUSE Mot SOTIN Vecy ung terrible homme TESTE CREUSE Ha ! Ha ! SOTIN Bb TESTE CREUSE Se tu y SOTIN Et rien rien 66 TESTE CREUSE Haye SOTIN Haye TESTE CREUSE Ilz sont ychy y y SOTIN Et bien TESTE CREUSE Pouffe SOTIN Hen TESTE CREUSE Dieux SOTIN Tant dire TESTE CREUSE He bon SOTIN C’est droit ancien TESTE CREUSE y y y y y66 TREPPEREL I, n°VIII : pp.159-160. 60 Tale scambio di battute non ha alcun senso né ironia se non viene collocato nel contesto biomeccanico dei balzi e dei lazzi e se non si tiene conto degli inserti cantanti, dei quali i testi ci mettono al corrente nella maggior parte dei casi del solo attacco, segnalando la modularità degli intermezzi musicali in farsa, che dovevano essere noti se non proprio al pubblico almeno a chi calcava il catafalco. Gli attori delle farse anche quando non impegnati professionalmente nel mestiere del performer dovevano avere buone capacità mimiche, canore e coreutiche, quando non acrobatiche. Del resto ad onta di una notevole povertà narrativa, le pièce che ci sono pervenute mostrano tutte una buona attenzione agli elementi fisici e concreti del fatto scenico: troviamo bastonate e “lardellate”, mascherate, parate, costumi bizzarri ritagliati direttamente sulla scena, smorfie, tiri mancini di ogni tipo, onomatopee e simulazioni varie, travestimenti e dissimulazioni della voce anche quando i personaggi non sono implicati in un vero e proprio procedimento narrativo. La stessa ricorrenza dei nomi ci fa pensare che essi fossero connotati soprattutto da un costume o da una attitudine scenica. In special modo nelle sottie è tutto un pullulare di non meglio definiti sot, sotte, fol, folle distinti l’uno dall’altro da una progressione numerica, ma di fatto seriali, completamente intercambiabili fra di loro nella progressione dei dialoghi e delle battute: ad esempio è inutile cercare corrispondenze interne fra pezzi di uno stesso «deuxième sot», che ci aiutino a caratterizzare il personaggio e a costruirne storia ed identità. Sarà un tentativo vano, perché spesso le vicende raccontate da uno ritornano in automatico nella bocca dell’altro, come se la numerosa schiera dei sot fosse una specie di folla parlante o un personaggio unico moltiplicato in infinite presenze fisiche. Nella pratica scenica anche le differenze di sesso si appianano, essendo le sotte femme personificate da interpreti maschili, come sarà pratica comune ancora nel teatro elisabettiano: ed è ovvio che in questo tipo di spettacoli osceni e ricchi di doppi sensi a sfondo sessuale l’occasione dell’ambiguità diventa ulteriore possibilità espressiva. Possiamo così accennare brevemente anche alle interpretazioni di genere che sono state prodotte dalla critica più recente in merito proprio alle sottie. Secondo tali interpretazioni uno dei temi portanti dei jeu de sot sarebbe stato proprio la parodia dell’omosessualità; pertanto le donne della sottie sarebbero, anche all’interno della finzione narrativa, uomini travestiti da donne, con evidente riuscita grottesca dei rapporti amorosi e dei corteggiamenti. Le caratteristiche che venivano infatti attribuite alle donne in scena erano l’attitudine alla chiacchiera, la debolezza, la versatilità, la civetteria, l’astuzia, ciò che faceva parte anche 61 dell’immagine stereotipata dell’omosessuale, il cui carattere conturbante risiedeva giustamente nell’attitudine alla simulazione e all’ambiguità. Pregiudizi comuni comunque anche a quelli sulle donne, la cui possibilità dell’orgasmo multiplo sembrava essere cagione di invidia per il Tiers Sot dei Sots nouveaux farcés che si diceva disposto a scambiare la sua lunga verga per una vulva. Si j’eusse eu un con, Comme ces femmes çà et là, Il n’y eut haie ni buisson Où je n’eusse fait la « fanfa » !67 Certo il parallelo fra farse ed espressione omosessuale è suggestivo, ma viene sviluppato forse in modo eccessivo dagli studi inaugurati da Ida Nelson verso la fine degli anni ’80 del Novecento con il saggio dal titolo la Sottie sans souci68 che collocava le trame e gli sviluppi delle farse totalmente all’interno d’una prospettiva omosessuale. La presenza di falli enormi e bastoni e verghe nelle divise dei sot, oltre che un certo spirito anarchico demoniaco, rispecchia perfettamente quel processo di integrazione antropologica degli antichi riti di fertilità che sempre ricompare nel contesto della performance spontanea ed occasionale, legata cioè alle festività stagionali ed alla periodicità delle occupazioni umane, che più che altrove implicano un ricorso alle simbologie della riproduzione e della vita. Il costume dell’idiota patentato ha una forte connotazione sessuale: una frangia (una «queue») gli penzola fra le gambe ed oltre al famoso cappello (lo «chaperon») con le orecchie da somaro (animale di cui da sempre nella volgarità popolare si stimano le capacità, per così dire, “amatorie”) e la fissa maniacale per tutto quello che è animalesco ed istintivo, il sot esibisce spesso un bastone a forma di fallo e qualche campanaccio in luogo dei testicoli; in alcune tarde incisioni reca anche un pene in bella vista sul cappello. Detto questo, resta un evidente anacronismo affermare – come fa nel suo pessimo studio “di genere” Thierry Martin69 – che i travestiti frequentavano i “teatri” confondendosi fra le prostitute e che il clima licenzioso della piazza andava a braccetto con le rappresentazioni oscene sul palco. 67 Les sotz nouveaux farcez couvez. | Jamais n'en furent de plus folz. | Si le deduict veoir vous voulez, | Baillez argent, ilz seront voz, s.l.n.d, (secondo il Rép. JULLEVILLE, n°194 : Paris, vers 1525). Al primo foglio c’è lo stemma di Mère Sotte con il motto di Pierre Gringore « Tout par raison ». (RGS, t.II, pp.175-198 : p.188). 68 I. NELSON, 1977. 69 T. MARTIN, 2001. 62 Ora, è dimostrato in più luoghi – e noi stessi ci siamo occupati del problema nel contesto dei rapporti fra spazio e ricezione del messaggio scenico70 – che i teatri fossero frequentati dalla malavita locale e che, specie nello spazio privato del palchetto all’italiana, i nobiluomini si intrattenessero in relazioni sociali d’ogni tipo, fra cui anche quelle con le donne di malaffare. Conosciamo molto bene i costumi libertini praticati in luoghi come il teatro della Baldracca a Firenze ed abbiamo una nozione piuttosto precisa dello strepitante pubblico elisabettiano del Globe: ma il fenomeno interessa il mondo dello spettacolo commerciale e della “mercatura del teatro”, un mondo che ha già eletto e codificato uno spazio della rappresentazione e le cui pratiche sono lungi dal comparire nella Francia del teatro profano medievale. Il tema dell’omosessualità in farsa ha dunque una sua valenza solo se visto nel contesto letterario e spettacolare che lo determina: l’intrattenimento assoluto, che ovviamente trova ricchezza comicoespressiva e motivi di cruda e volgare ironia nel gioco sull’ambiguità sessuale degli attori e dei personaggi, ma che non è detto li assuma a prassi estetiche. Anche William Shakespeare era uso creare interferenze fra l’interprete maschile ed il personaggio femminile che questi indossava: ma diremmo forse che il suo è un teatro dell’omosessualità? O non saremmo piuttosto propensi a credere che il ruolo del drammaturgo è quello di mettere a profitto tutte le risorse e le ambiguità del mezzo scenico? Certe allusioni piccanti vanno lette in chiave performativa e non devono avere un peso strutturale sull’interpretazione in toto della letteratura farsesca. È ovvio insomma che interpreti maschili in luogo di vere donne possano dare luogo a battute grossolane e prevedibili come quella de le Femmes qui se font passer par maîtresses, dove vediamo una donna misurare un abito e dire « Cette robe-ci n’est point gente ; | J’en prendrai une autre centrée | Devant » dove si può bene immaginare il gesto comico dell’attore ad indicare ciò che ha di più prezioso fra le gambe. Oppure pensiamo alla confusione di generi che nelle farse regna sovrana fra i pronomi, non sempre riconducibile ad errori tipografici o disinteresse ortografico. C: […] Qu’est-ce qu’il faisait ? P : Elle filait. C : Quoi ? P : Il sifflait. C : Que lui-as-tu dit, au détroit ? P : Lui ai dit : « Doint bonjour, madame ! Mon seigneur vous prie, sans dédire, 70 A questo proposito mi permetto di rimandare alla mia tesi di laurea: V. IACOBINI, 2003. 63 Qu’à lui veniez s’il n’y a âme.» C : Et t’a repondu ? P : «Par mon âme ! J’irai volentiers, aussitôt Que mon mari… dis-je ma femme, Sera hors, qui s’en va tantôt.»71 Nondimeno si è stupiti quando ci si imbatte in passaggi che alludono esplicitamente al gioco en travesti, in quanto essi testimoniano di una coscienza formale del mezzo espressivo scenico ben più sviluppata di quanto non pretendano i detrattori estetici del teatro profano medievale. Guardiamo ad esempio alla farsa dei Trois pèlerins et Malice, dove si legge di un certo mercato del sesso in cui però è facile confondere uomini e donne ed essere così truffati. Plusieurs se sont accoutrés En état de féminin genre […] Car il ne baitaillent qu’aux culs […] Désordre le tient ci en rênes Comme un trupelu, un mimin Qui veut devenir féminin.72 E ci sono anche farse intere in cui il comico verbale si aggrega attorno al significato scabroso. Nella farsa delle Queues troussées,73 ad esempio, satira sulla moda esagerata delle code, ma anche storiella ambigua di “code truccate” (ed è usata sovente in farsa l’ambiguità “argotica” di «queue» per definire il sesso maschile), irriconoscibili, cioè, perché travestite e dissimulate. Ancora una vertigine di ambiguità fra ruolo e attore, fra significato scenico ed evidenza concreta del corpo, ove il senso generale dei dialoghi si manifesta a pieno solo a patto di tenere a mente le condizioni espressive concrete, l’esecuzione drammatica. Vous êtes bien habandonnée, D’une si longue queue prendre ! […] Jamais je ne vis queues telles Que ceux-ci, ni si bien reluire ! […] J’ay esté en grant accessoire Avant que aye peu avoir congié, Mais à la fin je l’ay rangé, 71 La citazione con le enfasi è presa da T. MARTIN, 2001 : p.9. La farsa è in Rép. COHEN, n° XVI, pp.113-122. Rec. LEROUX, t.IV, n°7. 73 Rép. COHEN, n° VI, pp.43-50. 72 64 En luy faisant acroire songes74 Ed è curioso notare come il tema della moda venga affrontato in diversi luoghi delle farse ma sempre in un contesto di smaccata ambivalenza sessuale: il censore dei costumi Maistre Aliborum critica sovente le voghe del vestire e sovente si trova faccia a faccia con erotomani di varia specie. Così, nei Sots qui corrigent le magnificat troviamo battute analoghe a quelle delle Queues troussées. Pourquoi c’est que ces « demoiselles » Portent grands queues ? Pour s’émoucher Plus près des oreilles [testicoli, n.d.r.] […] Cela ne serait pas trop grief D’avoir ces fatras-là si longs75 E poi l’omosessualità ricompare anche nel tema, longevo nella cultura europea, della naturalità: se la follia è contro il mondo degli uomini, contro cioè l’organizzazione sociale e quindi contro il logos (ma - l’abbiamo detto - per verificarne l’importanza), anche l’ambiguità sessuale rientra nella vasta casistica medievale delle malattie mentali e degli atti di follia. Così nel mondo al contrario, anche le identità sessuali si invertono e si confondono scatenando il ridicolo, e attivando un senso enigmatico e perverso dell’esistenza, in un gioco scenico, non lo dimentichiamo, che nella continua elargizione di colpi e nella sostanziale sottomissione reciproca dei personaggi può ricordare facilmente le dinamiche sadomasochistiche. Per esempio Chose Publique ne les Sots fourrés de malice deve subire il castigo della banda degli stolti che fino a quel momento ha costretto ed oppresso nella malefica macchina del travestimento scenico. I suoi allievi hanno imparato bene il funzionamento della tortura e dell’umiliazione e lo costringono a prendere le fattezze di una sorta di grottesca prostituta che si dà in pasto al pubblico. Sots, gouvernée nous ont contre nature, Comme voyez, habillée follement […] Habillée m’ont de cet habit, Et m’ont boutée en lieu public.76 74 Ibidem. TREPPEREL I, n°IX : p.197. 76 TREPPEREL I, n°V : pp.76-77. 75 65 Follia e licenziosità sessuale nell’immaginario medievale sono sinonimi, tanto che Rabelais dona al celebre buffone di Francesco I, Triboulet, l’appellativo «fol bien mentulé».77 Nel francese medievale troviamo spesso una corrispondenza esatta fra il termine “nature” ed il sesso; talvolta gli omosessuali sono «sot naturels», diversi dai «sots civilisés», in generale gli “scemi del villaggio”, i cornuti, gli ingannati, i “depressi”.78 Gli esseri più prossimi al mondo naturale ed alla ciclicità delle stagioni e del tempo sono associati ad un’intensa attività sessuale, in linea con tradizioni culturale di remotissime origini: fermandoci al solo contesto rinascimentale pensiamo a quale suggestione abbia esercitato sull’immaginazione dei cittadini e delle corti la figura del satiro, fortemente caratterizzata in senso erotico. Le donne, poi, immancabilmente associate ai cicli lunari (contrapposti a quelli solari che regolano lo svolgersi regolare del tempo), rispetto agli uomini sono più prossime alla natura, lunatiche appunto, folli ed imprevedibili, a giustificare la feroce misoginia farsesca. Ma sono questi motivi più prossimi allo studio antropologico che a quello letterario ed è rischioso esasperare tali procedimenti per generiche opposizioni ed astrazioni. Fra i vari luoghi della stoltizia troviamo anche quello del cretino le cui doti sessuali superano largamente la propria intelligenza: cliché assai comune che presenta come inversamente proporzionali la prestanza fisica e le doti intellettuali. Le digressioni farsesche sulle doti amatorie dei matti sono volgari quanto e più di quelle che rinveniamo nella novellistica. Ne le Monde qu’on fait paître udiamo «Chacun a l’engin pour percer | Un mur de seize pieds d’épais», nel Prince et les deux sots quando il principe si spoglia nudo sentiamo gli altri esclamare: «Voici une chose enorme !» e poi il pazzo della sottie di Tout ménage che rifiuta d’avere rapporti sessuali con una donna perché: «Si la dépucelle, | Je serais en bien grand danger | de lui rompre ventre et forcelle».79 Nella varia umanità teatrale è quindi varia anche la sessualità: talvolta si ironizza fra compagni e al suo ingresso sul catafalco il Fol dice: Je parles aussi bien latin Comme ung prebstre qui dit la messe, 77 Tiers Livre, 38. Per esempio Guillaume Coquillart, nel Plaidoyer d’entre la Simple et la Rusée : « La créature | Se venait asseoir à ses pieds | Pour lui chauffer la nature » (Charles d’HÉRICAULT, 1857, t.II : pp.7-72 : p.56) ove è ben evidente il significato sessuale delle allusioni. 79 T. MARTIN, 2001 : p.13. 66 78 Or parlez à moy, Trousse-fesse : Se dedans ung lict, nu à nu, Fusson couchez, fesse sur fesse, Ung de nous deux seroit foutu. (Le Fol chante) Il estoit bien malostru, Sus goguelu, De cuyder qu'elle fust pucelle; El c'est faict tant bistoquer, Tant janculer Dessus l'herbette nouvelle, Tourlourette, tourlourette, Lyron fa.80 Non deve soprendere che tale contenuto compaia in una moralità, proprio in virtù del principio della mescolanza dei generi che informa tutta la scena di questo periodo, sicché finanche gli autori “di pregio” come Gringore caricano le proprie pièce di esiti scabrosi; nel Jeu du Prince des Sotz sentiamo dire, ad esempio, nel cry d’appello alle presenze sceniche ed al pubblico: «Sots qui chassent nuit et jour au connins, | Sots qui aiment à fréquenter le bas» e poi «Toujours avec le féminin. | Mainte belle dame matée | J’ai souvent en chambre natée. | – Voilà bien cogné le ‘fétu’ !»;81 volgare, ma non troppo: la classe letteraria fa sempre la differenza specie se pensiamo a certe scenette squallide e grossolane come quella dei Sots Nouveaux farcés dove vediamo il terzo sot fare le sue abluzioni al fiume, quando passa una pulzella. Voici venir Une gorgiase fillette, Environ de seize ans, seulette, Qui me dit sans être honteuse Que ma couille était bien fourreuse; Puis me dit à mot découvert Que n’était pas vêtu de vert Mon bâton, qu’ai de demie aune […] je l’empoigne, Et de lui faire la besogne Fort et ferme !82 80 ATF, t.III, pp.337-424 : p.340-341 Rec. FOURNIER, pp.293-306 : p.294. 82 RGS, t.II, pp.175-198 : p.195. 81 67 Nella galleria del vanitoso “machismo” farsesco c’è spazio anche per il Gaudisseur qui se vante de ses faits, omuncolo mezzo matto e mezzo montato che durante tutta la pièce non fa che esporre le sue dubbie doti in tutti i campi, fra cui anche quello amatorio. LE GAUDISSEUR Le lict on fist tost prepare Là où je m’alay reposer; Puis la fille on me bailla. LE SOT A, Jesus, ave Maria. LE GAUDISSEUR Quatre foys, sans point me contredire, Je luy fais, sans souffrir martyre, Voyre plus, car je l’ay conté.83 Lo stolto ben fornito di doti naturali è anche base della comicità d’un passo di Maître Mimin étudiant, dove si apprende che il giovane Mimin, ritardato e tuttavia saccente, possiede «le plus bel engin | Que jamais enfant pût porter. | Il ne s’en faut que rapporter | A son nez : voilà qui l’enseigne».84 Ancora una volta lo stato di natura: l’imbecille dovrà sempre avere una qualche dote nascosta e ciò che difetta nella testa abbonda evidentemente altrove. Il mito dello stolto con notevoli capacità amatorie compare anche nella farsa del Gentilhomme, Lison, Naudet, la damoyselle. NAUDET Ma foy, point ne vous le diray. Je gasterois tout le mystère. J’aime beaucoup [mieulx] vous le faire Trois fois que vous en dire un mot. LA DAMOYSELLE Tu ne sçaurois! tu es trop sot! NAUDET Je ne sçaurois? Hau, quel raison! Et je le fays bien à Lison Tous les jours six ou sept fois. LA DAMOYSELLE Tu as menti, point ne te crois : Tu es trop sot pour tel ouvraige. NAUDET Le plus sot y est le plus saige. Pour veoir, mettez-moi en besongne ; Or dictes que je vous empogne, Si comment monsieur faict ma femme, Et je vous jure sur mon ame Que point ne vous escondiray. 83 84 ATF, t.II, pp.292-302 : p.301. Ibidem, pp.338-359 : pp.339-340. 68 LA DAMOYSELLE Or, m’empoigne donc. Je voirray Ta vaillance et tes beaulx combas. 85 L’atto di verifica delle doti ostentate non compare nella pièce, ma si può supporre che sul catafalco dovesse svolgersi qualche scenetta volgare, che aggiungeva sale alla già sapida vicenda dell’inversione dei ruoli che costituisce il nodo centrale della trama. Ed infatti verso la fine, quando la doppia inversione si è consumata e mentre il signorotto locale si sollazza ancora una volta a visitare la moglie di Naudet, questi ha fatto lo stesso con la donna del signore, che testimonia senza imbarazzo della sessualità prorompente dello stolto ed auspica una sostituzione permanente dei due uomini. LA DAMOYSELLE Sus mon ame, Naudet, je n’eusse pas cuydé; Tu en besongnes comme un maistre. NAUDET Jen, Lison dict qu’il le fault mettre Tousjours au parmy du caudet. LA DAMOYSELLE Pleust à Dieu que fusses monsieur Et que monsieur devint Naudet. 86 Una lettura in chiave metaforica sessuale è pertanto utile per inquadrare il contesto performativo della recita ed in altre parole, per individuare pratiche e modalità; ma non deve essa distrarci da ciò che resta il principale nodo di ispirazione tematica delle farse, e cioè la novella, riadattata nel teatro profano ad una forma scenica specifica, che mostra la sua apprezzabile modernità nei procedimenti retorici e linguistici raggiunti, mostrando di aver intuito pienamente le possibilità espressive e l’arsenale semantico specifici della scena e non già delle lettere. 85 86 ATF, t.I, pp.250-270 : pp.263-264. Ibidem : pp.265-266. 69 1.3 – Modernità estetica di farsa e sottie. 1.3.1 – Il teatro come espressione dello stereotipo. È ancora Barbara Bowen a fornirci una descrizione suggestiva della farsa in quanto funzione elaborata di cliché, descrizione indispensabile per la definizione strutturale che vogliamo darne nel corso di questo paragrafo.87 Per cliché intendiamo una parola o un modulo linguistico significante che nella prassi viene usato in modo automatico o spontaneo in quanto facente parte di un “catalogo di senso” comune all’intero contesto letterario. I cliché producono significato in modo “a-problematico”, come fatto evidente ed acquisito, che non implica nessuna riflessione ma trasmette un’informazione in modo esplicito, immediato, epidermico, in quanto collegata ad un sistema linguistico-culturale noto. Molteplici sono le funzioni linguistiche e narrative che possono manifestarsi in forma di cliché: a cominciare dai nomi propri o di luogo (1) - che prevedono uno dei moduli più tipici, il “nome parlante” – e dalle espressioni proverbiali (2), vere “allegorie precotte” esprimenti un orizzonte di senso molto ampio, riassunto in una frase. Nella farsa l’espressione proverbiale diviene addirittura 87 B. BOWEN, 1974. 70 topos narrativo; è il caso dei proverbi in azione, che hanno suscitato l’interesse degli studiosi in ragione della loro abbondanza e rilevanza strutturale.88 Possono contenere cliché anche i refrain e le canzoni (3), che oltre ad agevolare il rendimento mnemonico dell’attore, pongono in essere un’anticipazione dei contenuti narrativi al pubblico (che presumibilmente le conosce prima della recita in quanto facenti parte del suo retroterra culturale), rendendo più agile lo svolgimento della pièce. Infine, altri cliché sono il calembour (4) - figura della derisione tanto più utile nel linguaggio in versi adottato dalle farse, perché incentrata sulla confusione fonica (omofonie, omonimie, paronimie) e del significato (polisemia) - e le massime (5), assimilabili tuttavia al linguaggio secco dei proverbi. È il teatro per cliché delle letterature popolari, che frequentano le forme stereotipate in modo assiduo: in particolare nel teatro francese si può verificare che la maggior parte di questi cliché sono in stretto rapporto con la lingua delle classi medie e basse. Un fatto che però non deve condurci (come hanno fatto Lambert Cedric Porter e Barbara Bowen, chiaramente ispirati dagli studi di Michail Michailovič Bachtin, dai quali ricavano anche la nozione di linguaggio come momento eversivo per eccellenza) a formulare l’ipotesi che gli autori di queste opere venissero dal menu peuple: non si spiegherebbero altrimenti le precise nozioni di letteratura e retorica che i farceur esibiscono in molti luoghi; non si spiegherebbero casi come quello di Pierre Gringore, che – farceur di successo – ebbe a produrre diverse opere morali e politiche e non si spiegherebbero neanche farse come la Reformeresse in cui si analizzano con occhio ideologico degno di certo furore umanistico, gli effetti della stampa sull’insieme delle conoscenze e della consapevolezza intellettuale. Per tutti i cliché la fantasia verbale è strumento ideale di realizzazione e principio che informa naturalmente l’espressione profana.89 Per ciò che concerne i nomi parlanti consideriamo qualche numero: circa un terzo delle farse in nostro possesso ha per protagonisti personaggi con nomi che vogliono dire qualcosa, che ne esprimono attitudini, personalità o valore simbolico. Per i refrain diciamo che il loro utilizzo è amplissimo: ne testimonia la notorietà il fatto già accennato che nei testi a stampa compaiono soltanto in forma sintetica o come titoli, mentre solo raramente vengono trascritti per intero. Li incontriamo sia come canzonette d’introduzione (con i personaggi che arrivano cantando); sia alla fine, come appendici morali o piacevoli o utili contenitori 88 89 In particolare TREPPEREL I, B. BOWEN, 1964 e H. LEWICKA, 1970. R. GARAPON, 1957. 71 di insensatezza conclusiva; sia all’interno dello sviluppo drammatico, dove vengono usati dai personaggi con il fine di evadere alle risposte o dal farceur per procedere con disinvoltura nello sviluppo dei fatti. In genere le pièce che si fregiano della qualifica di sottie presentano in sé la forma delle canzoni e ne sono lo sviluppo sul catafalco: la canzone è il momento di maggiore verifica dei meccanismi comici del nonsense ed apre il territorio allo spazio delle azioni slegate dalla trama principale, consentendo digressioni fantastiche o scarti altrimenti troppo buschi della narrazione: il carattere insensato della digressione musicale, aprendo uno sketch eclettico, rende plausibili i moti più inusitati del filo della trama ed “epicizza” lo svolgimento narrativo.90 L’utilizzo del refrain dimostra anche come l’impiego degli artifici stilistici nella farsa non sia involontario: la meccanicità di un principio stilistico come il cliché va infatti orchestrata perché la ripetitività possa fruttare alla creatività ed in effetti nella maggior parte dei casi lo scarso interesse estetico delle composizioni risiede nella piatta ripetizione di un luogo dell’espressione drammatica. L’impiego consapevole degli artifici stilistici è visibile soprattutto nell’uso della terzina in funzione distensiva o nella ricorrenza di espressioni e suoni con finalità esplicitamente comiche, che vanno a costituire l’ossatura di alcune pièce. Comunque sia, 68 opere fra quelle che ci sono pervenute – circa 150 – contengono almeno un refrain in terzine (e ben 25 di queste provengono dalla raccolta di Londra) che serve per lo più a marcare le entrate e le uscite di scena o a scandire momenti di distensione dopo le scene violente o “tragiche”. Questa funzione distensiva è ricoperta alternativamente dai refrain musicali o dalle ripetizioni delle battute, con ampio utilizzo di monorematiche: pensiamo al «beeeeee!» pathelinesco o alle espressioni della farsa del Poulier à quatre personnages in cui le risposte presentano un’importante casistica di reiterazioni: «mais» (sei volte), «à l’huys !» (quindici volte), «jamais» (ben ventotto volte).91 Farsa e sottie dimostrano di avere assimilato numerose esperienze letterarie, di cui conservano i residui tematici e stilistici: la verve, la franchezza, la facilità dei dialoghi e la loro qualità espressiva esplicita provengono dalle performance di strada e dai canti dei mestieri; le forme parodiche sembrano derivare dai sermoni gioiosi; i contenuti spesso anticlericali ed anarchici affondano le 90 Ci basti pensare solo al fatto che le avanguardie del Novecento hanno molto sperimentato sulla funzione epica ed universale della canzone nel linguaggio teatrale. 91 B. BOWEN, 1974. 72 radici nella goliardia studentesca medievale e nelle feste popolari dei folli; il cinismo delle storie, il disincanto e la forma piana delle azioni sono analoghe all’incedere cinico ed enigmatico del fabliau. Da un punto di vista formale la farsa si caratterizza per la brevità (ben tre quarti delle opere di tutti i repertori non superano i 500 versi, tanto che i 1600 versi di Pathelin rappresentano una delle tante anomalie di questa pièce, sproporzionata per complessità narrativa e, appunto, lunghezza complessiva), mentre il metro più impiegato è l’ottonario a rime piane: accoppiata mnemonica e cantilenante per eccellenza, che donava il ritmo e segnalava in modo speciale il cambio di battute con l’enjambement dei motti di più personaggi sullo stesso ottonario.92 La brevità della composizione e la sua monotonia fonica consentivano solo raramente al farceur di introdurre nella storia più di cinque personaggi, sufficienti ad imbastire una storia non troppo elementare: ma nella maggior parte dei casi la farsa è piuttosto un pezzo narrativo elementare con non più di due/quattro figurini. Sul piano della narrazione anche le composizioni più infime presentano non di rado una divisione di massima fra esposizione, nodo e scioglimento, per quanto spesso non consequenziali o di scarso interesse. Lo scioglimento è sovente meccanico o artificiale, ed in ben venti farse è demandato ad un processo giocoso che fa da cesura alla storia. Questa abbondanza di pratiche processuali nel repertorio a nostra disposizione si deve alla diffusa pratica della messa in scena nell’ambito della goliardia della facoltà di legge; ma anche all’ambiente destinatario delle farse, una classe non miserabile, attiva nel commercio e abituata a tutelare il proprio interesse di proprietà con atti notarili e testamenti o a difendere i propri diritti in cause civili atte a dirimere ambiguità su possessi della terra o su testamenti e pagamenti inevasi. Il processo giocoso può pertanto essere considerato a tutti gli effetti un luogo tematico: la sua ironia è per lo più incentrata fra la evidente di sproporzione fra mezzi e fini. Ci si avvale dell’arena giudiziaria anche per dirimere le questioni più infime (si entra in causa perché un personaggio non ha chiuso la porta o perché una moglie ha emesso un sonoro peto davanti al marito). In fatto di ricorrenza, però, il luogo comune più importante è senza dubbio il triangolo amoroso, col marito, la moglie e l’amante ad avvicendarsi sulla scena: ben trenta farse presentano un intreccio basato sull’infedeltà e molte altre vi alludono. D’altronde il sesso è un terreno fertile per far fermentare l’oscenità di cui le pièce spesso e volentieri sono impregnate. Si direbbe anzi che altri caratteri propri della farsa sono appunto il linguaggio ed il 92 W. NOOMEN, 1956. 73 tema osceno: vicino alla complessità di alcuni fenomeni linguistici come il comico verbale, troviamo infatti il riso scatologico, quello che scaturisce direttamente dall’espletamento delle più basse funzioni corporali. Il mondo della farsa è tutto un abbondare di oscenità, doppi sensi sessuali o di uomini e donne impegnati a battersi per la puzza dei loro peti, per tradimenti spregiudicati e peccati osceni. Il est assez fréquent, en effet, que le bruit de sonorités déplacées recouvre le comique verbal des farces, que les tréteaux y soient glissants de bran, d’orine, d’estrongs ; qu’il y soit question de culerie, de sadineta, de vit; qu’on s'y envoie allègrement chier, peut-être parce qu’on a le cul pétant ; qu’on s’y traite de crevasse ou de fendasse puante, de cul breneux ; bref, comme le dirait l’adolescent du Garçon et l’aveugle, qu’on y parle laidement. On y parle surtout jargons. Latin macaronique, baragouinage italien, argot, dialectes, patois, sans oublier ce que Robert Garapon nomme si justement le jargon absolu, c'est-à-dire « des mots qui n’ont de sens dans aucune langue », tous ces parlers étranges créent une drôle de cacophonie verbale sur les tréteaux du Moyen Âge.93 Viene da sé che oltre alle formule più volgarmente scatologiche, il sesso è espresso con allegorie più o meno calzanti, sulle quali si costruisce sovente una intera pièce: l’esplicito «Trainer la queue»94 di Maistre Antitus; l’uso ambiguo del verbo «rembourrer» ne les Femmes qui font rembourrer leur bas;95 oppure l’impiego dei verbi «couvrir» ed «écurer» rispettivamente ne le Pauvre Jouhan96 e ne les Femmes qui font escurer leurs chaudrons;97 ed è d’altrettanto facile fruizione la confusione di «bas», «vigne» e «aiguille» con gli organi sessuali. Il doppio senso si estende talvolta alla qualifica professionale dei personaggi: mestieri ad alto coefficiente sessuale ne esistono diversi ed in quasi tutti la caratterizzazione in questo senso avviene in seno all’ambiguità linguistica: citiamo a titolo esemplificativo il «ramonneur de cheminée» o «l’écoureur de chaudrons». È straordinario allora come la farsa – in apparenza così elementare, semplice e corriva – abbia una precisa coscienza del linguaggio teatrale e come si spinga ad una riflessione attiva sull’uso del francese e delle espressioni idiomatiche, generando quello che Brecht chiamerebbe straniamento: illuminazione, riflessione attiva, sul tessuto passivo, inerte e meccanico delle forme linguistiche ripetute, i cliché, appunto. Dicendo illuminazione si intende sottolineare come l’aspetto esplosivo dell’impiego delle forme idiomatiche tragga vitalità comica dallo sfasamento fra significato e significante: fra senso idiomatico 93 N. LEROUX, 1979 : p.103. PICOT – NYROP, pp.97-114. 95 Rép. COHEN, n°XXXVI, pp.283-286. 96 TREPPEREL I, n°VII. 97 ATF, t.II, pp.90-104. 94 74 e senso letterale, quest’ultimo ripristinato dall’idiota, che è stolto perché sembra incapace di seguire qualsivoglia associazione allegorica. Ove gli altri procedono automaticamente, lo stolto si sofferma a pensare: per paradosso il più sciocco è quello che non resta inerte rispetto all’espressione linguistica. La messa in scena di un proverbio o d’un uso verbale traslato nella sua forma letterale è infatti uno smascheramento improvviso dell’uso e del logoramento della parola,98 procedimento moderno largamente impiegato nel teatro delle avanguardie nel Novecento, a partire almeno dalla saga di re Ubu. «Vous avez faict ung grant deffault | De rompre votre mariage» si sente dire l’uomo dalla vicina, sua confidente, e quello da vero estourdis risponde: «Où sont les pièces ?»99 nel classico Mahuet Badin100 tutto il movimento narrativo si incentra sulla convinzione del protagonista che “prix de marché” sia un nome proprio di persona; e se si prova a convincere un idiota a «faire de l’argent» quello andrà dritto dritto dall’alchimista per farselo fabbricare.101 L’utilizzo di espressioni stereotipate è adottato criticamente e con grande intelligenza, spesso anche per sottolineare le differenze di status sociale o per mettere alla berlina la stupidità di un personaggio. LE RICHE Qui a escus, à brief parler, Il peut faire beaucoup de choses. LE PAUVRE Qui n’a souliers, et veut aller Chaussé, faut au moins qu’ait des chausses.102 Ed ecco altri casi: all’esclamazione «que le diable t’emporte !» un curato camuffato da diavolo entra in scena e si porta via il personaggio;103 il Gentiluomo domanda a Naudet104 di mettere il vino nell’acqua per raffreddarlo ed il servitore svuota la bottiglia nel secchio, non prima di essersi servito un bel bicchiere tutto per lui. Un quaranta percento circa delle farse contiene simili ambiguità, ma non è da escludere che molto oggi ci sfugga, viste le numerose espressioni idiomatiche del XV e del XVI secolo ormai scomparse dal francese moderno: è il caso di «chauffer la cire» che significava annoiarsi ed esser di troppo in un 98 B. BOWEN, 1966. Nella Farce de celui qui se confesse à sa voisine (Rép. COHEN, n°II, pp.9-20 : p.9). 100 ATF, t.II, pp.80-89. 101 E. PICOT, 1914. 102 Farce des deux savetiers: Rec. FOURNIER, pp.209-215 : p.211. 103 Farce de Martin de Cambray: Rép. COHEN, n° XLI, pp.317-326. Il trucco ci fa pensare ad uno degli esempi più conosciuti e citati da La natura non indifferente di Sergej Michajlovič Ejzenštejn per descrivere il suo “teatro delle attrazioni”: un personaggio dice asino ad uno ed in scena compare un mulo. 104 ATF, t.I, pp.250-270. 75 99 ménage amoroso, o di «manger à la table de marbre» che voleva dire rimanere a digiuno, non mangiare.105 E ancora più di un terzo delle circa 150 farse che costituiscono il nostro repertorio ha un titolo con un doppio senso (Beaucoup voir et joyeux soudain, les Femmes qui font rembourrer leur bas), comprendente un proverbio (les Droits de la Porte Bodès, les Femmes qui font accroire à leurs maris que de vessies ce sont lanternes) o una allegoria evidente (le Faulconnier de la ville) oppure esibiscono un’oscenità (les Chambrières qui vont à la messe de cinq heures pour avoir de l’eaue beniste). Nonostante il linguaggio e le tematiche semplici e scatologiche è difficile capire se la farsa e le forme liminari adottino uno stile sinceramente basso o uno sapiente che simula la semplicità, ma questo secondo caso sembra più realistico da una analisi anche superficiale degli artifici stilistici usati dai farceur. Scegliere il linguaggio come oggetto della comunicazione in sé, in effetti, non è un meccanismo del tutto banale e rivela anche l’ambito eminentemente retorico di molte farse: il comico linguistico può avvenire di certo in modo spontaneo (sono lì a dimostrarcelo alcune manifestazioni dell’ironia popolare) ma per essere trasferito sul catafalco richiede una discreta elaborazione intellettuale. Il linguaggio “si fa” oggetto della narrazione in modo esplicito e raffinato ad esempio in alcune farse ove il silenzio viene dissimulato o realizzato per mettere in atto un’elusione linguistica e narrativa; le storielle che adottano questo espediente sono circa venticinque ma fra di esse si contano vari capolavori del genere come le Savetier Calbain qui ne répond que par chansons, le Poulier à six personnages, un Chaulderonnier o les Droits de la Porte Bodès.106 In un caso del tutto speciale come quello di Pathelin il comico verbale è realizzato in modo così consapevole da svolgersi senza bisogno della prossimità botta/risposta delle battute: avviene per l’espressione «voulés vous a ung mot ?» che vuol dire «volete sapere in una parola il prezzo?», e che anticipa al 236esimo verso il feroce contrappasso contro Pathelin, cui Aignelet promette di pagare «à vostre mot», ovvero con un belato cui l’avvocato non potrà controbattere nulla di più che una amara constatazione, verso la fine della pièce: «Regardés, sire, regardés ! | Je luy parle de drapperie | Et il respond de bergerie !»107 105 Le espressioni compaiono rispettivamente in: Pernet qui va au vin (ATF, t.I, pp.195-211); le Capitaine mal en point (Rép. COHEN, n° XLIX, pp.391-404). 106 Nell’ordine: ATF, t.II, pp.140-157; Rec. LEROUX, t.II, n°4; ATF, t.II, pp.105-114; Rép. COHEN, n° XX, pp.159164. 107 Rec. JACOB pp.19-117 : p.108. 76 1.3.2 – Drammaturgia in pezzi. Ora che abbiamo visto come nella farsa il comico verbale sia una struttura portante non solo dello stile e dell’arsenale significante, ma un elemento basilare anche per lo sviluppo delle trame sceniche, bisogna interrogarsi se essa non sia in sé, organicamente e per intero, un gioco linguistico o un cliché.108 Ad aprire un’affascinante ipotesi in tal senso è uno studio apparentemente classico, ma in realtà germinale per la nuova critica dei generi drammatici dell’Evo Medio con cui Jean-Claude Aubailly, ebbe a domandare una maggiore apertura degli storici del teatro a forme drammatiche minori come il monologo e la sottie. Ne le Monologue, le dialogue et la sottie,109 lo storico sosteneva che il contributo più importante alla storia del teatro da parte della precoce drammaturgia d’oltralpe fosse la sottie: genere sperimentale e moderno, che testimonia la vitalità del teatro medievale francese e la sua singolarità. Soprattutto, Jean-Claude Aubailly chiedeva una lettura critica unificata e complessiva delle farse e delle sottie come espressioni di un medesimo sistema di rappresentazione. Poco più di trenta pièce che si autodefiniscono sottie sono contenute nella raccolta di Emile Picot (RGS) e risalgono ad un periodo molto ampio, comprendente i centocinquanta anni fra il 1420 ed il 1571; 16 sottie corrispondenti ad un arco temporale inferiore (1450-1511) figurano invece nell’indice del Recueil Trepperel; infine un altro gruppo consistente è contenuto nella Raccolta di Firenze e pertanto è escluso dal fondamentale repertorio generale di Julleville.110 Sono composizioni autoreferenziali, articolate per ed attorno ad un mondo specifico ed allusivo, spesso non ignaro dell’esistenza delle altre sottie e farse, che vengono ripetutamente citate. Nelle sottie si fa facilmente allusione a fatti del contemporaneo, quasi sempre sapientemente occultati in criptiche (o generiche) formule allegoriche: altri dettagli di cronaca emergono nei frequenti riferimenti alle festività ed alle concessioni cittadine, spesso con appelli diretti al pubblico. Come nelle farse anche nelle sottie si fa un ampio uso di motti proverbiali e di leggende locali spesso usate a mo’ di satira della moda corrente o della mentalità che evolve in negativo. Tutti questi 108 J. KOOPMANS, 2002. J. C. AUBAILLY, 1976. Cogliamo l’occasione per segnalare qui anche un’altra opera d’approfondimento sulla sottie: O. DULL, 1994, che si occupa dei rapporti fra sottie, cronache e querelle politiche. 110 Rép. COHEN e notiamo qui come lo stesso curatore della raccolta di Firenze usi la parola farce indifferentemente anche per le sottie. 77 109 elementi sono per lo più comuni alla due forme comiche: abbiamo già visto nel corso della nostra trattazione come sia impossibile trovare una differenza davvero “probante” fra farsa e sottie, ma in quest’ultima le funzioni simboliche sono certamente più sviluppate e maggiore è il disinteresse per la trama. Esiste di fatto fra le due formule profane una quasi totale comunanza di personaggi, specie quelli allegorici (è vero che sono le sottie ad avere più sovente personaggi astratti come Ebahis, Gens nouveaux, etc… che figurano pure enumerati in serie, ma le stesse allegorie sono inserite anche nelle farse e nelle moralità), e di luoghi, (la corte, il palazzo di giustizia sono quelli tipici della farsa, che pure non disdegna la piazza, ma compaiono altrettanto frequentemente anche nelle sottie). Le differenze farsa/sottie sono affidate al solo sesto senso ed al palato del lettore, e si intuiscono solo leggendo: la sottie esprime atmosfere più “enigmatiche” ed i suoi toni morali e filosofici contrastano con la filosofia per lo più scatologica o minuta della farsa. La follia esibita dai sot è gratuita ed irrazionale, in qualche misura sciolta da qualsiasi meccanismo narrativo in continuum. Praticamente in tutte le sottie si allude alla dimensione ludica ed al divertimento in generale e la sottie mette “sotto i riflettori” più di quanto non faccia la farsa i legacci che tengono in piedi la scena; spesso vi si menzionano “regole teatrali” oppure vi si vedono sot impegnati a recitare ed a ripetere artificialmente delle battute e ancora alludere ad un qualche seguito del varietà teatrale. Ne les Sots qui remettent en point Bon Temps troviamo ad esempio due battute che sottolineano la chiara coscienza dei personaggi d’esser sul catafalco: al verso 19 uno si domanda che pezzo comico dovranno recitare («Mais que jouons sur l’eschaffault ?») e più avanti, al verso 234, i protagonisti se ne vanno a seguire qualche scenetta comica («Nous deux allons veoir les esbatz») che farà loro venire voglia di esibirsi sul catafalco («Je sçay un bon jeu qui voulra | Quel jeu?»): ma si registrano nelle battute altri dati “esteriori” alla finzione, quando un idiota si esalta ed incita gli altri con un «Trainons quelques transitions» e quando un altro dichiara «A passer temps | Nous demandons jeuz». 111 Vi sono numerosi casi analoghi, come quello della sottie di Trottemenu et Mireloret («Voyrement quant je me ravise | Jourons a aucun jeu, nous deux»)112 e dei Béguins. In questa ultima, in particolare, il gioco “metascenico” si fa insistente e dopo l’affermazione «Si nous fault entendre | A jouer quelques nouveaux jeux», i sot trovano i loro costumi e si danno più esplicitamente all’arte 111 112 TREPPEREL I, n° XII. Ibidem, n° XIII. 78 drammatica ingiungendo al verso 220 «Jouons donq !»; i preparativi della recita continuano fino a quando dama Folie non li raggiunge dicendo loro «Soyez prests a jouer la farce» e quelli rispondono senza esitazione alcuna «Nous somme prests en ceste place | Commençons !».113 Con anacronismo vertiginoso, si direbbe che la sottie è giocata su un territorio più espressamente metateatrale rispetto alla farsa. Questi brevi giochi di scena non sono che un’unica allusione alla recitazione, dato che mette in evidenza la funzione eclettica e, per così dire, “interstiziale” della sottie, che poteva funzionare come tessuto connettivo fra differenti brani. La sua universalità non riposava tanto sulla costruzione di figure allegoriche, quanto sulla raffigurazione del contesto scenico e del palcoscenico come pratica artistica che ingloba tutti i fatti e finanche il mondo intero. Ad accostare per la prima volta la sottie al teatro dell’assurdo è stato Alan E. Knight, nel saggio già citato che sviluppa la buona ma anacronistica intuizione che le forme contemporanee dello spettacolo siano esteticamente imparentate col teatro profano medievale.114 Sebbene Knight dedichi il suo studio al solo teatro dell’assurdo, il medesimo tracciato potrebbe essere applicato indiscriminatamente ad ogni forma di espressione scenica sperimentale (e non): nella farsa e nella sottie si possono riscontrare, volendolo, le esperienze del teatro surreale, la crudeltà artaudiana, le feste eclettiche del futurismo, ma anche gli spunti metateatrali di Amleto. E ciò semplicemente perché la farsa e la sottie posseggono una coscienza linguistica precisa del gioco di scena, che mettono a profitto per la costruzione di un orizzonte di senso. Le comunanze fra avanguardie e farsa sono una questione di linguaggio, di applicazione, cioè, delle specificità del gioco di scena, che il teatro profano francese sa usare con grande efficacia. Cercheremo di stabilire qui margini e punti di riferimento, a dimostrazione che nella farsa e nella sottie la frammentarietà, l’insensatezza ed i continui balzi tematici e sintattici, a lungo considerati limiti estetici perché messi ottusamente a confronto con la tradizione drammatica posteriore (moderna perché “chiaroscurale”), fanno in realtà parte di una dieta estetica ben precisa, soprattutto regolata sui principi dell’efficacia significante in azione. Ma vogliamo di nuovo precisare come l’idea alla base del saggio di Knight – che pretende un legame sociale forte fra la destrutturazione linguistica della farsa e la protesta politica di una classe sociale che in essa si sarebbe riconosciuta, così come accadeva nel contesto delle avanguardie – sia fondamentalmente errata, in quanto la sperimentazione linguistica è un fatto acquisito e naturale in 113 114 RGF, t.II, pp.265-298. A. KNIGHT, 1971 : pp.183-189. 79 questo tipo di teatro e la farsa non entra mai veramente nel merito di una questione, per così dire, sociale. Al contrario abbiamo visto che le farse e le sottie riversano volentieri il loro livore un po’ su tutti, avanzando una generica ed arrabbiata critica alla società in generale, senza prendersi mai carico di valori ideologici “popolari”, ciò che fra l’altro sarebbe possibile solo con la presenza di un pubblico storicamente determinato, e questo non è il caso del teatro profano francese. Bisogna anche sottolineare che le uniche pièce a sfondo esplicitamente politico non parteggiavano per un improbabile “popolo”, ma assecondavano programmi politici ed interessi ben definiti (il re, l’università, i mestieri). E veniamo finalmente ai motivi di risonanza fra sottie ed avanguardia: si è già menzionata l’attenzione intellettuale (1), “epica”, per lo svolgimento dell’umorismo, che ha efficacia soltanto se lo spettatore effettua un’operazione di astrazione razionale: cosicché le situazioni non sempre chiare, a tratti enigmatiche, obbligano ad interpretare le vicende drammatiche. Troviamo un altro punto di contatto nella capacità di astrarre (2) e cioè di trovare luoghi o situazioni simbolici, benché la narrazione non avanzi né indietreggi. C’è poi un certo disinteresse per la coerenza interna degli elementi letterari (3), attitudine che se nuoce alla cura formale agevola la resa performativa delle pièce. E ancora l’impiego di linguaggi eclettici (4), per così dire “biomeccanici” o clowneschi, che nella farsa e nella sottie funzionano da catalizzatore dell’attenzione e nel teatro d’avanguardia come “attrazioni” ed ulteriori elementi di resa del significato in senso speculativo. Anche l’uso del linguaggio (5) sembra a tratti speculare fra queste due forme di espressione scenica tanto lontane fra loro: il comico verbale, che in definitiva nega la possibilità di una vera comunicazione “in chiaro” fra le presenze sceniche farsesche sembra somigliare al disagio dell’incomunicabilità registrato dal teatro del Novecento. Ma al di là di queste considerazioni estetiche più o meno rischiose, avanguardie e farse hanno in comune fra di loro una specie di cosmico senso di ansietà e di smacco, sorta di schiacciante ed inspiegabile pericolosità cui i personaggi sembrano esposti costantemente: l’attesa, appunto, ma anche la fluidità delle relazioni e l’inconsistenza dei rapporti interumani, ridotti a tragico meccanismo ad orologeria, in grado certamente di deformare il volto in una smorfia di riso, ma sempre nella sotterranea angoscia dell’invivibilità smaccata del mondo al contrario. 80 Se pensiamo alla grottesca e terribile forza delle Übermarionette di Edward Gordon Craig o Alfred Jarry, comprendiamo meglio in che cosa consista l’insensato svolgersi delle vicende di questo branco di sbandati, per i quali nessuna altra regola sembra valere se non quella dell’homo homini lupus. Stavamo vedendo come più che un blocchetto narrativo e performativo posto fra una farsa ed una moralità, la sottie sia una finzione di messa in scena (finzione della finzione, con scarto metateatrale) e cioè una sorta di macro-recita, breve nelle battute e nello svolgimento, è vero, ma così come sono sottili le facce di una grossa scatola in cartone: pensata cioè per contenere le diverse e discontinue forme drammaturgiche previste in un cartellone, omogeneizzandole in una cornice unica e dunque in un’opera più coerente delle singole parti in sé. La presenza della sottie rendeva probabilmente possibile l’esistenza di un repertorio, la cui caratteristica fondamentale era la ripetizione di unità modulari. Tornando alla Sottie des Béguins, dopo avere dimostrato tanta voglia di mettersi a recitare i sot protagonisti sono vittime di uno smacco paradossale: non potranno eseguire la messa in scena fino all’arrivo di Bon Temps (che pure attenderanno, come è prevedibile, “sans soucy”, ovvero intrattenendosi con il vino e con i canti che ci congedano dalla pièce) in quanto gli “chaperon” preparati al prezzo della veste di Folie sono inservibili, privi come sono d’una delle due orecchie da somaro previste dalla mise dei cretini. Così i nostri stolidi eroi non si sentono in grado di poter recitare: hanno paura che «droite aureille […] interprette | En mal ce que nous disons pour bien»115 e preferiscono attendere l’aiuto di Bon Temps (creduto morto ma in realtà in esilio) perché senza di lui il pubblico comprenderebbe tutto di traverso. E qui Picot ci fa notare un’allusione alla censura che aveva interrotto per quattro anni le recite della compagnia degli Enfants de Bon Temps: lo studioso rende ampiamente conto delle vicende di cronaca legate all’interdizione delle recite da parte della compagnia ed è certo di poter attribuire la sottie ad un tale Philippe Berthelier, patron dell’associazione.116 115 RGS, t.I : p.295. Qui ci interessa soltanto sottolineare che i personaggi in farsa sono legati a filo doppio alla realtà civica e municipale: per una maggiore dovizia di particolari sullo scherzo violento che fu all’origine dell’interdizione rimandiamo a Picot, che mette in relazione la storia della compagnia a quella della città alle soglie della Riforma. Ibidem, t.II, pp.265-299. 81 116 Comunque stiano le cose la sottie prevede l’esecuzione di una pièce ed è incompleta se recitata da sola, come un pezzo pronto per accoglierne degli altri: così anche il tema ha un esito metateatrale, ricco di riferimenti alla compagnia e alle persone reali che ne facevano parte, oltre che alle vicende legate alla censura degli Enfants da parte del duca di Savoia. Pure la pièce dei Coppieurs et lardeurs117 presenta un livello alto di elementi metanarrativi, ma possiamo verificare facilmente come le sottie contengano sempre almeno una battuta con riferimento diretto all’esecuzione materiale di una recita. Possiamo forse individuare un’eventuale caratterizzazione del genere in questa “qualità metateatrale”? Neanche, in quanto se è vero che tutte le sottie posseggono un certo “coefficiente epico” anche molte farse fanno esplicitamente allusione al contesto performativo del catafalco ed impostano l’ironia su un piano riflessivo di straniamento mentale. In particolare Coppieurs et lardeurs si caratterizza per una densa serie di allusioni al repertorio in voga all’epoca, fatto estetico che sconfina nel dato storico, tant’è che i titoli citati forniscono ad Eugénie Droz preziose informazioni per collocarne la realizzazione a prima del 1488. Le presenze “sottesche” che popolano la pièce sono quanto mai realistiche (e le digressioni surrealiste servono l’agevole svolgimento dello sketch) trattandosi di due artigiani: il «coppieur» Malostru è un copista mentre il «lardeur» Nyvelet è una sorta di macellaio-cuoco armato di spiedino. Nel pieno rispetto delle loro professioni i due non fanno altro che copiare e lardellare: ciò che nel patois enigmatico della farsa significa prendersi gioco di qualcuno. Durante lo svolgimento dell’intrigo capiamo subito che l’azione del coppier consiste nel copiare, cioè fare la caricatura di chiunque sia a tiro e notiamo anche come i membri dei mestieri legati alle arti liberali – come le attività di trascrizione dei manoscritti e la stampa – fossero rappresentati come esempi di lingua tagliente e di massima indipendenza intellettuale. Similmente, lardellare vuol dire prendersi gioco di qualcuno nella misura in cui il lardellatore tratta il lardellato come un pezzo di carne o un volatile: il parallelo gastronomico veniva utilizzato da tutta la letteratura drammatica europea moderna e contemporanea e particolarmente dalla farsa e dalla sottie per esprimere l’azione di trattare qualcuno per imbecille. Tale senso figurato si ritrova per entrambe le espressioni idiomatiche in vari luoghi della letteratura burlesca francese, riportati con cura da Eugénie Droz, di cui ci limitiamo qui a riportare le conclusioni. 117 TREPPEREL I, n° VIII. 82 Ces exemples qu’on pourrait multiplier, prouvent que ces expressions étaient courantes dès 1480 et qu’il est naturel qu’on les aies portées à la scène. Le XVIe siècle a continué à les employer ; Rabelais, au XIIe chapitre de Gargantua, fait dire au maître d’hôtel : « nous sommes lardez a poinct, en mon advis »118. I trasferimenti dal senso letterale a quello figurato di coppier e larder sono incessanti: l’opera (che ha dimensioni notevoli – oltre 400 versi – per figurare fra le sottie secondo un criterio di lunghezza) si apre con un’esibizione piacevole delle due professioni sornione, che introduce subito l’elemento portante di ambiguità verbale esercitato senza soluzione di continuità. Entra poi Teste Creuse, idiota del villaggio, mezzo bell’imbusto e mezzo fatuo, che deve subire le ingiurie e le plaisanterie dei due simpatici mestieranti che tosto lo abbandonano per andare a bere dove egli, dicono, sarebbe fuori luogo. A rimpiazzare i due burloni ci pensa Sotin, altro idiota patentato che entra facendo un gran putiferio con filastrocche e canzonette, delle quali però nel testo originale non restano che scarsi frammenti la cui interpretazione complessiva non è agevolata dal già difficile linguaggio. Quando sopraggiungono Malostru e Nyvelet, Teste Creuse ormai si annoia e propone pertanto di recitare una farsa. Da qui muove la parte che abbiamo definito metateatrale: i due mestieranti sono in brodo di giuggiole al solo pensiero di mettere in scena «un jeu nouveau tout fin frès»119 dove esibire la loro idiozia; propongono così vari titoli di pièce variamente sparse nei nostri repertori, e che nella finzione scenica sono stipate nella biblioteca del copista Malostru. La testimonianza resa dal nostro autore (probabilmente Jehan d’Abundance) è straordinaria perché mostra l’esistenza di precocissime pratiche editoriali nel settore delle lettere drammatiche francesi e soprattutto già di un repertorio e di una “voga”, cioè di opere di tendenza: a dire che nella seconda metà del XV secolo in seno al pubblico s’era già formato un certo gusto. Spuntano così i titoli di varie composizioni: si va dalla Danse macabré par personnages, all’ultima canzone alla moda («Basse dance nouvelle»); ma Teste Creuse fa la parte dell’intenditore, non si accontenta di roba vecchia ed invita Malostru a tirare fuori qualcosa “che monti”: quello allora propone Pathelin, Poitrasse o il Pauvre Jouhan. Ancora una discussione, ancora pezzi troppo vecchi e conosciuti: lo stampatore esibisce la sua fine conoscenza del genere e propone a “testa bucata” una «farce d’échaffault» oppure una «farce de noces» o ancora una «de collège»: il metodo dei generi piace a Teste Creuse che risponde di pretendere una farsa «de bande», che dobbiamo supporre fosse una 118 119 Ibidem : p.150. Ibidem : p.158. 83 farsa con molti personaggi, adatta dunque ad una vera troupe; al che il perito Malostru dovrà vedere scartate la Fillerie (troppo volgare, dice: ma per noi è dispersa) e les Trois coquins (troppo imbecille) per convincere finalmente il pretenzioso Teste Creuse sulla farsa degli Oyseualx, che secondo Eugénie Droz corrisponderebbe alla farsa della Pipée.120 Dopo la digressione “letteraria” l’autore si tuffa nuovamente nel comico di situazione: Malostru riprende a coppier e propone a Teste Creuse di interpretare in farsa la parte della donna innamorata, il passo è zeppo di occasioni ridicole perché tutti i complimenti del copista suonano ipocriti e falsi. Così, mentre lo stolto viene copiato con diverse imitazioni del portamento e della sua presenza fisica, il lardellatore non sta con le mani in mano e mette in azione l’espressione idiomatica che lo concerne, ricoprendo di pezzi di grasso il bellimbusto. Quando sulla scena torna Sotin, fino ad ora tralasciato, i due si sono dati alla fuga: bisogna così pensare ad una vendetta piacevole per la cui realizzazione è necessaria la presenza di quel cervellone dell’Escumeur de latin, gran capitano degli imbecilli e membro dell’equivoca banda di Triboulet. Les sots de la bande de Triboulet doivent venger ‘cest erreur’. Survient l’Escumeur de latin, aïeul de l’écolier limousin de Rabelais et cousin du personnage de farce Maître Mymin, qui conseille ‘qu’on les farce’ (v. 329) d’une ‘salse laquelle se fait voquer farce’ (v. 353-354) : ‘Qu’on le farce ? par quelle façon ? – Ainsi que l’on farce ung cochon’ (vv.330-2). Chose symptomatique, les sots prennent la chose au pied de la lettre et cherchent des fines herbes pour composer la farce (346-48). Notons qu’ici, « farcer » d’autres est une occupation typique de la bande des sots. Signalons en outre que la rivalité de deux factions, dans cette sottie, n’est peut-être pas tout simplement gratuite. Au contraire : puisque ce sont justement le monde des métiers […] et le monde des sots (Sotin Teste Creuse), soutenus par un (pseudo-)écolier, qui s’opposent, on se demande s’il n’y a pas, ici, une mise en scène du monde de la farce en même temps que celui de la sottie.121 È questa una ulteriore dimostrazione che la sottie fosse una cornice atta a contestualizzare le digressioni farsesche? La pièce dei Sots qui corrigent le magnificat,122 segue nella raccolta Trepperel i Coppieurs et lardeurs ed è un esempio supplementare di questo procedimento per contestualizzazioni; datata da Eugénie Droz al 1488-89, secondo Jelle Koopmans sarebbe almeno anteriore di 30 anni. Il legame di questo pezzo comico con quello che lo precede nella Trepperel è evidenziato anche dall’attacco, e dalle presenze sceniche: il tema centrale è l’espressione idiomatica, del titolo – «corriger le magnificat» – che voleva dire correggere stoltamente un’autorità o un sapiente. In questa sottie fanno la parte dei corrigeurs i saccenti Dando Mareschal e Maistre Aliboron. 120 F. MICHEL, 1832. J. KOOPMANS, 2002 : p.130. 122 TREPPEREL I, n° IX. 121 84 Il meccanismo del teatro nel teatro è fin nelle prime battute, durante le quali i personaggi si intrattengono sull’ambiguità linguistica fra farcire e falsare, parallelo gastronomico con «farcer», mettere in farsa, che ricorda il gioco sul lardellare della pièce precedente. Ai versi 29 e 30 leggiamo «Farsasmes nous pas lourdement / Trestout noz trencheurs de grobis [gros bis]?»: i birbanti avrebbero già ben “farsato” (farcito? Interpretato una farsa?) e si complimentano di avere messo in azione il testo drammatico. Et noz coppie(u)rs par exprés ? Nous le farsasmes vivement. ROUSSIGNOL Jouay avons habilement.123 In tutto questo esibirsi e vantarsi arrivano anche Dando Marechal e Maistre Aliboron, subito pronti nelle loro non meglio precisate attività professionali di domine fac totum e corrigeur de magnificat si mettono a criticare la moda del tempo, in evidente contrasto col tono licenzioso degli idioti che scorrazzano sul palco: vediamo i due professori esibirsi in critiche continue alle lunghe code ed ai berretti alti, un atteggiamento che ricorda da vicino il tipo del vecchio in commedia, sempre pronto a redarguire i giovani e le nuove tendenze. Dando critique les atours des dames élégantes, leurs bonnets démésurés, leurs queues trop longues, leurs décolletés exagérés, leurs robes de nuit fendues de bout en bout, selon la mode nouvelle, leurs épingles, leurs bijoux. A chaque critique, Aliboron répond, explique et renchérit. Ils passent ensuite à la tenue des jeunes hommes, se moquent des grands chapeaulx, de cheveux trop blonds, des souliers sans talons, du maintien affecté.124 Fra l’altro il dettaglio delle lunghe code è uno degli elementi che inducono Jelle Koopmans a mettere in discussione la datazione fornita da Emile Picot: secondo la studiosa si tratterebbe infatti di una allusione alla farsa delle Queues troussées,125 dove ricordiamo che lo stesso Aliborum ha una parte. A sollevare gli spettatori da questo tedio di buoni consigli ci pensano gli stolti, che attaccano i due vecchi senza alcun rispetto: prima li spogliano delle toghe, affermando di volere avere a che fare solo con sot loro simili, poi si mettono a blaterare di punire i due uomini chiudendo loro la bocca. La scena della nudità dei due professori sembra avere qualche rapporto con le Femmes qui coiffèrent leurs maris sur le conseil de maistre Antitus,126 dove le donne finalmente scoprono sotto il costume la 123 Ibidem : p.194. Ibidem : p.187. 125 Rép COHEN, n° VI, pp.43-50. 126 PICOT – NYROP, pp.97-114. 124 85 realtà dei mariti: cornuti, stolti, idioti, incapaci. Ancora una volta si tratta di parlare di maschere e disvelamenti caratteriali che possono essere resi con grande efficacia sulla scena, semplicemente cambiando d’abito al proprio personaggio, “smascherandolo” e rimascherandolo, per l’appunto. Sul finire della pièce Aliborum e Dando si scagliano contro i fannulloni che li attaccano e vorrebbero cacciarli dalla sala; gli improperi diretti alla compagnia piacevole sembrano vertere sulla qualità complessiva dell’esecuzione drammatica («L’ung de vous fait le non joueur, | Et contrefait le bon varlet»).127 Interpretando questa pièce gli storici sono andati lontano, ipotizzando che all’epoca della stesura dovessero esserci più organizzazioni di sot in competizione fra loro.128 Il periodo per una competizione commerciale fra compagnie piacevoli sarebbe precoce: ma le prove addotte – tutte interne al testo – non sono propriamente documentarie.129 Alle due pièce appena viste se ne aggiunga una terza, quella che le segue ancora nella Trepperel in una specie di trittico. È la sottie de Les vigiles de Triboulet, che presenta in comune con le due precedenti il personaggio di Rossignol. Il luogotenente di Maître Mouche, Triboulet, è appena morto ed i sot Rossignol, Croquepie e Sotouard ne cantano la veglia funebre. È questa l’occasione per citare il repertorio del maestro. […] la farce de Pathelin et de Poitrasse, Le Cuir, le Povre souffreteux Et les farces des Amoureux, Comme la filerie tendrete, Fin Verjus, blason toute faite.130 Il tema in sé è assai scarno, trattandosi semplicemente delle esequie di Triboulet fatte dagli altri imbecilli della compagnia: in buona sostanza ne abbiamo già riassunto la trama, e sottolineiamo soltanto ciò che è già evidente, e cioè che anche questa sottie funziona come reagente per svelare i meccanismi della finzione scenica. Già nei copieurs l’accoppiata Pathelin-Poitrasse suona vecchia e stanca per i sot alla moda: qui durante le “vigilles” si menzionano le opere Povre souffreteux e Repues franches come pezzi di repertorio del bravo Triboulet. Se ne ricava che gli attori eseguivano nei varietà drammatici anche 127 TREPPEREL I, n° IX. B. REY-FLAUD, 1984. 129 J. KOOPMANS, 1999 : p.33. 130 TREPPEREL I, n° X : p.233. 128 86 pezzi non espressamente teatrali, un fatto che conferma come gli autori dell’epoca fossero coscienti dell’operazione di trasferimento delle trame e dei temi dalla novellistica al teatro burlesco e soprattutto che le pratiche sceniche si alimentavano consapevolmente del patrimonio letterario. Tutte queste pièce (la trilogia appena vista nel dettaglio, ma anche la lunga lista di titoli che ivi vengono citati) dovevano circolare assieme, in Parigi, al massimo nell’ultimo ventennio del XV secolo (o prima, se si confermassero le ipotesi di datazione diversa per Coppieurs et lardeurs)131 e sono pertanto un valido campione per stabilire una pratica comune almeno a tutto il contesto letterariodrammatico dell’Ile-de-France e delle regioni limitrofe, in particolare Rouen e la Normandia. 1.3.3 – Farsare, farcire, falsare o il teatro delle azioni. Il tema della scelta della pièce da recitare sembrerebbe una prerogativa delle discussioni dei sot: le funzioni metateatrali di quello che riconosciamo come l’insieme inscindibile farsa|sottie (due funzioni letterarie d’uno stesso dispositivo scenico) sono importanti per tracciare da una parte un’ipotesi sulle modalità di rappresentazione e dall’altra cercare di dimostrare che il fine ultimo della letteratura farsesca resta l’azione scenica. Crediamo infatti che tutti i segnali forniti dalle sottie sulle forme dello spettacolo medievale dimostrino come l’azione e solo l’azione sia al centro delle intenzioni del genere: la farsa presenta uno svolgimento segnato dalla particolare attenzione alla messa in scena, ciò che implica una serie di motivi “biomeccanici” in grado di intrattenere un pubblico il più ampio possibile. Nella mente dei nostri autori anonimi era chiaro che l’efficacia del teatro comico non risiedeva tanto nella “bella parlata” quanto nel “bel gesto” o nella “azione compiuta”: questo spirito attivo, questa macchina scenica in cui il fare prevaleva sul dire trovava un’ideale realizzazione nella tecnica di messa in azione dei proverbi. Nel fabliau questo meccanismo che Rey-Flaud definisce efficacemente machine à rire ha un valore molto inferiore rispetto al grande ruolo che ricopre nel gruppo farsa|sottie, ove si sviluppa interamente intorno al problema della esecuzione, della fisicità, peculiarità linguistiche del catafalco. Nella sottie il movimento, l’azione, assumono tinte “epiche”, mentre nella farsa lo svolgimento è per lo più incentrato attorno all’organizzazione di un trucco o di un tranello ai danni di qualcuno (anche 131 Questo fa sorgere qualche dubbio sulla teoria di Bruno Roy, secondo la quale Pathelin fu il prodotto della corte d’Anjou, scritto da un certo sot di nome Triboulet. B. ROY, 1980. 87 esso però mai finalizzato alla sospensione dell’incredulità): il centro della narrazione farsesca è pertanto l’astuzia, quando quello della sottie è l’azione in rapporto al linguaggio. Anche da un punto di vista etimologico il termine «farsa» esprimerebbe l’attitudine biomeccanica dello spettacolo profano medievale. Primo ad occuparsi sistematicamente dell’origine del termine fu Petit de Julleville, la cui teoria originaria sulla radice linguistica di «fars|farce» e «farser|farcer» ha sostanzialmente influenzato tutte le successive. Lo studioso francese iniziava la sua analisi132 smontando le precedenti ipotesi che tiravano via molto rapidamente la conclusione che la parola derivasse dal greco άρσος ossia «pezzo di stoffa»: era questo l’appoggio per considerare la farsa come una combinazione di pezzi e residui narrativi in un’unica “cucitura”. Insieme di parti, insomma, ad ispirazione di quella che era ritenuta la regola di base della satira romana, “genere misto” per eccellenza. Nel suo dizionario etimologico del 1750, Gilles Ménage riprendeva il medesimo concetto di raccolta di pezzi e mélange istituendo il primo parallelo gastronomico ed il primo paragone con il genere misto latino: secondo lui la farsa sarebbe stata una sorta di commedia, «du même mot farsa : à cause qu’originairement c’était un mélange de diverses choses, comme la satire des Romains. Ergo et hoc carmen ‘Saturam’ appelaverunt, quia multi set variis rebus refertum est, dit Porphyrion sur Horace.»133 E si deve sempre al Dictionnaire Etymologique l’interpretazione di «farce» in senso culinario, come “misto di carni”; secondo questa prospettiva la linea di derivazione lessicale sarebbe dal paradigma latino (farcĭo, farcis, farsi, fartum, farcīre): farcio, farsi, farsum, farsa, farce. Da questo primo approccio proviene di fatto la teoria “forte” di Petit de Julleville, che inizia la sua dimostrazione proprio da Gilles Ménage, accentuando il lato gastronomico con l’instaurazione d’un legame diretto fra «farce» ed il verbo «farcire». Le latin farcire, qui signifie remplir ou farcir, fait, au participe passé, fartus, et, en bas latin, déjà même chez Hygin, chez Apicius, farsus; dont farsa est le féminin ; farsus est tout ce qui est rempli, bourré, fourré, farci ; farsa désigne aussi, par une figure de mots fréquente et bien connue, la chose qui sert à bourrer, à farcir. Cette étymologie explique tous les sens primitifs du mot farce. […] En cuisine, la farce est un hachis qu’on introduit dans une pièce de viande, dans une volaille, ou dans la croûte d’un pâté. Un fabliau du XIIIe siècle dit ainsi : « […] La crouste en est faussée, | Et la farce s’en est volée. »134 132 Rép. JULLEVILLE, 1886, (p.50 e sgg.). Dict. MENAGE : t.II, p.575b. 134 Rép. JULLEVILLE : p.51. La citazione interna è dal Rec. BARBAZAN, t.IV : p.95. 133 88 Tale spiegazione, con variazioni più o meno accentuate ma sostanzialmente restando intatta nel tempo, si è ripetuta fino ai nostri giorni: e viene anche presa in considerazione dai dizionari etimologici contemporanei della lingua francese. Il suo successo è presto spiegato. Oltre ad avere un’indubbia efficacia figurata che la riallaccia a numerosi studi di carattere antropologico sul rapporto fra buffoneria, cibo ed espressioni letterarie popolari,135 questo tracciato linguistico è comodo per dare man forte alla spiegazione degli inserti giocosi all’interno di forme teatrali “discrete” rispetto al comico come nei misteri, nelle moralità, nei sermoni. Ciò ha consentito di creare una cronologia evoluzionistica della farsa: genere che evolverebbe da mera funzione spettacolare intermediale delle sacre rappresentazioni, assumendo via via maggiore completezza, complessità ed autonomia, con metamorfosi finale in proto-commedia. Sul ruolo interstiziale della farsa e delle forme comiche ci siamo soffermati anche noi, ma affermare il carattere proprio di una forma letteraria non implica necessariamente di dover cercare una soluzione storica evoluzionistica che ne giustifichi il cambiamento nel tempo. Nel corpus delle farse e delle sottie esistono casi limite ed esistono esiti estetici migliori di altri, così come vi sono variazioni lessicali dovute alla provenienza geografica. Diversi sono anche i singoli approcci stilistici e le tematiche toccate. Ma il ruolo funzionale della farsa e quello della sottie rimangono identici nel tempo e nello spazio, e non rispondono mai ad una logica evoluzionista. Pensiamo solo che il capolavoro del genere, la sua punta estetica massima, ancora una volta Pathelin, è in realtà una delle pièce più antiche in nostro possesso ma già esibisce tutte le pratiche linguistiche proprie del genere. Anche la formuletta storica che vede gli inserti comici nei misteri come precoci esempi di un genere che avrebbe poi avuto successo a sé può essere facilmente contraddetta, osservando che nella maggior parte dei casi le farse che figurano all’interno di un ciclo misterico esistono per lo più anche in forma autonoma. Il ruolo sdrammatizzante della farsa è indubbio e così la sua funzione intermediale, ma in un contesto più ampio e reale: quello del gioco pubblico, che poteva prevedere un cartellone misto, eclettico nelle scelte. 135 M. BAHTIN, 1976; P. CAMPORESI, 1980; P. CAMPORESI, 2000; C. LÉVI-STRAUSS, 1964; M. MONTANARI, 1993. 89 Jean Mortensen ha consolidato nella sua forma definitiva la definizione “culinaria” di farsa, sostenendo che nella pratica liturgica la parola definiva un’interpolazione o parafrasi o supplemento al e del testo originario biblico, realizzati in occasione delle feste religiose.136 La formula culinaria di Petit de Julleville è insomma arrivata lontano, fino ad influenzare le teorie sulla forma farsesca e sulla idea di genere alto, basso e mixto. Inoltre, come sovente avviene, ad ogni ripresa e passaggio teorico il volume argomentativo della spiegazione è aumentato, senza tuttavia che qualcuno si preoccupasse di ripetere la verifica sulla base di più moderni strumenti filologici. Ainsi la farce aurait été un genre dramatique utilisant le mélange de plusieurs langues, à l’imitation du français introduit dans un texte latin. C’est la définition couramment admise à la fin du siècle dernier, comme en témoigne l’article farce du Dictionnaire du Théâtre d’Arthur Pougin : « La farce tirait son nom, diton, d’un genre de poésie très usité au moyen âge et qui prit naissance vers le dixième ou onzième siècle ; cette poésie écrite alternativement en latin et en langue d’oc, ou en langue d’oïl, était appelée farcia ou farcita parce que le texte latin était comme farci de termes vulgaires ajoutés après coup.»137 Per una messa in dubbio di queste posizioni dobbiamo aspettare tempi più recenti, anche se ne è evidente l’inconsistenza, soprattutto se si pensa al fatto che non ci sono mai pervenute farse davvero “plurilinguistiche”: certo, Pathelin si esibisce nel passo della malattia in una lingua mista al latino, ma non si può sostenere che l’impiego del maccheronico in questa ed altre pièce rappresenti davvero un caso di plurilinguismo, essendo il latino da cucina più un esemplare parodico storicamente affermato che un elemento di reale corrosione attiva del linguaggio. Cercando di uscire dal solco di questa tradizione critica, Bernadette Rey-Flaud precisa una differente e ben più complessa origine della parola «farce». La studiosa prima realizza lo smontaggio della teoria di Mortensen, precisando che «farce» non fu mai utilizzato nel contesto liturgico, che ha sempre privilegiato l’espressione in latino. Il primo errore degli storici dello spettacolo sarebbe stato «de franciser ces interpolations et de traduire les textes latins cum farsis par ‘textes avec farce’ ou de traduire encore epistola cum farsia par ‘épitre farsie’ et une fois cette traduction réalisée d’identifier le mot ‘farce’ au sens d’interpolation avec le mot ‘farce’ au sens dramatique et d’en faire un seul mot.»138 Ma, precisa la studiosa francese, la parola compare solo eccezionalmente nel lessico medievale francese e sempre sotto la forma del verbo “farsir”, mai come sostantivo: osservando più da vicino 136 J. MORTENSEN, 1903. B. REY-FLAUD, 1984 : p.152. La citazione interna è da A. POUGIN, 1885 : p.358a. 138 B. REY-FLAUD, 1984 : p.153. 137 90 l’impiego di «farce» all’interno dei misteri fu Omer Jodogne ad interrogarsi per primo se il vocabolo non volesse significare episodio idiota, trucco, inganno. È da questa prima intuizione che muovono le più recenti teorie sull’etimo di «farce». [on remarque] l’existence […] d’un verbe farcer, parfaitement attesté au XVIe siècle, comme en témoigne ce passage d’Amyot : « Quand Aristophane fait jouer la comédie qui s’appelle les Nouées en laquelle il respand sur Socrate toutes les sortes et les manières d’agir qu’il est possible, comme quelqu’un des assistants, à l’heure qu’on le farçait et gaudissait ainsy lui demandast : Ne te courrouces tu point, Socrate, de te voir ainsy publiquement blasonner ? Non, certainement, respond-t-il.» On voit que le sens de ce verbe est évident : il signifie « se moquer de quelqu’un », « le tourner en dérision », « lui jouer un mauvais tour ».139 Il verbo con questa accezione è ben consolidato in francese medievale e ne troviamo molteplici casi nelle Cent nouvelles nouvelles e nel Jehan de Saintré; esempi che potrebbero essere considerati scarsamente probanti per via dell’affermazione del genere farsesco e delle sue forme liminari proprio negli stessi anni di stesura di queste opere, ma che in realtà confermano occorrenze più antiche: Bernadette Rey-Flaud ci segnala per esempio le Chroniques di Froissart, i precocissimi esempi del Chevalier aux deux épées, ed una raccolta di strofe pìe intitolate Tombel de Chartrose. Il fatto che siano rilevabili siffatte occorrenze ben avanti la nascita del genere drammatico cui si dona il nome di farsa, dimostra che il nome voleva alludere fin da subito al ruolo centrale che l’inganno e l’astuzia ricoprono all’interno della funzione drammatica. Farce deriverebbe dal verbo «farcer», che corrispondeva al moderno «duper»: visto che i dizionari etimologici sono univoci nell’accordare a “farcer|farce” e “farcir|farce” la medesima origine nel latino “farcīre”, viene da chiedersi come mai questa radice, comune a tutte lingue romanze, in Francia viri al senso traslato di truffa ed inganno. La chiave di volta sta nel collegarvi altri due termini: “fart” (inganno) e “fars” (imbottitura usata per aumentare il volume dell’acconciatura delle donne). Il primo dei due ha origine germanica in “farwida” (lucidare, tingere), che nel contesto semantico della moda era il nostro moderno “fard”, il correttore per le imperfezioni della pelle; il secondo si ricollegherebbe più pacificamente al “farcire” e “riempire” di latina memoria, ma con impiego nel lessico specifico dell’abbigliamento. L’imbottitura della coiffe femminile e i cosmetici sarebbero il passaggio logico per giungere alla declinazione drammatica “farcer|farce”: non sono infatti queste due pratiche estetiche astuzie, trucchi, ruse femminili per ingannare il maschio sulla propria bellezza? 139 Ibidem : p.155. 91 Dopo una lunga trattazione sulle evoluzioni fonetiche ed principi glottologi dell’evoluzione del francese Rey-Flaud tira le sue importanti conclusioni. Il semble que […] il a existé un mot farce (descendant du latin farsus), apparenté à un mot fars de la même famille, signifiant « artifice de la toilette féminine », d’où « tromperie ». Ce mot a été contaminé par un terme de sens très voisin fart signifiant, comme en français moderne, « fard », au sens propre comme au sens figuré, c’est-à-dire là encore, « tromperie ». Cette confusion sémantique a conduit alors à une véritable identification, du fait que les deux mots fars et fart étaient homonymes au pluriel et parfois au singulier. Un point est donc sûr, le mot farce au sens dramatique est étayé de deux façons par deux étymons distincts mais de sens analogue qui est celui de « tromperie ». Ainsi l’ancien français possède deux familles de mots signifiant « tromperie », l’une formée sur le radical fars (de farsus) et l’autre sur le radical fart/fard (de *farwida). Ces deux familles sont très exactement synonymes, comme on va le voir, mais elles font le désespoir des étymologistes qui ont voulu les rattacher en bloc à l’un ou à l’autre étymon, ce que le lois de la phonétique ne permettent pas.140 Aggiungiamo un paio di dettagli che nello sviluppo della sua teoria della machine à rire la studiosa francese ha stranamente trascurato. Il primo è il travestimento: oltre che esprimere un inganno attraverso un fare, una azione pratica, farce può ancora più efficacemente esprimere un inganno verso il pubblico, inganno consistente nel camuffamento, nell’invenzione di una realtà altra, nell’abito di scena; e sappiamo infatti che la nozione di contraffazione è costante in tutte le espressioni drammatiche occidentali. Dall’altro lato la menzogna farsesca si sviluppa anche su un piano sessuale, essendo diffusa, come abbiamo documentato poco sopra, la pratica di far recitare agli uomini anche i ruoli femminili; ed è affascinante come il legame con il trucco e le parrucche si manifesti da subito in queste già di per sé precoci forme di “commedia”: la contraffazione sessuale si lega anche semanticamente all’universo della moda e della recita (Queues troussées, Femmes qui coiffèrent leurs maris). Sotto questa rinnovata luce etimologica la coppia lessicale farce|farcer ha per baricentro linguistico il concetto di tromperie e ruse, costitutivi per la formazione del genere; del resto le farse ci offrono un vasto campionario di parole che esprimono il concetto di burla, beffa, inganno: altro fenomeno che mostra come queste composizioni fossero strettamente legate allo svolgersi di tranelli e di trucchi più che allo sviluppo di una trama articolata nel senso moderno del termine. Nella bella Farce du pourpoint rétréchy141 le parole dello stesso ambito semantico cambiano a seconda dell’evoluzione drammatica: nella storia il tiro mancino di due burloni vira verso l’omicidio ed i modi di chiamare lo scherzo evolvono assieme alla gravità della trappola. Da cabuserons a tromperie, 140 141 Ibidem : p.164. Rép COHEN, n° XLIV, pp.341-355. 92 fino ad arrivare a prendre (par sa moue) e attraper è tutto un pullulare di sinonimi per furberia: l’azione dello scherzo è il soggetto principale, protagonista assoluta della narrazione. La Farce de Martin de Cambray142 associa tromperie e fourberie e trova diversi sinonimi per farcer: “bourde”, storiella raccontata per fare fesso qualcuno ed abusarne; “cabeur” che vuol dire inganno, ma con la più precisa allusione al furto o alla sottrazione di un bene; “fourbe”, che è astuzia crudele ai danni di qualcuno. Ed è interessante notare come nella Farce du Goguelu143 «tromper» assuma il significato violento di bastonare, pestare qualcuno. La ricchezza lessicale attorno al concetto di inganno conferma ulteriormente il ruolo prioritario della truffa nel contesto farsesco, ciò che rivela una certa assonanza fra la posteriore Commedia dell’Arte e queste primordiali forme di rappresentazione scenica, assonanza che prepara in qualche misura il grande successo commerciale di cui godranno in Francia i comici italiani. Sovente le allusioni all’inganno sono espressioni idiomatiche difficili da identificare: pensiamo a «manger l’oye» (espressione che oltre ad essere piuttosto diffusa si intreccia per tutta la durata della studiatissima farsa di Pathelin)144 per la decrittazione della quale ci è voluto un intero saggio dedicato all’argomento a firma di Mario Roques.145 Nella appena citata farsa della raccolta Cohen detta del Pourpoint rétréchy, Richard e Gaultier sono compagni di sbronze con Thierry. I primi due decidono di tirare uno scherzo a quest’ultimo, restringendogli il corsetto mentre è profondamente addormentato nei residui fumi della bisboccia della sera prima. Al risveglio il povero beone viene convinto di soffrire d’un grave disturbo e di andare verso morte certa: a questo punto è necessario che la vittima faccia ammenda dei suoi peccati: Gaultier si infila una tenuta da prete per farlo confessare, ma lo aspetta un’amara sorpresa perché dalla confessione apprende d’esser stato fatto cornuto dal falso morente e che per giunta il compagno Richard è stato in passato abbondantemente picchiato da Thierry. I due trasformano così lo scherzo in vendetta e gettano il compagno in un fiume dietro pretesto di portarlo a cambiare aria. 142 Ibidem, n°XLI: se ne conosce una versione sintetica, Le Savetier Audin, ATF, t.II, pp.128-139. Rép COHEN, n°XLV, pp.357-367. 144 « Et si mangerez de mon oye, | par Dieu, que ma femme rotist. ». R. HOLBROOK 1986 : p.17. 145 M. ROQUES, 1931 : pp.548-560. 143 93 Bernadette Rey-Flaud, suggerisce l’analogia di questa trama con quella boccaccesca di Ferondo (Decameron, III, 8) ma secondo noi l’unico rapporto che possiamo trovare fra la novella e la farsa è la finta malattia dell’uomo (in entrambe indotta, è vero, ma con ben diversi stratagemmi ed esiti e premesse), piuttosto comune nel conto popolare e pertanto non assimilabile nella logica di un contatto esplicito. Soprattutto lo stratagemma farsesco – il furto e cucitura del corsetto davanti al pubblico – è scenicamente più efficace di quanto non lo sia quello boccaccesco che si avvale di un oggetto “magico” (la polvere per la falsa morte) e gioca sull’affabulazione ed il convincimento verbale-psicologico più che sull’astuzia biomeccanica, fisica e muscolare. Se dovessimo avvicinare la farsa ad una qualche novella del Decameron saremmo più orientati a pensare alla storia di Calandrino,146 ove gli viene fatto credere d’essere gravido: il manifestarsi dei sintomi della falsa gravidanza somiglia qui al tiro semplice ma efficace giocato dagli amici farabutti di Thierry che ne osservano maliziosamente la brutta mina. Nella novella di Boccaccio il fine è sfilare il denaro all’amico idiota, così come i compagnon francesi, che pensando al bon tour trovano pure un movente in più nei possibili vantaggi economici derivanti dalla spartizione della parcella del medico cialtrone ingaggiato per avvalorare la preoccupazione della vittima. Ma ci manifestiamo perplessi rispetto alla sicurezza con cui Rey-Flaud mette in relazione diretta la farsa del Pourpoint con la novella di Calandrino: la composizione francese potrebbe infatti avere avuto almeno tre fonti da cui trarre il già diffuso stratagemma del convincere qualcuno della propria malattia: Boccaccio, certamente, ma anche la traduzione di Premierfait, il fabliau originale e la facezia di Poggio. Perché allora non il favolello, visto il fattore di prossimità geografico-culturale? Comunque stiano le cose l’espediente tutto verbale adottato in Decameron, richiede nella farsa una realizzazione concreta, gestuale, visiva, oltre che affabulatoria: ed ecco allora la scena della cucitura del corsetto e quella in cui la vittima cerca di indossarlo. È una differenza che mette in risalto le attitudini materiali e gestuali del teatro profano francese, che si configura come una macchina di produzione del significato, in cui il testo è solo un ingranaggio piegato alla logica del lazzo. Nella farsa si passa da una burla amichevole ad una beffa crudele e mortale: l’originalità del Pourpoint risiede nel passaggio dall’uno all’altro tipo di ruse: il capovolgimento dei ruoli della seconda parte - in cui si scopre che il gabbato aveva a sua volta tradito i due amici, di cui vediamo le reazioni violente mostra come tutti (trompeur ed onestuomini) vengano prima o poi ingannati. Il che equivale a dire 146 Decameron, IX, 3. 94 che “chascun est trompeur” in una visione spregiudicata della realtà ove l’elemento moralistico è dissolto ed i valori etici collettivi non più garantiti. In questo senso la crudeltà dell’opera non è lontana da quella propria del favolello. Un siffatto cambiamento repentino dei moventi dei protagonisti usa a buon profitto il carattere modulare delle storie e delle trame (qui ve ne sono due: la confessione en travesti e l’uomo persuaso d’esser malato), ed inverte l’orizzonte d’attesa del pubblico, che probabilmente conosceva i due moduli narrativi a sé, in quanto circolanti indipendentemente, ma che in tutta evidenza non poteva prevederne la combinazione in una medesima pièce. In virtù di una forza biomeccanica che privilegia l’effetto sorpresa e l’azione fisica, il genere farsesco riprende creativamente gli elementi della narrazione fra Italia e Francia, rielaborandoli con grande disinvoltura, non sempre, va detto, raggiungendo grandi risultati, ma sicuramente favorendo la diffusione delle trame e dei luoghi letterari che costituiranno la cultura di partenza per la grande stagione del teatro comico moderno. […] toute farce est la mise en œuvre d’une tromperie. Il s’agit en fait plus précisément d’un véritable mécanisme qui se déclenche au moyen de la ruse vrai moteur d’un ensemble structuré.147 Il trattamento modulare della materia narrativa trasforma anche le presenze farsesche, che a differenza della novella si schematizzano ed entrano in un gioco di ruoli spesso prevedibile, ma talvolta non privo di suggestioni. La meccanica performativa rimane sempre in primo piano, al di sopra della trama, che ne è al servizio: se ne ricava che pure dal mero punto di vista dell’esecuzione scenica, la farsa è un genere non antiquato, e che anzi, la sua azione di riadattamento delle trame preesistenti, novellistiche o dei fabliau, in sequenze di fatti concretamente visualizzabili consiste essenzialmente in un tentativo di resa in scena, nell’adozione cioè di un linguaggio diverso da quello propriamente letterario. Il fenomeno è bene osservabile nella Farce de Jolyet, costruita su un intreccio di grande diffusione fra Italia e Francia: si tratta della storia del marito la cui moglie partorisce anzitempo rispetto alla data delle nozze. Sembrerebbe la semplice trasposizione drammatica di una narrazione delle Cent nouvelles nouvelles,148 ma rispetto al modello cambia la scena finale, che descriveremo con tutta la trama più 147 148 B. REY-FLAUD, 1984 : p.226. les Cent nouvelles nouvelles, XIX, (La vache et le veau, T. WRIGHT, 1857-58, t.I : pp.173-177). 95 dettagliatamente nel capitolo sui generi drammatici. Basti notare qui che l’inserto finale di grande impatto scenico – dove si vede il marito beffato concretizzare la sua semplicità “in atto” (anche giuridico) firmando un contratto al padre della sposa e mettendo così per iscritto tutta la propria imbecillità – è un apporto originale del farceur che restituisce efficientemente la trama alla dimensione del catafalco. L’azione pratica, più che la coerenza della trama, è chiara ed evidente, priva di equivoci: deve sempre poter essere trasferita facilmente sul piano dell’interpretazione drammatica, ragione per cui i procedimenti linguistici preferiti dei farceur sono quelli che maggiormente stigmatizzano tutto un orizzonte di senso in una figura (del linguaggio, del gesto). È per questo che i proverbi sono di grandissima utilità pratica per l’insieme farsa|sottie. Il significato nella sua “messa in farsa” non può che realizzarsi in un’amplificazione “gestuale”, spesso anche a prezzo della coerenza generale del procedere narrativo. A differenza della farsa nella narrazione in prosa e novellistica possono esserci appigli psicologici o zone di ambiguità, compensate dalle descrizioni e dagli argomenti narrativi. La farsa non possiede altro argomento che la biomeccanica della risata. Quand [la farce] récupère les données d’un conte, elle utilise des matériaux qui prennent leur place dans un système, devenant les rouages d’un mécanisme dont seul le bon fonctionnement importe, excluant tout autre considération. Ainsi s’expliquent certains détails divergents entre conte et farce, anodins d’apparence, et qui se révèlent essentiels, motivé par les nécessités de fonctionnements de tout l’ensemble.» 149 Le stesse “regole morali” alla base della farsa favoriscono lo sviluppo di una macchina della risata in questa ottica dell’azione: «Tel trompe au loing qui est trompé», «A trompeur trompeur et demy», «Tromperye toujours retourne | A son maistre», «A trompeur tromperie luy vient».150 Il principio del dupeur dupé non è allora una sorta di ascesi moralistica (i nostri farceur non sono esattamente dei moralisti incalliti) ma la descrizione di mondo-macchina nei cui ingranaggi tutti prima o poi finiscono sfracellati: un continuo rimbalzo degli eventi, che si capovolgono da un momento all’altro, senza seguire alcuna logica se non la “meccanica quantistica” del movimento. Il castigo che la vittima infligge al suo carnefice implica l’inversione dei ruoli nella pièce (da dupé a dupeur) che può certamente suonare come una improbabile inversione di ruolo sociale, ma in modo 149 B. REY-FLAUD, 1984 : p.83. Nell’ordine : Savetier nommé Calbain, (ATF, t.II, p.140); Gentilhomme, Lison, Naudet, la Damoyselle, (ATF, t.I, pp.250-270) ; Bon payeur, (Rec. LEROUX, t.III, n° 52) ; Du Poulier à six personnages, (Rec. LEROUX, t.II, n°26). 96 150 ipergenerico poiché meramente automatico: quello che non avviene nel mondo reale avviene sempre nel mondo di Bengodi, ma Cuccagna rimane sempre una realtà costruita per opposti più che una utopia ideologica. Suona bene in questo contesto il finale epigrammatico della farsa detta del Gentilhomme, Lison, Naudet, la damoyselle, dove il protagonista afferma, sul finale: «Ne venez plus naudetiser ; | Je n’iray plus seigneuriser»,151 ove la trasformazione di “être-seigneur|être-naudet” in spericolato predicato verbale è un ottima metafora per questo passaggio dalla parola all’azione. Come per il farceur che ha pensato il Pourpoint, l’autore della Farce de celui qui se confesse à sa voisine152 ha scelto la confessione come luogo di ribaltamento delle vicende: nella trama il marito viene costretto dalla moglie a confessarsi ad una comare travestita da prete, sperando così di fugare ogni dubbio sull’infedeltà dell’uomo. Ma al momento della confessione, l’amica che gioca il ruolo del prete dovrà apprendere suo malgrado che l’uomo ha scelto sua figlia per amante. Ecco ancora un danno per chi fa lo scherzo: e non esiste alcun giudizio morale, tutti sono reietti allo stesso modo e sia per chi truffa che per chi se ne sta tranquillo per conto suo senza nuocere ad alcuno, il mondo prepara sempre un tiro malefico. A ben vedere il principio à trompeur trompeur et demi andrebbe modificato in à trompés et trompeurs trompeurs et demi: l’astuzia e l’inganno sono gli elementi in farsa più importanti, macchine infernali e trappole pronte a scattare per tutti, nessuno escluso, in quanto il personaggio scenico (il personaggio nel mondo?) è soggetto al rimbalzo continuo dell’inganno e neanche l’astuzia lo salva se non in rari casi o per puro azzardo del destino. Determinare un agente passivo ed uno attivo nella farsa è un compito impossibile, e questo è a nostro avviso il fattore che rende addirittura enigmatiche le trame di queste composizioni. In quasi tutte le trame i ruoli vengono capovolti automaticamente dallo sviluppo della ruse: anzi, la successione stessa degli inganni può prevedere più ribaltamenti in serie spesso inficiando la tensione complessiva del plot e rendendo vano qualsiasi tentativo di individuazione di una “morale della favola”. Personaggi cannibalizzati e sottoposti alle regole ferree della vita, in cui il meccanismo di selezione naturale semplicemente non esiste, perché l’ingannatore sarà sempre prima o poi ingannato ed anche il più astuto dovrà capitolare di fronte al primo berger venuto. 151 152 ATF, t.I, pp.250-270 : p.269. Rép. COHEN, n° II, pp.9-20. 97 Rappresenta pertanto un grave errore metodologico cercare di dividere i personaggi in farsa in due grandi categorie psicologiche: tentativo che è stato eseguito a più riprese da Pierre Toldo e da Charles Mazouer153 e da chi ha letto un significato socio-politico nella comicità da catafalco. Il mondo della farsa non può essere descritto come un enorme contenitore diviso fra traditori e traditi, fra chi decide di vivere la vita con astuzia, e chi, al massimo, usa l’astuzia per vendicarsi dei tiri mancini degli altri. Forniremo più avanti molti più campioni di trame e vedremo ad esempio come nella Farce de Mahuet,154 l’idiota ingannato spacchi sulla testa del suo ingannatore un vaso di latte e come tutto questo avvenga per una strana successione di casualità e non per le doti intrinseche della personalità del protagonista. È questa la caratteristica principale del genere farsesco, sempre alla ricerca di una ascesi biomeccanica, intenzionalmente privo del tratteggio chiaroscurale del personaggi. Anche qualora la trama assuma un ruolo determinante, come in Pathelin, essa non colma tutti gli spazi e tralascia molti dettagli. Non tutti i “fucili” nella farsa sono destinati a sparare; donde il senso di spaesamento che sempre il lettore moderno riscontra ad una prima lettura di queste composizioni: individui come schemi mentali a ripetere un meccanismo insensato e continuo che è sempre comandato dalle medesime regole e del quale pertanto la conclusione è sempre rappresentata da puntini di sospensione, incompletezza. È in questo senso che come dicevamo nella farsa si sviluppa una specie di pessimismo cosmico, che disegna l’umanità come un branco di insensati, bloccati da istinti animali, basilari, come sesso e cibo, e costretti a girare in tondo, a dare e ricevere la medesima quantità di dolorose bastonate. Attenzione però a non commettere lo stesso errore di Bernadette Rey-Flaud che in virtù di questo meccanicismo rischia di tralasciare la complessità di un personaggio singolare come lo stolto da farsa. Vero è che nelle teorie di Mazouer e Toldo il niais diventava il centro e l’asse portante di una artificiale teoria psicologica: carattere “dominante” che non solo darebbe luogo per opposizione a tutti gli altri personaggi, ma innescherebbe pure il meccanismo ad orologeria della storia, facendo scattare gli ingranaggi al momento giusto con la sua idiozia recidiva. Per noi la qualità principale ed eminentemente teatrale dello stolto da farsa è la sua basilare ambiguità ed imprendibilità: nel niais non si capisce mai se la stupidità sussiste in quanto tale o se è una finta, una simulazione sottile per attivare complessi ed insondabili piani di astuzia. 153 154 P. TOLDO, 1903 ; C. MAZOUER, 1979. ATF, t.II, pp.80-89. 98 Come nella cinematografica slapstick comedy il matto e l’imbecille sono sempre “vittime trionfanti”: non tanto nei fatti concreti della trama – che lascia tutti in una “media beffa” e specialmente loro, i matti – ma nella perenne inconsapevolezza che li rende impermeabili anche alla più catastrofica disfatta, in una zona di ombra ed ambiguità che rende lo stupido un saggio superbo. Pensiamo ancora a Mahuet: ha perso il bene che gli era stato affidato, il latte, ma scorrazza al mercato, beota e beato, fino ad eseguire una vendetta tutta inconsapevole. Gli studi critici classici dedicati alle farse danno per inteso che queste composizioni, più che delle narrazioni vere e proprie, fossero lo sviluppo di situazioni senza esiti e che ciò fosse la riprova di un certo primitivismo o ingenuità, vedendo l’errore laddove v’è solo la specificità linguistica del mezzo teatrale. 1.3.4 – Intrecci brevi e complessi. Nella letteratura comica francese a cavallo XV e XVI secolo le forme limitrofe della farsa sono in realtà le sue funzioni specifiche, che diremo pertanto false-farse: in questa categoria possiamo includere i monologhi giocosi, le parate fantastiche e le affabulazioni da mercato. Rare sono le testimonianze a stampa in questo settore perché si trattava di un ambito basso e pertanto più volatile: eseguite come erano per la strada e sulla piazza da quelli che a vario titolo occupavano i marciapiedi, con finalità di vendita o diporto. Fra questo insieme articolato e variopinto troviamo ad esempio i cry dei mestieri, conosciuti e popolarissimi in virtù della loro quotidiana funzione di richiamo della clientela: una fonte godibile di queste scenette di strada è la semplicissima Farce du Bateleur,155 elementare pretesto per esibire luoghi comuni e figure ricorrenti del mercato medievale in cui è ancora una volta possibile scorgere elementi meta-drammatici: il Batelier si rivolge ad un falso pubblico sul catafalco ed a quello che sta seguendo la rappresentazione. La nostra visione modulare della farsa trova un valido appoggio nella distinzione fra facéties e farcéries: le prime sono azioni semplici, secche e gratuite; le seconde invece assemblano più astuzie in una specie di svolgimento drammatico. 155 Rec. TISSIER, t.II, pp.185-228. 99 Le facéties sarebbero quindi giochi semplici e senza capovolgimenti con finalità e punti di partenza del tutto pretestuosi. Tali facezie risultano brutali nella loro elementarità, come nel caso di quella denominata farsa del du Goguelu156 dove valletto e cameriera non fanno null’altro che tormentare il padrone cieco, bastonandolo ed infliggendogli crudeli punizioni: la schematicità biomeccanica della pièce è esemplare, essendo il dialogo costruito attorno alle sole possibilità della comicità corporea. Il “jeu” du Garçon et de l’aveugle157 è una facezia assai antica, che esula dalla nostra trattazione per limiti cronologici (è del 1266-1282), ma che dimostra come i criteri assoluti di cronologia ed evoluzione in continuum della farsa non siano validi. Il tema è lo stesso della precedente: prendersi gioco di un cieco. Qui un ragazzo incontra un viandante privo della vista che gli confida imprudentemente d’esser ricco; dopo averlo bastonato a sangue fingendo d’essere un altro, il ragazzo lo deruba di tutti i suoi beni e lo lascia per la strada senza troppi complimenti. Si vede qui come si tratti della messa in scena di una semplice situazione, senza alcun altro interesse narrativo. La composizione è brevissima, ma nell’arco di poco meno di 300 versi riesce a sviluppare un doppio tiro ai danni dell’uomo. Che poi il trompeur non sia trompé poco importa: l’imprevedibile legge della ruse doveva permettere alla “troupe” di vendicare il vecchio magari in un altro episodio del varietà spettacolare. La semplicità di questi moduli drammatici non lascia alle presenze sceniche alcuna possibilità di ripresa o riscatto: la macchina delle botte è qui così bene sviluppata e tanto rapida che si sarebbe addirittura tentati a pensare che questo genere faceto fosse ampiamente sviluppato già nel XIII secolo: ma la composizione, considerata per queste ragioni ai prodromi del farsesco, è l’unico esempio a nostra disposizione risalente all’alto medioevo. Ovvio come in questo linguaggio modulare siano numerose le variazioni successive del canovaccio, pur nella disarmante semplicità degli sviluppi e delle derivazioni: vediamo a mo’ di esempio una concatenazione di varianti. Nella farsa detta d’un Pardonneur d’un triacleur et d’une tavernière158 vediamo due ciarlatani battersi per la clientela ma – dimenticati gli antichi malumori – i due si associano, mangiano, bevono e decidono di pagare con un banalissimo paio di pantaloni, spacciato per preziosa reliquia. Ne le Chaulderonnier, le savetier et le tavernier159 due compari vanno alla taverna e gozzovigliano, non prima di essersi disputati la difficile clientela del mercato degli imbonitori ed essersi picchiati a 156 Rép. COHEN, n° XLV, pp.357-367. J. DUFOURNET, 1982. 158 ATF, t.II, pp.50-63. 159 Ibidem, pp.115-127. 157 100 sangue; al momento di pagare il conto il Savetier propone al taverniere di andare a casa sua per prendere il denaro: il taverniere li raggiunge, ma questi si fanno trovare l’uno vestito da donna folle e l’altro da marito bastonato. Alzano così un tale parapiglia che il taverniere non può riscuotere il conto dovuto e prende in cambio una bella scarica di bastonate. La struttura semplice delle facéties è talvolta un tentativo fallito di farsa o una velata riproduzione di materiale preesistente: è il rapporto che intercorre ad esempio fra la semplice Farce de la trippière160 e la bella Farce du pasté et de la tarte.161 La Trippière prende la prima parte della farsa del Pasté: la venditrice di trippe rifiuta l’elemosina a due mendicanti. Qui però nella seconda parte i due si vendicano, mascherandosi e distruggendo i vasi di trippa nella bottega, simulando una disputa estemporanea e faceta. Ad onta di una ripresa molto fedele dell’episodio dell’elemosina negata, la Trippière presenta una differenza sostanziale con il Pasté nella totale assenza di capovolgimenti Trompé / Trompeur. Intrattengono un analogo rapporto la Farce d’un chaulderonnier162 e quella des Droits de la Porte Bodès (o Baudet):163 nella prima una coppia si disputa ed arriva alla “scommessa del silenzio”; sopraggiunge uno Chaulderonnier che tenta invano di parlare col marito e che poi si rivolge con parole volgari alla donna, causando la reazione repentina dell’uomo. La donna esulta ed invita i due alla taverna. La seconda farsa completa e capovolge l’azione secca della prima: una coppia litiga su chi deve chiudere la porta, arrivando alla sfida del mutismo; passa un giudice che si prende qualche libertà con la donna e ne causa la collera; il marito esulta, la donna rifiuta di accettare la vittoria e così fa causa al marito, presentando un rotolo di faccende da sbrigare: il marito dovrà essere servitore della donna, così decreta il giudice. Il rotoletto delle mansioni ricorda fra l’altro quello della Farce du Cuvier,164 fatto che sottolinea la complessità delle relazioni che intercorrono fra temi e pezzi. La farcerie è una composizione coerente d’episodi faceti ove l’intrigo sembra assumere un qualche valore aggiunto rispetto alla facétie. Il termine è contenuto nel finale dell’elementare Farce des Esveilleurs du chat qui dort, dont ilz s’en prennent par le nez et sont farcez,165 che di per sé è piuttosto una facétie. 160 Rép. COHEN, n°LII, pp.421-432. ATF, t.II, pp.64-79. 162 Ibidem, p.105-114. 163 Rép. COHEN, n°XX, pp.159-164. 164 ATF, t.I, pp.32-49. 165 Rép. COHEN, n°XXXIV, pp.269-271. 161 101 Conclusion en farserie : Du chat qui dort les esveilleurs sont attrapez, dont fault qu’on rie. Conclusion en farserie : Le chat sans point de mocquerie Sur les mains leur a mis couleurs. Conclusion en farcerie : Du chat qui dort les esveilleurs.166 La moltiplicazione dei personaggi dà più facilmente origine ad una maggiore complessità dell’azione che può beneficiare di imprevisti capovolgimenti ed intrecci meno forzati e più comprensibili. È il caso de le Savetier, le moyne, la femme et le portier, della già citata Pasté et la tarte, della Farce del poulier e di quella del Bon payeur,167 tutte più o meno risultanti dall’assemblaggio di frammenti tematici presenti anche altrove. La farcerie porta avanti un’azione complessa secondo la logica ricombinante che abbiamo più volte richiamato: è una composizione di facezie, più o meno sapientemente cucite assieme. Lo stesso Pathelin consiste di tre farse diverse di circa cinquecento versi ciascuna (corrispondenti alla misura normale d’una farsa). Nello sviluppo degli episodi abbiamo addirittura la sensazione che l’autore si sforzi di trovare delle chiusure interne. Il furto delle stoffe Il falso malato Il processo ridicolo « Tel est pris qui croyait prendre » « Dicat sibi quod trufator, | ille qui in lecto jacet, | vult ei dare, si placet, | de oca ad comendum. | Si sit bona ad edendum, | pete tibi sine mora. »168 « Or cuidoye estre sur tous maistre, | des trompeurs d'icy et d'ailleurs, | des fort coureux et des bailleurs | de parolle en payement | a rendre au jour du jugement, | et ung bergier des champs me passe! » Nella sua costruzione della teoria della machine à rire Bernadette Rey-Flaud non è però del tutto convinta e si contraddice quando a proposito della differenza fra la facezia e la “farseria” afferma che la complessità non è un fattore determinante e che esistono facezie composte da più trame insieme o che conservano una struttura assai complessa paragonabile a quella di Pathelin. Ammettendo questa eccezione alla regola viene da domandarsi dove risieda la differenza fra i due generi e quale fattore sia decisivo per distinguere una farcerie da una facétie. 166 Ibidem : p.271. Rép. COHEN, n° XXXIII, pp.259-268; ATF, t.II, pp.64-79; Rec. LEROUX, t.II, n°26 ; Rec. TISSIER, t.III, 176-195. 168 La chiusura avviene un po’ prima della fine della scena, ed è giustamente demandata alle parole di Pathelin, che come si vede, nel suo latino maccheronico trova il modo di riprendere l’espressione figurata «mangiar l’oca» (per «truffare») che intesse tutta la farsa. 102 167 Noi saremo più “integralisti” nella nostra visione modulare, comprendendo nella facétie solo l’episodio singolo (quello in cui l’astuzia si conclude in sé), e nella farcerie le pièce dove episodi preesistenti danno vita ad una composizione originale. In virtù della prospettiva evoluzionistica che abbiamo più volte menzionato e certamente premurosi di dover in qualche modo “giustificare” in chiave diacronica l’esistenza di Molière, molti storici francesi del teatro,169 hanno rimproverato alla farsa di non avere sviluppato un vero arsenale di caratteri chiaroscurali. Farsa e sue forme liminari hanno un’attitudine alla schematizzazione delle motivazioni dei personaggi, che risultano così falsi, schematici, rozzi. Anche la carica comica di queste composizioni beneficia della semplicità dei caratteri, pupazzi scenici facilmente esposti al grottesco ed al parodico. Si tratta di opere che non possono rinunciare alla brevità, in quanto le pratiche teatrali correnti le vogliono assemblabili all’infinito in recite che devono poterle usare a proprio piacimento: o come banali camere di decompressione dell’attenzione del pubblico nei lunghi cicli misterici, oppure come pezzi di un varietà scenico fatto di lazzi e balzi biomeccanici. Con la sua estetica della brevità, il teatro della farsa è uno spettacolo facile e potabile: i farceur invece di cercare la complicazione, come fanno i novellieri, puntano al contrario alla semplificazione di tutti gli elementi del teatro lasciando in piedi solo lo scheletro dell’azione ed assecondando il proprio repertorio all’abitudine attoriale, ma anche al décor. I catafalchi implicavano una simultaneità di azioni e di presenze ben chiara agli occhi del pubblico medievale, abituato a leggere le funzioni temporali della scena in modo radicalmente diverso dalla nostra visione “centrale” della narrazione: se il teatro moderno è teatro di narrazione, il teatro che si delinea in Francia fra medioevo, Umanesimo e Rinascimento è un teatro della situazione e dell’avvenimento, varietà più che prosa. Modularità mentale delle trame e modularità fisica del catafalco: modernità semantica, certo, ma in contrasto con la ventura rivoluzione rinascimentale in cui la centralizzazione della prospettiva (delle arti figurative, del palcoscenico) esprimerà in modo determinante la centralità umana e dunque la coerenza dello spazio e del tempo attorno al sé. 169 Primo fra tutti Gustave Cohen nei suoi capitali studi sulle forme drammatiche francesi delle origini. 103 1.4 -Trepperel e la madre degli stolti. Due progetti editoriali. 1.4.1 – Le Jeu du Prince des Sotz fra disimpegno e politica. Abbiamo già più volte rifiutato una lettura in chiave impegnata dello spettacolo profano francese,170 preferendo piuttosto analizzare polemiche e contesti caso per caso e quando esistano concretamente, in luogo di riconoscere una significazione “antisociale” (o, peggio, socialista) nello sviluppo di taluni o talaltri sistemi di destrutturazione linguistica: il problema della politica nel teatro profano va toccato solo qualora esso sia posto dall’autore; e questo è il caso del Jeu du Prince des sotz.171 In occasione del carnevale parigino del 1512172 Pierre Gringore – poeta, teatrante, retorico ed attore che si fregiava del titolo di Mère Sotte, madre degli stolti, ma con confusione fonetica a nostro avviso anche «maire», sindaco della cittadinanza degli idioti – realizzava una virulenta satira contro papa Giulio II in un varietà poetico-teatrale che prevedeva una Sottie contre Pape Jules II (introdotta da un 170 Gli studi sulla sottie come forma di espressione politica sono ampiamente sviluppati da Heather ARDEN (1980) e restano comunque un utile strumento interpretativo. 171 A. HINDLEY, 2000. 172 Il primo foglio recita «Joué aux Halles de Paris le Mardy Gras lan mil cinq cens et onze». Noi usiamo la progressione cronologica moderna, dunque la data contrasta con quella indicata nell’edizione originale del Jeu, 1511, che usa il vecchio sistema di conteggio dell’anno solare, calcolato dal 25 marzo, per il periodo gennaio-marzo è per noi nell’anno successivo, 1512. 104 cry), una farsa (Raoullet Ployart) ed una moralità (detta de l’Homme Obstiné), per un totale di 1500 versi circa, rappresentati durante il martedì grasso al mercato de les Halles. Il gioco allestito da Gringore contava una serie di precisi riferimenti alla contemporaneità politica più stringente (le guerre italiane, il conflitto fra Luigi XII e Giulio II ed il concilio di Pisa) e mostrava precocemente le linee di una nascente politica editoriale con un tentativo preciso da parte dell’autore di legare al suo nome la recita e l’operazione editoriale che ne conseguiva. Per la letteratura teatrale profana, le cui edizioni erano nella maggior parte dei casi anonime e per lo più prive di un disegno autoriale, è un fatto assolutamente straordinario. Pierre Gringore aveva impostato una precisa strategia editoriale per la sua opera, in aperto antagonismo con le pratiche piratesche che caratterizzavano l’imprimerie dell’epoca ed in particolar modo il florido mercato del libro parigino. Dopo la rappresentazione nella pubblica piazza, il jeu entrò a far parte dei repertori a stampa di due dei più attivi editori della città: da una parte Pierre Le Dru, abituato ad esercitare la professione in un contesto medio-alto (emulo, più che equivalente, di figure del calibro degli Estienne), con edizioni di lusso espressamente dedicate a umanisti e filologi; dall’altra la casa di edizioni della famiglia Trepperel, che, all’opposto, praticava l’impressione di testi più popolari e di minor pregio materiale, con modalità di riproduzione spesso dubbie e piratesche. E naturalmente due destinatari completamente diversi: da un lato un pubblico di “professionisti della lettura”, pratichi di retorica, latino e belle lettere; dall’altro lato il mercato più recente, una platea di lettori parvenu che avevano beneficiato con la stampa di un accresciuto accesso ai libri e che per formazione culturale e connotazione sociale prediligevano la manualistica e la letteratura di intrattenimento. L’opera di Pierre Gringore poteva coprire per sua natura i due segmenti di ricezione, ed il jeu nel passaggio dall’una all’altra officina restava in sostanza lo stesso. È lecito allora domandarsi che cosa avessero in comune i due pubblici di lettori. Esisteva un’identità fra pubblico delle rappresentazioni da catafalco e lettori? E quali erano le funzioni che la stampa assumeva nel dialogo fra platea ed autore? Il supporto materiale del testo, il libro, non è mero trasportatore di significato ma elemento di interazione attiva con l’opera, e quindi può aiutare a ricostruire queste relazioni. La forma materiale di un testo ha valore significante e fornisce dati interessanti sul contesto di diffusione e di recezione di un’opera, permettendo di chiarirne gli usi e l’ambito sociale destinatario e la sua maggiore o minore coerenza “ideologica” con un dato strato della popolazione. In altri termini la forma libro – 105 ed in particolare quella di composizioni che sono solo parte di un complesso meta-testuale (nel nostro caso la recita) – contiene informazioni d’uso preziose.173 In particolare cercheremo di analizzare tre edizioni del Jeu du Prince des Sotz: la prima uscita dalle presse di Pierre Le Dru immediatamente dopo la recita per la quale era stata pensata; la seconda, posteriore di un solo anno (1513), firmata da Trepperel e famiglia; ed una terza, che rimonta a dieci anni dopo (1523), sempre uscita dall’atelier Trepperel. Solo i primi due esemplari sono dotati della devise di Gringore. La raccolta è ben conosciuta fin dal XVIII secolo quando nel 1798-1806 ne compariva un’edizione nella collezione Caron, impressa in 57 esemplari, in cui si tentava anche di segnalare tutti gli errori della stampa originale e di modernizzarne la punteggiatura. L’editio princeps174 è quella letta ed approvata da Pierre Gringore in cui l’autore rivendica la paternità della composizione attraverso un’attenta distribuzione delle sue insegne all’interno del volume: acrostici, motto e marche di impressione sono impiegati per apporre uno stampo inequivocabile di possesso intellettuale. Al foglio 45 registriamo la presenza esplicita del nome, accuratamente associato a quello di Mère Sotte, ma ad esso disgiunto in modo da mettere in luce l’esistenza “civile” (o civica) del poeta: «finis | Fin du cry / sottie / moralyte et farce cõ | posez par Pierre gringoire dit mere sotte.& | Imprime par iceluy», l’ultima parte del colophon dimostra come lo scrittore abbia personalmente supervisionato alla tiratura a stampa e ne certifica pertanto l’autorevolezza. La prima pagina dell’opera, benché non faccia diretto riferimento all’autore, ne segnala la presenza: ospita infatti il legno con la marca di Gringore raffigurante il solito suo personaggio in tonaca e orecchie da asino, cui fanno da allegri compagni altri due idioti di scena, più piccoli, che, disposti l’uno a destra e l’altro a sinistra, tengono per mano il soggetto principale, madre di tutti gli stolti. A riempire la campitura bianca dello sfondo un terreno su cui spuntano sei ciuffi d’erba: lo stemma è inquadrato dal motto che recita «tout par raison | raison par tout | par tout raison»; il legno ha l’aria di essere nuovo o scarsamente utilizzato. La qualità generale della stampa è affatto curata: pur non esistendo tracce evidenti dell’editore, Le Dru dovette prendere a cuore la pubblicazione dell’opera, benché essa non rispecchiasse esattamente il suo “catalogo”.175 173 A. MARCULESCU, 2007. È l’esemplare della riserva rari e preziosi BNF, Rés. Ye 1317. 175 L’attribuzione allo stampatore di lusso Pierre Le Dru (assai convincente e che dunque diamo per assunta) è in HINDLEY, (2000 : pp.13 e sgg.) e si basa su una attenta analisi dei legni e dei piombi dell’opera. 106 174 Varie ipotesi176 attestano che le officine Le Dru pubblicarono già in passato, nel 1505, un’opera firmata da Pierre Gringore, le Folles enterprises. Ed è proprio dai primi anni del 1500 che Gringore cominciava ad adottare lo stemma che campeggia sulla prima pagina del Jeu du Prince des sotz: il legno è anzi identificabile con l’antica marca dell’atelier Le Dru e pare che lo stampatore dovette cederlo a Gringore, il quale gli aggiunse il motto, eleggendolo ad iconologia rappresentativa del suo immaginario Sans-Soucy e del ruolo ricoperto ufficialmente nella confraternita dei sot. Fatto sta che con la pubblicazione del gioco, Pierre Le Dru da una parte si garantiva la presenza dell’opera del celebre poeta fra i suoi prodotti – un “bestseller”, per così dire – le cui vendite erano garantite in partenza, anche grazie alla pubblicità resa dalla fresca esecuzione performativa della composizione; dall’altra parte Gringore si qualificava scrittore di pregio, una delle rare personalità autoriali nel difficile mercato piratesco delle edizioni a stampa. E tuttavia, per un bizzarro scherzo del mercato, l’opera era destinata a cadere nelle mani dello spregiudicato editore Trepperel, finendo anch’essa nel mercato dell’anonimato seriale che Pierre Gringore aveva voluto prevenire. Pierre Le Dru fu attivo fra il 1488 ed il 1515,177 prima nella rue St-Jacques e poi nella rue des Mathurins. Judging from the nature of the books he published, 31 one may point out that Le Dru was more interested in rather scholarly publications. A rapid comparison between the texts in Latin and those in vernacular clearly shows that Le Dru was specialised in publishing and selling rather classical and scholastic works. Suffice it mention a few of the titles and authors which he published in the years previous to the publication of Gringore’s play. In 1494 he printed Bonaventura, Guido de Monte Rocherii, in 1501 Antoninus Florentinus’ Confessionales, in 1502 Isidorus Hispalensis, De summo bono, in 1509 Jean Buridan, Subtilissime questiones Super octo Phisicorum Libros Aristotelis, in 1510 Werner Rolewinck’s De valore missarum and the list goes on with classical authors, medieval scholastic philosophers and theological treaties. Dramatic titles, albeit less numerous than the “serious” titles, are also to be included in his repertoire. In 1508, four years before the printing of Gringore’s play, Le Dru published Mystère de l’ancien Testament par personnages ioue à Paris.178 La rapida lista dei titoli ci fa chiarire subito che Le Dru è un editore serio di opere di pregio ed interesse settoriale: l’adozione d’un titolo come il Jeu contribuiva ad allargarne la notorietà, visto l’interesse non solo letterario, ma anche civico suscitato dalle rappresentazioni del carnevale. 176 C. BROWN, 1995. Della sua vita si sa poco e niente ed addirittura non esiste (o non abbiamo trovato) alcun repertorio dedicato specificamente alla sua attività. Per un elenco delle opere impresse da questo editore ci basiamo sulla breve ricognizione di Andreea MARCULESCO (2007), che utilizza i repertori generi e classici per una ricostruzione cronologica di massima delle sue pubblicazioni. 178 A. MARCULESCU, 2007 : pp.10-11. 107 177 Pierre Gringore è a sua volta in un periodo di espansione della sua notorietà e di controllo del mercato spettacolare parigino. L’autore è uso ad inserire momenti di attualità storico-politica anche nei suoi lavori più spiccatamente comici e profani. Si arriva così ad un livello di interesse ulteriore per i clienti di Le Dru, ovverosia la questione dei rapporti fra Luigi XII e la chiesa di Roma, cui l’opera di Gringore non forniva solo una prospettiva critica, un giudizio, ma anche informazioni di interesse pratico, funzionando come speciale attualità politica in versi degli ultimi sviluppi della questione italiana.179 È dunque anche per “scrupolo di fonti” che l’editore assegna un nome ed un cognome all’eclettica ed orecchiuta madre degli stolti: la pubblicazione di un’opera vicina a Luigi XII era un utile atto di captatio benevolentiae nei riguardi del re, da cui poteva dipendere la maggiore o minore libertà delle presse anche a prescindere della censura scolastica ed accademica, secondo il sistema “liberale” dei privilegi di stampa. Analoga strategia politica era stata adottata dallo stesso Le Dru anche nel 1509 quando si trovò a pubblicare un’altra opera di Pierre Gringore fortemente filo-realista, l’Union de princes, in cui si trattava dei fatti della lega di Cambrai e dove la firma dell’autore compariva con modalità simili a quelle dell’edizione del Jeu. Inoltre con la “certificazione” a stampa, il prodotto librario faceva assumere alla performance da catafalco un valore nuovo: quello di un linguaggio in grado di produrre un discorso in un legame fra idea ed esecuzione che trovava nella retorica una pratica di riferimento ben nota alla fascia alta dei lettori. Appena un anno dopo, però, la medesima opera usciva in una versione “non certificata” che ambiva ad un mercato di destinazione altro, cogliendo il valore più francamente corrivo, epidermico, della pièce. Questa seconda edizione del Jeu fu composta nel 1513 con i tipi di Trepperel ed è conservata alla biblioteca Méjanes a Aix-en-Provence sotto la collocazione Méj. Rés. D 493. Sebbene il testo della nuova edizione rispecchi in tutto e per tutto la prima, sono notevoli (e tutte in negativo) le differenze sul piano della qualità dell’impressione, dei refusi, dei legni impegnati e 179 Il ne me fault point resveiller, | Je fais le guet de toutes pars | Sur Espaignolz et sur Lombars | Qui ont mys leurs timbres folletz. | Garde me donne des Allemans; | Je voy ce que font des Flamens | Et les Anglois dedans Calletz. (vv. 66-73). E nella moralità: PEUPLE YTALIQUE : J’ay gens d’armes qui sont en garnison | En mon hostel ; j’ai n’en suis pas le maistre. | Souvent n’y a ne ryme ne raison. | Il court pour moi si maulvaise saison | Que ne me sçay ou heberger et mettre. (vv. 48-52) 108 dell’impaginato. Sottolineiamone soprattutto tre, ovvero (1) l’assenza di qualsivoglia menzione del nome di Pierre Gringore, (2) la riproduzione piratata del legno di apertura con la madre degli stolti (e l’impressione multipla dello stesso anche all’interno dell’opera, nella quale risulta peraltro fortemente degradato) ed infine (3) la scarsa qualità generale dell’edizione. Focalizziamoci sull’incisione di prima pagina, che è sovrastata da un titolo di corpo assai maggiore nella Méj che nella versione Le Dru, in modo da donare superiore importanza all’evento performativo, alla genesi scenica del testo letterario. Anche l’incisione di Mère Sotte subisce delle modifiche in Méj: il marchio non è quello originale di Pierre Gringore se i sei ciuffi d’erba dello stemma si riducono a quattro (il tratto del disegno è evidentemente calcato), e soprattutto se il motto equivoca la parola «raison» in caratteri gotici non chiari, così che è possibile leggervi un improbabile «ravon» o «raiion» o «rauon». Sembra quantomeno paradossale che il progetto editoriale primitivo del poeta trovasse nell’edizione successiva di appena un anno un tale ribaltamento, che contraddiceva (e per certi versi inficiava) gli scopi e le ragioni della stampa princeps di lusso. È uno dei molteplici episodi di plagio di cui si macchia la reputazione di Trepperel, (la cui falsificazione delle opere di Gringore sembra essere una costante del mercato editoriale parigino), o si tratta Figura 1. Stemma e devise di Gringore falsificati da Trepperel. piuttosto di un’operazione condotta con il consenso dell’autore? Alan Hindley, seguendo diverse considerazioni formulate in prima istanza da Eugénie Droz, ipotizza che l’esemplare Méj. sia stato copiato a partire dall’edizione Le Dru: la vedova Trepperel (Jehan, il capofamiglia, muore nel 1511) lavorava all’epoca in associazione con Jean Janot ed era pratica di riedizioni anonime e piratate. Pensiamo ad esempio alla raccolta Trepperel di sottie a noi già familiare – impressa in fascicoletti distinti in un arco cronologico a cavallo con la pubblicazione del jeu – in cui la marca di Mère Sotte viene usata a più riprese180 e sempre nella variante illecita, o quantomeno non corrispondente a quella ufficiale Le Dru-Gringore: è il caso per esempio della sottie Estourdi, Coquillart, et Desgouté,181 180 L’incisione compare in: Sotie et farce nouvelle de estourdi et coquillart a iii personnages (n°2), Sotie nouvelle a cinq personnages des sotz escornez tresbonne (n°15), Sotie nouvelle des sotz qui corrigent le magnificat a cinq personnages (n°9), Sotie nouvelle a quatre personnaiges des raporteurs (n°4). Così come tutte le note fin qui ed in futuro riferite alla Trepperel i numeri delle pièce corrispondono all’ordine stabilito da Eugénie Droz e non a quello della legatura originale. 181 TREPPEREL I, n° II. 109 ristampa parziale del Menus propos182del 1461, giunta a noi in due esemplari: il primo con lo stemma originale, l’altro con il legno ed il motto contraffatti. Se effettivamente dietro l’operazione dei Trepperel si celasse l’intenzione dell’autore, (magari interessato ad una più facile distribuzione del jeu), viene da chiedersi per quale ragione egli non abbia almeno ceduto i legni originali all’atelier Trepperel. Lo stemma significante di Gringore, volto in origine a dare autorità all’opera ed in particolare alle notizie di attualità che vi comparivano, viene impiegato da Trepperel senza essere associato al nome dell’autore, quasi fosse un’illustrazione didascalica del momento concreto della performance: identificazione latente, dunque, in grado di fornire ai destinatari bassi delle edizioni Trepperel un duplice messaggio. Da un lato la documentazione per immagini dell’evento, che si supponeva fosse loro noto, medesima funzione, se ci è consentito azzardare, della “foto di scena”; dall’altra parte una sorta di “logo”, stemma o etichetta che richiamava la celebrità di Gringore in quanto uomo del catafalco. Pur mantenendo il gioco della dissimulazione piratesca, il pubblico doveva associare subito la figura del principe degli stolti alla pièce scritta. In questo modo Trepperel approfittava del secondo segmento di lettori che poteva essere interessato alla lettura: la massa della nuova borghesia mercantile cittadina che cominciava a trovare nelle opere a stampa un ideale passatempo liberale. Più tardi la spregiudicata operazione commerciale dei Trepperel avrà ben altra risonanza e modernità con l’attività di Nicolas Oudot I de Troyes, che con la sua Bibliothèque bleue sarà uno dei fondatori dell’editoria commerciale: la sua collezione di letteratura di colportage (da dare a vendere cioè ai disgraziati che percorrevano la città con una cassetta piena di libri al collo) sarà distribuita fino quasi alla rivoluzione francese, unica o quasi a sfamare gli appetiti letterari delle classi medie. Le manovre editoriali “popolari” degli imprimeur parigini come Trepperel, solo raramente si basavano sulla produzione di nuove opere e consistevano quasi sempre nel cambiare il pubblico ed il contesto di ricezione originale di un’opera, realizzando una sorta di denaturazione delle funzioni iniziali del testo a stampa. Tornando al caso dell’edizione Méj. del Jeu l’assenza di una fonte che attesti la provenienza e l’autorevolezza del parlante testimonia dello scarso valore che la cronaca politica ricopriva nel contesto editoriale adottivo: il nostro editore clandestino sapeva che l’opera di Gringore poteva esser 182 RGS, t.I, pp.41-112. 110 letta anche facendo a meno di decifrare le misteriose allusioni storiche, riportata cioè alla sua funzione performativa pura, e letta per quello che era: una farsa, una moralità, una sottie, un cry. La famiglia Trepperel non pescava a caso nel crescente repertorio a stampa, ma si manteneva in un contesto commerciale preciso, rispettando una sorta di politica editoriale ante litteram e cercando di accontentare un pubblico che non voleva per sé la scienza che tutto illumina, ma opere di facile beva, devozionali o pratiche, religiose o bibliche,183 senza fra l’altro avere un particolare interesse per l’autore, che infatti vi veniva solo raramente segnalato. I Trepperel si giovavano della possibile contiguità di interessi fra lettori alti e bassi. Intuendo ad esempio che una farsa come la Cène des dieux,184 di ispirazione colta e provenienza probabilmente universitaria (ricca di latinismi parodici è svolta su diversi temi mitologici ed accademici), poteva avere un lato divertente e movimentato di sicuro impatto sul pubblico, la stamparono in formato da asporto. Alcuni titoli del repertorio dei Trepperel sono per noi significativi perché dimostrano come il contesto della imprimerie rispecchiasse una certa continuità di logiche ed interessi fra novellistica, racconti, poesia epica e panorama teatrale. Vi si rinviene una versione spuria di Boccaccio, il noto Boccace des nobles malheureux, impressa da Jean II senza data; la Destruction de Troie la grande fatta da Jean senza data ma ascrivibile al 1510 circa (sarà pubblicata anche più tardi dalla vedova in associazione con Jean Janot); e poi una serie di storie religiose e vite di santi pensate per essere inserite in un contesto scenico: è il caso della Réssurection de nostre Seigneur, del Sacrifice d’Abrahm o della Histoire de Sainte Suzanne. Fra il 1491 ed il 1531 sul catalogo Renouard ritroviamo 226 titoli a loro riconducibili: su 320 edizioni ne abbiamo una sessantina di ispirazione religiosa, una ventina dedicate alle vite dei santi e un’altra trentina di pièce storiche o di atti ufficiali. E poi, sottolineate dalla dicitura «par personnages» ritroviamo anche dieci opere teatrali sciolte alle quali si aggiungono le 35 pièce della Raccolta 183 Romanzi e novelle cortesi: Le preux chevalier Artus de Bretagne, Les Prouesses et faits merveilleux du noble Huon de Bordeaux, Galien restauré; Testi biblici: Cantiques de Salomon; letteratura classica di facile smercio: Catone, Esopo, Ovidio (Le Grand Caton en français, Esope en français, Recueil des épître d’Ovide); letteratura devozionale: Complainte douloureuse de l’âme damnée, Doctrine et instruction nécessaire aux chrétiens et chrétiennes, Fleur de dévotion; trattatistica spicciola: l’Art de fauconnerie et des chiens de chasse, La Médicine des chevaux et des bêtes chevalines, Manière de planter en jardins. 184 TREPPEREL II, n°VIII. Riportiamo anche la bibliografia originale, per avere una idea del prodotto editoriale singolo: La Cène des dieux nouvellement jouée à Caen par le général Sainct Loys, Maistre Jehan de Caux, Maistre Pierre de Lesnaudiere et leurs compaignons, s.l.n.d., (Paris, fin XVe siècle). 111 Trepperel. Rimangono circa 180 opere di carattere morale, cortese o trattatistico e qualche calendario. La maggior parte delle stampe Trepperel circolava già in forma manoscritta nel medioevo: la famiglia non era specializzata nella pubblicazione di testi di carattere contemporaneo e privilegiava di gran lunga le opere illustrate, che realizzava riutilizzando ampiamente gli stessi legni.185 Trepperel widow’s dishonest practice [might be understood] as an “aesthetical” transformation of the publications. […] Le Jeu du Prince des Sotz can easily be placed and is meant to be deciphered by other readers with other cultural competences and needs. For them the written/printed word has other connotations. It is licit, pertinent, written what they saw on the stage, that is, Gringore wearing the fool’s costume and not Gringore, the acteur, that is, both the author and the juridical person who has full control upon his publications. In this respect, the thorny issue of authorship has no relevance […]. The new readers created by the editorial strategies of printers such as the Trepperel in Paris or Barnabé Chaussard (1460-1527) in Lyon are essentially educated in the spirit of the oral culture.186 Cultura orale, narrazione per la narrazione. Nel contesto dei giochi e dei rimandi tematici più o meno abusivi fra catafalco e novella, una strategia come quella dei Trepperel non solo è giustificabile ma efficace, a perfetto agio nel groviglio complesso di furti, prestiti e dissimulazioni che i farceur praticano, imperturbabili. Inoltre, se l’operazione di Pierre Le Dru aveva una durata limitata nel tempo, determinata “geneticamente” sia dall’acutezza dei lettori umanisti – che facevano della novità un parametro importante di giudizio al contrario del pubblico borghese, più tardo ad assuefarsi – sia dalla data di scadenza sempre apposta alla cronaca e all’attualità, quella di Trepperel poteva invece durare nel tempo. Ed infatti, a distanza di circa dieci anni dalla prima edizione Le Dru, è ancora il nostro pirata e non il primo editore ad emettere un’edizione del Jeu. Il panorama politico era del tutto mutato, Gringore aveva da tempo lasciato Parigi, le questioni religiose avevano avuto altri risvolti ed evoluzioni, ma un pubblico disinteressato alla cronaca ancora consumava con gusto il varietà un tempo “impegnato” di Mère Sotte. 1.4.2 – La stampa teatrale. La raccolta Trepperel, cui più volte abbiamo fatto menzione e dalla quale sono estratte diverse pièce fin qui analizzate, si compone di 16 sottie, 5 farse, 2 sermoni gioiosi, 2 dialoghi (uno è iscritto da 185 186 S. ÖHLUND-RAMBAUD, 1989. A. MARCULESCU, 2007 : p.24. 112 Eugénie Droz nella poco convincente categoria della «revue de college»), una pastorale politica (fra il pamphlet e l’egloga) e 7 moralità. I testi sono più volte farraginosi non tanto per la sofferenza di conservazione, quanto per le negligenze dello stampatore, che tronca con disinvoltura diversi passi delle pièce ed inchiostra piuttosto sbrigativamente le matrici. Altri passaggi sono invece di difficile interpretazione o perché fanno diretta allusione a cronache delle quali non rimane traccia, o perché incentrati su espressioni idiomatiche sconosciute, o perché scritti in un volgare spurio e grassamente popolare. Essendo la rilegatura originale, l’ordine in cui ci sono pervenute le 35 pièce è quello scelto in origine, secondo Eugénie Droz proprio dagli stessi Trepperel. Par suite d’une chance inespérée, le Recueil nous est parvenu dans sa reliure originale. Tandis qu’il est évident que celui du British Museum est dû à un collectionneur qui a réuni, à cause de leur format, des pièces imprimées à Lyon, Paris et Rouen, il semble qu’ici nous ayons la série agenda complète de la collection théâtrale de la maison Trepperel, reliée par les soins du libraire. C’est le type de la reliure commerciale et à bon marché des premières années du XVIe siècle. Elle est en veau brun, le dos à cinq grosses nervures. Les plats sont décorés à froid avec trois roulettes différentes : celle aux losanges ornés d’une fleur, celle à la mouche et à la fleur et, enfin, une troisième, plus large, qui passe au milieu des plats et en fait le tour. Elle décrit un zigzag et chaque courbe est ornée d’un motif. Il y en a trois qui alternent. L’un d’eux représente une tête de sot, avec le bonnet à oreilles. Faut-il voire là une simple coïncidence ou croire que Trepperel a intentionnellement fait graver ce fer ? En tout cas, nous ne l’avons jamais rencontré ailleurs.187 Ad una analisi rapida dell’indice si nota che l’ordine non risponde in apparenza ad alcun criterio e che anzi si possono riscontrare errori nella successione logica delle pièce: ad esempio l’Enqueste d’entre la simplee et la rusee faicte par Coquillart dovrebbe essere il seguito della sottie del Plaidoyer Coquillart ma nella rilegatura l’ordine è invertito. Gli errori di successione sono stati corretti nell’edizione critica di Eugénie Droz, che è risalita alle singole datazioni avvalendosi dei colophon di tre opere contenute nella raccolta. La Moralità del sacrificio di Abramo (1) è segnata «a Paris par Jean Trepperel demourant en la rue neufve nostre dame, a l’enseigne de l’escu de France». Dal catalogo Renouard apprendiamo che all’inizio della sua carriera Jean Trepperel esercitò la professione all’insegna di Saint-Laurent, al ponte di Nostre Dame fino al 1499, anno del crollo rovinoso della struttura. Trepperel rimase alla «Grant rue st. Jacques» fino al 1502 quando trasferì le sue attività all’indirizzo indicato dal presente colophon. Essendo morto Jean nel 1511 la pièce deve rimontare necessariamente ad un periodo 187 Eugènie Droz aggiunge in nota rispetto alle rilegature a buon mercato dell’epoca: « semblable à celle reproduite par Loubier, Der Bucheinmand, p.113, pl. 101, comme exemple-type des reliures de 1500. Elle est de la meme famille que celle de Robert Gourmont (1505), reproduite par E. Ph. Goldschmidt, Gothic and Renaissance Bookbindings, pl. XX. » 113 compreso fra il 1502 ed il 1511. Il disegno di un drago e di un uccello sovrasta il titolo in corpo gotico assai grande la cui iniziale “M” proviene secondo Droz dallo stesso set di caratteri della “R” de l’Amoureaux transi sans espoir impresso da Antoine Vérard nel 1505;188 il resto del titolo corrisponde invece ai piombi che Trepperel usa fin dal maggio 1497:189 ciò che non fa che confermare le ipotesi formulate. La moralità dei quattro elementi (2) secondo il colophon venne impressa dalla «vedova» Trepperel, in associazione con il genero Jehannot: diversi indizi indicano con certezza la data di composizione tipografica nel decennio fra il 1511 ed il 1522. Infine la farsa nuova moralizzata a tredici personaggi (3), composta prima della morte di Jean e quindi non dal genero e dalla moglie, ma direttamente dal capofamiglia. Tralasciamo la datazione minuziosa di tutte le opere effettuata nella ricca edizione moderna del recueil e consideriamo solo il margine temporale approssimativo della raccolta, la quale deve essere stata impressa per la maggior parte entro il 1511, sotto la direzione di Jehan. Qualche sporadica pièce rimonterebbe alla data di associazione della vedova col genero Janot e non oltre, dunque, al massimo entro il 1518.190 Il gruppo di pièce che ascriviamo all’attività del fondatore dell’atelier fu inoltre stampato quasi in blocco, e con grande rapidità: siamo portati a crederlo in quanto gli stampi che ornano l’opera si ripetono più volte, lo stato di conservazione delle matrici rimanendo pressoché il medesimo. Inoltre, fa notare sempre la studiosa francese, «au dernier feuillet de la pièce 10, on aperçoit l’empreinte du cliché qui orne le titre de la pièce 23, celle-ci, fraîchement tirée, s’est décalquée dans l’atelier sur la 188 H. DAVIS : n°58 A. CLAUDIN, 1976 : t.II, pp.153 e 161. 190 Datazioni rese da Eugénie Droz per le sottie contenute nella raccolta Trepperel: 1. Farce du gaudisseur, 1450 c.; 2. Sottie d’Estourdi, Coquillart et Desgouté, rimaneggiamento del Menus Propos, dopo 1460 ; 3. Sottie des sots triumphans, 1475 c.; 4. Sottie des rapporteurs, 1480 c.; 5. Sottie des sots fourrés de malice, 1480 c.; 6. Sottie des sots gardonnés ou des trois coquins, prima del 1488 ; 7. Farce du pauvre Jouhan, prima del 1488 ; 8. Sottie des coppieurs et lardeurs, prima del 1488 ; 9. Sottie des sots qui corrigent le magnificat, prima del 1488 ; 10. Vigiles Triboulet, 1480 c.; 11. Sottie des sots qui recueuvrent le mortier, 1480-90 ; 12. Sottie des sots qui remettent en point Bon Temps, dopo il 1491 ; 13. Sottie de Trote Menu et Mirre Loret, fine XV secolo; 14. Sottie de la feste des rois, fine XV secolo; 15. Sottie des sots escornéz, inizio XVIe secolo; 16. Sottie des sots ecclesiastiques, aprile 1511. 189 114 feuille qu’elle touchait. De même sur le titre de la pièce 11, décalque du cliché de la pièce 9 et, au fol. 31 r° de la pièce 8, décalque bien visible de tout le titre de 9», ciò che dimostra la simultaneità di impressione di alcune opere. Durante le nostre digressioni attorno alle farse della Reformeresse e dei Coppieurs et Lardeurs abbiamo velocemente accennato a come sembri intercorrere una precisa relazione fra il mondo dello spettacolo profano francese (le manifestazioni civiche, i carnevali, ma anche le esecuzioni e le letture più o meno private delle pièce) ed il mondo della imprimerie. Una connessione che sembra valicare il confine della pura utilità meccanica dell’impressione seriale rivelando dinamiche di interazioni più complesse, in cui l’ambiente degli stampatori ricopre un ruolo attivo nella realizzazione dell’immaginario farsesco ed il catafalco si specchia nella bottega del tipografo, disponibile ad assecondare anche le esigenze “di asporto” dei proto-professionisti della scena. Non solo i temi come la stampa, la libertà, la Riforma, la democratizzazione delle conoscenze, ma anche la persistenza di alcune pratiche precipue dell’edizione “commerciale” ci inducono a pensare che i catafalchi e le scene fossero in taluni casi legati a filo doppio alle presse ed ai telai. Non è difficile cogliere le affinità astratte fra pratiche teatrali e pratiche tipografico-editoriali, primariamente nella funzione “mediatica” svolta sia dal catafalco che dagli opuscoli a stampa. Agenti di diffusione della cronaca storica stringente, nella stampa e nel teatro si invera la possibilità di una dimensione civica e si realizza l’informazione ad un livello finalmente “massificato”. Con le guerre d’Italia si intuisce il potere di propaganda del mezzo scenico e della stampa; cominciano così ad esser composti pezzi teatrali specificamente politici, di propaganda, come appunto il Jeu du Prince des Sotz. Non è un caso che nel breve volgere degli anni dopo la diffusione degli incunaboli in Francia, i reali ed il parlamento di Parigi sviluppassero il sistema degli arrêt per le pubbliche rappresentazioni e dei privilege, per la stampa.191 Due prototipi efficienti della moderna censura, che se da una parte tutelavano il diritto d’autore, dall’altra consentivano un controllo più efficace dei reati d’opinione e segnalano a noi moderni la crescente attenzione della monarchia rispetto a questi moderni mezzi di propaganda. La stampa di bassa qualità, di scarso valore e pertanto di grande tiratura diventò con 191 E. ARMSTRONG, 1990. 115 Carlo VIII e Luigi XII un importante veicolo di consenso politico, accompagnando le sorti delle scene, anch’esse potenti strumenti pubblicistici per il nascente ancien régime. Negli anni poco posteriori all’incunabolo la differenza fra la professione di libraio e quella di stampatore non era ancora ben definita e la più antica professione del venditore di testi, iniziata con i manoscritti, era regolamentata meglio di quella dei primi atelier del libro a caratteri mobili. A Parigi esistevano tre grandi categorie di librai già prima della stampa: i quattro grandi librai giurati eletti dall’università (il numero cambia in ragione del periodo); i librai giurati, legati anche essi al commercio universitario, che tenevano boutique ed erano sottoposti al controllo del rettore; infine i librai comuni, la cui più grande fetta di guadagni derivava probabilmente dalla vendita di libri usati o d’opuscoletti di scarso valore economico. Il riconoscimento ufficiale della professione dello stampatore doveva occorrere più tardi, e senza vera programmaticità, quando il 13 gennaio 1534 Francesco I vietava la stampa libera in tutto il regno rivolgendo l’interdizione in special modo alle officine del libro: quando appena tredici giorni dopo concesse alcune lettere patenti per il privilegio di stampa si riconobbe per la prima volta formalmente la professione del tipografo. Un primo perfezionamento del sistema normativo atto a regolare la stampa in Francia occorse qualche anno dopo, quando in un editto del 31 agosto del 1539 il re obbligava gli editori ad indicare recapito ed insegne nelle opere che producevano. Per libraire si intende generalmente colui che investe denaro e reputazione sull’opera e che dà inizio al progetto di stampa, spesso anche solo coordinando le varie maestranze e in associazione con altri librai per produrre opere particolarmente onerose. Tuttavia le professioni del libro rimasero a lungo confuse: per avere una idea della vaghezza delle competenze individuali fra libraire, imprimeur ed atelier basti pensare che i bibliografi hanno a lungo dibattuto anche sull’attività di personaggi ben noti dell’editoria parigina, in quanto fra gli operatori della stampa primo-cinquecentesca erano possibili numerose combinazioni di competenze. Antoine Vérard ad esempio, è stato a lungo considerato uno stampatore, ma era in realtà libraio, ovvero distributore-editore che si avvaleva dei servizi di terzi per la tiratura materiale delle opere. I nostri Trepperel coprivano, associati alla famiglia Janot, tutta la “filiera” della imprimerie. La fluidità delle professioni della stampa di allora rende difficile oggi una corretta attribuzione delle opere a uno o a talaltro editore o atelier: sempre nel caso dell’editore Vérard, ad esempio, il nome accreditato nelle edizioni era quello del libraio, ma non essendo egli proprietario dei piombi e delle 116 presse, la ricomparsa dei medesimi set di caratteri in altre opere prive di colone pone comunque importanti incertezze di attribuzione. La famiglia Trepperel vendeva direttamente i libri che stampava: fu così per Jean I, che inaugurò l’attività della famiglia programmando le edizioni, stampandole e vendendole ad un tempo; e fu così in una certa misura anche per la successiva gestione muliebre della ditta quando una parte dell’impegnativa attività venne svolta in comune con Jean Janot.192 Jean II invece conservò la licenza ereditaria di libraio ma si appoggiò allo stampatore Alain Lotrain per le presse, il quale infatti si installò al suo indirizzo portando con sé i propri materiali di lavoro e continuando ad utilizzare anche i tipi originali delle officine Trepperel. Le incisioni dei Trepperel erano intagliate su legno, materiale per questo scopo più pratico del rame, in quanto i legni erano più agevolmente integrabili alla composizione dei caratteri mobili. Sebbene tali la matrici fossero più soggette ad usura rispetto a quelle in metallo, esse consentivano un certo risparmio in termini di tempo e difficoltà di realizzazione dell’opera, fornendo un’illustrazione finale di qualità accettabile e tuttavia economica. Il valore assegnato alla presenza di immagini nelle loro opere era tale che i Trepperel furono fra i primi a Parigi ad introdurre l’impressione bicroma rosso/nero per arricchire l’originalità del prodotto finale. Tratti fondamentali delle impressioni Trepperel, sono il risparmio economico ed il reimpiego disinvolto dei materiali tipografici: come per la farsa, che riusa temi e storie, pure le modalità di lavoro dell’imprimerie a basso prezzo si basavano sul principio modulare del reimpiego. Stéphanie Öhlund-Rambaud193 ha pensato ad effettuare un’analisi delle illustrazioni contenute nelle edizioni di romanzi epici siglate dai Trepperel, concludendo che la ripetizione degli stampi interessava quasi tutti i loro volumi: un’illustrazione poteva comparire più volte nelle stessa opera ed in opere diverse, con il fine di riempire ed abbellire le impressioni senza pesare sul costo, in un’ottica di risparmio seriale.194 Le illustrazioni che facevano parte del materiale tipografico dell’atelier erano 192 G. RUNNALLS, 2000. S. ÖHLUND-RAMBAUD, 1989. 194 Forniamo qualche opera del censimento di Öhlund-Rambaud: Olivier de Castille et Artus d’Algarbe, Paris, Jehan Trepperel, 31 mai 1504 contiene 30 figure: 22 sono i legni impiegati e 8 le ripetizioni (un legno è ripetuto due volte); Galien restauré…, Paris, Veufve Trepperel et Jean Janot, s.d., contiene 15 figure : 11 legni con 4 ripetizioni dont (1 legno ripetuto 2 volte); Olivier de Castille et Artus d’Algarbe, Paris, Vaufve Trepperel, s.d. (nuova edizione del precedente), anche qui 30 figure su 21 matrici con 9 ripetizioni (2 matrici sono ripetute due volte); Le livre des trois filles de rois…, Paris, Veufve Trepperel, s.d., contiene 33 figure, su 20 legni per 13 ripetizioni (1 legno risulta riutilizzato ben 6 volte); 117 193 di solito scene militari o quotidiane e venivano usate spesso senza alcun rapporto di necessità diretta con il testo scritto. La Sottie des sotz qui remetent en point Bon Temps ad esempio è stampata nella Trepperel con un legno che raffigura Pathelin a letto mentre la moglie discute con il drappiere truffato: si tratta di una incisione appartenente al Pathelin di Levet, (stampato prima del 20 dicembre 1490) del quale sappiamo Jehan Trepperel acquisì una buona parte dei materiali di stampa.195 Il legame fra letteratura “da asporto”, di uso pratico, e le illustrazioni è evidente fin dalle prime edizioni a stampa, in cui gli stampatori erano già consapevoli della facilità di lettura di un testo dotato d’elementi grafici di complemento: si pensi ad una delle prime edizioni francesi a stampa di Terenzio, risalente al 1493, in Lione, per i tipi di Johann Trechsel, testo dedicato agli addetti ai lavori ma anche a chi non aveva una puntuale preparazione umanistica, come lo stesso editore specificava nella prefazione, in cui si segnalava anche che le immagini giustapposte ad ogni scena erano volte ad agevolare la lettura agli incolti. Il primo libro conosciuto dei Trepperel è una edizione del Pierre de Provence et la belle Maguelone, in cui il colophon recita: «imprimé a paris par Jehan Triperel Libraire de mars | chand demeurant sur le pont nostredame a lymage saict | Laurens Le xb iour de may.mil.CCCC.quatre ving- | et viii». La storia della bella Maguelone e del giovane e gentile Pierre de Provence era un romanzo assai in voga il cui successo e diffusione venivano garantiti dagli elementi rocamboleschi e dalla storia d’amor cortese: un’opera perfetta per le logiche editoriali dei Trepperel. Secondo Stéphanie Öhlund-Rambaud196 il primo testo della casa sarebbe invece la Destrucion de Jérusalem […], datato 22 febbraio 1491 e segnalato solo da Brunet nel suo Manuel du libraire197 e dall’excerpta di Henry Harrisse:198 non siamo riusciti a reperirne un esemplare nei principali cataloghi francesi, tuttavia nulla ci lascia dubitare che il testo fosse esistito in quanto anche in questo caso si tratterebbe di un’opera storico-devozionale che vide numerose ristampe nel corso del XV e del XVI secolo e pertanto in linea con il repertorio dei nostri stampatori parigini. Le preux chevalier Artus de Bretagne…, Paris, Veufve Trepperel, s.d., l’opera contiene 25 figure ricavate da 19 legni con 6 ripetizioni (1 legno è ripetuto 4 volte); Renaut de Montauban, La conquête [de l’] empire Trébisonde…, Paris, Jean II Trepperel, qui sono 15 le figure ricavate da 14 matrici con una sola ripetizione. La conquête du grand roi Charlemagne…, Paris, [Jean II Trepperel], s.d. [c. 1530-1531], 21 figure da 18 legni con 3 ripetizioni complessive. 195 E. DROZ, 1934 : t.I, p.145. 196 S. ÖHLUND-RAMBAUD, 1989. 197 Man. LIBRAIRE. 198 EXCERPTA. 118 Durante la prima metà del 1500 i Trepperel erano fra gli editori parigini più attivi nella pubblicazione di opere teatrali: nella capitale, oltre a loro e su circa venti officine complessivamente attive si occupavano di stampe per la scena i Bonfon, Jean Saint-Denis, Pierre Sergent et Simon Calvarin, mentre a Lione erano specializzati nello stesso settore gli Chaussard e gli Arnoullet. Erano stampatori e librai differenti dalle celebri tipografie umanistiche degli Estienne, di Josse Bade, di Galliot du Pré o di Geoffroy Tory, che mantenevano il monopolio dell’edizione di lusso rifornendosi di novità attraverso una fitta rete di conoscenze in tutta Europa e dotati dei giusti mezzi economici ed artigiani per assumersi il rischio della pubblicazione d’opere d’alto pregio ma dalla tiratura non sempre garantita. Se l’editoria bassa si caratterizzava per una forte aggressività sul mercato, quella alta dava maggiore importanza alla qualità delle impressioni, cercando di attrarre l’esigente clientela umanistica ed accademica: è in questa ottica che gli stampatori francesi di lusso si impegnavano ad introdurre una serie di novità sostanziali nella tecnica di produzione del libro, quando invece gli editori a buon mercato si limitavano a ripetere tecniche più antiquate e a riciclare materiali e pratiche. Nel volgere di un breve periodo, mentre la produzione dei Trepperel e dei loro concorrenti restava pressoché invariata da un punto di vista qualitativo (piccolo formato, caratteri gotici, etc.), le grandi officine rimpiazzarono i caratteri gotici con le lettere romane e corsive e continuarono l’opera di completamento delle collezioni latine e greche impegnandosi contemporaneamente nelle traduzioni in volgare e nella pubblicazione delle novità francesi. Non ci deve sorprendere allora il risultato del nostro spoglio dei principali cataloghi del libro antico a stampa fino al 1530 in cui ad onta di una fittissima presenza di opere classiche dell’umanesimo italiano e della altrettanto densa rete di collaborazioni dell’editoria parigina con i principali intellettuali italiani non compaiono titoli teatrali italiani originali. Si sente insomma nei settori di pregio del mondo della stampa francese l’urgenza di colmare le lacune “scientifiche” della biblioteca francese: la priorità viene data alla retorica, agli studi dei classici, alla storia ed alla storiografia antica ed alla commedia solo qualora rientri nel contesto della riscoperta (non dell’elaborazione) del classico. Attorno al 1510 il teatro dei misteri smette di suscitare interesse presso i grandi librai che fino a quel momento – pur trascurando sottie e farse da sole – lo avevano impresso in grandi in-folio di buona qualità. 119 Les recherches dans les bibliothèques privées du XVIe siècle révèlent que presque aucun des grands humanistes ne possédait d’exemplaires des mystères. Ceux-ci étaient maintenant relégués dans une sorte de "sous-littérature" considérée, à la fois par l’élite du XVIe siècle et par la postérité, comme indigne de leur attention. Mais il serait erroné de croire qu’il n’existait plus de public pour les mystères, comme l’attestent d’ailleurs non seulement le nombre d’éditions et de réimpression publiées au cours du siècle suivant, mais aussi la prospérité des libraires qui continuèrent à les éditer.199 Nei primi anni di attività i Trepperel esercitano sul Pont Notre Dame, all’insegna di St.Laurent, benché la loro abitazione sia più lontana, sulla rive gauche, più o meno all’altezza dell’attuale Place Monge: un atto del 19 gennaio 1495 ed un altro del 27 marzo 1493 indicano la posizione dei locali su di un terreno che si estendeva fra l’attuale rue de la Clef e la rue Gracieuse.200 Il crollo nel 1499 del ponte di Notre Dame, imputato al peso dei magazzini delle rivendite di libri che lì avevano sede, costringe tutte le officine tipografiche e le botteghe che vi erano installate a trasferirsi altrove, oltre che a coprire parte delle spese per la costruzione del Pont Neuf, realizzato sotto la direzione dell’italiano Fra’ Giocondo.201 Già dal 19 settembre 1500 i Trepperel pubblicano le Chevalier délibéré, con nuovo indirizzo rue Saint-Jacques, sempre all’insegna di St. Laurent; ivi rimangono fino al 1503. Dopo un breve momento di inattività dei torchi, il 31 maggio 1504 abbiamo la nuova e definitiva sistemazione delle presse nella Rue Neufve Nostre Dame, poco lontano dalla vecchia officina, vicino a tutte le altre attività librarie, ove la famiglia si stabilisce definitivamente. A giudicare dal cambiamento dei colophon (da «Jehan Trepperel» a «veufve de feu Trepperel») Jean dovette morire nel 1511: quasi subito dopo, la vedova è associata al genero Jean Janot, sposato con la figlia dei Trepperel, Macée, secondo la costumanza ben diffusa nel mondo della imprimerie parigina per cui le varie famiglie di stampatori erano use mantenere il monopolio del mercato del libro seguendo un’intricata politica dinastica, che privilegiava le unioni con altre dinastie tipografe, tutte concentrate nella stessa area urbana, non lontano dai quartieri studenteschi e dall’università. Il primo frutto della collaborazione fra Janot e Trepperel è le Trésor des pauvres di Arnaud de Villeneuve: la collaborazione fra le due case è di lunga durata ma incostante, ed entrambi gli atelier continuano a lavorare anche autonomamente. 199 G. RUNNALLS : pp.42-43. Arc.nat, S. 1649 – Censier de l’Eglise de St. Geneviève du Mont – f° 46, 5e série. / Arch. Nat. S 1649, f° 28, 5e série. Doc. RENOUARD (t.II, pp.265 e sgg.). Le date son in nuovo sistema, con calcolo dell’anno nuovo a partire da gennaio. 201 Série H del Registre des délibérations du bureau de la Ville de Paris, Doc. RENOUARD : t.I, p.29. 120 200 Dal 1539 al 1545 abbiamo una serie di atti in cui Jean II compare come mercante di stoffe su di un terreno situato presso la rue Trepperel, che secondo Renouard avrebbe preso il nome proprio dalla famiglia di tipografi per poi essere progressivamente trasformato in rue Trupelet. La marca dei Trepperel è uno scudo a tre gigli, retto da due angeli, sotto i quali due leni tengono nappe e motivi vegetali cui si intrecciano la “I” e la “T”. Il motto che contorna l’immagine è «en provocant ta grant misericorde otroye nous charite et concorde», marca che compare fin dall’edizione già citata del Pierre de Provence . Jean I adottava anche soltanto lo scudo coronato e guarnito di gigli: la vedova e Jean II lo modificarono in due differenti versioni; la prima completata da due angeli a sorreggere le insegne, la seconda, con il medesimo scudo a gigli, ma tenuto da due salamandre e circondato delle conchiglie devozionali di St. Jacques, motivo che con tutta probabilità si deve all’acquisizione dei materiali del tipografo Pierre Vidoue.202 La prima marca dei Trepperel con gli angeli non venne mai frodata né modificata ed è pertanto un ottimo indicatore per porre in ordine cronologico progressivo le numerose edizioni non datate dello stampatore. Il caso della raccolta Trepperel è esemplare perché i 35 opuscoli che la compongono sono realizzati in agenda, formato editoriale caratteristico dell’editoria da catafalco. Le opere agenda sono strette e lunghe, misurano circa 80*280mm a fronte di uno specchio di stampa di 60*215mm, e prevedono un massimo di otto carte: fino al 1518 sembrano essere una prerogativa di due officine parigine, la Trepperel, appunto, e quella di Nicholas Chrétien. Attorno agli anni ’20 del secolo gli opuscoli agenda cominciano ad essere stampati anche da Pierre Sergent, poi da Jean Leprest in Rouen nel 1540 ed alla stessa altezza del secolo anche in Lione da Jean Cantarel.203 Aggiungiamo che per le loro singolari modalità di produzione questi opuscoli implicavano la tiratura di grosse quantità di copie. Almanacchi, canzonette e factum, farse, sottie: tutte operette d’esiguo respiro ed estensione, pervenuteci per lo più in copia unica ed in siffatto particolare formato tascabile, pratico nell’uso, ma adottato solo raramente nel resto d’Europa ad onta del suo discreto impiego in Francia. La letteratura che trova il suo supporto materiale nella forma agenda è volatile, non è pensata per durare, 202 In più luoghi e in particolare in TREPPEREL I / II / F.S. Anche la raccolta di farse del British Museum è composta su fogli stretti e lunghi agenda, ma a differenza della Trepperel non ha conservato la rilegatura originale. 121 203 in quanto l’asporto di tali effimere impressioni è cagione del loro rapido deperimento e della loro dispersione. Secondo Eugénie Droz le raccolte teatrali in formato agenda dovevano far parte dei “programmi di sala” dei varietà teatrali dell’epoca e la studiosa insiste particolarmente sulla presenza di questi libretti in scena, fra le mani degli attori che recitavano o distribuiti all’irrequieto parterre, immagine suggestiva senza dubbio, ma che tuttavia non è confortata da alcun supporto documentario. Il formato mantenne le sue caratteristiche nel tempo e fu sempre adottato per i generi minori come le canzoni, i cry, le farse e le sottie, mentre altri testi teatrali come i misteri, subirono un’evoluzione materiale: fino al 1508-1510 la maggior parte era pubblicata in-folio, almeno a partire dal 1510 si adottarono di preferenza il quarto e l’ottavo, mentre le edizioni successive degli anni ’70 del 1500 vennero ridotte fino all’in-16°. La scelta del formato è della massima importanza, in quanto restituisce informazioni importanti sul progetto intellettuale e commerciale dei librai: in generale più il formato si riduce, più i moventi dell’editore si spostano dal pregio alla funzionalità e al minor costo.204 L’impoverimento tipografico dei misteri era legato al progressivo cambiamento di gusto del pubblico e alla flessione dell’interesse dell’editoria colta per questo genere di opere. I librai che inizialmente pubblicavano i misteri erano i più influenti dell’epoca: Antoine Vérard, Jean Petit e Mathieu Husz, che però dopo il 1508 abbandonarono questo settore subito occupato dai “pirati” della bassa editoria. Dal consumo da parte dell’intellighenzia umanistica fino alla lettura in ambito meno colto e regolamentato, la parabola dei misteri replicherebbe così quel passaggio di contesto tipico del mercato delle edizioni povere, che accoglievano soprattutto titoli passati di moda per somministrarli ad un pubblico di più semplici risorse economiche e culturali. Per quanto concerne la ricezione “alta”, giocano un ruolo determinante nella perdita di interesse per lo spettacolo sacro ed i suoi tem, anche la progressiva mondanizzazione del pensiero, il montante razionalismo rinascimentale e, solo in seguito, gli impulsi culturali della Riforma. 204 « Le fait que les mystères fussent publiés d’abord dans des volumes in-folio, ensuite dans les formats in-quarto et inoctavo, et enfin dans des in-seize, reflète dans une certaine mesure l’évolution de l’imprimerie en France : en expansion rapide entre 1490 et 1530, en plein essor entre 1530 et 1560, et en déclin relatif pendant la deuxième moitié du XVIe comme résultat direct des Guerres de Religion. » G. RUNNALS, 1999 : p.40 122 Segnaliamo infine che fra i piccoli formati l’agenda era il più difficile e forse il più scomodo da tirare: la forma rettangolare, stretta ed allungata, implicava infatti la modifica temporanea dei telai, se non delle attrezzature apposite. Queste difficoltà intrinseche erano forse ricompensate dal valore d’uso: il libraio “teatrale” sceglieva un formato più problematico dell’altrettanto tascabile in-16° evidentemente per soddisfare l’esplicita richiesta dei lettori, che dovevano trovare nella forma stretta e allungata una indispensabile praticità. Possiamo ricondurre la produzione di agenda alle esigenze di una clientela teatrale professionale? Possiamo immaginare questi libriccini stretti fra le mani degli attori-performer in piena azione da catafalco? Sembra probabile, ma l’unica affermazione certamente vera è che l’agenda si profila come formato elettivo per un nascente mercato dell’editoria teatrale, legato a filo doppio alla crescente presenza di professionisti dello spettacolo farsesco. 123 1.5 – Difficoltà di metodo. Inquinamenti, furti, prestiti, plagiat. 1.5.1 – Jeu de ruse demoniaco: la passione di Gréban. Rispetto al teatro profano i misteri erano maggiormente formalizzati in quanto legati ad una tradizione che aveva nella retorica e nella cultura del classico, filtrate dalla tradizione cristiana medievale, dei solidi punti di appoggio. L’ambito dei misteri ci riguarda solo trasversalmente, solo in quanto esiste una forma di influenza reciproca fra comico e misteri. Di queste interferenze fra modello comico e religioso ci basti citare un caso importante per persistenza cronologica ed area geografica. Arnoul Gréban è autore di diverse pièce religiose, fra cui la più significativa è senza dubbio il Mystère de la Passion205 messo in scena per la prima volta ad Abbeville dal 23 al 26 maggio del 1455 (in corrispondenza dunque con i riti pasquali variamente legati alle feste popolari di fertilità) ma pubblicato appena tre anni dopo, nel 1458. La persistenza di questo mistero nel tempo ne testimonia il grande successo, dovuto proprio alla spigliata ibridazione letteraria attraverso la quale vi si descrive la vita del Cristo redentore. L’opera conta 35.000 versi divisi in quattro giornate con prologo ed “epilogo” e prevede un allestimento di 205 M. de COMBARIEU, 1987. 124 tutto rispetto, nell’ordine dei 224 interpreti, e a dispetto del titolo non si occupa solo delle vicende neotestamentarie della morte e della resurrezione, ma anche del peccato originale, e della promessa del messia. Nel 1486 il testo di Arnoul Gréban subisce una mutazione per mano del genero Jean Michel che lo riadatta per un rappresentazione ad Angers. Il rimaneggiamento di Michel coglieva la qualità più significativa della pièce, valorizzandone il gusto per il genere misto ed aggiungendo “pezzi sapidi” ad uno svolgimento drammatico allegorico già impregnato di reminescenze dalle diableries. Il testo è dunque punteggiato di grottesco ed episodi comici al di là di una lettura pedante delle sacre scritture; e diremmo anzi che il comico non vi ricopre il ruolo di semplice contrappunto alla narrazione principale, ma ne permette lo svolgimento, sicché tutte le azioni drammatiche divine sono mosse in realtà dalla machine à rire demoniaca, cuore pulsante della recezione in quanto momento narrativo e linguistico privilegiato per cogliere lo sguardo del pubblico. L’alternanza del registro comico con quello drammatico non è qui meccanica, ma entra in gioco nel farsi della tensione teologica e nello sviluppo della “cosmologia da catafalco”, di per sé demandate ad un procedimento per allegorie. Le diableries sono il polo di attrazione degli sguardi e l’orizzonte di attesa dello spettatore: sotto un’ottica teologica il diavolo costituisce la controparte che rende visibile la santità ed il riso fa da contraltare al registro serio e mistico ricoprendo l’importante funzione di vettore di tale contenuto. Nell’economia dello spettacolo ciò si traduce nella contrapposizione d’un mondo reale e contemporaneo, caratterizzato dalla superfetazione dei registri, con uno eterno ed immutabile, cui è propria la mistica allegorica. Le opposizioni dei diavoli al volere divino sono gli ostacoli al raggiungimento della redenzione, ma ciò che rende grottesco il mondo del male è che ogni azione perseguita per impedire i piani divini è, con paragone calcistico, un “assist” servito alla squadra avversaria: ogni mossa condotta dal maligno nella sua partita contro Dio consente in realtà l’avanzamento verso la più alta verità divina, la resurrezione, che – vittoria sulla cultura della morte – si rende possibile proprio perché Cristo è condotto al martirio dalle forze demoniache. La rappresentazione si fa specchio di tale realtà e la comparsa dei demoni segna sempre l’approdo ad una dimensione minuta, declinata al presente perché realistica, non astratta ed in costante interferenza con il mondo reale, con la piazza della rappresentazione e la municipalità che la organizza e la accoglie. 125 Così ecco una precisissima organizzazione del tempo della storia: il prologo usa il futuro e pertanto si colloca nel passato rispetto al tempo della narrazione. Esso storicizza l’azione e ci ricorda in primo luogo che la verità divina coinciderà per un momento con l’arco di una esistenza umana in Cristo; che il fatto biblico prenderà con l’avvento del salvatore una sua pregnanza storica i cui effetti saranno reali sul presente. Ma quale presente? Il presente dello spettatore messo nella scatola ottica della rappresentazione: il presente storico, invece, sarà rappresentato in termini espliciti solo alla fine, nell’attualità e nell’urgenza dell’epilogo, in cui le considerazioni morali parlano della Passione finalmente come di un fatto passato. Ciò che era futuro nel prologo diventa presente nella rappresentazione, dove i personaggi si esprimono nell’attualità: ciò che rimane fisiologico della performance in quanto coesistenza o contemporaneità di presenze e di sguardi (in inglese la dicitura per le arti performative è giustamente declinata al “present continuous”, performing arts). In questa temporalità presente esistono però i diavoli, personaggi che pur comparendo nel “presente continuativo” della scena si rivelano esseri del passato, ovvero con un tempo di ritardo rispetto alle scelte del divino, ciò che significa ritardo rispetto ai tempi del creato: Arnoul Gréban è maestro nel rendere questa idea di décalage cronologico e gioca sullo sfasamento (proprio della drammatica) fra il tempo dello sguardo dello spettatore e quello interno alla rappresentazione (e vissuto pertanto dai diavoli), anticipando la tecnica del “doppio orologio”. Il fine di esporre gli sguardi del pubblico alle decisioni divine prima ancora del maligno è precisamente quello di fare del tempo – e dei livelli di conoscenza associati ai vari membri nel gioco nella ricezione – un elemento utile alla narrazione. Gli spettatori hanno già visto la scena della natività quando invece Lucifero apprende solo dopo che Cristo è nato, e per giunta da una diceria: Satana, suo messaggero in terra, non ha saputo far meglio che ascoltare la buona novella da dietro una porta. Quando la Sacra Famiglia fugge dall’Egitto nessun diavolo può sapere dove sia nascosta mentre il pubblico ha una idea precisa della posizione degli attori sulla scena. Possiamo immaginare come una simile casistica potesse aprire infinite possibilità espressive agli attori e soprattutto essere motivo di appello diretto al parterre, che si sentiva chiamato in causa in prima persona perché “sapiente” ovverosia capace di uno sguardo sull’insieme temporale della creazione, che nel mistero corrisponde ad avere una visione d’insieme, divina, della linea narrativa. 126 Il presente del salvatore non è insomma quello dei diavoli che rispetto alla grandezza di Dio sono idioti, grotteschi, estremamente limitati perché estremamente reali. Il male è dunque ridicolo, fallace, ma anche reale per assunto. L’evento teatrale è presente: il catafalco è così la dimensione dove il divino si congiunge con la realtà e lega i suoi piani a quelli della terra, demoniaca; luogo di realizzazione, di declinazione del passato alle urgenze dell’attualità, il catafalco è lo spazio temporale consono all’espressione temporale. Ad un quadro biblico astratto improntato all’allegoria, il demone aggiunge la propria presenza nel passato, presenza di chi non è stato ancora illuminato dalla luce divina: dal simbolismo si discende al prosaico, al mondano, a ciò che è gretto e volgare ma che è anche comprensibile in quanto “risibile”. La dipendenza fra le due dimensioni (cosmologiche e letterarie) è assolutamente reciproca: nessun comico senza un contrappunto alto, nessun Dio senza un Lucifero. E c’è di più. Questo approccio “temporale” della struttura narrativa e formale alla conoscenza della verità divina è l’acuta trasposizione scenica di noti principi retorici: nello spazio concreto dell’eschaffaud lo spettatore assiste ad un exemplum, alla realizzazione pratica, insomma, di principi incomprensibili nello spazio monolitico dell’allegoria. Inoltre, ciò che è presente sta a rappresentare anche un’urgenza o attualità stringente. E quale migliore tecnica per mettere in moto le emergenze presenti se non quella di coinvolgere il pubblico nella narrazione? Quando i diavoli scendono in terra essi scendono dal catafalco; simulando la loro ascensione al contrario, essi si mischiano alla folla, dove ripetono la loro presenza minacciosa e costante nella vita d’ogni credente. È un cortocircuito fra vero e falso che si ripete anche col rito dell’eucarestia elargita al pubblico durante il più umano dei momenti della vita di Cristo: l’ultima cena. Scaturiti come exempla dalla penna di Gréban, i demoni sono anche i personaggi più prossimi all’uomo, perfettibili perché imperfetti, schiavi della fisica, della materia dei corpi e della umana (limitata) conoscenza. Essi stanno in basso, coi piedi per terra e le mani nella pasta del peccato. Exempla: chi non si identificherebbe infatti con questi disgraziati con l’ossessione dei banchetti e del peccato, costretti a sbattersi da un catafalco all’altro anche solo per comprendere la perfezione del grande disegno (ed esserne soggiogati)? Questa eredità retorica in seno alla declinazione comica dei misteri non è stata né colta né apprezzata (o non è stata colta perché non era apprezzata) dagli studi drammatici dell’inizio del secolo scorso, che hanno avuto la tendenza a censurare le digressioni comiche come semplici espedienti per adattare 127 al gusto delle masse l’alta teologia sacra. Ma proprio da questo legame con lo spettacolo più codificato dei misteri la farsa sembra ricavare quella coscienza estetica che abbiamo segnalato nel corso del presente capitolo. Quelli che speriamo di avere spiegato con Vanessa Mariet-Lesnard,206 come elementi essenziali nell’economia drammatica del mistero di Gréban erano considerati da Louis Petit de Julleville come “incidenti” ed Emile Roy mostrava di leggerli con insofferenza quando per questo mistero parlava di una successione di interminabili consigli demoniaci. È possibile fra l’altro riscontrare un ulteriore livello di lettura nel Mistero della Passione, che instaura una circolazione diretta fra la vita del Gesù e quella di Satana. Entrambi questi personaggi sono sottoposti a sofferenze e devono affrontare numerosi ostacoli: con la differenza sostanziale che se le sofferenze di Gesù sono lì a farlo tendere alla salvazione, quelle di Satana sono finalizzate ad operare nel contingente, nelle schermaglie giocate con Dio. È in questo modo che le sofferenze divine assurgono ad una dimensione tragica, quando invece quelle demoniache fanno ridere, sfociando nel grottesco e suscitando la stessa ilarità che ispira il lavoro forzato del topo in gabbia che fa girare la ruota. Rileviamo ora quello che ci risulterà utile più avanti nella nostra trattazione, e cioè che l’orizzonte di attesa del pubblico (riflessi comici al sacro per favorire un altro riflesso fisiologico, quello del riso e così la memoria) non dà vita al comico come corpo esterno alla narrazione, ma influenza fortemente la struttura ed il senso del procedere drammatico. È un elemento, questo, che gioca un ruolo fondamentale nella formazione del gusto moderno per lo spettacolo e storicamente vediamo come le moralità assumano una quantità sempre maggiore di “coefficiente grottesco”, quasi a compensare l’assuefazione del pubblico agli sketch ed al comico. 206 V. MARIET-LESNARD, 2007. 128 Figura 2. Schema sintetico della Passione di Gréban Nell’arco di tempo che va dalla formazione all’estinzione dei misteri notiamo insomma un effetto reale del e sul pubblico ed una reciprocità di quest’ultimo con lo spettacolo, di cui consente l’evoluzione e da cui riceve un impulso al cambiamento di gusto: chiameremo questa dinamica complicità, fenomeno che sembra ignoto alle considerazioni della critica del primo Novecento e che contraddice l’immagine totalizzante di uno spettacolo sempre identico nel tempo che si erano fatti studiosi come Picot e Julleville. L’umanità infernale del mistero di Gréban ci ricorda molto da vicino quella di Dante che inserisce nella Commedia le diableries da cui trae la vitalità comica dell’Inferno ed in particolare la forza realista di Inferno XXI – XXII.207 Il confronto ci riporta alla nostra questione del metodo: diremmo infatti che Dante ha influenzato Gréban? O non è piuttosto la comunanza di una fonte – in questo caso le diableries transalpine – o la partecipazione ad una medesima cultura – quella del grottesco medievale e della retorica – a rendere alcuni aspetti del mistero della Passione simili a quelli della Divina Commedia? E perché non pensare altrettanto dei reciproci rapporti fra il genere profano francese e la novella? Il contesto è certamente diverso, ma non possiamo escludere che un analogo approccio possa essere impegnato anche nella valutazione delle singolari interferenze che si registrano fra novella italiana e genere drammatico burlesco francese fra fine del XV ed inizio del XVI secolo. A questo proposito 207 M. PICONE, 1989. 129 diciamo anche che l’uso modulare della farsa e della sottie è coerente con l’episodicità per “pezzi chiusi” che caratterizza la novella. Nei misteri l’allegoria convive con la realtà concreta. Se tale pratica è così naturale nel teatro sacro dobbiamo forse assumere che lo fosse anche nel teatro comico. Per tornare all’interrogativo variamente posto sopra, è lecito contrapporre la farsa alla sottie pensando ad una opposizione fra realtà e allegoria? 1.5.2 – Un quadro generale della circolazione novellistica. Da una parte abbiamo trovato il contesto formalizzato (ma pure attraversato da tensioni paradossali) dei misteri; dall’altra parte invece abbiamo accennato ad un contesto molto più eterogeneo che colmava in qualche modo il vuoto lasciato dalla cultura medievale dei favolelli e della narrazione licenziosa, il teatro profano. Questo secondo contesto tentò, e qualche volta trovò, infinite risorse espressive prima di approdare ad una dimensione “europea” ed insomma ad un confronto attivo primariamente con le forme della commedia italiana. Il comico francese della fine del medioevo, ad essa discreto, riconobbe nella cultura della commedia italiana e della Commedia dell’Arte le proprie stesse radici affondate solidamente nella novella e nei repertori favolistici e narrativi dell’Evo Medio. Se dovessimo disegnare una scala cronologica delle influenze noteremmo allora fin da subito (a) che il raggio di irradiazione tematica non è fluido e costante, ma discreto e (b) che il quadro delle influenze fra i due sistemi letterario-drammatici non disegna per così dire una V (convergenza progressiva delle forme italiane su quelle francesi) ma piuttosto un doppio incrocio, in cui le influenze espressamente teatrali sono limitatissime, ad onta di una notevole circolazione di altre pratiche letterarie e del grande ascendente che la novellistica esercita sulle forme teatrali. La questione è complessa, e vedremo quanto nel capitolo che segue, dedicato per l’appunto ad uno spoglio, ben lontano dall’essere esaustivo, delle influenze, dei furti e dei prestiti dei blocchi narrativi. Ci accorgeremo in particolare che se è possibile rilevare un’interferenza reciproca fra i repertori favolistici dell’area francofona e quelli dell’area italiana, rimane una certa influenza diretta dell’opera che a livello europeo ha maggiormente formalizzato la tradizione del racconto, e cioè il Decameron, 130 che effettua un’operazione di “normalizzazione” sulle pur originarie forme francesi dei conte e dei fabliau. D’altra parte, però, abbiamo fin qui dimostrato come la coppia indissociabile farsa|sottie abbia un rapporto preciso con le forme più antiche della letteratura “popolare” del medioevo francese, e come le lettere drammatiche che in Francia compaiono per lo più a partire dalla metà del 1400 siano una emanazione di quella letteratura, che aveva già in sé i germi (metrici, tematici e pratici) per una evoluzione in senso performativo, a colmare il vuoto lasciato dal fabliau. È un movimento storico paradossale, che vede una ripresa delle tematiche del fabliau francese da parte di Boccaccio e dei novellieri italiani, i quali a loro volta le rispediscono oltralpe, aggiornate ai frutti avanzati del pensiero rinascimentale, e non indenni da altre influenze secondarie. I rapporti fra fabliau e farsa sono indiscutibili e si articolano nel vasto perimetro della forma, delle tematiche e delle funzioni sociali. Fabliau e teatro profano hanno in comune il pubblico (mercantile, “borghese”, ma con sporadiche incursioni nell’alto della corte o dell’aristocrazia), la forma (ripetitiva e monotona, con l’impiego prevalente di versi ottonari e di rime piatte), lo sviluppo della trama (rapido ma impreciso), la scelta degli argomenti (storie di vita quotidiana, ambiente domestico o cittadino, grottesco quotidiano), le situazioni scelte (prevalentemente oscene e grossolane), i personaggi (preti, villani e maistres in prevalenza e poi quasi tutti i mestieri ambulanti), i luoghi comuni delle trame (la misoginia, soprattutto). La farsa sembra uno sviluppo della embrionica ruse del favolello, prima forma letteraria francese ad adottare l’astuzia come strumento di sviluppo dell’intreccio. Per la prima volta con il fabliau ecco il motto «miex fait l’engien que ne fait force», la cui conseguenza a lungo andare non può che essere l’anarchico «à trompeur trompeur et demi». Farsa e la sottie subiscono però anche l’influenza aggiuntiva da parte del Decameron e della cultura novellistica italiana in genere: ciò che manca è un’influenza diretta (reciproca o non) fra le forme drammatiche in sé sui due lati delle Alpi. Parliamo di tendenze, è chiaro, dal momento che è possibile riscontrare, e lo faremo in questa stessa trattazione, alcuni casi limite di influenza: abbiamo le “tracce perdute” dei comici italiani in una singolare operazione editoriale di Pierre Gringore, abbiamo il caso isolato dell’italiano Alione, che pratica la farsa (oltre che la parrocchia politica filo francese) ed abbiamo poi un pugno di altre testimonianze documentarie a proposito di esperienze pionieristiche di esportazione dello spettacolo popolare italiano all’estero o frequentazioni più organiche e meno teatrali, come la presenza di 131 uomini italiani che nella visione globale della cultura propria dell’umanesimo avevano a loro volta trovato soluzioni tecniche per il catafalco: Fra’ Giocondo, Leonardo da Vinci, gli architetti e le maestranze italiane assoldate a partire dalle prime campagne d’Italia. E c’è poi un contesto culturale più ampio, che rende quasi incredibile la pressoché totale inesistenza di testimonianze sulle esperienze performative italiane in Francia alla fine del XV secolo: l’immigrazione massiccia degli italiani in Lione (favorita anche dall’autorità reale nel quadro dello sviluppo delle manifatture al sud), l’immigrazione italiana di lusso, dinastica o amministrativa, l’ascendente degli studi italiani in Parigi, il mercato editoriale, la polemica e la propaganda politica. Eppure esempi probanti ed espliciti di una diretta attività della commedia italiana non se ne trovano, o quasi, prima degli anni ‘30 del 1500, ciò che razionalmente ci fa ipotizzare l’attività spettacolare italiana in Francia essere cosa poco comune prima di tale periodo. Sulla natura poi dell’influenza della novellistica italiana in Francia è doveroso effettuare una serie di considerazioni a proposito della singolarità della circolazione oltralpe delle edizioni italiane delle principali raccolte di racconti, ciò che costituisce di fatto una sorta di letteratura parallela legata profondamente ed autonoma ad un tempo, dalle fonti, secondo le note pratiche di furto e prestito ereditate dal medioevo. Già durante il XV secolo le raccolte narrative italiane sono importate al di là delle Alpi ed il loro successo e la quantità di edizioni che si avvicendano sul finire del secolo dimostrano come ci fosse in Francia un pubblico in espansione per la novellistica. In linea di massima possiamo distinguere due tipi di approdo del testo italiano in Francia.208 Primariamente quello legato alla domanda del pubblico alto, che in certi casi rappresenta anche l’avanguardia in termini cronologici: si tratta in sostanza delle traduzioni di corte, come ad esempio quella del Decameron realizzata da Antoine le Maçon.209 Nel medesimo contesto abbiamo anche un considerevole numero di opere a stampa italiane che vengono importate da chi aveva gli interessi intellettuali ed i mezzi economici per farlo. Secondariamente si riscontra un mercato più popolare al quale si “danno in pasto” le traduzioni di Masuccio, Bandello, Sansovino, Boccaccio, Poggio, redatte per lo più da anonimi, con criteri non sempre trasparenti di trascrizione dell’originale o di segnalazione del furto. 208 M. SIMONIN, 1989. A. LE MAÇON, Decameron de Messire Jehan Bocace…, Roffet le Faulcheur, Paris, 1545. La traduzione è stata reimpressa nel corso del XIX secolo da F. DILLAYE, 1882-1884. Un eccellente studio è L. SOZZI, 1971. 132 209 Per avere una idea di queste pratiche piratesche sia sufficiente citare un dato, e cioè che ancora nel 1560 è un fatto del tutto straordinario che nell’edizione delle Notti facete di Straparola tradotta da Ian Louveau210 si riconosca il ruolo professionale del traduttore, con esplicita menzione di questi nella prefazione. Fra l’altro anche l’operazione editoriale in sé si distingue per una concezione integrale dell’opera, per la quale si ha un rispetto moderno: Roville supera i timori commerciali che il testo possa rimanere invenduto e lo propone integralmente laddove la tendenza era di mischiare le raccolte europee (ed italiane in particolare) per estrarne le storie più sapide e conosciute economizzando il lavoro del traduttore, ma anche proponendo pièce di sicuro successo. Rispetto alla Francia, l’Italia conosce un periodo florido per la novella, e nonostante anche nella Penisola l’arrivo della stampa avesse accelerato la pirateria editoriale, vi si riscontra un maggior numero di opere originali.211 Questo dato rende naturale il travaso del repertorio novellistico italiano sulle culture letterarie autoctone limitrofe. Ma il passaggio delle Alpi avviene in modo talora furfantesco e ogni nuova pubblicazione, nell’epoca della neonata stampa, minaccia di essere denunciata: ecco allora che gli editori ed i traduttori dissimulano con diversi espedienti la fonte dei conte che, “lavati” della loro paternità, vengono spacciati per inediti quando non per originali. Il primo dei sotterfugi è naturalmente un intervento sui singoli episodi delle raccolte, per loro natura facilmente rimodulabili ed assemblabili; un secondo livello di astuzia è invece quello di scorporare le novelle dalla loro cornice originale, mischiarle un po’, e rimontarle con importanti lacune e depistaggi in “nuove” raccolte. È una opera intenzionale di cancellazione delle tracce di quello che – nonostante una diversa cognizione del “diritto d’autore” – era un furto a tutti gli effetti. Gli editori rispondono alla domanda specifica del mercato e con i loro metodi influenzano pesantemente le modalità di trasmissione “in chiaro” delle opere, e, si direbbe, creano una vera e propria letteratura parallela, che della novella italiana conserva moltissimi tratti, nessuno, però, originale fino in fondo. Vari sono gli indizi che ci mostrano la formazione di un pubblico per le novelle italiane, ma riguardano più chiaramente una platea consapevole, quella di chi si occupa della cultura a livello professionale, intellettuali o editori, a dire la platea di chi ci ha lasciato maggiori tracce documentarie. Rientrano in queste tracce ad esempio la Lettre de Londres a Plantin del 9 agosto del 210 211 Ian LOUVEAU, les Facecieuses nuictz du seigneur Ian Francois Straparole, Rouille, Lyon, 1560, (P. G. BRUNET, 1882). Caso esemplare le facezie di Ludovico Carbone su cui si sofferma A. FONTES-BARATTO, 1987 : pp.22 e sgg. 133 1567 dove si chiede l’importazione di alcuni testi; o il caso di Montaigne, che vanta di aver acquistato diverse piccole opere in Italia, fra cui qualche testo teatrale; o episodi più antichi, come quello di Philippe de Vigneulles che viaggia nella Penisola attorno al 1486 e specifica nel suo Journal d’avere comprato un’edizione del Novellino.212 Per il pubblico popolare dobbiamo accontentarci naturalmente del successo delle edizioni, della quantità di ristampe e dunque in definitiva delle sole tirature delle opere ispirate alla novellistica italiana, ciò che rende il tutto più ipotetico, in un panorama pure non avulso dalle ingerenze d’una consapevole politica editoriale. Secondo Michel Simonin, «[…] il ne suffisait pas de passer les Alpes pour s’établir en France. Encore convenait-il que ceux qui se chargeaient de la traduction eussent auparavant pris la mesure du lectorat, de ses exigences, comme de ses limites. Au reste nombreux furent les novellieri, du Cinquecento à demeurer inédits en français».213 Restare inediti in Francia non avviene per caso, ma è un fatto che risponde già a precise logiche commerciali, in un contesto in cui traduttore ed editore valutano l’effettiva vendibilità del loro prodotto librario, all’interno di un programma culturale in cui la tiratura alta deve garantire nel peggiore dei casi il rientro dell’investimento. Fra i novellieri italiani inediti molti furono probabilmente scartati in modo razionale. Non si trovano così nella Francia del periodo le Facezie del 1500 di Piovano Arlotto, i Proverbie di Cornazzano del 1518, le Novellae del 1520 di Girolamo Morlini (per le quali però si vedrà nel capitolo successivo come pur apparentemente senza una edizione a stampa, alcuni episodi che vi sono narrati furono messi in farsa). Nella lista dei “bocciati” troviamo anche Cynthio dei Fabritii, Libro della origine delli volgari proverbii, (Venezia, 1526) e Anton Francesco Doni con le Novelle (le due edizioni italiane sono del 1544, 1562).214 Ecco allora di cosa si nutre la nascente letteratura novellistica francese: di opere come il Parangon de nouvelles, honnestes et delectables, che esce a Parigi ed a Lione nel 1531 e che costituisce un caso da manuale per spiegare la manipolazione che i testi subivano dalla loro partenza dal suolo italiano in forma manoscritta o a stampa, fino alla tiratura nel mercato librario francese.215 L’opera è di fatto un 212 Lettre de Londres à Plantin (9 août 1567) in M. ROOSES, 1883 : t.I, p.165. Masuccio in Francia: C. LIVINGSTON, 1955. 213 M. SIMONIN, 1989 : p.45. 214 Ibidem. 215 le Parangon des nouvelles honnestes et délectables…, Morna, Lyon, 1531, (E. MABILLE, 1865). 134 assemblaggio di Decameron e Facetiae poggiane e delle traduzioni umanistiche di Esopo di Lorenzo Valla, che fra l’altro vengono combinate con disinvoltura a racconti di origine tedesca. Au contraire e specularmente – e cioé sull’altro lato della frontiera con la Penisola – il caso del Novellino di Masuccio è altrettanto esemplare perché la sua diffusione avviene proprio in un panorama inquinato da furti, prestiti, pirateria. È noto infatti che il primo manoscritto italiano della raccolta risale al 1457 e che ad esso seguirono la prima impressione postuma nel 1476, a Napoli, per i tipi di Sisto Riessinger e l’apporto editoriale di Francesco del Tuppo; quella milanese di Christoforo de Valdarfer, del 1483; le due edizioni veneziane del 1484 e del 1492. La prima delle due è quella che valica le Alpi nella borsa di Philippe de Vigneulles, apprendista presso un drappiere di Metz:216 che fu forse stimolato nella sua scelta dal gusto per il proibito, visto che tale era l’aura che gravava sull’opera, sempre osteggiata da Roma e messa all’indice nel 1557.217 Ciò dona a nostro avviso un’idea di massima sul livello di apprezzamento della raccolta e sulla richiesta del mercato editoriale francese che nonostante e forse a causa dell’interdizione rende il Novellino uno dei principali ispiratori delle tematiche farsesche. Ma la consacrazione di Masuccio nell’Olimpo dell’ispirazione profana francese è confermata qualche tempo dopo quando François Rabelais lo usa per la stesura del suo ventiquattresimo capitolo di Pantagruel, in cui sopravvive la traccia del XLI racconto del Novellino e dell’episodio del diamante che lo caratterizza. L’ispirazione alla novella di Masuccio è stata più volte messa in dubbio e nel tempo sono stati avanzati altri modelli per questo capitolo del Pantagruel, in particolare Philippe de Vigneulles o Arnaud de Villeneuve. Solo recentemente è stata accertata una sicura filiazione da Masuccio218 che del resto sembra assai chiara sia nel trucco in sé dell’anello (da una parte Pantagruel riceve un anello dall’amante dimenticata a ricordargli quanto sia stato crudele partire da Parigi senza neanche dirle «à Dieu»; dall’altra il cavaliere francese Ciarlo che si vede convocato a Firenze dalla promessa amante, anche lei dimenticata dopo clandestine patti d’amore) sia nei dettagli e nell’invenzione linguistica (l’iscrizione in ebraico dell’anello, che, corredata del falso diamante che guarnisce il pegno d’amore in Masuccio è «Di’, amante falso. Perché m’hai abbandonata?» nel Pantagruel diventa «Dy, amant faulx, pourquoy me as tu laissée ?»). 216 R. COOPER, 1973. Novellino di Masuccio (1467|71-1474) Æ 1476: Sisto Reisenger ne stampa la prima edizione milanese, seguita da una fila di stampe veneziane: 1483, ‘84, ’92, 1503, ’10, ’22, ’25, ’31, ’35, ’39, ’41. Dal Novellino di Masuccio sono ripresi la maggior parte dei Comptes du monde adventureux, comparso nel 1555. Sulle 54 novelle dell’opera una trentina sono prese direttamente dall’opera di Masuccio. (F. FRANCK, 1878) 218 Notizie del dibattito in merito in M. SIMONIN, 1989. 135 217 La domanda alla quale è difficile rispondere è quando Rabelais abbia letto Masuccio: in Francia oppure durante il suo viaggio in Italia? Il fatto è determinante in quanto ci farebbe comprendere la qualità della fonte usata dal poeta francese e dunque la sua reale prossimità all’originale. Michel Simonin è piuttosto propenso alla opzione italiana e si appoggia ad un dato fornito da Nicole Cazauran: nella biblioteca di Blois sarebbe conservato un manoscritto molto antico del Novellino, forse da associare alla voce di un inventario antico («plus a declaré avoir baillé à Allegre ung livre de la dite librairie nommé Novellin »)219 ma è evidente che lo studioso si affida piuttosto all’intuito, dal momento che non è possibile capire dall’inventario se si trattasse o meno di una versione italiana dell’opera di Masuccio. Personalmente non abbiamo trovato alcuna traccia dell’opera: ancora Simonin ipotizza che possa essere un esemplare manoscritto “aux armes de François I”, probabilmente usato da Marguerite de Navarre, ma alcuna menzione di possesso nei cataloghi antichi sta lì a confortare le sue ipotesi. Riteniamo qui solo qualche dato più noto: che a corte circolava l’opera di Masuccio, che Marguerite de Navarre ebbe a consultarla e che Rabelais non esitò ad introdurre un intarsio masucciano fra le digressioni che gli sono proprie. L’opera di Masuccio conseguirà un successo ancora maggiore nel 1555 quando l’anonimo A.D.S.D.220 la trasporterà di peso nei celebri Comptes du monde adventureux.221 Come per il Parangon i racconti hanno provenienza eterogenea: l’immancabile Boccaccio, Petit Jehan de Santré, un paio di dicerie locali ed altrettante cronache reali. Ma Masuccio è decisivo nella stesura dell’opera. Parliamo di ben 31 novelle prese in prestito all’italiano per ragioni di dissimulazione più che di gusto: Masuccio era infatti all’epoca meno conosciuto rispetto alle altre fonti novellistiche ed il nostro A.D.S.D. poteva spacciarsi più facilmente per l’autore, dissimulazione tanto più efficace quando si ungono di complimenti le dame, apparentemente prime destinatarie dell’opera. Nel complesso i Comptes du monde adventureux sono uno straordinario veicolo di più tarda diffusione della novella italiana in Francia e sono testimoni dell’importante fenomeno di italianizzazione della cultura d’oltralpe che muove i passi proprio a partire dalla comunanza di gusti fra le due culture in uscita dall’Evo Medio. 219 N. CAZAURAN, 1978. Brantôme menziona come autore della raccolta l’acronimo A.D.S.D. : le iniziali sono state decrittate di volta in volta come Antoine de Saint-Denis, Abraham de Saint-Dié, André de Saint-Didier. Félix FRANK (1878) dà credito all’ipotesi che si trattasse di Antoine de Saint-Denis. 221 A.D.S.D., Les comptes du monde adventureux…, Groulleau, Paris, 1555. (F. FRANK, 1878). 136 220 I risultati raggiunti da A.D.S.D. rimangono inoltre originali e costituiscono un’opera d’adattamento inscindibile dalle sue fonti eppure da esse in qualche modo indipendente, al contrario di altre operazioni analoghe, come le Facétieuses journées di Gabriel Chappuys che nulla apportano di più alle loro fonti. Parallelamente a questa attività editoriale media, più consapevole del mercato, si sviluppa nel corso del XVI secolo un altro commercio parallelo, quello delle edizioni povere e degli opuscoli, assai impressionante per quantità ed estensione geografica nell’area francofona: tale produzione è stata collezionata, ed in modo per giunta non esaustivo, nei quattordici volumi tirati da Techener, fra il 1829 ed il 1833, in una raccolta dal titolo de les Joyeusetés facéties et folastres imaginations.222 Si tratta insomma di un humus di coltura assai fertile per la farsa e le sue forme liminari, che intrattiene con i repertori drammatici un rapporto di circuitazione spesso inestricabile. Passato e presente delle tematiche novellistiche diventano così un mélange che rivive con successo nel teatro. Il est clair aujourd’hui que tous, ou presque tous les éléments de la nouvelle "réaliste" étaient présents dans divers genres littéraires bien avant que le succès des Cent nouvelles nouvelles Bourguignonnes ne vînt attacher un nom – celui de "nouvelles", précisément – aux œuvres qui réunissaient en elles ces éléments épars. […] Depuis la tentative de synthèse de Werner Soderhjelm (La nouvelle française au XVe siècle, Paris, Champion, 1910), depuis les travaux très éclairants de Pierre Champion sur la genèse des Cents Nouvelles Nouvelles bourguignonnes (dans son introduction à celles-ci, chez Droz, en 1928), nos instruments de travail se sont constamment perfectionnés. Ainsi, de nouvelles éditions critiques on été procurées, des Quinze Joies de Mariage en 1963, du Saintré en 1965, des Cents Nouvelles Nouvelles en 1966 […]. – Quant aux études d’ensemble, on dispose maintenant de la thèse de Roger Dubuis sur le Cent nouvelles nouvelles et la tradition de la nouvelle en France au Moyen Age, Presses Universitaires de Grenoble, 1973.223 Alle fonti italiane si aggiungono poi le raccolte autoctone, di ben più corriva fattura, ma talvolta formalmente assai prossime alla farsa. Raccolta anonima ascrivibile con ogni probabilità ai dintorni del 1400, les Quinze joies de mariage224 pur ponendo un problema di appartenenza alla più antica ispirazione “romanesque” si distinguono per uno dei temi più cari alla novellistica: i problemi più o meno minuti della coesistenza di due individui in una coppia. Siamo ancora lontani dai tratti caratteristici della filosofia morale da asporto propri della querelle des femmes, ma il terreno di coltura è pronto perché il tema attecchisca, specie nel teatro dove sono numerosi débat e farse dedicati all’argomento. 222 Coll. TECHENER. G. PEROUSE, 1977 : p.13. 224 Anonimo, les Quinze joies de mariage, s.l.n.d., (Lyon, 1480-1490). L’edizione più recente è J. RYCHNER (1999). 223 137 Nelle Quinze joies, parodicamente ispirate da opere devozionali, ci accorgiamo come la comune eredità medievale sia una delle componenti di maggiore permeabilità fra lettere italiane e francesi: il dato novellistico è qui in qualche modo complementare alle forme del sermone. L’autore si esprime per ripetizioni, mettendo in gioco i meccanismi della memoria sperimentati dalla retorica e dagli exempla, in un orizzonte linguistico quotidiano come i fatti che vi si raccontano e legato alla realtà così come lo sono la funzione religiosa e la predica domenicale, il tutto a produrre interni familiari, da cui si possano trarre utili emulazioni comportamentali. Il Jehan de Saintré, di Antoine de La Sale, è invece un romanzo cavalleresco a tutti gli effetti, in cui si fanno strada i nuovi valori rinascimentali, purtuttavia accompagnati dal retaggio degli exempla. La storia potrebbe essere quella di un Bildungsroman: la vedova Madame de Belles Cousines, educa il paggio Saintré ai principi della moralità cristiana, insegnamenti impartiti con esempi pratici e storie edificanti. Questi cresce cavaliere forte e valoroso: ma la donna non segue ella stessa i propri insegnamenti e si perde in una vergognosa relazione con il monaco Damp Abbé. I caratteri in comune con la novella ed il suo gusto sono più minuti, specie dal punto di vista del realismo, se appunto volessimo assumere il realismo come tratto caratterizzante della novella. Tutta l’eredità medievale vi si sviluppa invece appieno, con le lunghe e fantasiose descrizioni delle parate delle armi, delle processioni, dei banchetti, seguendo quello spirito d’enumerazione comune pure a Rabelais. In particolare all’inizio e alla fine dell’opera, vengono imbastite storie non banali per interesse ai fatti della realtà e minuzia delle descrizioni: ciò che ne fa anche il successo, tant’è che in quella operazione di furto, plagio e riedizione assieme che sono Comptes du monde adventureux, proprio queste parti vengono riprese e trasformate in storie autonome, trattate alla stregua di vere novelle.225 Il ricco interesse per la narrazione che stiamo verificando fra XV e XVI secolo contrasta con la quasi totale assenza di produzione narrativa in Francia fra il 1340 ed il 1400, cioè nel sessantennio che segue la morte di Jean de Condé, proprio quando, cioè, in Italia il genere stava raggiungendo la sua forma stilistica più perfezionata nell’opera di Boccaccio. In Francia fra le farce e i conte, anche se il legame delle narrazioni talvolta può sembrare del tutto evidente, esiste spesso un legame complesso di mediazione, trascrizione, riedizione, sicché le influenze non sono quasi mai dirette, specie quando si parla di Boccaccio, che per la sua notorietà più di Masuccio poneva la necessità d’essere dissimulato. 225 G. PÉROUSE, 1977 : p.41. 138 La maggior parte dei farceur aveva a propria disposizione materiale non originale, di cui dobbiamo presumere che sovente non conoscesse neanche la fonte. Così il livello di scarto fra l’origine del conto e la sua declinazione farsesca sovente si amplifica e trova nel doppio passaggio delle Alpi un motivo in più di modificazione: nel corso del Medioevo, infatti, il fabliau era sbarcato in Italia ed aveva ispirato la composizione di storielle in rima e raccontini piacevoli. Gli stessi che ebbero ad intersecarsi con la novella italiana, futuro genere di riferimento per la letteratura francese successiva. Le vicende dell’importazione francese del Decameron sono più istruttive ancora di quanto accadde al Novellino. La prima traduzione francese del capolavoro boccaccesco è del 1415, ed è eseguita da uno “champenois”, Laurent de Premierfait, che lavora senza conoscere né la lingua italiana né la versione in volgare del novelliere, che era reperibile in Francia tradotto in latino. Sentiamo la voce di Henri Hauvette, che si è molto occupato del problema delle traduzioni europee di Boccaccio. Nous n’insisterons pas ici sur la singulière fortune de cette vieille et fameuse traductions d’un chef d’œuvre italien, entreprise par un homme qui ne savait pas cette langue : il dut avoir recours à la collaboration d’un cordelier arétin, d’intelligence et de culture au dessous du médiocre, en sorte que le Décaméron fut traduit tant bien que mal de latin en français, après l’avoir été, plutôt mal, d’italien en latin.226 Il manoscritto comincia a circolare in Francia ed ha un notevole successo, che con un meccanismo ben noto ai bibliofili, ha l’effetto di produrre copie poco curate. Arriva la fine del XV secolo, quando Antoine Vérard decide di stampare la traduzione di Premierfait, ormai quasi irriconoscibile, aggiungendo del suo per cercare di dissimulare ancora di più fonti e furti. Pertanto la prima stampa francese del Decameron del 1485, semplicemente non è… il Decameron. L’impressione fissa la forma definitiva di quello che di fatto è un falso: una mondatura non viene mai effettuata e così com’era l’opera riscuote anche un notevole successo; solo fra il 1485 ed il 1541 questo Decameron spurio è stampato a ripetizione: nel 1511, nel ‘21, nel ‘34, nel ‘37, nel ’40 e nel 1541, sempre da imprese parigine. È lecito allora chiedersi: a cosa si ispirava (o cosa saccheggiava) l’autore del Parangon des nouvelles honnestes et delectables (a stampa a Lione nel 1531) o Nicolas de Troyes nel 1536 con il suo Grand parangon? Dobbiamo parlare dell’influenza di Boccaccio o piuttosto di quella di Premierfait e dei successivi volgarizzamenti? 226 H. HAUVETTE, 1968b : pp.285-286. 139 E poi esiste un’ulteriore influenza della raccolta di Boccaccio sulle lettere francesi che diremmo “secondaria”, in quanto filtrata da quelle opere italiane che più o meno si rifacevano al Decameron. 1.5.3 – Moduli ricombinanti. Sono numerosi gli altri novellieri italiani che ricorrono con le proprie storie all’interno delle farse, che fanno man bassa delle trame e delle situazioni del Pecorone di Ser Giovanni Fiorentino (13781385), del Trecentonovelle di Franco Sacchetti (1388-1399) o delle Porretane di Sabadino degli Arienti (1475-1478). Per non parlare poi dell’irresistibile successo del Facetiarum libri o Confabulationes, (1438-1452) di Poggio Bracciolini, che si prepara ancora prima della tiratura a stampa, con la circolazione intensa delle forme manoscritte. Dal 1470 al 1500 le Facezie godono di ben 38 edizioni ad alto coefficiente di circolazione in europea.227 Parliamo di più di una tiratura per anno, ciò che ne fa un fenomeno editoriale degno delle mode letterarie odierne. In Francia Poggio è tradotto da Guillaume Tardif,228 lettore di Carlo VIII; la traduzione fu iniziata nel 1492 e pubblicata prima del ’96 dai tipi di Trepperel. Dato il sale delle sue storie e la loro semplicità modulare Poggio non solo è campione per numero di edizioni, ma anche di imitazioni, e si trova al centro di singolari fenomeni come quello della Farce nouvelle et récréative du Médecin qui guarist de toutes sortes de maladies et de plusieurs autres: aussi fait le nés à l’enfant d’une femme grosse, et apprend à deviner, pubblicata da Brunet nelle sue Pièces rares et facétieuses.229 La farsa conta soltanto 300 versi, ma sviluppa una sequenza di episodi tutti ripresi da Poggio: si tratta di sei facezie agite dai due protagonisti. Come in un caleidoscopio narrativo si compongono in un insieme coerente e geometrico le scaglie di storie molto diverse fra di loro, donando origine ad un racconto non privo di freschezza e coerenza: ed anche in questo caso il farceur ha usato non la versione originale ma il volgarizzamento di Guillaume Tardif. Come spesso accade la storia della farsa è riassunta dal titolo. Il medico apre la pièce con qualche richiamo da mercato: pubblicizza unguenti e pozioni miracolose e fa vanto della sua immensa esperienza nel campo della fine scienza della guarigione. Al che i clienti sembrano sedotti dalle 227 I riferimenti cronologici sono presi da L. SOZZI, 1967 : p.412. La traduzione di Poggio realizzata da Tardif è stata pubblicata e rieditata da A. de MONTAIGLON, 1878. 229 Al n° 697 (II) del cat. ROTHSCHILD compare la pièce originale. Médecin qui guarist de toutes sortes de maladies et de plusieurs autres. Rec. BRUNET, t.I, n°1. A proposito di questa farsa si veda E. PHILIPOT, 1911. 140 228 straordinarie abilità dell’uomo: il primo a farsi avanti è un povero disgraziato che si è rotto una gamba cadendo da un albero. Verrà curato, ma sconterà la guarigione dovendosi sorbire la predica idiota del guaritore. Escoute, soit d’arbre ou degré, Garde toy de te plus haster Alors qu’il t’en faudra descendre Que n’avois faict à monter.230 A parole da idiota, scherzo da astuto: appena tornato all’antica capacità deambulatoria, il malato da fiera la esercita, eccome, scappando via in un maligno contrappasso nei confronti del medico, che rimane gabbato.231 Dopo questo episodio introduttivo la farsa prosegue con un evidente (ma implicito) cambio di ambiente, dove vediamo una donna alle prese col marito bestia e fannullone: questa invita l’uomo ad accompagnarla dal medico montandola di peso sull’asino. Dopo un paio di scenette in cui la donna rischia di rompersi il collo ed il marito oltre che poltrone si mostra assai irascibile, i due giungono finalmente al cospetto del medico. La moglie ingiunge al marito di badare all’asino durante la sua assenza, ma una nota di scena annuncia, secca: «le mary se couche contre terre et s’endort tantdis que l’asne s’en va».232 Dimostratosi specialista in guarigioni di gambe il medico rimette in sesto la coscia della moglie infelice con un massaggio di cui possiamo immaginare la natura se il professionista si rifiuta di riscuotere la parcella, dichiarando senza troppo nascondere il concetto: «De vous je me tiens trèscontent, | Dresser m’auez faict, c’est assez, | Le membre, ne sçay s'y pensez, | Prenes que l’un vaille pour l’autre».233 A questo punto della storia, visto che il dottore ha toccato il tasto del sesso, la donna dichiara d’essere incinta, quasi a voler far schermaglia alle piccanti allusioni dell’uomo sul membro dressé: il fatto non sembra preoccupare il medico, che anzi, riesce ad ottenere il permesso di eseguire qualche “pratica 230 Rec. BRUNET, t.1, 1 : p.6. Facetiae, XXXIX: Facetissimum consilium Minacii ad rusticum. «‘Vellem hoc antea’ inquit aeger ‘consuluisses, attamen in futurum poterit prodesse’. Tum Minacius: ‘Fac semper ne sis celerior in descensu quam in ascensu: sed ea, qua ascendis, tarditate descendas. Hoc pacto nunquam praecipitem te ages’.» Questa e le seguenti citazioni da Poggio sono prese dall’edizione di S. PITTALUGA (1995). 232 Rec. BRUNET : p.8. 233 Ibidem : p.10. LXXXIX: De medico. « Tum suspirans cum assurrexisset, atque illa quid pro ea cura sibi dari vellet quaesisset, nihil sibi deberi respondit. Quaesita causa: ‘Pares enim in opere’ inquit ‘sumus: ego enim tibi membrum contortum direxi, tu item mihi aliud erexisti’». 141 231 terapeutica” sul corpo della donna. Il marito imbecille e mezzo impotente si sarebbe scordato, infatti, (o forse non è stato capace) di fare il naso al nascituro e il medico astuto si propone di completare l’opera con prosaica cognizione di causa. LE MEDECIN […] Car l'enfant dont estes enceinte, N'a point de nés, c'est verité. LA FEMME Hélas Monsieur ! par charité Sçauriez-vous à ce mal pourvoir? LE MEDECIN Ie lui en feray vn auoir, Autant qu'il soit demain ceste hure, Si voulez que ie vous secoure Ou tardif sera le secours. LA FEMME I'auray doncques à vous recours Pou l'oeuvre encommencé parfaire. LE MEDECIN Vn ouurier vous faut pour ce faire Qui entende ce qu'il fera, Autrement le nés ne tiendra, Restant difforme le visage. LA FEMME Ie vous donneray si bon gaige Que serez très-content de moy234 Ma il ritmo della farsa è davvero incalzante: nella misura tipica dei 300 versi non c’è tempo per soffermarsi troppo sugli stessi sketch, ma il senso della composizione teatrale è molto sviluppato e così il farceur non dimentica l’esca lanciata al pubblico durante le prime strofe, con la sparizione dell’asino e la poltronaggine del marito: eccolo dunque tornare sull’episodio, incatenandolo agli altri estrapolati dalle facezie. Un cambio di scena occulta le oscenità che la donna con il medico usano per rimediare alla faccenda del naso: la narrazione nel frattempo si focalizza sul risveglio dell’uomo, che si accorge della sua idiozia e si appella direttamente al pubblico per capire che fine abbia fatto l’asino. La paura delle bastonate della moglie lo rende pavido, e quando la donna torna in scena si finge malato per distrarre la sua attenzione dalla scomparsa del quadrupede («Il me fault le malade faire | 234 Ibidem : p.11. CCXXIII, De fratre minorum qui fecit nasum puero. 142 Pour euiter d’estre battu»235). Ed il medico interviene con una pillola miracolosa, rimedio assoluto contro ogni male. LE MEDECIN […] Voicy de la pillule fine Qui vaut mieux qu’autant d’or massif, Il t’en faut prendre cinq ou six Cela guarira tous tes maux. LE MARY (en prend puis dit) Qu’est-ce? diable, ils sentent les aux, Comment ils roullent dans mon ventre, Ha! il faut que mon cul s'esuente.236 L’attacco intestinale dell’uomo è utile, perché nelle sterpaglie dove scappa a fare i suoi bisogni, il marito trova la bestia perduta.237 Ci avviamo a questo punto allo scherzo finale, combinazione di altre due facezie: altro cambio di scena repentino e la moglie partorisce fra urla e commenti ridicoli, la qual cosa insospettisce il marito, che si ricorda di aver fatto all’amore almeno tredici mesi prima, ciò che è in contrasto con il primo parto, occorso appena cinque mesi dopo il matrimonio. I’ay l’entendement tout cornu De ce qu’accouchée vous voy, Trize mois sont, ie l’apperçoy, Qu’auecques vous ie n’ay couché, Au moins que ne vous ay hochée, Et si dès la première année Qu’avec moy fesustes mariée, Vous geustes au bous de six mois.238 Ed ecco la faceta spiegazione con cui la donna vuole fugare ogni dubbio sulla propria fedeltà: la quantità di tempo che il bambino impiega a venire alla luce sarebbe direttamente proporzionale alla 235 Rec. BRUNET, p.13. Ibidem : p.14-15. 237 LXXXVII, De temerario qui asinos curabat. « […] ei sex pillulas deglutiendas dedit. Quibus sumptis abiens, postero die cum asinum quaereret, ac cogentibus pillulis de via discessisset laxandi ventris gratia, in arundinetum forte divertit; ibi reperto asino pascente, medici scientiam et pillulas ad caelum laudibus extulit. » 238 Ibidem, p.16. 143 236 “spinta” al momento dell’unione sessuale oppure la vista dell’asino durante il concepimento, che notoriamente allunga la gravidanza di tredici mesi.239 Finalmente il marito, rassicurato sulla fedeltà della moglie, prende in braccio il figlioletto e, ironia della sorte, ne apprezza soprattutto il naso, che naturalmente la donna sottolinea non essere opera sua. I sospetti tornano. Il marito vuole sapere chi sia stato a compiere l’opera al posto suo e torna dal medico, a chiedere il dono della divinazione come se nulla fosse. Il ciarlatano gli mette in bocca una pillola che l’uomo riconosce essere sterco: ecco fatto, chiude piacevolmente il medico, avete afferrato subito l’origine delle pastiglie, la magica arte della divinazione è finalmente vostra. Si tratta ben evidentemente di una astuzia di comico verbale, basata sulla doppia accezione del verbo deviner (indovinare / prevedere il futuro). LE MEDECIN […] Or pour ce secret là t'apprendre, Ouure la bouche, il te faut prendre De ces pilules que voicy. LE MARY Fy ! tous les diables ! Qu'est cecy ? Cela sent plus fort que moutarde. LE MEDICIN Deuine LE MARY Le sambieu, c'est merde. LE MEDECIN En ma conscience c'est mon, Or fais-ie veu à Sainct-Simon, Que tu es très-bon Deuin.240 A dire: cornuto e bastonato. Alla Farce du médecin qui guarist de toutes sortes de maladies si è imputata la troppo evidente operazione di plagio multiplo (la stessa traduzione da Poggio di Guillaume Tardif non è rimasta indenne nel tempo a simili strali); da un’ottica puramente teatrale, però, l’operazione di Tardif era la sola che potesse rendere “drammatizzabili” le brevissime ed acute composizioni di Poggio. Il testo originale latino è infatti di una tale concisione che è difficile immaginarlo pedissequamente trasposto 239 CXXII, Iocunda responsio unius mulieris facta ad quendam quaerentem an uxor sua per XII menses posset parere. «‘[…] si tua uxor, qua die concepit, asinum forte vidisset, more asinae annum integrum partum gestabit’» 240 Rec. BRUNET, p.19. CLXVI: Altera facetia de eo qui divinare volebat. «Alteri quoque ut divinator fieret optanti: ‘Unica’ inquit ‘pillula te divinum reddam’. Assentienti pillulam e stercore confectam in os praebuit. Ille prae foetore vomitans: ‘Stercus’ inquit ‘sapit, quod dedisti’. Tum Gonnella verum illum divinasse affirmavit, et pretium divinationis poposcit.» 144 sulla scena mentre il lavoro disinvolto di traduzione in francese è decisivo nella suggestione di materiali, atmosfere ed ambienti. Fra l’altro bisogna riconoscere, con Bernadette Rey-Flaud,241 che gli episodi sono legati fra di loro in modo non sciatto ed anzi affatto originale: questa farsa è in realtà una piccola perla di teatralità e conforta ulteriormente il nostro percorso teorico sulla modernità estetica della farsa e della sottie, che abbiamo visto basarsi in larga parte sulla modularità di singoli pezzi comici, che siano letterari o performativi, e sulla trasposizione di essi in forma di azioni materiali. Nella nostra farsa sottolineiamo la scelta non casuale del medico a protagonista della storiella. La professione liberale si presta bene al gioco scenico, riallacciandosi ad una lunga tradizione satirica sulla medicina (che come è noto risulterà capitale nella poetica di Molière); soprattutto la professione offre in sé l’opportunità di introdurre numerose storie, essendo il medico in contatto con una clientela vasta e singolare come una corte dei miracoli: il dottore è un personaggio che consente di introdurre realisticamente il montaggio di più storie incoerenti fra di loro e capaci di inattesi spunti comici. Ma per ridurre ulteriormente eventuali falle il farceur impegna altri mezzi: primo fra tutti l’orchestrazione degli oggetti di scena. Riferiamoci in particolare all’asino, elemento estraneo all’originale della prima facezia ma che consente nel passaggio sul catafalco di costruire qualche scena comica durante la prima parte, preparando ad un tempo la venuta del quarto ordito narrativo. L’autore è attento a disseminare i primi tre episodi di una serie di indicazioni per dare verosimiglianza alla storiella della bestia perduta: si crea così un tessuto connettivo testuale originale. Singolare anche il classico movimento narrativo del trompeur trompé; praticamente assente nelle facezie di Poggio, viene aggiunto a questa farsa all’inizio. Si tratta del primissimo episodio, quello dell’uomo che guarito scappa via senza pagare: è un tiro mancino reso al medico imbroglione e ciarlatano, ma il fatto che si violi la dispositio classica dell’episodio (di solito alla fine della pièce) riduce quel senso di “morale degli idioti” su cui riposa tale movimento. Suo malgrado neanche il marito, cornuto e bastonato, partecipa alla regola della vendetta piacevole e riceve una doppia dose di inganno, due trucchi e due burle. Sul piano della successione dei luoghi e delle scene si esprime una buona attenzione drammatica con un ritmo calzante ed attento alla dispositio scenica: fra gli altri possiamo qui donare l’esempio del marito dormiente, scena la cui ironia si basa sulla compresenza della moglie adulterina e del medico, 241 B. REY-FLAUD, 1984. 145 mentre in simultanea il marito niais giace addormentato come un sacco di patate sul catafalco. Come Gréban nel suo mistero, l’autore gioca qui sulle qualità fondamentali del pubblico-ricettore che rispetto ai personaggi è onnisciente, “panottico”. Molti dettagli ci spingono a pensare che l’autore non abbia neanche conosciuto l’edizione originale di Poggio e che si sia appoggiato alla traduzione senza alcuna verifica a priori o posteriori sulla fedeltà al modello primitivo: del resto la letteratura teatrale è cosa diversa dalla filologia e vi regna incontrastato il criterio dell’utilitarismo quando non dell’opportunismo. Soprattutto i dettagli stilistici e narrativi sono molto vicini ai pezzi aggiunti che si rilevano nel volgarizzamento. L’unico dubbio rispetto all’affermazione che l’unica fonte usata dal farceur sia la traduzione di Tardif risiede in un fatto singolare: tutte le pièce usate per la farsa sono incluse nella traduzione francese (che non traduce integralmente l’originale poggesco, mantenendo solo 112 delle originali 273 facezie) fatta eccezione per la prima, la cui circolazione in Francia sotto forme alternative non è stata individuata.242 Al di là della facezia introduttiva le scene II – IV della nostra farsa pescano dalla LVI e dalla LV di Tardif; mentre la scene III, V e VI prendono dai racconti LXXXIX, LXX e LXXXV, sempre del volgarizzamento francese. Il titolo invece sembra ispirato al racconto LV («garissoit de toutes maladies»): in nota abbiamo invece segnalato caso per caso le corrispondenze con l’originale. L’elaborazione del modello di Poggio è dunque solo una scusa per mettere in atto lo schema tipico del genere comico francese: il ciarlatano ingannato da uno zoppo qualsiasi, il ciarlatano che fa cornuto il marito, la moglie lussuriosa e stolta, il marito bestia ingannato per la seconda volta. Tutta la biomeccanica della farsa medievale vi è ampiamente sviluppata e presente, così come la pessimistica visione farsesca del mondo, con il ciarlatano che non esita a dare in pasto dello sterco all’uomo appena fatto cornuto, con la stupidità generalizzata. Nel mondo al contrario ecco l’unico trionfante personaggio: un reietto, uno zoppo, più sporco e disgustoso di tutti gli altri niais della farsa. Questa pièce rappresenta un caso limite utile alla verifica del meccanismo generale dei furti e dei prestiti nel teatro profano, ma ci fa avanzare anche un’altra ipotesi a partire dalle posizioni critiche affrontate nel corso di questo capitolo che vedono fra la farsa e la sottie un rapporto di reciproca contestualizzazione. 242 B. REY-FLAUD, 1984. 146 Se la sottie è cornice entro la quale si inquadra tutto l’avvenimento drammatico multiplo – ciò che più volte abbiamo definito “cartellone” o “varietà” – nelle farse più complesse scopriamo come sia una pratica assai comune quella del montaggio dei pezzi e delle storie in un contesto cornice. Dall’evento concreto alla realizzazione d’una singola trama i modi di operare sembrerebbero gli stessi. Questo modo di organizzare lo spettacolo ed il procedimento drammatico ha a nostro avviso una straordinaria affinità col modello delle grandi raccolte di novelle, che imbastiscono una narrazione “reale” piana e di contesto (le piacevoli compagnie ed i loro intrattenimenti) con una sequenza di storie fantastiche più o meno ordinate logicamente. Il teatro comico francese, dunque, non solo attiva una circolazione con le tematiche novellistiche, ma prende esempio anche dalla caratteristica strutturale portante comune a quasi tutti i novellieri. Se, come stiamo ipotizzando, i pezzi brevi e frammentari di poesia drammatica francese giunti fino a noi sono stati pensati come moduli utili all’allestimento di eventi multipli, fosse dovremmo rivedere la nostra prospettiva storica e valutare in modo differente l’esito estetico di queste composizioni. La farsa di Pathelin rappresenta uno degli esempi più precoci del genere ma ne è allo stesso tempo l’esemplare più maturo, tanto che si è più volte ipotizzato – a dispetto dell’inesistenza di testi letterari, di cronache o fonti documentarie che testimonino in questo senso – che l’arco di tempo che lo separa dalla fine del fabliau sia stato in realtà un periodo di elaborazione del nascente linguaggio drammatico e che quindi rappresenti il vertice, più che l’origine, di una parabola già avviata nel Medioevo. Sotto la lente della nostra ottica modulare, Pathelin potrebbe essere paradossalmente un esempio sclerotizzato di scrittura per la scena e nulla ci vieta di pensare che la pièce giunta a noi sia il prodotto di successive riscritture di un varietà drammatico progressivamente omogeneizzate in un’unica composizione. In contrasto con le logiche di distribuzione commerciale e di composizione creativa dell’evento scenico che fin qui abbiamo disegnato, Pathelin sarebbe un varietà drammatico, solo assemblato all’origine, in un intreccio narrativo più esaustivo e completo della regola dei pezzi. Pathelin ed il suo farceur ci donano un’ulteriore verifica delle pratiche di furto e prestito ed un’ultima occasione per analizzare più da vicino la struttura novellistica a cornice che ci sembra di incontrare anche nel varietà drammatico tardo medievale francese. Saremo evasivi nella descrizione 147 della trama della pièce, che d’altra parte vedremo nella seconda parte di questa trattazione e della quale forniremo qui solo alcuni tratti generali utili ad una analisi strutturale. Riprendiamo i tre intrecci alla base di Pathelin di cui sopra abbiamo sottolineato i finali: il primo modulo (1) comprende una lamentazione sulle condizioni miserevoli in cui versa la famiglia pathelinesca, fatto che è causa della ruse ordita dall’avvocato per sbarcare il lunario e quindi della scena dell’acquisto-furto delle stoffe dal drappiere; (2) il secondo modulo è l’episodio della falsa malattia del protagonista, in cui il drappiere pensa di poter riscuotere il denaro, irrorato dal vino del lussuoso banchetto promesso da Pathelin: arrivato a casa del furfante il commerciante si deve rassegnare a credere che l’avvocato è malato da tempo e che non è mai stato nella sua bottega e dunque rinunciare a riscuotere; (3) la terza parte è la più esilarante e più degli altri due episodi sembra completamente autonoma: si tratta del celeberrimo episodio del processo “per belati”. Pathelin alla fiera Æ La visita di Guillaume Æ La scena del tribunale Inganno al mercante Æ Falso malato, ipocondriaco Æ Processo piacevole Ogni singolo episodio rappresenta un tema a sé stante ed una precisa narrazione da repertorio. Se pensiamo alle tre storie in sé e se le confrontiamo con le farse brevi a nostra disposizione ci accorgiamo che il livello singolare di coerenza interna ad ogni episodio non si discosta molto da quello adottato da una farsa qualsiasi, ed anzi, in certi casi è addirittura maggiore. Guardiamo al primo blocco narrativo, che si costituisce in sé su un episodio di comico linguistico, la messa in azione di una espressione idiomatica: manger de l’oye, (cadere nella trappola). Chi mangia de l’oye è il niais o ha subito un tiro mancino cui difficilmente può porre rimedio. Siccome Pathelin gli ha promesso una bella abbuffata, il nostro drappiere si dirige tutto contento verso casa dell’avvocato e dice: Je croy qu’il est temps que je boive Pour m’en aller. Hé ! non feray ! Je doy boire et si mangeray De l’oye, par saint Mathelin Chiez maistre Pierre Pathelin, Et la recevray je pécune243 243 R. HOLBROOK, op.cit., Paris, 1986 (p.26). 148 Suscitando con ogni probabilità l’ilarità del pubblico, cui il personaggio sta di fatto dichiarando d’essere in procinto d’andare a farsi gabbare dall’avvocato: tale modello sembra rubato da farse come Amoureux qui ont les bottines Gautier, Femmes qui font accroire à leur maris de vessies que ce sont lanternes, Celui qui garde les patins.244 La ruse pathelinesca potrebbe prendere il titolo di Farce de celui qui va manger de l’oie. Anche da un punto di vista tematico rileveremo più avanti come il trucco del belato compaia in diverse novelle e farse come centro dell’intera narrazione (e non in quanto singolo episodio come in Pathelin): in Ludovico Domenichi, in Antonfrancesco Grazzini ed addirittura in un racconto della tradizione narrativa abruzzese. Ad ogni nuovo “atto” l’autore del Pathelin sembra che ricominci tutto da capo, ciò che rende ancora più netta e consapevole una rigida divisione in scene e che concentra in nuclei di citazioni ben distinte i tre differenti episodi.245 Il varietà drammatico e la farsa adotterebbero dunque il metodo di contestualizzazione tipico delle raccolte di novelle, basato sulla contrapposizione fra la realtà vissuta dai narratori (attualità della cornice) e quella dei personaggi (finzione narrativa), i quali dalla fantasia o dalla cronaca migrano nel presente scenico dei protagonisti della cornice, in forma di exempla piacevoli, dilettevoli, prosaici o morali. La storia vive insomma in due realtà: quella di contorno è la più importante per l’efficacia dell’exempla, benché lo sia meno per la riuscita della narrazione, che anzi si realizza appieno nelle storie raccontate, nella fiction, diremmo oggi. Anche questo contrasto fra due ordini di realtà (realtà dei personaggi | realtà dei narratori) che si verifica nella novella viene riproposto in termini quasi identici dalla farsa. Tutti i prologhi delle raccolte di novelle fra Italia e Francia manifestano tre preoccupazioni principali: la veridicità dei fatti raccontati, l’intenzione ricreativa del racconto e l’utilità della storia come veicolo di esempio morale. L’organizzazione del materiale drammatico in cornici “sottesche” rappresenta in fondo una risposta consapevole a queste tre esigenze: la finzione assume una carica realistica in quanto viene collocata in un contesto più largo, quello delle esistenze individuali, hic et nunc, del pubblico. La cornice, la nave dei folli, il contrario della vita, presenta delle storie che per quanto popolate di assurdi e grotteschi imbecilli e per quanto spesso impossibili in sé, nel contesto della follia introduttiva dei sot 244 245 Rép. COHEN, n° IX, XV, XXI. L. SOZZI, 1989. 149 riproducono il mondo al di fuori del catafalco: sono storie di mogli, mariti, amanti, di fiere e di commercio. Sono storie dalle quali non ricaviamo verità esemplari ma che parlano per lo più di fatti con cui il pubblico si confronta quotidianamente. L’esemplarità dell’azione è sicuramente meno moraleggiante di quanto non lo sia nella tradizione degli exempla, ma non per via le forme, che parodiano quelle dell’insegnamento (dunque riprodurle, seppure in modo esagerato), bensì a causa del contenuto dell’esempio, il più delle volte inconsistente o insensato quando non anarchico o contrario alla convivenza civile: il comico risiede appunto nella sproporzione del linguaggio con l’esempio idiota fornito. Il tono moraleggiante resta, ma invertito di polarità, spesso crudele, quasi mai utile. Se dunque la novella si occupa degli avvenimenti, dei fatti reali, la farsa si prende carico di parlarci di quanto imbecille sia la realtà ed il suo contorno: ma il “valore probante” del fatto narrato è dato – così come nella novella – dalla collocazione in una cornice. Nella farsa la questione del reale allontana e disturba la comprensione del significato, che è sempre ludico, quindi gratuito. I farceur hanno compreso come il teatro più d’ogni altro strumento linguistico si ponga quale momento ricreativo e sociale per eccellenza, pausa civile in grado di sollevare l’uomo dalle fatiche nel quotidiano, proponendo una realtà “reale” popolata da meccaniche supermarionette. 150 2 Luoghi letterari, repertori e risorse novellistiche 151 2.1 – Forbici, mantelli, jeux de ruses. 2.1.1 – Esopet dà di matto. Scavando fino all’ossatura minima dei temi e degli intrecci della farsa si ricava la regola generale che informa le avventure dei personaggi e dei tipi, semplificata nel detto popolare «à trompeur trompeur et demi»: nella farsa si svolgono per lo più jeu de ruse, giochi di scaltrezza e di inganno in cui il truffatore ed il truffato si scambiano una o più volte di ruolo. Il debole non ha diritto né alla solidarietà del pubblico, né a quella dell’autore della farsa, che disegna un mondo ludico, il cui funzionamento interno trascende, contraddice o esibisce la morale dominante. Nessuno spazio a schematizzazioni sociali ma piuttosto un delirio di contraddittorietà e battute di bassa lega, intessute per lo più di giochi linguisti, filastrocche e norme proverbiali. La dominante è un gioco biomeccanico, regolato dalle leggi dell’astuzia, in cui la trama narrativa è spesso smagliata, vaga o semplicemente pretestuosa. In questa folle biomeccanica il salto verbale, (saut, come sot, pronuncia [so]), doveva essere accompagnato da quello atletico dell’attore, che variava così anche i registri dei monologhi giocosi. Un mondo dei pazzi, soggetto alla legge del più forte, in cui le relazioni si sclerotizzano in un moto perpetuo di vittorie fra canaglie ed alterchi familiari; tendenza alla schematizzazione delle forme che esclude qualsivoglia azione di riflessione sociale: ogni compatimento per la condizione del ricco e del 152 povero è azzerato. Nella farsa la moquerie è “democratica”, e se la prende indistintamente con servi e padroni, ricchi e poveri. In questa visione del mondo caratterizzata da leggerezza morale e disinvoltura etica il gioco d’astuzia si profila come unica forma di salvazione nei confronti di un prossimo sempre pronto ad approfittare dell’occasione propizia per ottenere un vantaggio o compiere il tradimento. Riconosciamo nella farsa una sorta di pessimismo pragmatico, una crudeltà di base i cui toni sfiorano quelli della saggezza popolare e del luogo comune e che contrasta sinistramente con la tensione “festiva” cui questi personaggi sembrano costantemente sottoposti. Lo stolto è stolto e merita per questo di essere messo alla berlina: a meno che non sappia prendersi una rivincita. Fra la folla degli ingannatori è forse possibile tracciare un’unica debole distinzione fra quelli che ingannano per propria iniziativa e quelli che invece esercitano l’astuzia per vendetta, gli uni non meno crudeli degli altri. Nella farsa, anche il luogo letterario somiglia ad un modulo meccanico che può essere trasferito in altri contesti o replicato nelle trame e nelle loro molteplici varianti: diventa pezzo di bravura per l’attore ma anche storia alla quale alludere in diversi contesti narrativi. Le storie ricorrono, si trasferiscono dalla poesia popolare alla canzone grivois, dalla novellistica alla letteratura latina e ritorno e la farsa se ne impregna. A comporre trame intessute fittamente e non sempre districabili. Nella farsa a quattro personaggi, le Couturier, Esopet le gentilhomme et la chambrière, composta presumibilmente verso il 1500,1 abbiamo un tipico esempio di vendetta “piacevole”, anche se per il nostro senso dello humor le conseguenze di questi scherzi sarebbero tutt’altro che divertenti. La “plaisanterie” è del resto quasi sempre un crudele attacco ai danni del malcapitato ed oltre all’umiliazione sociale, prevede la mutilazione, la rovina economica e nel caso di Esopet parecchia violenza fisica. 1 Tutte le datazioni di farse che renderemo nel capitolo, tranne quando segnalato diversamente, sono tratte dalla importante sintesi critica di H. LEWICKA (1974 : pp.136-147), che si è assunta l’arduo compito di recuperare le ipotesi emesse e riassumerle in coda al suo saggio sulla farsa francese, realizzando la tavola cronologica a tutt’oggi più completa della letteratura farsesca. La studiosa precisa il valore che dobbiamo dare a queste datazioni: « […] nous nous abstenons de toute appréciation. Il est évident que la valeur des datations est très inégale : elle dépend des possibilités offertes par les textes eux mêmes ainsi que de la qualité respective des chercheurs. En reproduisant ces dates, parfois plus qu’incertaine, nous ne saurions guère en assumer la responsabilité. » (Ibidem, p.136). 153 La pièce si apre con una accesa discussione fra il “cousturier” («tailleur», sarto) ed il suo apprendista: il giovane valletto lamenta di essere scarsamente retribuito, il padrone risponde di non aver denari e l’apprendista coglie così l’occasione per suggerirgli di cominciare a confezionare abiti più alla moda. ESOPET C’est pour cause que à la façon Du temps présent rien vous ne faictes. LE COUSTURIER Que fais-je donc, garson ? ESOPET Que vous faictes bien? des jacquettes Du temps des robes à pompettes. Et certes il fault l'ouvrouer clorre Se vous ne taillez à la gorre ; Car chascun veult estre gorrier. LE COUSTURIER N’y a, par dieu, cousturier Pour tailler un habit honneste, Et fust pour vestir à la feste, Plus propre que moy en la ville ; Pour trencher une robbe, habille De toutes gens suis avoué.2 La situazione conflittuale riproduce con aria vagamente realista il sempiterno confronto fra superiori bestie e sottoposti arguti: di fronte alle verità che il suo allievo espone di volta in volta il sarto minaccia di arrivare all’ultima risorsa, quella di impugnare il bastone, aggiungendo la più classica delle ingiunzioni patronali: il suo assistente lavora poco e mangia troppo. J’ay dueil quand aucun ne me met En ouvrage pour besongner; Car j’ay tant besoin de gaigner, Veu que le pain est enchéry, Puis que ce garson je nourry: Est tant friant et tant gourmant Qu'il mangeroit plus qu'un alemant; En son habit ne peult tourner Tant est gras.3 La pièce è raffinata nello sviluppo della situazione comica pratica: vi riconosciamo pause narrative e battute inserite a guisa di congedo, che dovevano segnare l’uscita dei personaggi e l’ingresso dei nuovi: fra la prima “scena” e la seconda, ad esempio, sentiamo dire a Esopet: «C’est bien dit ; il nous 2 3 ATF, t.II, pp.150-175 : pp.158-159. Ibidem : p.160. 154 fault attendre | Je croy qu’il viendra de l’ouvrage», subito dopo il sarto ed il valletto non sono più menzionati e leggiamo il dialogo fra il gentiluomo e la sua cameriera; o ancora, la fine della scena successiva è segnata dalla battuta della ragazza che dice di andare a prepararsi per uscire: un istante dopo intuiamo ancora un cambio di ambiente quando ascoltiamo il sarto cantare la sua canzone giocosa. Dietro alla farsa del Couturier c’è insomma una forza immaginativa teatrale, che sottomette l’andamento del testo alle esigenze della scena, con un buon dominio delle specifiche qualità del linguaggio teatrale. Il pubblico della pièce doveva certamente conoscere i tipi della farsa, qui fissati con precisione fino ad eseguire alcuni giochi “metateatrali” basati su allusioni a caratteristiche note delle figure di scena, come nella battuta del gentiluomo, che invita la cameriera ad uscire con lui per comprare un vestito giacché «voicy le temps d’esté qui vient | Il fault dancer et faire raige | Pour monstrer votre personnage». L’allusione è al prototipo della cameriera di scena, giovane frivola che nelle farse indossava abiti attraenti: quando dice alla giovinetta che con una nuova veste un valletto suo compagno avrà più dolce carne da mangiare, l’autore inserisce nello scherzo la prova “piccante” della libertà della donna. Afferriamo in un colpo solo sia il sale erotico della battuta, sia l’allusione allo sviluppo narrativo successivo, in cui si vedrà la serva arrivare dal sarto e lasciare in pegno una pernice con ala di cappone, sperando di far piacere anche al giovane valletto. Ed ecco l’incidente: davanti al succulento pranzetto il sarto afferma tutto il contrario di quanto gli avevamo sentito dire all’inizio, ovvero che il suo apprendista è preoccupante tanto è debole di stomaco e difficile di gusti, e che la sua salute cagionevole gli impedisce di mangiar la cacciagione. Il maestro specifica pure come da lui il povero Esopet non tocchi che pane impregnato d’acqua: il pubblico sa bene come ciò sia a causa piuttosto dell’avarizia del padrone. Ma la beffa del padrone avaro dura meno di un istante perché la cameriera incontra subito Esopet, riferendogli le frottole appena ascoltate. Il servo replica con una dichiarazione di guerra. Vrayment, je m'en vengeray bien, […] Vendu vous sera cher, compère, Et si en aurez des lours coups.4 4 Ibidem : p.166. 155 I due servi vanno allora dal gentiluomo. È qui la vivacità del farceur, che costruisce un dialogo dai toni molièriani con vivace maestria nel combinare successione rapida delle battute e sviluppo dell’intrigo ai danni del sarto. LE GENTILHOMME Ton maistre me semble qu’il est Bon ouvrier. ESOPET Le meilleur de France Pour faire robes a plaisance. Dommage est de la maladie Qu’il a. LE GENTILHOMME Quoy? […] ESOPET Il veult menger Les gens quand ce mal le surprent, Qui soubdainement ne le prent Pour le lyer et [pour] le batre ; Et encores plus le fault batre Par les joues et par la teste, Où le tient ce mal deshonneste. Mais, après qu’on l’a fort batu, Il reprent un peu sa vertu, Et ne luy souvient de cela. […] LE GENTILHOMME Et comment appercevez-vous Que son mal le prent?5 Esopet scatena la sua genialità: le prime avvisaglie delle pericolose crisi di pazzia del padrone non sono altro che gesti assai comuni in una sartoria medievale ed il pubblico doveva subito figurarsi lo sviluppo del jeu de ruse. Preso dai suoi “fumi” il mastro scuote la testa, poi batte col palmo della mano sul tavolo: in realtà cerca le forbici e non trovandole prova a farle tintinnare vibrando colpi sul tavolo da lavoro. Sarebbe questa la manifestazione della follia da cui guardarsi. ESOPET Aysement. Et est bon advertissement, Affin que, ce vers luy venez, à ce toujours garde prenez Qu'il ne vous blesse d’aventure, Premier, quant il sent ceste ordure, La teste luy verrez tourner Deça, dela, et emmener, 5 Ibidem : pp.167-168. 156 Sans dire mot en sa folie; Et puis dessus [son] establie, Toppe, tappe, ses mains frapper. Incontinent le fault happer Et de grands buffes luy bailler, Pour le mal rompre et travailler, Mesme le lyer d’une corde Aulcunes foys, qu’il ne nous morde.6 […] Esopet descrive con arguzia e senso di osservazione un fatto di vita quotidiana, denotando un non comune gusto realistico. Inoltre registriamo un velo di ambiguità nell’atteggiamento della fanciulla, che si mostra credula alle parole dell’apprendista, pur avendo appreso nella scena precedente il piano crudele di Esopet. Malizia o imbecillità? Come vedremo è la domanda più comune se si cercano le motivazioni dei personaggi della farsa. Nel nostro caso, comunque, il pubblico è ben preparato alla scena finale di botte e allo scioglimento dello scherzo: la cameriera ed il gentiluomo tornano alla bottega e vengono serviti. Il passo seguente carica di attesa lo spettatore, con il facoltoso cliente che fa la parte del valoroso giurando a se stesso di picchiare il sarto semmai dovesse indemoniarsi davanti ai suoi occhi. Esopet dà un colpo alla fortuna e nasconde le forbici; vien da sé che il sarto faccia finalmente il “gesto dell’indemoniato” e che per questo venga legato e pubblicamente bastonato per soddisfare le smanie ridanciane del pubblico e la vendetta dell’ingordo protagonista. La fonte di questa azione comica è probabilmente il fabliau du Tailleor du roi et de son sergant,7 parte di una raccolta di ventotto racconti in rima inquadrati nella cornice pedagogica dell’insegnamento paterno al figlio e tradotti dalla Disciplina clericalis. L’opera nella sua totalità compare nel manoscritto di St. Germani des Prés n°1830 ed è conosciuta sotto il titolo di le Castoiement d’un père à son fils,8 anonima, probabilmente risalente al XIII secolo. La parola «chastoiement / castoiement» corrisponde in francese moderno a «châtiment», punizione, ma il suo significato antico era piuttosto “insegnamento” o correzione morale. Nel racconto del “Tailleor” che ispira il nostro Cousturier si tratta di un sarto regio – bontempone goloso ed un po’ avaro – che riceve dal ciambellano un ricco vaso di miele ed altre leccornìe da 6 Ibidem : p.168. Rec. BARBAZAN, t.II, pp.131-135. 8 Anonimo, le Castoiement d'un père à son fils. (M. ROESLE, 1899): la circolazione di questa opera fu limitata alle forme manoscritte fino alla prima stampa del 1760 ad opera di Etienne Barbazan. Pietro Alfonso, Disciplina clericalis, (HILKA – SÖDERHJELM, 1911). 157 7 dividere col compagno Nidui. Il sarto ingordo fa credere però al ciambellano che il suo apprendista detesti il miele, facendo in modo di banchettare senza lasciargli nulla; sopraggiunto alla mensa, l’apprendista rimane sorpreso e deluso ma fa buon viso a cattivo gioco, riservandosi di ricambiare il gesto maligno. La preparazione del tranello è ben ordita: Nidui descrive al ciambellano gli attacchi di follia che di tanto in tanto colgono il maestro, mettendolo in guardia sulla pericolosità di questi fumi, che vanno combattuti a colpi di manganello e corda. Dopo qualche tempo Nidui nasconde le forbici all’artigiano e questi, per farle suonare, comincia a battere i piedi come un indemoniato. La reazione del ciambellano è rapida e decisa ed il mastro dovrà subire la pioggia di botte di tutta l’allegra compagnia. Niduin pas ne s’oublia, Les forces son maistre muça. Un jor volt li maistres taillier ; Quant ne pot ses forces bailler, Et garda çà et garda là, Et de son siege se leva, L’eschamel ala degetant, Et se forces par tot querant ; La terre entor lui debati, Et se contint com estordi. Li Chamberlens, quant il ce vit, Ne li torna a nul deduit, Les sergens molt tost apela. Lor maistre lier comanda ; Et cil son commandement firent, Bien le lierent et batirent, Si que sor lui molt se lasserent, Et enprès ce le dessevrerent.9 Ma il tagliatore accetta di buon grado lo scherzo, che verrà giustificato da Niduin con la storia del miele, scatenando le risa di tutti; la morale, dice il padre al figlio chiudendo la storia, è che bisogna evitare di tradire o prendersi gioco dei propri compagni, giacché, vale – come sbagliarsi? – la regola di «à trompeur, trompeur et demi». 9 Rec. BARBAZAN, t.II : p.134. 158 2.1.2 – Divinità e tabarri. La Farce des deux savetiers,10 forse del 1506, presenta una trama giocosa di lungo successo e durata, più volte ripresa ed imitata, benché le funzioni teatrali vi si riducano ad un semplice dialogo-débat. Tutto ha inizio dall’osservazione stupita del povero sulle calzature del ricco. LE PAUVRE Jehan de Nivelle a deux housseaux, Le roi n’en a pas de si beaux, Mais il n’y a point de femelle, Hay avant Jehan de Nivelle.11 Il ricco vanitoso – non cogliendo la vena di ironia contenuta nella battuta del povero – fa sfoggio di tutte le possibilità che si hanno con cento scudi in tasca. Infine, quando il povero gli chiede come abbia avuto le sue fortune, il ricco fornisce una risposta figurata, che però viene interpretata alla lettera, diventando proverbio in azione. LE PAUVRE Par Sainct Jehan, il m’en faut avoir. Qui diable vous en donne tant ? LE RICHE Qui ? Mon ami: Dieu tout contant; Aussi t’a-t’il donné tes biens. LE PAUVRE Non a, parbleu, car je les tiens De mon grant pere, a des ans vingt, Et de tout de succession me vint, Mais je n’en payeray pas taille. LE RICHE Voysin, tu n’as denier ne maille, Que Dieu ne t’ait donné vrayment. Il te feroit riche à merveille, Et demain nud jusqu’à l’oreille ; Il faict, & le deffaict. LE PAUVRE Ha deà ! Voisyn, il me plaist Qui me donne assez, ou prou ; Sçauroit-on trouver moyen ou ? 10 HTF, t.II, pp.130-146. Ibidem : p.130. Il repertorio ci spiega in nota cossa fossero le housses: «Chaussure contre le froid, la pluye, la crotte… c’estoit une espèce de botte, ou de bottine; les gens de guerre s’en servait comme aujourd’hui de bottes. […]» E poi continua portando ad esempio alcune espressioni figurate. Fra tutte citiamo «Il a quitté ses Housseaux» usata per dire che qualcuno è morto; a volte la stessa parola è usata in Normandia per gli stivali da pescatori. Il lemma verrebbe da Hoselum, diminutivo di Hosa, dal tedesco Hosen (Haut-de-chaussés). 159 11 LE RICHE Que pense avoir de la pecune ? Ouy, mais il a telle coustume ? Que jamais il ne donne rien, Quy n’y va par bon moyen ; Et aussi qui ne l’en prie. LE PAUVRE Nostre-Dame ! il me tiendra mye, Au prier. Je m’envoys tout droict Au Monstier, car se Dieu vouloit M’en donner, je feroys reffaict, Et le remerciroys en effet, De avoir en pouvoys un loppin.12 La farsa fa evidentemente il verso alle numerose apologie della vita modesta e al linguaggio dei vari preti e predicatori che, senza senso pratico, tutto riconducevano all’azione divina, lasciando le cure del povero alla provvidenza soltanto. Qui i personaggi hanno una fede derelitta e superstiziosa, sottolineata dall’invocazione continua di Sainct Jeahn. Se Jehan con i suoi diminutivi al maschile ed al femminile è nome “prototipico” dello stolto da farsa, ne segue che St. Jehan sia a buon diritto il protettore universale degli imbecilli d’ogni luogo. Ma se Dio elargisce tutto ciò che è in nostro possesso perché mai ha distribuito i denari in maniera così iniqua? Il povero insiste sull’uguaglianza ed afferma più volte di non voler prendere che cento scudi: non un soldo di meno di quanto – cioé – millanti possedere il ricco. LE PAUVRE Je lui demande des escus cent, Sans plus ne moins. LE RICHE S’il t’en donnoit deux vingtz, A tout le moins tu prendroys cela. LE PAUVRE Sainct Jehan, je ne le prendroys jà, Ne fus-je pas comme vous estes ? Il peut aussi bien mes requestes Octroyer, qu’il a faict la vostre.13 Il protagonista si risolve di batter cassa direttamente a Dio. Il suo compare ricco (ed il pubblico) lo crede un idiota e lo segue fino nel convento dove – una volta nascosto dietro ad una colonna – recita le battute della divinità, invocata per così venale esigenza. 12 13 Ibidem : pp.134-135. Ibidem : p.135. 160 Il povero sembra bestia più del ricco ma scopriremo in breve la sua malizia calcolatrice. Inizia la preghiera burlesca e stolta con la quale si chiede al Signore una pioggia d’oro: il ricco nei panni (o nella voce) di Dio lo invita più volte a chiedere il giusto importo, non sappiamo se per avarizia o solo per tirare lungo col gioco meschino che sta tendendo al compare o ancora per metterlo alla prova sulla parola data. Il povero è risoluto: domanda cento scudi, non meno, e dopo un alterco ridicolo il denaro è consegnato, ma – gli dice il ricco, ancora nascosto – dovrai accontentarti dei cento meno uno. A dispetto della parola data il povero accetta la somma. Il ricco allora esce dal suo nascondiglio, trionfante per via della credulità del compare e della promessa non mantenuta, ma naturalmente lo stolto si rifiuta di accettare l’inganno: ancora non capiamo se faccia orecchie da mercante o se sia matto per davvero, ma si mostra talmente convinto di aver ricevuto il denaro da Dio che solo a lui dice di poterlo restituire. Il ricco si irrita e decide di presentare il caso al giudice: il suo antagonista rifiuta perché a quanto pare non ha il mantello adatto al tribunale ed ha fretta di riportare il denaro in casa sua, per cui il compare è obbligato a prestargli una ricca veste per riuscire a trascinarlo dal Prevost. Arrivati al cospetto dell’uomo di legge scopriamo che il povero è amico del giudice; il che è forse in relazione con la sentenza, vero tripudio di anarchia giocosa: secondo il giudice se un miracolo è poco credibile lo è ancor meno la storia raccontata dal ricco, il quale non riesce a spiegare perché abbia consegnato la sacca col denaro al povero. LE JUGE Or me respons dessus cela ; Tu les jectas là ; & pourquoi ? Tu pouvois bien penser à toy Que pas ne le refuseroit. LE RICHE Ha ! Monsieur, il me disoit Qu’il n’en prendroit jà moins de cent. LE JUGE Ton rapport est sans entendement, Car il n’y a raison quelconque.14 Il giudice dichiara infine al ricco che i soldi che ha consegnato facendo le veci di Dio dovrà farseli eventualmente rendere da Dio stesso. E non è finita se «à trompeur, trompeur et demi» qui la vittima 14 Ibidem : pp.144-145. 161 è ancora più crudele e non si pone alcun problema a restituire quel demi in più di truffa: il mantello che il ricco gli ha prestato per lo svolgimento del processo rimane sulle sue spalle ed il facoltoso idiota ha un ben reclamarlo di fronte al giudice del quale ha ormai definitivamente perso la fiducia, facendo anche le figura dell’idiota o di chi ha perso completamente il senno in una furia cleptomane. Come si è detto, l’ingannatore che si finge Dio con uno stratagemma o l’apparizione magica di un bontempone (spesso, naturalmente, in luoghi di culto o ritenuti soprannaturali dagli stolti), l’abuso di credulità, è dettaglio narrativo di lunghissima durata: nel Novellino di Masuccio15 ad esempio un ricco e scapestrato giovane organizza una falsa apparizione per prendersi gioco d’un prete moralista.16 Anche nella tradizione novellistica francese con le Cent nouvelles nouvelles17 ne abbiamo un esempio, ma a sfondo erotico, con il prete che parla da dentro una canna per farsi credere un angelo e convincere così una semplice paesana (la Lisetta “bamba” e “zucca al vento” di boccaccesca memoria che pensa di giacere con l’Arcangelo?) ad unirsi con lui per diventare madre di una stirpe papale.18 La stessa allusione alla progenie papale (o imperiale), si trova anche nella LXXXXV novella della raccolta di Giovanni Sercambi, che vedremo più avanti. Nella novella XX delle Porretane di Sabatino degli Arienti ritroviamo invece lo stratagemma del mantello in un contesto ancora una volta giuridico, col processo e l’inganno in sede giudiziaria: la moquerie è praticamente identica. Io ve dico che li verei voluntiera, ma non posso, perché ho pegno quanti panni ho, e, non potendose per ancora avere denari da la Camera, bisogna che abiati pazienzia. Se pur avesse uno mantello che fusse bono, in veritade, io li virei. – Per questo non state – dixe alora el notaro: – io ve prestarò uno mantello de morello de grana, bono e fino. [...] [I due vanno in tribunale, il giudice viene adulato da Laurenzo che sostiene il notaio essere in preda a crisi nervose, n.d.r.]. E che ciò sia vero, che non debbe esser in bono sentimento, se la Vostra Magnificenzia il tiene in rasonare, el troverá variare e senza ordine uscire del proposito. E forsi, se li adimanderá de chi è questo mantello ho intorno, non sarebbe gran facto dicesse fusse suo; e, se per ventura cominciará dire sia suo, tutti gli omini del mondo nol farrebber uscire de quello proposito. [...] - Diceteme, domine notarie, questo mantello che ha indosso misser Laurenzio, di chi è? – Messere, l'è mio – respose el notaro, – ché io gliel'ho prestato, acciò potesse venire da vui, ché non ne avea alcuno. Allora dixe misser Laurenzio: – Che dissi io a la Vostra Magnificenzia? Nui siamo forniti: un'altra volta vegnirò da quella, – facendoli de capucio. E, cum offerirli ciò che poteva, se ne parti, lassando garrulare il notaro coi podestá.19 15 Novellino, p.I, VIII, (A. MAURO, pp.74-81). Ma il falso soprannaturale, per così dire, ricorre genericamente anche in Decameron, (III, 8), (IV, 2) e (VI, 10). 17 les Cent nouvelles nouvelles, XIV, (Le faiseur de papes, ou l’homme de Dieu, T. WRIGHT, 1857-58, t.I, pp.73-80). 18 Si segnalano anche due racconti di Morlini con lo stesso espediente: De monacho qui in monasterio divi Laurentii seraphici francisci vitam repraesentabat e De patricio qui, ut matronam falleret Christum aemulatus est. (G. VILLANI, 1983). 19 Novelle Porretane, XX, (G. GAMBARIN, 1914 : pp.95-98). 162 16 Sebbene i dettagli siano più realistici ed il perno narrativo della novella sia la forza affabulatoria di Laurenzo, anche qui vale il detto «à trompeur trompeur et demi» intendiamo infatti all’inizio della storia come la beffa del mercante che si fa prestare i soldi e non li restituisce sia una reazione maligna all’abitudine del «notaro» di rendere visita «più per derisione che per amore». 2.1.3 – Chi sa il trucco non lo insegni. L’avventura farsesca più nota e studiata è senza dubbio il primo capitolo della trilogia di Pathelin, capolavoro comico della prima drammaturgia francese.20 All’incipit di questa trama fondamentale per il teatro francese, si leggono una serie di battute sull’astuzia degli avvocati e degli uomini di legge, truffatori legalizzati, che vivono alle spalle della gente onesta. Ed ecco allora l’avvocato Pathelin mettere subito in atto il primo colpo rispettando la fama della categoria: pur non avendo soldi e nonostante le reticenze della sua compagna, che lo invita ad evitare ogni specie di espediente illegale per la sopravvivenza (specie dopo alcuni precedenti penali di cui l’autore ci lascia all’oscuro), l’avvocato si risolve di andare a comperare della stoffa, benché povero in canna. Si reca così dal drappiere e si fa passare per cliente sprovveduto: ottiene la stoffa ad un prezzo altissimo e riesce a convincere il mercante a farsi dare il panno senza alcun anticipo, promettendo di rendere il denaro la sera stessa, irrorato da una abbondante bevuta e da una ricca abbuffata di fois gras a casa sua. Quando il negoziante va a casa dell’avvocato per consumare il promesso festino e ritirare il denaro ecco la sorpresa: coadiuvato dalla moglie, Pathelin si finge gravemente malato da settimane e sostiene di non essere mai uscito di casa fin dalle prime avvisaglie della sua misteriosa malattia nervosa. Una lunga scena di vaneggiamenti e di follia simulata, in cui il protagonista si esprime per parole bizzarre, sconosciute o latine, fino a mettere in fuga il drappiere che prima pensa di aver sbagliato persona, poi, nella sua dappocaggine, si convince che sia stato il diavolo stesso a rubare la stoffa. I due personaggi sono però destinati a incontrarsi in tribunale, per pura fatalità: nella scena successiva compare un pastore che intraprende un lungo alterco con il drappiere; subito dopo questo «Thibaut» va a raccontare il suo caso all’avvocato Pathelin, per farsi difendere nel processo che si 20 Diverse sono le datazioni, tutte fra il 1460 e 1480, tuttavia la prima edizione nota (in copia unica alla BNF) rimonta al 1485. Maistre Pierre Pathelin, S.l.n.d., (Le Roy, Lyon, 1485). Ci siamo avvalsi di due edizioni: Rec. JACOB : pp.19-117 e R. HOLBROOK, 1986. 163 prepara. È un crimine ridicoloso, il suo: ha mangiato ben trenta agnellini da latte in tre anni fingendoli al suo padrone morti per malattia. Pathelin fa l’errore di non domandare chi sia il padrone in questione: consiglia al pastore di fingersi matto, invitandolo a rispondere per monorematiche belanti ad ogni domanda e muove insieme a lui per il processo, dove è subito riconosciuto dal drappiere. Inizia qui la scena più delirante e moderna della farsa. Mentre il pastore ad ogni domanda risponde col suo bee, il povero drappiere è turbato e confuso di vedere Pathelin in tribunale: non riesce a capacitarsi che relazione possano avere fra di loro i due truffatori e confonde la causa degli agnellini con le stoffe rubate qualche giorno prima. Cerca così di spiegare al giudice i capi d’accusa contro il pastore, ma fa una grande confusione e riesce solo a blaterare qualche frase sull’uno e l’altro furto. LE DRAPPIER [...] Ores je disoye, A mon propos, comment j'avoye Baillé six aulnes... Doy je dire, mes brebis... Je vous en pri, sire, Pardonnez moy. Ce gentil maistre... Mon bergier, quant il devoit estre Aux champs... Il me dist que j'auroye Six escus d'or quant je vendroye... Dis je, depuis trois ans en ça, Mon bergier m'en couvenança Que loyaulment me garderoit Mes brebis, et ne m'y feroit Ne dommaige ne villenie, Et puis... Maintenant il me nye Et drap et argent plainement. (à Pathelin) Ha! Maistre Pierre, vrayement... (le juge fait un geste d'impatience) Ce ribault cy m'embloit les laines De mes bestes, et toutes saines Les faisoit mourir et perir Par les assommer et ferir De gros bastons sur la cervelle... Quant mon drap fust soubz son esselle, Il se mist au chemin grant erre, Et me dist que j'alasse querre Six escus d'or en sa maison.21 Va da sé che l’uomo di legge si inquieta e prende tutti per matti: in questa follia generalizzata l’unico sensato sembra Pathelin, che riesce a convincere il giudice a togliere la seduta. Il mercante di stoffe se 21 R. HOLBROOK, 1986 : pp.68-69. 164 ne andrà adirato a controllare se il malato è ancora a letto ed il pastore per non pagare Pathelin si fingerà folle un’altra volta ribaltando lo stesso stratagemma del belato contro l’astuto avvocato. «A trompeur trompeur et demi», perché tutti i personaggi della farsa sono crudeli e meschini: il drappiere vuol approfittare del cliente, Pathelin vuole tutto e subito pur essendo povero in canna, il pastore ruba e non si fa scrupoli a mentire e spergiurare. Il mercante e Pathelin sono infine vittime delle proprie stesse monomanie per il denaro. Benché si tratti senza ombra di dubbio di uno dei plot più riusciti della drammaturgia farsesca, Pathelin conserva qualcuno dei difetti più frequenti nelle trame più complesse delle farse, primariamente quello della sproporzione fra le parti: la scena della malattia di Pathelin occupa la maggior parte della composizione e si giustifica soltanto come occasione per l’esibizione del performer, cui il tema della falsa pazzia apre senza dubbio orizzonti performativi di grande leggerezza e comicità, ma a prezzo appunto dell’equilibrio complessivo della trama. Lo sforzo del lettore viene in parte ricompensato dall’uso calibratissimo della lingua: in Pathelin gli espedienti di comico verbale propri della farsa vengono messi in un contesto narrativo compatto ben diverso da quello farraginoso e smagliato della maggior parte delle pièce. In questo senso la scena del latino maccheronico (ove Pathelin ha la faccia tosta di svelare il suo inganno al drappiere dissimulandolo dietro una lingua di fantasia) è un piccolo capolavoro di comicità che dimostra come l’ignoto autore della pièce conoscesse bene le risorse linguistiche del teatro recitato ed il doppio binario di comprensione (esterna ed interna alla finzione) che caratterizza il gioco del drammaturgo. Fattori di grande atipicità rispetto al linguaggio drammatico farsesco – pensati, cioè in funzione di un orizzonte anche letterario – sono invece le sistematiche note di rappresentazione, la precisa divisione in scene segnata dalla cesura forte dei dialoghi, l’idea (ancora per certi versi timida) di una coerenza interna all’intreccio, in cui ogni elemento deve scattare nella molla del finale e costruire un edificio narrativo solido. È nell’ultimo punto che troviamo le incertezze maggiori: sebbene l’intreccio collimi bene nella successione degli eventi, il finale aperto (il pastore lascia la scena fuggendo ed il mercante sparisce alla ricerca del protagonista) testimonia della naturale e sperimentale irregolarità della farsa. Ed è evidentemente dall’aspettativa disattesa sul finale, e certo anche dal successo della pièce, che venne l’esigenza di comporre il Nouveau Pathelin, di cui parleremo più avanti. Pathelin vero capolavoro del teatro volgare, o commedia molièriana ante litteram, affonda le proprie radici nel terreno grasso delle relazioni letterarie italo-francesi e sembra riposare sullo stesso piano 165 della novella: l’avventura o qualche sua situazione circolarono e circolavano già sotto diverse forme in Italia; complicato stabilire gli esatti rapporti di eredità, successione, prestito, ma se ne rinvengono i resti vestigiali anche in aree geografiche peninsulari abbastanza distanti e marginali rispetto all’Esagono. Scopriamo per esempio una ricorrenza (a svolgimento ridotto e stilisticamente inferiore, ma di grandissima somiglianza con la versione d’oltralpe) nella letteratura italiana del mezzogiorno sotto il titolo di Storije de lu pazze,22 semplice favoletta abruzzese di un paesano ignorante ed avaro che cresce un maiale talmente grasso e bello che tutti al mercato vorrebbero comprarselo. Il sempliciotto allora per non avere nemici decide di venderlo a tutti coloro che glielo chiedano: «Ji’ ne’ mme ce voujje fa’ le nemmice nghe ‘stu porce… tutte chi le vo’, ji’ le voujje fa’ cundènde» afferma l’uomo poco dopo essere arrivato al mercato, e così fa durante tutta la giornata, prendendo i soldi e promettendo di portare all’indomani l’animale a casa di ciascun acquirente. Al mattino successivo, però, lo stolto paesano si pone il problema: come fare a portare lo stesso maiale a tutti quanti? Decide così di andare dall’avvocato, che gli suggerisce – in cambio di mezzo maiale – di fare la scena del pazzo, cosicché tutti rinunceranno a recuperare il credito e la bestia. Il trucco funziona e come da copione pathelinesco il paesano lo applica anche per il pagamento della parcella dell’avvocato. La follia si confonde con l’astuzia, in un insieme inestricabile che impedisce una valutazione reale del personaggio, in una specie di anarchia comportamentale ove alla fine chi sembrava idiota è intelligente ed il mondo dei savi è capovolto in girone degli allocchi. Il trucco del villico rimane costante: in queste narrazioni chi è dalla parte del giusto (ed è un ruolo, quello del giusto, che nella farsa non solo è relativo, ma passa di personaggio in personaggio secondo come gira il vento della trama) dovrà rassegnarsi non solo a perdere, ma anche ad aver insegnato il gioco ad un ribaldo peggiore di lui secondo quanto recita l’antico adagio «chi sa lo il gioco non lo insegni». Un intreccio posteriore analogo è alla base anche di una novella dei Diporti di Girolamo Parabosco23 dove «Tomaso promette venticinque ducati a uno notaro che lo consiglia come dee fare per non restituire alcuni denari mal tolti, e poscia dal notaro ricercato de i venticinque ducati, contra di lui si prevale del consiglio che contra gli altri egli dato aveva»: al solito, il trucco si ritorce contro il difensore che infine non vien pagato come promesso. La narrazione dei Diporti presenta alcune 22 23 G. FINAMORE, 1882-1886, t.I, pp.136-137. Diporti, I , 8, (D. PIROVANO, 2005). 166 differenze nello svolgimento della storia ed una maggiore ricerca di motivazioni ed incastri esotici e picareschi, evidentemente modulati dalle erudite, che all’epoca dei Diporti esercitavano ormai un ruolo modellizzante sugli intrecci anche al di là del teatro. Il giovane protagonista di Parabosco si trova orfano ed erede di una immensa fortuna che sperpera in pochi anni: per recuperare un po’ del denaro perso e per cambiare città e vita egli decide così di vendere l’unico possedimento sopravvissuto. Gli sviluppi narrativi tornano poi nei ranghi del “genere” giudiziario: dietro alla vendita, infatti, il giovane nasconde un inganno; come lo stolto contadino abruzzese della “storia del pazzo” raccoglierà le caparre di diversi acquirenti, vendendo la proprietà solo ad uno di questi e scappando con gli acconti degli altri. La notizia si viene a sapere e per questo il protagonista viene recluso: qui programmerà lui stesso di fingersi pazzo e si farà aiutare da un suo amico notaio dietro la promessa di venticinque ducati; riuscito l’inganno il suo compare «altro mai non […] poté trarre [dal giovane] che quello che per suo consiglio tratto n’avevano gli altri suoi creditori e messer lo podestà, cioè fischi e fiche; tal che tutto beffato con l’ordito inganno ingannato rimase lo ingannatore».24 Antonfrancesco Grazzini il Lasca, ne fece l’argomento dell’Arzigogolo, dove per fingersi pazzo il contadino invece di belare fischia: a causa vinta, lo si sarà capito, il consigliere batte cassa vedendo applicato su di lui il medesimo inganno. ALESSO: Vedi tu, Arzigogolo, quel c'hanno adoperato i miei consigli? tu riarai i tuoi buoi tu, buon pro ti faccia: or fa' che tu sia uomo dabbene, e che ti ricordi che mi sei debitore di due scudi. ARZIGOGOLO: Sff. ALESSO: Ali, ah, ah, ah! ancora mi rido: quando tu fistiavi al giudice, per mia fé ti portasti bene, e facesti si ch'e' se l'è creduto: ma ora non è piú tempo da fistiare a' tordi : quando fai tu conto di darmegli? ARZIGOGOLO: Sff. ALESSO: Non piú, ch'ella non è piú bella: dico, quando fai tu conto di pagarmi? ARZIGOGOLO: Sff. ALESSO: Pur fistia! tu mi pari una bestia: dico, i miei duoi scudi? ARZIGOGOLO: Sff. ALESSO: Tu ti credi farmi com'al giudice: e non sai che l'è mia invenzione? ARZIGOGOLO: Sff. ALESSO: Ah villan poltrone' credi uccellare un procuratore, ora che tu hai i buoi' ARZIGOGOLO: Sff. ALESSO: Al corpo... ch'io ti darò altro che fistiate, trafurello; aspettami. ARZIGOGOLO: Sff, sff, sff, sff. ALESSO: E' se n'è ito. Oh Dio, le mi vanno ben tutte a un modo! sono stato giuntato con li miei propri inganni : e da chi? da un rozzo contadino; e mi bisogna per la vergogna tacere: e mi ritruovo in un giorno scemo d'una gran parte de' miei danari, e di giovane vecchio; e, quel che piú mi preme, senza grazia alcuna 24 Ibidem : p.162. 167 della mia monna Papera. Valerio mi fa questi inganni, mi dá questi guadagni; Valerio è la mia rovina: vo' ire a cercarlo, e, s'io lo truovo, sopra lui sfogarmi.25 È possibile che questo tema esistesse già nella fantasia popolare, ma siccome tutti gli esempi citati di follia simulata sono posteriori alla farsa francese di Pathelin, possiamo anche supporre che il modello fosse proprio il capolavoro farsesco. Nel caso del Lasca non è da escludere un contatto diretto: egli si dedicava infatti alla produzione di farse e l’Arzigogolo, (edito completamente solo nel 1750, ma concepito fra il 1560 ed il 1565) è probabilmente riadattamento d’una sua farsa anteriore di cui non abbiamo più tracce, La giostra. La netta divisione fra la prima e la seconda parte dell’Arzigogolo asseconda l’ipotesi del montaggio di due differenti composizioni: la seconda delle quali potrebbe proprio essere stata il Pathelin, dal quale lo svolgimento della morale “chi sa il trucco non lo insegni” sembra ripreso quasi letteralmente. 2.1.4 -“Signali” rubati e un testamento eclettico. Passiamo ora alla seconda parte della trilogia, il Nouveau Pathelin (datazione incerta fra 1474 e 1485) in cui compare uno degli stratagemmi più ricorrenti fra gli inganni novellistici e teatrali: lo battezziamo “trucco del mediatore”. Consiste nel parlare a distanza con qualcuno per poi interpretarne i segni a proprio vantaggio sì da fugare ogni sospetto nella vittima. […] L’inspiration est tirée en partie du Pathelin classique, et en partie aussi d’un conte traditionnel. Le Pathelin classique sert de modèle au nouveau, dans la ruse employée par l’avocat afin de vaincre la méfiance du pelletier. Celui-ci est, à son tour, une copie évidente du drapier célèbre et la ruse que l’avocat emploie à son égard est toujours fondée sur la flatterie et sur les protestations d’une ancienne amitié. C’est là la méthode dont se servira plus tard Dom Juan de Molière avec Mr. Dimanche. Cette connaissance du cœur humain, toujours ouvert à la louange, prête un certain charme au début de ce nouveau essai sur l’avocat illustre, désormais passé en proverbe. Malheureusement il s’agit d’un charme d’emprunt, qui ne suffit pas toujours à cacher plusieurs faiblesses de style et de pensée.26 Il giudizio reso da Toldo è piuttosto bendisposto verso una farsa le cui incertezze sono maggiori di quelle che abbiamo visto nel primo episodio della trilogia. Innanzi tutto l’intreccio narrativo, per lo più improntato alla trama del primo Pathelin; secondariamente il linguaggio, meno vivace e realistico e quasi privo del comico verbale e dell’anarchia che si erano visti nell’episodio precedente. 25 26 Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, Arzigogolo, (G. GRAZZINI, 1953, pp.463-520). P. TOLDO, 1903 : p.196. 168 Il completamento del percorso narrativo è poi nel Nouveau Pathelin tanto tenue che la truffa ai danni del pellettiere ne risulta semplice, quasi priva di senso e logicità; lo stesso personaggio del pellettiere non ha nulla di originale rispetto al sarto suo prototipo. La farsa è il seguito della prima ma non scioglie i nodi che alla fine di quella restavano irrisolti: continuiamo infatti ad ignorare cosa sia accaduto alla visita del sarto nella casa di Pathelin e non è infine riservata al protagonista alcuna vendetta nei confronti del pastore che lo aveva gabbato. Anche l’invenzione linguistica è limitata ed indecisa: non esistono le trovate geniali come il latino maccheronico ed il belare del pastore in sede processuale e non esiste neanche un confronto diretto fra i personaggi, che semplicemente rimangono vittime del tiro del protagonista, mossi tutti similmente dall’avidità. Le storia è semplice quanto forzata: Pathelin si guadagna la fiducia del commerciante con false lusinghe; lo convince che il curato ha bisogno di stoffe e lo porta con sé in chiesa al momento delle confessioni. Lasciata la vittima in disparte, simula di parlare di denaro con il prete, chiedendogli in realtà di confessare il pellettiere: i segni di assenso e le battute che il commerciante ascolta da lontano lo convincono a consegnare le stoffe al furfante, che promette di andare a preparare un banchetto mentre i due proseguiranno la trattativa. Una di fronte all’altra, infine, le due vittime danno inizio ad un semplice quiproquo prima di comprendere la truffa: la confusione è linguistica e si basa su un fraintendimento fra «assolution» e «solution» – “assoluzione” e “pagamento” – e poi fra «despecher» (“expédier”) e «depecher» (“confesser”) ma il comico verbale è poco coerente e non c’è alcuna soluzione scenica irresistibile e paradossale come l’espediente del belato in tribunale. LE PREBSTRE Mais pensez de vous accuser, Sans rien laisser, de bout en bout ? LE PELLETIER Le corps bieu ! Si vous ay dit tout, Et suis tout prest de recepvoir... LE PREBSTRE Comment voulez-vous donc avoir Corpus Domini ? Il faudroit, Premier, vous confesser à droit. LE PELLETIER Mais quel diable d'entendement ! Quant je vous parle de recepte D'argent... LE PREBSTRE Voicy bien grant decepte LE PELLETIER Faictes-m'en la solutions ? 169 LE PREBSTRE Faictes donc la confession Premierement. Vous absouldray-je Sans confesser ? LE PELLETIER Voicy bien raige Je ne vous parle point d'absouldre; De par le diable ! c'est de souldre... Vous n'entendez pas à demy. LE PREBSTRE Je ne vous dois rien, mon amy ? Vous estes troublé de la teste. LE PELLETIER Me cuidez-vous donc faire beste ?27 Al contrario è molto interessante la concezione della scena in cui – come nel primo episodio – il nostro autore28 organizza i personaggi in modo da creare l’equivoco: il confessore rivolto verso la navata, i peccatori di spalle, in un gioco di sguardi a distanza fra il pellettiere in disparte ed il canonico, da cui ha inizio tutto il malinteso. Ciò rende notevole ai nostri occhi le attitudini drammaturgiche dell’autore, che produce il quiproquo al di là del testo, sfruttando il valore semantico dello spazio scenico, senza cui la gag perde di spessore comico. La farsa si intreccia con le Repues franches di Villon nel passo in cui si racconta di come la compagnia di buontemponi protagonista dell’opera del poeta francese riesca ad ottenere una abbondante cesta di pesce. La Manière comment ils eurent du poisson è il titolo dell’episodio e lo svolgimento è davvero indentico a quello del Pathelin, salvo che le conclusioni in questo caso sono morali, col furto che ha luogo nell’intento di sollevare gli affamati. Maistre Françoys par son blason Trouva la façon et maniere Davoir maree a grant foyson Pour gaudir et faire grant chiere 27 Rec. JACOB : pp.164-165. « D’après Paul Lacroix, qui appuie son argumentation sur des équivalences monétaires, le Nouveau Pathelin serait de 1474 et par conséquent antérieur aux Repeues franches de Maistre Françoys Villon dont l’un des chapitres, la Maniere d’avoir du poisson, présente la même intrigue. Il est d’ailleurs probable que le récit de ce bon tour appartenait au vieux fonds narratif populaire et son attribution aux deux maîtres trompeurs du temps, Pathelin et Villon, n’a rien d’étonnant : d’ailleurs n’est-il pas symbolique que dans l’édition gothique aujourd’hui perdue sur laquelle S. Gueulette s’était appuyé pour faire son édition, les trois farces de Pathelin aient été jointes aux œuvres de Villon ? La confusion en un même type de nos deux héros est encore plus nette dans le Testament de Pathelin, sans doute postérieur de peu au Nouveau Pathelin dont il exploitait ainsi le succès. Cette pièce qui sacrifie à la vogue que connaissait alors le genre burlesque du Testament […] présente de nombreuses réminiscences des legs comiques et satiriques du Lais et du Testament de Villon. Elle permet ainsi à Maistre Pierre et à Maistre Françoys d’entrer étroitement unis dans la légende ». J. C. AUBALLY, 1979 : p.170. 170 28 Cestoit la mere nourrissiere De ceulx qui navoient point dargent Tromper devant et derriere Cestoit un homme diligent29 Ben prima dell’opera di Villon questo récit era conosciuto in Italia ed in Francia, benché la critica abbia accennato sovente ad un sconfinamento fra vita e teatro vedendo ne le Repues franches le notizie per una fantasiosa biografia del poeta. Sabatino degli Arienti nelle Porretane,30 ci racconta la storia di Pirone, povero legnaiuolo vittima dell’astuzia adolescente di Carletto, il quale avendo giocato i soldi consegnatigli dalla madre per acquistare un carro di legna, riesce astutamente ad avere la merce prima portando il legnaiuolo a confessarsi e poi a farsi togliere il sangue. Il disgraziato ne uscirà non solo truffato, ma anche alleggerito nelle vene: e pure in questo caso si riscontra una maggiore precisione narrativa in seno alla novella. Ogni passaggio è giustificato puntualmente e l’intrigo – di tinte più realistiche e coerenti – è assai ben oliato. In Cortebarbe nel fabliau famoso dei Trois aveugles de compiengne un giovane di studio dice di aver dato una moneta d’oro ad un cieco, ma in effetti ha solo finto, approfittando della menomazione dei tre. Al che i disgraziati se ne vanno felici a fare bisboccia pensando di approfittare della generosa somma: per godersi lo scherzo lo studente li segue fino alla locanda e lì soggiorna in attesa del conto salato per i tre vagabondi. « Sire, nous avons .I. besant, Je croi qu'il est molt bien pesant; Quar nous en rendez le sorplus; Ainçons que du vostre aions plus. - Volentiers » lo ostes respont. Fait li uns: « Quar li baille dont liquels l'a. Be! je n'en ai mie. - Dont l'a Robers Barbe-florie? - Non ai, mès vous l'avez, bien sai. - Par le cuer bieu, mie n'en ai. - Liquels l'a dont? – Tu l'as. – Mès tu. Fètes, ou vous serez batu, Dist li ostes, seignor truant, Et mis en longaingne puant Ainçons que vous partez de ci. » Il li crient: « Pour Dieu merci, Sire, moult bien vous paierons. » 29 30 François VILLON, le Recueil des repues franches, S.l.n.d., (Paris, G. Nyverd, 1520) : n.p. Novelle Porretane, XIX, (G. GAMBARIN, 1914 : pp.87-92). 171 Dont recommence lor tençons [...]31 Ma il truffatore è più crudele con l’oste che con i ciechi: decide così di esibire la sua munificenza prendendosi carico del debito, lasciando andar via i tre disgraziati. Come il Carlino della novella di Sabbatino degli Arienti torna qui il trucco di demandare ad uno sconosciuto il pagamento del debito, il che funziona meglio dopo una buona dose di calunnie sullo stato mentale della vittima del raggiro.32 Cortebarbe Sabbatino degli Arienti Et li prestres, sanz demorée, | A pris le livre et puis l'estole, | Si a huchié : « Sire Nichole, | Venez avant, agenoilliez. » | De ces paroles n'est pas liéz | Li borgois, ainz li respondi : | « Je ne ving mie por ceci, | Mès mes .XV. sols me paiez. | – Voirement est-il marvoiez, | Dist li prestres; nomini Dame, | Aidiez à cest preudome à l'ame; | Je sai de voir qu'il est dervez. | – Oez, dist li borgois, oez | Com cis prestres or m'escharnist; | Por poi que mes cuers du sens n'ist, | Quant son livre m'a ci tramis. | – Je vous dirai, biaus douz amis, | Fet li prestres, coment qu'il praingne, | Tout adès de Dieu vous souviegne, | Si ne poez avoir meschief. » | Le livre li mist sor le chief, | L'Evangille li voloit dire. | Et li borgois commence à dire : | « J'ai en meson besoingne a fère; | Je n'ai cure de tel afère, | Mais paiez-moi tost ma monnoie. » | […] ponendose a sedere, dixe: – Buono uomo, pòneti genochionii e fátte el segno de la croce. – Dixe alora Pirone: – Misser, son quisti li denari che debo avere da vui? – A cui respose el frate: – Quanto tempo è che tu non te confessasti, povero omo? – In questa quadragesima passata me confessai – rispose Pirone. – Datime li denari, azoché vada a fare li facti miei, ch'io non ho adesso bisogno de confessarme. – Dixe el religioso: – Non sei venuto qua per confessarte? – Misser no – rispose Pirone; – anci, avendo venduto uno carro de legne soldi vinti a quello giovene che ve ha parlato, me dixe che voi gli eri debitore de bona somma e che per lui me daresti li danari che montano le legne. Anche Giovanni Francesco Straparola dedica un episodio delle Piacevoli notti33 alla storia di uno spagnolo che acquista del cibo al mercato e manda il mercante a recuperare il credito presso un prete del tutto ignaro della cosa (Diego spagnuolo compra gran quantità di galline da uno villano, e dovendo far il pagamento, aggabba e il villano e un frate carmelitano). Il tema rimbalza più e più volte da una parte all’altra delle Alpi esponendosi a modifiche e furti, talvolta conservando una grande fedeltà dei dettagli e dei dialoghi fra le differenti versioni. La terza pièce della trilogia di Pathelin è il Testament (dentro il primo decennio del 1500), dove vediamo il nostro avvocato azzeccagarbugli fare il suo testamento al confessore Monsieur Jehan dopo una lunghissima lamentazione. 31 Rec. MONTAIGLON – RAYNAUD, t.I, pp.70-81 : p.70. Si veda anche G. GOUGENHEIM, 1932. Novelle Porretane, XIX, (G. GAMBARIN, 1914 : pp.88-89). Rec. MONTAIGLON – RAYNAUD, t.I, pp.70-81 : p.76. 33 Le piacevoli notti, XIII-2, (G. RUA, 1980, t.II, pp.202-204). 32 172 Pathelin vorrebbe ancora tornare in tribunale per fare una delle sue truffe, ma l’età non glielo consente più; dolore e lamenti vengono intervallati dalle continue richieste di vino e benché infine spiri per davvero, rimane l’impressione di una malattia solo simulata per astuzia e compiacimento. La scena della confessione strizza l’occhio al pubblico facendo allusione agli episodi precedenti e vediamo l’avvocato falsamente pentito per l’inganno ai danni del sarto ed irritato per aver subito il jeu de ruse da parte del pastore ladro. La parte centrale è quella che dà anche il titolo alla pièce; ripartizione dei beni che si riallaccia alla tradizione dei testament parodici, composti nel contesto delle confraternite di giustizia ad imitazione delle forme giuridiche e dei quali è forse François Villon a fornirci l’esempio più significativo per notorietà e stile (il Testament,34 appunto), oltre alle innumerevoli composizioni minori e ben più ardue dal punto di vista linguistico e dialettale: fra tutte Li dis de la vescie a prestre,35 di fatto un montaggio di generi di più corto respiro, l’epigrafe burlesca in «pathelinesco», la confessione comica, le esequie grottesche. Genere di lungo successo e durata soprattutto nella letteratura popolare e nelle canzoni medievali, la parodia delle leggi, delle sentenze e dei lasciti testamentari era molto diffusa nelle confraternite dei palazzi di giustizia e consisteva in un riadattamento goliardico delle messe in scena che venivano realizzate per insegnare ai praticanti le procedure civili e penali. Il testamento burlesco è un sottogenere piuttosto sviluppato, la cui carica comica si basa non su un intreccio ma sul contrasto dato dalla ripartizione d’una micragnosa nullatenenza. All’inizio del terzo capitolo pathelinesco intuiamo l’avidità di Guillemette – qui definitivamente consacrata all’esercizio di una verbalità stupida e bovina – che invita il compagno a ripartire le esigue proprietà accumulate con l’attività del latrocinio. GUILLEMETTE Au surplus, il vous fault entendre A vous confesser vistement, Et faire un mot de testament: Ainsi doibt faire tout chrestien.36 Pathelin accetta di buon grado e comincia con il donare alla moglie (se ancor ci sono!) le sue inconsistenti fortune, tanto piccole da essere conservate nel più piccolo dei cassetti del corredino; ai 34 François VILLON, Le grant testament Villon et le petit., P. Levet, Paris, 1489. Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.III, pp.106-117. 36 Rec. JACOB : p.197. 35 173 galanti senza noia viene lasciata la taverna e l’abbuffata; alle signore - che rubano e tradiscono tutto il tempo – si lascia una bella febbre quartana; agli ubriaconi si lasciano in eredità la gotta, i crampi e la rogna. Una volta fatte equamente le parti, il protagonista eseguirà la sua ultima grande uscita comica lasciando al confessore il sedere di Guillemette. Rispetto alla destinazione scenica del testo possiamo individuare nel dialogo del “Quoy?” che si svolge fra Guillemette e l’Apoticaire un esempio luminoso di “matematica scenica” della risata. L'APOTICAIRE Qui-a-il GUILLEMETTE Quoy? Soucy et peine, Se vous n'y mettez brief remede. L'APOTICAIRE Touchant quoy? GUILLEMETTE Ha! tant je suis vaine! L'APOTICAIRE Qui a-il? GUILLEMETTE Quoy? Soucy et peine! L'APOTICAIRE [...] Qui a-il? GUILLEMETTE Quoy? Soucy et peine [...]37 Secondo Petit de Julleville e Pietro Toldo da questo ultimo episodio di Pathelin sarebbe stata tirata la pièce del Chaulderonnier, le savetier et le tavernier,38 composizione assai rudimentale dal punto di vista linguistico e narrativo. Al la di là però delle allusioni al vino che si trovano in entrambe le pièce e la similitudine nella simulazione della follia, le due farse non hanno nulla a che vedere. In quella del pentolaio, del ciabattino e del taverniere i primi due, dopo essersi presi a legnate accusandosi vicendevolmente di urlare troppo il proprio cry39 (in un dialogo a tratti sconfortante per il lettore) se ne vanno alla taverna e fanno bisboccia oltre le loro stesse risorse fino ad ubriacarsi. L’oste è costretto 37 Ibidem : pp.191-192. La pièce risale forse alla metà del XVI secolo o alla fine del XV. ATF, t.II, pp.115-127. 39 Un genere del tutto minoritario, ma gustoso soprattutto per indagare nella vita minuta del XV secolo e per via della sua forte influenza sulle forme drammatiche medievali è quello delle Farces de cris, dove le battute dei vari mercanti ambulanti delle città vengono ricomposte in una specie di filo narrativo teso al malinteso ed al riso. Ci limitiamo qui a segnalarne la Farce nouvelle des cris de Paris; Les dits des Crieries de Paris (Rec. BARBAZAN, t.II). Nella prima delle due in particolare vediamo due gentiluomini discutere ed il sot rispondere con i gridi: «GENTILHOMME: Si le mary est sans cervelle | Et la femme toute enragée. | Que sera-ce ? | LE SOT : Bourrée sèche, bourrée!» 174 38 a fare credito e così il giorno dopo i due tornano: il pentolaio si veste da donna ed i due simulano una rissa coniugale sotto gli occhi dell’incredulo taverniere che ci guadagna qualche schiaffo ed che infine, demoralizzato, semplicemente rinuncia al credito. È chiaro anche dalla semplice lettura della fabula come questa poesia comica sia occasione del tutto pretestuosa per esibire facili divertimenti ed un umorismo di bassa lega. Testimonianza più preziosa di un’altra traccia narrativa abbondantemente presente fra Francia ed Italia, basata sul furto d’un segno convenzionale è la composizione francese du Pasté et de la tarte40 – conosciuta nell’edizione cinquecentesca del ’47-’57 ma la cui datazione è fissata al 1470 – piccolo capolavoro per vivacità delle scena e sicurezza del dialogo: qui le battute sono rapide e la situazione comica di sicuro effetto, tanto che pur non avendo un intreccio particolarmente sviluppato questa pièce conserva ancora oggi una grande attualità burlesca. La situazione è semplice e la sua forza risiede specialmente nella meccanica di scena, farcita da sequenze gustose di botta-risposta (svolta ancora con l’espediente onomatopeico delle monorematiche e la reiterazione idiota delle battute) e guarnita d’una sana dose di bastonature: due «coquins» sono talmente poveri da essere addirittura nudi; li osserviamo tremare al freddo ed alle intemperie, afflitti da una fame atavica quanto la loro miseria. LE PREMIER Ouyche. LE SECOND Qu’as-tu ? LE PREMIER Si froyt que tremble, Et si n’ay tissu ne fillé. LE SECOND Sainct Jehan nous sommes bien ensemble, Ouyche. LE PREMIER Qu’as-tu ? LE SECOND Si froyt que tremble. LE PREMIER Puvre bribeurs, comme il me semble, Ont bien pour ce jourd'huy vellé. Ouyche. LE SECOND Qu'as-tu? LE PREMIER 40 ATF, t.II, pp.64-79. 175 Si froyt que tremble, Et si n’ay tissu ne fillé; Par ma foy, je suis bien pelé. LE SECOND Mais moy! LE PREMIER Mais moy encore plus, Car je suis de fain tout velus, Et si n'ay forme de monnoye.41 Da qui a metter su l’impresa dei morti di fame il passo è breve: i due decidono di dividere la loro micragna risolvendosi a spartire le elemosine. Nella scena seguente il primo piomba in una pasticceria e mentre cerca di domandare la carità alla padrona indisponente orecchia gli imperativi del marito: l’uomo ha preparato un paté che vuole dividere per il pranzo con gli amici; manderà pertanto qualcuno a ritirare la preziosa vivanda e la moglie dovrà premurarsi di non consegnarla a chi non abbia «enseigne certaine», ovvero un gesto chiave, che in questo caso è tirar la donna per il dito. Inutile raccontare come il nostro coquin scappi subito dal compare, la cui ricerca di risorse non è stata d’altra parte proficua: siccome il primo è stato riconosciuto, sarà lui a dover recarsi dalla pasticcera e fare il segno distintivo; il trucco ha successo ed i due poveri furfanti si ingozzano del paté, mentre il padrone della pasticceria torna a bottega irritato. I suoi amici non si sono presentati all’appuntamento: la moglie gli domanda se non abbia già mangiato il pasticcio e questi si mette ad urlare che no, che il pasticcio non lo ha mai neanche mandato a ritirare. Il padrone manesco inizia così a bastonarla, mentre vediamo in parallelo i due poveri disgraziati decidere di scroccare ancora qualche leccornia cercando di sfruttare al massimo l’identico stratagemma. LE SECOND Ne parle plus de tel sotie: Car bien sçay que je n'yray mye. Aussi j'ay fait mon fait devant; C'est à toy de faire. LE PREMIER Or avant Je y voy donc; mais garde ma part De ce remenant. LE SECOND Sus la hart, Sois seur que ce qu'avons promis Te tenray, enten-tu, amis? Et à cecy ne touchera nulz 41 Ibidem : pp.64-65. 176 Tant que tu sera revenus, Je te le prometz par ma foy. LE PREMIER T'est trop bon; or bien m'en voy. Attens moy cy.42 Possiamo supporre che sulle promesse del primo di trovare ancora il resto del paté potevano esprimersi le capacità comiche degli attori che donavano ambiguità al giuramento ammiccando al pubblico e motivando il tradimento successivo del primo coquin. Stavolta è l’altro truffaldino che muove per la bottega; vedendolo il pasticciere sbotta, lo prende per la gola e vuole che gli si restituisca il maltolto: questi allora riferisce che l’autore del furto è il suo compare ed anzi si offre di riportarlo lui stesso nel negozio a fargli consegnare la sua razione di botte. Per far entrare il compare nella bottega dove il padrone lo attende col manganello lo spione gli dice che la moglie si sente più sicura a consegnare il pasticcio all’uomo di fiducia che l’aveva già ritirato la prima volta. Il compagno si incammina per la bottega tutto contento e speranzoso ed ecco anche per lui una pioggia di bastonature. Un racconto basato sul medesimo modello narrativo ricorre diverse volte anche in Italia. Nel Novellino di Masuccio Salernitano43 è questione di un avvocato e della di lui moglie, ingannati da due farabutti romani del rione Trevi. Anche qui su parla dei «signali», ovvero delle indicazioni attraverso le quali i due truffatori riescono a convincere la moglie di un uomo di legge a cedere una coppa in argento appena acquistata dal marito. La storia è simile a quella della tarte, ma gli espedienti un poco più rocamboleschi: il professore di legge se ne va in giro con i colleghi ed acquista una coppa d’argento che fa spedire a casa da un garzone. I due farabutti osservano ed uno dei due si presenta poco dopo alla casa del gentiluomo con una lampreda, che dice essere stata mandata dal marito e poi aggiunge di volere indietro la coppa per riportarla all’uomo che, pensando d’essere stato ingannato sul prezzo, vuole ripesarla. A differenza della farsa francese qui la strategia degli ingannatori ha successo: i due non solo riescono ad avere la coppa, ma mettono a frutto anche il malore dei coniugi per il furto. Con una tempistica perfetta, proprio mentre il marito dispera per la strada alla ricerca della coppa, i due recuperano anche la lampreda convincendo la donna che l’uomo la chiede per festeggiare con i compari il 42 43 Ibidem : pp.73-74. Novellino, p.II, XVII, (A. MAURO, pp.153-157). 177 ritrovamento del prezioso. Nero il finale, in cui Masuccio accenna al veleno che tale inganno sparse per anni nella coppia. Nel Trecentonovelle di Franco Sacchetti troviamo uno svolgimento analogo44 sebbene molto più semplificato e distante dal prototipo del Pasté et de la tarte. La sintesi fornita dallo stesso Sacchetti è di per sé sufficiente ad evidenziare le differenze: «A messer Ilario Doria, venuto a Firenze ambasciadore per lo imperadore di Costantinopoli, con una sottile malizia, da uno, mostratosi famiglio d’uno cittadino di Firenze, è tolta una tazza d’argento di valuta trenta fiorini»; manca, insomma, “l’espediente dello spionaggio” col quale il truffatore acquisisce le informazioni che gli serviranno a scambiarsi per qualcuno di fiducia, espediente che per via della sua perfetta realizzabilità in scena era particolarmente centrale nelle gag della farsa del Pasté. 44 Trecentonovelle, CCXXI, (E. FACCIOLI, 1974). 178 2.2 – Gioie (e noie) del matrimonio. 2.2.1 – Pax familiae. Se dovessimo individuare la principale fonte di preoccupazione per i protagonisti maschili delle nostre farse saremmo indecisi fra la fame ed il matrimonio, due forme di sofferenza complementari, che rendono la vita di tutti i giorni un vero inferno. Quando si è poveri in canna bisogna fare i conti con la fame e con tutti gli espedienti ed i rischi di una vita vissuta alla giornata. Ma i prodromi della “pace borghese” sono tutt’altro che sereni: chi ha le risorse finanziare sufficienti a metter su famiglia ed impresa finisce inevitabilmente col distruggere l’antico quieto vivere nel succedersi dei jeu de ruse matrimoniali. Il messaggio è univoco: donne e matrimonio sono fonte di malanni infiniti per l’uomo: anche se è rara la coesistenza della povertà e dell’unione coniugale in un solo personaggio. Le farse dedicate alle “noie uxorie” sono talmente numerose che si potrebbe addirittura parlare di un sottogenere: quello dei «sermons joyeux des maux de mariage», ovviamente legato alle poesie di grande successo e potere modellizzante delle Quinze joies du mariage, ove nell’elenco dei tristi casi di vita quotidiana emerge una realtà piccola e meschina in cui l’uomo è costantemente vittima della donna. 179 Nel Sermon nouveau et fort joyeux, auquel est contenu tous le maulx que l’homme a en mariage,45 leggiamo un manifesto o devise contro il matrimonio: «Matrimonie, matrimonia | Mala producunt omnia.» Per avere una idea della diffusione del tema basti vedere la raccolta Viollet-le-Duc il primo tomo della quale è quasi completamente consacrato alla riedizione di farse di questo tipo. A volte la critica delle donne e del matrimonio prende la forma di un dibattito dove raramente c’è qualche difensore o campione del gentil sesso: nel Débat du marié et du non marié46 le due posizioni dello scapolo e del maritato si confrontano e servono a passare in rassegna tutti i luoghi comuni del matrimonio: dalla paura del tradimento alle spese della casa, alla pace individuale, vi si trova finanche un accenno alla poligamia. Nel Débat de l’homme e de la femme47 di Guillaume Alexis abbiamo una lunga rassegna dei pro e dei contro del bel sesso messi uno di fronte all’altro con una più che significativa chiusura delle strofe in «bien eureux est qui rien n’y a / malheureux est qui rien n’y a». Gli esempi e le argomentazioni dei due vengono soprattutto dalle sacre scritture: alla donna si rimprovera il peccato originale; e questa si difende dicendo che Maria ha generato Gesù Cristo, e così via. I pro e i contro dell’avere o meno una donna nella propria vita attraversano diversi generi e composizioni: ciò che è sicuro è che nelle pièce drammatiche si tratta piuttosto di contro che di pro, in un clima di deliberata sovversione dell’amore in favore d’un velenoso cinismo. Lo spirito critico ed il gusto comico non perdono alcuna possibilità di suscitare il riso e viene da sé che il tema fosse del più grande interesse per un pubblico medio-basso. Il topos si aggrega per lo più attorno alla donna manesca e pedante, il cui rapporto col marito sembra guerra piuttosto che convivenza amorosa. In Pantagruel, il re Anarque è battuto in guerra e trasformato in venditore di intingoli e marito sfortunato, il matrimonio si configura anche in Rabelais come una specie di somma punizione. Deux jours après, Panurge le maria avecques une vieille lanterniere ; et luy mesmes fist les nopces, à belles testes de mouton, bonnes hastilles à la moustarde, et beaulx tribars aux ailz, dont il envoya cinq sommades à Pantagruel, lesquelles il mangea toutes, tant il les trouva appetissantes ; et à boire belle piscantine et beau cormé. Et, pour les faire dancer, loua un aveugle qui leur sonnoit la note avecques sa vielle. Après disner, les amena au palais et les monstra à Pantagruel, et luy dist, monstrant la mariée : " Elle n'a garde de peter. Pourquoy, dist Pantagruel ? - Pource, dist Panurge, qu'elle est bien entamée. - Quelle parole est ce là ? dist Pantagruel. - Ne voyez vous, dist Panurge, que les chastaignes qu'on faict cuire au feu, si elles sont entieres, 45 MAUX EN MARIAGE, 1830. APF, t.IX, pp.148-163. 47 Ibidem : pp.1-10. 46 180 elles petent que c'est raige ; et, pour les engarder de peter, l'on les entame. Aussi ceste nouvelle mariée est bien entamée par le bas, ainsi elle ne petera poinct. " Pantagruel leur donna une petite loge, auprès de la basse rue, et un mortier de pierre à piler la saulce. Et firent en ce poinct leur petit mesnage : et feut aussi gentil cryeur de saulce vert qui feust oncques veu en Utopie. Mais l'on m'a dict despuis que sa femme le bat comme plastre, et le pauvre sot ne se ause defendre, tant il est niès.48 Il medico cialtrone Panurgo interviene anche sulle questioni amorose proseguendo la tradizione comica medievale degli uomini di scienza che a dispetto della risolutezza teorica appoggiata su una solida auctoritas danno il consiglio sbagliato esibendo per giunta la loro parossistica pedanteria. Spesso questi inutili sapientoni intervengono nelle questioni di cuore dei personaggi farseschi. Accade, ad esempio, nella farsa dell’Amoureux (detta anche l’Homme, l’amoureux, la femme, le medecin)49 – risalente al 1530 – che Roger, uomo dabbene, lascia la casa per un fantomatico viaggio. Dopo varie schermaglie amorose in cui la donna si mostra devota al coniuge e lo minaccia di lasciarlo se non resta in casa, l’uomo riesce a partire ed il pubblico può constatare la labilità delle convinzioni muliebri. La donna riceve in breve un amante, e mentre i due si sbronzano facendo all’amore il pubblico ascolta il marito lamentarsi di avere dimenticato la sacca a casa: il farceur approfitta della doppia dimensione spazio-temporale (“doppio orologio”) per generare un’atmosfera di tensione comica: mentre il marito si avvia a rincasare la donna orina dentro alla bottiglia del vino; rincasato il marito la chiama a gran voce, segue una scena di disperazione dell’amoroso, salvato dall’astuzia femminina. Allison (è questo il nome della moglie) finge un malore approfittando anche dell’emozione dell’amore e dello spavento (il fiato grosso, il polso rapido) per convincere il marito a portare dal dottore la bottiglia di vino ed urine («Sentez un peu comment il tremble, | Oncques ne fust en tel mestier.»).50 Assetato, però, sulla strada della bottega del medico, il marito dà una sorsata alla bottiglia e freme di felicità nello scoprire che la moglie produce vino. Lo stolto uomo si compiace della trovata e si scola il resto dell’aberrante miscela, poi sostituisce le orine sue con quelle della moglie: il medico analizza il liquido e dichiara che se è la moglie ad averlo prodotto allora l’uomo può pure ritenersi cornuto. Come molti personaggi farseschi l’uomo non ha memoria ed invece di associare la diagnosi al suo comportamento da beone prende il medico sul serio e si convince d’essere stato tradito. La farsa si conclude con le stolte lamentazioni dell’uomo che preferisce ignorare la realtà purché nessuno sappia 48 Pantagruel, XXXI, (Comment Pantagruel entra en la ville des Amaurotes et comment Panurge maria le roy Anarche et le feist cryeur de saulce vert). 49 ATF, t.I, pp.212-223). 50 Ibidem : p.219. 181 al di fuori di lui, sottolineando il tema della storiella che già menzionava le chiacchiere di paese in una battuta precedente («Entrez céans, qu'on ne vous voye; | Car je crains le parler des gens»).51 Le Conseil au nouveau marié52 (del 1547) è una farsa molto semplice strutturata sulle forme del dialogo giocoso, e per la quale l’autore si ispira in parte al passaggio che abbiamo visto di Rabelais, non serbandone purtroppo la medesima forza comica. Il protagonista si presenta al dotto per avere consiglio «de bouche et d’escript» sul modo di evitare le infelicità coniugali: i suggerimenti vanno dalla giusta (né troppo né poco…) bastonatura della donna, passano per la tolleranza delle sue malefatte, fino ad arrivare ai rischi del tradimento, da tenere bene in conto, specie se la donna è molto giovane. In ballo è la tranquillità di una vita senza débat, ma per questo bisogna pur sacrificarsi alla sofferenza che sempre accompagna il matrimonio: infine se egli resisterà alle prove della vita di coppia potrà incassare il titolo di martire alla stessa stregua di San Lorenzo «qu’on fit rostir». Le gioie del matrimonio sono insomma un bel programma di martirio. In un’altra pièce intitolata le Pèlerinage de mariage53 – imitata, come ci segnala Emile Picot nell’introduzione che ne fornisce nella Recueil de sotties, da Claude Mermet con la Farce joyeuse et recreative du pelerin et de la pelerine, datata 1557 – vediamo il matrimonio racchiuso nell’allegoria del pellegrinaggio. La struttura è elementare come un débat: dopo qualche strofa introduttiva alcune pellegrine si avviano alla strada per il matrimonio. Sul percorso fanno conoscenza prima di un vecchio e poi di un giovane: il primo è deluso del matrimonio, dal quale ha ricavato solo cattive esperienze, grane, infelicità; il secondo invece ha la baldanza e l’inesperienza della giovinezza: è pronto ad avviarsi alle nozze ed è certo che domerà la sua donna col giusto polso. La trovata di sicuro più intelligente (ma non certo originale) del contrasto è la litania burlesca, in cui si prega una panoplia di santi fittizi perché il matrimonio possa portare felicità e non preoccupazioni e disperazione. Sancta Bufecta, reculés de nobis. Sancta Sadineta, aprochés de nobis. Sancta Quaqueta, ne parlés de nobis. Sancta Fachossa, ne faschés point nobis. Sancta Grondina, ne touchés nobis. Sancta Fumeta, ne mesprissés nobis. 51 Ibidem : p.215. Ibidem, t.I, p.1-10. 53 RGS, t.III, pp.269-300. 52 182 Sancta Tempestata, ne tempestés pas nobis. Sancta Gloriosa, alés loing de nobis. Sancta Mignardosa, reculés de nobis. Sancta Bouffecta, aprochés de nobis. Sancta Jalousia, reculés de nobis.54 E via così, fino ad una funzione religiosa in piena regola, con salmi e comandamenti burleschi (di genere ma non di fatto), che verranno ripresi nella parte terminale del rifacimento di Claude Mermet. Rifacimento che ancora una volta pecca di scarsa originalità, ma che ha una costruzione forse più snella e rapida rispetto al goffo prototipo, del quale costituisce una versione alleggerita sia dei personaggi che dello svolgimento del dialogo. La rappresentazione del Pèlerinage du mariage è ben documentata e si tratterebbe del primo spettacolo a pagamento eseguito a Rouen:55 nel mese di ottobre del 1556 sappiamo che un commediante noto sotto il nome di Pierre Le Pardonneur noleggiò nella parrocchia di Saint Etienne des Tonneliers un «tripot» di proprietà di Jean Lasne, (una sala da pallacorda) per la messa in scena di spettacoli e canti. Sappiamo anche i nomi dei compagni di questo impresario di provincia: Toussaint Langlois, Nicolas Lecomte, Jacques Langlois, Nicolas Transcart e Robert Hurel, con tre ignoti bambini cantanti. L’iniziativa di Le Pardonneur destò l’attenzione della giustizia e alla terza rappresentazione le guardie della municipalità interruppero lo spettacolo in pieno svolgimento: la compagnia aveva disturbato l’ordine pubblico vagando per le strade nei giorni feriali, armata di tamburelli a richiamo della folla. Negli atti del parlamento di Rouen non si fa diretta menzione del titolo pièce che stiamo analizzando ma Emile Picot trae dalla descrizione dello spettacolo la certezza che la nostra pièce del pellegrinaggio dovesse comunque far parte del “cartellone” della serata.56 Al divieto di rappresentazione seguì la supplica del gruppo di attori, nella quale si faceva ammenda del proprio comportamento: la compagnia si sottometteva poi al controllo di qualsiasi funzionario avesse voluto verificare l’integrità morale dei testi. 54 Ibidem, t.III, pp.301-320 : p.296. La datazione e la bibliografia sulla recita rounnese di questa e la precedente sono nelle rispettive introduzioni di Picot: entrambe non sono considerate farse da Halina LEWICKA (1974) che non le include nella sua tavola cronologica. 55 É. H. GOSSELIN, 1868. 56 « On remarquera que les sots font leur procession [...] autour du jeu de paume dont nous venons de parler; cette indication, rapprochée des allusions normandes que contient l'Oremus final tranche la question d'une manière aussi certaine que possible. Les documents relatifs à la troupe de Pierre Le Pardonneur ont été découverts par E. Gosselin aux archives du Palais de Justice de Rouen. » RGS, t.III : p.271. 183 Sappiamo che a distanza di due anni sempre Pierre Le Pardonneur dovette nuovamente organizzare spettacoli per un pubblico pagante a Rouen. Con lui tre nuovi attori: Nicolas Michel (Martainville), Nicolas Roquevent (Le Boursier) e Jacques Caillart, ma la troupe fu stavolta meno fortunata ed in aria di Riforma il parlamento, timoroso di disordini pubblici, preferì impedire ogni pubblica rappresentazione. A volte il tema del matrimonio sconfina in quello dell’amore, ma bisogna ammettere che si tratta di casi piuttosto rari, essendo preoccupati gli autori più che alla felicità sentimentale dei loro eroi, della sicurezza economica, del sesso e della vita familiare; ciò si collega al bagaglio culturale dei ceti destinatari delle composizioni, che avevano già a disposizione un’abbondante trattatistica sulla vita pratica: una cultura in cui la casa è una bottega da mandare avanti come una specie di attività commerciale, con giudizio, criterio ed occhio alle economie. Accade che l’amore entri in contatto con i consigli per il matrimonio nel Débat du jeune et du vieulx amoureux,57 in cui analogamente al Pèlerinage si vede il vecchio disfatto ed infelice, deluso dalla vita e dalle donne, subire le repliche entusiastiche del giovane amoroso: il modello rimane quello delle due farse che abbiamo appena incrociato e nessun guizzo di originalità attraversa la pièce, le cui argomentazioni, benché ispirate con ogni evidenza alla lamentazione ed al débat, non hanno forza, limitandosi a ripetere i soliti luoghi comuni della donna madre di tutte le sofferenze maschili o della donna nutrice, che cresce l’umanità tutta e ne allieta il percorso. Il consiglio per il matrimonio si riallaccia alla precettistica per la buona condotta della famiglia che nella farsa dei Batârds de Caulx (datata dalla metà del XV secolo fino al regno di Luigi XII) si generalizza ed è finalizzata a dare un consiglio morale per la buona condotta dei figli dopo la morte del capofamiglia: Henry ha appena ereditato tutti i beni del padre, secondo il diritto di primogenitura che lo fa prevalere su tutti gli altri. Inizialmente i fratelli accolgono di buon grado l’autorità del maggiore, ma nel momento in cui si domandano come verranno ripartiti i beni del padre hanno una cocente delusione. Al più grande dei suoi fratelli il maggiore dona un’attività di Faiseur d’allumettes, fornendogli tutti i bastoncini e lo zolfo necessario. Alla sorella, in età di matrimonio, Henry lascia una dote ridicolosa. Je luy donray troys cens de noys, Et demy boyseau de mes poys ; Et des ongnons plain une carte ; 57 Rec. LEROUX, t.I, n° 7 (compare sotto il titolo le Viel Amoureux et le jeune Amoureux). 184 Douzaine & demy de tarte, Tous les sieus de nos rousins, Et une couvee de pouleins. Ausy nostre vache verete, Un colleur, une cazerette, Un mortier & un pillon, Un creucher, un chaperon ; Une bource, deulx devanteaulx, Une saincture et deulx cousteaulx. […] Deulx chemises a larges poinctes Ou tu bouteras tous le coups Deulx culs avec quatre genoulx, Apres que sera maryee.58 Al minore, infine, che vive a Parigi come escollier, il fratello lascia intendere di voler far fare il pastore, ed anzi manifesta contro di lui una feroce invidia, sfoderando due indovinelli per metterlo in ridicolo e fare sfoggio delle sue dozzinali nozioni culturali. HENRY Ego abebo plus congnu. Mais i’ey oublie mon Donnest; Or me dictes quel beste c’est Qui a la queue entre deulx yeulx ? L’ESCOLLIER Ie ne scay HENRY […] C’est un chat qui lesque son cul ; Sui ie clerc ? le voys tu bien ! Par ma foy vous ne saues rien.59 A questo punto lo scolaro, edotto in legge, domanda di esibire il testamento paterno: il lascito che Henry legge ad alta voce è più ridicolo della dote e lascia tutti attoniti, ma – ci dice la madre – il diritto di primogenitura è incontestabile e dipenderà dalla bontà del maggiore voler rendere la vita più agiata a lei ed ai figli. LA MERE Mes enfans, c’est le coustumyer Qui est faict passe trois cens ans, Pour et afin que les plus grans Vivent ensemble sans discors. LA FILLE Il avoyt bien le deable au corps Qui ceste loy institua. 58 59 Ibidem, t.III, n° 47 : pp.9-10. Ibidem : p.13. 185 A l’un tout le bien il donna, Et les aultres n’ont rien tretous.60 La farsa è chiaramente rivolta ad un pubblico borghese e punta ad insegnare una regola di vita buona certamente per i commercianti e la classe media: «Des biens mondains a vos enfans, | Faictes leur pars en vos vivans, | Pour eviter entre eulx la guerre».61 2.2.2 – Misoginia, appagamento erotico, mal marié(e). La misoginia, lo si sarà capito, è uno dei temi di maggior successo della farsa e si basa spesso sul cliché dell’insaziabilità della donna dal punto di vista sessuale come da quello economico: in Boccaccio è sintetizzato dall’irresistibile parallelo di Masetto, che «rotto lo scilinguagnolo» dice alla badessa: «Madonna, io ho inteso che un gallo basta assai bene a diece galline, ma che diece uomini posson male o con fatica una femina sodisfare, dove a me ne convien servir nove […]».62 La donna è una dispersione di energia per uomini già deboli e per lo più tordi e maneschi; nella maggior parte dei casi le donne cercano altro al di fuori del matrimonio, sono adulterine e prepotenti ed accusano apertamente i mariti di impotenza, beffandosi di loro. A questo filone misogino appartengono diversi fabliau molto noti da cui vengono poi molti intrecci farseschi. Fra questi menzioniamo la Dame qui aveine demandoit pour Morel sa provende avoir;63 la Demoisele qui ne pooit oïr parler de foutre;64 le Valet aux douze fames (sic).65 La Demoisele qui ne pooit oïr parler de foutre è con ogni evidenza una filastrocca a sfondo sessuale, in cui una dama non può sentire parlare di fare l’amore che subito sviene. Ci penserà un nobile e giovane valentuomo a toglierla d’impaccio, sposandola ed esplorando il suo corpo con malizia, benché al momento dell’atto sessuale la donna lasci intendere a sorpresa di non essere propriamente una novizia dell’argomento. 60 Ibidem : p.7. Ibidem : p.16. 62 Decameron, III, 1 : 37. 63 Rec. BARBAZAN, t.IV, pp.276-286. 64 Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.III : p.81. 65 Rec. BARBAZAN, t.III, pp.148-153. 61 186 Nonostante il tema piccante sia riconducibile ai tradizionali doppi sensi delle canzoni popolari, la forma di questa composizione è assai piacevole ed il procedimento narrativo ha una certa ingenua limpidezza che rifugge il volgare più empio giocando su allitterazioni e dialettismi. In Poggio Bracciolini casi simili a sfondo arguto ed erotico sono – come è noto – innumerevoli: in particolare vengono qui alla mente due facezie, De Guilhelmo qui habebat priapeam suppellectilem formosam e Vir qui mulieri dum aegrota esset veniam postulavit.66 Lo stesso tema del Guglielmo di Poggio torna nelle Cent nouvelles nouvelles67 dove il timore di una fanciulla per la «lance droicte comme ung cornet de vachier»68 del suo compagno causa le ire della madre, che arriva a portare la coppia in tribunale: i due giovani sposi dovranno eseguire la sentenza che li obbliga all’unione carnale direttamente a casa del giudice e a quanto sembra sotto gli occhi di tutti. Di solito comunque si verifica il contrario: nella maggior parte dei luoghi il sogno delle donne è un marito ben prestante ed in grado di soddisfarle; in assenza di questi requisiti maschili la donna rischia anche di ammalarsi. Frère Philibert nella farsa che porta il suo nome, scritta durante il regno di Francesco I, ribadisce con spirito medico o presunto tale queste convinzioni maschili: Perret Povre Garce è giovane ma malata ed il frate – straordinario guaritore, stando alla reputazione in paese – la visita, ne analizza le urine e snocciola l’amara sentenza: a suo avviso il problema della giovane sono le pene d’amore. Ed ecco la diagnosi, epigrafica: «Qu’elle converse | Avec le genre masculin». La visita di Philibert include anche una ricetta per guarire la giovane, ed è ricetta che fa professione di misogina. FRERE FILLEBERT […] Prenne le galant par le corps, Qu’il sache gaser comme un gay, Et bien faire faire l’arigoy Iusques a tant qu’elle soyt ravie […] Puys pour accomplir ma recepte, Prenne le galant, ie l’acepte, Et qu’il face bien ouyste, ouyste En remuant le cul bien vite ; Mais gardes bien qu’il ne soyt hongre.69 66 Facetiae: rispettivamente la LXII (De Guilhelmo qui habebat priapeam suppellectilem formosam) e la XLII (Vir qui mulieri dum aegrota esset veniam postulavit). 67 les Cent nouvelles nouvelles, LXXXVI, (la Terreur panique, ou l'official juge, T. WRIGHT, t.II, pp.167-172). 68 Ibidem, (p.169). 69 ATF, t.IV, n°3 : p.14. 187 Qui la schematicità e la rozzezza dell’intreccio, dovevano essere pretesti per l’esecuzione di lazzi e canti. Specie la “gag” del peto: ogni volta che la giovane e delicata fanciulla dichiara di aver male al cuore, il medico reagisce come se la giovane sia vittima d’un orrendo meteorismo, scatenando le ovvie reazioni comiche grivois. FRERE FILLEBERT Gare le pet! LA VOYSINE En efect, il y faut pourvoir. PERRETE Han, Dieu ! le coeur. FRERE FILLEBERT Helas! Le cul.70 La famelicità della donna nella maggior parte dei casi è ragione della sua infelicità oltre che di quella del marito: essa è quasi sempre «mal mariée», come nel caso di Raoullet Ployart71 di Pierre Gringore (del 1512 e parte del Jeu du prince des sotz et Mère Sotte),72 dove l’avvenente Doublette ha avuto la cattiva ispirazione – per interesse, dobbiamo supporre – di sposare un marito troppo vecchio ed incapace di soddisfare i suoi pruriti amorosi. La farsa di Raoullet è un vero capolavoro del genere e non è difficile scorgervi la maestria di Gringore, che concepisce uno sviluppo adeguatamente bilanciato per la scena: brevità dell’azione, essenzialità del malinteso, uso funzionale delle figure allegoriche ed un’agevolezza dei dialoghi che, ancora una volta, avvicinano il nostro Mère Sotte allo stile della commedia molièrana. L’intreccio si apre con un dialogo vivace in cui il marito Raoullet corteggia la moglie Doublette. Il valletto ascolta e segue lo scambio di battute della coppia ed in un a-parte ci dice che la donna sta probabilmente preparando un colpo mancino al marito. Che il passo sia concepito per il catafalco è ben evidente nelle entrate e nelle note di scena implicite nel dialogo, in cui il drammaturgo segnala movimenti e situazioni performative e fa ampio ricorso all’appello diretto al pubblico. RAOULLET PLOYART (MARY) Mon tendron, ma gorge frazée Mon petit teton, ma rosée, 70 Ibidem : p.9. GRINGORE, t.I, pp.270-286. 72 Ricordiamo che nelle prime due edizioni la pièce compariva accorpata ad altre tre composizioni poetiche di Pierre Gringore che assieme formavano il Jeu du Prince des Sotz et Mère Sotte, “locandina” comprendente un cry, una sottie, una moralità ed una farsa. A.HINDLEY, 2000. 188 71 Ma petite trongne, approchez. DOUBLETTE (LA FEMME) Laissez m’en paix, vous me fachez. RAOULLET Quant je vous voy, je suis tant aise! Belle dame, que je vous baise Ung tantinet, le vous en prie. MAUSECRET (VARLET) Elle fait de la rencherie Pour ce que mon maistre est jà vieulx, Par Dieu! je voy bien à ses yeulx, Qu’el luy fera quelque finesse. DOUBLETTE Mausecret! MAUSECRET Qu’esse, ma maistresse ?73 E viene il gioco di comico verbale che intesse tutta la pièce: l’espressione «labourer la vigne» metafora non velata per parlare dei rapporti carnali che la moglie vorrebbe avere e che il marito non è capace di dare «par le deffault de bons ustils», come spiega burlescamente Mausecret, appena dopo aver insinuato: «si est il conclus | qu'il y fault besongner, mon maistre, | Ou ma maistresse y fera mettre | D’autres ouvriers.»74 Mausecret è l’elemento di maggiore innovazione della pièce il cui spirito comico dipende in larga parte dalle uscite del valletto, la cui funzione narrativa si stempera nel rimando continuo della battuta licenziosa e nelle uscite maliziose. DOUBLETTE Permettez que vostre apprentis Y besongne. MAUSECRET Je feroye raige. RAOULLET Qu'il besongnast à mon ouvraige! Jamais je ne l'endureroye. MAUSECRET A ! par Dieu ! je y besongneroye Mieulx que vous. DOUBLETTE Quant la terre est seiche, Et on n'a point de bonne besche, On ne la fait que esgratiner. MAUSECRET Qui me laisseroit prouvigner En la vigne de ma maistresse, La terre seroit bien espesse 73 74 Ibidem : p.270. Ibidem. 189 Se ma besche ne alloit au fons.75 La pièce rimane priva di una azione ed è piuttosto un débat scherzoso. L’influenza del genere nell’economia della composizione è ben dimostrata dall’introduzione di due personaggi allegorici, Faire e Dire: ci pare inutile precisare che fra i due sarà Faire ad ottenere le attenzioni della donna, offrendo certamente agli attori l’occasione per i lazzi triviali, dal momento che il testo non rinuncia a mettere in scena Faire che lavora la vigna di Doublette con un certo ardore. Le azioni di Mausecret hanno lo stesso tasso di insensatezza di quelle d’Arlecchino: il servo riferisce al padrone dell’adulterio in appena due battute, benché durante tutta la messa in scena abbia parteggiato per le ragioni della moglie astinente. Altro punto di contatto col débat è l’appello al prince de sotz, pretesto per il cambiamento di registro ad emulazione dei processi giudiziari (e giuntura trasversale agli altri elementi del varietà drammatico, in cui parimenti compare questo personaggio). Nella scena finale si vedono i tre personaggi a testimoniare di fronte al giudice con il quale Raoullet si lamenta di aver trovato la vigna di sua moglie lavorata da un altro. Il processo giocoso si conclude in poche battute, in cui il l’uomo di legge si sincera della debolezza del marito e lo esorta ad eseguire i suoi doveri matrimoniali. Le due figure allegoriche a questo punto hanno preparato il motto misogino della conclusione: «les femmes, sans contredire, | Ayment trop mieulx Faire que Dire». La Farce joyeuse et recreative d'une femme qui demande les arrerages a son mary, (o le Mary, la dame, la chambriere, le sergent et le voysin),76 esiste in due edizioni differenti piuttosto discordanti nello svolgimento e nel testo, entrambe senza luogo né data di pubblicazione. Qui il linguaggio giuridico è assai più preponderante che nella pièce omologa di Pierre Gringore che abbiamo appena affrontato: ma qui aggrava il già misero e sconnesso svolgimento (forse da imputare alla dispersione di parte del testo) che non mostra alcuna attenzione per il linguaggio scenico. Frammentario è anche il ricordo della metafora con cui si allude al rapporto carnale: nei dialoghi iniziali il problema dell’insoddisfazione sessuale è esplicito e la serva propone alla sua padrona la promiscuità con un suo vecchio maistre, prodigio sessuale capace di soddisfarla senza nel contempo trascurare la moglie e la donna di servizio. Ma poi al centro della narrazione l’autore accenna al pagamento di un debito (evidentemente d’amore) che introduce il linguaggio giuridico e le disquisizioni in legge del Vicino e del Sergente. 75 76 Ibidem, : pp.271-272. Rec. BRUNET, t.I, pp.97-117. 190 La prima edizione della farsa (che si distingue dalla seconda per il plurale)77 sviluppa il tema in maniera ben più volgare ed oscena e con una ancor più ostentata conoscenza del macchinoso lessico giuridico. Fra i diversi esempi di espressioni da tribunale troviamo qui: «gage plege (plege gage)», che sta per «arrehs», caparra; «estre mis à l’acul» per ordinare, imporre; «obliger par nisi» ovvero obbligare «sous certaines peines».78 Molti passi sono in comune con la “versione al singolare”, ma nel complesso la lunghezza di questa composizione è maggiore e vi si sviluppa con più sagacia il processo di fronte all’ufficiale giudiziario, in cui esce con accresciuta evidenza una finalità morale riassumibile nel proverbio «fra moglie e marito non mettere il dito»: intervenire negli affari delle altre coppie non ha senso e porta ad irritarsi inutilmente ed infatti la cameriera e l’amico del marito continueranno a discutere fra di loro anche dopo la riappacificazione della coppia. Gli stessi argomenti dell’insoddisfazione sessuale ritornano tutti nella Farce du nouveau marié qui ne peult fournir à l’appoinctement de sa femme, del 1455; ivi la donna si lamenta con i suoi genitori delle delusioni che deve sopportare nel suo matrimonio. È un esempio atipico di donna mal mariée: nessuna mancanza da parte del marito, che nel primo mese di unione non l’ha picchiata, né ha giocato d’azzardo o frequentato amanti, come ipotizzano all’inizio i genitori. Il problema nella coppia è l’unione amorosa, cui il giovane uomo si sottrae con ogni scusa. Aussitost que fusmes couvers; Il se couchoit droit à l'envers; Or estoye en grant esmoy; Je l'embrassay parmi les rains, Et assis d'une de mes mains, Et aussitost que luy euz mise, (Il) l'envelopa de sa chemise, Et se tourna au coing du lit.79 Il padre è quello che maggiormente capisce le difficoltà del giovane marito, ma la madre interviene prepotentemente perché vada a rendere conto della sua incapacità sessuale davanti ad un giudice. Lo svolgimento sembra il medesimo che abbiamo visto negli Arrerages, ma qui sarà il suocero a salvare la vittima dell’insaziabilità femminile accettando le altrimenti insufficienti ragioni dello sposo che si limita a promettere il cambiamento. 77 ATF, t.I, pp.111-127. A differenza della sorella, su questa pièce sono stati effettuati tentativi di datazione alla fine del XV secolo. 78 Troviamo tali note linguistiche nel glossario fornito da N. Viollet-Le-Duc (Ibidem, t.X : pp.371). 79 Ibidem, t.I, pp.11-20 : pp.14-15. 191 Di nuovo si tratta di un débat, la cui qualità compositiva, benché non vi siano lacune come nel testo des Arrerages, è assai trascurata e dove l’intreccio è pressoché inesistente e senza alcuna cognizione dell’economia della meccanica scenica. Ciò che emerge, al solito, è la lascivia della donna, unico motore sessuale della coppia. In conseguenza della costante insoddisfazione muliebre alcuni mariti tentano qualsiasi mezzo per ringiovanire: è il caso del villano della farsa Arcelin (pubblicata inedita da Emile Picot),80 che si mette in strada per trovare la fontana di giovinezza. La sua donna gli ha chiaramente fatto sapere che di lui non vuol più saperne. Mais advisez le beau maintien, (Et) quel faulx villain engroignés ! Par Dieu ! il est plus refroignés Que n’est ung cinge de trante ans. Et, par Dieu ! Je pers bien mon temps Avec ung villain malheureux.81 Il villano ha naturalmente non poche difficoltà a trovare la sorgente leggendaria. Incontra finalmente un pittore che gli propone di ringiovanire usando le sue straordinarie doti artistiche. Se vous en voullés rien despendre, Je vous feray, sans plus attendre, Venir en l’eage de trante ans.82 Il pittore gli scarabocchia il viso, gli spilla qualche quattrino e lo rimanda dalla sua donna, dalla quale egli riceve tutt’altro che le cure amorose che si attendeva : Ha ! villain, allez vous laver ! Que le grant diable vous emporte ! A peu que je n’ay esté morte De peur que m’aves fait avoir.83 80 E. PICOT, 1900. Ibidem : p.7. 82 Ibidem : p.11. 83 Ibidem : p.14. 81 192 2.2.3 – Professioni erotiche e mariti ciechi. Un cospicuo gruppo di farse usa la traccia allegorica del mestiere per parlare dell’atto sessuale, ripercorrendo la leggenda (ancor viva nel nostro presente) dell’operaio a domicilio come attrazione sessuale irresistibile per le donne di casa. La tradizione di questi canti di mestiere è diffusa ovunque in Europa, e si esprime in Italia (e particolarmente in Firenze) con i canti carnascialeschi. Nella Canzona de’ lanzi stagnatai di Giovan Battista dell’Ottonaio, il richiamo dei saldatori e riparatori di vettovaglie è diretto alle donne con l’ovvio parallelo sessuale a corollario. Se foler l'arte imparare, sotto a lanzi feni a stare, perché preste t’insegnare suo mestier tutte a un tratte; ché quel cose così fatte ti soler tutte placere. […] Quando lanzi fonder fuole cazze stagne in coreggiuole, frughe drente col mazzuole per gittar tutte a un tratte: ché quei cose così fatte ti soler tutte placere. […] Quando queste farfanicchie sue lafor torce e ranicchie, con martel percuote e picchie per ridurle a buon ritratte: ché quel cose così fatte ti soler tutte placere.84 les Femmes qui font escurer leurs chaulderons,85 composta fra il 1510 ed il 1520, è una della composizioni poetiche più note dell’altrettanto fertile sottogenere farsesco: parimenti che nell’Ottonaio qui la riparazione delle marmitte è metafora non troppo sottile dell’atto sessuale e della supposta disposizione femminile alla promiscuità. LA PREMIERE Mon chaulderon fait de l’eau Auprès du cul, quand il est chault; Et pour cause, maignen, il fault Que y mettez une bonne pièce, Affin que plus ne se depièce, 84 85 Giovan Battista dell’Ottonaio, Canzona de’ lanzi stagnatai (C. S. SINGLETON, 1940). ATF, t.II, pp.90-104. 193 Et que bien me soit esclarcy. [...] LE MAIGNEN Voyez cestuy, il a tappé. Est-il rivé de bonne sorte ? Qu’en dictes-vous ? LA PREMIERE Le Dieu m'emporte, Vous estes ouvrier parfait. Un maistre, on le congnoist parfait A son ouvrage. LA SECONDE Nous buron, Frappez fort sur le chaulderon; Vous frappez dessus si en paix! Il a le cul assez espaix Pour endurer la refaçon. LA PREMIERE C'est un chaulderon de façon Que le mien, et est assez fort , Mais qu'on ne lui fasse point tort, Quasi pour servir deux mesnages. [...] LE MAIGNEN Regardez-moy comme je sues; À vous servir je prens grand peine. J'en suis quasi tout hors d'alaine.86 Più che ostentare una misoginia maschilista la farsa è diretta ai mariti che trascurano le loro mogli, esemplare in questo senso la conclusione, in cui le Maignen,87 dopo aver soddisfatto le passioni di due donne, subisce il ricatto di uno scandalo se non tornerà ogni giorno a fare il suo mestiere. Il modello della farsa dello Chaulderonnier è con ogni probabilità quello di un fabliau il cui titolo non ci riserva dall’apprendere subito il tema sconcio ed esplicito, è la storia del Maignen qui foti la dame88 scena rapida di sesso ancora una volta fra un artigiano del ferro ed una servitrice. E di magnani si tratta anche nei canti di Antonfrancesco Grazzini, che si aggancia alla facile metafora della chiave e della toppa per parlare ancora una volta dell’erotismo degli umili. E bella e nuova e util masserizia sempre con noi portiàno, d’ogni cosa dovizia, e chi volesse il può toccar con mano; ma sopratutto abbiàno d'ogni sorte recato a paragone 86 Ibidem : pp.96-99. Il maignen è uno chaulderonnier (riparatore e costruttore di utensili domestici) che lavora a domicilio, un “magnano”. 88 Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.V : p.179. 194 87 chiavi di tutta prova, sode e buone.89 Nell’immaginario farsesco e popolare i vari operai a domicilio si trovano quasi sempre alle prese con mogli maliziose ed insoddisfatte ed è compito loro arrivare dove i mariti non possono. Il gioco linguistico è offerto dalle azioni dei mestieri, su cui si incatenano fraintendimenti e doppi sensi: Noël Du Fail, offre un elenco completo di questa sorta di sociologia erotica: «Le musnier le fait par où l’eau saut; le peletier, par où la peau faut; le boulanger, sur le sac au bran; le boucher, sur le baquet aux tripes; le laboureur, en la raie; le maçon, sur le fondement; le charpentier, en la mortaise; le mareschal, sur le soufflet; et puys, dites que je n’y entends rien.»90 Anatole de Montaiglon sottolinea come sia quasi impossibile, per via della loro abbondanza, indicare tutti i manoscritti dove si ritrovano simili enumerazioni, ciononostante ci fornisce uno specimen dedicato alle “complexions des femmes”. S’ensuivent le IX manières de conditions des femmes: La hardie est celle qui attendroit bien deux hommes à un trou. La praude femme est celle qui a les paulmes velues. La couarde est celle qui met la queue entre les jambes. La bonne chrestienne est celle qui n’ose coucher sans prestre. La honteuse est celle qui cuevre ses yeulx de ses genoulx. La paoureuse est celle qui ne ouse coucher sans homme. La despiteuse, c’est celle que, quand on luy baille un coup, elle ene baille deux. La presseuse est celle qui le lairroit pourir dedans avant qu’elle l’en ostat. La débonnaire est celle que, quand on luy haulce une jambe, elle haulce l’autre.91 L’esempio più noto in assoluto è quello dei vari ramoneur de cheminées, spazzacamini la cui abilità è giustamente quella di «ramoner la cheminée hault et bas» o «spazzar dentro e di fòra». Le avventure degli spazzacamini e delle loro amanti hanno un notevole successo in tutto il medioevo francese probabilmente a causa del facile parallelo erotico con i gesti ed il lessico della professione. Per gli spazzacamini italiani pulire le canne fumarie «[…] è gentil arte, | l’altre non son covel: | ch’è calzolaro o sarte? | le son tutte frittel; | mille belle zitel | ci fan spazzar camin. | Camin che non si spazza | presto s’appiza il foco; | non è cosa dispiaza | quando è in cucina il coco; | è necessario gioco | nostro spazzar camin.»92 89 Antonfrancesco Grazzini, Canto dei magnani, (C. S. SINGLETON, 1936). Noël Du Fail, Les Baliverneries d’Eutrapel, (G. MILIN, 1970) 91 APF, t.V, pp.118-119. 92 Con la precedente: Anonimo, Canzona degli spazzacamini, C. S. SINGLETON, 1936. 90 195 Come per il Maignen il Ramoneur del sermon joyeux93 è tutt’altro che contento della sua professione (come invece il pubblico maschile doveva arguire) e confessa che, nonostante gli sforzi, non sempre riesce ad accontentare tutte le donne che gli chiedono di “esercitare” la sua professione. Nella farsa a quattro personaggi94 del Ramoneur – sulla cui datazione si oscilla fra il 1508 ed il 1520 – lo spazzacamino è in questo caso vecchio e viene messo alla berlina dalle donne del villaggio e dal suo apprendista. Probabilmente il testo fu concepito per la scena sia per via della sua larga diffusione popolare che per la presenza di alcuni versi riferiti ad una corte approdata nella città con relativo seguito, ciò che ci autorizza ad ipotizzare la composizione in occasione di una visita di notabili o di una entrata reale. Puis que la court est en la ville, Par ma foy, ilz sont plus de mille, Tous nouveaulx et jeunes housseurs.95 La comicità di questa opera è compromessa dai numerosi passaggi oscuri, dalla ripresa di antichi proverbi e da un incerto sviluppo dei rapporti fra i personaggi. Specie nei dialoghi fra il valletto e lo spazzacamino è difficile riuscire a decifrare il rapporto fra i due: tutta la composizione sembra essere un pretesto per la semplice esibizione della metafora professionale ed ha le sembianze di una collezione di espressioni e gerghi propri del mestiere, segnalati anche in un incipit articolato sui cry, gli urli di richiamo della clientela («Ramonnez vos cheminées, | Jeunes femmes, ramonnez»),96 cui appunto si deve un importante contributo per lo sviluppo del genere comico tout court in Francia. Il grido dei due introduce la contesa fra il maestro e l’allievo e richiama una potenziale cliente. Il paradosso della professione dello spazzacamino è alla base della disputa fra i due: a differenza delle altre maestranze il migliore ramoneur non è il vecchio esperto, ma il giovane, in ragione di una maggiore agilità e di un corpo più esile; al valore dell’esperienza si contrappone quello del vigore giovanile, con ovvie “ripercussioni metaforiche”. LE VARLET Les jeunes ne sont point [plus] seurs Que les vieulx, vous le sçavez bien. […] 93 APF, t.I, pp.235-240. ATF, t.II, pp.189-206. 95 Ibidem : p.193. 96 Ibidem : p.189. 94 196 LE RAMONNEUR C'est que les aprentis Tousjours les meilleurs maistres sont.97 La disputa fra forza giovanile e l’esperienza senile riesce talvolta ad accumulare un’interessante carica grottesca, con esiti comici non trascurabili. LA FEMME Il ne ramonne plus Non plus qu'un enfant nouveau né. LE RAMONNEUR Ramonner! c'est bien ramonné; Il n'est homme qui ne s'en lasse De ramonner par tant d'espace Que j'ai faict, ne par tant d'ans. Il y a plus de soyzante ans Que le mestier je commençay. LA VOYSINE Vous n'en pouvez plus. LE RAMONNEUR Je ne sçay Ma femme me le dit ainsi.98 Sempre con ardore giovanile operano sfregano e lucidano anche i riparatori di pentole di Michele da Prato, che invitano ovviamente tutte le donne ad avvalersi dei loro abili servigi. L’area semantica delle stoviglie e le professioni ad esse legate sembra davvero prvalere su tutte le altre. Donne, noi siam venuti a bella posta qui per lavorare, forniti e provveduti di quel che nel mestier s’usa adoprare; e la bottega qui vogliam rizzare, avendo cose rotte: lavorrem per voi tutta la notte. Con questa colatura di piombo e pece sempre ci serviamo; quando il fesso si tura, intorno a quello molto stropicciamo, e tanto in su e ‘n giù sempre meniamo che ‘n breve si compisce l’arte che salda, tura e ripulisce.99 97 Ibidem : pp.193-194. Ibidem : pp.204-205. 99 Michele da Prato, Canzona d’acconciatori di catini, secchioni, padelle e paiuoli, C. S. SINGLETON, 1936. 98 197 In questo marasma di voglie insoddisfatte i mariti gettano spesso la spugna e purché sia preservata la pace fra le mura domestiche chiudono anche tutti e due gli occhi sui tradimenti delle mogli. La Farce des deux hommes et leurs deux femmes, dont l’une a malle teste et l’autre est tendre de cul, composta a cavallo fra XV e XVI secolo, rispetta questo modello. Colin e Mathieu scambiano le proprie opinioni sul matrimonio: il primo ha una donna virtuosa ma irritabile e tiranna; il secondo invece ha trovato in Jeanne la soddisfazione sessuale e la completa devozione fra le mura domestiche, ciononostante deve adeguarsi al fatto di non essere il solo a beneficiare delle attenzioni della donna: egli non si preoccupa della condotta della moglie purché la pace regni sovrana nella casa e purché lui stesso possa godere del matrimonio e delle prelibatezze e degli agi finanziati dagli amanti di lei.100 La teoria filosofica del personaggio è facilmente riassumibile in una battuta. Que dyable ay-je affaire De chercher ce qui m’est contraire Et ce que ne vouldroys (point) trouver ? 101 Meglio quindi fidarsi sempre a metà ed accontentarsi anche delle mezze verità : il banchetto che Jeanne offre al marito ha una provenienza sospetta, ma che problema c’é ? Purché si mangi in pace e compagnia, Mathieu accetta tutte le ciance della moglie infedele che sostiene di aver pagato in «beau contant» (senza specificare di chi) le ricche prelibatezze alla tavola, il vino e tutto il resto. Nel “dibattito filosofico” sul come trattare una donna i due uomini toccano molti dei punti propri delle idee farsesche a questo proposito ed ecco venire al pettine i diversi atteggiamenti rispetto all’essenza complicata ed imprendibile della donna. Apprendiamo allora che l’insoddisfatto picchia troppo frequentemente la sua amata, quando invece fa parte della strategia del quieto vivere del cornuto evitare di battere la moglie. È il solito igiene matrimoniale proveniente dalla precettistica e da una cultura che a tratti sfodera anche conoscenze mediche opinabili e “ridicolose”; la bella farsa di cui ci occupiamo non trascura così neanche l’aspetto medicale del cattivo umore della donna, in un dialogo filosofico su toni giocosi assai vivace di cui vale la pena riportare i passi salienti. 100 Detto en passant il canovaccio viaggia nello spazio e nel tempo: un marito remissivo ed orbo al tradimento muliebre (non si capisce se per idiozia o per approfittare dei vantaggi pecuniari) è l’Eduardo De Filippo di Questi fantasmi. 101 ATF, t.I, p.145-178 : p.149. 198 LE SECOND Il luy fault prendre ung [bon] clystère Pour luy alleger le cerveau. LE PREMIER De vray ? LE SECOND Pour la bien faire taire, Il luy fault prendre ung bon clystère. […] Il n’est rien si beau. […] Pour la chaleur et la tempeste Et la maulvaistié de sa teste, S’el(le) prent medicine par bas, Jamais tu n’auras nulz debas. Il fault que la bas soit ouvert, Aultrement la teste se pert ; Car, voys-tu, la chaleur qu’elle a S’esvacuera par ce lieu-là Incontinent et sans arrest. LE PREMIER […] Et de la tienne, Dieu mercy, Que tu dis qui a [le] cul tendre, Que feras-tu ? LE SECOND Il lui fault prendre Ung restraintif […] LE PREMIER […] vous n’y sçavez rien. Tu dis que le hault se pert Se le bas n’est toujours ouvert, Et puis tu dis qu’il luy fault prendre Ung restrainctif ; tu doys entendre Que la fumée retournera Au cerveau, qui la te fera Incessamment [crier et] braire. […] Ergo, tu conclus qu’il n’est femme Qui n’ayt mal cul ou malle teste. LE SECOND […] Icy nous disons qu’il n’est femme Qui ne crie, tempeste ou blasme, Ou à quelcun le bas ne preste.102 L’idiozia dei due si combina in tratti formali convincenti in cui compaiono le note di scena e dove si distingue una certa attenzione per la solidità della narrazione; e l’effetto è a tratti irresistibile. Dopo questo lungo dialogo nel quale i protagonisti hanno espresso le personali convinzioni ed esperienze sui rapporti di coppia li vediamo stabilire di andare a cena nelle rispettive case, ciascuno 102 Ibidem : pp.151-153. 199 con il compare ben appartato, in modo da poter verificare dal vero quello che succede nelle mura domestiche dell’uno e dell’altro e valutare reciproche abitudini e creanze. È qui che si apprende come l’amore si riduca a due opzioni fondamentali: cornuto e sereno oppure casto, violento ed infelice. L’idea del nascondiglio implica naturalmente che il personaggio ascosto intervenga nel dialogo coniugale con una sequenza di a-parte molto ben giocati sul piano ritmico. Prima del trucco dei due mariti il nostro autore ci porta però direttamente nella sua école des femmes inserendo una scena in cui le rispettive compagne dei badin si incontrano: per la seconda donna il tradimento è un fatto scontato e riguarda tutte le età; ciò che conta è tenersi allegri e solidali nella tranquillità della casa che non deve mai esser turbata dalla gelosia. Su questi termini si arriva, infine, alle scene di spionaggio. Per il primo “interno” di coppia l’autore riesce a restituire al pubblico tutta la carica di oppressione del nucleo familiare afflitto dai conflitti fra coniugi: viene tracciato un insolito quadro psicologico dei personaggi, le cui azioni trovano ragion d’esistere nelle motivazioni personali ed intime senza peraltro compromettere quella rapidità che è indispensabile per chiudere con effetto qualsiasi azione comica. LE PREMIER MARY […] Tu es trop laide LA PREMIERE FEMME Tes malles bosses. C’est du soucy que tu m’as donné. O jour malheureux fortuné Que tu me prins ! estoys-je telle? LE PREMIER MARY Nenny vrayment, tu estoys belle.103 È questa una specie di anatomia della bruttezza, che assieme alla scena di amour fou in cui si vede il marito prendere a botte la moglie dopo un dialogo che ancora mostra le venature di una tenerezza ormai scomparsa, costituisce un vero capolavoro del genere, soprattutto per merito di una idea “evolutiva” del personaggio che discosta di molto la farsa des deux hommes dalle sue omologhe. 103 Ibidem : t.I, pp.166. 200 2.2.4 – Ostinazione ed educazione violenta delle mogli. La furiosa lotta fra i due sessi ed una ferocia diretta contro il falso mito del focolare domestico sono dunque gli assi tematici più ricorrenti nella farsa. Perché la famiglia funzioni correttamente la regola centrale deve essere la prevalenza del marito: se il capofamiglia non è «homme de culotte», il “mesnage” sarà condotto all’agonia e lui condannato alle moquerie dei sot e dei folli. La debolezza del marito è pertanto oggetto di innumerevoli composizioni comiche dalla novella al fabliau fino alla farsa ed ai suoi generi liminari. Ne favolello de la Male dame, alias de la dame qui fu escoillié una donna bisbetica sottomette ed umilia il compagno, che non riesce mai a tenerle testa. N’osez! por qoi ? por ma collier Qu’à nul fuer ne velt otroier Chose que face ne que die ; De sor moi a la seignorie, De ma maison a la justise, De trestot a la comandise, Si ne li chalt s’en ai enuie, Ge ne li sui fors chape à pluie. A son bon fait, noient au mien, De mon commant ne feroit rien.104 Un conte si innamora della figlia di questi ed il padre dovrà far finta di essere contrario all’unione solo per ottenere l’assenso della moglie che agisce sempre per spirito di contraddizione. Insomma, il marito non può fare null’altro che ripetere il contrario di ciò che pensa per avere il dominio sulla moglie. Dit li quens, sire, ge vos quier Vostre bele fille à moillier : Plus bele ne virent mi hueil, Donez la moi, quar ge la vueil. Dist li peres, nel’ ferai pas, Quar ge la vueil doner plus bas ; Ge la donrai bien endroit li. La dame l’ot, avant sailli : Sire dit-ele, vos l’aroiz, Ne jà malgré ne l’en savroiz, Que li donners n’est pas à lui, Ge la vons donc et avuec lui Ai assez et or et argent, 104 Rec. BARBAZAN, t.IV, pp.365-385 : p.369. 201 Si ai maint riche garnement, Donrai la vos, si la prenez.105 Ma una volta sposato ed entrato nella famiglia, il gentil conte si trasforma in vendicatore del sesso maschile: in un crescendo di crudeltà spropositate, prima sottomette la sposa ad azioni minacciose ed inquietanti, poi afferma la sua autorità sulla famiglia decapitando i due levrieri del padre di lei. La spregiudicatezza lo porterà a cavar gli occhi al cuoco che non obbedisce agli ordini e a bastonare la moglie con una mazza spinata. Ultima vittima è la suocera, messa sulla tavola per una operazione chirurgica finalizzata all’impianto degli attributi fisici della dominazione: i testicoli di un toro. Se con un evidente anacronismo si potesse parlare di crudeltà artaudiana per questo periodo, il favolello della Dame qui fut escoillié ne sarebbe un rappresentante perfetto: la realtà si confronta qui con una visione allucinata e violenta all’estremo, nella costruzione della narrazione come macchina celibe. A volte non c’è bisogno di un intervento esterno per l’educazione del sesso femminile ed il marito debole diventa improvvisamente di polso, riprendendo il controllo della situazione come reazione all’ultimo, ennesimo, sopruso femminile. È il caso anche di Sire Hain et dame Anieuse in cui i due sessi si affrontano in singolar tenzone in una simbolica lotta per le braghe che il sire mette al centro del cortile a titolo di sfida. Et qui conquerre les porra Par bone reson mousterra Qu’il ert sire et dame du nostre.106 La donna si presenta al combattimento armata di ingiurie e graffi. Ma alla fine ha la peggio e deve rassegnarsi alla forza fisica del’uomo. Franco Sacchetti riporta anche lui la storietta d’un certo Bonanno de Ser Benizo,107 uomo pacifico e tranquillo fino ad un certo punto: costretto ad armarsi di spada per mettere ordine fra le mura domestiche, il pover’uomo deve fare il gesto dei pantaloni gettati in terra nell’arena familiare, che qui nessuno osa prendere per non sfidare l’ormai altero capofamiglia. E sempre nel Trecentonovelle nel 105 Ibidem : pp.371-372. Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.I, pp.97-110 : p.99. 107 Trecentonovelle, CXXXVIII. 106 202 racconto dedicato a Fra’ Michele Porcelli,108 incontriamo una reazione spropositata dell’uomo agli attacchi della donna, sottoposta a crudele tortura fino alla totale umiliazione. E naturalmente il Decameron109 dove Boccaccio sviluppa un esempio di violenza “istruttiva” ai danni d’una donna che si concreta in una immagine allegorica: il «ponte all’oca» – passaggio dove i padroni dei somari si accaniscono contro le bestie da soma – funziona come un esempio assai istruttivo per il marito troppo lassista con la compagna. Similmente in Francia ritroviamo una farsa della fine del XV secolo detta del Pont aux asgnes che si apre con un singolare dialogo fra marito e moglie : LE MARY C’est la raison, tant que vivrez, Que de nous vous portez la peine. Aussi en ce point vous le ferez, Ou bien batue vous serez. LA FEMME Je feray, ta fiebvre quartaine. LE MARY Femmes doibvent couvrir la table, Mettre dessus linge honorable ; Aux gens de bien, s’on les admeine, Monstrer un semblant amyable Et faire chère convenable. LA FEMME Et ilz font, ta fiebvre quartaine. LE MARY Femmez doibvent pour leur honneur Tenir leurs barons en doulceur, Et faire loyaulté certaine ; Et, si leur font quelque rigueur, Ilz prennent le dyable à seigneur. […] C’est un arrest de parlement; Il va sans appellation Il fault que nous seigneurion. Droict le veult et force l’emporte.110 La donna protesta con tutte le sue forze. LA FEMME […] Ce sera quand je seray morte Doncques que je t’obeiray ; Car tant que l’ame du corps parte, 108 Ibidem, LXXXVI. Decameron, IX, 9. 110 ATF, t.II, pp.35-49 : p.35. 109 203 Un pas pour toy ne passeray.111 Il marito chiede consiglio a Domine De, il quale dietro pagamento di uno scudo lo indirizza al ponte con una certa insistenza e sicurissimo del fatto suo: la battuta «Vade, tenés le pont aux asgnes» è del resto ripetuta come soluzione a tutti i problemi che il protagonista espone al maestro. Ed eccoci cambiare di scenario: siamo al ponte delle torture dove un mastro picchia di gran lena l’asino che non vuol camminare. LE BOSCHERON Sus, Nolly, [sus] tire avant, tire, Hury, ho ! le dyable y ait part, Et da, hay, que de mallehart, Ou de loups soyes-tu estranglée ; Sus, Nully, [sus] tire avant, tire.112 Alla fine, perché il nostro non abbia alcun dubbio sul comportamento da tenere con la moglie, aggiunge: Gens mariez, notez, notez, Tous se explique en ceste lettre. Trottez, Nully, trottez, trottez ; Vous avez trouvé votre maistre.113 Il marito apprende rapidamente il nuovo sistema di conduzione familiare ed eccolo in casa contro la sua donna : Et ne fault-il que boys de haistre Pour frotter les costez [de] sa femme ? […] Trottez, vieille, trottez, trottez.114 111 Ibidem : pp.36-38. Ibidem : p.45. 113 Ibidem : p.46. 114 Ibidem : pp.46 e 48. 112 204 L’argomento della novella di Boccaccio si trova anche nel Pecorone di Ser Giovanni Fiorentino, dove Boezio consiglia il Ciucolo di andare al «ponte Sant’Agnolo», con lo stesso scopo che nella farsa di Domine De.115 La Farce du savetier116 sviluppa un tema matrimoniale caro ancora alla novella: l’uomo che si prende carico di risolvere la situazione coniugale di un conoscente (qui per mezzo della forza). Il Savetier ha domato con violenza e terrore la moglie: solo con l’obbedienza femminile una famiglia si può dire davvero felice e nel suo caso la donna arriva ad anticipare ed eseguire i suoi desideri. Trovatosi di fronte ad un tale Jaquet – derelitto oppresso da una strega uscita direttamente dalle fiamme dell’inferno, Proserpina – il Savetier si mette in testa di doverlo salvare. Perché possa raggiungere l’anelata felicità familiare, il Savetier convince Jaquet a cedergli per un po’ la donna, così da sottoporla ad una severa operazione di igiene comportamentale. Lo scambio ha luogo e Jaquet li lascia soli con una certa compassione per il risoluto maestro. L’igiene comportamentale di cui sopra è semplice: il Savetier chiede alla donna vari servigi che lei non può rifiutare d’eseguire a meno di farsi pestare di botte; assai rapidamente Proserpina cambierà opinione sul funzionamento della coppia; si riconoscerà definitivamente domata, non solo soddisfacendo il marito, ma raggiungendo lei stessa uno stato di grazia nell’inedita felicità coniugale: abbandonando il suo atteggiamento furastico la sentiamo affermare con un certo gusto: «Je me tiens la plus heureuse | De ce monde». Tanto per dire che le bastonature quando non uccidono fanno bene a tutti. Ne Le piacevoli notti di Giovanni Francesco Straparola117 rinveniamo un plot dedicato ancora una volta all’educazione prepotente del gentilsesso, con la classica diatriba sugli effetti delle botte e quelli dell’amor “cortese”, qui lo sviluppo della vicenda si incentra sul luogo letterario del doppio che permette all’autore di assumere un punto di vista “scientifico” sulla faccenda: due fratelli soldati sposano due sorelle. Il primo accudisce e carezza la moglie, il secondo la batte e la minaccia. Il 115 Il Pecorone, V,2, (E. ESPOSITO, 1974). La straordinaria diffusione del personaggio del savetier può portare a confondere le pièce, il cui titolo è sovente il solo nome del protagonista. In particolare ci riferiamo qui alla farsa detta anche del Savetier, Marguet, Jaquet, Proserpine et l’hote, Rec. LEROUX, t.IV, n°14. La nostra farsa non va confusa con la sua omonima più importante (ATF, t.II, pp.128139), che vedremo poco sotto. 117 «Duoi fratelli soldati prendeno due sorelle per mogli; l'uno accareccia la sua, ed ella fa contra il comandamento del marito; l'altro minaccia la sua, ed ella fa quanto egli le comanda […].» Le piacevoli notti, VIII-2, (G. RUA, 1980, t.I, pp.70-74). 205 116 risultato è che il primo è sottomesso, mentre il secondo riesce ad ottenere tutto ciò che vuole dalla sposa. 2.2.5 – L’autorità come oggetto scenico. La farsa del Cuvier a tre personaggi (Jaquinot, sa femme et la mere de sa femme, fine del XV secolo) è ben più conosciuta: Jaquinot, benché all’inizio della pièce sostenga il contrario facendosi forte di vaghe idee sull’autorità del marito nella famiglia, è in realtà frustrato, picchiato, vessato ed obbligato dalla moglie e dalla suocera ad umilianti prove di sottomissione domestica. La farsa arriva subito a quella che dovrebbe essere la “soluzione finale” alle timide lamentele del già remissivo consorte: il crudele duo femminile obbliga il marito a scrivere una pergamena, «roullet» di regole di vita domestica tutte a vantaggio delle due crudeli arpie. Il protagonista si lascia vessare ed obbedisce alla prepotente dittatura femminile. Accade però un imprevisto: la moglie scivola inavvertitamente in un tino ed ha bisogno del marito per non morire annegata nel mosto. È la rivincita tanto attesa: con freddezza Jeannot (più volte chiamato dalle due «Jehan», con una certa vena “metateatrale” ad alludere al senso dispregiativo che questo nome aveva sulla scena medievale con le conseguenti – invero timide – reazioni dell’uomo) sostiene d’aver solennemente giurato di non compiere altra azione in vita sua, al di là di quelle indicate nel rotolo. Salvando la donna rischia di infrangere la parola data. LA FEMME Mon bon mary, sauvez ma vie. Je suis jà toute esvanouye. Baillez la main ung tantinet. JAQUINOT Cela n’est point à mon rollet ; Car en enfer il descendra.118 Vien da sé, che benché l’uomo si sforzi di cercarlo, nel rotolo non c’è nulla che accenni al salvataggio della moglie. Dopo una serie di trattative, in cui la madre arrogante dispera per l’incipiente morte della figlia, il marito riesce a strappare l’annullamento delle regole contenute nel rotoletto delle leggi 118 ATF, t.I, p.32-49 : p.43. 206 familiari in cambio del salvataggio e mercanteggia anche la supremazia nel focolare, strappando un disperato giuramento alla donna in fin di vita. Non di minore importanza sono le divergenze “economiche” fra uomo e donna. Nella Farce du savetier Calbain (non più tarda del 1500) una donna vuole che il marito la vizi comprandole vesti e prodotti pregiati; questi si prende gioco di lei con canzoni e motti burleschi fin quando sopraggiunge un galland che consiglia alla femme di addormentarlo per mezzo di un narcotico così da rubargli la saccoccia con tutti denari che custodisce gelosamente dalla mire muliebri. Derubato, Calbain infine si risveglia, si accorge del tranello e adirato comincia a gridare: la moglie lo pagherà con la stessa moneta iniziando a rispondergli pure lei per canzonatura, fin quando il marito, seccato, non dovrà implorarla di smettere. Ha, taisez-vous m’amye, paix, paix ! Je cognois bien que c’est ma faulte.119 La conclusione è in favore della donna e risponde ad un’altra legge sempiterna della farse: «tel trompe au loing, qui est trompé». Il poeta ribadisce questa legge naturale della finzione con spericolati giochi di parole, compiacendosi della ripetizione dell’espressione chiave delle farse, benché – come ormai il lettore avrà capito – la tromperie nel teatro medievale francese non sia un gioco d’astuzia paragonabile ai complicati ingegni dei “ladri filosofi” della commedia umanistica. Tompeurs sont de trompés trompez ; Trompant trompettez au trompé L’homme est trompé. Adieu, trompeurs, adieu Messiers, Excusez le trompeur et sa femme.120 I pantaloni e la saccoccia coi denari non sono i soli attributi scenici della dominazione. Nella farsa du Coustourier, du chaussetier et de maistre Antitus (più frequentemente denominata delle Femmes qui coifferènt leurs maris), incontriamo la coiffe, che rappresenta l’opposto delle culottes. Pantaloni e mutande sono di chi comanda: la cuffia è evidentemente il segno degli oppressi, specie in ambito familiare, dove rappresenta la sottomissione femminile. 119 120 ATF, t.II, pp.140-159 : p.156. Ibidem : p.157. 207 Solo che qui i personaggi femminili risarciscono il genere femminile delle sofferenze subite: sono due scansafatiche che passano il tempo fra bettole e festini; i due stolti e frustrati mariti si consolano con la loro idiozia lanciando maledizioni all’aria e vagheggiando progetti di omicidio. COUSTURIER […] Sans cesser elle me veut battre CHAUSSETIER Si fait la mienne comme plastre, Et si me maudit comme un chien […] Qu’el fust noyée en la rivière. COUSTURIER Sainct Jean, il ne m’en chaudroit guère S’ils estoient toutes deux noyées. […] Les vocy venir enragées Je les oy desja bien crier. Le diable les puisse emporter! Estoient elles si près de nous?121 Ma sono chiacchiere e nient’altro, e quando le donne entrano in scena intuiamo che i due mariti sono in realtà del tutto impotenti di fronte alle angherie delle mogli, che d’altra parte li prendono a parole grosse. Sanglant villain, plein de fumée, Nyais, infame, deshonneste, Et si j'ay esté a la feste, Es tu venu pour m’en fascher?122 Anche in questa pièce la comicità corre sul facile binario sessuale: i doppi sensi sono giocati sulla coda, la «queue», bella sporca123 – come sembrano rilevare i mariti – quando le donne ritornano dai loro festini: e dal momento che le donne hanno già saziato i loro appetiti, ai due (che pure vorrebbero, schiavi d’amore) non è permesso di metterci il naso. 121 PICOT – NYROP, pp.97-114 : pp.99-100. Ibidem : p.103. 123 Sul facile parallelo fra la coda ed il sesso maschile – ancora persistente nell’argot francese – richiamiamo il canto carnascialesco italiano del Maestro Fruosino Bonini: « Donne, che per natura delle code | dilettar vi solete, | delle nostre togliete, | ché l’abbiàn belle, pannocchiute e sode. | Non bisogna insegnar né dire a voi | a quel ch’elle son buone, | perché naturalmente più di noi | n’avete cognizione; | benché di più ragione | varie code si trova, | no’ diam le nostre a prove, | che quanto più si toccan, più son sode.» Maestro Fruosino Bonini, Canzona delle code (C. S. SINGLETON, 1940). 208 122 LE COUSTURIER Vous avez esté a la feste Par adventure en quelque lieu Et, s’il vous plaist, cy en ce lieu, Dame, je la descroteray. LA PREMIERE Le sacrement Dieu, non feray; Vous n’y mettrez ja point la main. Laissez cela, fils de putain; Pensez vous ainsi descrotter Ma queue ? Mais quel escuyer ? [...] LA SECONDE Laisse ma queue, par le diable, [...] Et ne la viens point descrotter; Je la feray assez traisner Par tout ou bon me semblera.124 Mastro Antitus è il reputato padroncino del villaggio e prende le parti delle due parassite; e fra l’altro egli sembra intrattenere una relazione intima con le due fedifraghe, che consola e coccola affettuosamente, minacciando dura vendetta contro i mariti violenti. Le donne dal canto loro disperano di non avere la forza fisica per batterli con la giusta violenza; allora il ridicolo amante si va venire un’idea: coiffer i mariti, in modo da sottometterli per l’eternità. LE COUSTURIER Serons nous coiffez toutes fois? Et, par bieu, ce sera grand honte. LA PREMIERE Ne vous chaille, n’en faictes conte; Vous serez mis au rang des femmes. LE COUSTURIER [...] Je ne suis pas bien a mon ayse D’estre ainsi coiffé, sur mon ame; Je ressemble donc a la femme.125 L’espediente della coiffure è un sistema performativo per marcare visivamente la sottomissione del marito e renderlo se possibile ancor più ridicolo, indossando un indumento – la cuffia – tipicamente femminile. Ancora il mondo al contrario: uomini con cuffie da donne e donne (con le code!) che gozzovigliano all’osteria. 124 125 PICOT – NYROP : pp.104-106. Ibidem : pp.111-112. 209 Uno dei maggiori difetti di queste donne farsesche è la testardaggine ed anche in Poggio nella facezia giustamente intitolata De muliere obstinata quae virum pediculosum vocavit, torna il rischio dell’acqua per una moglie che sebbene venga dal marito ricacciata in un pozzo, si ostina a prenderlo a male parole fino ad annegare:126 caratteristico e ben documentato il caso del fabliau intitolato al Pré tondu, dove si consuma la quotidiana testardaggine coniugale: il passaggio di un prete innesca la questione. « Voir, mout est cist prez bien fauchiez. » La fame li a respondu: « N’est pas fauchiez, ainz est tondu. » Et cil en jure saint Jehan Ne fu pas tonduz en un an. Et ele en jure saint Omer Qu’iol fu tonduz et bertodez.127 Il personaggio maschile si adira e va al sodo bastonando la compagna fino allo svenimento: «Là ne pot de mot soner; | Convint c’à ses doiz à montrer | Qu’il est bertodez et tonduz».128 Una diversa forma, insomma, per il tema della futilità delle questioni fra moglie e marito che si vedrà anche più avanti nella “disputa del peto”. Il problema dell’Obstination des femmes dà anche il titolo ad una farsa composta alla fine del XV secolo dove troviamo il caso analogo della moglie del protagonista, Rifflart, che non trova alcun compromesso col punto di vista del marito su quello che potremmo definire un “oggetto linguistico di scena”, una parola che si concreta nell’arredamento scenico, che diventa cioè in sé oggetto della disputa e che rende oggettiva l’espressione idiomatica. La questione è qui una gabbia al quale il marito lavora per potervi intrappolare un «pie», una gazza, animale la cui fama di chiacchierone riflette l’attitudine cialtrona della moglie. RIFFLART […] [la femme] Nuyct et jour n’y faict que hongner. Il me fault aller besongner Pour eviter son hault langaige. Je vueil assouvir ceste caige : Ce cera pour mettre une pie.129 126 Facetiae, LIX: De muliere obstinata quae virum pediculosum vocavit. Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.IV, pp.154-157 : pp.156-157. 128 Ibidem : p.157. 129 ATF, t.I, pp.21-31 : p.21. 127 210 Il comico linguistico si infittisce attraverso l’ulteriore confusione fra «pie» e «pié». In francese medievale abbiamo due espressioni in particolare che utilizzano «pié»: da una parte «mettre à pié» metafora per una “situation facheuse”, dall’altra «estre mis entre piés» per significare “être meprisé”, entrambe le espressioni si adattano al contenuto della farsa ed assecondano il senso metaforico della costruzione della gabbia da parte del marito; siffatta proprietà polisemantica è alla base di ciò che abbiamo appena definito “oggetto linguistico di scena”. In quanto ad invenzioni linguistiche la moglie non è da meno ed il suo programma è intrappolare nella gabbia un gallo in luogo della gazza. Doppia significazione anche qui: l’autore deforma volontariamente la parola per gallo così da trasformare il consueto «coq» in «coqu», ibridazione satirica fra l’animale ed il cornuto, («cocu»): quando la donna furastica dice «ung coqu on y boutera» minaccia dunque il marito di tradirlo e sottolinea la portata della sua affermazione segnalando la metafora: «Entendez-vous bien ?». Il marito non è così sciocco ed ha l’aria di cogliere al volo la frase, ammonendo la moglie a non renderlo ridicolo o “chiacchierato”. Il contesto semantico della chiacchiera si lega ancora una volta al mondo degli animali: «caquet / caquer / caqueter» sono tutte parole che definiscono sia il cicaleccio in senso stretto sia, appunto, i rumeurs del villaggio e la maldicenza. RIFFLART Voyre, Finette, Que jamais on ne me acquette. G’y mettray une pie.130 Il livello del dialogo è basato su questa acutezza interpretativa ed ottiene un effetto salace sottile rispetto alla media delle farse, benché le ire del marito sfocino infine in una volgarità gratuita, al di là di ogni possibile gioco linguistico: anche le reazioni concrete scadono nella comunissima bastonatura, la quale peraltro non sarà sufficiente a far cambiare d’avviso l’ostinazione della donna, che l’avrà vinta. Sono del resto i limiti intrinseci del genere, che per soddisfare il pubblico ed aprire la composizione alle possibilità creative del corpo, mostra i fianchi al rischio di scadimento del testo. La morale della favola riprende ancora il contesto semantico faunistico: «Cela n’est pas à nostre usaige | et ne sert poinct à mon propos. | Femme n’ont jamais bec clos | Et ce n’est pas de maintenant.»131 130 131 Ibidem : p.24. Ibidem : p.30. 211 Anche nella Farce d’un chaulderonnier, del 1530, troviamo l’ostinazione e la testardaggine femminili nel contesto di una improbabile scommessa faceta. La composizione drammatica si apre con la vittoria della moglie contro il bastone del marito: questi allora si lamenta del fatto che la moglie non sappia star serena e che vorrebbe sempre avere la meglio su di lui. La querelle ricomincia in modo differente rispetto alle tipiche reazioni violente farsesche, l’alterco finisce infatti nell’immobilità totale: i due si sfidano a rimanere fermi il più a lungo possibile; il primo che si muove dovrà rinunciare a portare i pantaloni. Così, uno chaulderonnier di passaggio si stupisce del gioco idiota, osserva la disputa dei due amanti e inizia a mettere in ridicolo il marito: prima lo copre con un pentolone, poi lo impiastra di nero e gli mette in mano e dietro al sedere un cucchiaio ed un recipiente dei quali è possibile immaginare l’uso. Per la donna le attenzioni sono ben differenti e quando lo sconosciuto niais esagera il marito finalmente interviene, perdendo, come è ovvio, la tenzone dell’immobilità. L’HOMME Le diable te puist emporter, Truant, paillart […] LA FEMME Nostre Dame, vous avez perdu, Je suis demourée maistresse.132 Alla fine tutto si sistema e finisce in allegria generale; i due sposi se ne vanno a bere alla locanda in compagnia dello chaulderonnier. Il senso comico della pièce doveva risiedere soprattutto nelle attività mimiche dei protagonisti ed in particolare dell’interprete dello chaulderonnier, che agiva nel tempo dell’immobilità della coppia. Possiamo immaginare la varietà delle declinazioni comiche che si potevano ricavare da questa situazione di base: ed infatti il testo da solo ebbe un discreto successo e può essere confrontato con un racconto delle Piacevoli notti.133 Si tratta della storiella di tre pigri ribaldi, che trovando una gemma, devono dare prova della maggiore poltroneria per possederla. Una di queste tenzoni è simile alla trama della nostra farsa: Sennuccio sposa Bedovina, standosi in casa, i due cominciano a battersi su chi debba chiudere l’uscio. Nessuno cede alle pretese dell’altro e così la porta rimane aperta: nottetempo un farabutto entra in casa, cerca di parlare con Sennuccio che stoltamente persevera nella sua prova del silenzio, così lo sconosciuto entra nella camera e giace con 132 133 Ibidem, t.II, pp.105-114 : p.112-113. Le piacevoli notti, VIII-1, (G. RUA, 1980, t.II, pp.63-69). 212 la moglie sotto lo sguardo del silente marito. Al mattino Bedovina accusa Sennuccio di dappocaggine e quello le ingiunge di chiudere la porta, avendo lei perduto il gioco del silenzio. In generale, il matrimonio ha una riuscita infelice ed i coniugi vorrebbero sempre cambiare le abitudini ed i comportamenti incompatibili della loro “anima gemella”. La scuola delle mogli è spesso una scuola anche per mariti e a volte per raggiungere il loro scopo le coppie sono disposte a ricorrere anche a magiche invenzioni. La più comune è la fontana dell’eterna giovinezza, ma ci sono anche altri e più fantasiosi sortilegi: il punto di maggiore differenza, però, rispetto alla cialtroneria che si trova nella commedia regolare è che il trucco magico in farsa è un ulteriore appiglio per lo sfoggio del comico (o degli “oggetti”) verbali. Il caso tipico in questo senso è la celeberrima farsa de les Femmes qui font refondre leurs maris:134 il marito di Jeannette fa bene ad offrirle tutte le cose che desidera ma la moglie non nasconde, ed anzi pubblicizza, la sua insoddisfazione sessuale, dovuta – ancora una mal mariée – alla differenza di età. Anche nella seconda coppia in farsa Pernette ha molto da ridire sul conto del marito Collart e le sue proteste hanno a che vedere di nuovo con la vecchiaia e lo stato di salute del coniuge non più baldanzoso come un tempo. PERNETTE Le diable ayt part en la manière. Tousjours il ne faict que grongner ; Tousjours ne cesse de tousser, Cracher, niphler, souffler, ronfler. Belle despesche soit du vieillard ! COLLART Dea, m’amye, Dieu y ayt part. Vous vous courroucez, ce me semble ; Dieu nous a-il pas mis ensemble Par juste e loyal mariage ? Et, se je ne sus qu’un folastre Et vous en la fleure de jeunesse, Me debvez-vous montrer rudesse Et reproucher mes accidens ? Quant vous veinstes icy dedans Je n’euz de vous, pour tout potaige, Que vingt livres en mariage ; J’en eusse trouvé largement Qui en eussent plus eu de [dix] cent. On doibt trestout considerer ; On n’en peult fors que mieulx valloir.135 134 135 ATF, t.I, pp.63-93. Sulla datazione di questa farsa ci sono forti incertezze. Ibidem : p.68. 213 Segue un ulteriore attacco alla prestanza fisica da cui Collart non può difendersi, soprattutto perché, come sintetizza bene il suo altrettanto sfortunato e vecchio amico «[…] qui ne peult, ne peult […] | Celluy mestier n’est pas science».136 Ecco allora sopraggiungere il fonditore, cerretano che si millanta esperto di una prodigiosa tecnica di “rifusione” degli uomini: disciplina magica capace di riportare la giovinezza perduta (così come si fa con le pentole) a uomini e donne, con la possibilità “opzionale” di cambiarne le tendenze e le abitudini. Una vera cuccagna per le coppie insoddisfatte. Il cialtrone una volta tanto sembra onesto e sconsiglia alle donne di rifondere i mariti, che, in fondo, non sono poi tanto male: teneri e pazienti con loro benché non prestanti da un punto di vista sessuale, essi hanno tutte le carte in regola per la conduzione serena d’una famiglia. C’è poi lo strano rischio della moltiplicazione degli uomini. LE FONDEUR Et s’il y avoit faute de matières, En les fondant d’un cueur joyeulx Que pour ung homme en viennent deux Quant l’ouvraige dehors sera, Que dictes-vous ? PERNETTE Tant mieulx vauldra ; Mais qu’ilz soyent bons laboureurs. L’un sera pour les jours ouvriers, Et l’aultre pour les bonnes festes.137 Pernette e Collart non vogliono sentire ragioni ed ecco in qualche istante i poveri mariti (dal canto loro felici di riprendere le redini della perduta giovinezza) finire in un istante all’interno del pentolone che dovrà rifarli per nuovi. La fusione inizia e saranno ri-forgiati di tutto punto e riportati a nuova vita. Escono dall’operazione artigiana ben ringiovaniti, è vero, ma il loro carattere è mutato: la gentilezza senile ha lasciato il posto all’ardor di gioventù e le loro donne dovranno pentirsi dei due mostri appena creati, che – usciti dal calderone – imporranno loro il polso forte e l’intransigenza dell’età giovanile come contropartita a nuove, folli, notti d’amore. La mercatura dell’amore e l’intervento dei cerretani nei rapporti coniugali è frequente e prevede talvolta il baratto: è il tema della farsa del Troqueur,138 dove tre comari vogliono cambiare il marito 136 Ibidem : p.66. Ibidem : p.82. 138 Rec. LEROUX, t.III, n°19. 137 214 per uno nuovo, ma mandano su tutte le furie l’improbabile venditore di mariti, incapace di trovare per le loro difficilissime esigenze un buonuomo capace di sopportare i soprusi e ben prestante nelle fatiche dell’amore. Per la Farce des femmes salées139 – assai tarda, del 1575, pertanto ampiamente fuori dal nostro segmento cronologico, ma qui riportata per testimoniare della lunghissima persistenza nel teatro francese del genere farsesco – la magia è in realtà un inganno bello e buono ed il fonditore (o venditore) di uomini è stavolta un furfante patentato, che organizza il suo trucco per gli stolti sugli utilizzi traslati della parola «douceur». Il comico verbale è di nuovo il nodo di articolazione della pièce: due mariti si lamentano dell’esagerata dolcezza delle mogli e si rivolgono ad un tale «Maistre Macé, lequel est | Grand philosophe» donandogli il difficile compito di salare le due compagne. Come per le mogli che vogliono rifondere i loro mariti anche qui i coniugi insoddisfatti non valutano bene gli effetti reali del cambiamento: il ciarlatano, una volta al cospetto delle due donne, le sala a modo suo invitandole a vendicarsi delle canagliate manesche perpetrate dai mariti ai loro danni. In breve tempo le donne da dolci diventano acide più che salate e quando i due mariti decideranno che tutto sommato la dolcezza era meglio della salinità si sentiranno rispondere francamente dal mago: «Les douces je sçai bien saller, | Mais touchant de dessaller point». A volte le ragioni dei litigi sono del tutto occasionali e puntano a far ridere in sé, senza una vera idea di intrigo alla base. È il caso di oggetti immateriali come i peti e delle puzze del corpo di cui la Farce du pect, del 1476, invita i coniugi a fare equa divisione. Nel testo Hubert chiama insistentemente la moglie per mettere in tavola la cena. I due cominciano così a sgombrare la sala da pranzo; sollevando una catasta di stoffe la donna emette un sonoro peto. HUBERT Sus donc ! O que ay-je ouy sonner ? LA FEMME Je ne sçay. Peult-estre De vous baisser une esguillette Est rompue, ou quelque lasset. HUBERT Par le sang de bien, c’est ung pet. Je ne scay dont il peut venir. LA FEMME Vous me feriez bien deviner Qui l’a faict. HUBERT 139 O Farce des hommes qui font saler leurs femmes, HTF, t.III, pp.305-316. 215 Vous.140 La donna nega insomma che la puzza sia sua e ne nasce così tutta una questione ridicola, tanto che Hubert, pedantissimo e rigido nelle sue convinzioni, la trascina dal procuratore rinunciando pure al pasto. In colloquio privato con l’uomo di legge la moglie ammette la sua colpa, ma – replica il procuratore – sebbene il peto sia uscito dal suo deretano la responsabilità è evidentemente anche del marito, che le impose lo sforzo che fu causa delle venefiche esalazioni. Il procuratore ammette così il caso in tribunale: gli argomenti volgari e giocosi si susseguono. Hubert sostiene fermamente che la moglie deve ripagarlo in qualche modo dello spavento per lo scoppio improvviso e della violazione del suo legittimo diritto a respirare aria pura in casa sua. L’acme della “vicenda giudiziaria” è il vigore aristotelico dell’inchiesta giuridica. LE JUGE […] N’espousaste-vous ceste cy Et prise alors tout[e] pour femme ? HUBERT […] Je ne l’espousay, ne pris lors En mariage que son corps ; Mais d’espouser son cul, arriere ! LE JUGE Et s’elle eust esté sans derriere L’eussiez-vous prinse ? […] LA FEMME Monsieur, je vous prouveray Que, si tost que fuz espousée, Toute la première journée Que avecques luy je fus couchée, Ou toute vive on me despièce, Mon cul fut la première pièce Par ou il me print, somme toute.141 La sentenza del giudice ci informa sulla fascia sociale destinataria della composizione drammatica: la famiglia protoborghese dell’artigiano e del libero commerciante, abituati a risolvere le questioni private dal notaio e dal procuratore e che avevano un’idea di convivenza non dissimile da quella d’impresa e bottega. Del resto fra gli argomenti contro la moglie il protagonista Hubert non esita a mettere in campo la questione della proprietà della casa. 140 141 ATF, t.I, pp.94-110 : p.95. Ibidem : pp.106-107. 216 La questione della flatulenza è collegata ad espressioni idiomatiche, per cui al peto corrisponde una questione di poco conto. Ma nella logica schiacciante del linguaggio farsesco alcun elemento viene mai addotto all’interpretazione traslata e tutto si risolve in una questione di significato letterale: è importante tenere a mente questo dettaglio quando analizzeremo la pièce italiana a questa omologa: Peron e Cheirina che littigoreno per un peto, di Giovan Giorgio Alione. 2.2.6 – Galanti, astuzie e parti prematuri. A causa di certi individui come il Jeahn de Lagny142 dell’omonima farsa del 1520, uno dei problemi più comuni per il novello sposo è scoprire che la moglie è tutt’altro che vergine di spirito e di corpo; il nostro Jehan ha deflorato tre donne e pur di non assumersene la responsabilità è scomparso dalla città. La rappresentazione si apre con le tre amanti che si riuniscono e decidono di consultare un qualche prete letterato per avere consiglio su come trovare il farabutto e processarlo. L’omonimia è al centro dell’incidente della pièce: l’uomo che si improvvisa procuratore delle tre tradite si chiama anche lui Mesire Jehan. Al momento della stesura dei capi di accusa le donne insisteranno tutte sull’appellativo Viriliquin per intendere fedifrago, nome giocoso del demonio o appellativo burlesco per crudele, malizioso (ed ibridazione di «virilique», virile, con «coquin / hallequin / helequin»). Abbiamo così i capi di accusa rivolti contro un certo Jeahn Viriliquin, come a dire contro un Jehan birichino qualsiasi e quando finalmente Jehan de Lagny sopraggiunge sulla scena, con abile dialettica, di fronte al giudice convocato per il processo, prima accusa il procuratore di essere il ruffiano delle tre donne, poi – vedendo che la sua strategia è poco credibile – comincia a chiamare il procuratore con il medesimo appellativo di Viriliquin, così che ogni testimonianza delle donne contro Jehan de Lagny finisce sulla testa del procuratore. Inutile dire che la sentenza finale del giudice condannerà l’innocente avvocato difensore. La pièce è piuttosto scorrevole benché lo sviluppo sia compromesso dai molteplici passi oscuri. Quello che più risalta, però, è una certa graffiante critica al moralismo ed al pregiudizio, in uno spirito tutto epicureo che non biasima ed anzi invita quasi ad emulare Jehan il farabutto. Il traditore – che ha portato con l’inganno le tre donne sulla strada della lussuria – viene messo sotto una luce positiva: abbiamo la sensazione che sia sinceramente innamorato delle tre e che il personaggio 142 Rec. LEROUX, t.II, n°8. 217 negativo sia piuttosto il procuratore, moralista intransigente. Lo spirito epicureo del protagonista introduce il luogo letterario del vecchio invidioso del giovane, ma si riallaccia ancora allo spirito spensierato dei canti carnascialeschi, in cui sempre vale la pena approfittare del presente perché «di doman non c’è certezza». La Mère, la fille, le tesmoing, l’amoureulx et l’official, di assai incerta datazione, è una farsa processuale a sfondo amoroso, dove il bel Colin deve rendere conto delle accuse della madre e della figlia per aver consumato una notte d’amore con la giovane promettendo le nozze e dandosi alla macchia. Le due donne mostrano in scena la lettera del procuratore che convoca Colin al processo; arriva così il giudice che chiede la testimonianza della ragazza e poi dello stesso Colin: la prima dice di aver subìto l’abuso mezza addormentata, il secondo nega addirittura di conoscere le due accusatrici. Ci penserà un testimone anziano e strampalato a mettere chiarezza nell’intricata situazione, deponendo in favore della ragazza e raccontando di come durante il rapporto la donna chiedesse che Colin «l’espousasse en l’eglise du village» e come questi ripetesse «‘huy, huy, fromage,’» approfittando della confusione fonetica village / fromage e «contrefaisant la basse voix». Il testimone è un tipico scemo insidioso, malin fra lo stolto e l’astuto, che nella sua confusa testimonianza trova il tempo di riferire particolari scabrosi sul manifesto piacere della giovane durante la congiunzione carnale. Car elle avoyt la iambe haulte L’une sur l’autre fermement ; Qui n’estoyt grand esbatement Au pauvre Colin […] La chalis faisoyt tic & taq, Cric, crac, cric, crac, c’estoyt merveille143 La farsa è imperfetta e fortemente sbilanciata sulla lunga deposizione senza senso, che in apparenza non avrebbe altra finalità se non quella di moraleggiare sul tema eterno del passato felice e della Cuccagna di gioventù che svanisce col passar del tempo. La scena giudiziaria rimane comunque una delle più riuscite del suo genere dal punto di vista comico ed è molto simile a quella che costituisce l’ossatura della venticinquesima delle Cent nouvelles nouvelles,144 ove è sempre questione di un confronto legale, con tanto di dichiarazione dell’uomo al giudice in separata sede. Il processo, come per la farsa, porterà la giuria ad apprendere che il supposto 143 144 Ibidem, t.I, n°22 : pp.19-20. les Cent nouvelles nouvelles, XXV, (Forcée de gré, T. WRIGHT, 1857-58, t.I, pp.134-136). 218 stupro è stato tutt’altro che violenza, e che la giovinetta ha aiutato il giovane a consumare il rapporto. A differenza della farsa non abbiamo un testimone e le scuse addotte dalla ragazza ricordano l’associazione, d’altra parte ovvia, fra sesso maschile ed arma, che abbiamo visto poco sopra per la novella de l'official juge, nella medesima raccolta, ove pure l’inelegante parallelo è associato al tema giudiziario. Sempre in tema di arringhe surreali, citiamo il Sermon joyeulx d’ung fiancé qui emprunte un pain sur la fournée, à rabattre sur le temps advenir, composizione rouennese ove in un inizio parodico il predicatore, in luogo di esaltare le virtù della donna cui è dedicata l’orazione, la umilia. Il me souvient bien quand ma mère Disoit qu’elle estoit prude femme, Mais qu’il en soit, par Nostre-Dame Je n’oseroy de rien jurer.145 Il nucleo della storia è il seguente: un giovane ha approfittato d’una giovinetta, la madre della ragazza apprende la notizia, si adira, rifiuta le nozze. Allora la giovane amorosa dispera e va parlare con il suo amante bestiale il quale ha pronta la soluzione erotica ad ogni problema: «L’autre jour vous fustes dessubz | A present je seray dessoubz». Ed ecco risolto senza troppi complimenti l’intoppo nel ménage. Più tardi il ragazzotto troverà moglie e nella prima notte di nozze, dopo aver esercitato le prerogative di marito, eccolo raccontare divertito la storiella di sesso alla novella consorte, che non si scompone e prende in giro la ragazza, asserendo: «Aussi nostre gentil varlet | Si me l’a fait plus de cent fois». C’è qui il ricordo dei racconti salaci di Poggio Bracciolini e Giovanni Sabadino degli Arienti: alludiamo in particolare a quello di Messere Ludovico Araldo,146 nelle Porretane praticamente identico al sermone, come si evince già dalla sinossi che lo introduce «Miser Ludovico, araldo della communità de Bologna, va dalla sua sposa e cum lei prende piacere. La matre de epsa il sente e turbasse, e disfasse la parentella: e lui, alegro de quello ha facto, ne prende un’altra e poi se trova vituperato». La donna che non mantiene la castità finisce spesso col pesare sulle spalle d’un marito bestia (spesso preso nel mazzo), con tanto di infante a carico. Per riuscire ad unirsi in matrimonio una volta la verginità violata e la pancia ingrossata è spesso soltanto questione di dialettica: nella Farce de Jolyet, 145 146 Nel Rép. JULLEVILLE, sotto il titolo di “un fiancé”: APF, t.III, pp.5-8 : p.6. Novelle Porretane, XXX, (G. GAMBARIN, 1914 : pp.177-182). 219 non posteriore al 1520, il protagonista che dà il titolo alla pièce ha sposato la moglie da appena quindici giorni e questa gli dichiara non solo di essere già incita di lui, ma di prevedere il parto entro un mese. Professandosi assolutamente fedele, la moglie convince il marito delle sue straordinarie doti di fertilità, facendo buon gioco alla vanagloria virile. Invece di porsi il problema dell’adulterio o di un ben più realistico rapporto prematrimoniale, l’uomo prende a ragionare sulle conseguenza di questa sua prodigiosa natura procreatrice. JOLYET Et comment ? Je suis affollé Qu’en ung moys j’ay feict ung enfant, Et les aultres y mettent tant. Suis-je bien aussi habile homme ? […] LA FEMME Dea, oyez-vous, j’en ay faict ma part. JOLYET Vostre part ! Voicy merveilles. Aura il pieds, mains et oreilles, Cul derrière, panse devant, Comme ceulx où on met tant ?147 Agli occhi del pubblico è ben evidente quale sia la parte giocata dalla moglie per avere un figlio in così breve tempo; ma il marito è davvero bestia fino all’osso e dopo la prima esaltazione per le sue non comuni doti virili inizia a snocciolare una contabilità ridicola sulle conseguenze nefaste di questa unione oltremodo fertile. JOLYET […] En feroys-je bien toutesfoys, Mesouen un en chascun moys, Puisque si subtille vous estes ? Je seroy bien à mes unettes. O attendez : un, deux, troys ; S’en seroit, à ce que je croys, Trois en trois moys, chascun an douze. Et la forte fievre m’espouse Si seray deux foys maryé ; Si j’en fais rien ; c’est bien chié ! Ce serait au but de six ans Tout droit LX douze enfans. Et le gibet seroit fournir 147 ATF, t.I, pp.50-62 : p.54. 220 A les élever et nourrir.148 In preda a tale preoccupazione di natura economica e dimenticando anche la recondita possibilità che la sua sia una comune storia di adulterio, il nostro niais si incammina con la moglie dal suocero: la sorprendente fecondità della donna non era prevista nel contratto di nozze e la ridicola dote portata non sarà sufficiente a risarcirlo del danno subìto. La descrizione di questa dote avviene sul registro dell’accumulazione ridicola; l’esagerazione è tesa ad enunciare l’endemica micragna della coppia povera, bestia ed ignorante, oltre che disonesta. JOLYET […] Ie n’eu d’elle en mariage Que six vingz soulbz en une bource, Ung rebequet et une loure, Ung bassin, ung pot, une poille, Et comment esse qu’on appelle Un auge à paistrir Dieu devant ; Tou cela valoit pas autant Comme beguins pourroient couster.149 Il suocero esita e con la sua naturalissima reazione di uomo con un minimo di intelligenza (o d’esperienza) rischia di mandare all’aria il sermone convincente della figlia. Ma alla fine capisce a che gioco la donna sta giocando e l’asseconda, promettendo all’uomo di caricarsi delle spese che comporterà una prole in così rapida crescita. Sempre che tutti gli altri figli della coppia nascano con lo stesso ritmo del primo, naturalmente. Nous ferons cest apointement, Mon filz Jolyet, par ainsi Que vous nourirez cestuy-cy. Mais s’elle en a ne deux ne troys Plus que (de) dix moys en dix moys … Je me submetz à mes despens Les nourrir et (en) prens la charge.150 Lo stolto non si fida della parola del padre e pretende un contratto scritto: il che equivale a mettere nero su bianco la propria stessa imbecillità. Ben contento di partire con sua moglie e la preziosa carta 148 Ibidem : p.56. Ibidem : p.59. 150 Ibidem : p.61. 149 221 notarile non riesce a trattenere l’ultimo attacco di idiozia quando, tronfio addirittura, riceve i complimenti della fedifraga per l’idea dell’accordo firmato in «parchemin».151 Nella XXIX delle Cent nouvelles nouvelles,152 si ripete ancora una storiella di questo tipo, ma ad effetto sorpresa. Accade infatti che proprio durante il banchetto di nozze il marito voglia consumare carnalmente l’unione. Ed è in una stanzetta che la donna si concede e subito dopo partorisce. L’uomo cerca di nascondere l’accaduto, se ne sta tutto torvo con gli altri convitati, fino a quanto alle ripetute richieste di parlare, fa apprendere la causa della sua preoccupazione: «Et par la mort bieu, se j’estoie aussi riche que le roy, que monseigneur, et que tous les princes chrestians, si ne daroys-je fournir ce que m’est apparent d’avoir à entretenir: véezcy pour un pouvre coup que j’ay accollée ma femme elle m’a fait ung enfant.»153 Nel mondo dei matti, però, nessuno lo avverte del malinteso, così l’uomo lascia la novella sposa, ancora timoroso della fertilità “conigliesca” della donna. Il tradimento femminile a volte si giustifica nelle fisime dei mariti: alcune donne si vendicano ragionevolmente dei digiuni sessuali cui essi le sottopongono con prepotenza. È il caso della Farce nouvelle des chambrières,154 risalente al 1530, dove i doveri coniugali possono essere anche regolati da cicli astrali e planetari, luna calante e crescente. Ed ecco la comparsa di simile situazione in Boccaccio, che sviluppa il tema nel Decameron (II, 10) dove è questione di un giudice «più che di corporal forza dotato d’ingegno» che obbliga la sua donna ad astenersi dal fare all’amore durante per le feste comandate (e non). Or questo messer lo giudice [...] incominciò ad insegnar a costei un calendaro buono da fanciulli che stanno a leggere [...]; per ciò che, secondo che egli mostrava, niun dì era che non solamente una festa, ma molte non fossero; a reverenza delle quali per diverse cagioni mostrava, l'uomo e la donna doversi astenere da così fatti congiugnimenti, sopra questi aggiugnendo digiuni e quattro tempora e vigilie d'apostoli e di milla altri santi e venerdì e sabati, e la domenica del Signore, e la quaresima tutta, e certi punti della luna ed altre eccezion molte, avvisandosi forse che così feria far si convenisse con le donne nel letto come egli faceva talvolta piatendo alle civili. E questa maniera, non senza grave malinconia della donna, a cui forse una volta ne toccava il mese, ed appena [...].155 Il seguito è rocambolesco e vede la donna rapita da una nave di corsari in cui la bella giovane trova il conforto sperato nel rude Paganino che a nessuna festa obbedisce se non ai suoi istinti elementari. La donna si adatta facilmente alla nuova vita col corsaro; il marito riesce a scoprire come raggiungerla e 151 Sul parto anzitempo abbiamo parlato nella prima parte della Confabulatio CXXII di Poggio, sullo stesso tema. les Cent nouvelles nouvelles, XXIX, (la Vache et le veau, T. WRIGHT, 1857-58, t.I, pp.173-177). 153 Ibidem : p.176. 154 Rép. COHEN, n°LI, pp.413-420. 155 Decameron, II, 10 : 8-10. 152 222 – fattosi amico di Paganino – chiede di poterla portare con sé. Ma l’antica moglie non ha alcuna intenzione di tornare a casa e per esprimere la sua riprovazione nei confronti del giudice usa la stessa metafora – lavorare la vigna – della moglie di Raoullet Ployart, che abbiamo visto poco sopra nella farsa di Gringore. E se egli v’era più a grado lo studio delle leggi che la moglie, voi non dovevate pigliarla, benché a me non parve mai che voi giudice foste, anzi mi paravate un banditore di sagre e di feste, sì ben le sapavate e le digiune e le vigilie. E dicovi che, se voi aveste tante feste fatte fare a’ lavoratori che le vostre possession lavorano, quante faciavate fare a colui che il mio piccol campicello aveva a lavorare, voi non avreste mai ricolto granel di grano.156 In questo caso le donne sono giustificate al tradimento, autorizzate dalla idiozia e dalla scarsa prestanza dei mariti. La Farce du poulier (quella fra le due “a quattro personaggi”, risalente forse al 1500) si riallaccia al luogo letterario della capitolazione del marito di fronte all’astuzia muliebre, in un misto di stanchezza, remissività, sottomissione. Spesso – sembrano dirci questi uomini frustrati – è meglio non farsi troppi “soulcy” di gelosia per vivere in pace e più tranquilli. La pièce ci espone la storia di un marito che dubita della fedeltà della donna perché casa sua è nottetempo assediata da amorosi e galanti scostumati che cantano serenate e si compiacciono a risvegliarlo. Il ne cessent toutes les nuictz : L’un viendra heurter a mon huys, Puys l’autre mes fenestres rue ; L’un sifle ou chante amy la rue : C’est pitye, ie n’ay nul repos. Encore sy i’en tiens propos A ma femme, elle me veult batre. Quoy ! faict elle, laise les esbastre ; Se sont jeunes gens, quel raison !157 Il marito conclude la lamentazione minacciando botte da orbi a chiunque insidi ancora la moglie. Mais s’il advient c’un ie rencontre, Ie luy bailleray mal encontre, Me deust il couster cent escus.158 156 Ibidem : 32. Rec. LEROUX, t.III, n°44 : p.4). 158 Ibidem : pp.4-5. 157 223 Ma ci accorgiamo quasi subito della sua codardia: la moglie non fa che imporgli il suo volere e vessarlo notte e dì e a nulla servono le sue minacce. Con queste premesse viene introdotto l’espediente narrativo. La donna lo obbliga ad andare a comprare un maiale alla fiera; l’uomo esce per la commissione e l’amante viene introdotto in casa. Ma il cornuto torna indietro alla ricerca del cappello: nella casa allora si produce il primo moto di terrore e l’amante viene nascosto sotto ad un lenzuolo nel bel mezzo della sala da pranzo. Il padron di casa entra e si domanda giustamente che cosa si celi sotto alla coperta. LE MARY […] Que faict sy ceste couverture ? LA FEMME Laisses la, sote creature ; Ales ou vous deues aller. LE MARY […] Ie le veulx remectre en son lieu. […] Ie cognoistray vos verites, A ce coups sy.159 Forse l’uomo ha paura di guardare in faccia alla realtà, fatto sta che la moglie lo convince a partire riuscendo a non farlo curiosare sotto la misteriosa coperta. L’amante esce di nuovo allo scoperto e si risolve con la donna di pranzare alle spalle del buonuomo. Ma di nuovo il marito ritorna in casa per recuperare una corda con la quale legare i maiali; la donna lo invita a rimanere sull’uscio nascondendo il galante nel pollaio ed il marito si indigna e comincia a sospettare ancora più seriamente del tradimento. È qui che abbiamo una ulteriore conferma della sua codardia: nonostante le minacce proferite all’inizio della pièce egli è terrorizzato di trovare in casa sua un amante violento che lo possa «enpongner au visage». L’uomo scoppia così in una crisi di pianto e non fa che ripetere «Iamais, iamais, iamais», destando anche l’attenzione della vicina che accorre preoccupata. Infine nel suo delirio, il mari cocu indica il pollaio dov’è l’amante: questi esce allo scoperto e la donna ne giustifica la presenza in casa raccontando una storia rocambolesca di inseguimenti e salvataggi. Deulx gros ribauldx, ses ennemis, Le cachoyent a grans coup d’espee, La teste luy eusent coupee Sy ne l’eust gaigne en courir. Et pour le povre secourir 159 Ibidem : p.12. 224 Ie l’ay faict entrer en ce lieu.160 Non ci è dato sapere se effettivamente lo stolto marito creda o no alla favola, fatto sta che come al solito per evitare ogni discussione e pena lo vediamo non solo accogliere la presenza dell’amoroso nella casa, ma anche regalare tutti i suoi beni ai parenti serpenti che lo circondano (scopriamo che lo stesso amante altri non è che suo cugino e che pure la vicina di casa sembra assai bene informata delle vicende del tradimento): «Tous mes biens sont vostre | […] Pour Dieu, laisons tous ces debas».161 La storia si chiude con questi versi ove la “morale” riserva spazi di ambiguità alla stoltezza del marito. Il n’y a homme, tant soyt fin, Et tant est la teste fine, Que fine femme enfin n’afine. Et pour oster nostre meranclye, Une chanson, je vous en prye.162 La decima facezia di Poggio somiglia vagamente a questa trama: vi si narra parimenti di un adulterio ma ad essere rinchiuso nel pollaio è piuttosto il marito che – convinto dalla moglie d’essere inseguito dai suoi vari creditori – lascia che la consorte giaccia con l’amante mentre lui è nascosto nella colombaia.163 E sempre in un contesto adulterino ecco ricomparire la cesta per polli nella novella boccaccesca di Pietro Vinciolo (Decameron, V, 10). Corrispondenze vaghe con un altro luogo del Decameron (VII, 6) sono nella scusa che la moglie in farsa adduce al suo compagno una volta rivelata la presenza dell’amante: sembra infatti che ella racconti uno stralcio dell’inseguimento inventato da Isabella per giustificare al marito la presenza di Leonetto e Lambertuccio in casa sua. E ancora è analoga nelle facezie poggesche la storia CCLXVI dove un marito mette pace fra i due amanti della moglie, fatti passare per due sconosciuti salvati da una tragica rissa. Ha ragione insomma Pietro Toldo164 a sostenere che vista la diffusione della traccia narrativa dell’amante a vario titolo nascosto e poi accettato dal marito il modello si liquefa e dissolve nell’oceano della tradizione narrativa orale. 160 Ibidem : p.19. Ibidem : p.22. 162 Ibidem : p.23. 163 Facetiae, X : De muliere quae virum defraudavit. 164 P. TOLDO, 1903. 161 225 Se la donna è crudele con il marito, spesso è del tutto affabile e quasi sottomessa alle volontà (voluttà) dell’amante e gli incontri clandestini sono irrorati da vino abbondante e accompagnati con grasse pietanze quasi sempre finanziate dal cocu. Agi e lussi della casa vengono sfruttati al meglio dagli amanti ed è fin troppo ovvio che il marito giunge a guastare la festa sempre nel bel mezzo d’un bagno rilassante o del banchetto. Fra i tanti casi prendiamo la canzone che si legge nel fabliau del Clerc qui fut repus derriere l’escrin: «Un jour en sa chambre aveuc li | Avoit ung clerc cointe et joli : | Si mangoient et si buvoient, | Car viande et vin tant avoient | Com il lor vont à volenté » ;165 o il plot del Vilain de Bailleul166 dove la donna per ricevere il cappellano «Bien avoit fet son appareil. | Ja ert li vins ens ou bareil, | Et si avoit le chapon cuit | Et li gastiaus, si com je cuit, | Estoit couvers d’une touaille». E per chiudere il trittico, il Prestre qui fu mis au lardier,167 che viene colto in flagrante mentre gode di un bagno caldo dopo uno squisito banchetto alla faccia del cornuto. E veniamo alla farsa di Colin qui loue et despite Dieu en ung moment, à cause de sa femme, composta nel 1525 e reimpressa numerose volte nel corso del secolo: Colin è ozioso e faceto, ed il pane in casa non è mai una certezza. La sua donna cerca di impadronirsi del denaro, ma il marito reagisce e si paragona ad un pastore della Astrée, in cerca di fortuna altrove. COLIN (s’en va) Je m’en voys autre part ouyr L’oysellet par champs et par bois, Ronger ma croustre atout de poys Et besoigner de mon mestier ; Quoy qu’en aviengne à contre poys Je m’en passe de ce quartier (il s’en va et la femme dit à part soy) Et ne viendra point ce gaultier ? Faut-il encor que j’y retourne ? Si n’est-il pas vers le moustier, Où qu’il se demeure et sejourne. Hau, Colin ! COLIN (en s’en allant) Tu dis vray, j’y tourne ; Vous ne me crocherez de pièce168 Sono tutte intenzioni, tali rimangono e la moglie dispera: 165 Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.IV, pp.47-52 : p.48. Ibidem, t.IV, pp.212-214. 167 Ibidem, t.II, pp.24-30. 168 ATF, t.I, pp.224-249 : p.232. 166 226 Hélas ! que seray-je, meschante De dueil et desplaisir meurtrie ! Plourer faut et que plus ne chante, Puisque j’ai perdu ma partie.169 A questo punto come era prevedibile vediamo sopraggiungere il rimpiazzo; un giovane e ricco uomo che le propone soldi in cambio di carezze ed attenzioni sessuali: il rifiuto categorico opposto all’inizio diventa via via più debole. I soldi, si sa, fanno gola, specie nella situazione disastrata della famiglia di Colin: virtù tentata dal denaro, certo, ma anche dalla voglia di godere della propria giovinezza. Prise suis d’estoc e de taille ; S’on le scet, je seray infame (elle regarde son argent) J’ay pour avoir meuble et vitaille. Il n’est celle qu’avoir n’effame.170 Colin ritorna dal suo viaggio ben più debosciato di prima e trova casa sua piena dei ricchi regali del galante: sebbene la sua donna non lo accolga nel migliore dei modi si compiace dell’inaspettata ricchezza e degli agi che secondo la moglie proverrebbero direttamente dalla grazia di Dio. COLIN […] (Il regarde le mesnage et dit) Dont est venu tant de merrien Et de mesnage que j’ay veu ? LA FEMME Colin, de la grace de Dieu. COLIN E ce beau lict, ciel et cortines, Simaises, potz, casses, bassines, Dont vous est venu cest aveu ? LA FEMME Colin, de la grace de Dieu. COLIN Bancz treteaux, tables, escabelles, E tant d’ustensiles si belles, Dont l’a-vous gaigné, n’à quel jeu ? LA FEMME Colin, de la grace de Dieu.171 169 Ibidem : p.233. Ibidem : p.241. 171 Ibidem : p.245. 170 227 Al che Colin cade in ginocchio ringraziando il padreterno: quando però un bambino spunta da dietro le gambe della madre il sot mari si lamenta del fatto che tanta grazia divina è veramente esagerata. COLIN […] (il regarde à ung petit enfant emprès d’elle, et dit) Et puis à qui est cet enfant ? LA FEMME Il est à moy. COLIN Vray filz charnel ? Après la brebis vient l’aignel. Mais de qui l’avez-vous conceu ? LA FEMME Colin, de la grace de Dieu. COLIN Je ne luy en sçay gré ne grace, De s’estre de tant avancé. […] Car il m’a offencé De soy mesler de tant de choses A luy je n’ay pas tant pensé.172 Nella prima facezia di Poggio – Fabula prima cuiusdam Caietani pauperis naucleri, dedicata al “povero nocchiero di Gaeta” – troviamo più o meno lo stesso canovaccio (sono le ragioni del viaggio del protagonista che cambiano) che, va specificato, per la complessità dell’azione e la coerenza della narrazione è una vera eccezione al caos stilistico e contenutistico della farsa di Colin. Ingressus, cum eam maiori ex parte instauratam in meliusque auctam vidisset, admiratus, uxorem quaesivit quomodo domuncula, antea informis, esset perpolita. Respondit statim mulier sibi in ea re eius, qui omnibus fert opem, Dei gratiam affuisse: “Benedicatur” inquit “Deus, pro tanto hoc beneficio erga nos suo!”. […] Eodem modo et aliis quibusdam quae nova domi et insueta videbantur conspectis, cum largioris Dei munificentiam affuisse diceret, virque ipse tam profusam erga se Dei gratiam admiraretur, supervenit scitulus puer triennio maior, blandiens (ut mos est puerorum) matri. Conspicanti hunc marito sciscitantique quisnam puer esset, suum etiam uxor respondit. Stupenti quaerentique viro, unde se absente puer provenisset, Dei quoque in eo acquirendo sibi astitisse gratiam mulier affirmavit. Tunc vir indignatus divinam gratiam etiam in procreandis filiis sibi adeo exuberasse: “Multas iam” inquit “gratias Deo habeo agoque, qui tot cogitationes suscepit de rebus meis!”. […]173 Anche un favolello francese risponde ad analogo modello: si tratta della storia del Fils que fut remis au soleil, figlio concepito durante l’assenza del marito che al rientro si sente raccontare la storia di un 172 173 Ibidem : p.246-247. Facetiae, I: Fabula prima cuiusdam Caietani pauperis naucleri. 228 fiocco di neve che avrebbe messo incinta la moglie. L’uomo decide di restituire, per così dire, il bimbo al cielo.174 2.2.7 – Altri tradimenti, nascondigli, travestimenti. Cercando le origini del fabliau delle Braies au cordelier175 possiamo risalire fino ad Apuleio: lo stesso svolgimento narrativo viene riprodotto a più riprese da Boccaccio, Sacchetti, Sabadino degli Arienti, Poggio, Morlini. In questa sede ci interessa in qualità di fonte primaria per la Farce nouvelle de frère Guillebert, datata con incertezza al 1505 o agli anni ’30 del secolo. Nel sermone giocoso che apre la pièce si invitano le mogli insoddisfatte a godere delle gioie amorose del parlante; latino maccheronico e parabole spericolate sono gli elementi di comicità graffiante del monologo al centro dell’intreccio comico. Foullando in calibistris, Intravit per boucham ventris Bidauldus, purgando renes. Noble assistence, retenez Ces mots pleins de devotion ; C’est touchant l’incarnation De l’ymage de la brayette, Qui entre, corps, aureille et teste Au precieulx ventre des dames.176 Che le giovani donne rimangano in silenzio e non dicano nulla dei baci rubati e soprattutto che quelle sposate si mostrino bendisposte verso tutti ed in particolar modo nei riguardi monaci. Una vera opera pia: un fatto, si potrebbe dire, in favore della religione e del clero. Il sacro sermone del frate gaudente giustifica così la licenziosità sessuale della sua categoria. FRERE GUILLEBERT Ma dame, ayez de moy mercy, Ou mourir me fault avant aage, Mon las cueur vous baille en ostage ; Plaise vous le mettre à son aise. Je vous dis en foy de langaige Ce qui me tient en grant mesaise. 174 Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.I, pp.162-166. Ibidem, t.III, pp.275-277. 176 ATF, t.I, pp.305-327 : p.305. 175 229 LA FEMME Frère Guillebert, ne vous desplaise, Ce n’est pas ainsi qu’on amanche. FRERE GUILLEBERT M’amye, je vous pry qu’il vous plaise Endurer trois coups de la lance ; C’est belle osmosne, sans doubtance, Donner pour Dieu aux souffreteux.177 Le “avances” pubbliche sono assai ben argomentate ed una donna le accetta dicendosi stanca di sprecare la giovinezza col marito; il monaco ha raggiunto l’ambita preda ma come tutti gli esemplari della sua specie è titubante, pavido, timoroso. Nella novellistica e nel genere farsesco la caratteristica principale del moine paillard è una subdola codardia. FRERE GUILLEBERT Je suis mort se je me remue. J’ay desjà le cul descouvert. Et pour ce, frère Guillebert, Mourras-tu si piteusement ? […] Je laisse mon ame à pourveoir, Pour la mettre avec des fillettes […] In manus tua, domine, Nisi quia domine ne Tedet spiritus et pelli Confiteor deo celi Ut queant quod chorus vatum… Hé, te perdray-je, beau baston ? C’est faict ce coup, povre couiller ; Il vient, par Dieu, tout droict fouiller […]178 Stavolta il terrore del monaco è fondato: il marito assente rientra prima del previsto a recuperare la borsa del denaro che ha lasciato in casa; la donna, invece di metterlo in salvo, gioisce crudelmente a vedere aumentare la paura nel cuore del religioso, che invoca disperatamente il soccorso divino. FRERE GUILLEBERT Et, mon Dieu, je suis bien destruit. Vertu sainct Gens, le cul me tremble. Or çà, s’il nous trouvoit ensemble, Me turoit-il, à vostre advis ? LA FEMME 177 178 Ibidem : pp.309-310. Ibidem : pp.318-319. 230 Jamais pire homme je ne vis, Et si crains bien vostre instrument.179 Il marito entra nella camera da letto dove il monaco si è nascosto ed ecco il coup de théâtre: in luogo della borsa prende per sbaglio l’hault de chaulses del monaco. La donna è disperata e si domanda come fare quando il marito si accorgerà dello scambio. La soluzione è paradossale come sempre e mette in campo la religione: basterà dire che si tratta delle braghe miracolose di San Francesco. Ed ecco allora tutto il villaggio degli stolti credere alla frottola ed organizzare addirittura una processione per portare la preziosa reliquia nella chiesa. Un altro fabliau molto noto si trasferisce dalla tradizione orale d’oltralpe per arrivare al Decameron (VII, 5) e da questi ritornare nella Francia delle Cent nouvelles nouvelles che ne riprendono lo svolgimento proprio a partire dalla rielaborazione boccaccesca: si tratta del Chevalier qui fist sa dame confesse,180 ove un marito si traveste da prete per ascoltare i peccati della moglie. Un esempio analogo di trama è contenuto ne le Badin, la femme et la chambrière, la cui trama è complessa e si incentra su una buona parte dei cliché dei mali del matrimonio. Il marito è malato e la moglie gli augura continuamente la morte, anche in presenza della serva, la quale riferisce. LE BADIN Que dit ma dame de penon ? LA CHAMBRIERE Elle dit que cy vous estiez en terre Que son cœur seroit hors de serre Et son corps hors d’une grand’peine LE BADIN Elle dit ses fiebvres quartaines. J’é encore une verte veine.181 Quando la serva parla alla padrona del peggioramento delle condizioni del marito, la moglie non riesce a trattenere la contentezza. Va, va, en pleure-tu ? je te jure Par sainct Benoist, que si fut Mort il y a dix ans il m’en Fut de beaucoup mieux qu’il N’est; va, va, s’en est autant D’escaillé. Mais viens çà ; n’as-tu 179 Ibidem : p.314. Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.I, pp.178-187. 181 ATF, t.I, pp.271-288 : p.273. 180 231 Point parlé à Messire Morice ?182 Ma, coup de théâtre, l’uomo non è malato; si ripresenta a casa travestito da monaco ed apprende come la moglie si intrattenga in varie avventure galanti, finanche con lo stesso monaco cui egli ha preso in prestito il nome. La differenza fra questa farsa ed il fabliau che abbiamo menzionato è che in quel caso il marito si presentava ben riconoscibile e la moglie doveva inventare una serie di scuse per le sue malefatte: il centro dell’azione nella farsa del Badin, la femme, la chambrière resta il travestimento, assente nel fabliau, ciò che rende assai nebulosi i rapporti fra le due composizioni. Interessante il tema delle ingiurie sul letto di morte nella farsa del Munyer de qui le diable emporte l’âme, risalente al 1496 e firmata dalla penna di André de la Vigne. Il marito morente è costretto a subire la crudeltà della moglie. LE MUNYER Or suis-je en piteux desconfort Par maladie griefve et dure Car, espoir je n’ay de confort Au grand mal que mon cœur endure. LA FEMME. Faut-il pour ung peu de froidure, Tant de fatras mectre dessus.183 Il seguito è spietato: a cosa serve un uomo senza vigore? Si chiede la moglie, asserendo di aver già trovato un valido rimpiazzo. Il marito reagisce e si scusa addirittura per la sua salute, poi si irrita e soffre: la morte si avvicina, favorita anche dai colpi e dagli spintoni inferti dalla crudele consorte. Infine il malato chiede un confessore. Il prete arriva, incoraggiato dalla presenza della donna – che è la sua amante – e viene accolto come un principe, baciato, carezzato, vezzeggiato. Fra una tenerezza ed una carezza la moglie spiega cosa la rende felice. Par ce que mourir Veult mon mary dont j’en aye joye.184 182 Ibidem : p.279. Rec. JACOB, pp.233-265: p.233. 184 Ibidem : p.244. 183 232 La lamentazione dell’uomo procede, «Hélas ! pourquoy se marie-on? (sic)», e la moglie continua col suo atteggiamento crudele ed aggressivo: lo costringerà ad accogliere il prete, preparerà un ricco festino per il monaco e se lo gusterà sotto gli occhi impietriti del marito in punto di morte. Ormai prossimo ad un registro tragico André de la Vigne ha pensato bene di introdurre un intermezzo grottesco: la confessione dell’uomo al pubblico, riprendendo i moduli del testamento giocoso. Poi, a stemperare ulteriormente i toni neri, troviamo il colpo di scena fantastico e triviale: Berith viene a prendere l’anima del mugnaio; per farlo gli attacca un sacco al sedere poiché da lì, ci comunica l’angelo nero, escono le anime dei dannati. Ma al posto dell’anima il mugnaio scarica nel sacco le sue produzioni escrementizie; Berith discende agli inferi e prova a liberare l’anima al cospetto di Lucifero e Proserpina: l’inferno si riempie della puzza ed il Diavolo dichiara di non volere più nel suo regno l’anima di un mugnaio, perché in tale categoria v’è solo puzza e micragna. Grande potenza comica ed immaginifica per una storia che si aggiunge alla lunga lista delle pièce profane dedicate ai mugnai, che avevano la reputazione d’uomini disonesti, stolti, meccanici, sporchi e soprattutto poveri. Ricordiamo il Fabliau du pet au vilain di Rutebeuf, la cui satira è diretta contro il villico in genere. Del resto, fra i soggetti preferiti della farsa e dei generi profani liminari, trionfa il villano, vittima, protagonista e destinatario ad un tempo degli strali comici. Onques à Jhesu Crist ne plaise Que vilainz ait herbergerie Avec le fil sainte Marie.185 I diavoli, dice Rutebeuf : Chapitre tindrent lendemain, Et s’accordent à cel acort Que jamais nus ame n’aport, Qui de vilain sera issue Ne puet estre qu’ele ne pue. Se nella farsa il mugnaio viene escluso solo dall’inferno – e non sappiamo quale sia l’ultima destinazione della sua anima – Rutebeuf è ben più preciso: il villano non vada né all’inferno né in Paradiso. 185 Rec. MONTAIGLON – RAYNAUD, t.III, pp.103-105 : p.103. 233 Ainsin s’acorderent jadis, Qu’en enfer ne en Paradis, Ne puct vilains entrer sans doute.186 Il che giustifica forse perché il mondo è sempre pieno di villani. Pernet187 nelle sue avventure con la moglie punta piuttosto a cambiare il suo status sociale: la donna lo costringe ad accogliere un amante spacciato per cugino. Il falso parente convince lo stolto uomo d’esser nobile e Pernet – figlio d’un vaccaio – se ne fa giusto vanto col villaggio tutto. Je ne craindroy plus les gendarmes Comme avoys de coustume, Su, su, que je m’acoustume, A porter le bonnet sur l’oreille, Et la plume sous l’apareille Tout à l’entour de mon bonnet.188 A questo punto il marito viene inviato dalla moglie a comprare tutto quanto serve per un banchetto degno del nuovo status sociale della famiglia ed utile a consumare come si deve la passione con il galante. Si evidenzia così il sottile confine onnipresente nei pazzi della farsa, sempre sospesi fra follia simulata, stupidità e reale idiozia: ripetendo lo schema della farsa del poulier, Pernet inizia un andirivieni fra casa e bottega, adducendo ogni volta una scusa ai due amanti che sono costretti ogni volta ad interrompere il loro ménage; ed al solito non ci è dato sapere se l’azione del marito sia intenzionale o dovuta davvero ad una stupidità congenita, irrecuperabile. Infine la donna trova il modo di impegnare il marito usando un’espressione idiomatica che si concreta come d’uopo nella farsa in un motivo di comico verbale. Sans le battre, meurtrir ne occire, Nous lui ferons chauffer la cire.189 L’espressione «scaldare la cera» sta al francese medievale come «tenere il moccolo» al moderno italiano. Così mentre Pernet se ne sta in cucina prestando la massima attenzione alla padella con la 186 Questa e la precedente, Ibidem : p.105. Farce de Pernet qui va au vin, certamente posteriore a quella del pasté e fu composta con buone probabilità negli anni ’20 del XVI secolo. ATF, t.I, pp.195-211. 188 Ibidem : p.200. 189 Ibidem : p.208. 234 187 cera, i due amanti fanno il loro comodo in camera da letto: un’espressione proverbiale si concreta in azione scenica seguendo il funzionamento più tipico del comico verbale farsesco. George le Veau sembra il prototipo di quel George Dandin del Grand Siècle, a ragione considerato il maris dupé per antonomasia. Oltre al dettaglio onomastico, la pièce di Molière serba il ricordo di molti altri dettagli del precedente farsesco, composto all’altezza del 1500. Il George “medievale” ha commesso l’errore di sposare una donna di nobili natali e per questo altèra ed orgogliosa: essa non fa che rinfacciargli la stupidità e l’umile origine di vaccaio ed ogni volta che George cerca di prendere la parola, gli dirige contro dei minacciosi «qui es-tu?». L’uomo allora va dal curato – amante, fra l’altro, di sua moglie – e cerca di scoprire se può trovare nella sua genealogia un qualche avo famoso e nobile. Nella chiesa si nasconde un chierico compare del prete che fa risuonare la voce di Dio nella navata, rivelando all’uomo che per arrivare ai suoi primi avi famosi bisogna rimontare nientemeno che ad Adamo ed Eva. Dopo numerose ipotesi, fra le quali anche la discendenza diretta da Clovis, i bricconi arrivano dove vogliono, dicendo all’uomo di obbedire a tutti i comandamenti di sua moglie: LE CLERC (FAISANT DIEU) George, se avoir veulx ma grace, Croire te convient, sans diffame, Tout tant que te dira ta femme, Et obeyr à son vouloir ; Aussi tu feras ton debvoir, A ton curé la disme rendre De ton bestial ; pense d’entendre Pour ton salut ce que te dis. Ceste robbe de paradis Te donne, que tu vestiras ; Puis, quant devers ta femme yras, Ton nom cognoistras en substance.190 La burla fantastica e la satira anticlericale già vista per il frate Guillebert sono strette assieme; l’uomo riceve una pelle di vacca con la quale dovrebbe presentarsi alla moglie; la donna fa finta di non riconoscerlo e chiama il prete per risolvere la metamorfosi infernale in una ulteriore umiliazione per il cornuto. LA FEMME De l’eau benoiste, mon amy; 190 Ibidem, t.I, pp.380-401 : pp.395-396 235 Je croy que je deviendray folle. LE CURE Ganymèdes, ça mon estolle. LE CLERC Tenoris et conjurare LE CURE Diabolis inficare Super nivem dealbabor. Ego volo, te prenabo. Que quiers-tu en ceste maison? GEORGE LE VEAU Rien que je sache que Alison LA FEMME Doulx Jésus, il me mengera. GEORGE LE VEAU Non fera Alison, non fera : Aprochez me moy hardyment.191 George è ormai completamente sottomesso: “oggettivizzando” ancora una volta un’espressione idiomatica egli è diventato un «veau de disme», ciò che nel linguaggio dell’epoca significava povero di spirito: lo fanno marciare a quattro zampe, si prendono gioco di lui, lo canzonano e lo battono nella migliore tradizione goliardica. Alla fine la donna cede al curato la bestia che verrà portata, dice quest’ultimo, in macelleria. Nervatura morale della farsa è la critica al matrimonio fra persone di rango differente, ancora nell’ambito del mauvais mariage. Racconta invece un travestimento funerario galante la settantaduesima delle Cent nouvelles nouvelles192 dove la moglie adultera copre di nero il suo amante dando a credere al marito ed a tutti i servitori di avere un demone in casa. Nella farsa intitolata le Retraict,193 del 1500, un marito sopraggiunge durante il banchetto della moglie con l’amante ed il galante non può fare nient’altro che rifugiarsi sotto al letto: mentre il valletto traditore, Guillot, serve al padrone di casa il pasto preparato per l’amante, questi da sotto al letto inizia a tossire e così è costretto ad infilare la testa nel buco dei “servizi igienici”, ripetendo lo stesso espediente, insomma, della novella appena citata delle Cent nouvelles. Quando il marito ben sazio va a servirsi del bagno il galante esce dal suo nascondiglio talmente sporco e fetido che il maistre de la maison crede d’esser al cospetto d’un diavolo uscito dalla bocca 191 Ibidem : pp.397-398. les Cent nouvelles nouvelles, LXXII, (la Nécessité est ingénieuse, T. WRIGHT, t.II, pp.109-113). 193 Rec. LEROUX, t.III, n°53. 192 236 degli inferi per castigarlo dell’infondata gelosia e si inginocchia davanti al galante chiedendo perdono. La Farce d’ung mary jaloux qui veult esprouver sa femme,194 forse degli anni ’40 del 1500, si apre con i pavoneggiamenti di Colinet, vestito da badin e pronto a fare razzia di tutti i titoli e di tutte le ricchezze del mondo. La zia lo rassicura come se fosse un bambino: in realtà ha l’aria di essere un adolescente scapestrato, benché l’autore della composizione poetica gli doni la facoltà di menare colpi e la violenza di un vero bruto. Un marito, ingelosito dalle chiacchiere del villaggio sul conto della moglie, sospetta che questa lo tradisca: i sospetti sono rivolti al cappellano, con cui la compagna passa molto del suo tempo libero. Il marito è folle di passione, incontra casualmente Colin e, stupito delle insolite capacità burlesche di questi, gli chiede un consiglio sul da farsi. Il niais lo spinge a comprare una cintura di castità all’ultima moda, ma la zia di Colin sopraggiunge e dissuade l’uomo dalla violenza sulla moglie, invitandolo a travestirsi per insidiarne la fedeltà e sincerarsi della resistenza alle tentazioni del mondo. Il marito coglie al volo il consiglio della donna, salvo dimenticare poi di aver chiesto a Colin di restare a guardia della casa per impedire l’accesso nelle mura domestiche ai galanti durante la sua assenza. Inutile dire che l’uomo, scambiato per galante, prenderà la sua razione di bastonature. Colin manda a monte il piano ingegnoso, ed al solito il cornuto dovrà inginocchiarsi al cospetto della moglie. La pièce assai farraginosa nello svolgimento viene dal montaggio abbastanza meccanico di qualche canovaccio già in circolazione: l’astuzia del travestimento del marito in amante sembra un appendice artificiale delle pièce e trae certamente origine dalla mitologia. La storia del marito camuffato in galante che insidia la moglie per testarne la fedeltà affonda le radici nella favola di Cefalo e Procri, i due amanti che, a seconda della versione del mito, si travestono una o più volte, per mettere alla prova l’amore assoluto del compagno. Mito che era ampiamente letto in Europa nella sua versione ovidiana e che in ragione del tema amoroso e dell’articolazione della trama attorno al cambio di sembianze trovava nella scena una dimensione propizia. Il successo della trama è appunto nelle possibilità meccaniche che vi si possono sviluppare e l’ironia farsesca trae vigore dall’inversione del mito: ove nella favola di Cefalo e Procri l’amoroso insidiato dall’amante finisce con l’accettare le avance provando la sua infedeltà, nelle farse la moglie, accortasi dell’inganno, simula probità e coglie l’occasione per far battere il marito in veste d’amante, che poi dovrà scusarsi. 194 ATF, t.I, pp.128-144. 237 Di nuovo, ma con un pizzico di sagacità in più ed un’accresciuta attenzione per l’intreccio: a trompeur, trompeur et demi. 2.2.8 – Punizioni degli amanti. Leggendo queste farse, la fedeltà reciproca fra coniugi sembra una nozione piuttosto moderna. Dopo tutti i tradimenti a carico delle donne che abbiamo menzionato veniamo ora alle vendette dell’uomo verso la donna in una specie di legge sentimentale del taglione che paga il più delle volte l’adulterio con stessa moneta e violenza per interessi. Il tradimento uxorio getta il maistre di casa nel ridicolo, costituendo una infrazione della legge sociale patriarcale: per rendere il fedifrago-uomo altrettanto interessante bisogna che tutta la situazione sia così ridicola da ispirare nel pubblico un certo interesse comico. Ne le Médecin et le Badin, del 1540, con un complicato stratagemma si cerca di rendere più vivace la licenziosità dei costumi del maschio traditore. L’azione inizia con un dialogo fra il maistre e la cameriera: la padrona di casa è via per un lungo pellegrinaggio ed il marito convince la servetta ad unirsi con lui, assicurandole che nel caso in cui il suo «esperon | faisoyt tant que la panse dresse»195 sarà lui stesso a prendersene tutta la responsabilità. È un presagio, infatti la serva finisce incinta: consigliato da un arguto amico dottore il badin simula così al rientro della moglie un malore improvviso. Come nella farsa di Philibert o in quella dell’amoroso la donna prende un campione di urine e le porta al medico, il quale si premura di mettere in moto l’operazione di occultamento dell’adulterio approfittando della niaiserie della donna. CRESPINETE […] Qu’esse ? […] LE MEDICIN Ma compere, par le vrai Roi, Puisqu’il fault que je le vous dye, Cestuy qui porte maladye Est enchainct d’un enfant tout vif.196 La soluzione alla gravidanza maschile è trasferire il feto nel ventre di una giovane donna… per mezzo di un rapporto sessuale. Crespinete dovrà quindi “convincere” il marito recalcitrante e la serva pudìca 195 196 Rec. LEROUX, t.II, n°38 : p.8. Ibidem : p.23. 238 ad unirsi carnalmente; la sotte femme si prodigherà in promesse e sermoni pur di effettuare questa assurda transumanza fetale. La credulità della moglie è ancor più assurda, giacché nello svolgimento dell’azione si segnalano a più riprese le tendenze promiscue ed omosessuali della servetta. LA CHAMBRIERE Il estoit une fillete Coincte & joliete, Qui vouloit scavoir le jeu d’amours. Un jour qu’elle estoit seullete, De Venus en sa chambrette Je luy en aprins deulx ou troys coups. Apres avoir sentu du cours, Elle m’a dit, en se riant, Les premiers coups m’y sembloyent lours, Mais la fin m’y sembloyt friant.197 L’imbecillità paradossale di quello che viene gabbato credendo di essere rimasto pregno compare nella novella boccaccesca di Calandrino (Decameron, IX, 3) dove il protagonista è convinto della cosa dagli amici crudeli, che gli estorcono così «capponi e denari», e nel Grand parangon des nouvelles nouvelles di Nicolas de Troyes ove il titolo della novella XXXV – della Jeune femme à qui on fit entendant qu’elle avoit engroissé son mari et comme il remist son engroissure à sa chamberiere, laquelle il engroissa par le consentement de sa femme – 198 è di per sé esplicativo della comunanza delle vicende in oggetto. Donne così stolte nella farsa sono comunque assai rare: il gentilsesso, anzi – assieme ai valletti ed ai servitori astuti provenienti direttamente dal teatro latino – si presenta per lo più come una riserva infinita di astuzie e jeux de ruses. Rari sono gli esempi di rivincita dei mariti sui galanti, sui valletti o sulle mogli ed altrettanto rari quelli di rapporti matrimoniali basati sulla confidenza e la fiducia reciproca. La leggenda di Segretain, così come la si legge in diverse redazioni, ha per protagonista una coppia appartenente a quest’ultima rara categoria degli onesti: il sagrestano si è invaghito della brava donna, moglie di un ricco borghese, la quale non si lascia corrompere e anzi al marito riferisce le insidie del prete. Guillaume l’entent, si s’en rist, 197 Ibidem : p.5. Nicolas de Troyes, Le grand parangon des nouvelles nouvelles, XXXV. Une jeune femme à qui on fit entendant qu'elle avoit engroissé son mari et comme il remist son engroissure à sa chamberiere, laquelle il engroissa par le consentement de sa femme, (E. MABILLE, 1869, pp.141-148). 239 198 Et dit que por tot le tresor Otemen ne Abielor Ne sofferoit-il que hom nez Fust charnelment de li privez ; Mielx ameroit querre son pain Par le pais, morir de fain.199 Infine però il marito cade in miseria ed il sagrestano cerca di approfittare della situazione: la donna consulta il marito e la coppia, disperata, accetta di ricevere le cento lire che il monaco immorale trova nelle «Boites et armoires | Et les autex as sentuaires | Où la gent on l’offrande mise». L’uomo di chiesa ottiene il convegno amoroso ma il marito Guglielmo, accecato dalla gelosia e dalla rabbia, si abbatte contro di lui, uccidendolo. Si li espandi il cervel, Et li Moines chai avant; Ainsi va fox sa mort querant.200 La crudeltà del favolello è evidente: dal prete che ruba i soldi dell’elemosina per consumare la sua notte d’amore, alla prostituzione con consenso del marito che tradisce la parola data ed uccide. La visione di un’umanità reietta e negativa si staglia, del resto, in tutte le farse: il cadavere del prestre viene portato in strada perché la coppia assassina possa sbarazzarsene; ed ecco allora le spoglie dell’uomo di chiesa gettate nel porcile perché vengano divorate in breve tempo. La conclusione morale si allaccia a questa nera visione del mondo, capace di vendersi per trenta denari. Ainsi ot Guillaume son droit Du Moine qui par son avoir Cuida sa feme decevoir ; Le bacon ot les cent livres.201 Lo schema del fabliau del Segretain ritorna più o meno invariato in quello di Constant Duhamel in cui l’intrigo è più solido e complesso e la visione negativa del mondo stemperata nella biomeccanica dell’inganno. La moglie proba è messa alla prova da un Pretre insidioso aiutato da altri due notabili (il Prevôt de la ville e il Forestier) che attendono alla rovina economica del marito di lei per poterlo ricattare. 199 Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.V, pp.237-239 : p.237. Ibidem : p.238. 201 Ibidem : p.239. 200 240 Tant que besoing, poverté et fain La face venir à reclaim.202 Appreso l’intrigo che si prepara alle loro spalle la donna inventa un tranello e lo propone al marito: invitare i tre ad un medesimo incontro galante, con breve sfalsamento d’orario fra l’uno e l’altro. Arriva il Pretre e – uditi i passi del Prevôt – la donna lo fa nascondere in una botte; anche il Prevôt dovrà nascondersi poco dopo per l’arrivo del Forestier, che a sua volta dovrà rifugiarsi anche lui, in ragione dell’arrivo (stavolta reale) del marito, che disporrà dei tre traditori a suo piacimento. La punizione è più crudele delle semplici botte e la donna chiama a raccolta le compagne legittime dei due notabili e quella (illegittima) del Pretre. Ascia alla mano il marito abusa di loro. Nel contempo i birboni intrappolati infieriscono l’uno sull’altro: dopo la violenza le tre donne sono allontanate da casa nude. Il tino dove stanno gli intriganti viene poi incendiato costringendoli ad uscire, aspersi di pece e con le piume addosso, ciò che li renderà ridicoli agli occhi del villaggio e vittime degli attacchi di feroci cani randagi che li scambiano per enormi volatili. Constant Duhamel è probabilmente la fonte della farsa a sei personaggi Deux gentilzhommes, le meunier, la meunyere et les deulx femmes des deulx gentilzhommes abillees en demoiselles,203 composta nell’anno 1500, dove un crudele mugnaio e la sua ancor più insidiosa compagna riescono ad umiliare e ad estorcere il denaro a due gentiluomini. La farsa si apre con un dialogo sul dovere e l’onore, in cui le due vittime del tiro mancino manifestano una passione irrefrenabile per la mugnaia e criticano il cuore di coloro che covano crudeltà e la malizia; esposizione che affronta il tema vagamente morale della pièce esponendo precocemente i due gentiluomini al ridicolo. Alla scena successiva l’uomo di fatica dichiara tutta la sua preoccupazione per la disastrosa condizione economica del mulino per il cui riscatto lui e la moglie non posseggono il denaro necessario. In questa farsa la solidità della coppia è un ottimo motore per mettere in atto la diabolicità femminile; la moglie pensa al sistema di risollevare lei e suo marito dalla povertà, con la scaltrezza e la sicurezza di chi della truffa fa professione. LA MOUNYERE […] Vous voules vous pendre ou defaire? 202 203 Ibidem : t.IV, pp.166-198 : p.168. Spesso denominata Poulier à six personnages. Rec. LEROUX, t.II, n°27. 241 Nostre Dame ! Laises moy faire, I’aray de l’argent promptement. LE MOUNYER De l’argent ! LA MOUNYERE Voyre finement. Il n’est finesse qu’on ne face. LE MOUNYER Et belle dame ! que je sache Comme argent pouries atraper ? Je feres tant aise de veoir De l’argent pour a mon cas pourvoir Des escus vingt trente ou quarante. LA MOUNYERE Nous en aurions plus de cinquante Ausy rouges que seraphins.204 La donna agisce per lucro ed il marito non è da meno, mosso dall’istinto di vendetta: il tiro è giocato a partire dalla passione che la donna sa esser nutrita nei suoi riguardi dai due gentiluomini. L’idea della moglie è quella di domandare un prestito per il riscatto del mulino illudendo i due nobili di poter averla come amante. Essi, dice, «Sont fort amoureulx de mon corps. | Sy vous faignyes aler dehors | Envyron vins jours ou un moys | Jamais un regnard prins au ny | Ne fust si peneulx qu’i seront.» È ancora una volta un’umanità reietta, un mondo negativo di inganni e tradimenti reciproci in cui il prossimo – in un pessimismo “totalitario” – pensa continuamente a come distruggere a suo vantaggio le ricchezze e la reputazione dell’altro. Accade così che i due uomini sopraggiungano con fare minaccioso in due tempi diversi, pretendendo però la medesima cosa – il saldo dei debiti – ed ottenendo solo le vaghe promesse di una notte d’amore in cambio di un prestito che entrambi non esitano a soddisfare. La donna li tenta ed insidia, facendo bella mostra allo stesso tempo di pudore e fedeltà: la scena le riesce talmente che il primo gentiluomo arriva a minacciarla per farle accettare il prestito in cambio dell’unione carnale. Dall’altra parte abbiamo l’avidità del mugnaio che sconfina quasi nello sfruttamento della prostituzione quando lo si vede contare i soldi ottenuti dalla moglie. Sa ! de par Dieu ! i’ey cent escus ! Cent escus d’or ! mort bieu ! ie t’ayme. […] Su! Su! J’ay de l’or à pleine poing. Femmes sont fines à merveilles.205 204 205 Ibidem : pp.7-8. Ibidem : pp.15 e 20. 242 Come nel racconto del Constant ai due aspiranti amanti viene dato appuntamento in due orari uno a ridosso dell’altro. Il primo gentiluomo non tarda a farsi vivo ed arrivato nella casa del mugnaio imbandisce un prelibato banchetto, guastato dal sopraggiungere del secondo. Ai passi di questo il primo galante si nasconde nella gabbia per i polli ed assiste alla libagione fra la donna e l’altro nobile, interrotta – vien da sé – dall’arrivo del mugnaio, che durante tutta la scena è rimasto nascosto lanciando di tanto in tanto qualche a parte a contrappunto della situazione scenica. Come già nel Constant gli intriganti sono costretti a rifugiarsi, spaventati dalla possibilità di essere scoperti fino a subire l’ultima umiliazione, non diversa da quella di Costant Duhamel. Sotto i loro occhi il crudele mugnaio manda a chiamare le rispettive dame, amoreggia con esse e si liba del banchetto trovato a tavola. Bloccati dalla paura per i danni alla propria reputazione i gentiluomini devon sopportare d’essere cornuti. Dopo aver violato le mogli il mugnaio simula d’accorgersi della loro presenza e vien così l’ultima crudeltà: ricattandoli l’uomo obbliga i due ricconi a farsi regalare i soldi prestati per il riscatto del mulino. La fine goliardica, slapstick, della storia precedente qui non è prevista, ma al di là delle pur rare volgarità206 è largamente compensata da una solidità stilistica non comune: innanzi tutto per via delle indicazioni di scena intarsiate nelle battute dei personaggi, secondo un procedimento che sarà ampiamente usato nella drammaturgia del XVII secolo, Molière e Shakespeare in testa; secondariamente, a causa della «memoria del passato» che il testo conserva e che lo fa poggiare su più solide basi letterarie: per memoria del passato intendiamo il basilare accorgimento stilistico per cui ogni enunciato e dato esposto nella narrazione è funzionale allo sviluppo successivo della trama. Nella farsa il più delle volte questa memoria dei fatti è assente in favore dell’anelito biomeccanico cosicché il lettore si trova spiazzato di fronte ad una trama lacunosa e che tradisce l’aspettativa di finzione. Qui accade il contrario ed anzi, la memoria è nel testo finalizzata ad ottenere risultati comici: ad esempio nel passo in cui il primo gentiluomo si arrabbia col secondo perché questi tenta di dissuaderlo dall’uscire dal pollaio per evitare lo scandalo; il primo è irritato ed afferma di poter uscire tranquillamente e di non temere niente e nessuno. Ma non possiamo evitare di notare che egli rimane in gabbia. 206 LE PREMIER: Sang bieu ! Sy tenir la puys myenne | A mon desir et mon entente | Ie la baiseray des foys trente | En faisant l’amoureulx delict. | O que la tenir sus un lict | Pour la ribaulder quinze iours ! | Vers elle m’en voys tout le cours | afin que mon ennuy soit hors. Ibidem : p.10. 243 Qualche pagina dopo, quando il mugnaio fa finta di accorgersi della presenza di «quelque bellete | Ou beste avec […] [la] poulaille» è lo stesso primo gentiluomo ad esclamare terrorizzato: «C’est faict de nous. Nous voyla prins. | Misericorde ! mes amys.»207 dimostrando la sua codardia a dispetto dell’esibizione di coraggio della scena precedente e facendo scattare la macchina del riso proprio per via di una memoria interna alla pièce. L’esposizione dei fatti basata sulla sincronizzazione del presente e del passato determina una differenza fra i due compari sul piano (se pur endemicamente) psicologico, sbozzando l’idea di una costruzione del personaggio più complessa rispetto alla meccanica pura e semplice dei lazzi. E va segnalato che questa particolare solidità della pièce fu certamente dovuta alle grandi aderenze di questa con il Constant Duhamel, ma anche a quelle più flebili, ma pure significative, con la novella Decameroniana (VIII, 8) ove Spinelloccio tradisce l’amico Zeppa intrattenendo una relazione con la moglie, e quest’ultimo, accortosene, trova il modo di possedere la moglie dell’amico proprio di fronte ai suoi occhi, inaugurando così un’amichevole poligamia. Ed è ispirata forse al Constant anche la già citata farsa dei primi del Cinquecento Gentilhomme, Lison, Naudet, la damoyselle. La pièce, piuttosto frammentaria, è stata più volte interpretata come una critica alla nobiltà, ma gli elementi di dialettica politica nella farsa sono sempre edulcorati e rispondono più che altro alla logica “naturale” ed acritica del biasimo reciproco fra classi. Qui il signore del villaggio va a casa di Naudet ed abusa della moglie, mentre il povero deve portare il cavallo del nobile al pascolo: durante una di queste visite il buon Naudet si impossessa degli abiti del gentiluomo abbandonati poco lontano dalla casa e con questi ed il cavallo si camuffa da signore e se ne va al castello. Una bella scoperta per la moglie del feudatario che con il paesano si giace ed infine esclama: «Pleust a Dieu que (tu) fusses monsieur | Et que monsieur devint Naudet.» Su analoga inversione delle parti si basa anche la battuta finale di Naudet al signore: «Ne venez plus naudetiser | Je n’iray plus seigneuriser».208 207 208 Ibidem : p.42. ATF, t.I : p.269. 244 2.3 – Millanterie guerriere e borghesi. 2.3.1 – Miles gloriosus e compagni civili. Le farse dedicate al soldato fanfarone sono di solito semplici scene in cui il miliziano bestiale e nullafacente si accanisce sui disgraziati che invece dovrebbe difendere. Le immagini di questi mercenari bestiali dovevano essere ben presenti nella testa di ciascun spettatore e chiunque poteva vedervi il militare di turno che aveva saccheggiato il pollaio o stuprato la moglie. È un riso amaro in cui l’argomento tragico della piaga che queste milizie dovevano rappresentare alle porte di Parigi o nelle campagne, viene esorcizzato con la messa alla berlina dell’idiozia militare. Il miles gloriosus delle farse francesi ha origini nella storia e si riallaccia agli uomini d’arme assoldati nella milizia borghese poi soppressa da Luigi XI nel 1480 e che Francesco I ripristinò nel 1524. L’Archer de Baignollet trae ispirazione da questa milizia e quando nel 1524 essa venne ripristinata vediamo di nuovo spuntare una satira dello stesso genere: il Franc archer de Cherré. Pur essendo un monologo, il Franc archer de Baignollet209 è un vero capolavoro drammatico: la finezza dell’opera sta nel mettere nel soliloquio dell’arciere, quel contrasto, quell’accidente 209 PICOT – NYROP, pp.47-70. 245 drammatico, che ne rivela le millanterie e la vanità senza bisogno di un personaggio che replichi o che ne metta in evidenza le menzogne. Nella commedia latina questo contrasto veniva assunto da una spalla, un parassita il cui ruolo era quello di commentare i discorsi o di mostrare la differenza fra idea e azione, il lato grottesco e brutale delle fughe davanti al pericolo più risibile ed i voli di fantasia dei pavidi signori. La menzogna e la realtà dei fatti nel monologo del franc archer convivono e sono qui combinate in un misto d’azione e parole che doveva richiedere una buona conoscenza dell’interpretazione e della scena. L’arciere di Bagnollet si presenta col suo corno da combattimento, minacciando rappresaglie su chi si prenda gioco di lui (e possiamo immaginare l’incidente scenico, in cui il pubblico viene intimidito direttamente, avendo presumibilmente cominciato a ridere fin dall’entrata in scena dell’uomo); il monologo si apre con la descrizione di un arduo nemico, duro da vincere e pericoloso da affrontare, che il nostro dice aver sfidato e battuto con estremo valore. Scopriamo chi fosse realmente il suo nemico quando sentiamo l’arciere ripeterne il pericoloso grido di battaglia: «coquericoq !». Si tratta insomma di un pollo o di un gallo rubati chissà da quale pollaio. I racconti proseguono fino all’ultima ridicolaggine, quando l’arciere, trovandosi di fronte ad uno spaventapasseri, lo scambia per un nemico valorosissimo, scappa e non esita a vendere regno e bandiera pur di salvarsi. Dea, je suis Breton, si vous l’estes. Vive sainct Denis ou sainct Yve ! Ne m’en chault qui, mais que je vive.210 Il soldato che s’era detto coraggioso diventa una creazione comica indimenticabile. E finalmente, quando si rende conto d’aver a che fare con un pupattolo di paglia, lo vediamo riprendere forza, coraggio, spacconeria, ma con la scarsa convinzione di chi ormai ha mostrato il suo vero volto; eccolo infierire colpi di spada al manichino e rubargli finalmente la zozza camicia. Poltrone e ladro, come era la reputazione dei miliziani mercenari di stanza a Parigi e nelle principali città d’Europa. 210 Ibidem : p.61. 246 L’altro Franc Archer, quello di Cherré,211 non ha bisogno di una spalla essendo ripreso di tutto punto dal primo e tuttavia non manca di dettagli gustosi e d’una certa originalità comica. Questi anche entra in scena rumorosamente, annunciandosi con un tamburello da guerra. Je porty moy tout seul le fays Plus d’ung heure (de) la bataille ; J’en emorchois bien, ne vous chaille, Je croy, ung millier pour le moins, Et passèrent dessoubz mes mains, Dont jamais n’ouys mot sonner Je percy trois fois la bouée Des ennemys par beau mylieu ; Les plus aspres me faisoient lieu, Quant ilz cogneurent ma vaillance. J’en embrochoys sept en ma lance Comme endoilles en une gaulle Et les vous portoys sur l’espaule Comme on va à l’anguillanleu. Que diray je, par le corbieu ? J’en faisoys ce que je vouloys.212 E poi ci racconta come abbia aggredito un paesano cieco, accecandogli l’altro occhio e come dopo una rissa ridicolosa giocata di gambe i due siano scappati. A questo punto le fandonie del soldato non convincono più nessuno ed ogni tentativo vanitoso fallisce nel grasso riso della platea. Il Philipot della farsa del 1545 intitolata des Trois galants, è un civile che entra a far parte delle milizie fanfarone. Lo svolgimento della trama è semplice: i tre militi imbecilli vestono Philipot della divisa e nel momento in cui entra nel personaggio del soldato ecco il protagonista millantare il proprio valore e le proprie imprese eroiche. Intanto le sue azioni si intessono di spacconeria e Philipot inizia il saccheggio alla stregua dei camerati. Sus vilain, sus, ales au vin Et qu’on m’aporte du meilleur ; Et qu’il ayt belle couleur, Ou je vous rampray la teste.213 I compagni violenti e “ubueschi” di Philipot portano una croce verde e i loro nemici una bianca; il nostro è così intelligente e valoroso che vuol portare tutte e due le croci, in modo che nel momento 211 APF, t.XIII, pp.18-44. Ibidem : pp.25-26. 213 Rec. LEROUX, t.IV, n°12, p.4. 212 247 della difficoltà saprà sempre da che parte stare. Ed infatti, al minimo rischio batte in ritirata, implora perdono e cambia di bandiera. Non è difficile trovare nella novella italiana volgare plot analoghi, derivati dal comune modello del fanfarone della letteratura latina: Giovanni Sercambi, ad esempio, scrive su questo argomento le novelle De cattivitate stipendiarij e De viltate.214 Si tratta delle avventure simmetriche di Folaga e Tromba, beoni spacconi ed ingordi, eroici mangiatori di pastasciutta. I due si risolvono all’ingaggio come capitani d’arme contro Firenze e dimostrano il valore sulla tavola apparecchiata ove mangiano portentose quantità di maccheroni. «Omai potrai fare relazione che tu hai trovato il più valente campione che in Firenza sia e quello che più nimichevolmente Firenza disfarà; narrandoti che L non mi farenno mover più che io volesse. E così come vedi la mia persona bella grande forte, così pensa che tutte l'altri vertudi cardinali regnano in me. […] che quando io dormo non curerei II cento persone bene armate […]: sappi che farei quando io non dormisse e fusse col tavolaccio e con tutta l'armadura!»215 L’eroe in guerra mostra tutto il suo valore: si separa dai suoi compagni per espletare le sue funzioni organiche e in una scena analoga a quella dell’arciere francese, si impiglia in un rastrello che crede sia il nemico e vende in un attimo i cinquanta uomini affidatigli. La vanagloria, comunque, non riguarda solo i soldati ed alcuni borghesi sembrano avere la stessa mentalità del miliziano. Marchebeau e Galop, ad esempio, i due squattrinati signori di plate-bourse nella farsa, (a dire il vero assai esile, e studiata soprattutto per la ricorrenza toponomastica in più luoghi della letteratura profana francese) a quattro personaggi che porta il loro nome, la cui stesura forse risale al regno di Carlo VIII. MARCHEBEAU Je suis fort comme un Ercules. GALOP Et moy vaillant comme un Achiles. MARCHEBEAU Humble aulx coups. GALOP Apre à la vitaille […] Mais aulx femmes […] 214 215 Novelle di Sercambi, LXXXXVII- LXXXXVIII, (G. SINICROPI, 1972, t.I, pp.421-425 e pp.426-429). Ibidem, LXXXXVII, (G. SINICROPI, 1972 : p.423). 248 MARCHEBEAU Bien combaton.216 Ma Amour non è possibile senza Convoitise: i due sgangherati ribaldi possono dunque ambire quanto credono alla conquista di una donna ma non l’avranno mai. Sopraggiungono allora le solite figure allegoriche della pace amorosa e della tranquillità familiare che se ne vanno a spasso sulla scena, prendendosi gioco dei due cialtroni e sottolineando la misera condizione in cui versano nonostante le vanterie proferite in pubblico. La Farce du gaudisseur qui se vante de ses faictz et d’ung sot, qui luy respond au contraire ci presenta una specie di Rodomonte le cui imprese eroiche somigliano a quelle di Pyrgopolinices, Thraso e Cleomachus del teatro di Plauto e Terenzio. Come nelle atellane, il contrasto è qui affidato al contrappunto giocoso del servo parassita, con l’inevitabile connotazione gastronomica delle imprese. LE GAUDISSEUR Quant sur ma teste ay ma salade Pour à coup faire une passade Homme n’en crains dessus la terre. LE SOT Voire, pour battre ung malade, Quant il a sa grande hallebarde, Et pour casser à coups ung voirre […] Quand il se trouve avec gens Pour à coup menger six harens, Jamais n’en a nulz mercy. […] LE GAUDISSEUR Pour danser, chanter à plaisance, Pour donner des grans coups de lance, Habille en suis, quoy que l’on dye. LE SOT Pour menger oultre habondance, Si fort que luy tire la pance, Il est maistre, je vous affie.217 Rispetto allo schema della commedia latina lo svolgimento è qui più elementare e le linee dialogiche dei due quasi non si toccano: la conversazione si svolge su due binari paralleli ed è direttamente rivolta al pubblico. Privo d’ogni intenzione di sospensione della realtà il sot fa da unico contrappunto, senza che il militare lo ascolti veramente. 216 217 Rec. LEROUX, t.IV, n°8 : p.3. ATF, t.II, pp.292-302 : pp.293-294. 249 Ne le Gentilhomme et son page, del 1525, il dialogo fra i due protagonisti è realistico ed acceso e doveva trarre dalla realtà storica non solo forza ironica, ma anche vis polemica, essendo evidentemente ispirato alla condotta dei vari miliziani e membri della piccola nobiltà che passavano il tempo fra saccheggi e latrocini, nascosti dietro ad una dubbia professione di nobiltà. Une bonne fuyte Vault mieux c’une mauvaise atente. Quant de cela ie n’en scay rien Mais vrayment y me souvient bien Qu’a la journee des Alemans Vous fuytes dens ung fosse Et puys quant tout fut ebloce Vous courutes au pillage.218 Padrone e servitore si disputano sulle deformazioni della realtà del signore: il paggio si prende gioco della collera del padrone riportandolo alla misera realtà della sua condizione; scopriamo dalle parole del parassita che i valenti amici del gentiluomo sono «Croc», «Happe» e «Gibet», (rispettivamente «gancio», «arraffone» e «forca»), cui un infelice destino ha riservato la morte umiliante degli appesi per via di certi furti ai quali lo stesso gentiluomo protagonista deve aver preso parte; la cacciagione che il cialtrone dice aver riportato a casa per cena, altri non è che un pollo rubato ai villici; i possedimenti ed i feudi di cui millanta l’esistenza non consistono che in uno stagno puzzolente il cui pesce è stato rapinato da uno spelacchiato gruppo di aironi. Anche nelle avventure galanti il gentiluomo mente e cambia la realtà a modo suo. Il est bien vray que je vous vis pretendre En un soeir au cler de la lune De coucher avec quelque une Qui d’une main estoyt manquete Et vous onga d’une pouquete La galande et revintes tout nu.219 Fino al delirio finale ove un botta-risposta fra i due ci mette a parte d’un viaggio in Inghilterra per pretendere dal re alcuni beni e far accoppiare i magnifici levrieri reali con la cagna da pascolo, sporca e rognosa, del protagonista. La chiusura è riservata alla voce del servo, che corona il ritratto ironico e velenoso del padrone col problema del salario, che naturalmente non gli è mai corrisposto. 218 219 Rec. LEROUX, t.I, n°8 : p.6. Ibidem : p.8. 250 Nella farsa dell’Aventureulx, certamente posteriore al 1528, il protagonista e Guillot le Maire – stupratori e razziatori in pensione – non fanno che discutere fra loro su questioni oziose. AVENTUREULX A! dea, dea, ne me frape pas! Combien que rien je ne vous crains. GUILLOT Sang bieu, se g’y bolte les mains, Je m’en raporte bien à toy ; Ne t’aproche pas pres de moy, Sy tu veulx que je me deffende. AVENTUREULX Vault y poinct mieux que je me rende ? GUILLOT Y vault mieulx que nous apoincton. Colin, les coups sont dangereulx.220 In Colin filz de Thevot,221 del 1530, Colin, (il cui nome abbiamo già visto in una farsa forse presa da Poggio Bracciolini) è un reputato capo villaggio. Il figlio parte per la guerra e Thevot si dispera per la sua incolumità, fino a quando il giovane non ritorna con uno strano personaggio al seguito – ufficialmente un prigioniero – di cui il capofamiglia deve prendersi carico. Interviene una donna che racconta come un soldatastro abbia cercato di rubarle due formaggi prendendosi ricche bastonature ma riuscendo ugualmente a fuggire. Il padre si rende conto che il figlio non ha più l’armatura ed associa al pargolo i dettagli del racconto udito nel villaggio, scoprendo che Colin si è guardato bene dal partire in guerra e nel tempo della sua assenza ha vagabondato e rubacchiato nei dintorni del paese. Inoltre, per fuggire più rapidamente dalla donna inviperita dal furto dei due caci, il giovane scansafatiche ha abbandonato la costosa armatura: l’apoteosi comica si ha poco più avanti, quando scopriamo che il misterioso prigioniero altri non è che un pellegrino scroccone, deciso a vivere alle spalle dello stolto miliziano e del padre. Nel monologo le Resolu222 di Roger Collerye gli stessi caratteri del fanfarone si trasferiscono nelle avventure galanti. Basta ascoltare un momento il protagonista per capire la vera portata delle sue eroiche gesta amorose. L’autrier soir, mon oeil guignoit Une mignonne fort humaine 220 Ibidem, t.III, n°55 : p.6. ATF, t.II, pp.388-404. 222 Roger Collerye, Monologue du Resolu, (C. HERICAULT, 1855 : pp.59-72). 221 251 Qui contre moi se desdaignoit, Ou à tout le moins se faignoit, D’une face assez mondaine Devant son huys je me pourmaine Soubz l’espoir de parler à elle. Son mari vient, qui se demaine Et me dit : Galant, qui vous meine ? De ce quartier tirez de l’eile. Pour garder l’honneur de la belle Je n’y feiz pas longue demeure. Puis le mari à sa femelle Hongne, frongne, grongne, grumelle Par l’espace d’une grosse heure.223 2.3.2 – La corruzione dei preti. La farsa e le sue forme prossime non parteggiano né per il ricco né per il contadino, né per il nobile né per l’uomo di strada, ma rispettano le regole di quella che potrebbe definirsi “ideologia meccanica del riso”. Ciò rende queste composizioni di una tale gratuita crudeltà – crudeltà che, detto incidentalmente, mostra i profondi rapporti del favolello con la farsa – che si ha l’impressione che tutta l’umanità sia un’accozzaglia reietta e disonesta di imbecilli. Il mondo, regolato dalle leggi sovversive dell’illogicità e dell’astuzia, è un’enorme gabbia di folli, dove la grossolanità del paesano è paragonabile a quella del nobile, ed i soprusi dell’uno non sono numericamente inferiori a quelli dell’altro: è per questo che si deve rifuggire ogni considerazione in chiave sociale e politica di queste composizioni, impegnate più nella costruzione di una meccanica alienata dell’umanità, che in una critica etica o morale. Ciò non esclude naturalmente i legami fra lo svolgimento dei temi ed il vissuto storico: per quanto riguarda i preti, ad esempio, si può evidenziare un irrigidimento su posizioni anticlericali (ma soprattutto una maggiore libertà di espressione favorita dal nazionalismo anti-papalino e gallicano) corrispondente con la Riforma, che mise in risalto il contrasto manicheo fra la sincera fede delle classi sociali più povere – con tendenze talvolta mistiche – e la licenziosità dei costumi della gente di chiesa. Già alle porte della Riforma, del resto, alla lamentazione ed ai toni ispirati dalla fede, propri delle moralità, erano stati via via sostituiti i registri stilistici parodici: lamentazioni, testamenti e confessioni giocose, verso la fine del XV secolo cominciarono a prevalere sulle composizioni serie e 223 Ibidem, (C. HERICAULT, 1855 : p.61). 252 gli interlocutori sacri diventarono improbabili Sainct Raisin, Sainct Hareng, Sainct Ongnon, Sainct Jambon, madame saincte Andouille, Sainct Frappe-Cul... La separazione sentita dal popolo minuto fra la sacralità e la gente di chiesa si fa più forte ed “impegnata” in corrispondenza con le politiche anticlericali francesi, instaurate nel quadro di consolidamento dei poteri del nascente stato moderno, centrale, autonomo dal clero, e - con le guerre d’Italia - antipapale. La Riforma mette in gioco molteplici forze sociali e la letteratura comica ne recepisce in parte le idee, mescolandole alla già viva asprezza della moquerie contro i preti ed i curati che rimontava alla tradizione goliardica medievale: la selva di prelati traditori ed ingordi, del resto, esisteva già nelle produzioni letterarie di Rutebeuf, Jean de Condé, Guillaume de Normand e nella novella italiana che funzionava come sponda per l’elaborazione del fabliau su chiavi tonali moderne. Come è prevedibile la tendenza a peccare delle genti di chiesa si esprime in farsa più efficacemente in ambiti ed orientamenti sessuali: la Farce de Brus (che traduciamo «belles filles», oltre al significato persistente di «petite sœur») mette in scena le passioni di un gruppo di religiosi più bendisposti nei confronti del mondano che della mistica religiosa, a dispetto (anzi, forse proprio a causa) dell’eremitaggio. LE DEUXIEME HERMITE Dieu nous a mys dessus la terre Hommes roides, forts et puissans Et de nos membres joyssans Comme aultres en verité.224 Questi religiosi esprimono nella farsa in questione tutta la loro volgarità animalesca: colti dalle brame dell’astinenza tentano di insidiare la supposta verginità delle fillettes, mettendo sul campo tutte le loro arti di persuasione, senza aver onta dell’ipocrisia che muove le loro azioni. LE PREMIER HERMITE Quant nous sommes aulx bonnes villes, Nous faisons les freres frapars ; Mais aulx champs droictz dessus liepars A porsuyvir filles et femmes. […] LE DEUXIEME HERMITE Quant nous alons par les maisons Nous sommes pales et deffaictz, En disant salmes et oraisons 224 Rec. LEROUX, t.II, n°36 : pp.16-17. 253 Pour ceulx qui nous ont des biens faictz, Mais aulx champs sommes contrefaictz, Chantant chansons vindicatives Avecques paroles lascives.225 Il denaro è l’unica morale che guida il mondo: fino a quando gli eremiti si ostinano a fingersi poveri le bru non hanno intenzione di cedere alle loro richieste sessuali. LE DUEXIEME HERMITE Madame, soyez secourable Aulx pauvres freres hermytaulx, Qui n’ont pecunnes ne metaulx Et boyuent de l’eau tous le iours. LA VIELLE BRU Frere, il n’y a rien pour vous. LE PREMIER HERMITE Ah ! thesauriere de sancté Ie priray sancta & sante, Qui vous preserve de la toux. LA VIELLE BRU Frere, il n’y a rien pour vous. LE DEUXIEME HERMITE Vous aves la viaire angelique Quel embraser telle relique, Beau regard, gratieulx et doulx.226 Ma le donne si svestono subito quando il prete fa finalmente suonare la bisaccia piena d’elemosine e la verginità per le giovani donne cessa d’esser un valore assoluto, al che la “vieille Bru” non si lascia scappare l’occasione per mettere in chiaro la morale della favola: «Mectez-moi en posession | de la borse pecunyeusse. | […] Qui a argent il a des brus».227 La farsa di Sœur Fessue (non successiva al 1540, nominata anche l’Abesse et ses sœur: il nome della protagonista è Fessue o Fesne) affronta l’amore in uno scenario conventuale: un gruppo di suore si indigna e si spaventa per lo scandalo che verrà quando una di esse, unitasi con un frate, dovrà partorire. Il problema è esposto senza mai toccare l’etica o il rispetto del sacramento della castità e al contrario si sviscerano tutte le ragioni della convenienza: le donne del convento hanno infatti paura che l’evento possa limitare la loro libertà di intrattenersi con i rispettivi amanti. La questione morale viene liquidata brevemente. 225 Ibidem : p.19. Ibidem : p.15-16. 227 Ibidem : p.22. 226 254 Ave Maria! Et Jessus et je l’ay tant faict Et a mon plaisir satisfaict Sans estre grosse.228 Che si violi pure il sacramento della castità; il punto è piuttosto non rimanere incinte: le religiose si pongono il problema di come organizzare un parto in tutto segreto per far sì che tutte le altre abitanti del convento possano continuare a godere delle attenzioni del prete. La licenziosità del santo luogo non è del resto sconosciuta neanche alla badessa, che – ricevendo le due suore recatesi da lei per parlarle dello scandalo di Fesne – si mostra paillard ed accidiosa. L’ABEESSE Certes i’estoys en ce parloyr En saincte contemplation Des mos d’édiffication, Atendant l’heure du menger. […] E qu’esse ; estes vous amoureusse, Regretes vous encores le monde ? […] Ceans il habonde Autant de plaisir savoureulx Comme au monde : Et qu’il ne soyt ainsy Dans cette maison icy Poves avoir un amoureulx.229 È presente qui l’incertezza narrativa più significativa della pièce, probabilmente riportata sulla pagina in maniera erronea rispetto alla rappresentazione. La battuta che abbiamo appena visto anticipa la licenziosità della “Maistresse du Convent” e contrasta con la scena di probità che questa farà alle sue sottoposte, annullando l’effetto sorpresa della rivelazione finale, quando Fessue sarà assolta a seguito delle peccaminose confessioni della badessa. Momento clou di comicità è la descrizione delle circostanze dell’accoppiamento di Fessue con il frate paillard. SEUR FESNE Dens le dortoueur, A ma chambre, pres le monteur, Ia tant enquerir ne s’en fault. 228 229 Ibidem, t.II, n°37 : p.8. Ibidem : pp.14-15. 255 […] LA DEUXIEME Et que ne cries vous bien hault ? […] SEUR FESNE Comment crier, i’estoys pasmee ; Et puys en nostre reigle est dict, Ou ie n’ay faict nul contre dict, Qu’au dorteur on garde silence. […] L’ABEESSE […] Qui vous garda De faire signe pour secours ? SEUR FESNE Las ! ie faissoys signe du cul, Ma nul me vint secourir. […] LA TROISIEME Il est possible, Frere Redymet est terrible, Et n’eust sceu ceste povre asniere Faire signe d’aultre maniere.230 La farsa può ricordare per la comune atmosfera conventuale Decameron IX, 2, dove si tratta di una badessa che fu svegliata nottetempo dalle novizie per punire la relazione amorosa di una di queste «ed essendo con lei un prete, credendosi il saltero dei veli aver posto in capo, le brache del prete vi si pose; le quali veggendo l’accusata e fattanela accorgere, fu diliberata ed ebbe agio di stare col suo amante.»231 In conseguenza dell’episodio, la Badessa dovrà concedere lo stesso privilegio peccaminoso a tutte le sue sottoposte. Il peccato carnale non è nulla per questi personaggi a meno che alla malefatta non succeda l’ingrossarsi della pancia. Il commercio delle reliquie è un altro degli attributi monacali negativi più ovvi e gli esempi novellistici in questo campo non si contano: fra tutti citiamo il famoso Frate Cipolla boccaccesco;232 il prete di Masuccio Salernitano, che «essendo ne l’ordene de san Dominico solenne predicatore reputato, con grandissima arte da cerretano» fa mostra il manico del coltello che uccise San Pietro233 (ma la prima parte della raccolta di Masuccio è in toto una esauriente monografia sui vizi del clero). Appartiene sia alla categoria del prete corrotto e gaudente che a quella del truffatore da mercato e catafalco «uno bizocco ipocrito et arcatore di parola nomato fra’ Bonzeca, omo d’ogni cattiva vita; 230 Ibidem : pp.23-24. Decameron, IX, 2 : 1. 232 Ibidem, VI, 10. 233 Novellino, p.I, II, (A. MAURO, pp.19-30). 231 256 [che] secondo l’opere suoi […] dovea essere uscito di quel mal sangue di Giuda Scariotto»,234 che troviamo in due novelle del Sercambi. Nella prima che lo riguarda il Bonzega inganna una coppia di stolti facendo loro credere d’avere il fuoco di Sant Antonio dentro casa: riesce così ad ottenere una stoffa, che rivende. Ma al suo ritorno in Pisa il frate pretenderà troppo dalla credulità della coppia e colto dal marito mentre “leva il fuoco” sacro alla donna subisce una pioggia di bastonature e deve restituire il maltolto. Fra preti e cerretani venditori di cianfrusaglie la differenza è scarsa, e lo stesso sentimento di insofferenza per le cianfrusaglie e le reliquie anima la farsa del 1515 intitolata d’un Pardonneur, d’un triacleur et d’une tavernière235 ove leggiamo una sorta di sfida di impudenza fra ciarlatani che – in luogo dei preti appena citati – sfoderano reliquie di santi dai nomi burleschi celebrando le curative virtù dello loro astruse mercanzie. LE PARDONNEUR Je vous vueil monstrer la creste Du coq qui chante cheuz Pylate ; Et la moytié d’une late De la grand arche de Noë. LE TRIACLEUR Je viens du mont qui est gelé, Où j’ay cueilly ceste racine. LE PARDONNEUR Ce n’est que merde de geline, Le croyez-vous ? Le ribault ment. LE TRIACLEUR Seigneurs, voicy de l’oignement Qui croist emprès la saincte terre. LE PARDONNEUR La forte fiebvre serre Qui en ment ; sang bieu, c’est bouillie. LE TRIACLEUR Il a menty. Dieu le mauldie, Se ce n’est vraye medicine Que j’ay prins au mont de Turgine, En la montaigne d’Arcana.236 Come il frate di Sercambi il nostro “cerretano” è in possesso «d’un de seraphins d’emprès Dieu». In risposta il «triacleur» esalta i poteri delle sue pozioni e «oignements» che avrebbe «prins sur le 234 Le due novelle del Sercambi dedicate al frate truffaldino sono la LXXXXIV e la LXXXXV. Qui menzioniamo la prima, De malvagitate Hypocrite (G. SINICROPI, 1972, t.I, pp.408-412 : p.408). 235 ATF, t.II, pp.50-63. 236 Ibidem, (t.II, p.55). 257 prebstre Jehan», fra le cianfrusaglie vi è enumerato anche l’uovo di un monaco «Qui fut ponnu en Barbarie, | Qui est plain, quand la lune est plaine, | Et tary quand elle est tarye». E poi un elenco di merci ancor più straordinarie: «De la teste de Cerberus, | De la barbe de Proserpine, | Du pied de Hanibal, un petit caillou des murs su Paradis, | Le dent de Geoffroy, la pierre dont David | Frappa le geant Goliath» ed infine «du bois de tabourin | De quoy David joua devant Dieu».237 I due si accusano a vicenda sulla falsità degli oggetti che mettono in vendita ed infine fanno pace per un’allegra bevuta alle spalle degli acquirenti più allocchi. Non contenti delle truffe perpetrate tutto il giorno, pagano anche il conto con una delle loro cianfrusaglie, ingannando la moglie del taverniere, a sua volta noto ciarlatano, “arracheur de dents”. E di nuovo chiudiamo le nostre considerazioni con la legge universale della farsa: «à trompeur, trompeur et demi». 2.3.3 – Niais, badin, stupidi, ignoranti. Come si è visto la stupidità non è insensata ed anzi ha spesso un ampio margine di ambiguità che la rende fruttuosa, confondendo il confine fra l’astuzia e l’imbecillità cronica: ci stupiamo così di vedere come una catena di azioni involontarie ispirate dalle circostanze abbia spesso per risultato l’indiscusso trionfo del sot. Uno degli esempi più eclatanti e gustosi è quello di Mahuet Badin,238 del 1500. Mahuet, stolto nativo di Bagnolet deve andare al mercato a dare un barile di latte “au prix de marché” dove la soluzione narrativa è tutta improntata allo sviluppo del comico verbale; viene da sé che lo stolto paesano pensi che “prix de marché” sia una persona in carne ed ossa. Così, giunto al mercato, il niais si rivolge ad un escroc che afferra il malinteso e lo gira subito a proprio vantaggio dichiarando di essere «monsieur prix de marché». Il sempliciotto gli regala tutta la sua merce. Rimasto però con il bidone del latte vuoto, l’idiota chiede ad un passante cosa debba farsene e questi ironicamente gli risponde di darlo sulla testa del primo venuto: la comprensione del traslato non rientra fra le attitudini del niais, che prende tutto alla lettera. Ecco allora sopraggiungere di nuovo il truffatore che viene accoppato dalla buona fede e dalla meccanicità priva di discernimento con cui il Badin esegue i consigli che gli si danno. Il caso e la stoltizia, dopo infinite capriole appianano tutto e riducono tutto come prima. 237 238 Ibidem, (t.II, p.56 e sgg.). Ibidem, (t.II, pp.80-89). 258 Ne la Femme et le badin239 la donna prega il marito niais di andare a vendere della merce al mercato. Questi si fida di uno sconosciuto che prende la mercanzia promettendo di pagarla in seguito e dando il nome di Zorobabel per garanzia. Preso a botte dalla moglie non solo perché non è riuscito a recuperare il credito, ma anche perché non ricorda nemmeno il nome del truffatore, il marito andrà in chiesa a pregare Dio per risolvere la difficile situazione. Casualità vuole che seduto accanto a lui preghi proprio il truffatore il quale ad alta voce recita un verso in cui compare il nome di Zorobabel. Lo stolto uomo si risveglia così dal torpore della preghiera e questiona con il truffatore, fino a farsi nuovamente ingannare. Sullo stesso trucco comico verbale si incentra anche il secondo inganno del Fra’ Bonzega di Giovanni Sercambi:240 ancora personaggio a metà fra il prete ed il cerretano, nella storiella del De malitia in inganno l’astuto monaco s’è ripreso dalle bastonate ricevute a Pisa e se ne va in cerca di allocchi in Lucca. Viene così ad apprendere che un marito, avendo fatto «piccola provenda», ha comandato alla moglie Bovitora «che di quella carne non toccasse però ch’ella era promessa e serbavala a marzo, Bovitora, udendo dire che la carne serbava a marzo, di quella non toccava». Ma la donna, giovane, «assai materiale e di pasta grossa», si lascia ingannare dall’invenzione onomastica: Bovitora disse: «Chi volete?» Lo frate dice: «Cilastro». Bovitora dice: «Ell’è mio marito», dicendoli: «Come avete nome?» Lo frate dice: «Io ho nome Marzo». Bovitora dice: «Ben mel disse che io ve la desse e che a voi la serbava».241 Ma qui la fine ha venature nere per il cattivo Bonzega che viene ammazzato di botte dal porcaro ingannato, in un riso tragico, frequente nel patrimonio novellistico italiano e nel favolello francese e principale punto di derivazione e distacco dell’istinto biomeccanico della schematica scena francese, che trita ogni mescolanza di generi in una forma schematica ed “autoritaria”, totalizzante, e pertanto non contrastiva dal punto di vista psicologico. Abbiamo più volte richiamato l’ambiguità della stupidità del badin, che al contrario di ogni possibile previsione finisce col giocare in suo favore. La domanda sul conto di questi stolti è dunque sempre la 239 Rec. LEROUX, t.III, n°10. Novelle di Sercambi, LXXXXV, (G. SINICROPI, 1972, t.I, pp.413-415). 241 Questa e la precedente: Ibidem, (G. SINICROPI, 1972 : p.414-415). 240 259 stessa: vera follia o malizia e gioco teatrale? Il niais è davvero uno stolto oppure un sottilissimo simulatore? Spesso la bestialità sembra un mezzo per pervenire a qualche fine insondabile e prendersi gioco di chi tradisce o schernisce gratuitamente: la legge comica del taglione, il dupeur dupé ha per motore questa idiozia ultra-umana e non solo non è possibile, ma non è nemmeno importante preoccuparsi di stabilire se questi sot agiscano per calcolo o per imbecillità: il lato affascinante della meccanica degli stolti è l’ambiguità, che rende inaspettata e sospetta ogni loro azione-reazione. È per questa ragione che il sot si avvicina in modo straordinario all’immagine del moderno Arlecchino: il cretino, cioè, che improvvisa le sue qualità in un contesto e che attraverso le azioni più insensate arriva di volta in volta a svelare il ménage segreto della sua padrona, a scoprire una borsa piena d’oro, a bastonare i cattivi. Come Arlecchino il sot è povero in canna e per questo ingordo: nella maggior parte dei casi non fa il suo dovere per prendere piuttosto parte ad un banchetto o si mette nelle situazioni ridicole per rubare cibo e soldi. Esistono molte anime semplici e niais nel teatro e nella narrativa italiane, ciò che viene direttamente dalla commedia latina. Lo stolto assoluto, il cretino per eccellenza, è il marito: ma la varietà della stoltezza umana è insospettabile ed è riconoscibile nell’incapacità del sot di ricoprire un qualche ruolo sociale, sia esso un lavoro, una commissione, un iter studiorum. Le due farse Jenin filz de rien242 e Pernet qui va a l’escolle243 – la prima realizzata probabilmente fra la fine del XV secolo ed il 1525, la seconda fra il 1510 ed il 1525 – hanno per protagonista un infante senza qualità. Nella seconda farsa, il protagonista Pernet si prodiga in una esibizione ridicola di latino da cucina, sufficiente, secondo lui, a farlo diventare curato: non si capisce se questa sua convinzione venga dall’ignoranza media dei curati o dalla sua smodata ambizione. PERNET Per omnia secula seculorum. Amen. Sursum corda. Habemus a Domine. Qu’en dictes-vous ? Suis-je curé ? 244 242 ATF, t.I, pp.351-371. Ibidem, t.II, pp.360-372. 244 Ibidem : p.360. 243 260 Ma la madre è fiera e ben felice di ascoltare i vaniloqui latini del figlio: ignorante, pure lei, è ben convinta che il futuro riservi al fanciullo un posto da vescovo o addirittura da papa. LA MERE DE VILLAIGE Et, par mon ame, on dit bien vray ; Mon filz chante déjà messe. Et, par bieu, il sera evesque, Je le sçay bien certainement, Voire s’il vit guère longuement. Aussi l’avois-je bien songé. Regardez comme il est changé, Depuis qu’il fut mis à nourrice. Tout ce qu’il faict luy est propice, Et si faict fort desjà de l’homme. Je cuyde que d’icy a Romme Il n’y a ne beste ne gent Qui ayt si bel entendement Comme il a. Le voyez-vous ? Pernet que je parle a vous : Il vous fault aller à l’escolle. […] PERNET […] Vous m’y verrez bien tost aprins Mais que j’aye mon chat Meaulin : Je le meneray avec my.245 Alla fine i due se ne vanno a fare l’esame per mettere nero su bianco le virtù del ragazzino. Ha inizio una catastrofe basata sul malinteso e sulla comica ignoranza dello studente: il maestro indica le lettere e si scopre così che il figliol prodigo non sa riconoscere nemmeno l’alfabeto. Parodia crudele delle filastrocche infantili per apprendere l’alfabeto, la rassegna inizia dalla lettera “A”. PERNET Je le sçavoye desjà bien, Quant je fuz batu de mon père, Je crioye : a ! a !246 Arriviamo alla “B” e scopriamo ulteriori dettagli sull’alcolismo dell’adolescente: LE MAISTRE B PERNET Sainct-Jean, il ne m’en chault voire, 245 246 Ibidem : pp.360-361. Ibidem : p.365. 261 Je viens tout fin de boire : Je ne puis boire si souvent.247 Queste scenette comiche vengono probabilmente da una filastrocca molto in voga (e di cui abbondano sosia ed imitazioni), il Sénefiance de l’A, B, C.248 Lo stesso stereotipo dello studentello stolto, vanitoso ed ambizioso ritorna ne la Mère, le filz et l’examinateur249 – del primo decennio del XVI secolo e di svolgimento non dissimile dalla farsa di Pernet – e nella Farce de la bouteille ove però le ambizioni del protagonista si limitano a voler diventar prete. Qui l’imbecillità sembra indotta dall’esagerata lettura delle sacre scritture, che il giovanissimo niais cita in continuazione senza alcun nesso logico con la situazione concreta del dialogo. Fra le mani il ragazzo stringe una bottiglia con dentro una nave e non fa che stupirsi dell’arte misteriosa attraverso la quale è stata introdotta nel collo: osserviamo insomma il principio base della stupidità, quello cioè di rimanere attoniti, estourdi, anche di fronte a cose e fenomeni normali. Ie ne dy pas sy le pertuys Fust ases grand pour le paser, Mais de luy mectre sans caser, Cela me faict trop esbahir.250 Di fronte alla stupidità del figlio la madre ed il vicino di casa sono sbalorditi e preoccupati: ma ecco la soluzione inventata dal vicino, che d’altronde asseconda i desideri del ragazzotto. LE VOESIN Faisons en un homme d’eglise Je n’y trouve aultre moyen. LA FEMME Helas ! compere y ne sait rien ; Ce ne seroyt que vitupere. LE VOESIN O ! ne vous chaille, ma commere; Il en est bien d’aultres que luy Qui ne sayvent ny ta ny my. Mais qu’il sache son livre lyre, Et qu’il puisse sa messe dire, C’est le plus fort de la matyere.251 247 Ibidem : p.366. Rec. JUBINAL, t.II, pp.276-278. La composizione è del XV secolo. 249 ATF, t.II, pp.377-387. 250 Rec. LEROUX, t.III, n° 46 : p.6. 251 Ibidem : p.13. 248 262 Ed eccoci ancora una volta alla satira contro gli uomini di chiesa: per essere un prete non bisogna troppo sbattersi nello studio, basta imparare meccanicamente a leggere e scrivere dalle scritture e poi ripeter come pappagalli; il ragazzo è perfettamente d’accordo e vorrebbe incontrare un vicario per avere il suo futuro radioso. Racconto d’idiozia con forti strali anticlericali e desolante svolgimento narrativo, la composizione doveva reggersi soprattutto sulle attitudini performative degli attori, sul gesto della bottiglia e sull’espressività del niais, perché non vi sussiste alcun movimento drammatico notevole nella pièce, che raggiunge un livello formale scadente e ridondante. A giudicare inoltre dalla battuta finale, in cui si allude allo svolgimento di un’altra farsa dobbiamo supporre che non fu composta per essere rappresentata sola, ma probabilmente come appendice di una pièce comica più strutturata, ipotesi confortata anche dalla brevità della composizione. Nella galleria degli stolti risaltano invece le formidabili attitudini di Maistre Mimin, che dà nome ad una farsa composta fra il 1480 ed il 1490, che sembra recepire precocemente la moda del teatro umanistico italiano verificabile soprattutto nella rinuncia al modello puro del badinage, cioè del gioco puro e semplice dell’imbecillità. Il testo è il primo della serie di farse dedicate alla celebre figura giocosa di maistre Mimin e merita di essere sfogliato con attenzione, poiché – oltre al successo che riscosse sui palcoscenici del medioevo francese – è una delle farse più considerevoli sotto il profilo stilistico e la comicità grossier vi lascia il posto ad allusioni linguistiche curate pur nel tema triviale. Nella farsa Raulet ha affidato suo figlio alle lezioni di un pedante, ma viene talmente imbottito di latino che non riesce più a parlare il francese e ne esce mezzo stolto. Per sua fortuna ha una donna che i genitori hanno gli hanno scelto per moglie che con le arti tipicamente femminili della chiacchiera riuscirà almeno a restituirgli la parola, ma con risultati a dir poco dubbi. La “tela” si apre su Raulet e la moglie Lubine: il primo ingiunge violentemente alla compagna di non tardare mai più e questa risponde di essere rientrata tardi in casa per via di un grave problema che affligge il figlio, che ha disimparato il francese. […] il ne parle plus françoys. Son maistre l’a mis a ces loix : Il s’i est fourré si avant Qu’on n’entend non plus que un Angloys Ce qu’il dit252 252 ATF, t.II, pp.338-359 : p.339. 263 Nell’orizzonte basso e popolare verifichiamo questa curiosa inversione del pensiero dantesco, in cui notoriamente il parlar latino è un segno di sanità mentale e logica, oltre che di implicita saggezza filosofica. Mimin è mezzo rimbecillito dall’ostinazione del maestro, che lo vuole trasformare in un vero maistre più sapiente di qualsiasi altro umanista, benché le doti naturali del ragazzo – è un certo maistre Mengin a sostenerlo – siano di tutt’altro tipo. J’ay ouy dire a maistre Mengin Qu’il avoit le plus bel engin Que jamais enfant peult porter ; Il ne s’en fault que rapporter A son nez : voyla qui l’enseigne253 La pesante allusione alla pedofilia dell’antico precettore di Mimin è sottile, e dal pubblico doveva essere colta subito. Sottolinea per noi Emmanuel Philipot: Lubine, forte mécontente de ce que le Magister ait retenu son fils à l’école au delà du temps nécessaire, invoque la contre-témoignage d’un certain « maistre Mengin », d’après lequel l’enfant avait un génie naturel (« engin ») qui le dispensait de pâlir désormais sur les livres. Il est étrange que ni Fournier ni Hankiss n’aient compris l’équivoque grivoise contenue dans le mot engin. Je me bornerai à rappeler l’adage rabelaisien « Ad formam nasi cognoscitur ad te levavi. » Lubine dit cela en toute candeur, et c’est ce qui amusait l’auditoire.254 I genitori del ragazzo decidono così di andare a visitare la famiglia della donna che destinata a Mimin, per mettere tutti al corrente della difficile condizione in cui versa il futuro sposo e provetto umanista. Tutti insieme se ne vanno poi nella scuola di Mimin a chiedere al maestro di rendere conto del danno provocato. All’entrata il padre – prima prepotente e spaccone con la donna e risoluto contro il maestro – mostra i segni della codardia e i suoi accompagnatori dovranno convincerlo ad entrare ad affrontare il saggio uomo. Qui troviamo due personaggi gustosi e bien caratterizzati, Mimin, mezzo insensato a pronunciare un latino rabbioso e maccheronico, ed il maestro, esaltato per i progressi dell’allievo e per il successo di raffinatissimo sapiente che egli già promette d’avere in tutta Europa. LE MAGISTER Que tu ne me faces blasmer, Aussi que j’aye de toy honneur, Et que une foys tu soys seigneur, 253 254 Ibidem : pp.339-340. TROIS FARCES LONDRES : p.80. 264 Maistre Mymin, apprens et lis. Responde : quod librum legis ? En françoys. MAISTRE MYMIN Ego non sire, Franchoyson jamais parlare, Car ego oubliaverunt. LE MAGISTER Jamais je ne vy ainsi prompt Ne d’estudier si ardant. […] Je te feray un si grant homme Que tous les clers qui sont a Rome, Et a Paris et a Pavie Si auront dessus toy envie Pource que tu sçauras plus qu’eulx255 La ripetitività delle profusioni in latino di Mimin rappresentano a nostro avviso un processo realistico insolito nel genere ed una stilettata all’incomprensibilità degli umanisti e le loro sottili arti della retorica e dell’insegnamento in latino: l’operazione di occultamento del significato delle battute di Mimin è intenzionale e per scatenare l’effetto comico il nostro autore non esita quando serve, ad innestare nelle battute un “latinazzo” grossolano ed ibridato di basso francese che entra in risonanza con le digressioni alionee della Macarronea che affronteremo più avanti. Couchaverunt a neuchias, Maistre Miminus amitus, Se fama tantost maritus, Facere petit enfanchon.256 La famiglia, nonostante le cento lire rese per il servizio educativo del pargolo, vuol distruggere l’educazione che il maestro ha inculcato nella testa di Mimin. L’educatore si fa da parte dopo aver proposto una terapia assurda: che i parenti non lascino mai solo il ragazzo e gli impediscano di leggere e di dormire. Ma i genitori preferiscono fare come si insegna a parlare ad un pappagallo; metterlo cioè nella gabbia dei polli, il sedere all’insù, e sottoporlo alla chiacchiera fluviale della bru che – fra le altre cose – lo costringe a ripetere una serie di giuramenti d’amore. L’insegnamento da volatile ha il suo effetto quasi immediato: la ragazza fatua riesce a restituirgli la lingua volgare, insegnandogli anche a parlar d’amore oltre la sterile sofistica. 255 256 ATF, t.II : p.344-345. Ibidem : p.349. 265 Nella Farce du musnier et du gentilhomme à quatre personnages: l’abbé, le meunier, le gentilhomme et le page,257 del 1550, un gentiluomo, credendo l’abate molto ricco, gli chiede un prestito per festeggiare la quaresima e questi si rifiuta di concederglielo. I due discutono ed infine il gentiluomo promette di andarsene se l’abate è capace di risponde a tre domande: qual è il centro del mondo, qual è il valore del gentiluomo ed infine che cosa egli pensi. L’abate fa travestire il suo compagno mugnaio di cui all’inizio della pièce ha potuto già verificare l’acutezza in una breve scenetta. Questi risponde alle domande del gentiluomo con acutezza da aristotelico: il centro del mondo é qui, se non ci credi misura ; il valore del gentiluomo è inferiore a trenta denari perché Cristo fu comprato per questa cifra ; tu pensi che io sia l’abate, ma in realtà sono il mugnaio. La straordinaria somiglianza con una novelletta inserita nell’Orlandino folenghiano è subito riconoscibile e vale la pena di riportare il passo italiano, benché lungo. Ma perché sete uno spirito di vino, qual plu non ebbe (oh voglio dir!) Platone, cerco saper da voi quant’è vicino lo ciel da terra in ogni regione, dico l'empireo sopra ‘l cristallino. Vostra excellentia intenda il mio sermone! Oltra di questo dite giustamente quant'è da l'oriente all'occidente. E se di queste quattro dubitanze mi soglierete presto giustamente, vinti scodelle di buecche e panze giuro farvi mangiar incontinente. Ma se con solegismi et altre zanze sofisticar vorete la mia mente, né rendermi ragion che sia probabile, vi trattarò da un asin venerabile. Due cose giunte a queste intender anco desidro, monsignore Griffar osto: dite, piacendo a voi, né più né manco quante son gozze d'acqua c'ha l'angosto mar Adriano insin al lido franco, pigliando il Greco col Tireno accosto. Ultimamente, bon servo di Dio, vorei saper qual or è 'l pensier mio. Tornate al monastero, ch'io v'assegno tutta la nott’ e il giorno a su pensarvi; assotigliate bene il vostro ingegno, se ‘l vi cale di trippe caricarvi e non urtar le spalle in qualche legno, che faccia la pugnata smenticarvi; oltra di ciò se non la indovinate, voi non sarete più messer lo abbate. A questo punto l’abate se ne ritorna alla badia e si mette a piangere ed a disperare. Il suo cuoco si rende conto della faccenda ed essendo grasso come lui accetta di rispondere ai quesiti al posto suo, facendo ritornare l'appetito al prete pavido. Oggi voi mi faceste il primo assalto, ch'io narri quanto il ciel da terra dista; Presto rispondo che gli è sol un salto, 257 Quanto alla terza ambigua dimanda, ch'è di saper quant'acque sian in mare, rispondo che, se ai fiumi si commanda Coll. MONTARAN, t.I, n°10. 266 provandolo senza il « probo » del scotista: lo diavolo cascando già giù d'alto, quando privollo Dio de l'alma vista, senza de tanti astrolgi la cura, vi tolse giustamente la misura. - con lui non debban l'onde sue meschiare, voglio ch'in polve il corpo mio si spanda se, quante gozze son, non so contare; perché come potrò i' torvi misura, senza levar de' fiumi la mistura? [...] Meravigliossi a l'ottima risposta d'un capo di lasagne il pro' Rainero: - A la seconda – disse – senza sosta; ché perder la badia qui fa mistero. Risponde il coco: – E questa anco riposta Tenemo, e risoluta, nel carnero: perché da l'Oriente a l'Occidente una giornata fa, se 'l sol non mente. Et ecco vi risoglio qui la quarta ricchiesta, ch'era a dir lo pensier vostro; quest'ultima, che più dolorosa et arta credeste, ora la più facile vi mostro: ciascun de voi, signori, non si parta fin che chiaro v'appaia il stato nostro; voi, dico, immaginate senza gioco, ch'io sia il priore, e so ch'io son il coco.258 L’intreccio ritorna anche in Francia nell’opera di Nicolas de Troyes, le Grand parangon des nouvelles nouvelles,259 in cui al di là della collocazione in una cornice narrativa più omogenea e coerente – con il signore che tortura l’abate per comprarne i terreni – lo svolgimento (e le domande di cui si chiede la soluzione) è praticamente lo stesso. Dall’Italia abbiamo una fonte più antica: il Trecentonovelle di Franco Sacchetti dove nella IV narrazione il signore in questione è un certo Messer Bernabò di Milano. Quello che cambia è sia la natura delle domande, quattro e tutte più o meno dello stesso genere, sia le ragioni per le quali il signore si scaglia contro il prete. Il mugnaio travestito da abate dovrà dire quanto è distante la terra dal cielo, quanta acqua c’è nel mare, ciò che si fa all’inferno e quanto il signore valga. Il finale è migliorato con la clemenza del signore che punisce l’abate scambiandone le rendite con quelle del mugnaio. La trama ha una tale diffusione in tutte le sue varianti che la vediamo ricomparire anche nel Novecento (novella di Jehan Mansel, segnalata da Emile Mabille nelle note all’edizione del Grand parangon) e trae origine da cultura e leggende popolari, sempre rispettando la fama di arguzia che i mugnai si erano ritagliati nell’esercizio di un mestiere povero che costringeva alla truffa ed al latrocinio sul grano macinato. La larga diffusione di questo espediente narrativo era nota già nel Rinascimento se lo stesso Sacchetti chiudeva la sua narrazione ricordando una diversa versione della storia. 258 Orlandino, (Cap. VIII, stt.37-75). Nicolas de Troyes, Le grand parangon des nouvelles nouvelles, XL. Ung Seigneur qui par force vouloit avoir la terre d’ung abbé s’il ne lui donnoit responce de trois choses qu’il demandoit; laquelle il fit par le moyen de son mounier, (E. MABILLE, 1869, pp.177-180). 267 259 Alcuni hanno già detto essere venuta questa, o simil novella, al [...] papa, il quale, per colpa commessa da un suo abate, li disse che li specificasse le quattro cose dette di sopra, e una più, cioè: qual fosse la maggior ventura che elli mai avesse aùto. Di che l'abate, avendo rispetto della risposta, tornò alla badìa, e ragunati li monaci e' conversi, infino al cuoco e l'ortolano, raccontò loro quello di che avea a rispondere al detto papa; e che a ciò gli dessono e consiglio e aiuto. Eglino, non sappiendo alcuna cosa che si dire, stavano come smemorati: di che l'ortolano, veggendo che ciascheduno stava muto, disse: — Messer l'abate, però che costoro non dicono alcuna cosa, e io voglio esser colui e che dica e che faccia, tanto che io credo trarvi di questa fatica; ma datemi li vostri panni, sì che io vada come abate, e di questi monaci mi seguano; e così fu fatto. E giunto al papa, disse dell'altezza del cielo esser trenta voci. Dell'acqua del mare disse: «Fate turare le bocche de' fiumi, che vi mettono entro, e poi si misuri». Quello che valea la sua persona, disse: «Danari ventotto»; ché la facea due danari meno di Cristo, ché era suo vicario. Della maggior ventura ch'egli avesse mai, disse: «Come d'ortolano era diventato abate»; e così lo confermò. Come che si fosse, o intervenne all'uno e all'altro, o all'uno solo, e l'abate diventò o mugnaio o ortolano.260 Pietro Toldo crede di riscontrare un intreccio analogo anche nel Pecorone di Ser Giovanni Fiorentino, nell’avventura dei dottori Alano e Gimapier,261 ma oltre alla vicenda dell’interrogativo filosofico e teologico, di cui, peraltro, al lettore non è fatta conoscenza del contenuto, qui le similitudini con il racconto che abbiamo appena affrontato, sono praticamente inesistenti: si tratta infatti della lite fra due teologi della Sorbona, che si perpetua fra la Francia e l’Italia con colpo di scena ed un camuffamento finali. 2.3.4 – Falsi morti, aldilà, aldiquà, rêverie. Ne l’Avocat qui se croit mort, l’influenza da parte della novellistica italiana pare fosse fortissima: il testo è purtroppo disperso, ma ne abbiamo una notizia assai dettagliata da Louis Guyon, che trascriviamo così come riportata da Petit de Julleville. « En l’an 1550 […] un homme de qualité et de moyen, de sa profession avocat, tomba en telle mélancolie et aliénation d’entendement, qu’il disait et croyait être mort : à cause de quoi, il ne voulait plus parler, rire, ni manger, ni même cheminer, mais se tenait couché. Sa femme fit appeler des médecins, mais on ne lui sût persuader de rien prendre, ni même manger ni boire aucun aliment pour entretenir sa vie, disant, pour toute raison, qu’il était mort et que les morts ne mangeaient rien. Enfin, il devint si débile, qu’on attendait d’heure à autre l’heure qu’il dût expirer. » Un neveu du malade, après avoir « taché à persuader son oncle de manger, ne l’ayant pu faire, se délibéra d’y apporter quelque artifice pour sa convalescente… Il se fit envelopper, en une autre chambre que celle du malade, dans un linceuil, à la façon qu’on agence ceux qui sont décédés, pour les inhumer, sauf qu’il avait le 260 Trecentonovelle, IV. Il Pecorone, VI,1. (E. ESPOSITO, 1974). «Messer Alano, gran dottore di Parigi, veduta la Corte di Roma, si ritira ad una Badia di monaci in qualità di servente. Adunato dal Papa un concistoro per rispondere alle sottigliezze di messer Giovan Pietro, altro dottore Parigino, ma eretico, egli v'interviene sotto la cappa dell'Abate. Qui si fa conoscere e confonde quel dottore.» 268 261 visage découvert, et se fit porter sur la table de la chambre où était son oncle malade, et se fit mettre quatre cierges allumés autour de lui, et avait commandé aux enfants de la maison, serviteurs et chambrières, de contrefaire les pleurants autour de lui. Somme, la chose fut si bien exécutée qu’il n’y eut personne qui eut vu cette farce qui se put contenir de rire ; mêmement la femme du malade, combien qu’elle fut fort affligée, ne s’en put tenir, ni l’écolier même, inventeur de cette affaire, apercevant aucuns de ceux qui étaient autour de lui faire laides grimaces, se prit à rire. Le patient, pour qui se jouait cette farce, demanda à sa femme que c’était qui était sur la table : laquelle répondit que c’était le corps de son neveu décédé qu’on n’attendait que les gens d’Eglise pour le porter en terre. Mais, répliqua le malade, comment serait-il mort, vu que je l’ai vu rire à gorge déployée ? La femme répond que les morts riaient, témoin celui-là, qui, sans feinte aucune, l’était. Le malade n’en voulut rien croire qu’il n’en eut fait l’expérience sur soi et pour ce, se fit donner un miroir, puis s’efforça de rire, et, connaissant qu’il riait, se persuada que les morts riaient, qui fut le commencement de sa guérison. Après cet acte comédien, monsieur l’écolier eut l’estomac affamé, pour avoir demeuré environ trois heures sur cette table étendu, demanda à manger quelque chose de bon... on alla quérir, à la rôtisserie, un chapon qu’il dévora, avec une pinte de bon vin, se tenant comme assis, ce qui fut remarqué du malade qui, apercevant ce mort vivant, demanda si les morts mangeaient. On l’assura qu’oui, et qu’il le voyait clairement ; alors il demanda de la viande, pour savoir si lui, qui était mort, mangerait comme l’autre... Il mange, avale, boit et fait, en somme, toutes actions d’homme de bon jugement et, de là en avant, continua de manger et, peu à peu, cette cogitation mélancolique lui passa... Cette histoire fut réduite en farce imprimée, laquelle fut jouée, un soir, devant le Roi Charles neuvième, moi y étant. » Rotrou, dans l’Hypocondriaque, tragicomédie ; Carmontelle, dans la Diète, proverbe, ont remis cette situation à la scène; mais nous ne savons s’ils ont eux-mêmes connu la farce originale. Carmontelle (mort en 1806) l’a probablement ignorée. Mais Rotrou a dû la connaître.262 Inevitabile pensare alla storia boccaccesca di Ferondo263 “sotterrato per morto”, in cui un abate, invaghitosi della moglie del protagonista – d’accordo con lei, infastidita dalla gelosia del marito – somministra all’uomo una polvere che lo getta in uno stato di morte apparente: così il prete può beneficiare delle grazie della donna, mentre costringe Ferondo, risvegliatosi, a subire le pene del purgatorio prima di liberarlo, nella contentezza generale dei canti e delle processioni. Ma certo in Boccaccio attorno all’espediente della morte si condensa una trama assai più complessa della completa pretestuosità del marito convinto d’essere morto con cui la farsa perduta dell’Avvocato aveva inizio. Pensiamo anche al favolello di Jean Bodel, le Villan de Bailleul, ove un villico che rientra affamato dal lavoro è quasi sul punto di scoprire la moglie a letto con un prete. La fedifraga si salva persuadendolo d’essere gravemente ammalato, e – una volta fattolo coricare – d’essere morto: la donna lo copre così d’un sudario e comincia a piangere e a disperarsi. Il prete sopraggiunge e celebra le esequie, ed il villano – adeguatosi a fare la parte del cadavere nel feretro – si accorge che la moglie osserva il lutto a modo suo, intrattenendosi nella “camera ardente” con il prete complice 262 Rép. JULLEVILLE, op.cit., 1886, (n°257 : pp.296-297). Il passo è preso da Louis Guyon, Diverses leçons, Lyon, 1625 (1 - II, cap. XXV). 263 Decameron, (III, 8). 269 dell’astuzia.264 La novella di Ferondo e il fabliau somigliano anche ad una storiella di Poggio265 dove lo scemo del villaggio è convinto d’essere malato e poi morto e gli si fa un falso funerale. Più prossima alla farsa nella elementarità dello svolgimento è la novella di Girolamo linaiuolo fiorentino, che morì due volte e non risuscitò nessuna,266 sesta della raccolta di Anton Francesco Doni, dove Girolamo è identificato da un viandante all’osteria come un conoscente appena deceduto. Il povero linaiuolo si convince che è vero, torna a casa blaterando e si allestisce la camera ardente. Due suoi amici assoldano due uomini per allestire una tavola imbandita al cimitero di S. Lorenzo e fingersi morti; al che il protagonista è interrato nel luogo dove stanno i due bontemponi e si chiede cosa facciano due morti alla tavola; questi rispondono che l’aldilà è così e che ben presto torneranno nelle rispettive case. Girolamo lo stolto segue volentieri il loro consiglio, banchetta e se ne torna a casa sua. Parfois le badin est doué d’une fantaisie très vive et enjouée et il appartient alors à la société nombreuse des fous, dont l’importance, dans la vie courtisane de l’époque, était devenue remarquable. L’esprit du Gonnella italien, de Caillette, de Triboulet et de Polite, français, tel que nous les retrouvons chez Sacchetti, chez Des Périers et dans la littérature populaire de la Renaissance, anime […] les héros de la farce Les trois galants et le badin. Rabelais et les vieux poètes paraissent inspirer cette pièce, où la douce philosophie du rire est prônée par tous les personnages. Le badin se présente aux trois galants, comme un rayon de soleil, qui réjouit leurs âmes. Il commence par plaisanter sur les lettres de l’alphabet, puis il conte ses rêves extraordinaires et glorieux. Dans son sommeil il est devenu roi, mais ainsi que La Fontaine dit de lui-même, en se réveillant il se trouve : « Gros Jean comme devant ».267 Les Trois galants et le badin è una successione di deliri o rêverie, per lo più collegati alla tradizione medievale del mondo degli stolti e di Cuccagna; la testa portata a spasso, come addormentata sul busto: è questa la condizione del folle, che vive in sogno senza altresì dormire. J’ay faict faire l’assemblee, Des princes crestiens que menoye Sur le turcs, et le combatoye ; Et quant me resveillay au matin, J’aperceutz que j’estoys Naudin […] 268 264 « ‘Frere’, dist ele, ‘tu es mors : | Dieus ait merci de la teue ame ! | Que fera ta lasse de fame | Qui por toi s'ocirra de duel ?’ | Li vilains gist souz le linçuel, | Qui entresait cuide mors estre ; | Et cele s'en va por le prestre | Qui mout fu viseuse et repointe. » Rec. MONTAIGLON – RAYNAUD, t.IV, pp.212-216 : p.214. 265 Facetiae, CCLXVIII: De mortuo vivo ad sepulchrum deducto loquente et risum movente. 266 Novelle di Anton Francesco Doni, (E. CAMERINI, 1863 : pp.18-20). 267 P. TOLDO, 1903 : pp.311-312. 268 Rec. LEROUX, t.II, n°39 : pp.9-10. 270 L’onore delle armi non è cosa che fa per lui, troppo pavido e pacifico e goliardico per vestirsi di un’armatura e prendere colpi sulle spalle e dominare un qualsiasi potere temporale. Il badin vorrebbe qualcosa di più libero ed ancora più al di sopra della legge sociale: inizia così a pensarsi come Dio. Manda via dal mondo tutto ciò che è politica e guerra, apre le porte del suo immenso paradiso e vi fa entrare i menestrelli e vi dona banchetti enormi (ma l’accesso sarà vietato ai ballerini per evitare che il pavimento del paradiso crolli sotto il peso dei loro passi di danza). Però, a smentire ancora una volta una qualsiasi lettura in chiave di rivendicazione sociale del teatro profano, quando gli si domanda che cosa farà dei poveruomini che vivono della miseria e nel disprezzo della società non si dimostra altrettanto democratico con quelli che dovrebbero essere i suoi simili nella vita materiale di questo mondo. Je les metroys en purgatoyre, Pour parfaire leur penitence.269 Il suo furore moralizzatore si scaglia contro tutto e tutti: contro i sergenti, troppo ordinati; contro i panettieri, colpevoli di fare pani troppo piccoli; contro gli osti che mescolano acqua e vino o il vino nuovo con quello vecchio; contro i mercanti di legno e di cavalli, che tormentano troppo gli uomini con le loro trattative estenuanti. Nel suo paradiso si deve vivere in costante baldoria, senza che manchino cibo, vino e donne; come dicevamo, si tratta di una rivisitazione piuttosto pedissequa del mondo di Cuccagna o Bengodi. Jambons, bonne poules, bouilys; Et aux vendredys, samedys, De bons pouessons par adventure […]. Et pour vous dire au certain, Venir feroys les pierres en pain. […] Becaces, faisans, lapereaulx… Je feroys que les rivieres, Sans en mentyr poulce ny aune. Seroyent du vin clairet de byaune, Et le reste de vin francoys. 270 Le donne saranno ammesse nel suo regno, ma a patto che siano rese mute e che non abbiano più di quindici anni, così da prendere solo le gioie dell’unione amorosa: infine tutto il mondo potrà gioire 269 270 Ibidem : p.14. Ibidem : 17 e sgg. 271 di una eterna giovinezza e come in Rabelais o a Bengodi i cespugli fruttificheranno gioielli, cappelli e vestiti. Quaresima la magra perderà il suo regno. E certo il mito del fantastico paese di cuccagna non è invenzione francese, ma come minimo europea. In questo caso è probabile che la provenienza sia per l’ennesima volta legata al fabliau. In particolare sull’emigrazione di Quaresima e la Pasqua che si estende a tutto l’anno possiamo citarne a titolo di esempio uno trovato nella raccolta Barbazan, molto celebre in quanto considerato fra le prime testimonianze letterarie su Bengodi. Li pais a à nom Coquaigne, Qui plus i dort, plus i guaigne […] Six semaines a en un mois Et quatre Pasques a en l’an.271 2.3.5 – Valletti, cerretani e chiacchieroni. Indefesso chiacchierone è l’eroe negativo della Farce du rapporteur,272 scritta nel primo trentennio del Cinquecento; la storia è semplice: il «rapporteur» sparge maldicenze e malintesi fra i suoi compari e commari. Le menzogne sono assai comuni: tradimenti ed adulteri inesistenti, discorsi riferiti con intenzionalità o inventati di sana pianta. Il movente della maldicenza è futile. Come tipicamente accade per i malparlieri italiani (provenienti come è noto dalla letteratura provenzale) la loro pulsione primaria è la semplice noia. LE BADIN Trop me desplaist le sejourner, Je n’ay icy que m’amuser ; A perte ou gain n’a que courage.273 L’azione è tuttavia guidata da cinismo e disprezzo per il prossimo ed il protagonista della pièce non esita a cogliere le crisi degli altri per realizzare la sua “strategia della tensione”. Il cinismo lo porta fino al punto di criticare le vittime del suo gioco meschino per la loro credulità. 271 Rec. BARBAZAN, t.IV., pp.175-180. Rec. LEROUX, t.II, n° 30. 273 Ibidem : p.3. 272 272 LE BADIN Et la la la, il est bien pris, On luy fera tantost sa saulce ; Mais quel gentil homme de Beaulce ! Quel ivrongne, quelle tuache ! Contemples un peu sa grimase. Comme il s’en va batre sa femme, En l’apelant villaine infemme. Mon Dieu ! mon Dieu ! quelle mygnye ! Et tant il est fol qui se fie Aux rapporteurs palins de mefaict.274 Quando però il nostro cerca di raccogliere il frutto della sua maldicenza obbligandosi ad esser presente alle scenate che si preparano e contribuendo anche ad aizzare la violenza della furiosa lite fra moglie, marito e vicine di casa, ecco che le sue crudeltà vengono di colpo alla luce. Gli altri personaggi, fatta chiarezza sull’equivoco e riacquistata fiducia l’uno nell’altra, potranno bastonarlo e rimandarlo a casa. A dispetto dell’elementarità della trama, questa farsa presenta numerosi elementi di singolarità rispetto al repertorio farsesco: la costruzione dei dialoghi, soprattutto, ha una salda architettura logica e la maniera con cui le menzogne vengono seminate ha una certa caratterizzazione psicologia e stilistica. Anche il comico verbale si rivela meno meccanico e strutturato con agilità intorno al tema principale dell’inganno e del tradimento, alla parola come luogo di elezione delle relazioni; siffatta comicità verbale non si esaurisce inoltre nel presente dell’azione, ma risponde ad una visione più unitaria del procedimento narrativo. Ad apertura del dialogo, ad esempio, si presenta come elemento speculare all’azione del protagonista; menzogna ed arzigogolo vengono esaltati in una dichiarazione di intenti che anticipa il contenuto delle frottole sparse nella pièce. LE BADIN Certes y fault que ie recorde ; Ie iouray par desus la corde, Concordant, ie concorderay, A la corde descorderay, I’entens descorder ma voysine.275 Notiamo il ritorno lessicale fra «recorder» («rapporter» in francese moderno usato anche nell’accezione di fare la spia) e «corde», utilizzata qui nel contesto dell’espressione idiomatica «sous la corde» che vuol dire “di nascosto”. 274 275 Ibidem : p.11. Ibidem : pp.3-4. 273 Ciò guadagna un’ulteriore eco fonetica in «concorder» / «descorder» (“mettere in disaccordo”) cui si sovrappone un livello successivo, costituito dalla deformazione dell’espressione «Jouer par desus la corde» (che vuol dire «essere certi, agire con sicurezza») in «Jurer par desus la corde». Di notevole valore anche il cambio dei registri, per nulla scontato in un genere che per sua stessa natura si costituisce intorno alla biomeccanica scenica, priva quindi della complessità delle reazioni umane, perché fatta di solo istinto e principi di causalità. In questa narrazione netta ed elementare basata sul problema dell’inganno e delle reazioni a catena, troviamo una strofa di sottile poesia e malinconia, incentrata sul tema della caducità della vita probabilmente ancora improntato alla poesia carnascialesca che è tripudio di gioia in virtù della brevità dell’esistenza. Lamentazione sommessa sul tempo, questo passo rende ancor più odioso, se possibile, il crimine del bugiardo e dona uno schizzo chiaro dello stato d’animo della vicina, afflitta dal pensiero della morte e della giovinezza perduta.276 [Valletti e "cerretani"] […] méritent bien un rang à part. Rien de plus commun, en effet, dans ce théâtre, que les charlatans débitant leurs drogues merveilleuses, ou les valets des deux sexes offrant au public leurs services de toute sorte et leurs connaissances sans bornes. Maître Aliborum qui de tout se mêle, peut être considéré comme le chef d’une nombreuse famille. Le Watelet de tous mestiers, maître Hambrelin, le Valet à louer, le Clerc de taverne, la Fille batelière et la Chambrière à tout faire, exaltent le mêmes mérites d’un air à la fois fripon et enjoué. Picot [nelle note al monologo di Hambrelin, nella sua raccolta] rappelle à ce propos que le spécimen le plus ancien de ce genre est une petite pièce provençale, n’ayant pas un caractère dramatique, due à la plume de Raimon d’Avignon. Un homme y énumère tous les métiers qu’il sait faire et la famille de maître Aliborum fait elle aussi plusieurs énumérations de ce genre.277 Ciarlatano che si dice in grado di guarire tutti i mali, Maistre Aliborum è il prototipo assoluto per persistenza nel tempo del venditore fanfarone. Ne La chambrière à louer, à tout faire278 il farceur Cristophe de Bordeaux riproduce gli stessi cliché del maestro fanfarone, ma in versione femminile (e dello stesso autore, del resto, abbiamo anche una farsa del Varlet à louer, à tout faire).279 276 «Tout le bon temps s’en va perdu, | Plus n’est saison de bonne chere ; | Ainsy comme i’ey entendu, | Tout le bon temps s’en va perdu. | Le mauvais temps est revenu, | Vous en scaves bien la maniere, | Tout le bon temps s’en va perdu, Plus n’est saison de bonne chere.» Ibidem : pp.11-12). 277 P. TOLDO, 1903 : pp.315-316). 278 Christophe de BORDEAUX, Chambrière à louer, à tout faire, Rouen, A. Cousturier, (s.d.). 279 Christophe de BORDEAUX, Varlet à louer, à tout faire, Rouen, A. Cousturier, (s.d.). 274 Oltre ai classici mestieri femminili come le pulizie, la cucina, il taglio, il cucito ed il ricamo, la cameriera protagonista del sermone è disposta ad offrire i suoi servigi erotici al marito della padrona, tanto per favorire la pace domestica. Le mol faire devenir droit Et faire d'un gros deux petits Pour chercher mes appetits [...] en la chambre Ou s'il advient que quelqu'un entre Pour voir ma maistresse à couvert, La reverence à cul ouvert Ie fais comme ie suis tenuë Ie la voy souvent toute nuë. [...] Si Madame va, en voyage Et foit huit jours sans revenir En ce la n'y à que tenir, Que si Monsieur veut en sa place Me retenir que ie ne face, Aussi bien qu'elle ce qu'il faut, Soit pour coucher en bas, en haut, Au grand lict, en la garde-robe.280 La strega-cameriera è inoltre capace di leggere i tarocchi, vorrà esser trattata come una signora ed in cambio ruberà il lardo e la cera delle candele per fare buon profitto e giusta economia domestica; è inoltre specializzata in pomate per ringiovanire e nel campo esoterico è preparata a «Conjurer les esprits | Qui courent de nuict par la rue»281. A differenza del filone più “pauperistico” che vedrà i primi esempi nella Commedia dell’Arte e poi in Molière e Goldoni, le serve in farsa sembrano essere le peggiori fra le donne: chiacchierone ed erotomani al di sopra della media (già alta, come abbiamo visto nelle pièce analizzate). Nel Débat de la nourrisse et de la chamberière,282 ad esempio, una cameriera ed una nutrice si picchiano atrocemente per il piacere di un certo Johannes, che le incita, compiaciuto anche dall’argomento licenzioso della discussione, ovvero chi delle due si conceda meglio dell’altra. Poi la brigata se ne va a messa per cianciare e sproloquiare più che per pregare. Fille basteliere è una parata o monologo dove vediamo la ciarlatana fare il suo ingresso nella città per esporre le proprie doti amorose e medicali. Anche lei, come i più tipici ciarlatani da strada, prepara 280 Christophe de BORDEAUX, op.cit., (f. iij e sgg.). Ibidem, (f. X). 282 ATF, t.II, pp.417-434. 281 275 unguenti miracolosi: dopo un breve racconto della sua carriera e formazione – una specie di bislacco curriculum vitae in cui dichiara di essere stata servitrice di un saltimbanco, dal quale avrebbe appreso le magiche arti della guarigione e degli intingoli miracolosi – le note di scena ci indicano come l’attrice salti sul banchetto per chiamare a raccolta la folla dei clienti ed elogiare le sue preziose cianfrusaglie. Il doppio senso è sempre in agguato e richiama la fama di libertinaggio e licenziosità che avevano le donne che praticavano la sua professione: dopo aver parlato delle proprietà di una «[…] pouldre si notable & propine, | Syl y a ceans quelque nourisce | Qui ayt perdu le cours de son ruyseau, | Qu’elle soyt lyee au plus pres de la cuisse, | Ie veulx mourir sy en deulx jours ne pisse | Asses pour faire mouldre ung moullin a eau»283 eccola esporre le prodigiose doti di un trattamento contro le febbri ed i calori maschili, di cui ci è dato apprendere solo la durata (un giorno) e l’assoluta necessità di una “seduta privata” con la nostra. Poi l’allusione si fa esplicita e si evince facilmente la varietà delle prestazioni mediche che la donna può offrire ai maschi della città. Un bon viel homme de vilage Vint a moi du meilleur courage, Et me dict en ceste maniere : Et vierge Marye, basteliere, Tant vos racines portent vertus, Mon povre membre ne tient plus. Et soudain, sans attendre plus, Ie lui happe son instrument Et ie luy laue doulcement ; Quant ie l’eutz laue une posse, Soudain se va dresser son chosse, Et le pauvre viellard de rire, Et ie luy dix : en et puys, sire. Et de me faire la gohee : Ma femme sera racollee.284 È questa un’antenata dei commedianti grotteschi del Pont-Neuf, di Tabarin e del Baron de Grattelard, ciarlatano della piazza Dauphine, che dai gridi e dalla filastrocche inventate per vendere in piazza e dalle leggende e dai sermoni per truffare gli allocchi al mercato ripresero molte forme, mettendole a profitto di una drammaturgia della vendita e dello scherzo. 283 284 Rec. LEROUX, t.I, n°1 : pp.8-9. Ibidem : pp.14-15. 276 Farsa e forme liminari hanno un’affinità elettiva con il giocoliere ed il venditore dei quali imitano le forme d’attrazione e di richiamo, le attitudini fisiche, il linguaggio fantasmatico e volgare: gli stessi luoghi della mercatura sono sovrapposti a quelli dell’esecuzione performativa. Bateleur, son varlet, Binete et deux femmes è una composizione piuttosto tarda (1555) dedicata ad una famiglia di ciarlatani, quale mero pretesto per esibire un eclettico elenco dei lavoratori della strada e del catafalco. L’intreccio è praticamente inconsistente: il giocoliere ed il valletto litigano prima sulle rispettive doti e poi sul salario, mentre la moglie del padrone si vanta pubblicamente della sua licenziosità. Nel frattempo doveva realizzarsi un’azione acrobatica, probabilmente il motivo di attrazione principale per il pubblico. Più i ciarlatani si sbattono e sudano sul catafalco meno riescono a fare affari. Si lagnano così con le donne: Vous ne voules rien acheter Vous estes asses curieuses De voir inventions ioyeuseus. Mais quant vient a faire payement Rien ne voules tirer, vrayment.285 Nel Marchant de pommes,286 della metà del XV secolo, vediamo il mercante urlare fra la massa di donne, mentre i compari fanno il loro tour di passe-passe (truffe e raggiri) fra la folla. Naturalmente non bisogna mai fidarsi di questi valletti e giocolieri: in un favolello del XIII secolo il Garçon et l’aveugle,287 il ragazzo è personaggio a dir poco inquietante, che si diverte a battere il maestro, a prendersi gioco di lui e ad approfittare della sua grave infermità. È lo schema base della relazione comica, ridotto all’osso, secco e crudele nella sua semplicità: vittima e carnefice. La sostanza è la stessa nella più tarda le Sourd, son Varlet et l’Yverongne,288 in cui una serie di malumori fra il padrone ed il servo si trasformano in botte ad un povero ubriaco che si trova a passare da quelle parti e che chiede soltanto di riempire il ventre con altro vino. Il comico qui risiede soprattutto nella catena di equivoci di cui è causa la sordità e l’idiozia del maestro, ma anche nell’istinto del riso basso, scatenato dalla semplice oppressione dei deboli. 285 Rec. LEROUX, t.IV, n°10 : p.6. Ibidem, t.IV, n°70. 287 le Garçon et l'aveugle, (M. ROQUES, 1921). 288 Rec. LEROUX, t.I, n°21. 286 277 In Maistre Mimin, le varlet et le chaussetier (o Maistre Mimin le goutteaux, del 1534),289 la coppia padrone-servo (vittima-carnefice) è delle più anomale: uno è storpio e l’altro è handicappato. Il Gouteaux si è scelto infatti un valletto sordo, e che per di più non fa che blaterare frasi sconnesse tirate per i capelli dalle gesta letterarie gargantuesche. Oltre alle sofferenze della gotta, Mimin deve pure farsi venire il sangue amaro per cercare di comprendere le assurde chiacchiere del compagno. LE GOUTEAUX J’ay bien cause de m'indigner Contre toy, sourd de Dieu mauldit. Entens-tu point que je t'ay dit ? Va-moy chercher ung medecin, Ou me viens chauffer un becin. Tant tu me faictz crier et braire.290 Il valletto è maniaco di libri e pare che investa nell’accrescimento della sua biblioteca tutti gli averi che il padrone gli consegna per pagare i medici. LE VARLET Mon serment, j’en croy le libraire ; Il m’a cousté dix karolus. LE GOUTEUX Sourdault, va querir ung bolus Et ung cyrot bien delyé. LE VARLET J’en eusse prins ung relyé ; Mais il eust cousté davantage.291 Ancora ricompare l’ambiguità della stoltizia: e qui non si capisce se il valletto parli delle sue passioni libresche perché non ci sente o perché fa orecchie da mercante. Le occasioni di digressione performativa in questo animato dibattito sono naturalmente infinite e tutte articolate come si può ben immaginare attorno al problema della sordità. LE GOUTEUX Helas ! je suis bien prins sans vert. Mourrai-je icy en etermin Par ce meschant varlet sourdault ? LE VARLET 289 ATF, t.II, pp.176-188. Ibidem : p.176. 291 Ibidem : t.II, p.177. 290 278 Le libraire n’est point lourdault. E mentre il maestro reclama medicine e cure ed invoca disperatamente un medico. LE VARLET Il y tousjours à reffaire? Comment! est-il cousu trop large. Varyment, il est de bonne marge Et de belle impression. LE GOUTEUX Tant tu me faitz d’oppression ! [...] Sçaurois-tu barbier attrapper? Autant gaignerois à frapper Ma teste contre la muraille.292 E quando finalmente il valletto riacquista l’udito, ci sembra che sia anche più indisciplinato. Ed eccolo dare consigli al faceto maestro ormai in punto di morte; sostiene – filosofo e cialtrone – che forse è meglio chiamare «[…] le curé ou vicaire, | Ce vous est ung quel chappelain; | Vous estes en maulvais pelin; | Pensez de vostre conscience.»293 Finalmente in cerca di qualcuno che aiuti il Mimin, il valletto incontra il mercante di braghe che dalle prime battute non sembra più sensato degli altri ed anzi, è più sordo del servitore. L’ultimo arrivato sulle tavole del catafalco cerca di vendere la merce mentre il valletto è convinto di parlare ad un prete; procediamo lungamente su questo dialogo a binari paralleli, quando finalmente un urlo di Mimin richiama servo e mercante in casa. Inossidabile, lo Chaussetier si mette a prendere le misure del mastro, cui pensa di dover cucire le mutande. LE GOUTEUX Bien voy que suis à mon trespas; Ce n'est pas ce que je demande. LE CHAUSSETIER Une chausse doibt estre grande Pour y entrer plus à son ayse. Ca, la jambe, ne vous desplayse; Elles seront prestes matin.294 292 Ibidem : t.II, p.179. Ibidem : t.II, p.180. 294 Ibidem : t.III, pp.186. 293 279 Le chaussetier si rivela essere il più stupido di tutti e non comprende la situazione, anzi, a forza di prendere misure ferisce il malato che comincia ad urlare ed imprecare e così si chiude questa farsa eclettica, molto comica ma a tratti assai criptica. La farsa del Mary, la femme, le badin qui se loue et l’amoureux295 (scritta fra 1500 e 1535) ha come protagonista una donna che dovrà amaramente pentirsi di aver preteso dal marito un valletto: il servitore si fa prendere a noleggio e una volta entrato nella casa pretende le chiavi della cantina e quando vede la padrona a letto con l’amante la minaccia di spifferare tutto al marito. Ottiene così un pagamento in cambio del silenzio, ma per lui sarà doppio il vantaggio e nulla la parola data quando accetterà denaro dal marito per fornirgli informazioni sui movimenti della donna. La farsa si chiude col pestaggio sulla schiena della sfortunata adultera. Anche nella triviale Jeninot qui fist un roy de son chat par faulte d'aultre compaignon, en criant: le roy boit, et monta sur sa maistresse pour la mener à la messe,296 (composta a cavallo fra XV e XVI secolo) assistiamo ancora una volta all’ironia grossolana in salsa comica verbale di un valletto che un pretesto vuol sellare la padrona e farsi portare al mercato. Anche Guillaume qui mangea les figues du curé297 è un valletto stolto ed intrigante che, come sovente accade, ha la pretesa di essere gran sapiente. LE CURE (commence) Guillerme ! GUILLERME Placet, magistrum ? LE CURE Tu es ung notable poltron. D’où viens-tu ? GUILLERME Où ? de foras Ego fui duabus horas Legendo epistolibus. LE CURE Que mauldit soit le lordibus: Il n’a sens non plus que ung oyson.298 295 Ibidem : t.I, pp.179-194. Ibidem : t.I, pp.289-304. 297 Ibidem : t.I, pp.328-350. 298 Ibidem : t.I, pp.328. 296 280 Ma il cretino non è poi così stolto come vuol far pensare. Prima manda all’aria le relazioni del curato. Poi mangia due fichi che gli erano stati dati in custodia: il primo per fame e di nascosto, il secondo spavaldamente, per mostrare al padrone come ha fatto col primo.299 Il genere profano francese è distante dalle esperienze comiche del Rinascimento italiano, perché per “partito preso” estetico rifiuta qualsiasi determinismo. Alla base della drammaturgia italiana che andava sviluppandosi nello stesso volgere di anni, risiedeva invece l’idea del tutto antitetica a questa secondo la quale l’uomo può determinare il proprio futuro e costruire la commedia della propria vita sulla base delle doti personali. Nella farsa, al contrario, non esiste dote personale: il destino degli incontri e del mondo è ciò che vince su tutto in prospettiva antiumanistica ed antideterminista. Possiamo così considerare una farsa più o meno “perfetta” da un punto di vista unicamente letterario, facendo cioè considerazioni esclusivamente sull’intreccio. Ma in questo genere essenzialmente performativo che è la farsa, la presenza del testo è il più delle volte del tutto secondaria ed anche gli esemplari in cui emerge con maggiore vigore una prospettiva più letterariamente “regolare” devono comunque sottostare alle regole dell’esecuzione scenica e mantenere pertanto i caratteri “antiletterari” del genere. Lo stesso personaggio della farsa è spesso meno di un tipo, un figurino di cartone in cui il tratteggio psicologico non solo non viene realizzato, ma sarebbe addirittura controproducente ai fini del ritmo generale delle pièce, interamente basate sul principio di azione-reazione. Rispetto al ruolo della novella nella farsa, mano mano che la letteratura drammatica francese evolveva in senso psicologico complicando il movimento narrativo, la trama della novella – in un primo momento ripresa per porzioni che si facevano, sole, il centro principale della composizione drammatica – diventava per lo più mera digressione al margine di una più complicata macchina scenica: nelle trame molièriane, ad esempio, i riscontri si moltiplicano e i modelli vengono intrecciati, ibridati, denaturati, rispetto alla loro forma originaria. Del successo reale, performativo, di queste pièce ci è dato sapere poco o nulla: qualche eco risuona nei rimandi interni alle altre farse del repertorio o nei sottintesi riferiti ad altre storie ed altri personaggi conosciuti dal pubblico. Ma la risonanza letteraria e la circolazione di un testo non sono a questo proposito completamente probanti e la forma scritta ha certamente agevolato la diffusione dei 299 Il dettaglio dei fichi compare anche nelle Piacevoli notti, (VIII-1) nella novella già citata dei tre pigri stolti e dell’anello. 281 testi più “resistenti” da un punto di vista letterario e che quindi avevano un buon rendimento anche sulla pagina, pensiamo in particolare all’irrinunciabile Pathelin e farse ad intrigo “perfette” come quella quella del Pasté e de la tarte. Col tempo si raggiungeva insomma un utilizzo più creativo e sicuro del modello letterario, con la tendenza a ridurre il margine di azione dell’attore, che nella incalzante cantilena del verso “mnemonico” farsesco raggiungeva il massimo grado di libertà d’esecuzione fisica ed espressione mimica con il minimo dell’intervento verbale. Si andava verso la modernità delle lettere teatrali; forma ibrida fra la rigidità del procedimento in versi e rime e ginnastica del corpo attoriale, la farsa si trovò giocoforza schiacciata dalla nascente commedia letteraria e costretta a lasciare libero il campo all’esecuzione da catafalco degli italiani. In prosa, pura, assoluta ed improvvisa. 282 3 La fortuna dei vinti 283 3.1 – Circolazione di uomini, idee, pratiche. 3.1.1 – Due feste fra medioevo francese e rinascenza italiana. Nel suo Ceremonial françois Theodore Godefroy riporta un estratto dagli Offices de France, stilato da Iean Chenu “Advocat en Parlement”, in cui viene descritta l’entrata di Carlo VII nella riconquistata città di Parigi, nel 1437: la descrizione è molto interessante e dimostra che nella capitale v’era una vivace coesistenza di “saperi teatrali” in grado di progettare macchine festive e cortei ben organizzati, ma tuttavia ancora legati alla dimensione festiva medievale, di matrice municipale, caratterizzata dalla persistenza delle forme della sacra rappresentazione: scarse sono ancora a questa altezza cronologica le tracce di quella dimensione ludica, pagana, propria del Rinascimento italiano. Nelle pubbliche rappresentazioni del 1437 si fa facile esibizione della sgargiante cultura araldica medievale1 e l’immaginario di cuccagna è ancora il punto di riferimento semantico della trasformazione dello spazio civile in meraviglia, privo com’è di quella traslazione intellettuale che si vedeva già nell’ortus conclusus delle feste e dei giardini italiani coevi, colmi di divinità elleniche e romane. 1 A tal proposito si vedano le recenti considerazioni di Amedeo QUONDAM (2007). 284 Le roy ayant passé la porte sainct Denis vint au Ponceau, où un artifice estoit une fontaine, & sur icelle un pot couvert d’une fleur de lys, laquelle du haut des ses trois feuilles iettoit Hypocras, vin & eau en abondance ; dans cette fontaine se promenoient deux Dauphins. Dessous cette fontaine estoit l’arcade pour passer, peinte en azur fermée de fleurs de lys […]2 Il trionfo non ha nulla della raffinata letterarietà petrarchesca delle pubbliche entrate italiane, ed assume ancora molto facilmente forme processionali, eredità del teatro religioso. Il potere è una assegnazione divina, proviene dall’alto e dal trascendente, e per questo ha bisogno di affermarsi in eventi che conservino forti analogie con le forme religiose come territorio culturale in comune con le rappresentanze civiche. Il sovrano prende parte ad una manifestazione religiosa, che mostra innanzi tutto l’immanenza della sua autorità. Come nelle feste sacre, allora, l’ingresso reale è occasione per mettere in scena le vicende evangeliche del Cristo. & dessus une terrasse l’Image de sainct Iean Baptiste monstrant l’Agnus Dei, entouré d’un choeur de Musiciens habillez en forme d’Anges, chantans en toute melodie. Devant la Trinité estoit un grand theatre, sur lequel estoient representez les Mysteres de la Passion, et Iudas faisant sa trahison, ces personnages ne parloient, ains representoient ces Mystères par gestes seulement. A la seconde porte Sainct Denys, dite depuis la porte au Peintre, estoient les Images de sainct Thomas, sainct Denys, sainct Maurice & sainct Louys Roy de France, au milieu desquels estoit celle de saincte Geneviefue Patrone des Parisiens. Devant le Sepulchre estoit un autre theatre, où furent representez le Resurrection du Sauveur du monde, & son apparition à la Magdelaine. A la porte de saincte Catherine derriere Saincte Opportune, estoit un autre theatre, où estoit le S. Esprit descendant sur les Apostres & Disciples.3 La sfilata diventa una processione, una via crucis, e laddove si fa riferimento esplicito al mondo silvestre dei pastori – universo culturale d’elezione nello spettacolo moderno – è per ripetere la scena della natività, nello stesso mélange religioso-allegorico della sottie e dei misteri. Devant le Chatelet estoit un grand rocher, & terrasse couvert d’un bocage & pastis agreable, où estoient les pastoureaux avec leurs brebis, recevans les nouvelles par l’Ange de la Nativité de notre redempteur, & chantans Gloria in Excelsis Deo. Et au dessous l’arcade du dit rocher estoit un Lict de Iustice, où estoient trois personnages representants la Loy de Grace, la Loy Eserite & celle de Nature. Et contre les boucheries estoient representez le Paridis, le Purgatoire, & l’Enfer, & au milieu l’Archange sainct Michel pesant dans une balance les ames des trépassez.4 2 GODEFROY, t.I : p.655. Ibidem : p.656. 4 Ibidem. 3 285 Nella cronaca non emergono particolari mondani e non si fa alcuna allusione alla moda o alla mondanità dell’incontro spettacolare. La vita più propriamente sociale sembra rimanere esclusa dalla rappresentazione pubblica e civica, che si fa dialogo “alto” fra la monarchia e i vari organi della municipalità che organizzano e partecipano dell’evento di ricongiunzione con il re di Francia. Siamo ben lontani dal paganesimo rinascimentale e dal suo teatro di idoli. A questa aderenza più spiccata dell’ingresso trionfale all’universo semantico della processione e della parata medievali sembra involontariamente rispondere per antitesi la prosa di Bernardino Rincio che descrive le ben diverse feste della Bastiglia di quasi un secolo dopo, con stile identico a quello del Ceremonial. Il clima che si respira nella cronaca del ’18 non è più quello di un paese stremato dal conflitto, che festeggia il re vincitore nelle forme della tradizione cavalleresca e religiosa, ma quello di una corte attiva ed alla moda, la corte propria d’uno stato che ha raggiunto il giusto grado di stabilità politica per poter guardare al resto d’Europa come a un territorio di conquista. E, come spesso accade nella storia, Graecia capta ferum victorem cepit: l’esotismo delle terre di conquista è lì a farsi amare dai conquistatori, che finiscono per adottare la cultura dei vinti. Il 22 dicembre del 1518 nel cortile del Bastide Saint-Antoine, il fortino universalmente noto sotto il nome di Bastiglia, viene offerta in onore di quattro ambasciatori inglesi un’importante festa di cui il tempo ha conservato dettagliata testimonianza. L’attento occhio aperto sul sontuoso festino è quello di Bernardino Rincio, sedicente fisico e medico d’origine Milanese, forse in Francia al seguito di un Galeazzo Visconti, che sembra avesse a sua volta contribuito personalmente all’allestimento dell’evento. Bernardino secondo gli stessi opuscoli del 1518 è atrium et medicinae doctor ma di lui sappiamo poco di più: da alcune lettere e da una dedicatoria scritta da uno studente5 abbiamo la sola certezza che insegnò a Padova e Pavia prima di approdare a Parigi per qualche tempo ancora e ripartire per Milano, ove concluse i suoi giorni. Comunque sia, i festeggiamenti di cui il Rincio rende conto, celebravano la conferma dell’intesa franco-inglese che si realizzava nella promessa di matrimonio fra Maria Tudor (figlia di Enrico VIII e futura Maria I d’Inghilterra), di appena due anni, e François de France, il delfino, all’epoca poco più che neonato. 5 D. SHAW, 1990. 286 Il fidanzamento dei due fanciulli, fortemente perorato dal cardinale di York, Thomas Wolsey, era stato ufficializzato il 5 ottobre del ’18, a Greenwich, e la cerimonia fu ripetuta in Parigi il 16 dicembre dello stesso anno: la festa del 22 dicembre chiudeva le celebrazioni, che si erano estese anche al tessuto urbano cittadino (St. Antoine, Hôtel de Ville e rue du Temple), in una serie di eventi finanziati dalle associazioni della cittadinanza di cui, a differenza delle celebrazioni alla Bastiglia, ci giungono solo vaghe eco nei registri ufficiali del municipio.6 È noto come destino volle annullare il precoce fidanzamento (il delfino non diventerà mai re di Francia e la Tudor dovrà resistere alle intemperie dei turbamenti religiosi del suo paese), ma ciò non toglie che lo scopo della missione diplomatica era sul momento di primaria urgenza politica e confermava ulteriormente la fine della lega antifrancese. Si comprende così perché l’autorità regia, responsabile diretta dell’organizzazione dei fasti, volle lasciare traccia indelebile dell’avvenimento ed usarlo come strumento di propaganda non solo diplomatica, ma anche popolare, avvalendosi a tale scopo l’editoria: Bernardino Rincio fu investito del compito di stendere una dettagliata cronaca. E realizzò una pubblicazione ufficiale, insolita per gli altri eventi effimeri della corte, per lo più affidati al tempo dalla scrittura privata e non lucrativa dei tanti diaristi oppure a quella ufficiale, ma pure sempre “intima”, non compromessa con le finalità del potere, delle lettere diplomatiche. Il resoconto dell’evento viene così dato alle stampe appena un giorno dopo i festeggiamenti, e per di più in due lingue, latino e francese: per facilitarne la comprensione alle rappresentanze diplomatiche estere ma marcare anche nell’opinione pubblica un segno di stringente attualità. L’opuscolo in questione esce dalle presse dell’officina di Jean de Gourmont sotto il titolo di Silva apparatum, ludos, convivium breviter dilucideque explicans, per un totale di otto carte in-4°, dotato di colofone molto preciso, ma quasi certamente falso sulla questione della data, visti i tempi di composizione (letteraria e tipografica) assai stretti; per cui possiamo presumere che la vera uscita fosse di almeno un giorno successiva. La traduzione in francese della cronaca (per la verità assai sommaria), uscì invece a Rouen dalle presse di Richart, di cui si riconosce lo stemma, benché non vi sia un colophon esatto ad attestare data e luogo di edizione. Abbiamo infine una nuova emissione dell’opera in latino, sempre per le presse della stamperia parigina, ma con numerosi (e tuttavia 6 Ce ne restano solo copie sei-settecentesche, ad esempio il SAUVAL. 287 sensibili) miglioramenti al testo, pur sempre composto in modo sbrigativo.7 La prima stampa sembra che dovesse coprire l’urgenza della cronaca d’attualità per la diplomazia estera, mentre non crediamo si sbagli a ritenere che la seconda emissione, di poco più tarda, uscisse a compendio di quella volgare per una sua più larga diffusione agli strati meno colti della popolazione. La parabola letteraria del fisico dottor Bernardino Rincio si arresta comunque a questo episodio ed a quello che lo precede di appena una settimana, legato anch’esso alle festività cittadine: un Epitalamion uscito lo stesso giorno della celebrazione del fidanzamento (il 16 dicembre), accompagnato da una traduzione volgare, in questo caso sfornata dalle medesime presse della gemella in latino.8 Lo si sarà notato, si tratta di un programma di propaganda a mezzo editoriale, studiato nel dettaglio del mercato: la pubblicazione della poesia encomiastica in coincidenza con le celebrazioni ufficiali, in 7 Si tratta di altri due in-4°. La nuova emissione latina è firmata sempre da Jean de Gourmont, mentre la traduzione non reca luogo e data, ma contiene la marca del libraio rouennese Richart. Riportiamo qui di seguito le tre versioni: Bernardino Rincio, Silva apparatum, ludos, convivium breviter dilucideque explicans. Veneunt in aedibus Joannis Gormontii, Impressum Parisii, in officina libraria Joannis Gormontii, calcographi, die vigesimo tercio decembris anni M.D.XVIII (In-4 ̊, 8 ff.). Bernardino Rincio, Le Livre et forest de Messire Bernardin Rince… contenant et explicant brefvement l'appareil du bancquet faict à Paris à la Bastille pour la venue des orateurs et ambassadeurs d'Angleterre. Avec les jeux et le festin de ladicte Bastille , J. Richart, (s.l.n.d.), (Rouen, 1518) Bernardino Rincio, Sylva Bernardini Rincii... apparatum, ludos, convivium breviter dilucideque explicans. Veneunt in aedibus Joannis Gormontii, Impressum Parisii, in officina libraria Joannis Gormontii, calcographi, die vigesimo tercio decembris anni M.D.XVIII (In-4 ̊ , 8 ff.). Sulla questione della successione delle pièce è doveroso riportare una nota bibliografica di Alfred Bonnardot che trascrive un colophon con data diversa da quella segnalata nel catalogo elettronico OPALE-PLUS della nazionale francese e nel rep. RENOUARD che fa riferimento anche agli esemplari della British Library. Abbiamo verificato l’esemplare inglese in volgare e la data di impressione non è indicata nel colofone: la dedica reca la data del 23 dicembre 1518. «[…] à la troisième page se lit la date de l’impression : ‘Impressum Parrhysiis in officina librairia Johannis Gormontij chalcographi. Decimo Ca. Ianuarias, Anno M.D.XVIII.’ Ce millésime n’est pas une erreur puisqu’alors on comptait 1518 jusqu’au jour de Pâques de l’année nouvelle qu’en style moderne on nommerait 1519. Au-dessous du titre figurent, comme sur l’édition française, trois blasons juxtaposés surmontés de couronnes. Celui du milieu contient l’Ecu de France. Celui de droite renferme un écu mi-parti de France (une fleur de lys et demie) et de trois lions passants superposés : c’est, je pense, le blason de Marie d’Angleterre, supposée femme du Dauphin. L’écu de gauche est écartelé au Ier et au 4e de France, au 2e et au 3e des cinq hermines rappelant les armes de Claude de Bretagne. Il est à remarquer que sur l’édition française, au lieu de cinq hermines on voit des dauphins. Cette différence pourrait peut-être aider à reconnaître si l’édition latine a précédé ou suivi l’édition française que Brunet cite comme la première. A la fin de la dédicace de l’édition française est la date du 23 décembre, ce qui donne a croire que le livre a paru lendemain même de la fête, ce qui expliquerait ses nombreuses incorrections. Dans la même dédicace l’auteur annonce qu’il a faicte latine ceste breue forest par le commandement du Roy. On n’est pas plus éclairé. Veut-il dire que l’édition latine a paru ou va paraître […]». BONNARDOT : p.66. Noi invece pensiamo che qui l’uso dell’espressione “latine” sia italianismo (o addirittura dantismo) per cui latino equivale a dire “chiaro”: a nostro avviso questo dimostra che Rincio dovette essere più pratico di latino che di francese e che presumibilmente avesse adottato questa lingua per la prima stesura, anche nel rispetto della funzione pubblicistica ufficiale. Latino starebbe, per “chiaro”, dunque per volgare. 8 Le due edizioni dell’Epitaliamon sono in italico, quelle della Sylva in caratteri gotici. 288 doppia lingua, e poi il pamphlet occasionale della Sylva ad esibire l’unicità dell’avvenimento, i fatti e lo splendore. Il fine spiccatamente ufficiale della Sylva, che esce con funzione di carattere strettamente informativo, è diverso da quello dell’Epitalamion, opera con diversa ambizione d’intrattenimento che infatti “On […] vend en la maison de Jehan Gourmont à l'enseigne des Deux boulles” (corsivo mio, n.d.r.), come recita il titolo. Dobbiamo allora aspettarci che la Sylva sia esattamente l’immagine che la nuova corte di Francesco I vuole proiettare di sé, nella città ed all’estero: un gioco di specchi nel quale ci sorprendiamo a trovare tanta moda italiana. Il paradosso è ancora una volta quello che informa tutta la cultura peninsulare del periodo: e qui è tanto più acuto perché si svolge sul terreno dell’alleanza anti-imperiale ove correva proprio il grande tema politico del controllo del nord Italia; dell’asservimento d’una regione la cui cultura non era solo à la page, ma modello, direzione del gusto, modo di vita e di politica. Le descrizioni di Bernardino Rincio, italiano alla corte che più d’altre in Europa era destinata ad accogliere (o recludere) fuoriusciti d’ogni angolo della Penisola, sono fondamentali per capire a che punto l’italianismo si fosse insediato nella nobiltà francese rispetto all’ingresso medievale di Carlo VII a Parigi. Rincio si sofferma soprattutto sui dettagli scenografici del banchetto: la corte della fortezza coperta da tendaggi blu, nella consueta trasformazione dello spazio pubblico, naturalmente aperto, in spazio privato e artificialmente circoscritto, ricorda i sontuosi banchetti offerti in piazza SS. Apostoli nel 1473 dal cardinale Pietro Riario.9 Il soffitto effimero così creato ospita una serie di pitture a tema mitologico e silvestre, il pavimento è coperto di tappeti arancio e bianchi, la tavola è sontuosamente apparecchiata, la luce di candele e fiaccole rischiara il tutto. Le delegazioni inglesi e francesi seggono a posti alterni con le dame, che partecipano alle danze fino a tardi: l’aspetto mondano, anche se in una cronaca con pretesa di ufficialità, è prioritario, così come lo sono moda e costume in una corte che si fa spettacolo.10 Rincio sottolinea più volte quasi a titolo di pregio e a certificazione di gusto che tutto a corte è italiano: le tappezzerie e le sete sono italiane, i tendaggi sono italiani, gli abiti di tutti i partecipanti 9 F. CRUCIANI, 1984. L’ambito vestimentario sembra in questi anni suscitare un interesse senza precedenti in Francia. Proprio all’altezza del 1515 è possibile incontrare nel repertorio Renouard numerose pubblicazioni sui costumi e l’abbigliamento (ad esempio: 1503 n.35; 1507 n.60, 1508, n. 54; 1511 nn. 64-67). 289 10 sono italiani, italiani anche i balli, anzi più precisamente “alla milanese” ed alla lombarda. E non mancano, naturalmente illustri rappresentanti del notabilato italiano: c’è la legazione di Leone X, il conte Borromeo, il duca e la duchessa di Ferrara ed un «orateur de Venise» di cui non viene specificata la funzione. Alla moda italiana la corte si esibisce e si fa teatro di uomini e funzioni politiche; è per questo che largo spazio è dedicato da Rincio all’esibizione delle gentildonne in danze pavane ed al ruolo visivo che la corte ricopre nel turbine degli oggetti e del ballo. Corte italianizzata, in quanto l’Italia è estensione politica della Francia. Corte italianizzata e modernissima che adotta per la prima volta una danza nuova anche per l’Italia, ove risale ad appena dieci anni prima. E del resto nella versione francese il cronista si preoccupa di specificare che le pavane sono delle specie di basse dance, dando per inteso che il lettore medio possa non averle mai viste. E grande è la capacità di assorbimento culturale della corte, se appena due anni dopo, nel 1520, nelle celebrazioni connesse ad un’altra intesa anglo-francese, (quell’evento “di massa” che fu il “Camp” du Drap d’Or) fra le ricche e numerose celebrazioni ed esibizioni si registra anche una “pavana” alla moda ferrarese con grande contentezza dei presenti.11 E poi la musica: nella serata della Bastiglia si suonano cialamelli di diverse dimensioni, così come era uso nelle nuove mode musicali italiche almeno dal 1509; e l’attenzione con la quale Rincio descrive l’orchestra è un segno del carattere moderno che i suoni e l’ensemble dovevano avere agli occhi dei partecipanti. E sappiamo che nello stesso periodo Francesco I aveva chiamato a corte una nuova orchestra, formata in buona parte da Italiani, cercando di aderire allo stile nuovo delle écurie, innovate nel Cinquecento soprattutto nel ruolo dei fiati che furono estesi a più gamme tonali ed aumentarono anche in numero complessivo. Dalle lettere di naturalizzazione apprendiamo che in un primo momento cinque membri dell’orchestra di Francesco I sono italiani (due suonatori di cialamelli, due trombe di Casale Monferrato, un suonatore di corno veronese) ed addirittura nove saranno gli italiani parte della formazione reale del 1529 dotata di corno, fagotti e dulciane.12 E di stile italiano, per concludere, è anche la mascherata che si svolge alla Bastiglia dopo il banchetto. 11 I. CAZEAUX, 1975 : p.63. Si trova una raccolta di pavane anche nel cat. RENOUARD, datata 1529: Six gaillardes et six pavanes avec treze chansons musicales a quatre parties (la data del ’29 è solo in un opuscolo, 1529 n. 1763). 12 GROVE dict. (t.XIX, p.509 – t.III, p.369). Lo sviluppo delle mode musicali italiane alla corte francese è tuttavia anche esso legato al movimento più tardo di italianizzazione. Alle timide premesse che qui abbiamo accennato seguirono casi come quello del violinista piemontese Baldassarre (Baldassarrino), da Belgiojoso, giunto in Francia sotto Enrico II: fu 290 Ci sembra macroscopico il cambiamento da quel lontano 1437: l’italianizzazione della cultura francese (ma più in generale della cultura cortigiana europea) comincia a essere visibile, per così dire, a occhio nudo. Quello degli italiani in Francia, (e particolarmente degli italiani che si occupano a vario titolo di teatro) sembra un fenomeno carsico: nel corso del XV secolo avvertiamo qua e là delle presenze, emersioni difficili e sporadiche dalle stratificazioni delle fonti documentarie, presenze quasi afferrate, ma subito disperse nel mutismo delle fonti. 3.1.2 – Invasione o festa viaggiante? Fra le due rappresentazioni pubbliche appena viste e le rispettive cronache c’è il profondo cambiamento degli uomini e dei loro costumi verso l’età e la cultura moderne. Un addensamento delle fonti attorno alla presenza italiana alla corte di Francia si verifica per il regno di Carlo VIII, primo sovrano mecenate delle italiche arti. Ad Amboise, il 29 gennaio 1497, XV anno del suo regno, in un’ordinanza il sovrano stabilisce formalmente che Jacques Taillander si carica del compito di occuparsi degli operai italiani impiegati nel castello. Commectons, ordonnons et depputons par ces présentes a tenir le compte et faire le payement des gaiges et entretenemens de certains ouvriers gens de mestier et autres personnaiges qu’auuons fait uenir de nostre Royaume de cicille pour ouurer de leur mestier a lusaige et mode d’itallye, que suloit tenir et exercer nostre amé et féal conseiller Maistre Jehan du boys contrerolleur general et secretaire de nos finances lequel de son bon gre et consentement s’en est desmis et desisté pour profict dudict Jaques Taillander.13 È una delle prime prove indiziarie sulla presenza italiana alla nuova corte. Il sovrano muore prematuramente nell’aprile del 1498 ed appena qualche mese dopo, in agosto, si prepara l’«estat des gaiges», lista dei pagamenti rimasti inevasi, ove è menzionato ancora Taillander, che dichiara d’avere donato assistenza alla comunità «douuriers, deuiseurs et gens de mestier, uenus du Royaume de secille» assunti dal re, per consentire l’integrazione di questi «estranges et indigens» “valet de chambre” del re e di Caterina de’ Medici. Mise in scena dei veri e propri spettacoli musicali come un balletto “delle Ninfe” per una cerimonia diplomatica. 13 ETAT DES GAGES : p.101. 291 senza «aucune congnoissance en nostre royaume, dont ilz puissent auoir secours ny ayde a leurs affaires»14 e di meritare pertanto il rimborso degli oneri anticipati al re. È questo importante documento, l’état des gages di Carlo VIII, la celebrazione ufficiale, l’emersione, dell’attività artistica italiana in Francia, perché vi figura una lista degli artigiani italiani di cui il re s’era circondato. Il mito biografico di Carlo VIII, re giovane, guerriero ed amante delle arti, si forma durante le campagne italiane, in particolare a Napoli, quando nelle sue corrispondenze il sovrano esprime più volte la volontà di importare in Francia le bellezze artistiche del meridione.15 Le fonti sono note già alla critica della fine del XIX secolo, fra cui Benjamin Fillon, che in una risposta all’articolorepertorio di Anatole Montaiglon sull’état des gages scriveva: Il resulte que la colonie des artistes italiens arriva en France en 1495, et qu’elle s’établit à Amboise, séjour favori de Charles. Voisine de Tours, cette ville fut le foyer artistique où, la mode aidant, Michel Columb et son école vinrent s’inspirer, de même que Jehan Perréal […], et toute cette nouée de peintres et de tailleurs d’images […].16 Tutte le cose più belle del mondo: lo stesso état des gages in cui compare l’affaire di Taillander contiene altre utili informazioni sui contatti fra Carlo VIII e lo stile e le manovalanze italiane, che proprio sotto il suo regno cominciarono ad infiltrarsi nel tessuto sociale francese, sull’onda lunga di quella specie di frenetica festa viaggiante che fu la prima campagna italiana, il cui frutto, lungi dall’essere concretamente politico (ci vorranno ben altri spargimenti di sangue per guadagnare una reale influenza sulla Penisola), fu soprattutto l’importazione di una straordinaria quantità di artefatti italiani destinati ad abbellire il castello di Amboise. La prima campagna d’Italia sembra un paradossale rito di appropriazione, vi si ripete su scala nazionale il succedersi delle stazioni che caratterizza la classica entrata cittadina, ma in questo caso ogni città fa da stazione e teatro effimero: più che una parata d’armi, la dissimulazione delle corti italiane trasforma la missione militare di Carlo in una specie di enorme festa in maschera. Una sfilata 14 Ibidem : p.104. I documenti rimontano al 17 agosto 1498. Ad esempio scrive ad un suo corrispondente: «voi non potete credere che bei giardini che io ho visto in questa città, perché sulla mia fede mi sembra che non vi manche che Adamo ed Eva per farne un paradiso terrestre, tanto son belli e pieni di ogni buona e singolare cosa.» G. MONGELLI, 1976 : pp.63-64. 16 Nel numero del 15 novembre successivo Benjamin FILLON (1851) risponde alle considerazioni di Montaiglon appena viste, aggiungendovi del suo. Nella risposta vengono citati una serie di passaggi della corrispondenza di Carlo VIII a proposito delle bellezze e della cultura di Napoli. 292 15 nazionale di accoglienza, laddove si annidavano più seri voltafaccia politici e l’incomprensibile broglio della politica d’alleanze italiane. È una macchina trionfale lunghissima, un corteo che si allunga per poi contrarsi nuovamente all’interno di ogni città: le accoglienze che gli italiani avevano riservato ai propri sovrani, ora si estendevano alla nazione, in una reazione corale, nazionale, appunto, laddove la nazione politica non esisteva.17 Una parata lunga mezza Penisola il cui ruolo mitopoietico era chiarissimo anche al sovrano, che decide infatti di avere al seguito una corte di cronisti18 per narrare le imprese dell’armata, la cui presa di Napoli per diritto di successione era logica premessa ad una nuova crociata in Oriente. Rimangono numerose cronache come quadri e roman de geste, apparizioni o scene prese dal mondo della cavalleria; l’impresa è un fatto epico e la serie di allestimenti scenici preparati dagli italiani per l’occasione sono ben più della celebrazione che l’armata doveva aspettarsi. Ciò che stupisce leggendo le cronache è la perfetta complementarità di tutte le parti coinvolte nell’affare spettacolare dell’entrata di Carlo: l’esercito e la sua maestà perfettamente ordinata, con la bellezza delle armature e degli stendardi; l’esibizione spettacolare dell’arme viene integrata in un ambiente che si rende a sua volta teatro di gesta. La cultura rinascimentale valorizza e rinnova quella cavalleresca; nella mutazione effimera del tessuto urbano e nella mascherata della corte in un “theatro” totale si muta l’ordinario in straordinario e la storia diventa il copione dello spettacolo del mondo. Così la venuta di Carlo si impregna di segni profetici, il re è una sorta di deus ex machina ove tutte le parti in causa vedono un tornaconto o temporeggiano per capire se possono averne: Savonarola racconta per le strade di Firenze d’un nuovo re in arrivo, un principe vendicatore; le profezie di Santa Brigitta annunciano che un re francese punirà l’alterigia fiorentina. La cultura di Carlo, nutrita di romanzi cavallereschi la cui lettura pare coltivasse fin dall’infanzia, sembra essere assecondata dalle signorie, specie quelle del nord, che preparano ingressi trionfali alla 17 Alcuni dettagli della spedizione che riportiamo di seguito sono ricavati dalla Spedizione di Carlo VIII in Italia di Marin Sanudo, opera plagiata da Marco Guazzo, che la pubblica nel 1547, per Comin da Trino di Monteferrato col titolo Histoire di messer Marco Guazzo, oue si contengono la venuta, & partita d'Italia di Carlo Ottauo re di Franza, & come acquisto, & lascio il regno di Napoli. Il plagio fu smascherato da R. FULIN (1873). 18 Della campagna italiana Carlo VIII vorrebbe conservare una memoria indelebile: lo seguono scrittori e cronisti che realizzano ad uso di Anna e della corte un aggiornamento quasi quotidiano sulle gesta eroiche del re, poi minuziosamente trascritte e rielaborate da André de la Vigne. André de la Vigne, le Vergier d’onneur, (A. SLERCA, 1981). Pierre Desrey, Relation du voyage de Naples, (ARCH. CURIEUSES, s.I, t.I, pp.111-170). 293 moda cavalleresca, intessendo però il mistero francese con il gusto italiano. È il caso di Torino che riserva all’esercito un’accoglienza in stile transalpino, con tanto di sacre rappresentazioni e parate trionfali, durante le quali, Bianca di Monferrato (che accoglie personalmente il re alle porte della città il 5 settembre del 1494) esibisce uno sfarzoso vestito che provoca l’ammirazione del re. Etait habillée d’un fin drap d’or frisé, travaillé à l’antique, brodé de gros saphirs, diamants, rubis et autres pierres fort riches et précieuses. Elle portait sur son chef un gros tas d’affiquets, surbrunis de fin or, remplis d’escarboucles, de balais et hyacintes avec des houppes dorées, gros fanon et bouquets d’orfèvrerie mignardement travaillés. Elle avait à son col des colliers à grand roquets garnis de grosses perles orientales, des bracelets de même en ses bras et autres parures fort rares. Et ainsi richement vêtue elle était montée sur une haquenée, laquelle était conduite par six laquais de pied, bien accoutrés de fin drap d’or broché.19 Ed al classico corteo francese è aggiunto un ciclo di rappresentazioni sulle gesta di Lancillotto, rievocazione tutta cortese del medioevo fantastico: una pantomima ed una scena pastorale ove si rappresentavano in allegoria la legge di natura e di grazia, con storie di Lancillotto. Ad Asti Ludovico il Moro ed Ercole d’Este preparano l’accoglienza. Carlo esibisce la sua devise: Voluntas Dei – Missus a Deo, il sovrano francese ripete la simbologia cristiana, l’emanazione divina del potere. Al pari di Torino anche qui l’accoglienza è di stile francese; ed anche qui una donna sovrana, la moglie del Moro, Beatrice d’Este, è vestita in stile transalpino, assieme ad altre ottanta dame di corte. Il vestito non è da meno di quello di Bianca di Monferrato: il corsetto, con ampia scollatura, brilla di diamanti, perle e rubini, le maniche in merletto sono ornate di lunghi nastri di seta ed il copricapo è decorato con piume di struzzo rosse e grigie. Il sontuoso vestito è uno dei primi innamoramenti di Carlo VIII che comanda una pittura dell’abito da spedire ad Anna di Bretagna. Segue un passaggio a Monferrato ove si svolgono con quattro intermediari di Ludovico il Moro le trattative per un prestito di 57.000 scudi al re con la promessa di altri 50.000 ducati per l’impresa napoletana. Qui il mito si articola: nelle cronache leggiamo che Carlo VIII non si fida dell’offerta e nella notte dell’11 ottobre esige che le porte del castello di Mortara siano chiuse e controllate dalle sue armi, facendo lo stesso anche nel castello di Vigevano, dove tuttavia il Moro con Beatrice D’Este non avevano risparmiato le accoglienze, stando alla testimonianza dell’ambasciatore del duca D’Este, Giacomo Trotti,20 che si dice meravigliato delle decorazioni effimere realizzate nel castello. Ma certo il dettaglio della diffidenza, del fiuto quasi sacro del sovrano unto dal Signore, potrebbe essere stato 19 20 Ibidem : p.128. Giacomo Trotti a Ercole D’Este, in C. FOUCARD, 1879 : p.786. 294 interpolato dalla vasta pubblicista sulla prima spedizione d’Italia, dopo l’ingresso del Moro nell’alleanza antifrancese. A Pavia – dove Carlo viene ricevuto in pompa magna21 – la cronaca delle imprese del re buono trova una scena ghiotta per la propaganda: il re incontra Gian Galeazzo Sforza, gravemente malato e gli promette di trattare il figlioccio di cinque anni, Francesco, come suo. Ad accrescere il pathos contribuisce la scena in cui Isabella, moglie di Galeazzo e figlia dell’Aragona, si getta ai piedi del re per implorarlo di salvare il padre Alfonso, allorquando Napoli sarà occupata. Il re risponde seccamente: «Madame, il ne se peut faire». A Pavia e Piacenza il re visita la certosa ed i castelli e riceve in dono delle forme di pregiato formaggio grandi come mole, che fa spedire in Francia. E finalmente il corteo militare volge a Firenze, dove, a dispetto dell’armatura appena indossata,22 al re si nega anche la più piccola schermaglia: come è noto viene anzi raggiunto da Piero di Lorenzo de’ Medici che, senza opporre resistenza, contratta per la resa e cessione di Sarzana, Ripafratta, Pisa e Livorno, favorendo così l’agonia della signoria che cederà sotto la rivoluzione savonaroliana. Dopo Firenze è la volta di Lucca ed in Toscana più che altrove entrano in gioco le sottili dinamiche campanilistiche italiane, per cui il re è accolto da una folla di gente che lo acclama e che si è fatta cucire sulle camice la croce bianca di Francia; profumi vengono bruciati per le strade al grido di «Francia! Francia!»: ai militari vengono offerte libagioni, bevande ed una festa per le strade. Carlo VIII visita anche il tempietto reliquiario di Matteo Cividale e tocca il Volto Santo. Ottiene dalla repubblica 20.000 ducati e volge le armi a Pisa, dove l’antifiorentinismo si scatena con fanatismo goliardico, aizzato anche dalle notizie sulla repubblica savonaroliana, che fra l’altro invia una delegazione al re. Le accoglienze riservate dai pisani al sovrano sono italianissime: una fiaccolata è organizzata nella città e la folla getta con spregio il Marzocco nelle acque. Il 17 novembre il re torna a Firenze; una parte delle mura difensive è stata abbattuta per consentirgli l’ingresso agevole nella città con le truppe al seguito: uno scudo con i simboli della Francia e panni con scene allegoriche è esposto in piazza della Signoria. Un carro precede il corteo militare, sovrastato da un imponente giglio d’oro, al cui interno vi sono palme ed olivi. Segue anche la messa in scena della parabola evangelica delle donne savie e delle donne folli, riportata sul finire del Vangelo di Matteo,23 fra 21 Bernardino Corio, Historia continente da lorigine di Milano tutti li gesti, fatti, e detti…, (A. MORISI GUERRA, 1978). In quasi tutte le cronache si apprende questo dettaglio: dopo il giro del nord Italia, in Toscana il re cambia gli speroni in legno e mette quelli di ferro, calzando l’armatura e la spada alla coscia. 23 Matteo, 25, 1-13. 295 22 l’episodio dell’entrata trionfale di Gesù nella città di Gerusalemme e quello della Passione, con ovvio parallelo fra il sovrano dei cieli ed il sovrano francese. Il linguaggio dei cronisti non evoca solo la sacralità del fatto e lo stupore attonito di assistere a qualcosa di trascendente: nella cultura delle corti e delle signorie italiane s’è già da tempo installata la coscienza della classicità. Per segnare la continuità del reame con le glorie della latinità si usa la simbologia storica. La rapidità della conquista fa venire alla mente il veni vidi vici di Zela, Carlo è «sopra l’esempio di Giulio Cesare prima vinto che veduto».24 L’un des procédés les plus courants du style panégyrique est l’usage de la comparaison historique. Parmi les personnages traditionnellement cités, figure le plus souvent César, sorte d’étalon de base que le héros glorifié est censé surpasser. Charles VIII est également associé à Alexandre le Grand et à d’autres conquérant célèbres. Au-delà de leur aspect strictement rhétorique, ces inscriptions font ressortir deux notions essentielles : le caractère sacré de la mission de Charles VIII et la légende du monarque invaincu.25 Carlo VIII contratta con il nuovo governo repubblicano i termini del controllo del territorio e lascia la città nella convinzione che Savonarola è con lui e gli resterà fedele. Il 2 dicembre il corteo dell’arma reale muove per Siena dove la cittadinanza ha preparato un sontuoso ingresso, la cui simbologia, intrisa di mitologia e storia antica, evocava la discendenza senese dai galli: un arco di trionfo alla porta Camolia26 celebrava la battaglia di Montaperti del 1260 catalizzando ancora una volta l’arrivo del re nell’odio regionale, antifiorentino, campanilistico. Durante gli spettacoli pubblici una donna vestita da vergine canta un inno: sui trionfi, ovunque, scritte in latino ricordano l’origine sacra della dinastia francese e paragonano Carlo VIII a Carlo Magno. In uno slancio di benevolenza il re cambia d’avviso in merito ai 30.000 ducati che aveva reclamato in prestito dalla città e si accontenta di prendere mille misure di grano per le sue truppe. Riconoscenti, i senesi duplicano la quantità. In Toscana la festa si fa incalzante: la marcia dell’arme è più rapida e diventa una cavalcata indisturbata verso una gloria offerta sul piatto d’argento: i diplomatici del centro Italia fanno a gara per incontrare il sovrano e dichiarargli la propria sottomissione. La festa e la cultura come strategie diplomatiche, non per non essere schiacciati dall’enorme armata francese, ma magari anche per ricavare benefici e mercanteggiare sulle divine richieste del sovrano: è 24 Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, I-19. A. DENIS, 1979 : p.69. 26 Riprendiamo da Anne DENIS (1979) questo dettaglio di Tomme di Nofrio, Nell’ingresso fatto in Siena, Firenze, Biblioteca Moreniana, Fondo Pecci, 54, fo. 71v. 296 25 la diplomazia uno dei mezzi di propagazione della cultura spettacolare italiana, perché siffatta cultura è uno strumento della diplomazia. Dopo essersi installato a Viterbo, il re manda le sue delegazioni nello stato Pontificio. Il papa è più intransigente e lo stesso duca di Calabria, capitano delle truppe napoletane, ha appena lasciato Roma per raggiungere il regno di Napoli. Si fanno diverse trattative. Il re il 31 dicembre prende il controllo della città eterna, dove installerà anche due patiboli in Campo de’ Fiori per far rispettare l’ordine alle sue truppe, che avevano cominciato a saccheggiare la città e le ricche residenze cardinalizie. Il re fissa i termini d’un accordo col pontefice: Cesare Borgia lo seguirà a Napoli per incoronarlo legato pontificale; all’arme francese viene consegnato il principe turco Djem, fratello del sultano Beyazed, prigioniero (o curiosità esotica) a Roma. Il re pretende anche il ripristino dei vescovi francesi ed il libero passaggio sullo stato Pontificio: in compenso il Papa riesce a conservare il Castel S. Angelo, inizialmente preteso dal regnante francese. Prima di lasciare Roma, il sovrano visita tutti i luoghi sacri principali e la leggenda vuole che fosse in grado di orientarsi perfettamente nelle strade della capitale, apprese a memoria sui libri. Salutato dalla popolazione come nuovo imperatore, il re riceve trionfi anche fra le vestigia della latinità: André de la Vigne scrive che furono offerti giochi alla romana, di tori e cani da caccia, nei luoghi storici dell’impero e che al re fu offerto il Colosseo. Da Sanudo apprendiamo invece che la città era punteggiata di fiaccole e fuochi, illuminata al punto da sembrare incendiata: il re resta ospite nei palazzi del Vaticano ed ostenta disinvoltura davanti al Papa, cercando di porsi come suo pari; ed infatti, nella capitale della cristianità «dans la Chapelle Sainte-Petronille, que Charles VIII, le 20 janvier 1495 avait touché environ 500 [scrofuleux], jetant ainsi, s’il faut en croire son panégyriste André de la Vigne, les Italiens, ‘dans une extraordinaire admiration’».27 Il 28 gennaio Carlo VIII lascia la capitale, ed il Borgia appena fuori Velletri scappa, facendo presagire la leggerezza degli accordi stretti con mezza Italia. Le scaramucce che l’esercito si attendeva già dalla Toscana hanno luogo finalmente fra Garigliano e Liri dove il re assedia Monte San Giovanni, fortezza ritenuta inespugnabile e che invece subisce ingenti perdite ed è saccheggiata ed incendiata con grande impressione dei contemporanei, che verificano la potenza delle 30.000 unità al seguito del sovrano. Il regno di Napoli si empie così «di 27 M. BLOCH, 1983 : p.312. 297 grandissimo terrore» per un «modo di guerreggiare, non usato molti secoli in Italia» ove invece si «perdona sempre alla vita degli uomini».28 Le province del regno vogliono evitare ogni ulteriore recrudescenza militare: il 13 febbraio a San Germano, una processione è organizzata per il re, che viene riconosciuto sovrano del regno. Carlo emette editti e concessioni, chiede imposte, assegna marchesati e contee29 prima ancora che le sue truppe raggiungano la capitale del regno: gli Abruzzi, ad esempio, cedono spontaneamente. «Avant son entrée dans le royaume de Naples, toutes les villes sont lui ouvertes, et le roi de Naples, Alphonse II est acculé à l’abdication, car il entend ‘tuta la terra cridare : Franza, Franza’. »30 A Napoli Carlo entra trovando la città nel disordine; Alfonso è scappato, dopo una notte di tormento descritta in un celebre passo di Francesco Guicciardini. Quel che di questo sia la verità, certo è che Alfonso, tormentato dalla coscienza propria, non trovando né dì né notte requie nell’animo, e rappresentandosegli nel sonno l’ombre di quegli signori morti, e il popolo per pigliare supplicio di lui tumultuosamente concitarsi, conferito quel che aveva deliberato solamente con la reina sua matrigna, né voluto, a’ prieghi suoi, comunicarlo né col fratello né col figliuolo, né soprastare pure due o tre dì soli per finire l’anno intero del suo regno, si partì con quattro galee sottili cariche di molte robe preziose; dimostrando nel partire tanto spavento che pareva fusse già circondato da’ franzesi, e voltandosi paurosamente a ogni strepito come temendo che gli fussino congiurati contro il cielo e gli elementi; e si fuggì a Mazari terra in Sicilia, statagli prima donata da Ferdinando re di Spagna.31 La popolazione attacca ebrei e marrani distruggendone le case e saccheggiandone gli averi. L’arma del re è rimasta a presidio delle fortificazioni principali, ma la situazione militare del regno è a questo punto disperata. È il 22 febbraio. In Napoli il re entra con una semplice tenuta ed un cappello di velluto nero, monta un mulo, quasi a sottolineare l’appropriazione del reame con legittima successione. Con lo stesso significato calza speroni in legno in luogo di quelli in ferro. Un valletto con due cani da caccia lo segue: al braccio il sovrano reca un falcone, dettaglio che ancora una volta ci fa rilevare questo incontro di medioevo e moderno, questa alchimia realizzata in Italia per un cambiamento della corte francese, la “passeggiata venatoria” in città (per cui «per essere galante portare tutto dì uno sparvieri in pugno senza proposito») essendo per il Castiglione, appena dieci anni dopo, consuetudine «hor goffissima» benché in passato «prezzata assai».32 28 Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, (I, XVIII). Concessione del ducato di Pescara (Monte San Giovanni e i castelli del marchese di Ferrara) a Giovanni della Rovere; o Fondi, che viene assegnata a Prospero e Fabrizio Colonna. 30 A. DENIS, 1979 : p.73. 31 Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, (I, XVIII). 32 È Amedeo QUONDAM (2007 : p.36) che fissa la sua attenzione sul dettaglio del falcone. 298 29 Cultura rinascimentale e cultura medievale a confronto: una serie di indizi sono a testimonio dei legami ancora stretti del regno francese con l’universo delle forme medievali; ma è una cultura aperta ad accogliere il rinnovamento, così il sovrano risiede diverso tempo nella città, della quale si appropria e della quale lui ed i suoi uomini restano sbalorditi.33 Nella residenza di Castel Capuano, il re saccheggerà il ricco arredo, preparandosi a partire di nuovo alla volta della Francia, per non cadere nella trappola della lega antifrancese costituita su iniziativa veneziana (i veneziani del resto erano i soli che avevano accolto freddamente la calata del re) che rischiava di bloccarlo a sud con tutte le sue truppe; due navi si preparano a partire, mentre il 12 maggio del 1495 il sovrano di Francia fa una cavalcata pubblica. I vascelli contengono fra le numerose ricchezze trafugate, i battenti di bronzo della porta fatta per il castello nuovo da Guillaume le Moine, la statua di bronzo di Alfonso e le vetrate della chiesa dell’Annunziata. Oltre ai pezzi celebri sappiamo che furono imballate e traslate diverse sculture, 130 tappezzerie, 172 tappeti, 39 stendardi in cuoio dorato e dipinto, mobili, letti da campo, credenze, bauli; opere d’arte, oggetti in avorio, mosaici, alabastri, ambre, pietre preziose d’ogni genere, carte e tavole topografiche, una dozzina di ritratti di uomini e donne italiani. Ma la cosa più importante sono 1140 volumi rilegati trafugati alla biblioteca napoletana, opere in cinque lingue, latino, greco, italiano, francese, ebraico, raffinate edizioni a stampa e codici manoscritti: il primo fondo della immensa collezione traslata due volte da Francesco I e divenuta la biblioteca di Fontainebleau, nucleo della Bibliothèque de France. Ma Carlo VIII non si contenta dei semplici oggetti: assieme al vivace ricordo di questa festa viaggiante, cui cercherà di consacrare le arti dell’amato castello di Amboise egli porterà con sé i saperi e le tecniche artistiche del Rinascimento italiano, acquistando diversi artisti, architetti e maestranze, giardinieri, pittori, miniaturisti, massoni, falegnami. Le stesse personalità che circa tre anni dopo compariranno nell’état des gages. La campagna o “viaggio” d’Italia, per Carlo fu un episodio formativo: gli stati italiani lo accolsero come un eroe salvatore e gli dedicarono celebrazioni di raffinato gusto rinascimentale. Al sovrano si svelava un modello di corte, in cui lo spettacolo del nuovo paganesimo era uno strumento politico. 33 «C’est un bon et beau pays plein de bien et de richesses. Au regard de cette citée, elle est belle et gorgiasse en toutes choses autant que ville peut être […]. Ecrit en mon Chastel de Capouanne, en ma cité de Naples, le 22e jour de février» LETTRES DE CHARLES VIII : t.IV, p.137. 299 3.1.3 – Fra scenografia artificiale e naturale. Altre feste. Carlo si installa il 21 febbraio al Poggioreale, reggia sontuosa, costruita nel 1481 su disegni di Giuliano da Maiano ed i cui giardini erano stati forse allestiti da Fra’ Giocondo da Verona. Considerata a lungo come prototipo della rinascenza architetturale italiana, la reggia fu resa celebre dal suo equilibrio compositivo, modello anche per Sebastiano Serlio. Dimostrazione dell’efficacia delle nuove tendenze classicheggianti dell’architettura in essa si combinano la comodità e la rappresentazione ideale, scenografica, della sovranità. Era eretta su due piani e le gallerie con le arcate esterne formavano una specie di impluvium: gli appartamenti agli angoli comprendevano ciascuno sei stanze; il reticolo regolare così composto nascondeva sorprendenti stranezze, passaggi nascosti e persino la possibilità di inondare una stanza per prendersi gioco dei presenti nella soddisfazione teatrale dell’otium postprandiale napoletano. E poi la florida natura della canicola napoletana, con olivi, aranci, datteri: una specie di paradiso terrestre che Carlo vorrà riprodurre in casa sua, cercando di vincere le stesse avversità del clima, altrimenti sfavorevole alle lussureggianti regge napoletane.34 Attivi a Napoli durante il passaggio del re v’erano due nomi entrati a far parte della nuova corte dell’esodo delle arti italiane del 1495: «Dom passollo Jardinier» e «guido paganino, paintre et enlumineur»,35 due personaggi non nuovi al mondo del teatro. Il primo è il celebrato frate Pacello da Mercogliano, fine giardiniere e botanico che sviluppò il giardino come scenografia o gioco di modellazione dell’uomo sul naturale, intraprendendo la direzione di quelle simmetrie e rimandi geometrici che caratterizzeranno lo stile del giardino francese moderno. Pacello continuò la sua attività in Francia anche dopo la morte di Carlo VIII ed applicò al parco di Blois i medesimi principi estetici che lo avevano indirizzato nell’allestimento delle scenografie vegetali delle ville Aragonesi e divenne rapidamente molto noto per la cura artistica con la quale componeva l’insieme vegetale: a lui si deve l’introduzione oltralpe di motivi portanti del nuovo giardino, come il parterre monocromo o policromo che divide il terreno in porzioni funzionali o come la coltivazione degli agrumi e l’installazione nel contesto naturale di macchine scenografiche, 34 Tant’è che si racconta che Pacello nei giardini reali di Francia avesse dovuto organizzare la coltivazione degli agrumi e degli alberi sensibili al freddo dentro enormi vasi, che nella stagione più rigida erano rimossi e portati al riparo. 35 ETAT DES GAGES : p.107. 300 padiglioni e logge.36 Nella villa aragonese della “Duschesca” di Napoli Pacello aveva anche curato le infrastrutture atte ad accogliere fastosi banchetti scenografici. È in questo periodo che gli italiani eccellono nell’arte vegetale ed alla fine del XV inventano il giardino a partire dall’orto medievale, aggiungendo i comandamenti del gusto moderno alla tecnica della coltivazione custodita nei monasteri. Nel 1499 esce per i tipi di Aldo Manuzio il Vecchio, l’Hypnerotomachia Poliphili, conosciuta in Francia sotto il titolo di Songe de Poliphile, che eserciterà una influenza fondamentale nello sviluppo delle architetture effimere da giardino e nella propagazione di un ideale di equilibrio totale (tipografico, architettonico, umano): arte dei giardini, architettura effimera e macchine da spettacolo, come generi contigui, che trovano nella letteratura classica e silvestre un efficace sistema di rispondenze. E poi l’uso dell’acqua in un ideale classico di equilibrio naturale che passando per Napoli si vena d’arabo: le osservazioni sulle ville romane perfezionano il modo di irrigare l’ortus e la pratica dell’architettura idrica da parco e giardino, con le sue molte sfaccettature scenotecniche, resta nelle mani degli italiani che difendono la loro reputazione fino a Caterina de’ Medici37 ed Enrico IV.38 Il parco di Blois fu fondante per lo stile del giardino francese: del suo aspetto rimangono diverse testimonianze39 ed incisioni, che ci riportano ad un gusto fortemente italiano. Uno dei giardini della reggia, dotato di logge padiglioni e pergole era diviso in quattro compartimenti regolari a fontana centrale con fusto decorato: a questo centro geometrico convergevano i vialetti, così come accadrà a Versailles o a Fontainebleau. 36 M. BAFILE, 1954; G. MONGELLI, 1974; A. GIANNETTI, 1994; F. ZECCHINO, 2003. I giardini del Castello di Chenonceau furono affidati a Enrico Norcisio, un calabrese 38 Il quale affida Saint-Germain-en-Layne e Fontainebleau al giardiniere Arancini, destinato a diventare sovrintendente ai giardini reali e alle acque e fontane del re. 39 F. FARIELLO, 1967 : pp.89-91. «Tucti detti cardini (di Bles), dove era primo terreno montuoso et sterile, ha fatto un donno Pacello Prete Napoletano, quale per delectarse molto de questo exercitio fu conducto in Franza dal Roy Carlo quando fu in Napoli. Et vi sono quasi de tucti fructi che sono in terra di Lavoro da poi de fiche de quali ancor che ce ne siano alcuni arbori, fanno li fructi piccolissimi et rare volte vengono ad maturità. Ce ho visto molti arbori de melangoli et altri agrumi grandi, et chi producono assai convenienti fructi; ma son piantati in certe cascie di legno piene di terra, et de inverno li retira sotto una gran loggia coverta da neve et venti nocivi: quale loggia è in detto zardino dove sopra dove sono le habitationi di detto prete zardinero». Queste notizie intorno ai giardini di Blois sono registrate nella cronaca del viaggio del Cardinale Luigi d’Aragona nel 1518, compilata dal suo accompagnatore Antonio de Beatis: Itinerario di Monsignor R[everendissi]mo et Ill[ustrissi]mo Il Cardinal da Aragona mio Signore…. Per noi in L. VOLPICELLA, 1876 : p.110. Le corrispondenze furono poi pubblicate integralmente a cura di L. VON PASTOR, 1905. 301 37 Guido Paganino o Modanino – al secolo Mazzoni – entrava anch’egli in contatto con Carlo VIII durante il passaggio a Napoli e veniva reclutato con modalità analoghe a quelle adottate per Pacello. Si conosce poco della biografia del Paganino, ma fra le prime testimonianze sul suo conto si conservano fonti che ne attestano il debutto nel mondo dell’arte come artigiano esperto in maschere di cartapesta, di cui riforniva gli allestimenti teatrali estensi. Le sue maschere furono indossate per le feste pubbliche date a Modena in onore di Eleonora D’Aragona ed Ercole D’Este, nel 1473 e nel 1476 si occupò degli apparati allegorici di Modena, con un “Ercole mitologico”: la fama dell’artista in Italia ed in Europa gli derivò da questi contributi artistici ai famosi fasti spettacolari estensi.40 Il prestigio di Paganino si accrebbe nel tempo, e dalla scultura effimera passò alla lavorazione della terracotta che usava con forte resa naturalistica e vigore passionale, specie nel genere sacro: lo vediamo lavorare sul tema del Compianto del Cristo morto, dal quale tira esempi di grande forza espressiva; in appena un quindicennio Modanino realizzò un numero significativo di gruppi scultorei su questi genere, tutti fra Cremona, Ferrara, Venezia, Modena. Ma l’artista non abbandonò del tutto l’attività effimera e con ogni probabilità partecipò anche agli allestimenti per Ferrante I ed Alfonso II. La teatralità delle sue opere sacre era nel linguaggio popolare e di forte tensione spirituale e scenica. Un pathos drammatico e popolare che per Carlo VIII fu trasferito alle decorazioni per il castello di Amboise e al sepolcro reale per St. Denis, poi andato distrutto, come la maggior parte delle sue opere realizzate in Francia, benché ivi lo scultore avesse consumato i migliori anni della sua maturità artistica. L’attività di Paganino oltre le Alpi non ci lascia tracce d’esercizio scenotecnico, ma non si esclude che possa avere partecipato all’allestimento delle feste reali: la permanenza a corte non è breve, e ancora nel 1507 è al servizio di Luigi XII, per il quale si occupa di alcune statue per Blois. Se si scorre ancora l’état des gages, ulteriori sono le presenze italiane di operai specializzati, artisti, artigiani: come «dominico de cappo» d’origine napoletana, che esercita a corte la professione di «faiseur de hardes», cioè sarto di capi femminili, abiti antichi e costumi. «Maistre bernardin de brissac» è con ogni probabilità l’artista Bernardino da Brescia, qui qualificato come «ouurier de planchers et menuisier de toutes couleurs». Per quanto riguarda l’abbigliamento ecco spuntare dal censimento delle spese anche «Maistre siluestre abbast, faiseur d’abillemens de dames à lytallienne de toutes sortes» e «jeahn armenaris, decouppeur de velloux à lytalienne, seruant aux habillemens des 40 RUSSO - CALORE, 1980; C. FALLETTI, 1983; LUZIO - RENIER, 1903; CRUCIANI - SERAGNOLI, 1987. 302 dames»: abiti all’italiana che ricordano la cronaca del Rincio e la corte tutta vestita alla moda peninsulare.41 Sempre nello état des gages si incrociano anche le rivendicazioni pecuniarie per «Domenico de courtonne, faiseur de chasteaulx, et menuisier de tous ouvrages de menuiserie».42 L’arco cronologico della vita dell’artista43 (che s’installa in Francia con le prime significative presenze italiane nel 1495 e muore quando la trasformazione s’è compiuta) rispecchia perfettamente la parabola del cambiamento dell’arte francese sotto l’influenza del Rinascimento italiano. Nel regno di Napoli il Cortona aveva visto e partecipato alla convergenza di ideali ed arti fra Ferrante I e Lorenzo il Magnifico, seguendo gli umori di quella prima rinascenza italiana.44 Bassa però è la pensione assegnata a Domenico, inferiore alla media degli ingaggiati e maggiore solo di quelle del guardiano di perrocchetti, o di Damasso, «tourneur d’albastre». La sua qualifica di «menuisier» rispecchia il tirocinio presso il Sangallo45 ma l’état des gages del ’98 attribuisce al Cortona anche la funzione, più enigmatica, di «faiseur de chasteaulx». Anatole Montaiglon ipotizzava che tali castelli potessero essere quelli creati a scopo militare, in legno ed effimeri, che venivano impiegati per la fortificazione provvisoria di un campo o per l’assedio d’una fortezza. Seguiamo però Pierre Lesueur46 nel notare che la tecnica militare dei castelli in legno era allora desueta: una traduzione delle mansioni del Cortona in quelle d’architetto è in più forzata, in quanto nella stessa lista delle pensioni Fra’ Giocondo compare come «deviseur de bastiments», e non si comprende per quale ragione la stessa qualifica non sarebbe stata adottata anche per il Cortona. Vista la sapienza scenografica e teatrale dell’artista, esperto di teatri e “fabbriche” da giardino, possiamo esprimere l’opinione che la sua qualifica fosse quella di progettista d’apparati effimeri, macchine da teatro, carri, eschaffauds. E tale ipotesi crediamo sia avvalorata dal fatto che dell’attività del Cortona non resta in Francia che qualche traccia, forse segno implicito della sua occupazione prevalentemente nell’arte della costruzione effimera. I primi lavori del cortonese (che dopo la morte di Carlo VIII è a Tours) di cui v’è documentazione in Francia sono quelli del 1510, quando ancora come intagliatore realizza sei letti da campo per le camere reali del castello di Blois e quando in 41 J. F. DUBOST, 1997. ÉTAT DES GAGES : pp.108-111. 43 Per la bibliografia dettagliata delle fonti, carte notarili, ricevute di pagamento ed ingaggi, per lo più conservate all’archivio di stato di Parigi, si rimanda all’utile P. LESUEUR, 1928. 44 E. MÜNTZ, 1889-1895, t.I, pp.112-118. 45 Anche Sangallo aveva debuttato nelle arti applicate con lavori di falegnameria fine ed edile, che non tralasciò mai durante la carriera d’architetto. 46 P. LESUEUR, 1928. 303 42 occasione del battesimo di Renata di Francia, occorso il 25 ottobre 1510, il nostro realizza due culle, una pedana di legno per farle dondolare e tutto quanto occorre alle stanze della nuova arrivata della casa reale. Il 5 novembre del 1514 la giovane Maria Tudor (figlia di Enrico VII) faceva la sua entrata reale a Parigi, dopo essere stata consacrata regina il 7 agosto, a St. Denis.47 I festeggiamenti nella capitale durarono nove giorni e fra gli artigiani che curarono i numerosi allestimenti troviamo ancora il Cortona, che esercita la sua abilità nella realizzazione di diverse fabbriche effimere per il piacere del re e della regina e per lo svolgimento dei giochi: il duca di Valois, conte d’Angoulême e futuro Francesco I, fu uno degli organizzatori più attivi dei festeggiamenti. I giochi si svolsero alla rue SaintAntoine, vicino all’hôtel de la Tournelle, dove furono posti eschaffauds per gli astanti e creata una specie di piazza d’armi con barriere in legno, all’interno delle quali dovevano svolgersi le giostre. Domenico realizzò l’arco di trionfo che dava accesso alla piazza d’arme: la struttura doveva essere non più d’un insieme di telai atti a sorreggere le raffigurazioni delle strutture architettoniche e lo schema araldico dei regnanti.48 Cinque colonne classiche reggevano altrettanti scudi, ciascuno di colore diverso e collegati ad altrettante “emprinse”: a seconda dello scudo toccato gli sfidanti avrebbero dovuto sostenere una prova diversa: tornei a cavallo per lo scudo dorato e argentato, giochi a piedi lotte corpo a corpo per lo scudo nero ed infine quello grigio, che corrispondeva all’assedio, in cui era previsto che i dieci difendessero un bastione. 400 lire sono date a saldo del lavoro di Cortona, che include oltre all’arco di trionfo anche i fortini effimeri per lo svolgimento dell’ultimo gioco. Non molto tempo dopo, il 1° gennaio del 1515, Luigi XII si spegne nella sua residenza di Tournelle: le pubbliche cerimonie per la sepoltura ricordano i teatri di morte romani e fiorentini. Domenico da Cortona partecipa agli allestimenti processionali come «menuysier de la feue Royne derrenière décédée» e realizza tutte le strutture lignee che occuperanno le navate centrali di Nôtre Dame: l’opera più importante è una grande camera ardente in legno, in forma di cappella con capitelli e false struttura architettoniche. Il cortonese realizzò anche le macchine necessarie a ospitare la salma del re e le effigi dipinte da Jean Perréal durante le due processioni: e mise in opera anche le suppellettili e gli accessori, come i candelabri e le protezioni per ospitare ceri e banderuole: il lavoro di tutta 47 Molti dei documenti più interessanti sulle nozze fra Luigi XII e Maria d’Inghilterra in John BRIDGE, 1921-1929, t.IV, pp.248-63. 48 Lo scudo di Luigi XII era affiancato a quello della regina, sovrastati entrambi dalla corona; appena sotto quello del duca di Valois e a seguire i blasoni dei nove luogotenenti che prendevano parte alla guerra. 304 l’équipe coinvolta nella realizzazione del teatro funebre è diretta da un altro italiano, tale Francisque de Campobasso, «maistre ingégnieur […] chargé de soliciter jour et nuyt à ce qu’ilz eussent à diligenter leur oeuvre».49 Ed il Cortona contribuirà anche ad altri allestimenti reali: per le nozze di Eleonora d’Austria con Francesco I, nel luglio del 153050 e per la così detta entrevue de Calais (l’incontro parata dell’ottobre 1532 fra Francesco I ed Enrico VIII): entrambi gli eventi erano stati realizzati sotto la supervisione di Montmorency ed il contributo pittorico di Jean Perréal. Ma fra gli allestimenti più importanti in cui Domenico da Cortona venne impiegato dal re vi fu il festino offerto ad Amboise fra aprile e maggio del l518 quando vennero festeggiati la nascita del nuovo delfino, François de France e le nozze di Lorenzo di Piero de’ Medici, duca di Urbino, con Madeleine de la Tour Auvergne (ciò che apriva uno spazio di dialogo col papato). La grande corte interna del castello era stata coperta da tendaggi blu a gigli di Francia: ai muri la tappezzeria riportava storie e gesta dell’antichità, segno che le simbologie pagane s’erano integrate alla cultura transalpina di corte. Anche in occasione di questo doppio avvenimento si giocarono fra il 3 ed il 6 maggio meravigliosi tornei: venne anche qui allestita una piazza d’armi e delle torri, in modo da ottenere combattimenti «approchant du naturel de la guerre». Nella piazza del mercato di Amboise era stata edificata una roccaforte in legno, completa di torri e d’un fossato colmo d’acqua. Le mura erano difese da grossi cannoni che proiettavano nello spazio palloni gonfi d’aria: «grosses balles pleines de vents, aussy grosses que le cul d’ung tonneau, qui ruoient les combattans par terre, sans leur faire mal, et estoit forte chose plaisante a veoir des bonds qu’elles faisoient».51 Il duca di Alençon con cento uomini a cavallo difendevano la fortezza effimera: ai piedi della cittadella i duchi Bourbon e Vendôme alla testa di ben 500 uomini a piedi e cento cavalieri attaccarono la roccaforte. Gli assediati si difesero per un po’, decidendo poi di uscire dalle mura e cercare la tenzone in piazza: tutti si ingaggiarono nella battaglia, a cavallo e corpo a corpo ed il divertimento generalizzato fu appena intaccato da quelli che nel trambusto della falsa guerra 49 P. LESUEUR, 1928 : p.25. Guillaume BOCHETEL, le Sacre et coronnement de la Royne…, Paris, Geoffroy Tory, 1531. Al primo ingresso di Eleonora nella città di Lione fu un architetto italiano, Salvatore Salvatori, a realizzare le medaglie offerte dalla cittadinanza alla regina, al delfino ed al cancelliere. N. RONDOT, 1896 : p.18. 51 M. ANGIOLILLO, 1979. 305 50 finirono morti o feriti per davvero: «Et fut le plus beaulx combat qui fut oncques veu; mais le passetemps ne pleut pas à tous, car il y eut beaulcoup de tuez et affolez».52 Domenico ottenne in questo caso la commissione per la costruzione delle torri, degli eschaffault e delle predelle sulle quali si celebrò il battesimo e si consumò il passaggio delle varie personalità che partecipavano alla cerimonia e concepì anche la sala di celebrazione del matrimonio. Scarsi furono i pagamenti, ma assennato fu l’artigiano all’impresa: 26 giorni e 10 notti di lavoro consecutivi per appena 60 lire. Nelle Vite alla biografia di Leonardo da Vinci, Giorgio Vasari racconta col gusto che gli è abituale le stranezze del grande maestro vinciano: il brano sembra un pezzo drammatico in sé e vi si intende come il teatro, luogo di sintesi e coesistenza di tutte le arti, sia un terreno di elezione per l’eclettica genialità multidisciplinare dell’artista toscano. Il teatro è una scienza leonardiana e Leonardo è un uomo teatrale. Andò a Roma col Duca Giuliano de’ Medici nella creazione di Papa Leone, che attendeva molto a cose filosofiche, e massimamente alla alchimia, dove formando una pasta di una cera, mentre ch’e’ caminava faceva animali sottilissimi pieni di vento, ne i quali soffiando, gli faceva volare per l’aria; ma cessando il vento, cadevano in terra. Fermò in un ramarro, trovato dal vignaruolo di Belvedere, il quale era bizzarrissimo, di scaglie di altri ramarri scorticate, ali addosso con mistura d’argenti vivi, che nel moversi quando caminava tremavano; e fattoli gli occhi, corna e barba, domesticatolo e tenendolo in una scatola, tutti gli amici a i quali lo mostrava, per paura faceva fuggire. Usava spesso far minutamente digrassare e purgare le budella d’un castrato, e talmente venir sottili, che si sarebbono tenuto in palma di mano. Et aveva messo in un’altra stanza un paio di mantici da fabbro, a i quali metteva un capo delle dette budella e, gonfiandole, ne riempiva la stanza, la quale era grandissima, dove bisognava che si recasse in un canto chi v’era, mostrando quelle trasparenti e piene di vento, da ‘l tenere poco luogo in principio, esser venute a occuparne molto, aguagliandole alla virtù. Fece infinite di queste pazzie, et attese alli specchi; e tentò modi stranissimi nel cercare olii per dipignere e vernice per mantenere l’opere fatte.53 L’episodio dei budelli pieni d’aria ci riporta ai fasti di Amboise del 1518 ed è il punto di partenza per cercare tirare qualche conseguenza dallo stato attuale delle conoscenze sul contributo determinante di Leonardo al teatro rinascimentale italiano e francese. Fra il 1490 ed il 1518 l’artista partecipò all’allestimento d’una serie di eventi celebrativi della corte. Non esistono appunti di Leonardo per l’organizzazione del torneo del 1518, né esplicite menzioni del suo nome nelle cronache, ma ci sono forti prove indiziare in favore di questa ipotesi: la prima è certamente la residenza dell’artista nel castello di Amboise, (più precisamente nel non lontano 52 53 Per questa e la precedente, Mém. FLORANGE, t.I : pp.225-226. Giorgio Vasari, Vita di Lionardo da Vinci, (L. BELLOSI, 1986). 306 castello di Cloux) che ebbe inizio nel maggio del 1517,54 dopo il lungo “corteggiamento” dell’artista da parte del re; v’è poi il lungo rapporto di Leonardo con Lorenzo di Piero de’ Medici e la già citata testimonianza del Vasari sulla passione del maestro per il palloni ed i figurini gonfiabili, tecnica che quasi certamente fu usata per le sfere rimbalzanti che furono descritte nei resoconti di Amboise. Sappiamo poi che Jean Pérreal, estimatore di Leonardo ed a lui legato in questo volgere di anni, contribuì ai fasti di Amboise. Da un punto di vista strettamente documentario, abbiamo purtroppo solo alcuni fogli d’un codice leonardiano in cui l’artista si concentra su disegni di salamandra ed ermellino, parte integrante delle allegorie pittoriche esposte durante il torneo.55 Sebbene non esistano studi leonardiani per costumi databili al 1518 è plausibile che gli indumenti dei cavalieri fossero stati da lui ideati: Aldovrandino Socrati scrive infatti da Amboise nel maggio del 1517 che il re aveva comandato al pittore di corte la realizzazione degli indumenti. Orbene, in quel periodo Leonardo era giunto nella residenza reale ove il posto di pittore di corte era vacante; ed è dello stesso periodo il foglio 12329 del codice Windsor contenente il disegno d’un vistoso elmo sovrastato da un leone, di indubbia destinazione spettacolare.56 Per lo stesso ciclo di feste, inoltre, sappiamo da Alessandro Visconti che una fu celebrata anche nel castello di Cloux dove appunto Leonardo s’era da poco installato: lo spettacolo che vi si consumò sembra somigliasse alla famosa scena meccanica del Paradiso realizzata da Leonardo nel 1490, al castello di Porta Giovia.57 Tutto congiura, insomma, in favore dell’ipotesi che le nozze ed il battesimo furono per Francesco I un’occasione per esibire il talento del maestro a lungo richiesto e finalmente approdato nella corte francese: e si spiega forse con le esigenti richieste tecniche di Leonardo ed il suo imprevedibile eclettismo la quantità di lavoro che obbliga il Cortona a ritmi di lavoro così serrati. I rapporti di Leonardo con la famiglia reale e con Francesco I avevano origini anteriori, nate, si potrebbe dire, nel segno dello spettacolo. Crediamo, infatti, che la pubblica rappresentazione di Parigi nel 1514 per le nuove nozze di Luigi XII, (la cui sovrintendenza come s’è visto fu affidata al futuro Francesco I), possa essere stata fondamentale nell’esportazione dello spettacolo di gusto italiano nella capitale: sicché un filo rosso 54 Fra l’altro Leonardo portò con sé una piccola corte di allievi italiani: il Melzi stesso, Andrea Salai o Salaino e Battista de Villanis. 55 Codice H, fol.12 e fol.48 v. 56 Sempre nel settore dei costumi nei fogli Windsor 12577, 12576, 12575, 12574, si vedono diversi figurini dettagliati di maschere silvestri. Sono stati recentemente ricondotti alle rappresentazioni durante le nozze di Isabella e Galeazzo. (C. PEDRETTI, 1995). 57 M. ANGIOLILLO, 1979 : pp.24 e sgg. 307 disegnato dalla sanguigna di Leonardo sembra unire la giostra del Giuliano del 1475 a Firenze, con quella milanese del 1491, realizzata per gli Sforza e poi con l’entrata di Luigi XII in Milano e le celebrazioni lionesi al rientro del re in Francia… fino alle feste parigine e lorenesi del ’14 – ’18. Non è un caso che l’immagine di Leonardo scenografo rimase viva per decenni nelle memorie dei cortigiani. Secondo la vulgata Leonardo visse dal 1504 al 1519 una fase di declino artistico e personale contrapposta all’energia delle creazioni giovanili, ma gli ultimi tre lustri della vita sua furono in realtà una fase di grande maturità artistica, caratterizzata dalla partecipazione ai fasti prima della corte milanese italo-francese presieduta dal governatore Carlo d’Amboise e poi a quelli connessi alla fase iniziale del regno di Francesco I. La residenza di Leonardo sotto l’egida del d’Amboise (e di Luigi XII) si consumò fra il 1506 ed il 1513 in due residenze milanesi intervallate da una attività in Firenze; il mecenatismo francese di questi anni ed il contributo leonardesco alle entrate reali contribuirono alla formazione del mito del genio italiano. Il 16 dicembre 1506, in una lettera alla Signoria di Firenze, Carlo D’Amboise menzionava per la prima volta Leonardo come architetto. Le opere egregie, quale ha lassato in Italia, et maxime in questa città, Magistro Leonardo da Vinci, vostro concittadino, hanno portato inclinatione a tutti che le hanno vedute, de amarlo singularmente, ancora che non l’havessino mai veduto. Et noi volemo confessare essere nel numero de quelli che l’amavano prima che mai per presentia lo cognoscessemo. Ma dappoi che qua l’havemo manegiato et cum experientia provato le virtute sue, vedemo veramente che el nome suo, celebrato per pictura, è obscuro a quello che meritaria essere laudato in le altre parte, che sono in lui de grandissima virtute: et volemo confessare che in le prove facte da lui da qualche cosa che li havemo domandato, de disegni et architectura et altre cose pertinenti alla condictione nostra, ha satisfacto cum tale modo, che non solo siamo restati satisfacti de lui, ma ne havemo preheso admiratione.58 Poco si sa dell’attività architettonica di Leonardo per il governatore francese, ma è sorprendente scoprire che l’edificio della villa che doveva sorgere a Milano si ispirava al Poggio Reale di Napoli, quasi in continuità con quella importazione del Rinascimento napoletano che fu l’istituzione della corte delle arti ad Amboise da parte di Carlo VIII. Il progetto per la villa fu concepito valorizzando la funzione teatrale del luogo già presente nei giochi installati nella reggia aragonese, assecondando così la nota passione per le feste del committente francese. Il giardino leonardesco, come quelli che Pacello aveva fatto per Amboise, era un luogo di delizie con giochi d’acque, strumenti musicali ed una voliera: a questo contesto piacevole rimonterebbero anche i disegni meccanici ed idrici del Vinci 58 C. PEDRETTI, 1995 : p.205. 308 per la realizzazione di fontane sonore59 e di automi per battere le ore, oltre all’uccello meccanico per la «comedia», che secondo Carlo Pedretti sarebbe riconducibile agli studi per un allestimento dell’Orfeo di Poliziano. Nel 1515 Leonardo realizzava in Firenze un arcus quadrifrons effimero, in legno e tela, per la visita di Leone X, diretto a Bologna per incontrare, in dicembre, il sovrano Francese. Furono anni di intesi rapporti franco-italiani: prima di sottomissione militare – con la repressione di Genova nel 1507 e la vittoria di Agnadello del 1509, entrambe celebrate con sfarzo sotto la direzione del d’Amboise – poi di alleanze diplomatiche, con le corti medicee a Roma e a Firenze.60 Gli ultimi mecenati italiani di Leonardo furono quei Medici già proiettati con le banche e la florida nazione fiorentina lionese, verso l’unione con la corona di Francia. L’incontro di Francesco I con Leone X a Bologna fu forse l’occasione in cui Leonardo conobbe il monarca, che poi gli commissionò la realizzazione della residenza reale di Romorantin, mai edificata, ma sintesi efficace delle elaborazioni architettoniche fra regno di Napoli e Francia. Si parlava dell’inserimento di un trucco scenico leonardesco, il “Paradiso”, negli eventi svoltisi nel ’18 ad Amboise e Cloux. Le cronache francesi del ’18 sono invero molto avide di dettagli. In compenso possiamo ricostruire l’evento attraverso i dettagli al contrario abbondanti sulla prima rappresentazione dell’evento nel Castello Sforzesco il 13 gennaio del 1490, in occasione delle nozze di Gian Galeazzo Sforza ed Isabella D’Aragona. È lo stesso autore del libretto, Bernardo Bellincioni a spiegare che la rappresentazione si chiamava così perché vi era fabbricato «con grande ingegno ed arte» di Leonardo da Vinci il «Paradiso con li sette pianeti che giravano», interpretati da attori 59 La villa per il D’Amboise fu progettata da Leonardo nel 1506-8. Del lavoro si conosce solo lo schizzo in due frammenti nel Codice Atlantico (fol. 231 r-b): ed una serie di disegni descrive il sistema di convogliare e far zampillare l’acqua nei giardini adiacenti. Abbiamo inoltre un modello idraulico di fontana sonora, un ponte levatoio, delle torri ottagonali ed una serie di studi sulla canalizzazione delle acque nel territorio circostante. Più tardi Leonardo riprenderà le medesime idee nel sogno di una rete idrica navigabile globale su territorio francese, dal mediterraneo alla manica, nel contesto di progettazione della già citata reggia di Romorantin. Schizzi e calcoli piuttosto dettagliati per una fontana da feste sono sempre nel Codice Atlantico, foll. 218r-b e 247v-a, e rimontano agli ultimi anni del Quattrocento. Le «fontane di Erone» sono quelle specificamente dedicate all’addobbo del banchetto (Codice Atlantico foll.293r-b; 212r-a; 364r-b e Windsor 12690, 12691 ed infine Ms. I di Madrid, foll. 114v115r). Memorandum Ligny, codice Atlantico, fol. 247r-a del ‘97-’99: si tratta di un alzato di parete a nicchie con una serie di spire che probabilmente dovevano manovrare tende e scenari. Nello schizzo in pianta troviamo una annotazione che conferma: «questa sia vestita di tela e poi inchiodata». Lo stesso dispositivo appare al fol. 304r-a: ove sono contenute alcune note più tarde in crittografia con una proposizione di viaggio ed il desiderio di ottenere il libro del “vitolone” («Teatro di Verona», per Carlo Pedretti). Il foglio era originariamente unito al 218r-b sul quale vediamo alcuni calcoli e schizzi relativi a una fontana a vino ed acqua per le feste. 60 Giuliano sposa Filiberta di Savoia, zia di Francesco I; Lorenzo di Piero sposa la nipote del re, Maddalena de la Tour d’Auvergne. 309 recitanti.61 Ogni manuale di storia del teatro indugia sulla rappresentazione, il cui apparato doveva in realtà essere piuttosto semplice: quello che qui ci interessa en passant è l’intuizione barocca, quasi operistica, di Leonardo, che incastona il frons scenae come un intarsio, sfruttando la scatola ottica del palco, fino a quel momento, ed ancora per molto tempo, legata ad una visione classica, architettonica, frontale. I personaggi della macchina scenica leonardesca si muovevano in una mezza ellisse dipinta in oro, punteggiata di stelle per effetto della trasparenza dei materiali utilizzati; attorno all’ellisse ruotavano i segni dello zodiaco, anche essi retroilluminati.62 Dopo la festa del Paradiso, il 26 gennaio 1491 Leonardo organizzò un torneo in casa di Guido da Sanseverino, capitano dell’armata degli Sforza e genero di Ludovico il Moro: le note e i disegni coevi del codice Arundel (fol. 250r.) posso interpretarsi come appunti per un torneo ed altri schizzi di costumi per “uomini salvatici” sarebbero legati allo stesso allestimento. Secondo Carlo Pedretti scrittura e stile suggerirebbero una data compresa fra il 1490 ed il 1495 mentre il disegno del cavallo con cavaliere ricorderebbe quello per il monumento allo Sforza. Schizzato accanto si rinviene anche uno strano copricapo, un elmo con un baldacchino applicato in cima popolato da un pavone; probabilmente uno dei costumi del torneo. Un foglio del Metropolitan Museum contiene invece gli appunti per una messa in scena della Danae, favola mitologica raccontata da Baldassare Taccone, che fu rappresentata nella casa di Giovan Francesco Sanseverino conte di Cajazzo, il 31 gennaio 1496 e nella quale si impegnarono complesse macchine scenotecniche per la resa d’una “mandorla in fiamme” con dentro un’attrice, che compariva improvvisamente durante la recita. 61 «La seguente operetta composta da Messer Bernardo Bellinzone è una Festa ovvero presentatione chiamata Paradiso, però che v'era fabbricato con il grande ingegno ed arte di Maestro Lionardo Vinci il Paradiso con tutti li sette Pianeti che girava, & li pianeti erano rappresentati da homini in forma et habito che si descrivono dalli poeti, li quali pianeti tutti parlano in laude della Duchessa Isabella, come vedrai leggendola». Bernardo Bellincioni, Rime, Philippo di Mantegazi, Milano, 1493. (P. FANFANI, 1876-1878) 62 Nei manoscritti leonardeschi di questo periodo non compare alcun esplicito riferimento all’allestimento del Paradiso, a parte gli appunti «generici relativi a sistemi di illuminazione e a decorazioni fatte di strutture temporanee con l’impiego di drappi e verdure che il Calvi aveva già posto in relazione con i preparativi per i festeggiamenti in occasione delle nozze di Gian Galeazzo con Isabella. E mancano anche gli studi dei costumi per gli attori, che pur devono essere esistiti, come quelli assai più tardi a Windsor. L’unico che, in via di ipotesi, potrebbe assegnarsi a quel progetto è il piccolo disegno di figura umana paludata all’antica nel W. 12725, un frammento estratto da un foglio del Codice Atlantico, il 18 r-b, che è databile introno al 1490. È stato giustamente suggerito (Brizio) che la stessa decorazione della sala, con drappi e verdure a cornice delle armi sforzesche e aragonesi e con compartimenti “dove era dipinto certe ystorie antiche et molte cose de quelle che fece lo Ill.mo et Ex.mo S.re duca Francesco” può intendersi come una anticipazione dei programmi di decorazioni murali che poco dopo Leonardo aveva previsto per Vigevano e per la Sala delle Asse al Castello Sforzesco». C. PEDRETTI, 1995 : pp.290-291. 310 Al foglio 231v. del codice Arundel troviamo le dramatis personae di una rappresentazione teatrale, con ogni probabilità di un Orfeo ripreso da quello di Poliziano. La didascalia lascia scarso spazio a dubbi sulla natura scenografica degli appunti: «quando si apre il Paradiso di Plutone allor sian diavoli che sonino in dodici olle a uso di boce infernali; quivi sia la morte, le furie, Cerbero, molti putti nudi che pianghino; quivi fochi fatti di varii colori… movino ballando». Carlo Pedretti ha recentemente associato queste pagine, (Arundel 231v e 224r), ad un foglio subito ribattezzato del teatro (f. 50, tolto al codice Atlantico) in cui si descrive una macchina scenica: in questa pagina, v’è un meccanismo a saliscendi non diverso da quello già pensato da Leonardo per le scavatrici ed abbinabile agli appunti per una montagna apribile. Lo stile del disegno e la grafia suggerirebbero una data intorno al 1508, stesso anno dei progetti della villa di Carlo D’Amboise a Milano quando Leonardo produsse anche gli appunti del Codice Atlantico ove al verso del folio 629 si può ancora vedere un uccello meccanico con la nota: “ocel de la comedia”. Un altro foglio volante dello stesso tempo63 contiene lo schizzo della struttura di un palcoscenico con indicazione schematica del meccanismo del sipario al quale si riferisce la nota: «a b tirante di corda che serve nel lasciare discendere la tenda che occulta la comedia» ove appena accennato al centro della scena è il contorno nel quale si può riconoscere la sagoma di una montagna.64 Sebbene non esistano fonti esplicite sulla committenza di questo Orfeo, la datazione al 1508 delle relative carte leonardesche lascia grande spazio alla possibilità che esso fu realizzato proprio per il governatore francese di Milano, e questo anche in ragione della coesistenza di queste note con quelle per la villa milanese dell’Amboise. 3.1.4 – Centro, periferia, Lione. In occasione dell’entrata di Francesco I a Lione nel luglio 1515 la ricca “nazione fiorentina” installata nella città, rappresentata dalla persona di Lorenzo di Piero de’ Medici, faceva realizzare a Leonardo da Vinci un leone meccanico – il marzocco simbolo di Firenze – in grado di camminare per una certa distanza, sedersi, ed offrire in dono al re un mazzo di gigli. 63 64 Codice Atlantico, fol. 131v-a. C. PEDRETTI,1995 : p.294. 311 La descrizione della macchina ci viene da un documento posteriore di Michelangelo Buonarroti il Giovane65 il quale parla d’un altro banchetto, quello per le nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV, segnalando l’affinità fra il meraviglioso leone meccanico offerto alla tavola degli sposi ed un noto trucco leonardiano. Le celebrazioni lionesi del ‘15 furono condotte con grande impegno della comunità italiana, che vi prese parte con sforzo economico, ma anche come “padrona di casa”, in virtù dell’affermato primato economico nella città e del clima di rinnovata distensione fra Firenze e Parigi. L’evento era considerato strategicamente importante perché la città di Lione e le sue “nazioni” speravano di mantenere anche sotto Francesco I le stesse prerogative speciali ricevute sotto Carlo VIII: la strategia diplomatica dell’elusione festiva inventata dagli stati italiani era realizzata anche in terra francese. Le decorazioni furono affidate a Jean Yvonnet e Jean Richier e probabilmente Guillaume Le Roy si occupò delle miniature per il bel manoscritto intitolato l’Entrèe de Francois I, Roy de France, en la citè de Lyon le 12 julliet 1515, raffigurante varie stazioni dell’entrata.66 L’ingresso del corteo reale dovette avvenire nella Porta del Vaso o del Leone, a nord, l’entrata proseguendo verso sud lungo l’antico cardo romano, passando poi per il Bourgneuf, tra la collina e il fiume, per attraversare i quartieri di Saint-Paul e di Saint-Jean. La processione si snodò poi per la rue Mercière, proseguendo fino a piazza Saint-Nizier e rue Grenette per arrestarsi all’attuale cours Lafayette. Era aperta dal re con la regina Claudia ed il maresciallo Trivulzio, con una lunga processione di prelati: seguivano i dodici consiglieri di Lione, il procuratore, i notabili, i borghesi e le varie “nazioni” cittadine. Lucchesi, fiorentini e tedeschi con doni per il re, fra i quali dovette essere presumibilmente presentato anche il leone leonardiano, insieme ad un pezzo di gioielleria d’analogo sembiante zoomorfo.67 Le Jeudi douzième de Juillet mil cinq cent quinze, le roi notre souverain Seigneur François premier du nom, a fait sa première entrée & venue en cette ville. Au devant duquel Messieurs les Conseillers habillés de robes de damas tanney, & pourpoints des satin cramoisi, sont allés au devant, accompagnés de Messieurs les 65 Ibidem. La cronaca di Michelangelo Buonarroti il giovane citata da Pedretti è la Descrizione delle felicissime nozze della cristianissima maestà di madama Maria Medici regina di Francia e di Nauarra, Giorgio Marescotti, Firenze, 1600. 66 Il manoscritto, conservato nella Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel, è mancante di alcune pagine e contiene diverse miniature: non siamo riusciti a trovare la collocazione originale. Noi ci siamo avvalsi della rara copia ottocentesca tirata a 150 esemplari, curata da L. GALLE e G. GUIGUE, 1899. 67 L’orefice Jehan Lèpere realizzò il leone d’oro offerto nel 1515 a Francesco I e le coppe d’oro offerte alla regina Claudia e alla regina reggente (Archives Municipales de Lyon, BB, 35 – cc. 638-663g). Il leone aureo era seduto e teneva tra le zampe lo scudo della città di Lione. 312 Marchands Allemands, habillés de livrées de draps gris, les Lucquois, habillés de robes de damas noir, les Fleurentins, habillés de robes de velours, & après les enfans de la Ville, habillés d’accoutrements blancs, bien montés & accoutrés, qui marcherent deux à deux, & après Messieurs les Conseillers, accompagnés de bon nombre de Notables.68 I codici leonardeschi non conservano alcun disegno del leone, che però dovette certamente esistere: non pare possibile stabilire con esattezza la data di presentazione dell’automa che potrebbe avere fatto la sua comparsa in occasione del primo ingresso del re a Lione, il 12 luglio 1515 o più avanti nello stesso anno, sempre a Lione o a Bologna, o ancora nel 1517, per l’entrata solenne di Claudia di Francia nel capoluogo della Rhône. Secondo i documenti pubblicati da Edmondo Solmi nel 1904,69 un leone meccanico, probabilmente lo stesso di Leonardo, apparve il 30 settembre 1517 per l’ingresso di Francesco I ad Argentan e se ne registra la presenza ancora ad Amboise nel 1518, per il doppio festino di cui s’è detto sopra. Del resto la designazione dell’artista toscano come “meschanicien d’estat”, meccanico, nell’atto d‘inumazione di Leonardo al 12 agosto 1519 è un riconoscimento della prevalenza degli interessi sull’automatismo sviluppati negli anni francesi essenziali per la cultura spettacolare e dei giardini. Fatto sta che la presenza del leone nelle feste della nuova corte italianizzante sembra divenire una prassi, sorta di topos dei fastosi banchetti della corte franco-italiana; il successo dell’invenzione era garantito oltre che dalla complessità dell’invenzione tecnologica dall’efficacia della simbologia del Marzocco che dona i gigli ai reali francesi. Rispetto alle fonti, a parte la menzione del Vasari70 e del Buonarroti, Giovanni Paolo Lomazzo trascriveva nel 1584 una conversazione con l’allievo di Leonardo, Francesco Melzi, in cui dava la notizia della presentazione al re di Francia d’un fantomatico leone “tutto ripieno di gigli”. Leonardo Vinci, il quale secondo che mi ha raccontato il Signor Francesco Melzo, suo discepolo, grandissimo miniatore, soleva fare di certa materia ucelli che per l’aria volavano; et una volta dinanzi a Francesco Primo, Re di Francia, fece caminare da sua posta in una sala un Leone fatto con mirabile artificio et dopoi fermare apprendosi il petto tutto ripieno di gigli et diversi fiori, il che fu di tanta meraviglia a quel Re et a tutti i circonstanti che ben poterono poi credere che volasse la columba di legno d’Archita Tarentino, che un Diomede di bronzo, come riferrisse Cassiodoro, sonasse una tromba et un serpente, del medesimo metallo, fosse udito sibilare che alcuni ucelli cantassero; et ancora la testa di bronzo di Alberto 68 Procès-verbal de l’entrée du roi – 12 Juillet. L. GALLE e G. GUIGUE, 1899 : pp.68-69. E. SOLMI, 1904. 70 «Venne al suo tempo in Milano il re di Francia; onde pregato Lionardo di far qualche cosa bizzarra, fece un lione, che caminò parecchi passi, poi s’aperse il petto e mostrò tutto pien di gigli». Giorgio Vasari, Vita di Lionardo da Vinci, (L. BELLOSI, 1986). 313 69 Magno parlasse a San Thomaso d'Aquino, che perciò la ruppe credendosi che fosse un Diavolo, essendo però fattura et opera matematica, come si confessa.71 Si tratta dell’estratto di un documento della Biblioteca Nazionale di Firenze pubblicato nel gennaio 2006 da Jill Burke:72 un Leone meccanico che Leonardo avrebbe realizzato ancora prima, nel 1509 per l’ingresso di Luigi XII a Milano ed incentrato sulla stessa allegoria dei gigli, impiegando soluzioni tecnico-realizzative meno complesse. La presenza di Leonardo nelle celebrazioni conferma soprattutto il suo contributo agli allestimenti milanesi, ma è per noi la prova ulteriore della continuità sostanziale sotto il segno dello stile leonardiano dei trionfi reali e delle giostre svoltisi fra Milano, Firenze, Lione e Parigi nel periodo compreso fra l’ultimo ventennio del Quattrocento ed il primo del Cinquecento. Nel 1515 lo spettacolo era una praxis politica della comunità lionese, che in quel periodo vantava la presenza d’una florida comunità mercantile italiana. L’immigrazione italiana a Lione è sempre stata attribuita all’ascesa al trono di Caterina de’ Medici ed Enrico II di Francia nel 1547, idea che ha limitato l’analisi delle relazioni fra il capoluogo francese e le città italiane nel periodo appena precedente, ricchissimo al contrario di scambi culturali e commerciali. Le guerre d’Italia furono un formidabile fattore di accelerazione dell’economia lionese a causa del trasferimento a più riprese nella città della monarchia di Francia: accelerazione della quale gli italiani lionesi si giovarono. Al business non si comanda: i legami che la signoria fiorentina intrecciò con la corona erano di natura economica e le guerre dei re, dopo una prima esitazione di Piero de’ Medici costata cara alla signoria,73 furono finanziate in parte dai fiorini dei principali banchieri italiani, che a Lione avevano le sedi dei loro banchi. Già prima della spedizione di Carlo VIII nella Penisola, Cosimo il Vecchio gestiva gli affari in Lione avvalendosi di un sensale, Francesco Sassetti,74 che sappiamo ottenere la nazionalità francese per sé e 71 Giovanni Paolo LOMAZZO, Trattato dell'arte della pittura, G. Pontio, 1584, (Della forza et efficacia dei moti, libro VII, cap.I, f.105 15-28). 72 J. BURKE, 2006. Il documento originale è alla Biblioteca Nazionale di Firenze, f.princ. II.IV.171. 73 Ricordiamo che Piero di Lorenzo de’ Medici rifiutò il prestito a Carlo VIII per condurre la campagna italiana, cosciente del rischio che essa comportava per la signoria: Carlo VIII si rivolse ai genovesi, ma anche all’altro ramo della famiglia medici presente in Lione, quello di Pier Francesco. Il re entrò trionfalmente in Firenze e decretò anche la cacciata da Lione dei banchieri che gli avevano rifiutato il prestito. 74 Detto en passant, per avere una idea della straordinaria forza propulsiva non solo economica del sistema bancario italiano, basti vedere la cappella del Ghirlandaio in Santa Trinità, voluta in Firenze da Francesco Sassetti (che giace, fra l’altro, in un sepolcro del Sangallo): straordinaria carrellata di alcuni protagonisti della rinascenza fiorentina e della società del periodo che testimonia delle rete di relazioni che gravitavano attorno al sistema del risparmio cinquecentesco. Su questo ritratto pittorico della borghesia fiorentina si veda A. WARBURG, 1902. 314 per il suo gruppo a condizioni vantaggiose: già nel 1470 i Medici gestivano nel capoluogo della Rhône due banche, la più importante appartenente a Giuliano e Lorenzo; la seconda del ramo di Pier Francesco de’ Medici, diretta da Francesco del Tovaglia. La presenza delle comunità italiane in Lione si doveva soprattutto alle quattro fiere annuali, il cui volume di affari dipendeva quasi esclusivamente dai mercanti del bel paese, lucchesi, genovesi e fiorentini in testa. Le fiere erano state istituite nel 1419 nel numero di tre; in un editto del 14 novembre 1467 Luigi XI aveva aggiunto la quarta per favorire ancora di più la vocazione commerciale di Lione e competere col primato commerciale di Genova.75 In questo senso la città francese era più della repubblica un valido centro di scambio: indispensabile punto di passaggio per le Alpi e nodo di navigazione fondamentale, con i due assi fluviali che consentivano facile accesso al mare ed alla nazione francese a nord. Certes les foires de Lyon avaient un caractère italien très affirmé, mais elles rendaient de grands services économiques, remédiant entre autres à l’étroitesse monétaire du royaume. Un édit de mai 1487 rétablit deux foires. En 1494, Charles VIII eut besoin d’un secours de 10.000 livres pour sa première expédition italienne. Il engagea des pourparlers avec le consulat et les lettres délivrées à Auxonne en juin 1494 rétablirent les quatre foires avec les privilèges du temps de Louis XI. La vielle taxa aussitôt les habitants afin de remettre au roi la somme promise. Les échanges bénéficièrent de nouveau d’une fiscalité très légère, qui réjouit les Italiens. L’influence des foires explique que dès 1469, on trouvait a Lyon 33 maisons florentines de commerce e de banque et autant de maisons gênoises et lucquoises. Au début du XVIe siècle les principaux banquier florentins étaient les Gadagne, Gondi, Manelli, Salviati, Arnolfini, Nasi, Zanobi… ; les principaux Génois étaient les Seve ; les principaux Lucquois, les Bonvisi, Burlamachi, Bandinelli… Les expéditions de rois de France au-delà des Alpes n’ont fait qu’accentuer un mouvement déjà bien lancé.76 Lione fu una seconda Firenze e divenne la meta naturale per le famiglie che avevano problemi con la Signoria; è il caso dei Pazzi, ad esempio, i quali, già installati in Lione, elessero la città francese a loro residenza principale dopo la congiura che porta il loro nome. È un ceto altamente mobile, abituato a lunghe residenze all’estero e ad una concezione cosmopolita ed avanzata del commercio e dello scambio: i banchieri finanziarono anche le esplorazioni geografiche, pensando di trovarvi nuovi territori di profitto.77 In questo contesto di finanza internazionale le “nazioni” lionesi rappresentavano i gruppi d’interesse lucchesi, fiorentini e genovesi. 75 Le fiere proseguirono con alterne vicende per tutto il secolo XVI, ripristinate da Carlo VIII dopo la loro interruzione nel 1484, per ragioni di antagonismo con la municipalità di Tours, che Anne de Beaujeu volle assecondare. R. GASCON, 1956. 76 J. BOUCHER, 1998 : pp.40-41. 77 Nel 1523 una associazione che comprende Antonio Gondi e Tommaso Guadagno finanzia la spedizione in America di Giovanni Verrazano, che visiterà una parte del litorale e che morirà in Brasile nel 1528. Ibidem, (p.44). 315 Per avere un’idea della durata e della precocità della nazione fiorentina in Lione notiamo che già nel 1466 il gruppo siglò un accordo con il convento dei Jacobins, ottenendo l’usufrutto della cappella St. Jean-Baptiste, poi ristrutturata nel 1501. Le modalità di finanziamento del luogo di culto furono minuziosamente indicate in un nuovo statuto approvato nello stesso anno del restauro: la cappella doveva rispondere alle esigenze di rappresentanza del gruppo; un inventario dei preziosi oggetti di culto lì accumulatisi negli anni, risale all’11 agosto del 1517 ed è firmato da Tommaso Guadagni e altri fiorentini di Lione. Inutile dire che elenca un numero notevole di preziosi ed oggetti di lusso.78 I segni della durevole persistenza degli italiani nel tessuto socio-economico della città sono evidenti anche dalla loro presenza a più riprese nel consolato, posizione nella scala sociale ed amministrativa difficile da raggiungere per uno straniero: nel 1505-1506 e 1513-1514 è console Nery Nasi, nei bienni 1524-1525, 1550-1551, 1555-1556, 1560-1561, consoli i membri della famiglia Gerardino, ai Giustiniani il biennio 1575-76, gli Albizzi consoli fra il 1525 ed il 1526, i Guadagni nel 1536-37, Lussemburgo Gabiano nel 1534-44 e nel 1553-54, i Paffi nel 1540-41, 1548-49, 1553-54.79 L’influenza degli italiani in campo bancario era ben vista dalla componente autoctona del commercio e dell’economia: la perfetta integrazione avvenne sul piano della complementarità economica, che aggirava alla radice eventuali concorrenze fra lionesi e stranieri. Agli stranieri, a partire dal 1486 fu vietata la vendita al dettaglio: così la municipalità saturava il mercato cittadino guadagnando una posizione dominante nel commercio locale e al dettaglio oltre che del piccolo trasporto; gli stranieri potevano esprimere la loro vocazione internazionale organizzando le missioni di esportazione ed importazione, smerciando i prodotti lionesi all’estero, importando quelli italiani e fornendo ai dettaglianti condizioni di acquisto vantaggiose sulle merci di lusso. Questo doppio binario economico evitò per anni l’insorgere di manifestazioni xenofobe, ed anzi, favorì una perfetta integrazione della comunità straniera, che fu riconosciuta dal mercato locale come ricchezza e possibilità economica. Il protocollo di svolgimento delle fiere lionesi era in larga parte affidato alla gestione diretta delle nazioni: alla fine delle compravendite si apriva la fase dei pagamenti; ogni nazione si riuniva nelle proprie sedi e stabiliva i tassi di cambio. I tassi di rendita del denaro messo in deposito venivano fissati e nella stessa sede si stabiliva il calendario del borsino e venivano effettuate tutte le altre transazioni: lettere di protesta o di cambio, pagamenti in contanti, compensazioni monetarie. Il 78 79 A. ROUCHE, 1912 ; M. MERAS, 1990. J. BOUCHER, 1994 : pp.125-126. 316 ruolo primario dei fiorentini, che avevano il compito di aprire e chiudere le transazioni, si esprimeva nel controllo del cerimoniale mercantile: il sistema bancario Lionese-fiorentino non solo era floridissimo, ma era anche solidale con il commercio, di cui costituiva la spina dorsale e la “conseguenza” monetaria: nel 1528 Andrea Navageri, ambasciatore della Serenissima, scriveva che la quantità di denaro scambiata era immensa, e che Lione era il centro europeo del commercio italiano.80 Rispetto all’attività industriale degli italiani a Lione, nonostante i tentativi di installazione dell’industria tessile perseguiti da Luigi XI agevolando gli investitori stranieri con significativi sgravi fiscali, va detto che la produzione delle manifatture italiane cominciò a decollare solo verso il 1515; infatti gli italiani, essendo soprattutto importatori dai mercati nazionali, preferirono a lungo non sviluppare una concorrenza endogena sul territorio oggetto dei loro commerci;81 la situazione cambiò a partire dal 1515, quando un aumento della richiesta delle stoffe di lusso e decorate come la seta, rese il mercato capace di assorbire una maggiore produzione locale senza intaccare l’importazione. Le difficoltà d’una vera produzione di stoffe in territorio lionese, si esprimevano talvolta anche nelle lotte caratteristiche del complesso campanilismo italiano: nel 1514, per esempio, Nicolas de Guide, lucchese, dovette subire le rappresaglie dei compatrioti, che applicavano la legge vigente nella loro città di origine secondo la quale il segreto della lavorazione artigianale delle stoffe doveva essere custodito dai soli compaesani italiani; il trasferimento delle conoscenze manifatturiere restava un patrimonio da custodire gelosamente. Solo nel 1536 si riuscì a dare un forte impulso all’industria della seta, che finalmente trovava un’efficace installazione in Lione, con l’intento soprattutto di danneggiare il vivace commercio genovese. 80 R. GASCON, 1971. L’ampiezza delle operazioni è enorme. L’attività di prestito ad interesse è rivolta a tutte le classi sociali: si finanziano le campagne europee dei francesi, ma anche le attività di piccolo commercio o importazione ed esportazione. Il volume di affari è immenso: nel 1516 passano per le casse di Antonio Gondi circa 750.000 scudi d’oro. Nel 1520 fra i clienti della banca figurano un generale di finanze, Jacques de Vienne ed il tesoriere di Francesco I, Jacques de Semblançay. J. BOUCHER, 1998 : p.44. 81 Per la fabbricazione di stoffe di seta troviamo tuttavia qualche installazione precoce di italiani. Nel 1466-1470: Giovanni Boneto, Estienne de la Vauge, Battista da Territo; nel 1466-1482: Francesco Garibaldi, Malatesta di Antonio, Ilario di Facio, Marchetto da Venezia, Andrea Stella, Baldassarre da Solario, Raffaello da Pareto; Nel 1513-1540 Niccolò di Guido (1513-1540). A Lione gli italiani importano anche le raffinate tecniche di lavorazione della ceramica e del vetro: i maestri di questa arte provenivano soprattutto da Genova e da Firenze. Ed è buona anche l’affluenza nella città degli armaioli, soprattutto d’origine milanese: Martin de Tras (1410-1435), Giovanni da Milano (1414 – 1434), Giovan Piero de’ Medici (1465-1475), Tommaso da Milano (1466-1471), Romano degli Orsini (14931530). A tutte queste categorie professionali e più in generale ai documenti sui mestieri lionesi Natalis Rondot ha consacrato il suo percorso critico. N. RONDOT, 1885-1887. 317 Nel 1548, in Lione, una compagnia di attori italiani eseguì la Calandria del Cardinale Bibbiena, per onorare le nozze di Enrico II e Caterina de’ Medici: fra gli attori v’era Domenico Barlacchia, gonfalone della signoria fiorentina ed uno fra i primi attori semiprofessionisti di cui si abbia memoria;82 per la stessa occasione si convocò pure da Firenze lo scultore Zanobi Lastricati, che contribuì alla costruzione delle scene. Abbiamo già assegnato a questa pubblica rappresentazione il ruolo di limite cronologico della nostra trattazione. Dopo tale evento si verificò infatti un formidabile aumento degli italiani anche nel mondo della cultura e del teatro lionesi: da un punto di vista strettamente culturale, la città di Lione fino a quel momento si era limitata a manifestazioni discontinue: gli eventi maggiori erano per lo più connessi ad occasioni straordinarie, legate alla vita di corte più che a quella civile. In un contesto che pure annoverava solo entrate e trionfi vediamo tuttavia spuntare il nome o il ricordo precoce di qualche italiano: è il caso ad esempio di tale Jean Bonté, fiorentino, che lavorava nel capoluogo delle Rhône dal 1490 al 1494, e la cui famiglia dovette installarsi definitivamente nella città, se un Pierre Bonté «in artibus magister apprime doctus» vi eseguì diverse opere dal 1491 al 1515, sotto la protezione di Georges, cardinale d’Amboise: nel 1503 sembra che Pierre si fosse occupato delle decorazioni per l’entrata nella città dell’arciduca d’Austria.83 Almeno fino alla seconda metà del ‘500, quindi, nella città tardò a decollare una particolare propensione per le arti teatrali e letterarie a dispetto di una grandissima vivacità economica: ma il carattere della spettacolarità lionese – anche di quella più rara, precocemente manifesta – ricordava le modalità di riunione delle confraternite fiorentine di bontempi, nelle quali i modi della celebrazione pubblica venivano integrati alla dimensione privata e vice versa, in una “condizione produttiva” a metà fra la goliardìa municipale ed il festino di corte, perfettamente integrate nelle esperienze delle riunioni giocose “della Cazzuola” o “del Pajolo”. Nel 1513 i mercanti fiorentini ottennero il permesso di rappresentare misteri e costruire échaffauds per fare recite in onore del papa; l’organizzazione dell’evento fu promossa dalla nazione e si svolse in modo autonomo rispetto all’articolazione ufficiale delle celebrazioni. Più calzante nel senso dell’integrazione fra spettacolo civile ed intrattenimento privato fu il caso di un francese, Pierre Syrode, detto Grenoble, che organizzò privatamente una recita satirica di fronte a casa sua, in 82 83 Sull’evento di Lione che lo concerne, R. ANDREWS, 1999. Per la Calandria in Lione, J. BRYCE, 1991. N. RONDOT, 1883 : p.17. 318 occasione dell’ingresso di Francesco I con la regina Claudia. Si trattava di una «ystoire où il blamait des membres du corps commun»84 per la quale si segnala ora il legame con la pièce d’apertura delle Opera jocunda di quel Giovan Giorgio Alione che a breve tratteremo. Oppure nel 1538, quando Jean Neyron aprì nella rue des Bouchers una sala di spettacolo a destinazione semiprofessionale: la scena era un’ambigua trasposizione in chiave classica dell’eschaffaud medievale, costituita da una sovrapposizione di baldacchini con diverse rampe d’accesso. La simbologia funzionale della scena medievale e le modalità di visualizzazione simultanea delle mansion restavano pertanto fattori fondamentali dello spettacolo: la struttura lignea più alta rappresentava il cielo, sede dei personaggi divini e sacri, più in basso la terra e sotto ancora l’inferno, la cui entrata, a forma di testa di drago, poteva aprirsi e chiudersi, forse per mezzo d’un banale tendaggio; l’insieme consentiva la visione simultanea del tempo e dello spazio propria delle rappresentazioni medievali. Prima del caso singolare di Neyron, su Lione abbiamo per lo più notizie di misteri: uno dei più importanti è offerto nel 1447 nella chiesa dei frati minori di San Bonaventura, la prima menzione di un pagamento agli interpreti di tali eventi rimonta al 1485, mentre nel 1435 un’associazione laica inaugurò un ciclo di sacre rappresentazioni. La goliardia era legata alla presenza di comunità studentesche o università, di cui la vita lionese dei primi anni del XVI secolo era ancora sguarnita, rispetto a Parigi. Erano sporadici avvenimenti come quello che si consumò alla fine di maggio del 1457, quando furono rappresentate pièce satiriche antimuliebri, che evidentemente toccarono la sensibilità di qualche consigliere municipale, se furono seguite da un editto di censura che proibiva rappresentazioni sui catafalchi senza autorizzazione del console. O come quello del 1518, quando Pierre Molaris, in rappresentanza della Bazoche lionese, fondata appena dodici anni prima, ottenne il permesso di rappresentare il mistero della Concezione. In Lione apprendiamo delle attività teatrali più attraverso i divieti che per le cronache: se la recita bazochiale del ’18 fu seguita da polemiche e decreti, fra il 1483 ed il 1518 i registri lasciano trasparire una certa resistenza nel concedere le autorizzazioni per le pubbliche rappresentazioni. Ad esempio si concede e poi si revoca la licenza per un mistero ed una vita di Santa Caterina ad un prelato, il cardinale di Bourbon, oppure vengono dettate pesanti disposizioni in merito agli allestimenti 84 Per questo dettaglio e i seguenti: C. BROUCHOUD, 1865, che fornisce anche una bibliografia dettagliata, con le collocazioni tutte ancora valide, dei documenti d’archivio impiegati. 319 organizzati da un tale attore Clément Trie. Sembra che la cittadinanza lionese avesse meno libertà spettacolare di quanta non ne avesse a livello commerciale. Intrattenimenti più evidentemente simili a quelli fiorentini si cominciarono a realizzare più tardi: gli esempi sono innumerevoli e richiamano immaginari grotteschi e paradisiaci tutti toscani, con Dante e Petrarca a fare da riferimenti visuali irrinunciabili. Pensiamo alla festa per Lorenzo Capponi ed Elena Guadagno del 1554, sul tema dei continenti; oppure a quella del 1555, in cui una mascherata all’antica sfilò per la strada. Ed ancora la parata di demoni che si svolse per le strade della città vecchia durante il carnevale del 1552, ove fiorentini e lucchesi si sfidarono in bande e carri sul tema di Plutone e Proserpina: la committenza e l’occasionalità dello spettacolo, oltre che la simbologia impiegata, ci ricordano un banchetto celebrato a Firenze a casa di Matteo da Panzano sul tema della discesa agli inferi di Proserpina. Questo celebre convivio meritò la menzione del Vasari fra le imprese buffone della vita di Gianfrancesco Rustici: l’evento era stato realizzato dalla compagnia “della cazzuola”, conventicola artistica (ma subito aperta al notabilato), il cui ricordo era certamente ancora vivo nella nazione fiorentina di Lione, poiché a tale banchetto in Firenze parteciparono come attivi organizzatori i personaggi più in vista, da Bartolomeo “Aristotele” Sangallo – inventore di prodigiosi apparati scenici a saliscendi – ad Andrea del Sarto,85 passato poi per la Francia fra il ‘18 ed il ’20, in coincidenza con le feste italianeggianti della corte. Al periodo si lega la storiella raccontata da Giorgio Vasari, secondo la quale volle egli lasciare la Francia per Lucrezia del Fede, donna di dubbia reputazione che «datoli il tossico delle amorose lusinghe», riuscì a farlo restare in Firenze, nonostante le promesse ed il prestito ricevuto da Francesco I, che così «mai più con dritto occhio guardar non volse per molto tempo pittori fiorentini».86 Ai “bontempi” della Cazzuola partecipava un’altra 85 In un altro di questi banchetti giocosi, organizzato stavolta dall’analoga confraternita del Pajuolo si racconta che Andrea del Sarto trionfò con una rilettura della città ideale, proponendo al palato degli amici un tempio ad otto facce, posto su salsicce a fare da colonne, capitelli in parmigiano e pavimentazione cosmatesca in gelatina. «Un leggìo da coro fatto di vitella fredda con un libro di lasagne che aveva le lettere e le note da cantare in granella di pepe, e quelli che cantavano al leggìo erano tordi cotti col becco aperto e ritti, con certe camiciuole a uso di cotte fatte di rete di porco sottile, e dietro a questi per contrabbasso erano due pippioni grossi con sei ortolani che facevano il sovrano.» Giorgio Vasari, Vita di Giovan Francesco Rustichi, ed. Giuntina (A. M. CIARANFI, 1963 : p.192). 86 Giorgio Vasari, Vita di Andrea del Sarto, (L. BELLOSI, 1986). L’episodio vasariano sulla vita di Andrea del Sarto, fra l’altro, si riallaccia alla opinione che i fiorentini avevano maturato per Francesco I, che nella città di Firenze s’era guadagnato la fama di appassionato collezionista d’opere italiane, da cui, appunto, la promessa di Andrea di riportare a corte «alla tornata sua pitture, sculture et altre cose belle di quel paese». Giovan Battista della Palla è una figura storica curiosa, che si occupa di trattare per conto del re l’acquisto di opere d’arte in Italia: si trovava in Francia dal 1522 e si guadagnò in breve in favore di Luisa di Savoia e Margherita d’Angulême. I maneggi di questo mercante d’arte ante litteram lo portarono infine in disgrazia: nel 1530 fu preso e condannato al carcere a vita nella prigione di Pisa. 320 eminenza della goliardìa fiorentina, quel Domenico Barlacchia87 chiamato ad allestire in Lione la Calandria per l’entrata di Enrico II e Maria de’ Medici qui già evocata. Così tutto sembra incrociarsi e convergere in un centro: al solito mancano fonti documentarie anteriori, cosicché gli indizi si incasellano in un vago quadro di casualità: Andrea del Sarto, Domenico Barlacchia, Aristotele Sangallo, fra Firenze e Lione. E non è dato sapere se i bontempi e le feste fiorentine, ben radicate nella Lione degli anni cinquanta del secolo, fossero stati importati già da prima. Nessuna testimonianza precedente: forse che i ricchi banchieri, per non inimicarsi le istituzioni lionesi così maldisposte verso le arti teatrali avevano limitato alla sola sfera privata gli intrattenimenti cui erano abituati nella signoria? 3.1.5 – Un’immigrazione di lusso. Il va e vieni di italiani fra un lato e l’altro delle Alpi sembra un’incessante risacca d’uomini, che impregna il fertile terreno dell’espansione economica e militare della Francia,88 e che dona al Rinascimento peninsulare una spinta internazionale ancor più forte. Ma l’immigrazione in Francia ha connotati italiani particolarmente marcati da tempi anche più remoti del XV secolo: fra il 1272 ed il 1305, per esempio, il Capitolo della Cattedrale di Laon, vicino a Reims, conta il 21,5% di italiani, che detengono anche il record della massima permanenza media pro-capite, pari a 17 anni rispetto ai 10 anni di soggiorno per gli immigrati provenienti da altre regioni.89 Se per il medioevo l’unico modo di valutare i flussi migratori sono per lo più i registri parrocchiali ed i capitoli religiosi, per il XV e XVI secolo abbiamo a disposizione le “lettere di naturalizzazione”, tappa obbligata per chi installando un’attività propria in Francia avesse voluto esentarsi dal droit d’aubaine, diritto proprietà (“di cuccagna”) esercitato dal re sui beni mobili ed immobili dello straniero deceduto nei confini del reame. Le lettere di naturalizzazione assegnavano la cittadinanza permettendo ai beneficiari di esercitare liberamente il diritto di proprietà in Francia e di trasmettere i beni posseduti anche verso l’estero: per ottenere le lettere la démarche burocratica doveva partire da un’esplicita supplica del postulante, cui seguiva un’inchiesta sui beni ed il versamento d’una tassa alla 87 C. FALLETTI, 1999. I numeri e le statistiche che seguono vengono da C. BILLOT, 1984. 89 Ibidem : p.478. 88 321 Camera del Tesoro in base ai valori accertati; la procedura si chiudeva con la registrazione della concessione. In realtà però, solo il primo e l’ultimo passaggio erano obbligati, per gli altri potendo intervenire direttamente il re, che concedeva non di rado esenzioni totali o parziali sulle tasse di naturalizzazione o interveniva informalmente nelle specifiche questioni di cittadinanza: per le personalità più in vista, ad esempio, la procedura era del tutto formale, come nel caso di Teodoro Trivulzio, governatore di Lione e maresciallo di Francia, cui Francesco I concesse la naturalizzazione non solo saltando tutto il processo burocratico, ma anche compensando economicamente le tasse imposte dalla camera dei conti con una donazione personale: di fatto, una remise des droits. Su 149 analoghe remise des droits emesse sotto Francesco I son ben 24 quelle di cui beneficiarono gli italiani: ciò che testimonia dell’importanza sociale dell’immigrato peninsulare. Si tenga conto dell’ambito sociale limitato delle lettere di naturalizzazione, che concernono per lo più le classi alte, i funzionari, gli intellettuali, e non riguardano il più cospicuo flusso mendicante, i ceti medio-bassi, le maestranze ed i mestieri dello spettacolo e della vendita al dettaglio o ambulante. Il diritto di naturalizzazione era più richiesto da chi presumeva di dovere trasmettere beni, dunque per lo più da commercianti e banchieri. I motivi di richiesta di naturalizzazione erano indicati soprattutto per le missioni di rappresentanza o diplomatiche: non sempre le cause della residenza venivano indicate nelle domande di naturalizzazione. La démarche veniva attivata spesso solo dopo l’accumulo cospicuo di beni all’estero, ciò che poteva implicare diversi anni di permanenza sul suolo francese mai dichiarati.90 Cinquecentoquarantanove è il numero complessivo di lettere di naturalizzazione emesse sotto Francesco I: è su questi dati che Claudine Billot costruisce il suo interessantissimo studio sugli italiani naturalizzati in Francia, che avrà anche un seguito nel saggio di Jean-François Dubost dedicato al periodo successivo, quello compreso fra il XVI ed il XVII secolo e che conferma, in sostanza, una crescita del numero di italiani in Francia durante tutto il 1500, con una notevole flessione solo a partire dal XVII secolo. Per il regno di Carlo VIII nessuno spoglio delle naturalizzazioni è ancora stato realizzato: ma quanto si registra nei due studi francesi, conferma che lo svolgersi dei conflitti armati e l’annessione di territori alpini e subalpini sono catalizzatori demografici eccellenti per l’approdo degli italiani in Francia: forte è l’incremento delle naturalizzazioni nel corso delle quattro guerre fra Carlo V e Francesco I, specie nei periodi 1521-26 e 1527-29. 90 Sono soprattutto gli artisti ed i rappresentanti diplomatici o le corti a dichiarare le cause del trasferimento. 322 Ragioni di gusto (l’apprezzamento del sovrano francese) e ragioni economiche (le banche e gli investimenti tessili a partire dal 1536) guidavano gli italiani nei grandi centri della Francia: sul gusto è interessante notare che l’immigrazione spagnola dello stesso periodo (sola paragonabile in termini quantitativi a quella italiana) non riguardava quasi le attività manifatturiere, il commercio e l’officina specializzata, ma si concentrava particolarmente nel servizio domestico o nelle funzioni militari. Le lettere di naturalizzazione per gli italiani ci descrivono un’immigrazione “lussuosa” e di lunga durata: un flusso migratorio condizionato più dagli accadimenti politico-economici, che dai cicli di espansione-contrazione della natalità. Nel ’25, ad esempio, la perdita di Pavia da parte dei francesi implicò un incremento dell’immigrazione pavese, in ragione delle rappresaglie contro i “collaborazionisti”: chi aveva appoggiato il regno ebbe concesso automaticamente il privilegio della naturalizzazione. L’alta qualità dell’immigrazione italiana tracciata dalle naturalizzazioni si riscontra anche nella forte presenza nobiliare: vengono naturalizzati Ercole II d’Este e figli, gli ultimi Paleologi di Monferrato, il casato di Mantova e diversi capitani d’armi come il citato Teodoro Trivulzio o Guido Rancone da Modena. Immigrazione di lusso, ove per lusso si intende l’alto livello di istruzione o specializzazione professionale: su 280 naturalizzati Claudine Billot individua,91 oltre ai 164 che non dichiarano la professione, 87 fra nobili e domestici, 27 religiosi, 22 mercanti cui vanno aggiunti 12 artigiani e 13 capitani d’arme. La maggioranza delle professioni dichiarate proviene dal settore dei servizi: domestici milanesi o della Savoia, mercanti piemontesi e fiorentini, banchieri, librai o medici. E gli italiani partecipano anche al funzionamento delle scuderie e delle armi reali. Il dato del lusso è confermato anche dalle unioni matrimoniali non guidate tanto da logiche etniche, quanto da vantaggio economico, ciò che storicamente caratterizza le classi agiate, che si preoccupano di non disperdere il patrimonio nei passaggi generazionali. È anche notevole, ma non sempre recensibile, l’immigrazione riflessa, sempre connessa a quella aristocratica, che porta con sé i servitori specializzati. Vi sono poi gli artigiani: sotto il regno di Francesco I troviamo recensiti un vetraio di Monferrato, un orefice Fiorentino, due fonditori di cannoni, un armaturiere milanese; nel 1536 Francesco concede i privilegi della naturalizzazione al gruppo degli italiani installati o installantisi a Lione per consentire lo sviluppo della lavorazione dell’industria tessile pregiata delle stoffe in seta ed oro e dei 91 Ibidem : tav. 2. 323 manufatti in argento, ampliando di molto l’iniziativa dei sui due predecessori,92 con utilità «d’aucuns notables personnaiges de nostre royaume» e «l’honneste et utile commodité qu’en advient à nostre république».93 In questo caso al provvedimento di naturalizzazione se ne affianca anche uno “liberista” che di esenzione fiscale per questi artigiani. Il primato numerico delle “regioni migranti” va naturalmente a quelle sulla frontiera francese o direttamente implicate nei giochi politici della nazione francese, il Piemonte, la Savoia e la Toscana: un alto coefficiente qualitativo riguarda invece l’immigrazione proveniente dalle regioni meridionali d’Italia. E notiamo anche la sproporzione fra Lione e Parigi, nel rapporto fra popolazione complessiva e lettere di naturalizzazione: la capitale conta 300.000 abitanti e solo 18 menzioni di Italiani; Lione, con una popolazione complessiva di 70.000 abitanti conta da sola 21 istanze accolte.94 L’immigrazione italiana, lo si sarà immaginato, è di carattere prevalentemente urbano, quasi mai rurale; e del resto sono numerosissimi gli italiani che partecipano anche alla gestione della cosa pubblica: un amalfitano arriva a diventare procuratore del re a Martigue, un genovese vicepresidente della camera dei conti di Parigi ed un milanese è menzionato fra i consiglieri in parlamento. Il s’agit souvent d’un exode de compétences, du condottiere Rangone au sculpteur-ingénieur turinois Jean Ambroix, du spécialiste des haras aux musiciens, du Rosso à Cellini. Ceci rappelle l’initiative de Charles VIII ramenant de son expédition à Naples un groupe d’artistes à Amboise ou l’appel aux paysans ligures et piémontais pour repeupler la Provence. Il y a donc poursuite d’une politique officielle.95 È ovviamente assai complicato stabilire in che misura una presenza italiana di questo tipo possa avere influenzato la cultura della corte o della città: le qualifiche degli immigrati sono infatti per lo più generiche o inesistenti ed un valet de chambre può essere in realtà qualsiasi cosa: da pittore a musicista privato, a sarto. La curva dell’immigrazione italiana al di là delle Alpi ha varie impennate in corrispondenza con quelli che nella storia della cultura possiamo riconoscere come momenti di particolare 92 Carlo VIII aveva fatto appello alla popolazione genovese di installarsi nelle regioni meridionali; Luigi XII aveva perseguito la causa dello sviluppo del mezzogiorno con analoghi appelli alla popolazione. 93 H. SCHUERMANS, 1885 : p.193. 94 C. BILLOT, 1984 : p.489. 95 Ibidem : p.487. Giovan Battista Rosso del Rosso fu certamente l’artista che riscosse il maggiore successo ed ebbe i maggiori privilegi da parte del re: specie per Fontainebleau di cui inventa praticamente lo stile. Nel 1539 viene incaricato di disegnare e fondere un Ercole d’oro che sarebbe dovuto essere offerto a Carlo V: disegnò e fece realizzare anche una buona parte delle suppellettili e dei preziosi accessori della reggia. 324 italianizzazione: è la realtà del flusso migratorio che fa montare la moda per le cose italiane? O è la moda e l’espansione del gusto italiano che aumenta la richiesta dei “peninsulari” in Francia? Crediamo che i due fenomeni si alimentino vicendevolmente: del resto, anche dal punto di vista politico l’attrazione francese per l’Italia non sembra rispondere a logiche solo meramente economiche, ma ad una specie d’esotica fascinazione difficile da spiegare se non con l’imprendibile nozione di gusto. Nel volgere del secolo decimosesto le egemonie culturali sembrano invertirsi: dalla cultura cavalleresca borgognona alla raffinatezza del principato delle lettere, così come abbiamo visto il fabliau nordico, piccardo o normanno, impastarsi dei toni novellistici del sud e lievitare nelle forme della farsa ad aprire il futuro all’arrivo in massa della narrazione teatrale moderna. Negli anni dell’aumento della presenza italiana in Francia si consumava un altro fenomeno per noi interessante: la scomparsa progressiva di un panorama teatrale provinciale fino a quel momento non solo florido, ma spesso più rilevante di quello cittadino.96 Ovunque in Francia misteri e farse si erano celebrati sempre con scarse differenze di investimenti fra grandi e piccoli centri, ed anzi, la poesia e l’edizione teatrale profana erano legate soprattutto alla provincia a nord di Parigi: sicché autori e dialetti praticati dai personaggi erano raramente di origine urbana, tanto che si può affermare che il patrimonio genetico della farsa e dei misteri era del tutto provinciale. A partire dal regno di Francesco I le attività spettacolari andarono progressivamente concentrandosi nei centri maggiori del paese, Parigi soprattutto, ma anche Lione, e le due nuove polarità spettacolari urbane cominciarono a diversificare e moltiplicare l’offerta di rappresentazioni. Il fenomeno era legato al crescente accentramento della vita politica (e dunque anche di quella culturale) nella zona di Parigi e dell’Ile-de-France, ma anche al ruolo guadagnato da Lione nella tensione territoriale del paese verso la Penisola. È in questo tornante di anni che ha inizio la centralizzazione del potere sulle città, nuovi centri nevralgici della gestione dello stato moderno. Il potere economico attrattivo delle nuove città-capitali ed il tentativo della monarchia di ridurre il potere delle province aristocratiche faceva convergere in due punti geografici le organizzazioni degli 96 Il Miracle de Théophile è composto a Parigi nel XIII secolo, e non ha nulla in più dal punto di vista estetico delle grandi opere prodotte nelle grandi abbazie di provincia; basti pensare a Jehan Bodel e Adam de Hale. Fra gli autori più importanti di misteri annoveriamo molti provinciali: Mercadé, Gréban, Jean Michel. Le rappresentazioni della Confraternita parigina della Passione erano ben lontane dall’eguagliare quelle date a Bourges nel 1536 o quelle di Valenciennes nel 1547. Le città di provincia gareggiavano fra di loro per i migliori spettacoli, al cui finanziamento ed organizzazione partecipavano frequentemente tutti i cittadini. 325 spettacoli. La stessa istituzione dei governatorati rendeva la cosa pubblica estranea all’identità locale, depauperandola del senso di appartenenza municipale e dunque anche dell’investimento personale dei funzionari nella competizione campanilistica per la “miglior festa”. Il funzionario del re disponeva di minori e più ottimizzati capitali ed aveva scarso ritorno personale dal maggiore o minor fasto degli eventi festivi, dai quali invece in passato dipendeva l’apprezzamento dei rappresentanti civici. Il processo si manifestò fra Carlo VIII e Francesco I e nel caso di Parigi era enfatizzato da fattori interni alla città: la presenza degli studenti, innanzi tutto, da sempre importanti agenti di interazione spettacolare e l’impulso nella costruzione delle strutture necessarie a dare lustro alla rinnovata capitale ed ospitarne fasti ed entrate. A dare una spallata al teatro di provincia fu anche il crescente raffinamento del gusto da adeguare alle nuove tendenze non sempre disponibili, per così dire, in provincia. Anche l’edizione teatrale riflette la tendenza alla concentrazione sociale nella capitale, che in questi anni si affermò come nuovo centro di elaborazione e produzione delle novità teatrali. La centralizzazione delle arti drammatiche era incrementale: Parigi diventava una vetrina e per l’affermazione in tutta la Francia il nuovo autore drammatico dovrà scommettere sempre più sulle edizioni parigine e sul successo nella capitale: pensiamo al fatto che dal sostanziale equilibrio quantitativo delle edizioni fra Parigi, Rouen, Lione al XV e XVI secolo, nel 1628 la capitale era quasi l’unico luogo d’edizione dei testi drammatici. In questo moto di spostamento del baricentro teatrale del paese sui grandi centri si mossero anche certe figure buffonesche italiane, al servizio della corte col ruolo di curiosità umane e buffoni: nani e storpi piacevoli che si intravedono ancora nei fastosi banchetti dipinti più tardi da Paolo Veronese o nelle gesta cesariane di Andrea del Sarto. Le cronache conservano la memoria di qualcuno di questi uomini faceti: negli anni ’50 del secolo il nano Agostino Romanesco fa ridere tutti, accompagnato da un certo Annibale; oppure lo Scipione, citato nel 1572; o tale Pétavin, presente a corte fra il 1518 ed il 1519. Il più celebre di tutti, però, era Filippo Visconti, detto Viscontin: lui ed il suo compagno Valfenière comparivano nelle spese della corte con la qualifica di buffoni reali: lo stesso Anne de Montmorency – protettore in questi anni delle arti italiane in Francia e responsabile di molti trionfi e spettacoli di corte per Luigi XII e Francesco I – pare si avvalesse della loro compagnia. 326 Tous deux accompagnèrent le grand maître Anne de Montmorency lorsque celui-ci se rendit au-devant des enfants de France et de la reine Eléonore à Fontarabie. «Viscontin et Valferniere, les plaisantins du roy, entrerent dans la riviere jusques à leurs chevaulx, tout couvers d’eaue, comme s’ils vouloient aller au devant des bateaulx, en criant : France, France !» (APF, t. IX, p.247). Nous suivons Viscontin de 1531 à 1535 dans le Catalogue des actes de François I ; tantôt il reçoit des vins de Montils, près de Blois ; tantôt il touche une gratification en argent ; tantôt enfin il figure comme capitaine de ce Montils, dont le vin avait le don de lui plaire. Il mourut peu après 1535, sinon cette même année. Clément Marot, qui était son collègue, nous a conservé son souvenir dans une épigramme : «De Viscontin et de Calendre du roy. | Incontinent que Viscontin mourut, | Son ame entra au corps d’une calendre, | Puis de plein vol vers le roy s’en courut | Encor un coup son service reprendre ; | Et pour mieux faire a son maistre comprendre | Que c’est luy mesme et qu’il est revenu, | Comme on l’ouyt parler gros et menu, | Contrafaisant d’hommes geste et faconde, | Ores qu’il est calendre devenu, | Il contrefait tous les oiseaulx du monde.» 97 Quelli che abbiamo citato fino ad ora, sono esempi precoci di insediamento degli italiani nei settori alti o specializzati delle arti e della cultura, a vario titolo connessi con lo spettacolo, che d’altra parte sembra prendere in Francia tinte italiane a partire, ancora una volta, solo dalla metà del secolo: il fenomeno dell’italianizzazione della corte francese è notevole con l’avvento di Francesco I, nonostante nel periodo compreso fra il 1490 ed il 1520 si registri la prima ondata maggiore di arti e mestieri italiani di dimensioni tali da implicare una saturazione di quel mercato almeno fino al 1530. Il fenomeno della esportazione drammaturgica è più recente, fatto tanto più vero per le espressioni teatrali profane italiane che giungono in Francia assai tardivamente. È un’immigrazione tutta particolare, questa “immigrazione delle arti”, in cui i numeri non rispecchiano direttamente i propri effetti: durante il trentennio a cavallo fra i due secoli si trattò di assorbire il sistema produttivo italiano, importando non più stoffe, ad esempio, ma intere comunità tessili, che nel territorio dovevano ripetere il primato già guadagnato nella Penisola. Una immigrazione massiccia, ma meno visibile nell’immediato, in quanto meno espressamente artistica, “infrastrutturale”,98 diremmo, rispetto a quella più estetica, futile o di intrattenimento che rende più esplicita, esibendola a noi contemporanei, la presenza d’un nuovo gusto, le cui premesse stanno però in questi tre decenni di silenziosa applicazione delle arti pratiche. Sul legame fra l’esportazione dei saperi tecnici e lo sviluppo delle arti in Francia bisognerebbe forse riflettere con maggiore attenzione: a noi basti qui sottolineare un paradosso; come, cioè, quasi per una singolare simmetria della storia, 97 E. PICOT, 1918 : pp.159-160. Su scala locale la soluzione per gli stranieri era (1) ottenere in privilegio di Bourgeois du roi (2) vedersi riconosciuti i diritti di naturalità come gruppo e comunità attiva nel contesto locale, infine (3) ottenere le lettere di naturalizzazione. Abbiamo casi vari, in cui l’italiano è chiamato a ripopolare alcune zone o a fornire il know how per le manifatture: privilegio accordato ai Lombards poi revocato (t.1, p.749) nel 1324 (t.1, p.781) e nel 1333 (t.2 p.96); t.8, p.182-184: trattato fra Carlo VI e Genova per tutelare la comunità genovese installata a sud. Saint Quentin (1470), t.17 p.368, Toulouse 1472 (t.17 – p.478), stesso anno a Bordeaux t.17, p.524, Languedoc nel 1475 (t.18, pg. 124). Le collocazioni si riferiscono alla raccolta di ordinanze VILEVAULT. 327 98 la serie di scacchi politici che Francesco subì al 1530 (la disfatta di Pavia, la cattività madrilena, la caduta di Lautrec davanti alle mura partenopee) ed il contemporaneo apogeo dell’imperatore Carlo V (incoronato dal Papa in Bologna) spingano il sovrano francese ad imitare le monarchie della Penisola, che avevano compensato l’indebolimento del loro potere attraverso l’arte e l’attività artistica e di rappresentanza, che a partire da questa crisi si fa per la corte francese ancora più frenetica ed “estetica”. 3.1.6 – Lo spazio fra libri e memoria. Il Rinascimento, gran secolo delle crisi, è anche il secolo del consolidamento delle strutture logicorazionali del pensiero moderno ed è già stato notato come in questo processo ricoprano un ruolo quasi simbolico l’architettura e la stampa, luoghi elettivi d’espressione dell’equilibrio aureo. Le due “nuove” arti sono allo stesso modo rappresentative del concetto di bello come equilibrio: la tecnica di impressione a caratteri mobili dona un’uniformità impensabile nella trascrizione a mano e la medesima “perfezione replicabile” del prodotto libro si esprime anche in architettura nel principio di simmetria e prospettiva algebrica: è così che l’albertiano De res aedificatoria, pur non essendo stato concepito per la stampa, fu uno dei primi trattati architettonici a trovare nell’impressione un mezzo ideale d’elezione. La stampa del trattato nel 1485 avveniva però circa trent’anni dopo la pubblicazione, trent’anni di intensa circolazione dei codici albertiani nelle corti, così che non è errato dire che la versione a stampa uscì in un momento in cui i principi che v’erano enunciati avevano già passato il loro momento di massima influenza sulla cultura architetturale del periodo.99 Per avere ancora un’opera dello stesso impatto, a parte la costante circolazione delle edizioni di Vitruvio, si dovette attendere il 1537 con la stampa del Quarto libro di Serlio, opera invece pensata per i caratteri mobili: la grande attenzione di questa edizione per l’illustrazione e la sua integrazione nel testo, furono gli elementi primari dell’accoglienza che le riservò il mercato europeo.100 Sono questi gli anni in cui la stampa aveva raggiunto un apice produttivo destinato a saturare il mercato ed a contrarsi nel XVII secolo; siffatta inedita abbondanza di prodotti editoriali apriva il 99 Fu pubblicata a Firenze, presso Niccolò di Lorenzo Alemanno, da Bernardo Alberti con dedica a Lorenzo de’ Medici e lettera introduttiva di Angelo Poliziano. 100 S. DESWARTE-ROSA, 2004 : p.24. 328 mercato a classi diverse dall’élite tecnica o cortigiana destinataria della trattatistica quattrocentesca: le nuove opere come quella di Serlio mediante il supporto grafico e la relativa accessibilità economica del libro seriale, battevano la strada per la formazione d’una nuova società critica: la trattatistica architettonica smetteva di essere un supporto didattico o formativo e poteva contribuire alla formazione di un giudizio critico e d’una idea di spazio anche presso classi medie e mercantili. Del resto sembra proprio che fra il 1520 ed il 1540 si consumasse in Europa una vera moda per l’architettura, che divenne occupazione non più specialistica ma argomento di gusto e divulgazione, arena di confronto intellettuale e popolare, capace di far emergere vere star come Giulio Camillo Delmino, «il Divino Camillo», che – sapiente o cialtrone che fosse – fu fra gli uomini più noti ed influenti sulla cultura del secolo decimosesto. Tant’è che due edizioni a stampa dedicate all’architettura precedettero di poco il Quarto libro serliano, a Venezia nel 1524 e nel 1536 a Perugia.101 Due opere che certo non spiccavano per originalità – si trattava di due Vitruvio del tutto speculari in lingua volgare – ma che indicavano un trend preciso, uscendo sull’onda della forte impressione che le imprese di Camillo avevano suscitato in Venezia. Imprese in qualche modo limitrofe al luogo teatrale, seppure “invertito”, “capovolto”, ad una specie di grande spettacolo dell’introspezione. Giulio Camillo consacrò la sua esistenza alla costruzione di un teatro che potesse ricostruire l’insegnamento della retorica antica, una sorta di spazio scenico al contrario in cui lo spettatore stava sulla scena, da dove poteva osservare gli ordini di palchi disposti di fronte a lui. Sorta di lanterna magica ante litteram, la cavea ricostruiva la sapienza mitologica dell’antico in sette ordini, divisi da sette corsie corrispondenti ai sette pianeti. All’interno di ciascuna delle 49 case così “nidificate”, erano ospitate delle rappresentazioni pittoriche, completate da iscrizioni e fascicoli contenuti in cassettini o schedari. Il teatro della memoria di Camillo è […] una distorsione del piano del teatro reale di Vitruvio. Ad ognuno dei suoi sette passaggi vi sono sette cancelli o porte. Queste porte sono decorate con molte immagini. […] Che non vi fossero posti a sedere per spettatori fra queste enormi porte di corsia decorate a profusione non ha importanza, perché nel Teatro di Camillo la funzione normale del teatro è rovesciata: non c’è pubblico seduto nelle gradinate a guardare il dramma sulla scena. Il solitario «spettatore» del Teatro sta dove dovrebbe essere la scena e guarda verso l’auditorium, contemplando le immagini sulle sette volte e sette porte ai sette livelli che salgono. […] 101 Francesco Lucio Durantino, M. L. Vitruuio Pollione De architectura traducto di latino in vulgare…, Venezia, fratelli da Sabio, 1524; Giovanni Battista Caporali, Architettura con il suo commento et figure Vetruuio in volgar lingua raportato per M. Gianbatista Caporali di Perugia, Giano Bigazzini, 1536. 329 In un teatro normale, del tipo descritto da Vitruvio, il retro della scena, il frons scaenae, aveva cinque porte decorate attraverso le quali gli attori entravano ed uscivano. Camillo trasferisce l’idea delle porte decorate dal frons scaenae alle immaginarie porte decorate delle corsie dell’auditorium […].102 Come le ultime tendenze in fatto di realizzazione dello spazio teatrale, Giulio Camillo realizzava una platea sul modello del Teatro Marcello di Roma (i cui modelli gli erano stati presumibilmente forniti da Sebastiano Serlio103) e la impregnava di retorica classica e cultura ermetica. Lo scopo di questa costruzione era quello di dare allo spettatore una panoramica di tutta la sapienza del mondo in un colpo: strumento formidabile di conoscenza, il teatro applicava i principi delle retorica classica, concretizzando la tecnica dei loci e delle immagini mitologiche che li popolavano nella mente del retore. Forse Giulio Camillo a Genova, nel 1525, aveva già speso un patrimonio per la realizzazione di un prototipo di questa “macchina della conoscenza”: la sua impresa passò allora di bocca in bocca ed i più importanti intellettuali europei del secolo si interessarono ai dettagli dell’artefatto, attorno al quale ben presto si propagò grande curiosità. Nel 1530 il Nostro conobbe l’ambasciatore francese a Venezia, e probabilmente venne raccomandato da questi e da Pietro Aretino a Francesco I, che in breve lo volle in Francia, decidendo di assumerne la causa e di fornirgli i ducati necessari per il completamento della magnifica invenzione. Nel 1532 abbiamo notizie più dettagliate del grande progetto del Delmino, stavolta in Venezia, dove pare fosse installato un altro segretissimo prototipo. Fra il ‘31 ed il ’32 secondo la corrispondenza fra Wigle van Aytta (Viglius o Viglio) ed Erasmo da Rotterdam104 apprendiamo che un teatro ligneo in miniatura sul modello di quello di Marcello è realizzato a Venezia da Camillo con l’aiuto di Serlio e di Tiziano rispettivamente per le strutture e le pitture. Purtroppo dei bozzetti di Tiziano rimane solo una testimonianza remota: vale a dire la loro enumerazione nel catalogo della biblioteca dell’Escorial, dalla quale sono spariti a seguito di un disastroso incendio.105 Appena il tempo di fare visitare la struttura a Viglio (che fra l’altro è l’unico a lasciare una testimonianza dettagliata sull’aspetto della macchina) e poi la partenza ancora alla volta della Francia, dove nel 1534 lavora per il re. Il suo soggiorno si prolungherà per due anni. Due anni di cui ci giungono fantasiose leggende sulle virtù solari del grande saggio, ma durante i quali poco o niente 102 F. YATES, 1993 : pp.127-128. S. DESWARTE-ROSA, 2004 : p.40. 104 OPUS EPIST. ERASMI: le notizie su Giulio Camillo sono in t.IX pp.475-479, t.X pp.29-30 e 226. 105 Per la bibliografia dei dati biografici qui resi si rimanda alla ricostruzione di F. YATES, 1993. 103 330 filtra sugli esiti del “teatro della memoria”. Comunque fossero andate le cose è certo che Francesco I non fu soddisfatto dell’operato di Camillo, che venne rispedito a casa. Il divino rispose al mancato apprezzamento reale con le Sette difese del Theatro, trattato illustrato dalla mano di Francesco Salviati, ma nemmeno un nuovo viaggio a Parigi fu sufficiente a convincere il re a continuare a finanziare il progetto: ben più gravose faccende occupavano ormai i pensieri del sovrano, alle prese con il progressivo avanzare dell’Impero. La ricerca di Camillo continuò ma con poca fortuna: anche Ercole II D’Este e la sua corte di passioni teatrali, (cui dedicherà il suo Trattato delle materie che possono venire sotto lo stile dell’eloquente) ignoreranno la macchina mnemonica del Delmino. E si narra che alla corte di Francia il nome di Camillo non potesse neanche più essere pronunciato al cospetto del re perché costituiva grave onta per il sovrano, reo di aver creduto alle fandonie d’un alchimista cialtrone: la diceria è riportata da una lingua forse troppo biforcuta come quella di Pietro Aretino e sebbene possa essere esagerata, rende l’idea del declino di Camillo alla corte di Parigi. Dal 1536 al 1543 non sappiamo cosa egli abbia realmente fatto e dove abbia passato il suo tempo. Il suo teatro mai completato, il trattato che si era ripromesso di scrivere mai cominciato e l’assenza di un nuovo protettore dovettero essere le sue preoccupazioni negli anni della ricomparsa in Italia, nel 1543. È sotto Alfonso D’Avalos, governatore di Milano ed estimatore delle sue doti, che Camillo riuscì a trovare nuova protezione: ottenne una pensione per trasmettere il segreto della sua opera e nel 1544 pare che dettasse all’amico Girolamo Muzio l’unico trattato dedicato alla macchina teatrale, che nel 1550 fu pubblicato postumo sotto il nome de L’idea del Theatro dell’eccellen. M. Giulio Camillo con una dedica a Don Diego Hurtado de Mendoza.106 Ci siamo qui occupati della parabola insolita della vita di Delmino perché la sua opera è un simbolo piuttosto evidente dell’identità che in questi anni si va costruendo fra teatro e mondo. Il teatro si impone come spazio atto ad ospitare la memoria, come kultur, insieme complesso e totalizzante di tensioni e saperi. Affidando la conoscenza alla scenotecnica, la macchina di Camillo diventa metafora della teatralizzazione totale che si va verificando nella società di corte italiana. Il principe moderno realizzava nella scena il suo programma pubblicistico. In questa visione del sapere, lo spazio si configura come contenitore di conoscenze, interfaccia concreta e “substanziale” della retorica antica e dell’immaginario ermetico, elementi che occupavano uno spazio di urgenza nella cultura che andava elaborando il teatro (quello vero, pensato per lo 106 Giulio Camillo, L’idea del theatro, Lorenzo Torrentino, Firenze, 1550, (L. BOLZONI, 1991) 331 spettacolo): spazio di sguardi e di rimandi sociali che rappresentava se stesso attraverso i simboli rinnovati dell’astrologia e della mitologia. La corte francese nutriva in questi anni le stesse simbologie delle corti italiane, lo abbiamo visto nel cambiamento delle allegorie da catafalco e nell’evoluzione di gusto degli ingressi trionfali fra Carlo VII e Francesco I. Il progetto del divino Camillo, che fosse o no cialtronesco, è accolto dalla Francia non per caso, ma in linea con una direzione culturale tutta italiana che ridefiniva lo spazio come strumento per proiettare il presente nell’Olimpo della complessa cosmologia pagana. Il teatro del magnifico Camillo è espressione tecnologica della memoria: dominio dell’uomo sulla natura (la mente), trasferimento ad un luogo reale dello spazio astratto che la retorica antica aveva insegnato a dividere i spazi virtuali: come il teatro per spettacoli in questo senso l’arena di Camillo è una macchina, specie di tecnologia applicata che si avvale delle sapienze italiane sull’argomento, che contribuisce anche ad esportare, realizzando all’estero una prima modellizzazione del nuovo spazio teatrale già perfezionato nelle corti padane. Esprimendo siffatta correlazione fra spazio ed orizzonte culturale Camillo rappresenta una naturale declinazione del pensiero rinascimentale, e precisamente grazie a questa sincronia con i tempi riesce egli ad “ingannare” tutta Europa, in una utopica visione caleidoscopica del sapere, di cui rimase vittima lo stesso Francesco I. 3.1.7 – Le commedie in libri. Il manoscritto 2912 del fondo francese della BNF, noto come catalogo del libraio di Tours,107 è un fascicolo di carte che rimonta al 1490-1500 e che contiene un elenco di 267108 opere facenti parte del fondo in larga parte manoscritto di un libraio. L’elenco è diviso in varie sezioni: libri «à la main» (1-185), «aultres livres et mistaires» (186-219), moralités (220-238), libri impressi (239-267): al che, la lista si comporrebbe di 237 codici manoscritti e 28 testi a stampa. 107 108 G. RUNNALS, 1982. La prima pubblicazione è ottocentesca: A. CHÉREAU, 1863. Il conto è incerto su 265 per via di due menzioni generiche che citano «plusieurs autres» opere. 332 Fra questi titoli una buona parte – cinquantadue testi fra 34 misteri e 18 moralità – è riconducibile al settore letterario drammatico, ma nessuno di essi può essere in qualche modo collegato alla letteratura teatrale italiana, a dispetto anche della provenienza meridionale del documento e dunque della sua relativa prossimità geografica con aree precoci di immigrazione. Non soltanto nella limitata panoplia di titoli della bottega di provincia, ma neanche nell’editoria nazionale francese v’è traccia dei rapporti di reciprocità che verso il 1500 cominciavano ad instaurarsi fra le pratiche teatrali delle corti italiane con quella francese: sono disponibili diversi opuscoli e cronache anche a stampa, questo è vero, ma la diffusione in Francia di commedie originarie della Penisola non riguarda ancora in questo momento il mercato “di massa” dell’editoria drammatica, ma la ristretta nicchia dei manoscritti della corte e della biblioteca regia. E tuttavia la pubblicazione di opere che abbiano a vario titolo un qualche apporto italiano raggiunge picchi quantitativi sorprendenti già alla fine del XV secolo: tanto per tornare alla provinciale Tours l’elenco del libraio pur essendo tutto dedicato ai «livres en francois» comprende “vecchie conoscenze” della letteratura italiana esportata (pure non caratterizzate da originalità o novità): vi troviamo la già menzionata traduzione di Premierfait del novelliere boccaccesco, un Tresor de nature di Brunetto Latini e un Fleur de vertus mondaines.109 Passando dai codici alla stampa antica il panorama non sembra mutare di molto. Noi stessi, effettuando una ricognizione sull’indispensabile catalogo Renouard110 per le edizioni parigine dal 1500 al 1530, siamo stati inizialmente sconfortati dalla totale assenza di stampe di opere drammatiche italiane per quel periodo, a dispetto invece di una intensissima attività editoriale degli umanisti italiani su tutti gli altri rami dello scibile. Vengono insomma pubblicate numerose opere di teologia, retorica, storia, diritto, poesia; gli umanisti italiani, inoltre, curano le traduzioni dai classici o le opere di scienze naturali e possiamo affermare che una buona parte delle opere umanistiche italiane davano bella mostra di sé in edizioni spesso qualitativamente importanti. Addirittura sulla piazza accademica parigina si consumano crudeli querelle che vedono contrapposte le diverse ambizioni di conquista del mercato della cultura da parte di intellettuali emigrati dal bel paese quali Publio Fausto Andrelini o Girolamo Balbi, che ingaggiano una strenua lotta di 109 110 Già identificato come una traduzione del Fiore di virtù da Gustave Brunet, (Man. LIBRAIRE, t.II, n.1262 e n.1286). Rép. RENOUARD. 333 polemiche e maldicenze cui prende parte anche Cornelio Vitelli: i tre riescono anche ad avere il diritto di insegnamento «post prandium» creando una sorta di studiuolo parigino. Ma di testi teatrali, neanche l’ombra: le produzioni per il palcoscenico della Penisola non ricoprono ancora un ruolo modellizzante su vasta scala; in Parigi sono impresse opere italiane di carattere giuridico, retorico o teologico e che si esprimono soprattutto in lingua neolatina o in volgare francese (in traduzione) e tutto quanto è profano è francese e collegato alla farsa ed alle moralité. Per la stampa nazionale, ed in particolare per quella parigina, la letteratura neolatina resta ancora nei primi anni del 1500 la principale occupazione delle presse editoriali: lavoro di trasferimento dei codici su supporto moderno in cui dominano gli intellettuali italiani, già numerosi a sperare di installarsi dietro le ambite cattedre sorboniane e dotati d’uno sviluppato bagaglio di conoscenze editoriali. Anche nel contesto delle lettere neolatine, della pur già prolifica pratica degli umanisti di scrivere nuove commedie sull’esempio antico, non rimangono “tracce tipografiche” francesi. Così, sebbene un Enea Silvio Piccolomini o un Tito Livio Frulovisio fossero ampiamente conosciuti quando non pubblicati in Francia, non si trovava nell’antico Esagono nessuna traccia delle rispettive, Chrysis, e Corollaria. Se nella drammaturgia d’esportazione c’è penuria di intelletti italici originali, negli altri campi della cultura francese gli italiani si guadagnano un primato, spesso aderendo anche integralmente alla politica di conquista della Penisola: come già per Giovan Giorgio Alione, è il caso del menzionato Publio Fausto Andrelini, che scrive vari elogi a Carlo VIII ed alla famiglia reale, oltre che produrre le pluri-ristampate egloghe e la raccolta delle poesie giovanili (Livia), che in terra francese gli sopravvivranno a lungo. L’attività di umanisti italiani come Andrelini è nell’editoria della capitale francese addirittura incessante: fra edizioni critiche di Ovidio, pamphlet filogallici (in particolare quelli dedicati alle vittorie di Napoli e Fornovo) e colte celebrazioni per le vittorie politiche del regno, questo umanista italiano espatriato in Parigi contribuisce in soli dieci anni a produrre più di trenta fra edizioni e ristampe, per i tipi di diverse officine e librai, alcuni dei quali legati all’editoria “ufficiale” della corte e della municipalità. Ma al fianco dell’Andrelini, sempre spogliando i repertori dei testi a stampa francesi del primo trentennio del 1500, troviamo ben più celebri nomi di umanisti italiani, tutti presenti nell’editoria parigina con commenti, opere letterarie o di filologica erudizione: da Lorenzo Valla ad Angelo Poliziano a Leon Battista Alberti ad Aldo Manuzio. 334 E non mancano neanche i “bestseller” italiani, che visto l’importante numero di ristampe prodotte su Parigi, dovevano essere agevolmente assorbiti dal mercato librario della città; oltre agli ovidiani rimedi d’amore è il caso della famosissima opera di Battista Mantovano, l’Adolescentia, che rispetto all’editio princeps italiana del ’98 arrivava relativamente presto a Parigi, (nel 1503) ed era destinata ad essere proiettata in Europa proprio da un editore francese, Ascenzio Badio;111 e poi vi sono le edizioni scolastiche di Plutarco di Girolamo Aleandro, che in Parigi insegnava le lingue classiche.112 Solo nella prima decade del Cinquecento si risvegliano i primi interessi timidamente sistematici per l’apprendimento della lingua toscana (con le pubblicazioni conseguenti) e ciò ancora una volta grazie alle guerre d’Italia, cui seguì un fenomeno di rinnovamento senza precedenti della lingua francese delle classi agiate che assorbirono molti vocaboli a sud delle Alpi. Ma ancora una volta questo processo è ben marcato solo nella seconda metà del secolo durante la quale cominciarono anche a far sentire la propria voce i cultori del francese puro come Henri Estienne, che nel 1578 componeva e faceva uscire i polemici Deux dialogues du nouveau langage françois italianizé et autrement desguizé,113 in cui dal titolo possiamo rilevare come le abitudini linguistiche xenofile si dovessero «principalement» ai «courtisans de ce temps». È una presa di posizione intellettuale diametralmente opposta a quella (sempre intellettuale) di qualche decennio prima, quando nel 1511 (la stampa è del ‘13) Jean Lemaire de Belges volle associare il clima di rinnovata concordia del regno con Firenze, legando alle intese politiche quelle linguistiche e scrisse così la Concorde des deux languages.114 Mentre rimonta al 1510, in Roma, la stampa del primo dizionario franco-italiano (e tedesco), il Vochabuolista, subito di fama europea.115 111 Giovanni Battista Spagnoli (detto Mantovano), Bucolica seu Adolescentia, Badius, Argentinae, 1503. «Les livres [bilingue franco-italiani, n.d.r.] qui ont au le plus de succès au XVIe siècle ont été : J. de Flores, Historia de Aurelio e Issabella (8 éd. + 1 éventuelle) ; P. Trédéhan, Trésor de vertu (7 éd.) ; L. Dominichi, Facécies et mots subtilz (5 éd. + 1 éventuelle) ; L. B. Alberti, La Deiphire (5 éd.) ; D. de San Pedro, Petit traité de Arnalte et Lucenda (5 éd.)». In alcuni casi la prima edizione bilingue corrisponde alla prima edizione tout court. N. BINGEN, 1987 : p.XXVIII. 113 Henri Estienne (attribuito anche a Jean Franchet, detto “Philaugone”), Deux dialogues du nouveau langage françois italianizé, et autrement déguizé, principalement entre les courtisans de ce temps, Genève, 1578. 114 Per il manoscritto (1511) e l’edizione antica (1513), ma anche per una completa bibliografia sull’argomento rimandiamo a J. FRAPPIER, 1947. Fra l’altro Jean Lemaire de Belges sarà un insolito mediatore culturale ante litteram: da una parte la concordia del toscano e del francese come continuità fra l’Italia (entità linguistica, più che geografica) e la Francia; allo stesso tempo lo sviluppo di una mitica genealogia fra cultura celtica e Troia (Les illustrations de Gaule et singularitès de Troie, 1512-13), destinata ad inserirsi nei motivi gallicani del pensiero transalpino. 115 Per quanto riguarda i più generici dizionari va segnalato solo per conoscenza che il Vochaboulista usciva nella sua versione tedesco / italiano / francese nel 1510 a Roma e nel ’13 a Venezia. Seguiva una lunga serie di edizioni ovunque in Europa, ma soprattutto nei paesi di lingua sassone. La prima edizione francese è quella del 1533 tirata in Lione probabilmente nelle officine giuntine. Purtroppo tale edizione è sparita da tutte le collezioni. Sempre a Lione la stessa 335 112 Comunque sia, grammatiche e dizionari della lingua italiana conobbero alte tirature nel periodo di maggiore splendore delle passioni linguistiche per l’Italia, a cavallo cioè fra XVI e XVII secolo, quando si diffusero anche diverse edizioni di classici italiani a scopo didattico (Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto in prima fila), non di rado postillate in francese con finalità di traduzione e studio diretto della lingua.116 Per una prima opera completamente bilingue dovremo invece aspettare il 1545, ed è una bella scoperta rilevare che si tratta del primo libro del trattato di architettura di Sebastiano Serlio.117 Il dato che ci sembra più significativo è che le opere che abbiamo estratto dal repertorio di Renouard secondo il criterio della italianità dei contributi nella cronologia 1500-1530, possono per lo più essere ricondotte al contributo (editoriale, filologico, storico…) di Ascenzio Badio. Figura emblematica di questa aggregazione di testi italiani, “Josse Badius” è umanista ed editore, sorta di Aldo Manuzio d’oltralpe, vorace e versatile intellettuale che pubblica fino ad ottocento edizioni in trent’anni di attività, ispirata proprio ai modelli dell’editoria veneziana e del mercato culturale italiano. Badio si premurò anche di curare la prima edizione di Terenzio in Francia per i tipi di Trechsel in Lione, nel 1493: testo fondamentale nel quale compaiono alcune stampe raffiguranti le strutture da spettacolo; una serie di disegni in pianta, in particolare, illustrano il miglior spazio scenico per le commedie secondo i criteri delle messe in scena romane del 1474, organizzate dagli accademici di Pomponio Leto. Come faceva Badius a conoscere queste recite, resta un mistero. Lasciamo la parola a Henri Rey-Flaud: opera ricomparirà nel 1541 per i tipi di Jaques Moderne. Il dizionario dovette circolare molto a prescindere dai luoghi in cui fu edito (numerose edizioni tirate in Italia e Germania sono presenti nelle biblioteche di Parigi e Lione, ad esempio). 116 Le quattro edizioni didattiche dantesche sono anche le prime in Francia: Divina Commedia, la prima compare a Lione nel 1547: Il Dante, / con argomenti, et dichiaratio- / ne de molti luoghi, novamen- / te revisto, et stampato. / In Lione, per Giovanni di Tournes, 1547. Sempre a Lione vi saranno altre edizioni nel 1551, 1552, 1571, 1575. L’Orlando furioso raggiunge sette edizioni “postillate”. La prima edizione in spagnolo: Orlando furioso […] traduzido en romance castellano por Don Ieronymo de Urrea, Leon, M. Bonhomme, 1550. Ma in Francia non si pubblicava solo l’Olimpo delle lettere italiane: nel 1547 Gilles Corrozet produceva un Bonne réponse à tous propos – Livre fort plaisant et délectable, auquel est contenu nombre de proverbes et sentences joyeuses, raccolta di proverbi italiani tradotta da Giovanni Bellero, (Paris, BNF, rés. Z.2628), che si riallacciava alle innumerevoli sue gemelle in lingua francese. 117 Sebastiano Serlio, [edizione comprendente] Il primo libro d’Architettura… Il secondo libro Di Perspettia [sic]… (tr.fr. Jean Martin), (Jean Barbé), Paris, 1545. Dopo altre opere bilingue (La Historia di Aurelio e Isabella, Les très elegantes sentences et belles authoritez, L’Amour de Cupido et de Psiché… tant en vers Italiens que Françoys) le più importanti per questo studio sono: Leon Battista Alberti, La Deiphira… La Deiphire…,Gilles Corrozet, Paris, 1547; Ludovico Ariosto, La Comédie des Supposez, Etienne Groulleau, Paris, 1552. 336 Il faut supposer qu’il a pu rencontrer Pomponius lui-même à Rome ou à Ferrare ou certains de ses élèves à Paris… On avance aussi un possible voyage en Italie de Jean Pérreal, peintre lyonnais et compatriote donc de Badius, voyage évidemment antérieur à l’édition de 1493. [...]118 La cultura pomponiana passò per la Francia anche attraverso Fausto Andrelini che proprio nell’accademia aveva militato assistendo alle recite delle commedie classicheggianti. Sappiamo anzi che Andrelini venne incoronato degli allori durante un “recital” poetico messo in piedi per il natale di Roma del 1483. È improbabile ricondurre l’edizione Trechsel ad un qualche contributo di Fausto Andrelini, ma i percorsi suoi e di Josse Badius erano tuttavia destinati ad incrociarsi in quegli anni: dal 1491 al 1493 Fausto Andrelini lasciò dietro di sé solo poche informazioni, costretto ad una specie di esilio da Parigi, a seguito delle polemiche ingaggiate con i compatrioti. Ascenzio Badio si trovava fino al 1499 a Lione dove aveva appena intrapreso una lunga attività editoriale, che continuerà con grande successo in Parigi, associato a Jehan Petit fino al 1503 quando aprì un’officina propria.119 Si noti che la prima opera curata da Ascenzio Badio a Parigi, nel 1499 fu d’origine italiana, (una Parthenice Catharinaria di Battista Mantovano, «ab Ascensio familiariter exposita») e che mentre collaborava con Badio, nel 1502, Petit pubblicava anche un’opera encomiastica di Andrelini, già qualificato poeta regio; quel De secunda victoria neapolitana «dove si esaltavano le imprese dei francesi di Luigi XII nell’Italia meridionale» e che non «gli impedì più tardi di stringere amicizia con Jacopo Sannazzaro, durante il soggiorno parigino di quest’ultimo dopo la morte a Tours nel 1504 del re Federico di Napoli, con il quale il Sannazzaro aveva condiviso l’esilio», come nota non senza acredine Roberto Weiss.120 Autori preferiti del Badius erano del resto gli italiani, il cui contributo ai circa trecento volumi a vario titolo curati o scritti dall’umanista ed ora custoditi alla BNF, è sostanziale: prevale su tutti l’allora venerato (e venduto) Battista Mantovano, per il quale Badio effettua un’opera di reale propulsione europea. In generale le novità editoriali italiane arrivavano in Francia con un certo décalage, verificabile anche per opere di grande notorietà, come per la famosa Aulularia (con innesti moderni sul finale) di Antonio Cortesi Urceo, pubblicata nel 1502 in Bologna, poi in Venezia nel 1506 ed in Parigi nel 1515 e nel 1530. Il ritardo nel settore della drammaturgia è più enfatizzato anche per le lettere 118 H. REY-FLAUD, 1973 : pp.87-88. Di cui fu erede Henri Estienne, altro grande “lascito” di Badio al mondo umanistico francese. 120 Nella voce Andrelini da lui curata per il Dizionario degli italiani illustri. Si segnala anche: A. RENAUDET, 1916. 119 337 neolatine quindi a maggior ragione per le commedie regolari in toscano: basti pensare che il centro di primaria importanza per la commedia regolare, l’asse Mantova-Ferrara, aveva vissuto la stagione d’oro del genere con le rappresentazioni e le stampe comprese fra il 1486 ed il 1502 (Formicone e Cassaria sono agite e pubblicate fra il 1503 ed il 1508) e che il Truculentus, parte del corpus delle dodici nuove terenziane scoperte nel 1429 da Niccolò Cusano, conobbe un volgarizzamento – probabilmente in area veneta – finalizzato alla rappresentazione nello stesso periodo:121 i frutti di queste esperienze dovettero aspettare circa quaranta anni per giungere in Francia. La tendenza è analoga anche se andiamo a vedere il mercato delle traduzioni francesi di teatro italiano, attestate almeno agli anni ’40 del XVI secolo, in contrasto ovviamente con le prime traduzioni dei commediografi latini, che vennero realizzate dentro al primo decennio del secolo.122 Opere italiane di qualche attinenza con farsa e sue forme liminari, trovarono molto prima una traduzione in volgare francese: opere meno celebri e “fuori dal canone” come quella di Giovan Battista Gelli impressa a Lione nel 1550123 o la Comedia del sacrificio degli Intronati, sempre in Lione, nel ’43.124 A parte la versione tradotta del Libro del pellegrino di Giacomo Caviceo, (opera pluri-ristampata in francese a partire dal 1527)125 è ancora il caso delle facezie di Poggio, stampate in volgare nel 1510 dalla vedova Trepperel126 - cioè da uno degli editori parigini più intensamente attivi nella pubblicazione di opuscoli teatrali in formato agenda - che si premurò anche di offrire le presse (ma non il loro contributo editoriale) per un Débat de l’homme et de l’argent,127 contrasto drammatico di anonimo italiano, (senza data, ma la cui uscita può essere fissata attorno al 1511) il cui successo è 121 Il mitico attore Cherea, al secolo Francesco de’ Nobili, nel settembre dello stesso anno chiedeva l’autorizzazione a stampare una serie di commedie in volgare, fra le quali, appunto, il Truculentus terenziano. 122 M. HORN-MONVAL, 1958. Le traduzioni di Plauto e Terenzio in Francia sono precoci anche rispetto a quelle di altri classici del teatro latino. Per Plauto la prima è Plaute, Sensieult une œuvre novelle contenant plusieurs materes et premiers. La premiere farse de Plaute nommee amphitrion laquele comprêt la naissance du fort Hercules, faite en rime, S.l.n.d., (Anvers, Gerard Lien, 1503). Per quanto riguarda Terenzio, l’intensa circolazione manoscritta dell’autore nel corso del XV secolo produce un codice in francese fin dal 1466 (Ms, XV s., 157 ff. [BN. Ms fr n a 4804]), la prima stampa, nota come Therence en François è a Parigi, Antoine Vérard, senza data né titolo, ma probabilmente verso il 1500: verrà tirata anche nel 1515, con scarse differenze. Bisogna attendere il 1534 per il più diffuso le Grand Térence françois en rimes et en prose di Octavien de St Gelais, ristampato anche nel 1539. 123 Giambattista Gelli, La Circé, (tr.fr. Seigneur Du Parc), G. Roville, Lyon, 1550. Nel 1551 una edizione anche a Rouen, per Dugort. 124 Accademici Intronati, La Comedie du sacrifice, des professeurs de l'academie vulgaire senoise, nommez Intronati, celebree les jeux d’un karesmeprenant a Senes, (tr.fr. Charles Etienne), François Juste – Pierre de Tours, 1543. L’edizione rivista è nel 1548 per Estienne Groullau. 125 Giacomo Caviceo, Dialogue très élégant intitulé le Peregrin…, (tr.fr. Françoys Dassy), Nicolas Couteau Galliot – du Pré, Paris, 1527. Si registrano edizioni a Lione (1528, 1533), Parigi (1528, 1531, 1535). 126 Poggio Bracciolini, S’ensuyvent le Facecies de Poge translatees de latin en frâcoys q traictêt de plusieurs nouvelles choses morales…, veufve Jehâ Trepperel, sd. (1510). 127 Anonimo Italiano, Le Débat de l'homme et de l'argent..., (tr.fr. Claude Platin), Jehan Sainct Denys, Paris, s.d. (ma prec. 1527). Altre versioni in Lione (sd. ma 1527) ed una indicata come “imprimé nouvellement” a Parigi, s.d. 338 attestato da una seconda edizione di poco successiva per gli Chaussard di Lione. Il dialogo è di incerto utilizzo e non è sicuro che fosse stato realizzato espressamente per la messa in scena, ma è comunque un veicolo di contatto delle forme dialogiche italiane con quelle transalpine.128 Ci basta sfogliare il vecchio ma mai datato Tableau di Lebègue sulle pièce comiche, utilmente diviso in composizione, rappresentazione e impressione, per constatare che nel 1496-1502 ebbero luogo le prime recite di commedie classiche nell’ambito dei collège, subito seguite dal Terenzio in francese e vari volgarizzamenti; ma anche per renderci conto che pure il panorama delle composizioni originali francesi è piuttosto desolante nella prima metà del XVI secolo in cui escono per lo più pièce ascrivibili ad un ambito spettacolare medievale: la situazione rimane invariata fino almeno agli anni ’40.129 Anche le commedie classicheggianti in volgare italiano trovarono un certo mercato oltre le Alpi a partire da questo periodo, quando – al di là degli esempi citati – i ben più sostanziali Suppositi ed il Negromante ariosteschi furono tenuti in maggior conto dell’Orlando furioso.130 Furono questi gli anni in cui anche dal mondo della farsa si sollevarono le prime rivendicazioni d’un rapporto del “genere” con la commedia classica, in un processo di sdoganamento (materiale, ma anche morale) dei buffoni131 e delle loro lettere. Poetes ont ansi la comedie, Ou le cueur mol reciter s’estudie Actes vilains, molz, & libidineux, Force de femme, & cas verecondeux, Stupres vilains infames adulteres, Dont voluntiers ne sortent qu'improperes. Vulgairement farces nous les nommons Dont les ioueurs aucunesfois blasmons, Aussi de droict ceulx qui gagnent leur vie A tel estat sont notez d’infamie. […] De comedie ont esté sectateurs, Et escripuans, plusieurs bons orateurs, C’est assavoir Cratin, Aristophane, Nigidius, Celius le prophane, Plus Menander, Eupoliz, Plautius, Et pour la fin le fut Terentius. […] Horatius, Perse, & aussi Iuuenal, Furent aucteurs de ce ieu Satyral 128 E. BOTTASSO, 1951. R. LEBÈGUE, 1946. 130 L’opera fu a lungo considerata all’estero una pedissequa imitazione dei poemi epici medievali, tanto che è singolare la fortuna che le due commedie ebbero in Francia come in Inghilterra, rispetto alla scarsa circolazione del capolavoro ariostesco. E. BOTTASSO, 1951. 131 B. GEREMEK, 1990. 339 129 Entre Latins conveoit par leurs liures, Lesquelz ne sont de fentences deliures.132 Fra tutte le opere dell’Ariosto, i Suppositi restò a lungo la più apprezzata oltralpe ove fu tradotta sia in versi che in prosa nell’ultimo scorcio del regno di Francesco I, durante cui si moltiplicarono in generale le traduzioni dall’italiano, (come quelle del Cortegiano o del Furioso).133 La moda ariostesca era stata anticipata da un testo di Charles Estienne pubblicato nel 1543, la Comedie du sacrifice (detta anche les Abusez),134 traduzione della composizione drammatica italiana Gl’Ingannati abbinata ad un poema-mascherata, il cui titolo originale era Il Sacrificio degli Intronati: si osservi allora il tentativo di abbinamento “alla francese” di due pièce italiane, secondo le regole autoctone del varietà spettacolare “farsa/sottie”.135 L’introduzione della traduzione di Charles Estienne, dopo avere elogiato i «bons et modernes ésprits Siénois, studieux de toute antiquité et honnêteté, faisant de leur langage tuscan une profession et académie qu’ils nomment Intronati»,136 sembrava essere già al corrente della Lena e del Negromante e anche dei Suppositi la cui traduzione in versi usciva infatti poco dopo, a Parigi nel 1545, per Jerosme de Marnef, sotto il titolo di Comedie tres elegante, en laquelle sont contenues les amours d’Erostrate, fils de Philogone de Catanie, et de Polymneste, fille de Damon, mise d’italien en rime française, traduzione attribuita con certezza a Jacques Bourgeois, attivo nel teatro profano francese del periodo. Si tratta della prima traduzione francese di una commedia regolare italiana in volgare, prima sostanziale interruzione del monotono panorama di misteri, débat e monologhi su cui si articolavano scena e stampa francese dalla fine del XV secolo. Una vera novità, insomma, che però dovette restare un caso isolato, con scarsa risonanza, anche scenica, vista la difficoltà con cui l’esemplare è giunto fino a noi. 137 132 Jeahn BOUCHET, Epistres morales et familieres du Traverseur, Poitiers, 1545, (f.I, 32 d). Baldassare Castiglione, Le Courtisan, nouvellement traduict de langue ytalicque en françoys (tr.fr. Jacques Colin, d’Auxerre), Jehan Longis e Vincent Sertenas, Paris, 1537 ; Ludovico Ariosto, Roland furieux composé premièrement en ryme thuscane…, (tr.fr. Jean Martin), Sulpice Sabon – Jehan Thellusson, Lyon, 1544; 134 Accademici Intronati, op.cit. 135 Le due pièce originali italiane, attribuite in passato a Ludovico Castelvetro e Alessandro Piccolomini, sono state poi restituite alla creazione collettiva degli Intronati. R. MELZI, 1965. 136 Accademici Intronati, op.cit., (f.2). 137 Ritenuta a lungo perduta. La sola notizia della sua esistenza era nel Dict. LERIS : p.34. 340 133 Meno periglioso l’arrivo ai giorni nostri della quasi letterale traduzione dei Suppositi in prosa di Jean Pierre De Mesmes,138 che in Italia forse preparò il suo bagaglio culturale e che d’italiano fece anche un manuale o grammatica portativa, stampata nel 1548 e ristampata nel ’67 a Parigi e nel ’68 a Lione. Jean Pierre de Mesmes muoveva da interessi prevalentemente didattici: la letterarietà della traduzione e l’uscita nel 1552 (con falsa data del ’49, cioè la stessa della prima edizione monolingue) di un’edizione bilingue dell’opera «pour l’utilite de ceux qui desirent sçavoir la langue italienne», sono prove inconfutabili di tale orientamento. In complesso, giova ripeterlo, si tratta di cosa assai modesta e certo assai meno significativa della trasposizione in veste francese dell’Andria e degli Ingannati compiuta alcuni anni prima da quell’altro assai più versatile ed acuto cultore di umanità e di scienze naturali che fu l’Estienne […]. Il precettore dei figli di Lazare de Baif segna veramente più e meglio di Jodelle, lo schiudersi nella Francia colta dell’interesse per il teatro classico e italiano contemporaneo: la duplice traduzione dei Suppositi, quale ne possa essere l’ipotetico significato di polemica fra i due opposti modi, due diversi linguaggi scenici – quello ligio severamente ed asciuttamente ai modelli, e quello che si rifà, o almeno indulge alle formule della farsa, più vivaci ed insieme più burattinesche – ha una notevole importanza per così dire contenutistica, di designazione della commedia italiana che veramente fornirà l’intreccio, l’imbroglio-tipo fra quante nelle seconda metà del sedicesimo secolo passarono sulle scene francesi dalle nostre, o, se si preferisce, da quelle classiche per il necessario tramite di quelle italiane.139 Il rinnovamento arriverà come è noto, nel collegio di Boncourt, dove su tutti fece la sua comparsa Jodelle in un movimento di esportazione della commedia italiana, più che per le forme classiche, anzi rifiutate in virtù d’un convinto nazionalismo, per la trasposizione delle atmosfere contemporanee nella dimensione “storica”, carattere che costituiva la freschezza del modello italiano, largamente imitato in Francia a partire dagli anni ’60 del secolo: è il caso degli Esbahis, del 1561, prima manifestazione esplicita d’una riluttanza per le forme biomeccaniche della farsa, che ancora aveva fatto sentire il suo ascendente negli Ingannati, attestando la longevità nella scena francese del gusto burattinesco perseguito dalla drammaturgia autoctona.140 La stessa speculazione estetica sulle forme del teatro e la ricezione teorica di Ludovico Castelvetro rimontano solo al 1570, quando Jean de la Taille scriveva l’Art de la tragédie, in cui si postulavano le 138 Due edizioni della traduzione in prosa, la prima in solo francese, la seconda con testo originale: Ludovico Ariosto, La Comédie des Supposez…, (tr.fr. J. P. de Mesmes), Groulleau, Paris, 1552; Ludovico Ariosto, Comedie des Supposez de M. Louys Arioste, italien et françois, pour l'utilite de ceux qui desirent sçavoir la langue italienne, Hieronimus de Marnef, Paris, 1585. 139 E. BOTTASSO, 1951. 140 «Tuttavia, come si vede anche meglio nell’alquanto posteriore Reconnue del Belleaue nello strettamente plautino Brave de Baif, le tracce d’italianismi s’incontrano piuttosto nei nomi, nei costumi od in certe uscite de personaggi; la commedia italiana giunta ormai all’apogeo della sua fioritura è praticamente ignorata, o almeno, poco curata. La sua influenza diretta – anzi, più propriamente l’influenza delle commedie di Ludovico Ariosto – sulla scena francese comincia davvero soltanto col Négromant e coi Corrivaux di Jean de la Taille composti verso il 1562 e pubblicati nel 1573.» Ibidem : p.49. 341 unità di tempo e luogo e la necessità del diversivo per attrarre lo spettatore; ed ove si lamentava anche l’arretratezza della drammaturgia francese, colpevole d’essere chiusa ancora nello spettacolo antico. La tarda testimonianza di la Taille è una prova per così dire “interna” del ritardo della cultura drammaturgica francese nel recepire le novità italiane: la farsa era difficile da “scrostare” dalla cultura scenica francese ed i suoi caratteri restarono dati “genetici” del gusto transalpino. La fedeltà all’ottosillabo, l’andamento eccezionalmente lento dell’azione, il gusto per la digressione e l’intarsio monologico ed ancora lo sbilanciamento formale dei pezzi, dei ruoli e degli interventi o la tecnica del verso spezzato attraverso l’abuso delle monorematiche, furono tutte reminescenze farsesche destinate a sopravvivere a lungo nella drammaturgia francese, ma che consentirono anche il successo della commedia italiana dei lazzi. La transizione dalle forme profane alla Commedia dell’Arte e poi il ritorno a Molière si configurano così più come un passaggio di testimone, che come una sostituzione d’opposti. Entro questo interesse per la commedia all’antica – in definitiva, per la sola commedia italiana, poiché la fortuna vera della spagnuola Celestina va tenuta su di una piano diverso e riveste un diverso significato – le commedie di Ludovico Ariosto, anzi più esattamente i Suppositi hanno la parte preminente. Ed è tuttavia una parte eccezionalmente modesta nei risultati e nel rilievo artistico; come se l’appello contenuto nel manifesto della nuova letteratura francese, nella Defense et illustration di Joachim du Bellay, fosse caduto nel vuoto o quasi – o come addirittura fosse stato lanciato per questo rispetto un po’ a caso, e senza convinzione. Forse, chissà, per una segreta e non mai vinta diffidenza per la commedia considerata deformatoria e menzognera immagine della vita: conseguenza inevitabile, a sua volta, della pervicace ed insospettabile vitalità della farsa (pur caduta in basso loco dopo i momenti di grazia nel secolo precedente) che seppe far naufragare i meglio intenzionati e più ortodossi disegni d’instaurazione di un teatro degno continuatore dell’antico.141 Nel contesto anfibio della letteratura tradotta rientra anche l’attività di Lelio Manfredi autore di due fra le traduzioni più apprezzate nell’Europa del Rinascimento: Carcere d’amore, ripreso dal testo originale di Hernandez de San Pedro e Tirante il bianco, adattamento toscano del Tirante Blanco di Joanot Martorell.142 Come si sa forse di meno, il Manfredi fu anche il misconosciuto autore di due commedie erudite in volgare, il Paraclitus la Philadelphia, la seconda delle quali, pur non essendo un capolavoro dell’arte drammatica rinascimentale può vantare d’essere una delle prime erudite italiane giunte in Francia. 141 Ibidem : pp.79-80. Diego Hernandez de San Pedro, Carcer damore…, (tr.it. Lelio Manfredi), Zorzi di Rusconi, Venezia, 1514. Joanot Martorell, Tirante il Bianco valorosissimo caualiere nel quale contiensi del principio della caualeria…, Federico Torresano, 1538. 342 142 Tale circostanza, per usare le parole di Leonardo Terrusi,143 assume un valore altamente significativo se si tiene conto della determinante influenza esercitata sulla commedia rinascimentale francese proprio dal modello del teatro “erudito” italiano. L’arrivo della Philadelphia in Francia, e precisamente nelle mani di Francesco I si deve alle rocambolesche, sfortunate ed incaute avventure che legarono la vita del cortigiano Manfredi alle passioni letterarie delle corti ferrarese e mantovana nel periodo di massima fioritura dell’attività teatrale di quelle due corti. I dettagli delle vicende personali ed “artistiche” di Lelio Manfredi sono tutti contenuti in un fascicolo di corrispondenze studiate più recentemente da Carmelo Zilli144 e Leonardo Terrusi, e tratteggiano un’immagine del cortigiano tutto teso fra ribellioni violente a fatica contenute nei denti, strategie di successo sociale e pirateria letteraria. Condannato al sempiterno e frustrante ruolo del traduttore, Lelio Manfredi alimentò le sue velleità letterarie pensando d’esser ammesso nell’Olimpo delle lettere cimentandosi in un genere, la commedia “erudita”, che prometteva in quelle corti un facile accesso alla celebrità. Non all’Olimpo accederà il nostro, ma ad un precario stato economico, che lo costrinse a mendicare rimborsi alla corte per il recupero di “certi panni” in pegno in un’osteria ove aveva soggiornato per recapitare le sue fatiche in uno sfortunato viaggio a Ferrara. Le sue creazioni originali furono puntualmente ignorate dai Gonzaga suoi committenti, i quali non gli consentirono mai di uscire dal perimetro del mero strumento linguistico o tramite per alimentare la moda ispanofila della corte ferrarese. La stesura delle due commedie si può collocare con argomentazioni convincenti nel tornante d’anni compreso fra il 1515 ed il 1521145 e la dedica assai sbrigativa acclusa al codice nel quale la Philadelphia fino al 2003 era custodita in copia unica, ci lascia intendere che la consegna della commedia alla memoria di Francesco I, “re dei franchi”, fu l’esito del fallimento della strategia del consenso cortigiano, strenuamente perseguito dal Manfredi. In parole povere, secondo una pratica che gli è comune, (ed indice più di semplicità che d’astuzia) il nostro autore avrebbe “strappato” la dedica originaria al Gonzaga, sostituendola con quella al più autorevole re di Francia. 143 L. TERRUSI, 2003 : p.14. C. ZILLI, 1991. Sulle corrispondenze si veda anche S. KOLSKY, 2003. Il carteggio riguardante Manfredi è conservato all’Archivio di Stato di Mantova: Arch. Gonzaga, Serie F.II.8, F.II.9 e E.XXXI.3. 145 L. TERRUSI, 2003 : p.18. 343 144 Ciò che qui interessa è la scelta del monarca francese: il disperato tentativo di fuga dalle logiche stantìe del “cortigianato” italiano dello sprovveduto Manfredi, riposava sulla convinzione che il re di Francia potesse accettare di buon grado un’opera del genere della Philadelphia. Il che, visto il contenuto della commedia, è un dettaglio di non poco conto, in quanto – come la maggior parte delle sue contemporanee – l’opera di Manfredi è chiara espressione della società della diplomazia e della simulazione, che dietro la macchina incessante delle agnizioni e delle finzioni, nascondeva il cielo livido delle delazioni, quasi in mimesi con le dinamiche di un mondo organizzato sull’interesse particulare. I moventi dell’opera sono insomma paludati in quelli propri del contesto culturale del genere, di cui formalmente l’autore esibisce pure una conoscenza consapevole. Elemento decisivo […] per la comprensione di un’opera come la Philadelphia appare proprio la fitta tramatura di modelli letterari classici e moderni cui essa continuamente allude e rimanda […]. Ciò che un tempo sarebbe forse stato liquidato come segno di una colpevole assenza di originalità e, nella fattispecie, come prova che anche l’attività propriamente creativa di Manfredi altro non fosse che una sorta di prolungamento della sua principale attitudine, quella di traduttore, se non di pedestre raffazzonatore, di opere altrui. Oggi è certo possibile proporre un’interpretazione molto diversa di tale processo di «imitazione» intravedendone la sua natura di consapevole gioco allusivo, rivolto ad un pubblico chiuso e perfettamente consentaneo all’autore.146 Non sappiamo quando effettivamente l’opera fu inoltrata al re di Francia, ma può darsi che l’autore potesse avere avuto notizia dell’edizione parigina di una versione in francese della sua traduzione del Carcere d’amore messa in opera nel 1525 e subito ristampata nel 1526.147 Se la Philadelphia è espressione di una moda tutta italiana, “mosaico-centone” (ancora l’espressione è rubata a Terruso) di pratiche ed abitudini che in Italia s’erano consolidate in meno d’un decennio, nello spedire la sua opera a Francesco I Lelio Manfredi effettuava il trasferimento dell’immagine di una corte sull’altra, autorizzato certamente dalle notizie della grande italianizzazione del sovrano e dello scenario parigino. Ancora un segno, un indizio appena accennato della direzione culturale intrapresa dalla reggenza francese; ma appena un indizio, appunto, traccia che come tutte le altre viste in queste pagine disegna un panorama talvolta lacunoso delle tendenze culturali francesi del periodo, ma che lascia intravedere tutte le premesse di quel moto di rivoluzione della drammaturgia francese che avrà luogo negli anni ‘60/’70 del secolo. 146 Ibidem : p.46. Diego Fernandez de San Pedro, La Prison d’Amour, laquelle traicte de l’amour de Lerian et Lauréolle faict en espagnol puis translaté en tusquan […],G. Dupré, Paris, 1525 . 344 147 3.2 – La strana vicenda delle tracce perdute dei comici italiani. 3.2.1 – Concorrenza sleale: farsa o passione? Pierre Gringore è conosciuto più per la sua immagine romantica nel ruolo di comprimario di Notre Dame de Paris di Victor Hugo o di protagonista della pièce del 1866 di Théodore de Banville, che per la reale biografia, sulla quale gravano grandi lacune. D’origine normanna, dovette nascere negli anni ’70 del XV secolo: le rade testimonianze sulla sua vita, oltre ai dettagli che si possono ricavare dalla sua opera, sono una serie di ricevute di pagamento emesse dalla municipalità parigina a saldo delle pubbliche rappresentazioni che egli organizzava con Jehan Marchand nella città, in qualità di Mère Sotte, qualifica corrispondente ad un grado di prestigio nelle nebulose confraternite della città (Bazoche, Enfants Sans-Soucy…). La sua più antica opera a noi pervenuta risale al 1499 ed è le Chasteau de labour, poema allegorico che si ricollegava al tema tradizionale delle “noie del matrimonio”: condotto da Châtiment un giovanotto vi fa il suo pellegrinaggio al cospetto di vari personaggi allegorici, scoprendo la sempiterna morale del sacrificio per ottenere la felicità. Al 1500 rimontano le sue Lettres nouvelles de Milan, le Chasteau d’Amours e la Complainte de la Terre Sainte. Le ricevute di pagamento per gli allestimenti cittadini iniziano a comparire dal 1501; Pierre Gringore spartisce i compensi con il compagno artistico Jehan Marchand. 345 A novembre di quel 1501 i due, con la qualifica rispettivamente di compositeur e di charpentier de la Grande Coignée, allestiscono un mistero allo Châtelet de Paris, per l’entrata di Filippo d’Austria;148 nel febbraio 1502 viene loro corrisposto un altro compenso per un mistero organizzato per George D’Amboise;149 il 19 novembre del 1504 organizzano l’entrata di Anna di Bretagna, sempre per le rappresentanze civiche150 e dopo un periodo di silenzio ecco ricomparire Gringore sempre come artefice di spettacoli: nel 1512, nel dicembre del 1514, nel febbraio del 1515 ed il 12 maggio del 1517.151 Improvvisamente, però, nel 1518 Pierre Gringore compare alla corte di Lorena: con una lettera datata 5 aprile il duca lo nomina «héraut d’armes» ed il poeta prende il nome di Vaudemont.152 A partire da questo momento le notizie sul suo conto si diradano, fino a scomparire del tutto: il 10 aprile del 1523 potrebbe essere il «Mère sote, fatiste» che sbarca a Valenza, per i misteri di San Severino e nel 1527 fa una Vie monseigneur sainct Loys, roy de France par personnaiges, ingaggiato da una confraternita parigina. E nel 1534 in questo inspiegabile esilio volontario da Parigi altre rappresentazioni da lui firmate vengono organizzate per il duca di Lorena.153 Delle rappresentazioni organizzate da Pierre Gringore ci sono giunte diverse testimonianze, fra cui un manoscritto dello stesso autore intitolato La reception et entrée de la illustrissime dame et princesse Marie d’Anglaterre (fille de Hen. VII),154 ove Gringore si presenta spiegando di avere ricevuto il compito di organizzare il ricevimento. La cronaca di Gringore elenca con dovizia di particolari ed in stile letterario tutte le scene simboliche messe in atto per le strade della città ed è completata da belle miniature:155 il libro è stato concepito per esser letto da sguardi reali, e la sua presenza in Inghilterra può farci ipotizzare che fu proprio la regina a portarlo con sé nella terra natale, dopo la morte del marito, occorsa a breve distanza dalle nozze. 148 SAUVAL, t.III, p.534. Ibidem : p.333. 150 Ibidem : pp.534-537. 151 Jeu du prince de sotz a Parigi, il 25 febbraio 1512; nel 1514 ingaggio con Jehan Marchand per un mistero alla porta dello Châtelet offerto a Maria d’Inghilterra; 15 febbraio 1515 allestimenti per l’entrata di Francesco I; 12 maggio ‘17 per Claudia di Francia. SAUVAL, t.III, pp.493, 534, 533, 537, 593-94, 596-97; GODEFROY, t.I, 737-46. L’intero corpo di documenti dell’evento del febbraio del 1515 (e altri analoghi che si svolsero nel periodo 1499-1526) è in Reg. dél. Paris. 152 H. LÉPAGE, 1848 : p.250. 153 Ibidem : p.247. Il poeta morì probabilmente nel 1538. 154 Pierre Gringore, La reception et entrée de la illustrissime dame et princesse Marie d’Anglaterre (fille de Hen. VII) dan (sic) la ville de Paris, le 6. novre 1514. Avec belle peintures, British Museum: Cottonian MS Vespasian B.II. (C. R. BASKERVILL, 1934). 155 Cfr. supra. L. GALLE e G. GUIGUE, 1899. 346 149 Dalle cronache di Gringore ricaviamo soprattutto il carattere medievale dell’entrata: ad esempio alla porta St. Denis una nave simboleggia il complesso civile della città, adottando la medesima retorica di quella stazione per l’ingresso di Enrico VI nel 1431 e di Luigi XI, nel 1461. In Gringore la moderna allegoria pagana si presenta incerta, legata ad una prospettiva scolastica e gallica: le sue immagini non sono paragonabili alla forza rigorosa e leggera dell’allegoria rinascimentale italiana (prendiamo il Salone dei Mesi di palazzo Schifanoia). Nella sua produzione anche le intuizioni più precoci in direzione della simbologia pagano – si veda l’ortus conclusus con pastori per le rappresentazioni allo Châtelet del 1501 – si risolvono in allegorie parlanti sul modello della moralità per una dimensione ancora schiettamente municipale.156 Pensiamo a titolo di esempio alla festa del 1504, in cui un cuore (della città di Parigi) è sorretto da tre figure allegoriche: Justice, Clergé, Commun, accompagnate da Honneur e Loyauté. Nel 1514 la stessa idea è ripresa ma il cuore è del re ed è retto dal palmo della mano divina. La stessa Claudia, nel 1517, ha diritto al suo cuore, aperto dalle figure di Amore Divino, Amore Naturale e Amore Coniugale. Lo sviluppo delle allegorie gringoriane è ancora ascrivibile al “medioevo fantastico”, di cui il poeta è pienamente partecipe. Besides groups of allegorical figures at the Porte S. Denis which included both private and political virtues, and a group called the daughters of Justice at the Chatelet, there was in the final pageant an elaborate scene – unusual in its approach to dramatic dialogue – presenting the ideal king in the person of Saint Louis, the subject of Gringore’s chief work. In this scene Saint Louis received and accepted advice from his mother and from Justice in regard to sapience and just judging, and then administered justice to three suppliants. In the second pageant France was symbolized by a garden of flowers, chiefly lilies, cared for by the queen with the help of the king and God. In the third “le peuple francoys” rested under a lily in a “clos de repos,” attended by Concord and Union, while above sat a king called Libéralité, accompanied by Bon Conseil, Bon Vouloir, Connaissance and Prudence.157 Nel 1525 viene pubblicato in Parigi il testo de les Heures de nostre Dame158 curato dal nostro poeta; è un libro di lusso con privilegio del 1524, stampato in caratteri gotici ed ornato di rubriche e di dodici grandi incisioni. Il legno stampato sul foglio 66 sollecitò l’attenzione di Emile Picot per via dell’originalità iconografica della scena di passione che vi è raffigurata; e nel 1878 lo studioso fece stampare un opuscolo159 in cui tratteggiava un’ipotesi affascinante sul contenuto dell’incisione, cui si 156 La cronaca di questo evento è stata attribuita ad André de la Vigne ed è riportata in H. STEIN, 1902. C. R. BASKERVILL, 1934 : p.XXX. 158 Pierre Gringore, les Heures de nostre dame…, J. Petit, Paris, 1525. 159 E. PICOT, 1878. 157 347 riprometteva di indirizzare in seguito un’opera di ampio respiro su Pierre Gringore et les comédiens italiens. L’incisione rappresenta una scena di passione, ma salta subito all’occhio l’inconsueto programma iconografico: al centro, le mani legate, ed in procinto di essere incoronato di spine, campeggia Cristo in abiti professorali, con bonnet carré e veste lunga, così come era l’iconologia del poeta, o più genericamente del letterato o del dottore in legge sul finire del XVI secolo. Ai lati si affollano invece diversi personaggi di impronta grottesca, che secondo l’ipotesi dello studioso francese sarebbero alcuni commedianti professionisti italiani. Nella suggestiva lettura iconografica di Emile Picot l’uomo che porge la corona di spine in alto a sinistra, sarebbe Pulcinella o Gianduja; mentre a destra, il personaggio con il lungo cappello potrebbe essere un Graziano o un Pancrazio ed il cristo martoriato dovrebbe corrispondere allo stesso poeta. Se l’identificazione fosse giusta, proseguiva lo studioso, si potrebbe ipotizzare un contatto di Pierre Gringore con i “comici dell’arte”, a partire almeno dal 1517, anno in cui lo scrittore ed attore francese lasciò le scene e la vita pubblica parigina per approdare alla corte di Lorena. La passione sarebbe un’allegoria della competizione commerciale con i parvenu italiani, che invasero il mercato spettacolare monopolizzato dalla coppia Marchand-Gringore, competizione cui si dovrebbe dunque la drastica decisione di lasciare Parigi, ove allora Pierre Gringore ricopriva il prestigioso ruolo di Mère Sotte. La gravure scioglierebbe il mistero che circonda l’abbandono delle scene da parte del poeta in un momento di successo ed ingaggi e – fatto ancor più straordinario – dimostrerebbe l’insediamento commerciale di maestranze teatrali tale già da scalzare i tradizionali appaltatori delle rappresentazioni civiche in Parigi fin dal secondo decennio del XVI secolo. A prima conferma di questa ipotesi pensiamo al manoscritto del ’14 sopra segnalato. Perché Gringore sentì l’esigenza solo in quel momento, (e cioè dopo circa tre lustri dalla sua comparsa come poeta per le scene) di realizzare un resoconto della sua attività? Potrebbe egli aver voluto rendere nota alla committenza reale la qualità del suo operato. L’introduzione del manoscritto conforta questa idea: fra i motivi della realizzazione del bel codice londinese si legge d’altronde una accorata difesa dalle maldicenze. 348 Figura 3. Legno dell'esemplare TOLBIAC B-2913 349 Que soubz telz gens la verite se celle. | Cuidant sauoir la pensee de lacteur. | Qui de ce cas a este inuenteur. | Et ont voullu si noble entree extraire. | Non pas au vray mais du tout au contraire. | Par quoy ie en vueil faire narration. | […] | Comme verras par ditz et vraye histoire.160 E ancora, le allegorie classiche cominceranno ad entrare nelle raffigurazioni di Gringore solo a partire dal 1515.161 Dobbiamo leggere in questo dettaglio un tentativo di adeguarsi ai nuovi gusti classicheggianti? L’intuizione di Emile Picot è sospesa fra l’esattezza e l’esagerazione critica: da una parte rivela infatti un fondo di verità, dall’altra è necessario correggere il tiro del critico francese, che non rimaneva estraneo al fascino che alcune maschere italiane suscitavano ancora sulla cultura otto-novecentesca. Cominciamo con l’escludere senza troppe esitazioni che il personaggio con la corona di spine in mano possa essere Gianduja, maschera che oggi sappiamo relativamente recente, avendo visto la luce solo nella Commedia dell’Arte del XIX secolo. Gianduja è infatti originario del piemontese e la sua creazione risale al primo decennio dell’Ottocento per mano del burattinaio Giovan Battista Sales che aveva bisogno di un sostituto per il suo Gerolamo. Il nome di questo bifolco chiacchierone pare venga dalla qualificazione di bevitore, ovvero, “Gioan d'la douja”, Giovanni del boccale, oppure dal francese “Jean Andouille” con allusione all’appetito pantagruelico del suo prototipo contadinesco. Sebbene di nazionalità piemontese, (ciò che, assieme all’origine del nome, con ogni evidenza dovette indurre Picot a forzare la mano nell’accennare a questa maschera) e quindi di area francofona, Gianduja non corrisponde né al contesto né all’iconografia del soggetto dell’incisione, la maschera originale essendo caratterizzata da abiti di foggia settecentesca con tricorno, codino, farsetto e calze rosse. Nel corso del 1800 il personaggio divenne particolarmente famoso (nel teatro di prosa fu perfezionato dal celebre Giovanni Toselli della Reale Sarda) ed è forse a causa della sua notorietà che all’epoca Picot – nel delineare l’ipotesi sulla gravure – dovette averlo ben presente. La nostra figura può corrispondere però ad un prototipo di Pulcinella, nella derivazione dal Maccus di origine atellana; del resto la maschera del meridione italiano era ipergenerica ed affondava le sue radici fin nel XIV secolo ove però, a differenza di quella incisa nelle Heures, si caratterizzava più 160 Pierre Gringore, op.cit., 1514 : f.I-v., in C. R. BASKERVILL, 1934 : p.XVII. C. BROWN, 2007 (contiene anche alcune miniature del manoscritto). 161 A. BONNARDOT, 1885, (le Châtelet en belle humeur : p.119 e sgg.) ove si segnala la collezione stampe Fontette per la presenza di una tavola che ricorda una rappresentazione allo Châtelet del 1515, firmata da Gringore e rappresentante il mito di Cadmo Bellerofonte. Nel 1517 Gringore realizzava allegorie basate sulle storie di Semiramide, Coriolano, Tantalo. 350 frequentemente per le somiglianze “ornitologiche”: la voce stridula, il naso ed il volto a ricordare un becco, particolarmente per i Pulcinella collegati alla genealogia dell’atellano Kikirrus, che furono quelli più importanti per la formazione del prototipo moderno, nasuto, gracchiante, vestito in bianco con maschera demoniaca nera. Fra il Pulcinella-maccus ed il Pulcinella-kikirrus la caratteristica comune è certamente il camicione bianco ed il cappello (il tutulus latino che si allungherà nel corso del ‘500, pur ricomparendo a volte con le sembianze originali162), ed è proprio questo cappello enorme la loro caratteristica più importante, come si può vedere nella più antica illustrazione pulcinellesca, il ritratto di Paoluccio della Cerra, dovuto a Ludovico Carracci e risalente alla seconda metà del Cinquecento, in cui il personaggio compariva senza maschera ma non privo del caratteristico berretto. Il cappello è di fatto l’unico minimo comun denominatore della maschera in tutte le sue numerosissime declinazioni nel tempo e nello spazio; in prospettiva cronologica la presenza di questo inconfondibile copricapo (allungato ed appiattito sulla sommità) nella gravure ci pare sia un fatto interessante, in quanto lo stereotipo sarà messo “nero su bianco” solo più tardi da Silvio Fiorillo, ne la Lucilla costante, scritta nel 1609 e pubblicata postuma nel 1632. La circolazione di Pulcinella come personaggio fisso risale almeno all’attore napoletano Andrea Calcese, maestro di Fiorillo, ma è più difficile distinguere fra Pulcinella e maschere “pulcinellesche” analoghe nate in tutta Europa sul solco del modello tardo latino: le forme esteriori della maschera italiana dovevano essersi comunque precisate già dalla prima metà del XVI secolo, ciò che rende plausibile la nostra ipotesi. Sebbene non sia possibile verificare direttamente l’abbigliamento del personaggio dell’incisione (in ultimo piano rispetto agli altri) il braccio in maniche di camicia sembrerebbe compatibile con la veste del Pulcinella-maccus. Sempre sul merito del cappello segnaliamo anche che in una celebre raccolta dedicata alle scene della commedia italiana, i personaggi del Tombeau de Maitre André, (rispetto alla gravure meglio tratteggiati nei costumi), calzano quasi tutti un lungo e ridicolo cappello, non dissimile dai due delle Heures.163 162 Pensiamo ad esempio alla celebre stampa del 1650 degli incisori Bonnart, “Polichinelle”, ora custodita al museo Carnavalet della storia di Parigi. 163 C. GILLOT, s.d. 351 D’altronde l’universalità della declinazione meridionale del prototipo fece ovunque il successo della maschera ed in Francia si innestò facilmente sulle figure dello stolto e del fanfarone che i numerosi ritratti teatrali d’estourdis avevano riesumato dalla tradizione latina e poi medievale, a conferma ancora del processo di passaggio del testimone che stiamo individuando come caratteristico del trasferimento in Francia delle forme teatrali italianizzate moderne. In basso a destra abbiamo quello che sembrerebbe un “gruppo familiare”, unità fondamentale della maggior parte delle azioni narrative della commedia, poiché in esso si intrecciano le relazioni base ed il motore dell’azione, e cioè l’intrigo d’amore. Molto più tardi il gruppo familiare raggiungerà la sua estensione completa nella Compagnia dei Gelosi, sintesi della primordiale Figura 4. Le Tombeau de Maistre André. esperienza dell’arte, la cui configurazione rispondeva al meglio al canovaccio tipico della commedia, improntato alla tradizione erudita: due vecchi (Pantalone e Graziano), due coppie d'innamorati, e due zanni (Pedrolino, primo zanni e Arlecchino, secondo zanni); fra le parti “mobili” si potevano trovare il Capitan Spavento e la Serva (in seguito Colombina). Pur essendo un modello di compagnia posteriore al nostro periodo di indagine, la composizione della troupe di Andreini è ispirata a forme sceniche antiche ed è straordinario come il gruppo di personaggi sulla destra sembri ricalcare questo modello, con tre uomini (un vecchio, un personaggio in età matura ed un giovane) ed una donna. Nella tipizzazione italiana, i vecchi si associano alla maschera generica del Dottore in legge o in medicina: l’esasperazione dell’incompetenza, la pedanteria, l’intransigenza, sono i loro tratti basilari e le confraternite goliardiche francesi apprezzavano questo personaggio la cui forma rispondeva efficientemente allo spirito polemico studentesco. Il modello italiano del Dottore era vestito alla 352 maniera accademica bolognese: una veste nera fino alle ginocchia copriva la tunica, lunga invece fino ai piedi. Le nostre due figure maschili della gravure (la prima e la seconda a destra rispetto il personaggio centrale) sembrano essere il frutto di un’ibridazione fra i due tipi specifici del dottore, Pantalone e Graziano; i tratti essenziali del primo sono la calzamaglia, il mantello, il capello di lana, l’età matura ma non avanzata; quelli del secondo sono invece l’età avanzata, la tunica, il bastone e sovente la barba. Effettivamente Picot individua nella figura sulla destra con cappello allungato «un Graziano o Pancrazio»: bisogna ammetterlo, l’ipotesi non è peregrina, sebbene il mantello (che cela appena una calzamaglia) e l’età matura (più che avanzata) ci ricordino piuttosto un Pantalone sempre provvisto – fin dai tempi del suo antenato, il Magnifico – di lunga zimarra. Anche nel personaggio più avanti possiamo notare una contaminazione fra le due maschere: da una parte il bastone e la tunica ad indicare Graziano, dall’altra la barba ed il cappello “pantaloneschi”; il morbido berretto basso in lana è qui completato dalla pallina di feltro sulla punta, segno specifico, addirittura, della maschera: i tratti che contrastano con quelli originali di Pancrazio sono invece la tunica, il bastone e l’età forse troppo senile. È importante notare come il personaggio di Pantalone sia uno di quelli che otterranno un precoce successo in Francia: cittadino di Venezia, era entrato sicuramente in contatto con le truppe francesi e poteva essere un tipo di cui anche il pubblico francese conservava il riflesso leggendario del nome, che deriverebbe dal soprannome «Pianta il Leone», con riferimento ironico alla conquista della terra ferma da parte dei Veneziani, che sui territori di conquista erano usi piantare stendardi col leone della repubblica di S. Marco. Elemento secondo noi probante sull’identità fra questi ruoli italiani ed i due personaggi dell’incisione è anche la presenza dei due adulti accanto alla fanciulla ed il giovane, cui sempre sono abbinati nella trama della commedia erudita e poi dell’Arte. La donna o fanciulla seduta in primo piano ha abiti aristocratici e lussuosi: la condizione nobile è confermata dalla corona (una allusione alla pia Claudia di Francia?), mentre sappiamo che la maschera dell’Amorosa (in seguito più tipicamente nella Commedia dell’Arte, “Isabella”) è normalmente una giovane fatua vestita alla moda, in foggia aristocratica, ma sprovvista di espliciti attributi di nobiltà. Il terzo uomo sullo sfondo sembra invece ricordare un Lelio amoroso, lo sguardo 353 in una smorfia astuta ed il berretto possono genericamente essere ricondotti al tipo del giovanotto che agisce con scaltrezza per ottenere la donna della quale è invaghito. Ma passiamo ora al gruppo a sinistra dell’incisione, più esplicitamente deforme, grottesco. La figura che scorgiamo per intero sulla sinistra, la meglio visibile e caratterizzata dopo quella centrale, ha un pugnale alla cintola che ne segnala la professione militare; il costume ed il corpetto hanno tutta l’aria di corrispondere alle divise dei lanzichenecchi. E non può allora non venire alla mente uno dei prototipi di maggiore successo drammaturgico in Europa e più esatta corrispondenza trasversale fra le letterature di lingua romanza, il soldato fanfarone, la cui origine più diretta è il miles gloriosus di memoria latina, che aveva avuto uno sviluppo importante specialmente nelle letterature francofone, con la lunga schiera satirica dei francsarchers, riflessi di una professione militare alla deriva urbana. Possiamo insomma riconoscere con una certa precisione la “parte in commedia” del figurino; che probabilmente, viste le date di uscita di queste Heures fa riferimento preciso alla contemporaneità più stringente – caso non raro nella produzione di Gringore – che confermerebbe la lettura dell’incisione nella chiave storico-allegorica di urgenza d’attualità, suggerita dall’interpretazione generale della stampa di Emile Picot. Qui l’esplicita allusione agli accadimenti politici contemporanei alla tiratura delle Heures è confermata da alcuni documenti della municipalità di Parigi, contenuti nella raccolta di Felibien, e risalenti all’estate del 1525, durante la cattività spagnola di Francesco I.164 Si tratta di decreti del parlamento e provvedimenti speciali presi per placare gli animi delle truppe mercenarie italiane e lanzichenecche, che nella capitale francese attendevano di essere pagate da Claudia di Francia, sfogando i propri istinti predatorî sulla popolazione. Storie di cappa e spada, anzi di polvere da sparo e flottiglie nel centro di Parigi: mentre una banda di una cinquantina di giovani archibugieri seminava il terrore ad un passo dall’Île-de-la-Cité,165 alla 164 Troviamo in FELIBIEN: 14 juin. Recherche des avanturiers. II, 665, a ; 19 juin. Bandes Italiennes aux environs de Paris. II, 666, a ; 21 juin ; Les Avanturiers François se joignent aux bandes Italiennes pour desoler le pays. II, 666, b ; 23 juin. Expedition contre les bandes Italiennes. II, 666, b ; 23 juin. Le comte de Braine agréé pour lieutenant du comte de S. Paul à Paris. II, 668, a ; 23 juin. Pontoise menacé par les bandes Italiennes, demande du secours à Paris. II, 669, a ; 24 juillet. Députés de Lansquenets défrayés à Paris. II, 670, a ; 26 juillet. Députation des Lansquenets au parlement. II, 670, b ; 26 juillet. Les Lansquenets ravagent les environs de Paris. II, 670, b ; 27 juillet. Le comte de S. Paul va trouver les Lansquenets. II, 671, a ; 27 juillet. Les Lansquenets se logent à l’abbaye de Chelles. II, 671, a. Tutti gli atti ufficiali qui sopra raccontano dell’estate calda di Parigi, nel 1525. Le truppe italiane nei pressi della città, unite a vari avventurieri di origine francese causano problemi di ordine pubblico, con violenze e saccheggi ovunque, fino ai faubourg. 165 È denunciato il furto di dieci battelli sulla Senna, “auprès des Celestins”, da parte degli ultimi superstiti della banda, all’epoca del verbale quasi per intero uccisa o morta in azioni criminose. Con piccoli battelli dal centro del fiume i giovani sparavano sugli argini contro i testimoni: alcuni ritenevano che i membri della banda facessero i turni per dormire, in modo da tenere il gruppo sempre attivo e di effettuare assalti quotidiani alla città di Parigi. 354 periferia sud-est della città le truppe ingaggiate dalla corona attendevano i salari e si arrogavano il diritto di riscuoterli dalla popolazione. I militari italiani avevano ottenuto da Claudia di Francia di restare nella periferia di Parigi, a carico delle popolazione. Sebbene «Ambrois de Ville, chevalier prevost du comte de Bellejoyeuse, capitaine general des bandes Italiennes» non lasciasse intendere nella sua relazione che la situazione fosse davvero degenerata, apprendiamo dai provvedimenti del parlamento che la soldataglia attaccava la popolazione, estorcendo e stuprando. La situazione fu risolta con il pugno di ferro, e solo limitatamente ai faubourg, dopo numerosi tentativi di trattativa ed il pagamento, infine, delle truppe; ma i villaggi limitrofi – le attuali banlieue metropolitane – rimasero sotto pressione con il sopraggiungere di alcuni battaglioni di mercenari lanzichenecchi di stanza a Montreuil. Gringore non è nuovo alla politica ed apre spesso le sue opere alla contemporaneità: non è irragionevole pensare che la stampa raffigurasse proprio uno di questi mercenari che fecero le pagine più significative della storia cittadina di quegli anni. Se consideriamo come le troupe di commedianti fossero legate all’immaginario bellico e militaresco, poi, non è errato pensare al personaggio della gravure come ad un ulteriore comico sulla scena, ipotesi avvalorata anche dalla posizione dell’uomo, che analizzeremo più avanti nel confronto con i repertori gestuali. Appena sopra vediamo una vecchia stringere una verga; i suoi tratti e la postura sono straordinariamente somiglianti alla figura di furia conservata al museo dell’opera di Parigi e realizzata nel 1654 per l’allestimento del Ballet royal des noces de Pélée et de Thétis e che ricorre anche nella produzione torelliana. Le due testimonianze secentesche, sebbene poco rilevanti ai fini del nostro studio, confermano l’appartenenza dell’incisione ad un’area semantica teatrale. Allo stesso modo i dadi in basso a sinistra, posati sulla veste di un Gesù professore, portano la memoria alle raffigurazione vernacolari della Passione, secondo una precisa tradizione grottesca legata alle rappresentazioni dei misteri, che ponevano particolare accento sull’episodio narrato nei Vangeli166 (quando appunto le vesti del Redentore vengono scommesse ai dadi): è certamente superfluo accennare al valore mimetico del contrasto di registri, particolarmente sviluppato a partire dagli episodi della passione del Cristo.167 Nelle tavole iconologiche di Aby Warburg fra le scene della FELIBIEN, II, 664, a. : 10 juin 1525. Le guet battu par les mauvais garçons. 166 «E, dopo averlo crocifisso, spartirono le sue vesti, tirandole a sorte, per sapere che cosa toccasse a ciascuno.» Marco 15, 24 – Nuova Diodati. 167 E. AUERBACH, 1946. 355 Passione si dà risalto all’immagine degli aguzzini che giocano la veste, particolarmente teatrale, fra quelle cui più sovente corrispondono infiltrazioni grottesche nel linguaggio sacro. Il martello tenuto in mano dal personaggio in secondo piano rispetto al lanzichenecco sembra alludere al mestiere di maniscalco, essenziale nella preparazione delle entrate reali e nell’allestimento dei catafalchi che ospitavano le scene offerte nel corso delle processioni festive e degli ingressi. Nell’iconologia abituale della Passione il martello ricorre spesso, specie nel medioevo, cui si associano i tre chiodi “a mazzo”: i due oggetti dovrebbero essere impugnati dallo stesso personaggio, ma qui, anche effettuando un confronto con la stampa contenuta nell’esemplare di Vienna (tiratura di cui parleremo più avanti), sembrerebbe proprio che i chiodi siano stretti dalla mano sinistra del personaggio in terzo piano, quasi del tutto nascosto dagli altri, mentre il nostro maniscalco impugnerebbe con la destra solo il martello. Comunque stiano le cose abbiamo visto come in questi anni le maestranze italiane intervengano massicciamente nella preparazione degli avvenimenti solenni festeggiati in Parigi, ed in particolare si è accennato all’attività di Pietro da Cortona ed alla presenza di tale «Francisque de Campobasso» nella direzione di diverse parate parigine del periodo. La figura si può collegare forse alle congreghe dei mestieri, fino a quel momento responsabili degli allestimenti pubblici e per la prima volta sorprese da esperti concorrenti italiani, che turbavano la realtà corporativa parigina e che erano giunti in Francia in corrispondenza con quella “risacca d’uomini” che fu la prima guerra d’Italia. Sotto quest’ottica se pure può sembrare imprudente parlare di Comici dell’Arte, non va esclusa la possibilità che queste figure rappresentassero dei professionisti dello spettacolo ancora legati a vario titolo alle maestranze ed alle arti, come il Cortona, appunto, specialista di “chasteaulx” effimeri e maniscalco. Più tardi sappiamo per certo che gli italiani ottennero gli appalti della città di Parigi per le pubbliche rappresentazioni: nel 1530 le ingerenze italiane si erano tanto estese che un attore come Jehan du Pont, a lungo sulla vetta della scena parigina, dovette riconoscere ad un tale «maistre André, italien» l’autorità di ordinare le rappresentazioni.168 168 Du Pont-Alais ha una esistenza travagliata e rissosa, non dissimile dal mito di genio e sregolatezza che sarà il tratto dominante dei comici dell’arte. Accenni satirici contro la corte gli costeranno il carcere: fu recluso assieme ai suoi compagni di lavoro – Jacques le Bazochien e Jehan Serre – nel mese di dicembre del 1516. L. LALANNE, 1854 : p.44 e APF : t.XI, p.250. Nel 1524 lo troviamo offrire pubbliche rappresentazioni a Nancy H. LÉPAGE, 1848 : p.263. Di ritorno a Parigi viene ancora imprigionato fra il 1529 ed 1530; ma entra nelle grazie di Francesco I fino al 1533. Nel 1534 un compenso di 225 lire per alcune rappresentazioni è l’ultima notizia sul suo conto. 356 Sono alcuni estratti dei registri dell’Hôtel-de-Ville a testimoniare l’atto obbligato di sottomissione dell’attore francese. È in corso l’allestimento dell’entrata di Eleonora D’Austria a Parigi, siamo al 12 dicembre dell’anno 1530. Ont esté mandé au dit bureau, par mondit sieur le gouverneur, maistre Jehan du Pont Alaix et maistre André, Italien, estans au service du Roy, ausquels mondit sieur le governeur a enjoint faire et composer farces et moralitez les plus exquises et le plus brief que faire se pourra pour resjouir le Roy et la Reyne a l’entrée de ladite dame ; lesquels ont promis ce faire et, outre, ledit Du Pont Alaix a dit qu’il veut estre sujet audit maistre André et luy obeir.169 Il dominio delle maestranze italiane si estende alle scenografie: nel cerimoniale di Godefroy, e nei registri dell’Hotel-de-Ville, alla data 5 dicembre 1530 leggiamo ancora della presenza di un tale «messire Mathée» con «ses compagnons», intenti a preparare i bozzetti di preparazione per le sontuose rappresentazioni trionfali che si tenevano alla porta di St. Denis. Les Italiens, c’est à sçavoir Messire Mathée et ses compagnons ont ce jourd’huy apporté au boureau, auquel e[s]toit la compagnie dessus dite assemblée, des pourtraits en papier pour les inventions des mystéres qu’ils seroient d’avis estre faits à l’entrée de la reyne Eleonor es lieux ausquels la ville est tenue les faire ; c’est à sçavoir à la porte de Sainct Denys, au Ponceau et à la porte de aux Peintres, lesquels pourtraits ont esté veus par mesdits sieurs assemblez ; et leur a esté demandé quel prix ils voudroient avoir pour faire lesdits mystéres esdits lieux ; lesquels pour re[s]ponse que, en les fournissant de bois, ils voudroient avoir quatre-mil livres tournois, ou que on leur donnast quatre cens escus pour eux quatre et un payeur et controlleur, et ils mettroient volontiers ordre a l’execution desdits mystéres, lesquels pour re[s]ponse ont esté remis a la venue de mondit sieur le gouverneur de Paris.170 Emile Picot sosteneva appunto nelle linee guida del suo saggio, che l’arresto improvviso nel 1517 dell’attività teatrale di Gringore fosse dovuto proprio al sopraggiungere di una concorrenza professionale italiana in Parigi già a partire da quell’epoca. La cronaca del Rincio e quelle delle altre parate sono una conferma in questo senso: al mutare delle mode cambia anche il vento per le maestranze francesi, forse meno reputate di quelle italiane. La scena della “tavola grottesca” delle Heures de nostre Dame si trasforma così da passione ad allegoria della morte professionale del celebre Mère Sotte e del mondo stesso delle rappresentazioni nell’ambito della confraternita di Bazoche. Diventa la prima avvisaglia della fine incipiente d’una gloriosa stagione, quella delle farse, che – ancora legate alla tradizione corporativa e municipale francese – avevano preparato un humus fertile, ARCH. CURIEUSES s.I, t.III, pp.77-100 : p.89, (Extrait des comptes de dépenses de François Ier). 169 GODEFROY, t.I : p.787. 170 Ibidem : p.783. 357 un certo “gusto” del pubblico particolarmente adatto a recepire e far fiorire in seguito la commedia italiana professionale, ma che non erano destinate a sparire del tutto trovando una ricollocazione “semantica” nel linguaggio stesso della prima commedia francese. I versi che accompagnano la stampa avvalorano questa teoria dell’apoteosi e morte del farceur. En me prestant, sire Dieu, tes oreilles, | Veulles entendre a ma plainte et clameur, | Car tu sais bien, o facteur des merveilles, | Comme je suis en grand doubte et tremeur. || Les mal vueillans, gens rempliz de injustices, | Seront de toy arriére deboutez, | Ne a te veoir n’auront point leurs delices, | Mais au tourment d’Enfer seront boutez. || Mon seigneur Dieu, plaise a toy me conduire | A cheminer justement en ta loy ; | Mes ennemis tachent a me seduire ; | Monstre toy dont mon regent et mon roy. || Car a telz gens, plains de malignitez, | Amour n’y est, ne confidence ou grace, | Et en leur bouche il n’y a verite : | Leur cœur est vain et rempli de falace. || De leur gosier il ne sort que laidure | Et faulx blason, tout ainsy promptement | Que d’un sepulchre infect et plain d’ordure, | Pour ce, mon Dieu, fais en ton jugement.171 Notiamo subito come la lamentazione sia contro alcuni «vueillans», genti che con ogni evidenza provengono da lontano o comunque fuori dal contesto parigino; Gringore non sembra esposto soltanto alle maldicenze, ma anche alla tentazione, come se il potere affabulatorio di costoro possa indurre ad una deviazione dalla retta via, giacché nella loro verbosità non sta né «amour» né «verite», ma solo menzogne e «faulx blason». Possiamo forse collegare queste affermazioni di Gringore con la paganizzazione delle simbologie spettacolari francesi? Forse che Gringore, “faiseur de mysteres” non condivide l’estetica paganeggiante, moderna, di questi nuovi artigiani da spettacolo? Il passaggio ricorda inoltre Inferno XXI – XXII, due canti danteschi collegati alla tradizione popolare e farsesca in cui l’invito alla conoscenza indirizzato al lector segnala il valore di “ermeneutica della realtà” del capolavoro dantesco, a rivendicare il senso non univocamente fantasioso – farsesco, diremmo – della Comedia. Il collegamento con la tradizione folklorica francese è posto da Dante a segnare la demarcazione fortemente comica dei due canti, ricchi dei riflessi della professione del barattiere, cioè di colui che affabula le masse con falsi sermoni. L’episodio libera le tensioni imposte dallo stile alto e sovverte la morale in trasgressione adottando il registro basso dei ludi carnascialeschi, la cui finalità era appunto la liberazione anarchica e folle circoscritta all’evento festivo. V’è poi nei due canti danteschi un collegamento morfologico e stilistico con la tradizione delle diableries transalpine che evidenzia ancor di più il riferimento al genere comico teatrale, alla tradizione comica popolare, cioè anti-cortese e realistica, propria del comico letterario: sono note, del resto, le 171 Pierre Gringore, op.cit., 1525 : ff.66r-v. 358 importanti relazioni che intercorrono fra Dante e la letteratura transalpina, specie per lo sviluppo della figura del Falsembiante e per il legame con la tradizione trobadorica e giullaresca a nord delle Alpi. Quello che più conta è come nei due canti Dante sottolinei la differenza sul piano retorico e dirremmo «ermeneutico» fra la commedia letteraria e quella dei barattieri di strada, le cui bocche sono piene di imposture, comandate dal denaro e dunque lontane dalla verità. E si noti come Gringore appartenesse ad una confraternita, certamente pagato anche lui (restano le ricevute), ma in qualche modo disinteressato, in quanto bazochien, “organo” del corpo municipale. Analogamente a quanto intendiamo da Gringore ascoltiamo Dante: «ogn’ uom v’è barattier, fuor che Bonturo; | del no, per li denar, vi si fa ita.»172 Il giullare è un ribaldo, imbonitore di folle che vende i suoi prodotti letterari come mercanzie. Il comico di strada ed il venditore smerciano parole; sono soggetti alla legge della domanda e dell’offerta, ciò che fa la differenza sostanziale fra essi e Dante. Il barattiere è «uno showman, giocoliere o prestigiatore della parola, capace di far apparire come vera e naturale una realtà che invece è falsa ed artificiale».173 Il bersaglio dei canti è insomma chi fa dell’impostura ideologica e poetica il suo marchio di appartenenza. La stessa onomastica dei canti richiama la tecnica scenica, farsesca, dei loro tratti caratteriali, e l’espediente del “nome parlante” è uno dei principali segni distintivi delle forme comiche francesi delle origini e della commedia tout court: per formularli Dante ricorre proprio al vasto repertorio di nomignoli della tradizione giullaresca francese. Nel campo della poesia comica oitanica il più famoso di questi nomi è “Alichino”. A proposito del quale i commentatori hanno opportunamente richiamato la “mesnie Hellequin” (si tratta di un tema narrativo diffusissimo; lo troviamo ricordato anche nel Jeu de la feuillée di Adam de la Halle), compagine diabolica guidata appunto da Hellequin (da cui discende la maschera di Arlecchino)174. Anche i nomi di Libicocco e Ciriatto possono essere ricondotti, sebbene indirettamente, allo stesso ambito culturale. A proposito del primo già Spitzer ha proposto acutamente un avvicinamento con il frutto dell’albicocca, che in francese troviamo impiegato per indicare metaforicamente il sesso femminile, e quindi una persona sciocca. Per il secondo rimane invece accertata la derivazione da ciro, “maiale”: e va pertanto accostato, come processo formativo e semantico, a Porcelet, anch’esso nome giocoso del sesso femminile (“pour ce qu’il ne puet estre nez”) nel fabliau dello stesso titolo. (MR, IV, 144) 175 172 Inferno XXI, 41-42. Questa e la precedente: M .PICONE, 1989 : p.16. 174 G. FAVATI, 1965. 175 M .PICONE, 1989 : p.26. 173 359 Un fatto che raccorda i versi in calce alla gravure ad un universo semantico comune almeno a quello dei canti danteschi. Come Dante, anche Gringore si scaglia contro genti la cui colpa è nella parola, nella bocca colma di imposture al punto da far loro meritare d’essere “boutez” all’inferno. Là giù ‘l buttò, e per lo scoglio duro si volse; e mai non fu mastino sciolto con tanta fretta a seguitar lo furo.176 I rimandi alla tradizione farsesca ed agli accadimenti contemporanei avvalorano l’appartenenza della scena di passione delle Heures ad un contesto drammatico. La prospettiva di Picot, inoltre, con i dovuti aggiustamenti trova anche dei riscontri documentari e cronologici nelle nuove tendenze sceniche e festive della corte francese. Diventa così plausibile pensare ad una decisiva influenza della cultura scenica italiana su quella francese almeno dai primi anni del ‘500, in ragione anche di un naturale periodo di conquista del difficile mercato dello spettacolo parigino, allora spartito fra le confraternite cittadine, ampiamente impegnate nelle forme della rappresentazione profana medievale. 3.2.2 – Ipotesi bibliografica per una vicenda di censura. Secondo Emile Picot177 le Heures de Notre Dame, uscirono nel 1525: le copie della prima edizione esaurirono quasi subito dopo la pubblicazione ed una nuova richiesta di privilegio fu inoltrata per produrre una seconda tiratura. In aria di Riforma però il parlamento – secondo lo studioso proprio a causa della libera raffigurazione della passione al foglio 66 – sollevò alcune perplessità sul contenuto dell’opera ed il teologo sorboniano Guillaume Duchesne fu interpellato per valutare la liceità della pubblicazione. La facoltà di Teologia dette così il suo parere negativo, intimando alle stamperie di non produrre traduzioni di nessun tipo dai testi sacri, salvo autorizzazione speciale del parlamento. Soltanto il 15 novembre del 1527, Francesco I accordò un nuovo privilegio, così l’opera fu ristampata: le Heures, uscirono ancora nel 1528 con l’aggiunta degli Chantz royaulx e la medesima gravure del Cristo dottore essendo così destinate ad essere distrutte. Tant’è, prosegue Picot, che allo stesso anno 1528 risale la seconda emissione le cui differenze di composizione tipografica sono 176 177 Inferno XXI, 43-45. E. PICOT, 1878. 360 trascurabili, ma dove troviamo la scena di passione grottesca sostituita da un legno sempre siglato dal monogramma e raffigurante una specie di martire in costume moderno, con sullo sfondo una torre in fiamme: nella nuova plancia il cambio di registro risulta evidente rispetto alla rappresentazione grottesca. Spariscono i “comici”, sostituiti da un uomo in ginocchio e da quattro personaggi:178 ed una rappresentazione della passione basata sulla stessa composizione del legno grottesco, ma iconologicamente più tradizionale, andava a completare le illustrazioni degli Chantz. Emile Picot spiegava così la rarità dell’emissione “grottesca” del ‘27/’28, e la relativa disponibilità dell’edizione dello stesso anno priva del legno proibito. Dopo avere seguito la descrizione e la storia dell’edizione delle Heures de nostre Dame nel breve saggio di Emile Picot su Pierre Gringore e les comédiens italiens sous François I, abbiamo creduto utile accertare le forme materiali e lo stato delle edizioni antiche custodite alla Bibliothèque Nationale de France nelle due sedi di Arsenal e di Tolbiac. Gli esemplari più antichi delle Heures presenti nel catalogo della BNF sono associati in particolare alle seguenti date e collocazioni (riportiamo assieme gli esemplari ritenuti omologhi nel catalogo e fra parentesi quadre il luogo in cui sono conservate): 1. b-2913 [Tolbiac], réserve 8-t-2577 [Arsenal]: 1525; 2. b-2913(bis), b-2913(ter) [entrambi Tolbiac]: 1527; 3. réserve 8-T-2578 [Arsenal]: 1528; 4. 4-T-954 [Arsenal]: 1528; 5. réserve 8-T-2579 [Arsenal]: 1534. 178 Attributi dell’uomo al centro: inginocchiato in preghiera, abiti ed acconciatura signorili. Probabilmente è un giovane rampollo. Sul fianco ha una bisaccia in cuoio. L’espressione è piegata alla sofferenza. Attributi dell’uomo di sx-retro: abiti più modesti dell’uomo al centro. È raffigurato sull’atto di accostarsi al protagonista, che indica con la mano destra. Attributi dell’uomo di sx: possiede una alabarda ed un pugnale sul fianco. Anche gli abiti ricordano in qualche modo una specie di divisa. Si porta la mano alla testa, sulla quale ha un cappuccio. Attributi dell’uomo di dx: sembrerebbe preso nell’atto di argomentare o mendicare. È il più vecchio di tutti ed ha una espressione triste e contrita. Si tiene con la mano destra su un lungo bastone, ha stivali e cappello. La mano sinistra è aperta, il palmo orientato verso l’interno. Attributi dell’uomo di dx-retro: poco visibile. Capelli lunghi. Viso gelato in una espressione di tristezza. Nessun dettaglio rilevante per vestiti e corpo, celati dall’uomo che gli sta davanti. 361 Figura 5. Legno dell'esemplare ARSENAL 8-T-2577. 362 Ad un primo confronto limitato all’incisione grotesque dell’esemplare b-2913 e del 8-t-2577, si notano facilmente alcune differenze: nonostante nel catalogo OPALE-PLUS i due esemplari siano datati 1525 e vengano considerati identici, il legno grottesco (f.66) di b-2913 è più tardo per diverse ragioni. Innanzi tutto, la scritta in basso a sinistra (1) «erba mea auribus percipe» che in 8-t-2577 è posta in basso a destra e ben distanziata dal margine del legno179 – in b-2913 è invece composta assai sbrigativamente più in alto ed a costo di una consistente abrasione della cornice del legno. L’identica foliazione (2) in testa alle due tirature cambia caratteri e, sempre in testa, nell’esemplare dell’Arsenal non v’è la scritta «vigilles des mors» che invece si trova in b-2913. Infine, anche la didascalia ai piedi del legno della copia in Arsenal è posta qualche millimetro più in basso ed ha una composizione tipografica differente: il capolettera occupa la spaziatura di due righe e l’ortografia cambia in diversi punti rispetto alla copia Tolbiac, i cui caratteri non sono allineati e le iniziali sono appena più grandi del corpo del testo. È evidente non solo la grande differenza di composizione tipografica della pagina, ma anche il diverso stato di usura della matrice, che nell’esemplare Arsenal è in condizioni decisamente migliori. Ampliando l’analisi materiale e contenutistica alla globalità dei fogli ci si rende conto della grossolanità dell’errore commesso in fase di catalogazione alla BNF. Primo elemento sostanziale di differenza fra i due esemplari è il titolo: annunciante gli Chantz royaulx senza disattendere le aspettative del lettore, b-2913 è privo di qualsiasi allusione ad eventuali committenti mentre 8-t-2577 non menziona gli Chantz royaulx (che infatti non vi compaiono) e recita al titolo «par le commandement de || haulte et noble princesse madame Regnee de bourbon du- || chesse de Lorraine». Proseguendo nella consultazione, il volume dell’Arsenal è introdotto da diversi fogli, assenti in quello conservato a Tolbiac. Si tratta d’una incisione raffigurante il «Jardin de la Vierge florie»; di una immagine della Vergine posta appena sotto al titolo (tanto che sul dorso in pelle il volume è denominato Heures de la Vierge); ed d’una «Genealogia Christi» di gusto fortemente medievale. A questa serie di pagine e legni non presenti in b-2913 si aggiunga anche la diversità dei privilegi180 ed una composizione tipografica molto evidentemente diversa in numerosi luoghi. 179 Appena sopra questa scritta nella riproduzione di Picot compare anche una sigla in grafia moderna poco leggibile che non abbiamo trovato in nessuna delle edizioni consultate. Probabilmente si tratta di una aggiunta del laboratorio fotolitografico che la riprodusse. 180 b-2913 Æ Parigi, 25 novembre 1525 ; 8-t-2577 Æ Lione, 10 ottobre 1525. 363 Figura 6. Legno dell'emissione di Vienna. 364 Figura 7. Passione tradizionale degli "Chantz". 365 Esemplari tutt’altro che omologhi e la cui datazione può essere agevolmente stabilita attraverso i calendari: pubblicazione d’uso pratico per eccellenza, il libro d’ore contiene sempre la successione delle feste mobili a partire dall’anno di uscita o tutt’al più dall’anno successivo. Nel caso dei primi due volumi della BNF, 8-t-2577 si apre con l’anno 1524 mentre b-2913 inizia a calcolare le feste mobili a partire dal 1540. Diremo allora che 8-t-2577 è l’editio princeps del 1525 e che b-2913, anche stando al repertorio di Avenir Tchemerzine,181 va correttamente datato al 1540. Fotoriproduzioni e descrizioni corrispondono ed è giusta anche l’indicazione sul legno grottesco, che viene definito «d’un tirage fatigué», esattamente ciò che ci faceva escludere la possibilità che le due opere fin qui descritte fossero due emissioni diverse d’una stessa edizione. L’errore nel catalogo OPALE-PLUS è certamente da imputare al privilegio del ’25 contenuto nell’edizione del ’40, unica dopo gli esemplari del ‘27/’28 a contenere il legno grottesco. Ad ogni modo anche il repertorio Tchemerzine, contiene un errore: l’esemplare 8-t-2577 viene descritto correttamente in tutte le sue parti e vengono anche riprodotte tutte le incisioni non presenti nelle edizioni successive, ma della passione grottesca si rende la riproduzione della plancia abrasa dell’edizione del 1540, quella “fatigué”, riconoscibile per tutti i dettagli di usura e composizione tipografica sopra segnalati. La seconda coppia di collocazioni riguarda due esemplari conservati a Tolbiac e schedati sotto l’anno 1527: il b-2913(bis) ed il b-2913(ter). Per quanto riguarda il primo dei due dobbiamo fare attenzione ad un tranello ulteriore: l’esemplare b-2913(bis) dal catalogo sembra corrispondere alla prima emissione del ’27, denominata da Tchemerzine a p.606 “esemplare Didot”.182 Sono numerosi in effetti i punti di contatto con tale variante, che devono aver indotto in errore l’archivista della BNF: il privilegio è del 15 novembre del ’27, reso direttamente a Gringoire; il foglio ciiij manca; gli Chantz royaulx sono annunciati ma non presenti; Quatre Oraisons compaiono al «recto du f.2 e du f. 4». Ma a causa del titolo e dell’assenza dell’incisione grottesca, b-2913(bis) non è di sicuro l’esemplare Didot 187: la nostra b-2913(bis) dovrebbe invece corrispondere alla riproduzione che Tchemerzine riporta a pagina 613. Tutti i dettagli congiurano verso questa direzione ed in particolare il carattere tondo per il testo dell’homme phlebotomique; l’assenza degli Chantz nonostante l’annuncio nel titolo e soprattutto la sostituzione della gravure grottesca del f.66 con l’incisione dell’uomo legato e della torre in fiamme sullo sfondo. Ma dobbiamo rilevare ancora un errore sulle riproduzioni del repertorio Tchemerzine; con ogni 181 Gli esemplari delle Heures sono in TCHEMERZINE, t.III e vanno da p.601 a p.621. Qui ci riferiamo alla descrizione del t.III, p.617. 182 Tale esemplare era in possesso appunto di Ambroise Firmin Didot, (Cat. FIRMIN-DIDOT, t.I, n°599). 366 evidenza, infatti, bisogna invertire l’illustrazione di pagina 613 con quella di pagina 612 che corrisponde perfettamente all’esemplare b-2913(bis), (postille, stampigli ed annotazioni posteriori incluse) che del resto non può essere quella descritta a pagina 612 a causa dell’assenza degli Chantz. E passiamo all’esemplare b-2913(ter) che – sottoposto a recente restauro – è quasi il gemello del precedente, ma vi si discosta per la presenza degli Chantz e di tutte le incisioni aggiuntive ad essi associate: anche qui la passione grottesca è rimpiazzata dall’uomo e dalla torre in fiamme ed una scena di Passione ben più tradizionale, che tuttavia ripete lo schema compositivo della grottesca, compare nel fascicolo degli Chantz. Questo schema di indice e contenuti resterà invariato in tutte le edizioni fino al 1540. L’esemplare Arsenal 8-t-2578, contenente gli Chantz, come annunciato anche dal titolo e dotato di privilegio parigino del 1527, va invece ricondotto Tchemerzine 606(b). Rigato con tratti a sanguigna, manipolato e duramente rifilato dal rilegatore fino a mutilare lo specchio di stampa, ci pare sia uno degli esemplari più rari fra le numerose tirature delle Heures tradotte da Gringore: si tratta dell’ultima edizione prima del 1540 (b-2913) che contenga anche l’incisione del Cristo dottore, plancia che d’altra parte qui mostra i primi segni di abrasione ed invecchiamento, stavolta ragionevolmente imputabili alla rimozione del legno dai telai assemblati per realizzare 8-t-2577;183 anche l’illustrazione dell’uomo “flebotomico” nel medesimo schema compositivo ed apparato didascalico dell’originale è certamente tirata impiegando una plancia copiata dall’originale. Altre singolarità di questa stampa sono un leggero velo giallo applicato a tutte le maiuscole e l’uso di una carta con filigrana diversa da tutte le altre edizioni: dettaglio che assume un certo significato se pensiamo che nelle Heures dal ‘25 al ’40 è in uso sempre la stessa carta. Meno rilevanti ci sembrano invece le edizioni successive (la Arsenal 4-T-954 del 1528 e la 8-T-2579 del 1534) che rispettano in sostanza l’indice consolidato: Chantz completi, incisione dell’uomo e della torre al f.66 in luogo della gravure grottesca ed oraisons alla fine del volume. Esiste tuttavia una edizione ancora più misteriosa delle Heures, purtroppo non conservata alla Biblioteca di Francia ma presente in copia unica alla Österreichische Nationalbibliothek di Vienna, descritta in un breve saggio di Louis Karl,184 il quale nella stessa sede fornisce anche una riproduzione 183 Si tratta di una intaccatura nettissima, probabilmente fatta con una sgorbia o analogo strumento, che si vede in alto a sinistra e che ricompare anche nel “tirage fatigué” di b-2913. 184 L. KARL, 1931 : pp.352-355. 367 che ne evidenzia la grande differenza (a parità di composizione) di tratto rispetto alle due scene di passione fin qui descritte. È questione qui di un terzo legno grottesco, quindi, contenuto in una edizione somigliante solamente alla nostra 8-t-2577, che non viene segnalato in nessun repertorio oltre a questo saggio di Karl e la cui iconografia ripete esattamente quella della gravure del Cristo dottore, (fatta eccezione per il tratto, più rudimentale e stilizzato). Le cahier A est remplacé dans cet exemplaire par deux feuillets de garde, l’un contenant des vers dédicatoires, écrits à la main et commençant: Oysiveté la mere des malices | Rend les seruants subjectz a plusieurs vices. Le feuillet suivant (B) est décoré par la figure anatomique ou phlébotomique d’un homme debout, suivie du rondeau: Tous corps humain. Les treize gravures sur bois sont identiques à celles des éditions ordinaires, mais elles sont coloriées à la main. Au dernier feuillet (fol.90v°) on lit la prière en vers: Gubernateur du ciel et de la terre, donnant en acrostiche le nom de l'auteur, ensuite la devise de la Confrérie des sots: Raison par tout, remplaçant le colophon. Les caractères gothiques, la mise en pages sont conformes aux exemplaires imprimés sur papier (1525) qui ont cependant une page-titre et la marque de l'imprimeur à la fin.185 Non abbiamo toccato con mano il volume, ma basandoci sulla descrizione di Karl possiamo provare a formulare qualche ipotesi. L’esemplare di Vienna può essere solo precedente all’edizione che abbiamo identificato come la princeps (8-t-2577): non si spiegherebbe in nessun altro modo la scomparsa totale della gravure più rozza e stilizzata che v’è contenuta. Infatti le copie BNF del ’25, del ’27 e del ’40 contenti il Cristo dottore usano tutte il legno “perfezionato” della Passione grottesca, che compare per la prima volta in 8-t-2577, sicuramente del 1525. Poco prima di questa edizione la copia viennese fu probabilmente impressa a Parigi o in Lorena, senza permesso (non vi compare alcun privilegio reale), per sbloccare la censura attivata da Guillaume Duchesne che firmò il divieto di pubblicazione il 23 agosto del 1525. 186 Si dovette attendere fino al mese di ottobre per ottenere la concessione a pubblicare. È in tale intervallo di tempo che la gravure grottesca venne ridisegnata e migliorata (il che ne mette in evidenza anche la centralità nel progetto editoriale di Gringore), mentre si elaborava manualmente l’esemplare pregiato destinato a René di Bourbon-Montpensier, rilegato in marocchino rosso e decorato dalle doppie C del casato della committenza, oltre che colorato (e dedicato) a mano. Forse Pierre Gringore sperava di ottenere con il dono e la dedica alla duchessa di Lorena (presso la quale il 185 186 Ibidem : p.353. A. H. TAILLANDIER, 1837. Rép. BONNET, t.II : p.1752). 368 Nostro aveva già trasferito la sua attività poetica) una specie di certificazione o intercessione in più per far passare più agevolmente la sua opera sotto gli strali della censura regia. E così fu probabilmente: all’esemplare lavorato a mano di Vienna, seguì infatti il princeps Arsenal 8-t2577, (senza ombra di dubbio quello riprodotto anche da Picot nella sua opera su Pierre Gringore e i comici dell’arte), con tanto di scuse nel colofone: «Cestes Heures ont este imprimees audict pays de Lorraine et es Allemagnes et lesquelles il a monstrees et communiquees a aucuns docteurs de la Faculte». Stampate non appena ottenuto il privilegio in Lione il 10 ottobre del 1525 (o forse già pronte?) le copie del libro d’ore furono immesse sul mercato e fu in quel momento che il Parlamento dovette sollevare altre polemiche sulla liceità del testo. Si spiega la richiesta di un nuovo privilegio, che sarà concesso con la data del 25 novembre del 1525, ma che sarà impiegato solo nelle edizioni successive (a nostra conoscenza compariva per la prima volta nel 1540 in b-2913). Per una nuova edizione delle Heures, bisognerà attendere il 1527, quando uscirono due diverse emissioni: aggiunti i Canti reali per rendere più succulenta l’opera, Pierre Gringore fece uscire un’edizione “mondata”, ove l’incisione grottesca al f.66 era sostituita dalla stampa dell’uomo e della torre in fiamme che abbiamo descritto ed ove gli Chantz riportavano a compendio visivo il Cristo tradizionale: si tratta dei nostri esemplari b-2913(bis) e b-2913(ter). Tuttavia, particolarmente legato all’idea della gravure grottesca, l’autore forse sperò di poter “diluire” nella massa degli esemplari ufficiali e consentiti qualche copia pirata contenente ancora il legno grottesco. Siamo così arrivati all’uscita della rara edizione del ’27/’28, appartenente al fondo dell’Arsenale sotto la sigla 8-t-2578 e contenente la gravure grottesca al foglio 66 a differenza degli analoghi suoi stati: la probabile distruzione di questi esemplari ne giustifica l’attuale rarità (la copia all’Arsenal è, a quanto ci risulti, unica, non meno dell’esemplare viennese del ‘25) e siamo propensi a credere che l’impiego di un legno diverso da tutte le altre edizioni per la realizzazione dell’uomo flebotomico possa essere collegato alla contemporanea composizione delle due differenti emissioni, e dunque alla necessità di avere due matrici. Le gravure della passione (entrambe le versioni del Cristo dottore) sono contrassegnate dal medesimo monogramma GS, che si compone di una “s” inscritta dentro ad una “G” in stampatello maiuscolo, con un tratto ascendente intersecato con croce a due traverse. 369 Auguste Bernard, nella sua affascinante quanto dubbia opera sull’incisore lorenese Geofroy Tory, avanzava l’ipotesi che il monogramma GS sormontato dalla croce di Lorena indicasse la mano del protagonista della sua monografia. Lo studioso andò oltre, attribuendo al celebre artista non solo questa composizione, ma anche tutte le altre ad ornamento del volume delle Heures, benché ammettesse egli stesso che lo stile fosse completamente differente. Fra le opere contenenti il medesimo monogramma, Bernard elencava nel suo saggio anche una Histoire […] de la triumphante et glorieuse victoire obtenue contre les seduyctz et abusez Lutheriens mescreans… di Volcyr de Sérouville le cui incisioni sono state poi attribuite a Gabriel Salmon, così come il monogramma GS sul quale rimangono tuttavia alcuni dubbi di attribuzione ad un anonimo “monogrammista”. Anche Emile Picot è assai critico nei confronti delle congetture di Bernard e segue piuttosto le notazioni stilistiche di Ambroise Firmin Didot187 quando obietta che le figure in questione sono tirate troppo sommariamente per essere della mano del grande maestro lorenese. Del resto anche le iniziali non corrispondono a quelle del nome dell’artista e la teoria di Bernard secondo la quale GS contrassegnerebbe le opere incise e non quelle disegnate dal lorenese con Godofredus Torinus Scalpsit, è una evidente forzatura.188 Albert Ohl de Marais189 da una parte smonta la dubbia attribuzione del monogramma GS a Geoffroy Tory e dall’altra suggerisce ragioni convincenti per le quali la sigla corrisponderebbe a Gabriel Salmon.190 Le iniziali contenute nelle marche e nei monogrammi del XVI secolo sono solo in rari casi alterate rispetto al nome “d’officina” dello stampatore: seguendo questo principio, inoltre, nel nostro caso la lettera S non può essere l’abbreviazione della parola sculpsit / scalpsit perché si tratta di una abitudine sopraggiunta solo più tardi nella storia della stampa. La lettera caratterizzante dello stemma è inoltre la G, e Salmon era abitualmente chiamato Gabriel, mentre Tory era conosciuto soprattutto sotto il suo nome di famiglia. Un dato storico si aggiunge a questi elementi di attribuzione, vale a dire l’intensa attività di Gabriel per la corte di Lorena ed il sicuro rapporto diretto con Pierre Gringore e Volcyr de Serouville in seno a quell’entourage nobiliare. 187 Cat. FIRMIN-DIDOT. MONOGRAMMISTEN, t.III, pp.101-103. 189 A. OHL DE MARAIS, 1931. 190 G. CLUTTON, 1938. 188 370 3.2.3 – Confronto con i repertori gestuali. Come abbiamo visto, nell’interpretazione in chiave grottesca dell’incisione delle Heures, Emile Picot azzardava una “allegoria dei comici italiani”, peccando forse nell’applicare univocamente ai personaggi i cliché di maschere italiane più tarde, con in più l’anacronismo di usarne le sembianze ottocentesche: Emile Picot scriveva il suo saggio in un momento storico in cui la critica e lo spettacolo europei, ed italiani in particolare, conservavano ancora molti aspetti della Commedia dell’Arte come mercato produttivo e spazio artistico creativo. È probabile che la familiarità del pubblico dell’epoca con le maschere abbia influenzato la lettura iconografica dello studioso francese. Se è vero che per la fine del XV e l’inizio del XVI secolo è azzardato chiamare in causa i tipi fissi con i loro nomi propri, dobbiamo considerare che la Commedia dell’Arte legava le sue origini a patrimoni mimici e gestuali dell’antichità, provenienti dall’humus letterario latino, deformato sotto la lente delle rappresentazioni medievali e dell’istrionismo giullaresco. L’incisione si avvale d’un patrimonio semantico che, cronologicamente non riconducibile alla commedia italiana e dell’Arte, affondava comunque le radici nello stesso milieu culturale, legato alla narrazione profana e a quell’humus culturale che abbiamo tracciato come ampiamente condiviso sui due lati delle Alpi. Rimane problematico stabilire quanta tradizione figurativa e quanto citazionismo involontario ci siano nella raffigurazione delle ore del 1525, ma crediamo che la presenza del linguaggio spettacolare non possa essere negata specialmente tenendo conto dell’impressione del 1525 di Vienna, in cui si vede distintamente il lanzichenecco in primo piano tenere con la mano una maschera sul volto. Rimane più problematico identificare con certezza la provenienza italiana dei personaggi. S’è ampiamente parlato sopra di come lo spettacolo medievale francese avesse origini comuni a quelle italiane; in un patrimonio semantico le cui somiglianze reciproche sembrano talvolta straordinarie pur se non direttamente giustificabili da un punto di vista storico: germinazioni parallele, risorse novellistiche e contatti anteriori o contemporanei al nostro arco cronologico accomunano la nascente letteratura drammatica profana francese con quella italiana. Orientare la ricerca su un confronto attivo della nostra incisione con tre repertori gestuali stilati in epoca più tarda – la Chirologia di Bulwer, La mimica degli antichi di Andrea de Jorio e L’arte de’ cenni di Giovanni Bonifaccio191 – può aprire il percorso a molteplici rischi, ma anche fornire un’utile 191 In nota le chiameremo, rispettivamente : CHIROLOGIA, MIMICA e ARTE DE’ CENNI. 371 mappa di orientamento nella verifica dell’ipotesi di Emile Picot. Scegliamo repertori di immagini posteriori al nostro arco cronologico in quanto una attenzione sistematica per la gestualità teatrale (e la sua rappresentazione pittorica) muove i primi passi solo più tardi, come ha messo in luce l’attività di ricerca del centro César per la ricerca sull’immagine teatrale.192 Ma va detto che quelli di Bulwer e Bonifaccio, primi manuali sistematici del linguaggio gestuale, ricavavano il loro contenuto da una solida tradizione occidentale e retorica riscoperta dalla trattatistica italiana rinascimentale, Quintiliano e Castiglione prima di tutti. Per dirla con Andrea de Jorio «[…] tanti e tanti [sono gli] esempi della identicità de’ nostri segni e loro significati con quelli de’ nostri più remoti predecessori.»193 Siamo convinti che una analisi iconografica più approfondita dell’incisione del 1525 sul modello di quella di Alba Ceccarelli Pellegrino194 per la raccolta Fossard, sveli effettivamente alcuni particolari interessanti. L’arte de’ cenni del “giureconsulto e assessore” (così si qualifica il nostro) Giovanni Bonifaccio è la prima opera moderna con ambizione di sistematicità scritta con lo scopo di repertoriare i gesti, in quanto linguaggio universale e “naturale”, espressione confidata all’uomo da Dio, “favella visibile”, “muta eloquenza […]” o “un facondo silentio”: e siamo solo al titolo dell’opera. Il volume riporta una serie di posizioni topiche associandole ad un significato (scenico o sociale) in base a citazioni prese dalla letteratura umanistica, rinascimentale e latina ed a considerazioni sul comportamento e l’educazione. Il principio alla base del trattato si ispira all’espisodio biblico della Torre di Babele, per cui il gesto sarebbe un dono divino, la lingua universale nel castigo dei molteplici linguaggi particolari e la lingua più naturale, spontanea. In tale visione il linguaggio dei gesti è anche il più trasparente, quello che rende impossibile la dissimulazione, giacché il corpo rivela sempre le tensioni che l’intelletto cerca di nascondere: è questo l’anello di congiunzione etica, per cui in Bonifaccio il gesto non è solo universale, ma anche buono. Nel repertorio si tenta di creare un nesso fra la gestualità contemporanea e quella antica, in un eclettico esercizio di curiosità e sapere letterario, che rispecchia la visione manierista ed enciclopedica (nozionistica) del classico, in cui l’auctoritas è mescolata con disinvoltura alle scritture sacre ed alla storiografia latina, a dare affidabilità e credibilità alle informazioni repertoriate mediante l’artificio dell’accumulo. La connessione fra retorica, gesto e teatralità è una prova implicita della stretta connessione del 192 César – Calendrier électronique des spectacle sous l’Ancient Régime, (http://www.cesar.org.uk). MIMICA (n°23: Gesti descritti e dilucidati dai classici). 194 A. CECCARELLI PELLEGRINO, 1998. 193 372 patrimonio gestuale antico con quello umanistico e della Commedia dell’Arte: la longevità e la trasversalità di alcune figure dell’espressione corporea è sorprendente. Pensiamo banalmente al “gesto della cicogna” descritto da Bonifaccio come espressione d’insulto: è lo stesso che ricompare in una infinità di pièce di gusto farsesco, e che è giunto pressoché immutato fino ai nostri giorni. L’origine di questa mossa volgare ma irresistibilmente ridicola, secondo il nostro trattatista si perde nella notte dei secoli, alle radici stesse della cultura occidentale. Il gesto della cicogna Questo era un gesto di scherno, che si faceva dietro ad alcuno, ponendo la punta del dito indice sopra la sommità del pollice, tenendo l’altre dita raccolte, in forma del becco della cicogna, con spesso movimento del braccio, e della mano imitando quel gesto che col suo collo è dalla cicogna fatto, in modo di percuotere con la mano nella parte inferiore. Persio dice che Giano erà felice, perché avendo due faccie, l’una dinnanzi e l’altra di dietro non gli era fatto da tergo questo scherno: O Iane à tergo quem nulla ciconiam pinsit. E pinsit significa percuotere, come anticamente prima che si trovasse l’uso de’ molini nelle pile col pistello i pistori pistavano il grano. Di questa cicogna e di come essa si formi scrive Svetonio nel fine della vita di Caligula. E S. Girolamo scrivendo a Rustico a Monaco in una sua epistola gli dice; Non ascoltar gli adulatori, perché da poi chi ti haveranno lodato, nel partirsi da te, si subito respexeris ciconiarum deprebendes post te colla curuari.195 La Chirologia di Bulwer è un inventario di poco posteriore ispirato dagli stessi principi, ma con una particolare attenzione al moto delle mani e alle pose espressive drammatiche (rispetto a Bonifaccio tutta l’area semantica dell’autore inglese ruota attorno alla gestualità spettacolare), con relativa interpretazione “semantica” legata alla tradizione figurativa, oltreché retorica e performativa. Lo sforzo sistematico è più evidente nell’opera di Bulwer, che divide il suo trattato in due volumi, la chironomia e la chirologia, e che alle illustrazioni sociali del Bonifaccio sostituisce vere tavole scientifiche, incasellate in lettere e numeri, in cui ad ogni posizione delle mani si fa corrispondere uno stato d’animo: ogni casella è un “chirogramma” e si ricollega a nozioni eterogenee di retorica, pedagogica, politica e filosofica, seguendo i principi dell’erudizione umanistica da cui la cultura di John Bulwer, fisico teorico dunque filosofo naturale, proveniva. In questo senso, se la prospettiva di Bonifaccio era fortemente legata alla tradizione popolare e religiosa, quella dell’inglese aveva come punto di riferimento più solido tanto le scritture quanto la Istitutio oratoria di Quintiliano, che analizzava, come è noto, la gesticolazione come strumento funzionale all’abilità retorica. Al di là del diverso background culturale i principi di Bulwer erano tuttavia comuni a quelli di Bonifaccio, specialmente nella visione positiva e veritiera del linguaggio 195 ARTE DE’ CENNI : p.335. 373 performativo dei segni, laonde considerato espressione univoca rispetto al parlato menzognero. Rispetto a questi primi due il trattato sui gesti di Andrea Jorio di cui ci avvaliamo è ancora più recente e maggiormente legato ad una realtà socio-geografica (Napoli) ma appartiene alla stessa tradizione di sistematizzazione inaugurata da Bonifaccio e Bulwer e riprende anche il sincretismo fra retorica antica ed espressione gestuale comune. La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano usciva a Napoli nel 1832: canonico della Metropolitana di Napoli; cavaliere di II classe dell’Aquila Rossa di Brandeburgo; socio onorario dell’Accademia delle Belle Arti, il suo autore, Andrea de Jorio, sembra volere emulare le prospettive sapienziali del mondo antico, appunto. Il De Jorio ha un compito: ‘offrire al pubblico un saggio della mimica dei napoletani e del suo concatenamento con quella degli antichi’. È vero, egli dirà, che ‘tutti i nostri discorsi cominciano col moderno’ (cioè col gestire dei napoletani). Ma è vero, altresì, che il moderno ‘è il primo scalino per montare al piano nobile del grande edificio mimico’. In tal modo, se da un lato si possono ‘apprestare nuovi lumi agli archeologi per l’intelligenza dell’antichità sia figurata che scritta’ dall’altro si ha proprio ‘l’impegno di non pochi dotti, specialmente ultramontani, nel rintracciare l’antichità dei noti moderni usi’.196 Anche per Andrea Jorio l’interesse per il mondo classico è prevalente, e nel “gestire” napoletano sono stati conservati meglio gli antichi segni del dialogo antico: il popolo napoletano diviene protagonista di una specie di populistico epos classico, che a noi interessa quasi in appendice rispetto ai due precursori secenteschi per qualità teatrali e significanti. Qui la scansione teorica (contrariamente ai due repertori precedenti basati prevalentemente sulla tradizione culturale) si fa più scientifica e lo Jorio sente anche la necessità di dare un’interpretazione di carattere linguistico all’impiego del gesto, identificato nella duplice funzione del significato/significante. La sicurezza dell’uomo ottocentesco sulla validità della codifica razionale del messaggio gioca stavolta un ruolo fondamentale nel formulare l’ambiguità del gesto rispetto alle lettere o ai geroglifici, laddove invece i suoi due predecessori affermavano la totale ed inequivocabile trasparenza del gesto. Ma procediamo finalmente con la lettura del legno delle Heures, iniziando dal militare sulla sinistra che abbiamo già collocato nel tipo del lanzichenecco | soldato fanfarone | franc archer. Ed è Aby 196 MIMICA : p.XIV. 374 Warburg197 il primo a stimolare una riflessione sull’iconografia di questo personaggio: secondo la logica associativa a lui propria lo studioso tedesco metteva in relazione fra di loro diverse rappresentazioni belliche o di lotta, con attenzione alla posizione dei singoli personaggi; il braccio teso verso l’alto, ad arco, si associa normalmente ad atti di aggressione armata. Questa posizione prevede una lancia o un’arma stretta nel pugno del personaggio, il corpo teso nello sforzo: è il caso della Battaglia di Ercole e i giganti (British Museum, Londra), dei Lottatori di Antonio Pollajuolo (Ashmoleam Museum, Oxford), della Morte di Orfeo (Metamorphoseon, Venezia, 1497) o de La lotta per i pantaloni sia del Maestro delle Banderuole che nella versione di un anonimo fiorentino. La mano sulla testa in queste scene è di solito armata, nell’atto di scagliare una lancia o colpire un altro soggetto con clava o spada, secondo un’iconologia tipica delle varie “-machie” del linguaggio artistico classico. Il braccio sinistro della nostra figura recepisce forse questo atteggiamento militaresco in senso traslato: privandolo cioè della carica di aggressione reale (esplicitata nell’arma) per rappresentare un attacco di tipo verbale e di scherno sul piano gestuale. La mano in atto di scagliare un’arma diventa la mano a cappello poggiata sulla testa. C’est n’est qu’abuz: una critica al “faulce blason” quando si ferisce, addirittura, con la lingua biforcuta. Nella stampa del ’25 è inoltre evidente come il personaggio indossi una maschera, che, sfoderata e subito infilata diventa una sorta di strumento d’offesa. Nel repertorio gestuale di Giovanni Bonifaccio troviamo un riscontro ancora più diretto fra la posa del militare ed i paragrafi intitolati “Coprirsi la testa con le mani, ò con la veste” e “Toccarsi il capo”. Per il primo si scopre immediatamente che è sia «gesto di timore» che di aggressione; ambiguità che nel linguaggio classico è per Bonifaccio soltanto apparente: all’atto di aggressione si accompagna infatti sempre un motivo di paura o eccitazione a rendere cangiante l’emozione. Effettivamente nella tradizione iconografica delle scene di Passione, la paura di toccare il sacro mentre lo si aggredisce sottolinea la gravità dell’azione; mentre nelle scene di lotta, la paura evidenzia il pericolo della reazione dell’avversario: «[la mano sulla testa] è gesto di timore, quasi che si voglia difender [il capo] da qualche percossa». Ma ecco subito sottolineata la pericolosa ambivalenza di cui rimane vittima Tiberio Sempronio Gracco: 197 A. WARBURG, 1914. 375 T. Graccho volendo raccomandar la sua salute al popolo, postasi la mano sopra il capo ascese in Campidoglio; ma ciò gli successe male, essendo quel gesto da’ suoi nemici interpretato che egli dimandasse il diadema, e così la signoria. Conforme a quel detto della scrittura: Ideo accipient Regnum decoris, & diadema speciei de manu Domini quoniam dextera sua teget eos, & in brachio Sancto suo defendet illos. In una medaglia di Gallieno Imp. È una figura che fa un così fatto gesto, per accennar sicurezza, e fermezza; con queste lettere appresso: SECVRITAS AVG. Plauto disse: - Quin etiam hoc illi dicito | Facturum me, ut nec etiam aspicere aedes audeat; | Capite obuoluto, ut fugiat summo cum metu. (sic)198 In generale, comunque, ci dice Giovanni Bonifaccio, anche il solo levare il braccio ferma l’istante «della forte e valorosa attione» il riferimento è a Davide «In manu potenti, & brachio excelso». Immancabile poi il richiamo a Virgilio: «[Enea] invitando in Sicilia i suoi soldati al gioco del cerchio, disse loro, che a chi dava il cuore d’entrar in quella pugna, ne facesse segno con alzar il braccio: | Nunc si cui virtus, animusque in pectore praesens | Adsit: & evinctis attolat brachia (sic) palmis.» La valorosa postura non esclude però la gaglioffaggine; il braccio verso l’alto è ancora una volta «volontà di voler offendere». Le auctoritas per Bonifaccio sono stavolta Petrarca e Ariosto, più volte menzionati durante tutta L’arte de’ cenni: in questo caso del primo poeta Bonifaccio riporta: «Morte già per ferire alzato il braccio.» Per il secondo, abbiamo invece il passo in cui Ruggiero uccide Rodomonte: «Alzando più che alzar si possa il braccio.»199 La mano destra del lanzichenecco segue invece la linea della gamba e si protende in avanti, sostenendo una canna (a ricordo forse della spugna d’aceto dell’episodio di Passione); in Bulwer questa posizione corrisponde al Gestus LV: Indignatione timeo. Il passo dedicato a questa espressione corporea sembra concorde nel segnalare l’ambiguità gestuale dell’aggressione. In the practice and conversation of common life was ever frequent and is so deeply imprinted in the manners of men that you shall in vain persuade a man angry and enraged with grief to contain his hand from this passion. […] This gesture of the hand is significant also in fear, admiration and amazement. Hence, Plutarch, relating the injuries that the pirates whom Pompey vanquished did the Romans, says the greatest spite and mockery they used to the Romans was this: that when they had taken any of them, and that he cried he was a citizen of Rome and named his name, then they made as though they had been amazed and afraid of that they had done; for they clapped their hands on their thighs and fell down on their knees before them praying him to forgive them. 200 198 ARTE DE’ CENNI : p.31. La citazione di Plauto è da Mostellaria. Ibidem : p.258. 200 CHIROLOGIA, Gestus LV: Indignatione timeo, (tavola B, «R»). 199 376 Veniamo ora alla donna seduta destra con la corona, che abbiamo identificato come una amorosa: la mano alzata con l’indice in alto e le altre dita raccolte sotto il pollice corrispondono nel repertorio di Bulwer all’illustrazione «G» della tavola chirogrammatica C denominata Terrorem incutio. Eccone la descrizione: Gestus VII: Terrorem incutio [inflict terror]: The holding up of the forefinger is a gesture of threatening and upbraiding. Hence, this finger is called minax or minitans by the latins, [because by it we convey the threats and use it in reproving one ]. He force of this finger in denouncing threaten things when it is brandished in way of terror, Seneca acknoledgeth where he sayeth that of old in children: [movement of the fingers was wont to cause tears ]. Hence, also, Plutarch borrowed his [“Boldly to stretch forth the finger,” with regard to him who pronounces terror on another]. To this may be referred the relation of a worthy and right elegant countryman of ours in this in his voyage into the Levant, who [spoke of] being in the Isle Rhodes; and one morning prying up and down, a Turk met him and threatening him for an Englishman and a spy, with a kind of malicious posture, laying his forefinger under his eye, he seemed to have the look of a design. 201 Anche Bonifaccio accenna ad una posizione analoga a quella della donna, che definisce “Alzar la mano in atto di offesa” che è: «Gesto d’animo inimico, e che voglia castigare o fare ingiuria & offesa, anzi come disse Ulpiano questo atto è l’istessa ingiuria punibile; ‘Si quis pulsatus quidem non est, verum manus adversus eum levatae & saepe perterritus est, quasi vapulaturus, non tamen percussus, utili iniuriarum actione tenetur. Alleva manum tuam super gentes alienas, ut videant potentiam tuam: dice la divina scrittura et Davidde. Leva manus tuas in superbias eorum in finem’; Et altrove: ‘Extendisti manum tuam, & devoravit eos terra’. L’Ariosto di Bradamante e del mago incantatore dice: ‘disegnando levargli ella la testa | Alza la man vittoriosa in fretta.’»202 A tale posizione di minaccia si aggiunge quella del dito, che fa parte della stessa sfera semantica riconducibile ad attacco e aggressione. Con il dito indice disteso e tutti gli altri raccolti e premuti dal pollice, si fa il «gesto delle minaccie», che viene ulteriormente rafforzato qualora si agiti con un impeto il braccio, «quasi come il dito fosse una verga da percuotere il minacciato». Bonifaccio segnala che lo stesso Dante parlò di questo gesto: «Ch’i vidi lui à pié del ponticello | Mostrarsi e minacciar forte co’l dito, | Et udil nominar Geri del Bello».203 Se andiamo a vedere la figura del ’25 ci accorgiamo che la posizione della mano della donna è diversa da quella del legno posteriore, ma che mantiene un medesimo (se non più enfatizzato) significato di aggressione violenta, potendosi leggere come un vero schiaffo, le dita unite ed il braccio teso in direzione del volto del cristo dottorale. 201 CHIROLOGIA, Gestus VII: Terrorem incutio, (tavola C, «G»). ARTE DE’ CENNI : p.304. 203 Ibidem : p.331. 202 377 Rispetto alla figura del vecchio con il cappello curvo sulla destra si può notare come esso possa corrispondere alle due pose in Bonifaccio dette “star dritto” e “star appoggiato”: il primo è un atto di prontezza alla battaglia, e sappiamo che nelle funzioni religiose medievali era uso cavalleresco assumere questa posizione, con cui si soleva dimostrare una devozione militante al Cristo. Lo stare poggiati è invece un atto di fermezza e stabilità. […] Perciò nel rovescio d’una medaglia a Ophelio Macrino Imp. è una figura di donna, che rappresenta la Dea Sicurezza, che co’l braccio destro sta appoggiata ad una colonna, & con la mano sinistra ha un’asta con queste parole. SECURIT ASTEMPORUM: e perché questa fermezza, e perpetua stabilità massimamente si ritrova in Dio, del quale è scritto: Ego sum, & non mutor: però anco gli Etnici ne i loro falsi Dei la descrissero onde Ovidio di Gioue disse che stava appoggiato al suo scettro: Celsior ipse loco, sceptroque innixus eburno.204 L’aria di sprezzatura (notiamo incidentalmente come sia uno dei principi enunciati dalla trattatistica comportamentale del Rinascimento) del vecchio sembra anche più evidente nel primo legno del ’25, ove i tratti del volto sono meglio disegnati in una espressione contrita di diniego. Per il personaggio centrale, che sopra abbiamo associato ad un maniscalco, abbiamo trovato una possibile corrispondenza con una posa descritta da Andrea de Jorio; quella “bocca spalancata” che se non è accompagnata dagli “occhi esprimenti un bisogno, ed animati da una certa vivacità”, ma da occhi socchiusi, e bocca “abbandonata”, è una contraffazione parodica della “mossa dello stupido” diventando gesto ingiurioso di beffa.205 Tale mimica del dileggio è riconfermata più in là nel trattato. 6. – Mordersi le dita o le labbra. Anche questo gesto dinoterà minaccia, se gli sguardi saranno minaccianti, giacchè può anche esprimere la Rabbia, la Beffa, di cui parleremo a suo luogo. Il suo significato di minaccia è lo stesso del precedente, di volersi cioè mangiare l’inimico, come nell’atto si tenta di fare delle proprie dita. Le nostre donnicciuole lo dichiarano con l’espressione che sogliono aggiungere al mordersi le dita, minacciando. Esse dicono: Se mi vien fatto, ti mangerò a golìo (a), cioè con quella ansietà con la quale le donne gravide addentano il comestibile da esse ardentemente desiderato.206 204 Ibidem : p.445. MIMICA : p.138. 206 Ibidem : p.197. 205 378 Ed infine alla voce “rabbia, furore”, troviamo anche: «mani e dita morsicate. Vale lo stesso se le dita si mettano fra i denti, sia di punta, sia per lungo»207 ciò che corrisponde esattamente alla posa del maniscalco, che morde le dita proprio di fronte alla vittima delle vessazioni. Si prosegua finalmente con la posa centrale assunta dal Cristo-dottore: le mani legate e rivolte verso il basso hanno ancora un riscontro in Bulwer, Gestus VIII, Despero della tavola A, illustrazione «H». To appear with fainting and dejected hands is a posture of fear, abasement of mind, and abject and vanquished courage, and of utter despair. The prophet Isaiah calls this habit of dejection or consternation, the faint hand, or the hand fallen down. The prophet Ezekiel and Jeremiah call this apparition of fear, the feeble hand. And the author to the Hebrews most appositely, the hands that hang down. The old annals of time, and the journals and diaries of common life which contain a narration and exposition of things done give the best patterns of the hands’ expressions, as being the most natural registers thereof in so much as there are no interpreters so proper or able to inform us of the validity and use of this languishing carriage and behavior of the hand.208 Il giureconsulto e assessore Bonifaccio, anche lui, non ha dubbi e precisa che le braccia verso il basso vogliono significare abbattimento: sono un atto di cedimento che anche Torquato Tasso conosce ed utilizza: «Ecco io chino le braccia, e t’appresento | Senza difesa il petto, hor che no’l fiedi?» assieme ad Ariosto: «Ma hora vien chi questa voglia dome | E faccia cader l’ale al mio furore».209 Il che assume ancora più valore quando le mani sono abbassate, come vediamo chiaramente nel nostro professore al centro della scena, la cui posizione è la stessa sia per il legno grottesco del ’25 che per quello del ’27. Il tenere le mani abbassate è segno d’humiltà, d’abiettione, d’esser vinto, & di non voler più adoperare le mani, né far difesa, ò resistenza. Plauto: | Pe.Imo si audias | Meas pugnas, fugias manibus demissis domum. (sic) Ovidio fa dir à Deianira addolorata: | Mens fugit admonitu, frigusque perambulat artos, | Et iacet in gremio languida facta manus. E di Fineo converso in sasso: | Sed tamen os timidum, vultusque in marmore supplex. Summissaeque manus, faciesque abnoxia mansit.210 Lo stesso Andrea de Jorio in due punti distinti del suo repertorio mimico apporta segni inequivocabili della resistenza nel tempo di questa significazione gestuale: “braccia penzoloni” ad indicare «speranza perduta, ossia l’esser fuori di speranza per la riuscita di qualche impresa»,211 da 207 Ibidem : p.245. CHIROLOGIA, Gestus VII: Terrorem incutio, (tavola C, «G»). 209 ARTE DE’ CENNI : p.258. 210 CHIROLOGIA, Gestus VIII: Despero, (tavola A, «H»). 211 MIMICA : p.74. 208 379 associare alle mani “incrocicchiate” che «qualunque sia la posizione del corpo» sarebbero un «effetto di dolore, di amarezza» tanto che in tale posa «si veggono alla Medea Ercolanense»; se accompagnano circostanze esprimenti il dolore «le dita incrocicchiate e coi pollici alzati e combaciantisi negli estremi, […] esprimono l’amarezza profonda» soprattutto quando come nel nostro caso sono rovesciate. Perfetta la corrispondenza col gesto del Cristo dottore in questo passo: Schiavo 1. – Polsi l’uno incrociato sull’altro, con le mani rovescie, sian distese, sian in pugno. Come in questa posizione sogliono talvolta essere ligati gli schiavi, così contraffacendola, ed aggiungendovi la testa un poco china, ed il volto corrispondentemente afflitto, dinoterà uno che si trova in schiavitù. Gli schiavi Frigii rappresentati dagli antichi, spesso si veggono nel descritto atteggiamento.212 Più propriamente legata alla figurazione della Passione e della divinità è invece la posizione a sedere del protagonista: secondo la tradizione prima pagana e poi cristiana la sedia significa sacralità. Bonifaccio specifica come «haver sedia è avere dominio, e residenza» trovando vari esempi ancora una volta nella sacre scritture, in Virgilio, nel diritto romano,213 ma anche nella storia e nella cronaca più o meno recenti. Ed è così portato l’esempio artistico di Ferrara, ove ancora si vede la statua di bronzo del Duca Borso sul trono e col bastone, a mostrare la fermezza sullo stato, e che Bonifaccio interpretava con l’ausilio delle parole di Ariosto: «Vedi il primo duce, | Fama della sua età, l’inclito Borso | Che siede in pace.» Tra gli altri doni e privilegi che fece Papa Alessandro al Prencipe di Vinegia in ricompensa d’essere da lui stato restituito nel Pontificato contra l’oppressione di Federico Barbarossa imp. fu il seggio, & il guanciale d’oro, che tuttavia esso prencipe fa portar avanti di sé con gli altri suoi egali ornamenti, quando solenemmente esce di palazzo. L’atto di sedere dimostra stabilità, fermezza, dominio: «e però è scritto: Antiquus dierum sedit. Et anco: Sedebit Dominus Rex in aeternum. E si dice, Deum sedere super Cherubim per esprimer la 212 Ibidem : p.252. «Me si calicola voluissent ducere vitam | Has mihi servassent sedes. Et disse anche l’istesso poeta: Pendimus in Latium sedes ubi fata quietas Ostendunt. I Consoli Romani nel principio del loro magistrato, per segno di giurisditione, e di grand’honore sopra le sedie d’avorio sedevano; onde Ovidio disse: Et nova conspicuum pondera sentit ebur. […] Gli stessi romani per gran favore costumarono di donar à i Re stranieri una sedia d’avorio, cosi honorando il Re Masinissa, & anco Siface dapoi che si fu dichiarato loro amico e dei cartaginesi nemico. Et à Tolomeo Re d’Egitto, quando seco rinovàrono l’amicitia, mandarono in dono una così fatta sedia con una toga & una tonica di porpora.» ARTE DE’ CENNI, p.452. 380 213 pienezza della sua somma sapienza; della quale Salomone disse: Anima eius sedes sapiētiae. Il Tasso similmente disse: sedeva al suo governo il Re del mondo.»214 Qui naturalmente le citazioni sarebbero sterminate, collegandosi il trono ad una tradizione antropologica non soltanto occidentale, tanto che Andrea de Jorio introduce il problema dell’identificazione del protagonista nel complesso iconografico indicando la posizione seduta fra i segnali «che hanno bisogno di un poco di attenzione per distinguerli». Tale carattere autorevole è enfatizzato quando si segga in una folla e quando tutti i personaggi rivolgano lo sguardo verso il soggetto seduto, o quando si occupi un posto distinto, «perché più alto, o dagli altri un poco discosto, oppure nel mezzo di un quadro»215. La posizione seduta si associa anche all’esercizio del giudizio, ragion per cui l’uomo di legge o il senatore sono tradizionalmente raffigurati su una seduta. Anche la tonaca del nostro personaggio sembra appartenere al contesto giuridico ed universitario ed è ulteriore conferma dell’identificazione con lo stesso Gringore, “Mère Sotte” della confraternita ruotante attorno al palazzo di giustizia. Il topos figurativo del giudizio può essere parimenti applicato alla donna in basso a destra, la cui posizione di potere è di per sé confermata anche dalla vistosa corona. La relazione fra il sedere ed il giudizio compare anche – è Bonifaccio che ci viene in aiuto – nelle sacre scritture. Christo S.N. disse a’ suoi discipoli, che in premio d’averlo in questo mondo seguitato: cum sederit filius hominis in sede maiestatis suae, sedebitis & vos super sedes duodecim iudicantes duodecim tribus Israel: E negli Atti degli Apostoli è scritto; che Herode vestitus veste regia sedit pro tribunali. Iethro dimādò à Mosè suo cognato, perche cosa egli solo sedesse, & il popolo à lui concoresse; al quale egli rispose, perché era Giudice tra di loro. E Davidde disse: Sediti su per thronum qui iudicas iustitiam. E si dice, come per proverbio, che Advocatorum est stare, & iudicum sedere: & è scritto nelle leggi, che i giudici debbano giudicando sedere. Dante per questo disse una volta: Hor tu chi sè che vuoi seder à scranna, | Per giudicar da lungi molte miglia, | Con la veduta corta d’una spanna. E devono anche i giudici sedere, perche sedendo, & quiescendo anima fit prudens, come dice il Filosofo: ma i rei devono star in piedi avanti il Giudice, se però non sono in dignità costituiti, perche non devono patir la pena, & ingiuria di non sedere prima che siano conuinti; ma però siedono in luogo inferiore al Giudice.216 La facoltà “cathedram magistralem ascendendi”, cioè insegnare agli altri, è inoltre tipica dei dottori e dei maestri. La superiorità dell’uomo seduto in cattedra non è incompatibile con lo smacco, la 214 Con la precedente, Ibidem : p.454. MIMICA : pp.20-21. 216 ARTE DE’ CENNI : p.456. 215 381 calamità e la cattiva sorte: nella tradizione cristiana è essa infatti anche la posizione del mendicante e dello stesso cristo martoriato in alcune scene di Passione.217 Un Cristo che qui mostrava tutta la sua ascendenza profana e che dispiacque per la sua estrema espressività (ma anche per l’evidente causa “particulare”) al consiglio teologico della Sorbona, che lo rese così raro e così misterioso. 3.2.4 – Propaganda politica e giochi da sot. Nel contesto storico delle guerre d’Italia si sviluppò una letteratura di propaganda caratterizzata da una notevole prossimità con le forme tipografiche e di distribuzione dello spettacolo profano. Specie durante il regno di Carlo VIII e Luigi XII le linee di questa inedita pubblicistica di propaganda furono particolarmente aggressive e spregiudicate ed implicarono una certa permeabilità dei confini letterari e linguistici franco-italiani.218 L’imprimerie specifica per lo spettacolo così precocemente caratteristica in Francia, offriva pratiche e saperi adattati alle esigenze della performance e della pubblica rappresentazione, tecniche d’un 217 «È anco atto di giacere in qualche miseria, e calamità: Come è scritto nel Vangelo del cieco nato: Non ne hic est, qui sedebat, & mendicabat. & in un altro luogo è detto: Illuminaris his qui in tenebris, & in umbra mortis sedent. Et sedentibus in regione umbrae mortis lux orta est. E di Giobbe si legge, che nella sua grandissima miseria, sedebat in sterquilino. Virgilio in questo sentimento disse: Sedet, aeternumque sedebit Infaelix Theseus. E Tibullo: Illius ad tumulum fugiam supplexque sedebo, Et mea cum muto fata querar cinere. […]» Ibidem, (p.458). 218 Pensiamo solo alla lista lunghissima delle pubblicazioni poetiche e degli opuscoletti che seguirono la battaglia di Chiara D’Adda del 14 maggio 1509: IN LATINO: Andrea Mocenici, Bellum cameracense; Benedicti Arluni, De Bello Veneto; Jovii Benedicti, Carmen de gallico trophaeo in Venetos; Sylvioli Antonii, Carmen de triumphali atque insigni victoria Ludovici XII […]; Quinzani Stoae, De Bello Veneto confecto; Publii Fausti Andrelini, Epistola in qua Anna […] francorum regina exhortatur maritum potentissimum… […]. IN ITALIANO: Paulo Danza, Guerre horrende de Italia.[…]; Niccolò degli Agostini, I successi bellici seguiti nell’Italia dal fatto d’arme di Gieradadda del 1509 […]; La miseranda rotta de’ Venetiani a quelli data da lo invictissimo et christianissimo Lodovico re di Franza […]; Lamento che fa el Principio de Venetia con li suoi venitiani de li terre perse, […]; Lamento di Venetia ne La rotta in Lombardia con quella di Peschiera. […]; La memoranda presa de Peschera […] dopo la rotta de Agnadello data a Venitiani […]. IN FRANCESE: Guilleberto Chauveau, Lectres de la commission et summacion faicte aux Veniciens […]; Les Regretz de messire Barthelemy d’Alvienne et la Chançon de la defense des Venitiens; La complainte de Venise ; André de la Vigne, Le Ballades de Bruyt Commun sur les aliances de roys, des princes et provinces ; Jean d’Ivry, Les triumphes de France translate (sic) de latin en francois par maistre […];Nicaise Ladam, La paix faite a Cambray entre l’empereur et le trescrestien roy de France avec leurs aliez ; Pierre Gringore, L’entreprise de Venise e Le grant Credo de Venise; La lamentation de Venise; La legende des Veniciens, […] ; L’Entrée du Roy a Millan; Les lettres envoyées à Paris de par le roy nostre sire en sa court de parlament; Jean Marot, De Caen, sur les deux heureux voyages de Genes et Venise victorieusement mis a fin par le treschrestien roy, Loys, douziesme […]. 382 mercato a colportage che donava l’occasione anche tecnica per produrre una quantità di opuscoli (in francese o in italiano, a seconda dei destinatari della propaganda) dedicati alle popolazioni. Inaugurando un pregiudizio che talvolta ancor oggi sembra sopravvivere, la letteratura di propaganda francofona deprecava l’etica degli italiani, considerati menzogneri e traditori, per giustificare le invasioni e le ambizioni francesi sulla Penisola. Un’abbondante letteratura di questo tipo accompagnava raccontandole, commentandole o celebrandole, le pure talvolta infruttuose campagne italiane dei re di Francia. Per quanto riguarda Pierre Gringore, in questi anni lo vediamo scrivere diverse opere di propaganda come le Lettres nouvelles,219 primo capitolo di una produzione orientata a pubblicizzare la politica francese a sud delle Alpi. Alle Lettres seguiva un’opera con lo stesso spirito, la Complainte de la Terre Sainte, ispirata alla politica antiturca di cui il re di Francia, (emulo dei suoi predecessori, ma non modello per i suoi nipoti, visto il cambiamento continuo di atteggiamento della Francia rispetto all’incognita araba), sembrava volersi fare banditore. L’Union des princes, del 1509, rivolgeva ugualmente i suoi strali contro la repubblica veneta; mentre La chasse du cerf des cerfs, del 1510 era un violento attacco contro la persona e la politica di Giulio II, colpevole del tradimento tipico dell’italien trompeur, staccatosi dall’alleanza francese e fattosi promotore della Lega Santa degli stati italiani; l’Espoir de paix è un capitolo ulteriore degli attacchi al pontefice e alla sua politica del tradimento; le Jeu du Prince des Sotz, del 1512, rinnovava le medesime polemiche in forma drammatica ed infine ne l’Obstination des suysses si lanciava un attacco feroce all’esercito svizzero e ai mercenari. Al tratterello ingiurioso contro il nemico del sud Gringore aggiungeva composizioni teatrali di stampo politico: la propaganda attraverso gli spettacoli, più dei factum (i foglietti politici distribuiti prima e durante le guerre alla popolazione) poteva far sposare al volgo la causa delle guerra regia. Il Jeu du Prince des Sotz di Pierre Gringore rientrava in questo contesto di propaganda: il varietà drammatico era in tal caso composto da una sottie introdotta dal cry, da una moralità d’homme obstiné e dalla farsa di Raoullet Plyotard.220 Abbiamo già affrontato nella prima parte della nostra trattazione le vicende editoriali di questa opera di Mère Sotte; qui ci occuperemo brevemente della coppia sottie / moralità, giocate contro la politica 219 220 Pierre GRINGORE, Lettres nouvelles de Milan…, s.l.n.d. (E. BALMAS, 1955). cfr. supra. 383 papale di Giulio II221 in un’ottica gallicana tesa ad attaccare il Papa con argomenti morali ai limiti del protestantesimo, che negano la facoltà di giudizio etico da parte di un’autorità religiosa moralmente corrotta. Nella sottie si leggono diversi attacchi all’italianizzazione e ai nuovi costumi della Penisola che si diffondevano fra i membri l’aristocrazia francese: siamo appena agli anni dieci del 1500 (la sottie è agita per il martedì grasso del 25 febbraio 1512) e Pierre Gringore aveva già qualcosa da rimproverare agli italiani, anticipando i malumori anticomici del 1525, visti per le Heures. La Sottie contre Pape Jules II, era completamente costruita sullo svolgimento dialogico e non si affidava ad un’azione propriamente narrativa: dopo un dialogo d’attualità fra due sot generici, si introduceva l’argomento del tradimento di Giulio II alla corona di Francia. La svolta di Bologna del 1511 era letta da un punto di vista etico, enfatizzando la mossa della costituzione della Lega Santa come beffa e scandalo per la sacra corona di Francia. I sot lamentavano i voltafaccia italiani ed istigavano alla violenza di una azione militare più energica possibile: toni belligeranti che si esplicitano fin dall’esordio, «C’est trop jouer de passe passe», tutto il contrario di quanto si affermava nella farsa di Marchebeau scritta in un contesto di alleanze completamente diverso, in cui anzi era necessario («Y fault») «jouer de passe passe». Nelle frasi sconnesse dei sots di Gringore si intercettano fatti dettagliati di cronaca, come quello dell’accoltellamento del Cardinale Alidosi per mano di Francesco Maria della Rovere, episodi che la poesia svolgeva in funzione informativa. L’azione era una specie di parata, in cui gli imbecilli accorsi esibivano le proprie qualità, con toni assai più prosaici di quanto ci si attenderebbe da una composizione con velleità politiche. LE PRINCE DE NATES Mainte belle dame matee J’ay souvent, en chambre natee. Sans luy demander: « Que fais tu ? » LE PREMIER Vela bien cogné le festu.222 Le pièce comprese nel Jeu du Prince svolgevano ciascuna una precisa funzione comunicativa: il cry era l’annuncio, il richiamo per un avvenimento che voleva informare anche sull’attualità politica, la sottie aveva funzione satirica, mentre la moralità tirava una conclusione etica sulle precedenti 221 222 RGS, t.II, pp.105-174. Ibidem : p.138. 384 considerazioni; infine la farsa, usata in funzione distensiva, esorbitava dal contesto strettamente politico conservando tuttavia il tema del tradimento e della dissimulazione, fondamentali per la corona nell’interpretare i complessi rapporti diplomatici con l’Italia. La parata dei sot serviva anche a presentare tutti i personaggi, con commenti giocosi su rispettivi costumi e sembianti: fra i nomi, ben diversi dalle pompose allegorie onomastiche delle moralità e di altre sottie, v’era tutto l’universo autoreferenziale delle confraternite parigine e diversi sobriquet assai evocativi del fermento e del genere teatrale in voga nella capitale a questa altezza di secolo. Alcuni di essi possono esser rinvenuti anche in altre pièce223 e dovevano corrispondere ai personaggi più noti delle confraternite profane della città; inutile dire che l’onomastica degli stolti si collegava all’ambito semantico basso della povertà e della fame endemica. Fra questi il “Seigneur du Pont Alletz” sembrerebbe essere l’attore Jeahn du Pont Alais, uno dei pochi del genere di cui ci resti qualche testimonianza. Il nome “Abbé de Frevaulx”, forse non identificava un attore particolare, ma certamente un’atmosfera, dal momento che era lo stesso di una «abbaye facétieuse [mentionnée] dans plusieurs pièces, surtout normandes (d’où diverses formes dialectales, telles que Frevaux, Frevault, etc.)»;224 fra l’altro la stessa parrocchia era menzionata anche nel Marchebeau, pièce ancora a retroterra politico cui del resto allude lo stesso Gringore all’inizio della sottie che stiamo analizzando. Per quanto riguarda “l’Abbé de Plate Bource”, possiamo dire senza troppo sorprenderci che questo nomignolo era comune (compare ad esempio anche nel Marchebeau) quanto il suo “trucco” comico, essendo l’abbinamento ossimorico della qualifica un meccanismo parodico abbastanza comune nei nomi parlanti. Con analogo meccanismo “Croulecu” associava “crouler”, “croller”, ovvero “tremare” (dal latino popolare corrotulare inteso col senso di agitare o brandire) a “cul”, ciò che faceva l’abate in questione un fannullone, ma anche uno che sfodera il sedere alla prima occasione, con ovvi riferimenti all’omosessualità, argomento dominante della satira antiecclesiastica: il nome era ricorrente e compare anche nel Sermon des frappeculz. Scatenate le prime ilarità con i nomi e dichiarato nell’ozio l’argomento tutt’altro che ozioso, al verso 190 subentrava finalmente il Prince, da cui gli altri sot si facevano passare in rassegna; il sovrano, 223 Ritroviamo Plat d’Argent, Plate Bourse, abbé de Froicts Vaulx et le seigneur de Gayecte (con diversi altri), ad esempio, nelle parodiche Lettres nouvelles contenantes le privilege et l’auctorité d’avoir deux femmes, ironicamente «données en Pappegosse le penultième jour d’avril 1536», da tale Pirolon (in edizione moderna: Martijn RUS RODOPI, 1995 : pp.215-217). 224 Per questi e i nomi che seguono: H. LEWICKA, 1968. 385 nonostante l’età avanzata, era accompagnato da Gayecte e si sollazzava a vedere i signori tutti riuniti. Proprio Gayecte dichiarava la funzione tutta moralizzatrice del re di Francia, cui è dato per diritto il compito di punire le malefatte e la depravazione del potere: subito si arrivava al punto della questione con l’invocazione del popolo (Sotte Commune), proprio dopo avere ricordato che «[…] prelatz font ung tas de mynes, | Ainsi que moynes regulliers; | Mais souvent dessoubz les courtines | Ont creatures femynines | En lieu d’heures et de psautiers.»225 Le eccellenze ecclesiastiche erano così trascinate in un contenzioso con i principi profani, durante il quale si doveva anche convincere Sotte Commune, il popolo, a non pensare al particolare soltanto, in un invito a vedere la politica in ottica nazionale. Gli argomenti a favore del re erano politici ed economici: si menzionava la consolidata stabilità e la fine dei conflitti interni e si elogiava per concludere l’abbassamento delle tasse. Al verso 335 si dava un taglio alle riflessioni politiche e si cominciava a dimostrare concretamente tutta la depravazione del clero e del Papa; Mère Sotte sopraggiungeva accompagnata da Fiance e Occasion, travestita da chiesa romana, per sproloquiare un monologo sulle proprie colpe, esibite con spacconeria a tutti i convenuti, subito dopo comandati con un potere abusivo. Col dialogo di Mère Sotte ed i prelati si sollevava una questione propria del gallicanesimo che come è noto faceva dell’ingerenza papale sui vescovi di Francia una delle sue preoccupazioni principali: sostenuta da Temporalità, la Mère pretendeva di governare su tutti; ma sulla sua strada si mettevano i principi, che, fedelissimi al loro sovrano, non cedevano alle minacce dell’ingombrante presenza papalina. E dalle parole si passava ai fatti («L’Eglise nous veult faire guerre, | Soubz umbre de paix nous surprendre. [...] Il est permis de nous deffendre, | Le droit le dit, se on nous assault»).226 Come è possibile che il santo Padre, pastore di tutto il mondo, possa essere in verità così crudele? L’arcano lo spiegava il Principe smascherando la Mère Sotte e mostrando a tutti chi si celava sotto le vesti di chiesa. La conclusione di questo “dialogo agito” salvava così chiesa e monarchia, scagliandosi non contro la natura del potere ecclesiastico, ma enunciandone la compatibilità con quello regio, temporale, purché esso venisse messo nelle mani di un uomo savio, ciò che evidentemente dal punto di vista del poeta non era il caso di Giulio II. Gringore dice: la veste della chiesa va tolta al papa d’oggi ed all’iniquità degli uomini ingiusti; ma sul potere della chiesa non discute. 225 226 RGS : t.II, p.148. RGS, t.II, p.169. 386 I toni successivi della moralità227 si spingevano su orizzonti più eticamente connotati come naturale prosecuzione dei versi della sottie. L’apertura era dedicata alla lunga lamentazione del popolo italiano e del popolo francese: entrambi disillusi e vessati, il primo sottoposto alle conseguenze della meschinità di Venezia, il secondo sotto il peso delle gabelle. Il popolo francese si mostrava bene a conoscenza dei legami fra sistema bancario italiano e politica reale, ed in un punto rimproverava agli italiani: «Tu as l’argent aussi. | Se je amasse des biens, il est ainsi | Qu’on te porte mon argent, ma sustance».228 Irrinunciabile l’argomento dell’italien trompeur : «En ton blason fier je ne me dois, | Car tu corromps promesses; dont tu voys | Pugnition divine qui te oppresse»,229 ma su questo tema diffuso Gringore innestava pure una lamentazione sull’italianizzazione: si spiega così una battuta di popolo italiano, che diceva di vedere ormai attitudine al tradimento anche nei francesi e dichiarava seccamente: «Il n’est rien pire, par ma foy, | Qu’est ung François Ytaliqué.»230 Dopo questo débat-lamentazione sopraggiungeva il protagonista della moralità, tale Homme Obstiné, ancora allegoria del Papa, qui impegnato a dichiarare la sua implicazione nel male e nel peccato di simonia e la sua facoltà naturale di ingannatore. Arrivava subito dopo, dall’alto, Pugnition Divine, a minacciare l’uomo ostinato per le sue malefatte, mentre Symonie e Ypocrisie aizzavano il popolo francese, cercando di impartire insegnamenti sbagliati. In modo del tutto speculare a quanto accadeva nella sottie si enumeravano i vantaggi ottenuti dal popolo francese sotto gli ultimi regnanti: la condizione privilegiata del popolo transalpino era espressa dalla Punizione, che diffidava chiunque ad avvicinarsi agli inquietanti compagni del Papa simoniaco. La conversazione risultava più statica, se possibile, della pièce contro Giulio II e gli argomenti si avvolgevano su se stessi, fin quando non arrivava un deus ex machina a salvare, come si dice, “capra e cavoli”: Demerites Communes, che assai sbrigativamente riusciva a convincere tutti i presenti sulle rispettive responsabilità, con l’aiuto anche delle inquietanti facoltà di Pugnition Divine. Oltre che per gli importanti dettagli sulla rappresentazione materiale delle farse che il Jeu du Prince des Sotz ci fornisce, osserveremo in coda che questo varietà drammatico fu uno dei primi esempi di sfruttamento del palcoscenico con scopi espressamente politici, qui significativamente accoppiati all’occasione festiva del carnevale. La propaganda reale guadagnava sulle tavole degli eschaffaud quel 227 Il più delle volte detta de l’Homme Obstiné. GRINGORE, t.I, p.246. 229 Ibidem : p.247. 230 Ibidem : p.248. 228 387 sicuro spazio di propagazione che poteva essergli garantito dalla capillarità del teatro e del mondo dell’editoria ad esso legatosi molto precocemente. La propaganda attraverso il teatro sarà paradossalmente uno dei fattori di decadenza del genere drammatico profano francese: se da una parte i poeti francesi della scena non mancarono di lodare la monarchia e di prestarsi ai suoi fini pubblicistici, dall’altra i profondi legami delle confraternite con interessi interni e municipali, le rendevano estremamente imprevedibili, non sempre controllabili in un quadro “programmaticamente” encomiastico. La monarchia cominciò a preferire i creativi di corte, più affidabili e slegati dalle complesse dinamiche degli interessi municipali e corporativi. Del resto le confraternite piacevoli come la Bazoche erano già state censurate da Luigi XI fra il 1461 ed il 1483. Carlo VIII aveva loro restituito la facoltà di recitare, pur mantenendo nei loro riguardi un atteggiamento ambiguo, continuando a sospenderne di tanto in tanto le attività. Nel 1486 le critiche mosse in una recita contro il governo reale attiravano nuovamente sulla confraternita le ire del re, che faceva recludere cinque membri nelle prigioni dello Châtelet e poi alla Conciergerie. A seguito di questo episodio Carlo VIII ripristinò definitivamente il divieto di pubbliche rappresentazioni già voluto dal suo predecessore. Alle soglie del XVI secolo, con Luigi XII le rappresentazioni di Bazoche vennero nuovamente autorizzate, dietro la condizione, però, che esse non toccassero il lustro della regina. Luigi XII, si guadagnava fama di liberalità: in proposito il tempo ha conservato un episodio di magnanimità del re verso le arti di Talia, ed in particolare verso la confraternita della Bazoche, che la storiografia ha sovente interpretato come un atto di dimostrazione della rinnovata sensibilità regia per il mondo dei catafalchi. [Le roy] honoroit [Anne de Bretagne] de telle sorte, que lui estant raporté un jour que les clercs de la basoche du Palais; et les escolliers aussi, avoient joué des jeux où ils parloient du roy, de sa court et de tous les grandz, il n’en fist autre semblant, sinon de dire qu’il falloit qu’ilz passassent leur temps, et qu’il leur permettoit, qu’ils parlassent de luy et de sa court, non pourtant desreglement, mais surtout qu’ils ne parlassent de la reyne sa femme en façon quelconque; autrement qu’il les feroit tous pendre. Voila l’honneur qu'il lui portoit.231 Il giudizio dei teatranti su Luigi XII sembra non variare nel tempo. Per dominare i regni vicini non è secondario il consenso delle genti umili di Francia e ci si avvale della poesia e dello straordinario 231 BRANTOME, t.VII, 316. 388 mezzo della stampa, per consentire la diffusione di opere gradite al pubblico popolare nelle quali introdurre i rudimenti della politica anti-italiana. Il poeta partecipa dell’educazione delle masse avvalendosi della popolarità dei generi drammatici profani. Mais parautant que de detraction Vsent souvent par folle affection Nommans aucuns, & faisans du scandalle On dit Satyre estre vne chose malle. En France elle a de sotie le nom, Par-ce que sotz des gens de grand renom Et des petitz iouent les grands follies Sur eschauffaulx en parolles polies, Qui est permis par les princes & Roys A celle fin qu'ilz sachent les derroys De leur conseil qu'on ne leur ause dire Desquelz ilz sont advertiz par Satyre. Le roy Loys douziesme desiroit Qu'on les iouast a Paris, & disoit Que par telz ieux il scauoit maintes faultes Qu'on luy celoit par suprinses trop caultes.232 Nei confronti dello spettacolo autoctono Francesco I si trova invece in una posizione paradossale: la recezione delle novità europee della letteratura e dello spettacolo favorisce lo sviluppo di un modello spettacolare basato sui medesimi principi tematici delle farse, ma rispetto ad esse più adeguato al gusto moderno (prima della corte, ma ben presto anche delle masse); ciò che implica una erosione del margine di movimento delle compagnie e delle confraternite parigine, che negli anni del regno del Valois sono sottoposte ad una stretta censoria contrastante appunto con la politica di tutela delle arti instaurata dal sovrano. Il re quasi a disperdere una “comunità comica” dominante in Parigi, quella degli Enfants Sans-Soucy e ad emarginare figure dello spettacolo precedentemente di primo piano come Pierre Gringore. Tuttavia il sodalizio fra il regno di Francesco ed i bazochiens era stato inaugurato nel segno della concordia: per il suo ingresso in Parigi del 1515 Francesco I assisté ad un festino offerto dal prevôt des marchands et des échevins ed i bazochiali videro nell’insediamento del nuovo sovrano una fondamentale occasione di riscatto dopo le lunghe vicende di censura e si esibirono in una farsa con danze e canti di cui il re rimase soddisfatto: cogliendo al volo il favore reale così a lungo ricercato, i confratelli inoltrarono una nuova richiesta di rappresentazioni, che il parlamento bloccò, ufficialmente per via del lutto ancora in corso per la morte di Luigi d’Orleans, in realtà per il 232 Jeahn Bouchet, Epistres morales et familieres du Traverseur, Bouchet – de Marnef, Poitiers, 1545, (I, 32d). 389 perdurare dell’ostilità dei parlamentari verso i bazochiens. Contro gli ostacoli posti dal parlamento i clerc decisero di rivolgersi direttamente a sua maestà, incaricando Clément Marot di inoltrare una supplica scritta: il re accettò le richieste e i bazochiali chiesero il rimborso delle spese di organizzazione dei bontempi reali, che fu accordato. A questo iniziale favore da parte del sovrano fece seguito una progressiva perdita di interesse nei confronti della confraternita, che durante le lunghe assenze reali dalla capitale doveva fronteggiare anche i continui divieti parlamentari. La produzione di carte di scarsa qualità d’impressione e con bassi costi di vendita, occasionava dunque ampie tirature e consentiva l’accesso alla lettura ad un pubblico più ampio e “medioborghese”, fino a quel momento parsimonioso consumatore di almanacchi e solo raramente di “belle lettere”. La diffusione di generi bassi come la farsa e la sottie, era stretta a filo doppio alle pratiche della stampa, la cui forza propagandistica si faceva tanto più forte quanto legata alla diffusione della poesia popolare e drammatica. Fra il 1504 ed il 1509 i poeti assoldati più o meno direttamente dalla corona avevano eccitato l’opinione pubblica in direzione antiveneziana componendo opere come les Ballades de bruyt commun,233 l’Entreprise de Venise234 e la Lamentation de Venise,235 cui poi si aggiunse lo spregio per il papa, d’altra parte già oggetto di derisione nella moralità del Nouveau monde236 e ne La legende des Venitiens237 ove Jehan Lemaire des Belges sotto apparenza storica e forma metrica “performativa” concepiva un’opera polemica di carattere drammatico, ma espressamente riservata alla circolazione a stampa ed alla diffusione fra il popolo minuto: una forte propaganda si rendeva tanto più necessaria nel contesto della politica antipapale, più difficile da far accettare al popolino. Anche Jean des Belges esprimeva prospettive politiche gallicane sostenendo la necessità di un’assemblea conciliare nazionale e la superiorità di siffatto consiglio sull’autorità papalina: l’operetta di propaganda rivendicava a sé un’attendibilità storiografica, qualificandosi l’autore come «indiciaire 233 André de La Vigne, les Ballades de bruyt commun sur les aliances des roys, des princes et provinces, avec le tremblement de Venyse, s.l.n.d., (1508). 234 Pierre GRINGORE, l’Entreprise de Venise…, s.l.n.d. 235 A. MEDIN, 1889. Nei cataloghi di Francia non si trova la cinquecentina, senza data, ma probabilmente del ‘13. 236 Jean BOUCHET o Pierre GRINGORE, le Nouveau monde…, Eustace, Paris, s.d. 237 Jean Lemaire de Belges, La Légende des Vénitiens, ou autrement leur cronicque abbrégée, par laquelle est démonstré le très juste fondement de la guerre contre eulx, s.l.n.d., (Geoffroy de Marnef, 1509). Ne circolava una edizione con privilegio lionese del 1500. 390 et hystoriographe de la royne»; seguendo una regola generale della produzione pubblicistica238 della propaganda, giacché era noto come Anna di Bretagna fosse profondamente religiosa e legata alla Santa Sede, quindi super partes per l’opinione pubblica. Nella Legende des Venitiens all’opera principale erano aggiunti anche alcuni brani di gusto esotico (sullo Shah di Persia ed il pellegrinaggio in Palestina), secondo un’altra pratica specifica della letteratura popolare, che nelle ambientazioni orientali trovava un sicuro campo di successo fra i ceti medio-bassi. Il poeta André de la Vigne – attivissimo come Gringore nella produzione di versi per le scene – fu uno dei più fecondi in questo campo. Nell’aprile del 1507, quando Luigi XII aveva castigato l’autonomia della repubblica di Genova, componeva una ballata dal titolo Paternostre des Genevois,239 cui seguiva un Atollite portas et qui est iste rex gloire […] sur la prinse et conqueste de Gennes ove alle invettive contro i genovesi, genti ostinate ed altère, si alternavano gli elogi di Luigi XII, «Dominus fortis et potens, Dominus potens in prelio […] seigneur de tous seigneurs certains.» Due anni appresso, […] quando [Luigi XII] ordina a Cambray quella lega congiurata ad annientare la potenza della Serenissima, si ridestò spontaneo nei poeti francesi il ricordo, non solo delle non lontane vicende di Genova, ma anche dei versi scritti per la sua caduta. Pierre Gringore, nell’Entreprise de Venise ammonì i veneziani di temere il valore e la potenza di Luigi XII: «Prenez exemple à vos circunvoisins | Les Genevoys ; ne faites plus des fins.»240 Oltre alla trascrizione creativa dei resoconti della prima guerra d’Italia – che modernamente prenderanno il titolo di Histoire du voyage de Naples241 – André de la Vigne diede alle stampe le Libelle des cinq villes d’Ytallye contre Venise242 e les Ballades des bruyt commun. La maggior parte di queste stampe era corredata da un apparato illustrativo: ad esempio, nella seconda composizione, all’ultimo foglio troviamo un legno rappresentante Luigi XII, seguito dall’esercito cui alcune donne donano le chiavi della città lagunare. Nel volume vi sono quattro 238 Anche Gringore si qualifica analogamente nei suoi pamphlet anti-italiani, con lo scopo di donare prestigio e peso alla sua parola. Sulle dubbie informazioni storiche rese dalla propaganda si veda Antonio Medin sulla Lamentation de Venise (ma anche il saggio di Balmas sulle Lettres Nouvelle): «Rinfrancatasi dal timore, la Francia dà libero sfogo all’odio nutrito contro la rivale; onde la disfatta dei Veneziani appare qui anche più grave di quanto fu veramente, ed il numero di morti viene raddoppiato, perché nessuno storico ci dà una cifra maggiore di ottomila, ed anzi alcuni dicono che furono assai meno. Insomma, leggendo questa ballata dobbiamo sempre ricordarci che essa è un canto di vittoria che i francesi a loro maggior gloria finsero intuonato dall’oppresso nemico». A. MEDIN, 1889, (p.12). 239 André de la Vigne lo compose nel 1507 per celebrare la repressione dei genovesi. Non si conosce alcuna edizione in cui compaia da solo. Chiude la Louenge de roys de France, Eustache de Brie, Paris, 1508. 240 A. MEDIN, 1889 : p.15. 241 cfr. supra 242 André de La VIGNE, Le libelle des cinq villes d'Ytallye contre Venise est assavoir Romme, Naples, Florence, Gennes et Millan, Abraham, Lyon, s.d. 391 ballate ed un rondeau: le prime tre ballate si riferiscono alle alleanze strette in vista della spedizione del 1509; la quarta, intitolata le Tremblement de Venise è un panegirico della potenza francese, di fronte alla quale vediamo la pavida repubblica veneziana spaventata e scossa dalle azioni militari del re. L’adozione in chiave ironica della preghiera è una delle forme più comuni del filone e viene ripresa anche dall’anonimo autore di Chalon-sur-Saône, in un lamento satirico di Venezia intitolato le Grand credo de Venise scritto durante le festività pasquali del 1509 parodiando il credo religioso. Nella stampa dell’opera, consistente in appena quattro carte senza alcuna indicazione tipografica conservate oggi nel fondo della Biblioteca Nazionale di Francia, figurano al titolo tre piccoli legni distinti composti l’uno accanto all’altro: l’unione dei primi due forma l’immagine di una chiesa gotica, il terzo rappresenta invece un cavaliere armato di spada e picca che muove in direzione d’una cattedrale. Segue una prefazione de «lacteur»: al tergo dell’ultima carta otto versi ed altri due piccoli legni rappresentano un personaggio vestito d’una tonaca ed un re che porta lo scettro e la mano della giustizia. Il nostro Credo è composto di sedici strofe ed otto versi ed ha un’introduzione ove compare il riferimento esplicito al Paternostre di André de la Vigne: «Vous avez veu la Paternostre | Des Genevoys, deux ans y a». Il poeta si dichiara qui in modo enigmatico, ed è interessante che senta il bisogno di indicare la sua provenienza non italiana («Le facteur n’est pas d’Ytalie ; | A Chalon fait sa demourance»):243 si tratta forse di un indizio sull’attività degli italiani nell’ambito della propaganda politica francese? D’altronde anche per gli autori italiani, la nascente pubblicistica regia delle campagne francesi offrì qualche impiego in più, dal momento che la propaganda era non di rado interessata a produzioni poetiche in “lingua del sì” volte a rendere edotte le popolazioni conquistate: ed è noto come per ragioni strategiche interne agli interessi del difficile campanilismo italiano, alcuni poeti delle regioni dell’arco alpino parteggiassero senza troppa difficoltà per il re dei franchi. È il caso di Giovan Giorgio Alione, che nella sua variegata produzione in italiano e francese ebbe a produrre anche un poemetto in ottave sulla caduta del Moro: la Conqueste de Loys douziesme roy de France sur la duchié de Milan. Avec la prinse du seigneur Ludovicque244 opera la cui ispirazione e i contenuti erano affini a quelli delle Lettres nouvelles di Gringore, sia da un punto di vista contenutistico che tematico. 243 Le grāt cre || do de Venise. S.l.n.d. (1509). Cat. ROTHSCHILD, t.I, n°540. Fu pubblicata nelle Poésies Françoises de J. G. Alione (Parigi, 1836, tirata a 108 esemplari) con un biografia lacunosa ed errata in diverse parti. Vi si accennerà più avanti. 392 244 In entrambi gli autori il tema stavolta antimilanese veniva sviluppato in ottave: analogo il tema, analoga la metrica ed analoga anche la successione ritmica, con la chiusura delle strofe in motti e detti popolari, secondo un’estetica propria al fabliau ed a Jean Molinet. La composizione alionea può anche essere accostata al Voyage de Naples: ma la pratica delle lettere politiche in chiave filofrancese ed antimilanese era per l’Alione un terreno letterario più antico, rimontando al 1499 la composizione della Macarronea,245 in polemica con quella del ’91 di Bassano da Mantova. Opera in esametri zoppicanti e d’altrettanto claudicante latino parodico, la Macarronea è un esempio calzante di come l’interesse “particulare” e campanilistico potesse portare un italiano ad auspicare la “calata” dell’esercito transalpino. La lunga invettiva alionea si manifestava infatti nel solco delle logiche antagoniste fra le fazioni piemontese e savoina, che non definivano due entità geografiche, ma due partiti che nel ducato si contendevano il predominio nelle cariche dello stato. Ribadire il proprio filo-francesismo serviva a rivendicare un primato sull’odiata Milano, che dopo la conquista del re dei franchi rischiava di scalzare Asti dal suo importante ruolo di principale e florido avamposto gallico nel nord d’Italia. E pure da un punto di vista culturale per gli astigiani il domino milanese era un fatto più intollerabile dell’invasione straniera. Anche Betuzzo da Cottignola, Simeone Litta di Milano e Graziano di Lucca furono tre poeti italiani attivi in Lione, che si dedicarono proprio alla propaganda per Luigi XII, il terzo contribuendovi anche con le presse dell’officina che gestiva. La Frotola noua contra Venitiani composta per magistro Gratiano de la cità de Luca, nuovamente stampada, per i riferimenti storici che contiene può essere datata al 1509: il legno usato per le illustrazioni è lo stesso che orna anche una edizione lionese dell’Ospital d’amour, dettaglio già rilevato al 578 del catalogo Rothschild, ove si segnala che forse il sovrano fece stampare a Lione, prima di passare le Alpi, alcuni factum destinati ad essere distribuiti dall’arme agli abitanti dei paesi italiani sotto l’influenza francese. Una nuova frotoleta contra li Veniciani, composta per Betuzo da Cottignola, compare ancora nel catalogo Rotschild, al 1508, ma in effetti vi si allude alla lega di Cambray ma non alla battaglia di Geradadda-Agnadello. La composizione deve essere quindi collocata fra questi due eventi, più probabilmente al 1509, giacché la lega di Cambray risale al 10 dicembre 1508. 245 La Macarronea fa parte dell’Opera piacevole di Alione, per la quale si fornirà la dovuta bibliografia nel prossimo capitolo. Segnaliamo qui l’edizione moderna in cui sono contenuti gli argomenti per la datazione: M. CHIESA, 1982. 393 Alla collocazione III, 2591 (563a) del catalogo Rothschild troviamo l’opuscolo di Simeone Litta di Milano, Eoure nouvellement translatee de Italienne rime : en rime francoyse contenant laduenement du trescrestien Roy de france Loys .xij. de ce nom a Milan.246 I fogli sono aperti da un’incisione con il re a cavallo vestito di gigli ed armato di spada, che passa sui corpi di due uomini, diretto alle mura della città e seguito da rappresentanze civiche in abiti da cerimonia. Sullo sfondo troneggiano le picche e le spade mentre dal suolo si innalzano api. Nel cielo si vede una specie di fuoco o bagliore. Al V° dal titolo si legge «C’est l’oraison des Lyonnoys | Ou des vers a six vingtz et troys.» Le tre impressioni sono esempi indicativi di come dovevano essere nella forma materiale e nei contenuti questi opuscoli il cui livello medio era assai inferiore rispetto a quelli qui trattati. Nel nostro caso le comuni caratteristiche tipografiche avvalorano l’idea che le tre operette fossero state confezionate su ordine reale prima della spedizione italiana: possono infatti essere ricondotte ad un medesimo laboratorio e ad una medesima data. Le forniamo in appendice, per la prima volta a quanto ne sappiamo. Le Lettres nouvelles de Milan di Pierre Gringore compaiono sotto forma d’opuscolo di 6 ff. non numerati, senza indicazione di editore di luogo e di data e frontespizio decorato da xilografia. Il testo poetico reca anche un sottotitolo: S’ensuyt le debat des Francois con/tre le sire Ludovic. Avec les regretz d’iceluy et complainte des milannoys; «[…] il poemetto trae la sua ragion d’essere dalla cattura di Ludovico il Moro a Novara, nell’aprile dell’anno 1500, è così possibile datare l’operetta che ci interessa tra il 10 ed il 20 aprile 1500. Non prima del 10, per ovvii motivi; non dopo il 20, poiché il 17 aprile i francesi rientrarono solennemente a Milano, e certamente il Poeta, se informato di questo avvenimento non avrebbe mancato di parlarne […]».247 È dunque opera di circostanza, redatta per cortigianeria ed esaltato spirito nazionalistico, che ripeteva le forme materiali ed i contenuti dei factum di propaganda appena passati in rivista. L’attribuzione a Pierre Gringore si ricava 246 Eoure nouuellemēt || translatee de Italienne rime : en rime || francoyse contenant laduenement du || trescrestien Roy de france Loys .xij. de || ce nom a Milan : & sa triumphante en || tree audit millan auec grande cōpaignie de noblesse || estant auec luy. Et de la dolente prinse de Riuolte || sur le venititens. Aussy cōment il a vaincu & rue ius || larmee venitiēne : & prins prisonnier le seigneur Bar || tholomy Dauigliano. Et cōment il fut mene a mil || lan : et de la ioye desdits millanoys et autres : de ladi || te victoire nouuellemēt audit trescrestien et illustre || Roy donnee. Ce present liure nouuellement comme dessus est || dict trāslatz ditalien : en ryme francoyse : a este soubz || conge et licence Imprime à Lyon le .ix. iour de iuing || lan mil cincq cens et neuf [1509]. 247 E. BALMAS, 1955 : p.7. 394 dall’acrostico dell’ultima strofa.248 Il «débat» conta complessivamente 320 versi, ottonari e decasillabi, alternati a caso e raggruppati secondo metri diversi: octains, dizains e tre rondeaux. Il poema di Gringore è tratto in parte dal Grand jubillé de Millan, uscito sotto il nome misterioso di Lemonde; quest’ultima opera fu scritta una decina di giorni prima, durante la concentrazione in fine marzo delle forze francesi per l’offensiva finale; l’invettiva anti italiana è qui virulenta: si tenta ad esempio una dubbia analisi filologica del nome Sforza, per dimostrare, nomina nomen, l’origine umile e bastarda del casato milanese, contro la nobiltà viscontea usurpata e tradita. Escript par Sph ou F: Force Par F, vertu signifie ; Sph du grec vient, je vous affie ; Sporta, c’est fames, qui fain sonne : Le nom à la chose consonne.249 L’opera di Gringore – stesa nello stesso periodo dei Chasteaulx – conobbe una sola edizione, attualmente conservata in copia unica alla BNF passata pressoché inosservata fino alla sua scoperta da parte di Eugenio Balmas. Secondo lo studioso italiano le Lettres sarebbero un omaggio non richiesto al regime, realizzato da un poeta desideroso di mettersi in mostra di fronte alla corte: è poco probabile, infatti, che Gringore – all’epoca scrittore di provincia – avesse potuto ottenere subito una commissione regia; inoltre né dedicatoria, né privilegi, né documenti ufficiali riportano una qualche richiesta della corte o pagamenti effettuati allo scrittore. Oltre alle affinità con la creazione di Lemonde, le Lettres – dedicate alle imprese militari connesse alla guerra contro il Moro – analogamente al Voyage de Naples sono un adattamento di corrispondenze ufficiali. Il testo si divide in due sezioni; da una parte le lettere reali, che espongono i fatti fra dimensione pubblica e privata; dall’altra parte un débat, documento letterario e testimonianza dell’orientamento psicologico diffuso oltralpe, che esigeva coesione nella popolazione, in un progetto di politico oltre i confini della nazione. 248 G entilz francoys, soyez de la victoire R emercians Jesus le createur ; I l nous appert que l’euvre meritoire N ous vient du Ciel, Dieu est nostre adjuteur ; G loire, triumphe, magnificence, honneur O nt conquesté à Milan gens d’armes ; R egretz, souspirs, Ludovic en son cueur, E n a souvent et pleure maintes larmes. Lettres Nouvelles, (f.5v.). 249 Non ci è stato possibile reperire il jubillé de Millan: ci affidiamo pertanto alle trascrizioni di Eugenio Balmas. 395 Ed infatti le lettere regie manipolate da Gringore, compongono un quadro storico inquinato di imprecisioni intenzionali, esponendo mezze verità e omettendo dettagli significativi al fine di mettere in cattiva luce le armi italiane e fomentare l’odio reciproco fra le popolazioni. Ecco la sinossi di Eugenio Balmas alla versione dei fatti storici narrati da Gringore. Ludovico il Moro, all’approssimarsi dell’esercito francese a Novara, è fuggito con una scorta di 100 cavalli, abbandonando il suo esercito e l’artiglieria. Vi sono segni manifesti di decomposizione nella sua armata: un condottiero ha già defezionato, altri si pensa seguiranno. Un poscritto aggiunge che Ludovico è stato fatto prigioniero mentre tentava di fuggire travestito da francescano; una composizione è intervenuta fra i due eserciti, a seguito della quale tutta l’artiglieria sforzesca è caduta in mano ai francesi. […] Un breve commento a queste notizie fa sapere che, per festeggiare la vittoria, si fecero processioni a Parigi per tre giorni consecutivi; il quarto giorno fu cantato il Te Deum solenne in Notre-Dame, e la sera fuochi di gioia furono accesi, per rendere completo il tripudio popolare, «parmi les rues et carrefours».250 Balmas fa notare le molteplici inesattezze, che nel primo proclama riguardano soprattutto dettagli di carattere cronologico, mentre nel secondo sono più esplicitamente tese a denigrare l’immagine del Moro. La notizia che il Moro è stato catturato in abito da francescano mentre, dissimulato tra i soldati svizzeri, tenta di sottrarsi alla prigionia, costituisce il nocciolo della seconda parte del proclama reale. Il solo Bouchet […] ha fatto sua questa versione; le altre fonti contemporanee, a cominciare dal Trivulzio nella sua Relazione alla Signoria Veneta, raccolta dal Sanuto, parlano di Ludovico “camuffato” da svizzero e confuso con la truppa anonima, che defluisce in disordine dalla città. Il solo Sismondi, tra i moderni, ha accolto la tesi reale, sviluppandola: «Sforza, déjà vieux, bazané et d’une taille grêle, ne pouvoit passer pour un de ces vigoureux montagnards. Il s’habilla en cordelier et, monté sur un méchant cheval, il essaya de se donner pour leur chapelain». La provenienza di questa notizia la rende, però, sospetta : vien fatto di pensare ad una interpolazione della cancelleria reale, evidentemente interessata ad accreditare, presso l’opinione pubblica, la versione più sfavorevole al Moro dal punto di vista morale, di un avvenimento di cui in fondo le armi francesi avevano poca gloria da trarre.251 La storia della duplice capitolazione di Ludovico il Moro fu in realtà differente e il comportamento dello Sforza ben più valoroso di fronte a difficoltà e sfortune oggettive, più vere di quanto non vogliano farci credere le Lettres. Sappiamo inoltre che una delle strategie dell’esercito francese fu quella di seminare il panico nella popolazione (è noto l’episodio, ad esempio, della rocca di Arazzo) che non era propriamente lieta della dominazione transalpina. Infine il Moro – nella pubblicistica francese emblema del principe traditore – dovette fare i conti con i voltafaccia dei sudditi: la caduta della rocca di Milano ad esempio, che come si sa fu decisa forse più dalla corruzione che dalle armi, 250 251 Ibidem : p.23. Ibidem : pp.54-55, [corsivo mio, n.d.r.] 396 con il famoso tradimento di Bernardino da Corte che la consegnò all’esercito del Trivulzio, forzieri ed armi comprese. Nonostante queste difficoltà incontrollabili anche per il più esperto dei condottieri, il Moro si batté valorosamente e riuscì anche ad ottenere una vittoria nel marzo del 1500, poco prima della sconfitta; diciassette giorni dopo, di fronte allo scontro decisivo nei pressi di Novara, lo Sforza vide il suo esercito dimezzato da un altro tradimento, quello delle milizie svizzere. Il duca tentò effettivamente la fuga in incognito, ma i Francesi costrinsero tutte le unità a passare sotto una picca al cospetto di Trivulzio stesso, cui il Moro – terzo tradimento – fu indicato da due mercenari. [L’accusa] di essersi travestito da ecclesiastico completa ammirevolmente il ritratto di Ludovico il Moro, quale era venuto presentandolo la pubblicistica francese e quale ritroveremo nel poemetto di Gringore, di un uomo capace di ogni nefandezza – non aveva forse fatto avvelenare il proprio nipote per usurparne il trono? – e capace in particolare di tentare con l’inganno, la protezione di un abito venerabile, di sottrarsi alla giusta punizione che lo aspetta. Gettando fango sul principe caduto è probabile che si siano voluti prevenire i moti di simpatia dell’opinione popolare verso quest’uomo che un duro destino trascinava violentemente in basso, dopo averne fatto per un attimo l’arbitro delle cose in Italia. Gringore […] rispecchia fedelmente ed anzi sottolinea nel suo poemetto la tendenziosità del proclama reale: senza essere bene addentro al segreto delle intenzioni della Corte, il suo intuito deve avergli suggerito in quale direzione conveniva indirizzare il suo canto. La sua carriera successiva può ben fare fede della bontà della sua idea, e del suo successo.252 Rispetto però alle altre composizioni politiche qui appena sfogliate l’originalità di Gringore sta nell’aver introdotto un principio drammatico, sovrapposto al motivo convenzionale della celebrazione della vittoria delle armi nazionali. Ed altra innovazione “teatrale” è l’introduzione della “compliante”, genere aulico del Medio Evo, che appare qui piegato con disinvolta spregiudicatezza e spiccato senso moderno a finalità più espressamente pratiche. 252 Ibidem : pp.55-56. 397 3.3 – Esterofilia per scelta: lo strano caso di Giovan Giorgio Alione. 3.3.1 – Un passato critico tormentato. Di Giovan Giorgio Alione, nobile astigiano, sappiamo poco o nulla. Le notizie biografiche sul suo conto sono frammentare, indirette e pervenuteci fortuitamente, ed al di là di qualche documento notarile i soli dettagli affidabili sulla sua vita sono quasi tutti interni alla sua Opera piacevole (o Jocunda), stampata nel 1521, ma elaborata con ogni probabilità fra i due secoli.253 Ad alimentare le incertezze biografiche ha contribuito nel tempo la singolarità dell’autore, per lo più ignorato dalla critica italiana risorgimentale a causa delle sue idee filo-francesi ed affrontato con larghissimi margini di imprecisione (e solo per quanto riguarda la sua produzione in lingua francese), quasi esclusivamente dalla critica transalpina del primo Novecento. Nella galleria della letteratura francese ed italiana Giovan Giorgio Alione è stato soprattutto menzionato in qualità di stravaganza letteraria ed ha suscitato in particolare l’interesse specialistico della critica erudita e bibliofila. La scarsità d’interesse attorno alla sua opera, le prese di posizione di certa critica “politicizzata”, l’esiguità delle fonti, l’ambiguità linguistica, la marginalità geografica e culturale dell’area astigiana, l’impossibilità di una classificazione esatta della sua produzione ed il dominio profano ed eclettico 253 Giovan Giorgio Alione, Opera jocunda no. d. Johannis. Georgij Alioni Astensis metro macharronico materno & Gallico composita, Ast : per Francischum de Silua, 1521, die 12. mensis Marcij. 398 cui può essere ascritta, sono stati nel tempo una combinazione letale per una realistica lettura storicocritica di questa figura sospesa fra i due lati delle Alpi. Alione è in una posizione linguistica e stilistica di forte impronta francofona: scrive indistintamente in francese ed italiano, ma fra le lingue italiche preferisce il di per sé gallicizzante piemontese, impiegato non senza intenzioni polemiche contro la dilagante unità linguistica fiorentina che si imponeva nel classicismo. È stato pertanto considerato uno straniero non solo dalla critica italiana del XIX secolo, ma pure dai suoi coevi e ciò si deve, oltre appunto al criterio caratterizzante della lingua, anche alla sua completa adesione al gusto medievale francese, dalle cui forme espressive ricava vitalità raggiungendo punte di originalità anche rispetto al modello profano d’oltralpe. Le linee generali della sua opera non possono essere ascritte al Rinascimento: ciò si giustifica oltre che con le appena citate scelte linguistiche e stilistiche, anche con storia stessa di Asti, centro cui fu precluso lo sviluppo maturo della novità italiana dalle alterne dominazioni e dalla costante ingerenza politica e sociale di Francia e Impero. Alione però riesce ad introdurre degli elementi di novità nel genere farsesco, a “captare” in un certo senso lo spirito ed alcune tendenze del Rinascimento italiano, specie nella realizzazione e nello sviluppo di una “politica autoriale” (quasi assente nella vasta produzione teatrale profana francese) o nell’attivazione di un dialogo (o lotta: la Macarronea) “impari” con il mondo della cultura italiana più avanzata. Sia ben chiaro: dal punto di vista di Alione il francesismo e “l’esotismo” profano d’oltralpe sono valori aggiunti, dati estetici caratterizzanti. Nella sua produzione politica con modalità pratiche e formali consapevolmente affini a Pierre Gringore esprime idee filogalliche ed antimilanesi. Si direbbe un autore francese nato in Italia se non fosse che reazioni polemiche come quelle contro la Macarronea misogallica del poeta minore (per importanza e per età) Bassano da Mantova, testimoniano come pure in un ambito locale fosse l’Alione in rapporto dialettico con il più ampio panorama culturale italiano. Guardandoci da alcune esagerazioni critiche, come quella di George Ulysse - che tenta di usare la “polemica delle macarronee” per dire, a proposito di contatti e scambi con la cultura italiana, che «rien n’interdit de penser que Alione a essayé de suivre, dans la mesure du possible, l’évolution de la 399 Comédie Italienne»254 - ammetteremo la singolarità di Alione sia rispetto al contesto italiano, sia rispetto a quello francese, cercando di sviluppare alcune considerazioni sulla sua produzione come espressione di un contesto narrativo e letterario se non unico, almeno omogeneo, fra Italia e Francia. Dal nostro punto di vista Alione suscita un particolare interesse per due ragioni fondamentali; una è puramente cronologica, occupando la sua attività quasi perfettamente i nostri limiti temporali; l’altra è invece di carattere stilistico, in quanto egli è l’unico vero farceur italiano, solo a riprodurre in Italia in modo consapevole i moduli tipici del teatro profano francese. Se pensiamo all’enorme deriva delle fonti, specie per le dimensioni che essa assume nell’ambito della letteratura teatrale e maggiormente per la profana, niente ci fa escludere che qualcun altro in Italia oltre ad Alione, si dilettasse nel sapido passatempo della scrittura da catafalco. Nessuna prova documentaria ci conforta in questo senso, ma il baricentro della questione è per noi sensibilmente diverso: il successo editoriale delle Opera jocunda sta forse lì a tracciare un’ulteriore testimonianza di questo humus che consentì più tardi lo sviluppo di forti legami fra commedia francese ed italiana. Prenderemo Alione non come innovatore o inventore di un genere, ma come una matassa inestricabile di motivi: nella sua opera si accumulano novellistica italiana e umanesimo da accatto, sottoposti alla forza centrifuga di forme letterarie più confusionarie, entropiche (fabliau, farsa, sottie, barzelletta), a formare un tessuto tuttavia preciso, che bene si adatta alla nostra idea di un’unica cultura drammatica profana fra Francia ed Italia, sviluppatasi e sfumata in un insieme omogeneo attraverso secoli di stratificazione, ma così vitale da incidere sullo sviluppo di forme più mature d’espressione teatrale. Ciò che rende davvero unico Alione è che alla retrocessione sulle forme medievali egli fa corrispondere sempre una intellettualizzazione “rinascimentale”. Alla grande fedeltà al modello, pedissequamente riconosciuta da pressoché tutti i critici che si sono occupati della sua attività, Alione associa anche una rielaborazione dei moduli farseschi: beneficiando della libertà del dilettante e dell’informalità del contesto in cui realizza le sue farse (se si trattasse di un circolo di “bontempi” o se le sue farse erano scritte per essere messe in scena non ci è dato sapere, ma è certo che non si tratta di un contesto propriamente professionale) riesce egli ad appropriarsi di forme e luoghi letterari ed apportarvi una certa originalità, dando impronta autoriale ad un genere che abbiamo visto frequentato per lo più da penne sconosciute, anonime. Pur trattandosi di un esempio delimitato in coordinate spazio-temporali ristrette Giovan Giorgio Alione è insomma l’autore più antico presso il quale si può osservare una sovrapposizione fra la 254 G. ULYSSE, 1983 : pp.73-74n. 400 produzione teatrale profana italiana e francese, spazio di interpolazione ideale di fitte influenze reciproche e confronti diretti fra le letterature drammatiche dei due paesi. Sul conto di Giovan Giorgio Alione s’è alimentata in passato una mitografia improbabile, la cui diffusione è stata agevolata dall’ascendenza eclettica e popolare dell’opera sua, facile ad interagire e mescolarsi con l’immagine storica del poeta: il mito di genio e sregolatezza ha facilmente preso piede, a partire dalla più diffusa stampa dell’Opera piacevole, quella del 1601 (poi riprodotta nel 1625 da Stefano Manzolino e modello anche per quasi tutte le edizioni ottocentesche) nella quale il tipografo Virginio Zangrandi, astigiano pure lui, si divertiva ad aggiungere una nota storica in cui riportava particolari a dir poco fantasiosi sulla vita del poeta. È da qui che muovono i primi “almanaccamenti” sul conto del Nostro:255 da questa prefazione intrisa di cattolicesimo controriformista in cui il tipografo oltre che censurare una parte delle Jocunda alludeva ad un improbabile incarceramento di Alione, presumibilmente dovuto al tema salace e scandaloso dell’opera. Dopo di che vennero i bibliofili: a questa nota storica credette per primo Jacques-Charles Brunet256 che si sentì anzi così sollecitato dalle fantasticherie dello Zangrandi, che volle aggiungerne di nuove, più piccanti ed originali nella sua rara ristampa delle sole poesie francesi contenute nell’Opera piacevole, a tutt’oggi edizione alionesca di più vecchia data conservata ai rari e preziosi della Biblioteca Nazionale di Francia. Solo Paolo Antonio Tosi – bibliofilo milanese cui si deve la scoperta dell’editio princeps completa di colophon e che produsse una ristampa della Macarronea contra Bassano – ebbe a ridimensionare in parte le ricostruzioni storiche di Brunet e riuscì a produrre una prima lettura critica parzialmente affidabile dell’opera e della biografia dell’autore astigiano.257 Con lui anche Carlo Vassallo contribuì a mondare le fantasiose digressioni di Brunet in una recensione e feroce critica all’edizione Brunet ed in alcuni altri suoi saggi.258 Claudio Giacomino e Carlo Salvioni espressero il proposito di dedicarsi ai primi importanti studi sul dialetto di Alione, rimasti tuttavia incompleti,259 mentre di ben più scarso 255 L’espressione è di E. BOTTASSO, 1953. Segnaliamo qui che nell’edizione citata dell’Opera piacevole di Enzo Bottasso si tratterebbe del bibliofilo Gustave, mentre nel catalogo della BNF OPALE-PLUS figura il nome di Jacques-Charles, in acronimo J.C. nel titolo stesso dell’edizione in questione. J. C. BRUNET, 1836, (riproduzione anastatica a tiratura limitata). 257 P. A. TOSI, 1843 : p.4. Sulle macarronee si veda dello stesso autore il contributo del 1864. 258 C. VASSALLO, 1865, 1889, 1890. La “stroncatura” (1865) dovrebbe essere comparsa sul giornale locale Il cittadino, ma non ci è stato possibile reperirne una copia. 259 «D’un saggio sulla lingua dell’Alione il Giacomino pubblicò, nel quindicesimo volume dell’Archivio Glottologico Italiano, soltanto lo “sbozzo fonologico” e lo “sbozzo morfologico” […]. Coi tipi del Loescher avrebbe dovuto uscire l’edizione del Salvioni, con un’introduzione letteraria del Cotronei […]. Le vestigia del lavoro preparatorio fatto per essa 401 256 valore sono le note morfolinguistiche dell’opera di Francesco Emanuele Comune,260 ampiamente costruite su pregiudizi e scarsa conoscenza dell’ortografia alionesca. Vero è comunque che la sintassi e i criteri di trascrizione letterale della lingua alionea si ispirano nell’edizione princeps (poi ampiamente rimaneggiata nelle stampe successive) ai principi assai labili dell’ortografia francese del XVI secolo; l’autore stesso, essendo la Piacevole la prima opera a stampa di respiro letterario in un dialetto tutt’altro che letterario e figlio d’un Dio minore, ebbe l’arduo compito di inventare una trascrizione fonetica dell’astigiano fino a quel momento senza precedenti. L’edizione del 1521 si caratterizza per questa grande incertezza ortografica che riadatta norme e pratiche della scrittura francese e che non si consolida mai in regola generale: le tirature successive contengono un gran numero di correttivi ortografici fin dal XVII secolo, che spesso però aggravano e rendono se possibile più indecifrabile l’intenzione originale dell’autore. Guida indispensabile da questo punto di vista è certamente l’edizione delle Opera jocunda firmata da Enzo Bottasso che per realizzarla si è servito quasi unicamente dell’esemplare custodito alla Biblioteca Regia di Torino, e che l’ha anche dotata di un prezioso glossario sulla altrimenti impervia declinazione alionesca dell’astigiano medievale. Tornando alle ipotesi biografiche tracciate sul conto dell’autore, ce n’è davvero per tutti i gusti: oltre all’immaginaria “accademia alionesca” di cui parla con entusiasmo Alessandro Aluffi in un opuscolo tratto da un discorso inaugurale del 1835,261 troviamo il nobile astigiano trasformarsi di volta in volta in poeta maledetto, prigioniero “scapigliato” dell’Inquisizione a causa della sua audacia anticlericale, o in attore bohémien a capo d’una troupe itinerante fra Francia ed Italia (è qui evidente la facile confusione fra teatro e vita, associazione dell’immagine storica a quella del protagonista farsesco, Jan Perolier); mentre qualche altro ritratto più conformista lo qualificava come notaio, avvocato, medico o veterinario. Ci basti ricordare l’acredine con la quale sono state a ragione commentate le considerazioni di Maurice Mignon. dall’insigne dialettologo non vanno cercate fra le sue carte, ma colte, magari di sfuggita e quasi per caso, attraverso la sua vastissima produzione di note linguistiche, specialmente lessicali.» E. BOTTASSO, 1953 : p.XI. Due importanti studi per la riedizione commentata dell’opera di Alione costituiscono il corpus più importante ed attendibile sul conto dell’autore. B. COTRONEI, 1889; F. GABOTTO, 1899. 260 F. E. COMUNE, 1923. E diffidare si deve della mediocre (e tuttavia diffusa) trascrizione di M. MARANZANA, 1929. 261 F. GABOTTO, 1899 : pp.57-59. 402 [Non è] il caso di pensare alla possibilità di una fortuna scenica anche occasionale dell’Alione fuori della cerchia astigiana, e magari proprio a Lione – come, con arbitraria deduzione da documenti accennanti al permesso accordato dai consoli scabini a certi fiorentini per la rappresentazione di “certains jeux et farces en faveur et à la louange du pape” (evidentemente limitate alla cerchia ristretta della colonia toscana o lombarda), ha fatto Mignon. […] Dopo avere insistito sul soggiorno, di per sé non inverosimile, ma d’importanza molto limitata, dell’Alione a Lione, [il critico francese] si lamenta di non avere potuto trovare « dans les archives notariales et communales d’Asti… le texte des contrats entre des acteurs italiens et Alione directeur de troupe » (sic! E perché non anche regista?). Lo studio è insomma completamente infirmato dalla anacronistica valutazione di « ces comédies populaires, où excellaient les Ruzzante, Carracciolo, Sannazar, de ces contrasti et de ces mariazi… où la verve populaire et locale, qui se donne libre cours en dialecte… se manifestent… en cette manière toute italienne, qui donne parfois à l’improvisation une réelle valeur » introdotti in Francia dall’Alione e da altri italiani!262 E veniamo dunque alle sole fonti documentarie sul conto di Alione a nostra disposizione, scoperte da Carlo Vassallo e Ferdinando Gabotto verso la fine del XIX secolo. La prima è un rogito notarile del 1503 (in copia settecentesca) che ne testimonia la nobiltà, in cui il Nostro compare come testimone in quanto proprietario di un terreno a nord di Torino. Nel 1511, ’13 e ‘17 lo vediamo invece comparire in atti di maggiore importanza, quale membro del consiglio di credenza astigiano,263 ciò che conferma il fatto che fosse un personaggio in vista della società comunale, in rapporto con le arti maggiori e minori della città (che sembrano costituire il midollo sociale anche delle sue farse) e che spiega anche i suoi legami “ideologici” con la Francia. Atto ufficiale più importante e recente a nostra disposizione è infine la sua nomina da parte di Francesco I a capitano del castello di Rainero, testimoniata da uno stipendio di dieci lire a lui reso dal monarca.264 Ma è fuor di dubbio che i falsi biografici sul conto di Alione restarono per gli storici di gran lunga più suggestivi della realtà: i tentativi di Tosi e Vassallo sono stati scarsamente recepiti dalla critica fino almeno alla ricca edizione commentata dell’Opera piacevole realizzata da Enzo Bottasso.265 Di questa terremo largamente conto nella nostra trattazione, assieme anche al già citato saggio di George Ulysse, ma cercando di scremare dall’uno e dall’altro gli scorci più marcatamente aprioristici, il primo concentrandosi su una troppo facile interpretazione in chiave italiana e 262 E. BOTTASSO, 1953 : pp.XXVI-XXVIIn. C. VASSALLO, 1889 e 1890. Nel sistema amministrativo dei comuni medioevali lombardi, la Credenza era il consiglio di quelli che assistevano i Consoli. Era costituita dai cittadini più in vista (boni homines), coloro cui fides admittitur o che creditur, da cui “credenziarii” o “silentiarii”: dovevano giurare nelle mani dei Consoli credentia, segretezza sugli affari di stato. Più tardi vennero le Credenze, speciali organizzazioni delle arti minori che divennero espressione dell’allargamento della rappresentanza civica: in Lombardia vi poteva partecipare anche un numero dai duecento agli ottocento cittadini. 264 Contenuto fra le Vadia officiariorum elencate nei conti della tesoreria di Asti. Grazie a questa sua carica abbiamo anche la notizia più recente sul suo conto: A.S.T. – sezione camerale di Asti vol.1517 (art.99) e 1521 (f.77 v.). F. GABOTTO, 1899 : p.45. 265 E. BOTTASSO, 1953. 403 263 sull’esaltazione dell’originalità di Alione, il secondo accordando al Nostro il semplice ruolo d’epigono d’un genere straniero. 3.3.2 – Le stampe. L’editio princeps dell’opera di Alione si deve a Francesco da Silva, stampatore che proveniva da un esercizio quasi ventennale in Torino e che nel capoluogo piemontese aveva tirato diverse edizioni di discreta qualità e facile mercato: dopo un iniziale cimento fra il 1501 ed il 1506 nel mercato della stampa di qualità – periodo segnato dalle uscite di tre grossi in-folio ovidiani con commento e dalla celebre Vita scolastica di Bovesin della Riva – l’attività delle presse del da Silva ebbe a subire una mutazione interessante: solo due dei quattro in-folio tirati fra il 1506 ed il 1517 contenevano opere classiche, gli altri due essendo opere di carattere giuridico. Alla drastica riduzione del numero assoluto dei formati di lusso prodotti si associava anche il loro impiego per atti, in prodotti di carattere funzionale. Questa deviazione di formato è in linea con la più generale ascendenza commerciale delle opere tirate nel periodo torinese del da Silva, per lo più celebri trattati ampiamente consumati dai lettori specialistici cinquecenteschi. Fino al 1517, dunque, Torino, per edizioni condotte per lo più da solo, con la sporadica collaborazione di qualche altra officina; poi, nel 1518 un cambiamento piuttosto radicale: l’officina si sposta da Torino alla vicina Asti, in cui la stampa fino a quel momento era stata ben poca cosa: per lo più misteri, libri d’ore, preghiere, opere devozionali. Francesco da Silva non volle propriamente introdurre nella periferica Asti una produzione diversa da quella lì diffusa: il trasferimento dello stampatore ed il suo esercizio in Asti sembrano essere piuttosto dettati da esigenze meramente speculative, commerciali, e non ci pare abbiano nulla a che vedere con un programma editoriale culturale. Nel breve volgere d’anni dell’esercizio astigiano, infatti, da Silva produce una straordinaria quantità di in-folio (dieci in due anni), ma tutti contenenti atti della cittadinanza o opere di diritto. Sono questi gli anni in cui l’attività del tipografo d’origine milanese si incrocia con quella di una famiglia di editori e stampatori astigiani che fino a quel momento aveva battuto i mercati di Venezia e Lione con successo considerevole e che nella città di Lione aveva raggiunto una buona posizione sociale, i Gabiano. 404 A partire dal 1478 lombardi e piemontesi avevano installato le loro presse in Venezia, attratti dal moderno e florido mercato delle stampe. Gian Bartolomeo da Gabiano, monferrino, era uno di questi ed ebbe l’abilità commerciale necessaria a creare una rete di contatti europei, con filiali in Francia e Spagna, tutte a conduzione rigorosamente familiare, come era uso nei “trust” editoriali del periodo. A Baldassarre Gabiano, lo zio Gian Bartolomeo aveva fatto raggiungere Lione nel 1497 per partecipare alla Compagnia d’Yvry dopo l’opportuna pratica in bottega a Venezia. Il mercato del libro lionese aprì all’impresa nuove e ricche prospettiva economiche, e così nel giro di appena quattro anni il giovane Baldassarre aprì anche una stamperia collegata all’attività dello zio, con un socio già installato in Lione, Jean Bachelier. Fu Henri Baudrier266 ad identificare per primo in Baldassarre de Gabiano l’editore responsabile delle Aldine contraffatte che circolavano nella città nei primi anni del XVI secolo: il Gabiano sfruttava a suo vantaggio la prossimità di Lione all’Italia per importarvi da Venezia i moderni formati aldini e riprodurne l’elegante corsivo inciso da Francesco Griffo che in Venezia era tutelato dal diritto d’autore. Gabiano si faceva mandare dalla città lagunare le novità di Aldo che poi falsificava, usando un corsivo leggermente più pesante dell’originale, e reimmetteva nel mercato, aggirando i privilegi di protezione imposti dalle concessioni papali e dal consiglio della repubblica. La trovata piratesca si rivelò efficace ed in poco più di dieci anni vennero tirate in Lione circa quaranta edizioni contraffatte. Intorno al 1512 il fratello più giovane di Baldassarre, Lussemburgo,267 fu inviato sempre a Lione dallo zio per potere aiutare l’espansione dell’ancora attiva compagnia d’Yvry. Al fratello, cinque anni 266 BIBLIO. LYONNAISE IV. All’attività del giovane Lussemburgo Gabiano si deve l’installazione in Lione della più celebre casa di edizioni Giunti. Nel 1519-20: Lucantonio Giunti e Giacomo de Gabiano avevano preso accordi per una comune intrapresa lionese: il 13 aprile del 1520 una accomandita è registrata al Tribunale della Mercanzia a Firenze, attraverso la quale il Giunti affida al Gabiano duemila fiorini da impiegarsi sul mercato del libro lionese («per esercitare nella città di Lione di Francia et in tutto il reame di Francia in libri a stampa et in onqni (sic) altra mercatantia come parrà a decto Jacobo…» Archivio di Stato di Firenze, Mercanzia, 10831, c.179r.). L’accordo rimane in piedi fino al 1535 quando una nota sotto lo stesso documento ne decreta la fine. L’associazione avrebbe dovuto cominciare a produrre dal gennaio del 1521, ma Giacomo raggiunge Lussemburgo in Lione, già nel febbraio del 1520. Con Aymé de la Porte ed altri crea due compagnie di librai: la Compagnie des lectures (commenti di diritto) la Compagnie des textes (testi di legge). Il cartello di intraprese così strutturate andava sotto il nome di Grande Compagnie des Libraires. Lione – in quegli anni protagonista di una notevole escalation editoriale, facilitata anche dall’aumento della concentrazione demografica (dai 20.000 abitanti del 1470 ai 60/70.000 del ’20) – aveva consumato fino a quel momento costosi lavori teologici e liturgici, generalmente illustrati e in formati in-4°/in-folio. Il nuovo trust editoriale puntava ad edizioni più povere, a soggetto giuridico o scientifico: il livello qualitativo della compagnia era abbastanza basso, ma abbondanti le tirature. A rilevare questa vocazione altamente commerciale dei Gabiano v’è pure il cambiamento frequente delle officine, impensabile per un editore di qualità, ma di maggiore convenienza economica. Gabiano si giovava della rete economica di famiglia, di quella dei Giunti e delle botteghe francesi con proprietà italiana fra cui quelle di Francesco Turchi, Guillaume Bullé, Teobaldo Pagano, Giacomo 405 267 dopo, nel 1517, Baldassarre lascerà le redini dell’impresa trasferendosi ad Asti, dove impiantò una nuova succursale, forse stimolato dalla voglia di fare ritorno nelle sue terre natali, o deciso a colonizzare anzitempo lo squallido panorama librario di quella provincia d’Italia.268 In un contesto editoriale decisamente provinciale, Baldassarre Gabiano trovò presso il Da Silva un punto d’appoggio ideale per la sua nuova intrapresa commerciale ed applicò in Asti la stessa strategia dell’aggressività editoriale che aveva riscosso successo in Lione: non si avvalse per la prima opera astigiana della sua rete di conoscenze europee, ma volle forse testare le affinità con la nuova officina realizzando un’opera di qualche attinenza con la vita civile della comunità. Il primo testo ad uscire dalle presse del Da Silva è così la Sylva nuptialis di Giovanni da Nevizzano,269 operetta misogina scritta da un notabile di provincia, che come da copione prometteva d’essere venduta almeno ai numerosi estimatori di quello. Il mercato provinciale aveva potenzialità inespresse e nascondeva opere facilmente vendibili almeno in un determinato entourage, destinate ad una intellighenzia periferica affamata di vedere pubblicate le sue fatiche poetiche ed in grado anche di garantirne la tiratura. Appena due settimane dopo l’uscita della Sylva iniziò però per il Gabiano la principale sua attività in Asti, stavolta collegata alle sedi francesi: la stampa dei repertori giuridici di Alberto Bruni, destinati con ogni probabilità al mercato al di là delle Alpi e che durante tutto il secolo conobbero un numero non indifferente di ristampe.270 Attività intensissima, che proseguì fino alla morte di Baldassarre, sopraggiunta prematuramente nel 1519, al seguito della quale il Da Silva, ormai anziano, decise di ritirarsi, essendo venuta meno anche la nuova rete di contatti stimolata dall’imprenditore monferrino. Approfittò però il vecchio tipografo delle presse astigiane per l’ultima volta prima di tornare a Torino, producendo una laboriosa edizione ben più insolita di quella del Nevizzano, le Opera jocunda di Giovan Giorgio Alione di cui qui ci occupiamo. La compresenza di Alione e Nevizzano nel medesimo repertorio, conferma l’esistenza d’un entourage culturale di matrice giuridica, dell’appartenenza cioè di Alione se non ad una specifica categoria professionale della legge, almeno della sua frequentazione con uomini (e temi) del diritto, che Moderno e Vincenzo de’ Portinari. La compagnia fondata nel 1519 divenne nel 1530 una delle industrie della stampa più importanti della regione francese. W. PETTAS, 1997. 268 E. BOTTASSO, 1999. 269 Giovanni Nevizzano, Silua nuptialis: in qua ex dictis moder. per regulam fallentias plurime questiones quottidie in practica occurentes nundum per quempiam redacte in materia: matrimonij, dotium, filiationis, adulterij, originis, successionis & monitoralium…, Francesco da Silva, Asti, 1518. 270 E. BOTTASSO, 1999 406 decidono infatti di pubblicare le loro piacevolezze letterarie presso un libraio che doveva essergli familiare per mestiere.271 Il da Silva, quindi, che in Asti s’era occupato di atti ufficiali e diritto, era entrato in contatto con il circolo di magistrati ed uomini di legge della città, con quella conventicola di notabili provinciali, che praticava le lettere e che avrebbe voluto vederle uscire in stampa: Giovan Giorgio Alione dovette pensare a lui per la stampa della sua raccolta. Si deve insomma al casuale contatto d’uno stampatore col palazzo di giustizia astigiano la pubblicazione della sola cinquecentina italiana di farse alla francese. È evidente […] il carattere squisitamente riflesso, colto e quasi aristocratico delle farse alionesche, e quindi anche, indirettamente, dell’ambiente ad esse più vicino e che meglio le poteva gustare – il che non esclude del resto una più vasta diffusione.272 L’appartenenza di Alione ad un circolo giuridico non avalla l’ipotesi già detta fantasiosa d’una confraternita alionea né conferma il carattere performativo del suo teatro, ma mette certamente in luce una certa ambizione del Nostro ad emulare le pratiche della tradizione farsesca francese. Ambizione che traspare anche dalla scelta del formato per la stampa, diverso per Alione dalla produzione complessiva (torinese ed astigiana) del da Silva, che per le sue edizioni si divide fra l’infolio e l’in-quarto, mentre sono solo tre gli in-ottavo che possono essergli attribuiti: una Epithalamion di Paolo Cerrato, evidentemente ospitato dal formato ridotto per il carattere occasionale ed encomiastico dell’opera; un volgarizzamento dei celebri Soliloquia agostiniani; e finalmente le Jocunda. Va detto che la scelta del formato ridotto ed allungato (un 140x90mm evocante almeno la “tascabilità” del francese agenda in 290x80mm) sebbene insolito, non testimonia una strategia editoriale teatrale in quanto il volume delle Jocunda oltre a non contenere esclusivamente delle farse è anche pesante, caratteristica in contrasto con i libretti di scena dei Trepperel, che si componevano di massimo 8 carte. 271 La cultura giuridica dell’Alione lo fa accostare al compatriota e forse compagno, Giovanni Nevizzano. Esistono diversi punti di contatto fra i due: dalla Sylva nuptialis, Alione forse ricava la citazione del libro dei Proverbi (17,22): «animus gaudens aetatem floridam facit, spiritus tristis exsiccat ossa». La stessa Sylvaè operetta dal carattere misogino. Enzo Bottasso avvalora l’ipotesi secondo cui i due condividevano le passioni letterarie. A conferma poi della continuità dei temi misogini fra un lato e l’altro delle alpi (il modello sono le Quinze Joies) indichiamo che la Sylva del Nevizzano conobbe edizioni di poco successive alla princeps in Lione (1524, 1526). 272 E. BOTTASSO, 1953 : p.XXIIIn. 407 Resta il fatto che il libriccino fu probabilmente prodotto avendo bene in mente le stampe teatrali francesi, di cui a ben vedere è una sclerotizzazione in senso “estetizzante”: segno d’una conoscenza da parte di Giovan Giorgio Alione di almeno qualche edizione di farsa, il che non sorprende in quanto con ogni probabilità i trattenimenti teatrali francesi dovevano essere largamente praticati nelle regioni settentrionali d’Italia e le agenda erano probabilmente distribuite agli astanti. Il formato editoriale scelto per l’editio princeps voleva in qualche modo caratterizzarsi per “utilità performativa”, restando però un’imitazione, adattamento forse raffazzonato, del celebre formato francese professionale. Il colophon della editio princeps delle Opera jocunda fissa la fine dell’impressione al 22 marzo del 1521; ma vi furono dubbi persistenti nella sua datazione: il primo esemplare noto ai bibliofili era infatti monco delle ultime pagine e privo di frontespizio, cosicché venne datato inizialmente al 1496, in quanto l’ultima parte del volume celebra l’entrata in Napoli di Carlo VIII, avvenuta il 22 febbraio 1495 e la vittoria di Fornovo, occorsa nel mese di luglio dello stesso anno. Serafino Grassi fu il solo a datare la stampa del Da Silva al 1520,273 in base ai suoi studi eruditi sugli archivi astigiani: sbagliò solo d’un anno e la fortuna volle che il già citato Paolo Antonio Tosi rinvenisse un esemplare completo dell’opera, nel cui colophon la data di impressione era fissata appunto al 1521. La copia completa appartenne poi per un periodo alla famiglia di bibliofili Brunet, come segnalato anche nel catalogo Rothschild,274 ma curiosamente non esiste oggi in Francia alcun esemplare custodito nelle biblioteche pubbliche. Le edizioni successive a questa prima saranno prive delle poesie francesi che seguivano nel volume originale quelle in italiano, ragione per cui Brunet ebbe a pubblicarle a parte, come rarità bibliografica, in una preziosa edizione anastatica cui era allegata anche l’impressione dei primi quattro rebus che traducono in crittogrammi i rondeaux a chiusura della raccolta. E si deve sempre a Tosi la ripresa dell’edizione di Brunet, completata con l’aggiunta dei legni mancanti che qui riproduciamo integralmente. Pur presentando caratteristiche d’occasionalità provinciale (numerosi i riferimenti interni alla città d’Asti e ai suoi personaggi), le pièce dell’Alione, forse giovandosi dei canali commerciali residui del da Silva, conobbero una discreta circolazione, specie quando si guardi allo sconfortante panorama della stampa astigiana del periodo ed ai suoi frutti. 273 274 S. GRASSI, 1890-1891. Cat. ROTHSCHILD, t.IV : p.415 (n°25), ove si dà notizia del Rondeau en flameng. 408 La singolarità dell’Opera piacevole si deve anche alle scelte editoriali, fatte senza alcun criterio di profitto, quasi a volere soddisfare l’edonismo d’uno scrittore a tempo perso e con le giuste sostanze economiche per finanziarle: fu stampata in 16 mesi, periodo necessario al complesso e costoso assemblaggio dei versi par figures; il formato diverso da quello abituale del tipografo; la scelta di presentare in un solo volume tutte le farse, che «denota una totale noncuranza delle occasioni di smercio dischiuse da altrettante edizioncine separate»;275 sono tutti fattori che ripetono il carattere di intellettuale divertissement che va assegnato alla composizione alionea, la quale ha tratto successo dalla sua unicità, linguistica, editoriale, di genere, stilistica, ortografica. Forse approfittando di qualche residuo contatto col mondo della grande impresa editoriale europea, appena fatto intravedere ad Asti dalla breve attività del Gabiano, questa originalità fu apprezzata in Italia e Oltralpe. Tant’è che si va da una reimpressione quasi identica alla prima edizione del 1560 per i tipi Giolito di Trino (con falso luogo di edizione fissato in Venezia); a quella già citata di Virginio Zangrandi del 1601, in clima controriformista largamente mondata delle parti che potevano sembrare offensive per le genti di chiesa ed anche di alcune poesie dialettali; da questa seconda ristampa viene poi quella di Torino, per le officine di Stefano Manzolino, del 1625, che in tutto e per tutto rispecchiava le censure del testo reso dallo Zangrandi. 3.3.3 – Di alcune farse nell’Opera piacevole. Il presente spoglio dei temi e delle storie contenute nell’Opera piacevole riguarda le pièce che emulano le forme del teatro francese e che nella raccolta alionea sono scritte in italiano e denominate farse (con l’eccezione della storia dei cinque sensi, detta “cômedia”). Per ragioni di carattere strutturale (segnalate in particolare dall’aumento di complessità degli intrecci mano mano che si avanza nella lettura) è molto realistica l’ipotesi di Bottasso secondo la quale la compilazione della raccolta del ’21 sia stata eseguita con un criterio fondamentalmente cronologico, con l’unica eccezione della Cômedia de l’homo, posta ad introduzione della raccolta dopo il Prologo de l’auctore per il suo carattere spiccatamente moraleggiante. 275 E. BOTTASSO, 1999 : p.137. 409 Nulla ci induce a pensare che la raccolta dovette uscire postuma ed abbiamo indizi abbastanza chiari che alla composizione della versione a stampa dovette partecipare lo stesso autore: ecco un primo motivo di “politica autoriale” improntato sul modello collaborativo dell’editoria italiana. La mano dell’autore organizza il materiale preesistente e si rivela cosciente di una evoluzione stilistica tentando allo stesso tempo di sminuire i toni generalmente volgari delle singole pièce. L’insegnamento deve sempre accompagnare il motto di spirito e la volgarità che pure resta ghiotta attrattiva scenica, va sorvegliata con l’intento morale e se possibile cercando anche di mettere in mostra un certo spessore storico e letterario: quale migliore pièce allora se non la Cômedia de l’homo per aprire l’indice delle farse? La storiella del conflitto fra le membra del corpo e l’inevitabile deficit fisiologico che questo comporta è un tema di lunghissima durata nella cultura letteraria europea, tornato alla ribalta verso la fine del medioevo con la riscoperta della storiografia latina, e di Tito Livio in particolare, che ne fornisce una versione celebre nell’apologo di Menenio Agrippa.276 Nella Francia medievale la stessa storiella era altrettanto nota come uno dei più celebri passi del Aesopus latinus ampiamente traslati nei repertori favolistici in lingua volgare detti Ysopet277 o nella ben diffusa Moralité du coeur et des cinq sens, composta forse fra il 1377 ed il 1383. 278 Sono tanto notevoli le consonanze fra la nostra Cômedia e diversi altri esempi del teatro profano che esse non mancarono d’esser segnalate nei repertori del teatro francese, ed in particolare sono state più volte sottolineate le fortissime affinità della composizione alionea con la Farce nouvelle de cinq sens de l’homme, con la Moralité joyeuse à quatre personnages, c’est à sçavoir le ventre, le jambes, le coeur et le 276 Tito Livio, Ab Urbe condita, libro II, 16, 32, 33. È impossibile qui rendere conto della complessa rete di derivazioni e legami fra i vari Ysopet ed il Romulus. In tale impresa si è cimentata con risultati eccellenti Julia Bastin, prima ad avere pensato un repertorio generale di questa letteratura favolistica contenuto in due volumi poi estesi a quattro da Pierre Rouelle. Ai primi due tomi della raccolta si accompagnano le preziose tavole delle corrispondenze, non solo con gli “originali” (ed il concetto di originale è qui, se possibile, molto più vago di quanto non lo fosse nella farsa e nel fabliau), ma anche con le altre raccolte circolanti in Francia, tutte declinazioni del motivo fedrico o esopiano. Riportiamo qui la parte della tavola di derivazione che interessa questa trama, rimandando il lettore curioso alla esplorazione del prezioso repertorio (ISOPETS). 277 Tavole t.I (1929) Novus Aesopus 37. Les membres et l’estomac Tavole t.II (1930) Isopet I [B P L] 52. Les Ventre et les membres 278 Isopet de Paris 36 Isopet I 52 (a) 54 (b,c) Isopet de Chartres 34 Isopet de Lyon 56 Isopet III - Romulus III, 16 Walter l’Anglais 55 R. BOSSUAT, 1949 : p.347-360. 410 chef, e con la Guerre et débat entre la langue, les membres et le ventre, c’est assavoir la langue, le yeux, les oreilles, les mains, les pieds.279 L’argomento scurrile risuona inoltre anche nel Débat du cus et du con280 ma l’Alione non conobbe per Enzo Bottasso questa composizione di cui invece doveva esser pratico l’ignoto farceur dei cinq sens. Il paradigma morale di tutte queste composizioni è sempre il medesimo, per cui un organo fra gli altri (in Alione la disputa è per entrare nella ambita “conventicola sensoriale” dei sentimenti) lamenta a vario titolo la scomoda presenza del deretano o del ventre «Un sac remply de putrefaction | De pourete et grande infection»281 fino a che qualcuno non proclama, aizzato dalla vexata quaestio, la solita astensione al lavoro. Le varianti non sono sostanziali. Ad esempio nella trama di Giovan Giorgio Alione si riscontra un rovesciamento che occorrendo anche nella Farce des cinq sens282 spinge Enzo Bottasso a parlare di una influenza inversa della pièce di Alione su quella francese: in entrambe non è questione dello sciopero di tutti contro il deretano poltrone e puzzolente, ma della defezione di questi che vede misconosciuta da tutti la sua fondamentale attività escrementizia, indegna anzi d’essere annoverata nel curioso consiglio dei sensi e delle abilità che sembra comporre l’uomo. La farsa lionese è ben più breve e schematica rispetto a quella dell’autore italiano: (461 contro 920 versi) in essa risultano assenti le divagazioni ed insinuazioni dell’introito e della conclusio astigiane; inoltre il farceur non tenta neanche di fornire una consequenzialità logica agli accadimenti, (il banchetto dei sensi avviene e basta), mentre la lunga invocazione o soliloquio giocoso con cui “l’homo” inaugura la Cômedia risponde alla preoccupazione di coerenza dell’Alione. Ed anche la sostituzione alionesca delle auregle con nas, indubbiamente il più appropriato a criticare il fetore di cul, risponde alla stessa esigenza di ragionevole consequenzialità: chi meglio del naso, infatti, per criticare il flatulento personaggio? Sulla data di stesura della Cômedia, facendo leva sull’ipotesi che fissa al 1509 la precedente farsa della Dona ed al 1515 la successiva composizione del Lanternero, possiamo dire con scarsi margini di incertezza che essa fu realizzata in un periodo compreso fra il 1509 ed il 1515. Ora, tutte le fonti non farsesche dell’Alione sono ovviamente precedenti alla sua opera, ma la farsa dei cinq sens ci è 279 Rispettivamente: ATF, t.III, p.300-324; Rec. LEROUX, t.II, n°9. Per l’ultimo non abbiamo potuto reperire nessuna edizione moderna : Jean de SALISBURY (?) trad. Jehan d'Abundance (?), La guerre et le débat entre la langue, les membres et le ventre, Silvestre, Paris, s.d. 280 Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD t.I, pp.133-136. 281 Jean de Salisbury (?) (trad. Jehan d'Abundance ?), op.cit., (f.2v.). 282 ATF, t.III, pp.300-324. 411 pervenuta in una stampa del 1545, mentre non troviamo riscontri nell’importante indice di datazioni compilato da Halina Lewicka.283 Per quanto ci riguarda, dunque, l’ipotesi dell’influenza inversa della pièce italiana su quella francese potrebbe anche essere valida, ma è molto difficile appigliarsi come fa Bottasso ai soli riscontri stilistici (la francese “raffazzonatura” dell’italiana), in quanto il sistema delle lettere profane è relativo e la più spiccata vicinanza della pièce di Alione con forme drammatiche moderne (le forme, per rubare un’espressione al cinema, della “sceneggiatura di ferro”) ha per noi scarso valore quando si voglia stabilire una successione storica con pretesa di esattezza. Enzo Bottasso sottolinea anche come la pièce dell’Alione potesse aver circolato a Lione, vista la presenza di Italiani nella città, il contesto di interesse culturale e la densa rete di rapporti che la città del sud francese intratteneva in particolare con la non lontana Asti. Ma al di là del già citato riscontro strutturale non ci sono prove documentarie che attestino con certezza questa ipotesi. Pensiamo invece che sia più lecito sottolineare la persistenza del tema e la comunanza delle fonti fra quelle dell’ignoto farceur e quelle impiegate da Alione: pure se in futuro dovessimo scoprire che la pièce francese è precedente per stesura a quella del nostro, rimarrebbe tuttavia aperta la questione delle germinazioni secondarie a partire da un comune e tradizionale tessuto narrativo. Semmai allora le differenze che dobbiamo sottolineare sono di carattere teorico, riguardano cioè il dialogo di Alione con la cultura italiana e classica, a perpetrare una polemica tematica e linguistica contro il classicismo, polemica che si articola pure attorno alla critica alla corruzione italiana e romana (« Il culo a Roma è favôrì e reverì ») e che si innesta comodamente nell’impostazione non solo moraleggiante ma anche estetica dell’introitus, ove si legge […] Habì paçientia, che nôi ne sema andà pescher Plaut ni Terençi per çercher de cômparir qui al parangôn de côi chi san parler Jargôn o rômagnol, ch’an astesan et a côrrectiôn de côi chi san sarà ô tractà nostr qui present a l’hom, e d’i soi çinq santiment, chi sôn l’eugl, nas, man, bôca e pe, senza i quagl l’hom ne po’ sté an pe, ni perfet esser reputà.284 283 H. LEWICKA, 1974 : per l’uso di questo repertorio di date valgono le stesse considerazioni fatte nella seconda parte di questa trattazione. 284 Cômedia de l’homo, vv.11-22, (E. BOTTASSO, 1953 : p.5) 412 Mentre le farse sono di per sé prive di qualsiasi rivendicazione estetica – esistono cioè in quanto materiali vivi di una precisa pratica scenica e pertanto non hanno bisogno di giustificare la propria forma, che non potrebbe in nessun caso essere diversa da quella data – nell’Opera piacevole si instaura un dialogo (seppure ai limiti del dilettantesco) con il sistema corrente della letteratura. V’è poi un dettaglio, e cioè che non si registra in alcuna farsa dialettale francese l’allusione alla commedia “sostenuta” come invece accade nel prologo. Anche nello svolgersi della Cômedia in forma processuale è possibile ritrovare una marcata affinità con la farsa francese: le forme del diritto civile e canonico (di cui anche in altri luoghi l’autore italiano mostra di essere pratico), nel caso della Cômedia sono tesi a mettere ancora più in evidenza la stoltezza della questione e la totale idiozia del dialogo. Rispetto alla farsa francese, però, Alione aumenta l’effetto contrastivo, prolungando la procedura giuridica e le ambascerie, fino al trionfo ed alla sentenza di un vero giudice in favore del sedere e del suo ingresso nell’ambita accolita dei sensi. Le considerazioni sulle differenze reciproche fra la pièce di Alione e la farsa lionese vengono rese vane quando si pensi alla universale diffusione sia del tema esopiano sia delle tecniche letterarie in qualche modo connesse con le procedure giuridiche ed i processi: tutto si perde in un continuo mélange, in una tradizione in cui il depistaggio delle fonti, il furto o anche solo l’ispirazione ad opere a noi sconosciute è la prassi. Nella Farsa del marito e della mogliere chi littigoreno per un petto, detta di Perô e Cheirina, ricorre ancora una volta il tema processuale, messo di nuovo in contrasto con il motivo del tutto faceto della plainte della coppia, articolata, come recita pure il titolo, attorno alla sgradevole flatulenza della moglie. Ed è processuale pure la gemella francese di quella farsa: la Farce du pect o di Hubert, la femme, le juge et le procureur285. Di questa abbiamo già ampiamente reso la descrizione ed il commento nel capitolo sui luoghi letterari e le influenze tematiche reciproche. Qui ci limiteremo a sottolineare la differenza per noi primaria fra la composizione alionesca e quella transalpina, differenza lampante e significativa che fino ad ora è stata incredibilmente trascurata da chi si è occupato delle Opera jocunda. Nell’esemplare francese il farceur gioca la disputa fra marito e moglie tutta su un piano verbale e biomeccanico, usando la celebre tecnica dell’esposizione in azione del motto, il già affrontato proverbio in azione, ove non importa il significato traslato dell’espressione idiomatica, ma solo la sua concretezza in quanto moto scenico e azione letterale. 285 ATF, t.I, pp.94-110. 413 Come il niais che non riesce ad avere la forza d’astrazione per capire che prix de marché non è un nome proprio di persona, il farceur du pect sviluppa la trama attorno alla medesima stoltezza, solo che ad un livello più alto: la seriosità con cui si affronta il tema tiene sempre separata, nascosta, la dimensione del doppio senso. Il risultato è una stoltezza meccanica, appunto, avulsa da qualsiasi tono moraleggiante. Alione invece è attento a questo aspetto, e come per la Cômedia il tema grivois vorrebbe avere sbocco in un più ampio insegnamento morale: il modello è ancora una volta quello della favolella istruttiva, più evidente nella Cômedia attraverso Esopo ma sotteso anche alla farsa di Perô e Cheirina. Naturalmente per un approccio moraleggiante è indispensabile, al contrario del comico linguistico farsesco, che il peto trovi il suo corrispettivo: è così più scoperto presso il nostro autore italiano il significato traslato dell’espressione. I due coniugi sono esempio morale per tutte quelle coppie che si disputano per un vento puzzolente ma passeggero: in poche parole, per futili motivi. Allora ecco di nuovo la maggiore coscienza autoriale di Alione rispetto ai farceur; il Nostro sembra volere sviluppare non una commediola occasionale, ma un vero e proprio corpus o bizzarro florilegio teatrale. Del resto i ben documentati286 rapporti del teatro profano delle Jocunda con le Quinze joies du mariage prescindono a nostro avviso dalle pièce ad esse direttamente ispirate ed intessono un po’ tutta l’opera di Alione: la combinazione esplosiva dell’intento morale con la logica sovversiva della “gioia al contrario” è forse l’esempio cui egli guarda per la costruzione delle sue parabole d’insegnamento a tema sconcio e salace, ma che pure rispetto all’esempio francese egli vela di un alone ai limiti del benpensantismo (anticlericale). Sul tema del peto va detto che non ci sono pervenute ulteriori trame: fra novellistica e teatro profano abbiamo un solo vago riscontro nella farsa di Frère Fillebert, e questo tenue allaccio non ci fa escludere del tutto che la storiella fosse in voga e che altri esemplari più simili ai due in nostro possesso potessero circolare all’epoca. La scarsa diffusione dell’espediente comico ha spinto ancora una volta a pensare ad un’influenza inversa, salvo che le più recenti datazioni di farse confortano piuttosto il contrario: se la datazione della farsa del peto si appellava ad una vaga attribuzione della sua stampa agenda alle presse di Pierre Sergent (quindi fra il 1532 ed il 1547) oggi possiamo dire che la composizione della pièce risale con relativa certezza al 1476, ben prima, insomma, della farsa alionea. 286 E. BOTTASSO, 1953 e G. ULYSSE, 1983. 414 Tutti gli elementi addotti da Bottasso per dimostrare una influenza inversa sono qui contraddetti dalla data ed a ben vedere contribuiscono essi stessi a dimostrare l’opposto: improntare un discorso sulla cronologia attraverso l’elemento volatile dell’evoluzione stilistica è aleatorio ed a una tale visione si può sempre obiettare che il miglioramento stilistico sussiste a maggior ragione a partire da modelli preesistenti. Si possono spiegare così allora alcuni sorprendenti paralleli di espressione fra il prototipo francese e la rilettura di Alione: proprio quando la disputa fra coniugi subisce una flessione negativa i reproches della femme sono gli stessi della mogliere. Farsa: « […] de meilleur lignaige | Et plus necte que vous ne dictes »287 Alione : « Insì te possô manzé i piogl | desutel! Fus pur tu insi net! »288 Oppure quando i due niais stabiliscono di dirimere la questione dal giudice ove Hubert dice: « Le pet sera bien debattu ». Ciò che è identico al verso 225 dell’Alione, salvo che tale battuta è messa in bocca al procuratore. Ed è pure impressionante la somiglianza d’una battuta di Hubert con quella di Perô: HUBERT Sire, nous avons en masnaige, Ma femme et noi, ung differend, Sans plus, pour un peu de vend Que j’ai sentu, dont m’en desplaist. […] C’est ung pet, Saichez, sire, et machez le cas. PERÔ Or, messer, e’ v’ô vogl côinter secônd i debat de mainage: a l’è accadù qui an mariage tra chiella e mi çert different, sôlament pr’un pochin de vent chi me dè and’ô nas bel e net […] A l’è un pet: sapì, messer, chi antendi el cas, a se crezea ch’e’ n’l’ancalas dirlô, pr’amô ch’a l’è vergogna. 289 La scena della confessione della donna ricompare anche essa con modalità espressive simili nella farsa italiana ed in quella francese, tanto che possiamo appena registrare la più esplicita confessione della femme rispetto alla moglie alionea. A questo punto spunta fuori un accenno assai degno di nota – vorrei dire sintomatico – ad un ordine preciso del marito, di cui non è traccia nella scena iniziale, abbreviatissima, s’è detto, rispetto all’Alione: « Et vostre mary vous dist-il | Que chargissiez le fais adonc ? » 287 ATF, t.I : p.96. Perô e Cheirina, vv. 190-191, (E. BOTTASSO, 1953 : p.131) 289 Farsa: ATF, t.I, pp.99-100; Alione: cit., vv.254-263 (E. BOTTASSO, 1953 : p.134) 288 415 Dopo le proteste del marito di voler conservare la propria ‘maison nette’ e le reciproche promesse di coniugi e procuratore, eccoci davanti a ‘monsieur le maire’, alla scena centrale cioè, sale e spunto della farsa alionesca, nella quale soprattutto è evidente la sommarietà della lionese. Davanti al giudice, salutato col medesimo augurio di bona vita, i due rispondono appena alla domanda del procureur (‘Comment est vostre nom?’), né schiamazzano cercando di esporre il proprio caso l’uno prima dell’altro, il che non impedisce al loro patrono di sbottare, con un’ira ch’è giustificata solo se pensiamo al corrispondente brano dell’Alione: « Merde! | taises vous, bon gré Sainct Rémy ! | Voicy Hubert, qui dit ainsi…»290 Per esporre in questo modo le rimostranze del marito: « Hubert s’en plaint formellement […] | Secondemente, dit que l’odeur | Luy espuentit sa maison, | et si luy dit que par raison | il n’apartient point à sa femme | de jeter quelque ordure infame | en la maison de son mary. »291 Data la generale gratuità delle scene farsesche non ci stupisce che la trama del pect possa essere lacunosa in alcuni punti: è un dato questo che va piuttosto ascritto al dominio estetico precipuo del teatro profano francese, e così si rivela essere alla luce della cronologia più recente. Il fatto che poi la conclusione della farsa sia ancorata così saldamente a quella del dialogo alioneo292 sta infine a dimostrare l’evidente conoscenza da parte del Nostro di pièce del repertorio francese, al quale guarda con una certa determinazione intellettuale, quasi a volere esportare il teatro francese nella sua Asti. E non è casuale che le farse prese in prestito vengano per lo più dalla vicina Lione. La poco convincente e prolissa scena dell’interrogatorio e la frammentarietà delle motivazioni dei niais ribadisce nella farsa in modo del tutto ozioso il concetto di identità di moglie e marito, e la conseguente uguaglianza dei doveri, mentre in Alione la logica incalzante del processo sembra più solida ed organizzata con maggiore rigore. Ancora una volta dobbiamo riflettere sul fatto che la farsa è materiale per attori, in cui non tutto deve necessariamente comparire nero su bianco ed in cui presumibilmente molte cose taciute vengono affidate all’abilità dei performer, necessità invece che non si esprime nella costruzione “modellizzante” alionea. In questo crediamo giochi un ruolo fondamentale anche la marginalità geografica e culturale del Nostro dal modello di riferimento: lontananza che si fa distanza intellettuale, sforzo regolatore che sarebbe insensato nel caos funzionale e nelle finalità stesse della produzione di testi farseschi. Detto tutto questo vale la pena citare la decisa conclusione di Bottasso in merito. 290 «PROCURATOR: Tasive, bôn grà sen Martin: | Chi vist mai fer tanta cagà?» (cit. vv.354-355, E. BOTTASSO, 1953 : p.139) 291 «PROCURATOR : […] Perô dis ch’a l’ôit côl pet | chi savea d’altr che de zebet | […] si dis che de côl tal savôr | fu abôrminà tuta la cà, | e che meistr Hectôr sôstenrà ch’ô n’aspetta a fômna chi sia | de spianté gnunna punasìa and’la stança de so’ marì | senza liçentia…» (cit., vv. 395-404, E. BOTTASSO, 1953 : p.141) E. BOTTASSO, 1953 : p.XXXI. 292 « Et, si elle a peté ou vescy, | ou que du cul luy soit sorty | ung peu de vent, vous, son mary, | nous voulez-vous cy faire accroire | que vostre part n’en debvez boire ? » (ATF, t.I : p.108.) «JUDEX: […] e vogl che’l cônfessa alò | c’l’à fag el pet côn el cul chi è sô | ut dixit in deposizione, | quae est probata probatione » (cit. vv. 569-570, E. BOTTASSO, 1953 : p.148, il commento citato è pp.XXX-XXXII.) 416 […] ci possiamo con questo considerare ampiamente dispensati dall’insistere sull’indubbio carattere di sciatta imitazione che questa farsa presenta nei confronti dell’astigiana : la peculiarità dell’argomento, cui ho già accennato, ci preclude ogni possibilità di complicare in qualche modo l’immediatezza della derivazione.293 Ove per Bottasso c’è sciatteria, lo si sarà inteso, per noi si annida la specificità linguistica della farsa. Si è segnalata in più sedi un’affinità velata con Pathelin nello svolgimento processuale di Nicorao Spranga, caligario, el quale credendo haver prestata sôa veste, trovò per sententia che era donata il cui centro è una scenetta che sembra tolta alla ruse pathelinesca del processo giocoso, innestata qui sul motivo faceto dell’amicizia opportunista dei due beoni, Nicola, appunto, e Bernardino. Affinità più che velata quasi nascosta, che andrebbe ancora una volta inscritta nella casistica delle infinite ricorrenze dei temi di lunga e trasversale persistenza. Semmai è più logico instaurare per questa farsa di Nicolao un parallelo con la ruse che compare nella farsa dei deux Savetiers (il ricco e il povero, cfr. supra), dove i punti di possibile giuntura tematica con la pièce alionesca sono ben marcati. La materia resta comunque magmatica, se pensiamo che i deux Savetiers è stata anch’essa in molte sedi accostata proprio al Pathelin: