Università degli studi La Sapienza di Roma - «Rinascimento italiano in prospettiva europea» - XX ciclo
Université Paris 8 - Vincennes-Saint-Denis - Doctorat en études italiennes
Commedia regolare e comici sregolati
Farsa, novella e “mercato” dello spettacolo tra Francia e Italia alle soglie del Rinascimento
Tesi per ottenere il grado di
Thèse pour obtenir le grade de
Dottore di ricerca dell’Università La Sapienza di Roma & Docteur de l’Université Paris 8
présentée par
presentata da
Valerio IACOBINI
discussa pubblicamente il 14 novembre 2008
soutenue publiquement le 14 novembre 2008
discipline : letteratura, teatro, studi comparati
discipline : littérature, théâtre, études comparées
direttori di ricerca recherches dirigées par
prof. Giulio Ferroni, Univ. La Sapienza & prof. Françoise Decroisette, Univ. Paris 8
commissione
jury
prof. Beatrice Alfonzetti (Univ. La Sapienza), prof. Anna Fontes Baratto (Univ. Paris III),
prof. Françoise Decroisette, prof. Giulio Ferroni
Commedia regolare e comici sregolati.
Farsa, novella e “mercato” dello spettacolo tra Francia e Italia alle soglie del Rinascimento.
Il problema principale nello studio dei primi contatti fra drammaturgia italiana e francese alle soglie del Rinascimento è la
carenza di fonti. Attraverso una ricostruzione che si avvale di diversi strumenti critici come la bibliografia testuale, la storia
della stampa e la linguistica, il presente studio intende superare questa penuria di testimonianze sulla performance della fine
del medioevo, ripercorrendo la rete di relazioni culturali sui due lati delle Alpi fra 1464 e 1548, nelle province del nord
francese ed a Lione.
Le teorie sulla modularità di farse e sottie, (generi dominanti nella Francia del XV e XVI secolo) consentono di stabilire un
parallelo di carattere strutturale fra teatro francese e novella italiana; parallelo che a sua volta trova riscontro nella
circolazione delle trame e dei plot drammatici.
Si sono ricercate le tracce precoci se non dei comici, almeno delle maestranze dello spettacolo italiano, in primo luogo
analizzando la permeabilità culturale italo-francese durante le guerre d’Italia ed il teatro come strumento di propaganda;
secondariamente prendendo in analisi i dati principali sul flusso migratorio; ed infine, effettuando un confronto fra una
curiosa incisione contenuta in un libro d’ore ed alcuni repertori gestuali di epoca successiva. E non si sono tralasciati casi
singolari come quello di Giovan Giorgio Alione e Pierre Gringore.
Elementi forse noti ma mai raggruppati in un discorso critico unitario e che rivelano una comunanza di interessi fra lettere
profane italiane e francesi, tale da costituire un humus in grado di far fruttificare in Francia la cultura del tardo
Rinascimento italiano, quella più matura sotto il profilo teatrale.
Parole chiave: farsa, novella, sottie, teatro profano, Rinascimento.
Comédie régulière et comédiens déréglés.
Farce, nouvelle et « marché » du spectacle entre France et Italie à la Renaissance.
Le problème principal pour l’étude des premiers contacts établis entre dramaturgies italienne et française au début de la
Renaissance est la pénurie des sources. Grace à une reconstruction qui utilise plusieurs outils critiques (bibliographie
matérielle, histoire de l’imprimerie, linguistique), cette étude voudrait surmonter les lacunes documentaires sur la
performance à la fin du Moyen Âge, en reconstituant le réseau de relations culturelles entre les deux côtés des Alpes pour la
période 1464-1548 dans le provinces du Nord de la France et à Lyon.
Les théories sur la modularité de la farce et de la sottie, (genres dominants en France aux XVe et XVIe siècles) nous
permettent d’établir un parallèle structural entre théâtre français et nouvelle italienne ; vérifié également dans la circulation
des schémas dramatiques.
Nous avons cherché sinon les traces précoces des comédiens, au moins celles des ouvriers du spectacle italien, premièrement
en analysant la perméabilité culturelle italo-française pendant les guerres d’Italie (où le théâtre devient un moyen de
propagande politique) ; deuxièmement en considérant les données sur la migration des Italiens en France ; finalement en
comparant une étrange gravure contenue dans un livre d’heures avec trois répertoires gestuels. Dans ce contexte les cas
singuliers d’auteurs comme Pierre Gringore et Giovan Giorgio Alione ne manquent pas.
Il s’agit de données en partie déjà connues, mais jamais regroupées dans un discours critique unitaire, qui révèle une
concordance d’intérêts entre lettres profanes italiennes et françaises, apte à construire un milieu capable de faire fructifier
plus tard en France la Renaissance théâtrale italienne.
Mots clés : farce, nouvelle, sottie, théâtre profane, Renaissance.
Regular Comedy & Disorderly Comedians.
Farce, novel, and performing arts’ “market” between Italy and France during the early Renaissance.
The essential problem in studying contacts between Italian and French dramaturgy during the early Renaissance is the
shortage of sources. By a reconstruction that uses several critical tools such as textual bibliography, history of press and
linguistic studies, our thesis wants to transcend this scarcity. In this aim we thought back the net of cultural relationships
on the two sides of the Alps between 1464 and 1548, particularly in Lyon and Paris.
Theories about farcical modularity (farce and “sotties” are the most important “dramas” in France at our given time)
identify a structural analogy in French theater and Italian novels; an analogy that can be also verified in plots’
repetitiveness.
We looked for traces of all kinds, sometimes not directly linked to the theater, like the presence in the court of Italian arts
workers or the general cultural permeability between Italy and France during the Italian Wars, where the theater became an
important propaganda device. Then, we analyzed migration data and finally we compared a strange woodcut in a
devotional book with three gestural repertoires.
In this context we didn’t forget singular cases such as Pierre Gringore and Giovan Giorgio Alione.
Maybe all these elements are known singularly, but they have never been dealt with together, and we think that in a
coherent frame all these phenomenons reveal a common background that permitted the late settling of Italian theatrical
Renaissance culture in France.
Keywords: Farce, Novel, Sottie, Secular Theater, Renaissance.
2
all’imprevisto
che ha guidato questa mia avventura
3
Indice
0. Introduzione
0.1 - Fonti documentarie e problemi.
0.2 - Limiti cronologici: sviluppo della farsa ed egemonia del modello comico italiano.
0.3 - Influenze tematiche e storiche in seno a novella e farsa.
0.4 – Italia ferum victorem cepit.
0.5 – Della utilità pratica di questo studio.
Avanguardie drammatiche e performative fra medioevo e Rinascimento
1.1 – Il problema dei generi e delle classificazioni.
1.1.1 – Il dibattito critico.
1.1.2 – Dati storici, repertori e reciprocità.
1.2 – Il problema della performance.
1.2.1 – Spettacoli come varietà drammatici.
1.2.2 – Funzioni “epiche” e moventi pratici.
1.2.3 – Modi della rappresentazione.
1.3 – Modernità estetica di farsa e sottie.
1.3.1 – Il teatro come espressione dello stereotipo.
1.3.2 – Drammaturgia in pezzi.
1.3.3 – Farsare, farcire, falsare o il teatro delle azioni.
1.3.4 – Intrecci brevi e complessi.
1.4 -Trepperel e la madre degli stolti. Due progetti editoriali.
1.4.1 – Le Jeu du Prince des Sotz fra disimpegno e politica.
1.4.2 – La stampa teatrale.
1.5 – Difficoltà di metodo. Inquinamenti, furti, prestiti, plagiat.
1.5.1 – Jeu de ruse demoniaco: la passione di Gréban.
1.5.2 – Un quadro generale della circolazione novellistica.
1.5.3 – Moduli ricombinanti.
7 10 15 18 21 24 24 35 44 44 49 60 70 70 77 87 99 104 104 112 124 124 130 140 4
Luoghi letterari, repertori e risorse novellistiche
2.1 – Forbici, mantelli, jeux de ruses.
2.1.1 – Esopet dà di matto.
2.1.2 – Divinità e tabarri.
2.1.3 – Chi sa il trucco non lo insegni.
2.1.4 -“Signali” rubati e un testamento eclettico.
2.2 – Gioie (e noie) del matrimonio.
2.2.1 – Pax familiae.
2.2.2 – Misoginia, appagamento erotico, mal marié(e).
2.2.3 – Professioni erotiche e mariti ciechi.
2.2.4 – Ostinazione ed educazione violenta delle mogli.
2.2.5 – L’autorità come oggetto scenico.
2.2.6 – Galanti, astuzie e parti prematuri.
2.2.7 – Altri tradimenti, nascondigli, travestimenti.
2.2.8 – Punizioni degli amanti.
2.3 – Millanterie guerriere e borghesi.
2.3.1 – Miles gloriosus e compagni civili.
2.3.2 – La corruzione dei preti.
2.3.3 – Niais, badin, stupidi, ignoranti.
2.3.4 – Falsi morti, aldilà, aldiquà, rêverie.
2.3.5 – Valletti, cerretani e chiacchieroni.
La fortuna dei vinti
3.1 – Circolazione di uomini, idee, pratiche.
152 152 159 163 168 179 179 186 193 201 206 217 229 238 245 245 252 258 268 272 284 3.1.1 – Due feste fra medioevo francese e rinascenza italiana.
3.1.2 – Invasione o festa viaggiante?
3.1.3 – Fra scenografia artificiale e naturale. Altre feste.
3.1.4 – Centro, periferia, Lione.
3.1.5 – Un’immigrazione di lusso.
3.1.6 – Lo spazio fra libri e memoria.
3.1.7 – Le commedie in libri.
284 291 300 311 321 328 332 3.2 – La strana vicenda delle tracce perdute dei comici italiani
345 3.2.1 – Concorrenza sleale: farsa o passione?
3.2.2 – Ipotesi bibliografica per una vicenda di censura.
3.2.3 – Confronto con i repertori gestuali.
3.2.4 – Propaganda politica e giochi da sot.
3.3 – Esterofilia per scelta: lo strano caso di Giovan Giorgio Alione.
3.3.1 – Un passato critico tormentato.
3.3.2 – Le stampe.
3.3.3 – Di alcune farse nell’Opera piacevole.
3.3.4 – Carattere dell’Opera piacevole.
3.3.5 – Qualche considerazione sui versi par signification.
Un tentativo di conclusione
345 360 371 382 398 398 404 409 427 434 442 5
Annessi
Tavole chirogrammatiche di Bulwer
Frottolette in factum
Graziano da Lucca
Bettuzzo da Cottignola
Simeone Litta da Milano
Tavola dei riscontri cronologici e tematici per le farse di Alione
Stampe di Francesco da Silva
Bibliografia
Repertori drammatici, favolistici e narrativi.
Repertori gestuali.
Bibliografici, storici, eruditi, specialistici.
Libro antico.
Edizioni critiche, saggi, studi.
Web.
Indici
Indice delle tavole illustrate.
Indice dei nomi e delle opere.
447 448 451 451 454 457 462 466 470 471 471 473 474 485 488 489 6
0. Introduzione
0.1 - Fonti documentarie e problemi.
In epoca positivista e fino ai primi anni del ventesimo secolo, la critica letteraria ha fantasticato sulle
antiche origini dei rapporti reciproci fra drammaturgia italiana e francese, cozzando da subito contro
un ostacolo insormontabile: la mancanza di un numero adeguato di fonti documentarie per il
periodo di poco precedente alla prima grande stagione teatrale italiana in Francia.
Tradotto in date ciò significa che ad onta di una rimarchevole abbondanza di fonti per il periodo che
va dagli anni ’30 e ‘40 del 1500 fino alla più matura fase di scambi ed imitazioni d’epoca manierista
e barocca, per gli anni compresi fra la fine del XV e gli albori del XVI secolo è problematico uscire
dal seminato delle poche fonti note ed accoglierne di nuove.
Si potrebbe obiettare che come nelle scienze esatte, anche in quelle letterarie sforzarsi ad osservare un
oggetto inesistente possa ingannare lo sguardo al punto di descrivere e dimostrare l’esistenza di
fenomeni illusori, o peggio, avvalorare artefatti concettuali per giustificare contesti o ipotesi non
meno artificiali.
Qui più che altrove bisognerà chiedersi in prima istanza per quale ragione si ricercano rapporti e
coincidenze fra due ambiti letterari “nazionali” che d’acchito sembrano negare ostinatamente, ancora
alle soglie del Rinascimento, comunanze esatte di mezzi e scopi drammaturgici. La risposta a tale
7
domanda coinvolge da un lato lo stato delle fonti documentarie e dall’altro lato più generali
prospettive storiche e critiche di qualità, insomma, “sistemica”.
Secondo una logica conforme alla storiografia teatrale tradizionale, quando si vogliano verificare
influenze e contatti fra due contesti performativi, le fonti verranno reperite sul territorio
d’accoglienza delle recite, le testimonianze dello spettacolo essendo di carattere ibrido, solo raramente
letterario, più sovente materiale o giuridico e pertanto legate al territorio in cui si è svolta la messa in
scena.
La presenza di determinate pratiche teatrali – di per sé effimere poiché sempre declinate al presente
dell’azione e sempre difficili da trasmettere ai posteri – può infatti trovare utili conferme nelle
cronache locali, negli atti ufficiali o nelle ricevute di pagamento delle varie professionalità che
concorrono alla realizzazione dello spettacolo.
Da questo punto di vista però, si è consumata nel passato una grande tragedia per l’oggetto dei nostri
studi, vale a dire la dispersione in un rovinoso incendio occorso al Palace de Justice nella notte fra il
5 ed il 6 marzo del 1618 di una grossa parte dei documenti in cui v’erano certamente informazioni
essenziali per descrivere con maggiore esattezza la parabola storica di quelle “compagnie di
bontempi” che a vario titolo gestivano lo spettacolo nella capitale francese e che in alcuni casi
avevano il privilegio di potersi riunire alla «Table de marbre» del palazzo. Fra la fine del 1400 ed il
primo 1500 è quindi pressoché impossibile una sicura verifica documentaria di eventuali maestranze
italiane assoldate dalla municipalità o dal regnante per l’allestimento dei fasti cittadini o delle recite
nobiliari.
La dispersione dei documenti ha lasciato largo spazio alla fantasia, specie quando s’è scoperto che le
fonti superstiti non restavano completamente mute sugli spettacoli e che esse (assieme ad antiche
opere storiografiche che poterono beneficiare dell’integrità degli archivi, è il caso ad esempio di un
trattato di Pierre de Miraulmont1) facevano filtrare notizie dell’intensa attività spettacolare nella
capitale, riportando anche radi fenomeni di collaborazione con maestranze “sceniche” italiane.
Non ci è dato supporre di più, ma il deficit documentario e le vaghe notizie sulla concreta
realizzazione degli spettacoli e sui rapporti con non meglio precisati «compagnons» italiani hanno
creato nella storiografia di questo ultimo scorcio di medioevo francese, una miscela esplosiva di
falsificazioni, infiltratesi poi facilmente fin nelle storie del teatro più recenti, nella progressiva
deformazione che sempre si verifica qualora si segua un principio d’approccio secondario alle fonti.
1
MIRAULMONT.
8
E tuttavia dobbiamo domandarci il perché di tanta ostinazione critica e perseveranza in negativo, dal
momento che l’avventata curiosità non può giustificare di per sé tutto un sistema. E qui veniamo alle
prospettive storiche e critiche, le quali, viziate da una visione evoluzionista, hanno avuto la cattiva
coscienza di mettere sul medesimo piano eventi spesso lontani nel tempo e soprattutto di applicare le
categorie dello spettacolo moderno (la troupe, la mercatura della scena, la Commedia dell’Arte,
l’improvviso, etc…) a quello che, pur con certi elementi di novità, nella Francia del periodo era
ancora un insieme variegato di linguaggi e tecniche medievali.
E non hanno contribuito a chiarificare questo scorcio di storia teatrale neanche quelle scuole critiche
che hanno cercato da entrambi i lati delle Alpi di rivendicare il primato di fenomeni spesso tutt’altro
che nazionali e che anzi proprio dal contatto fra cultura italiana e francese avevano ricavato temi e
forza espressiva.
Ma certo, in quella scuola storica positivista c’era anche molto di buono.
L’apertura degli studi in questo settore, innanzi tutto, che poggiava sulla stessa innegabile destrezza
bibliofila che dette vita ai primi felici tentativi di collezione integrale dei testi del primo teatro
comico francese. Ma soprattutto il lavoro di questi studiosi ci aiuta oggi a porre alcune domande
cruciali, che vorrebbero essere il centro di questo studio e che è bene mettere qui subito in evidenza,
in un elenco che sembrerà forse brutale, ma che ci aiuterà a dare una chiave di lettura ad episodi
apparentemente lontani fra di loro e dal processo di formazione dello spettacolo moderno.
Possiamo ammettere che le profonde relazioni fra spettacolo italiano e francese abbiano avuto inizio
solo nella seconda metà del 1500 e nel segno d’una radicale discontinuità col passato, e cioè in
quanto fenomeni di rottura con il Medioevo e di trapianto del pensiero moderno?
Non contrasta questa “scoperta subitanea” della drammaturgia italiana con gli intensi rapporti di
scambio culturale e letterario occorsi in altri ambiti fra le due aree geografico-culturali a ridosso del e
durante il Rinascimento?
In che modo un pubblico di gusto medievale poté accogliere istantaneamente il teatro italiano, se
esso era così lontano dal suo “gusto naturale” e dalla sua formazione culturale?
Possiamo ragionevolmente ammettere che nessuna manifestazione teatrale italiana ebbe luogo sul
territorio francese in un contesto di formidabile scambio transalpino in cui si distinguono fenomeni
sociali importanti come la presenza delle manifatture italiane a Lione o le guerre d’Italia?
9
Ed infine, come è possibile che un genere teatrale di largo successo come il teatro medievale profano,
abbia ceduto il passo così repentinamente alla pur potente novità italiana?
Le perplessità che talvolta governarono la fantasia d’un manipolo di bibliofili (soprattutto francesi)
del primo Novecento restano insomma valide ancor oggi: crediamo che sia importante porsi a
distanza di tempo le stesse domande irrisolte, anche se sulla base di quasi identiche fonti
documentarie, se non altro perché oggi strumenti di analisi come il confronto iconografico e la
bibliografia testuale (o “materiale”, come viene meglio definita in Francia) sono stati efficientemente
perfezionati.
Forse i nostri risultati sembreranno a tratti incerti o eclettici: per colmare le lacune documentarie si è
fatto ricorso a materiali e problemi diversi; a molteplici teorie sulle farse e sulla sottie, ad esempio, o
al confronto d’una stampa contenuta in un libro devozionale con alcuni repertori gestuali di epoca
successiva; ed ancora si sono presi in considerazione i dati principali sul generale flusso migratorio
italiano in Francia ed il contesto delle influenze fra la novella italiana e le forme del teatro profano
francese.
Elementi ben noti, almeno a chi si occupa degli studi di settore, ma che mai sono stati raggruppati in
un discorso critico unitario: quasi che il problema performativo della farsa non riguardasse che la
Francia o come se l’installazione del teatro italiano al di là delle Alpi avvenisse su un campo neutro;
ed i prototipi letterari di largo successo popolare (le novelle, i fabliau) non avessero nulla a che fare
con la nascita della nuova commedia.
0.2 - Limiti cronologici: sviluppo della farsa ed egemonia del modello comico
italiano.
La questione dell’egemonia del contesto teatrale italiano è fondamentale in quanto in essa si
concentra il problema dei limiti cronologici ad quem che assegniamo al nostro studio.
La storia del teatro registra tradizionalmente due eventi capitali per le relazioni teatrali fra l’Italia e la
Francia, o meglio, per stabilire il concreto inizio degli influssi in terra francese da parte della nascente
estetica della scena italiana.
10
Il primo, l’influenza della commedia di matrice umanistica ed erudita, che sarebbe iniziata a partire
dal 1548 quando La Calandria venne rappresentata a Lione per l’entrata di Enrico II e Caterina de’
Medici con il contributo anche di un importante interprete italiano, Domenico Barlachia2.
Il secondo è invece l’attività dei comici professionisti in terra francese, a partire dagli anni ’70 del
1500, con lo sbarco delle troupe comiche nostrane in Parigi ed il grande successo di Arlecchino sui
palcoscenici transalpini. Ciò va preso a caso esemplare quando si sottometta l’idea di influenza
particolarmente agli aspetti performativi del linguaggio scenico; ma se si ampliasse la visione al
complesso degli elementi che fanno lo spettacolo (ed alle singolari elaborazioni teoriche d’ogni
disciplina che vi contribuisce) gli eventi da rubricare sarebbero in realtà di più.
Rispetto alla formazione dell’idea di architettonica di teatro, ad esempio, il capitale De Re
Aedificatoria di Leon Battista Alberti risale ad un periodo assai precoce, il 1452: vide la luce a stampa
nel 1485 e a Parigi uscì ancora in latino nel 1512; bisognerà però attendere il 1553 per la prima
edizione in volgare francese, quella curata da Jean Martin ed uscita per le officine di Kerver, sempre
nella capitale. Per cui, sebbene l’opera ebbe una indubbia influenza nel pensiero architettonico
francese, solo durante la seconda metà del 1500 ebbe una reale applicazione nelle pratiche nella
scena.
Un altro intellettuale italiano, Giovanni Giocondo, lavorò intensamente in Francia aderendo al
programma culturale di Carlo VIII: la sua opera, il Vitruvius per Iocundum solito castigatior factus cum
figuris, fu stampata a Venezia nel 1511. Sebbene egli fosse pratico anche di argomento scenico, non
ci restano tracce di una sua eventuale attività in questo settore durante la collaborazione col circolo
del Cenacolo di Amboise: è d’altra parte certo che egli contribuì non meno di Alberti alla diffusione
di Vitruvio, dal momento che sappiamo che tenne lezioni sul teorico latino allo stesso umanista
Guillaume Budé. Più prossimo alle problematiche materiali della scena fu Il secondo libro di
perspettiva di Sebastiano Serlio, che però ancora una volta non vide la luce in Parigi prima del 1545.
È stata già ampiamente verificata da altri una contiguità fra le pratiche teatrali alte e popolari ed il
valore della trattatistica nel contesto spettacolare rinascimentale3: il momento artistico si identifica in
questo periodo quasi sempre con quello teorico. Già prima della nascita di una teoria “scientifica” del
teatro nel XVII secolo, l’approccio teorico è un valore integrante della prassi scenica ed il trattatista è
quasi sempre anche un artista: dunque sebbene il trattato abbia già in questo periodo finalità
2
3
BRANTOME, vol. III : pp. 256-258.
E. PARATORE, 1974 e F. MAROTTI, 1974.
11
documentative e di studio, esso presenta caratteri fluidi, spaziando dalla raccolta di appunti “in
opera” fino alla forma compiuta del “saggio”, contribuendo largamente alla formazione di idea di
teatro dominante durante tutto lo spettacolo moderno. Anche nel campo della trattatistica teatrale
possiamo facilmente verificare che i Discorsi del Giraldi Cinthio escono solo nel 1554 e che altri due
scritti teorici fondamentali per il teatro moderno, i Dialoghi di Leone de’ Sommi e la Poesia
rappresentativa di Angelo Ingegneri risalgono soltanto alla fine del secolo decimosesto.
E pensiamo pure alla biografia di personaggi ad “alto coefficiente teatrale”, come Sebastiano Serlio,
per il quale il periodo di residenza oltralpe coincide ancora una volta col quarto decennio del 1500:
ricevette l’invito di Francesco I a recarsi in Francia per partecipare alla costruzione di Fontainebleau e
alla fine del 1541 si stabilì con la famiglia nella capitale per poi approdare a Lione nel 1547 al seguito
del Cardinale Ippolito D’Este, ove per sei anni disegnò diversi progetti mai realizzati, ma soprattutto
si occupò nel 1552 degli apparati per l’entrata lionese del Cardinale di Tournon e realizzò i suoi
fondamentali Sette libri sull’architettura.
Tutti questi dati insieme cospirano insomma a confermare la data simbolica del 1548 quale limite
cronologico estremo per la nostra trattazione.
La formazione dell’idea di spettacolo nell’Umanesimo si svolge nell’ampio quadro di restituzione
dell’antichità come ideale di vita e cultura; tale movimento intellettuale subisce però un ritardo
d’esportazione nelle arti spettacolari: il teatro italiano moderno funzionerà come vettore culturale
internazionale del classico, ma in Francia avrà effetti reali solo più tardi, rispetto ad altre “più serie”
occupazioni umanistiche, come la filologia, la filosofia, la storia antica.
Prima di questo fenomeno di trapianto (che corrisponde storicamente al Rinascimento francese ed
agli inizi anche di una autonoma egemonia culturale transalpina) esistono tuttavia una serie di
elementi di contatto e scambio fra la cultura della narrazione italiana e quella spettacolare francese,
elementi che a nostro modo di vedere consentirono il successo oltralpe della scena italiana e che sono
i fenomeni oggetto del nostro studio.
Se si guarda all’evoluzione letteraria del teatro rinascimentale ci si accorge che lo sviluppo d’una
supremazia italiana fu anch’esso ancorato alla seconda metà del 1500, seppure il vero laboratorio
della drammaturgia fosse stato quello umanistico, che più precocemente fugò le incertezze sui generi
teatrali e si caricò dell’onere di fissarli in forme precise.
12
Già nel 1426 Leon Battista Alberti scrisse il Philodoxus; appena dopo comparse la Poliscena di
Leonardo della Serrata e cioè nel 1433, quando si verificava anche uno dei rari casi di performance
accademica documentata in periodo umanistico: Tito Livio de’ Frulovisi, allievo di Guarino Guarini,
che fra il ’33 ed il ’35 fece recitare ai suoi discepoli le commedie Corollaria, Claudi Duo, Emporia,
Symmachus, Oratoria.4 Mezzo secolo dopo, negli anni ’90, assistiamo alla comparsa della Chrysis di
Enea Silvio Piccolomini e dell’anonima Aetheria, stilate nello stesso periodo in cui Poliziano teneva le
lezioni sull’Andria di Terenzio5.
È un periodo esaltante, in cui la cultura umanistica, in particolare ferrarese, sembrerebbe aver
raggiunto un equilibrio perfetto nella realizzazione del retroterra classicheggiante in operazioni
spettacolari di alto prestigio: i volgarizzamenti di Terenzio e Plauto rimaneggiati ed adattati al
pubblico mostrano tutta la vitalità dell’antico attuando quel progetto di continuità col passato cui
tutto l’umanesimo anelava. Sulla scena la cultura classica si rendeva finalmente disponibile a
confrontarsi col presente: per comprendere lo scarto fra il contesto dello spettacolo italiano e quello
francese basti pensare che già nel 1486 i Menechini vennero messi in scena in onore di Eleonora
D’Aragona, andata in sposa ad Ercole D’Este. Si tratta della prima recita moderna con un “pubblico
di massa” e diversi altri eventi meravigliosi d’analoga portata si succedettero nella corte di Ferrara
fino al 1493; mentre alle medesime coordinate cronologiche in Francia l’interesse per la farsa da
parte dell’editoria ci fa soltanto presagire il successo di un genere che se da una parte già possiede la
coscienza della mercatura dello spettacolo e certi rudimenti linguistici che vedremo, d’altra parte non
manifesta ancora caratteri estetici regolari e grandi sforzi normativi.
In Italia a questo punto è già tempo per la stesura di Cassaria e Suppositi, cui segue l’innesto delle
tematiche novellistiche e boccaccesche nei nuovi testi drammatici: apice di questo filone
toscaneggiante e poi romano è naturalmente Calandra, di Bernardo Dovizi da Bibbiena, splendido
prototipo della nuova commedia, perfettamente teso in una letterarietà tutta teatrale, in cui alla
parola classica corrisponde sempre l’efficacia del gesto e dell’allusione attoriale. La risonanza europea
della nuova commedia italiana nella seconda metà del XV secolo è tale che oltre alla già citata recita
francese del 1548 se ne registrano anche imitazioni in altre lingue romane: l’Egloga de Placida y
Vitoriano del 1512 di Juan Del Elcina e la Propalladia del 1517 di Bartolomè de Torres Naharro. E
risalgono agli anni ’40 del 1500 anche le traduzioni francesi dei Suppositi: una in versi del 1545
4
5
R. SABBADINI, 1934; A. STAÜBLE, 1936; L. MARZARI, 1977.
F. DOGLIO, 1971; V. PANDOLFI e E. ARTESE, 1965; L. BRADNER, 1957.
13
firmata da Jacques Bourgeois (Les Amours d’Érostrate & Polymneste), un’altra del 1552 nella prosa di
Jean Pierre de Mesmes (La Comédie des Supposez, impressa a Parigi); mentre Jean de la Taille traduce
il Negromante nel 1573. Lorenzino de’ Medici scrive Aridosia, nel 1536: verrà rifatta in francese da
Pierre de Larivey, con il titolo de Les Esprits (uscita in raccolta nel 1579); o ancora registriamo il caso
di Alessandro Piccolomini, autore de L’amor costante, rappresentato per il seguito di Carlo V nel
1536 e poi de L’Alessandro, del 1544, messo in scena a Siena ed in Francia solo più tardi6 e
concludiamo con Gli Ingannati, di incerta attribuzione, che dopo un grande successo nella Penisola
valica le Alpi nel 1543, per la traduzione di Charles Estienne intitolata les Abusez.
Si sono contate ben ventuno traduzioni di commedie italiane circolanti in Francia fra il 1543 e
16117: la commedia letteraria italiana inizia insomma la sua “presa d’Europa” attorno agli anni ’30
del 1500, sebbene le sue origini affondino nel più antico rinnovamento culturale umanistico. Le
edizioni esportate sono soprattutto quelle dei torchi veneziani: la città lagunare, se non ha ancora un
primato nello spettacolo, è certamente uno dei centri più avanzati in Italia in fatto di stampa e
commercializzazione dei testi, ambito in cui si esprimeva a pieno la voga plautina e terenziana: solo le
officine di Pencio da Lecco e Zoppino pubblicano diversi volgarizzamenti in meno di un decennio (i
Menechini e l’Asinara nel 1528, il Penolo nel 1520).
In questo secondo scorcio del XVI secolo sono talvolta anche gli italiani all’estero che contribuiscono
alla diffusione della commedia italiana: oltre all’acerba attività dei comici professionisti esistono casi
di residenza (più o meno forzata) all’estero come accade a Luigi Alamanni, che, esule in Francia, si
dedica alla scrittura per le scene, facendo rappresentare a Fontainebleau nel 1555 una Flora poi
pubblicata in Firenze nel 15568.
Chiudiamo questa rapida rassegna con l’Angelica di Fabrizio de Fornaris, stampata a Parigi nel 1585,
quando ormai il panorama della commedia regolare ed umanistica italiana sfumava definitivamente
nell’esaltante stagione della Commedia dell’Arte: nuova arte e pratica dei catafalchi che inventerà la
“mercatura” del palcoscenico e lo spettacolo compiutamente moderno e che in terra francese si
installerà su tutto un contesto di generi profani, che scopriremo non dissimili, almeno nei principi,
dall’estetica del nuovo teatro professionistico.
6
M. ROSSI, 1910-11.
Per questa notizia e la seguente, si rimanda a M. LAZARD, 1980.
8
H. HAUVETTE, 1903.
7
14
La questione di stabilire invece un terminus a quo è più vaga, in quanto il contesto teatrale francese
profano occupa un periodo di circa cento anni compreso più o meno fra il 1450 ed il 1550, ma ha in
verità incerto cominciamento.
La più antica farsa a noi conosciuta è infatti quella detta del Garçon et de l’aveugle, che rimonta alla
seconda metà del XIII secolo; dopo di che, un lungo periodo di silenzio ci separa dal Pathelin, che
oltre ad essere l’esemplare senza dubbio più solido e moderno del genere è anche quello che ne
inaugura il successo. La prima stampa di questa farsa risale infatti al 1464, e l’opera fu probabilmente
concepita fra gli anni ’50 e ’60 del secolo: è solo l’inizio di una felicissima stagione di edizioni
profane che caratterizzarono il mercato spettacolare di Parigi e di Lione.
Inutile specificare che l’apparizione di una farsa nel XIII secolo e poi la comparsa di un vero
capolavoro dopo ben due secoli di silenzio è un fatto quanto mai singolare da cui si può desumere
che nelle province francesi forme analoghe di narrazione fossero ampiamente praticate, almeno in
forma orale, ma che esse furono consegnate all’eternità della scrittura (e poi della stampa) solo
quando approdarono dalla provincia al vero e proprio mercato culturale della capitale.
Per noi comunque resta prioritaria la data di impressione di Pathelin, soprattutto perché tale evento
lega la storia del teatro francese a quella della imprimerie, elemento fondamentale nell’ottica di una
analisi in chiave materiale dei testi profani.
Abbiamo allora chiarito i limiti generali del nostro studio: esso muove su un periodo compreso fra il
1464 ed il 1548 e trae la maggior parte delle informazioni da archivi e fondi francesi, secondo un
classico metodo storiografico teatrale, cui si aggiungono però l’analisi iconografica, bibliografica,
testuale. Rispetto all’area geografica, per via dell’abbondanza di fonti e dell’intensa attività editoriale
ci occuperemo soprattutto di Parigi, con poche eccezioni rappresentate dalle province caratterizzate
da particolari attitudini teatrali (Normandia, Piccardìa) o da felici rapporti con l’italico lato delle
Alpi (Lione).
0.3 - Influenze tematiche e storiche in seno a novella e farsa.
Inizieremo il nostro studio cercando di introdurre la farsa francese, genere pressoché misconosciuto
in Italia ma dal quale non si può prescindere se si voglia perseguire una seria prospettiva
comparatista, che esige la conoscenza di entrambi i contesti letterari e dei problemi ad essi connessi.
15
Nel primo capitolo parleremo pertanto del dibattito critico sul genere della farsa e su quelle che
abbiamo voluto definire “forme liminari”, sperando così di sottolineare gli esili pregiudizi critici che
hanno innalzato declinazioni farsesche come la sottie al rango di veri e propri generi. Sottocategorie
come i pois pillés, la parade, o la farce de collège sono per noi del tutto artificiali ed è importante
segnalare fin dall’introduzione la basilare continuità di tutte le manifestazioni spettacolari profane
francesi di questo periodo, che si differenziano fra di loro semmai da un punto di vista dialettale e
lessicale, ma che serbano astuzie estetiche sostanzialmente identiche.
A tal fine ci addentreremo nel denso dibattito critico che con fortune alterne ha segnato la lettura del
teatro francese medievale e nello stesso contesto forniremo utili informazioni di carattere storico che
possano aiutare il lettore ad orientarsi nella selva di temi comuni che verrà presentata nel secondo
capitolo intitolato alle “risorse novellistiche”.
Se l’analisi formale delle pièce comiche dell’ultimo scorcio di medioevo francese ci guiderà nella
valutazione più oggettiva possibile delle singole posizioni critiche e teoriche, nel capitolo dedicato ai
luoghi letterari effettueremo dunque un tentativo di schematizzazione dei temi narrativi scoprendo
che se una relazione diretta fra letteratura teatrale profana italiana e francese è pressoché
inintelligibile, esiste d’altra parte un complesso rapporto di reciprocità “in chiaro” fra la novella
italiana e lo spettacolo profano transalpino.
Le affinità fra due generi discreti come la novella italiana e la farsa francese (rispettivamente prosa
contro versi, trama scarna contro trama complessa, ambiguità psicologica contro “istinto
biomeccanico”, etc…) si riveleranno così per la loro effettiva natura narrativa e strutturale e ci
aiuteranno a descrivere una curiosa parabola storica in cui la circolazione di temi e di espedienti
linguistico-narrativi è come un pendolo oscillante fra i due lati delle Alpi.
Sappiamo che prima del nostro arco cronologico d’indagine la novella italiana si nutrì di molti dei
temi propri al fabliau francese: se il fabliau influenzò direttamente anche lo sviluppo della scena
francese, alcune farse mostrano chiaramente come talvolta gli schemi narrativi siano stati filtrati dai
novellieri italiani prima di re-inverarsi sul catafalco. Assunto che il fabliau ispirò la novella italiana
cercheremo di mettere in evidenza come quest’ultima ispirò a sua volta la farsa francese, seguendo
per questo il solco degli studi di Piero Toldo9.
La vivacità improvvisa con cui la commedia italiana fa il suo ingresso in Francia negli anni ’30 del
Cinquecento ha spinto molti studiosi sul difficile terreno di una retrodatazione del fenomeno, nella
9
In particolare due: P. TOLDO, 1895 e 1902.
16
convinzione che già prima dell’ingresso conclamato dei comici italiani nelle attività per la corte,
esistesse una precoce attività italiana: la nostra posizione non intende stabilire retrodatazioni ma
vuole porre l’accento sulla comunanza di interessi che si manifesta in questo periodo fra le due
letterature profane, ipotizzando che una delle chiavi del successo degli italiani in Francia sia questo
humus, o milieu, in grado di accogliere e far fruttificare la cultura del tardo Rinascimento italiano,
quella cioè più matura sotto il profilo teatrale.
Influenze reciproche che non coinvolgono banalmente solo le trame e le storie, ma che si impongono
pure sul piano delle forme e dell’organizzazione testuale: recenti studi dedicati alla farsa hanno
ampiamente dimostrato la possibilità che le sottie fossero dei contenitori narrativi atti a giustificare in
modo “metascenico” la successione delle farse in un varietà drammatico10. Erano esse parodie della
rappresentazione in cui si vedevano i sot ed i loro eclettici compari discutere delle pièce più in voga e
decidere quali rappresentare, prima di saltare nelle “maschere” di Jehan, Mahuet o Pathelin per
eseguire concretamente quanto annunciato poco prima in forma di sketch.
Questa organizzazione dello spettacolo consentiva con ogni probabilità di combinare il repertorio
delle farse in modo da ottenere “varietà scenici” sempre nuovi, e soprattutto favoriva uno sviluppo
modulare delle varie pièce, per lo più brevi e dalle fattezze eclettiche, spesso dotate di un senso
narrativo solo se accorpate ad altre analoghe azioni.
Su questa struttura per contestualizzazioni (che si avvale di strumenti linguistici assai moderni, i
quali talvolta sembrano tolti al teatro dell’assurdo contemporaneo) si possono fare due considerazioni
importanti: la prima, che essa somiglia moltissimo alla poetica dei lazzi della Commedia dell’Arte, in
cui la costruzione del movimento narrativo complesso (lo spettacolo nell’insieme) è l’accumulo di
pezzi precotti sulla base di un itinerario stabilito (il canovaccio); la presenza d’un repertorio – che fra
l’altro è avvalorata anche dalle pratiche di stampa – è un fatto singolare e significativo, poiché essa
informa il gusto del pubblico francese ad una specifica estetica e lo adatta in anticipo a cogliere le
future pratiche del repertorio italiano.
Non solo. La struttura modulare e la presentazione di micro-narrazioni in un insieme di più ampio
respiro è formula d’ampio successo proprio nella letteratura novellistica, che anche oltralpe trova in
Boccaccio – pure se in un Boccaccio tutto particolare, fortemente denaturato dalle traduzioni e dai
10
In particolare quello di B. REY-FLAUD, 1984. Nel corso della nostra trattazione forniremo ulteriori e più puntuali
dettagli critico bibliografici.
17
furti quando non mutilato e storpiato – non solo le trame, ma anche un sicuro modello di
riferimento strutturale. L’insieme solidale di farsa-sottie sembra insomma strettamente legato
all’estetica dei novellieri e per paradosso forme apparentemente discontinue fra di loro, presentano
più relazioni di quante non ne abbiano direttamente il contesto drammaturgico italiano con quello
francese.
Siffatta teoria d’insieme della farsa francese in rapporto con la letteratura dei novellieri costituisce il
centro della prima parte della nostra trattazione sullo spettacolo moderno e l’eredità medievale, nel
cui contesto cercheremo anche di valutare la giusta importanza del gruppo farsa-sottie nel processo di
formazione del teatro moderno.
0.4 – Italia ferum victorem cepit.
La seconda parte della trattazione è dedicata alla “fortuna dei vinti”, al successo cioè di quell’Italia
che, come recita il ritornello millenario, «ferum victorem cepit»; quell’Italia che, soggiogata dalle
potenze europee, si trasformò in campo di battaglia, ma che mantenne ancora a lungo un primato
fondamentale nelle arti e nello sviluppo del pensiero moderno.
Fortuna dei vinti: mentre una Francia che ha da poco consolidato la sua unità definitiva e superato il
nodo delle guerre di religione arma la letteratura (ed in particolare il teatro) per intraprendere la
battaglia pubblicistica antipapale ed anti-italiana, alla Penisola non restano che il pensiero raffinato
della rinascenza e le competenze delle sue celebri maestranze.
Nel rimescolamento sociale e nel continuo andirivieni fra Italia e Francia dei protagonisti di questa
stagione si celano forse clandestinamente anche i primi comici professionisti italiani: non troppo
diversi ancora dai cerretani e dagli imbonitori da fiera, diversissimi quasi certamente dai quei comici
che solo più tardi correranno in lungo ed in largo per le strade di Francia, ma forse già abbastanza
interessanti per battere Pierre Gringore nella competizione sul catafalco.
Siamo arrivati al capitolo dedicato a questo precoce autore teatrale francese, del quale si intende
ripercorrere le accidentate informazioni biografiche a nostra disposizione, ma soprattutto il solco di
una dimenticata teoria di Emile Picot, da noi completata usando un metodo iconografico già
sperimentato da Alba Ceccarelli Pellegrino.11
11
A. CECCARELLI PELLEGRINO, 1998.
18
Si tratterà di confrontare un’incisione misteriosa che compare in una rarissima emissione delle Heures
de nostre dame risalente al 1525, con tre celebri repertori gestuali, di Andrea De Jorio (MIMICA), di
Giovanni Bonifaccio (ARTE DE’ CENNI), di John Bulwer (CHIROLOGIA), per cercare di vedere in che
misura possa essere fondata l’ipotesi che Gringore abbia improvvisamente abbandonato lo spettacolo
parigino a causa dell’irresistibile successo di ignoti comici italiani.
Si obietterà che, essendo d’epoca successiva, tali repertori saranno inadeguati alla nostra analisi:
rispondiamo che la tradizione gestuale è di lunghissima durata in Europa, e che le tre opere hanno il
merito di ereditare una tradizione che affonda solide radici nella retorica antica, la medesima che
riscuote successo nella civiltà classicheggiante del Rinascimento.
In questo settore, imbattendoci e segnalando anche un errore del catalogo “opale-plus” della
Biblioteca Nazionale, speriamo di avere fornito qualche lume in più sulle affascinanti posizioni di
Emile Picot.
Utile sezione di questo secondo capitolo saranno alcune considerazioni sulla letteratura teatrale di
propaganda francese, che conobbe grande prolificità durante il periodo di “tradimento” di papa
Giulio II e in conseguenza del più generico sviluppo delle pressioni militari della Francia sul bel
paese: antagonismo fertile per la nostra analisi anche e soprattutto perché nel suo contesto si sviluppa
il caso del tutto singolare di Giovan Giorgio Alione, autore italiano che impegnandosi sul medesimo
fronte di Pierre Gringore e praticando anche ampiamente la lingua e la letteratura volgari francesi
rispecchia tutta l’ambiguità territoriale e politica dell’Italia nordoccidentale del periodo.
Notabile astigiano, Alione scrive farse per il “mercato” italiano e francese: siamo su un terreno non
accademico, popolare nel senso che Michail Michailovič Bachtin dona a questa parola. Egli non si
spinge oltre un gusto solo endemico per il maccheronico, banalizzando tale genere eminentemente
intellettuale: ma anche a dispetto d’una scarsa conoscenza del latino e d’una approssimativa cultura
letteraria12 le sue farse sono vivacissime nel linguaggio e polemiche nei contenuti, che sull’esempio
della letteratura farsesca sono di chiara derivazione novellistica. Altro aspetto che lo rende
interessante ai nostri occhi è la singolarità della sua esperienza drammatica, in un contesto
piemontese fatto soprattutto di misteri e sacre rappresentazioni.
Una curiosità letteraria, certamente, ed un caso più unico che raro, incapace di per sé di dimostrare
una significativa influenza “al contrario” rispetto all’italo-centrismo di certa critica risorgimentale ed
12
Questi dettagli d’uso del maccheronico in Alione sono studiati con precisione dall’edizione critica della Macarronea
resa da M. CHIESA, 1982. Per lo studio della produzione farsesca di Giovan Giorgio Alione ci siamo serviti dell’edizione
di Enzo BOTTASSO (1953).
19
anzi, secondo Enzo Bottasso – ultimo ad essersi dedicato all’insolita fama dell’autore astigiano –
originale modello a sua volta per alcune farse francesi.
Il caso di Alione resta tuttavia indicativo almeno di come i rapporti italo-francesi del periodo siano
ben più complessi di quanto non si creda ed in questo senso verrà usato nella nostra trattazione,
cercando al contempo di chiarire gli elementi di novità che egli introduce al genere teatrale profano
francese.
L’ultimo capitolo del percorso che qui inizia sarà incentrato sui dati fattuali della presenza italiana
oltre le Alpi: si riprenderanno a tal fine alcuni recenti studi sui flussi demografici e professionali degli
italiani in Francia, dedicati in special modo alla parte del XVI secolo che ci interessa, e ci si
concentrerà anche sulle relazioni editoriali, (di cui del resto si rende conto un po’ durante tutta la
trattazione, essendo l’analisi del libro e dell’editoria uno degli strumenti più potenti a nostra
disposizione per avvalorare congetture ed ipotesi, orfane, altrimenti, di dati probanti). A tal fine
trascriviamo anche lo spoglio dei fondamentali cataloghi Rothschild e Renouard,13 effettuato con il
fine di identificare le opere in cui si registri l’apporto di uno o più italiani.
Da questo spoglio abbiamo ricavato soprattutto un dato: che a dispetto della grande abbondanza di
intellettuali italiani nelle opere di storia, filologia, diritto, non registriamo in Francia prima della
seconda metà del XVI secolo la stampa di commedie umanistiche originali o di versioni di pièce
latine che pure nella Penisola avevano già conosciuto una messa in scena.
L’enigma non è complicato da risolvere: l’importazione delle opere in Francia si deve soprattutto
all’attività degli stampatori di lusso, unici ad avere accesso ad una rete internazionale di conoscenze;
il fine di costoro fu primariamente quello di colmare il gap culturale che esisteva fra l’avanzato
umanesimo italiano ed il contesto francese: privilegiarono così in un primo periodo soltanto quelle
opere che facevano parte della basilare dieta culturale dell’umanista (la priorità è data ovviamente alla
voce dei classici), per poi darsi più avanti nel tempo (col crescere di valore che acquisiva la letteratura
comica classicheggiante in volgare, originale o tradotta) anche alla stampa di prodotti più singolari.
Circolazione di libri e circolazione di uomini ed idee, appunto, fra personalità più o meno celebri
della intellighenzia italiana: dal fin troppo noto Leonardo da Vinci all’oscuro Betuzzo da Cottignola,
per analizzare la qualità di un flusso migratorio diverso da tutti gli altri perché fortemente
caratterizzato dal lusso, dal privilegio sociale e dalla specializzazione artistico-professionale.
13
Rep. RENOUARD ; cat. ROTHSCHILD.
20
In Francia gli italiani sono soprattutto manifatturieri e professionisti cui si dà accesso all’ambito stato
di bourgeois, chiamati a volte per mettere in atto lo sviluppo economico di una regione, attenti alla
tutela dei propri beni e pronti a chiedere esenzioni da importanti privilegi reali come il droit
d’aubaine, che eleggeva il re di Francia ad erede universale del morituro straniero.
Italiani sono gli artisti, le rappresentanze diplomatiche, i segretari di stato, una buona parte del clero;
italiane le manifatture di ceramica e seta e fortemente italianizzati sono centri urbani nevralgici come
Lione: il fenomeno dell’esportazione della cultura peninsulare e la polemica transalpina fra filo- ed
anti-italiani che si dipanerà fino ad oggi, conoscono un primo impulso proprio in coincidenza col
nostro periodo di interesse.
Solo in chiusura accenneremo appena al problema dell’esportazione della trattatistica architettonica e
cercheremo di delineare rapidamente gli influssi dell’architettura teatrale italiana specialmente a
Parigi.
0.5 – Della utilità pratica di questo studio.
Ma fermiamoci qui perché ci pare di avere già anticipato a sufficienza il percorso e gli intenti della
nostra trattazione e crediamo di avere impostato con questa introduzione almeno la lente attraverso
la quale chi legge dovrà guardare la vasta ed eterogenea quantità di informazioni che gli verranno
proposte.
Dobbiamo ammettere che (soprattutto per un lettore italiano) l’opera non sarà propriamente di
“facile beva”, almeno non nella sua prima parte, e questo non già per una intrinseca difficoltà
dell’argomento, ma perché, come si è accennato in apertura, nella maggior parte dei casi gli storici
del teatro italiano sono digiuni di questa letteratura certo minore se messa a confronto con più
autorevoli esempi drammaturgici, ma che come tutte le lettere minori può essere prioritaria nella
comprensione di fenomeni di più ampio respiro.
Chiudiamo ponendoci l’ultima e forse più cruciale domanda, almeno ai fini del buon successo di
questa lettura, in quanto sempre è lecito chiedersi in cosa si troverà utile l’opera che ci si accinge a
leggere.
L’auspicio (ed è ancora un auspicio diretto allo studioso italiano) è che si possa qui trovare, oltre che
un percorso generale sul teatro profano francese fra Quattro e Cinquecento, anche una ricca
21
bibliografia di base sull’argomento e utili dati storici sulla farsa per lo più introvabili nel lato
peninsulare delle Alpi e negletti anche dalle storie del teatro più puntuali.
Per lo studioso francese, invece, le novità di questa trattazione si spera risiederanno soprattutto nella
sua impostazione critica “ibrida” e nella ricerca di una più chiara organizzazione storica di una
materia ampiamente trattata in area francofona, ma quasi mai in prospettiva comparatista. E non
meno utili saranno anche le parti che abbiamo dedicato all’approfondimento della figura di Alione e
alla sintesi delle varie istanze critiche sulla farsa ed il suo linguaggio.
Detto ciò ci auguriamo d’aver reso un approccio il più possibile originale alla materia e che i principi
metodologici e le nostre posizioni storiche possano essere utili strumenti di ricerca anche per il
conoscitore più avvertito.
Ma di ciò solo chi legge potrà dire.
22
1
Avanguardie drammatiche e performative
fra medioevo e Rinascimento
Avvertenza
Trascriviamo i titoli delle farse cercando di adottare il più possibile quelli stabiliti nei principali repertori moderni e cioè
in ortografia “normalizzata” e formato sintetico. Tuttavia, quando ci sembrava utile, abbiamo fornito il titolo completo e
complesso dell’originale o indicato eventuali varianti.
In alcuni casi, abbiamo preferito mantenere elementi del titolo in francese medievale (chaudronnier che resta
chaulderonnieur; couturier invariato come cousturier…) quando ci sembrava che così facendo si potessero restituire ad un
orecchio italofono i giochi linguistici o il comico verbale.
Abbiamo tentato di trovare un compromesso fra le abitudini scientifiche più diffuse e la maggiore funzionalità per la
nostra trattazione. Del resto un criterio generale ed univoco di trascrizione delle farse non è stato mai stabilito: ad
esempio per i plurali alcuni studiosi conservano la z in luogo della s, nei nomi allegorici è incerto l’uso della maiuscola e
grande incostanza v’è pure nella trascrizione delle doppie consonanti. La stessa progressione numerica dei versi è assente
nelle principali raccolte.
Per i versi francesi adottiamo la maiuscola all'inizio d’ogni linea, così come è fatto dalla maggior parte degli studiosi,
benché nelle cinquecentine e negli incunaboli originali non si rispetti alcun criterio certo. In generale, tranne che ove
diversamente segnalato, per le citazioni dalle pièce teatrali abbiamo usato una o più trascrizioni moderne in cui
l’ortografia è già in parte normalizzata. La fedeltà all’originale e la coerenza dei testi sotto il profilo morfo-linguistico
dipende in special modo dalla data del repertorio in uso e dal suo più o meno spiccato scrupolo filologico.
Ove la trascrizione del testo è stata fatta da noi direttamente abbiamo indicato l’opera e la sua edizione originale a pié di
pagina ed in quei casi abbiamo tentato di mantenere il più possibile il testo così come si legge sul suo supporto antico.
23
1.1 – Il problema dei generi e delle classificazioni.
1.1.1 – Il dibattito critico.
Il primo problema di un approccio storico-critico al teatro francese fra medioevo ed umanesimo è
l’incertezza dei confini fra generi drammatici.
Si potrebbe obiettare che ad onta di una sempre utile necessità critica di categorie storiche e
stilistiche, le schematizzazioni della materia artistica e testuale sono sempre inadeguate al caso
specifico ed alla realtà letteraria, la quale esiste e si manifesta al di là, o a monte, dei paradigmi critici.
La questione dell’imprendibilità dei generi drammatici medievali non è però così ovvia, in quanto la
profonda diversità di questa letteratura dalle categorie letterarie del critico moderno coincide con la
differenza radicale dell’intero sistema culturale dall’attuale, specie nel settore delle discipline teatrali,
ancora “deregolate”.
Il nodo dei generi è tanto più stretto quanto più ci avviciniamo ai testi per la scena, le cui forme sono
imprendibili per definizione perché legate ad un dato artistico immateriale, all’ampio ed insondabile
campo dell’esecuzione performativa. Nella Francia a cavallo fra XV e XVI secolo lo spettacolo non
conosce ancora un sistema produttivo né si è costituito in forme estetiche coerenti; è per questo che
nella rappresentazione medievale ci permettiamo di parlare di avanguardia: non tanto col valore di
“frattura delle regole” che si usa donare a questa categoria critica (ma vedremo come alcuni abbiano
24
cercato e trovato – invero con alterna fortuna – nella sottie e nella farsa i prodromi delle avanguardie
storiche), ma intendendo all’opposto la libertà assoluta dell’autore drammatico alle soglie della
modernità. Libertà che trova moventi nell’assenza di forme autorevoli e che aiuta a costruire la scena
come linguaggio e codice nella selezione di molteplici possibilità espressive, per scegliere via via le più
adeguate al mezzo scenico.
Ecco allora in che consiste il principio di sperimentazione del teatro francese medievale alle porte del
Rinascimento: nella ricerca delle forme, attraverso il “carotaggio” più o meno consapevole dei
territori possibili della rappresentazione umana. Dalla farsa alla sottie, alla moralità, ai misteri,
l’espressione drammaturgica, quando esiste cambia forme, intenzioni, colori, toni, prescindendo da
ogni criterio di tradizione formale se questo non è a vantaggio dell’esecuzione materiale.
Non esistono forme stabili né dal punto di vista testuale (dramma) né da quello esecutivo, (modi
della rappresentazione) e la stessa vaghezza del genere letterario drammatico torna nelle pratiche
sceniche, che si confondono volentieri con le forme oratorie e del sermone o con le non meglio
precisate recite pubbliche di novelle, poesie o favolelli, quando non direttamente alle filippiche e alle
strofe degli imbonitori da mercato e degli incantatori della pubblica piazza.
Del resto finanche il ruolo del recitator1 rimane dubbio. Non siamo sicuri in quale misura il termine
implicasse davvero che qualcuno recitasse, ma sicuramente ciò non avveniva nel senso codificato
moderno (attore, palcoscenico, luogo deputato): le uniche verifiche certe di cui disponiamo per
conoscere le pubbliche recite rimangono le cronache o le note di scena interne al testo. Ma la
differenza di sensibilità dei cronisti di allora col contemporaneo, rende le già rare testimonianze di
performance spesso inutili, impegnate a descrivere particolari insignificanti, senza meglio precisare
quei dati dell’evento indispensabili allo storico del teatro per una lettura prospettica delle pratiche
sceniche.
Dove inizia la farsa e dove finisce il monologo? Che cosa è esattamente un mistero e cosa lo
differenzia dalla moralità? Come distinguere una sottie da una canzone e da un favolello?
Il totale disinteresse normativo da parte degli scrittori della fine del XV secolo e la disinvoltura con
cui applicavano tale o talaltra definizione alle loro opere non agevola l’impresa di rispondere a queste
domande. La difficoltà di stabilire classificazioni in un periodo come il crepuscolo del Medioevo è
1
Vi si fa menzione in numerosi testi comici di matrice classica (e particolarmente nella nota edizione lionese di Terenzio,
il Terentii Comoediae sex a Guidone Juvenale explanatae, uscita nel 1493 per i tipi dell’editore Trechsel con le incisioni di
un artista italiano, Jacopo del Badia), ma anche nei sermoni gioiosi, nei débat e nei monologhi.
25
congenita: l’idea di genere degli uomini e degli intellettuali del periodo è confusa, quasi sempre
lontana da criteri omogenei, in una parola asistematica. E così si può dire anche di numerosi
tentativi di classificazione dei generi da parte della critica.
De nombreuses sotties portent le nom de « farces », comme la Farce nouvelle fort joyeuse à trois personnages : le
prince, le premier Sot, le second Sot, la Farce nouvelle des Esbahis ou la Farce moralisée des Gens nouveaulx, etc. ;
il en est pareillement des moralités : celle de Bien mondain est appelée Farce nouvelle, fort joyeuse et morale,
celle de Vouloir divin de Guillaume des Autels – « dialogue moral », et, écho des modes nouvelles, celle du
Pape malade – « comédie », de l’Homme justifié par Foi de Henry de Barran – « tragi-comédie ».
Certaines pièces à deux personnages portent le nom de « dialogues », comme Beaucoup voir ou MM. de
Mallepaye et Baillevent, alors que d’autres de type semblable sont dénommées « farces », p. ex. la Confession de
Margot ou le Gaudisseur qui, du reste, est plutôt une sottie. Enfin tel monologue est, sans raison visible,
qualifié de « sermon », comme le grivois Ramoneur de cheminées, de « dits » comme Me Aliboron qui de tout se
mêle, « discours joyeux » comme les Friponniers ou encore Dyalogue (de Placebo) pour un homme seul.2
Tale è la confusione, che alcuni critici hanno rinunciato a priori ad ogni tentativo di classificazione;
gli stessi Louis Petit de Julleville, Gustave Cohen ed Eugénie Droz – fini conoscitori delle tematiche
dello spettacolo comico medievale ed apripista degli studi in questo settore – hanno accantonato
l’idea di un coerente sistema di classificazione delle pièce di questo periodo.
Si veda a tale proposito la polemica di Sergio Cigada con Lambert Cedric Porter3 sulla definizione di
genere letterario nel medioevo: in una recensione Cigada criticò il tentativo classificatorio contenuto
nel saggio la Farce et la sottie, sottolineando la naturale estraneità del periodo a categorie letterarie
moderne e suscitando la risposta di Porter, in difesa del diritto della critica contemporanea a generare
categorie ed indici. Siamo particolarmente interessati alla replica finale di Sergio Cigada in quanto i
principi generali che vi si espongono hanno informato il nostro criterio di analisi e crediamo aiutino
a comprendere anche da che punto di vista vadano osservate le teorie “sociali” e “politiche” sulla
farsa e la sottie.
«Storicamente […] alla fine del Medioevo non esisteva alcuna distinzione, né per gli autori né per il pubblico,
fra farce e sotie: le stesse opere si trovano in manoscritti diversi con i due diversi titoli, ovvero le due
denominazioni sono accomunate come un unicum semantico. Ora per noi questo fatto è sufficiente ad abolire
il dibattito: l’oggetto della critica non può che essere il concreto storico, ciò che esisté negli spiriti e nella
coscienza di coloro che operarono; ammesso che la distinzione in questione non esisteva per coloro che
operavano […].
[…] i generi letterari nascono dalla concezione classicista dell’arte, che è didascalica (e, infatti, il Porter si deve
preoccupare, nelle sue distinzioni, del contenuto sociale e del fine pratico cui rispondessero farce e sotie); o, nel
2
H. LEWICKA, 1974 : p.9.
Ecco i termini bibliografici della polemica: S. CIGADA, 1960a. La lettera di risposta di Lambert Cedric Porter con il
commento di Sergio Cigada è in S. CIGADA, 1960b.
Il saggio da cui muove la polemica è L. C. PORTER, 1959.
26
3
miglior caso, rispondono a distinzioni tecniche. Per questo secondo caso vale la risposta storicistica, per la
quale di fatto non esistono al XV secolo differenze fra farce e sotie, e la distinzione tecnicamente è
improponibile. Ma la questione di fondo, essenziale, sta nel concetto di una critica interpretativa e non
didascalica. Dalla concezione classico-didascalica dell’arte nasce, infatti, anche una concezione didascalica
della critica: di una critica cioè che impone ab externo schemi intellettuali entro i quali adattare le opere
storicamente date […] [che] può solo rappresentare una pretesa soggettiva di categorizzazione, sempre
controvertibile […]. Ora noi ci rifiutiamo a tale critica, che stimiamo razionalista e moralista, cioè legata ad
altre attività dello spirito (logico-razionali o pratico-morali) che non sono il proprio dell’arte. E affermiamo
viceversa una critica storicista e propriamente estetica, che, partendo esclusivamente dal concreto testuale,
tenda ad individuare non schemi generali, che non esistono se non come astrazioni statistiche, ma le leggi
proprie ed interne della singola opera, e l’evoluzione storica (di contenuti e di tecniche) che lega un’opera
all’altra […]. »4
Convinto come Porter che forma e strutture linguistiche siano fatti letterari concretamente
verificabili per costruire una nozione di genere, Omer Jodogne5 propone una divisione che impieghi
rigorosi criteri formali; ma i risultati del suo tentativo non sono meno nebulosi. Così nel suo
“sistema” vediamo appartenere ad un medesimo gruppo pièce distanti fra loro già ad una superficiale
lettura tematica.
Un’eventuale schematizzazione per generi non può non tenere conto dei contenuti delle opere al di
là del dato tecnico formale: Halina Lewicka “compensa” la propria rinuncia ad ogni tentativo di
schematizzazione sistematica suggerendo il criterio forse più efficiente; l’adozione, cioè, di coordinate
non unilaterali, flessibili ed adattate alle composizioni drammatiche quasi caso per caso, secondo il
buonsenso dello studioso.6 Così facendo si esce da ogni ambizione sistemica e classificatoria, per un
critica non didascalica, appunto, unica in grado di accordarsi allo spirito di questa letteratura e di
fornire ragionevoli interpretazioni anche degli immancabili “casi limite”.
È curioso che nella superfetazione dei tentativi di categorizzazione del teatro profano francese fatti
dal XIX secolo in poi, la falla metodologica più importante sia la totale assenza di una prospettiva
cronologica e geografica: il criterio evoluzionista ha creduto di descrivere a grandi linee una tendenza
generale di tutte le forme di espressione drammaturgica verso il testo teatrale moderno, senza troppo
preoccuparsi della differenza di contesti ed archi cronologici delle raccolte che costituiscono la base
dei repertori. Un periodo di attività comica di oltre cento anni e fortemente legato alle forme più
tradizionali del profano medievale è stato insomma considerato alla stregua di un blocco unico,
pressoché identico nel tempo, quando invece le osservazioni condotte su forme liminari più
4
S. CIGADA, 1960b : p.487, [corsivi miei, n.d.r.].
O. JODOGNE, 1969.
6
H. LEWICKA, 1974.
5
27
documentate – come i misteri – ne hanno messo in luce la fluidità ed importanti interferenze
estetiche col cambiamento dei contesti produttivi e del panorama politico anche locale.
Un menu détail qu’il faudrait ajouter ici, se rapporte à la chronologie. C’est que, si le nouvel art dramatique,
en quelque sorte l’Ars nova du théâtre, s’établit pendant la période 1450-1550, on ne pourra certes pas
assumer, gratuitement que, justement pendant cette éclosion nonpareille, aucun développement dans l’art du
théâtre, aucune évolution dans le savoir-faire, aucun changement dans le public ne se soit produit.
Je serais certainement avocat, ici, d’une différenciation dans le temps. Il est totalement exclu sinon hautement
improbable que, à partir des premières farces du début du XVe siècle, en passant par l’inévitable Pathelin
jusqu’aux farces conservées du début du XVIe siècle – voire plus tardives – aucun changement ne se soit
produit. Pour emprunter une similitude au théâtre religieux : si la Passion d’Arras, datant d’autour de 1435,
et la Passion de Valenciennes, de 1547, voire celle de Tournai (1552) racontent en essence la même histoire,
sa fonction et son impact diffèrent nettement (ne serait-ce qu’à cause du passage de la Réforme). Le public à
Arras en 1435 n’est certes pas celui de Tournai en 1552 prêt à discuter des subtilités théologiques, prêt à
affirmer qu’il veut un vrai Dieu et non un Dieu de « paste cuite ». De même, les sotties parisiennes sous Louis
XII n’ont pas de rapport nécessaire avec les sotties genevoises de 1523-1524 (dont la seconde devait avoir le
duc de Savoie parmi le public, mais il ne vint pas) ni, a fortiori, avec les sotties rouennaises d’autour de 1550
(et les sotties tardives lyonnaises […]).7
Il naufragio delle fonti a stampa è forse testimone di un’altra dispersione: quella delle più antiche
fonti manoscritte delle performance medievali che avrebbero potuto annoverare esempi di farse e
sottie già molto indietro nel tempo, soprattutto in ragione del fatto che fra gli incunaboli compaiono
alcune testimonianze di grande maturità estetica in contrasto con l’idea di un’arte nascente o
neonata, di un’ars nova.
Agli antipodi della rinuncia tout court ad una definizione di genere troviamo alcuni estremi tentativi
di sistematizzazione; in particolare quello di Ian Maxwell,8 il quale – a furia di cozzare contro le
irregolarità minime di ogni pièce – è costretto a ridurre la farsa a mero incidente drammatico non
lontano dall’idea di intermezzo, il cui fine principale sarebbe unicamente il riso grossolano; e quello
già citato di Lambert Cedric Porter, secondo il quale nel XIV secolo la farsa si sarebbe sostituita, per
così dire “naturalmente”, al ruolo sociale del fabliau.
Barbara Bowen,9 invece, con l’intenzione di corrodere l’estremismo di chi individua nella farsa le
forme ancestrali della moderna drammaturgia politica, preferisce parlare di un tentativo di resistenza
umana benigno e giocoso, con i tratti stilistici propri più del divertissement che d’una eventuale
“drammaturgia militante”. Ma se il metodo di Barbara Bowen è efficace nell’ottica di risanamento
degli anacronismi prodotti dalla critica “sociale” di marca marxista, il principale suo limite è che
7
J. KOOPMANS, 2004a : p.3.
I. MAXWELL, 1946.
9
B. BOWEN, 1964.
8
28
comporta l’esclusione automatica di tutte le pièce ove siano innegabili contenuto politico
“impegnato” e carica ideologica diretta o esplicita, il cui numero, specie nel periodo delle campagne
d’Italia, non è secondario.
Per cui adottando questo sguardo si deve escludere un numero consistente di opere (fra cui una delle
più interessanti proprio per la ricostruzione archeologica degli eventi spettacolari: il “varietà
medievale” de le Jeu du Prince des Sotz10 di Pierre Gringore) trasformando la farsa in un genere più
che minore e ponendo un problema di classificazione forse più grande per le residue pièce
ideologiche. Ed arriviamo ad uno dei problemi principali della critica degli anni ’60 e ’70 del XXI
secolo: è possibile parlare di critica politica per le innumerevoli pièce che presentano una dialettica fra
i personaggi stereotipati attinti da reali classi sociali? Pensiamo, ad esempio, al soldato fanfarone, al
prete corrotto, al venditore di indulgenze e al mercante cornuto o truffatore di cui la maggior parte
delle composizioni drammatiche di questo periodo è infarcita: si tratta di semplici stereotipi
narrativi? Fino a che punto è possibile individuare valori ideologici nello stereotipo? Come dobbiamo
interpretare le figure allegoriche che fra una capriola ed uno slancio a testa in giù attaccano la
Riforma o la corruzione clericale?
A nostro avviso tali domande sono importanti in sé, in quanto ci permettono di avere un approccio
problematico alla materia narrativa e drammatica, ma da esse è difficile ricavare una qualche risposta.
La chiave di volta del linguaggio comico è l’ambiguità e la continua confusione di prospettive fra la
descrizione consensuale della realtà, le sue declinazioni parodiche e la compromissione con lo status
quo: le incertezze sul problema della politicità più o meno manifesta ed intenzionale del comico si
perdono in questa contraddizione di partenza, che a ben guardare è ciò che “produce significato” nel
meccanismo drammatico “basso”. Per questo è ozioso cercare ad esempio un confronto politico nel
débat fra un servo ed un padrone.
Operazioni critiche rischiose come quella di Alan E. Knight,11 (che esagera la digressione sullo
sperimentalismo linguistico fino ad individuare relazioni fra farsa e moderno teatro dell’assurdo),
evidenziano l’esplosione cui le forme drammatiche medievali sottopongono il linguaggio, utilizzato
con audacia eclettica trasgressiva, in un procedimento dialettico fra arte e mondo.
Sotto un’ottica antropologica il ruolo del mondo dei folli è sovvertire quello dei savi, ma bisogna pur
considerare che la “corrosione del sistema” di cui si fa carico la follia nelle espressioni narrative e
10
11
P. GRINGORE, Le jeu du prince des sotz et mère Sotte…, Paris, s.d. (1511), (A. HINDLEY, 2000).
A. E. KNIGHT, 1971.
29
performative dell’età medievale è un metodo tutt’altro che antisociale di esorcizzare il disordine; il
quale, nella stessa organizzazione dei villaggi e della società “corporativa” del medioevo, è
contrapposto positivamente all’ordine sociale, che proprio attraverso la follia esprime la sua
irrinunciabilità. Il mondo al contrario nella società del medioevo è un elemento utile ed attivo, parte
della “dieta igienica” del sistema12 e non già un grimaldello contro lo status vigente.
Linguisticamente sposiamo l’associazione di Knight fra teatro medievale e avanguardie
contemporanee, in quanto questa ottica strutturalista è utile per una corretta lettura storica delle
finalità della farsa e delle sue forme liminari. Non si deve dimenticare, però, che lo spirito anarchico
della sperimentazione farsesca sussiste in quanto manifestazione linguistica ex-nihilo, a partire cioè da
una tabula rasa che rendeva necessario il “carotaggio” espressivo, come si è detto, delle possibili
forme: l’avanguardia del Novecento anche al di là degli esiti specifici vuol essere invece una forma di
contestazione politica opponendosi al sistema linguistico normativo preesistente.
Il successo delle forme profane del teatro medievale francese ha dunque sul finire del medioevo un
significato che si discosta e va allontanato dagli assunti e dalle problematiche delle avanguardie del
XX secolo che rappresentano invece forme consapevoli di contestazione del sistema delle arti e dello
spettacolo. Nondimeno quello delle farse e delle sottie è un riso feroce che attacca la corruzione e la
falsità di valori costituiti come il matrimonio e i legami di parentela, mettendo in luce la differenza
che sussiste fra le idee e la loro applicazione nella vita materiale, ma sempre in toni corrivi e generici.
Farsa e sottie se non una critica attivano un giudizio sulla realtà, ciò che contraddice anche chi (i
bibliofili francesi del XIX secolo) vorrebbe stabilire una prima generale differenze fra i due generi sul
piano dell’attenzione realistica; teoria sintetizzabile con la proporzione matematica
sottie : astrazione = farsa : realtà
Su questo tema torneremo, per il momento ci basti citare da Petit de Julleville.
Les limites des deux genres sont trop indécises. Trop de farces ont pu être jouées par des sots sans être tout à
fait des sotties, les sujets traités, les situations mises en scène dans les farces et dans les sotties sont souvent trop
analogues, pour qu'on puisse séparer les unes et les autres sans s'exposer à des redites et à des confusions.13
Le prime espressioni drammatiche letterarie francesi che mostrano una precoce e timida “politica
editoriale” si legano alla progressione culturale delle fasce sociali produttive, la cui visione del mondo
12
13
P. CAMPORESI, 1991.
L. PETIT DE JULLEVILLE, 1886 : pp.68-73.
30
è intessuta spesso di moralismo ed amaro pessimismo, con tendenze alla generalizzazione ed uno
sguardo distaccato, ironico, sulla vita politica e civile.
La fine della farsa dipenderà in larga parte dai due generi importati d’oltralpe e di cui nel nostro
studio indaghiamo le prime timide eco in Francia: la Commedia dell’Arte nel sostrato popolare e la
commedia italiana per quanto riguarda l’ambito alto dell’umanesimo.
La riforma del teatro francese non avverrà “per sostituzione”, ma in continuità con il passato, sulle
ceneri fertili dell’antico contesto del teatro profano farsesco.
Ciascun ipotesi classificatoria di farsa e sottie aiuta a chiarire aspetti particolari del fenomeno del
teatro profano, generando altrove deformazioni ottiche ed omissioni.
Il criterio di classificazione per contenuti ha come risultato insiemi piuttosto omogenei di
composizioni, soprattutto in virtù della ricorrenza e della resistenza di alcune tematiche (pensiamo al
marito tradito e alla vita matrimoniale o le varie composizioni processuali) ma tali svolgimenti sono
formalmente trasversali: il contenuto non vincola, insomma, qualità, consapevolezza della scrittura e
tecniche linguistiche adottate, se non in modo molto generico.
Una distinzione linguistico-strutturale delle pièce è parimenti insufficiente: secondo tale criterio la
sottie si avvarrebbe di un registro semantico più basso rispetto alla farsa, di cui sarebbe l’abbozzo
schematico. Effettivamente possiamo rilevare come nelle storie di sot i termini delle vicende si
presentino assai sommariamente e per lo più in modo astruso e fantastico, con grande ricorso ad
allegorie, in una forma chiusa, incentrata su cortocircuiti semantici in una ambiente completamente
autoreferenziale. Il linguaggio vi si presenta “in sé” e non è raro che il comico scaturisca da
scomposizioni secondarie di parole e frasi, “contrepèterie” e associazioni anarchiche fra significato e
significante. Ma sia la brevità che l’eclettismo verbale non sono di per sé dati classificatori sufficienti:
esistono infatti sottie molto lunghe e farse molto brevi, mentre la comicità linguistica caratterizza
sempre indistintamente entrambi i tipi di pièce.
E si è tentata anche la strada di un confronto sugli svolgimenti drammatici: se nella sottie l’azione
sarebbe per lo più inesistente o inconcludente, nella farsa si baderebbe maggiormente alla meccanica
della narrazione. Seguendo il modello realistico della novella e del favolello i personaggi farseschi
31
sarebbero parte di un tranche de vie pedissequamente imitato dalla realtà ed avulso da qualsiasi
giudizio su di essa.14
A questo terzo criterio si potrà obiettare come di fatto siano rari i casi in cui la farsa sviluppa
atmosfere e plot coerenti e che molte di queste composizioni – anche quando di larga circolazione e
successo – non avevano per trama che una secca e prolissa disputa fra matti, segno che la solidità
narrativa non era considerata un carattere fondamentale.
La realtà è che non esiste una vera distinzione fra farsa e sottie, che del resto riposano su identici
espedienti tecnici e motivi formali: fra di essi il più ricorrente e modellizzante è certo il comico
verbale, l’inversione, cioè, in senso anarchico e sovversivo, del linguaggio mediante l’uso e l’abuso di
figure del discorso; o, secondo Halina Lewicka «l’incompréhension d’une expression toute faite
consistant à délexicaliser une unité phraséologique, en ranimant le sens primitif de ses éléments».15
Questa figura del discorso è praticamente onnipresente nelle farse (in particolare in quelle che
contengono parodie giudiziarie e processi giocosi) e riproduce l’ossessione che la categoria mercantile
destinataria manifestava per la precisione del linguaggio delle formule giuridiche e contrattuali. Del
resto, la forma dialogica dei processi influenza tutto il teatro profano francese fra XV e XVI secolo,
ivi comprese le rappresentazioni che nulla hanno a che vedere con i temi tecnici della legge e del
diritto.
Il comico verbale è quindi una prerogativa di tutti i generi drammatici francesi di questo periodo: se
vogliamo accettare passivamente le definizioni che di volta in volta gli autori (per lo più anonimi) ci
consegnano nei titoli stessi delle loro opere, dalla processione al mistero, dalla sottie alla farsa, dal
fabliau alla parata è tutto un pullulare di fraintendimenti linguistici e di applicazioni dei principi
basilari della comicità verbale: da les Femmes qui font escurer leur chauldrons a Jeninot qui fit un roi de
son chat fino a le Savetier qui ne répond que chansons,16 le dichiarazioni di comico verbale interne al
titolo stesso delle pièce mettono in luce come siffatto espediente retorico fosse centrale in ambito
drammatico profano.
Nelle migliori prove estetiche della farsa il comico verbale ed il fraintendimento riescono anche a
creare un filo narrativo coerente; basti citarne una su tutte, Mahuet Badin17, dove il protagonista
14
È la posizione di Barbara BOWEN (1964), più avanti si vedrà come queste storie di folli contengano non di rado
personaggi e deus ex machina allegorici e come si basino su procedimenti formali antirealistici.
15
H. LEWICKA, 1974 : pp.68-69.
16
Rispettivamente in: ATF : t.II, pp.90-104 e t.I, pp.289-304; Rép. COHEN, n°XXXVII, pp.287-294.
17
Rec. LEROUX, t.III, n°10.
32
incaricato di vendere le sue mercanzie «au prix de marché» cerca al mercato un acquirente con questo
nome. Nella maggior parte dei casi, però, il comico verbale priva le pièce d’un vero e proprio
sviluppo: si pensi ai numerosi casi di proverbi in azione in cui la trama è solo un pretesto per la
messa in scena di espressioni idiomatiche. Esemplare la farsa degli Esveilleurs du chat qui dort18 che ci
mostra un gruppo di idioti intenti a svegliare un gatto, in un moto narrativo praticamente nullo.
Abbiamo visto che se è possibile individuare qualche gruppo tematico, tale operazione non è
sufficiente a tracciare confini precisi fra generi, in quanto ad un tema non corrisponde mai
esattamente un gruppo di artifici retorici. Il tema inoltre, si estende sovente a più gruppi diversi di
composizioni perché moralità, sottie, processioni giocose e farse spesso fanno riferimento ad un unico
patrimonio narrativo.
Impossibile anche stabilire una definizione di massima dei generi drammatici valutandone il livello
di aggressione polemica per le ragioni esposte poco sopra e perché gli atteggiamenti più o meno
antagonisti al sistema sono difficilmente ascrivibili ad un gruppo di composizioni formalmente
omogenee, ed è ozioso anche qualsiasi tentativo di schematizzazione attraverso la denominazione
delle pièce o la presenza o meno di un sot sulla scena.
Or s’il est vrai que la sottie est principalement peuplée de « sots » ou de « fous », ceux-ci ne lui appartiennent
pas en propre. Ainsi on trouve des fous dans les farces conjugales du Pauvre Jouhan, de Janot, Janette,
l’Amoureux, le Fol, le Sot, [et dans] Le Fol, le mari, la femme et le curé.
Les trois galants et Philipot que Picot a inséré dans son Recueil de sotties se rattache au cycle farcesque des
soldats bravaches et les Trois Coquins est de la même veine que la célèbre farce du Pâté et de la tarte où on a
également deux coquins, dénommés seulement « le premier » et le « second ». Des fous apparaissent aussi
dans les moralités et dans les épisodes comiques des mystères.19
Allo stesso modo non è dato per scontato che il personaggio allegorico qualifichi necessariamente
una moralità o una sottie: abbiamo infatti diverse allegorie inserite in temi tipici del teatro comico e
novellistico ed in pièce ascrivibili alla farsa o al teatro profano: è il caso di Sire Haine e Dame
Hainieuse,20 ma anche di Cauteleux, Barat et Vilain.21
Inoltre alcuni tipi fissi o nomi qualificanti (il caso tipico è Jehan con tutte le sue molteplici
declinazioni) sono talmente diffusi che nel leggere farse e sottie sembra sovente di passare da un
capitolo all’altro della stessa saga; un fatto che ci fa pensare ad un contesto scenico generalizzato, ad
18
Rép. COHEN, n° XXXIV, pp.269-272.
H. LEWICKA, 1974: pp.11-12.
20
Rec. MONTAIGLON – RAYNAUD, t.I, pp.97-110.
21
Rép. COHEN, n° XII, pp.89-94.
19
33
un orizzonte spettacolare molto compatto che rifugge da qualsivoglia rigida nomenclatura in forme
drammatiche precise. La trasversalità dei personaggi è totale e un nome noto può servire da punto di
rotazione d’una pièce, allo stesso modo che un incidente comico.
Possiamo prendere la Reformeresse22 quale esempio pratico di inadeguatezza di tutti i sistemi
classificatori del sistema farsa-sottie ed attraverso di essa mostrare la problematicità di siffatte
operazioni critiche.
Il tema della pièce – probabilmente realizzata per il mondo artigiano dell’imprimerie – è tutt’altro che
disimpegnato: vi si parla del ruolo dei torchi per la libertà d’espressione e li si associa alle volontà
riformiste (genericamente morali o civili, ma evidenti sono i rapporti anche con il protestantesimo).
Al movente vagamente erotico – un Badin che corteggia la grande signora – si affiancano in modo
rudimentale digressioni politiche e considerazioni morali.
Nell’opera compaiono elementi ritenuti tipici della sottie, come le “attrazioni biomeccaniche” qui
introdotte dal Badin, personaggio-prototipo a vario titolo stolto o faceto e protagonista indiscusso di
tutte le sotte aventure in farsa o parata che siano. Nel nostro caso avendo questi cantato una
filastrocca licenziosa sull’entrata dell’imperatore Carlo V in Parigi riceve i complimenti della
protagonista ed introduce anche il tema della farsa, che si configura come una sorta di elogio della
stampa – la grande Riformatrice, appunto – campionessa della propagazione delle idee, e per questo
lancia da brandire contro chi abusa del potere.
La lunghezza della composizione, che si attesta a 280 versi, è quella di una sottie,23 eppure le continue
allusioni all’attualità dovrebbero inserirla nel “casellario” delle farse: quando anche esse evidenzino
un certo “realismo” possiamo facilmente constatare che tutta la composizione fa in realtà ampio uso
di allegorie, ed anzi, è a sua volta una lunga allegoria. Protagonista è infatti Reformeresse con tanto
di lettera maiuscola, ciò che riporterebbe la composizione ai tratti della sottie. Il dialogo schematico
col suo procedere per battute monotone e senza movimento ricorda infine un’azione drammatica
semplice, un débat. Ed abbiamo così uno specimen della rete di paradossi in cui si incappa quando si
cerca di tracciare confini netti nel vasto territorio letterario della farsa e delle sue forme liminari.
Farsa e sottie erano solo secondariamente fenomeni letterari, ma il materiale testuale che le riguarda è
l’unica e più dettagliata testimonianza di quelle performance. Tali composizioni trovavano la propria
specificità non tanto nella qualità letteraria – nella maggior parte dei casi appunto deludente – ma
22
Rec. LEROUX, t.I, n°17.
Nulla ci induce infatti ad ipotizzare che la farsa sia incompleta: a nostro avviso l’ultima battuta suona esplicitamente
come conclusione, benché si può ammettere che lo svolgersi della trama rimanga ad uno stadio non soddisfacente.
34
23
nell’esecuzione concreta. Le definizioni basate su criteri rigidamente letterari sono sempre improprie
perché per una esaustiva e coerente divisione in generi si dovrebbe tenere conto delle condizioni di
realizzazione oggettiva degli spettacoli: dell’apporto concreto degli attori, dell’organizzazione scenica,
dei costumi, degli inserti meta-testuali (canzoni, filastrocche, proverbi e litanie) e delle eventuali
differenti “grane” interpretative. L’incompletezza delle trame o la loro smaccata ripetitività dovevano
essere ampiamente compensate da tali condizioni materiali.
Una classificazione che tenga conto di tutto ciò sarebbe l’unica davvero efficiente, perché
aggiungerebbe ai dati letterari e stilistici quelli più rilevanti della performance, ma purtroppo solo in
rarissimi casi è possibile stabilire con certezza le modalità di esecuzione in pubblico o anche soltanto
se le nostre pièce fossero destinate ad essere giocate. Le funzioni esecutive e metatestuali ci sono quasi
del tutto ignote: André Tissier, nel suo breve repertorio commentato di poesia drammatica francese
del medioevo è stato il solo a sentire l’esigenza di una minuziosa e seria indagine della farsa in quanto
fatto scenico, incrociando elementi interni alle farse letterarie, non senza, bisogna ammetterlo, alcune
considerevoli fantasie teoriche.24
1.1.2 – Dati storici, repertori e reciprocità.
All’interno della farsa è possibile scorgere le più disparate influenze formali e tematiche: dalla
letteratura popolare alla novella, dal dominio classico all’umanesimo, dalle leggende e storie tedesche
a quelle di area francese o italiana. Si tratta per lo più di influenze involontarie, ricordi lontani e
reminiscenze verbali scarsamente consapevoli. In prospettiva storico-critica questa varietà e
sovrapposizione dei generi crea altre sovrapposizioni ed incertezze.
V’è poi un problema quantitativo: il numero esiguo di composizioni che sono giunte fino a noi non
consente lo sviluppo di una casistica consistente, specie per quanto riguarda la sottie, la cui
composizione per lo più occasionale e legata ad altre forme di rappresentazione non è sempre pensata
per l’impressione seriale.
Ma cerchiamo di vedere sinteticamente qualche dato storico concreto.
24
Rec. TISSIER.
35
Il periodo di maggiore produzione di farse scritte è quello compreso fra il 1460 ed il 1530, ma
l’attività in questo settore si sviluppa su termini cronologici più largi, a dire fra il 1450 ed il 1550 ed
esercita una considerevole influenza anche sui primi tentativi francesi di commedia regolare.
Bisogna tenere conto della possibilità di una oscillazione dei due termini, in particolare del primo,
che può risentire di una più consistente imprecisione dovuta alla differenza di diffusione e
conservazione delle opere prima e dopo la stampa.
La maggior parte delle pièce a noi giunte proviene da sei importanti raccolte.25
1. Manoscritto La Vallière: 74 fra pièce comiche, sermoni gioiosi, moralità, sottie e 31 farse. La
prima edizione moderna si deve a Antoine Leroux de Lincy e Francisque Michel, con
introduzione ma senza commento (Rec. LEROUX).
2. Raccolta del British Museum (comunemente detta Recueil de Londres): la legatura dei testi è
moderna. Pubblicata con numerosi errori ed omissioni nei primi tre volumi di Ancien théâtre
françois (ATF, t.I-III) di Viollet-Le-Duc. Contiene 40 farse su 64 pièce.
3. Il Recueil Rousset del 1612 e il Recueil de Copenhague del 1619 sono stati ripresi e pubblicati
da Caron, Picot e Nyrop in più tranche nel XIX secolo.
4. Il Recueil de Florence, fu edito da Gustave Cohen con qualche nota critica nel 1949 e
contenente 40 farse (Rép. COHEN).
5. Il famoso Recueil Trepperel, edito fra il 1935 ed il 1966 da Eugénie Droz (TREPPEREL I, II e
f.s.). Tale edizione moderna ha riformato il settore di studi dedicati alla farsa.
6. Paul Aebischer ha trovato qualche farsa inedita pubblicata in modo sparso nel 1923
(FRAGMENTS) e nel 1924 (TROIS FARCES).26
7. Il repertorio Tissier fornisce utili ipotesi di ricostruzione materiale e letteraria delle
performance (Rec. TISSIER) ed i testi di pièce già pubblicate, riviste e corrette.
Contro la rinuncia a rigide classificazioni abbiamo già avuto modo di menzionare Barbara Bowen,27
specie per quanto concerne la supposta “inettitudine politica” della farsa: ma la studiosa inglese
sostiene comunque la “ragionevole” possibilità di definire un limite fra farsa e sottie, escludendo le
pièce particolarmente eclettiche e tenendo conto della possibilità che una categorizzazione – per
25
Rimandiamo alla bibliografia dedicata ai repertori delle pièce per l’elenco completo delle raccolte.
Di altre pièce sparse (alcune sempre pubblicate da AEBISCHER) renderemo conto di volta in volta.
27
Oltre all’opera citata sopra si veda la sua raccolta di saggi (B. BOWEN, 2004).
26
36
quanto si sforzi di essere completa – non collima mai esattamente con la realtà letteraria nella sua
interezza e che pertanto rappresenta sempre una scelta interpretativa di campo.
Il criterio di Barbara Bowen è “concettuale” e coinvolge più facce dell’imperfetto pentaprisma
comico: vorrebbe cioè informare gli aspetti stilistici, tematici ed onomastici in unico insieme di
parametri capaci di restituire un quadro completo della fisionomia drammatica profana: la farsa si
configurerebbe come un genere che aspira ad una visione “particolare” (o protorealistica) laddove la
sottie ha un anelito più “generale” (o generico, astratto, surreale).
Questo motivo del generale e del particolare viene in primo luogo applicato alla “qualità” (nel
metodo descrittivo) ed alla “quantità” dei personaggi: troviamo così una ulteriore distinzione, che
vede nella farsa uno scarso numero di individui meglio caratterizzati ed invece nelle sottie una
superfetazione di interventi a mo’ di parata giocosa e dunque uno sconfinamento nel superfluo a
danno del contenuto narrativo.
Nella farsa le “presenze sceniche” tendono effettivamente ad essere meno simboliche: da battute e
ambientazioni possiamo dedurre la loro condizione sociale ed economica, qualche abitudine, se
hanno moglie od attività commerciale, ma anche valori come la fedeltà o il danaro.28 I personaggi
delle sottie sarebbero molto più numerosi e designati da un numero, (segno di serialità), o da un
sostantivo che li intaglia in modo assoluto e monolitico, con maggiore propensione per figure fisse o
allegoriche e con interventi che non si reggono su alcuna direzione narrativa consequenziale.
Anche questo metodo, sebbene molto convincente, andrebbe preso con beneficio di inventario. Si
tratta infatti di un tentativo un po’ meccanico di costruire una “teoria del dramma medievale” in
coerenza con la visione storiografica evoluzionista che vede nelle forme premoderne dello spettacolo
un progressivo avvicinamento al teatro realistico e psicologico; teoria che come è noto si basa
sull’idea che si siano avvicendate nel tempo fasi successive di caratterizzazione chiaroscurale del
personaggio, in una evoluzione dai débat alla farsa alla Commedia dell’Arte fino a Goldoni passando
per Molière.
Dobbiamo fare attenzione a non adottare in assoluto questa prospettiva “modernocentrica”: assieme
alla sottie, cui è solidale, la farsa è e rimane un genere proto-moderno in cui l’incerta idea
drammaturgica è sottomessa alle tonalità “umorali” degli sghembi protagonisti che vi partecipano e
28
Se volessimo identificare i destinatari della farsa in un gruppo sociale non avremmo dubbi ad individuarli nella società
“medio-borghese”, professionale e mercantile, ma le attrazioni eclettiche dei farceur usano, di fatto, un linguaggio
opportunista ed universale che non limita le loro opere ad alcun settore della società in particolare. L’impressione è che si
verifichi una circolazione “ariosa” fra cultura “alta” e “bassa”.
37
ad una attitudine tutta scenica, dunque irregolare da un punto di vista strettamente letterario. Il
problema del realismo come fattore di evoluzione stilistica positiva è poi assai relativo e rispecchia
una visione delle cose “a posteriori”, filtrata cioè dall’idea di dramma moderno, senza tener conto di
mezzi e scopi di farsa e forme liminari.
Dalle pur acutissime posizioni della studiosa anglosassone si può mendacemente arrivare alla
conclusione che per temi, situazioni ed espressioni, la farsa costituisca un’importante anticipazione
della commedia. Noi cercheremo di vedere che farsa e commedia effettuano entrambe un riuso attivo
del patrimonio novellistico ed orale; tale è il dato che le avvicina, ma dal quale si dipanano anche le
differenze essenziali fra genere comico moderno e poesia teatrale medievale.
I personaggi grotteschi delle forme drammatiche francesi delle origini fondavano la propria esistenza
direttamente sulle pratiche del teatro (esecuzione, performance, gioco); si innalzavano cioè dal
marasma degli imbonitori da mercato per intraprendere le prime vere “professioni della ciarla”. Lo
stesso passaggio dalla forma orale alla stampa, avvenuto in questo periodo, implicava la nascita di un
qualche mercato dello spettacolo e la prima timida circolazione di una cultura della performance, cui
peraltro – viste le numerose edizioni, tutte di scarsa qualità, che ci sono pervenute – le nuove classi
sociali produttive manifestavano un singolare interesse.
Lasciano sperare in una più accurata ricostruzione del teatro comico medievale i tentativi
“strutturalisti” di Jelle Koopmans, che sta cercando in questi anni di adottare il medesimo metodo
sviluppato da Graham Runnalls29 per la storia del teatro religioso: si tratta di considerare ad un
tempo il contenuto testuale, le battute dei personaggi, le cronologie ed i contesti locali ed incrociare i
dati con una seria attività di datazione e bibliografia testuale.
La studiosa olandese considera la sottie (e non la farsa come è stato paventato fino ad oggi in
conformità col principio che mette la qualità dell’intreccio sopra ogni altra), come il contributo più
importante del teatro francese al dramma medievale, funzionante come una specie di cornice
“modulare” per l’esecuzione e la contestualizzazione delle farsa.
Lo statuto generico della sottie ha reso problematica una delimitazione precisa dei suoi rapporti con
la farsa: così le varie risposte e soluzioni che sono state individuate dalla critica a partire dalla fine del
XIX secolo non hanno addotto risposte chiare alla domanda su quali fossero le diverse funzioni
drammatiche dei due gruppi. Jelle Koopmans è convinta, e noi con lei, che sia superfluo tracciare
29
J. KOOPMANS, 2007 e 1997.
G. A. RUNNALLS, 1999.
38
una precisa linea di demarcazione fra sottie e farsa poiché la loro ragion d’essere sta in due diversi e
distinti ruoli in reciproca interferenza nell’economia dello spettacolo.
La sottie presenta delle formule narrative iper-generiche rispetto alla farsa: uno dei tratti caratteristici
dei giochi degli stolti è l'avant-jeu, per cui nel corso della recita i personaggi si domandano in una
specie di allegra parata quale sia il pezzo comico da recitare. Sotto questa luce la farsa prende la forma
del “teatro nel teatro” e la sottie quella di contesto “reale” per narrazioni “artificiali”: una cornice di
tipo novellistico per l’esecuzione d’una fiction scenica. La differenza cruciale fra farsa e sottie starebbe
dunque nella “sospensione dell’incredulità”: ove la farsa racconta una storia illusoria, la sottie
funziona da tessuto connettivo “metateatrale” dell’evento spettacolare.
Una nuova ed originale base teorica per lo studio dello spettacolo comico nel medioevo dovrebbe
essere sviluppata a partire da questi assunti, per precisare con maggiore attendibilità il ruolo che le
performance dovevano ricoprire nel contesto urbano e provinciale.
Farsa e sottie sono la manifestazione di un medesimo fenomeno letterario, prospettiva che anche dal
punto di vista dei personaggi viene confortata dalla quasi totale identificazione del sot con lo stolto
niais.
Certo, i sot sono figure proprie delle forme primordiali del teatro francese e nella loro specificità
comportamentale e drammatica hanno pochi corrispettivi non francofoni;30 ma la storia di queste
figure si perde nella notte dei tempi, essendo in sostanza la storia di un topos, quello del folle,
dell’insensato, del sacro imbecille: in un’epoca in cui la libertà di espressione era vincolata ai capricci
della municipalità o del signore o del re, il sot albergava in un mondo al contrario, dove potevano
prendere vita gli istinti e le parole non consentiti nella vita reale. Evidenziare i rapporti con il
30
A tal proposito leggiamo in Picot «D’Ancona (1891: t.II, p.206) relève pourtant en Italie des traces de la fête des fous»:
siamo andati a sfogliare la fonte e ci siamo accorti che anche il D’Ancona non fa che un breve accenno alle origini
francesi in Italia della festa dei pazzi e che pure lui a sua volta rimanda al “Bibliophile Jacob” (P. LACROIX, 1858). Una
congettura che dopo la consultazione del pure appassionante libro di Jacob ci rivela come sia sempre necessario dubitare
della critica ottocentesca: l’episodio di festa dei folli di cui si parla è legato alla rivoluzione e vide fra i protagonisti
dell’iniziativa André Chenier. Ma il fatto che nel 1800 ci fosse una tale pubblica rappresentazione non ha nulla a che
vedere, ovviamente, con la festa dei folli. Stupisce che il D’Ancona, nella sua assai minuziosa opera sulla nascita del teatro
italiano, abbia omesso di consultare tale fonte.
Nell’Europa del sud il successo delle feste dei folli fu molto inferiore: in Spagna abbiamo il personaggio del Bobo,
corrispondente al Badin francese, e sempre presente negli autos sacramentales; Torres Naharro riprende alcuni moduli
della sottie francese e li innesta negli introito con i quali cominciano le sue pièce. Anche qui non abbiamo alcun rapporto
fra l’introito e l’opera centrale: si tratta di scene burlesche dove un attore comico raccomanda l’attenzione degli spettatori,
condendo le battute con facezie di ogni tipo.
39
carnevale è superfluo, mentre è utile ribadire che il ribaltamento del mondo non risponde alle
ideologie sociali del XX secolo.
Diciamo quindi che il sot è una declinazione particolare dello stolto e che esso ricopre una funzione
nota a tutta la letteratura ed in particolar modo a quella novellistica e drammatica europea. Sulla
questione della politicizzazione delle pièce come criterio di nomenclatura Barbara Bowen non fa che
riprendere l’opinione ottocentesca di Emile Picot, secondo cui la sottie presenta una vena satirica,
inversa e critica rispetto alla realtà. Qualsiasi verve critica e sociale è qui debole, sfaldata, soggetta a
balzi narrativi improvvisi e ad una logica acritica ed opportunistica del derisorio, più che alla
costruzione di un vero impianto satirico programmatico.
Nella maggior parte dei casi, le sottie sono incoerenti ed indiscriminati attacchi a tutto e tutti: usi,
costumi e pratiche sociali sono sovvertiti e la presenza di episodi storici concreti è spesso depistata
dietro forme ed affermazioni oscure. Questo spirito anarchico è comune alla farsa che non esita mai a
mettere in scena una società inospitale e crudele, per lo più basata sulla competizione spregiudicata e
su una sorta di selezione naturale in cui non c’è differenza - se non negli specifici coefficienti di
idiozia e brutalità - fra la crudeltà burattinesca dell’avvocato e l’opportunismo del pastore; fra la
malizia del sarto, l’aggressività del cliente che lo bastona e lo spirito di vendetta dell’apprendista che
ha ordito l’inganno.
Che si voglia vedere in ciò una critica alla società oppure no, siffatto mondo di folli e sanguinari ruba
da un altro “genere” medievale francese piuttosto incongruo, la «fatrasie» o «fatras», il cui nome –
letteralmente “guazzabuglio” – sottolinea ancora una volta il dato della molteplicità ed
imprendibilità delle forme: si trattava infatti di una serie di pezzi rimati senza una vera relazione fra
di loro, compattati in forma di proverbi, motti popolari, o più semplicemente capitomboli e frottole,
smagliati in una imprendibile varietà metrica e con l’intento corrivo di far ridere il pubblico.
Secondo Emile Picot31 il fatras avrebbe dato origine a due tipi diversi di sottie: una destinata alla
recitazione all’interno dei concorsi di retorica e l’altra più espressamente teatrale. Ma al di là del fatto
che non ci risulta l’esistenza di una “sottie retorica”, una tale distinzione interna alla sottie è forzata,
essendo già difficile, come abbiamo visto, tracciare una linea di confine fra sottie, e farce.
A tale divisione Emile Picot ne aggiunge un’altra più strettamente legata alle pratiche teatrali. Da una
parte le pièce satiriche delle confraternite dei mestieri e delle bazoche, in cui la velleità verbale si
accompagnava ad un elemento corrosivo ed irriverente nelle figure dei capuchons de fous, prototipi
31
Questa e le seguenti considerazioni di Emile Picot sono nell’apparato critico di RGS.
40
comici delle maschere con orecchie da somaro e toga, riprese poi dalla tradizione corporativa e
goliardica. Dall’altra parte il modello base per la formazione del teatro professionale: saltimbanchi ed
imbonitori da fiera, le figure insomma più somiglianti a questi performer ante-litteram di cui
numerose sono le testimonianze nelle farse e nelle sottie. Lo studioso francese ricorda a questo
proposito la farsa dei Trompeurs trompés par trompeurs,32 in cui si raccontano le disavventure di un
gruppetto di «Enfants Sans-Soucy» cui vengono rubati i vestiti per vendetta.
Detto per inciso questa farsa di D’Adonville come per la Reformeresse basta da sola a mettere in
evidenza la paradossalità di ogni classificazione per generi, rivelando una volta di più che non esiste
un confine preciso fra favolello, farsa e sottie: ad onta di una storiella tutta farsesca, con un
riferimento preciso alle situazioni della goliardia parigina cui D’Adonville partecipò da giovane
(supposto dato realistico della farsa), vediamo che i personaggi non hanno alcuna caratterizzazione
nominale comparendo piuttosto come generici Trompeurs (supposto dato allegorico della sottie), dal
punto di vista formale, inoltre, manca ogni forma di dialogo, ma in compenso è presente un acteur
che parla in versi (modello formale del fabliau).
Ed anche nozioni sul mondo dello spettacolo parigino che fin qui sono state date per scontate (come
l’esistenza nelle varie città di gruppi teatrali dagli stili ben caratterizzati e costanti nel tempo e la
precisa regolamentazione corporativa di questi gruppi) sono in realtà da rivedere, dal momento che
dalle cronache del periodo gli Enfants Sans-Soucy si confondono facilmente con i membri della
“bazoche” e questi con i clerc della Sorbona.
[…] je dirai que des « solutions » comme la Basoche (difficile à circonscrire), les Enfants-sans-Soucy (qu’en saiton, en fait ?), comme les collèges (la Cène des dieux: « un des rares exemples que nous ayons de l’ancien
théâtre de collège » selon Eugénie Droz et Halina Lewicka), comme le peuple sont d’une part d’une trop
grande gratuité et soulèvent d’autre part d’insurmontables problèmes.
Les explications sont anciennes, en quelque sorte, et l’on a toujours cherché à faire rentrer les nouvelles
informations, les nouveaux textes, dans les rangs des « anciennes informations ». Il est temps, peut-être, de
procéder à une révision de ces vues.33
Seguendo la divisione proposta da Emile Picot, arriviamo ad un altro sottogenere di sottie
denominate secondo lo studioso jeu de pois pilés, più espressamente pensate per la messa in atto di
vere e proprie azioni sceniche o letture pubbliche.34
32
ATF, t.II, p.244-263.
J. KOOPMANS, 2004a : p.2.
34
RGS : t.I, pp.V-VI, n.
33
41
Da questa schematizzazione della critica tardo-positivista emerge una sola differenza fra i jeu de pois
pilés e la sottie di tipo “non performativo”: la divisione in strofe, che ancora una volta però non può
essere un elemento sufficiente di caratterizzazione.
Emile Picot in generale esagera con il suo tentativo di storicizzazione dei primi fenomeni letterari
drammatici in chiave rigidamente diacronica, ripetendo un atteggiamento mentale proprio del XIX
secolo: secondo tale opinione “evoluzionista” intorno al XIV secolo iniziò il tramonto della «fatrasie»,
superata dalla sottie, benché questo mélange insensato e giocoso si reincarnasse poco dopo sotto la
forma del coq-à-l’âne. Quest’ultimo “genere” si caratterizza ancora per il disinteresse al senso generale
della trama: l’espressione «sauter du coq à l'âne» equivale infatti in francese all’italiano «saltare di
palo in frasca». Dopo l’invenzione del coq-à-l’âne – prosegue Emile Picot – la definizione «fatras»
continuò ad essere utilizzata in particolare per le raccolte di opere poetiche brevi, la cui struttura
narrativa entrò a far parte di combinazioni casuali all’interno delle raccolte. Un esempio può essere il
testo di Antoine Du Saix che prende il titolo di Petitz fatras d’ung Apprentis, più noto sotto il nome
di Esperonnier de discipline;35 il primato della composizione del coq-à-l’âne è attribuito a Clément
Marot, ma Picot ci segnala come esista un esemplare di questo genere poetico di poco precedente: la
prima «epistola» di Marot a Lyon Jamet è del 1531 mentre Eustorg de Beaulieu pubblicò un coq-àl’âne nel 1530 nei suoi Divers Rapportz.36
Sono evidenti gli anacronismi nel discorso di Picot, che fa menzione anche di due ulteriori
declinazioni del coq-à-l’âne: quella politica e quella “provinciale” – detta «fricassée» – che si sviluppa
in Normandia e la cui caratteristica, oltre alla lingua intrisa di dialettismi, è l’inserimento nel tessuto
poetico di canzoni popolari, motti e detti (fatto che per quanto ci riguarda è assai comune pure nelle
farse e nelle sottie). E ci segnala così l’esempio più importante, la Fricassée crotestillonée (1557),
composizione giocosa ricca di formule infantili e canzoni tradizionali, da cui deriverebbero altre
forme più tarde e più espressamente teatrali come la Comédie des Proverbes (1633) e la Comédie des
Chansons (1640).
Emile Picot non solo sostiene la necessità di divisione dei generi, ma inquadra anche una serie
piuttosto precisa di sottogeneri e sottocategorie, tutte con la precisa intenzione di sviluppare una
evoluzione storica in continuum dello spettacolo medievale verso Molière. Innanzi tutto, ci dice, le
sottie si dichiarano tali nel titolo; in secondo luogo si caratterizzano per i personaggi, designati col
35
A. DU SAIX, l’Esperonnier de discipline, Lyon, O. Arnoullet, 1538.
C. MAROT, L’épistre du Coq en l’Asne, s.d.n.l., f.b5., (P. R. AUGUIS, 1824 : t.I, p.500) e Eustorg de Beaulieu, Divers
Rapportz, (M. A. PEGG, 1964).
42
36
nome di “sot”, “fou”, “galant”, “compagnon”, “pèlerin”, “ermite”; ed infine per la presenza di una o
più caratteristiche proprie della fatrasie.
Anche la processione giocosa viene giustificata nel medesimo plesso teorico: inserite in un più ampio
contesto festivo le sottie avrebbero progressivamente preso la forma di rappresentazioni pubbliche e
di piazza, diventando trionfi carnevaleschi e parate.
43
1.2 – Il problema della performance.
1.2.1 – Spettacoli come varietà drammatici.
Le farse contengono di tanto in tanto indicazioni di scena che segnalano una notevole attenzione
all’aspetto esecutivo sul catafalco. Cercheremo qui di vedere qualche esempio di indizio performativo
contenuto nelle pièce.
Nella Farce du pasté et de la tarte37 il Coquin si rivolge direttamente al pubblico, dichiarando le
proprie finalità mendaci in modo rapido, con uno scatto metateatrale degno di Shakespeare o
Molière; nella sconcia farsa delle Femmes qui font escurer leurs chalderons38 una serie di scenette e
metafore oscene è seguita da un consiglio diretto ai gentiluomini del pubblico: che non tralascino di
aver cura del calderoni delle mogli perché il nostro attore-riparatore è stanco delle attenzioni delle
donne d’altri.
La farsa delle donne Malle teste et tendre du cul – altro procedimento dialogico osceno improntato
per paradosso formale sulle forme della conversazione filosofica – esprime in più passi indicazioni di
esecuzione piuttosto significative, che lasciano intendere come la pièce fosse pensata per la
rappresentazione: non compare alcuna indicazione tipografica esplicita per marcare i cambi di scena,
37
38
ATF, t.II, pp.64-79.
ATF, t.I, pp.90-105.
44
è vero, ma in un passo del dialogo il marito taglia artificialmente la conversazione con un «Icy
concluons qu’il n’est femme | Qu’il n’ayt mal cul ou malle teste»;39 subito dopo si dà per scontata
l’uscita di scena dei due uomini e vediamo le due donne impegnate in una conversazione intima e
segreta. Più avanti la nota di scena “esce” dalla battuta e si fa esplicita: in un passo tragi-grottesco si
legge ad esempio il gerundio plorando. L’uso del latino per esprimere una attitudine scenica indica il
rapporto di queste composizioni “popolari” con la retorica, anche se più avanti l’enfasi gestuale è
delegata al language familier quando in una nota di scena per simulare uno scatto d’ira e di
disperazione si indica all’attrice di prendere il marito per il volto, o nei vari «en chantant», «en riant»,
indicati di fianco alle battute.
Per la fine del XV e l’inizio del XVI secolo la storiografia classica ha di solito distinto le
rappresentazioni straordinarie – organizzate ad intervalli irregolari da preti o borghesi che avevano un
approccio amatoriale e quindi occasionale alla scena – dalle recite “professionali”, che venivano
eseguite da veri mestieranti con maggiore regolarità.
Le prime erano eventi municipali, esecuzioni di misteri celebrati con pompa a rappresentanza delle
città, che concorrevano fra di loro per esibire fasto e prestigio, in un’ottica competitiva fra borgate,
confraternite ed unità produttive della città. Alla fine del medioevo il lusso delle scene e dei costumi,
il numero di personaggi e la durata dello spettacolo sembrano avere proporzioni sempre crescenti e
non esiste una vera differenza di investimenti fra la provincia e Parigi.
Le recite dei primi commedianti di professione (per lo più imbonitori di strada e cerretani) non
esigevano al contrario una particolare messa in scena: gli attori, sollecitati anche dalla mobilità e dalla
ricerca di piazze, avevano poche cose con loro ed i materiali di scena “da asporto” si riducevano a
qualche tavola in legno ed ai costumi, privilegiando l’utile al fasto.
In questo caso le rappresentazioni avevano una maggiore varietà di forme e moduli stilistici e le
attitudini performative della professione dell’attore divenivano decisive e compensavano in creatività
quanto mancava dal punto di vista materiale. Non si deve tuttavia pensare a due contesti distinti:
come sarà per il teatro “dell’Arte” l’ambito pubblico e quello professionale anche nel medioevo
francese spesso coincidevano ed erano permeabili; in Parigi ad esempio non era raro che alle
rappresentazioni delle municipalità partecipassero gli attori dei “faubourg”, come quelli “residenti”
alla rue saint Denis: il momento del festeggiamento cittadino era una sorta di zona franca in cui –
approfittando della provvisoria deregulation sociale che sempre accompagnava le celebrazioni – alle
39
ATF, t.I, pp.145-178 : pp.152-153.
45
rappresentazioni ufficiali potevano unirsi facilmente tutte quelle pratiche artistiche a vario titolo
legate al mondo del mercato, delle fiere e degli imbonitori.
Nei secoli si fanno sempre più numerosi i decreti parlamentari e municipali che attestano la presenza
di attività spettacolari di rappresentanza sia in Parigi che nella provincia; ma un dubbio sulla
crescente quantità di questo genere di fonti rimane: bisogna cioè chiedersi se la maggiore menzione
negli editti municipali delle “compagnie”, più che il segno dell’aumento del numero assoluto di
questi mestieranti dello spettacolo, non sia invece da imputare al progressivo consolidamento delle
istituzioni municipali e delle loro funzioni burocratiche e normative. Gli atti ufficiali presentano
inoltre un limite significativo: è impossibile trarne indizi sulla tipologia delle rappresentazioni o
sull’effettiva professionalità degli attori.
Le rappresentazioni delle confraternite si svolgevano anche al di fuori delle feste cittadine e spesso
erano organizzate per iniziative ed eventi legati alla vita privata dei confratelli: e capitava pure che le
sottie venissero eseguite dopo le cerimonie funebri: ne è testimone un passaggio del diario di
Poncelet, «Meusnier» di Troyes: «1545. Le Ier jour d’aoust, en ceste ville, le prince Gombault et ses
sots jouerent la galée, ou trespas du prince Mauroy, lesdicts autres sots trespassés; et ensuite
commencerent à jouer la sottise.»40
Le recite delle varie confraternite Sans-Soucy sono quelle che ci donano anche una idea di massima
sullo svolgimento dei cartelloni comici: eventi multipli con una scaletta che dalle pur scarse
testimonianze in nostro possesso la critica ha voluto immaginare rigidamente organizzata e che
invece sembra fosse assai variabile. L’unica regola di massima sembra fosse l’assemblaggio di più pezzi
drammaturgici in un varietà drammatico unitario: tranne qualche raro caso, insomma, le pièce non
erano composte per essere rappresentate da sole.
Secondo la visione classica della critica i varietà spettacolari cominciavano con una sottie e si
chiudevano con una moralità ed una farsa; l’elementarità e l’insensatezza dello sketch iniziale erano
caratteristiche perfette per l’apertura delle recite: il pubblico poteva sopraggiungere anche durante gli
spettacoli, senza aver bisogno di conoscerne il tema. Inoltre la facilità dei giochi di scena costituiva
una sicura attrazione per le platee, ed esercitava una funzione di richiamo del pubblico.
La moralità, centro dell’evento, era la pièce più complessa ed articolata; aveva un contenuto religioso
tratto più che dalle scritture, dalla tradizione popolare e municipale, e per questo non privo di una
certa verve d’intrattenimento comico.
40
N. DARE, 1882 : p.437.
46
In realtà sulla successione del programma non regna alcuna chiarezza: ed è vero che siffatto “varietà”
viene provato da una sola fonte storica certa, attendibile e non lacunosa; la rilegatura originale di
diverse pièce nell’unico volume del Jeu du prince de sots di Pierre Gringore. Ma non ci è dato sapere se
oltre alle recite municipali questa struttura venisse adottata anche in altri ambiti dello spettacolo e se
costituisse davvero un’aspettativa per il pubblico.
Se non siamo sicuri sul loro ordine di successione, tuttavia non ci sono dubbi sul fatto che i pezzi
drammatici fossero concepiti in abbinamento fra di loro, non foss’altro per la brevità delle pièce e la
loro frequente allusione allo svolgimento di altri spettacoli.
A prescindere se funzionasse o meno come cornice, un genere di ridotto respiro e durata come la
sottie doveva avere all’incirca gli stessi moventi dell’intermezzo del teatro di corte italiano: doveva
funzionare cioè da giuntura e snodo in un contesto scenico narrativo complesso e variegato.
La sottie era poi strettamente imparentata con le forme dell’”esibizionismo sociale”, meno
formalizzate, è vero, ma non per questo di minore influenza sul processo di formazione dello
spettacolo moderno: è il caso dei cry, i richiami dei mestieri o delle scenette orchestrate per la vendita
dei prodotti al mercato – formule da allibratori o da circo magico – di cui le sottie non di rado
riproducono parodicamente i toni.
Questa attitudine mimetica riscontrabile sia nella farsa che nella sottie è un’altra prova della labilità
d’una classificazione secondo criterio di realismo: la sottie, genere astratto, si mostra “mimetica”
quanto la farsa, cui invece si è tentato di attribuire – con una mostruosità storica oggi evidente – tutti
i tratti della letteratura borghese, con le rivendicazioni socialiste dei matti da una parte e la difesa dei
princìpi dell’ancien régime dall’altra.
Le pièce che si auto-qualificano sottie ricordano sovente il passaggio estemporaneo di vari “cerretani”,
in parate che non avevano alcun senso, se non quello di catturare gli sguardi, ma che evocavano
anche uno sconfinamento della vita nel teatro: dalla strada il mendicante o il venditore passava al
palcoscenico e vi entrava quasi per gradi, giocando all’inizio della rappresentazione a far propria la
piazza. Laddove un intermezzo eclettico è un fatto straordinario per un’avanguardia del Novecento,
che deve vincere contro il teatro borghese dominante e che usa il nonsense come strumento “agitprop”, la contiguità fisica con la piazza e l’inesistenza di una tradizione normativa rendono naturale
(neutrale) nella farsa dell’evo medio un simile procedimento.
Se poi esistono dei riferimenti precisi e reciproci fra farse e sottie, nella maggior parte dei casi le
allusioni non sono vincolanti e possiamo immaginare l’organizzazione di uno spettacolo come la
47
composizione di un puzzle, in cui ogni elemento può essere ricombinato con gli altri, nella
formazione di eventi spettacolari sempre diversi.
Anche le stampe antiche di un buon numero di pièce profane assecondano questa “logica modulare”
dello spettacolo: come nella raccolta Trepperel, esse erano impresse in fascicoli tascabili che potevano
essere accorpati a più riprese, a seconda probabilmente delle circostanze della recita e delle diverse
scalette da giocare. Eventi così implicavano spesso la realizzazione di raccolte come quella, appena
citata, del Jeu du Prince des Sotz di Pierre Gringore; si ha poi il caso della Moralité de Mundus, Caro,
Demonia la quale però ci è pervenuta rilegata soltanto con una farsa – quella, celebre, dei deux
Savetiers – e che si ipotizza fosse preceduta originariamente da una breve composizione poetica, forse,
appunto, una sottie.
Nel Journal d’un bourgeois de Paris al mese di aprile 1515 leggiamo le notizie sull’attività di un certo
mastro Cruche imbonitore di folle e performer dalla lingua biforcuta:41 il prete viene citato anche da
Pierre Grognet come uno dei più eccellenti attori-autori di farse del suo tempo.42
Il fatto ci interessa soprattutto perché da esso si evince una differente struttura dello spettacolo, per
cui la sottie non avrebbe altro scopo che quello di attrarre il pubblico. Secondo il nostro borghese,
alla scenetta dell’inizio seguirebbero un monologo o un sermone gioioso (che dovevano mettere di
buon umore gli spettatori) ad introdurre la moralità: la farsa viene menzionata per ultima ed avrebbe
lo scopo di chiudere lo spettacolo in allegria.
Questa cronaca aggiunge al cartellone la recita d’un ulteriore modulo, il sermone gioioso o il
monologo, e cambia la successione degli eventi, allontanando reciprocamente la rappresentazione
41
« En ce temps lorsque le roi estoit a Paris, y eut un prestre qui se faisoit appeler monsr Cruche, grand fatiste, lequel, un
peu devant, avec plusieurs autres, avoit joué publiquement a la place Maubert, sur eschafaulx, certains jeux et moralitez,
c'est assavoir sottye, sermon, moralité et farce; dont la moralité contenoit des seigneurs qui portoient le drap d'or a credo
et emportoient leurs terres sur leurs espaules, avec autres choses morales et bonnes remonstrations. Et à la farce fut le dit
monsieur Cruche et avec se complices, qui avait une lanterne, par la quelle voyait toutes choses, et, entre autres, qu’il y
avait une poule qui se nourrissait sous une salamandre : laquelle poule portait sur elle une chose qui était assez pour faire
mourir dix hommes. Laquelle chose était à interpréter que le Roi aimait et jouissait d’une femme de Paris qui était fille
d’un conseiller à la cour de Parlement, nommé monsieur le Coq. Et icelle était mariée à un avocat en parlement très
habille homme, nommé monsieur Jacques Dishomme, qui avait tout plein de biens dont le Roi se saisit.
Tôt ou après le Roi envoya huit ou dix des principaux de ses gentilshommes, qui allèrent souper à la taverne du Château,
rue de la Juifverie; et là y fut mandé, à fausses enseignes, le dit messire Cruche, faignant lui faire jouer la dite farce; dont
lui venu au soir à torches, il fut contraint par les gentilshommes jouer la dite farce; par quoi incontinent et du
commencement, celui-ci fut depouillé en chemise, battu de sangles et merveilleusement et mis en grande misère. A la fin
il y avait un sac tout prêt pour le mettre dedans et pour le jeter par les fenêtres, et finalement pour le porter à la rivière; et
c’eût été fait, n’eût été que le pauvre homme criait très fort, leur montrant sa couronne de prêtre qu’il avait en la tête; et
furent ces choses faites comme avouées de ce faire du Roi. »
L. LALANNE, 1854 : pp.13-14.
42
Pierre GROGNET, la Louange et excellence des bons facteurs qui ont composé en rime in Motz dorez du grand et saige
Cathon, Janot - Longis, 1533 : t.II, ff.22r-24v.
48
della farsa e della sottie: ciò che è in contrasto con la rilegatura del Jeu di Gringore. Tuttavia il pezzo
iniziale del Jeu di Gringore, incluso nella sottie, è un cry, appello per far accorrere pubblico e sot ed è
costruito sui moduli formali dei vari sermoni da strada.
Un altro cronista e storico del periodo, Jehan de Roye, ci riferisce come per la pace di Arras del 23
dicembre 1482 il cardinale di Bourbon avesse commissionato nelle sue abitazioni parigine una
moralità, accompagnata da una sottie e da una farsa,43 cartellone più vicino a quello del Jeu di
Gringore, ma rispetto ad esso più esiguo.
Si direbbe che le testimonianze appena scorse sono lì a mostrare semplicemente come le messe in
scena fossero fatte di registri variabili e che difficilmente uno spettacolo poteva comporsi di una sola
pièce, trattandosi piuttosto di menu articolato su molteplici registri: si potevano inserire farse e sottie
senza alcun legame con il centro dell’evento e con una grande disinvoltura nella successione e
nell’alternarsi dei vari episodi performativi.
Da qui a cercare di individuare una pratica comune a tutti i menu o varietà medievali la strada è in
salita, vista l’esiguità delle fonti che non autorizza statistiche attendibili: bisogna chiedersi se non sia
allora un errore il voler individuare una prassi rigida nella successione degli spettacoli.
1.2.2 – Funzioni “epiche” e moventi pratici.
La fama storica dei sot risiede probabilmente nell’abilità esecutiva di pezzi “acrobatici”. Durante
misteri e moralità non è raro vedere alcune loro sporadiche comparse: può accadere sia per fornire
informazioni al di fuori della finzione (in una momentanea “sospensione della credulità”), sia per
appelli diretti allo spettatore.
Rileviamo allora un dato fondamentale, e cioè che questa particolare categoria di imbecilli scenici –
che si differenziano dai niais soprattutto per una certa carica enigmatica ed una ridotta attitudine ad
orchestrare tranelli e jeu de ruse – possiede un buon coefficiente di freddezza scenica, che con
anacronismo brechtiano potremmo nominare “epica del ruolo”: il sot è un personaggio esterno alla
narrazione. A differenza del niais, non attiva nessuna machine à rire e può servire da supplemento
esterno, didascalia o segno marcato di finzione. Questa natura straniante del sot è più evidente nei
43
L. PETIT DE JULLEVILLE, 1886 : p.343.
49
pezzi seri: troviamo per esempio “figurini biomeccanici” nel mistero della Passion de Troyes o nella
moralità di Saint Bernard de Menthon.
Le comparse “fuori contesto” assecondano una pratica scenica probabilmente consolidata: sappiamo
che a Parigi i sot partecipano alla “cultura scenica ufficiale” e li vediamo prendere parte agli
allestimenti delle confraternite della Passione. Si registrano per esempio lazzi di sot nelle
rappresentazioni sacre e profane donate all’Hôpital de la Trinité, all’Hôtel de Flandres ed all’Hôtel
de Bourgogne, fino all’installazione in pianta stabile di una non meglio precisata confraternita
“sottesca” in una casa detta dei Sotz Attendans, in Parigi, rue Darnétal.44 Si aggiunga anche il caso del
mistero di Saincte Barbe45 dove i sot subiscono una mutazione rustica, diventando niais impiegati a
stemperare i toni drammatici e riportare l’azione ad un contesto triviale. In questi casi di ibridazione,
fra l’altro molto comuni, si possono scorgere talvolta i riflessi della satira rusticale, modulata a partire
dalla commedia latina e dalle atellane e che possiede molti tratti in comune con lo spirito sovversivo
del medesimo personaggio presente nella pastorale italiana o nell’attività ben più corrosiva di
Ruzzante. Questo esercito di niais, sot e Jehan si trasformerà, con spiccata assonanza, nello
“stoltoastuto” Zanni (Giovanni | Gianni) italiano.
Nel mistero di Saint Adrien,46 rappresentato nella seconda metà del XV secolo in area fiamminga, la
metamorfosi sembra essere già avvenuta e vediamo il catafalco popolarsi di paesani incolti, i Rustieur.
La linea di sovrapposizione con la pastorale viene confermata anche nella Incarnation et Nativité de
nostre Saulveur et Redempteur Jesuchrist,47 mistero di area rouennese probabilmente realizzato nel
1474, dove il ruolo del pazzo è ricoperto appunto da un pastore: sappiamo del resto come la poesia a
sfondo villanesco funzionava frequentemente come cornice per storie di più impegnato orizzonte
morale. Tutti questi casi di ibridazione dimostrano da una parte come sia quasi impossibile
distinguere un sot da un niais e come questi personaggi eclettici si prestino particolarmente ad
assolvere funzioni intermediali nell’economia degli spettacoli: quando non si tratta di presenze
44
Oggi rue Greneta, nella parte che collega la rue St. Martin con la rue Saint-Denis. Nomi antichi della via sono rue
d’Arnetal ou Darnetal, Dernetat, Drenetat, Darnestat. Darnetal, è parola normanna che designa un vallone:
l’installazione successiva sulla strada di un grosso granaio e di un commercio di semi sono all’origine dell’attuale
toponomastica. La rue Darnetal veniva anche chiamata rue de la Trinité a causa della vicinanza con l’Hôpital de la
Trinité che venne edificato sotto Filippo-Augusto e che durante il regno di Francesco I era stato convertito nella “Cour
de Bleus”, collegio per l’istruzione professionale degli orfani. La sala più grande della Trinità fu trasformata in teatro dai
Maîtres Gouverneurs e dai Confrères de la Passion et Résurrection de Notre-Seigneur: per circa un secolo questa zona di
Parigi fu lo scenario di misteri, farse e moralità.
45
M. LONGTIN, 1996.
46
E. PICOT, 1895.
47
I. M. FANGER, 1972-1973.
50
parlanti, i sot esercitano semplicemente le loro attitudini “biomeccaniche” sulla scena, a stemperare
l’azione drammatica delle vite dei santi o delle imprese religiose.
In un passaggio della farsa del Bateleur48 il protagonista invita il valletto ad imparare i suoi salti.
Sus! faictes, le sault: hault deboult;
Le demy tour, le souple sault,
Le faict, le defaict, sus! J’ey chault,
J’ey froid. Est il pas bien appris
En efect? Nous avrons le pris
De badinage, somme toute.49
Lo stesso Jehan d’Abundance introduce nella Moralité, Mystere et Figure de la Passion de nostre
Seigneur Jesus Christ giochi fisici e lazzi: nella pièce compaiono ben cinque intermezzi eclettici, ed è
significativa l’esistenza di una distinzione interna al mistero fra azione comica ed azione seria, segno
di un cosciente dispositivo di dosaggio dei pezzi comici, a dimostrare come almeno nel panorama dei
misteri l’attenzione degli autori fosse focalizzata sul gradimento del pubblico.
Anche nel primo teatro moderno italiano l’intermezzo funziona come un importante territorio di
sperimentazione scenica, incoraggiata dalla libertà propria del ruolo funzionale di questi nell’evento
scenico; e dai modi dell’intermezzo “manierista” prenderanno forma il teatro musicale e la pastorale.
Non ci sorprende pertanto che le composizioni “interstiziali” del teatro comico francese (che
convenzionalmente continuiamo a chiamare sottie, ma che a seguito delle considerazioni fatte fino ad
ora sul problema di genere potremmo anche definire “farse brevi”) fossero quelle in cui la
sperimentazione ricopriva un ruolo centrale. Tali intermezzi, caratterizzati nella scena italiana da una
forte tendenza plastica e figurativa – il cui apice sarà nel XVII secolo la messa a punto della
scenotecnica moderna – sembrano delegati in Francia interamente all’abilità dell’attore, con modalità
che somigliano straordinariamente a quelle della commedia professionale italiana.
Leggiamo sovente nell’opera di Jean D’Abundance indicazioni di scena come queste: «Icy faut une
passée de sot, ce temps pendant qu’ilz vont devant Moyse», «Icy faut une clause de sot, ce temps
pendant, que Nature va devers le Prince»,50 che sottintendono la presenza se non proprio di un
repertorio, di un certo margine di convenzionalità nella definizione di ruoli e personaggi.
48
Rec. LEROUX, t.IV, n°17.
Con un ottimo commento introduttivo anche in Rec. TISSIER, t.II, pp.185-228.
49
Ibidem : p.195.
50
Jehan d’ABUNDANCE, Moralite mystere et figure de la Passion Jesus Christ, Benoist Rigaud, Lyon, s.d., (XVI sec.).
51
Queste testimonianze mettono in risalto come – sebbene in seguito la Commedia dell’Arte impose
forme, modi e pratiche in Francia con ascendente senza eguali – la cultura scenica d’oltralpe fosse
pronta a recepire la drammaturgia del lazzi proprio perché verso la fine del medioevo si era già
formato un pubblico abituato a consumare questo tipo di performance. Certo è che da un approccio
occasionale, la Commedia dell’Arte traghettò lo spettacolo ad una dimensione più espressamente
commerciale, slegata dalle feste.
Basta una lettura anche superficiale per constatare come le sottie fossero una miniera di battute, salti e
capriole: le parole «sot» e «saut» sono frequentemente usate per fraintendimenti e giochi linguistici
basati sull’ambiguità fonetica: la casistica di questi divertissement verbali è tale che la medesima
origine del nome dei protagonisti va forse ricondotta all’attitudine scenica del salto.
Abbiamo anche qualche testimonianza a confortare la “biomeccanica sottesca”. Pare ad esempio che
il celeberrimo Jehan Du Pont-Alais fosse un abile saltatore e che la sua tecnica fosse assai evoluta;
nelle Satyres chrestiennes de la cuisine papale51 di Pierre Viret lo si fregia di una complicata capacità: il
difficile «saut à la mode ionique». Da menzionare il caso de les Bateleurs ove si impiegano termini
specifici per salti ed acrobazie: è segno dell’esistenza di tecniche e repertori gestuali specifici?
I costumi dei sot erano caratterizzati da un «sac a coquillons» ovvero «chaperon a fol», completato da
orecchie d’asino, farsetto, calzamaglia colorata: una delle testimonianze grafiche più celebri del
costume del sot è la nota marca “Mere Sotte”, utilizzata in numerose edizioni fra XV e XVI secolo,
ed in special modo adottata come segno distintivo da Pierre Gringore. Clement Marot fornisce una
descrizione dettagliata del personaggio del sot nella sua seconda Epistre du coq-à-l’âne.
Attache moy une sonnette
Sur le front d’un moine crotté,
Une oreille a chasque costé
Du capuchon de sa caboche
Voilà un sot de la Bazoche
Aussi bien painct qu'il est possible.52
Ancora nel 1616 Parigi ospitava le pubbliche rappresentazioni di sot, benché la drammaturgia
francese fosse passata per il profondo rinnovamento messo in atto dai poeti della Pléiade e dalle
performance per la casa reale dei comici dell’arte: all’inizio del ‘600 la confraternita della Bazoche
51
52
Pierre VIRET (?), Satyres chrestiennes de la cuisine papale, Conrad Badius, Genève, 1560.
Clement MAROT, L’épistre du Coq en l’Asne, s.d.n.l., f.b5., (P. R. AUGUIS, 1824 : t.I, p.500).
52
aveva ancora la sua sede presso l’Hôtel de Bourgogne, suo principe supremo era un tale Nicolas
Joubert, signore d’Angoulevent, che ingaggiò anche un’aspra polemica con l’«archipoete des Pois
Pillez», ulteriore autorità estemporanea del mondo comico della capitale francese.
È questo il periodo per il quale abbiamo il maggior numero di fonti storiche accreditate: l’errore di
metodo più importante della storiografia teatrale fra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo è forse
proprio quello di avere plasmato il proprio punto di vista sul teatro francese della fine del XV secolo
usando artificialmente queste fonti, posteriori di almeno cento anni: si spiega così la forte attenzione
manifestata da questi studiosi a forme artificiali (ed affascinanti) di classificazione come i vari regni di
Bazoche, Sans-Soucy e Poiz Pillés. Comunque, l’associazione di questi sot parigini venne sciolta nel
1632, assieme anche alla confraternita della Passione che, come è noto, contro la Commedia
dell’Arte ingaggiò una battaglia furiosa per la conservazione delle sale di rappresentazione sulla
città.53
L’esistenza dello spettacolo e la messa in atto dei testi in scena pone di riflesso anche la questione del
pubblico: nessun studioso fino a questo momento è stato sufficientemente chiaro a questo proposito
e nella maggior parte dei casi gli storici non hanno fatto che sviluppare le proprie impressioni
personali, in molti casi suggestive ma per lo più prive di analiticità.
C’est qu’au sujet du public de ces pièces, tous les manuels, toutes les études ont leur réponse, conventionnelle
ou toute faite, mais celle-ci ne repose, le plus souvent, que sur une impression personnelle de l’auteur. Le
public « populaire », les « badauds de Paris », la marginalité estudiantine: autant de constructions de l’esprit,
autant d’affirmations gratuites.
Citons en exemple la récente histoire du théâtre médiéval de Mazouer. A propos de la farce, celle-ci affirme: «
Le plus souvent théâtre de plein air, théâtre populaire et ouvert à tous, gratuit (…) la farce dressait ses
tréteaux sur la place publique » (p.313) et puis « Quelques peintures ou gravures nous montrent… ». Or,
l’écrasante majorité des farces et sotties conservées nous viennent de Paris, du début du XVIe siècle, mais les «
quelques peintures ou gravures » nous viennent des Pays-Bas et sont plus tardifs. En quoi, d’ailleurs, une «
Kermesse de village » attesterait une situation parisienne. Pour les sotties, le même savant affirme « il faut
imaginer le dispositif commun au Moyen Âge » (p.383), mais pour certaines sotties-jugements « une salle
close, avec une porte et des fenêtres », alors que « Pour les autres sotties, on utilisait sans doute un dispositif
proche de celui des farces ou des moralités » (p.383). […]
Avant de problématiser les choses, notons simplement qu’à cette date, la critique a privilégié le problème du
public des genres à celui du public des textes – quitte à admettre que pas toutes les farces ne s’adressent à un
même public, quitte à concéder que le public des sotties parisiennes de la période 1490-1529 n’est pas celui
des sotties de Genève de 1523 et 1524 ni, a fortiori, celui des sotties normandes du manuscrit La Vallière,
issues des controverses religieuses. Ma proposition serait de partir de l’étude d’exemples concrets, de textes
connus, de documents d’archives univoques, avant de se laisser aller à cœur joie à des affirmations générales
mais gratuites qui, à ce jour, font autorité. Mille choses seraient à revoir : le dispositif scénique des farces
53
La querelle e gli ostracismi della confraternita della Passione contro i comici dell’arte sono documentati
minuziosamente in Siro FERRONE (1993).
53
(basé gratuitement sur des documents iconographiques du Nord, voire des Pays-Bas sans que leur
représentativité soit jamais questionnée), la position de la Farce de maître Pathelin (nullement représentative,
mais considérée comme le modèle du genre : une farce qui « rompt avec la tradition des farces » vers 1460,
selon Michel Rousse, alors que selon ce même savant, ce genre date des années 1460-1560 !) […]. A revoir
également, mais là la mer à boire devient un océan, les datations et localisations de bien des farces et sotties
[…]. 54
È necessaria una visione critica più prossima alla sensibilità della critica moderna, perché fino a
questo momento si sono trascurate le problematiche della performance, tralasciando anche di
effettuare una verifica minuziosa delle teorie spesso astruse prodotte dalla storiografia di marca
ottocentesca.
Si è detto che l’immagine deformata di questo periodo dipende in parte dalla convinzione che fosse
un blocco monolitico, senza evoluzioni dinamiche interne. Non si capisce per quale ragione le altre
forme drammaturgiche, come la moralità ed il mistero, siano state considerate al contrario come un
insieme fluido e dinamico nel tempo. E bisogna riflettere innanzi tutto sulle fonti principali della
prima drammaturgia francese, senza troppo mescolarle con i giudizi a priori maturati nell’analisi
delle fonti successive (soprattutto del XVII secolo).
Ricapitolando quanto detto in alto, le farse ci sono pervenute attraverso un numero piuttosto
limitato di fonti: il capolavoro comico è Pathelin, che viene stampato attorno al 1485, da solo.55
Abbiamo poi delle sottie manoscritte difficili da datare ma che possiamo collocare con un certo
margine di sicurezza alla fine del XV secolo; i prodotti delle presse parigine del libraio specializzato
Trepperel, rimontano invece al periodo 1507-21 e rappresentano una buona metà del repertorio
attualmente a nostra conoscenza, costituendosi in due raccolte di base: la Trepperel, appunto, e la più
recente (per data media di impressioni e per rinvenimento in età contemporanea) Recueil de Florence.
Poi c’è la raccolta detta del British Museum, il cui assemblaggio rimonta al 1550, e che è di origine
lionese, pur includendo alcune impressioni dovute ancora alla famiglia Trepperel. A queste fonti
principali possiamo aggiungere il manoscritto rouennese La Vallière, che rimonta al 1575.
Si tratta quindi di un insieme tutt’altro che compatto di testi, e per giunta collocato in un arco
storico in cui anche il più piccolo spostamento nell’Esagono implica grosse differenze linguistiche e
54
J. KOOPMANS, 2004a : p.2.
Rec. JACOB, 1859, pp.19-117.
La prima edizione della farsa di Pathelin fu pubblicata con ogni probabilità attorno al 1485 da Guillaume Le Roy (cfr.
Repertorio TCHEMERZINE, t.IX, p.123, l’edizione anastatica di E. PICOT (1907) e A. CLAUDIN, 1900-1914 : t.III, p.89.
L’esemplare conservato alla BNF, sala Y, è l’unico noto esistente della tiratura ed è tronco dei ff. 8, 37, 43 e 44,
rimpiazzati “à la plume”dal bibliofilo anticamente proprietario del testo, Walter Arthur Copinger, che li ha estratti
dall’edizione successiva del 1489.
54
55
culturali: si va dalla Parigi di Luigi XII alla Lione italianizzata del 1550, passando per Rouen,
capoluogo normanno sferzato dai disordini religiosi. Perché allora questo corpus è stato considerato
unico ed omogeneo fino ad ora?
La risposta è che ha sempre prevalso l’ipotesi secondo la quale, ad onta della loro data di acquisizione
in repertorio o della loro impressione a stampa, tali testi dovessero rimontare ad una tradizione di
ben più lunga durata: all’alto medio evo addirittura per alcuni, che ipotizzavano una lunga opera di
trasmissione in forma manoscritta. È chiaro che anche analizzando i repertori drammatici – ciò che
faremo noi stessi nel prossimo capitolo a partire proprio dalla traccia della critica positivista – ci si
rende conto di alcune straordinarie affinità nel tempo fra letterature popolari di ogni tipo e farse, a
prescindere dalla zona geografica di origine.
Alcune storie ed espedienti narrativi provengono dalle ricche collezioni di leggende indiane ed
orientali, un fatto che è plausibile da un punto di vista, per così dire, concettuale, specie per grandi
aree di interesse tematico. Del resto la storia delle culture non si sviluppa a compartimenti stagni e
pertanto è sempre possibile trovare corrispondenze d’ogni tipo, più o meno dirette, esplicite,
consapevoli. Quando però si parla di trasmissione diretta ed influenze reciproche fra repertori
bisogna avere in mente coordinate cronologiche e geografiche limitate per una ragionevole
comprensione dei fenomeni storico-letterari che ci interessano. È poco realistico affermare che una
forma di espressione come la farsa abbia radici dirette nel profondo nel Medioevo, giacché sarebbe
inspiegabile il fatto che una letteratura così prolifica già dai propri principi stilistici (che sono la
modularità, la serialità, l’imitazione) non abbia lasciato dietro di sé alcuna traccia.
Se ne ricava che non bisogna confondere fra radici tematiche, linee di tradizioni narrative ed evento
letterario in sé e che è bene considerare il fenomeno letterario come un insieme più o meno
complesso, senza mai dimenticare che esso è hic et nunc, manifestazione singolare di contesti ed
urgenze contemporanee.
In questo modo ci si può riallacciare più fedelmente al senso del teatro comico francese delle origini e
si potranno visualizzare i dati storici senza troppe astrazioni critiche: la raccolta Trepperel e quella di
Firenze conterrebbero pièce parigine del XVI secolo; la serie del British Museum opere per il
“mercato” lionese della metà del 1500, ed il manoscritto La Vallière un repertorio normanno della
seconda metà del XVI secolo.
Armati di una simile prospettiva storica l’immagine del teatro profano francese cambia drasticamente
e si annullano quelle ipotesi che, volendo vedere a tutti i costi in questi testi drammatici la fioritura
55
di una tradizione radicata nel passato o la base di un processo di consolidamento stilistico futuro, ne
hanno spesso denaturato il patrimonio genetico.
Tout cela peut nous amener à un premier constat. Un PUBLIC des farces et sotties, il n’y en a probablement
pas eu. Des farces et des sotties ont eu des publics. Parfois celui-ci est à trouver dans un monde universitaire
(Toulouse, Caen, Paris), parfois il s’agit d’un public mixte. Parfois celui-ci est nettement contestataire, parfois
il assiste à de simples divertissements. […]
D’une part le public des représentations mérite d’être circonscrit avec plus de précision; d’autre part le public
des textes, qu’ils soient manuscrits ou imprimés attend toujours une définition plus nette. […] Une
représentation suppose un public […] quand on interroge la documentation – tout en se posant des
questions au sujet de la représentativité de celle-ci – l’image d’un répertoire fermé s’impose, et par là aussi
l’image d’un public plus ou moins fermé. Ce qui semble impliquer, en même temps, une certaine connivence
entre les pièces et leur public. […].
Retenons, pour l’instant, la possibilité d’une proximité du monde du théâtre et du monde de l’imprimerie.
Essayons de nous figurer la possibilité selon laquelle les lecteurs et les spectateurs appartiennent à un même
monde culturel. En 1522, de toute manière, ce sont les fatistes et les imprimeurs (au pluriel) qui seront
emprisonnés pour avoir joué et imprimé une suite de pièces qui ne nous sont parvenues que grâce à un
manuscrit qui est une transcription des pièces imprimées, une transcription copiant même – en couleur – les
bois gravés de l’édition imprimée et mettant en scène, chose plus étonnante encore, le Livre comme
personnage qui débite son propre colophon et qui thématise par là la vente d’éditions imprimées au sein
même de la suite de pièces jouées 56.
[…] Selon moi, il n’y a pas de théâtre français du Moyen Age. Du théâtre, il y en a eu même si ce n’était pas,
pour l’époque, du théâtre au sens strict. Des représentations, il y en a eu dans l’espace de l’Hexagone actuel,
mais aussi ailleurs. Toutefois, il n’est nulle part établi que le Sponsus, le Jeu d’Adam, le Jeu de la Feuillée
fassent partie d’une même tradition, d’une évolution claire et univoque (comme le veut par exemple
Mazouer).57
Il rapporto della stampa con il teatro profano francese è un fenomeno che merita particolare
attenzione, perché si profila autonomo e parallelo al contesto performativo in sé. Opere come la
Reformeresse, ma anche le numerose allusioni contenute in varie farse e sottie sembrano dimostrare
come stampa e stampatori non fossero meri vettori di trasmissione dei testi performativi, ma anche
animatori, in un certo senso, del contesto spettacolare.
Oltre alle influenze e alle ingerenze dirette della stampa sulla produzione drammatica, l’evoluzione
del genere comico è influenzata da molteplici fattori locali. Nel nord della Francia, ad esempio, essa è
determinata dalle gare drammatiche ed i testi alludono esplicitamente all’apparato burocratico che vi
ruotava attorno: scambi e competizioni urbane, presenza delle giurie e del notabilato di paese, diverse
influenze delle confraternite dei mestieri rispetto al contesto cittadino. Spesso ad influenzare il testo
sono le cronache locali o le querelle estemporanee fra specifici gruppi culturali.
56
57
APF, t.XII,193-237 : pp.193-194 e 218.
J. KOOPMANS, 2004a : pp.5 e sgg.
56
A Paris, par exemple, il peut s’agir de l’université qui défend l’honneur de Jeanne de France contre Anne de
Bretagne et, partant, contre Louis XII ; à Toulouse, il s’agit de l’université qui s’en prend à des nominations
récentes et vise directement le roi et le pape dans une défense des libertés Gallicanes ; à Genève il s’agit de la
défense de l’alliance avec les cantons suisses, les Eidgnots, contre les partisans du duc de Savoie, les
Mammelus ; à Caen, il s’agit dans la Farce de Pattes-Ouaintes de la réaction des suppôts de l’université contre
l’imposition de la décime (par le roi et le pape), et de l’épidémie syphilitique de 1494 dans la Cène des dieux
»58.
È allora opportuno domandarsi se il pubblico fosse unico o diverso di volta in volta, non solo in
relazione al testo o al genere, come è stato fatto fino ad ora, ma alle occasioni ed ai contesti cui esso è
legato. Vediamo una serie di esempi che possano chiarire meglio questa differenza storiografica
sottile, ma fondamentale.
Sappiamo che la farsa de Pates-Ouaintes59 venne giocata a Caen nel 1494, per strada, e che essa
entrava nel vivo del dibattito cittadino, ciò che implicò modalità singolari per la messa in scena: fu
rappresentata davanti a duemila suppôt dell’università, ed in un luogo non “neutrale”, davanti cioè
alla casa del prefetto per le tasse, Hugues Buriau, oggetto delle contestazioni accademiche. Il
pubblico, gli attori, e i protagonisti reali si confondevano in una specie di protesta generalizzata, in
un uso “pubblicistico” della scena. Si verificava qui un misto di connivenze fra i vari elementi del
teatro (pubblico, palcoscenico, attori, compositori) ed una spiccata e deliberata confusione fra
mondo e mondo del teatro (personaggio reale / personaggio fittizio). Nel 1496 Pierre de Lesnauderie
(che nelle Pattes aveva partecipato come attore)60 “intraprende” la farsa della Cène des dieux61 in
associazione con tale Sainct-Loys e maître Jehan de Caux con «leurs compagnons».
L’opera – secondo Eugénie Droz e Halina Lewicka non riconducibile né alle farse né alle moralità,
esempio di un non meglio definito théâtre de collège, cioè di teatro organizzato nello specifico del
contesto studentesco – era uno speciale mystère parodico, dove si vedeva Dio pretendere che gli
uomini fossero indegni del creato e di qualsivoglia forma di salvazione.
Il lettore non è mai messo al corrente della nuova cosmologia che si prepara per gli abitanti della
terra, ma la nostra entità soprannaturale tanto per cominciare ha inviato una punizione molto
terrena, seminando la sifilide fra la gente.
Anche questa pièce testimonia come il contesto di rappresentazione influenzi le tematiche in campo:
la cronaca (le epidemie di sifilide che facevano attualità) si abbinava all’interesse scientifico di chi
58
Ibidem.
P. LEMONNIER, 1843. Sulla farsa si veda il recente contributo di S. LAÎNÉ, 2007.
60
K. SCHOELL, 1992.
61
TREPPEREL II, n°VIII.
59
57
probabilmente praticava solo per l’occasione le tavole del palcoscenico e cioè gli studenti di
medicina, che furono quasi certamente il contesto produttivo dello spettacolo.62
Per due pièce provenienti da Toulouse (Moralité du Nouveau Monde e la Sotise à huit personnages
corrispondente)63 il cui testo si è conservato grazie alle edizioni parigine del noto stampatore
Guillaume Eustache, la polemica morale sconfina ancora nella contingenza politica: se si accetta
l’esistenza di una «école de Toulouse» (che avrebbe teorizzato, a partire dalle striscianti posizioni
anticonciliari e ultramondane, quella che poi sarà la pratica dell’assolutismo nell’Ancien Régime) non
possiamo negare che gli autori di queste due composizioni drammatiche ne fossero bene a
conoscenza. Ed infatti l’opera ha tutta l’aria di essere una tirata polemica contro questa scuola
politica, e manifesta una certa aderenza alle tematiche della liberalità umanista.
La verve antipapale risulta essere cosa comune nel contesto popolare francese, intriso di gallicanesimo
esacerbato dai conflitti religiosi e dagli interessi reali: quindi non ci stupiamo di vedere dipinto qui
un Papa guignolesco che parla un improbabile italiano maccheronico. Più interessante è la singolare
presenza di un re idiota, le prince Quelqu’un, che rappresenterebbe una critica simmetrica proprio
alla scuola assolutista di Tolosa, che probabilmente toccava corde sensibili della mentalità dei retori
accademici. Tuttavia la posizione simbolica e mediana fra assolutismo e guelfismo inficia il senso
politico più corrosivo della polemica trasformando la pièce in una generica protesta antiautoritaria.
La Pragmatica Sanzione compare qui come personaggio allegorico: ispirata dallo Spirito Santo, fa la
62
« De toute manière, vers 1515, toujours à Caen, « le nouveau général » joue ou fait jouer la farce du Voyage et
pèlerinage de sainte Caquette. Tissier (II,15-72, pp.20-21) se pose la question « Fut-elle écrite pour les étudiants en
médecine et jouée devant eux ? » avant de signaler que la fameuses Morale comoedie de celuy qui avoit espoué une femme
mute (Rabelais, Tiers Livre ch.34) fut également jouée par des étudiants en médecine.
Pour la Sottie de l’Astrologue, l’éditeur Emile Picot (RGS, t.I, 195-231) affirme « les expressions latines » et les « traits
décochés contre le Châtelet et le Parlement (…) nous montrent que [l’auteur] était un basochien parisien ». Je dirais le
contraire : la critique contre le Parlement montre qu’elle ne peut relever de la Basoche. On peut aller plus loin : la pièce
dénonce avec véhémence le mariage de Louis XII avec Anne de Bretagne, la dissolue Venus et défend ouvertement les
intérêts de Jeanne de France, la vertueuse Virgo. Or nous savons que c’est justement l’université de Paris qui s’est illustrée
en défendant Jeanne de France – et Jean Standonck, réformateur du Collège Montaigu, a même été exilé à cause de sa
position prononcée dans l’affaire. »
J. KOOPMANS, 2004a : p.7.
63
O. A. DUHL, 2005.
J. KOOPMANS, 2004b.
« D’autre part je crains bien devenir, dans la formule si bien tournée d’un collègue anonyme au sujet d’un collègue
également anonyme, « devenir moi-même ma principale source d’inspiration », en d’autres mots, il y a un certain art de
recyclage dans cette communication. Dans mon enthousiasme pour un texte dramatique inédit – au sujet d’une élection
épiscopale, dans un contexte polémique autour de la Pragmatique Sanction (il s’agit d’un texte connu, à tort d’ailleurs,
sous le titre Moralité du Nouveau Monde) – j’avais proposé d’en parler à un colloque sur le Moyen Français à Milan – et
Jennifer Brittnell, qui travaillait sur la Pragmatique et le théâtre, a sollicité une certaine concertation pour sa
communication. À Milan, j’ai revu le titre et la localisation de la pièce. »
La presente citazione: J. KOOPMANS, 2008.
58
parte della padrona, mentre Diritto e Ragione, difesi da donna Università, opprimono nelle loro
decisioni Papa e Re stolto.
Entrambe le opere esaltano l’università di Tolosa, ciò che rende altamente probabile una loro
appartenenza diretta al contesto della goliardia accademica: in quegli anni i suppôt vedevano attentata
la propria autorità sia dalla politica papale che da quella reale e la pièce può ascriversi perfettamente a
siffatto contesto politico.
Sulla circolazione delle pièce (e sui loro pubblici) Jelle Koopmans fa notare un dettaglio significativo:
che il l’imprimerie parigina era interessata da altri contesti spettacolari specifici della vita locale della
provincia. Caen e Tours esportavano nella capitale qualche pièce che se per il pubblico originario era
una specie di attualità politica, nel contesto di ricezione parigino diventava divertimento in sé.
Lo dimostrano le edizioni parigine di alcune opere di provincia: è il caso di tre pièce che dopo la
circolazione in provincia approdano al repertorio a stampa parigino, ma per le quali purtroppo non
abbiamo alcuna notizia di rappresentazione sui catafalchi della capitale francese: si tratta delle già
citate Pates-Ouaintes e Cène des dieux con la Farce du voyage et pèlerinage de sainte Caquette.64
Le cas de Toulouse a intéressé Paris, trois ans plus tard : on s’interroge sur cet intérêt, inspiré sans doute par
la reprise de la querelle gallicane (cf. Gringore en 1512). Dans un contexte légèrement analogue: Jean Janot, à
sa mort, laisse 750 exemplaires du Jeu du Prince des Sots de Gringore (invendus ou fraîchement imprimés?).
Là, toutefois, nous entrons dans le monde de l’édition parisienne – sujet qui me tient à cœur, certes, mais que
je ne compte pas traiter in extenso ici – et nous risquons de perdre de vue notre public.65
Ribadiamo ancora la necessità di una analisi più problematica dei rapporti fra farsa e sottie, che tenga
conto in modo dettagliato del contesto storico contemporaneo, degli indizi geografici interni ed
esterni al testo e del pubblico in quanto interlocutore privilegiato del fatto teatrale: c’è insomma la
necessità di diversificare le analisi sulla base delle diverse funzioni dello spettacolo, dell’esecuzione e
del periodo della loro comparsa (letteraria e sul catafalco).
64
65
TREPPEREL II, n°VII.
J. KOOPMANS, 2004 : p.8.
59
1.2.3 – Modi della rappresentazione.
Il comico di situazione proprio della farsa e delle sue forme liminari ha varianti limitate che spesso
hanno indotto la critica ad emettere giudizi di merito assai sbrigativi quando non del tutto negativi.
Il ribaltamento delle situazioni, i quiproquo, la comparsa di più o meno prevedibili deus ex machina
o colpi di scena, rendono il panorama farsesco piuttosto ripetitivo ed addirittura ingenuo agli occhi
di noi contemporanei.
Le lacune documentarie sullo svolgimento materiale delle recite restano incolmabili, ma i dati
letterari interni possono aiutare a formulare ipotesi o costruire un’idea di massima su quanto doveva
accadere in scena.
Innanzi tutto gli eclettici scambi di battute, basati su onomatopee e monorematiche, privi d’un vero
significato nella forma scritta, ci inducono ad ipotizzare che le farse prendessero davvero vita e senso
compiuto solo in un contesto performativo.
È il caso ad esempio di un curioso dialogo fra Teste Creuse e Sotin nella farsa dei Coppieurs et
lardeurs.
TESTE CREUSE
Ho!
SOTIN
Qui tonne?
TESTE CREUSE
Se ce cech
SOTIN (en chantant)
Machère…
TESTE CREUSE
Houp
SOTIN
Estont, estront
TESTE CREUSE
Mot
SOTIN
Vecy ung terrible homme
TESTE CREUSE
Ha ! Ha !
SOTIN
Bb
TESTE CREUSE
Se tu y
SOTIN
Et rien rien
66
TESTE CREUSE
Haye
SOTIN
Haye
TESTE CREUSE
Ilz sont ychy y y
SOTIN
Et bien
TESTE CREUSE
Pouffe
SOTIN
Hen
TESTE CREUSE
Dieux
SOTIN
Tant dire
TESTE CREUSE
He bon
SOTIN
C’est droit ancien
TESTE CREUSE
y y y y y66
TREPPEREL I, n°VIII : pp.159-160.
60
Tale scambio di battute non ha alcun senso né ironia se non viene collocato nel contesto
biomeccanico dei balzi e dei lazzi e se non si tiene conto degli inserti cantanti, dei quali i testi ci
mettono al corrente nella maggior parte dei casi del solo attacco, segnalando la modularità degli
intermezzi musicali in farsa, che dovevano essere noti se non proprio al pubblico almeno a chi
calcava il catafalco.
Gli attori delle farse anche quando non impegnati professionalmente nel mestiere del performer
dovevano avere buone capacità mimiche, canore e coreutiche, quando non acrobatiche. Del resto ad
onta di una notevole povertà narrativa, le pièce che ci sono pervenute mostrano tutte una buona
attenzione agli elementi fisici e concreti del fatto scenico: troviamo bastonate e “lardellate”,
mascherate, parate, costumi bizzarri ritagliati direttamente sulla scena, smorfie, tiri mancini di ogni
tipo, onomatopee e simulazioni varie, travestimenti e dissimulazioni della voce anche quando i
personaggi non sono implicati in un vero e proprio procedimento narrativo.
La stessa ricorrenza dei nomi ci fa pensare che essi fossero connotati soprattutto da un costume o da
una attitudine scenica. In special modo nelle sottie è tutto un pullulare di non meglio definiti sot,
sotte, fol, folle distinti l’uno dall’altro da una progressione numerica, ma di fatto seriali,
completamente intercambiabili fra di loro nella progressione dei dialoghi e delle battute: ad esempio
è inutile cercare corrispondenze interne fra pezzi di uno stesso «deuxième sot», che ci aiutino a
caratterizzare il personaggio e a costruirne storia ed identità. Sarà un tentativo vano, perché spesso le
vicende raccontate da uno ritornano in automatico nella bocca dell’altro, come se la numerosa
schiera dei sot fosse una specie di folla parlante o un personaggio unico moltiplicato in infinite
presenze fisiche. Nella pratica scenica anche le differenze di sesso si appianano, essendo le sotte femme
personificate da interpreti maschili, come sarà pratica comune ancora nel teatro elisabettiano: ed è
ovvio che in questo tipo di spettacoli osceni e ricchi di doppi sensi a sfondo sessuale l’occasione
dell’ambiguità diventa ulteriore possibilità espressiva.
Possiamo così accennare brevemente anche alle interpretazioni di genere che sono state prodotte
dalla critica più recente in merito proprio alle sottie. Secondo tali interpretazioni uno dei temi
portanti dei jeu de sot sarebbe stato proprio la parodia dell’omosessualità; pertanto le donne della
sottie sarebbero, anche all’interno della finzione narrativa, uomini travestiti da donne, con evidente
riuscita grottesca dei rapporti amorosi e dei corteggiamenti.
Le caratteristiche che venivano infatti attribuite alle donne in scena erano l’attitudine alla
chiacchiera, la debolezza, la versatilità, la civetteria, l’astuzia, ciò che faceva parte anche
61
dell’immagine stereotipata dell’omosessuale, il cui carattere conturbante risiedeva giustamente
nell’attitudine alla simulazione e all’ambiguità.
Pregiudizi comuni comunque anche a quelli sulle donne, la cui possibilità dell’orgasmo multiplo
sembrava essere cagione di invidia per il Tiers Sot dei Sots nouveaux farcés che si diceva disposto a
scambiare la sua lunga verga per una vulva.
Si j’eusse eu un con,
Comme ces femmes çà et là,
Il n’y eut haie ni buisson
Où je n’eusse fait la « fanfa » !67
Certo il parallelo fra farse ed espressione omosessuale è suggestivo, ma viene sviluppato forse in
modo eccessivo dagli studi inaugurati da Ida Nelson verso la fine degli anni ’80 del Novecento con il
saggio dal titolo la Sottie sans souci68 che collocava le trame e gli sviluppi delle farse totalmente
all’interno d’una prospettiva omosessuale.
La presenza di falli enormi e bastoni e verghe nelle divise dei sot, oltre che un certo spirito anarchico
demoniaco, rispecchia perfettamente quel processo di integrazione antropologica degli antichi riti di
fertilità che sempre ricompare nel contesto della performance spontanea ed occasionale, legata cioè
alle festività stagionali ed alla periodicità delle occupazioni umane, che più che altrove implicano un
ricorso alle simbologie della riproduzione e della vita.
Il costume dell’idiota patentato ha una forte connotazione sessuale: una frangia (una «queue») gli
penzola fra le gambe ed oltre al famoso cappello (lo «chaperon») con le orecchie da somaro (animale
di cui da sempre nella volgarità popolare si stimano le capacità, per così dire, “amatorie”) e la fissa
maniacale per tutto quello che è animalesco ed istintivo, il sot esibisce spesso un bastone a forma di
fallo e qualche campanaccio in luogo dei testicoli; in alcune tarde incisioni reca anche un pene in
bella vista sul cappello.
Detto questo, resta un evidente anacronismo affermare – come fa nel suo pessimo studio “di genere”
Thierry Martin69 – che i travestiti frequentavano i “teatri” confondendosi fra le prostitute e che il
clima licenzioso della piazza andava a braccetto con le rappresentazioni oscene sul palco.
67
Les sotz nouveaux farcez couvez. | Jamais n'en furent de plus folz. | Si le deduict veoir vous voulez, | Baillez argent, ilz seront
voz, s.l.n.d, (secondo il Rép. JULLEVILLE, n°194 : Paris, vers 1525). Al primo foglio c’è lo stemma di Mère Sotte con il
motto di Pierre Gringore « Tout par raison ». (RGS, t.II, pp.175-198 : p.188).
68
I. NELSON, 1977.
69
T. MARTIN, 2001.
62
Ora, è dimostrato in più luoghi – e noi stessi ci siamo occupati del problema nel contesto dei
rapporti fra spazio e ricezione del messaggio scenico70 – che i teatri fossero frequentati dalla malavita
locale e che, specie nello spazio privato del palchetto all’italiana, i nobiluomini si intrattenessero in
relazioni sociali d’ogni tipo, fra cui anche quelle con le donne di malaffare. Conosciamo molto bene i
costumi libertini praticati in luoghi come il teatro della Baldracca a Firenze ed abbiamo una nozione
piuttosto precisa dello strepitante pubblico elisabettiano del Globe: ma il fenomeno interessa il
mondo dello spettacolo commerciale e della “mercatura del teatro”, un mondo che ha già eletto e
codificato uno spazio della rappresentazione e le cui pratiche sono lungi dal comparire nella Francia
del teatro profano medievale.
Il tema dell’omosessualità in farsa ha dunque una sua valenza solo se visto nel contesto letterario e
spettacolare che lo determina: l’intrattenimento assoluto, che ovviamente trova ricchezza comicoespressiva e motivi di cruda e volgare ironia nel gioco sull’ambiguità sessuale degli attori e dei
personaggi, ma che non è detto li assuma a prassi estetiche.
Anche William Shakespeare era uso creare interferenze fra l’interprete maschile ed il personaggio
femminile che questi indossava: ma diremmo forse che il suo è un teatro dell’omosessualità? O non
saremmo piuttosto propensi a credere che il ruolo del drammaturgo è quello di mettere a profitto
tutte le risorse e le ambiguità del mezzo scenico?
Certe allusioni piccanti vanno lette in chiave performativa e non devono avere un peso strutturale
sull’interpretazione in toto della letteratura farsesca. È ovvio insomma che interpreti maschili in luogo
di vere donne possano dare luogo a battute grossolane e prevedibili come quella de le Femmes qui se
font passer par maîtresses, dove vediamo una donna misurare un abito e dire « Cette robe-ci n’est
point gente ; | J’en prendrai une autre centrée | Devant » dove si può bene immaginare il gesto
comico dell’attore ad indicare ciò che ha di più prezioso fra le gambe.
Oppure pensiamo alla confusione di generi che nelle farse regna sovrana fra i pronomi, non sempre
riconducibile ad errori tipografici o disinteresse ortografico.
C: […] Qu’est-ce qu’il faisait ?
P : Elle filait.
C : Quoi ?
P : Il sifflait.
C : Que lui-as-tu dit, au détroit ?
P : Lui ai dit : « Doint bonjour, madame !
Mon seigneur vous prie, sans dédire,
70
A questo proposito mi permetto di rimandare alla mia tesi di laurea: V. IACOBINI, 2003.
63
Qu’à lui veniez s’il n’y a âme.»
C : Et t’a repondu ?
P : «Par mon âme !
J’irai volentiers, aussitôt
Que mon mari… dis-je ma femme,
Sera hors, qui s’en va tantôt.»71
Nondimeno si è stupiti quando ci si imbatte in passaggi che alludono esplicitamente al gioco en
travesti, in quanto essi testimoniano di una coscienza formale del mezzo espressivo scenico ben più
sviluppata di quanto non pretendano i detrattori estetici del teatro profano medievale.
Guardiamo ad esempio alla farsa dei Trois pèlerins et Malice, dove si legge di un certo mercato del
sesso in cui però è facile confondere uomini e donne ed essere così truffati.
Plusieurs se sont accoutrés
En état de féminin genre […]
Car il ne baitaillent qu’aux culs […]
Désordre le tient ci en rênes
Comme un trupelu, un mimin
Qui veut devenir féminin.72
E ci sono anche farse intere in cui il comico verbale si aggrega attorno al significato scabroso. Nella
farsa delle Queues troussées,73 ad esempio, satira sulla moda esagerata delle code, ma anche storiella
ambigua di “code truccate” (ed è usata sovente in farsa l’ambiguità “argotica” di «queue» per definire
il sesso maschile), irriconoscibili, cioè, perché travestite e dissimulate.
Ancora una vertigine di ambiguità fra ruolo e attore, fra significato scenico ed evidenza concreta del
corpo, ove il senso generale dei dialoghi si manifesta a pieno solo a patto di tenere a mente le
condizioni espressive concrete, l’esecuzione drammatica.
Vous êtes bien habandonnée,
D’une si longue queue prendre !
[…]
Jamais je ne vis queues telles
Que ceux-ci, ni si bien reluire !
[…]
J’ay esté en grant accessoire
Avant que aye peu avoir congié,
Mais à la fin je l’ay rangé,
71
La citazione con le enfasi è presa da T. MARTIN, 2001 : p.9. La farsa è in Rép. COHEN, n° XVI, pp.113-122.
Rec. LEROUX, t.IV, n°7.
73
Rép. COHEN, n° VI, pp.43-50.
72
64
En luy faisant acroire songes74
Ed è curioso notare come il tema della moda venga affrontato in diversi luoghi delle farse ma sempre
in un contesto di smaccata ambivalenza sessuale: il censore dei costumi Maistre Aliborum critica
sovente le voghe del vestire e sovente si trova faccia a faccia con erotomani di varia specie. Così, nei
Sots qui corrigent le magnificat troviamo battute analoghe a quelle delle Queues troussées.
Pourquoi c’est que ces « demoiselles »
Portent grands queues ? Pour s’émoucher
Plus près des oreilles [testicoli, n.d.r.]
[…]
Cela ne serait pas trop grief
D’avoir ces fatras-là si longs75
E poi l’omosessualità ricompare anche nel tema, longevo nella cultura europea, della naturalità: se la
follia è contro il mondo degli uomini, contro cioè l’organizzazione sociale e quindi contro il logos
(ma - l’abbiamo detto - per verificarne l’importanza), anche l’ambiguità sessuale rientra nella vasta
casistica medievale delle malattie mentali e degli atti di follia. Così nel mondo al contrario, anche le
identità sessuali si invertono e si confondono scatenando il ridicolo, e attivando un senso enigmatico
e perverso dell’esistenza, in un gioco scenico, non lo dimentichiamo, che nella continua elargizione
di colpi e nella sostanziale sottomissione reciproca dei personaggi può ricordare facilmente le
dinamiche sadomasochistiche.
Per esempio Chose Publique ne les Sots fourrés de malice deve subire il castigo della banda degli stolti
che fino a quel momento ha costretto ed oppresso nella malefica macchina del travestimento scenico.
I suoi allievi hanno imparato bene il funzionamento della tortura e dell’umiliazione e lo costringono
a prendere le fattezze di una sorta di grottesca prostituta che si dà in pasto al pubblico.
Sots, gouvernée nous ont contre nature,
Comme voyez, habillée follement
[…]
Habillée m’ont de cet habit,
Et m’ont boutée en lieu public.76
74
Ibidem.
TREPPEREL I, n°IX : p.197.
76
TREPPEREL I, n°V : pp.76-77.
75
65
Follia e licenziosità sessuale nell’immaginario medievale sono sinonimi, tanto che Rabelais dona al
celebre buffone di Francesco I, Triboulet, l’appellativo «fol bien mentulé».77 Nel francese medievale
troviamo spesso una corrispondenza esatta fra il termine “nature” ed il sesso; talvolta gli omosessuali
sono «sot naturels», diversi dai «sots civilisés», in generale gli “scemi del villaggio”, i cornuti, gli
ingannati, i “depressi”.78
Gli esseri più prossimi al mondo naturale ed alla ciclicità delle stagioni e del tempo sono associati ad
un’intensa attività sessuale, in linea con tradizioni culturale di remotissime origini: fermandoci al
solo contesto rinascimentale pensiamo a quale suggestione abbia esercitato sull’immaginazione dei
cittadini e delle corti la figura del satiro, fortemente caratterizzata in senso erotico.
Le donne, poi, immancabilmente associate ai cicli lunari (contrapposti a quelli solari che regolano lo
svolgersi regolare del tempo), rispetto agli uomini sono più prossime alla natura, lunatiche appunto,
folli ed imprevedibili, a giustificare la feroce misoginia farsesca. Ma sono questi motivi più prossimi
allo studio antropologico che a quello letterario ed è rischioso esasperare tali procedimenti per
generiche opposizioni ed astrazioni.
Fra i vari luoghi della stoltizia troviamo anche quello del cretino le cui doti sessuali superano
largamente la propria intelligenza: cliché assai comune che presenta come inversamente proporzionali
la prestanza fisica e le doti intellettuali.
Le digressioni farsesche sulle doti amatorie dei matti sono volgari quanto e più di quelle che
rinveniamo nella novellistica. Ne le Monde qu’on fait paître udiamo «Chacun a l’engin pour percer |
Un mur de seize pieds d’épais», nel Prince et les deux sots quando il principe si spoglia nudo sentiamo
gli altri esclamare: «Voici une chose enorme !» e poi il pazzo della sottie di Tout ménage che rifiuta
d’avere rapporti sessuali con una donna perché: «Si la dépucelle, | Je serais en bien grand danger | de
lui rompre ventre et forcelle».79
Nella varia umanità teatrale è quindi varia anche la sessualità: talvolta si ironizza fra compagni e al
suo ingresso sul catafalco il Fol dice:
Je parles aussi bien latin
Comme ung prebstre qui dit la messe,
77
Tiers Livre, 38.
Per esempio Guillaume Coquillart, nel Plaidoyer d’entre la Simple et la Rusée : « La créature | Se venait asseoir à ses
pieds | Pour lui chauffer la nature » (Charles d’HÉRICAULT, 1857, t.II : pp.7-72 : p.56) ove è ben evidente il significato
sessuale delle allusioni.
79
T. MARTIN, 2001 : p.13.
66
78
Or parlez à moy, Trousse-fesse :
Se dedans ung lict, nu à nu,
Fusson couchez, fesse sur fesse,
Ung de nous deux seroit foutu.
(Le Fol chante)
Il estoit bien malostru,
Sus goguelu,
De cuyder qu'elle fust pucelle;
El c'est faict tant bistoquer,
Tant janculer
Dessus l'herbette nouvelle,
Tourlourette, tourlourette,
Lyron fa.80
Non deve soprendere che tale contenuto compaia in una moralità, proprio in virtù del principio
della mescolanza dei generi che informa tutta la scena di questo periodo, sicché finanche gli autori
“di pregio” come Gringore caricano le proprie pièce di esiti scabrosi; nel Jeu du Prince des
Sotz sentiamo dire, ad esempio, nel cry d’appello alle presenze sceniche ed al pubblico: «Sots qui
chassent nuit et jour au connins, | Sots qui aiment à fréquenter le bas» e poi «Toujours avec le
féminin. | Mainte belle dame matée | J’ai souvent en chambre natée. | – Voilà bien cogné le
‘fétu’ !»;81 volgare, ma non troppo: la classe letteraria fa sempre la differenza specie se pensiamo a
certe scenette squallide e grossolane come quella dei Sots Nouveaux farcés dove vediamo il terzo sot
fare le sue abluzioni al fiume, quando passa una pulzella.
Voici venir
Une gorgiase fillette,
Environ de seize ans, seulette,
Qui me dit sans être honteuse
Que ma couille était bien fourreuse;
Puis me dit à mot découvert
Que n’était pas vêtu de vert
Mon bâton, qu’ai de demie aune
[…] je l’empoigne,
Et de lui faire la besogne
Fort et ferme !82
80
ATF, t.III, pp.337-424 : p.340-341
Rec. FOURNIER, pp.293-306 : p.294.
82
RGS, t.II, pp.175-198 : p.195.
81
67
Nella galleria del vanitoso “machismo” farsesco c’è spazio anche per il Gaudisseur qui se vante de ses
faits, omuncolo mezzo matto e mezzo montato che durante tutta la pièce non fa che esporre le sue
dubbie doti in tutti i campi, fra cui anche quello amatorio.
LE GAUDISSEUR
Le lict on fist tost prepare
Là où je m’alay reposer;
Puis la fille on me bailla.
LE SOT
A, Jesus, ave Maria.
LE GAUDISSEUR
Quatre foys, sans point me contredire,
Je luy fais, sans souffrir martyre,
Voyre plus, car je l’ay conté.83
Lo stolto ben fornito di doti naturali è anche base della comicità d’un passo di Maître Mimin
étudiant, dove si apprende che il giovane Mimin, ritardato e tuttavia saccente, possiede «le plus bel
engin | Que jamais enfant pût porter. | Il ne s’en faut que rapporter | A son nez : voilà qui
l’enseigne».84 Ancora una volta lo stato di natura: l’imbecille dovrà sempre avere una qualche dote
nascosta e ciò che difetta nella testa abbonda evidentemente altrove. Il mito dello stolto con notevoli
capacità amatorie compare anche nella farsa del Gentilhomme, Lison, Naudet, la damoyselle.
NAUDET
Ma foy, point ne vous le diray.
Je gasterois tout le mystère.
J’aime beaucoup [mieulx] vous le faire
Trois fois que vous en dire un mot.
LA DAMOYSELLE
Tu ne sçaurois! tu es trop sot!
NAUDET
Je ne sçaurois? Hau, quel raison!
Et je le fays bien à Lison
Tous les jours six ou sept fois.
LA DAMOYSELLE
Tu as menti, point ne te crois :
Tu es trop sot pour tel ouvraige.
NAUDET
Le plus sot y est le plus saige.
Pour veoir, mettez-moi en besongne ;
Or dictes que je vous empogne,
Si comment monsieur faict ma femme,
Et je vous jure sur mon ame
Que point ne vous escondiray.
83
84
ATF, t.II, pp.292-302 : p.301.
Ibidem, pp.338-359 : pp.339-340.
68
LA DAMOYSELLE
Or, m’empoigne donc. Je voirray
Ta vaillance et tes beaulx combas. 85
L’atto di verifica delle doti ostentate non compare nella pièce, ma si può supporre che sul catafalco
dovesse svolgersi qualche scenetta volgare, che aggiungeva sale alla già sapida vicenda dell’inversione
dei ruoli che costituisce il nodo centrale della trama.
Ed infatti verso la fine, quando la doppia inversione si è consumata e mentre il signorotto locale si
sollazza ancora una volta a visitare la moglie di Naudet, questi ha fatto lo stesso con la donna del
signore, che testimonia senza imbarazzo della sessualità prorompente dello stolto ed auspica una
sostituzione permanente dei due uomini.
LA DAMOYSELLE
Sus mon ame,
Naudet, je n’eusse pas cuydé;
Tu en besongnes comme un maistre.
NAUDET
Jen, Lison dict qu’il le fault mettre
Tousjours au parmy du caudet.
LA DAMOYSELLE
Pleust à Dieu que fusses monsieur
Et que monsieur devint Naudet. 86
Una lettura in chiave metaforica sessuale è pertanto utile per inquadrare il contesto performativo
della recita ed in altre parole, per individuare pratiche e modalità; ma non deve essa distrarci da ciò
che resta il principale nodo di ispirazione tematica delle farse, e cioè la novella, riadattata nel teatro
profano ad una forma scenica specifica, che mostra la sua apprezzabile modernità nei procedimenti
retorici e linguistici raggiunti, mostrando di aver intuito pienamente le possibilità espressive e
l’arsenale semantico specifici della scena e non già delle lettere.
85
86
ATF, t.I, pp.250-270 : pp.263-264.
Ibidem : pp.265-266.
69
1.3 – Modernità estetica di farsa e sottie.
1.3.1 – Il teatro come espressione dello stereotipo.
È ancora Barbara Bowen a fornirci una descrizione suggestiva della farsa in quanto funzione
elaborata di cliché, descrizione indispensabile per la definizione strutturale che vogliamo darne nel
corso di questo paragrafo.87
Per cliché intendiamo una parola o un modulo linguistico significante che nella prassi viene usato in
modo automatico o spontaneo in quanto facente parte di un “catalogo di senso” comune all’intero
contesto letterario. I cliché producono significato in modo “a-problematico”, come fatto evidente ed
acquisito, che non implica nessuna riflessione ma trasmette un’informazione in modo esplicito,
immediato, epidermico, in quanto collegata ad un sistema linguistico-culturale noto.
Molteplici sono le funzioni linguistiche e narrative che possono manifestarsi in forma di cliché: a
cominciare dai nomi propri o di luogo (1) - che prevedono uno dei moduli più tipici, il “nome
parlante” – e dalle espressioni proverbiali (2), vere “allegorie precotte” esprimenti un orizzonte di
senso molto ampio, riassunto in una frase. Nella farsa l’espressione proverbiale diviene addirittura
87
B. BOWEN, 1974.
70
topos narrativo; è il caso dei proverbi in azione, che hanno suscitato l’interesse degli studiosi in
ragione della loro abbondanza e rilevanza strutturale.88
Possono contenere cliché anche i refrain e le canzoni (3), che oltre ad agevolare il rendimento
mnemonico dell’attore, pongono in essere un’anticipazione dei contenuti narrativi al pubblico (che
presumibilmente le conosce prima della recita in quanto facenti parte del suo retroterra culturale),
rendendo più agile lo svolgimento della pièce. Infine, altri cliché sono il calembour (4) - figura della
derisione tanto più utile nel linguaggio in versi adottato dalle farse, perché incentrata sulla
confusione fonica (omofonie, omonimie, paronimie) e del significato (polisemia) - e le massime (5),
assimilabili tuttavia al linguaggio secco dei proverbi.
È il teatro per cliché delle letterature popolari, che frequentano le forme stereotipate in modo
assiduo: in particolare nel teatro francese si può verificare che la maggior parte di questi cliché sono in
stretto rapporto con la lingua delle classi medie e basse. Un fatto che però non deve condurci (come
hanno fatto Lambert Cedric Porter e Barbara Bowen, chiaramente ispirati dagli studi di Michail
Michailovič Bachtin, dai quali ricavano anche la nozione di linguaggio come momento eversivo per
eccellenza) a formulare l’ipotesi che gli autori di queste opere venissero dal menu peuple: non si
spiegherebbero altrimenti le precise nozioni di letteratura e retorica che i farceur esibiscono in molti
luoghi; non si spiegherebbero casi come quello di Pierre Gringore, che – farceur di successo – ebbe a
produrre diverse opere morali e politiche e non si spiegherebbero neanche farse come la Reformeresse
in cui si analizzano con occhio ideologico degno di certo furore umanistico, gli effetti della stampa
sull’insieme delle conoscenze e della consapevolezza intellettuale.
Per tutti i cliché la fantasia verbale è strumento ideale di realizzazione e principio che informa
naturalmente l’espressione profana.89
Per ciò che concerne i nomi parlanti consideriamo qualche numero: circa un terzo delle farse in
nostro possesso ha per protagonisti personaggi con nomi che vogliono dire qualcosa, che ne
esprimono attitudini, personalità o valore simbolico.
Per i refrain diciamo che il loro utilizzo è amplissimo: ne testimonia la notorietà il fatto già
accennato che nei testi a stampa compaiono soltanto in forma sintetica o come titoli, mentre solo
raramente vengono trascritti per intero. Li incontriamo sia come canzonette d’introduzione (con i
personaggi che arrivano cantando); sia alla fine, come appendici morali o piacevoli o utili contenitori
88
89
In particolare TREPPEREL I, B. BOWEN, 1964 e H. LEWICKA, 1970.
R. GARAPON, 1957.
71
di insensatezza conclusiva; sia all’interno dello sviluppo drammatico, dove vengono usati dai
personaggi con il fine di evadere alle risposte o dal farceur per procedere con disinvoltura nello
sviluppo dei fatti.
In genere le pièce che si fregiano della qualifica di sottie presentano in sé la forma delle canzoni e ne
sono lo sviluppo sul catafalco: la canzone è il momento di maggiore verifica dei meccanismi comici
del nonsense ed apre il territorio allo spazio delle azioni slegate dalla trama principale, consentendo
digressioni fantastiche o scarti altrimenti troppo buschi della narrazione: il carattere insensato della
digressione musicale, aprendo uno sketch eclettico, rende plausibili i moti più inusitati del filo della
trama ed “epicizza” lo svolgimento narrativo.90
L’utilizzo del refrain dimostra anche come l’impiego degli artifici stilistici nella farsa non sia
involontario: la meccanicità di un principio stilistico come il cliché va infatti orchestrata perché la
ripetitività possa fruttare alla creatività ed in effetti nella maggior parte dei casi lo scarso interesse
estetico delle composizioni risiede nella piatta ripetizione di un luogo dell’espressione drammatica.
L’impiego consapevole degli artifici stilistici è visibile soprattutto nell’uso della terzina in funzione
distensiva o nella ricorrenza di espressioni e suoni con finalità esplicitamente comiche, che vanno a
costituire l’ossatura di alcune pièce.
Comunque sia, 68 opere fra quelle che ci sono pervenute – circa 150 – contengono almeno un
refrain in terzine (e ben 25 di queste provengono dalla raccolta di Londra) che serve per lo più a
marcare le entrate e le uscite di scena o a scandire momenti di distensione dopo le scene violente o
“tragiche”.
Questa funzione distensiva è ricoperta alternativamente dai refrain musicali o dalle ripetizioni delle
battute, con ampio utilizzo di monorematiche: pensiamo al «beeeeee!» pathelinesco o alle espressioni
della farsa del Poulier à quatre personnages in cui le risposte presentano un’importante casistica di
reiterazioni: «mais» (sei volte), «à l’huys !» (quindici volte), «jamais» (ben ventotto volte).91
Farsa e sottie dimostrano di avere assimilato numerose esperienze letterarie, di cui conservano i
residui tematici e stilistici: la verve, la franchezza, la facilità dei dialoghi e la loro qualità espressiva
esplicita provengono dalle performance di strada e dai canti dei mestieri; le forme parodiche
sembrano derivare dai sermoni gioiosi; i contenuti spesso anticlericali ed anarchici affondano le
90
Ci basti pensare solo al fatto che le avanguardie del Novecento hanno molto sperimentato sulla funzione epica ed
universale della canzone nel linguaggio teatrale.
91
B. BOWEN, 1974.
72
radici nella goliardia studentesca medievale e nelle feste popolari dei folli; il cinismo delle storie, il
disincanto e la forma piana delle azioni sono analoghe all’incedere cinico ed enigmatico del fabliau.
Da un punto di vista formale la farsa si caratterizza per la brevità (ben tre quarti delle opere di tutti i
repertori non superano i 500 versi, tanto che i 1600 versi di Pathelin rappresentano una delle tante
anomalie di questa pièce, sproporzionata per complessità narrativa e, appunto, lunghezza
complessiva), mentre il metro più impiegato è l’ottonario a rime piane: accoppiata mnemonica e
cantilenante per eccellenza, che donava il ritmo e segnalava in modo speciale il cambio di battute con
l’enjambement dei motti di più personaggi sullo stesso ottonario.92
La brevità della composizione e la sua monotonia fonica consentivano solo raramente al farceur di
introdurre nella storia più di cinque personaggi, sufficienti ad imbastire una storia non troppo
elementare: ma nella maggior parte dei casi la farsa è piuttosto un pezzo narrativo elementare con
non più di due/quattro figurini.
Sul piano della narrazione anche le composizioni più infime presentano non di rado una divisione di
massima fra esposizione, nodo e scioglimento, per quanto spesso non consequenziali o di scarso
interesse. Lo scioglimento è sovente meccanico o artificiale, ed in ben venti farse è demandato ad un
processo giocoso che fa da cesura alla storia.
Questa abbondanza di pratiche processuali nel repertorio a nostra disposizione si deve alla diffusa
pratica della messa in scena nell’ambito della goliardia della facoltà di legge; ma anche all’ambiente
destinatario delle farse, una classe non miserabile, attiva nel commercio e abituata a tutelare il
proprio interesse di proprietà con atti notarili e testamenti o a difendere i propri diritti in cause civili
atte a dirimere ambiguità su possessi della terra o su testamenti e pagamenti inevasi.
Il processo giocoso può pertanto essere considerato a tutti gli effetti un luogo tematico: la sua ironia è
per lo più incentrata fra la evidente di sproporzione fra mezzi e fini. Ci si avvale dell’arena giudiziaria
anche per dirimere le questioni più infime (si entra in causa perché un personaggio non ha chiuso la
porta o perché una moglie ha emesso un sonoro peto davanti al marito).
In fatto di ricorrenza, però, il luogo comune più importante è senza dubbio il triangolo amoroso, col
marito, la moglie e l’amante ad avvicendarsi sulla scena: ben trenta farse presentano un intreccio
basato sull’infedeltà e molte altre vi alludono.
D’altronde il sesso è un terreno fertile per far fermentare l’oscenità di cui le pièce spesso e volentieri
sono impregnate. Si direbbe anzi che altri caratteri propri della farsa sono appunto il linguaggio ed il
92
W. NOOMEN, 1956.
73
tema osceno: vicino alla complessità di alcuni fenomeni linguistici come il comico verbale, troviamo
infatti il riso scatologico, quello che scaturisce direttamente dall’espletamento delle più basse
funzioni corporali. Il mondo della farsa è tutto un abbondare di oscenità, doppi sensi sessuali o di
uomini e donne impegnati a battersi per la puzza dei loro peti, per tradimenti spregiudicati e peccati
osceni.
Il est assez fréquent, en effet, que le bruit de sonorités déplacées recouvre le comique verbal des farces, que les
tréteaux y soient glissants de bran, d’orine, d’estrongs ; qu’il y soit question de culerie, de sadineta, de vit;
qu’on s'y envoie allègrement chier, peut-être parce qu’on a le cul pétant ; qu’on s’y traite de crevasse ou de
fendasse puante, de cul breneux ; bref, comme le dirait l’adolescent du Garçon et l’aveugle, qu’on y parle
laidement. On y parle surtout jargons. Latin macaronique, baragouinage italien, argot, dialectes, patois, sans
oublier ce que Robert Garapon nomme si justement le jargon absolu, c'est-à-dire « des mots qui n’ont de sens
dans aucune langue », tous ces parlers étranges créent une drôle de cacophonie verbale sur les tréteaux du
Moyen Âge.93
Viene da sé che oltre alle formule più volgarmente scatologiche, il sesso è espresso con allegorie più o
meno calzanti, sulle quali si costruisce sovente una intera pièce: l’esplicito «Trainer la queue»94 di
Maistre Antitus; l’uso ambiguo del verbo «rembourrer» ne les Femmes qui font rembourrer leur bas;95
oppure l’impiego dei verbi «couvrir» ed «écurer» rispettivamente ne le Pauvre Jouhan96 e ne les
Femmes qui font escurer leurs chaudrons;97 ed è d’altrettanto facile fruizione la confusione di «bas»,
«vigne» e «aiguille» con gli organi sessuali.
Il doppio senso si estende talvolta alla qualifica professionale dei personaggi: mestieri ad alto
coefficiente sessuale ne esistono diversi ed in quasi tutti la caratterizzazione in questo senso avviene in
seno all’ambiguità linguistica: citiamo a titolo esemplificativo il «ramonneur de cheminée» o
«l’écoureur de chaudrons».
È straordinario allora come la farsa – in apparenza così elementare, semplice e corriva – abbia una
precisa coscienza del linguaggio teatrale e come si spinga ad una riflessione attiva sull’uso del francese
e delle espressioni idiomatiche, generando quello che Brecht chiamerebbe straniamento:
illuminazione, riflessione attiva, sul tessuto passivo, inerte e meccanico delle forme linguistiche
ripetute, i cliché, appunto.
Dicendo illuminazione si intende sottolineare come l’aspetto esplosivo dell’impiego delle forme
idiomatiche tragga vitalità comica dallo sfasamento fra significato e significante: fra senso idiomatico
93
N. LEROUX, 1979 : p.103.
PICOT – NYROP, pp.97-114.
95
Rép. COHEN, n°XXXVI, pp.283-286.
96
TREPPEREL I, n°VII.
97
ATF, t.II, pp.90-104.
94
74
e senso letterale, quest’ultimo ripristinato dall’idiota, che è stolto perché sembra incapace di seguire
qualsivoglia associazione allegorica. Ove gli altri procedono automaticamente, lo stolto si sofferma a
pensare: per paradosso il più sciocco è quello che non resta inerte rispetto all’espressione linguistica.
La messa in scena di un proverbio o d’un uso verbale traslato nella sua forma letterale è infatti uno
smascheramento improvviso dell’uso e del logoramento della parola,98 procedimento moderno
largamente impiegato nel teatro delle avanguardie nel Novecento, a partire almeno dalla saga di re
Ubu.
«Vous avez faict ung grant deffault | De rompre votre mariage» si sente dire l’uomo dalla vicina, sua
confidente, e quello da vero estourdis risponde: «Où sont les pièces ?»99 nel classico Mahuet Badin100
tutto il movimento narrativo si incentra sulla convinzione del protagonista che “prix de marché” sia
un nome proprio di persona; e se si prova a convincere un idiota a «faire de l’argent» quello andrà
dritto dritto dall’alchimista per farselo fabbricare.101
L’utilizzo di espressioni stereotipate è adottato criticamente e con grande intelligenza, spesso anche
per sottolineare le differenze di status sociale o per mettere alla berlina la stupidità di un personaggio.
LE RICHE
Qui a escus, à brief parler,
Il peut faire beaucoup de choses.
LE PAUVRE
Qui n’a souliers, et veut aller
Chaussé, faut au moins qu’ait des chausses.102
Ed ecco altri casi: all’esclamazione «que le diable t’emporte !» un curato camuffato da diavolo entra
in scena e si porta via il personaggio;103 il Gentiluomo domanda a Naudet104 di mettere il vino
nell’acqua per raffreddarlo ed il servitore svuota la bottiglia nel secchio, non prima di essersi servito
un bel bicchiere tutto per lui.
Un quaranta percento circa delle farse contiene simili ambiguità, ma non è da escludere che molto
oggi ci sfugga, viste le numerose espressioni idiomatiche del XV e del XVI secolo ormai scomparse
dal francese moderno: è il caso di «chauffer la cire» che significava annoiarsi ed esser di troppo in un
98
B. BOWEN, 1966.
Nella Farce de celui qui se confesse à sa voisine (Rép. COHEN, n°II, pp.9-20 : p.9).
100
ATF, t.II, pp.80-89.
101
E. PICOT, 1914.
102
Farce des deux savetiers: Rec. FOURNIER, pp.209-215 : p.211.
103
Farce de Martin de Cambray: Rép. COHEN, n° XLI, pp.317-326.
Il trucco ci fa pensare ad uno degli esempi più conosciuti e citati da La natura non indifferente di Sergej Michajlovič
Ejzenštejn per descrivere il suo “teatro delle attrazioni”: un personaggio dice asino ad uno ed in scena compare un mulo.
104
ATF, t.I, pp.250-270.
75
99
ménage amoroso, o di «manger à la table de marbre» che voleva dire rimanere a digiuno, non
mangiare.105
E ancora più di un terzo delle circa 150 farse che costituiscono il nostro repertorio ha un titolo con
un doppio senso (Beaucoup voir et joyeux soudain, les Femmes qui font rembourrer leur bas),
comprendente un proverbio (les Droits de la Porte Bodès, les Femmes qui font accroire à leurs maris que
de vessies ce sont lanternes) o una allegoria evidente (le Faulconnier de la ville) oppure esibiscono
un’oscenità (les Chambrières qui vont à la messe de cinq heures pour avoir de l’eaue beniste).
Nonostante il linguaggio e le tematiche semplici e scatologiche è difficile capire se la farsa e le forme
liminari adottino uno stile sinceramente basso o uno sapiente che simula la semplicità, ma questo
secondo caso sembra più realistico da una analisi anche superficiale degli artifici stilistici usati dai
farceur. Scegliere il linguaggio come oggetto della comunicazione in sé, in effetti, non è un
meccanismo del tutto banale e rivela anche l’ambito eminentemente retorico di molte farse: il
comico linguistico può avvenire di certo in modo spontaneo (sono lì a dimostrarcelo alcune
manifestazioni dell’ironia popolare) ma per essere trasferito sul catafalco richiede una discreta
elaborazione intellettuale.
Il linguaggio “si fa” oggetto della narrazione in modo esplicito e raffinato ad esempio in alcune farse
ove il silenzio viene dissimulato o realizzato per mettere in atto un’elusione linguistica e narrativa; le
storielle che adottano questo espediente sono circa venticinque ma fra di esse si contano vari
capolavori del genere come le Savetier Calbain qui ne répond que par chansons, le Poulier à six
personnages, un Chaulderonnier o les Droits de la Porte Bodès.106
In un caso del tutto speciale come quello di Pathelin il comico verbale è realizzato in modo così
consapevole da svolgersi senza bisogno della prossimità botta/risposta delle battute: avviene per
l’espressione «voulés vous a ung mot ?» che vuol dire «volete sapere in una parola il prezzo?», e che
anticipa al 236esimo verso il feroce contrappasso contro Pathelin, cui Aignelet promette di pagare «à
vostre mot», ovvero con un belato cui l’avvocato non potrà controbattere nulla di più che una amara
constatazione, verso la fine della pièce: «Regardés, sire, regardés ! | Je luy parle de drapperie | Et il
respond de bergerie !»107
105
Le espressioni compaiono rispettivamente in:
Pernet qui va au vin (ATF, t.I, pp.195-211); le Capitaine mal en point (Rép. COHEN, n° XLIX, pp.391-404).
106
Nell’ordine: ATF, t.II, pp.140-157; Rec. LEROUX, t.II, n°4; ATF, t.II, pp.105-114; Rép. COHEN, n° XX, pp.159164.
107
Rec. JACOB pp.19-117 : p.108.
76
1.3.2 – Drammaturgia in pezzi.
Ora che abbiamo visto come nella farsa il comico verbale sia una struttura portante non solo dello
stile e dell’arsenale significante, ma un elemento basilare anche per lo sviluppo delle trame sceniche,
bisogna interrogarsi se essa non sia in sé, organicamente e per intero, un gioco linguistico o un
cliché.108
Ad aprire un’affascinante ipotesi in tal senso è uno studio apparentemente classico, ma in realtà
germinale per la nuova critica dei generi drammatici dell’Evo Medio con cui Jean-Claude Aubailly,
ebbe a domandare una maggiore apertura degli storici del teatro a forme drammatiche minori come
il monologo e la sottie.
Ne le Monologue, le dialogue et la sottie,109 lo storico sosteneva che il contributo più importante alla
storia del teatro da parte della precoce drammaturgia d’oltralpe fosse la sottie: genere sperimentale e
moderno, che testimonia la vitalità del teatro medievale francese e la sua singolarità. Soprattutto,
Jean-Claude Aubailly chiedeva una lettura critica unificata e complessiva delle farse e delle sottie
come espressioni di un medesimo sistema di rappresentazione.
Poco più di trenta pièce che si autodefiniscono sottie sono contenute nella raccolta di Emile Picot
(RGS) e risalgono ad un periodo molto ampio, comprendente i centocinquanta anni fra il 1420 ed il
1571; 16 sottie corrispondenti ad un arco temporale inferiore (1450-1511) figurano invece
nell’indice del Recueil Trepperel; infine un altro gruppo consistente è contenuto nella Raccolta di
Firenze e pertanto è escluso dal fondamentale repertorio generale di Julleville.110
Sono composizioni autoreferenziali, articolate per ed attorno ad un mondo specifico ed allusivo,
spesso non ignaro dell’esistenza delle altre sottie e farse, che vengono ripetutamente citate. Nelle sottie
si fa facilmente allusione a fatti del contemporaneo, quasi sempre sapientemente occultati in
criptiche (o generiche) formule allegoriche: altri dettagli di cronaca emergono nei frequenti
riferimenti alle festività ed alle concessioni cittadine, spesso con appelli diretti al pubblico.
Come nelle farse anche nelle sottie si fa un ampio uso di motti proverbiali e di leggende locali spesso
usate a mo’ di satira della moda corrente o della mentalità che evolve in negativo. Tutti questi
108
J. KOOPMANS, 2002.
J. C. AUBAILLY, 1976.
Cogliamo l’occasione per segnalare qui anche un’altra opera d’approfondimento sulla sottie: O. DULL, 1994, che si
occupa dei rapporti fra sottie, cronache e querelle politiche.
110
Rép. COHEN e notiamo qui come lo stesso curatore della raccolta di Firenze usi la parola farce indifferentemente
anche per le sottie.
77
109
elementi sono per lo più comuni alla due forme comiche: abbiamo già visto nel corso della nostra
trattazione come sia impossibile trovare una differenza davvero “probante” fra farsa e sottie, ma in
quest’ultima le funzioni simboliche sono certamente più sviluppate e maggiore è il disinteresse per la
trama.
Esiste di fatto fra le due formule profane una quasi totale comunanza di personaggi, specie quelli
allegorici (è vero che sono le sottie ad avere più sovente personaggi astratti come Ebahis, Gens
nouveaux, etc… che figurano pure enumerati in serie, ma le stesse allegorie sono inserite anche nelle
farse e nelle moralità), e di luoghi, (la corte, il palazzo di giustizia sono quelli tipici della farsa, che
pure non disdegna la piazza, ma compaiono altrettanto frequentemente anche nelle sottie).
Le differenze farsa/sottie sono affidate al solo sesto senso ed al palato del lettore, e si intuiscono solo
leggendo: la sottie esprime atmosfere più “enigmatiche” ed i suoi toni morali e filosofici contrastano
con la filosofia per lo più scatologica o minuta della farsa. La follia esibita dai sot è gratuita ed
irrazionale, in qualche misura sciolta da qualsiasi meccanismo narrativo in continuum.
Praticamente in tutte le sottie si allude alla dimensione ludica ed al divertimento in generale e la sottie
mette “sotto i riflettori” più di quanto non faccia la farsa i legacci che tengono in piedi la scena;
spesso vi si menzionano “regole teatrali” oppure vi si vedono sot impegnati a recitare ed a ripetere
artificialmente delle battute e ancora alludere ad un qualche seguito del varietà teatrale.
Ne les Sots qui remettent en point Bon Temps troviamo ad esempio due battute che sottolineano la
chiara coscienza dei personaggi d’esser sul catafalco: al verso 19 uno si domanda che pezzo comico
dovranno recitare («Mais que jouons sur l’eschaffault ?») e più avanti, al verso 234, i protagonisti se
ne vanno a seguire qualche scenetta comica («Nous deux allons veoir les esbatz») che farà loro venire
voglia di esibirsi sul catafalco («Je sçay un bon jeu qui voulra | Quel jeu?»): ma si registrano nelle
battute altri dati “esteriori” alla finzione, quando un idiota si esalta ed incita gli altri con un
«Trainons quelques transitions» e quando un altro dichiara «A passer temps | Nous demandons
jeuz». 111
Vi sono numerosi casi analoghi, come quello della sottie di Trottemenu et Mireloret («Voyrement
quant je me ravise | Jourons a aucun jeu, nous deux»)112 e dei Béguins. In questa ultima, in
particolare, il gioco “metascenico” si fa insistente e dopo l’affermazione «Si nous fault entendre | A
jouer quelques nouveaux jeux», i sot trovano i loro costumi e si danno più esplicitamente all’arte
111
112
TREPPEREL I, n° XII.
Ibidem, n° XIII.
78
drammatica ingiungendo al verso 220 «Jouons donq !»; i preparativi della recita continuano fino a
quando dama Folie non li raggiunge dicendo loro «Soyez prests a jouer la farce» e quelli rispondono
senza esitazione alcuna «Nous somme prests en ceste place | Commençons !».113
Con anacronismo vertiginoso, si direbbe che la sottie è giocata su un territorio più espressamente
metateatrale rispetto alla farsa. Questi brevi giochi di scena non sono che un’unica allusione alla
recitazione, dato che mette in evidenza la funzione eclettica e, per così dire, “interstiziale” della sottie,
che poteva funzionare come tessuto connettivo fra differenti brani. La sua universalità non riposava
tanto sulla costruzione di figure allegoriche, quanto sulla raffigurazione del contesto scenico e del
palcoscenico come pratica artistica che ingloba tutti i fatti e finanche il mondo intero.
Ad accostare per la prima volta la sottie al teatro dell’assurdo è stato Alan E. Knight, nel saggio già
citato che sviluppa la buona ma anacronistica intuizione che le forme contemporanee dello
spettacolo siano esteticamente imparentate col teatro profano medievale.114 Sebbene Knight dedichi
il suo studio al solo teatro dell’assurdo, il medesimo tracciato potrebbe essere applicato
indiscriminatamente ad ogni forma di espressione scenica sperimentale (e non): nella farsa e nella
sottie si possono riscontrare, volendolo, le esperienze del teatro surreale, la crudeltà artaudiana, le
feste eclettiche del futurismo, ma anche gli spunti metateatrali di Amleto. E ciò semplicemente
perché la farsa e la sottie posseggono una coscienza linguistica precisa del gioco di scena, che mettono
a profitto per la costruzione di un orizzonte di senso. Le comunanze fra avanguardie e farsa sono una
questione di linguaggio, di applicazione, cioè, delle specificità del gioco di scena, che il teatro
profano francese sa usare con grande efficacia.
Cercheremo di stabilire qui margini e punti di riferimento, a dimostrazione che nella farsa e nella
sottie la frammentarietà, l’insensatezza ed i continui balzi tematici e sintattici, a lungo considerati
limiti estetici perché messi ottusamente a confronto con la tradizione drammatica posteriore
(moderna perché “chiaroscurale”), fanno in realtà parte di una dieta estetica ben precisa, soprattutto
regolata sui principi dell’efficacia significante in azione.
Ma vogliamo di nuovo precisare come l’idea alla base del saggio di Knight – che pretende un legame
sociale forte fra la destrutturazione linguistica della farsa e la protesta politica di una classe sociale che
in essa si sarebbe riconosciuta, così come accadeva nel contesto delle avanguardie – sia
fondamentalmente errata, in quanto la sperimentazione linguistica è un fatto acquisito e naturale in
113
114
RGF, t.II, pp.265-298.
A. KNIGHT, 1971 : pp.183-189.
79
questo tipo di teatro e la farsa non entra mai veramente nel merito di una questione, per così dire,
sociale. Al contrario abbiamo visto che le farse e le sottie riversano volentieri il loro livore un po’ su
tutti, avanzando una generica ed arrabbiata critica alla società in generale, senza prendersi mai carico
di valori ideologici “popolari”, ciò che fra l’altro sarebbe possibile solo con la presenza di un pubblico
storicamente determinato, e questo non è il caso del teatro profano francese. Bisogna anche
sottolineare che le uniche pièce a sfondo esplicitamente politico non parteggiavano per un
improbabile “popolo”, ma assecondavano programmi politici ed interessi ben definiti (il re,
l’università, i mestieri).
E veniamo finalmente ai motivi di risonanza fra sottie ed avanguardia: si è già menzionata
l’attenzione intellettuale (1), “epica”, per lo svolgimento dell’umorismo, che ha efficacia soltanto se
lo spettatore effettua un’operazione di astrazione razionale: cosicché le situazioni non sempre chiare,
a tratti enigmatiche, obbligano ad interpretare le vicende drammatiche. Troviamo un altro punto di
contatto nella capacità di astrarre (2) e cioè di trovare luoghi o situazioni simbolici, benché la
narrazione non avanzi né indietreggi. C’è poi un certo disinteresse per la coerenza interna degli
elementi letterari (3), attitudine che se nuoce alla cura formale agevola la resa performativa delle
pièce. E ancora l’impiego di linguaggi eclettici (4), per così dire “biomeccanici” o clowneschi, che
nella farsa e nella sottie funzionano da catalizzatore dell’attenzione e nel teatro d’avanguardia come
“attrazioni” ed ulteriori elementi di resa del significato in senso speculativo. Anche l’uso del
linguaggio (5) sembra a tratti speculare fra queste due forme di espressione scenica tanto lontane fra
loro: il comico verbale, che in definitiva nega la possibilità di una vera comunicazione “in chiaro” fra
le presenze sceniche farsesche sembra somigliare al disagio dell’incomunicabilità registrato dal teatro
del Novecento.
Ma al di là di queste considerazioni estetiche più o meno rischiose, avanguardie e farse hanno in
comune fra di loro una specie di cosmico senso di ansietà e di smacco, sorta di schiacciante ed
inspiegabile pericolosità cui i personaggi sembrano esposti costantemente: l’attesa, appunto, ma
anche la fluidità delle relazioni e l’inconsistenza dei rapporti interumani, ridotti a tragico
meccanismo ad orologeria, in grado certamente di deformare il volto in una smorfia di riso, ma
sempre nella sotterranea angoscia dell’invivibilità smaccata del mondo al contrario.
80
Se pensiamo alla grottesca e terribile forza delle Übermarionette di Edward Gordon Craig o Alfred
Jarry, comprendiamo meglio in che cosa consista l’insensato svolgersi delle vicende di questo branco
di sbandati, per i quali nessuna altra regola sembra valere se non quella dell’homo homini lupus.
Stavamo vedendo come più che un blocchetto narrativo e performativo posto fra una farsa ed una
moralità, la sottie sia una finzione di messa in scena (finzione della finzione, con scarto metateatrale)
e cioè una sorta di macro-recita, breve nelle battute e nello svolgimento, è vero, ma così come sono
sottili le facce di una grossa scatola in cartone: pensata cioè per contenere le diverse e discontinue
forme drammaturgiche previste in un cartellone, omogeneizzandole in una cornice unica e dunque
in un’opera più coerente delle singole parti in sé. La presenza della sottie rendeva probabilmente
possibile l’esistenza di un repertorio, la cui caratteristica fondamentale era la ripetizione di unità
modulari.
Tornando alla Sottie des Béguins, dopo avere dimostrato tanta voglia di mettersi a recitare i sot
protagonisti sono vittime di uno smacco paradossale: non potranno eseguire la messa in scena fino
all’arrivo di Bon Temps (che pure attenderanno, come è prevedibile, “sans soucy”, ovvero
intrattenendosi con il vino e con i canti che ci congedano dalla pièce) in quanto gli “chaperon”
preparati al prezzo della veste di Folie sono inservibili, privi come sono d’una delle due orecchie da
somaro previste dalla mise dei cretini.
Così i nostri stolidi eroi non si sentono in grado di poter recitare: hanno paura che «droite aureille
[…] interprette | En mal ce que nous disons pour bien»115 e preferiscono attendere l’aiuto di Bon
Temps (creduto morto ma in realtà in esilio) perché senza di lui il pubblico comprenderebbe tutto di
traverso.
E qui Picot ci fa notare un’allusione alla censura che aveva interrotto per quattro anni le recite della
compagnia degli Enfants de Bon Temps: lo studioso rende ampiamente conto delle vicende di
cronaca legate all’interdizione delle recite da parte della compagnia ed è certo di poter attribuire la
sottie ad un tale Philippe Berthelier, patron dell’associazione.116
115
RGS, t.I : p.295.
Qui ci interessa soltanto sottolineare che i personaggi in farsa sono legati a filo doppio alla realtà civica e municipale:
per una maggiore dovizia di particolari sullo scherzo violento che fu all’origine dell’interdizione rimandiamo a Picot, che
mette in relazione la storia della compagnia a quella della città alle soglie della Riforma.
Ibidem, t.II, pp.265-299.
81
116
Comunque stiano le cose la sottie prevede l’esecuzione di una pièce ed è incompleta se recitata da sola,
come un pezzo pronto per accoglierne degli altri: così anche il tema ha un esito metateatrale, ricco di
riferimenti alla compagnia e alle persone reali che ne facevano parte, oltre che alle vicende legate alla
censura degli Enfants da parte del duca di Savoia.
Pure la pièce dei Coppieurs et lardeurs117 presenta un livello alto di elementi metanarrativi, ma
possiamo verificare facilmente come le sottie contengano sempre almeno una battuta con riferimento
diretto all’esecuzione materiale di una recita.
Possiamo forse individuare un’eventuale caratterizzazione del genere in questa “qualità metateatrale”?
Neanche, in quanto se è vero che tutte le sottie posseggono un certo “coefficiente epico” anche molte
farse fanno esplicitamente allusione al contesto performativo del catafalco ed impostano l’ironia su
un piano riflessivo di straniamento mentale.
In particolare Coppieurs et lardeurs si caratterizza per una densa serie di allusioni al repertorio in voga
all’epoca, fatto estetico che sconfina nel dato storico, tant’è che i titoli citati forniscono ad Eugénie
Droz preziose informazioni per collocarne la realizzazione a prima del 1488.
Le presenze “sottesche” che popolano la pièce sono quanto mai realistiche (e le digressioni surrealiste
servono l’agevole svolgimento dello sketch) trattandosi di due artigiani: il «coppieur» Malostru è un
copista mentre il «lardeur» Nyvelet è una sorta di macellaio-cuoco armato di spiedino. Nel pieno
rispetto delle loro professioni i due non fanno altro che copiare e lardellare: ciò che nel patois
enigmatico della farsa significa prendersi gioco di qualcuno.
Durante lo svolgimento dell’intrigo capiamo subito che l’azione del coppier consiste nel copiare, cioè
fare la caricatura di chiunque sia a tiro e notiamo anche come i membri dei mestieri legati alle arti
liberali – come le attività di trascrizione dei manoscritti e la stampa – fossero rappresentati come
esempi di lingua tagliente e di massima indipendenza intellettuale. Similmente, lardellare vuol dire
prendersi gioco di qualcuno nella misura in cui il lardellatore tratta il lardellato come un pezzo di
carne o un volatile: il parallelo gastronomico veniva utilizzato da tutta la letteratura drammatica
europea moderna e contemporanea e particolarmente dalla farsa e dalla sottie per esprimere l’azione
di trattare qualcuno per imbecille.
Tale senso figurato si ritrova per entrambe le espressioni idiomatiche in vari luoghi della letteratura
burlesca francese, riportati con cura da Eugénie Droz, di cui ci limitiamo qui a riportare le
conclusioni.
117
TREPPEREL I, n° VIII.
82
Ces exemples qu’on pourrait multiplier, prouvent que ces expressions étaient courantes dès 1480 et qu’il est
naturel qu’on les aies portées à la scène. Le XVIe siècle a continué à les employer ; Rabelais, au XIIe chapitre
de Gargantua, fait dire au maître d’hôtel : « nous sommes lardez a poinct, en mon advis »118.
I trasferimenti dal senso letterale a quello figurato di coppier e larder sono incessanti: l’opera (che ha
dimensioni notevoli – oltre 400 versi – per figurare fra le sottie secondo un criterio di lunghezza) si
apre con un’esibizione piacevole delle due professioni sornione, che introduce subito l’elemento
portante di ambiguità verbale esercitato senza soluzione di continuità. Entra poi Teste Creuse, idiota
del villaggio, mezzo bell’imbusto e mezzo fatuo, che deve subire le ingiurie e le plaisanterie dei due
simpatici mestieranti che tosto lo abbandonano per andare a bere dove egli, dicono, sarebbe fuori
luogo.
A rimpiazzare i due burloni ci pensa Sotin, altro idiota patentato che entra facendo un gran putiferio
con filastrocche e canzonette, delle quali però nel testo originale non restano che scarsi frammenti la
cui interpretazione complessiva non è agevolata dal già difficile linguaggio.
Quando sopraggiungono Malostru e Nyvelet, Teste Creuse ormai si annoia e propone pertanto di
recitare una farsa. Da qui muove la parte che abbiamo definito metateatrale: i due mestieranti sono
in brodo di giuggiole al solo pensiero di mettere in scena «un jeu nouveau tout fin frès»119 dove
esibire la loro idiozia; propongono così vari titoli di pièce variamente sparse nei nostri repertori, e che
nella finzione scenica sono stipate nella biblioteca del copista Malostru.
La testimonianza resa dal nostro autore (probabilmente Jehan d’Abundance) è straordinaria perché
mostra l’esistenza di precocissime pratiche editoriali nel settore delle lettere drammatiche francesi e
soprattutto già di un repertorio e di una “voga”, cioè di opere di tendenza: a dire che nella seconda
metà del XV secolo in seno al pubblico s’era già formato un certo gusto.
Spuntano così i titoli di varie composizioni: si va dalla Danse macabré par personnages, all’ultima
canzone alla moda («Basse dance nouvelle»); ma Teste Creuse fa la parte dell’intenditore, non si
accontenta di roba vecchia ed invita Malostru a tirare fuori qualcosa “che monti”: quello allora
propone Pathelin, Poitrasse o il Pauvre Jouhan. Ancora una discussione, ancora pezzi troppo vecchi e
conosciuti: lo stampatore esibisce la sua fine conoscenza del genere e propone a “testa bucata” una
«farce d’échaffault» oppure una «farce de noces» o ancora una «de collège»: il metodo dei generi piace
a Teste Creuse che risponde di pretendere una farsa «de bande», che dobbiamo supporre fosse una
118
119
Ibidem : p.150.
Ibidem : p.158.
83
farsa con molti personaggi, adatta dunque ad una vera troupe; al che il perito Malostru dovrà vedere
scartate la Fillerie (troppo volgare, dice: ma per noi è dispersa) e les Trois coquins (troppo imbecille)
per convincere finalmente il pretenzioso Teste Creuse sulla farsa degli Oyseualx, che secondo Eugénie
Droz corrisponderebbe alla farsa della Pipée.120
Dopo la digressione “letteraria” l’autore si tuffa nuovamente nel comico di situazione: Malostru
riprende a coppier e propone a Teste Creuse di interpretare in farsa la parte della donna innamorata,
il passo è zeppo di occasioni ridicole perché tutti i complimenti del copista suonano ipocriti e falsi.
Così, mentre lo stolto viene copiato con diverse imitazioni del portamento e della sua presenza fisica,
il lardellatore non sta con le mani in mano e mette in azione l’espressione idiomatica che lo
concerne, ricoprendo di pezzi di grasso il bellimbusto.
Quando sulla scena torna Sotin, fino ad ora tralasciato, i due si sono dati alla fuga: bisogna così
pensare ad una vendetta piacevole per la cui realizzazione è necessaria la presenza di quel cervellone
dell’Escumeur de latin, gran capitano degli imbecilli e membro dell’equivoca banda di Triboulet.
Les sots de la bande de Triboulet doivent venger ‘cest erreur’. Survient l’Escumeur de latin, aïeul de l’écolier
limousin de Rabelais et cousin du personnage de farce Maître Mymin, qui conseille ‘qu’on les farce’ (v. 329)
d’une ‘salse laquelle se fait voquer farce’ (v. 353-354) : ‘Qu’on le farce ? par quelle façon ? – Ainsi que l’on
farce ung cochon’ (vv.330-2). Chose symptomatique, les sots prennent la chose au pied de la lettre et
cherchent des fines herbes pour composer la farce (346-48). Notons qu’ici, « farcer » d’autres est une
occupation typique de la bande des sots. Signalons en outre que la rivalité de deux factions, dans cette sottie,
n’est peut-être pas tout simplement gratuite. Au contraire : puisque ce sont justement le monde des métiers
[…] et le monde des sots (Sotin Teste Creuse), soutenus par un (pseudo-)écolier, qui s’opposent, on se
demande s’il n’y a pas, ici, une mise en scène du monde de la farce en même temps que celui de la sottie.121
È questa una ulteriore dimostrazione che la sottie fosse una cornice atta a contestualizzare le
digressioni farsesche?
La pièce dei Sots qui corrigent le magnificat,122 segue nella raccolta Trepperel i Coppieurs et lardeurs ed
è un esempio supplementare di questo procedimento per contestualizzazioni; datata da Eugénie Droz
al 1488-89, secondo Jelle Koopmans sarebbe almeno anteriore di 30 anni.
Il legame di questo pezzo comico con quello che lo precede nella Trepperel è evidenziato anche
dall’attacco, e dalle presenze sceniche: il tema centrale è l’espressione idiomatica, del titolo –
«corriger le magnificat» – che voleva dire correggere stoltamente un’autorità o un sapiente. In questa
sottie fanno la parte dei corrigeurs i saccenti Dando Mareschal e Maistre Aliboron.
120
F. MICHEL, 1832.
J. KOOPMANS, 2002 : p.130.
122
TREPPEREL I, n° IX.
121
84
Il meccanismo del teatro nel teatro è fin nelle prime battute, durante le quali i personaggi si
intrattengono sull’ambiguità linguistica fra farcire e falsare, parallelo gastronomico con «farcer»,
mettere in farsa, che ricorda il gioco sul lardellare della pièce precedente.
Ai versi 29 e 30 leggiamo «Farsasmes nous pas lourdement / Trestout noz trencheurs de grobis [gros
bis]?»: i birbanti avrebbero già ben “farsato” (farcito? Interpretato una farsa?) e si complimentano di
avere messo in azione il testo drammatico.
Et noz coppie(u)rs par exprés ?
Nous le farsasmes vivement.
ROUSSIGNOL
Jouay avons habilement.123
In tutto questo esibirsi e vantarsi arrivano anche Dando Marechal e Maistre Aliboron, subito pronti
nelle loro non meglio precisate attività professionali di domine fac totum e corrigeur de magnificat si
mettono a criticare la moda del tempo, in evidente contrasto col tono licenzioso degli idioti che
scorrazzano sul palco: vediamo i due professori esibirsi in critiche continue alle lunghe code ed ai
berretti alti, un atteggiamento che ricorda da vicino il tipo del vecchio in commedia, sempre pronto
a redarguire i giovani e le nuove tendenze.
Dando critique les atours des dames élégantes, leurs bonnets démésurés, leurs queues trop longues, leurs
décolletés exagérés, leurs robes de nuit fendues de bout en bout, selon la mode nouvelle, leurs épingles, leurs
bijoux. A chaque critique, Aliboron répond, explique et renchérit. Ils passent ensuite à la tenue des jeunes
hommes, se moquent des grands chapeaulx, de cheveux trop blonds, des souliers sans talons, du maintien
affecté.124
Fra l’altro il dettaglio delle lunghe code è uno degli elementi che inducono Jelle Koopmans a mettere
in discussione la datazione fornita da Emile Picot: secondo la studiosa si tratterebbe infatti di una
allusione alla farsa delle Queues troussées,125 dove ricordiamo che lo stesso Aliborum ha una parte.
A sollevare gli spettatori da questo tedio di buoni consigli ci pensano gli stolti, che attaccano i due
vecchi senza alcun rispetto: prima li spogliano delle toghe, affermando di volere avere a che fare solo
con sot loro simili, poi si mettono a blaterare di punire i due uomini chiudendo loro la bocca.
La scena della nudità dei due professori sembra avere qualche rapporto con le Femmes qui coiffèrent
leurs maris sur le conseil de maistre Antitus,126 dove le donne finalmente scoprono sotto il costume la
123
Ibidem : p.194.
Ibidem : p.187.
125
Rép COHEN, n° VI, pp.43-50.
126
PICOT – NYROP, pp.97-114.
124
85
realtà dei mariti: cornuti, stolti, idioti, incapaci. Ancora una volta si tratta di parlare di maschere e
disvelamenti caratteriali che possono essere resi con grande efficacia sulla scena, semplicemente
cambiando d’abito al proprio personaggio, “smascherandolo” e rimascherandolo, per l’appunto.
Sul finire della pièce Aliborum e Dando si scagliano contro i fannulloni che li attaccano e vorrebbero
cacciarli dalla sala; gli improperi diretti alla compagnia piacevole sembrano vertere sulla qualità
complessiva dell’esecuzione drammatica («L’ung de vous fait le non joueur, | Et contrefait le bon
varlet»).127
Interpretando questa pièce gli storici sono andati lontano, ipotizzando che all’epoca della stesura
dovessero esserci più organizzazioni di sot in competizione fra loro.128 Il periodo per una
competizione commerciale fra compagnie piacevoli sarebbe precoce: ma le prove addotte – tutte
interne al testo – non sono propriamente documentarie.129
Alle due pièce appena viste se ne aggiunga una terza, quella che le segue ancora nella Trepperel in una
specie di trittico. È la sottie de Les vigiles de Triboulet, che presenta in comune con le due precedenti
il personaggio di Rossignol. Il luogotenente di Maître Mouche, Triboulet, è appena morto ed i sot
Rossignol, Croquepie e Sotouard ne cantano la veglia funebre. È questa l’occasione per citare il
repertorio del maestro.
[…] la farce
de Pathelin et de Poitrasse,
Le Cuir, le Povre souffreteux
Et les farces des Amoureux,
Comme la filerie tendrete,
Fin Verjus, blason toute faite.130
Il tema in sé è assai scarno, trattandosi semplicemente delle esequie di Triboulet fatte dagli altri
imbecilli della compagnia: in buona sostanza ne abbiamo già riassunto la trama, e sottolineiamo
soltanto ciò che è già evidente, e cioè che anche questa sottie funziona come reagente per svelare i
meccanismi della finzione scenica.
Già nei copieurs l’accoppiata Pathelin-Poitrasse suona vecchia e stanca per i sot alla moda: qui
durante le “vigilles” si menzionano le opere Povre souffreteux e Repues franches come pezzi di
repertorio del bravo Triboulet. Se ne ricava che gli attori eseguivano nei varietà drammatici anche
127
TREPPEREL I, n° IX.
B. REY-FLAUD, 1984.
129
J. KOOPMANS, 1999 : p.33.
130
TREPPEREL I, n° X : p.233.
128
86
pezzi non espressamente teatrali, un fatto che conferma come gli autori dell’epoca fossero coscienti
dell’operazione di trasferimento delle trame e dei temi dalla novellistica al teatro burlesco e
soprattutto che le pratiche sceniche si alimentavano consapevolmente del patrimonio letterario.
Tutte queste pièce (la trilogia appena vista nel dettaglio, ma anche la lunga lista di titoli che ivi
vengono citati) dovevano circolare assieme, in Parigi, al massimo nell’ultimo ventennio del XV
secolo (o prima, se si confermassero le ipotesi di datazione diversa per Coppieurs et lardeurs)131 e sono
pertanto un valido campione per stabilire una pratica comune almeno a tutto il contesto letterariodrammatico dell’Ile-de-France e delle regioni limitrofe, in particolare Rouen e la Normandia.
1.3.3 – Farsare, farcire, falsare o il teatro delle azioni.
Il tema della scelta della pièce da recitare sembrerebbe una prerogativa delle discussioni dei sot: le
funzioni metateatrali di quello che riconosciamo come l’insieme inscindibile farsa|sottie (due funzioni
letterarie d’uno stesso dispositivo scenico) sono importanti per tracciare da una parte un’ipotesi sulle
modalità di rappresentazione e dall’altra cercare di dimostrare che il fine ultimo della letteratura
farsesca resta l’azione scenica.
Crediamo infatti che tutti i segnali forniti dalle sottie sulle forme dello spettacolo medievale
dimostrino come l’azione e solo l’azione sia al centro delle intenzioni del genere: la farsa presenta uno
svolgimento segnato dalla particolare attenzione alla messa in scena, ciò che implica una serie di
motivi “biomeccanici” in grado di intrattenere un pubblico il più ampio possibile.
Nella mente dei nostri autori anonimi era chiaro che l’efficacia del teatro comico non risiedeva tanto
nella “bella parlata” quanto nel “bel gesto” o nella “azione compiuta”: questo spirito attivo, questa
macchina scenica in cui il fare prevaleva sul dire trovava un’ideale realizzazione nella tecnica di messa
in azione dei proverbi.
Nel fabliau questo meccanismo che Rey-Flaud definisce efficacemente machine à rire ha un valore
molto inferiore rispetto al grande ruolo che ricopre nel gruppo farsa|sottie, ove si sviluppa
interamente intorno al problema della esecuzione, della fisicità, peculiarità linguistiche del catafalco.
Nella sottie il movimento, l’azione, assumono tinte “epiche”, mentre nella farsa lo svolgimento è per
lo più incentrato attorno all’organizzazione di un trucco o di un tranello ai danni di qualcuno (anche
131
Questo fa sorgere qualche dubbio sulla teoria di Bruno Roy, secondo la quale Pathelin fu il prodotto della corte
d’Anjou, scritto da un certo sot di nome Triboulet. B. ROY, 1980.
87
esso però mai finalizzato alla sospensione dell’incredulità): il centro della narrazione farsesca è
pertanto l’astuzia, quando quello della sottie è l’azione in rapporto al linguaggio.
Anche da un punto di vista etimologico il termine «farsa» esprimerebbe l’attitudine biomeccanica
dello spettacolo profano medievale. Primo ad occuparsi sistematicamente dell’origine del termine fu
Petit de Julleville, la cui teoria originaria sulla radice linguistica di «fars|farce» e «farser|farcer» ha
sostanzialmente influenzato tutte le successive. Lo studioso francese iniziava la sua analisi132
smontando le precedenti ipotesi che tiravano via molto rapidamente la conclusione che la parola
derivasse dal greco άρσος ossia «pezzo di stoffa»: era questo l’appoggio per considerare la farsa come
una combinazione di pezzi e residui narrativi in un’unica “cucitura”. Insieme di parti, insomma, ad
ispirazione di quella che era ritenuta la regola di base della satira romana, “genere misto” per
eccellenza.
Nel suo dizionario etimologico del 1750, Gilles Ménage riprendeva il medesimo concetto di raccolta
di pezzi e mélange istituendo il primo parallelo gastronomico ed il primo paragone con il genere
misto latino: secondo lui la farsa sarebbe stata una sorta di commedia, «du même mot farsa : à cause
qu’originairement c’était un mélange de diverses choses, comme la satire des Romains. Ergo et hoc
carmen ‘Saturam’ appelaverunt, quia multi set variis rebus refertum est, dit Porphyrion sur Horace.»133
E si deve sempre al Dictionnaire Etymologique l’interpretazione di «farce» in senso culinario, come
“misto di carni”; secondo questa prospettiva la linea di derivazione lessicale sarebbe dal paradigma
latino (farcĭo, farcis, farsi, fartum, farcīre): farcio, farsi, farsum, farsa, farce.
Da questo primo approccio proviene di fatto la teoria “forte” di Petit de Julleville, che inizia la sua
dimostrazione proprio da Gilles Ménage, accentuando il lato gastronomico con l’instaurazione d’un
legame diretto fra «farce» ed il verbo «farcire».
Le latin farcire, qui signifie remplir ou farcir, fait, au participe passé, fartus, et, en bas latin, déjà même chez
Hygin, chez Apicius, farsus; dont farsa est le féminin ; farsus est tout ce qui est rempli, bourré, fourré, farci ;
farsa désigne aussi, par une figure de mots fréquente et bien connue, la chose qui sert à bourrer, à farcir. Cette
étymologie explique tous les sens primitifs du mot farce. […] En cuisine, la farce est un hachis qu’on
introduit dans une pièce de viande, dans une volaille, ou dans la croûte d’un pâté. Un fabliau du XIIIe siècle
dit ainsi : « […] La crouste en est faussée, | Et la farce s’en est volée. »134
132
Rép. JULLEVILLE, 1886, (p.50 e sgg.).
Dict. MENAGE : t.II, p.575b.
134
Rép. JULLEVILLE : p.51. La citazione interna è dal Rec. BARBAZAN, t.IV : p.95.
133
88
Tale spiegazione, con variazioni più o meno accentuate ma sostanzialmente restando intatta nel
tempo, si è ripetuta fino ai nostri giorni: e viene anche presa in considerazione dai dizionari
etimologici contemporanei della lingua francese. Il suo successo è presto spiegato.
Oltre ad avere un’indubbia efficacia figurata che la riallaccia a numerosi studi di carattere
antropologico sul rapporto fra buffoneria, cibo ed espressioni letterarie popolari,135 questo tracciato
linguistico è comodo per dare man forte alla spiegazione degli inserti giocosi all’interno di forme
teatrali “discrete” rispetto al comico come nei misteri, nelle moralità, nei sermoni. Ciò ha consentito
di creare una cronologia evoluzionistica della farsa: genere che evolverebbe da mera funzione
spettacolare intermediale delle sacre rappresentazioni, assumendo via via maggiore completezza,
complessità ed autonomia, con metamorfosi finale in proto-commedia.
Sul ruolo interstiziale della farsa e delle forme comiche ci siamo soffermati anche noi, ma affermare il
carattere proprio di una forma letteraria non implica necessariamente di dover cercare una soluzione
storica evoluzionistica che ne giustifichi il cambiamento nel tempo.
Nel corpus delle farse e delle sottie esistono casi limite ed esistono esiti estetici migliori di altri, così
come vi sono variazioni lessicali dovute alla provenienza geografica. Diversi sono anche i singoli
approcci stilistici e le tematiche toccate.
Ma il ruolo funzionale della farsa e quello della sottie rimangono identici nel tempo e nello spazio, e
non rispondono mai ad una logica evoluzionista. Pensiamo solo che il capolavoro del genere, la sua
punta estetica massima, ancora una volta Pathelin, è in realtà una delle pièce più antiche in nostro
possesso ma già esibisce tutte le pratiche linguistiche proprie del genere.
Anche la formuletta storica che vede gli inserti comici nei misteri come precoci esempi di un genere
che avrebbe poi avuto successo a sé può essere facilmente contraddetta, osservando che nella maggior
parte dei casi le farse che figurano all’interno di un ciclo misterico esistono per lo più anche in forma
autonoma.
Il ruolo sdrammatizzante della farsa è indubbio e così la sua funzione intermediale, ma in un
contesto più ampio e reale: quello del gioco pubblico, che poteva prevedere un cartellone misto,
eclettico nelle scelte.
135
M. BAHTIN, 1976; P. CAMPORESI, 1980; P. CAMPORESI, 2000; C. LÉVI-STRAUSS, 1964; M. MONTANARI, 1993.
89
Jean Mortensen ha consolidato nella sua forma definitiva la definizione “culinaria” di farsa,
sostenendo che nella pratica liturgica la parola definiva un’interpolazione o parafrasi o supplemento
al e del testo originario biblico, realizzati in occasione delle feste religiose.136
La formula culinaria di Petit de Julleville è insomma arrivata lontano, fino ad influenzare le teorie
sulla forma farsesca e sulla idea di genere alto, basso e mixto. Inoltre, come sovente avviene, ad ogni
ripresa e passaggio teorico il volume argomentativo della spiegazione è aumentato, senza tuttavia che
qualcuno si preoccupasse di ripetere la verifica sulla base di più moderni strumenti filologici.
Ainsi la farce aurait été un genre dramatique utilisant le mélange de plusieurs langues, à l’imitation du
français introduit dans un texte latin. C’est la définition couramment admise à la fin du siècle dernier,
comme en témoigne l’article farce du Dictionnaire du Théâtre d’Arthur Pougin : « La farce tirait son nom, diton, d’un genre de poésie très usité au moyen âge et qui prit naissance vers le dixième ou onzième siècle ; cette
poésie écrite alternativement en latin et en langue d’oc, ou en langue d’oïl, était appelée farcia ou farcita parce
que le texte latin était comme farci de termes vulgaires ajoutés après coup.»137
Per una messa in dubbio di queste posizioni dobbiamo aspettare tempi più recenti, anche se ne è
evidente l’inconsistenza, soprattutto se si pensa al fatto che non ci sono mai pervenute farse davvero
“plurilinguistiche”: certo, Pathelin si esibisce nel passo della malattia in una lingua mista al latino,
ma non si può sostenere che l’impiego del maccheronico in questa ed altre pièce rappresenti davvero
un caso di plurilinguismo, essendo il latino da cucina più un esemplare parodico storicamente
affermato che un elemento di reale corrosione attiva del linguaggio.
Cercando di uscire dal solco di questa tradizione critica, Bernadette Rey-Flaud precisa una differente
e ben più complessa origine della parola «farce». La studiosa prima realizza lo smontaggio della teoria
di Mortensen, precisando che «farce» non fu mai utilizzato nel contesto liturgico, che ha sempre
privilegiato l’espressione in latino. Il primo errore degli storici dello spettacolo sarebbe stato «de
franciser ces interpolations et de traduire les textes latins cum farsis par ‘textes avec farce’ ou de
traduire encore epistola cum farsia par ‘épitre farsie’ et une fois cette traduction réalisée d’identifier le
mot ‘farce’ au sens d’interpolation avec le mot ‘farce’ au sens dramatique et d’en faire un seul
mot.»138
Ma, precisa la studiosa francese, la parola compare solo eccezionalmente nel lessico medievale
francese e sempre sotto la forma del verbo “farsir”, mai come sostantivo: osservando più da vicino
136
J. MORTENSEN, 1903.
B. REY-FLAUD, 1984 : p.152. La citazione interna è da A. POUGIN, 1885 : p.358a.
138
B. REY-FLAUD, 1984 : p.153.
137
90
l’impiego di «farce» all’interno dei misteri fu Omer Jodogne ad interrogarsi per primo se il vocabolo
non volesse significare episodio idiota, trucco, inganno.
È da questa prima intuizione che muovono le più recenti teorie sull’etimo di «farce».
[on remarque] l’existence […] d’un verbe farcer, parfaitement attesté au XVIe siècle, comme en témoigne ce
passage d’Amyot : « Quand Aristophane fait jouer la comédie qui s’appelle les Nouées en laquelle il respand
sur Socrate toutes les sortes et les manières d’agir qu’il est possible, comme quelqu’un des assistants, à l’heure
qu’on le farçait et gaudissait ainsy lui demandast : Ne te courrouces tu point, Socrate, de te voir ainsy
publiquement blasonner ? Non, certainement, respond-t-il.» On voit que le sens de ce verbe est évident : il
signifie « se moquer de quelqu’un », « le tourner en dérision », « lui jouer un mauvais tour ».139
Il verbo con questa accezione è ben consolidato in francese medievale e ne troviamo molteplici casi
nelle Cent nouvelles nouvelles e nel Jehan de Saintré; esempi che potrebbero essere considerati
scarsamente probanti per via dell’affermazione del genere farsesco e delle sue forme liminari proprio
negli stessi anni di stesura di queste opere, ma che in realtà confermano occorrenze più antiche:
Bernadette Rey-Flaud ci segnala per esempio le Chroniques di Froissart, i precocissimi esempi del
Chevalier aux deux épées, ed una raccolta di strofe pìe intitolate Tombel de Chartrose.
Il fatto che siano rilevabili siffatte occorrenze ben avanti la nascita del genere drammatico cui si dona
il nome di farsa, dimostra che il nome voleva alludere fin da subito al ruolo centrale che l’inganno e
l’astuzia ricoprono all’interno della funzione drammatica.
Farce deriverebbe dal verbo «farcer», che corrispondeva al moderno «duper»: visto che i dizionari
etimologici sono univoci nell’accordare a “farcer|farce” e “farcir|farce” la medesima origine nel latino
“farcīre”, viene da chiedersi come mai questa radice, comune a tutte lingue romanze, in Francia viri
al senso traslato di truffa ed inganno.
La chiave di volta sta nel collegarvi altri due termini: “fart” (inganno) e “fars” (imbottitura usata per
aumentare il volume dell’acconciatura delle donne). Il primo dei due ha origine germanica in
“farwida” (lucidare, tingere), che nel contesto semantico della moda era il nostro moderno “fard”, il
correttore per le imperfezioni della pelle; il secondo si ricollegherebbe più pacificamente al “farcire” e
“riempire” di latina memoria, ma con impiego nel lessico specifico dell’abbigliamento.
L’imbottitura della coiffe femminile e i cosmetici sarebbero il passaggio logico per giungere alla
declinazione drammatica “farcer|farce”: non sono infatti queste due pratiche estetiche astuzie,
trucchi, ruse femminili per ingannare il maschio sulla propria bellezza?
139
Ibidem : p.155.
91
Dopo una lunga trattazione sulle evoluzioni fonetiche ed principi glottologi dell’evoluzione del
francese Rey-Flaud tira le sue importanti conclusioni.
Il semble que […] il a existé un mot farce (descendant du latin farsus), apparenté à un mot fars de la même
famille, signifiant « artifice de la toilette féminine », d’où « tromperie ». Ce mot a été contaminé par un terme
de sens très voisin fart signifiant, comme en français moderne, « fard », au sens propre comme au sens figuré,
c’est-à-dire là encore, « tromperie ». Cette confusion sémantique a conduit alors à une véritable identification,
du fait que les deux mots fars et fart étaient homonymes au pluriel et parfois au singulier.
Un point est donc sûr, le mot farce au sens dramatique est étayé de deux façons par deux étymons distincts
mais de sens analogue qui est celui de « tromperie ».
Ainsi l’ancien français possède deux familles de mots signifiant « tromperie », l’une formée sur le radical fars
(de farsus) et l’autre sur le radical fart/fard (de *farwida). Ces deux familles sont très exactement synonymes,
comme on va le voir, mais elles font le désespoir des étymologistes qui ont voulu les rattacher en bloc à l’un
ou à l’autre étymon, ce que le lois de la phonétique ne permettent pas.140
Aggiungiamo un paio di dettagli che nello sviluppo della sua teoria della machine à rire la studiosa
francese ha stranamente trascurato.
Il primo è il travestimento: oltre che esprimere un inganno attraverso un fare, una azione pratica,
farce può ancora più efficacemente esprimere un inganno verso il pubblico, inganno consistente nel
camuffamento, nell’invenzione di una realtà altra, nell’abito di scena; e sappiamo infatti che la
nozione di contraffazione è costante in tutte le espressioni drammatiche occidentali. Dall’altro lato la
menzogna farsesca si sviluppa anche su un piano sessuale, essendo diffusa, come abbiamo
documentato poco sopra, la pratica di far recitare agli uomini anche i ruoli femminili; ed è
affascinante come il legame con il trucco e le parrucche si manifesti da subito in queste già di per sé
precoci forme di “commedia”: la contraffazione sessuale si lega anche semanticamente all’universo
della moda e della recita (Queues troussées, Femmes qui coiffèrent leurs maris).
Sotto questa rinnovata luce etimologica la coppia lessicale farce|farcer ha per baricentro linguistico il
concetto di tromperie e ruse, costitutivi per la formazione del genere; del resto le farse ci offrono un
vasto campionario di parole che esprimono il concetto di burla, beffa, inganno: altro fenomeno che
mostra come queste composizioni fossero strettamente legate allo svolgersi di tranelli e di trucchi più
che allo sviluppo di una trama articolata nel senso moderno del termine.
Nella bella Farce du pourpoint rétréchy141 le parole dello stesso ambito semantico cambiano a seconda
dell’evoluzione drammatica: nella storia il tiro mancino di due burloni vira verso l’omicidio ed i
modi di chiamare lo scherzo evolvono assieme alla gravità della trappola. Da cabuserons a tromperie,
140
141
Ibidem : p.164.
Rép COHEN, n° XLIV, pp.341-355.
92
fino ad arrivare a prendre (par sa moue) e attraper è tutto un pullulare di sinonimi per furberia:
l’azione dello scherzo è il soggetto principale, protagonista assoluta della narrazione.
La Farce de Martin de Cambray142 associa tromperie e fourberie e trova diversi sinonimi per farcer:
“bourde”, storiella raccontata per fare fesso qualcuno ed abusarne; “cabeur” che vuol dire inganno,
ma con la più precisa allusione al furto o alla sottrazione di un bene; “fourbe”, che è astuzia crudele
ai danni di qualcuno.
Ed è interessante notare come nella Farce du Goguelu143 «tromper» assuma il significato violento di
bastonare, pestare qualcuno. La ricchezza lessicale attorno al concetto di inganno conferma
ulteriormente il ruolo prioritario della truffa nel contesto farsesco, ciò che rivela una certa assonanza
fra la posteriore Commedia dell’Arte e queste primordiali forme di rappresentazione scenica,
assonanza che prepara in qualche misura il grande successo commerciale di cui godranno in Francia i
comici italiani.
Sovente le allusioni all’inganno sono espressioni idiomatiche difficili da identificare: pensiamo a
«manger l’oye» (espressione che oltre ad essere piuttosto diffusa si intreccia per tutta la durata della
studiatissima farsa di Pathelin)144 per la decrittazione della quale ci è voluto un intero saggio dedicato
all’argomento a firma di Mario Roques.145
Nella appena citata farsa della raccolta Cohen detta del Pourpoint rétréchy, Richard e Gaultier sono
compagni di sbronze con Thierry. I primi due decidono di tirare uno scherzo a quest’ultimo,
restringendogli il corsetto mentre è profondamente addormentato nei residui fumi della bisboccia
della sera prima. Al risveglio il povero beone viene convinto di soffrire d’un grave disturbo e di
andare verso morte certa: a questo punto è necessario che la vittima faccia ammenda dei suoi peccati:
Gaultier si infila una tenuta da prete per farlo confessare, ma lo aspetta un’amara sorpresa perché
dalla confessione apprende d’esser stato fatto cornuto dal falso morente e che per giunta il compagno
Richard è stato in passato abbondantemente picchiato da Thierry. I due trasformano così lo scherzo
in vendetta e gettano il compagno in un fiume dietro pretesto di portarlo a cambiare aria.
142
Ibidem, n°XLI: se ne conosce una versione sintetica, Le Savetier Audin, ATF, t.II, pp.128-139.
Rép COHEN, n°XLV, pp.357-367.
144
« Et si mangerez de mon oye, | par Dieu, que ma femme rotist. ».
R. HOLBROOK 1986 : p.17.
145
M. ROQUES, 1931 : pp.548-560.
143
93
Bernadette Rey-Flaud, suggerisce l’analogia di questa trama con quella boccaccesca di Ferondo
(Decameron, III, 8) ma secondo noi l’unico rapporto che possiamo trovare fra la novella e la farsa è la
finta malattia dell’uomo (in entrambe indotta, è vero, ma con ben diversi stratagemmi ed esiti e
premesse), piuttosto comune nel conto popolare e pertanto non assimilabile nella logica di un
contatto esplicito. Soprattutto lo stratagemma farsesco – il furto e cucitura del corsetto davanti al
pubblico – è scenicamente più efficace di quanto non lo sia quello boccaccesco che si avvale di un
oggetto “magico” (la polvere per la falsa morte) e gioca sull’affabulazione ed il convincimento
verbale-psicologico più che sull’astuzia biomeccanica, fisica e muscolare.
Se dovessimo avvicinare la farsa ad una qualche novella del Decameron saremmo più orientati a
pensare alla storia di Calandrino,146 ove gli viene fatto credere d’essere gravido: il manifestarsi dei
sintomi della falsa gravidanza somiglia qui al tiro semplice ma efficace giocato dagli amici farabutti di
Thierry che ne osservano maliziosamente la brutta mina.
Nella novella di Boccaccio il fine è sfilare il denaro all’amico idiota, così come i compagnon francesi,
che pensando al bon tour trovano pure un movente in più nei possibili vantaggi economici derivanti
dalla spartizione della parcella del medico cialtrone ingaggiato per avvalorare la preoccupazione della
vittima.
Ma ci manifestiamo perplessi rispetto alla sicurezza con cui Rey-Flaud mette in relazione diretta la
farsa del Pourpoint con la novella di Calandrino: la composizione francese potrebbe infatti avere
avuto almeno tre fonti da cui trarre il già diffuso stratagemma del convincere qualcuno della propria
malattia: Boccaccio, certamente, ma anche la traduzione di Premierfait, il fabliau originale e la
facezia di Poggio. Perché allora non il favolello, visto il fattore di prossimità geografico-culturale?
Comunque stiano le cose l’espediente tutto verbale adottato in Decameron, richiede nella farsa una
realizzazione concreta, gestuale, visiva, oltre che affabulatoria: ed ecco allora la scena della cucitura
del corsetto e quella in cui la vittima cerca di indossarlo. È una differenza che mette in risalto le
attitudini materiali e gestuali del teatro profano francese, che si configura come una macchina di
produzione del significato, in cui il testo è solo un ingranaggio piegato alla logica del lazzo.
Nella farsa si passa da una burla amichevole ad una beffa crudele e mortale: l’originalità del Pourpoint
risiede nel passaggio dall’uno all’altro tipo di ruse: il capovolgimento dei ruoli della seconda parte - in
cui si scopre che il gabbato aveva a sua volta tradito i due amici, di cui vediamo le reazioni violente mostra come tutti (trompeur ed onestuomini) vengano prima o poi ingannati. Il che equivale a dire
146
Decameron, IX, 3.
94
che “chascun est trompeur” in una visione spregiudicata della realtà ove l’elemento moralistico è
dissolto ed i valori etici collettivi non più garantiti. In questo senso la crudeltà dell’opera non è
lontana da quella propria del favolello.
Un siffatto cambiamento repentino dei moventi dei protagonisti usa a buon profitto il carattere
modulare delle storie e delle trame (qui ve ne sono due: la confessione en travesti e l’uomo persuaso
d’esser malato), ed inverte l’orizzonte d’attesa del pubblico, che probabilmente conosceva i due
moduli narrativi a sé, in quanto circolanti indipendentemente, ma che in tutta evidenza non poteva
prevederne la combinazione in una medesima pièce.
In virtù di una forza biomeccanica che privilegia l’effetto sorpresa e l’azione fisica, il genere farsesco
riprende creativamente gli elementi della narrazione fra Italia e Francia, rielaborandoli con grande
disinvoltura, non sempre, va detto, raggiungendo grandi risultati, ma sicuramente favorendo la
diffusione delle trame e dei luoghi letterari che costituiranno la cultura di partenza per la grande
stagione del teatro comico moderno.
[…] toute farce est la mise en œuvre d’une tromperie. Il s’agit en fait plus précisément d’un véritable
mécanisme qui se déclenche au moyen de la ruse vrai moteur d’un ensemble structuré.147
Il trattamento modulare della materia narrativa trasforma anche le presenze farsesche, che a
differenza della novella si schematizzano ed entrano in un gioco di ruoli spesso prevedibile, ma
talvolta non privo di suggestioni. La meccanica performativa rimane sempre in primo piano, al di
sopra della trama, che ne è al servizio: se ne ricava che pure dal mero punto di vista dell’esecuzione
scenica, la farsa è un genere non antiquato, e che anzi, la sua azione di riadattamento delle trame
preesistenti, novellistiche o dei fabliau, in sequenze di fatti concretamente visualizzabili consiste
essenzialmente in un tentativo di resa in scena, nell’adozione cioè di un linguaggio diverso da quello
propriamente letterario.
Il fenomeno è bene osservabile nella Farce de Jolyet, costruita su un intreccio di grande diffusione fra
Italia e Francia: si tratta della storia del marito la cui moglie partorisce anzitempo rispetto alla data
delle nozze. Sembrerebbe la semplice trasposizione drammatica di una narrazione delle Cent nouvelles
nouvelles,148 ma rispetto al modello cambia la scena finale, che descriveremo con tutta la trama più
147
148
B. REY-FLAUD, 1984 : p.226.
les Cent nouvelles nouvelles, XIX, (La vache et le veau, T. WRIGHT, 1857-58, t.I : pp.173-177).
95
dettagliatamente nel capitolo sui generi drammatici. Basti notare qui che l’inserto finale di grande
impatto scenico – dove si vede il marito beffato concretizzare la sua semplicità “in atto” (anche
giuridico) firmando un contratto al padre della sposa e mettendo così per iscritto tutta la propria
imbecillità – è un apporto originale del farceur che restituisce efficientemente la trama alla
dimensione del catafalco.
L’azione pratica, più che la coerenza della trama, è chiara ed evidente, priva di equivoci: deve sempre
poter essere trasferita facilmente sul piano dell’interpretazione drammatica, ragione per cui i
procedimenti linguistici preferiti dei farceur sono quelli che maggiormente stigmatizzano tutto un
orizzonte di senso in una figura (del linguaggio, del gesto). È per questo che i proverbi sono di
grandissima utilità pratica per l’insieme farsa|sottie. Il significato nella sua “messa in farsa” non può
che realizzarsi in un’amplificazione “gestuale”, spesso anche a prezzo della coerenza generale del
procedere narrativo.
A differenza della farsa nella narrazione in prosa e novellistica possono esserci appigli psicologici o
zone di ambiguità, compensate dalle descrizioni e dagli argomenti narrativi. La farsa non possiede
altro argomento che la biomeccanica della risata.
Quand [la farce] récupère les données d’un conte, elle utilise des matériaux qui prennent leur place dans un
système, devenant les rouages d’un mécanisme dont seul le bon fonctionnement importe, excluant tout autre
considération. Ainsi s’expliquent certains détails divergents entre conte et farce, anodins d’apparence, et qui
se révèlent essentiels, motivé par les nécessités de fonctionnements de tout l’ensemble.» 149
Le stesse “regole morali” alla base della farsa favoriscono lo sviluppo di una macchina della risata in
questa ottica dell’azione: «Tel trompe au loing qui est trompé», «A trompeur trompeur et demy»,
«Tromperye toujours retourne | A son maistre», «A trompeur tromperie luy vient».150
Il principio del dupeur dupé non è allora una sorta di ascesi moralistica (i nostri farceur non sono
esattamente dei moralisti incalliti) ma la descrizione di mondo-macchina nei cui ingranaggi tutti
prima o poi finiscono sfracellati: un continuo rimbalzo degli eventi, che si capovolgono da un
momento all’altro, senza seguire alcuna logica se non la “meccanica quantistica” del movimento.
Il castigo che la vittima infligge al suo carnefice implica l’inversione dei ruoli nella pièce (da dupé a
dupeur) che può certamente suonare come una improbabile inversione di ruolo sociale, ma in modo
149
B. REY-FLAUD, 1984 : p.83.
Nell’ordine : Savetier nommé Calbain, (ATF, t.II, p.140); Gentilhomme, Lison, Naudet, la Damoyselle, (ATF, t.I,
pp.250-270) ; Bon payeur, (Rec. LEROUX, t.III, n° 52) ; Du Poulier à six personnages, (Rec. LEROUX, t.II, n°26).
96
150
ipergenerico poiché meramente automatico: quello che non avviene nel mondo reale avviene sempre
nel mondo di Bengodi, ma Cuccagna rimane sempre una realtà costruita per opposti più che una
utopia ideologica.
Suona bene in questo contesto il finale epigrammatico della farsa detta del Gentilhomme, Lison,
Naudet, la damoyselle, dove il protagonista afferma, sul finale: «Ne venez plus naudetiser ; | Je n’iray
plus seigneuriser»,151 ove la trasformazione di “être-seigneur|être-naudet” in spericolato predicato
verbale è un ottima metafora per questo passaggio dalla parola all’azione.
Come per il farceur che ha pensato il Pourpoint, l’autore della Farce de celui qui se confesse à sa
voisine152 ha scelto la confessione come luogo di ribaltamento delle vicende: nella trama il marito
viene costretto dalla moglie a confessarsi ad una comare travestita da prete, sperando così di fugare
ogni dubbio sull’infedeltà dell’uomo. Ma al momento della confessione, l’amica che gioca il ruolo
del prete dovrà apprendere suo malgrado che l’uomo ha scelto sua figlia per amante. Ecco ancora un
danno per chi fa lo scherzo: e non esiste alcun giudizio morale, tutti sono reietti allo stesso modo e
sia per chi truffa che per chi se ne sta tranquillo per conto suo senza nuocere ad alcuno, il mondo
prepara sempre un tiro malefico.
A ben vedere il principio à trompeur trompeur et demi andrebbe modificato in à trompés et trompeurs
trompeurs et demi: l’astuzia e l’inganno sono gli elementi in farsa più importanti, macchine infernali e
trappole pronte a scattare per tutti, nessuno escluso, in quanto il personaggio scenico (il personaggio
nel mondo?) è soggetto al rimbalzo continuo dell’inganno e neanche l’astuzia lo salva se non in rari
casi o per puro azzardo del destino.
Determinare un agente passivo ed uno attivo nella farsa è un compito impossibile, e questo è a
nostro avviso il fattore che rende addirittura enigmatiche le trame di queste composizioni. In quasi
tutte le trame i ruoli vengono capovolti automaticamente dallo sviluppo della ruse: anzi, la
successione stessa degli inganni può prevedere più ribaltamenti in serie spesso inficiando la tensione
complessiva del plot e rendendo vano qualsiasi tentativo di individuazione di una “morale della
favola”.
Personaggi cannibalizzati e sottoposti alle regole ferree della vita, in cui il meccanismo di selezione
naturale semplicemente non esiste, perché l’ingannatore sarà sempre prima o poi ingannato ed anche
il più astuto dovrà capitolare di fronte al primo berger venuto.
151
152
ATF, t.I, pp.250-270 : p.269.
Rép. COHEN, n° II, pp.9-20.
97
Rappresenta pertanto un grave errore metodologico cercare di dividere i personaggi in farsa in due
grandi categorie psicologiche: tentativo che è stato eseguito a più riprese da Pierre Toldo e da Charles
Mazouer153 e da chi ha letto un significato socio-politico nella comicità da catafalco. Il mondo della
farsa non può essere descritto come un enorme contenitore diviso fra traditori e traditi, fra chi decide
di vivere la vita con astuzia, e chi, al massimo, usa l’astuzia per vendicarsi dei tiri mancini degli altri.
Forniremo più avanti molti più campioni di trame e vedremo ad esempio come nella Farce de
Mahuet,154 l’idiota ingannato spacchi sulla testa del suo ingannatore un vaso di latte e come tutto
questo avvenga per una strana successione di casualità e non per le doti intrinseche della personalità
del protagonista. È questa la caratteristica principale del genere farsesco, sempre alla ricerca di una
ascesi biomeccanica, intenzionalmente privo del tratteggio chiaroscurale del personaggi. Anche
qualora la trama assuma un ruolo determinante, come in Pathelin, essa non colma tutti gli spazi e
tralascia molti dettagli. Non tutti i “fucili” nella farsa sono destinati a sparare; donde il senso di
spaesamento che sempre il lettore moderno riscontra ad una prima lettura di queste composizioni:
individui come schemi mentali a ripetere un meccanismo insensato e continuo che è sempre
comandato dalle medesime regole e del quale pertanto la conclusione è sempre rappresentata da
puntini di sospensione, incompletezza.
È in questo senso che come dicevamo nella farsa si sviluppa una specie di pessimismo cosmico, che
disegna l’umanità come un branco di insensati, bloccati da istinti animali, basilari, come sesso e cibo,
e costretti a girare in tondo, a dare e ricevere la medesima quantità di dolorose bastonate. Attenzione
però a non commettere lo stesso errore di Bernadette Rey-Flaud che in virtù di questo meccanicismo
rischia di tralasciare la complessità di un personaggio singolare come lo stolto da farsa.
Vero è che nelle teorie di Mazouer e Toldo il niais diventava il centro e l’asse portante di una
artificiale teoria psicologica: carattere “dominante” che non solo darebbe luogo per opposizione a
tutti gli altri personaggi, ma innescherebbe pure il meccanismo ad orologeria della storia, facendo
scattare gli ingranaggi al momento giusto con la sua idiozia recidiva.
Per noi la qualità principale ed eminentemente teatrale dello stolto da farsa è la sua basilare
ambiguità ed imprendibilità: nel niais non si capisce mai se la stupidità sussiste in quanto tale o se è
una finta, una simulazione sottile per attivare complessi ed insondabili piani di astuzia.
153
154
P. TOLDO, 1903 ; C. MAZOUER, 1979.
ATF, t.II, pp.80-89.
98
Come nella cinematografica slapstick comedy il matto e l’imbecille sono sempre “vittime trionfanti”:
non tanto nei fatti concreti della trama – che lascia tutti in una “media beffa” e specialmente loro, i
matti – ma nella perenne inconsapevolezza che li rende impermeabili anche alla più catastrofica
disfatta, in una zona di ombra ed ambiguità che rende lo stupido un saggio superbo.
Pensiamo ancora a Mahuet: ha perso il bene che gli era stato affidato, il latte, ma scorrazza al
mercato, beota e beato, fino ad eseguire una vendetta tutta inconsapevole.
Gli studi critici classici dedicati alle farse danno per inteso che queste composizioni, più che delle
narrazioni vere e proprie, fossero lo sviluppo di situazioni senza esiti e che ciò fosse la riprova di un
certo primitivismo o ingenuità, vedendo l’errore laddove v’è solo la specificità linguistica del mezzo
teatrale.
1.3.4 – Intrecci brevi e complessi.
Nella letteratura comica francese a cavallo XV e XVI secolo le forme limitrofe della farsa sono in
realtà le sue funzioni specifiche, che diremo pertanto false-farse: in questa categoria possiamo
includere i monologhi giocosi, le parate fantastiche e le affabulazioni da mercato. Rare sono le
testimonianze a stampa in questo settore perché si trattava di un ambito basso e pertanto più volatile:
eseguite come erano per la strada e sulla piazza da quelli che a vario titolo occupavano i marciapiedi,
con finalità di vendita o diporto.
Fra questo insieme articolato e variopinto troviamo ad esempio i cry dei mestieri, conosciuti e
popolarissimi in virtù della loro quotidiana funzione di richiamo della clientela: una fonte godibile di
queste scenette di strada è la semplicissima Farce du Bateleur,155 elementare pretesto per esibire luoghi
comuni e figure ricorrenti del mercato medievale in cui è ancora una volta possibile scorgere
elementi meta-drammatici: il Batelier si rivolge ad un falso pubblico sul catafalco ed a quello che sta
seguendo la rappresentazione.
La nostra visione modulare della farsa trova un valido appoggio nella distinzione fra facéties e
farcéries: le prime sono azioni semplici, secche e gratuite; le seconde invece assemblano più astuzie in
una specie di svolgimento drammatico.
155
Rec. TISSIER, t.II, pp.185-228.
99
Le facéties sarebbero quindi giochi semplici e senza capovolgimenti con finalità e punti di partenza
del tutto pretestuosi. Tali facezie risultano brutali nella loro elementarità, come nel caso di quella
denominata farsa del du Goguelu156 dove valletto e cameriera non fanno null’altro che tormentare il
padrone cieco, bastonandolo ed infliggendogli crudeli punizioni: la schematicità biomeccanica della
pièce è esemplare, essendo il dialogo costruito attorno alle sole possibilità della comicità corporea.
Il “jeu” du Garçon et de l’aveugle157 è una facezia assai antica, che esula dalla nostra trattazione per
limiti cronologici (è del 1266-1282), ma che dimostra come i criteri assoluti di cronologia ed
evoluzione in continuum della farsa non siano validi. Il tema è lo stesso della precedente: prendersi
gioco di un cieco. Qui un ragazzo incontra un viandante privo della vista che gli confida
imprudentemente d’esser ricco; dopo averlo bastonato a sangue fingendo d’essere un altro, il ragazzo
lo deruba di tutti i suoi beni e lo lascia per la strada senza troppi complimenti.
Si vede qui come si tratti della messa in scena di una semplice situazione, senza alcun altro interesse
narrativo. La composizione è brevissima, ma nell’arco di poco meno di 300 versi riesce a sviluppare
un doppio tiro ai danni dell’uomo.
Che poi il trompeur non sia trompé poco importa: l’imprevedibile legge della ruse doveva permettere
alla “troupe” di vendicare il vecchio magari in un altro episodio del varietà spettacolare. La semplicità
di questi moduli drammatici non lascia alle presenze sceniche alcuna possibilità di ripresa o riscatto:
la macchina delle botte è qui così bene sviluppata e tanto rapida che si sarebbe addirittura tentati a
pensare che questo genere faceto fosse ampiamente sviluppato già nel XIII secolo: ma la
composizione, considerata per queste ragioni ai prodromi del farsesco, è l’unico esempio a nostra
disposizione risalente all’alto medioevo. Ovvio come in questo linguaggio modulare siano numerose
le variazioni successive del canovaccio, pur nella disarmante semplicità degli sviluppi e delle
derivazioni: vediamo a mo’ di esempio una concatenazione di varianti.
Nella farsa detta d’un Pardonneur d’un triacleur et d’une tavernière158 vediamo due ciarlatani battersi
per la clientela ma – dimenticati gli antichi malumori – i due si associano, mangiano, bevono e
decidono di pagare con un banalissimo paio di pantaloni, spacciato per preziosa reliquia. Ne le
Chaulderonnier, le savetier et le tavernier159 due compari vanno alla taverna e gozzovigliano, non
prima di essersi disputati la difficile clientela del mercato degli imbonitori ed essersi picchiati a
156
Rép. COHEN, n° XLV, pp.357-367.
J. DUFOURNET, 1982.
158
ATF, t.II, pp.50-63.
159
Ibidem, pp.115-127.
157
100
sangue; al momento di pagare il conto il Savetier propone al taverniere di andare a casa sua per
prendere il denaro: il taverniere li raggiunge, ma questi si fanno trovare l’uno vestito da donna folle e
l’altro da marito bastonato. Alzano così un tale parapiglia che il taverniere non può riscuotere il
conto dovuto e prende in cambio una bella scarica di bastonate.
La struttura semplice delle facéties è talvolta un tentativo fallito di farsa o una velata riproduzione di
materiale preesistente: è il rapporto che intercorre ad esempio fra la semplice Farce de la trippière160 e
la bella Farce du pasté et de la tarte.161 La Trippière prende la prima parte della farsa del Pasté: la
venditrice di trippe rifiuta l’elemosina a due mendicanti. Qui però nella seconda parte i due si
vendicano, mascherandosi e distruggendo i vasi di trippa nella bottega, simulando una disputa
estemporanea e faceta. Ad onta di una ripresa molto fedele dell’episodio dell’elemosina negata, la
Trippière presenta una differenza sostanziale con il Pasté nella totale assenza di capovolgimenti
Trompé / Trompeur.
Intrattengono un analogo rapporto la Farce d’un chaulderonnier162 e quella des Droits de la Porte Bodès
(o Baudet):163 nella prima una coppia si disputa ed arriva alla “scommessa del silenzio”; sopraggiunge
uno Chaulderonnier che tenta invano di parlare col marito e che poi si rivolge con parole volgari alla
donna, causando la reazione repentina dell’uomo. La donna esulta ed invita i due alla taverna. La
seconda farsa completa e capovolge l’azione secca della prima: una coppia litiga su chi deve chiudere
la porta, arrivando alla sfida del mutismo; passa un giudice che si prende qualche libertà con la
donna e ne causa la collera; il marito esulta, la donna rifiuta di accettare la vittoria e così fa causa al
marito, presentando un rotolo di faccende da sbrigare: il marito dovrà essere servitore della donna,
così decreta il giudice. Il rotoletto delle mansioni ricorda fra l’altro quello della Farce du Cuvier,164
fatto che sottolinea la complessità delle relazioni che intercorrono fra temi e pezzi.
La farcerie è una composizione coerente d’episodi faceti ove l’intrigo sembra assumere un qualche
valore aggiunto rispetto alla facétie. Il termine è contenuto nel finale dell’elementare Farce des
Esveilleurs du chat qui dort, dont ilz s’en prennent par le nez et sont farcez,165 che di per sé è piuttosto
una facétie.
160
Rép. COHEN, n°LII, pp.421-432.
ATF, t.II, pp.64-79.
162
Ibidem, p.105-114.
163
Rép. COHEN, n°XX, pp.159-164.
164
ATF, t.I, pp.32-49.
165
Rép. COHEN, n°XXXIV, pp.269-271.
161
101
Conclusion en farserie :
Du chat qui dort les esveilleurs
sont attrapez, dont fault qu’on rie.
Conclusion en farserie :
Le chat sans point de mocquerie
Sur les mains leur a mis couleurs.
Conclusion en farcerie :
Du chat qui dort les esveilleurs.166
La moltiplicazione dei personaggi dà più facilmente origine ad una maggiore complessità dell’azione
che può beneficiare di imprevisti capovolgimenti ed intrecci meno forzati e più comprensibili. È il
caso de le Savetier, le moyne, la femme et le portier, della già citata Pasté et la tarte, della Farce del
poulier e di quella del Bon payeur,167 tutte più o meno risultanti dall’assemblaggio di frammenti
tematici presenti anche altrove.
La farcerie porta avanti un’azione complessa secondo la logica ricombinante che abbiamo più volte
richiamato: è una composizione di facezie, più o meno sapientemente cucite assieme. Lo stesso
Pathelin consiste di tre farse diverse di circa cinquecento versi ciascuna (corrispondenti alla misura
normale d’una farsa). Nello sviluppo degli episodi abbiamo addirittura la sensazione che l’autore si
sforzi di trovare delle chiusure interne.
Il furto delle stoffe
Il falso malato
Il processo ridicolo
« Tel est pris qui croyait prendre »
« Dicat sibi quod trufator, | ille qui in lecto jacet, | vult ei
dare, si placet, | de oca ad comendum. | Si sit bona ad
edendum, | pete tibi sine mora. »168
« Or cuidoye estre sur tous maistre, | des trompeurs d'icy et
d'ailleurs, | des fort coureux et des bailleurs | de parolle en
payement | a rendre au jour du jugement, | et ung bergier
des champs me passe! »
Nella sua costruzione della teoria della machine à rire Bernadette Rey-Flaud non è però del tutto
convinta e si contraddice quando a proposito della differenza fra la facezia e la “farseria” afferma che
la complessità non è un fattore determinante e che esistono facezie composte da più trame insieme o
che conservano una struttura assai complessa paragonabile a quella di Pathelin.
Ammettendo questa eccezione alla regola viene da domandarsi dove risieda la differenza fra i due
generi e quale fattore sia decisivo per distinguere una farcerie da una facétie.
166
Ibidem : p.271.
Rép. COHEN, n° XXXIII, pp.259-268; ATF, t.II, pp.64-79; Rec. LEROUX, t.II, n°26 ; Rec. TISSIER, t.III, 176-195.
168
La chiusura avviene un po’ prima della fine della scena, ed è giustamente demandata alle parole di Pathelin, che come
si vede, nel suo latino maccheronico trova il modo di riprendere l’espressione figurata «mangiar l’oca» (per «truffare») che
intesse tutta la farsa.
102
167
Noi saremo più “integralisti” nella nostra visione modulare, comprendendo nella facétie solo
l’episodio singolo (quello in cui l’astuzia si conclude in sé), e nella farcerie le pièce dove episodi
preesistenti danno vita ad una composizione originale.
In virtù della prospettiva evoluzionistica che abbiamo più volte menzionato e certamente premurosi
di dover in qualche modo “giustificare” in chiave diacronica l’esistenza di Molière, molti storici
francesi del teatro,169 hanno rimproverato alla farsa di non avere sviluppato un vero arsenale di
caratteri chiaroscurali. Farsa e sue forme liminari hanno un’attitudine alla schematizzazione delle
motivazioni dei personaggi, che risultano così falsi, schematici, rozzi. Anche la carica comica di
queste composizioni beneficia della semplicità dei caratteri, pupazzi scenici facilmente esposti al
grottesco ed al parodico.
Si tratta di opere che non possono rinunciare alla brevità, in quanto le pratiche teatrali correnti le
vogliono assemblabili all’infinito in recite che devono poterle usare a proprio piacimento: o come
banali camere di decompressione dell’attenzione del pubblico nei lunghi cicli misterici, oppure come
pezzi di un varietà scenico fatto di lazzi e balzi biomeccanici.
Con la sua estetica della brevità, il teatro della farsa è uno spettacolo facile e potabile: i farceur invece
di cercare la complicazione, come fanno i novellieri, puntano al contrario alla semplificazione di tutti
gli elementi del teatro lasciando in piedi solo lo scheletro dell’azione ed assecondando il proprio
repertorio all’abitudine attoriale, ma anche al décor.
I catafalchi implicavano una simultaneità di azioni e di presenze ben chiara agli occhi del pubblico
medievale, abituato a leggere le funzioni temporali della scena in modo radicalmente diverso dalla
nostra visione “centrale” della narrazione: se il teatro moderno è teatro di narrazione, il teatro che si
delinea in Francia fra medioevo, Umanesimo e Rinascimento è un teatro della situazione e
dell’avvenimento, varietà più che prosa. Modularità mentale delle trame e modularità fisica del
catafalco: modernità semantica, certo, ma in contrasto con la ventura rivoluzione rinascimentale in
cui la centralizzazione della prospettiva (delle arti figurative, del palcoscenico) esprimerà in modo
determinante la centralità umana e dunque la coerenza dello spazio e del tempo attorno al sé.
169
Primo fra tutti Gustave Cohen nei suoi capitali studi sulle forme drammatiche francesi delle origini.
103
1.4 -Trepperel e la madre degli stolti. Due progetti editoriali.
1.4.1 – Le Jeu du Prince des Sotz fra disimpegno e politica.
Abbiamo già più volte rifiutato una lettura in chiave impegnata dello spettacolo profano francese,170
preferendo piuttosto analizzare polemiche e contesti caso per caso e quando esistano concretamente,
in luogo di riconoscere una significazione “antisociale” (o, peggio, socialista) nello sviluppo di taluni
o talaltri sistemi di destrutturazione linguistica: il problema della politica nel teatro profano va
toccato solo qualora esso sia posto dall’autore; e questo è il caso del Jeu du Prince des sotz.171
In occasione del carnevale parigino del 1512172 Pierre Gringore – poeta, teatrante, retorico ed attore
che si fregiava del titolo di Mère Sotte, madre degli stolti, ma con confusione fonetica a nostro avviso
anche «maire», sindaco della cittadinanza degli idioti – realizzava una virulenta satira contro papa
Giulio II in un varietà poetico-teatrale che prevedeva una Sottie contre Pape Jules II (introdotta da un
170
Gli studi sulla sottie come forma di espressione politica sono ampiamente sviluppati da Heather ARDEN (1980) e
restano comunque un utile strumento interpretativo.
171
A. HINDLEY, 2000.
172
Il primo foglio recita «Joué aux Halles de Paris le Mardy Gras lan mil cinq cens et onze». Noi usiamo la progressione
cronologica moderna, dunque la data contrasta con quella indicata nell’edizione originale del Jeu, 1511, che usa il
vecchio sistema di conteggio dell’anno solare, calcolato dal 25 marzo, per il periodo gennaio-marzo è per noi nell’anno
successivo, 1512.
104
cry), una farsa (Raoullet Ployart) ed una moralità (detta de l’Homme Obstiné), per un totale di 1500
versi circa, rappresentati durante il martedì grasso al mercato de les Halles.
Il gioco allestito da Gringore contava una serie di precisi riferimenti alla contemporaneità politica
più stringente (le guerre italiane, il conflitto fra Luigi XII e Giulio II ed il concilio di Pisa) e
mostrava precocemente le linee di una nascente politica editoriale con un tentativo preciso da parte
dell’autore di legare al suo nome la recita e l’operazione editoriale che ne conseguiva. Per la
letteratura teatrale profana, le cui edizioni erano nella maggior parte dei casi anonime e per lo più
prive di un disegno autoriale, è un fatto assolutamente straordinario.
Pierre Gringore aveva impostato una precisa strategia editoriale per la sua opera, in aperto
antagonismo con le pratiche piratesche che caratterizzavano l’imprimerie dell’epoca ed in particolar
modo il florido mercato del libro parigino.
Dopo la rappresentazione nella pubblica piazza, il jeu entrò a far parte dei repertori a stampa di due
dei più attivi editori della città: da una parte Pierre Le Dru, abituato ad esercitare la professione in
un contesto medio-alto (emulo, più che equivalente, di figure del calibro degli Estienne), con
edizioni di lusso espressamente dedicate a umanisti e filologi; dall’altra la casa di edizioni della
famiglia Trepperel, che, all’opposto, praticava l’impressione di testi più popolari e di minor pregio
materiale, con modalità di riproduzione spesso dubbie e piratesche.
E naturalmente due destinatari completamente diversi: da un lato un pubblico di “professionisti
della lettura”, pratichi di retorica, latino e belle lettere; dall’altro lato il mercato più recente, una
platea di lettori parvenu che avevano beneficiato con la stampa di un accresciuto accesso ai libri e che
per formazione culturale e connotazione sociale prediligevano la manualistica e la letteratura di
intrattenimento. L’opera di Pierre Gringore poteva coprire per sua natura i due segmenti di
ricezione, ed il jeu nel passaggio dall’una all’altra officina restava in sostanza lo stesso.
È lecito allora domandarsi che cosa avessero in comune i due pubblici di lettori. Esisteva un’identità
fra pubblico delle rappresentazioni da catafalco e lettori? E quali erano le funzioni che la stampa
assumeva nel dialogo fra platea ed autore?
Il supporto materiale del testo, il libro, non è mero trasportatore di significato ma elemento di
interazione attiva con l’opera, e quindi può aiutare a ricostruire queste relazioni. La forma materiale
di un testo ha valore significante e fornisce dati interessanti sul contesto di diffusione e di recezione
di un’opera, permettendo di chiarirne gli usi e l’ambito sociale destinatario e la sua maggiore o
minore coerenza “ideologica” con un dato strato della popolazione. In altri termini la forma libro –
105
ed in particolare quella di composizioni che sono solo parte di un complesso meta-testuale (nel
nostro caso la recita) – contiene informazioni d’uso preziose.173
In particolare cercheremo di analizzare tre edizioni del Jeu du Prince des Sotz: la prima uscita dalle
presse di Pierre Le Dru immediatamente dopo la recita per la quale era stata pensata; la seconda,
posteriore di un solo anno (1513), firmata da Trepperel e famiglia; ed una terza, che rimonta a dieci
anni dopo (1523), sempre uscita dall’atelier Trepperel. Solo i primi due esemplari sono dotati della
devise di Gringore.
La raccolta è ben conosciuta fin dal XVIII secolo quando nel 1798-1806 ne compariva un’edizione
nella collezione Caron, impressa in 57 esemplari, in cui si tentava anche di segnalare tutti gli errori
della stampa originale e di modernizzarne la punteggiatura.
L’editio princeps174 è quella letta ed approvata da Pierre Gringore in cui l’autore rivendica la paternità
della composizione attraverso un’attenta distribuzione delle sue insegne all’interno del volume:
acrostici, motto e marche di impressione sono impiegati per apporre uno stampo inequivocabile di
possesso intellettuale. Al foglio 45 registriamo la presenza esplicita del nome, accuratamente associato
a quello di Mère Sotte, ma ad esso disgiunto in modo da mettere in luce l’esistenza “civile” (o civica)
del poeta: «finis | Fin du cry / sottie / moralyte et farce cõ | posez par Pierre gringoire dit mere
sotte.& | Imprime par iceluy», l’ultima parte del colophon dimostra come lo scrittore abbia
personalmente supervisionato alla tiratura a stampa e ne certifica pertanto l’autorevolezza.
La prima pagina dell’opera, benché non faccia diretto riferimento all’autore, ne segnala la presenza:
ospita infatti il legno con la marca di Gringore raffigurante il solito suo personaggio in tonaca e
orecchie da asino, cui fanno da allegri compagni altri due idioti di scena, più piccoli, che, disposti
l’uno a destra e l’altro a sinistra, tengono per mano il soggetto principale, madre di tutti gli stolti. A
riempire la campitura bianca dello sfondo un terreno su cui spuntano sei ciuffi d’erba: lo stemma è
inquadrato dal motto che recita «tout par raison | raison par tout | par tout raison»; il legno ha l’aria
di essere nuovo o scarsamente utilizzato.
La qualità generale della stampa è affatto curata: pur non esistendo tracce evidenti dell’editore, Le
Dru dovette prendere a cuore la pubblicazione dell’opera, benché essa non rispecchiasse esattamente
il suo “catalogo”.175
173
A. MARCULESCU, 2007.
È l’esemplare della riserva rari e preziosi BNF, Rés. Ye 1317.
175
L’attribuzione allo stampatore di lusso Pierre Le Dru (assai convincente e che dunque diamo per assunta) è in
HINDLEY, (2000 : pp.13 e sgg.) e si basa su una attenta analisi dei legni e dei piombi dell’opera.
106
174
Varie ipotesi176 attestano che le officine Le Dru pubblicarono già in passato, nel 1505, un’opera
firmata da Pierre Gringore, le Folles enterprises. Ed è proprio dai primi anni del 1500 che Gringore
cominciava ad adottare lo stemma che campeggia sulla prima pagina del Jeu du Prince des sotz: il
legno è anzi identificabile con l’antica marca dell’atelier Le Dru e pare che lo stampatore dovette
cederlo a Gringore, il quale gli aggiunse il motto, eleggendolo ad iconologia rappresentativa del suo
immaginario Sans-Soucy e del ruolo ricoperto ufficialmente nella confraternita dei sot.
Fatto sta che con la pubblicazione del gioco, Pierre Le Dru da una parte si garantiva la presenza
dell’opera del celebre poeta fra i suoi prodotti – un “bestseller”, per così dire – le cui vendite erano
garantite in partenza, anche grazie alla pubblicità resa dalla fresca esecuzione performativa della
composizione; dall’altra parte Gringore si qualificava scrittore di pregio, una delle rare personalità
autoriali nel difficile mercato piratesco delle edizioni a stampa.
E tuttavia, per un bizzarro scherzo del mercato, l’opera era destinata a cadere nelle mani dello
spregiudicato editore Trepperel, finendo anch’essa nel mercato dell’anonimato seriale che Pierre
Gringore aveva voluto prevenire.
Pierre Le Dru fu attivo fra il 1488 ed il 1515,177 prima nella rue St-Jacques e poi nella rue des
Mathurins.
Judging from the nature of the books he published, 31 one may point out that Le Dru was more interested
in rather scholarly publications. A rapid comparison between the texts in Latin and those in vernacular clearly
shows that Le Dru was specialised in publishing and selling rather classical and scholastic works. Suffice it
mention a few of the titles and authors which he published in the years previous to the publication of
Gringore’s play. In 1494 he printed Bonaventura, Guido de Monte Rocherii, in 1501 Antoninus
Florentinus’ Confessionales, in 1502 Isidorus Hispalensis, De summo bono, in 1509 Jean Buridan, Subtilissime
questiones Super octo Phisicorum Libros Aristotelis, in 1510 Werner Rolewinck’s De valore missarum and the list
goes on with classical authors, medieval scholastic philosophers and theological treaties. Dramatic titles, albeit
less numerous than the “serious” titles, are also to be included in his repertoire. In 1508, four years before the
printing of Gringore’s play, Le Dru published Mystère de l’ancien Testament par personnages ioue à Paris.178
La rapida lista dei titoli ci fa chiarire subito che Le Dru è un editore serio di opere di pregio ed
interesse settoriale: l’adozione d’un titolo come il Jeu contribuiva ad allargarne la notorietà, visto
l’interesse non solo letterario, ma anche civico suscitato dalle rappresentazioni del carnevale.
176
C. BROWN, 1995.
Della sua vita si sa poco e niente ed addirittura non esiste (o non abbiamo trovato) alcun repertorio dedicato
specificamente alla sua attività. Per un elenco delle opere impresse da questo editore ci basiamo sulla breve ricognizione
di Andreea MARCULESCO (2007), che utilizza i repertori generi e classici per una ricostruzione cronologica di massima
delle sue pubblicazioni.
178
A. MARCULESCU, 2007 : pp.10-11.
107
177
Pierre Gringore è a sua volta in un periodo di espansione della sua notorietà e di controllo del
mercato spettacolare parigino. L’autore è uso ad inserire momenti di attualità storico-politica anche
nei suoi lavori più spiccatamente comici e profani. Si arriva così ad un livello di interesse ulteriore
per i clienti di Le Dru, ovverosia la questione dei rapporti fra Luigi XII e la chiesa di Roma, cui
l’opera di Gringore non forniva solo una prospettiva critica, un giudizio, ma anche informazioni di
interesse pratico, funzionando come speciale attualità politica in versi degli ultimi sviluppi della
questione italiana.179
È dunque anche per “scrupolo di fonti” che l’editore assegna un nome ed un cognome all’eclettica ed
orecchiuta madre degli stolti: la pubblicazione di un’opera vicina a Luigi XII era un utile atto di
captatio benevolentiae nei riguardi del re, da cui poteva dipendere la maggiore o minore libertà delle
presse anche a prescindere della censura scolastica ed accademica, secondo il sistema “liberale” dei
privilegi di stampa.
Analoga strategia politica era stata adottata dallo stesso Le Dru anche nel 1509 quando si trovò a
pubblicare un’altra opera di Pierre Gringore fortemente filo-realista, l’Union de princes, in cui si
trattava dei fatti della lega di Cambrai e dove la firma dell’autore compariva con modalità simili a
quelle dell’edizione del Jeu.
Inoltre con la “certificazione” a stampa, il prodotto librario faceva assumere alla performance da
catafalco un valore nuovo: quello di un linguaggio in grado di produrre un discorso in un legame fra
idea ed esecuzione che trovava nella retorica una pratica di riferimento ben nota alla fascia alta dei
lettori.
Appena un anno dopo, però, la medesima opera usciva in una versione “non certificata” che ambiva
ad un mercato di destinazione altro, cogliendo il valore più francamente corrivo, epidermico, della
pièce. Questa seconda edizione del Jeu fu composta nel 1513 con i tipi di Trepperel ed è conservata
alla biblioteca Méjanes a Aix-en-Provence sotto la collocazione Méj. Rés. D 493.
Sebbene il testo della nuova edizione rispecchi in tutto e per tutto la prima, sono notevoli (e tutte in
negativo) le differenze sul piano della qualità dell’impressione, dei refusi, dei legni impegnati e
179
Il ne me fault point resveiller, | Je fais le guet de toutes pars | Sur Espaignolz et sur Lombars | Qui ont mys leurs
timbres folletz. | Garde me donne des Allemans; | Je voy ce que font des Flamens | Et les Anglois dedans Calletz.
(vv. 66-73).
E nella moralità:
PEUPLE YTALIQUE : J’ay gens d’armes qui sont en garnison | En mon hostel ; j’ai n’en suis pas le maistre. | Souvent n’y a
ne ryme ne raison. | Il court pour moi si maulvaise saison | Que ne me sçay ou heberger et mettre.
(vv. 48-52)
108
dell’impaginato. Sottolineiamone soprattutto tre, ovvero (1) l’assenza di qualsivoglia menzione del
nome di Pierre Gringore, (2) la riproduzione piratata del legno di apertura con la madre degli stolti
(e l’impressione multipla dello stesso anche all’interno dell’opera, nella quale risulta peraltro
fortemente degradato) ed infine (3) la scarsa qualità generale dell’edizione.
Focalizziamoci sull’incisione di prima pagina, che è sovrastata da un titolo di corpo assai maggiore
nella Méj che nella versione Le Dru, in modo da donare superiore importanza all’evento
performativo, alla genesi scenica del testo letterario.
Anche l’incisione di Mère Sotte subisce delle modifiche in Méj: il marchio non è quello originale di
Pierre Gringore se i sei ciuffi d’erba dello stemma si riducono a quattro (il tratto del disegno è
evidentemente calcato), e soprattutto se il motto equivoca la parola «raison» in caratteri gotici non
chiari, così che è possibile leggervi un improbabile «ravon» o «raiion» o «rauon».
Sembra quantomeno paradossale che il progetto editoriale
primitivo del poeta trovasse nell’edizione successiva di appena un
anno un tale ribaltamento, che contraddiceva (e per certi versi
inficiava) gli scopi e le ragioni della stampa princeps di lusso. È uno
dei molteplici episodi di plagio di cui si macchia la reputazione di
Trepperel, (la cui falsificazione delle opere di Gringore sembra
essere una costante del mercato editoriale parigino), o si tratta
Figura 1. Stemma e devise di Gringore
falsificati da Trepperel.
piuttosto di un’operazione condotta con il consenso dell’autore?
Alan Hindley, seguendo diverse considerazioni formulate in prima istanza da Eugénie Droz, ipotizza
che l’esemplare Méj. sia stato copiato a partire dall’edizione Le Dru: la vedova Trepperel (Jehan, il
capofamiglia, muore nel 1511) lavorava all’epoca in associazione con Jean Janot ed era pratica di
riedizioni anonime e piratate.
Pensiamo ad esempio alla raccolta Trepperel di sottie a noi già familiare – impressa in fascicoletti
distinti in un arco cronologico a cavallo con la pubblicazione del jeu – in cui la marca di Mère Sotte
viene usata a più riprese180 e sempre nella variante illecita, o quantomeno non corrispondente a
quella ufficiale Le Dru-Gringore: è il caso per esempio della sottie Estourdi, Coquillart, et Desgouté,181
180
L’incisione compare in: Sotie et farce nouvelle de estourdi et coquillart a iii personnages (n°2), Sotie nouvelle a cinq
personnages des sotz escornez tresbonne (n°15), Sotie nouvelle des sotz qui corrigent le magnificat a cinq personnages (n°9),
Sotie nouvelle a quatre personnaiges des raporteurs (n°4). Così come tutte le note fin qui ed in futuro riferite alla Trepperel
i numeri delle pièce corrispondono all’ordine stabilito da Eugénie Droz e non a quello della legatura originale.
181
TREPPEREL I, n° II.
109
ristampa parziale del Menus propos182del 1461, giunta a noi in due esemplari: il primo con lo stemma
originale, l’altro con il legno ed il motto contraffatti.
Se effettivamente dietro l’operazione dei Trepperel si celasse l’intenzione dell’autore, (magari
interessato ad una più facile distribuzione del jeu), viene da chiedersi per quale ragione egli non abbia
almeno ceduto i legni originali all’atelier Trepperel.
Lo stemma significante di Gringore, volto in origine a dare autorità all’opera ed in particolare alle
notizie di attualità che vi comparivano, viene impiegato da Trepperel senza essere associato al nome
dell’autore, quasi fosse un’illustrazione didascalica del momento concreto della performance:
identificazione latente, dunque, in grado di fornire ai destinatari bassi delle edizioni Trepperel un
duplice messaggio. Da un lato la documentazione per immagini dell’evento, che si supponeva fosse
loro noto, medesima funzione, se ci è consentito azzardare, della “foto di scena”; dall’altra parte una
sorta di “logo”, stemma o etichetta che richiamava la celebrità di Gringore in quanto uomo del
catafalco. Pur mantenendo il gioco della dissimulazione piratesca, il pubblico doveva associare subito
la figura del principe degli stolti alla pièce scritta.
In questo modo Trepperel approfittava del secondo segmento di lettori che poteva essere interessato
alla lettura: la massa della nuova borghesia mercantile cittadina che cominciava a trovare nelle opere
a stampa un ideale passatempo liberale.
Più tardi la spregiudicata operazione commerciale dei Trepperel avrà ben altra risonanza e modernità
con l’attività di Nicolas Oudot I de Troyes, che con la sua Bibliothèque bleue sarà uno dei fondatori
dell’editoria commerciale: la sua collezione di letteratura di colportage (da dare a vendere cioè ai
disgraziati che percorrevano la città con una cassetta piena di libri al collo) sarà distribuita fino quasi
alla rivoluzione francese, unica o quasi a sfamare gli appetiti letterari delle classi medie. Le manovre
editoriali “popolari” degli imprimeur parigini come Trepperel, solo raramente si basavano sulla
produzione di nuove opere e consistevano quasi sempre nel cambiare il pubblico ed il contesto di
ricezione originale di un’opera, realizzando una sorta di denaturazione delle funzioni iniziali del testo
a stampa.
Tornando al caso dell’edizione Méj. del Jeu l’assenza di una fonte che attesti la provenienza e
l’autorevolezza del parlante testimonia dello scarso valore che la cronaca politica ricopriva nel
contesto editoriale adottivo: il nostro editore clandestino sapeva che l’opera di Gringore poteva esser
182
RGS, t.I, pp.41-112.
110
letta anche facendo a meno di decifrare le misteriose allusioni storiche, riportata cioè alla sua
funzione performativa pura, e letta per quello che era: una farsa, una moralità, una sottie, un cry.
La famiglia Trepperel non pescava a caso nel crescente repertorio a stampa, ma si manteneva in un
contesto commerciale preciso, rispettando una sorta di politica editoriale ante litteram e cercando di
accontentare un pubblico che non voleva per sé la scienza che tutto illumina, ma opere di facile beva,
devozionali o pratiche, religiose o bibliche,183 senza fra l’altro avere un particolare interesse per
l’autore, che infatti vi veniva solo raramente segnalato.
I Trepperel si giovavano della possibile contiguità di interessi fra lettori alti e bassi. Intuendo ad
esempio che una farsa come la Cène des dieux,184 di ispirazione colta e provenienza probabilmente
universitaria (ricca di latinismi parodici è svolta su diversi temi mitologici ed accademici), poteva
avere un lato divertente e movimentato di sicuro impatto sul pubblico, la stamparono in formato da
asporto.
Alcuni titoli del repertorio dei Trepperel sono per noi significativi perché dimostrano come il
contesto della imprimerie rispecchiasse una certa continuità di logiche ed interessi fra novellistica,
racconti, poesia epica e panorama teatrale. Vi si rinviene una versione spuria di Boccaccio, il noto
Boccace des nobles malheureux, impressa da Jean II senza data; la Destruction de Troie la grande fatta
da Jean senza data ma ascrivibile al 1510 circa (sarà pubblicata anche più tardi dalla vedova in
associazione con Jean Janot); e poi una serie di storie religiose e vite di santi pensate per essere
inserite in un contesto scenico: è il caso della Réssurection de nostre Seigneur, del Sacrifice d’Abrahm o
della Histoire de Sainte Suzanne.
Fra il 1491 ed il 1531 sul catalogo Renouard ritroviamo 226 titoli a loro riconducibili: su 320
edizioni ne abbiamo una sessantina di ispirazione religiosa, una ventina dedicate alle vite dei santi e
un’altra trentina di pièce storiche o di atti ufficiali. E poi, sottolineate dalla dicitura «par personnages»
ritroviamo anche dieci opere teatrali sciolte alle quali si aggiungono le 35 pièce della Raccolta
183
Romanzi e novelle cortesi: Le preux chevalier Artus de Bretagne, Les Prouesses et faits merveilleux du noble Huon de
Bordeaux, Galien restauré; Testi biblici: Cantiques de Salomon; letteratura classica di facile smercio: Catone, Esopo,
Ovidio (Le Grand Caton en français, Esope en français, Recueil des épître d’Ovide); letteratura devozionale: Complainte
douloureuse de l’âme damnée, Doctrine et instruction nécessaire aux chrétiens et chrétiennes, Fleur de dévotion; trattatistica
spicciola: l’Art de fauconnerie et des chiens de chasse, La Médicine des chevaux et des bêtes chevalines, Manière de planter en
jardins.
184
TREPPEREL II, n°VIII.
Riportiamo anche la bibliografia originale, per avere una idea del prodotto editoriale singolo: La Cène des dieux
nouvellement jouée à Caen par le général Sainct Loys, Maistre Jehan de Caux, Maistre Pierre de Lesnaudiere et leurs
compaignons, s.l.n.d., (Paris, fin XVe siècle).
111
Trepperel. Rimangono circa 180 opere di carattere morale, cortese o trattatistico e qualche
calendario.
La maggior parte delle stampe Trepperel circolava già in forma manoscritta nel medioevo: la famiglia
non era specializzata nella pubblicazione di testi di carattere contemporaneo e privilegiava di gran
lunga le opere illustrate, che realizzava riutilizzando ampiamente gli stessi legni.185
Trepperel widow’s dishonest practice [might be understood] as an “aesthetical” transformation of the
publications. […] Le Jeu du Prince des Sotz can easily be placed and is meant to be deciphered by other
readers with other cultural competences and needs. For them the written/printed word has other
connotations. It is licit, pertinent, written what they saw on the stage, that is, Gringore wearing the fool’s
costume and not Gringore, the acteur, that is, both the author and the juridical person who has full control
upon his publications. In this respect, the thorny issue of authorship has no relevance […].
The new readers created by the editorial strategies of printers such as the Trepperel in Paris or Barnabé
Chaussard (1460-1527) in Lyon are essentially educated in the spirit of the oral culture.186
Cultura orale, narrazione per la narrazione. Nel contesto dei giochi e dei rimandi tematici più o
meno abusivi fra catafalco e novella, una strategia come quella dei Trepperel non solo è giustificabile
ma efficace, a perfetto agio nel groviglio complesso di furti, prestiti e dissimulazioni che i farceur
praticano, imperturbabili.
Inoltre, se l’operazione di Pierre Le Dru aveva una durata limitata nel tempo, determinata
“geneticamente” sia dall’acutezza dei lettori umanisti – che facevano della novità un parametro
importante di giudizio al contrario del pubblico borghese, più tardo ad assuefarsi – sia dalla data di
scadenza sempre apposta alla cronaca e all’attualità, quella di Trepperel poteva invece durare nel
tempo. Ed infatti, a distanza di circa dieci anni dalla prima edizione Le Dru, è ancora il nostro pirata
e non il primo editore ad emettere un’edizione del Jeu. Il panorama politico era del tutto mutato,
Gringore aveva da tempo lasciato Parigi, le questioni religiose avevano avuto altri risvolti ed
evoluzioni, ma un pubblico disinteressato alla cronaca ancora consumava con gusto il varietà un
tempo “impegnato” di Mère Sotte.
1.4.2 – La stampa teatrale.
La raccolta Trepperel, cui più volte abbiamo fatto menzione e dalla quale sono estratte diverse pièce
fin qui analizzate, si compone di 16 sottie, 5 farse, 2 sermoni gioiosi, 2 dialoghi (uno è iscritto da
185
186
S. ÖHLUND-RAMBAUD, 1989.
A. MARCULESCU, 2007 : p.24.
112
Eugénie Droz nella poco convincente categoria della «revue de college»), una pastorale politica (fra il
pamphlet e l’egloga) e 7 moralità.
I testi sono più volte farraginosi non tanto per la sofferenza di conservazione, quanto per le
negligenze dello stampatore, che tronca con disinvoltura diversi passi delle pièce ed inchiostra
piuttosto sbrigativamente le matrici. Altri passaggi sono invece di difficile interpretazione o perché
fanno diretta allusione a cronache delle quali non rimane traccia, o perché incentrati su espressioni
idiomatiche sconosciute, o perché scritti in un volgare spurio e grassamente popolare.
Essendo la rilegatura originale, l’ordine in cui ci sono pervenute le 35 pièce è quello scelto in origine,
secondo Eugénie Droz proprio dagli stessi Trepperel.
Par suite d’une chance inespérée, le Recueil nous est parvenu dans sa reliure originale. Tandis qu’il est évident
que celui du British Museum est dû à un collectionneur qui a réuni, à cause de leur format, des pièces
imprimées à Lyon, Paris et Rouen, il semble qu’ici nous ayons la série agenda complète de la collection
théâtrale de la maison Trepperel, reliée par les soins du libraire. C’est le type de la reliure commerciale et à
bon marché des premières années du XVIe siècle. Elle est en veau brun, le dos à cinq grosses nervures. Les
plats sont décorés à froid avec trois roulettes différentes : celle aux losanges ornés d’une fleur, celle à la
mouche et à la fleur et, enfin, une troisième, plus large, qui passe au milieu des plats et en fait le tour. Elle
décrit un zigzag et chaque courbe est ornée d’un motif. Il y en a trois qui alternent. L’un d’eux représente une
tête de sot, avec le bonnet à oreilles. Faut-il voire là une simple coïncidence ou croire que Trepperel a
intentionnellement fait graver ce fer ? En tout cas, nous ne l’avons jamais rencontré ailleurs.187
Ad una analisi rapida dell’indice si nota che l’ordine non risponde in apparenza ad alcun criterio e
che anzi si possono riscontrare errori nella successione logica delle pièce: ad esempio l’Enqueste d’entre
la simplee et la rusee faicte par Coquillart dovrebbe essere il seguito della sottie del Plaidoyer Coquillart
ma nella rilegatura l’ordine è invertito. Gli errori di successione sono stati corretti nell’edizione
critica di Eugénie Droz, che è risalita alle singole datazioni avvalendosi dei colophon di tre opere
contenute nella raccolta.
La Moralità del sacrificio di Abramo (1) è segnata «a Paris par Jean Trepperel demourant en la rue
neufve nostre dame, a l’enseigne de l’escu de France». Dal catalogo Renouard apprendiamo che
all’inizio della sua carriera Jean Trepperel esercitò la professione all’insegna di Saint-Laurent, al
ponte di Nostre Dame fino al 1499, anno del crollo rovinoso della struttura. Trepperel rimase alla
«Grant rue st. Jacques» fino al 1502 quando trasferì le sue attività all’indirizzo indicato dal presente
colophon. Essendo morto Jean nel 1511 la pièce deve rimontare necessariamente ad un periodo
187
Eugènie Droz aggiunge in nota rispetto alle rilegature a buon mercato dell’epoca: « semblable à celle reproduite par
Loubier, Der Bucheinmand, p.113, pl. 101, comme exemple-type des reliures de 1500. Elle est de la meme famille que
celle de Robert Gourmont (1505), reproduite par E. Ph. Goldschmidt, Gothic and Renaissance Bookbindings, pl. XX. »
113
compreso fra il 1502 ed il 1511. Il disegno di un drago e di un uccello sovrasta il titolo in corpo
gotico assai grande la cui iniziale “M” proviene secondo Droz dallo stesso set di caratteri della “R” de
l’Amoureaux transi sans espoir impresso da Antoine Vérard nel 1505;188 il resto del titolo corrisponde
invece ai piombi che Trepperel usa fin dal maggio 1497:189 ciò che non fa che confermare le ipotesi
formulate.
La moralità dei quattro elementi (2) secondo il colophon venne impressa dalla «vedova» Trepperel,
in associazione con il genero Jehannot: diversi indizi indicano con certezza la data di composizione
tipografica nel decennio fra il 1511 ed il 1522.
Infine la farsa nuova moralizzata a tredici personaggi (3), composta prima della morte di Jean e
quindi non dal genero e dalla moglie, ma direttamente dal capofamiglia.
Tralasciamo la datazione minuziosa di tutte le opere effettuata nella ricca edizione moderna del
recueil e consideriamo solo il margine temporale approssimativo della raccolta, la quale deve essere
stata impressa per la maggior parte entro il 1511, sotto la direzione di Jehan. Qualche sporadica pièce
rimonterebbe alla data di associazione della vedova col genero Janot e non oltre, dunque, al massimo
entro il 1518.190
Il gruppo di pièce che ascriviamo all’attività del fondatore dell’atelier fu inoltre stampato quasi in
blocco, e con grande rapidità: siamo portati a crederlo in quanto gli stampi che ornano l’opera si
ripetono più volte, lo stato di conservazione delle matrici rimanendo pressoché il medesimo. Inoltre,
fa notare sempre la studiosa francese, «au dernier feuillet de la pièce 10, on aperçoit l’empreinte du
cliché qui orne le titre de la pièce 23, celle-ci, fraîchement tirée, s’est décalquée dans l’atelier sur la
188
H. DAVIS : n°58
A. CLAUDIN, 1976 : t.II, pp.153 e 161.
190
Datazioni rese da Eugénie Droz per le sottie contenute nella raccolta Trepperel:
1. Farce du gaudisseur, 1450 c.;
2. Sottie d’Estourdi, Coquillart et Desgouté, rimaneggiamento del Menus Propos, dopo 1460 ;
3. Sottie des sots triumphans, 1475 c.;
4. Sottie des rapporteurs, 1480 c.;
5. Sottie des sots fourrés de malice, 1480 c.;
6. Sottie des sots gardonnés ou des trois coquins, prima del 1488 ;
7. Farce du pauvre Jouhan, prima del 1488 ;
8. Sottie des coppieurs et lardeurs, prima del 1488 ;
9. Sottie des sots qui corrigent le magnificat, prima del 1488 ;
10. Vigiles Triboulet, 1480 c.;
11. Sottie des sots qui recueuvrent le mortier, 1480-90 ;
12. Sottie des sots qui remettent en point Bon Temps, dopo il 1491 ;
13. Sottie de Trote Menu et Mirre Loret, fine XV secolo;
14. Sottie de la feste des rois, fine XV secolo;
15. Sottie des sots escornéz, inizio XVIe secolo;
16. Sottie des sots ecclesiastiques, aprile 1511.
189
114
feuille qu’elle touchait. De même sur le titre de la pièce 11, décalque du cliché de la pièce 9 et, au fol.
31 r° de la pièce 8, décalque bien visible de tout le titre de 9», ciò che dimostra la simultaneità di
impressione di alcune opere.
Durante le nostre digressioni attorno alle farse della Reformeresse e dei Coppieurs et Lardeurs abbiamo
velocemente accennato a come sembri intercorrere una precisa relazione fra il mondo dello spettacolo
profano francese (le manifestazioni civiche, i carnevali, ma anche le esecuzioni e le letture più o meno
private delle pièce) ed il mondo della imprimerie.
Una connessione che sembra valicare il confine della pura utilità meccanica dell’impressione seriale
rivelando dinamiche di interazioni più complesse, in cui l’ambiente degli stampatori ricopre un ruolo
attivo nella realizzazione dell’immaginario farsesco ed il catafalco si specchia nella bottega del
tipografo, disponibile ad assecondare anche le esigenze “di asporto” dei proto-professionisti della
scena.
Non solo i temi come la stampa, la libertà, la Riforma, la democratizzazione delle conoscenze, ma
anche la persistenza di alcune pratiche precipue dell’edizione “commerciale” ci inducono a pensare
che i catafalchi e le scene fossero in taluni casi legati a filo doppio alle presse ed ai telai.
Non è difficile cogliere le affinità astratte fra pratiche teatrali e pratiche tipografico-editoriali,
primariamente nella funzione “mediatica” svolta sia dal catafalco che dagli opuscoli a stampa. Agenti
di diffusione della cronaca storica stringente, nella stampa e nel teatro si invera la possibilità di una
dimensione civica e si realizza l’informazione ad un livello finalmente “massificato”. Con le guerre
d’Italia si intuisce il potere di propaganda del mezzo scenico e della stampa; cominciano così ad esser
composti pezzi teatrali specificamente politici, di propaganda, come appunto il Jeu du Prince des
Sotz.
Non è un caso che nel breve volgere degli anni dopo la diffusione degli incunaboli in Francia, i reali
ed il parlamento di Parigi sviluppassero il sistema degli arrêt per le pubbliche rappresentazioni e dei
privilege, per la stampa.191 Due prototipi efficienti della moderna censura, che se da una parte
tutelavano il diritto d’autore, dall’altra consentivano un controllo più efficace dei reati d’opinione e
segnalano a noi moderni la crescente attenzione della monarchia rispetto a questi moderni mezzi di
propaganda. La stampa di bassa qualità, di scarso valore e pertanto di grande tiratura diventò con
191
E. ARMSTRONG, 1990.
115
Carlo VIII e Luigi XII un importante veicolo di consenso politico, accompagnando le sorti delle
scene, anch’esse potenti strumenti pubblicistici per il nascente ancien régime.
Negli anni poco posteriori all’incunabolo la differenza fra la professione di libraio e quella di
stampatore non era ancora ben definita e la più antica professione del venditore di testi, iniziata con i
manoscritti, era regolamentata meglio di quella dei primi atelier del libro a caratteri mobili.
A Parigi esistevano tre grandi categorie di librai già prima della stampa: i quattro grandi librai giurati
eletti dall’università (il numero cambia in ragione del periodo); i librai giurati, legati anche essi al
commercio universitario, che tenevano boutique ed erano sottoposti al controllo del rettore; infine i
librai comuni, la cui più grande fetta di guadagni derivava probabilmente dalla vendita di libri usati
o d’opuscoletti di scarso valore economico.
Il riconoscimento ufficiale della professione dello stampatore doveva occorrere più tardi, e senza vera
programmaticità, quando il 13 gennaio 1534 Francesco I vietava la stampa libera in tutto il regno
rivolgendo l’interdizione in special modo alle officine del libro: quando appena tredici giorni dopo
concesse alcune lettere patenti per il privilegio di stampa si riconobbe per la prima volta formalmente
la professione del tipografo.
Un primo perfezionamento del sistema normativo atto a regolare la stampa in Francia occorse
qualche anno dopo, quando in un editto del 31 agosto del 1539 il re obbligava gli editori ad indicare
recapito ed insegne nelle opere che producevano.
Per libraire si intende generalmente colui che investe denaro e reputazione sull’opera e che dà inizio
al progetto di stampa, spesso anche solo coordinando le varie maestranze e in associazione con altri
librai per produrre opere particolarmente onerose.
Tuttavia le professioni del libro rimasero a lungo confuse: per avere una idea della vaghezza delle
competenze individuali fra libraire, imprimeur ed atelier basti pensare che i bibliografi hanno a lungo
dibattuto anche sull’attività di personaggi ben noti dell’editoria parigina, in quanto fra gli operatori
della stampa primo-cinquecentesca erano possibili numerose combinazioni di competenze. Antoine
Vérard ad esempio, è stato a lungo considerato uno stampatore, ma era in realtà libraio, ovvero
distributore-editore che si avvaleva dei servizi di terzi per la tiratura materiale delle opere. I nostri
Trepperel coprivano, associati alla famiglia Janot, tutta la “filiera” della imprimerie.
La fluidità delle professioni della stampa di allora rende difficile oggi una corretta attribuzione delle
opere a uno o a talaltro editore o atelier: sempre nel caso dell’editore Vérard, ad esempio, il nome
accreditato nelle edizioni era quello del libraio, ma non essendo egli proprietario dei piombi e delle
116
presse, la ricomparsa dei medesimi set di caratteri in altre opere prive di colone pone comunque
importanti incertezze di attribuzione.
La famiglia Trepperel vendeva direttamente i libri che stampava: fu così per Jean I, che inaugurò
l’attività della famiglia programmando le edizioni, stampandole e vendendole ad un tempo; e fu così
in una certa misura anche per la successiva gestione muliebre della ditta quando una parte
dell’impegnativa attività venne svolta in comune con Jean Janot.192
Jean II invece conservò la licenza ereditaria di libraio ma si appoggiò allo stampatore Alain Lotrain
per le presse, il quale infatti si installò al suo indirizzo portando con sé i propri materiali di lavoro e
continuando ad utilizzare anche i tipi originali delle officine Trepperel.
Le incisioni dei Trepperel erano intagliate su legno, materiale per questo scopo più pratico del rame,
in quanto i legni erano più agevolmente integrabili alla composizione dei caratteri mobili. Sebbene
tali la matrici fossero più soggette ad usura rispetto a quelle in metallo, esse consentivano un certo
risparmio in termini di tempo e difficoltà di realizzazione dell’opera, fornendo un’illustrazione finale
di qualità accettabile e tuttavia economica. Il valore assegnato alla presenza di immagini nelle loro
opere era tale che i Trepperel furono fra i primi a Parigi ad introdurre l’impressione bicroma
rosso/nero per arricchire l’originalità del prodotto finale.
Tratti fondamentali delle impressioni Trepperel, sono il risparmio economico ed il reimpiego
disinvolto dei materiali tipografici: come per la farsa, che riusa temi e storie, pure le modalità di
lavoro dell’imprimerie a basso prezzo si basavano sul principio modulare del reimpiego.
Stéphanie Öhlund-Rambaud193 ha pensato ad effettuare un’analisi delle illustrazioni contenute nelle
edizioni di romanzi epici siglate dai Trepperel, concludendo che la ripetizione degli stampi
interessava quasi tutti i loro volumi: un’illustrazione poteva comparire più volte nelle stessa opera ed
in opere diverse, con il fine di riempire ed abbellire le impressioni senza pesare sul costo, in un’ottica
di risparmio seriale.194 Le illustrazioni che facevano parte del materiale tipografico dell’atelier erano
192
G. RUNNALLS, 2000.
S. ÖHLUND-RAMBAUD, 1989.
194
Forniamo qualche opera del censimento di Öhlund-Rambaud:
Olivier de Castille et Artus d’Algarbe, Paris, Jehan Trepperel, 31 mai 1504 contiene 30 figure: 22 sono i legni impiegati e
8 le ripetizioni (un legno è ripetuto due volte);
Galien restauré…, Paris, Veufve Trepperel et Jean Janot, s.d., contiene 15 figure : 11 legni con 4 ripetizioni dont (1 legno
ripetuto 2 volte);
Olivier de Castille et Artus d’Algarbe, Paris, Vaufve Trepperel, s.d. (nuova edizione del precedente), anche qui 30 figure su
21 matrici con 9 ripetizioni (2 matrici sono ripetute due volte);
Le livre des trois filles de rois…, Paris, Veufve Trepperel, s.d., contiene 33 figure, su 20 legni per 13 ripetizioni (1 legno
risulta riutilizzato ben 6 volte);
117
193
di solito scene militari o quotidiane e venivano usate spesso senza alcun rapporto di necessità diretta
con il testo scritto.
La Sottie des sotz qui remetent en point Bon Temps ad esempio è stampata nella Trepperel con un
legno che raffigura Pathelin a letto mentre la moglie discute con il drappiere truffato: si tratta di una
incisione appartenente al Pathelin di Levet, (stampato prima del 20 dicembre 1490) del quale
sappiamo Jehan Trepperel acquisì una buona parte dei materiali di stampa.195
Il legame fra letteratura “da asporto”, di uso pratico, e le illustrazioni è evidente fin dalle prime
edizioni a stampa, in cui gli stampatori erano già consapevoli della facilità di lettura di un testo
dotato d’elementi grafici di complemento: si pensi ad una delle prime edizioni francesi a stampa di
Terenzio, risalente al 1493, in Lione, per i tipi di Johann Trechsel, testo dedicato agli addetti ai
lavori ma anche a chi non aveva una puntuale preparazione umanistica, come lo stesso editore
specificava nella prefazione, in cui si segnalava anche che le immagini giustapposte ad ogni scena
erano volte ad agevolare la lettura agli incolti.
Il primo libro conosciuto dei Trepperel è una edizione del Pierre de Provence et la belle Maguelone, in
cui il colophon recita: «imprimé a paris par Jehan Triperel Libraire de mars | chand demeurant sur le
pont nostredame a lymage saict | Laurens Le xb iour de may.mil.CCCC.quatre ving- | et viii». La
storia della bella Maguelone e del giovane e gentile Pierre de Provence era un romanzo assai in voga
il cui successo e diffusione venivano garantiti dagli elementi rocamboleschi e dalla storia d’amor
cortese: un’opera perfetta per le logiche editoriali dei Trepperel.
Secondo Stéphanie Öhlund-Rambaud196 il primo testo della casa sarebbe invece la Destrucion de
Jérusalem […], datato 22 febbraio 1491 e segnalato solo da Brunet nel suo Manuel du libraire197 e
dall’excerpta di Henry Harrisse:198 non siamo riusciti a reperirne un esemplare nei principali cataloghi
francesi, tuttavia nulla ci lascia dubitare che il testo fosse esistito in quanto anche in questo caso si
tratterebbe di un’opera storico-devozionale che vide numerose ristampe nel corso del XV e del XVI
secolo e pertanto in linea con il repertorio dei nostri stampatori parigini.
Le preux chevalier Artus de Bretagne…, Paris, Veufve Trepperel, s.d., l’opera contiene 25 figure ricavate da 19 legni con 6
ripetizioni (1 legno è ripetuto 4 volte);
Renaut de Montauban, La conquête [de l’] empire Trébisonde…, Paris, Jean II Trepperel, qui sono 15 le figure ricavate da
14 matrici con una sola ripetizione.
La conquête du grand roi Charlemagne…, Paris, [Jean II Trepperel], s.d. [c. 1530-1531], 21 figure da 18 legni con 3
ripetizioni complessive.
195
E. DROZ, 1934 : t.I, p.145.
196
S. ÖHLUND-RAMBAUD, 1989.
197
Man. LIBRAIRE.
198
EXCERPTA.
118
Durante la prima metà del 1500 i Trepperel erano fra gli editori parigini più attivi nella
pubblicazione di opere teatrali: nella capitale, oltre a loro e su circa venti officine complessivamente
attive si occupavano di stampe per la scena i Bonfon, Jean Saint-Denis, Pierre Sergent et Simon
Calvarin, mentre a Lione erano specializzati nello stesso settore gli Chaussard e gli Arnoullet.
Erano stampatori e librai differenti dalle celebri tipografie umanistiche degli Estienne, di Josse Bade,
di Galliot du Pré o di Geoffroy Tory, che mantenevano il monopolio dell’edizione di lusso
rifornendosi di novità attraverso una fitta rete di conoscenze in tutta Europa e dotati dei giusti mezzi
economici ed artigiani per assumersi il rischio della pubblicazione d’opere d’alto pregio ma dalla
tiratura non sempre garantita.
Se l’editoria bassa si caratterizzava per una forte aggressività sul mercato, quella alta dava maggiore
importanza alla qualità delle impressioni, cercando di attrarre l’esigente clientela umanistica ed
accademica: è in questa ottica che gli stampatori francesi di lusso si impegnavano ad introdurre una
serie di novità sostanziali nella tecnica di produzione del libro, quando invece gli editori a buon
mercato si limitavano a ripetere tecniche più antiquate e a riciclare materiali e pratiche. Nel volgere
di un breve periodo, mentre la produzione dei Trepperel e dei loro concorrenti restava pressoché
invariata da un punto di vista qualitativo (piccolo formato, caratteri gotici, etc.), le grandi officine
rimpiazzarono i caratteri gotici con le lettere romane e corsive e continuarono l’opera di
completamento delle collezioni latine e greche impegnandosi contemporaneamente nelle traduzioni
in volgare e nella pubblicazione delle novità francesi.
Non ci deve sorprendere allora il risultato del nostro spoglio dei principali cataloghi del libro antico a
stampa fino al 1530 in cui ad onta di una fittissima presenza di opere classiche dell’umanesimo
italiano e della altrettanto densa rete di collaborazioni dell’editoria parigina con i principali
intellettuali italiani non compaiono titoli teatrali italiani originali.
Si sente insomma nei settori di pregio del mondo della stampa francese l’urgenza di colmare le
lacune “scientifiche” della biblioteca francese: la priorità viene data alla retorica, agli studi dei classici,
alla storia ed alla storiografia antica ed alla commedia solo qualora rientri nel contesto della
riscoperta (non dell’elaborazione) del classico.
Attorno al 1510 il teatro dei misteri smette di suscitare interesse presso i grandi librai che fino a quel
momento – pur trascurando sottie e farse da sole – lo avevano impresso in grandi in-folio di buona
qualità.
119
Les recherches dans les bibliothèques privées du XVIe siècle révèlent que presque aucun des grands
humanistes ne possédait d’exemplaires des mystères. Ceux-ci étaient maintenant relégués dans une sorte de
"sous-littérature" considérée, à la fois par l’élite du XVIe siècle et par la postérité, comme indigne de leur
attention. Mais il serait erroné de croire qu’il n’existait plus de public pour les mystères, comme l’attestent
d’ailleurs non seulement le nombre d’éditions et de réimpression publiées au cours du siècle suivant, mais
aussi la prospérité des libraires qui continuèrent à les éditer.199
Nei primi anni di attività i Trepperel esercitano sul Pont Notre Dame, all’insegna di St.Laurent,
benché la loro abitazione sia più lontana, sulla rive gauche, più o meno all’altezza dell’attuale Place
Monge: un atto del 19 gennaio 1495 ed un altro del 27 marzo 1493 indicano la posizione dei locali
su di un terreno che si estendeva fra l’attuale rue de la Clef e la rue Gracieuse.200
Il crollo nel 1499 del ponte di Notre Dame, imputato al peso dei magazzini delle rivendite di libri
che lì avevano sede, costringe tutte le officine tipografiche e le botteghe che vi erano installate a
trasferirsi altrove, oltre che a coprire parte delle spese per la costruzione del Pont Neuf, realizzato
sotto la direzione dell’italiano Fra’ Giocondo.201
Già dal 19 settembre 1500 i Trepperel pubblicano le Chevalier délibéré, con nuovo indirizzo rue
Saint-Jacques, sempre all’insegna di St. Laurent; ivi rimangono fino al 1503. Dopo un breve
momento di inattività dei torchi, il 31 maggio 1504 abbiamo la nuova e definitiva sistemazione delle
presse nella Rue Neufve Nostre Dame, poco lontano dalla vecchia officina, vicino a tutte le altre
attività librarie, ove la famiglia si stabilisce definitivamente.
A giudicare dal cambiamento dei colophon (da «Jehan Trepperel» a «veufve de feu Trepperel») Jean
dovette morire nel 1511: quasi subito dopo, la vedova è associata al genero Jean Janot, sposato con la
figlia dei Trepperel, Macée, secondo la costumanza ben diffusa nel mondo della imprimerie parigina
per cui le varie famiglie di stampatori erano use mantenere il monopolio del mercato del libro
seguendo un’intricata politica dinastica, che privilegiava le unioni con altre dinastie tipografe, tutte
concentrate nella stessa area urbana, non lontano dai quartieri studenteschi e dall’università.
Il primo frutto della collaborazione fra Janot e Trepperel è le Trésor des pauvres di Arnaud de
Villeneuve: la collaborazione fra le due case è di lunga durata ma incostante, ed entrambi gli atelier
continuano a lavorare anche autonomamente.
199
G. RUNNALLS : pp.42-43.
Arc.nat, S. 1649 – Censier de l’Eglise de St. Geneviève du Mont – f° 46, 5e série. / Arch. Nat. S 1649, f° 28, 5e série.
Doc. RENOUARD (t.II, pp.265 e sgg.). Le date son in nuovo sistema, con calcolo dell’anno nuovo a partire da gennaio.
201
Série H del Registre des délibérations du bureau de la Ville de Paris, Doc. RENOUARD : t.I, p.29.
120
200
Dal 1539 al 1545 abbiamo una serie di atti in cui Jean II compare come mercante di stoffe su di un
terreno situato presso la rue Trepperel, che secondo Renouard avrebbe preso il nome proprio dalla
famiglia di tipografi per poi essere progressivamente trasformato in rue Trupelet.
La marca dei Trepperel è uno scudo a tre gigli, retto da due angeli, sotto i quali due leni tengono
nappe e motivi vegetali cui si intrecciano la “I” e la “T”. Il motto che contorna l’immagine è «en
provocant ta grant misericorde otroye nous charite et concorde», marca che compare fin dall’edizione
già citata del Pierre de Provence .
Jean I adottava anche soltanto lo scudo coronato e guarnito di gigli: la vedova e Jean II lo
modificarono in due differenti versioni; la prima completata da due angeli a sorreggere le insegne, la
seconda, con il medesimo scudo a gigli, ma tenuto da due salamandre e circondato delle conchiglie
devozionali di St. Jacques, motivo che con tutta probabilità si deve all’acquisizione dei materiali del
tipografo Pierre Vidoue.202 La prima marca dei Trepperel con gli angeli non venne mai frodata né
modificata ed è pertanto un ottimo indicatore per porre in ordine cronologico progressivo le
numerose edizioni non datate dello stampatore.
Il caso della raccolta Trepperel è esemplare perché i 35 opuscoli che la compongono sono realizzati
in agenda, formato editoriale caratteristico dell’editoria da catafalco.
Le opere agenda sono strette e lunghe, misurano circa 80*280mm a fronte di uno specchio di stampa
di 60*215mm, e prevedono un massimo di otto carte: fino al 1518 sembrano essere una prerogativa
di due officine parigine, la Trepperel, appunto, e quella di Nicholas Chrétien. Attorno agli anni ’20
del secolo gli opuscoli agenda cominciano ad essere stampati anche da Pierre Sergent, poi da Jean
Leprest in Rouen nel 1540 ed alla stessa altezza del secolo anche in Lione da Jean Cantarel.203
Aggiungiamo che per le loro singolari modalità di produzione questi opuscoli implicavano la tiratura
di grosse quantità di copie.
Almanacchi, canzonette e factum, farse, sottie: tutte operette d’esiguo respiro ed estensione,
pervenuteci per lo più in copia unica ed in siffatto particolare formato tascabile, pratico nell’uso, ma
adottato solo raramente nel resto d’Europa ad onta del suo discreto impiego in Francia. La
letteratura che trova il suo supporto materiale nella forma agenda è volatile, non è pensata per durare,
202
In più luoghi e in particolare in TREPPEREL I / II / F.S.
Anche la raccolta di farse del British Museum è composta su fogli stretti e lunghi agenda, ma a differenza della
Trepperel non ha conservato la rilegatura originale.
121
203
in quanto l’asporto di tali effimere impressioni è cagione del loro rapido deperimento e della loro
dispersione.
Secondo Eugénie Droz le raccolte teatrali in formato agenda dovevano far parte dei “programmi di
sala” dei varietà teatrali dell’epoca e la studiosa insiste particolarmente sulla presenza di questi libretti
in scena, fra le mani degli attori che recitavano o distribuiti all’irrequieto parterre, immagine
suggestiva senza dubbio, ma che tuttavia non è confortata da alcun supporto documentario.
Il formato mantenne le sue caratteristiche nel tempo e fu sempre adottato per i generi minori come
le canzoni, i cry, le farse e le sottie, mentre altri testi teatrali come i misteri, subirono un’evoluzione
materiale: fino al 1508-1510 la maggior parte era pubblicata in-folio, almeno a partire dal 1510 si
adottarono di preferenza il quarto e l’ottavo, mentre le edizioni successive degli anni ’70 del 1500
vennero ridotte fino all’in-16°.
La scelta del formato è della massima importanza, in quanto restituisce informazioni importanti sul
progetto intellettuale e commerciale dei librai: in generale più il formato si riduce, più i moventi
dell’editore si spostano dal pregio alla funzionalità e al minor costo.204
L’impoverimento tipografico dei misteri era legato al progressivo cambiamento di gusto del pubblico
e alla flessione dell’interesse dell’editoria colta per questo genere di opere. I librai che inizialmente
pubblicavano i misteri erano i più influenti dell’epoca: Antoine Vérard, Jean Petit e Mathieu Husz,
che però dopo il 1508 abbandonarono questo settore subito occupato dai “pirati” della bassa
editoria.
Dal consumo da parte dell’intellighenzia umanistica fino alla lettura in ambito meno colto e
regolamentato, la parabola dei misteri replicherebbe così quel passaggio di contesto tipico del
mercato delle edizioni povere, che accoglievano soprattutto titoli passati di moda per somministrarli
ad un pubblico di più semplici risorse economiche e culturali.
Per quanto concerne la ricezione “alta”, giocano un ruolo determinante nella perdita di interesse per
lo spettacolo sacro ed i suoi tem, anche la progressiva mondanizzazione del pensiero, il montante
razionalismo rinascimentale e, solo in seguito, gli impulsi culturali della Riforma.
204
« Le fait que les mystères fussent publiés d’abord dans des volumes in-folio, ensuite dans les formats in-quarto et inoctavo, et enfin dans des in-seize, reflète dans une certaine mesure l’évolution de l’imprimerie en France : en expansion
rapide entre 1490 et 1530, en plein essor entre 1530 et 1560, et en déclin relatif pendant la deuxième moitié du XVIe
comme résultat direct des Guerres de Religion. »
G. RUNNALS, 1999 : p.40
122
Segnaliamo infine che fra i piccoli formati l’agenda era il più difficile e forse il più scomodo da tirare:
la forma rettangolare, stretta ed allungata, implicava infatti la modifica temporanea dei telai, se non
delle attrezzature apposite. Queste difficoltà intrinseche erano forse ricompensate dal valore d’uso: il
libraio “teatrale” sceglieva un formato più problematico dell’altrettanto tascabile in-16°
evidentemente per soddisfare l’esplicita richiesta dei lettori, che dovevano trovare nella forma stretta
e allungata una indispensabile praticità.
Possiamo ricondurre la produzione di agenda alle esigenze di una clientela teatrale professionale?
Possiamo immaginare questi libriccini stretti fra le mani degli attori-performer in piena azione da
catafalco?
Sembra probabile, ma l’unica affermazione certamente vera è che l’agenda si profila come formato
elettivo per un nascente mercato dell’editoria teatrale, legato a filo doppio alla crescente presenza di
professionisti dello spettacolo farsesco.
123
1.5 – Difficoltà di metodo. Inquinamenti, furti, prestiti, plagiat.
1.5.1 – Jeu de ruse demoniaco: la passione di Gréban.
Rispetto al teatro profano i misteri erano maggiormente formalizzati in quanto legati ad una
tradizione che aveva nella retorica e nella cultura del classico, filtrate dalla tradizione cristiana
medievale, dei solidi punti di appoggio.
L’ambito dei misteri ci riguarda solo trasversalmente, solo in quanto esiste una forma di influenza
reciproca fra comico e misteri. Di queste interferenze fra modello comico e religioso ci basti citare un
caso importante per persistenza cronologica ed area geografica.
Arnoul Gréban è autore di diverse pièce religiose, fra cui la più significativa è senza dubbio il Mystère
de la Passion205 messo in scena per la prima volta ad Abbeville dal 23 al 26 maggio del 1455 (in
corrispondenza dunque con i riti pasquali variamente legati alle feste popolari di fertilità) ma
pubblicato appena tre anni dopo, nel 1458.
La persistenza di questo mistero nel tempo ne testimonia il grande successo, dovuto proprio alla
spigliata ibridazione letteraria attraverso la quale vi si descrive la vita del Cristo redentore. L’opera
conta 35.000 versi divisi in quattro giornate con prologo ed “epilogo” e prevede un allestimento di
205
M. de COMBARIEU, 1987.
124
tutto rispetto, nell’ordine dei 224 interpreti, e a dispetto del titolo non si occupa solo delle vicende
neotestamentarie della morte e della resurrezione, ma anche del peccato originale, e della promessa
del messia.
Nel 1486 il testo di Arnoul Gréban subisce una mutazione per mano del genero Jean Michel che lo
riadatta per un rappresentazione ad Angers. Il rimaneggiamento di Michel coglieva la qualità più
significativa della pièce, valorizzandone il gusto per il genere misto ed aggiungendo “pezzi sapidi” ad
uno svolgimento drammatico allegorico già impregnato di reminescenze dalle diableries.
Il testo è dunque punteggiato di grottesco ed episodi comici al di là di una lettura pedante delle sacre
scritture; e diremmo anzi che il comico non vi ricopre il ruolo di semplice contrappunto alla
narrazione principale, ma ne permette lo svolgimento, sicché tutte le azioni drammatiche divine sono
mosse in realtà dalla machine à rire demoniaca, cuore pulsante della recezione in quanto momento
narrativo e linguistico privilegiato per cogliere lo sguardo del pubblico.
L’alternanza del registro comico con quello drammatico non è qui meccanica, ma entra in gioco nel
farsi della tensione teologica e nello sviluppo della “cosmologia da catafalco”, di per sé demandate ad
un procedimento per allegorie.
Le diableries sono il polo di attrazione degli sguardi e l’orizzonte di attesa dello spettatore: sotto
un’ottica teologica il diavolo costituisce la controparte che rende visibile la santità ed il riso fa da
contraltare al registro serio e mistico ricoprendo l’importante funzione di vettore di tale contenuto.
Nell’economia dello spettacolo ciò si traduce nella contrapposizione d’un mondo reale e
contemporaneo, caratterizzato dalla superfetazione dei registri, con uno eterno ed immutabile, cui è
propria la mistica allegorica.
Le opposizioni dei diavoli al volere divino sono gli ostacoli al raggiungimento della redenzione, ma
ciò che rende grottesco il mondo del male è che ogni azione perseguita per impedire i piani divini è,
con paragone calcistico, un “assist” servito alla squadra avversaria: ogni mossa condotta dal maligno
nella sua partita contro Dio consente in realtà l’avanzamento verso la più alta verità divina, la
resurrezione, che – vittoria sulla cultura della morte – si rende possibile proprio perché Cristo è
condotto al martirio dalle forze demoniache.
La rappresentazione si fa specchio di tale realtà e la comparsa dei demoni segna sempre l’approdo ad
una dimensione minuta, declinata al presente perché realistica, non astratta ed in costante
interferenza con il mondo reale, con la piazza della rappresentazione e la municipalità che la
organizza e la accoglie.
125
Così ecco una precisissima organizzazione del tempo della storia: il prologo usa il futuro e pertanto si
colloca nel passato rispetto al tempo della narrazione. Esso storicizza l’azione e ci ricorda in primo
luogo che la verità divina coinciderà per un momento con l’arco di una esistenza umana in Cristo;
che il fatto biblico prenderà con l’avvento del salvatore una sua pregnanza storica i cui effetti saranno
reali sul presente. Ma quale presente?
Il presente dello spettatore messo nella scatola ottica della rappresentazione: il presente storico,
invece, sarà rappresentato in termini espliciti solo alla fine, nell’attualità e nell’urgenza dell’epilogo,
in cui le considerazioni morali parlano della Passione finalmente come di un fatto passato.
Ciò che era futuro nel prologo diventa presente nella rappresentazione, dove i personaggi si
esprimono nell’attualità: ciò che rimane fisiologico della performance in quanto coesistenza o
contemporaneità di presenze e di sguardi (in inglese la dicitura per le arti performative è giustamente
declinata al “present continuous”, performing arts).
In questa temporalità presente esistono però i diavoli, personaggi che pur comparendo nel “presente
continuativo” della scena si rivelano esseri del passato, ovvero con un tempo di ritardo rispetto alle
scelte del divino, ciò che significa ritardo rispetto ai tempi del creato: Arnoul Gréban è maestro nel
rendere questa idea di décalage cronologico e gioca sullo sfasamento (proprio della drammatica) fra il
tempo dello sguardo dello spettatore e quello interno alla rappresentazione (e vissuto pertanto dai
diavoli), anticipando la tecnica del “doppio orologio”. Il fine di esporre gli sguardi del pubblico alle
decisioni divine prima ancora del maligno è precisamente quello di fare del tempo – e dei livelli di
conoscenza associati ai vari membri nel gioco nella ricezione – un elemento utile alla narrazione.
Gli spettatori hanno già visto la scena della natività quando invece Lucifero apprende solo dopo che
Cristo è nato, e per giunta da una diceria: Satana, suo messaggero in terra, non ha saputo far meglio
che ascoltare la buona novella da dietro una porta. Quando la Sacra Famiglia fugge dall’Egitto
nessun diavolo può sapere dove sia nascosta mentre il pubblico ha una idea precisa della posizione
degli attori sulla scena.
Possiamo immaginare come una simile casistica potesse aprire infinite possibilità espressive agli attori
e soprattutto essere motivo di appello diretto al parterre, che si sentiva chiamato in causa in prima
persona perché “sapiente” ovverosia capace di uno sguardo sull’insieme temporale della creazione, che
nel mistero corrisponde ad avere una visione d’insieme, divina, della linea narrativa.
126
Il presente del salvatore non è insomma quello dei diavoli che rispetto alla grandezza di Dio sono
idioti, grotteschi, estremamente limitati perché estremamente reali. Il male è dunque ridicolo, fallace,
ma anche reale per assunto.
L’evento teatrale è presente: il catafalco è così la dimensione dove il divino si congiunge con la realtà
e lega i suoi piani a quelli della terra, demoniaca; luogo di realizzazione, di declinazione del passato
alle urgenze dell’attualità, il catafalco è lo spazio temporale consono all’espressione temporale. Ad un
quadro biblico astratto improntato all’allegoria, il demone aggiunge la propria presenza nel passato,
presenza di chi non è stato ancora illuminato dalla luce divina: dal simbolismo si discende al
prosaico, al mondano, a ciò che è gretto e volgare ma che è anche comprensibile in quanto “risibile”.
La dipendenza fra le due dimensioni (cosmologiche e letterarie) è assolutamente reciproca: nessun
comico senza un contrappunto alto, nessun Dio senza un Lucifero. E c’è di più. Questo approccio
“temporale” della struttura narrativa e formale alla conoscenza della verità divina è l’acuta
trasposizione scenica di noti principi retorici: nello spazio concreto dell’eschaffaud lo spettatore assiste
ad un exemplum, alla realizzazione pratica, insomma, di principi incomprensibili nello spazio
monolitico dell’allegoria.
Inoltre, ciò che è presente sta a rappresentare anche un’urgenza o attualità stringente. E quale
migliore tecnica per mettere in moto le emergenze presenti se non quella di coinvolgere il pubblico
nella narrazione? Quando i diavoli scendono in terra essi scendono dal catafalco; simulando la loro
ascensione al contrario, essi si mischiano alla folla, dove ripetono la loro presenza minacciosa e
costante nella vita d’ogni credente. È un cortocircuito fra vero e falso che si ripete anche col rito
dell’eucarestia elargita al pubblico durante il più umano dei momenti della vita di Cristo: l’ultima
cena.
Scaturiti come exempla dalla penna di Gréban, i demoni sono anche i personaggi più prossimi
all’uomo, perfettibili perché imperfetti, schiavi della fisica, della materia dei corpi e della umana
(limitata) conoscenza. Essi stanno in basso, coi piedi per terra e le mani nella pasta del peccato.
Exempla: chi non si identificherebbe infatti con questi disgraziati con l’ossessione dei banchetti e del
peccato, costretti a sbattersi da un catafalco all’altro anche solo per comprendere la perfezione del
grande disegno (ed esserne soggiogati)?
Questa eredità retorica in seno alla declinazione comica dei misteri non è stata né colta né apprezzata
(o non è stata colta perché non era apprezzata) dagli studi drammatici dell’inizio del secolo scorso,
che hanno avuto la tendenza a censurare le digressioni comiche come semplici espedienti per adattare
127
al gusto delle masse l’alta teologia sacra. Ma proprio da questo legame con lo spettacolo più
codificato dei misteri la farsa sembra ricavare quella coscienza estetica che abbiamo segnalato nel
corso del presente capitolo.
Quelli che speriamo di avere spiegato con Vanessa Mariet-Lesnard,206 come elementi essenziali
nell’economia drammatica del mistero di Gréban erano considerati da Louis Petit de Julleville come
“incidenti” ed Emile Roy mostrava di leggerli con insofferenza quando per questo mistero parlava di
una successione di interminabili consigli demoniaci.
È possibile fra l’altro riscontrare un ulteriore livello di lettura nel Mistero della Passione, che instaura
una circolazione diretta fra la vita del Gesù e quella di Satana. Entrambi questi personaggi sono
sottoposti a sofferenze e devono affrontare numerosi ostacoli: con la differenza sostanziale che se le
sofferenze di Gesù sono lì a farlo tendere alla salvazione, quelle di Satana sono finalizzate ad operare
nel contingente, nelle schermaglie giocate con Dio. È in questo modo che le sofferenze divine
assurgono ad una dimensione tragica, quando invece quelle demoniache fanno ridere, sfociando nel
grottesco e suscitando la stessa ilarità che ispira il lavoro forzato del topo in gabbia che fa girare la
ruota.
Rileviamo ora quello che ci risulterà utile più avanti nella nostra trattazione, e cioè che l’orizzonte di
attesa del pubblico (riflessi comici al sacro per favorire un altro riflesso fisiologico, quello del riso e
così la memoria) non dà vita al comico come corpo esterno alla narrazione, ma influenza fortemente
la struttura ed il senso del procedere drammatico.
È un elemento, questo, che gioca un ruolo fondamentale nella formazione del gusto moderno per lo
spettacolo e storicamente vediamo come le moralità assumano una quantità sempre maggiore di
“coefficiente grottesco”, quasi a compensare l’assuefazione del pubblico agli sketch ed al comico.
206
V. MARIET-LESNARD, 2007.
128
Figura 2. Schema sintetico della Passione di Gréban
Nell’arco di tempo che va dalla formazione all’estinzione dei misteri notiamo insomma un effetto
reale del e sul pubblico ed una reciprocità di quest’ultimo con lo spettacolo, di cui consente
l’evoluzione e da cui riceve un impulso al cambiamento di gusto: chiameremo questa dinamica
complicità, fenomeno che sembra ignoto alle considerazioni della critica del primo Novecento e che
contraddice l’immagine totalizzante di uno spettacolo sempre identico nel tempo che si erano fatti
studiosi come Picot e Julleville.
L’umanità infernale del mistero di Gréban ci ricorda molto da vicino quella di Dante che inserisce
nella Commedia le diableries da cui trae la vitalità comica dell’Inferno ed in particolare la forza
realista di Inferno XXI – XXII.207
Il confronto ci riporta alla nostra questione del metodo: diremmo infatti che Dante ha influenzato
Gréban? O non è piuttosto la comunanza di una fonte – in questo caso le diableries transalpine – o la
partecipazione ad una medesima cultura – quella del grottesco medievale e della retorica – a rendere
alcuni aspetti del mistero della Passione simili a quelli della Divina Commedia? E perché non
pensare altrettanto dei reciproci rapporti fra il genere profano francese e la novella?
Il contesto è certamente diverso, ma non possiamo escludere che un analogo approccio possa essere
impegnato anche nella valutazione delle singolari interferenze che si registrano fra novella italiana e
genere drammatico burlesco francese fra fine del XV ed inizio del XVI secolo. A questo proposito
207
M. PICONE, 1989.
129
diciamo anche che l’uso modulare della farsa e della sottie è coerente con l’episodicità per “pezzi
chiusi” che caratterizza la novella.
Nei misteri l’allegoria convive con la realtà concreta. Se tale pratica è così naturale nel teatro sacro
dobbiamo forse assumere che lo fosse anche nel teatro comico. Per tornare all’interrogativo
variamente posto sopra, è lecito contrapporre la farsa alla sottie pensando ad una opposizione fra
realtà e allegoria?
1.5.2 – Un quadro generale della circolazione novellistica.
Da una parte abbiamo trovato il contesto formalizzato (ma pure attraversato da tensioni paradossali)
dei misteri; dall’altra parte invece abbiamo accennato ad un contesto molto più eterogeneo che
colmava in qualche modo il vuoto lasciato dalla cultura medievale dei favolelli e della narrazione
licenziosa, il teatro profano.
Questo secondo contesto tentò, e qualche volta trovò, infinite risorse espressive prima di approdare
ad una dimensione “europea” ed insomma ad un confronto attivo primariamente con le forme della
commedia italiana. Il comico francese della fine del medioevo, ad essa discreto, riconobbe nella
cultura della commedia italiana e della Commedia dell’Arte le proprie stesse radici affondate
solidamente nella novella e nei repertori favolistici e narrativi dell’Evo Medio.
Se dovessimo disegnare una scala cronologica delle influenze noteremmo allora fin da subito (a) che
il raggio di irradiazione tematica non è fluido e costante, ma discreto e (b) che il quadro delle
influenze fra i due sistemi letterario-drammatici non disegna per così dire una V (convergenza
progressiva delle forme italiane su quelle francesi) ma piuttosto un doppio incrocio, in cui le
influenze espressamente teatrali sono limitatissime, ad onta di una notevole circolazione di altre
pratiche letterarie e del grande ascendente che la novellistica esercita sulle forme teatrali.
La questione è complessa, e vedremo quanto nel capitolo che segue, dedicato per l’appunto ad uno
spoglio, ben lontano dall’essere esaustivo, delle influenze, dei furti e dei prestiti dei blocchi narrativi.
Ci accorgeremo in particolare che se è possibile rilevare un’interferenza reciproca fra i repertori
favolistici dell’area francofona e quelli dell’area italiana, rimane una certa influenza diretta dell’opera
che a livello europeo ha maggiormente formalizzato la tradizione del racconto, e cioè il Decameron,
130
che effettua un’operazione di “normalizzazione” sulle pur originarie forme francesi dei conte e dei
fabliau.
D’altra parte, però, abbiamo fin qui dimostrato come la coppia indissociabile farsa|sottie abbia un
rapporto preciso con le forme più antiche della letteratura “popolare” del medioevo francese, e come
le lettere drammatiche che in Francia compaiono per lo più a partire dalla metà del 1400 siano una
emanazione di quella letteratura, che aveva già in sé i germi (metrici, tematici e pratici) per una
evoluzione in senso performativo, a colmare il vuoto lasciato dal fabliau.
È un movimento storico paradossale, che vede una ripresa delle tematiche del fabliau francese da
parte di Boccaccio e dei novellieri italiani, i quali a loro volta le rispediscono oltralpe, aggiornate ai
frutti avanzati del pensiero rinascimentale, e non indenni da altre influenze secondarie.
I rapporti fra fabliau e farsa sono indiscutibili e si articolano nel vasto perimetro della forma, delle
tematiche e delle funzioni sociali. Fabliau e teatro profano hanno in comune il pubblico (mercantile,
“borghese”, ma con sporadiche incursioni nell’alto della corte o dell’aristocrazia), la forma (ripetitiva
e monotona, con l’impiego prevalente di versi ottonari e di rime piatte), lo sviluppo della trama
(rapido ma impreciso), la scelta degli argomenti (storie di vita quotidiana, ambiente domestico o
cittadino, grottesco quotidiano), le situazioni scelte (prevalentemente oscene e grossolane), i
personaggi (preti, villani e maistres in prevalenza e poi quasi tutti i mestieri ambulanti), i luoghi
comuni delle trame (la misoginia, soprattutto).
La farsa sembra uno sviluppo della embrionica ruse del favolello, prima forma letteraria francese ad
adottare l’astuzia come strumento di sviluppo dell’intreccio. Per la prima volta con il fabliau ecco il
motto «miex fait l’engien que ne fait force», la cui conseguenza a lungo andare non può che essere
l’anarchico «à trompeur trompeur et demi».
Farsa e la sottie subiscono però anche l’influenza aggiuntiva da parte del Decameron e della cultura
novellistica italiana in genere: ciò che manca è un’influenza diretta (reciproca o non) fra le forme
drammatiche in sé sui due lati delle Alpi.
Parliamo di tendenze, è chiaro, dal momento che è possibile riscontrare, e lo faremo in questa stessa
trattazione, alcuni casi limite di influenza: abbiamo le “tracce perdute” dei comici italiani in una
singolare operazione editoriale di Pierre Gringore, abbiamo il caso isolato dell’italiano Alione, che
pratica la farsa (oltre che la parrocchia politica filo francese) ed abbiamo poi un pugno di altre
testimonianze documentarie a proposito di esperienze pionieristiche di esportazione dello spettacolo
popolare italiano all’estero o frequentazioni più organiche e meno teatrali, come la presenza di
131
uomini italiani che nella visione globale della cultura propria dell’umanesimo avevano a loro volta
trovato soluzioni tecniche per il catafalco: Fra’ Giocondo, Leonardo da Vinci, gli architetti e le
maestranze italiane assoldate a partire dalle prime campagne d’Italia.
E c’è poi un contesto culturale più ampio, che rende quasi incredibile la pressoché totale inesistenza
di testimonianze sulle esperienze performative italiane in Francia alla fine del XV secolo:
l’immigrazione massiccia degli italiani in Lione (favorita anche dall’autorità reale nel quadro dello
sviluppo delle manifatture al sud), l’immigrazione italiana di lusso, dinastica o amministrativa,
l’ascendente degli studi italiani in Parigi, il mercato editoriale, la polemica e la propaganda politica.
Eppure esempi probanti ed espliciti di una diretta attività della commedia italiana non se ne trovano,
o quasi, prima degli anni ‘30 del 1500, ciò che razionalmente ci fa ipotizzare l’attività spettacolare
italiana in Francia essere cosa poco comune prima di tale periodo.
Sulla natura poi dell’influenza della novellistica italiana in Francia è doveroso effettuare una serie di
considerazioni a proposito della singolarità della circolazione oltralpe delle edizioni italiane delle
principali raccolte di racconti, ciò che costituisce di fatto una sorta di letteratura parallela legata
profondamente ed autonoma ad un tempo, dalle fonti, secondo le note pratiche di furto e prestito
ereditate dal medioevo.
Già durante il XV secolo le raccolte narrative italiane sono importate al di là delle Alpi ed il loro
successo e la quantità di edizioni che si avvicendano sul finire del secolo dimostrano come ci fosse in
Francia un pubblico in espansione per la novellistica.
In linea di massima possiamo distinguere due tipi di approdo del testo italiano in Francia.208
Primariamente quello legato alla domanda del pubblico alto, che in certi casi rappresenta anche
l’avanguardia in termini cronologici: si tratta in sostanza delle traduzioni di corte, come ad esempio
quella del Decameron realizzata da Antoine le Maçon.209 Nel medesimo contesto abbiamo anche un
considerevole numero di opere a stampa italiane che vengono importate da chi aveva gli interessi
intellettuali ed i mezzi economici per farlo. Secondariamente si riscontra un mercato più popolare al
quale si “danno in pasto” le traduzioni di Masuccio, Bandello, Sansovino, Boccaccio, Poggio, redatte
per lo più da anonimi, con criteri non sempre trasparenti di trascrizione dell’originale o di
segnalazione del furto.
208
M. SIMONIN, 1989.
A. LE MAÇON, Decameron de Messire Jehan Bocace…, Roffet le Faulcheur, Paris, 1545. La traduzione è stata
reimpressa nel corso del XIX secolo da F. DILLAYE, 1882-1884. Un eccellente studio è L. SOZZI, 1971.
132
209
Per avere una idea di queste pratiche piratesche sia sufficiente citare un dato, e cioè che ancora nel
1560 è un fatto del tutto straordinario che nell’edizione delle Notti facete di Straparola tradotta da
Ian Louveau210 si riconosca il ruolo professionale del traduttore, con esplicita menzione di questi
nella prefazione. Fra l’altro anche l’operazione editoriale in sé si distingue per una concezione
integrale dell’opera, per la quale si ha un rispetto moderno: Roville supera i timori commerciali che il
testo possa rimanere invenduto e lo propone integralmente laddove la tendenza era di mischiare le
raccolte europee (ed italiane in particolare) per estrarne le storie più sapide e conosciute
economizzando il lavoro del traduttore, ma anche proponendo pièce di sicuro successo.
Rispetto alla Francia, l’Italia conosce un periodo florido per la novella, e nonostante anche nella
Penisola l’arrivo della stampa avesse accelerato la pirateria editoriale, vi si riscontra un maggior
numero di opere originali.211 Questo dato rende naturale il travaso del repertorio novellistico italiano
sulle culture letterarie autoctone limitrofe.
Ma il passaggio delle Alpi avviene in modo talora furfantesco e ogni nuova pubblicazione, nell’epoca
della neonata stampa, minaccia di essere denunciata: ecco allora che gli editori ed i traduttori
dissimulano con diversi espedienti la fonte dei conte che, “lavati” della loro paternità, vengono
spacciati per inediti quando non per originali.
Il primo dei sotterfugi è naturalmente un intervento sui singoli episodi delle raccolte, per loro natura
facilmente rimodulabili ed assemblabili; un secondo livello di astuzia è invece quello di scorporare le
novelle dalla loro cornice originale, mischiarle un po’, e rimontarle con importanti lacune e
depistaggi in “nuove” raccolte. È una opera intenzionale di cancellazione delle tracce di quello che –
nonostante una diversa cognizione del “diritto d’autore” – era un furto a tutti gli effetti.
Gli editori rispondono alla domanda specifica del mercato e con i loro metodi influenzano
pesantemente le modalità di trasmissione “in chiaro” delle opere, e, si direbbe, creano una vera e
propria letteratura parallela, che della novella italiana conserva moltissimi tratti, nessuno, però,
originale fino in fondo.
Vari sono gli indizi che ci mostrano la formazione di un pubblico per le novelle italiane, ma
riguardano più chiaramente una platea consapevole, quella di chi si occupa della cultura a livello
professionale, intellettuali o editori, a dire la platea di chi ci ha lasciato maggiori tracce
documentarie. Rientrano in queste tracce ad esempio la Lettre de Londres a Plantin del 9 agosto del
210
211
Ian LOUVEAU, les Facecieuses nuictz du seigneur Ian Francois Straparole, Rouille, Lyon, 1560, (P. G. BRUNET, 1882).
Caso esemplare le facezie di Ludovico Carbone su cui si sofferma A. FONTES-BARATTO, 1987 : pp.22 e sgg.
133
1567 dove si chiede l’importazione di alcuni testi; o il caso di Montaigne, che vanta di aver
acquistato diverse piccole opere in Italia, fra cui qualche testo teatrale; o episodi più antichi, come
quello di Philippe de Vigneulles che viaggia nella Penisola attorno al 1486 e specifica nel suo Journal
d’avere comprato un’edizione del Novellino.212
Per il pubblico popolare dobbiamo accontentarci naturalmente del successo delle edizioni, della
quantità di ristampe e dunque in definitiva delle sole tirature delle opere ispirate alla novellistica
italiana, ciò che rende il tutto più ipotetico, in un panorama pure non avulso dalle ingerenze d’una
consapevole politica editoriale.
Secondo Michel Simonin, «[…] il ne suffisait pas de passer les Alpes pour s’établir en France. Encore
convenait-il que ceux qui se chargeaient de la traduction eussent auparavant pris la mesure du
lectorat, de ses exigences, comme de ses limites. Au reste nombreux furent les novellieri, du
Cinquecento à demeurer inédits en français».213
Restare inediti in Francia non avviene per caso, ma è un fatto che risponde già a precise logiche
commerciali, in un contesto in cui traduttore ed editore valutano l’effettiva vendibilità del loro
prodotto librario, all’interno di un programma culturale in cui la tiratura alta deve garantire nel
peggiore dei casi il rientro dell’investimento.
Fra i novellieri italiani inediti molti furono probabilmente scartati in modo razionale. Non si trovano
così nella Francia del periodo le Facezie del 1500 di Piovano Arlotto, i Proverbie di Cornazzano del
1518, le Novellae del 1520 di Girolamo Morlini (per le quali però si vedrà nel capitolo successivo
come pur apparentemente senza una edizione a stampa, alcuni episodi che vi sono narrati furono
messi in farsa). Nella lista dei “bocciati” troviamo anche Cynthio dei Fabritii, Libro della origine delli
volgari proverbii, (Venezia, 1526) e Anton Francesco Doni con le Novelle (le due edizioni italiane
sono del 1544, 1562).214
Ecco allora di cosa si nutre la nascente letteratura novellistica francese: di opere come il Parangon de
nouvelles, honnestes et delectables, che esce a Parigi ed a Lione nel 1531 e che costituisce un caso da
manuale per spiegare la manipolazione che i testi subivano dalla loro partenza dal suolo italiano in
forma manoscritta o a stampa, fino alla tiratura nel mercato librario francese.215 L’opera è di fatto un
212
Lettre de Londres à Plantin (9 août 1567) in M. ROOSES, 1883 : t.I, p.165. Masuccio in Francia: C. LIVINGSTON,
1955.
213
M. SIMONIN, 1989 : p.45.
214
Ibidem.
215
le Parangon des nouvelles honnestes et délectables…, Morna, Lyon, 1531, (E. MABILLE, 1865).
134
assemblaggio di Decameron e Facetiae poggiane e delle traduzioni umanistiche di Esopo di Lorenzo
Valla, che fra l’altro vengono combinate con disinvoltura a racconti di origine tedesca.
Au contraire e specularmente – e cioé sull’altro lato della frontiera con la Penisola – il caso del
Novellino di Masuccio è altrettanto esemplare perché la sua diffusione avviene proprio in un
panorama inquinato da furti, prestiti, pirateria. È noto infatti che il primo manoscritto italiano della
raccolta risale al 1457 e che ad esso seguirono la prima impressione postuma nel 1476, a Napoli, per
i tipi di Sisto Riessinger e l’apporto editoriale di Francesco del Tuppo; quella milanese di Christoforo
de Valdarfer, del 1483; le due edizioni veneziane del 1484 e del 1492.
La prima delle due è quella che valica le Alpi nella borsa di Philippe de Vigneulles, apprendista
presso un drappiere di Metz:216 che fu forse stimolato nella sua scelta dal gusto per il proibito, visto
che tale era l’aura che gravava sull’opera, sempre osteggiata da Roma e messa all’indice nel 1557.217
Ciò dona a nostro avviso un’idea di massima sul livello di apprezzamento della raccolta e sulla
richiesta del mercato editoriale francese che nonostante e forse a causa dell’interdizione rende il
Novellino uno dei principali ispiratori delle tematiche farsesche. Ma la consacrazione di Masuccio
nell’Olimpo dell’ispirazione profana francese è confermata qualche tempo dopo quando François
Rabelais lo usa per la stesura del suo ventiquattresimo capitolo di Pantagruel, in cui sopravvive la
traccia del XLI racconto del Novellino e dell’episodio del diamante che lo caratterizza.
L’ispirazione alla novella di Masuccio è stata più volte messa in dubbio e nel tempo sono stati
avanzati altri modelli per questo capitolo del Pantagruel, in particolare Philippe de Vigneulles o
Arnaud de Villeneuve. Solo recentemente è stata accertata una sicura filiazione da Masuccio218 che
del resto sembra assai chiara sia nel trucco in sé dell’anello (da una parte Pantagruel riceve un anello
dall’amante dimenticata a ricordargli quanto sia stato crudele partire da Parigi senza neanche dirle «à
Dieu»; dall’altra il cavaliere francese Ciarlo che si vede convocato a Firenze dalla promessa amante,
anche lei dimenticata dopo clandestine patti d’amore) sia nei dettagli e nell’invenzione linguistica
(l’iscrizione in ebraico dell’anello, che, corredata del falso diamante che guarnisce il pegno d’amore
in Masuccio è «Di’, amante falso. Perché m’hai abbandonata?» nel Pantagruel diventa «Dy, amant
faulx, pourquoy me as tu laissée ?»).
216
R. COOPER, 1973.
Novellino di Masuccio (1467|71-1474) Æ 1476: Sisto Reisenger ne stampa la prima edizione milanese, seguita da una
fila di stampe veneziane: 1483, ‘84, ’92, 1503, ’10, ’22, ’25, ’31, ’35, ’39, ’41. Dal Novellino di Masuccio sono ripresi la
maggior parte dei Comptes du monde adventureux, comparso nel 1555. Sulle 54 novelle dell’opera una trentina sono prese
direttamente dall’opera di Masuccio. (F. FRANCK, 1878)
218
Notizie del dibattito in merito in M. SIMONIN, 1989.
135
217
La domanda alla quale è difficile rispondere è quando Rabelais abbia letto Masuccio: in Francia
oppure durante il suo viaggio in Italia? Il fatto è determinante in quanto ci farebbe comprendere la
qualità della fonte usata dal poeta francese e dunque la sua reale prossimità all’originale.
Michel Simonin è piuttosto propenso alla opzione italiana e si appoggia ad un dato fornito da Nicole
Cazauran: nella biblioteca di Blois sarebbe conservato un manoscritto molto antico del Novellino,
forse da associare alla voce di un inventario antico («plus a declaré avoir baillé à Allegre ung livre de
la dite librairie nommé Novellin »)219 ma è evidente che lo studioso si affida piuttosto all’intuito, dal
momento che non è possibile capire dall’inventario se si trattasse o meno di una versione italiana
dell’opera di Masuccio.
Personalmente non abbiamo trovato alcuna traccia dell’opera: ancora Simonin ipotizza che possa
essere un esemplare manoscritto “aux armes de François I”, probabilmente usato da Marguerite de
Navarre, ma alcuna menzione di possesso nei cataloghi antichi sta lì a confortare le sue ipotesi.
Riteniamo qui solo qualche dato più noto: che a corte circolava l’opera di Masuccio, che Marguerite
de Navarre ebbe a consultarla e che Rabelais non esitò ad introdurre un intarsio masucciano fra le
digressioni che gli sono proprie.
L’opera di Masuccio conseguirà un successo ancora maggiore nel 1555 quando l’anonimo
A.D.S.D.220 la trasporterà di peso nei celebri Comptes du monde adventureux.221 Come per il Parangon
i racconti hanno provenienza eterogenea: l’immancabile Boccaccio, Petit Jehan de Santré, un paio di
dicerie locali ed altrettante cronache reali. Ma Masuccio è decisivo nella stesura dell’opera. Parliamo
di ben 31 novelle prese in prestito all’italiano per ragioni di dissimulazione più che di gusto:
Masuccio era infatti all’epoca meno conosciuto rispetto alle altre fonti novellistiche ed il nostro
A.D.S.D. poteva spacciarsi più facilmente per l’autore, dissimulazione tanto più efficace quando si
ungono di complimenti le dame, apparentemente prime destinatarie dell’opera.
Nel complesso i Comptes du monde adventureux sono uno straordinario veicolo di più tarda
diffusione della novella italiana in Francia e sono testimoni dell’importante fenomeno di
italianizzazione della cultura d’oltralpe che muove i passi proprio a partire dalla comunanza di gusti
fra le due culture in uscita dall’Evo Medio.
219
N. CAZAURAN, 1978.
Brantôme menziona come autore della raccolta l’acronimo A.D.S.D. : le iniziali sono state decrittate di volta in volta
come Antoine de Saint-Denis, Abraham de Saint-Dié, André de Saint-Didier. Félix FRANK (1878) dà credito all’ipotesi
che si trattasse di Antoine de Saint-Denis.
221
A.D.S.D., Les comptes du monde adventureux…, Groulleau, Paris, 1555. (F. FRANK, 1878).
136
220
I risultati raggiunti da A.D.S.D. rimangono inoltre originali e costituiscono un’opera d’adattamento
inscindibile dalle sue fonti eppure da esse in qualche modo indipendente, al contrario di altre
operazioni analoghe, come le Facétieuses journées di Gabriel Chappuys che nulla apportano di più alle
loro fonti.
Parallelamente a questa attività editoriale media, più consapevole del mercato, si sviluppa nel corso
del XVI secolo un altro commercio parallelo, quello delle edizioni povere e degli opuscoli, assai
impressionante per quantità ed estensione geografica nell’area francofona: tale produzione è stata
collezionata, ed in modo per giunta non esaustivo, nei quattordici volumi tirati da Techener, fra il
1829 ed il 1833, in una raccolta dal titolo de les Joyeusetés facéties et folastres imaginations.222
Si tratta insomma di un humus di coltura assai fertile per la farsa e le sue forme liminari, che
intrattiene con i repertori drammatici un rapporto di circuitazione spesso inestricabile. Passato e
presente delle tematiche novellistiche diventano così un mélange che rivive con successo nel teatro.
Il est clair aujourd’hui que tous, ou presque tous les éléments de la nouvelle "réaliste" étaient présents dans
divers genres littéraires bien avant que le succès des Cent nouvelles nouvelles Bourguignonnes ne vînt attacher
un nom – celui de "nouvelles", précisément – aux œuvres qui réunissaient en elles ces éléments épars. […]
Depuis la tentative de synthèse de Werner Soderhjelm (La nouvelle française au XVe siècle, Paris, Champion,
1910), depuis les travaux très éclairants de Pierre Champion sur la genèse des Cents Nouvelles Nouvelles
bourguignonnes (dans son introduction à celles-ci, chez Droz, en 1928), nos instruments de travail se sont
constamment perfectionnés. Ainsi, de nouvelles éditions critiques on été procurées, des Quinze Joies de
Mariage en 1963, du Saintré en 1965, des Cents Nouvelles Nouvelles en 1966 […]. – Quant aux études
d’ensemble, on dispose maintenant de la thèse de Roger Dubuis sur le Cent nouvelles nouvelles et la tradition
de la nouvelle en France au Moyen Age, Presses Universitaires de Grenoble, 1973.223
Alle fonti italiane si aggiungono poi le raccolte autoctone, di ben più corriva fattura, ma talvolta
formalmente assai prossime alla farsa.
Raccolta anonima ascrivibile con ogni probabilità ai dintorni del 1400, les Quinze joies de
mariage224 pur ponendo un problema di appartenenza alla più antica ispirazione “romanesque” si
distinguono per uno dei temi più cari alla novellistica: i problemi più o meno minuti della
coesistenza di due individui in una coppia. Siamo ancora lontani dai tratti caratteristici della filosofia
morale da asporto propri della querelle des femmes, ma il terreno di coltura è pronto perché il tema
attecchisca, specie nel teatro dove sono numerosi débat e farse dedicati all’argomento.
222
Coll. TECHENER.
G. PEROUSE, 1977 : p.13.
224
Anonimo, les Quinze joies de mariage, s.l.n.d., (Lyon, 1480-1490). L’edizione più recente è J. RYCHNER (1999).
223
137
Nelle Quinze joies, parodicamente ispirate da opere devozionali, ci accorgiamo come la comune
eredità medievale sia una delle componenti di maggiore permeabilità fra lettere italiane e francesi: il
dato novellistico è qui in qualche modo complementare alle forme del sermone. L’autore si esprime
per ripetizioni, mettendo in gioco i meccanismi della memoria sperimentati dalla retorica e dagli
exempla, in un orizzonte linguistico quotidiano come i fatti che vi si raccontano e legato alla realtà
così come lo sono la funzione religiosa e la predica domenicale, il tutto a produrre interni familiari,
da cui si possano trarre utili emulazioni comportamentali.
Il Jehan de Saintré, di Antoine de La Sale, è invece un romanzo cavalleresco a tutti gli effetti, in cui si
fanno strada i nuovi valori rinascimentali, purtuttavia accompagnati dal retaggio degli exempla. La
storia potrebbe essere quella di un Bildungsroman: la vedova Madame de Belles Cousines, educa il
paggio Saintré ai principi della moralità cristiana, insegnamenti impartiti con esempi pratici e storie
edificanti. Questi cresce cavaliere forte e valoroso: ma la donna non segue ella stessa i propri
insegnamenti e si perde in una vergognosa relazione con il monaco Damp Abbé.
I caratteri in comune con la novella ed il suo gusto sono più minuti, specie dal punto di vista del
realismo, se appunto volessimo assumere il realismo come tratto caratterizzante della novella. Tutta
l’eredità medievale vi si sviluppa invece appieno, con le lunghe e fantasiose descrizioni delle parate
delle armi, delle processioni, dei banchetti, seguendo quello spirito d’enumerazione comune pure a
Rabelais.
In particolare all’inizio e alla fine dell’opera, vengono imbastite storie non banali per interesse ai fatti
della realtà e minuzia delle descrizioni: ciò che ne fa anche il successo, tant’è che in quella operazione
di furto, plagio e riedizione assieme che sono Comptes du monde adventureux, proprio queste parti
vengono riprese e trasformate in storie autonome, trattate alla stregua di vere novelle.225
Il ricco interesse per la narrazione che stiamo verificando fra XV e XVI secolo contrasta con la quasi
totale assenza di produzione narrativa in Francia fra il 1340 ed il 1400, cioè nel sessantennio che
segue la morte di Jean de Condé, proprio quando, cioè, in Italia il genere stava raggiungendo la sua
forma stilistica più perfezionata nell’opera di Boccaccio.
In Francia fra le farce e i conte, anche se il legame delle narrazioni talvolta può sembrare del tutto
evidente, esiste spesso un legame complesso di mediazione, trascrizione, riedizione, sicché le
influenze non sono quasi mai dirette, specie quando si parla di Boccaccio, che per la sua notorietà
più di Masuccio poneva la necessità d’essere dissimulato.
225
G. PÉROUSE, 1977 : p.41.
138
La maggior parte dei farceur aveva a propria disposizione materiale non originale, di cui dobbiamo
presumere che sovente non conoscesse neanche la fonte. Così il livello di scarto fra l’origine del conto
e la sua declinazione farsesca sovente si amplifica e trova nel doppio passaggio delle Alpi un motivo
in più di modificazione: nel corso del Medioevo, infatti, il fabliau era sbarcato in Italia ed aveva
ispirato la composizione di storielle in rima e raccontini piacevoli. Gli stessi che ebbero ad
intersecarsi con la novella italiana, futuro genere di riferimento per la letteratura francese successiva.
Le vicende dell’importazione francese del Decameron sono più istruttive ancora di quanto accadde al
Novellino.
La prima traduzione francese del capolavoro boccaccesco è del 1415, ed è eseguita da uno
“champenois”, Laurent de Premierfait, che lavora senza conoscere né la lingua italiana né la versione
in volgare del novelliere, che era reperibile in Francia tradotto in latino. Sentiamo la voce di Henri
Hauvette, che si è molto occupato del problema delle traduzioni europee di Boccaccio.
Nous n’insisterons pas ici sur la singulière fortune de cette vieille et fameuse traductions d’un chef d’œuvre
italien, entreprise par un homme qui ne savait pas cette langue : il dut avoir recours à la collaboration d’un
cordelier arétin, d’intelligence et de culture au dessous du médiocre, en sorte que le Décaméron fut traduit
tant bien que mal de latin en français, après l’avoir été, plutôt mal, d’italien en latin.226
Il manoscritto comincia a circolare in Francia ed ha un notevole successo, che con un meccanismo
ben noto ai bibliofili, ha l’effetto di produrre copie poco curate. Arriva la fine del XV secolo, quando
Antoine Vérard decide di stampare la traduzione di Premierfait, ormai quasi irriconoscibile,
aggiungendo del suo per cercare di dissimulare ancora di più fonti e furti.
Pertanto la prima stampa francese del Decameron del 1485, semplicemente non è… il Decameron.
L’impressione fissa la forma definitiva di quello che di fatto è un falso: una mondatura non viene mai
effettuata e così com’era l’opera riscuote anche un notevole successo; solo fra il 1485 ed il 1541
questo Decameron spurio è stampato a ripetizione: nel 1511, nel ‘21, nel ‘34, nel ‘37, nel ’40 e nel
1541, sempre da imprese parigine.
È lecito allora chiedersi: a cosa si ispirava (o cosa saccheggiava) l’autore del Parangon des nouvelles
honnestes et delectables (a stampa a Lione nel 1531) o Nicolas de Troyes nel 1536 con il suo Grand
parangon? Dobbiamo parlare dell’influenza di Boccaccio o piuttosto di quella di Premierfait e dei
successivi volgarizzamenti?
226
H. HAUVETTE, 1968b : pp.285-286.
139
E poi esiste un’ulteriore influenza della raccolta di Boccaccio sulle lettere francesi che diremmo
“secondaria”, in quanto filtrata da quelle opere italiane che più o meno si rifacevano al Decameron.
1.5.3 – Moduli ricombinanti.
Sono numerosi gli altri novellieri italiani che ricorrono con le proprie storie all’interno delle farse,
che fanno man bassa delle trame e delle situazioni del Pecorone di Ser Giovanni Fiorentino (13781385), del Trecentonovelle di Franco Sacchetti (1388-1399) o delle Porretane di Sabadino degli
Arienti (1475-1478).
Per non parlare poi dell’irresistibile successo del Facetiarum libri o Confabulationes, (1438-1452) di
Poggio Bracciolini, che si prepara ancora prima della tiratura a stampa, con la circolazione intensa
delle forme manoscritte. Dal 1470 al 1500 le Facezie godono di ben 38 edizioni ad alto coefficiente
di circolazione in europea.227 Parliamo di più di una tiratura per anno, ciò che ne fa un fenomeno
editoriale degno delle mode letterarie odierne.
In Francia Poggio è tradotto da Guillaume Tardif,228 lettore di Carlo VIII; la traduzione fu iniziata
nel 1492 e pubblicata prima del ’96 dai tipi di Trepperel. Dato il sale delle sue storie e la loro
semplicità modulare Poggio non solo è campione per numero di edizioni, ma anche di imitazioni, e
si trova al centro di singolari fenomeni come quello della Farce nouvelle et récréative du Médecin qui
guarist de toutes sortes de maladies et de plusieurs autres: aussi fait le nés à l’enfant d’une femme grosse, et
apprend à deviner, pubblicata da Brunet nelle sue Pièces rares et facétieuses.229
La farsa conta soltanto 300 versi, ma sviluppa una sequenza di episodi tutti ripresi da Poggio: si
tratta di sei facezie agite dai due protagonisti. Come in un caleidoscopio narrativo si compongono in
un insieme coerente e geometrico le scaglie di storie molto diverse fra di loro, donando origine ad un
racconto non privo di freschezza e coerenza: ed anche in questo caso il farceur ha usato non la
versione originale ma il volgarizzamento di Guillaume Tardif.
Come spesso accade la storia della farsa è riassunta dal titolo. Il medico apre la pièce con qualche
richiamo da mercato: pubblicizza unguenti e pozioni miracolose e fa vanto della sua immensa
esperienza nel campo della fine scienza della guarigione. Al che i clienti sembrano sedotti dalle
227
I riferimenti cronologici sono presi da L. SOZZI, 1967 : p.412.
La traduzione di Poggio realizzata da Tardif è stata pubblicata e rieditata da A. de MONTAIGLON, 1878.
229
Al n° 697 (II) del cat. ROTHSCHILD compare la pièce originale. Médecin qui guarist de toutes sortes de maladies et de
plusieurs autres. Rec. BRUNET, t.I, n°1. A proposito di questa farsa si veda E. PHILIPOT, 1911.
140
228
straordinarie abilità dell’uomo: il primo a farsi avanti è un povero disgraziato che si è rotto una
gamba cadendo da un albero. Verrà curato, ma sconterà la guarigione dovendosi sorbire la predica
idiota del guaritore.
Escoute, soit d’arbre ou degré,
Garde toy de te plus haster
Alors qu’il t’en faudra descendre
Que n’avois faict à monter.230
A parole da idiota, scherzo da astuto: appena tornato all’antica capacità deambulatoria, il malato da
fiera la esercita, eccome, scappando via in un maligno contrappasso nei confronti del medico, che
rimane gabbato.231
Dopo questo episodio introduttivo la farsa prosegue con un evidente (ma implicito) cambio di
ambiente, dove vediamo una donna alle prese col marito bestia e fannullone: questa invita l’uomo ad
accompagnarla dal medico montandola di peso sull’asino. Dopo un paio di scenette in cui la donna
rischia di rompersi il collo ed il marito oltre che poltrone si mostra assai irascibile, i due giungono
finalmente al cospetto del medico. La moglie ingiunge al marito di badare all’asino durante la sua
assenza, ma una nota di scena annuncia, secca: «le mary se couche contre terre et s’endort tantdis que
l’asne s’en va».232
Dimostratosi specialista in guarigioni di gambe il medico rimette in sesto la coscia della moglie
infelice con un massaggio di cui possiamo immaginare la natura se il professionista si rifiuta di
riscuotere la parcella, dichiarando senza troppo nascondere il concetto: «De vous je me tiens trèscontent, | Dresser m’auez faict, c’est assez, | Le membre, ne sçay s'y pensez, | Prenes que l’un vaille
pour l’autre».233
A questo punto della storia, visto che il dottore ha toccato il tasto del sesso, la donna dichiara d’essere
incinta, quasi a voler far schermaglia alle piccanti allusioni dell’uomo sul membro dressé: il fatto non
sembra preoccupare il medico, che anzi, riesce ad ottenere il permesso di eseguire qualche “pratica
230
Rec. BRUNET, t.1, 1 : p.6.
Facetiae, XXXIX: Facetissimum consilium Minacii ad rusticum.
«‘Vellem hoc antea’ inquit aeger ‘consuluisses, attamen in futurum poterit prodesse’. Tum Minacius: ‘Fac semper ne sis
celerior in descensu quam in ascensu: sed ea, qua ascendis, tarditate descendas. Hoc pacto nunquam praecipitem te
ages’.» Questa e le seguenti citazioni da Poggio sono prese dall’edizione di S. PITTALUGA (1995).
232
Rec. BRUNET : p.8.
233
Ibidem : p.10.
LXXXIX: De medico.
« Tum suspirans cum assurrexisset, atque illa quid pro ea cura sibi dari vellet quaesisset, nihil sibi deberi respondit.
Quaesita causa: ‘Pares enim in opere’ inquit ‘sumus: ego enim tibi membrum contortum direxi, tu item mihi aliud
erexisti’».
141
231
terapeutica” sul corpo della donna. Il marito imbecille e mezzo impotente si sarebbe scordato, infatti,
(o forse non è stato capace) di fare il naso al nascituro e il medico astuto si propone di completare
l’opera con prosaica cognizione di causa.
LE MEDECIN
[…]
Car l'enfant dont estes enceinte,
N'a point de nés, c'est verité.
LA FEMME
Hélas Monsieur ! par charité
Sçauriez-vous à ce mal pourvoir?
LE MEDECIN
Ie lui en feray vn auoir,
Autant qu'il soit demain ceste hure,
Si voulez que ie vous secoure
Ou tardif sera le secours.
LA FEMME
I'auray doncques à vous recours
Pou l'oeuvre encommencé parfaire.
LE MEDECIN
Vn ouurier vous faut pour ce faire
Qui entende ce qu'il fera,
Autrement le nés ne tiendra,
Restant difforme le visage.
LA FEMME
Ie vous donneray si bon gaige
Que serez très-content de moy234
Ma il ritmo della farsa è davvero incalzante: nella misura tipica dei 300 versi non c’è tempo per
soffermarsi troppo sugli stessi sketch, ma il senso della composizione teatrale è molto sviluppato e così
il farceur non dimentica l’esca lanciata al pubblico durante le prime strofe, con la sparizione
dell’asino e la poltronaggine del marito: eccolo dunque tornare sull’episodio, incatenandolo agli altri
estrapolati dalle facezie. Un cambio di scena occulta le oscenità che la donna con il medico usano per
rimediare alla faccenda del naso: la narrazione nel frattempo si focalizza sul risveglio dell’uomo, che
si accorge della sua idiozia e si appella direttamente al pubblico per capire che fine abbia fatto l’asino.
La paura delle bastonate della moglie lo rende pavido, e quando la donna torna in scena si finge
malato per distrarre la sua attenzione dalla scomparsa del quadrupede («Il me fault le malade faire |
234
Ibidem : p.11.
CCXXIII, De fratre minorum qui fecit nasum puero.
142
Pour euiter d’estre battu»235). Ed il medico interviene con una pillola miracolosa, rimedio assoluto
contro ogni male.
LE MEDECIN
[…] Voicy de la pillule fine
Qui vaut mieux qu’autant d’or massif,
Il t’en faut prendre cinq ou six
Cela guarira tous tes maux.
LE MARY
(en prend puis dit)
Qu’est-ce? diable, ils sentent les aux,
Comment ils roullent dans mon ventre,
Ha! il faut que mon cul s'esuente.236
L’attacco intestinale dell’uomo è utile, perché nelle sterpaglie dove scappa a fare i suoi bisogni, il
marito trova la bestia perduta.237
Ci avviamo a questo punto allo scherzo finale, combinazione di altre due facezie: altro cambio di
scena repentino e la moglie partorisce fra urla e commenti ridicoli, la qual cosa insospettisce il
marito, che si ricorda di aver fatto all’amore almeno tredici mesi prima, ciò che è in contrasto con il
primo parto, occorso appena cinque mesi dopo il matrimonio.
I’ay l’entendement tout cornu
De ce qu’accouchée vous voy,
Trize mois sont, ie l’apperçoy,
Qu’auecques vous ie n’ay couché,
Au moins que ne vous ay hochée,
Et si dès la première année
Qu’avec moy fesustes mariée,
Vous geustes au bous de six mois.238
Ed ecco la faceta spiegazione con cui la donna vuole fugare ogni dubbio sulla propria fedeltà: la
quantità di tempo che il bambino impiega a venire alla luce sarebbe direttamente proporzionale alla
235
Rec. BRUNET, p.13.
Ibidem : p.14-15.
237
LXXXVII, De temerario qui asinos curabat.
« […] ei sex pillulas deglutiendas dedit. Quibus sumptis abiens, postero die cum asinum quaereret, ac cogentibus pillulis
de via discessisset laxandi ventris gratia, in arundinetum forte divertit; ibi reperto asino pascente, medici scientiam et
pillulas ad caelum laudibus extulit. »
238
Ibidem, p.16.
143
236
“spinta” al momento dell’unione sessuale oppure la vista dell’asino durante il concepimento, che
notoriamente allunga la gravidanza di tredici mesi.239
Finalmente il marito, rassicurato sulla fedeltà della moglie, prende in braccio il figlioletto e, ironia
della sorte, ne apprezza soprattutto il naso, che naturalmente la donna sottolinea non essere opera
sua. I sospetti tornano. Il marito vuole sapere chi sia stato a compiere l’opera al posto suo e torna dal
medico, a chiedere il dono della divinazione come se nulla fosse. Il ciarlatano gli mette in bocca una
pillola che l’uomo riconosce essere sterco: ecco fatto, chiude piacevolmente il medico, avete afferrato
subito l’origine delle pastiglie, la magica arte della divinazione è finalmente vostra. Si tratta ben
evidentemente di una astuzia di comico verbale, basata sulla doppia accezione del verbo deviner
(indovinare / prevedere il futuro).
LE MEDECIN
[…] Or pour ce secret là t'apprendre,
Ouure la bouche, il te faut prendre
De ces pilules que voicy.
LE MARY
Fy ! tous les diables ! Qu'est cecy ?
Cela sent plus fort que moutarde.
LE MEDICIN
Deuine
LE MARY
Le sambieu, c'est merde.
LE MEDECIN
En ma conscience c'est mon,
Or fais-ie veu à Sainct-Simon,
Que tu es très-bon Deuin.240
A dire: cornuto e bastonato.
Alla Farce du médecin qui guarist de toutes sortes de maladies si è imputata la troppo evidente
operazione di plagio multiplo (la stessa traduzione da Poggio di Guillaume Tardif non è rimasta
indenne nel tempo a simili strali); da un’ottica puramente teatrale, però, l’operazione di Tardif era la
sola che potesse rendere “drammatizzabili” le brevissime ed acute composizioni di Poggio. Il testo
originale latino è infatti di una tale concisione che è difficile immaginarlo pedissequamente trasposto
239
CXXII, Iocunda responsio unius mulieris facta ad quendam quaerentem an uxor sua per XII menses posset parere.
«‘[…] si tua uxor, qua die concepit, asinum forte vidisset, more asinae annum integrum partum gestabit’»
240
Rec. BRUNET, p.19.
CLXVI: Altera facetia de eo qui divinare volebat.
«Alteri quoque ut divinator fieret optanti: ‘Unica’ inquit ‘pillula te divinum reddam’. Assentienti pillulam e stercore
confectam in os praebuit. Ille prae foetore vomitans: ‘Stercus’ inquit ‘sapit, quod dedisti’. Tum Gonnella verum illum
divinasse affirmavit, et pretium divinationis poposcit.»
144
sulla scena mentre il lavoro disinvolto di traduzione in francese è decisivo nella suggestione di
materiali, atmosfere ed ambienti.
Fra l’altro bisogna riconoscere, con Bernadette Rey-Flaud,241 che gli episodi sono legati fra di loro in
modo non sciatto ed anzi affatto originale: questa farsa è in realtà una piccola perla di teatralità e
conforta ulteriormente il nostro percorso teorico sulla modernità estetica della farsa e della sottie, che
abbiamo visto basarsi in larga parte sulla modularità di singoli pezzi comici, che siano letterari o
performativi, e sulla trasposizione di essi in forma di azioni materiali.
Nella nostra farsa sottolineiamo la scelta non casuale del medico a protagonista della storiella. La
professione liberale si presta bene al gioco scenico, riallacciandosi ad una lunga tradizione satirica
sulla medicina (che come è noto risulterà capitale nella poetica di Molière); soprattutto la professione
offre in sé l’opportunità di introdurre numerose storie, essendo il medico in contatto con una
clientela vasta e singolare come una corte dei miracoli: il dottore è un personaggio che consente di
introdurre realisticamente il montaggio di più storie incoerenti fra di loro e capaci di inattesi spunti
comici.
Ma per ridurre ulteriormente eventuali falle il farceur impegna altri mezzi: primo fra tutti
l’orchestrazione degli oggetti di scena. Riferiamoci in particolare all’asino, elemento estraneo
all’originale della prima facezia ma che consente nel passaggio sul catafalco di costruire qualche scena
comica durante la prima parte, preparando ad un tempo la venuta del quarto ordito narrativo.
L’autore è attento a disseminare i primi tre episodi di una serie di indicazioni per dare
verosimiglianza alla storiella della bestia perduta: si crea così un tessuto connettivo testuale originale.
Singolare anche il classico movimento narrativo del trompeur trompé; praticamente assente nelle
facezie di Poggio, viene aggiunto a questa farsa all’inizio. Si tratta del primissimo episodio, quello
dell’uomo che guarito scappa via senza pagare: è un tiro mancino reso al medico imbroglione e
ciarlatano, ma il fatto che si violi la dispositio classica dell’episodio (di solito alla fine della pièce)
riduce quel senso di “morale degli idioti” su cui riposa tale movimento. Suo malgrado neanche il
marito, cornuto e bastonato, partecipa alla regola della vendetta piacevole e riceve una doppia dose di
inganno, due trucchi e due burle.
Sul piano della successione dei luoghi e delle scene si esprime una buona attenzione drammatica con
un ritmo calzante ed attento alla dispositio scenica: fra gli altri possiamo qui donare l’esempio del
marito dormiente, scena la cui ironia si basa sulla compresenza della moglie adulterina e del medico,
241
B. REY-FLAUD, 1984.
145
mentre in simultanea il marito niais giace addormentato come un sacco di patate sul catafalco. Come
Gréban nel suo mistero, l’autore gioca qui sulle qualità fondamentali del pubblico-ricettore che
rispetto ai personaggi è onnisciente, “panottico”.
Molti dettagli ci spingono a pensare che l’autore non abbia neanche conosciuto l’edizione originale
di Poggio e che si sia appoggiato alla traduzione senza alcuna verifica a priori o posteriori sulla fedeltà
al modello primitivo: del resto la letteratura teatrale è cosa diversa dalla filologia e vi regna
incontrastato il criterio dell’utilitarismo quando non dell’opportunismo. Soprattutto i dettagli
stilistici e narrativi sono molto vicini ai pezzi aggiunti che si rilevano nel volgarizzamento.
L’unico dubbio rispetto all’affermazione che l’unica fonte usata dal farceur sia la traduzione di Tardif
risiede in un fatto singolare: tutte le pièce usate per la farsa sono incluse nella traduzione francese (che
non traduce integralmente l’originale poggesco, mantenendo solo 112 delle originali 273 facezie)
fatta eccezione per la prima, la cui circolazione in Francia sotto forme alternative non è stata
individuata.242
Al di là della facezia introduttiva le scene II – IV della nostra farsa pescano dalla LVI e dalla LV di
Tardif; mentre la scene III, V e VI prendono dai racconti LXXXIX, LXX e LXXXV, sempre del
volgarizzamento francese. Il titolo invece sembra ispirato al racconto LV («garissoit de toutes
maladies»): in nota abbiamo invece segnalato caso per caso le corrispondenze con l’originale.
L’elaborazione del modello di Poggio è dunque solo una scusa per mettere in atto lo schema tipico
del genere comico francese: il ciarlatano ingannato da uno zoppo qualsiasi, il ciarlatano che fa
cornuto il marito, la moglie lussuriosa e stolta, il marito bestia ingannato per la seconda volta.
Tutta la biomeccanica della farsa medievale vi è ampiamente sviluppata e presente, così come la
pessimistica visione farsesca del mondo, con il ciarlatano che non esita a dare in pasto dello sterco
all’uomo appena fatto cornuto, con la stupidità generalizzata. Nel mondo al contrario ecco l’unico
trionfante personaggio: un reietto, uno zoppo, più sporco e disgustoso di tutti gli altri niais della
farsa.
Questa pièce rappresenta un caso limite utile alla verifica del meccanismo generale dei furti e dei
prestiti nel teatro profano, ma ci fa avanzare anche un’altra ipotesi a partire dalle posizioni critiche
affrontate nel corso di questo capitolo che vedono fra la farsa e la sottie un rapporto di reciproca
contestualizzazione.
242
B. REY-FLAUD, 1984.
146
Se la sottie è cornice entro la quale si inquadra tutto l’avvenimento drammatico multiplo – ciò che
più volte abbiamo definito “cartellone” o “varietà” – nelle farse più complesse scopriamo come sia
una pratica assai comune quella del montaggio dei pezzi e delle storie in un contesto cornice.
Dall’evento concreto alla realizzazione d’una singola trama i modi di operare sembrerebbero gli
stessi.
Questo modo di organizzare lo spettacolo ed il procedimento drammatico ha a nostro avviso una
straordinaria affinità col modello delle grandi raccolte di novelle, che imbastiscono una narrazione
“reale” piana e di contesto (le piacevoli compagnie ed i loro intrattenimenti) con una sequenza di
storie fantastiche più o meno ordinate logicamente.
Il teatro comico francese, dunque, non solo attiva una circolazione con le tematiche novellistiche, ma
prende esempio anche dalla caratteristica strutturale portante comune a quasi tutti i novellieri.
Se, come stiamo ipotizzando, i pezzi brevi e frammentari di poesia drammatica francese giunti fino a
noi sono stati pensati come moduli utili all’allestimento di eventi multipli, fosse dovremmo rivedere
la nostra prospettiva storica e valutare in modo differente l’esito estetico di queste composizioni.
La farsa di Pathelin rappresenta uno degli esempi più precoci del genere ma ne è allo stesso tempo
l’esemplare più maturo, tanto che si è più volte ipotizzato – a dispetto dell’inesistenza di testi
letterari, di cronache o fonti documentarie che testimonino in questo senso – che l’arco di tempo che
lo separa dalla fine del fabliau sia stato in realtà un periodo di elaborazione del nascente linguaggio
drammatico e che quindi rappresenti il vertice, più che l’origine, di una parabola già avviata nel
Medioevo.
Sotto la lente della nostra ottica modulare, Pathelin potrebbe essere paradossalmente un esempio
sclerotizzato di scrittura per la scena e nulla ci vieta di pensare che la pièce giunta a noi sia il prodotto
di successive riscritture di un varietà drammatico progressivamente omogeneizzate in un’unica
composizione.
In contrasto con le logiche di distribuzione commerciale e di composizione creativa dell’evento
scenico che fin qui abbiamo disegnato, Pathelin sarebbe un varietà drammatico, solo assemblato
all’origine, in un intreccio narrativo più esaustivo e completo della regola dei pezzi.
Pathelin ed il suo farceur ci donano un’ulteriore verifica delle pratiche di furto e prestito ed
un’ultima occasione per analizzare più da vicino la struttura novellistica a cornice che ci sembra di
incontrare anche nel varietà drammatico tardo medievale francese. Saremo evasivi nella descrizione
147
della trama della pièce, che d’altra parte vedremo nella seconda parte di questa trattazione e della
quale forniremo qui solo alcuni tratti generali utili ad una analisi strutturale.
Riprendiamo i tre intrecci alla base di Pathelin di cui sopra abbiamo sottolineato i finali: il primo
modulo (1) comprende una lamentazione sulle condizioni miserevoli in cui versa la famiglia
pathelinesca, fatto che è causa della ruse ordita dall’avvocato per sbarcare il lunario e quindi della
scena dell’acquisto-furto delle stoffe dal drappiere; (2) il secondo modulo è l’episodio della falsa
malattia del protagonista, in cui il drappiere pensa di poter riscuotere il denaro, irrorato dal vino del
lussuoso banchetto promesso da Pathelin: arrivato a casa del furfante il commerciante si deve
rassegnare a credere che l’avvocato è malato da tempo e che non è mai stato nella sua bottega e
dunque rinunciare a riscuotere; (3) la terza parte è la più esilarante e più degli altri due episodi
sembra completamente autonoma: si tratta del celeberrimo episodio del processo “per belati”.
Pathelin alla fiera Æ La visita di Guillaume Æ La scena del tribunale
Inganno al mercante Æ Falso malato, ipocondriaco Æ Processo piacevole
Ogni singolo episodio rappresenta un tema a sé stante ed una precisa narrazione da repertorio. Se
pensiamo alle tre storie in sé e se le confrontiamo con le farse brevi a nostra disposizione ci
accorgiamo che il livello singolare di coerenza interna ad ogni episodio non si discosta molto da
quello adottato da una farsa qualsiasi, ed anzi, in certi casi è addirittura maggiore.
Guardiamo al primo blocco narrativo, che si costituisce in sé su un episodio di comico linguistico, la
messa in azione di una espressione idiomatica: manger de l’oye, (cadere nella trappola). Chi mangia de
l’oye è il niais o ha subito un tiro mancino cui difficilmente può porre rimedio. Siccome Pathelin gli
ha promesso una bella abbuffata, il nostro drappiere si dirige tutto contento verso casa dell’avvocato
e dice:
Je croy qu’il est temps que je boive
Pour m’en aller. Hé ! non feray !
Je doy boire et si mangeray
De l’oye, par saint Mathelin
Chiez maistre Pierre Pathelin,
Et la recevray je pécune243
243
R. HOLBROOK, op.cit., Paris, 1986 (p.26).
148
Suscitando con ogni probabilità l’ilarità del pubblico, cui il personaggio sta di fatto dichiarando
d’essere in procinto d’andare a farsi gabbare dall’avvocato: tale modello sembra rubato da farse come
Amoureux qui ont les bottines Gautier, Femmes qui font accroire à leur maris de vessies que ce sont
lanternes, Celui qui garde les patins.244 La ruse pathelinesca potrebbe prendere il titolo di Farce de celui
qui va manger de l’oie.
Anche da un punto di vista tematico rileveremo più avanti come il trucco del belato compaia in
diverse novelle e farse come centro dell’intera narrazione (e non in quanto singolo episodio come in
Pathelin): in Ludovico Domenichi, in Antonfrancesco Grazzini ed addirittura in un racconto della
tradizione narrativa abruzzese.
Ad ogni nuovo “atto” l’autore del Pathelin sembra che ricominci tutto da capo, ciò che rende ancora
più netta e consapevole una rigida divisione in scene e che concentra in nuclei di citazioni ben
distinte i tre differenti episodi.245
Il varietà drammatico e la farsa adotterebbero dunque il metodo di contestualizzazione tipico delle
raccolte di novelle, basato sulla contrapposizione fra la realtà vissuta dai narratori (attualità della
cornice) e quella dei personaggi (finzione narrativa), i quali dalla fantasia o dalla cronaca migrano nel
presente scenico dei protagonisti della cornice, in forma di exempla piacevoli, dilettevoli, prosaici o
morali.
La storia vive insomma in due realtà: quella di contorno è la più importante per l’efficacia
dell’exempla, benché lo sia meno per la riuscita della narrazione, che anzi si realizza appieno nelle
storie raccontate, nella fiction, diremmo oggi.
Anche questo contrasto fra due ordini di realtà (realtà dei personaggi | realtà dei narratori) che si
verifica nella novella viene riproposto in termini quasi identici dalla farsa. Tutti i prologhi delle
raccolte di novelle fra Italia e Francia manifestano tre preoccupazioni principali: la veridicità dei fatti
raccontati, l’intenzione ricreativa del racconto e l’utilità della storia come veicolo di esempio morale.
L’organizzazione del materiale drammatico in cornici “sottesche” rappresenta in fondo una risposta
consapevole a queste tre esigenze: la finzione assume una carica realistica in quanto viene collocata in
un contesto più largo, quello delle esistenze individuali, hic et nunc, del pubblico. La cornice, la nave
dei folli, il contrario della vita, presenta delle storie che per quanto popolate di assurdi e grotteschi
imbecilli e per quanto spesso impossibili in sé, nel contesto della follia introduttiva dei sot
244
245
Rép. COHEN, n° IX, XV, XXI.
L. SOZZI, 1989.
149
riproducono il mondo al di fuori del catafalco: sono storie di mogli, mariti, amanti, di fiere e di
commercio. Sono storie dalle quali non ricaviamo verità esemplari ma che parlano per lo più di fatti
con cui il pubblico si confronta quotidianamente.
L’esemplarità dell’azione è sicuramente meno moraleggiante di quanto non lo sia nella tradizione
degli exempla, ma non per via le forme, che parodiano quelle dell’insegnamento (dunque riprodurle,
seppure in modo esagerato), bensì a causa del contenuto dell’esempio, il più delle volte inconsistente
o insensato quando non anarchico o contrario alla convivenza civile: il comico risiede appunto nella
sproporzione del linguaggio con l’esempio idiota fornito.
Il tono moraleggiante resta, ma invertito di polarità, spesso crudele, quasi mai utile.
Se dunque la novella si occupa degli avvenimenti, dei fatti reali, la farsa si prende carico di parlarci di
quanto imbecille sia la realtà ed il suo contorno: ma il “valore probante” del fatto narrato è dato –
così come nella novella – dalla collocazione in una cornice.
Nella farsa la questione del reale allontana e disturba la comprensione del significato, che è sempre
ludico, quindi gratuito. I farceur hanno compreso come il teatro più d’ogni altro strumento
linguistico si ponga quale momento ricreativo e sociale per eccellenza, pausa civile in grado di
sollevare l’uomo dalle fatiche nel quotidiano, proponendo una realtà “reale” popolata da meccaniche
supermarionette.
150
2
Luoghi letterari, repertori
e risorse novellistiche
151
2.1 – Forbici, mantelli, jeux de ruses.
2.1.1 – Esopet dà di matto.
Scavando fino all’ossatura minima dei temi e degli intrecci della farsa si ricava la regola generale che
informa le avventure dei personaggi e dei tipi, semplificata nel detto popolare «à trompeur trompeur
et demi»: nella farsa si svolgono per lo più jeu de ruse, giochi di scaltrezza e di inganno in cui il
truffatore ed il truffato si scambiano una o più volte di ruolo. Il debole non ha diritto né alla
solidarietà del pubblico, né a quella dell’autore della farsa, che disegna un mondo ludico, il cui
funzionamento interno trascende, contraddice o esibisce la morale dominante.
Nessuno spazio a schematizzazioni sociali ma piuttosto un delirio di contraddittorietà e battute di
bassa lega, intessute per lo più di giochi linguisti, filastrocche e norme proverbiali. La dominante è
un gioco biomeccanico, regolato dalle leggi dell’astuzia, in cui la trama narrativa è spesso smagliata,
vaga o semplicemente pretestuosa. In questa folle biomeccanica il salto verbale, (saut, come sot,
pronuncia [so]), doveva essere accompagnato da quello atletico dell’attore, che variava così anche i
registri dei monologhi giocosi.
Un mondo dei pazzi, soggetto alla legge del più forte, in cui le relazioni si sclerotizzano in un moto
perpetuo di vittorie fra canaglie ed alterchi familiari; tendenza alla schematizzazione delle forme che
esclude qualsivoglia azione di riflessione sociale: ogni compatimento per la condizione del ricco e del
152
povero è azzerato. Nella farsa la moquerie è “democratica”, e se la prende indistintamente con servi e
padroni, ricchi e poveri.
In questa visione del mondo caratterizzata da leggerezza morale e disinvoltura etica il gioco d’astuzia
si profila come unica forma di salvazione nei confronti di un prossimo sempre pronto ad approfittare
dell’occasione propizia per ottenere un vantaggio o compiere il tradimento.
Riconosciamo nella farsa una sorta di pessimismo pragmatico, una crudeltà di base i cui toni sfiorano
quelli della saggezza popolare e del luogo comune e che contrasta sinistramente con la tensione
“festiva” cui questi personaggi sembrano costantemente sottoposti.
Lo stolto è stolto e merita per questo di essere messo alla berlina: a meno che non sappia prendersi
una rivincita. Fra la folla degli ingannatori è forse possibile tracciare un’unica debole distinzione fra
quelli che ingannano per propria iniziativa e quelli che invece esercitano l’astuzia per vendetta, gli
uni non meno crudeli degli altri.
Nella farsa, anche il luogo letterario somiglia ad un modulo meccanico che può essere trasferito in
altri contesti o replicato nelle trame e nelle loro molteplici varianti: diventa pezzo di bravura per
l’attore ma anche storia alla quale alludere in diversi contesti narrativi. Le storie ricorrono, si
trasferiscono dalla poesia popolare alla canzone grivois, dalla novellistica alla letteratura latina e
ritorno e la farsa se ne impregna. A comporre trame intessute fittamente e non sempre districabili.
Nella farsa a quattro personaggi, le Couturier, Esopet le gentilhomme et la chambrière, composta
presumibilmente verso il 1500,1 abbiamo un tipico esempio di vendetta “piacevole”, anche se per il
nostro senso dello humor le conseguenze di questi scherzi sarebbero tutt’altro che divertenti. La
“plaisanterie” è del resto quasi sempre un crudele attacco ai danni del malcapitato ed oltre
all’umiliazione sociale, prevede la mutilazione, la rovina economica e nel caso di Esopet parecchia
violenza fisica.
1
Tutte le datazioni di farse che renderemo nel capitolo, tranne quando segnalato diversamente, sono tratte dalla
importante sintesi critica di H. LEWICKA (1974 : pp.136-147), che si è assunta l’arduo compito di recuperare le ipotesi
emesse e riassumerle in coda al suo saggio sulla farsa francese, realizzando la tavola cronologica a tutt’oggi più completa
della letteratura farsesca. La studiosa precisa il valore che dobbiamo dare a queste datazioni: « […] nous nous abstenons
de toute appréciation. Il est évident que la valeur des datations est très inégale : elle dépend des possibilités offertes par les
textes eux mêmes ainsi que de la qualité respective des chercheurs. En reproduisant ces dates, parfois plus qu’incertaine,
nous ne saurions guère en assumer la responsabilité. » (Ibidem, p.136).
153
La pièce si apre con una accesa discussione fra il “cousturier” («tailleur», sarto) ed il suo apprendista:
il giovane valletto lamenta di essere scarsamente retribuito, il padrone risponde di non aver denari e
l’apprendista coglie così l’occasione per suggerirgli di cominciare a confezionare abiti più alla moda.
ESOPET
C’est pour cause que à la façon
Du temps présent rien vous ne faictes.
LE COUSTURIER
Que fais-je donc, garson ?
ESOPET
Que vous faictes bien? des jacquettes
Du temps des robes à pompettes.
Et certes il fault l'ouvrouer clorre
Se vous ne taillez à la gorre ;
Car chascun veult estre gorrier.
LE COUSTURIER
N’y a, par dieu, cousturier
Pour tailler un habit honneste,
Et fust pour vestir à la feste,
Plus propre que moy en la ville ;
Pour trencher une robbe, habille
De toutes gens suis avoué.2
La situazione conflittuale riproduce con aria vagamente realista il sempiterno confronto fra superiori
bestie e sottoposti arguti: di fronte alle verità che il suo allievo espone di volta in volta il sarto
minaccia di arrivare all’ultima risorsa, quella di impugnare il bastone, aggiungendo la più classica
delle ingiunzioni patronali: il suo assistente lavora poco e mangia troppo.
J’ay dueil quand aucun ne me met
En ouvrage pour besongner;
Car j’ay tant besoin de gaigner,
Veu que le pain est enchéry,
Puis que ce garson je nourry:
Est tant friant et tant gourmant
Qu'il mangeroit plus qu'un alemant;
En son habit ne peult tourner
Tant est gras.3
La pièce è raffinata nello sviluppo della situazione comica pratica: vi riconosciamo pause narrative e
battute inserite a guisa di congedo, che dovevano segnare l’uscita dei personaggi e l’ingresso dei
nuovi: fra la prima “scena” e la seconda, ad esempio, sentiamo dire a Esopet: «C’est bien dit ; il nous
2
3
ATF, t.II, pp.150-175 : pp.158-159.
Ibidem : p.160.
154
fault attendre | Je croy qu’il viendra de l’ouvrage», subito dopo il sarto ed il valletto non sono più
menzionati e leggiamo il dialogo fra il gentiluomo e la sua cameriera; o ancora, la fine della scena
successiva è segnata dalla battuta della ragazza che dice di andare a prepararsi per uscire: un istante
dopo intuiamo ancora un cambio di ambiente quando ascoltiamo il sarto cantare la sua canzone
giocosa. Dietro alla farsa del Couturier c’è insomma una forza immaginativa teatrale, che sottomette
l’andamento del testo alle esigenze della scena, con un buon dominio delle specifiche qualità del
linguaggio teatrale.
Il pubblico della pièce doveva certamente conoscere i tipi della farsa, qui fissati con precisione fino ad
eseguire alcuni giochi “metateatrali” basati su allusioni a caratteristiche note delle figure di scena,
come nella battuta del gentiluomo, che invita la cameriera ad uscire con lui per comprare un vestito
giacché «voicy le temps d’esté qui vient | Il fault dancer et faire raige | Pour monstrer votre
personnage». L’allusione è al prototipo della cameriera di scena, giovane frivola che nelle farse
indossava abiti attraenti: quando dice alla giovinetta che con una nuova veste un valletto suo
compagno avrà più dolce carne da mangiare, l’autore inserisce nello scherzo la prova “piccante” della
libertà della donna.
Afferriamo in un colpo solo sia il sale erotico della battuta, sia l’allusione allo sviluppo narrativo
successivo, in cui si vedrà la serva arrivare dal sarto e lasciare in pegno una pernice con ala di
cappone, sperando di far piacere anche al giovane valletto. Ed ecco l’incidente: davanti al succulento
pranzetto il sarto afferma tutto il contrario di quanto gli avevamo sentito dire all’inizio, ovvero che il
suo apprendista è preoccupante tanto è debole di stomaco e difficile di gusti, e che la sua salute
cagionevole gli impedisce di mangiar la cacciagione. Il maestro specifica pure come da lui il povero
Esopet non tocchi che pane impregnato d’acqua: il pubblico sa bene come ciò sia a causa piuttosto
dell’avarizia del padrone. Ma la beffa del padrone avaro dura meno di un istante perché la cameriera
incontra subito Esopet, riferendogli le frottole appena ascoltate. Il servo replica con una
dichiarazione di guerra.
Vrayment, je m'en vengeray bien, […]
Vendu vous sera cher, compère,
Et si en aurez des lours coups.4
4
Ibidem : p.166.
155
I due servi vanno allora dal gentiluomo. È qui la vivacità del farceur, che costruisce un dialogo dai
toni molièriani con vivace maestria nel combinare successione rapida delle battute e sviluppo
dell’intrigo ai danni del sarto.
LE GENTILHOMME
Ton maistre me semble qu’il est
Bon ouvrier.
ESOPET
Le meilleur de France
Pour faire robes a plaisance.
Dommage est de la maladie
Qu’il a.
LE GENTILHOMME
Quoy?
[…]
ESOPET
Il veult menger
Les gens quand ce mal le surprent,
Qui soubdainement ne le prent
Pour le lyer et [pour] le batre ;
Et encores plus le fault batre
Par les joues et par la teste,
Où le tient ce mal deshonneste.
Mais, après qu’on l’a fort batu,
Il reprent un peu sa vertu,
Et ne luy souvient de cela.
[…]
LE GENTILHOMME
Et comment appercevez-vous
Que son mal le prent?5
Esopet scatena la sua genialità: le prime avvisaglie delle pericolose crisi di pazzia del padrone non
sono altro che gesti assai comuni in una sartoria medievale ed il pubblico doveva subito figurarsi lo
sviluppo del jeu de ruse. Preso dai suoi “fumi” il mastro scuote la testa, poi batte col palmo della
mano sul tavolo: in realtà cerca le forbici e non trovandole prova a farle tintinnare vibrando colpi sul
tavolo da lavoro. Sarebbe questa la manifestazione della follia da cui guardarsi.
ESOPET
Aysement.
Et est bon advertissement,
Affin que, ce vers luy venez,
à ce toujours garde prenez
Qu'il ne vous blesse d’aventure,
Premier, quant il sent ceste ordure,
La teste luy verrez tourner
Deça, dela, et emmener,
5
Ibidem : pp.167-168.
156
Sans dire mot en sa folie;
Et puis dessus [son] establie,
Toppe, tappe, ses mains frapper.
Incontinent le fault happer
Et de grands buffes luy bailler,
Pour le mal rompre et travailler,
Mesme le lyer d’une corde
Aulcunes foys, qu’il ne nous morde.6
[…]
Esopet descrive con arguzia e senso di osservazione un fatto di vita quotidiana, denotando un non
comune gusto realistico. Inoltre registriamo un velo di ambiguità nell’atteggiamento della fanciulla,
che si mostra credula alle parole dell’apprendista, pur avendo appreso nella scena precedente il piano
crudele di Esopet. Malizia o imbecillità? Come vedremo è la domanda più comune se si cercano le
motivazioni dei personaggi della farsa.
Nel nostro caso, comunque, il pubblico è ben preparato alla scena finale di botte e allo scioglimento
dello scherzo: la cameriera ed il gentiluomo tornano alla bottega e vengono serviti. Il passo seguente
carica di attesa lo spettatore, con il facoltoso cliente che fa la parte del valoroso giurando a se stesso di
picchiare il sarto semmai dovesse indemoniarsi davanti ai suoi occhi.
Esopet dà un colpo alla fortuna e nasconde le forbici; vien da sé che il sarto faccia finalmente il
“gesto dell’indemoniato” e che per questo venga legato e pubblicamente bastonato per soddisfare le
smanie ridanciane del pubblico e la vendetta dell’ingordo protagonista.
La fonte di questa azione comica è probabilmente il fabliau du Tailleor du roi et de son sergant,7 parte
di una raccolta di ventotto racconti in rima inquadrati nella cornice pedagogica dell’insegnamento
paterno al figlio e tradotti dalla Disciplina clericalis. L’opera nella sua totalità compare nel
manoscritto di St. Germani des Prés n°1830 ed è conosciuta sotto il titolo di le Castoiement d’un père
à son fils,8 anonima, probabilmente risalente al XIII secolo. La parola «chastoiement / castoiement»
corrisponde in francese moderno a «châtiment», punizione, ma il suo significato antico era piuttosto
“insegnamento” o correzione morale.
Nel racconto del “Tailleor” che ispira il nostro Cousturier si tratta di un sarto regio – bontempone
goloso ed un po’ avaro – che riceve dal ciambellano un ricco vaso di miele ed altre leccornìe da
6
Ibidem : p.168.
Rec. BARBAZAN, t.II, pp.131-135.
8
Anonimo, le Castoiement d'un père à son fils. (M. ROESLE, 1899): la circolazione di questa opera fu limitata alle forme
manoscritte fino alla prima stampa del 1760 ad opera di Etienne Barbazan.
Pietro Alfonso, Disciplina clericalis, (HILKA – SÖDERHJELM, 1911).
157
7
dividere col compagno Nidui. Il sarto ingordo fa credere però al ciambellano che il suo apprendista
detesti il miele, facendo in modo di banchettare senza lasciargli nulla; sopraggiunto alla mensa,
l’apprendista rimane sorpreso e deluso ma fa buon viso a cattivo gioco, riservandosi di ricambiare il
gesto maligno.
La preparazione del tranello è ben ordita: Nidui descrive al ciambellano gli attacchi di follia che di
tanto in tanto colgono il maestro, mettendolo in guardia sulla pericolosità di questi fumi, che vanno
combattuti a colpi di manganello e corda. Dopo qualche tempo Nidui nasconde le forbici
all’artigiano e questi, per farle suonare, comincia a battere i piedi come un indemoniato. La reazione
del ciambellano è rapida e decisa ed il mastro dovrà subire la pioggia di botte di tutta l’allegra
compagnia.
Niduin pas ne s’oublia,
Les forces son maistre muça.
Un jor volt li maistres taillier ;
Quant ne pot ses forces bailler,
Et garda çà et garda là,
Et de son siege se leva,
L’eschamel ala degetant,
Et se forces par tot querant ;
La terre entor lui debati,
Et se contint com estordi.
Li Chamberlens, quant il ce vit,
Ne li torna a nul deduit,
Les sergens molt tost apela.
Lor maistre lier comanda ;
Et cil son commandement firent,
Bien le lierent et batirent,
Si que sor lui molt se lasserent,
Et enprès ce le dessevrerent.9
Ma il tagliatore accetta di buon grado lo scherzo, che verrà giustificato da Niduin con la storia del
miele, scatenando le risa di tutti; la morale, dice il padre al figlio chiudendo la storia, è che bisogna
evitare di tradire o prendersi gioco dei propri compagni, giacché, vale – come sbagliarsi? – la regola
di «à trompeur, trompeur et demi».
9
Rec. BARBAZAN, t.II : p.134.
158
2.1.2 – Divinità e tabarri.
La Farce des deux savetiers,10 forse del 1506, presenta una trama giocosa di lungo successo e durata,
più volte ripresa ed imitata, benché le funzioni teatrali vi si riducano ad un semplice dialogo-débat.
Tutto ha inizio dall’osservazione stupita del povero sulle calzature del ricco.
LE PAUVRE
Jehan de Nivelle a deux housseaux,
Le roi n’en a pas de si beaux,
Mais il n’y a point de femelle,
Hay avant Jehan de Nivelle.11
Il ricco vanitoso – non cogliendo la vena di ironia contenuta nella battuta del povero – fa sfoggio di
tutte le possibilità che si hanno con cento scudi in tasca. Infine, quando il povero gli chiede come
abbia avuto le sue fortune, il ricco fornisce una risposta figurata, che però viene interpretata alla
lettera, diventando proverbio in azione.
LE PAUVRE
Par Sainct Jehan, il m’en faut avoir.
Qui diable vous en donne tant ?
LE RICHE
Qui ? Mon ami: Dieu tout contant;
Aussi t’a-t’il donné tes biens.
LE PAUVRE
Non a, parbleu, car je les tiens
De mon grant pere, a des ans vingt,
Et de tout de succession me vint,
Mais je n’en payeray pas taille.
LE RICHE
Voysin, tu n’as denier ne maille,
Que Dieu ne t’ait donné vrayment.
Il te feroit riche à merveille,
Et demain nud jusqu’à l’oreille ;
Il faict, & le deffaict.
LE PAUVRE
Ha deà ! Voisyn, il me plaist
Qui me donne assez, ou prou ;
Sçauroit-on trouver moyen ou ?
10
HTF, t.II, pp.130-146.
Ibidem : p.130.
Il repertorio ci spiega in nota cossa fossero le housses: «Chaussure contre le froid, la pluye, la crotte… c’estoit une espèce
de botte, ou de bottine; les gens de guerre s’en servait comme aujourd’hui de bottes. […]» E poi continua portando ad
esempio alcune espressioni figurate. Fra tutte citiamo «Il a quitté ses Housseaux» usata per dire che qualcuno è morto; a
volte la stessa parola è usata in Normandia per gli stivali da pescatori. Il lemma verrebbe da Hoselum, diminutivo di Hosa,
dal tedesco Hosen (Haut-de-chaussés).
159
11
LE RICHE
Que pense avoir de la pecune ?
Ouy, mais il a telle coustume ?
Que jamais il ne donne rien,
Quy n’y va par bon moyen ;
Et aussi qui ne l’en prie.
LE PAUVRE
Nostre-Dame ! il me tiendra mye,
Au prier. Je m’envoys tout droict
Au Monstier, car se Dieu vouloit
M’en donner, je feroys reffaict,
Et le remerciroys en effet,
De avoir en pouvoys un loppin.12
La farsa fa evidentemente il verso alle numerose apologie della vita modesta e al linguaggio dei vari
preti e predicatori che, senza senso pratico, tutto riconducevano all’azione divina, lasciando le cure
del povero alla provvidenza soltanto.
Qui i personaggi hanno una fede derelitta e superstiziosa, sottolineata dall’invocazione continua di
Sainct Jeahn. Se Jehan con i suoi diminutivi al maschile ed al femminile è nome “prototipico” dello
stolto da farsa, ne segue che St. Jehan sia a buon diritto il protettore universale degli imbecilli d’ogni
luogo.
Ma se Dio elargisce tutto ciò che è in nostro possesso perché mai ha distribuito i denari in maniera
così iniqua? Il povero insiste sull’uguaglianza ed afferma più volte di non voler prendere che cento
scudi: non un soldo di meno di quanto – cioé – millanti possedere il ricco.
LE PAUVRE
Je lui demande des escus cent,
Sans plus ne moins.
LE RICHE
S’il t’en donnoit deux vingtz,
A tout le moins tu prendroys cela.
LE PAUVRE
Sainct Jehan, je ne le prendroys jà,
Ne fus-je pas comme vous estes ?
Il peut aussi bien mes requestes
Octroyer, qu’il a faict la vostre.13
Il protagonista si risolve di batter cassa direttamente a Dio. Il suo compare ricco (ed il pubblico) lo
crede un idiota e lo segue fino nel convento dove – una volta nascosto dietro ad una colonna – recita
le battute della divinità, invocata per così venale esigenza.
12
13
Ibidem : pp.134-135.
Ibidem : p.135.
160
Il povero sembra bestia più del ricco ma scopriremo in breve la sua malizia calcolatrice.
Inizia la preghiera burlesca e stolta con la quale si chiede al Signore una pioggia d’oro: il ricco nei
panni (o nella voce) di Dio lo invita più volte a chiedere il giusto importo, non sappiamo se per
avarizia o solo per tirare lungo col gioco meschino che sta tendendo al compare o ancora per
metterlo alla prova sulla parola data.
Il povero è risoluto: domanda cento scudi, non meno, e dopo un alterco ridicolo il denaro è
consegnato, ma – gli dice il ricco, ancora nascosto – dovrai accontentarti dei cento meno uno. A
dispetto della parola data il povero accetta la somma.
Il ricco allora esce dal suo nascondiglio, trionfante per via della credulità del compare e della
promessa non mantenuta, ma naturalmente lo stolto si rifiuta di accettare l’inganno: ancora non
capiamo se faccia orecchie da mercante o se sia matto per davvero, ma si mostra talmente convinto di
aver ricevuto il denaro da Dio che solo a lui dice di poterlo restituire.
Il ricco si irrita e decide di presentare il caso al giudice: il suo antagonista rifiuta perché a quanto pare
non ha il mantello adatto al tribunale ed ha fretta di riportare il denaro in casa sua, per cui il
compare è obbligato a prestargli una ricca veste per riuscire a trascinarlo dal Prevost.
Arrivati al cospetto dell’uomo di legge scopriamo che il povero è amico del giudice; il che è forse in
relazione con la sentenza, vero tripudio di anarchia giocosa: secondo il giudice se un miracolo è poco
credibile lo è ancor meno la storia raccontata dal ricco, il quale non riesce a spiegare perché abbia
consegnato la sacca col denaro al povero.
LE JUGE
Or me respons dessus cela ;
Tu les jectas là ; & pourquoi ?
Tu pouvois bien penser à toy
Que pas ne le refuseroit.
LE RICHE
Ha ! Monsieur, il me disoit
Qu’il n’en prendroit jà moins de cent.
LE JUGE
Ton rapport est sans entendement,
Car il n’y a raison quelconque.14
Il giudice dichiara infine al ricco che i soldi che ha consegnato facendo le veci di Dio dovrà farseli
eventualmente rendere da Dio stesso. E non è finita se «à trompeur, trompeur et demi» qui la vittima
14
Ibidem : pp.144-145.
161
è ancora più crudele e non si pone alcun problema a restituire quel demi in più di truffa: il mantello
che il ricco gli ha prestato per lo svolgimento del processo rimane sulle sue spalle ed il facoltoso
idiota ha un ben reclamarlo di fronte al giudice del quale ha ormai definitivamente perso la fiducia,
facendo anche le figura dell’idiota o di chi ha perso completamente il senno in una furia cleptomane.
Come si è detto, l’ingannatore che si finge Dio con uno stratagemma o l’apparizione magica di un
bontempone (spesso, naturalmente, in luoghi di culto o ritenuti soprannaturali dagli stolti), l’abuso
di credulità, è dettaglio narrativo di lunghissima durata: nel Novellino di Masuccio15 ad esempio un
ricco e scapestrato giovane organizza una falsa apparizione per prendersi gioco d’un prete moralista.16
Anche nella tradizione novellistica francese con le Cent nouvelles nouvelles17 ne abbiamo un esempio,
ma a sfondo erotico, con il prete che parla da dentro una canna per farsi credere un angelo e
convincere così una semplice paesana (la Lisetta “bamba” e “zucca al vento” di boccaccesca memoria
che pensa di giacere con l’Arcangelo?) ad unirsi con lui per diventare madre di una stirpe papale.18 La
stessa allusione alla progenie papale (o imperiale), si trova anche nella LXXXXV novella della raccolta
di Giovanni Sercambi, che vedremo più avanti.
Nella novella XX delle Porretane di Sabatino degli Arienti ritroviamo invece lo stratagemma del
mantello in un contesto ancora una volta giuridico, col processo e l’inganno in sede giudiziaria: la
moquerie è praticamente identica.
Io ve dico che li verei voluntiera, ma non posso, perché ho pegno quanti panni ho, e, non potendose per
ancora avere denari da la Camera, bisogna che abiati pazienzia. Se pur avesse uno mantello che fusse bono, in
veritade, io li virei. – Per questo non state – dixe alora el notaro: – io ve prestarò uno mantello de morello de
grana, bono e fino. [...] [I due vanno in tribunale, il giudice viene adulato da Laurenzo che sostiene il notaio
essere in preda a crisi nervose, n.d.r.].
E che ciò sia vero, che non debbe esser in bono sentimento, se la Vostra Magnificenzia il tiene in rasonare, el
troverá variare e senza ordine uscire del proposito. E forsi, se li adimanderá de chi è questo mantello ho
intorno, non sarebbe gran facto dicesse fusse suo; e, se per ventura cominciará dire sia suo, tutti gli omini del
mondo nol farrebber uscire de quello proposito. [...]
- Diceteme, domine notarie, questo mantello che ha indosso misser Laurenzio, di chi è? – Messere, l'è mio –
respose el notaro, – ché io gliel'ho prestato, acciò potesse venire da vui, ché non ne avea alcuno. Allora dixe
misser Laurenzio: – Che dissi io a la Vostra Magnificenzia? Nui siamo forniti: un'altra volta vegnirò da
quella, – facendoli de capucio. E, cum offerirli ciò che poteva, se ne parti, lassando garrulare il notaro coi
podestá.19
15
Novellino, p.I, VIII, (A. MAURO, pp.74-81).
Ma il falso soprannaturale, per così dire, ricorre genericamente anche in Decameron, (III, 8), (IV, 2) e (VI, 10).
17
les Cent nouvelles nouvelles, XIV, (Le faiseur de papes, ou l’homme de Dieu, T. WRIGHT, 1857-58, t.I, pp.73-80).
18
Si segnalano anche due racconti di Morlini con lo stesso espediente: De monacho qui in monasterio divi Laurentii
seraphici francisci vitam repraesentabat e De patricio qui, ut matronam falleret Christum aemulatus est. (G. VILLANI, 1983).
19
Novelle Porretane, XX, (G. GAMBARIN, 1914 : pp.95-98).
162
16
Sebbene i dettagli siano più realistici ed il perno narrativo della novella sia la forza affabulatoria di
Laurenzo, anche qui vale il detto «à trompeur trompeur et demi» intendiamo infatti all’inizio della
storia come la beffa del mercante che si fa prestare i soldi e non li restituisce sia una reazione maligna
all’abitudine del «notaro» di rendere visita «più per derisione che per amore».
2.1.3 – Chi sa il trucco non lo insegni.
L’avventura farsesca più nota e studiata è senza dubbio il primo capitolo della trilogia di Pathelin,
capolavoro comico della prima drammaturgia francese.20
All’incipit di questa trama fondamentale per il teatro francese, si leggono una serie di battute
sull’astuzia degli avvocati e degli uomini di legge, truffatori legalizzati, che vivono alle spalle della
gente onesta. Ed ecco allora l’avvocato Pathelin mettere subito in atto il primo colpo rispettando la
fama della categoria: pur non avendo soldi e nonostante le reticenze della sua compagna, che lo
invita ad evitare ogni specie di espediente illegale per la sopravvivenza (specie dopo alcuni precedenti
penali di cui l’autore ci lascia all’oscuro), l’avvocato si risolve di andare a comperare della stoffa,
benché povero in canna. Si reca così dal drappiere e si fa passare per cliente sprovveduto: ottiene la
stoffa ad un prezzo altissimo e riesce a convincere il mercante a farsi dare il panno senza alcun
anticipo, promettendo di rendere il denaro la sera stessa, irrorato da una abbondante bevuta e da una
ricca abbuffata di fois gras a casa sua.
Quando il negoziante va a casa dell’avvocato per consumare il promesso festino e ritirare il denaro
ecco la sorpresa: coadiuvato dalla moglie, Pathelin si finge gravemente malato da settimane e sostiene
di non essere mai uscito di casa fin dalle prime avvisaglie della sua misteriosa malattia nervosa.
Una lunga scena di vaneggiamenti e di follia simulata, in cui il protagonista si esprime per parole
bizzarre, sconosciute o latine, fino a mettere in fuga il drappiere che prima pensa di aver sbagliato
persona, poi, nella sua dappocaggine, si convince che sia stato il diavolo stesso a rubare la stoffa.
I due personaggi sono però destinati a incontrarsi in tribunale, per pura fatalità: nella scena
successiva compare un pastore che intraprende un lungo alterco con il drappiere; subito dopo questo
«Thibaut» va a raccontare il suo caso all’avvocato Pathelin, per farsi difendere nel processo che si
20
Diverse sono le datazioni, tutte fra il 1460 e 1480, tuttavia la prima edizione nota (in copia unica alla BNF) rimonta al
1485. Maistre Pierre Pathelin, S.l.n.d., (Le Roy, Lyon, 1485). Ci siamo avvalsi di due edizioni: Rec. JACOB : pp.19-117 e
R. HOLBROOK, 1986.
163
prepara. È un crimine ridicoloso, il suo: ha mangiato ben trenta agnellini da latte in tre anni
fingendoli al suo padrone morti per malattia. Pathelin fa l’errore di non domandare chi sia il padrone
in questione: consiglia al pastore di fingersi matto, invitandolo a rispondere per monorematiche
belanti ad ogni domanda e muove insieme a lui per il processo, dove è subito riconosciuto dal
drappiere. Inizia qui la scena più delirante e moderna della farsa.
Mentre il pastore ad ogni domanda risponde col suo bee, il povero drappiere è turbato e confuso di
vedere Pathelin in tribunale: non riesce a capacitarsi che relazione possano avere fra di loro i due
truffatori e confonde la causa degli agnellini con le stoffe rubate qualche giorno prima.
Cerca così di spiegare al giudice i capi d’accusa contro il pastore, ma fa una grande confusione e
riesce solo a blaterare qualche frase sull’uno e l’altro furto.
LE DRAPPIER
[...] Ores je disoye,
A mon propos, comment j'avoye
Baillé six aulnes... Doy je dire,
mes brebis... Je vous en pri, sire,
Pardonnez moy. Ce gentil maistre...
Mon bergier, quant il devoit estre
Aux champs... Il me dist que j'auroye
Six escus d'or quant je vendroye...
Dis je, depuis trois ans en ça,
Mon bergier m'en couvenança
Que loyaulment me garderoit
Mes brebis, et ne m'y feroit
Ne dommaige ne villenie,
Et puis... Maintenant il me nye
Et drap et argent plainement.
(à Pathelin)
Ha! Maistre Pierre, vrayement...
(le juge fait un geste d'impatience)
Ce ribault cy m'embloit les laines
De mes bestes, et toutes saines
Les faisoit mourir et perir
Par les assommer et ferir
De gros bastons sur la cervelle...
Quant mon drap fust soubz son esselle,
Il se mist au chemin grant erre,
Et me dist que j'alasse querre
Six escus d'or en sa maison.21
Va da sé che l’uomo di legge si inquieta e prende tutti per matti: in questa follia generalizzata l’unico
sensato sembra Pathelin, che riesce a convincere il giudice a togliere la seduta. Il mercante di stoffe se
21
R. HOLBROOK, 1986 : pp.68-69.
164
ne andrà adirato a controllare se il malato è ancora a letto ed il pastore per non pagare Pathelin si
fingerà folle un’altra volta ribaltando lo stesso stratagemma del belato contro l’astuto avvocato.
«A trompeur trompeur et demi», perché tutti i personaggi della farsa sono crudeli e meschini: il
drappiere vuol approfittare del cliente, Pathelin vuole tutto e subito pur essendo povero in canna, il
pastore ruba e non si fa scrupoli a mentire e spergiurare. Il mercante e Pathelin sono infine vittime
delle proprie stesse monomanie per il denaro.
Benché si tratti senza ombra di dubbio di uno dei plot più riusciti della drammaturgia farsesca,
Pathelin conserva qualcuno dei difetti più frequenti nelle trame più complesse delle farse,
primariamente quello della sproporzione fra le parti: la scena della malattia di Pathelin occupa la
maggior parte della composizione e si giustifica soltanto come occasione per l’esibizione del
performer, cui il tema della falsa pazzia apre senza dubbio orizzonti performativi di grande leggerezza
e comicità, ma a prezzo appunto dell’equilibrio complessivo della trama.
Lo sforzo del lettore viene in parte ricompensato dall’uso calibratissimo della lingua: in Pathelin gli
espedienti di comico verbale propri della farsa vengono messi in un contesto narrativo compatto ben
diverso da quello farraginoso e smagliato della maggior parte delle pièce. In questo senso la scena del
latino maccheronico (ove Pathelin ha la faccia tosta di svelare il suo inganno al drappiere
dissimulandolo dietro una lingua di fantasia) è un piccolo capolavoro di comicità che dimostra come
l’ignoto autore della pièce conoscesse bene le risorse linguistiche del teatro recitato ed il doppio
binario di comprensione (esterna ed interna alla finzione) che caratterizza il gioco del drammaturgo.
Fattori di grande atipicità rispetto al linguaggio drammatico farsesco – pensati, cioè in funzione di
un orizzonte anche letterario – sono invece le sistematiche note di rappresentazione, la precisa
divisione in scene segnata dalla cesura forte dei dialoghi, l’idea (ancora per certi versi timida) di una
coerenza interna all’intreccio, in cui ogni elemento deve scattare nella molla del finale e costruire un
edificio narrativo solido.
È nell’ultimo punto che troviamo le incertezze maggiori: sebbene l’intreccio collimi bene nella
successione degli eventi, il finale aperto (il pastore lascia la scena fuggendo ed il mercante sparisce alla
ricerca del protagonista) testimonia della naturale e sperimentale irregolarità della farsa. Ed è
evidentemente dall’aspettativa disattesa sul finale, e certo anche dal successo della pièce, che venne
l’esigenza di comporre il Nouveau Pathelin, di cui parleremo più avanti.
Pathelin vero capolavoro del teatro volgare, o commedia molièriana ante litteram, affonda le proprie
radici nel terreno grasso delle relazioni letterarie italo-francesi e sembra riposare sullo stesso piano
165
della novella: l’avventura o qualche sua situazione circolarono e circolavano già sotto diverse forme in
Italia; complicato stabilire gli esatti rapporti di eredità, successione, prestito, ma se ne rinvengono i
resti vestigiali anche in aree geografiche peninsulari abbastanza distanti e marginali rispetto
all’Esagono.
Scopriamo per esempio una ricorrenza (a svolgimento ridotto e stilisticamente inferiore, ma di
grandissima somiglianza con la versione d’oltralpe) nella letteratura italiana del mezzogiorno sotto il
titolo di Storije de lu pazze,22 semplice favoletta abruzzese di un paesano ignorante ed avaro che cresce
un maiale talmente grasso e bello che tutti al mercato vorrebbero comprarselo. Il sempliciotto allora
per non avere nemici decide di venderlo a tutti coloro che glielo chiedano: «Ji’ ne’ mme ce voujje fa’
le nemmice nghe ‘stu porce… tutte chi le vo’, ji’ le voujje fa’ cundènde» afferma l’uomo poco dopo
essere arrivato al mercato, e così fa durante tutta la giornata, prendendo i soldi e promettendo di
portare all’indomani l’animale a casa di ciascun acquirente.
Al mattino successivo, però, lo stolto paesano si pone il problema: come fare a portare lo stesso
maiale a tutti quanti? Decide così di andare dall’avvocato, che gli suggerisce – in cambio di mezzo
maiale – di fare la scena del pazzo, cosicché tutti rinunceranno a recuperare il credito e la bestia. Il
trucco funziona e come da copione pathelinesco il paesano lo applica anche per il pagamento della
parcella dell’avvocato. La follia si confonde con l’astuzia, in un insieme inestricabile che impedisce
una valutazione reale del personaggio, in una specie di anarchia comportamentale ove alla fine chi
sembrava idiota è intelligente ed il mondo dei savi è capovolto in girone degli allocchi.
Il trucco del villico rimane costante: in queste narrazioni chi è dalla parte del giusto (ed è un ruolo,
quello del giusto, che nella farsa non solo è relativo, ma passa di personaggio in personaggio secondo
come gira il vento della trama) dovrà rassegnarsi non solo a perdere, ma anche ad aver insegnato il
gioco ad un ribaldo peggiore di lui secondo quanto recita l’antico adagio «chi sa lo il gioco non lo
insegni».
Un intreccio posteriore analogo è alla base anche di una novella dei Diporti di Girolamo Parabosco23
dove «Tomaso promette venticinque ducati a uno notaro che lo consiglia come dee fare per non
restituire alcuni denari mal tolti, e poscia dal notaro ricercato de i venticinque ducati, contra di lui si
prevale del consiglio che contra gli altri egli dato aveva»: al solito, il trucco si ritorce contro il
difensore che infine non vien pagato come promesso. La narrazione dei Diporti presenta alcune
22
23
G. FINAMORE, 1882-1886, t.I, pp.136-137.
Diporti, I , 8, (D. PIROVANO, 2005).
166
differenze nello svolgimento della storia ed una maggiore ricerca di motivazioni ed incastri esotici e
picareschi, evidentemente modulati dalle erudite, che all’epoca dei Diporti esercitavano ormai un
ruolo modellizzante sugli intrecci anche al di là del teatro. Il giovane protagonista di Parabosco si
trova orfano ed erede di una immensa fortuna che sperpera in pochi anni: per recuperare un po’ del
denaro perso e per cambiare città e vita egli decide così di vendere l’unico possedimento
sopravvissuto. Gli sviluppi narrativi tornano poi nei ranghi del “genere” giudiziario: dietro alla
vendita, infatti, il giovane nasconde un inganno; come lo stolto contadino abruzzese della “storia del
pazzo” raccoglierà le caparre di diversi acquirenti, vendendo la proprietà solo ad uno di questi e
scappando con gli acconti degli altri.
La notizia si viene a sapere e per questo il protagonista viene recluso: qui programmerà lui stesso di
fingersi pazzo e si farà aiutare da un suo amico notaio dietro la promessa di venticinque ducati;
riuscito l’inganno il suo compare «altro mai non […] poté trarre [dal giovane] che quello che per suo
consiglio tratto n’avevano gli altri suoi creditori e messer lo podestà, cioè fischi e fiche; tal che tutto
beffato con l’ordito inganno ingannato rimase lo ingannatore».24
Antonfrancesco Grazzini il Lasca, ne fece l’argomento dell’Arzigogolo, dove per fingersi pazzo il
contadino invece di belare fischia: a causa vinta, lo si sarà capito, il consigliere batte cassa vedendo
applicato su di lui il medesimo inganno.
ALESSO: Vedi tu, Arzigogolo, quel c'hanno adoperato i miei consigli? tu riarai i tuoi buoi tu, buon pro ti
faccia: or fa' che tu sia uomo dabbene, e che ti ricordi che mi sei debitore di due scudi.
ARZIGOGOLO: Sff.
ALESSO: Ali, ah, ah, ah! ancora mi rido: quando tu fistiavi al giudice, per mia fé ti portasti bene, e facesti si
ch'e' se l'è creduto: ma ora non è piú tempo da fistiare a' tordi : quando fai tu conto di darmegli?
ARZIGOGOLO: Sff.
ALESSO: Non piú, ch'ella non è piú bella: dico, quando fai tu conto di pagarmi?
ARZIGOGOLO: Sff.
ALESSO: Pur fistia! tu mi pari una bestia: dico, i miei duoi scudi?
ARZIGOGOLO: Sff.
ALESSO: Tu ti credi farmi com'al giudice: e non sai che l'è mia invenzione?
ARZIGOGOLO: Sff.
ALESSO: Ah villan poltrone' credi uccellare un procuratore, ora che tu hai i buoi'
ARZIGOGOLO: Sff.
ALESSO: Al corpo... ch'io ti darò altro che fistiate, trafurello; aspettami.
ARZIGOGOLO: Sff, sff, sff, sff.
ALESSO: E' se n'è ito. Oh Dio, le mi vanno ben tutte a un modo! sono stato giuntato con li miei propri
inganni : e da chi? da un rozzo contadino; e mi bisogna per la vergogna tacere: e mi ritruovo in un giorno
scemo d'una gran parte de' miei danari, e di giovane vecchio; e, quel che piú mi preme, senza grazia alcuna
24
Ibidem : p.162.
167
della mia monna Papera. Valerio mi fa questi inganni, mi dá questi guadagni; Valerio è la mia rovina: vo' ire
a cercarlo, e, s'io lo truovo, sopra lui sfogarmi.25
È possibile che questo tema esistesse già nella fantasia popolare, ma siccome tutti gli esempi citati di
follia simulata sono posteriori alla farsa francese di Pathelin, possiamo anche supporre che il modello
fosse proprio il capolavoro farsesco. Nel caso del Lasca non è da escludere un contatto diretto: egli si
dedicava infatti alla produzione di farse e l’Arzigogolo, (edito completamente solo nel 1750, ma
concepito fra il 1560 ed il 1565) è probabilmente riadattamento d’una sua farsa anteriore di cui non
abbiamo più tracce, La giostra. La netta divisione fra la prima e la seconda parte dell’Arzigogolo
asseconda l’ipotesi del montaggio di due differenti composizioni: la seconda delle quali potrebbe
proprio essere stata il Pathelin, dal quale lo svolgimento della morale “chi sa il trucco non lo insegni”
sembra ripreso quasi letteralmente.
2.1.4 -“Signali” rubati e un testamento eclettico.
Passiamo ora alla seconda parte della trilogia, il Nouveau Pathelin (datazione incerta fra 1474 e 1485)
in cui compare uno degli stratagemmi più ricorrenti fra gli inganni novellistici e teatrali: lo
battezziamo “trucco del mediatore”. Consiste nel parlare a distanza con qualcuno per poi
interpretarne i segni a proprio vantaggio sì da fugare ogni sospetto nella vittima.
[…] L’inspiration est tirée en partie du Pathelin classique, et en partie aussi d’un conte traditionnel. Le
Pathelin classique sert de modèle au nouveau, dans la ruse employée par l’avocat afin de vaincre la méfiance
du pelletier. Celui-ci est, à son tour, une copie évidente du drapier célèbre et la ruse que l’avocat emploie à
son égard est toujours fondée sur la flatterie et sur les protestations d’une ancienne amitié. C’est là la méthode
dont se servira plus tard Dom Juan de Molière avec Mr. Dimanche. Cette connaissance du cœur humain,
toujours ouvert à la louange, prête un certain charme au début de ce nouveau essai sur l’avocat illustre,
désormais passé en proverbe. Malheureusement il s’agit d’un charme d’emprunt, qui ne suffit pas toujours à
cacher plusieurs faiblesses de style et de pensée.26
Il giudizio reso da Toldo è piuttosto bendisposto verso una farsa le cui incertezze sono maggiori di
quelle che abbiamo visto nel primo episodio della trilogia. Innanzi tutto l’intreccio narrativo, per lo
più improntato alla trama del primo Pathelin; secondariamente il linguaggio, meno vivace e
realistico e quasi privo del comico verbale e dell’anarchia che si erano visti nell’episodio precedente.
25
26
Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, Arzigogolo, (G. GRAZZINI, 1953, pp.463-520).
P. TOLDO, 1903 : p.196.
168
Il completamento del percorso narrativo è poi nel Nouveau Pathelin tanto tenue che la truffa ai danni
del pellettiere ne risulta semplice, quasi priva di senso e logicità; lo stesso personaggio del pellettiere
non ha nulla di originale rispetto al sarto suo prototipo.
La farsa è il seguito della prima ma non scioglie i nodi che alla fine di quella restavano irrisolti:
continuiamo infatti ad ignorare cosa sia accaduto alla visita del sarto nella casa di Pathelin e non è
infine riservata al protagonista alcuna vendetta nei confronti del pastore che lo aveva gabbato.
Anche l’invenzione linguistica è limitata ed indecisa: non esistono le trovate geniali come il latino
maccheronico ed il belare del pastore in sede processuale e non esiste neanche un confronto diretto
fra i personaggi, che semplicemente rimangono vittime del tiro del protagonista, mossi tutti
similmente dall’avidità.
Le storia è semplice quanto forzata: Pathelin si guadagna la fiducia del commerciante con false
lusinghe; lo convince che il curato ha bisogno di stoffe e lo porta con sé in chiesa al momento delle
confessioni. Lasciata la vittima in disparte, simula di parlare di denaro con il prete, chiedendogli in
realtà di confessare il pellettiere: i segni di assenso e le battute che il commerciante ascolta da lontano
lo convincono a consegnare le stoffe al furfante, che promette di andare a preparare un banchetto
mentre i due proseguiranno la trattativa. Una di fronte all’altra, infine, le due vittime danno inizio
ad un semplice quiproquo prima di comprendere la truffa: la confusione è linguistica e si basa su un
fraintendimento fra «assolution» e «solution» – “assoluzione” e “pagamento” – e poi fra «despecher»
(“expédier”) e «depecher» (“confesser”) ma il comico verbale è poco coerente e non c’è alcuna
soluzione scenica irresistibile e paradossale come l’espediente del belato in tribunale.
LE PREBSTRE
Mais pensez de vous accuser,
Sans rien laisser, de bout en bout ?
LE PELLETIER
Le corps bieu ! Si vous ay dit tout,
Et suis tout prest de recepvoir...
LE PREBSTRE
Comment voulez-vous donc avoir
Corpus Domini ? Il faudroit,
Premier, vous confesser à droit.
LE PELLETIER
Mais quel diable d'entendement !
Quant je vous parle de recepte
D'argent...
LE PREBSTRE
Voicy bien grant decepte
LE PELLETIER
Faictes-m'en la solutions ?
169
LE PREBSTRE
Faictes donc la confession
Premierement. Vous absouldray-je
Sans confesser ?
LE PELLETIER
Voicy bien raige
Je ne vous parle point d'absouldre;
De par le diable ! c'est de souldre...
Vous n'entendez pas à demy.
LE PREBSTRE
Je ne vous dois rien, mon amy ?
Vous estes troublé de la teste.
LE PELLETIER
Me cuidez-vous donc faire beste ?27
Al contrario è molto interessante la concezione della scena in cui – come nel primo episodio – il
nostro autore28 organizza i personaggi in modo da creare l’equivoco: il confessore rivolto verso la
navata, i peccatori di spalle, in un gioco di sguardi a distanza fra il pellettiere in disparte ed il
canonico, da cui ha inizio tutto il malinteso. Ciò rende notevole ai nostri occhi le attitudini
drammaturgiche dell’autore, che produce il quiproquo al di là del testo, sfruttando il valore
semantico dello spazio scenico, senza cui la gag perde di spessore comico.
La farsa si intreccia con le Repues franches di Villon nel passo in cui si racconta di come la compagnia
di buontemponi protagonista dell’opera del poeta francese riesca ad ottenere una abbondante cesta di
pesce. La Manière comment ils eurent du poisson è il titolo dell’episodio e lo svolgimento è davvero
indentico a quello del Pathelin, salvo che le conclusioni in questo caso sono morali, col furto che ha
luogo nell’intento di sollevare gli affamati.
Maistre Françoys par son blason
Trouva la façon et maniere
Davoir maree a grant foyson
Pour gaudir et faire grant chiere
27
Rec. JACOB : pp.164-165.
« D’après Paul Lacroix, qui appuie son argumentation sur des équivalences monétaires, le Nouveau Pathelin serait de
1474 et par conséquent antérieur aux Repeues franches de Maistre Françoys Villon dont l’un des chapitres, la Maniere
d’avoir du poisson, présente la même intrigue. Il est d’ailleurs probable que le récit de ce bon tour appartenait au vieux
fonds narratif populaire et son attribution aux deux maîtres trompeurs du temps, Pathelin et Villon, n’a rien d’étonnant :
d’ailleurs n’est-il pas symbolique que dans l’édition gothique aujourd’hui perdue sur laquelle S. Gueulette s’était appuyé
pour faire son édition, les trois farces de Pathelin aient été jointes aux œuvres de Villon ?
La confusion en un même type de nos deux héros est encore plus nette dans le Testament de Pathelin, sans doute
postérieur de peu au Nouveau Pathelin dont il exploitait ainsi le succès. Cette pièce qui sacrifie à la vogue que connaissait
alors le genre burlesque du Testament […] présente de nombreuses réminiscences des legs comiques et satiriques du Lais
et du Testament de Villon. Elle permet ainsi à Maistre Pierre et à Maistre Françoys d’entrer étroitement unis dans la
légende ».
J. C. AUBALLY, 1979 : p.170.
170
28
Cestoit la mere nourrissiere
De ceulx qui navoient point dargent
Tromper devant et derriere
Cestoit un homme diligent29
Ben prima dell’opera di Villon questo récit era conosciuto in Italia ed in Francia, benché la critica
abbia accennato sovente ad un sconfinamento fra vita e teatro vedendo ne le Repues franches le
notizie per una fantasiosa biografia del poeta.
Sabatino degli Arienti nelle Porretane,30 ci racconta la storia di Pirone, povero legnaiuolo vittima
dell’astuzia adolescente di Carletto, il quale avendo giocato i soldi consegnatigli dalla madre per
acquistare un carro di legna, riesce astutamente ad avere la merce prima portando il legnaiuolo a
confessarsi e poi a farsi togliere il sangue. Il disgraziato ne uscirà non solo truffato, ma anche
alleggerito nelle vene: e pure in questo caso si riscontra una maggiore precisione narrativa in seno alla
novella. Ogni passaggio è giustificato puntualmente e l’intrigo – di tinte più realistiche e coerenti – è
assai ben oliato.
In Cortebarbe nel fabliau famoso dei Trois aveugles de compiengne un giovane di studio dice di aver
dato una moneta d’oro ad un cieco, ma in effetti ha solo finto, approfittando della menomazione dei
tre. Al che i disgraziati se ne vanno felici a fare bisboccia pensando di approfittare della generosa
somma: per godersi lo scherzo lo studente li segue fino alla locanda e lì soggiorna in attesa del conto
salato per i tre vagabondi.
« Sire, nous avons .I. besant,
Je croi qu'il est molt bien pesant;
Quar nous en rendez le sorplus;
Ainçons que du vostre aions plus.
- Volentiers » lo ostes respont.
Fait li uns: « Quar li baille dont liquels l'a.
Be! je n'en ai mie.
- Dont l'a Robers Barbe-florie?
- Non ai, mès vous l'avez, bien sai.
- Par le cuer bieu, mie n'en ai.
- Liquels l'a dont? – Tu l'as. – Mès tu.
Fètes, ou vous serez batu,
Dist li ostes, seignor truant,
Et mis en longaingne puant
Ainçons que vous partez de ci. »
Il li crient: « Pour Dieu merci,
Sire, moult bien vous paierons. »
29
30
François VILLON, le Recueil des repues franches, S.l.n.d., (Paris, G. Nyverd, 1520) : n.p.
Novelle Porretane, XIX, (G. GAMBARIN, 1914 : pp.87-92).
171
Dont recommence lor tençons [...]31
Ma il truffatore è più crudele con l’oste che con i ciechi: decide così di esibire la sua munificenza
prendendosi carico del debito, lasciando andar via i tre disgraziati. Come il Carlino della novella di
Sabbatino degli Arienti torna qui il trucco di demandare ad uno sconosciuto il pagamento del
debito, il che funziona meglio dopo una buona dose di calunnie sullo stato mentale della vittima del
raggiro.32
Cortebarbe
Sabbatino degli Arienti
Et li prestres, sanz demorée, | A pris le livre et puis l'estole,
| Si a huchié : « Sire Nichole, | Venez avant, agenoilliez. » |
De ces paroles n'est pas liéz | Li borgois, ainz li respondi : |
« Je ne ving mie por ceci, | Mès mes .XV. sols me paiez. | –
Voirement est-il marvoiez, | Dist li prestres; nomini Dame,
| Aidiez à cest preudome à l'ame; | Je sai de voir qu'il est
dervez. | – Oez, dist li borgois, oez | Com cis prestres or
m'escharnist; | Por poi que mes cuers du sens n'ist, | Quant
son livre m'a ci tramis. | – Je vous dirai, biaus douz amis, |
Fet li prestres, coment qu'il praingne, | Tout adès de Dieu
vous souviegne, | Si ne poez avoir meschief. » | Le livre li
mist sor le chief, | L'Evangille li voloit dire. | Et li borgois
commence à dire : | « J'ai en meson besoingne a fère; | Je
n'ai cure de tel afère, | Mais paiez-moi tost ma monnoie. »
|
[…] ponendose a sedere, dixe: – Buono uomo, pòneti
genochionii e fátte el segno de la croce. – Dixe alora
Pirone: – Misser, son quisti li denari che debo avere da vui?
– A cui respose el frate: – Quanto tempo è che tu non te
confessasti, povero omo? – In questa quadragesima passata
me confessai – rispose Pirone. – Datime li denari, azoché
vada a fare li facti miei, ch'io non ho adesso bisogno de
confessarme. – Dixe el religioso: – Non sei venuto qua per
confessarte? – Misser no – rispose Pirone; – anci, avendo
venduto uno carro de legne soldi vinti a quello giovene che
ve ha parlato, me dixe che voi gli eri debitore de bona
somma e che per lui me daresti li danari che montano le
legne.
Anche Giovanni Francesco Straparola dedica un episodio delle Piacevoli notti33 alla storia di uno
spagnolo che acquista del cibo al mercato e manda il mercante a recuperare il credito presso un prete
del tutto ignaro della cosa (Diego spagnuolo compra gran quantità di galline da uno villano, e dovendo
far il pagamento, aggabba e il villano e un frate carmelitano). Il tema rimbalza più e più volte da una
parte all’altra delle Alpi esponendosi a modifiche e furti, talvolta conservando una grande fedeltà dei
dettagli e dei dialoghi fra le differenti versioni.
La terza pièce della trilogia di Pathelin è il Testament (dentro il primo decennio del 1500), dove
vediamo il nostro avvocato azzeccagarbugli fare il suo testamento al confessore Monsieur Jehan dopo
una lunghissima lamentazione.
31
Rec. MONTAIGLON – RAYNAUD, t.I, pp.70-81 : p.70. Si veda anche G. GOUGENHEIM, 1932.
Novelle Porretane, XIX, (G. GAMBARIN, 1914 : pp.88-89). Rec. MONTAIGLON – RAYNAUD, t.I, pp.70-81 : p.76.
33
Le piacevoli notti, XIII-2, (G. RUA, 1980, t.II, pp.202-204).
32
172
Pathelin vorrebbe ancora tornare in tribunale per fare una delle sue truffe, ma l’età non glielo
consente più; dolore e lamenti vengono intervallati dalle continue richieste di vino e benché infine
spiri per davvero, rimane l’impressione di una malattia solo simulata per astuzia e compiacimento. La
scena della confessione strizza l’occhio al pubblico facendo allusione agli episodi precedenti e
vediamo l’avvocato falsamente pentito per l’inganno ai danni del sarto ed irritato per aver subito il
jeu de ruse da parte del pastore ladro.
La parte centrale è quella che dà anche il titolo alla pièce; ripartizione dei beni che si riallaccia alla
tradizione dei testament parodici, composti nel contesto delle confraternite di giustizia ad imitazione
delle forme giuridiche e dei quali è forse François Villon a fornirci l’esempio più significativo per
notorietà e stile (il Testament,34 appunto), oltre alle innumerevoli composizioni minori e ben più
ardue dal punto di vista linguistico e dialettale: fra tutte Li dis de la vescie a prestre,35 di fatto un
montaggio di generi di più corto respiro, l’epigrafe burlesca in «pathelinesco», la confessione comica,
le esequie grottesche.
Genere di lungo successo e durata soprattutto nella letteratura popolare e nelle canzoni medievali, la
parodia delle leggi, delle sentenze e dei lasciti testamentari era molto diffusa nelle confraternite dei
palazzi di giustizia e consisteva in un riadattamento goliardico delle messe in scena che venivano
realizzate per insegnare ai praticanti le procedure civili e penali. Il testamento burlesco è un
sottogenere piuttosto sviluppato, la cui carica comica si basa non su un intreccio ma sul contrasto
dato dalla ripartizione d’una micragnosa nullatenenza.
All’inizio del terzo capitolo pathelinesco intuiamo l’avidità di Guillemette – qui definitivamente
consacrata all’esercizio di una verbalità stupida e bovina – che invita il compagno a ripartire le esigue
proprietà accumulate con l’attività del latrocinio.
GUILLEMETTE
Au surplus, il vous fault entendre
A vous confesser vistement,
Et faire un mot de testament:
Ainsi doibt faire tout chrestien.36
Pathelin accetta di buon grado e comincia con il donare alla moglie (se ancor ci sono!) le sue
inconsistenti fortune, tanto piccole da essere conservate nel più piccolo dei cassetti del corredino; ai
34
François VILLON, Le grant testament Villon et le petit., P. Levet, Paris, 1489.
Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.III, pp.106-117.
36
Rec. JACOB : p.197.
35
173
galanti senza noia viene lasciata la taverna e l’abbuffata; alle signore - che rubano e tradiscono tutto il
tempo – si lascia una bella febbre quartana; agli ubriaconi si lasciano in eredità la gotta, i crampi e la
rogna. Una volta fatte equamente le parti, il protagonista eseguirà la sua ultima grande uscita comica
lasciando al confessore il sedere di Guillemette.
Rispetto alla destinazione scenica del testo possiamo individuare nel dialogo del “Quoy?” che si
svolge fra Guillemette e l’Apoticaire un esempio luminoso di “matematica scenica” della risata.
L'APOTICAIRE
Qui-a-il
GUILLEMETTE
Quoy? Soucy et peine,
Se vous n'y mettez brief remede.
L'APOTICAIRE
Touchant quoy?
GUILLEMETTE
Ha! tant je suis vaine!
L'APOTICAIRE
Qui a-il?
GUILLEMETTE
Quoy? Soucy et peine!
L'APOTICAIRE
[...]
Qui a-il?
GUILLEMETTE
Quoy? Soucy et peine [...]37
Secondo Petit de Julleville e Pietro Toldo da questo ultimo episodio di Pathelin sarebbe stata tirata la
pièce del Chaulderonnier, le savetier et le tavernier,38 composizione assai rudimentale dal punto di vista
linguistico e narrativo. Al la di là però delle allusioni al vino che si trovano in entrambe le pièce e la
similitudine nella simulazione della follia, le due farse non hanno nulla a che vedere. In quella del
pentolaio, del ciabattino e del taverniere i primi due, dopo essersi presi a legnate accusandosi
vicendevolmente di urlare troppo il proprio cry39 (in un dialogo a tratti sconfortante per il lettore) se
ne vanno alla taverna e fanno bisboccia oltre le loro stesse risorse fino ad ubriacarsi. L’oste è costretto
37
Ibidem : pp.191-192.
La pièce risale forse alla metà del XVI secolo o alla fine del XV. ATF, t.II, pp.115-127.
39
Un genere del tutto minoritario, ma gustoso soprattutto per indagare nella vita minuta del XV secolo e per via della
sua forte influenza sulle forme drammatiche medievali è quello delle Farces de cris, dove le battute dei vari mercanti
ambulanti delle città vengono ricomposte in una specie di filo narrativo teso al malinteso ed al riso.
Ci limitiamo qui a segnalarne la Farce nouvelle des cris de Paris; Les dits des Crieries de Paris (Rec. BARBAZAN, t.II).
Nella prima delle due in particolare vediamo due gentiluomini discutere ed il sot rispondere con i gridi:
«GENTILHOMME: Si le mary est sans cervelle | Et la femme toute enragée. | Que sera-ce ? | LE SOT : Bourrée sèche,
bourrée!»
174
38
a fare credito e così il giorno dopo i due tornano: il pentolaio si veste da donna ed i due simulano
una rissa coniugale sotto gli occhi dell’incredulo taverniere che ci guadagna qualche schiaffo ed che
infine, demoralizzato, semplicemente rinuncia al credito. È chiaro anche dalla semplice lettura della
fabula come questa poesia comica sia occasione del tutto pretestuosa per esibire facili divertimenti ed
un umorismo di bassa lega.
Testimonianza più preziosa di un’altra traccia narrativa abbondantemente presente fra Francia ed
Italia, basata sul furto d’un segno convenzionale è la composizione francese du Pasté et de la tarte40 –
conosciuta nell’edizione cinquecentesca del ’47-’57 ma la cui datazione è fissata al 1470 – piccolo
capolavoro per vivacità delle scena e sicurezza del dialogo: qui le battute sono rapide e la situazione
comica di sicuro effetto, tanto che pur non avendo un intreccio particolarmente sviluppato questa
pièce conserva ancora oggi una grande attualità burlesca.
La situazione è semplice e la sua forza risiede specialmente nella meccanica di scena, farcita da
sequenze gustose di botta-risposta (svolta ancora con l’espediente onomatopeico delle
monorematiche e la reiterazione idiota delle battute) e guarnita d’una sana dose di bastonature: due
«coquins» sono talmente poveri da essere addirittura nudi; li osserviamo tremare al freddo ed alle
intemperie, afflitti da una fame atavica quanto la loro miseria.
LE PREMIER
Ouyche.
LE SECOND
Qu’as-tu ?
LE PREMIER
Si froyt que tremble,
Et si n’ay tissu ne fillé.
LE SECOND
Sainct Jehan nous sommes bien ensemble,
Ouyche.
LE PREMIER
Qu’as-tu ?
LE SECOND
Si froyt que tremble.
LE PREMIER
Puvre bribeurs, comme il me semble,
Ont bien pour ce jourd'huy vellé.
Ouyche.
LE SECOND
Qu'as-tu?
LE PREMIER
40
ATF, t.II, pp.64-79.
175
Si froyt que tremble,
Et si n’ay tissu ne fillé;
Par ma foy, je suis bien pelé.
LE SECOND
Mais moy!
LE PREMIER
Mais moy encore plus,
Car je suis de fain tout velus,
Et si n'ay forme de monnoye.41
Da qui a metter su l’impresa dei morti di fame il passo è breve: i due decidono di dividere la loro
micragna risolvendosi a spartire le elemosine. Nella scena seguente il primo piomba in una
pasticceria e mentre cerca di domandare la carità alla padrona indisponente orecchia gli imperativi
del marito: l’uomo ha preparato un paté che vuole dividere per il pranzo con gli amici; manderà
pertanto qualcuno a ritirare la preziosa vivanda e la moglie dovrà premurarsi di non consegnarla a chi
non abbia «enseigne certaine», ovvero un gesto chiave, che in questo caso è tirar la donna per il dito.
Inutile raccontare come il nostro coquin scappi subito dal compare, la cui ricerca di risorse non è
stata d’altra parte proficua: siccome il primo è stato riconosciuto, sarà lui a dover recarsi dalla
pasticcera e fare il segno distintivo; il trucco ha successo ed i due poveri furfanti si ingozzano del
paté, mentre il padrone della pasticceria torna a bottega irritato.
I suoi amici non si sono presentati all’appuntamento: la moglie gli domanda se non abbia già
mangiato il pasticcio e questi si mette ad urlare che no, che il pasticcio non lo ha mai neanche
mandato a ritirare. Il padrone manesco inizia così a bastonarla, mentre vediamo in parallelo i due
poveri disgraziati decidere di scroccare ancora qualche leccornia cercando di sfruttare al massimo
l’identico stratagemma.
LE SECOND
Ne parle plus de tel sotie:
Car bien sçay que je n'yray mye.
Aussi j'ay fait mon fait devant;
C'est à toy de faire.
LE PREMIER
Or avant
Je y voy donc; mais garde ma part
De ce remenant.
LE SECOND
Sus la hart,
Sois seur que ce qu'avons promis
Te tenray, enten-tu, amis?
Et à cecy ne touchera nulz
41
Ibidem : pp.64-65.
176
Tant que tu sera revenus,
Je te le prometz par ma foy.
LE PREMIER
T'est trop bon; or bien m'en voy.
Attens moy cy.42
Possiamo supporre che sulle promesse del primo di trovare ancora il resto del paté potevano
esprimersi le capacità comiche degli attori che donavano ambiguità al giuramento ammiccando al
pubblico e motivando il tradimento successivo del primo coquin.
Stavolta è l’altro truffaldino che muove per la bottega; vedendolo il pasticciere sbotta, lo prende per
la gola e vuole che gli si restituisca il maltolto: questi allora riferisce che l’autore del furto è il suo
compare ed anzi si offre di riportarlo lui stesso nel negozio a fargli consegnare la sua razione di botte.
Per far entrare il compare nella bottega dove il padrone lo attende col manganello lo spione gli dice
che la moglie si sente più sicura a consegnare il pasticcio all’uomo di fiducia che l’aveva già ritirato la
prima volta. Il compagno si incammina per la bottega tutto contento e speranzoso ed ecco anche per
lui una pioggia di bastonature.
Un racconto basato sul medesimo modello narrativo ricorre diverse volte anche in Italia. Nel
Novellino di Masuccio Salernitano43 è questione di un avvocato e della di lui moglie, ingannati da
due farabutti romani del rione Trevi. Anche qui su parla dei «signali», ovvero delle indicazioni
attraverso le quali i due truffatori riescono a convincere la moglie di un uomo di legge a cedere una
coppa in argento appena acquistata dal marito.
La storia è simile a quella della tarte, ma gli espedienti un poco più rocamboleschi: il professore di
legge se ne va in giro con i colleghi ed acquista una coppa d’argento che fa spedire a casa da un
garzone. I due farabutti osservano ed uno dei due si presenta poco dopo alla casa del gentiluomo con
una lampreda, che dice essere stata mandata dal marito e poi aggiunge di volere indietro la coppa per
riportarla all’uomo che, pensando d’essere stato ingannato sul prezzo, vuole ripesarla.
A differenza della farsa francese qui la strategia degli ingannatori ha successo: i due non solo riescono
ad avere la coppa, ma mettono a frutto anche il malore dei coniugi per il furto. Con una tempistica
perfetta, proprio mentre il marito dispera per la strada alla ricerca della coppa, i due recuperano
anche la lampreda convincendo la donna che l’uomo la chiede per festeggiare con i compari il
42
43
Ibidem : pp.73-74.
Novellino, p.II, XVII, (A. MAURO, pp.153-157).
177
ritrovamento del prezioso. Nero il finale, in cui Masuccio accenna al veleno che tale inganno sparse
per anni nella coppia.
Nel Trecentonovelle di Franco Sacchetti troviamo uno svolgimento analogo44 sebbene molto più
semplificato e distante dal prototipo del Pasté et de la tarte. La sintesi fornita dallo stesso Sacchetti è
di per sé sufficiente ad evidenziare le differenze: «A messer Ilario Doria, venuto a Firenze
ambasciadore per lo imperadore di Costantinopoli, con una sottile malizia, da uno, mostratosi
famiglio d’uno cittadino di Firenze, è tolta una tazza d’argento di valuta trenta fiorini»; manca,
insomma, “l’espediente dello spionaggio” col quale il truffatore acquisisce le informazioni che gli
serviranno a scambiarsi per qualcuno di fiducia, espediente che per via della sua perfetta realizzabilità
in scena era particolarmente centrale nelle gag della farsa del Pasté.
44
Trecentonovelle, CCXXI, (E. FACCIOLI, 1974).
178
2.2 – Gioie (e noie) del matrimonio.
2.2.1 – Pax familiae.
Se dovessimo individuare la principale fonte di preoccupazione per i protagonisti maschili delle
nostre farse saremmo indecisi fra la fame ed il matrimonio, due forme di sofferenza complementari,
che rendono la vita di tutti i giorni un vero inferno.
Quando si è poveri in canna bisogna fare i conti con la fame e con tutti gli espedienti ed i rischi di
una vita vissuta alla giornata. Ma i prodromi della “pace borghese” sono tutt’altro che sereni: chi ha
le risorse finanziare sufficienti a metter su famiglia ed impresa finisce inevitabilmente col distruggere
l’antico quieto vivere nel succedersi dei jeu de ruse matrimoniali. Il messaggio è univoco: donne e
matrimonio sono fonte di malanni infiniti per l’uomo: anche se è rara la coesistenza della povertà e
dell’unione coniugale in un solo personaggio.
Le farse dedicate alle “noie uxorie” sono talmente numerose che si potrebbe addirittura parlare di un
sottogenere: quello dei «sermons joyeux des maux de mariage», ovviamente legato alle poesie di
grande successo e potere modellizzante delle Quinze joies du mariage, ove nell’elenco dei tristi casi di
vita quotidiana emerge una realtà piccola e meschina in cui l’uomo è costantemente vittima della
donna.
179
Nel Sermon nouveau et fort joyeux, auquel est contenu tous le maulx que l’homme a en mariage,45
leggiamo un manifesto o devise contro il matrimonio: «Matrimonie, matrimonia | Mala producunt
omnia.» Per avere una idea della diffusione del tema basti vedere la raccolta Viollet-le-Duc il primo
tomo della quale è quasi completamente consacrato alla riedizione di farse di questo tipo.
A volte la critica delle donne e del matrimonio prende la forma di un dibattito dove raramente c’è
qualche difensore o campione del gentil sesso: nel Débat du marié et du non marié46 le due posizioni
dello scapolo e del maritato si confrontano e servono a passare in rassegna tutti i luoghi comuni del
matrimonio: dalla paura del tradimento alle spese della casa, alla pace individuale, vi si trova
finanche un accenno alla poligamia.
Nel Débat de l’homme e de la femme47 di Guillaume Alexis abbiamo una lunga rassegna dei pro e dei
contro del bel sesso messi uno di fronte all’altro con una più che significativa chiusura delle strofe in
«bien eureux est qui rien n’y a / malheureux est qui rien n’y a». Gli esempi e le argomentazioni dei
due vengono soprattutto dalle sacre scritture: alla donna si rimprovera il peccato originale; e questa si
difende dicendo che Maria ha generato Gesù Cristo, e così via.
I pro e i contro dell’avere o meno una donna nella propria vita attraversano diversi generi e
composizioni: ciò che è sicuro è che nelle pièce drammatiche si tratta piuttosto di contro che di pro,
in un clima di deliberata sovversione dell’amore in favore d’un velenoso cinismo. Lo spirito critico ed
il gusto comico non perdono alcuna possibilità di suscitare il riso e viene da sé che il tema fosse del
più grande interesse per un pubblico medio-basso. Il topos si aggrega per lo più attorno alla donna
manesca e pedante, il cui rapporto col marito sembra guerra piuttosto che convivenza amorosa.
In Pantagruel, il re Anarque è battuto in guerra e trasformato in venditore di intingoli e marito
sfortunato, il matrimonio si configura anche in Rabelais come una specie di somma punizione.
Deux jours après, Panurge le maria avecques une vieille lanterniere ; et luy mesmes fist les nopces, à belles
testes de mouton, bonnes hastilles à la moustarde, et beaulx tribars aux ailz, dont il envoya cinq sommades à
Pantagruel, lesquelles il mangea toutes, tant il les trouva appetissantes ; et à boire belle piscantine et beau
cormé. Et, pour les faire dancer, loua un aveugle qui leur sonnoit la note avecques sa vielle. Après disner, les
amena au palais et les monstra à Pantagruel, et luy dist, monstrant la mariée : " Elle n'a garde de peter. Pourquoy, dist Pantagruel ? - Pource, dist Panurge, qu'elle est bien entamée. - Quelle parole est ce là ? dist
Pantagruel. - Ne voyez vous, dist Panurge, que les chastaignes qu'on faict cuire au feu, si elles sont entieres,
45
MAUX EN MARIAGE, 1830.
APF, t.IX, pp.148-163.
47
Ibidem : pp.1-10.
46
180
elles petent que c'est raige ; et, pour les engarder de peter, l'on les entame. Aussi ceste nouvelle mariée est
bien entamée par le bas, ainsi elle ne petera poinct. "
Pantagruel leur donna une petite loge, auprès de la basse rue, et un mortier de pierre à piler la saulce. Et
firent en ce poinct leur petit mesnage : et feut aussi gentil cryeur de saulce vert qui feust oncques veu en
Utopie. Mais l'on m'a dict despuis que sa femme le bat comme plastre, et le pauvre sot ne se ause defendre,
tant il est niès.48
Il medico cialtrone Panurgo interviene anche sulle questioni amorose proseguendo la tradizione
comica medievale degli uomini di scienza che a dispetto della risolutezza teorica appoggiata su una
solida auctoritas danno il consiglio sbagliato esibendo per giunta la loro parossistica pedanteria.
Spesso questi inutili sapientoni intervengono nelle questioni di cuore dei personaggi farseschi.
Accade, ad esempio, nella farsa dell’Amoureux (detta anche l’Homme, l’amoureux, la femme, le
medecin)49 – risalente al 1530 – che Roger, uomo dabbene, lascia la casa per un fantomatico viaggio.
Dopo varie schermaglie amorose in cui la donna si mostra devota al coniuge e lo minaccia di lasciarlo
se non resta in casa, l’uomo riesce a partire ed il pubblico può constatare la labilità delle convinzioni
muliebri. La donna riceve in breve un amante, e mentre i due si sbronzano facendo all’amore il
pubblico ascolta il marito lamentarsi di avere dimenticato la sacca a casa: il farceur approfitta della
doppia dimensione spazio-temporale (“doppio orologio”) per generare un’atmosfera di tensione
comica: mentre il marito si avvia a rincasare la donna orina dentro alla bottiglia del vino; rincasato il
marito la chiama a gran voce, segue una scena di disperazione dell’amoroso, salvato dall’astuzia
femminina. Allison (è questo il nome della moglie) finge un malore approfittando anche
dell’emozione dell’amore e dello spavento (il fiato grosso, il polso rapido) per convincere il marito a
portare dal dottore la bottiglia di vino ed urine («Sentez un peu comment il tremble, | Oncques ne
fust en tel mestier.»).50
Assetato, però, sulla strada della bottega del medico, il marito dà una sorsata alla bottiglia e freme di
felicità nello scoprire che la moglie produce vino. Lo stolto uomo si compiace della trovata e si scola
il resto dell’aberrante miscela, poi sostituisce le orine sue con quelle della moglie: il medico analizza il
liquido e dichiara che se è la moglie ad averlo prodotto allora l’uomo può pure ritenersi cornuto.
Come molti personaggi farseschi l’uomo non ha memoria ed invece di associare la diagnosi al suo
comportamento da beone prende il medico sul serio e si convince d’essere stato tradito. La farsa si
conclude con le stolte lamentazioni dell’uomo che preferisce ignorare la realtà purché nessuno sappia
48
Pantagruel, XXXI, (Comment Pantagruel entra en la ville des Amaurotes et comment Panurge maria le roy Anarche et le
feist cryeur de saulce vert).
49
ATF, t.I, pp.212-223).
50
Ibidem : p.219.
181
al di fuori di lui, sottolineando il tema della storiella che già menzionava le chiacchiere di paese in
una battuta precedente («Entrez céans, qu'on ne vous voye; | Car je crains le parler des gens»).51
Le Conseil au nouveau marié52 (del 1547) è una farsa molto semplice strutturata sulle forme del
dialogo giocoso, e per la quale l’autore si ispira in parte al passaggio che abbiamo visto di Rabelais,
non serbandone purtroppo la medesima forza comica.
Il protagonista si presenta al dotto per avere consiglio «de bouche et d’escript» sul modo di evitare le
infelicità coniugali: i suggerimenti vanno dalla giusta (né troppo né poco…) bastonatura della
donna, passano per la tolleranza delle sue malefatte, fino ad arrivare ai rischi del tradimento, da
tenere bene in conto, specie se la donna è molto giovane. In ballo è la tranquillità di una vita senza
débat, ma per questo bisogna pur sacrificarsi alla sofferenza che sempre accompagna il matrimonio:
infine se egli resisterà alle prove della vita di coppia potrà incassare il titolo di martire alla stessa
stregua di San Lorenzo «qu’on fit rostir». Le gioie del matrimonio sono insomma un bel programma
di martirio.
In un’altra pièce intitolata le Pèlerinage de mariage53 – imitata, come ci segnala Emile Picot
nell’introduzione che ne fornisce nella Recueil de sotties, da Claude Mermet con la Farce joyeuse et
recreative du pelerin et de la pelerine, datata 1557 – vediamo il matrimonio racchiuso nell’allegoria del
pellegrinaggio. La struttura è elementare come un débat: dopo qualche strofa introduttiva alcune
pellegrine si avviano alla strada per il matrimonio. Sul percorso fanno conoscenza prima di un
vecchio e poi di un giovane: il primo è deluso del matrimonio, dal quale ha ricavato solo cattive
esperienze, grane, infelicità; il secondo invece ha la baldanza e l’inesperienza della giovinezza: è
pronto ad avviarsi alle nozze ed è certo che domerà la sua donna col giusto polso. La trovata di sicuro
più intelligente (ma non certo originale) del contrasto è la litania burlesca, in cui si prega una
panoplia di santi fittizi perché il matrimonio possa portare felicità e non preoccupazioni e
disperazione.
Sancta Bufecta, reculés de nobis.
Sancta Sadineta, aprochés de nobis.
Sancta Quaqueta, ne parlés de nobis.
Sancta Fachossa, ne faschés point nobis.
Sancta Grondina, ne touchés nobis.
Sancta Fumeta, ne mesprissés nobis.
51
Ibidem : p.215.
Ibidem, t.I, p.1-10.
53
RGS, t.III, pp.269-300.
52
182
Sancta Tempestata, ne tempestés pas nobis.
Sancta Gloriosa, alés loing de nobis.
Sancta Mignardosa, reculés de nobis.
Sancta Bouffecta, aprochés de nobis.
Sancta Jalousia, reculés de nobis.54
E via così, fino ad una funzione religiosa in piena regola, con salmi e comandamenti burleschi (di
genere ma non di fatto), che verranno ripresi nella parte terminale del rifacimento di Claude
Mermet. Rifacimento che ancora una volta pecca di scarsa originalità, ma che ha una costruzione
forse più snella e rapida rispetto al goffo prototipo, del quale costituisce una versione alleggerita sia
dei personaggi che dello svolgimento del dialogo.
La rappresentazione del Pèlerinage du mariage è ben documentata e si tratterebbe del primo
spettacolo a pagamento eseguito a Rouen:55 nel mese di ottobre del 1556 sappiamo che un
commediante noto sotto il nome di Pierre Le Pardonneur noleggiò nella parrocchia di Saint Etienne
des Tonneliers un «tripot» di proprietà di Jean Lasne, (una sala da pallacorda) per la messa in scena
di spettacoli e canti. Sappiamo anche i nomi dei compagni di questo impresario di provincia:
Toussaint Langlois, Nicolas Lecomte, Jacques Langlois, Nicolas Transcart e Robert Hurel, con tre
ignoti bambini cantanti. L’iniziativa di Le Pardonneur destò l’attenzione della giustizia e alla terza
rappresentazione le guardie della municipalità interruppero lo spettacolo in pieno svolgimento: la
compagnia aveva disturbato l’ordine pubblico vagando per le strade nei giorni feriali, armata di
tamburelli a richiamo della folla. Negli atti del parlamento di Rouen non si fa diretta menzione del
titolo pièce che stiamo analizzando ma Emile Picot trae dalla descrizione dello spettacolo la certezza
che la nostra pièce del pellegrinaggio dovesse comunque far parte del “cartellone” della serata.56 Al
divieto di rappresentazione seguì la supplica del gruppo di attori, nella quale si faceva ammenda del
proprio comportamento: la compagnia si sottometteva poi al controllo di qualsiasi funzionario avesse
voluto verificare l’integrità morale dei testi.
54
Ibidem, t.III, pp.301-320 : p.296. La datazione e la bibliografia sulla recita rounnese di questa e la precedente sono
nelle rispettive introduzioni di Picot: entrambe non sono considerate farse da Halina LEWICKA (1974) che non le include
nella sua tavola cronologica.
55
É. H. GOSSELIN, 1868.
56
« On remarquera que les sots font leur procession [...] autour du jeu de paume dont nous venons de parler; cette
indication, rapprochée des allusions normandes que contient l'Oremus final tranche la question d'une manière aussi
certaine que possible.
Les documents relatifs à la troupe de Pierre Le Pardonneur ont été découverts par E. Gosselin aux archives du Palais de
Justice de Rouen. » RGS, t.III : p.271.
183
Sappiamo che a distanza di due anni sempre Pierre Le Pardonneur dovette nuovamente organizzare
spettacoli per un pubblico pagante a Rouen. Con lui tre nuovi attori: Nicolas Michel (Martainville),
Nicolas Roquevent (Le Boursier) e Jacques Caillart, ma la troupe fu stavolta meno fortunata ed in
aria di Riforma il parlamento, timoroso di disordini pubblici, preferì impedire ogni pubblica
rappresentazione.
A volte il tema del matrimonio sconfina in quello dell’amore, ma bisogna ammettere che si tratta di
casi piuttosto rari, essendo preoccupati gli autori più che alla felicità sentimentale dei loro eroi, della
sicurezza economica, del sesso e della vita familiare; ciò si collega al bagaglio culturale dei ceti
destinatari delle composizioni, che avevano già a disposizione un’abbondante trattatistica sulla vita
pratica: una cultura in cui la casa è una bottega da mandare avanti come una specie di attività
commerciale, con giudizio, criterio ed occhio alle economie.
Accade che l’amore entri in contatto con i consigli per il matrimonio nel Débat du jeune et du vieulx
amoureux,57 in cui analogamente al Pèlerinage si vede il vecchio disfatto ed infelice, deluso dalla vita e
dalle donne, subire le repliche entusiastiche del giovane amoroso: il modello rimane quello delle due
farse che abbiamo appena incrociato e nessun guizzo di originalità attraversa la pièce, le cui
argomentazioni, benché ispirate con ogni evidenza alla lamentazione ed al débat, non hanno forza,
limitandosi a ripetere i soliti luoghi comuni della donna madre di tutte le sofferenze maschili o della
donna nutrice, che cresce l’umanità tutta e ne allieta il percorso.
Il consiglio per il matrimonio si riallaccia alla precettistica per la buona condotta della famiglia che
nella farsa dei Batârds de Caulx (datata dalla metà del XV secolo fino al regno di Luigi XII) si
generalizza ed è finalizzata a dare un consiglio morale per la buona condotta dei figli dopo la morte
del capofamiglia: Henry ha appena ereditato tutti i beni del padre, secondo il diritto di
primogenitura che lo fa prevalere su tutti gli altri. Inizialmente i fratelli accolgono di buon grado
l’autorità del maggiore, ma nel momento in cui si domandano come verranno ripartiti i beni del
padre hanno una cocente delusione. Al più grande dei suoi fratelli il maggiore dona un’attività di
Faiseur d’allumettes, fornendogli tutti i bastoncini e lo zolfo necessario. Alla sorella, in età di
matrimonio, Henry lascia una dote ridicolosa.
Je luy donray troys cens de noys,
Et demy boyseau de mes poys ;
Et des ongnons plain une carte ;
57
Rec. LEROUX, t.I, n° 7 (compare sotto il titolo le Viel Amoureux et le jeune Amoureux).
184
Douzaine & demy de tarte,
Tous les sieus de nos rousins,
Et une couvee de pouleins.
Ausy nostre vache verete,
Un colleur, une cazerette,
Un mortier & un pillon,
Un creucher, un chaperon ;
Une bource, deulx devanteaulx,
Une saincture et deulx cousteaulx.
[…] Deulx chemises a larges poinctes
Ou tu bouteras tous le coups
Deulx culs avec quatre genoulx,
Apres que sera maryee.58
Al minore, infine, che vive a Parigi come escollier, il fratello lascia intendere di voler far fare il
pastore, ed anzi manifesta contro di lui una feroce invidia, sfoderando due indovinelli per metterlo in
ridicolo e fare sfoggio delle sue dozzinali nozioni culturali.
HENRY
Ego abebo plus congnu.
Mais i’ey oublie mon Donnest;
Or me dictes quel beste c’est
Qui a la queue entre deulx yeulx ?
L’ESCOLLIER
Ie ne scay
HENRY
[…] C’est un chat qui lesque son cul ;
Sui ie clerc ? le voys tu bien !
Par ma foy vous ne saues rien.59
A questo punto lo scolaro, edotto in legge, domanda di esibire il testamento paterno: il lascito che
Henry legge ad alta voce è più ridicolo della dote e lascia tutti attoniti, ma – ci dice la madre – il
diritto di primogenitura è incontestabile e dipenderà dalla bontà del maggiore voler rendere la vita
più agiata a lei ed ai figli.
LA MERE
Mes enfans, c’est le coustumyer
Qui est faict passe trois cens ans,
Pour et afin que les plus grans
Vivent ensemble sans discors.
LA FILLE
Il avoyt bien le deable au corps
Qui ceste loy institua.
58
59
Ibidem, t.III, n° 47 : pp.9-10.
Ibidem : p.13.
185
A l’un tout le bien il donna,
Et les aultres n’ont rien tretous.60
La farsa è chiaramente rivolta ad un pubblico borghese e punta ad insegnare una regola di vita buona
certamente per i commercianti e la classe media: «Des biens mondains a vos enfans, | Faictes leur
pars en vos vivans, | Pour eviter entre eulx la guerre».61
2.2.2 – Misoginia, appagamento erotico, mal marié(e).
La misoginia, lo si sarà capito, è uno dei temi di maggior successo della farsa e si basa spesso sul cliché
dell’insaziabilità della donna dal punto di vista sessuale come da quello economico: in Boccaccio è
sintetizzato dall’irresistibile parallelo di Masetto, che «rotto lo scilinguagnolo» dice alla badessa:
«Madonna, io ho inteso che un gallo basta assai bene a diece galline, ma che diece uomini posson
male o con fatica una femina sodisfare, dove a me ne convien servir nove […]».62
La donna è una dispersione di energia per uomini già deboli e per lo più tordi e maneschi; nella
maggior parte dei casi le donne cercano altro al di fuori del matrimonio, sono adulterine e prepotenti
ed accusano apertamente i mariti di impotenza, beffandosi di loro.
A questo filone misogino appartengono diversi fabliau molto noti da cui vengono poi molti intrecci
farseschi. Fra questi menzioniamo la Dame qui aveine demandoit pour Morel sa provende avoir;63 la
Demoisele qui ne pooit oïr parler de foutre;64 le Valet aux douze fames (sic).65
La Demoisele qui ne pooit oïr parler de foutre è con ogni evidenza una filastrocca a sfondo sessuale, in
cui una dama non può sentire parlare di fare l’amore che subito sviene. Ci penserà un nobile e
giovane valentuomo a toglierla d’impaccio, sposandola ed esplorando il suo corpo con malizia,
benché al momento dell’atto sessuale la donna lasci intendere a sorpresa di non essere propriamente
una novizia dell’argomento.
60
Ibidem : p.7.
Ibidem : p.16.
62
Decameron, III, 1 : 37.
63
Rec. BARBAZAN, t.IV, pp.276-286.
64
Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.III : p.81.
65
Rec. BARBAZAN, t.III, pp.148-153.
61
186
Nonostante il tema piccante sia riconducibile ai tradizionali doppi sensi delle canzoni popolari, la
forma di questa composizione è assai piacevole ed il procedimento narrativo ha una certa ingenua
limpidezza che rifugge il volgare più empio giocando su allitterazioni e dialettismi.
In Poggio Bracciolini casi simili a sfondo arguto ed erotico sono – come è noto – innumerevoli: in
particolare vengono qui alla mente due facezie, De Guilhelmo qui habebat priapeam suppellectilem
formosam e Vir qui mulieri dum aegrota esset veniam postulavit.66 Lo stesso tema del Guglielmo di
Poggio torna nelle Cent nouvelles nouvelles67 dove il timore di una fanciulla per la «lance droicte
comme ung cornet de vachier»68 del suo compagno causa le ire della madre, che arriva a portare la
coppia in tribunale: i due giovani sposi dovranno eseguire la sentenza che li obbliga all’unione
carnale direttamente a casa del giudice e a quanto sembra sotto gli occhi di tutti.
Di solito comunque si verifica il contrario: nella maggior parte dei luoghi il sogno delle donne è un
marito ben prestante ed in grado di soddisfarle; in assenza di questi requisiti maschili la donna rischia
anche di ammalarsi. Frère Philibert nella farsa che porta il suo nome, scritta durante il regno di
Francesco I, ribadisce con spirito medico o presunto tale queste convinzioni maschili: Perret Povre
Garce è giovane ma malata ed il frate – straordinario guaritore, stando alla reputazione in paese – la
visita, ne analizza le urine e snocciola l’amara sentenza: a suo avviso il problema della giovane sono le
pene d’amore. Ed ecco la diagnosi, epigrafica: «Qu’elle converse | Avec le genre masculin». La visita
di Philibert include anche una ricetta per guarire la giovane, ed è ricetta che fa professione di
misogina.
FRERE FILLEBERT
[…]
Prenne le galant par le corps,
Qu’il sache gaser comme un gay,
Et bien faire faire l’arigoy
Iusques a tant qu’elle soyt ravie
[…]
Puys pour accomplir ma recepte,
Prenne le galant, ie l’acepte,
Et qu’il face bien ouyste, ouyste
En remuant le cul bien vite ;
Mais gardes bien qu’il ne soyt hongre.69
66
Facetiae: rispettivamente la LXII (De Guilhelmo qui habebat priapeam suppellectilem formosam) e la XLII (Vir qui
mulieri dum aegrota esset veniam postulavit).
67
les Cent nouvelles nouvelles, LXXXVI, (la Terreur panique, ou l'official juge, T. WRIGHT, t.II, pp.167-172).
68
Ibidem, (p.169).
69
ATF, t.IV, n°3 : p.14.
187
Qui la schematicità e la rozzezza dell’intreccio, dovevano essere pretesti per l’esecuzione di lazzi e
canti. Specie la “gag” del peto: ogni volta che la giovane e delicata fanciulla dichiara di aver male al
cuore, il medico reagisce come se la giovane sia vittima d’un orrendo meteorismo, scatenando le
ovvie reazioni comiche grivois.
FRERE FILLEBERT
Gare le pet!
LA VOYSINE
En efect, il y faut pourvoir.
PERRETE
Han, Dieu ! le coeur.
FRERE FILLEBERT
Helas! Le cul.70
La famelicità della donna nella maggior parte dei casi è ragione della sua infelicità oltre che di quella
del marito: essa è quasi sempre «mal mariée», come nel caso di Raoullet Ployart71 di Pierre Gringore
(del 1512 e parte del Jeu du prince des sotz et Mère Sotte),72 dove l’avvenente Doublette ha avuto la
cattiva ispirazione – per interesse, dobbiamo supporre – di sposare un marito troppo vecchio ed
incapace di soddisfare i suoi pruriti amorosi.
La farsa di Raoullet è un vero capolavoro del genere e non è difficile scorgervi la maestria di
Gringore, che concepisce uno sviluppo adeguatamente bilanciato per la scena: brevità dell’azione,
essenzialità del malinteso, uso funzionale delle figure allegoriche ed un’agevolezza dei dialoghi che,
ancora una volta, avvicinano il nostro Mère Sotte allo stile della commedia molièrana.
L’intreccio si apre con un dialogo vivace in cui il marito Raoullet corteggia la moglie Doublette. Il
valletto ascolta e segue lo scambio di battute della coppia ed in un a-parte ci dice che la donna sta
probabilmente preparando un colpo mancino al marito. Che il passo sia concepito per il catafalco è
ben evidente nelle entrate e nelle note di scena implicite nel dialogo, in cui il drammaturgo segnala
movimenti e situazioni performative e fa ampio ricorso all’appello diretto al pubblico.
RAOULLET PLOYART (MARY)
Mon tendron, ma gorge frazée
Mon petit teton, ma rosée,
70
Ibidem : p.9.
GRINGORE, t.I, pp.270-286.
72
Ricordiamo che nelle prime due edizioni la pièce compariva accorpata ad altre tre composizioni poetiche di Pierre
Gringore che assieme formavano il Jeu du Prince des Sotz et Mère Sotte, “locandina” comprendente un cry, una sottie, una
moralità ed una farsa. A.HINDLEY, 2000.
188
71
Ma petite trongne, approchez.
DOUBLETTE (LA FEMME)
Laissez m’en paix, vous me fachez.
RAOULLET
Quant je vous voy, je suis tant aise!
Belle dame, que je vous baise
Ung tantinet, le vous en prie.
MAUSECRET (VARLET)
Elle fait de la rencherie
Pour ce que mon maistre est jà vieulx,
Par Dieu! je voy bien à ses yeulx,
Qu’el luy fera quelque finesse.
DOUBLETTE
Mausecret!
MAUSECRET
Qu’esse, ma maistresse ?73
E viene il gioco di comico verbale che intesse tutta la pièce: l’espressione «labourer la vigne» metafora
non velata per parlare dei rapporti carnali che la moglie vorrebbe avere e che il marito non è capace
di dare «par le deffault de bons ustils», come spiega burlescamente Mausecret, appena dopo aver
insinuato: «si est il conclus | qu'il y fault besongner, mon maistre, | Ou ma maistresse y fera mettre |
D’autres ouvriers.»74
Mausecret è l’elemento di maggiore innovazione della pièce il cui spirito comico dipende in larga
parte dalle uscite del valletto, la cui funzione narrativa si stempera nel rimando continuo della
battuta licenziosa e nelle uscite maliziose.
DOUBLETTE
Permettez que vostre apprentis Y besongne.
MAUSECRET
Je feroye raige.
RAOULLET
Qu'il besongnast à mon ouvraige!
Jamais je ne l'endureroye.
MAUSECRET
A ! par Dieu ! je y besongneroye
Mieulx que vous.
DOUBLETTE
Quant la terre est seiche,
Et on n'a point de bonne besche,
On ne la fait que esgratiner.
MAUSECRET
Qui me laisseroit prouvigner
En la vigne de ma maistresse,
La terre seroit bien espesse
73
74
Ibidem : p.270.
Ibidem.
189
Se ma besche ne alloit au fons.75
La pièce rimane priva di una azione ed è piuttosto un débat scherzoso. L’influenza del genere
nell’economia della composizione è ben dimostrata dall’introduzione di due personaggi allegorici,
Faire e Dire: ci pare inutile precisare che fra i due sarà Faire ad ottenere le attenzioni della donna,
offrendo certamente agli attori l’occasione per i lazzi triviali, dal momento che il testo non rinuncia a
mettere in scena Faire che lavora la vigna di Doublette con un certo ardore.
Le azioni di Mausecret hanno lo stesso tasso di insensatezza di quelle d’Arlecchino: il servo riferisce al
padrone dell’adulterio in appena due battute, benché durante tutta la messa in scena abbia
parteggiato per le ragioni della moglie astinente.
Altro punto di contatto col débat è l’appello al prince de sotz, pretesto per il cambiamento di registro
ad emulazione dei processi giudiziari (e giuntura trasversale agli altri elementi del varietà
drammatico, in cui parimenti compare questo personaggio). Nella scena finale si vedono i tre
personaggi a testimoniare di fronte al giudice con il quale Raoullet si lamenta di aver trovato la vigna
di sua moglie lavorata da un altro. Il processo giocoso si conclude in poche battute, in cui il l’uomo
di legge si sincera della debolezza del marito e lo esorta ad eseguire i suoi doveri matrimoniali. Le due
figure allegoriche a questo punto hanno preparato il motto misogino della conclusione: «les femmes,
sans contredire, | Ayment trop mieulx Faire que Dire».
La Farce joyeuse et recreative d'une femme qui demande les arrerages a son mary, (o le Mary, la dame, la
chambriere, le sergent et le voysin),76 esiste in due edizioni differenti piuttosto discordanti nello
svolgimento e nel testo, entrambe senza luogo né data di pubblicazione.
Qui il linguaggio giuridico è assai più preponderante che nella pièce omologa di Pierre Gringore che
abbiamo appena affrontato: ma qui aggrava il già misero e sconnesso svolgimento (forse da imputare
alla dispersione di parte del testo) che non mostra alcuna attenzione per il linguaggio scenico.
Frammentario è anche il ricordo della metafora con cui si allude al rapporto carnale: nei dialoghi
iniziali il problema dell’insoddisfazione sessuale è esplicito e la serva propone alla sua padrona la
promiscuità con un suo vecchio maistre, prodigio sessuale capace di soddisfarla senza nel contempo
trascurare la moglie e la donna di servizio. Ma poi al centro della narrazione l’autore accenna al
pagamento di un debito (evidentemente d’amore) che introduce il linguaggio giuridico e le
disquisizioni in legge del Vicino e del Sergente.
75
76
Ibidem, : pp.271-272.
Rec. BRUNET, t.I, pp.97-117.
190
La prima edizione della farsa (che si distingue dalla seconda per il plurale)77 sviluppa il tema in
maniera ben più volgare ed oscena e con una ancor più ostentata conoscenza del macchinoso lessico
giuridico. Fra i diversi esempi di espressioni da tribunale troviamo qui: «gage plege (plege gage)», che
sta per «arrehs», caparra; «estre mis à l’acul» per ordinare, imporre; «obliger par nisi» ovvero obbligare
«sous certaines peines».78
Molti passi sono in comune con la “versione al singolare”, ma nel complesso la lunghezza di questa
composizione è maggiore e vi si sviluppa con più sagacia il processo di fronte all’ufficiale giudiziario,
in cui esce con accresciuta evidenza una finalità morale riassumibile nel proverbio «fra moglie e
marito non mettere il dito»: intervenire negli affari delle altre coppie non ha senso e porta ad irritarsi
inutilmente ed infatti la cameriera e l’amico del marito continueranno a discutere fra di loro anche
dopo la riappacificazione della coppia.
Gli stessi argomenti dell’insoddisfazione sessuale ritornano tutti nella Farce du nouveau marié qui ne
peult fournir à l’appoinctement de sa femme, del 1455; ivi la donna si lamenta con i suoi genitori delle
delusioni che deve sopportare nel suo matrimonio. È un esempio atipico di donna mal mariée:
nessuna mancanza da parte del marito, che nel primo mese di unione non l’ha picchiata, né ha
giocato d’azzardo o frequentato amanti, come ipotizzano all’inizio i genitori.
Il problema nella coppia è l’unione amorosa, cui il giovane uomo si sottrae con ogni scusa.
Aussitost que fusmes couvers;
Il se couchoit droit à l'envers;
Or estoye en grant esmoy;
Je l'embrassay parmi les rains,
Et assis d'une de mes mains,
Et aussitost que luy euz mise,
(Il) l'envelopa de sa chemise,
Et se tourna au coing du lit.79
Il padre è quello che maggiormente capisce le difficoltà del giovane marito, ma la madre interviene
prepotentemente perché vada a rendere conto della sua incapacità sessuale davanti ad un giudice. Lo
svolgimento sembra il medesimo che abbiamo visto negli Arrerages, ma qui sarà il suocero a salvare la
vittima dell’insaziabilità femminile accettando le altrimenti insufficienti ragioni dello sposo che si
limita a promettere il cambiamento.
77
ATF, t.I, pp.111-127.
A differenza della sorella, su questa pièce sono stati effettuati tentativi di datazione alla fine del XV secolo.
78
Troviamo tali note linguistiche nel glossario fornito da N. Viollet-Le-Duc (Ibidem, t.X : pp.371).
79
Ibidem, t.I, pp.11-20 : pp.14-15.
191
Di nuovo si tratta di un débat, la cui qualità compositiva, benché non vi siano lacune come nel testo
des Arrerages, è assai trascurata e dove l’intreccio è pressoché inesistente e senza alcuna cognizione
dell’economia della meccanica scenica.
Ciò che emerge, al solito, è la lascivia della donna, unico motore sessuale della coppia.
In conseguenza della costante insoddisfazione muliebre alcuni mariti tentano qualsiasi mezzo per
ringiovanire: è il caso del villano della farsa Arcelin (pubblicata inedita da Emile Picot),80 che si mette
in strada per trovare la fontana di giovinezza.
La sua donna gli ha chiaramente fatto sapere che di lui non vuol più saperne.
Mais advisez le beau maintien,
(Et) quel faulx villain engroignés !
Par Dieu ! il est plus refroignés
Que n’est ung cinge de trante ans.
Et, par Dieu ! Je pers bien mon temps
Avec ung villain malheureux.81
Il villano ha naturalmente non poche difficoltà a trovare la sorgente leggendaria. Incontra finalmente
un pittore che gli propone di ringiovanire usando le sue straordinarie doti artistiche.
Se vous en voullés rien despendre,
Je vous feray, sans plus attendre,
Venir en l’eage de trante ans.82
Il pittore gli scarabocchia il viso, gli spilla qualche quattrino e lo rimanda dalla sua donna, dalla quale
egli riceve tutt’altro che le cure amorose che si attendeva :
Ha ! villain, allez vous laver !
Que le grant diable vous emporte !
A peu que je n’ay esté morte
De peur que m’aves fait avoir.83
80
E. PICOT, 1900.
Ibidem : p.7.
82
Ibidem : p.11.
83
Ibidem : p.14.
81
192
2.2.3 – Professioni erotiche e mariti ciechi.
Un cospicuo gruppo di farse usa la traccia allegorica del mestiere per parlare dell’atto sessuale,
ripercorrendo la leggenda (ancor viva nel nostro presente) dell’operaio a domicilio come attrazione
sessuale irresistibile per le donne di casa. La tradizione di questi canti di mestiere è diffusa ovunque
in Europa, e si esprime in Italia (e particolarmente in Firenze) con i canti carnascialeschi.
Nella Canzona de’ lanzi stagnatai di Giovan Battista dell’Ottonaio, il richiamo dei saldatori e
riparatori di vettovaglie è diretto alle donne con l’ovvio parallelo sessuale a corollario.
Se foler l'arte imparare,
sotto a lanzi feni a stare,
perché preste t’insegnare
suo mestier tutte a un tratte;
ché quel cose così fatte
ti soler tutte placere.
[…]
Quando lanzi fonder fuole
cazze stagne in coreggiuole,
frughe drente col mazzuole
per gittar tutte a un tratte:
ché quei cose così fatte
ti soler tutte placere.
[…]
Quando queste farfanicchie
sue lafor torce e ranicchie,
con martel percuote e picchie
per ridurle a buon ritratte:
ché quel cose così fatte
ti soler tutte placere.84
les Femmes qui font escurer leurs chaulderons,85 composta fra il 1510 ed il 1520, è una della
composizioni poetiche più note dell’altrettanto fertile sottogenere farsesco: parimenti che
nell’Ottonaio qui la riparazione delle marmitte è metafora non troppo sottile dell’atto sessuale e della
supposta disposizione femminile alla promiscuità.
LA PREMIERE
Mon chaulderon fait de l’eau
Auprès du cul, quand il est chault;
Et pour cause, maignen, il fault
Que y mettez une bonne pièce,
Affin que plus ne se depièce,
84
85
Giovan Battista dell’Ottonaio, Canzona de’ lanzi stagnatai (C. S. SINGLETON, 1940).
ATF, t.II, pp.90-104.
193
Et que bien me soit esclarcy.
[...]
LE MAIGNEN
Voyez cestuy, il a tappé.
Est-il rivé de bonne sorte ?
Qu’en dictes-vous ?
LA PREMIERE
Le Dieu m'emporte,
Vous estes ouvrier parfait.
Un maistre, on le congnoist parfait
A son ouvrage.
LA SECONDE
Nous buron,
Frappez fort sur le chaulderon;
Vous frappez dessus si en paix!
Il a le cul assez espaix
Pour endurer la refaçon.
LA PREMIERE
C'est un chaulderon de façon
Que le mien, et est assez fort ,
Mais qu'on ne lui fasse point tort,
Quasi pour servir deux mesnages.
[...]
LE MAIGNEN
Regardez-moy comme je sues;
À vous servir je prens grand peine.
J'en suis quasi tout hors d'alaine.86
Più che ostentare una misoginia maschilista la farsa è diretta ai mariti che trascurano le loro mogli,
esemplare in questo senso la conclusione, in cui le Maignen,87 dopo aver soddisfatto le passioni di
due donne, subisce il ricatto di uno scandalo se non tornerà ogni giorno a fare il suo mestiere.
Il modello della farsa dello Chaulderonnier è con ogni probabilità quello di un fabliau il cui titolo
non ci riserva dall’apprendere subito il tema sconcio ed esplicito, è la storia del Maignen qui foti la
dame88 scena rapida di sesso ancora una volta fra un artigiano del ferro ed una servitrice.
E di magnani si tratta anche nei canti di Antonfrancesco Grazzini, che si aggancia alla facile metafora
della chiave e della toppa per parlare ancora una volta dell’erotismo degli umili.
E bella e nuova e util masserizia
sempre con noi portiàno,
d’ogni cosa dovizia,
e chi volesse il può toccar con mano;
ma sopratutto abbiàno
d'ogni sorte recato a paragone
86
Ibidem : pp.96-99.
Il maignen è uno chaulderonnier (riparatore e costruttore di utensili domestici) che lavora a domicilio, un “magnano”.
88
Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.V : p.179.
194
87
chiavi di tutta prova, sode e buone.89
Nell’immaginario farsesco e popolare i vari operai a domicilio si trovano quasi sempre alle prese con
mogli maliziose ed insoddisfatte ed è compito loro arrivare dove i mariti non possono. Il gioco
linguistico è offerto dalle azioni dei mestieri, su cui si incatenano fraintendimenti e doppi sensi: Noël
Du Fail, offre un elenco completo di questa sorta di sociologia erotica: «Le musnier le fait par où
l’eau saut; le peletier, par où la peau faut; le boulanger, sur le sac au bran; le boucher, sur le baquet
aux tripes; le laboureur, en la raie; le maçon, sur le fondement; le charpentier, en la mortaise; le
mareschal, sur le soufflet; et puys, dites que je n’y entends rien.»90
Anatole de Montaiglon sottolinea come sia quasi impossibile, per via della loro abbondanza, indicare
tutti i manoscritti dove si ritrovano simili enumerazioni, ciononostante ci fornisce uno specimen
dedicato alle “complexions des femmes”.
S’ensuivent le IX manières de conditions des femmes:
La hardie est celle qui attendroit bien deux hommes à un trou.
La praude femme est celle qui a les paulmes velues.
La couarde est celle qui met la queue entre les jambes.
La bonne chrestienne est celle qui n’ose coucher sans prestre.
La honteuse est celle qui cuevre ses yeulx de ses genoulx.
La paoureuse est celle qui ne ouse coucher sans homme.
La despiteuse, c’est celle que, quand on luy baille un coup, elle ene baille deux.
La presseuse est celle qui le lairroit pourir dedans avant qu’elle l’en ostat.
La débonnaire est celle que, quand on luy haulce une jambe, elle haulce l’autre.91
L’esempio più noto in assoluto è quello dei vari ramoneur de cheminées, spazzacamini la cui abilità è
giustamente quella di «ramoner la cheminée hault et bas» o «spazzar dentro e di fòra». Le avventure
degli spazzacamini e delle loro amanti hanno un notevole successo in tutto il medioevo francese
probabilmente a causa del facile parallelo erotico con i gesti ed il lessico della professione. Per gli
spazzacamini italiani pulire le canne fumarie «[…] è gentil arte, | l’altre non son covel: | ch’è
calzolaro o sarte? | le son tutte frittel; | mille belle zitel | ci fan spazzar camin. | Camin che non si
spazza | presto s’appiza il foco; | non è cosa dispiaza | quando è in cucina il coco; | è necessario gioco |
nostro spazzar camin.»92
89
Antonfrancesco Grazzini, Canto dei magnani, (C. S. SINGLETON, 1936).
Noël Du Fail, Les Baliverneries d’Eutrapel, (G. MILIN, 1970)
91
APF, t.V, pp.118-119.
92
Con la precedente: Anonimo, Canzona degli spazzacamini, C. S. SINGLETON, 1936.
90
195
Come per il Maignen il Ramoneur del sermon joyeux93 è tutt’altro che contento della sua professione
(come invece il pubblico maschile doveva arguire) e confessa che, nonostante gli sforzi, non sempre
riesce ad accontentare tutte le donne che gli chiedono di “esercitare” la sua professione.
Nella farsa a quattro personaggi94 del Ramoneur – sulla cui datazione si oscilla fra il 1508 ed il 1520
– lo spazzacamino è in questo caso vecchio e viene messo alla berlina dalle donne del villaggio e dal
suo apprendista. Probabilmente il testo fu concepito per la scena sia per via della sua larga diffusione
popolare che per la presenza di alcuni versi riferiti ad una corte approdata nella città con relativo
seguito, ciò che ci autorizza ad ipotizzare la composizione in occasione di una visita di notabili o di
una entrata reale.
Puis que la court est en la ville,
Par ma foy, ilz sont plus de mille,
Tous nouveaulx et jeunes housseurs.95
La comicità di questa opera è compromessa dai numerosi passaggi oscuri, dalla ripresa di antichi
proverbi e da un incerto sviluppo dei rapporti fra i personaggi. Specie nei dialoghi fra il valletto e lo
spazzacamino è difficile riuscire a decifrare il rapporto fra i due: tutta la composizione sembra essere
un pretesto per la semplice esibizione della metafora professionale ed ha le sembianze di una
collezione di espressioni e gerghi propri del mestiere, segnalati anche in un incipit articolato sui cry,
gli urli di richiamo della clientela («Ramonnez vos cheminées, | Jeunes femmes, ramonnez»),96 cui
appunto si deve un importante contributo per lo sviluppo del genere comico tout court in Francia.
Il grido dei due introduce la contesa fra il maestro e l’allievo e richiama una potenziale cliente. Il
paradosso della professione dello spazzacamino è alla base della disputa fra i due: a differenza delle
altre maestranze il migliore ramoneur non è il vecchio esperto, ma il giovane, in ragione di una
maggiore agilità e di un corpo più esile; al valore dell’esperienza si contrappone quello del vigore
giovanile, con ovvie “ripercussioni metaforiche”.
LE VARLET
Les jeunes ne sont point [plus] seurs
Que les vieulx, vous le sçavez bien.
[…]
93
APF, t.I, pp.235-240.
ATF, t.II, pp.189-206.
95
Ibidem : p.193.
96
Ibidem : p.189.
94
196
LE RAMONNEUR
C'est que les aprentis
Tousjours les meilleurs maistres sont.97
La disputa fra forza giovanile e l’esperienza senile riesce talvolta ad accumulare un’interessante carica
grottesca, con esiti comici non trascurabili.
LA FEMME
Il ne ramonne plus
Non plus qu'un enfant nouveau né.
LE RAMONNEUR
Ramonner! c'est bien ramonné;
Il n'est homme qui ne s'en lasse
De ramonner par tant d'espace
Que j'ai faict, ne par tant d'ans.
Il y a plus de soyzante ans
Que le mestier je commençay.
LA VOYSINE
Vous n'en pouvez plus.
LE RAMONNEUR
Je ne sçay
Ma femme me le dit ainsi.98
Sempre con ardore giovanile operano sfregano e lucidano anche i riparatori di pentole di Michele da
Prato, che invitano ovviamente tutte le donne ad avvalersi dei loro abili servigi. L’area semantica
delle stoviglie e le professioni ad esse legate sembra davvero prvalere su tutte le altre.
Donne, noi siam venuti
a bella posta qui per lavorare,
forniti e provveduti
di quel che nel mestier s’usa adoprare;
e la bottega qui vogliam rizzare,
avendo cose rotte:
lavorrem per voi tutta la notte.
Con questa colatura
di piombo e pece sempre ci serviamo;
quando il fesso si tura,
intorno a quello molto stropicciamo,
e tanto in su e ‘n giù sempre meniamo
che ‘n breve si compisce
l’arte che salda, tura e ripulisce.99
97
Ibidem : pp.193-194.
Ibidem : pp.204-205.
99
Michele da Prato, Canzona d’acconciatori di catini, secchioni, padelle e paiuoli, C. S. SINGLETON, 1936.
98
197
In questo marasma di voglie insoddisfatte i mariti gettano spesso la spugna e purché sia preservata la
pace fra le mura domestiche chiudono anche tutti e due gli occhi sui tradimenti delle mogli. La Farce
des deux hommes et leurs deux femmes, dont l’une a malle teste et l’autre est tendre de cul, composta a
cavallo fra XV e XVI secolo, rispetta questo modello.
Colin e Mathieu scambiano le proprie opinioni sul matrimonio: il primo ha una donna virtuosa ma
irritabile e tiranna; il secondo invece ha trovato in Jeanne la soddisfazione sessuale e la completa
devozione fra le mura domestiche, ciononostante deve adeguarsi al fatto di non essere il solo a
beneficiare delle attenzioni della donna: egli non si preoccupa della condotta della moglie purché la
pace regni sovrana nella casa e purché lui stesso possa godere del matrimonio e delle prelibatezze e
degli agi finanziati dagli amanti di lei.100 La teoria filosofica del personaggio è facilmente riassumibile
in una battuta.
Que dyable ay-je affaire
De chercher ce qui m’est contraire
Et ce que ne vouldroys (point) trouver ? 101
Meglio quindi fidarsi sempre a metà ed accontentarsi anche delle mezze verità : il banchetto che
Jeanne offre al marito ha una provenienza sospetta, ma che problema c’é ? Purché si mangi in pace e
compagnia, Mathieu accetta tutte le ciance della moglie infedele che sostiene di aver pagato in «beau
contant» (senza specificare di chi) le ricche prelibatezze alla tavola, il vino e tutto il resto.
Nel “dibattito filosofico” sul come trattare una donna i due uomini toccano molti dei punti propri
delle idee farsesche a questo proposito ed ecco venire al pettine i diversi atteggiamenti rispetto
all’essenza complicata ed imprendibile della donna. Apprendiamo allora che l’insoddisfatto picchia
troppo frequentemente la sua amata, quando invece fa parte della strategia del quieto vivere del
cornuto evitare di battere la moglie.
È il solito igiene matrimoniale proveniente dalla precettistica e da una cultura che a tratti sfodera
anche conoscenze mediche opinabili e “ridicolose”; la bella farsa di cui ci occupiamo non trascura
così neanche l’aspetto medicale del cattivo umore della donna, in un dialogo filosofico su toni
giocosi assai vivace di cui vale la pena riportare i passi salienti.
100
Detto en passant il canovaccio viaggia nello spazio e nel tempo: un marito remissivo ed orbo al tradimento muliebre
(non si capisce se per idiozia o per approfittare dei vantaggi pecuniari) è l’Eduardo De Filippo di Questi fantasmi.
101
ATF, t.I, p.145-178 : p.149.
198
LE SECOND
Il luy fault prendre ung [bon] clystère
Pour luy alleger le cerveau.
LE PREMIER
De vray ?
LE SECOND
Pour la bien faire taire,
Il luy fault prendre ung bon clystère.
[…]
Il n’est rien si beau.
[…] Pour la chaleur et la tempeste
Et la maulvaistié de sa teste,
S’el(le) prent medicine par bas,
Jamais tu n’auras nulz debas.
Il fault que la bas soit ouvert,
Aultrement la teste se pert ;
Car, voys-tu, la chaleur qu’elle a
S’esvacuera par ce lieu-là
Incontinent et sans arrest.
LE PREMIER
[…]
Et de la tienne, Dieu mercy,
Que tu dis qui a [le] cul tendre,
Que feras-tu ?
LE SECOND
Il lui fault prendre
Ung restraintif […]
LE PREMIER
[…] vous n’y sçavez rien.
Tu dis que le hault se pert
Se le bas n’est toujours ouvert,
Et puis tu dis qu’il luy fault prendre
Ung restrainctif ; tu doys entendre
Que la fumée retournera
Au cerveau, qui la te fera
Incessamment [crier et] braire.
[…]
Ergo, tu conclus qu’il n’est femme
Qui n’ayt mal cul ou malle teste.
LE SECOND
[…]
Icy nous disons qu’il n’est femme
Qui ne crie, tempeste ou blasme,
Ou à quelcun le bas ne preste.102
L’idiozia dei due si combina in tratti formali convincenti in cui compaiono le note di scena e dove si
distingue una certa attenzione per la solidità della narrazione; e l’effetto è a tratti irresistibile.
Dopo questo lungo dialogo nel quale i protagonisti hanno espresso le personali convinzioni ed
esperienze sui rapporti di coppia li vediamo stabilire di andare a cena nelle rispettive case, ciascuno
102
Ibidem : pp.151-153.
199
con il compare ben appartato, in modo da poter verificare dal vero quello che succede nelle mura
domestiche dell’uno e dell’altro e valutare reciproche abitudini e creanze. È qui che si apprende come
l’amore si riduca a due opzioni fondamentali: cornuto e sereno oppure casto, violento ed infelice.
L’idea del nascondiglio implica naturalmente che il personaggio ascosto intervenga nel dialogo
coniugale con una sequenza di a-parte molto ben giocati sul piano ritmico.
Prima del trucco dei due mariti il nostro autore ci porta però direttamente nella sua école des femmes
inserendo una scena in cui le rispettive compagne dei badin si incontrano: per la seconda donna il
tradimento è un fatto scontato e riguarda tutte le età; ciò che conta è tenersi allegri e solidali nella
tranquillità della casa che non deve mai esser turbata dalla gelosia. Su questi termini si arriva, infine,
alle scene di spionaggio.
Per il primo “interno” di coppia l’autore riesce a restituire al pubblico tutta la carica di oppressione
del nucleo familiare afflitto dai conflitti fra coniugi: viene tracciato un insolito quadro psicologico
dei personaggi, le cui azioni trovano ragion d’esistere nelle motivazioni personali ed intime senza
peraltro compromettere quella rapidità che è indispensabile per chiudere con effetto qualsiasi azione
comica.
LE PREMIER MARY
[…] Tu es trop laide
LA PREMIERE FEMME
Tes malles bosses.
C’est du soucy que tu m’as donné.
O jour malheureux fortuné
Que tu me prins ! estoys-je telle?
LE PREMIER MARY
Nenny vrayment, tu estoys belle.103
È questa una specie di anatomia della bruttezza, che assieme alla scena di amour fou in cui si vede il
marito prendere a botte la moglie dopo un dialogo che ancora mostra le venature di una tenerezza
ormai scomparsa, costituisce un vero capolavoro del genere, soprattutto per merito di una idea
“evolutiva” del personaggio che discosta di molto la farsa des deux hommes dalle sue omologhe.
103
Ibidem : t.I, pp.166.
200
2.2.4 – Ostinazione ed educazione violenta delle mogli.
La furiosa lotta fra i due sessi ed una ferocia diretta contro il falso mito del focolare domestico sono
dunque gli assi tematici più ricorrenti nella farsa. Perché la famiglia funzioni correttamente la regola
centrale deve essere la prevalenza del marito: se il capofamiglia non è «homme de culotte», il
“mesnage” sarà condotto all’agonia e lui condannato alle moquerie dei sot e dei folli. La debolezza del
marito è pertanto oggetto di innumerevoli composizioni comiche dalla novella al fabliau fino alla
farsa ed ai suoi generi liminari.
Ne favolello de la Male dame, alias de la dame qui fu escoillié una donna bisbetica sottomette ed
umilia il compagno, che non riesce mai a tenerle testa.
N’osez! por qoi ? por ma collier
Qu’à nul fuer ne velt otroier
Chose que face ne que die ;
De sor moi a la seignorie,
De ma maison a la justise,
De trestot a la comandise,
Si ne li chalt s’en ai enuie,
Ge ne li sui fors chape à pluie.
A son bon fait, noient au mien,
De mon commant ne feroit rien.104
Un conte si innamora della figlia di questi ed il padre dovrà far finta di essere contrario all’unione
solo per ottenere l’assenso della moglie che agisce sempre per spirito di contraddizione. Insomma, il
marito non può fare null’altro che ripetere il contrario di ciò che pensa per avere il dominio sulla
moglie.
Dit li quens, sire, ge vos quier
Vostre bele fille à moillier :
Plus bele ne virent mi hueil,
Donez la moi, quar ge la vueil.
Dist li peres, nel’ ferai pas,
Quar ge la vueil doner plus bas ;
Ge la donrai bien endroit li.
La dame l’ot, avant sailli :
Sire dit-ele, vos l’aroiz,
Ne jà malgré ne l’en savroiz,
Que li donners n’est pas à lui,
Ge la vons donc et avuec lui
Ai assez et or et argent,
104
Rec. BARBAZAN, t.IV, pp.365-385 : p.369.
201
Si ai maint riche garnement,
Donrai la vos, si la prenez.105
Ma una volta sposato ed entrato nella famiglia, il gentil conte si trasforma in vendicatore del sesso
maschile: in un crescendo di crudeltà spropositate, prima sottomette la sposa ad azioni minacciose ed
inquietanti, poi afferma la sua autorità sulla famiglia decapitando i due levrieri del padre di lei. La
spregiudicatezza lo porterà a cavar gli occhi al cuoco che non obbedisce agli ordini e a bastonare la
moglie con una mazza spinata. Ultima vittima è la suocera, messa sulla tavola per una operazione
chirurgica finalizzata all’impianto degli attributi fisici della dominazione: i testicoli di un toro.
Se con un evidente anacronismo si potesse parlare di crudeltà artaudiana per questo periodo, il
favolello della Dame qui fut escoillié ne sarebbe un rappresentante perfetto: la realtà si confronta qui
con una visione allucinata e violenta all’estremo, nella costruzione della narrazione come macchina
celibe.
A volte non c’è bisogno di un intervento esterno per l’educazione del sesso femminile ed il marito
debole diventa improvvisamente di polso, riprendendo il controllo della situazione come reazione
all’ultimo, ennesimo, sopruso femminile.
È il caso anche di Sire Hain et dame Anieuse in cui i due sessi si affrontano in singolar tenzone in una
simbolica lotta per le braghe che il sire mette al centro del cortile a titolo di sfida.
Et qui conquerre les porra
Par bone reson mousterra
Qu’il ert sire et dame du nostre.106
La donna si presenta al combattimento armata di ingiurie e graffi. Ma alla fine ha la peggio e deve
rassegnarsi alla forza fisica del’uomo.
Franco Sacchetti riporta anche lui la storietta d’un certo Bonanno de Ser Benizo,107 uomo pacifico e
tranquillo fino ad un certo punto: costretto ad armarsi di spada per mettere ordine fra le mura
domestiche, il pover’uomo deve fare il gesto dei pantaloni gettati in terra nell’arena familiare, che qui
nessuno osa prendere per non sfidare l’ormai altero capofamiglia. E sempre nel Trecentonovelle nel
105
Ibidem : pp.371-372.
Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.I, pp.97-110 : p.99.
107
Trecentonovelle, CXXXVIII.
106
202
racconto dedicato a Fra’ Michele Porcelli,108 incontriamo una reazione spropositata dell’uomo agli
attacchi della donna, sottoposta a crudele tortura fino alla totale umiliazione.
E naturalmente il Decameron109 dove Boccaccio sviluppa un esempio di violenza “istruttiva” ai danni
d’una donna che si concreta in una immagine allegorica: il «ponte all’oca» – passaggio dove i padroni
dei somari si accaniscono contro le bestie da soma – funziona come un esempio assai istruttivo per il
marito troppo lassista con la compagna. Similmente in Francia ritroviamo una farsa della fine del XV
secolo detta del Pont aux asgnes che si apre con un singolare dialogo fra marito e moglie :
LE MARY
C’est la raison, tant que vivrez,
Que de nous vous portez la peine.
Aussi en ce point vous le ferez,
Ou bien batue vous serez.
LA FEMME
Je feray, ta fiebvre quartaine.
LE MARY
Femmes doibvent couvrir la table,
Mettre dessus linge honorable ;
Aux gens de bien, s’on les admeine,
Monstrer un semblant amyable
Et faire chère convenable.
LA FEMME
Et ilz font, ta fiebvre quartaine.
LE MARY
Femmez doibvent pour leur honneur
Tenir leurs barons en doulceur,
Et faire loyaulté certaine ;
Et, si leur font quelque rigueur,
Ilz prennent le dyable à seigneur.
[…]
C’est un arrest de parlement;
Il va sans appellation
Il fault que nous seigneurion.
Droict le veult et force l’emporte.110
La donna protesta con tutte le sue forze.
LA FEMME
[…]
Ce sera quand je seray morte
Doncques que je t’obeiray ;
Car tant que l’ame du corps parte,
108
Ibidem, LXXXVI.
Decameron, IX, 9.
110
ATF, t.II, pp.35-49 : p.35.
109
203
Un pas pour toy ne passeray.111
Il marito chiede consiglio a Domine De, il quale dietro pagamento di uno scudo lo indirizza al ponte
con una certa insistenza e sicurissimo del fatto suo: la battuta «Vade, tenés le pont aux asgnes» è del
resto ripetuta come soluzione a tutti i problemi che il protagonista espone al maestro.
Ed eccoci cambiare di scenario: siamo al ponte delle torture dove un mastro picchia di gran lena
l’asino che non vuol camminare.
LE BOSCHERON
Sus, Nolly, [sus] tire avant, tire,
Hury, ho ! le dyable y ait part,
Et da, hay, que de mallehart,
Ou de loups soyes-tu estranglée ;
Sus, Nully, [sus] tire avant, tire.112
Alla fine, perché il nostro non abbia alcun dubbio sul comportamento da tenere con la moglie,
aggiunge:
Gens mariez, notez, notez,
Tous se explique en ceste lettre.
Trottez, Nully, trottez, trottez ;
Vous avez trouvé votre maistre.113
Il marito apprende rapidamente il nuovo sistema di conduzione familiare ed eccolo in casa contro la
sua donna :
Et ne fault-il que boys de haistre
Pour frotter les costez [de] sa femme ?
[…]
Trottez, vieille, trottez, trottez.114
111
Ibidem : pp.36-38.
Ibidem : p.45.
113
Ibidem : p.46.
114
Ibidem : pp.46 e 48.
112
204
L’argomento della novella di Boccaccio si trova anche nel Pecorone di Ser Giovanni Fiorentino, dove
Boezio consiglia il Ciucolo di andare al «ponte Sant’Agnolo», con lo stesso scopo che nella farsa di
Domine De.115
La Farce du savetier116 sviluppa un tema matrimoniale caro ancora alla novella: l’uomo che si prende
carico di risolvere la situazione coniugale di un conoscente (qui per mezzo della forza). Il Savetier ha
domato con violenza e terrore la moglie: solo con l’obbedienza femminile una famiglia si può dire
davvero felice e nel suo caso la donna arriva ad anticipare ed eseguire i suoi desideri.
Trovatosi di fronte ad un tale Jaquet – derelitto oppresso da una strega uscita direttamente dalle
fiamme dell’inferno, Proserpina – il Savetier si mette in testa di doverlo salvare. Perché possa
raggiungere l’anelata felicità familiare, il Savetier convince Jaquet a cedergli per un po’ la donna, così
da sottoporla ad una severa operazione di igiene comportamentale. Lo scambio ha luogo e Jaquet li
lascia soli con una certa compassione per il risoluto maestro.
L’igiene comportamentale di cui sopra è semplice: il Savetier chiede alla donna vari servigi che lei
non può rifiutare d’eseguire a meno di farsi pestare di botte; assai rapidamente Proserpina cambierà
opinione sul funzionamento della coppia; si riconoscerà definitivamente domata, non solo
soddisfacendo il marito, ma raggiungendo lei stessa uno stato di grazia nell’inedita felicità coniugale:
abbandonando il suo atteggiamento furastico la sentiamo affermare con un certo gusto: «Je me tiens
la plus heureuse | De ce monde». Tanto per dire che le bastonature quando non uccidono fanno
bene a tutti.
Ne Le piacevoli notti di Giovanni Francesco Straparola117 rinveniamo un plot dedicato ancora una
volta all’educazione prepotente del gentilsesso, con la classica diatriba sugli effetti delle botte e quelli
dell’amor “cortese”, qui lo sviluppo della vicenda si incentra sul luogo letterario del doppio che
permette all’autore di assumere un punto di vista “scientifico” sulla faccenda: due fratelli soldati
sposano due sorelle. Il primo accudisce e carezza la moglie, il secondo la batte e la minaccia. Il
115
Il Pecorone, V,2, (E. ESPOSITO, 1974).
La straordinaria diffusione del personaggio del savetier può portare a confondere le pièce, il cui titolo è sovente il solo
nome del protagonista. In particolare ci riferiamo qui alla farsa detta anche del Savetier, Marguet, Jaquet, Proserpine et
l’hote, Rec. LEROUX, t.IV, n°14. La nostra farsa non va confusa con la sua omonima più importante (ATF, t.II, pp.128139), che vedremo poco sotto.
117
«Duoi fratelli soldati prendeno due sorelle per mogli; l'uno accareccia la sua, ed ella fa contra il comandamento del
marito; l'altro minaccia la sua, ed ella fa quanto egli le comanda […].»
Le piacevoli notti, VIII-2, (G. RUA, 1980, t.I, pp.70-74).
205
116
risultato è che il primo è sottomesso, mentre il secondo riesce ad ottenere tutto ciò che vuole dalla
sposa.
2.2.5 – L’autorità come oggetto scenico.
La farsa del Cuvier a tre personaggi (Jaquinot, sa femme et la mere de sa femme, fine del XV secolo) è
ben più conosciuta: Jaquinot, benché all’inizio della pièce sostenga il contrario facendosi forte di
vaghe idee sull’autorità del marito nella famiglia, è in realtà frustrato, picchiato, vessato ed obbligato
dalla moglie e dalla suocera ad umilianti prove di sottomissione domestica.
La farsa arriva subito a quella che dovrebbe essere la “soluzione finale” alle timide lamentele del già
remissivo consorte: il crudele duo femminile obbliga il marito a scrivere una pergamena, «roullet» di
regole di vita domestica tutte a vantaggio delle due crudeli arpie. Il protagonista si lascia vessare ed
obbedisce alla prepotente dittatura femminile.
Accade però un imprevisto: la moglie scivola inavvertitamente in un tino ed ha bisogno del marito
per non morire annegata nel mosto. È la rivincita tanto attesa: con freddezza Jeannot (più volte
chiamato dalle due «Jehan», con una certa vena “metateatrale” ad alludere al senso dispregiativo che
questo nome aveva sulla scena medievale con le conseguenti – invero timide – reazioni dell’uomo)
sostiene d’aver solennemente giurato di non compiere altra azione in vita sua, al di là di quelle
indicate nel rotolo. Salvando la donna rischia di infrangere la parola data.
LA FEMME
Mon bon mary, sauvez ma vie.
Je suis jà toute esvanouye.
Baillez la main ung tantinet.
JAQUINOT
Cela n’est point à mon rollet ;
Car en enfer il descendra.118
Vien da sé, che benché l’uomo si sforzi di cercarlo, nel rotolo non c’è nulla che accenni al salvataggio
della moglie. Dopo una serie di trattative, in cui la madre arrogante dispera per l’incipiente morte
della figlia, il marito riesce a strappare l’annullamento delle regole contenute nel rotoletto delle leggi
118
ATF, t.I, p.32-49 : p.43.
206
familiari in cambio del salvataggio e mercanteggia anche la supremazia nel focolare, strappando un
disperato giuramento alla donna in fin di vita.
Non di minore importanza sono le divergenze “economiche” fra uomo e donna.
Nella Farce du savetier Calbain (non più tarda del 1500) una donna vuole che il marito la vizi
comprandole vesti e prodotti pregiati; questi si prende gioco di lei con canzoni e motti burleschi fin
quando sopraggiunge un galland che consiglia alla femme di addormentarlo per mezzo di un
narcotico così da rubargli la saccoccia con tutti denari che custodisce gelosamente dalla mire
muliebri.
Derubato, Calbain infine si risveglia, si accorge del tranello e adirato comincia a gridare: la moglie lo
pagherà con la stessa moneta iniziando a rispondergli pure lei per canzonatura, fin quando il marito,
seccato, non dovrà implorarla di smettere.
Ha, taisez-vous m’amye, paix, paix !
Je cognois bien que c’est ma faulte.119
La conclusione è in favore della donna e risponde ad un’altra legge sempiterna della farse: «tel
trompe au loing, qui est trompé». Il poeta ribadisce questa legge naturale della finzione con
spericolati giochi di parole, compiacendosi della ripetizione dell’espressione chiave delle farse, benché
– come ormai il lettore avrà capito – la tromperie nel teatro medievale francese non sia un gioco
d’astuzia paragonabile ai complicati ingegni dei “ladri filosofi” della commedia umanistica.
Tompeurs sont de trompés trompez ;
Trompant trompettez au trompé
L’homme est trompé.
Adieu, trompeurs, adieu Messiers,
Excusez le trompeur et sa femme.120
I pantaloni e la saccoccia coi denari non sono i soli attributi scenici della dominazione. Nella farsa du
Coustourier, du chaussetier et de maistre Antitus (più frequentemente denominata delle Femmes qui
coifferènt leurs maris), incontriamo la coiffe, che rappresenta l’opposto delle culottes. Pantaloni e
mutande sono di chi comanda: la cuffia è evidentemente il segno degli oppressi, specie in ambito
familiare, dove rappresenta la sottomissione femminile.
119
120
ATF, t.II, pp.140-159 : p.156.
Ibidem : p.157.
207
Solo che qui i personaggi femminili risarciscono il genere femminile delle sofferenze subite: sono due
scansafatiche che passano il tempo fra bettole e festini; i due stolti e frustrati mariti si consolano con
la loro idiozia lanciando maledizioni all’aria e vagheggiando progetti di omicidio.
COUSTURIER
[…]
Sans cesser elle me veut battre
CHAUSSETIER
Si fait la mienne comme plastre,
Et si me maudit comme un chien
[…]
Qu’el fust noyée en la rivière.
COUSTURIER
Sainct Jean, il ne m’en chaudroit guère
S’ils estoient toutes deux noyées.
[…]
Les vocy venir enragées
Je les oy desja bien crier.
Le diable les puisse emporter!
Estoient elles si près de nous?121
Ma sono chiacchiere e nient’altro, e quando le donne entrano in scena intuiamo che i due mariti
sono in realtà del tutto impotenti di fronte alle angherie delle mogli, che d’altra parte li prendono a
parole grosse.
Sanglant villain, plein de fumée,
Nyais, infame, deshonneste,
Et si j'ay esté a la feste,
Es tu venu pour m’en fascher?122
Anche in questa pièce la comicità corre sul facile binario sessuale: i doppi sensi sono giocati sulla
coda, la «queue», bella sporca123 – come sembrano rilevare i mariti – quando le donne ritornano dai
loro festini: e dal momento che le donne hanno già saziato i loro appetiti, ai due (che pure
vorrebbero, schiavi d’amore) non è permesso di metterci il naso.
121
PICOT – NYROP, pp.97-114 : pp.99-100.
Ibidem : p.103.
123
Sul facile parallelo fra la coda ed il sesso maschile – ancora persistente nell’argot francese – richiamiamo il canto
carnascialesco italiano del Maestro Fruosino Bonini: « Donne, che per natura delle code | dilettar vi solete, | delle nostre
togliete, | ché l’abbiàn belle, pannocchiute e sode. | Non bisogna insegnar né dire a voi | a quel ch’elle son buone, |
perché naturalmente più di noi | n’avete cognizione; | benché di più ragione | varie code si trova, | no’ diam le nostre a
prove, | che quanto più si toccan, più son sode.»
Maestro Fruosino Bonini, Canzona delle code (C. S. SINGLETON, 1940).
208
122
LE COUSTURIER
Vous avez esté a la feste
Par adventure en quelque lieu
Et, s’il vous plaist, cy en ce lieu,
Dame, je la descroteray.
LA PREMIERE
Le sacrement Dieu, non feray;
Vous n’y mettrez ja point la main.
Laissez cela, fils de putain;
Pensez vous ainsi descrotter
Ma queue ? Mais quel escuyer ?
[...]
LA SECONDE
Laisse ma queue, par le diable,
[...]
Et ne la viens point descrotter;
Je la feray assez traisner
Par tout ou bon me semblera.124
Mastro Antitus è il reputato padroncino del villaggio e prende le parti delle due parassite; e fra l’altro
egli sembra intrattenere una relazione intima con le due fedifraghe, che consola e coccola
affettuosamente, minacciando dura vendetta contro i mariti violenti. Le donne dal canto loro
disperano di non avere la forza fisica per batterli con la giusta violenza; allora il ridicolo amante si va
venire un’idea: coiffer i mariti, in modo da sottometterli per l’eternità.
LE COUSTURIER
Serons nous coiffez toutes fois?
Et, par bieu, ce sera grand honte.
LA PREMIERE
Ne vous chaille, n’en faictes conte;
Vous serez mis au rang des femmes.
LE COUSTURIER
[...]
Je ne suis pas bien a mon ayse
D’estre ainsi coiffé, sur mon ame;
Je ressemble donc a la femme.125
L’espediente della coiffure è un sistema performativo per marcare visivamente la sottomissione del
marito e renderlo se possibile ancor più ridicolo, indossando un indumento – la cuffia – tipicamente
femminile. Ancora il mondo al contrario: uomini con cuffie da donne e donne (con le code!) che
gozzovigliano all’osteria.
124
125
PICOT – NYROP : pp.104-106.
Ibidem : pp.111-112.
209
Uno dei maggiori difetti di queste donne farsesche è la testardaggine ed anche in Poggio nella facezia
giustamente intitolata De muliere obstinata quae virum pediculosum vocavit, torna il rischio dell’acqua
per una moglie che sebbene venga dal marito ricacciata in un pozzo, si ostina a prenderlo a male
parole fino ad annegare:126 caratteristico e ben documentato il caso del fabliau intitolato al Pré tondu,
dove si consuma la quotidiana testardaggine coniugale: il passaggio di un prete innesca la questione.
« Voir, mout est cist prez bien fauchiez. »
La fame li a respondu:
« N’est pas fauchiez, ainz est tondu. »
Et cil en jure saint Jehan
Ne fu pas tonduz en un an.
Et ele en jure saint Omer
Qu’iol fu tonduz et bertodez.127
Il personaggio maschile si adira e va al sodo bastonando la compagna fino allo svenimento: «Là ne
pot de mot soner; | Convint c’à ses doiz à montrer | Qu’il est bertodez et tonduz».128 Una diversa
forma, insomma, per il tema della futilità delle questioni fra moglie e marito che si vedrà anche più
avanti nella “disputa del peto”.
Il problema dell’Obstination des femmes dà anche il titolo ad una farsa composta alla fine del XV
secolo dove troviamo il caso analogo della moglie del protagonista, Rifflart, che non trova alcun
compromesso col punto di vista del marito su quello che potremmo definire un “oggetto linguistico
di scena”, una parola che si concreta nell’arredamento scenico, che diventa cioè in sé oggetto della
disputa e che rende oggettiva l’espressione idiomatica.
La questione è qui una gabbia al quale il marito lavora per potervi intrappolare un «pie», una gazza,
animale la cui fama di chiacchierone riflette l’attitudine cialtrona della moglie.
RIFFLART
[…] [la femme] Nuyct et jour n’y faict que hongner.
Il me fault aller besongner
Pour eviter son hault langaige.
Je vueil assouvir ceste caige :
Ce cera pour mettre une pie.129
126
Facetiae, LIX: De muliere obstinata quae virum pediculosum vocavit.
Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.IV, pp.154-157 : pp.156-157.
128
Ibidem : p.157.
129
ATF, t.I, pp.21-31 : p.21.
127
210
Il comico linguistico si infittisce attraverso l’ulteriore confusione fra «pie» e «pié». In francese
medievale abbiamo due espressioni in particolare che utilizzano «pié»: da una parte «mettre à pié»
metafora per una “situation facheuse”, dall’altra «estre mis entre piés» per significare “être meprisé”,
entrambe le espressioni si adattano al contenuto della farsa ed assecondano il senso metaforico della
costruzione della gabbia da parte del marito; siffatta proprietà polisemantica è alla base di ciò che
abbiamo appena definito “oggetto linguistico di scena”. In quanto ad invenzioni linguistiche la
moglie non è da meno ed il suo programma è intrappolare nella gabbia un gallo in luogo della gazza.
Doppia significazione anche qui: l’autore deforma volontariamente la parola per gallo così da
trasformare il consueto «coq» in «coqu», ibridazione satirica fra l’animale ed il cornuto, («cocu»):
quando la donna furastica dice «ung coqu on y boutera» minaccia dunque il marito di tradirlo e
sottolinea la portata della sua affermazione segnalando la metafora: «Entendez-vous bien ?». Il marito
non è così sciocco ed ha l’aria di cogliere al volo la frase, ammonendo la moglie a non renderlo
ridicolo o “chiacchierato”.
Il contesto semantico della chiacchiera si lega ancora una volta al mondo degli animali: «caquet /
caquer / caqueter» sono tutte parole che definiscono sia il cicaleccio in senso stretto sia, appunto, i
rumeurs del villaggio e la maldicenza.
RIFFLART
Voyre, Finette,
Que jamais on ne me acquette.
G’y mettray une pie.130
Il livello del dialogo è basato su questa acutezza interpretativa ed ottiene un effetto salace sottile
rispetto alla media delle farse, benché le ire del marito sfocino infine in una volgarità gratuita, al di là
di ogni possibile gioco linguistico: anche le reazioni concrete scadono nella comunissima
bastonatura, la quale peraltro non sarà sufficiente a far cambiare d’avviso l’ostinazione della donna,
che l’avrà vinta. Sono del resto i limiti intrinseci del genere, che per soddisfare il pubblico ed aprire la
composizione alle possibilità creative del corpo, mostra i fianchi al rischio di scadimento del testo.
La morale della favola riprende ancora il contesto semantico faunistico: «Cela n’est pas à nostre
usaige | et ne sert poinct à mon propos. | Femme n’ont jamais bec clos | Et ce n’est pas de
maintenant.»131
130
131
Ibidem : p.24.
Ibidem : p.30.
211
Anche nella Farce d’un chaulderonnier, del 1530, troviamo l’ostinazione e la testardaggine femminili
nel contesto di una improbabile scommessa faceta. La composizione drammatica si apre con la
vittoria della moglie contro il bastone del marito: questi allora si lamenta del fatto che la moglie non
sappia star serena e che vorrebbe sempre avere la meglio su di lui. La querelle ricomincia in modo
differente rispetto alle tipiche reazioni violente farsesche, l’alterco finisce infatti nell’immobilità
totale: i due si sfidano a rimanere fermi il più a lungo possibile; il primo che si muove dovrà
rinunciare a portare i pantaloni.
Così, uno chaulderonnier di passaggio si stupisce del gioco idiota, osserva la disputa dei due amanti e
inizia a mettere in ridicolo il marito: prima lo copre con un pentolone, poi lo impiastra di nero e gli
mette in mano e dietro al sedere un cucchiaio ed un recipiente dei quali è possibile immaginare l’uso.
Per la donna le attenzioni sono ben differenti e quando lo sconosciuto niais esagera il marito
finalmente interviene, perdendo, come è ovvio, la tenzone dell’immobilità.
L’HOMME
Le diable te puist emporter,
Truant, paillart
[…]
LA FEMME
Nostre Dame, vous avez perdu,
Je suis demourée maistresse.132
Alla fine tutto si sistema e finisce in allegria generale; i due sposi se ne vanno a bere alla locanda in
compagnia dello chaulderonnier. Il senso comico della pièce doveva risiedere soprattutto nelle attività
mimiche dei protagonisti ed in particolare dell’interprete dello chaulderonnier, che agiva nel tempo
dell’immobilità della coppia. Possiamo immaginare la varietà delle declinazioni comiche che si
potevano ricavare da questa situazione di base: ed infatti il testo da solo ebbe un discreto successo e
può essere confrontato con un racconto delle Piacevoli notti.133 Si tratta della storiella di tre pigri
ribaldi, che trovando una gemma, devono dare prova della maggiore poltroneria per possederla. Una
di queste tenzoni è simile alla trama della nostra farsa: Sennuccio sposa Bedovina, standosi in casa, i
due cominciano a battersi su chi debba chiudere l’uscio. Nessuno cede alle pretese dell’altro e così la
porta rimane aperta: nottetempo un farabutto entra in casa, cerca di parlare con Sennuccio che
stoltamente persevera nella sua prova del silenzio, così lo sconosciuto entra nella camera e giace con
132
133
Ibidem, t.II, pp.105-114 : p.112-113.
Le piacevoli notti, VIII-1, (G. RUA, 1980, t.II, pp.63-69).
212
la moglie sotto lo sguardo del silente marito. Al mattino Bedovina accusa Sennuccio di dappocaggine
e quello le ingiunge di chiudere la porta, avendo lei perduto il gioco del silenzio.
In generale, il matrimonio ha una riuscita infelice ed i coniugi vorrebbero sempre cambiare le
abitudini ed i comportamenti incompatibili della loro “anima gemella”. La scuola delle mogli è
spesso una scuola anche per mariti e a volte per raggiungere il loro scopo le coppie sono disposte a
ricorrere anche a magiche invenzioni. La più comune è la fontana dell’eterna giovinezza, ma ci sono
anche altri e più fantasiosi sortilegi: il punto di maggiore differenza, però, rispetto alla cialtroneria
che si trova nella commedia regolare è che il trucco magico in farsa è un ulteriore appiglio per lo
sfoggio del comico (o degli “oggetti”) verbali. Il caso tipico in questo senso è la celeberrima farsa de
les Femmes qui font refondre leurs maris:134 il marito di Jeannette fa bene ad offrirle tutte le cose che
desidera ma la moglie non nasconde, ed anzi pubblicizza, la sua insoddisfazione sessuale, dovuta –
ancora una mal mariée – alla differenza di età. Anche nella seconda coppia in farsa Pernette ha molto
da ridire sul conto del marito Collart e le sue proteste hanno a che vedere di nuovo con la vecchiaia e
lo stato di salute del coniuge non più baldanzoso come un tempo.
PERNETTE
Le diable ayt part en la manière.
Tousjours il ne faict que grongner ;
Tousjours ne cesse de tousser,
Cracher, niphler, souffler, ronfler.
Belle despesche soit du vieillard !
COLLART
Dea, m’amye, Dieu y ayt part.
Vous vous courroucez, ce me semble ;
Dieu nous a-il pas mis ensemble
Par juste e loyal mariage ?
Et, se je ne sus qu’un folastre
Et vous en la fleure de jeunesse,
Me debvez-vous montrer rudesse
Et reproucher mes accidens ?
Quant vous veinstes icy dedans
Je n’euz de vous, pour tout potaige,
Que vingt livres en mariage ;
J’en eusse trouvé largement
Qui en eussent plus eu de [dix] cent.
On doibt trestout considerer ;
On n’en peult fors que mieulx valloir.135
134
135
ATF, t.I, pp.63-93. Sulla datazione di questa farsa ci sono forti incertezze.
Ibidem : p.68.
213
Segue un ulteriore attacco alla prestanza fisica da cui Collart non può difendersi, soprattutto perché,
come sintetizza bene il suo altrettanto sfortunato e vecchio amico «[…] qui ne peult, ne peult […] |
Celluy mestier n’est pas science».136
Ecco allora sopraggiungere il fonditore, cerretano che si millanta esperto di una prodigiosa tecnica di
“rifusione” degli uomini: disciplina magica capace di riportare la giovinezza perduta (così come si fa
con le pentole) a uomini e donne, con la possibilità “opzionale” di cambiarne le tendenze e le
abitudini. Una vera cuccagna per le coppie insoddisfatte.
Il cialtrone una volta tanto sembra onesto e sconsiglia alle donne di rifondere i mariti, che, in fondo,
non sono poi tanto male: teneri e pazienti con loro benché non prestanti da un punto di vista
sessuale, essi hanno tutte le carte in regola per la conduzione serena d’una famiglia. C’è poi lo strano
rischio della moltiplicazione degli uomini.
LE FONDEUR
Et s’il y avoit faute de matières,
En les fondant d’un cueur joyeulx
Que pour ung homme en viennent deux
Quant l’ouvraige dehors sera,
Que dictes-vous ?
PERNETTE
Tant mieulx vauldra ;
Mais qu’ilz soyent bons laboureurs.
L’un sera pour les jours ouvriers,
Et l’aultre pour les bonnes festes.137
Pernette e Collart non vogliono sentire ragioni ed ecco in qualche istante i poveri mariti (dal canto
loro felici di riprendere le redini della perduta giovinezza) finire in un istante all’interno del
pentolone che dovrà rifarli per nuovi. La fusione inizia e saranno ri-forgiati di tutto punto e riportati
a nuova vita. Escono dall’operazione artigiana ben ringiovaniti, è vero, ma il loro carattere è mutato:
la gentilezza senile ha lasciato il posto all’ardor di gioventù e le loro donne dovranno pentirsi dei due
mostri appena creati, che – usciti dal calderone – imporranno loro il polso forte e l’intransigenza
dell’età giovanile come contropartita a nuove, folli, notti d’amore.
La mercatura dell’amore e l’intervento dei cerretani nei rapporti coniugali è frequente e prevede
talvolta il baratto: è il tema della farsa del Troqueur,138 dove tre comari vogliono cambiare il marito
136
Ibidem : p.66.
Ibidem : p.82.
138
Rec. LEROUX, t.III, n°19.
137
214
per uno nuovo, ma mandano su tutte le furie l’improbabile venditore di mariti, incapace di trovare
per le loro difficilissime esigenze un buonuomo capace di sopportare i soprusi e ben prestante nelle
fatiche dell’amore.
Per la Farce des femmes salées139 – assai tarda, del 1575, pertanto ampiamente fuori dal nostro
segmento cronologico, ma qui riportata per testimoniare della lunghissima persistenza nel teatro
francese del genere farsesco – la magia è in realtà un inganno bello e buono ed il fonditore (o
venditore) di uomini è stavolta un furfante patentato, che organizza il suo trucco per gli stolti sugli
utilizzi traslati della parola «douceur». Il comico verbale è di nuovo il nodo di articolazione della
pièce: due mariti si lamentano dell’esagerata dolcezza delle mogli e si rivolgono ad un tale «Maistre
Macé, lequel est | Grand philosophe» donandogli il difficile compito di salare le due compagne.
Come per le mogli che vogliono rifondere i loro mariti anche qui i coniugi insoddisfatti non
valutano bene gli effetti reali del cambiamento: il ciarlatano, una volta al cospetto delle due donne, le
sala a modo suo invitandole a vendicarsi delle canagliate manesche perpetrate dai mariti ai loro
danni. In breve tempo le donne da dolci diventano acide più che salate e quando i due mariti
decideranno che tutto sommato la dolcezza era meglio della salinità si sentiranno rispondere
francamente dal mago: «Les douces je sçai bien saller, | Mais touchant de dessaller point».
A volte le ragioni dei litigi sono del tutto occasionali e puntano a far ridere in sé, senza una vera idea
di intrigo alla base. È il caso di oggetti immateriali come i peti e delle puzze del corpo di cui la Farce
du pect, del 1476, invita i coniugi a fare equa divisione.
Nel testo Hubert chiama insistentemente la moglie per mettere in tavola la cena. I due cominciano
così a sgombrare la sala da pranzo; sollevando una catasta di stoffe la donna emette un sonoro peto.
HUBERT
Sus donc ! O que ay-je ouy sonner ?
LA FEMME
Je ne sçay. Peult-estre
De vous baisser une esguillette
Est rompue, ou quelque lasset.
HUBERT
Par le sang de bien, c’est ung pet.
Je ne scay dont il peut venir.
LA FEMME
Vous me feriez bien deviner
Qui l’a faict.
HUBERT
139
O Farce des hommes qui font saler leurs femmes, HTF, t.III, pp.305-316.
215
Vous.140
La donna nega insomma che la puzza sia sua e ne nasce così tutta una questione ridicola, tanto che
Hubert, pedantissimo e rigido nelle sue convinzioni, la trascina dal procuratore rinunciando pure al
pasto. In colloquio privato con l’uomo di legge la moglie ammette la sua colpa, ma – replica il
procuratore – sebbene il peto sia uscito dal suo deretano la responsabilità è evidentemente anche del
marito, che le impose lo sforzo che fu causa delle venefiche esalazioni.
Il procuratore ammette così il caso in tribunale: gli argomenti volgari e giocosi si susseguono. Hubert
sostiene fermamente che la moglie deve ripagarlo in qualche modo dello spavento per lo scoppio
improvviso e della violazione del suo legittimo diritto a respirare aria pura in casa sua.
L’acme della “vicenda giudiziaria” è il vigore aristotelico dell’inchiesta giuridica.
LE JUGE
[…] N’espousaste-vous ceste cy
Et prise alors tout[e] pour femme ?
HUBERT
[…] Je ne l’espousay, ne pris lors
En mariage que son corps ;
Mais d’espouser son cul, arriere !
LE JUGE
Et s’elle eust esté sans derriere
L’eussiez-vous prinse ?
[…]
LA FEMME
Monsieur, je vous prouveray
Que, si tost que fuz espousée,
Toute la première journée
Que avecques luy je fus couchée,
Ou toute vive on me despièce,
Mon cul fut la première pièce
Par ou il me print, somme toute.141
La sentenza del giudice ci informa sulla fascia sociale destinataria della composizione drammatica: la
famiglia protoborghese dell’artigiano e del libero commerciante, abituati a risolvere le questioni
private dal notaio e dal procuratore e che avevano un’idea di convivenza non dissimile da quella
d’impresa e bottega. Del resto fra gli argomenti contro la moglie il protagonista Hubert non esita a
mettere in campo la questione della proprietà della casa.
140
141
ATF, t.I, pp.94-110 : p.95.
Ibidem : pp.106-107.
216
La questione della flatulenza è collegata ad espressioni idiomatiche, per cui al peto corrisponde una
questione di poco conto. Ma nella logica schiacciante del linguaggio farsesco alcun elemento viene
mai addotto all’interpretazione traslata e tutto si risolve in una questione di significato letterale: è
importante tenere a mente questo dettaglio quando analizzeremo la pièce italiana a questa omologa:
Peron e Cheirina che littigoreno per un peto, di Giovan Giorgio Alione.
2.2.6 – Galanti, astuzie e parti prematuri.
A causa di certi individui come il Jeahn de Lagny142 dell’omonima farsa del 1520, uno dei problemi
più comuni per il novello sposo è scoprire che la moglie è tutt’altro che vergine di spirito e di corpo;
il nostro Jehan ha deflorato tre donne e pur di non assumersene la responsabilità è scomparso dalla
città. La rappresentazione si apre con le tre amanti che si riuniscono e decidono di consultare un
qualche prete letterato per avere consiglio su come trovare il farabutto e processarlo.
L’omonimia è al centro dell’incidente della pièce: l’uomo che si improvvisa procuratore delle tre
tradite si chiama anche lui Mesire Jehan. Al momento della stesura dei capi di accusa le donne
insisteranno tutte sull’appellativo Viriliquin per intendere fedifrago, nome giocoso del demonio o
appellativo burlesco per crudele, malizioso (ed ibridazione di «virilique», virile, con «coquin /
hallequin / helequin»). Abbiamo così i capi di accusa rivolti contro un certo Jeahn Viriliquin, come a
dire contro un Jehan birichino qualsiasi e quando finalmente Jehan de Lagny sopraggiunge sulla
scena, con abile dialettica, di fronte al giudice convocato per il processo, prima accusa il procuratore
di essere il ruffiano delle tre donne, poi – vedendo che la sua strategia è poco credibile – comincia a
chiamare il procuratore con il medesimo appellativo di Viriliquin, così che ogni testimonianza delle
donne contro Jehan de Lagny finisce sulla testa del procuratore. Inutile dire che la sentenza finale del
giudice condannerà l’innocente avvocato difensore.
La pièce è piuttosto scorrevole benché lo sviluppo sia compromesso dai molteplici passi oscuri.
Quello che più risalta, però, è una certa graffiante critica al moralismo ed al pregiudizio, in uno
spirito tutto epicureo che non biasima ed anzi invita quasi ad emulare Jehan il farabutto. Il traditore
– che ha portato con l’inganno le tre donne sulla strada della lussuria – viene messo sotto una luce
positiva: abbiamo la sensazione che sia sinceramente innamorato delle tre e che il personaggio
142
Rec. LEROUX, t.II, n°8.
217
negativo sia piuttosto il procuratore, moralista intransigente. Lo spirito epicureo del protagonista
introduce il luogo letterario del vecchio invidioso del giovane, ma si riallaccia ancora allo spirito
spensierato dei canti carnascialeschi, in cui sempre vale la pena approfittare del presente perché «di
doman non c’è certezza».
La Mère, la fille, le tesmoing, l’amoureulx et l’official, di assai incerta datazione, è una farsa processuale
a sfondo amoroso, dove il bel Colin deve rendere conto delle accuse della madre e della figlia per aver
consumato una notte d’amore con la giovane promettendo le nozze e dandosi alla macchia. Le due
donne mostrano in scena la lettera del procuratore che convoca Colin al processo; arriva così il
giudice che chiede la testimonianza della ragazza e poi dello stesso Colin: la prima dice di aver subìto
l’abuso mezza addormentata, il secondo nega addirittura di conoscere le due accusatrici.
Ci penserà un testimone anziano e strampalato a mettere chiarezza nell’intricata situazione,
deponendo in favore della ragazza e raccontando di come durante il rapporto la donna chiedesse che
Colin «l’espousasse en l’eglise du village» e come questi ripetesse «‘huy, huy, fromage,’» approfittando
della confusione fonetica village / fromage e «contrefaisant la basse voix».
Il testimone è un tipico scemo insidioso, malin fra lo stolto e l’astuto, che nella sua confusa
testimonianza trova il tempo di riferire particolari scabrosi sul manifesto piacere della giovane
durante la congiunzione carnale.
Car elle avoyt la iambe haulte
L’une sur l’autre fermement ;
Qui n’estoyt grand esbatement
Au pauvre Colin […]
La chalis faisoyt tic & taq,
Cric, crac, cric, crac, c’estoyt merveille143
La farsa è imperfetta e fortemente sbilanciata sulla lunga deposizione senza senso, che in apparenza
non avrebbe altra finalità se non quella di moraleggiare sul tema eterno del passato felice e della
Cuccagna di gioventù che svanisce col passar del tempo.
La scena giudiziaria rimane comunque una delle più riuscite del suo genere dal punto di vista comico
ed è molto simile a quella che costituisce l’ossatura della venticinquesima delle Cent nouvelles
nouvelles,144 ove è sempre questione di un confronto legale, con tanto di dichiarazione dell’uomo al
giudice in separata sede. Il processo, come per la farsa, porterà la giuria ad apprendere che il supposto
143
144
Ibidem, t.I, n°22 : pp.19-20.
les Cent nouvelles nouvelles, XXV, (Forcée de gré, T. WRIGHT, 1857-58, t.I, pp.134-136).
218
stupro è stato tutt’altro che violenza, e che la giovinetta ha aiutato il giovane a consumare il rapporto.
A differenza della farsa non abbiamo un testimone e le scuse addotte dalla ragazza ricordano
l’associazione, d’altra parte ovvia, fra sesso maschile ed arma, che abbiamo visto poco sopra per la
novella de l'official juge, nella medesima raccolta, ove pure l’inelegante parallelo è associato al tema
giudiziario.
Sempre in tema di arringhe surreali, citiamo il Sermon joyeulx d’ung fiancé qui emprunte un pain sur
la fournée, à rabattre sur le temps advenir, composizione rouennese ove in un inizio parodico il
predicatore, in luogo di esaltare le virtù della donna cui è dedicata l’orazione, la umilia.
Il me souvient bien quand ma mère
Disoit qu’elle estoit prude femme,
Mais qu’il en soit, par Nostre-Dame
Je n’oseroy de rien jurer.145
Il nucleo della storia è il seguente: un giovane ha approfittato d’una giovinetta, la madre della ragazza
apprende la notizia, si adira, rifiuta le nozze. Allora la giovane amorosa dispera e va parlare con il suo
amante bestiale il quale ha pronta la soluzione erotica ad ogni problema: «L’autre jour vous fustes
dessubz | A present je seray dessoubz». Ed ecco risolto senza troppi complimenti l’intoppo nel
ménage. Più tardi il ragazzotto troverà moglie e nella prima notte di nozze, dopo aver esercitato le
prerogative di marito, eccolo raccontare divertito la storiella di sesso alla novella consorte, che non si
scompone e prende in giro la ragazza, asserendo: «Aussi nostre gentil varlet | Si me l’a fait plus de
cent fois».
C’è qui il ricordo dei racconti salaci di Poggio Bracciolini e Giovanni Sabadino degli Arienti:
alludiamo in particolare a quello di Messere Ludovico Araldo,146 nelle Porretane praticamente
identico al sermone, come si evince già dalla sinossi che lo introduce «Miser Ludovico, araldo della
communità de Bologna, va dalla sua sposa e cum lei prende piacere. La matre de epsa il sente e
turbasse, e disfasse la parentella: e lui, alegro de quello ha facto, ne prende un’altra e poi se trova
vituperato».
La donna che non mantiene la castità finisce spesso col pesare sulle spalle d’un marito bestia (spesso
preso nel mazzo), con tanto di infante a carico. Per riuscire ad unirsi in matrimonio una volta la
verginità violata e la pancia ingrossata è spesso soltanto questione di dialettica: nella Farce de Jolyet,
145
146
Nel Rép. JULLEVILLE, sotto il titolo di “un fiancé”: APF, t.III, pp.5-8 : p.6.
Novelle Porretane, XXX, (G. GAMBARIN, 1914 : pp.177-182).
219
non posteriore al 1520, il protagonista che dà il titolo alla pièce ha sposato la moglie da appena
quindici giorni e questa gli dichiara non solo di essere già incita di lui, ma di prevedere il parto entro
un mese.
Professandosi assolutamente fedele, la moglie convince il marito delle sue straordinarie doti di
fertilità, facendo buon gioco alla vanagloria virile. Invece di porsi il problema dell’adulterio o di un
ben più realistico rapporto prematrimoniale, l’uomo prende a ragionare sulle conseguenza di questa
sua prodigiosa natura procreatrice.
JOLYET
Et comment ? Je suis affollé
Qu’en ung moys j’ay feict ung enfant,
Et les aultres y mettent tant.
Suis-je bien aussi habile homme ?
[…]
LA FEMME
Dea, oyez-vous, j’en ay faict ma part.
JOLYET
Vostre part ! Voicy merveilles.
Aura il pieds, mains et oreilles,
Cul derrière, panse devant,
Comme ceulx où on met tant ?147
Agli occhi del pubblico è ben evidente quale sia la parte giocata dalla moglie per avere un figlio in
così breve tempo; ma il marito è davvero bestia fino all’osso e dopo la prima esaltazione per le sue
non comuni doti virili inizia a snocciolare una contabilità ridicola sulle conseguenze nefaste di questa
unione oltremodo fertile.
JOLYET
[…]
En feroys-je bien toutesfoys,
Mesouen un en chascun moys,
Puisque si subtille vous estes ?
Je seroy bien à mes unettes.
O attendez : un, deux, troys ;
S’en seroit, à ce que je croys,
Trois en trois moys, chascun an douze.
Et la forte fievre m’espouse
Si seray deux foys maryé ;
Si j’en fais rien ; c’est bien chié !
Ce serait au but de six ans
Tout droit LX douze enfans.
Et le gibet seroit fournir
147
ATF, t.I, pp.50-62 : p.54.
220
A les élever et nourrir.148
In preda a tale preoccupazione di natura economica e dimenticando anche la recondita possibilità
che la sua sia una comune storia di adulterio, il nostro niais si incammina con la moglie dal suocero:
la sorprendente fecondità della donna non era prevista nel contratto di nozze e la ridicola dote
portata non sarà sufficiente a risarcirlo del danno subìto.
La descrizione di questa dote avviene sul registro dell’accumulazione ridicola; l’esagerazione è tesa ad
enunciare l’endemica micragna della coppia povera, bestia ed ignorante, oltre che disonesta.
JOLYET
[…]
Ie n’eu d’elle en mariage
Que six vingz soulbz en une bource,
Ung rebequet et une loure,
Ung bassin, ung pot, une poille,
Et comment esse qu’on appelle
Un auge à paistrir Dieu devant ;
Tou cela valoit pas autant
Comme beguins pourroient couster.149
Il suocero esita e con la sua naturalissima reazione di uomo con un minimo di intelligenza (o
d’esperienza) rischia di mandare all’aria il sermone convincente della figlia. Ma alla fine capisce a che
gioco la donna sta giocando e l’asseconda, promettendo all’uomo di caricarsi delle spese che
comporterà una prole in così rapida crescita. Sempre che tutti gli altri figli della coppia nascano con
lo stesso ritmo del primo, naturalmente.
Nous ferons cest apointement,
Mon filz Jolyet, par ainsi
Que vous nourirez cestuy-cy.
Mais s’elle en a ne deux ne troys
Plus que (de) dix moys en dix moys …
Je me submetz à mes despens
Les nourrir et (en) prens la charge.150
Lo stolto non si fida della parola del padre e pretende un contratto scritto: il che equivale a mettere
nero su bianco la propria stessa imbecillità. Ben contento di partire con sua moglie e la preziosa carta
148
Ibidem : p.56.
Ibidem : p.59.
150
Ibidem : p.61.
149
221
notarile non riesce a trattenere l’ultimo attacco di idiozia quando, tronfio addirittura, riceve i
complimenti della fedifraga per l’idea dell’accordo firmato in «parchemin».151
Nella XXIX delle Cent nouvelles nouvelles,152 si ripete ancora una storiella di questo tipo, ma ad
effetto sorpresa. Accade infatti che proprio durante il banchetto di nozze il marito voglia consumare
carnalmente l’unione. Ed è in una stanzetta che la donna si concede e subito dopo partorisce.
L’uomo cerca di nascondere l’accaduto, se ne sta tutto torvo con gli altri convitati, fino a quanto alle
ripetute richieste di parlare, fa apprendere la causa della sua preoccupazione: «Et par la mort bieu, se
j’estoie aussi riche que le roy, que monseigneur, et que tous les princes chrestians, si ne daroys-je
fournir ce que m’est apparent d’avoir à entretenir: véezcy pour un pouvre coup que j’ay accollée ma
femme elle m’a fait ung enfant.»153 Nel mondo dei matti, però, nessuno lo avverte del malinteso, così
l’uomo lascia la novella sposa, ancora timoroso della fertilità “conigliesca” della donna.
Il tradimento femminile a volte si giustifica nelle fisime dei mariti: alcune donne si vendicano
ragionevolmente dei digiuni sessuali cui essi le sottopongono con prepotenza. È il caso della Farce
nouvelle des chambrières,154 risalente al 1530, dove i doveri coniugali possono essere anche regolati da
cicli astrali e planetari, luna calante e crescente.
Ed ecco la comparsa di simile situazione in Boccaccio, che sviluppa il tema nel Decameron (II, 10)
dove è questione di un giudice «più che di corporal forza dotato d’ingegno» che obbliga la sua donna
ad astenersi dal fare all’amore durante per le feste comandate (e non).
Or questo messer lo giudice [...] incominciò ad insegnar a costei un calendaro buono da fanciulli che stanno a
leggere [...]; per ciò che, secondo che egli mostrava, niun dì era che non solamente una festa, ma molte non
fossero; a reverenza delle quali per diverse cagioni mostrava, l'uomo e la donna doversi astenere da così fatti
congiugnimenti, sopra questi aggiugnendo digiuni e quattro tempora e vigilie d'apostoli e di milla altri santi e
venerdì e sabati, e la domenica del Signore, e la quaresima tutta, e certi punti della luna ed altre eccezion
molte, avvisandosi forse che così feria far si convenisse con le donne nel letto come egli faceva talvolta
piatendo alle civili. E questa maniera, non senza grave malinconia della donna, a cui forse una volta ne
toccava il mese, ed appena [...].155
Il seguito è rocambolesco e vede la donna rapita da una nave di corsari in cui la bella giovane trova il
conforto sperato nel rude Paganino che a nessuna festa obbedisce se non ai suoi istinti elementari. La
donna si adatta facilmente alla nuova vita col corsaro; il marito riesce a scoprire come raggiungerla e
151
Sul parto anzitempo abbiamo parlato nella prima parte della Confabulatio CXXII di Poggio, sullo stesso tema.
les Cent nouvelles nouvelles, XXIX, (la Vache et le veau, T. WRIGHT, 1857-58, t.I, pp.173-177).
153
Ibidem : p.176.
154
Rép. COHEN, n°LI, pp.413-420.
155
Decameron, II, 10 : 8-10.
152
222
– fattosi amico di Paganino – chiede di poterla portare con sé. Ma l’antica moglie non ha alcuna
intenzione di tornare a casa e per esprimere la sua riprovazione nei confronti del giudice usa la stessa
metafora – lavorare la vigna – della moglie di Raoullet Ployart, che abbiamo visto poco sopra nella
farsa di Gringore.
E se egli v’era più a grado lo studio delle leggi che la moglie, voi non dovevate pigliarla, benché a me non
parve mai che voi giudice foste, anzi mi paravate un banditore di sagre e di feste, sì ben le sapavate e le
digiune e le vigilie. E dicovi che, se voi aveste tante feste fatte fare a’ lavoratori che le vostre possession
lavorano, quante faciavate fare a colui che il mio piccol campicello aveva a lavorare, voi non avreste mai
ricolto granel di grano.156
In questo caso le donne sono giustificate al tradimento, autorizzate dalla idiozia e dalla scarsa
prestanza dei mariti.
La Farce du poulier (quella fra le due “a quattro personaggi”, risalente forse al 1500) si riallaccia al
luogo letterario della capitolazione del marito di fronte all’astuzia muliebre, in un misto di
stanchezza, remissività, sottomissione. Spesso – sembrano dirci questi uomini frustrati – è meglio
non farsi troppi “soulcy” di gelosia per vivere in pace e più tranquilli. La pièce ci espone la storia di
un marito che dubita della fedeltà della donna perché casa sua è nottetempo assediata da amorosi e
galanti scostumati che cantano serenate e si compiacciono a risvegliarlo.
Il ne cessent toutes les nuictz :
L’un viendra heurter a mon huys,
Puys l’autre mes fenestres rue ;
L’un sifle ou chante amy la rue :
C’est pitye, ie n’ay nul repos.
Encore sy i’en tiens propos
A ma femme, elle me veult batre.
Quoy ! faict elle, laise les esbastre ;
Se sont jeunes gens, quel raison !157
Il marito conclude la lamentazione minacciando botte da orbi a chiunque insidi ancora la moglie.
Mais s’il advient c’un ie rencontre,
Ie luy bailleray mal encontre,
Me deust il couster cent escus.158
156
Ibidem : 32.
Rec. LEROUX, t.III, n°44 : p.4).
158
Ibidem : pp.4-5.
157
223
Ma ci accorgiamo quasi subito della sua codardia: la moglie non fa che imporgli il suo volere e
vessarlo notte e dì e a nulla servono le sue minacce. Con queste premesse viene introdotto
l’espediente narrativo. La donna lo obbliga ad andare a comprare un maiale alla fiera; l’uomo esce
per la commissione e l’amante viene introdotto in casa. Ma il cornuto torna indietro alla ricerca del
cappello: nella casa allora si produce il primo moto di terrore e l’amante viene nascosto sotto ad un
lenzuolo nel bel mezzo della sala da pranzo. Il padron di casa entra e si domanda giustamente che
cosa si celi sotto alla coperta.
LE MARY
[…] Que faict sy ceste couverture ?
LA FEMME
Laisses la, sote creature ;
Ales ou vous deues aller.
LE MARY
[…] Ie le veulx remectre en son lieu.
[…] Ie cognoistray vos verites,
A ce coups sy.159
Forse l’uomo ha paura di guardare in faccia alla realtà, fatto sta che la moglie lo convince a partire
riuscendo a non farlo curiosare sotto la misteriosa coperta. L’amante esce di nuovo allo scoperto e si
risolve con la donna di pranzare alle spalle del buonuomo.
Ma di nuovo il marito ritorna in casa per recuperare una corda con la quale legare i maiali; la donna
lo invita a rimanere sull’uscio nascondendo il galante nel pollaio ed il marito si indigna e comincia a
sospettare ancora più seriamente del tradimento. È qui che abbiamo una ulteriore conferma della sua
codardia: nonostante le minacce proferite all’inizio della pièce egli è terrorizzato di trovare in casa sua
un amante violento che lo possa «enpongner au visage».
L’uomo scoppia così in una crisi di pianto e non fa che ripetere «Iamais, iamais, iamais», destando
anche l’attenzione della vicina che accorre preoccupata. Infine nel suo delirio, il mari cocu indica il
pollaio dov’è l’amante: questi esce allo scoperto e la donna ne giustifica la presenza in casa
raccontando una storia rocambolesca di inseguimenti e salvataggi.
Deulx gros ribauldx, ses ennemis,
Le cachoyent a grans coup d’espee,
La teste luy eusent coupee
Sy ne l’eust gaigne en courir.
Et pour le povre secourir
159
Ibidem : p.12.
224
Ie l’ay faict entrer en ce lieu.160
Non ci è dato sapere se effettivamente lo stolto marito creda o no alla favola, fatto sta che come al
solito per evitare ogni discussione e pena lo vediamo non solo accogliere la presenza dell’amoroso
nella casa, ma anche regalare tutti i suoi beni ai parenti serpenti che lo circondano (scopriamo che lo
stesso amante altri non è che suo cugino e che pure la vicina di casa sembra assai bene informata
delle vicende del tradimento): «Tous mes biens sont vostre | […] Pour Dieu, laisons tous ces
debas».161 La storia si chiude con questi versi ove la “morale” riserva spazi di ambiguità alla stoltezza
del marito.
Il n’y a homme, tant soyt fin,
Et tant est la teste fine,
Que fine femme enfin n’afine.
Et pour oster nostre meranclye,
Une chanson, je vous en prye.162
La decima facezia di Poggio somiglia vagamente a questa trama: vi si narra parimenti di un adulterio
ma ad essere rinchiuso nel pollaio è piuttosto il marito che – convinto dalla moglie d’essere inseguito
dai suoi vari creditori – lascia che la consorte giaccia con l’amante mentre lui è nascosto nella
colombaia.163 E sempre in un contesto adulterino ecco ricomparire la cesta per polli nella novella
boccaccesca di Pietro Vinciolo (Decameron, V, 10).
Corrispondenze vaghe con un altro luogo del Decameron (VII, 6) sono nella scusa che la moglie in
farsa adduce al suo compagno una volta rivelata la presenza dell’amante: sembra infatti che ella
racconti uno stralcio dell’inseguimento inventato da Isabella per giustificare al marito la presenza di
Leonetto e Lambertuccio in casa sua. E ancora è analoga nelle facezie poggesche la storia CCLXVI
dove un marito mette pace fra i due amanti della moglie, fatti passare per due sconosciuti salvati da
una tragica rissa.
Ha ragione insomma Pietro Toldo164 a sostenere che vista la diffusione della traccia narrativa
dell’amante a vario titolo nascosto e poi accettato dal marito il modello si liquefa e dissolve
nell’oceano della tradizione narrativa orale.
160
Ibidem : p.19.
Ibidem : p.22.
162
Ibidem : p.23.
163
Facetiae, X : De muliere quae virum defraudavit.
164
P. TOLDO, 1903.
161
225
Se la donna è crudele con il marito, spesso è del tutto affabile e quasi sottomessa alle volontà
(voluttà) dell’amante e gli incontri clandestini sono irrorati da vino abbondante e accompagnati con
grasse pietanze quasi sempre finanziate dal cocu.
Agi e lussi della casa vengono sfruttati al meglio dagli amanti ed è fin troppo ovvio che il marito
giunge a guastare la festa sempre nel bel mezzo d’un bagno rilassante o del banchetto. Fra i tanti casi
prendiamo la canzone che si legge nel fabliau del Clerc qui fut repus derriere l’escrin: «Un jour en sa
chambre aveuc li | Avoit ung clerc cointe et joli : | Si mangoient et si buvoient, | Car viande et vin
tant avoient | Com il lor vont à volenté » ;165 o il plot del Vilain de Bailleul166 dove la donna per
ricevere il cappellano «Bien avoit fet son appareil. | Ja ert li vins ens ou bareil, | Et si avoit le chapon
cuit | Et li gastiaus, si com je cuit, | Estoit couvers d’une touaille». E per chiudere il trittico, il Prestre
qui fu mis au lardier,167 che viene colto in flagrante mentre gode di un bagno caldo dopo uno squisito
banchetto alla faccia del cornuto.
E veniamo alla farsa di Colin qui loue et despite Dieu en ung moment, à cause de sa femme, composta
nel 1525 e reimpressa numerose volte nel corso del secolo: Colin è ozioso e faceto, ed il pane in casa
non è mai una certezza. La sua donna cerca di impadronirsi del denaro, ma il marito reagisce e si
paragona ad un pastore della Astrée, in cerca di fortuna altrove.
COLIN (s’en va)
Je m’en voys autre part ouyr
L’oysellet par champs et par bois,
Ronger ma croustre atout de poys
Et besoigner de mon mestier ;
Quoy qu’en aviengne à contre poys
Je m’en passe de ce quartier
(il s’en va et la femme dit à part soy)
Et ne viendra point ce gaultier ?
Faut-il encor que j’y retourne ?
Si n’est-il pas vers le moustier,
Où qu’il se demeure et sejourne.
Hau, Colin !
COLIN (en s’en allant)
Tu dis vray, j’y tourne ;
Vous ne me crocherez de pièce168
Sono tutte intenzioni, tali rimangono e la moglie dispera:
165
Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.IV, pp.47-52 : p.48.
Ibidem, t.IV, pp.212-214.
167
Ibidem, t.II, pp.24-30.
168
ATF, t.I, pp.224-249 : p.232.
166
226
Hélas ! que seray-je, meschante
De dueil et desplaisir meurtrie !
Plourer faut et que plus ne chante,
Puisque j’ai perdu ma partie.169
A questo punto come era prevedibile vediamo sopraggiungere il rimpiazzo; un giovane e ricco uomo
che le propone soldi in cambio di carezze ed attenzioni sessuali: il rifiuto categorico opposto all’inizio
diventa via via più debole. I soldi, si sa, fanno gola, specie nella situazione disastrata della famiglia di
Colin: virtù tentata dal denaro, certo, ma anche dalla voglia di godere della propria giovinezza.
Prise suis d’estoc e de taille ;
S’on le scet, je seray infame (elle regarde son argent)
J’ay pour avoir meuble et vitaille.
Il n’est celle qu’avoir n’effame.170
Colin ritorna dal suo viaggio ben più debosciato di prima e trova casa sua piena dei ricchi regali del
galante: sebbene la sua donna non lo accolga nel migliore dei modi si compiace dell’inaspettata
ricchezza e degli agi che secondo la moglie proverrebbero direttamente dalla grazia di Dio.
COLIN
[…]
(Il regarde le mesnage et dit)
Dont est venu tant de merrien
Et de mesnage que j’ay veu ?
LA FEMME
Colin, de la grace de Dieu.
COLIN
E ce beau lict, ciel et cortines,
Simaises, potz, casses, bassines,
Dont vous est venu cest aveu ?
LA FEMME
Colin, de la grace de Dieu.
COLIN
Bancz treteaux, tables, escabelles,
E tant d’ustensiles si belles,
Dont l’a-vous gaigné, n’à quel jeu ?
LA FEMME
Colin, de la grace de Dieu.171
169
Ibidem : p.233.
Ibidem : p.241.
171
Ibidem : p.245.
170
227
Al che Colin cade in ginocchio ringraziando il padreterno: quando però un bambino spunta da
dietro le gambe della madre il sot mari si lamenta del fatto che tanta grazia divina è veramente
esagerata.
COLIN
[…]
(il regarde à ung petit enfant emprès d’elle, et dit)
Et puis à qui est cet enfant ?
LA FEMME
Il est à moy.
COLIN
Vray filz charnel ?
Après la brebis vient l’aignel.
Mais de qui l’avez-vous conceu ?
LA FEMME
Colin, de la grace de Dieu.
COLIN
Je ne luy en sçay gré ne grace,
De s’estre de tant avancé.
[…]
Car il m’a offencé
De soy mesler de tant de choses
A luy je n’ay pas tant pensé.172
Nella prima facezia di Poggio – Fabula prima cuiusdam Caietani pauperis naucleri, dedicata al
“povero nocchiero di Gaeta” – troviamo più o meno lo stesso canovaccio (sono le ragioni del viaggio
del protagonista che cambiano) che, va specificato, per la complessità dell’azione e la coerenza della
narrazione è una vera eccezione al caos stilistico e contenutistico della farsa di Colin.
Ingressus, cum eam maiori ex parte instauratam in meliusque auctam vidisset, admiratus, uxorem quaesivit
quomodo domuncula, antea informis, esset perpolita. Respondit statim mulier sibi in ea re eius, qui omnibus
fert opem, Dei gratiam affuisse: “Benedicatur” inquit “Deus, pro tanto hoc beneficio erga nos suo!”. […]
Eodem modo et aliis quibusdam quae nova domi et insueta videbantur conspectis, cum largioris Dei
munificentiam affuisse diceret, virque ipse tam profusam erga se Dei gratiam admiraretur, supervenit scitulus
puer triennio maior, blandiens (ut mos est puerorum) matri. Conspicanti hunc marito sciscitantique quisnam
puer esset, suum etiam uxor respondit. Stupenti quaerentique viro, unde se absente puer provenisset, Dei
quoque in eo acquirendo sibi astitisse gratiam mulier affirmavit. Tunc vir indignatus divinam gratiam etiam
in procreandis filiis sibi adeo exuberasse: “Multas iam” inquit “gratias Deo habeo agoque, qui tot cogitationes
suscepit de rebus meis!”. […]173
Anche un favolello francese risponde ad analogo modello: si tratta della storia del Fils que fut remis au
soleil, figlio concepito durante l’assenza del marito che al rientro si sente raccontare la storia di un
172
173
Ibidem : p.246-247.
Facetiae, I: Fabula prima cuiusdam Caietani pauperis naucleri.
228
fiocco di neve che avrebbe messo incinta la moglie. L’uomo decide di restituire, per così dire, il
bimbo al cielo.174
2.2.7 – Altri tradimenti, nascondigli, travestimenti.
Cercando le origini del fabliau delle Braies au cordelier175 possiamo risalire fino ad Apuleio: lo stesso
svolgimento narrativo viene riprodotto a più riprese da Boccaccio, Sacchetti, Sabadino degli Arienti,
Poggio, Morlini. In questa sede ci interessa in qualità di fonte primaria per la Farce nouvelle de frère
Guillebert, datata con incertezza al 1505 o agli anni ’30 del secolo. Nel sermone giocoso che apre la
pièce si invitano le mogli insoddisfatte a godere delle gioie amorose del parlante; latino maccheronico
e parabole spericolate sono gli elementi di comicità graffiante del monologo al centro dell’intreccio
comico.
Foullando in calibistris,
Intravit per boucham ventris
Bidauldus, purgando renes.
Noble assistence, retenez
Ces mots pleins de devotion ;
C’est touchant l’incarnation
De l’ymage de la brayette,
Qui entre, corps, aureille et teste
Au precieulx ventre des dames.176
Che le giovani donne rimangano in silenzio e non dicano nulla dei baci rubati e soprattutto che
quelle sposate si mostrino bendisposte verso tutti ed in particolar modo nei riguardi monaci. Una
vera opera pia: un fatto, si potrebbe dire, in favore della religione e del clero.
Il sacro sermone del frate gaudente giustifica così la licenziosità sessuale della sua categoria.
FRERE GUILLEBERT
Ma dame, ayez de moy mercy,
Ou mourir me fault avant aage,
Mon las cueur vous baille en ostage ;
Plaise vous le mettre à son aise.
Je vous dis en foy de langaige
Ce qui me tient en grant mesaise.
174
Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.I, pp.162-166.
Ibidem, t.III, pp.275-277.
176
ATF, t.I, pp.305-327 : p.305.
175
229
LA FEMME
Frère Guillebert, ne vous desplaise,
Ce n’est pas ainsi qu’on amanche.
FRERE GUILLEBERT
M’amye, je vous pry qu’il vous plaise
Endurer trois coups de la lance ;
C’est belle osmosne, sans doubtance,
Donner pour Dieu aux souffreteux.177
Le “avances” pubbliche sono assai ben argomentate ed una donna le accetta dicendosi stanca di
sprecare la giovinezza col marito; il monaco ha raggiunto l’ambita preda ma come tutti gli esemplari
della sua specie è titubante, pavido, timoroso. Nella novellistica e nel genere farsesco la caratteristica
principale del moine paillard è una subdola codardia.
FRERE GUILLEBERT
Je suis mort se je me remue.
J’ay desjà le cul descouvert.
Et pour ce, frère Guillebert,
Mourras-tu si piteusement ?
[…]
Je laisse mon ame à pourveoir,
Pour la mettre avec des fillettes
[…]
In manus tua, domine,
Nisi quia domine ne
Tedet spiritus et pelli
Confiteor deo celi
Ut queant quod chorus vatum…
Hé, te perdray-je, beau baston ?
C’est faict ce coup, povre couiller ;
Il vient, par Dieu, tout droict fouiller
[…]178
Stavolta il terrore del monaco è fondato: il marito assente rientra prima del previsto a recuperare la
borsa del denaro che ha lasciato in casa; la donna, invece di metterlo in salvo, gioisce crudelmente a
vedere aumentare la paura nel cuore del religioso, che invoca disperatamente il soccorso divino.
FRERE GUILLEBERT
Et, mon Dieu, je suis bien destruit.
Vertu sainct Gens, le cul me tremble.
Or çà, s’il nous trouvoit ensemble,
Me turoit-il, à vostre advis ?
LA FEMME
177
178
Ibidem : pp.309-310.
Ibidem : pp.318-319.
230
Jamais pire homme je ne vis,
Et si crains bien vostre instrument.179
Il marito entra nella camera da letto dove il monaco si è nascosto ed ecco il coup de théâtre: in luogo
della borsa prende per sbaglio l’hault de chaulses del monaco. La donna è disperata e si domanda
come fare quando il marito si accorgerà dello scambio. La soluzione è paradossale come sempre e
mette in campo la religione: basterà dire che si tratta delle braghe miracolose di San Francesco. Ed
ecco allora tutto il villaggio degli stolti credere alla frottola ed organizzare addirittura una processione
per portare la preziosa reliquia nella chiesa.
Un altro fabliau molto noto si trasferisce dalla tradizione orale d’oltralpe per arrivare al Decameron
(VII, 5) e da questi ritornare nella Francia delle Cent nouvelles nouvelles che ne riprendono lo
svolgimento proprio a partire dalla rielaborazione boccaccesca: si tratta del Chevalier qui fist sa dame
confesse,180 ove un marito si traveste da prete per ascoltare i peccati della moglie.
Un esempio analogo di trama è contenuto ne le Badin, la femme et la chambrière, la cui trama è
complessa e si incentra su una buona parte dei cliché dei mali del matrimonio. Il marito è malato e la
moglie gli augura continuamente la morte, anche in presenza della serva, la quale riferisce.
LE BADIN
Que dit ma dame de penon ?
LA CHAMBRIERE
Elle dit que cy vous estiez en terre
Que son cœur seroit hors de serre
Et son corps hors d’une grand’peine
LE BADIN
Elle dit ses fiebvres quartaines.
J’é encore une verte veine.181
Quando la serva parla alla padrona del peggioramento delle condizioni del marito, la moglie non
riesce a trattenere la contentezza.
Va, va, en pleure-tu ? je te jure
Par sainct Benoist, que si fut
Mort il y a dix ans il m’en
Fut de beaucoup mieux qu’il
N’est; va, va, s’en est autant
D’escaillé. Mais viens çà ; n’as-tu
179
Ibidem : p.314.
Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.I, pp.178-187.
181
ATF, t.I, pp.271-288 : p.273.
180
231
Point parlé à Messire Morice ?182
Ma, coup de théâtre, l’uomo non è malato; si ripresenta a casa travestito da monaco ed apprende
come la moglie si intrattenga in varie avventure galanti, finanche con lo stesso monaco cui egli ha
preso in prestito il nome.
La differenza fra questa farsa ed il fabliau che abbiamo menzionato è che in quel caso il marito si
presentava ben riconoscibile e la moglie doveva inventare una serie di scuse per le sue malefatte: il
centro dell’azione nella farsa del Badin, la femme, la chambrière resta il travestimento, assente nel
fabliau, ciò che rende assai nebulosi i rapporti fra le due composizioni.
Interessante il tema delle ingiurie sul letto di morte nella farsa del Munyer de qui le diable emporte
l’âme, risalente al 1496 e firmata dalla penna di André de la Vigne. Il marito morente è costretto a
subire la crudeltà della moglie.
LE MUNYER
Or suis-je en piteux desconfort
Par maladie griefve et dure
Car, espoir je n’ay de confort
Au grand mal que mon cœur endure.
LA FEMME.
Faut-il pour ung peu de froidure,
Tant de fatras mectre dessus.183
Il seguito è spietato: a cosa serve un uomo senza vigore? Si chiede la moglie, asserendo di aver già
trovato un valido rimpiazzo. Il marito reagisce e si scusa addirittura per la sua salute, poi si irrita e
soffre: la morte si avvicina, favorita anche dai colpi e dagli spintoni inferti dalla crudele consorte.
Infine il malato chiede un confessore. Il prete arriva, incoraggiato dalla presenza della donna – che è
la sua amante – e viene accolto come un principe, baciato, carezzato, vezzeggiato. Fra una tenerezza
ed una carezza la moglie spiega cosa la rende felice.
Par ce que mourir
Veult mon mary dont j’en aye joye.184
182
Ibidem : p.279.
Rec. JACOB, pp.233-265: p.233.
184
Ibidem : p.244.
183
232
La lamentazione dell’uomo procede, «Hélas ! pourquoy se marie-on? (sic)», e la moglie continua col
suo atteggiamento crudele ed aggressivo: lo costringerà ad accogliere il prete, preparerà un ricco
festino per il monaco e se lo gusterà sotto gli occhi impietriti del marito in punto di morte.
Ormai prossimo ad un registro tragico André de la Vigne ha pensato bene di introdurre un
intermezzo grottesco: la confessione dell’uomo al pubblico, riprendendo i moduli del testamento
giocoso. Poi, a stemperare ulteriormente i toni neri, troviamo il colpo di scena fantastico e triviale:
Berith viene a prendere l’anima del mugnaio; per farlo gli attacca un sacco al sedere poiché da lì, ci
comunica l’angelo nero, escono le anime dei dannati. Ma al posto dell’anima il mugnaio scarica nel
sacco le sue produzioni escrementizie; Berith discende agli inferi e prova a liberare l’anima al cospetto
di Lucifero e Proserpina: l’inferno si riempie della puzza ed il Diavolo dichiara di non volere più nel
suo regno l’anima di un mugnaio, perché in tale categoria v’è solo puzza e micragna.
Grande potenza comica ed immaginifica per una storia che si aggiunge alla lunga lista delle pièce
profane dedicate ai mugnai, che avevano la reputazione d’uomini disonesti, stolti, meccanici, sporchi
e soprattutto poveri. Ricordiamo il Fabliau du pet au vilain di Rutebeuf, la cui satira è diretta contro
il villico in genere. Del resto, fra i soggetti preferiti della farsa e dei generi profani liminari, trionfa il
villano, vittima, protagonista e destinatario ad un tempo degli strali comici.
Onques à Jhesu Crist ne plaise
Que vilainz ait herbergerie
Avec le fil sainte Marie.185
I diavoli, dice Rutebeuf :
Chapitre tindrent lendemain,
Et s’accordent à cel acort
Que jamais nus ame n’aport,
Qui de vilain sera issue
Ne puet estre qu’ele ne pue.
Se nella farsa il mugnaio viene escluso solo dall’inferno – e non sappiamo quale sia l’ultima
destinazione della sua anima – Rutebeuf è ben più preciso: il villano non vada né all’inferno né in
Paradiso.
185
Rec. MONTAIGLON – RAYNAUD, t.III, pp.103-105 : p.103.
233
Ainsin s’acorderent jadis,
Qu’en enfer ne en Paradis,
Ne puct vilains entrer sans doute.186
Il che giustifica forse perché il mondo è sempre pieno di villani.
Pernet187 nelle sue avventure con la moglie punta piuttosto a cambiare il suo status sociale: la donna
lo costringe ad accogliere un amante spacciato per cugino. Il falso parente convince lo stolto uomo
d’esser nobile e Pernet – figlio d’un vaccaio – se ne fa giusto vanto col villaggio tutto.
Je ne craindroy plus les gendarmes
Comme avoys de coustume,
Su, su, que je m’acoustume,
A porter le bonnet sur l’oreille,
Et la plume sous l’apareille
Tout à l’entour de mon bonnet.188
A questo punto il marito viene inviato dalla moglie a comprare tutto quanto serve per un banchetto
degno del nuovo status sociale della famiglia ed utile a consumare come si deve la passione con il
galante. Si evidenzia così il sottile confine onnipresente nei pazzi della farsa, sempre sospesi fra follia
simulata, stupidità e reale idiozia: ripetendo lo schema della farsa del poulier, Pernet inizia un
andirivieni fra casa e bottega, adducendo ogni volta una scusa ai due amanti che sono costretti ogni
volta ad interrompere il loro ménage; ed al solito non ci è dato sapere se l’azione del marito sia
intenzionale o dovuta davvero ad una stupidità congenita, irrecuperabile.
Infine la donna trova il modo di impegnare il marito usando un’espressione idiomatica che si
concreta come d’uopo nella farsa in un motivo di comico verbale.
Sans le battre, meurtrir ne occire,
Nous lui ferons chauffer la cire.189
L’espressione «scaldare la cera» sta al francese medievale come «tenere il moccolo» al moderno
italiano. Così mentre Pernet se ne sta in cucina prestando la massima attenzione alla padella con la
186
Questa e la precedente, Ibidem : p.105.
Farce de Pernet qui va au vin, certamente posteriore a quella del pasté e fu composta con buone probabilità negli anni
’20 del XVI secolo. ATF, t.I, pp.195-211.
188
Ibidem : p.200.
189
Ibidem : p.208.
234
187
cera, i due amanti fanno il loro comodo in camera da letto: un’espressione proverbiale si concreta in
azione scenica seguendo il funzionamento più tipico del comico verbale farsesco.
George le Veau sembra il prototipo di quel George Dandin del Grand Siècle, a ragione considerato il
maris dupé per antonomasia. Oltre al dettaglio onomastico, la pièce di Molière serba il ricordo di
molti altri dettagli del precedente farsesco, composto all’altezza del 1500.
Il George “medievale” ha commesso l’errore di sposare una donna di nobili natali e per questo altèra
ed orgogliosa: essa non fa che rinfacciargli la stupidità e l’umile origine di vaccaio ed ogni volta che
George cerca di prendere la parola, gli dirige contro dei minacciosi «qui es-tu?». L’uomo allora va dal
curato – amante, fra l’altro, di sua moglie – e cerca di scoprire se può trovare nella sua genealogia un
qualche avo famoso e nobile.
Nella chiesa si nasconde un chierico compare del prete che fa risuonare la voce di Dio nella navata,
rivelando all’uomo che per arrivare ai suoi primi avi famosi bisogna rimontare nientemeno che ad
Adamo ed Eva. Dopo numerose ipotesi, fra le quali anche la discendenza diretta da Clovis, i bricconi
arrivano dove vogliono, dicendo all’uomo di obbedire a tutti i comandamenti di sua moglie:
LE CLERC (FAISANT DIEU)
George, se avoir veulx ma grace,
Croire te convient, sans diffame,
Tout tant que te dira ta femme,
Et obeyr à son vouloir ;
Aussi tu feras ton debvoir,
A ton curé la disme rendre
De ton bestial ; pense d’entendre
Pour ton salut ce que te dis.
Ceste robbe de paradis
Te donne, que tu vestiras ;
Puis, quant devers ta femme yras,
Ton nom cognoistras en substance.190
La burla fantastica e la satira anticlericale già vista per il frate Guillebert sono strette assieme; l’uomo
riceve una pelle di vacca con la quale dovrebbe presentarsi alla moglie; la donna fa finta di non
riconoscerlo e chiama il prete per risolvere la metamorfosi infernale in una ulteriore umiliazione per
il cornuto.
LA FEMME
De l’eau benoiste, mon amy;
190
Ibidem, t.I, pp.380-401 : pp.395-396
235
Je croy que je deviendray folle.
LE CURE
Ganymèdes, ça mon estolle.
LE CLERC
Tenoris et conjurare
LE CURE
Diabolis inficare
Super nivem dealbabor.
Ego volo, te prenabo.
Que quiers-tu en ceste maison?
GEORGE LE VEAU
Rien que je sache que Alison
LA FEMME
Doulx Jésus, il me mengera.
GEORGE LE VEAU
Non fera Alison, non fera :
Aprochez me moy hardyment.191
George è ormai completamente sottomesso: “oggettivizzando” ancora una volta un’espressione
idiomatica egli è diventato un «veau de disme», ciò che nel linguaggio dell’epoca significava povero
di spirito: lo fanno marciare a quattro zampe, si prendono gioco di lui, lo canzonano e lo battono
nella migliore tradizione goliardica.
Alla fine la donna cede al curato la bestia che verrà portata, dice quest’ultimo, in macelleria.
Nervatura morale della farsa è la critica al matrimonio fra persone di rango differente, ancora
nell’ambito del mauvais mariage.
Racconta invece un travestimento funerario galante la settantaduesima delle Cent nouvelles
nouvelles192 dove la moglie adultera copre di nero il suo amante dando a credere al marito ed a tutti i
servitori di avere un demone in casa.
Nella farsa intitolata le Retraict,193 del 1500, un marito sopraggiunge durante il banchetto della
moglie con l’amante ed il galante non può fare nient’altro che rifugiarsi sotto al letto: mentre il
valletto traditore, Guillot, serve al padrone di casa il pasto preparato per l’amante, questi da sotto al
letto inizia a tossire e così è costretto ad infilare la testa nel buco dei “servizi igienici”, ripetendo lo
stesso espediente, insomma, della novella appena citata delle Cent nouvelles.
Quando il marito ben sazio va a servirsi del bagno il galante esce dal suo nascondiglio talmente
sporco e fetido che il maistre de la maison crede d’esser al cospetto d’un diavolo uscito dalla bocca
191
Ibidem : pp.397-398.
les Cent nouvelles nouvelles, LXXII, (la Nécessité est ingénieuse, T. WRIGHT, t.II, pp.109-113).
193
Rec. LEROUX, t.III, n°53.
192
236
degli inferi per castigarlo dell’infondata gelosia e si inginocchia davanti al galante chiedendo
perdono.
La Farce d’ung mary jaloux qui veult esprouver sa femme,194 forse degli anni ’40 del 1500, si apre con i
pavoneggiamenti di Colinet, vestito da badin e pronto a fare razzia di tutti i titoli e di tutte le
ricchezze del mondo. La zia lo rassicura come se fosse un bambino: in realtà ha l’aria di essere un
adolescente scapestrato, benché l’autore della composizione poetica gli doni la facoltà di menare
colpi e la violenza di un vero bruto. Un marito, ingelosito dalle chiacchiere del villaggio sul conto
della moglie, sospetta che questa lo tradisca: i sospetti sono rivolti al cappellano, con cui la compagna
passa molto del suo tempo libero. Il marito è folle di passione, incontra casualmente Colin e, stupito
delle insolite capacità burlesche di questi, gli chiede un consiglio sul da farsi. Il niais lo spinge a
comprare una cintura di castità all’ultima moda, ma la zia di Colin sopraggiunge e dissuade l’uomo
dalla violenza sulla moglie, invitandolo a travestirsi per insidiarne la fedeltà e sincerarsi della
resistenza alle tentazioni del mondo.
Il marito coglie al volo il consiglio della donna, salvo dimenticare poi di aver chiesto a Colin di
restare a guardia della casa per impedire l’accesso nelle mura domestiche ai galanti durante la sua
assenza. Inutile dire che l’uomo, scambiato per galante, prenderà la sua razione di bastonature. Colin
manda a monte il piano ingegnoso, ed al solito il cornuto dovrà inginocchiarsi al cospetto della
moglie. La pièce assai farraginosa nello svolgimento viene dal montaggio abbastanza meccanico di
qualche canovaccio già in circolazione: l’astuzia del travestimento del marito in amante sembra un
appendice artificiale delle pièce e trae certamente origine dalla mitologia.
La storia del marito camuffato in galante che insidia la moglie per testarne la fedeltà affonda le radici
nella favola di Cefalo e Procri, i due amanti che, a seconda della versione del mito, si travestono una
o più volte, per mettere alla prova l’amore assoluto del compagno. Mito che era ampiamente letto in
Europa nella sua versione ovidiana e che in ragione del tema amoroso e dell’articolazione della trama
attorno al cambio di sembianze trovava nella scena una dimensione propizia. Il successo della trama è
appunto nelle possibilità meccaniche che vi si possono sviluppare e l’ironia farsesca trae vigore
dall’inversione del mito: ove nella favola di Cefalo e Procri l’amoroso insidiato dall’amante finisce
con l’accettare le avance provando la sua infedeltà, nelle farse la moglie, accortasi dell’inganno,
simula probità e coglie l’occasione per far battere il marito in veste d’amante, che poi dovrà scusarsi.
194
ATF, t.I, pp.128-144.
237
Di nuovo, ma con un pizzico di sagacità in più ed un’accresciuta attenzione per l’intreccio: a
trompeur, trompeur et demi.
2.2.8 – Punizioni degli amanti.
Leggendo queste farse, la fedeltà reciproca fra coniugi sembra una nozione piuttosto moderna. Dopo
tutti i tradimenti a carico delle donne che abbiamo menzionato veniamo ora alle vendette dell’uomo
verso la donna in una specie di legge sentimentale del taglione che paga il più delle volte l’adulterio
con stessa moneta e violenza per interessi.
Il tradimento uxorio getta il maistre di casa nel ridicolo, costituendo una infrazione della legge sociale
patriarcale: per rendere il fedifrago-uomo altrettanto interessante bisogna che tutta la situazione sia
così ridicola da ispirare nel pubblico un certo interesse comico.
Ne le Médecin et le Badin, del 1540, con un complicato stratagemma si cerca di rendere più vivace la
licenziosità dei costumi del maschio traditore. L’azione inizia con un dialogo fra il maistre e la
cameriera: la padrona di casa è via per un lungo pellegrinaggio ed il marito convince la servetta ad
unirsi con lui, assicurandole che nel caso in cui il suo «esperon | faisoyt tant que la panse dresse»195
sarà lui stesso a prendersene tutta la responsabilità.
È un presagio, infatti la serva finisce incinta: consigliato da un arguto amico dottore il badin simula
così al rientro della moglie un malore improvviso. Come nella farsa di Philibert o in quella
dell’amoroso la donna prende un campione di urine e le porta al medico, il quale si premura di
mettere in moto l’operazione di occultamento dell’adulterio approfittando della niaiserie della donna.
CRESPINETE
[…] Qu’esse ? […]
LE MEDICIN
Ma compere, par le vrai Roi,
Puisqu’il fault que je le vous dye,
Cestuy qui porte maladye
Est enchainct d’un enfant tout vif.196
La soluzione alla gravidanza maschile è trasferire il feto nel ventre di una giovane donna… per mezzo
di un rapporto sessuale. Crespinete dovrà quindi “convincere” il marito recalcitrante e la serva pudìca
195
196
Rec. LEROUX, t.II, n°38 : p.8.
Ibidem : p.23.
238
ad unirsi carnalmente; la sotte femme si prodigherà in promesse e sermoni pur di effettuare questa
assurda transumanza fetale. La credulità della moglie è ancor più assurda, giacché nello svolgimento
dell’azione si segnalano a più riprese le tendenze promiscue ed omosessuali della servetta.
LA CHAMBRIERE
Il estoit une fillete
Coincte & joliete,
Qui vouloit scavoir le jeu d’amours.
Un jour qu’elle estoit seullete,
De Venus en sa chambrette
Je luy en aprins deulx ou troys coups.
Apres avoir sentu du cours,
Elle m’a dit, en se riant,
Les premiers coups m’y sembloyent lours,
Mais la fin m’y sembloyt friant.197
L’imbecillità paradossale di quello che viene gabbato credendo di essere rimasto pregno compare
nella novella boccaccesca di Calandrino (Decameron, IX, 3) dove il protagonista è convinto della cosa
dagli amici crudeli, che gli estorcono così «capponi e denari», e nel Grand parangon des nouvelles
nouvelles di Nicolas de Troyes ove il titolo della novella XXXV – della Jeune femme à qui on fit
entendant qu’elle avoit engroissé son mari et comme il remist son engroissure à sa chamberiere, laquelle il
engroissa par le consentement de sa femme – 198 è di per sé esplicativo della comunanza delle vicende in
oggetto.
Donne così stolte nella farsa sono comunque assai rare: il gentilsesso, anzi – assieme ai valletti ed ai
servitori astuti provenienti direttamente dal teatro latino – si presenta per lo più come una riserva
infinita di astuzie e jeux de ruses. Rari sono gli esempi di rivincita dei mariti sui galanti, sui valletti o
sulle mogli ed altrettanto rari quelli di rapporti matrimoniali basati sulla confidenza e la fiducia
reciproca. La leggenda di Segretain, così come la si legge in diverse redazioni, ha per protagonista una
coppia appartenente a quest’ultima rara categoria degli onesti: il sagrestano si è invaghito della brava
donna, moglie di un ricco borghese, la quale non si lascia corrompere e anzi al marito riferisce le
insidie del prete.
Guillaume l’entent, si s’en rist,
197
Ibidem : p.5.
Nicolas de Troyes, Le grand parangon des nouvelles nouvelles, XXXV.
Une jeune femme à qui on fit entendant qu'elle avoit engroissé son mari et comme il remist son engroissure à sa chamberiere,
laquelle il engroissa par le consentement de sa femme, (E. MABILLE, 1869, pp.141-148).
239
198
Et dit que por tot le tresor
Otemen ne Abielor
Ne sofferoit-il que hom nez
Fust charnelment de li privez ;
Mielx ameroit querre son pain
Par le pais, morir de fain.199
Infine però il marito cade in miseria ed il sagrestano cerca di approfittare della situazione: la donna
consulta il marito e la coppia, disperata, accetta di ricevere le cento lire che il monaco immorale trova
nelle «Boites et armoires | Et les autex as sentuaires | Où la gent on l’offrande mise».
L’uomo di chiesa ottiene il convegno amoroso ma il marito Guglielmo, accecato dalla gelosia e dalla
rabbia, si abbatte contro di lui, uccidendolo.
Si li espandi il cervel,
Et li Moines chai avant;
Ainsi va fox sa mort querant.200
La crudeltà del favolello è evidente: dal prete che ruba i soldi dell’elemosina per consumare la sua
notte d’amore, alla prostituzione con consenso del marito che tradisce la parola data ed uccide.
La visione di un’umanità reietta e negativa si staglia, del resto, in tutte le farse: il cadavere del prestre
viene portato in strada perché la coppia assassina possa sbarazzarsene; ed ecco allora le spoglie
dell’uomo di chiesa gettate nel porcile perché vengano divorate in breve tempo. La conclusione
morale si allaccia a questa nera visione del mondo, capace di vendersi per trenta denari.
Ainsi ot Guillaume son droit
Du Moine qui par son avoir
Cuida sa feme decevoir ;
Le bacon ot les cent livres.201
Lo schema del fabliau del Segretain ritorna più o meno invariato in quello di Constant Duhamel in
cui l’intrigo è più solido e complesso e la visione negativa del mondo stemperata nella biomeccanica
dell’inganno.
La moglie proba è messa alla prova da un Pretre insidioso aiutato da altri due notabili (il Prevôt de la
ville e il Forestier) che attendono alla rovina economica del marito di lei per poterlo ricattare.
199
Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD, t.V, pp.237-239 : p.237.
Ibidem : p.238.
201
Ibidem : p.239.
200
240
Tant que besoing, poverté et fain
La face venir à reclaim.202
Appreso l’intrigo che si prepara alle loro spalle la donna inventa un tranello e lo propone al marito:
invitare i tre ad un medesimo incontro galante, con breve sfalsamento d’orario fra l’uno e l’altro.
Arriva il Pretre e – uditi i passi del Prevôt – la donna lo fa nascondere in una botte; anche il Prevôt
dovrà nascondersi poco dopo per l’arrivo del Forestier, che a sua volta dovrà rifugiarsi anche lui, in
ragione dell’arrivo (stavolta reale) del marito, che disporrà dei tre traditori a suo piacimento.
La punizione è più crudele delle semplici botte e la donna chiama a raccolta le compagne legittime
dei due notabili e quella (illegittima) del Pretre. Ascia alla mano il marito abusa di loro. Nel
contempo i birboni intrappolati infieriscono l’uno sull’altro: dopo la violenza le tre donne sono
allontanate da casa nude. Il tino dove stanno gli intriganti viene poi incendiato costringendoli ad
uscire, aspersi di pece e con le piume addosso, ciò che li renderà ridicoli agli occhi del villaggio e
vittime degli attacchi di feroci cani randagi che li scambiano per enormi volatili.
Constant Duhamel è probabilmente la fonte della farsa a sei personaggi Deux gentilzhommes, le
meunier, la meunyere et les deulx femmes des deulx gentilzhommes abillees en demoiselles,203 composta
nell’anno 1500, dove un crudele mugnaio e la sua ancor più insidiosa compagna riescono ad
umiliare e ad estorcere il denaro a due gentiluomini.
La farsa si apre con un dialogo sul dovere e l’onore, in cui le due vittime del tiro mancino
manifestano una passione irrefrenabile per la mugnaia e criticano il cuore di coloro che covano
crudeltà e la malizia; esposizione che affronta il tema vagamente morale della pièce esponendo
precocemente i due gentiluomini al ridicolo.
Alla scena successiva l’uomo di fatica dichiara tutta la sua preoccupazione per la disastrosa
condizione economica del mulino per il cui riscatto lui e la moglie non posseggono il denaro
necessario. In questa farsa la solidità della coppia è un ottimo motore per mettere in atto la
diabolicità femminile; la moglie pensa al sistema di risollevare lei e suo marito dalla povertà, con la
scaltrezza e la sicurezza di chi della truffa fa professione.
LA MOUNYERE
[…]
Vous voules vous pendre ou defaire?
202
203
Ibidem : t.IV, pp.166-198 : p.168.
Spesso denominata Poulier à six personnages. Rec. LEROUX, t.II, n°27.
241
Nostre Dame ! Laises moy faire,
I’aray de l’argent promptement.
LE MOUNYER
De l’argent !
LA MOUNYERE
Voyre finement.
Il n’est finesse qu’on ne face.
LE MOUNYER
Et belle dame ! que je sache
Comme argent pouries atraper ?
Je feres tant aise de veoir
De l’argent pour a mon cas pourvoir
Des escus vingt trente ou quarante.
LA MOUNYERE
Nous en aurions plus de cinquante
Ausy rouges que seraphins.204
La donna agisce per lucro ed il marito non è da meno, mosso dall’istinto di vendetta: il tiro è giocato
a partire dalla passione che la donna sa esser nutrita nei suoi riguardi dai due gentiluomini. L’idea
della moglie è quella di domandare un prestito per il riscatto del mulino illudendo i due nobili di
poter averla come amante. Essi, dice, «Sont fort amoureulx de mon corps. | Sy vous faignyes aler
dehors | Envyron vins jours ou un moys | Jamais un regnard prins au ny | Ne fust si peneulx qu’i
seront.»
È ancora una volta un’umanità reietta, un mondo negativo di inganni e tradimenti reciproci in cui il
prossimo – in un pessimismo “totalitario” – pensa continuamente a come distruggere a suo
vantaggio le ricchezze e la reputazione dell’altro. Accade così che i due uomini sopraggiungano con
fare minaccioso in due tempi diversi, pretendendo però la medesima cosa – il saldo dei debiti – ed
ottenendo solo le vaghe promesse di una notte d’amore in cambio di un prestito che entrambi non
esitano a soddisfare. La donna li tenta ed insidia, facendo bella mostra allo stesso tempo di pudore e
fedeltà: la scena le riesce talmente che il primo gentiluomo arriva a minacciarla per farle accettare il
prestito in cambio dell’unione carnale. Dall’altra parte abbiamo l’avidità del mugnaio che sconfina
quasi nello sfruttamento della prostituzione quando lo si vede contare i soldi ottenuti dalla moglie.
Sa ! de par Dieu ! i’ey cent escus !
Cent escus d’or ! mort bieu ! ie t’ayme.
[…]
Su! Su! J’ay de l’or à pleine poing.
Femmes sont fines à merveilles.205
204
205
Ibidem : pp.7-8.
Ibidem : pp.15 e 20.
242
Come nel racconto del Constant ai due aspiranti amanti viene dato appuntamento in due orari uno a
ridosso dell’altro. Il primo gentiluomo non tarda a farsi vivo ed arrivato nella casa del mugnaio
imbandisce un prelibato banchetto, guastato dal sopraggiungere del secondo. Ai passi di questo il
primo galante si nasconde nella gabbia per i polli ed assiste alla libagione fra la donna e l’altro nobile,
interrotta – vien da sé – dall’arrivo del mugnaio, che durante tutta la scena è rimasto nascosto
lanciando di tanto in tanto qualche a parte a contrappunto della situazione scenica.
Come già nel Constant gli intriganti sono costretti a rifugiarsi, spaventati dalla possibilità di essere
scoperti fino a subire l’ultima umiliazione, non diversa da quella di Costant Duhamel. Sotto i loro
occhi il crudele mugnaio manda a chiamare le rispettive dame, amoreggia con esse e si liba del
banchetto trovato a tavola. Bloccati dalla paura per i danni alla propria reputazione i gentiluomini
devon sopportare d’essere cornuti. Dopo aver violato le mogli il mugnaio simula d’accorgersi della
loro presenza e vien così l’ultima crudeltà: ricattandoli l’uomo obbliga i due ricconi a farsi regalare i
soldi prestati per il riscatto del mulino.
La fine goliardica, slapstick, della storia precedente qui non è prevista, ma al di là delle pur rare
volgarità206 è largamente compensata da una solidità stilistica non comune: innanzi tutto per via delle
indicazioni di scena intarsiate nelle battute dei personaggi, secondo un procedimento che sarà
ampiamente usato nella drammaturgia del XVII secolo, Molière e Shakespeare in testa;
secondariamente, a causa della «memoria del passato» che il testo conserva e che lo fa poggiare su più
solide basi letterarie: per memoria del passato intendiamo il basilare accorgimento stilistico per cui
ogni enunciato e dato esposto nella narrazione è funzionale allo sviluppo successivo della trama.
Nella farsa il più delle volte questa memoria dei fatti è assente in favore dell’anelito biomeccanico
cosicché il lettore si trova spiazzato di fronte ad una trama lacunosa e che tradisce l’aspettativa di
finzione.
Qui accade il contrario ed anzi, la memoria è nel testo finalizzata ad ottenere risultati comici: ad
esempio nel passo in cui il primo gentiluomo si arrabbia col secondo perché questi tenta di
dissuaderlo dall’uscire dal pollaio per evitare lo scandalo; il primo è irritato ed afferma di poter uscire
tranquillamente e di non temere niente e nessuno. Ma non possiamo evitare di notare che egli
rimane in gabbia.
206
LE PREMIER: Sang bieu ! Sy tenir la puys myenne | A mon desir et mon entente | Ie la baiseray des foys trente | En
faisant l’amoureulx delict. | O que la tenir sus un lict | Pour la ribaulder quinze iours ! | Vers elle m’en voys tout le cours |
afin que mon ennuy soit hors.
Ibidem : p.10.
243
Qualche pagina dopo, quando il mugnaio fa finta di accorgersi della presenza di «quelque bellete |
Ou beste avec […] [la] poulaille» è lo stesso primo gentiluomo ad esclamare terrorizzato: «C’est faict
de nous. Nous voyla prins. | Misericorde ! mes amys.»207 dimostrando la sua codardia a dispetto
dell’esibizione di coraggio della scena precedente e facendo scattare la macchina del riso proprio per
via di una memoria interna alla pièce. L’esposizione dei fatti basata sulla sincronizzazione del presente
e del passato determina una differenza fra i due compari sul piano (se pur endemicamente)
psicologico, sbozzando l’idea di una costruzione del personaggio più complessa rispetto alla
meccanica pura e semplice dei lazzi.
E va segnalato che questa particolare solidità della pièce fu certamente dovuta alle grandi aderenze di
questa con il Constant Duhamel, ma anche a quelle più flebili, ma pure significative, con la novella
Decameroniana (VIII, 8) ove Spinelloccio tradisce l’amico Zeppa intrattenendo una relazione con la
moglie, e quest’ultimo, accortosene, trova il modo di possedere la moglie dell’amico proprio di
fronte ai suoi occhi, inaugurando così un’amichevole poligamia.
Ed è ispirata forse al Constant anche la già citata farsa dei primi del Cinquecento Gentilhomme, Lison,
Naudet, la damoyselle. La pièce, piuttosto frammentaria, è stata più volte interpretata come una critica
alla nobiltà, ma gli elementi di dialettica politica nella farsa sono sempre edulcorati e rispondono più
che altro alla logica “naturale” ed acritica del biasimo reciproco fra classi. Qui il signore del villaggio
va a casa di Naudet ed abusa della moglie, mentre il povero deve portare il cavallo del nobile al
pascolo: durante una di queste visite il buon Naudet si impossessa degli abiti del gentiluomo
abbandonati poco lontano dalla casa e con questi ed il cavallo si camuffa da signore e se ne va al
castello. Una bella scoperta per la moglie del feudatario che con il paesano si giace ed infine esclama:
«Pleust a Dieu que (tu) fusses monsieur | Et que monsieur devint Naudet.» Su analoga inversione
delle parti si basa anche la battuta finale di Naudet al signore: «Ne venez plus naudetiser | Je n’iray
plus seigneuriser».208
207
208
Ibidem : p.42.
ATF, t.I : p.269.
244
2.3 – Millanterie guerriere e borghesi.
2.3.1 – Miles gloriosus e compagni civili.
Le farse dedicate al soldato fanfarone sono di solito semplici scene in cui il miliziano bestiale e
nullafacente si accanisce sui disgraziati che invece dovrebbe difendere. Le immagini di questi
mercenari bestiali dovevano essere ben presenti nella testa di ciascun spettatore e chiunque poteva
vedervi il militare di turno che aveva saccheggiato il pollaio o stuprato la moglie. È un riso amaro in
cui l’argomento tragico della piaga che queste milizie dovevano rappresentare alle porte di Parigi o
nelle campagne, viene esorcizzato con la messa alla berlina dell’idiozia militare. Il miles gloriosus delle
farse francesi ha origini nella storia e si riallaccia agli uomini d’arme assoldati nella milizia borghese
poi soppressa da Luigi XI nel 1480 e che Francesco I ripristinò nel 1524. L’Archer de Baignollet trae
ispirazione da questa milizia e quando nel 1524 essa venne ripristinata vediamo di nuovo spuntare
una satira dello stesso genere: il Franc archer de Cherré.
Pur essendo un monologo, il Franc archer de Baignollet209 è un vero capolavoro drammatico: la
finezza dell’opera sta nel mettere nel soliloquio dell’arciere, quel contrasto, quell’accidente
209
PICOT – NYROP, pp.47-70.
245
drammatico, che ne rivela le millanterie e la vanità senza bisogno di un personaggio che replichi o
che ne metta in evidenza le menzogne.
Nella commedia latina questo contrasto veniva assunto da una spalla, un parassita il cui ruolo era
quello di commentare i discorsi o di mostrare la differenza fra idea e azione, il lato grottesco e brutale
delle fughe davanti al pericolo più risibile ed i voli di fantasia dei pavidi signori. La menzogna e la
realtà dei fatti nel monologo del franc archer convivono e sono qui combinate in un misto d’azione e
parole che doveva richiedere una buona conoscenza dell’interpretazione e della scena.
L’arciere di Bagnollet si presenta col suo corno da combattimento, minacciando rappresaglie su chi si
prenda gioco di lui (e possiamo immaginare l’incidente scenico, in cui il pubblico viene intimidito
direttamente, avendo presumibilmente cominciato a ridere fin dall’entrata in scena dell’uomo); il
monologo si apre con la descrizione di un arduo nemico, duro da vincere e pericoloso da affrontare,
che il nostro dice aver sfidato e battuto con estremo valore. Scopriamo chi fosse realmente il suo
nemico quando sentiamo l’arciere ripeterne il pericoloso grido di battaglia: «coquericoq !». Si tratta
insomma di un pollo o di un gallo rubati chissà da quale pollaio.
I racconti proseguono fino all’ultima ridicolaggine, quando l’arciere, trovandosi di fronte ad uno
spaventapasseri, lo scambia per un nemico valorosissimo, scappa e non esita a vendere regno e
bandiera pur di salvarsi.
Dea, je suis Breton, si vous l’estes.
Vive sainct Denis ou sainct Yve !
Ne m’en chault qui, mais que je vive.210
Il soldato che s’era detto coraggioso diventa una creazione comica indimenticabile. E finalmente,
quando si rende conto d’aver a che fare con un pupattolo di paglia, lo vediamo riprendere forza,
coraggio, spacconeria, ma con la scarsa convinzione di chi ormai ha mostrato il suo vero volto; eccolo
infierire colpi di spada al manichino e rubargli finalmente la zozza camicia. Poltrone e ladro, come
era la reputazione dei miliziani mercenari di stanza a Parigi e nelle principali città d’Europa.
210
Ibidem : p.61.
246
L’altro Franc Archer, quello di Cherré,211 non ha bisogno di una spalla essendo ripreso di tutto
punto dal primo e tuttavia non manca di dettagli gustosi e d’una certa originalità comica. Questi
anche entra in scena rumorosamente, annunciandosi con un tamburello da guerra.
Je porty moy tout seul le fays
Plus d’ung heure (de) la bataille ;
J’en emorchois bien, ne vous chaille,
Je croy, ung millier pour le moins,
Et passèrent dessoubz mes mains,
Dont jamais n’ouys mot sonner
Je percy trois fois la bouée
Des ennemys par beau mylieu ;
Les plus aspres me faisoient lieu,
Quant ilz cogneurent ma vaillance.
J’en embrochoys sept en ma lance
Comme endoilles en une gaulle
Et les vous portoys sur l’espaule
Comme on va à l’anguillanleu.
Que diray je, par le corbieu ?
J’en faisoys ce que je vouloys.212
E poi ci racconta come abbia aggredito un paesano cieco, accecandogli l’altro occhio e come dopo
una rissa ridicolosa giocata di gambe i due siano scappati. A questo punto le fandonie del soldato
non convincono più nessuno ed ogni tentativo vanitoso fallisce nel grasso riso della platea.
Il Philipot della farsa del 1545 intitolata des Trois galants, è un civile che entra a far parte delle milizie
fanfarone. Lo svolgimento della trama è semplice: i tre militi imbecilli vestono Philipot della divisa e
nel momento in cui entra nel personaggio del soldato ecco il protagonista millantare il proprio valore
e le proprie imprese eroiche. Intanto le sue azioni si intessono di spacconeria e Philipot inizia il
saccheggio alla stregua dei camerati.
Sus vilain, sus, ales au vin
Et qu’on m’aporte du meilleur ;
Et qu’il ayt belle couleur,
Ou je vous rampray la teste.213
I compagni violenti e “ubueschi” di Philipot portano una croce verde e i loro nemici una bianca; il
nostro è così intelligente e valoroso che vuol portare tutte e due le croci, in modo che nel momento
211
APF, t.XIII, pp.18-44.
Ibidem : pp.25-26.
213
Rec. LEROUX, t.IV, n°12, p.4.
212
247
della difficoltà saprà sempre da che parte stare. Ed infatti, al minimo rischio batte in ritirata, implora
perdono e cambia di bandiera.
Non è difficile trovare nella novella italiana volgare plot analoghi, derivati dal comune modello del
fanfarone della letteratura latina: Giovanni Sercambi, ad esempio, scrive su questo argomento le
novelle De cattivitate stipendiarij e De viltate.214
Si tratta delle avventure simmetriche di Folaga e Tromba, beoni spacconi ed ingordi, eroici
mangiatori di pastasciutta. I due si risolvono all’ingaggio come capitani d’arme contro Firenze e
dimostrano il valore sulla tavola apparecchiata ove mangiano portentose quantità di maccheroni.
«Omai potrai fare relazione che tu hai trovato il più valente campione che in Firenza sia e quello che più
nimichevolmente Firenza disfarà; narrandoti che L non mi farenno mover più che io volesse. E così come
vedi la mia persona bella grande forte, così pensa che tutte l'altri vertudi cardinali regnano in me. […] che
quando io dormo non curerei II cento persone bene armate […]: sappi che farei quando io non dormisse e
fusse col tavolaccio e con tutta l'armadura!»215
L’eroe in guerra mostra tutto il suo valore: si separa dai suoi compagni per espletare le sue funzioni
organiche e in una scena analoga a quella dell’arciere francese, si impiglia in un rastrello che crede sia
il nemico e vende in un attimo i cinquanta uomini affidatigli.
La vanagloria, comunque, non riguarda solo i soldati ed alcuni borghesi sembrano avere la stessa
mentalità del miliziano.
Marchebeau e Galop, ad esempio, i due squattrinati signori di plate-bourse nella farsa, (a dire il vero
assai esile, e studiata soprattutto per la ricorrenza toponomastica in più luoghi della letteratura
profana francese) a quattro personaggi che porta il loro nome, la cui stesura forse risale al regno di
Carlo VIII.
MARCHEBEAU
Je suis fort comme un Ercules.
GALOP
Et moy vaillant comme un Achiles.
MARCHEBEAU
Humble aulx coups.
GALOP
Apre à la vitaille […]
Mais aulx femmes […]
214
215
Novelle di Sercambi, LXXXXVII- LXXXXVIII, (G. SINICROPI, 1972, t.I, pp.421-425 e pp.426-429).
Ibidem, LXXXXVII, (G. SINICROPI, 1972 : p.423).
248
MARCHEBEAU
Bien combaton.216
Ma Amour non è possibile senza Convoitise: i due sgangherati ribaldi possono dunque ambire quanto
credono alla conquista di una donna ma non l’avranno mai. Sopraggiungono allora le solite figure
allegoriche della pace amorosa e della tranquillità familiare che se ne vanno a spasso sulla scena,
prendendosi gioco dei due cialtroni e sottolineando la misera condizione in cui versano nonostante le
vanterie proferite in pubblico.
La Farce du gaudisseur qui se vante de ses faictz et d’ung sot, qui luy respond au contraire ci presenta una
specie di Rodomonte le cui imprese eroiche somigliano a quelle di Pyrgopolinices, Thraso e
Cleomachus del teatro di Plauto e Terenzio. Come nelle atellane, il contrasto è qui affidato al
contrappunto giocoso del servo parassita, con l’inevitabile connotazione gastronomica delle imprese.
LE GAUDISSEUR
Quant sur ma teste ay ma salade
Pour à coup faire une passade
Homme n’en crains dessus la terre.
LE SOT
Voire, pour battre ung malade,
Quant il a sa grande hallebarde,
Et pour casser à coups ung voirre
[…]
Quand il se trouve avec gens
Pour à coup menger six harens,
Jamais n’en a nulz mercy.
[…]
LE GAUDISSEUR
Pour danser, chanter à plaisance,
Pour donner des grans coups de lance,
Habille en suis, quoy que l’on dye.
LE SOT
Pour menger oultre habondance,
Si fort que luy tire la pance,
Il est maistre, je vous affie.217
Rispetto allo schema della commedia latina lo svolgimento è qui più elementare e le linee dialogiche
dei due quasi non si toccano: la conversazione si svolge su due binari paralleli ed è direttamente
rivolta al pubblico. Privo d’ogni intenzione di sospensione della realtà il sot fa da unico
contrappunto, senza che il militare lo ascolti veramente.
216
217
Rec. LEROUX, t.IV, n°8 : p.3.
ATF, t.II, pp.292-302 : pp.293-294.
249
Ne le Gentilhomme et son page, del 1525, il dialogo fra i due protagonisti è realistico ed acceso e
doveva trarre dalla realtà storica non solo forza ironica, ma anche vis polemica, essendo
evidentemente ispirato alla condotta dei vari miliziani e membri della piccola nobiltà che passavano
il tempo fra saccheggi e latrocini, nascosti dietro ad una dubbia professione di nobiltà.
Une bonne fuyte
Vault mieux c’une mauvaise atente.
Quant de cela ie n’en scay rien
Mais vrayment y me souvient bien
Qu’a la journee des Alemans
Vous fuytes dens ung fosse
Et puys quant tout fut ebloce
Vous courutes au pillage.218
Padrone e servitore si disputano sulle deformazioni della realtà del signore: il paggio si prende gioco
della collera del padrone riportandolo alla misera realtà della sua condizione; scopriamo dalle parole
del parassita che i valenti amici del gentiluomo sono «Croc», «Happe» e «Gibet», (rispettivamente
«gancio», «arraffone» e «forca»), cui un infelice destino ha riservato la morte umiliante degli appesi
per via di certi furti ai quali lo stesso gentiluomo protagonista deve aver preso parte; la cacciagione
che il cialtrone dice aver riportato a casa per cena, altri non è che un pollo rubato ai villici; i
possedimenti ed i feudi di cui millanta l’esistenza non consistono che in uno stagno puzzolente il cui
pesce è stato rapinato da uno spelacchiato gruppo di aironi. Anche nelle avventure galanti il
gentiluomo mente e cambia la realtà a modo suo.
Il est bien vray que je vous vis pretendre
En un soeir au cler de la lune
De coucher avec quelque une
Qui d’une main estoyt manquete
Et vous onga d’une pouquete
La galande et revintes tout nu.219
Fino al delirio finale ove un botta-risposta fra i due ci mette a parte d’un viaggio in Inghilterra per
pretendere dal re alcuni beni e far accoppiare i magnifici levrieri reali con la cagna da pascolo, sporca
e rognosa, del protagonista. La chiusura è riservata alla voce del servo, che corona il ritratto ironico e
velenoso del padrone col problema del salario, che naturalmente non gli è mai corrisposto.
218
219
Rec. LEROUX, t.I, n°8 : p.6.
Ibidem : p.8.
250
Nella farsa dell’Aventureulx, certamente posteriore al 1528, il protagonista e Guillot le Maire –
stupratori e razziatori in pensione – non fanno che discutere fra loro su questioni oziose.
AVENTUREULX
A! dea, dea, ne me frape pas!
Combien que rien je ne vous crains.
GUILLOT
Sang bieu, se g’y bolte les mains,
Je m’en raporte bien à toy ;
Ne t’aproche pas pres de moy,
Sy tu veulx que je me deffende.
AVENTUREULX
Vault y poinct mieux que je me rende ?
GUILLOT
Y vault mieulx que nous apoincton.
Colin, les coups sont dangereulx.220
In Colin filz de Thevot,221 del 1530, Colin, (il cui nome abbiamo già visto in una farsa forse presa da
Poggio Bracciolini) è un reputato capo villaggio. Il figlio parte per la guerra e Thevot si dispera per la
sua incolumità, fino a quando il giovane non ritorna con uno strano personaggio al seguito –
ufficialmente un prigioniero – di cui il capofamiglia deve prendersi carico.
Interviene una donna che racconta come un soldatastro abbia cercato di rubarle due formaggi
prendendosi ricche bastonature ma riuscendo ugualmente a fuggire. Il padre si rende conto che il
figlio non ha più l’armatura ed associa al pargolo i dettagli del racconto udito nel villaggio,
scoprendo che Colin si è guardato bene dal partire in guerra e nel tempo della sua assenza ha
vagabondato e rubacchiato nei dintorni del paese. Inoltre, per fuggire più rapidamente dalla donna
inviperita dal furto dei due caci, il giovane scansafatiche ha abbandonato la costosa armatura:
l’apoteosi comica si ha poco più avanti, quando scopriamo che il misterioso prigioniero altri non è
che un pellegrino scroccone, deciso a vivere alle spalle dello stolto miliziano e del padre.
Nel monologo le Resolu222 di Roger Collerye gli stessi caratteri del fanfarone si trasferiscono nelle
avventure galanti. Basta ascoltare un momento il protagonista per capire la vera portata delle sue
eroiche gesta amorose.
L’autrier soir, mon oeil guignoit
Une mignonne fort humaine
220
Ibidem, t.III, n°55 : p.6.
ATF, t.II, pp.388-404.
222
Roger Collerye, Monologue du Resolu, (C. HERICAULT, 1855 : pp.59-72).
221
251
Qui contre moi se desdaignoit,
Ou à tout le moins se faignoit,
D’une face assez mondaine
Devant son huys je me pourmaine
Soubz l’espoir de parler à elle.
Son mari vient, qui se demaine
Et me dit : Galant, qui vous meine ?
De ce quartier tirez de l’eile.
Pour garder l’honneur de la belle
Je n’y feiz pas longue demeure.
Puis le mari à sa femelle
Hongne, frongne, grongne, grumelle
Par l’espace d’une grosse heure.223
2.3.2 – La corruzione dei preti.
La farsa e le sue forme prossime non parteggiano né per il ricco né per il contadino, né per il nobile
né per l’uomo di strada, ma rispettano le regole di quella che potrebbe definirsi “ideologia meccanica
del riso”. Ciò rende queste composizioni di una tale gratuita crudeltà – crudeltà che, detto
incidentalmente, mostra i profondi rapporti del favolello con la farsa – che si ha l’impressione che
tutta l’umanità sia un’accozzaglia reietta e disonesta di imbecilli. Il mondo, regolato dalle leggi
sovversive dell’illogicità e dell’astuzia, è un’enorme gabbia di folli, dove la grossolanità del paesano è
paragonabile a quella del nobile, ed i soprusi dell’uno non sono numericamente inferiori a quelli
dell’altro: è per questo che si deve rifuggire ogni considerazione in chiave sociale e politica di queste
composizioni, impegnate più nella costruzione di una meccanica alienata dell’umanità, che in una
critica etica o morale.
Ciò non esclude naturalmente i legami fra lo svolgimento dei temi ed il vissuto storico: per quanto
riguarda i preti, ad esempio, si può evidenziare un irrigidimento su posizioni anticlericali (ma
soprattutto una maggiore libertà di espressione favorita dal nazionalismo anti-papalino e gallicano)
corrispondente con la Riforma, che mise in risalto il contrasto manicheo fra la sincera fede delle
classi sociali più povere – con tendenze talvolta mistiche – e la licenziosità dei costumi della gente di
chiesa.
Già alle porte della Riforma, del resto, alla lamentazione ed ai toni ispirati dalla fede, propri delle
moralità, erano stati via via sostituiti i registri stilistici parodici: lamentazioni, testamenti e
confessioni giocose, verso la fine del XV secolo cominciarono a prevalere sulle composizioni serie e
223
Ibidem, (C. HERICAULT, 1855 : p.61).
252
gli interlocutori sacri diventarono improbabili Sainct Raisin, Sainct Hareng, Sainct Ongnon, Sainct
Jambon, madame saincte Andouille, Sainct Frappe-Cul...
La separazione sentita dal popolo minuto fra la sacralità e la gente di chiesa si fa più forte ed
“impegnata” in corrispondenza con le politiche anticlericali francesi, instaurate nel quadro di
consolidamento dei poteri del nascente stato moderno, centrale, autonomo dal clero, e - con le
guerre d’Italia - antipapale. La Riforma mette in gioco molteplici forze sociali e la letteratura comica
ne recepisce in parte le idee, mescolandole alla già viva asprezza della moquerie contro i preti ed i
curati che rimontava alla tradizione goliardica medievale: la selva di prelati traditori ed ingordi, del
resto, esisteva già nelle produzioni letterarie di Rutebeuf, Jean de Condé, Guillaume de Normand e
nella novella italiana che funzionava come sponda per l’elaborazione del fabliau su chiavi tonali
moderne.
Come è prevedibile la tendenza a peccare delle genti di chiesa si esprime in farsa più efficacemente in
ambiti ed orientamenti sessuali: la Farce de Brus (che traduciamo «belles filles», oltre al significato
persistente di «petite sœur») mette in scena le passioni di un gruppo di religiosi più bendisposti nei
confronti del mondano che della mistica religiosa, a dispetto (anzi, forse proprio a causa)
dell’eremitaggio.
LE DEUXIEME HERMITE
Dieu nous a mys dessus la terre
Hommes roides, forts et puissans
Et de nos membres joyssans
Comme aultres en verité.224
Questi religiosi esprimono nella farsa in questione tutta la loro volgarità animalesca: colti dalle brame
dell’astinenza tentano di insidiare la supposta verginità delle fillettes, mettendo sul campo tutte le
loro arti di persuasione, senza aver onta dell’ipocrisia che muove le loro azioni.
LE PREMIER HERMITE
Quant nous sommes aulx bonnes villes,
Nous faisons les freres frapars ;
Mais aulx champs droictz dessus liepars
A porsuyvir filles et femmes.
[…]
LE DEUXIEME HERMITE
Quant nous alons par les maisons
Nous sommes pales et deffaictz,
En disant salmes et oraisons
224
Rec. LEROUX, t.II, n°36 : pp.16-17.
253
Pour ceulx qui nous ont des biens faictz,
Mais aulx champs sommes contrefaictz,
Chantant chansons vindicatives
Avecques paroles lascives.225
Il denaro è l’unica morale che guida il mondo: fino a quando gli eremiti si ostinano a fingersi poveri
le bru non hanno intenzione di cedere alle loro richieste sessuali.
LE DUEXIEME HERMITE
Madame, soyez secourable
Aulx pauvres freres hermytaulx,
Qui n’ont pecunnes ne metaulx
Et boyuent de l’eau tous le iours.
LA VIELLE BRU
Frere, il n’y a rien pour vous.
LE PREMIER HERMITE
Ah ! thesauriere de sancté
Ie priray sancta & sante,
Qui vous preserve de la toux.
LA VIELLE BRU
Frere, il n’y a rien pour vous.
LE DEUXIEME HERMITE
Vous aves la viaire angelique
Quel embraser telle relique,
Beau regard, gratieulx et doulx.226
Ma le donne si svestono subito quando il prete fa finalmente suonare la bisaccia piena d’elemosine e
la verginità per le giovani donne cessa d’esser un valore assoluto, al che la “vieille Bru” non si lascia
scappare l’occasione per mettere in chiaro la morale della favola: «Mectez-moi en posession | de la
borse pecunyeusse. | […] Qui a argent il a des brus».227
La farsa di Sœur Fessue (non successiva al 1540, nominata anche l’Abesse et ses sœur: il nome della
protagonista è Fessue o Fesne) affronta l’amore in uno scenario conventuale: un gruppo di suore si
indigna e si spaventa per lo scandalo che verrà quando una di esse, unitasi con un frate, dovrà
partorire. Il problema è esposto senza mai toccare l’etica o il rispetto del sacramento della castità e al
contrario si sviscerano tutte le ragioni della convenienza: le donne del convento hanno infatti paura
che l’evento possa limitare la loro libertà di intrattenersi con i rispettivi amanti. La questione morale
viene liquidata brevemente.
225
Ibidem : p.19.
Ibidem : p.15-16.
227
Ibidem : p.22.
226
254
Ave Maria!
Et Jessus et je l’ay tant faict
Et a mon plaisir satisfaict
Sans estre grosse.228
Che si violi pure il sacramento della castità; il punto è piuttosto non rimanere incinte: le religiose si
pongono il problema di come organizzare un parto in tutto segreto per far sì che tutte le altre
abitanti del convento possano continuare a godere delle attenzioni del prete. La licenziosità del santo
luogo non è del resto sconosciuta neanche alla badessa, che – ricevendo le due suore recatesi da lei
per parlarle dello scandalo di Fesne – si mostra paillard ed accidiosa.
L’ABEESSE
Certes i’estoys en ce parloyr
En saincte contemplation
Des mos d’édiffication,
Atendant l’heure du menger.
[…]
E qu’esse ; estes vous amoureusse,
Regretes vous encores le monde ?
[…]
Ceans il habonde
Autant de plaisir savoureulx
Comme au monde :
Et qu’il ne soyt ainsy
Dans cette maison icy
Poves avoir un amoureulx.229
È presente qui l’incertezza narrativa più significativa della pièce, probabilmente riportata sulla pagina
in maniera erronea rispetto alla rappresentazione. La battuta che abbiamo appena visto anticipa la
licenziosità della “Maistresse du Convent” e contrasta con la scena di probità che questa farà alle sue
sottoposte, annullando l’effetto sorpresa della rivelazione finale, quando Fessue sarà assolta a seguito
delle peccaminose confessioni della badessa. Momento clou di comicità è la descrizione delle
circostanze dell’accoppiamento di Fessue con il frate paillard.
SEUR FESNE
Dens le dortoueur,
A ma chambre, pres le monteur,
Ia tant enquerir ne s’en fault.
228
229
Ibidem, t.II, n°37 : p.8.
Ibidem : pp.14-15.
255
[…]
LA DEUXIEME
Et que ne cries vous bien hault ?
[…]
SEUR FESNE
Comment crier, i’estoys pasmee ;
Et puys en nostre reigle est dict,
Ou ie n’ay faict nul contre dict,
Qu’au dorteur on garde silence.
[…]
L’ABEESSE
[…] Qui vous garda
De faire signe pour secours ?
SEUR FESNE
Las ! ie faissoys signe du cul,
Ma nul me vint secourir.
[…]
LA TROISIEME
Il est possible,
Frere Redymet est terrible,
Et n’eust sceu ceste povre asniere
Faire signe d’aultre maniere.230
La farsa può ricordare per la comune atmosfera conventuale Decameron IX, 2, dove si tratta di una
badessa che fu svegliata nottetempo dalle novizie per punire la relazione amorosa di una di queste «ed
essendo con lei un prete, credendosi il saltero dei veli aver posto in capo, le brache del prete vi si
pose; le quali veggendo l’accusata e fattanela accorgere, fu diliberata ed ebbe agio di stare col suo
amante.»231 In conseguenza dell’episodio, la Badessa dovrà concedere lo stesso privilegio peccaminoso
a tutte le sue sottoposte. Il peccato carnale non è nulla per questi personaggi a meno che alla
malefatta non succeda l’ingrossarsi della pancia.
Il commercio delle reliquie è un altro degli attributi monacali negativi più ovvi e gli esempi
novellistici in questo campo non si contano: fra tutti citiamo il famoso Frate Cipolla boccaccesco;232
il prete di Masuccio Salernitano, che «essendo ne l’ordene de san Dominico solenne predicatore
reputato, con grandissima arte da cerretano» fa mostra il manico del coltello che uccise San Pietro233
(ma la prima parte della raccolta di Masuccio è in toto una esauriente monografia sui vizi del clero).
Appartiene sia alla categoria del prete corrotto e gaudente che a quella del truffatore da mercato e
catafalco «uno bizocco ipocrito et arcatore di parola nomato fra’ Bonzeca, omo d’ogni cattiva vita;
230
Ibidem : pp.23-24.
Decameron, IX, 2 : 1.
232
Ibidem, VI, 10.
233
Novellino, p.I, II, (A. MAURO, pp.19-30).
231
256
[che] secondo l’opere suoi […] dovea essere uscito di quel mal sangue di Giuda Scariotto»,234 che
troviamo in due novelle del Sercambi. Nella prima che lo riguarda il Bonzega inganna una coppia di
stolti facendo loro credere d’avere il fuoco di Sant Antonio dentro casa: riesce così ad ottenere una
stoffa, che rivende. Ma al suo ritorno in Pisa il frate pretenderà troppo dalla credulità della coppia e
colto dal marito mentre “leva il fuoco” sacro alla donna subisce una pioggia di bastonature e deve
restituire il maltolto.
Fra preti e cerretani venditori di cianfrusaglie la differenza è scarsa, e lo stesso sentimento di
insofferenza per le cianfrusaglie e le reliquie anima la farsa del 1515 intitolata d’un Pardonneur, d’un
triacleur et d’une tavernière235 ove leggiamo una sorta di sfida di impudenza fra ciarlatani che – in
luogo dei preti appena citati – sfoderano reliquie di santi dai nomi burleschi celebrando le curative
virtù dello loro astruse mercanzie.
LE PARDONNEUR
Je vous vueil monstrer la creste
Du coq qui chante cheuz Pylate ;
Et la moytié d’une late
De la grand arche de Noë.
LE TRIACLEUR
Je viens du mont qui est gelé,
Où j’ay cueilly ceste racine.
LE PARDONNEUR
Ce n’est que merde de geline,
Le croyez-vous ? Le ribault ment.
LE TRIACLEUR
Seigneurs, voicy de l’oignement
Qui croist emprès la saincte terre.
LE PARDONNEUR
La forte fiebvre serre
Qui en ment ; sang bieu, c’est bouillie.
LE TRIACLEUR
Il a menty. Dieu le mauldie,
Se ce n’est vraye medicine
Que j’ay prins au mont de Turgine,
En la montaigne d’Arcana.236
Come il frate di Sercambi il nostro “cerretano” è in possesso «d’un de seraphins d’emprès Dieu». In
risposta il «triacleur» esalta i poteri delle sue pozioni e «oignements» che avrebbe «prins sur le
234
Le due novelle del Sercambi dedicate al frate truffaldino sono la LXXXXIV e la LXXXXV. Qui menzioniamo la
prima, De malvagitate Hypocrite (G. SINICROPI, 1972, t.I, pp.408-412 : p.408).
235
ATF, t.II, pp.50-63.
236
Ibidem, (t.II, p.55).
257
prebstre Jehan», fra le cianfrusaglie vi è enumerato anche l’uovo di un monaco «Qui fut ponnu en
Barbarie, | Qui est plain, quand la lune est plaine, | Et tary quand elle est tarye».
E poi un elenco di merci ancor più straordinarie: «De la teste de Cerberus, | De la barbe de
Proserpine, | Du pied de Hanibal, un petit caillou des murs su Paradis, | Le dent de Geoffroy, la
pierre dont David | Frappa le geant Goliath» ed infine «du bois de tabourin | De quoy David joua
devant Dieu».237 I due si accusano a vicenda sulla falsità degli oggetti che mettono in vendita ed
infine fanno pace per un’allegra bevuta alle spalle degli acquirenti più allocchi. Non contenti delle
truffe perpetrate tutto il giorno, pagano anche il conto con una delle loro cianfrusaglie, ingannando
la moglie del taverniere, a sua volta noto ciarlatano, “arracheur de dents”. E di nuovo chiudiamo le
nostre considerazioni con la legge universale della farsa: «à trompeur, trompeur et demi».
2.3.3 – Niais, badin, stupidi, ignoranti.
Come si è visto la stupidità non è insensata ed anzi ha spesso un ampio margine di ambiguità che la
rende fruttuosa, confondendo il confine fra l’astuzia e l’imbecillità cronica: ci stupiamo così di vedere
come una catena di azioni involontarie ispirate dalle circostanze abbia spesso per risultato l’indiscusso
trionfo del sot.
Uno degli esempi più eclatanti e gustosi è quello di Mahuet Badin,238 del 1500. Mahuet, stolto
nativo di Bagnolet deve andare al mercato a dare un barile di latte “au prix de marché” dove la
soluzione narrativa è tutta improntata allo sviluppo del comico verbale; viene da sé che lo stolto
paesano pensi che “prix de marché” sia una persona in carne ed ossa. Così, giunto al mercato, il niais
si rivolge ad un escroc che afferra il malinteso e lo gira subito a proprio vantaggio dichiarando di
essere «monsieur prix de marché». Il sempliciotto gli regala tutta la sua merce.
Rimasto però con il bidone del latte vuoto, l’idiota chiede ad un passante cosa debba farsene e questi
ironicamente gli risponde di darlo sulla testa del primo venuto: la comprensione del traslato non
rientra fra le attitudini del niais, che prende tutto alla lettera. Ecco allora sopraggiungere di nuovo il
truffatore che viene accoppato dalla buona fede e dalla meccanicità priva di discernimento con cui il
Badin esegue i consigli che gli si danno. Il caso e la stoltizia, dopo infinite capriole appianano tutto e
riducono tutto come prima.
237
238
Ibidem, (t.II, p.56 e sgg.).
Ibidem, (t.II, pp.80-89).
258
Ne la Femme et le badin239 la donna prega il marito niais di andare a vendere della merce al mercato.
Questi si fida di uno sconosciuto che prende la mercanzia promettendo di pagarla in seguito e dando
il nome di Zorobabel per garanzia.
Preso a botte dalla moglie non solo perché non è riuscito a recuperare il credito, ma anche perché
non ricorda nemmeno il nome del truffatore, il marito andrà in chiesa a pregare Dio per risolvere la
difficile situazione. Casualità vuole che seduto accanto a lui preghi proprio il truffatore il quale ad
alta voce recita un verso in cui compare il nome di Zorobabel. Lo stolto uomo si risveglia così dal
torpore della preghiera e questiona con il truffatore, fino a farsi nuovamente ingannare.
Sullo stesso trucco comico verbale si incentra anche il secondo inganno del Fra’ Bonzega di Giovanni
Sercambi:240 ancora personaggio a metà fra il prete ed il cerretano, nella storiella del De malitia in
inganno l’astuto monaco s’è ripreso dalle bastonate ricevute a Pisa e se ne va in cerca di allocchi in
Lucca.
Viene così ad apprendere che un marito, avendo fatto «piccola provenda», ha comandato alla moglie
Bovitora «che di quella carne non toccasse però ch’ella era promessa e serbavala a marzo, Bovitora,
udendo dire che la carne serbava a marzo, di quella non toccava». Ma la donna, giovane, «assai
materiale e di pasta grossa», si lascia ingannare dall’invenzione onomastica:
Bovitora disse: «Chi volete?» Lo frate dice: «Cilastro». Bovitora dice: «Ell’è mio marito», dicendoli: «Come
avete nome?» Lo frate dice: «Io ho nome Marzo». Bovitora dice: «Ben mel disse che io ve la desse e che a voi
la serbava».241
Ma qui la fine ha venature nere per il cattivo Bonzega che viene ammazzato di botte dal porcaro
ingannato, in un riso tragico, frequente nel patrimonio novellistico italiano e nel favolello francese e
principale punto di derivazione e distacco dell’istinto biomeccanico della schematica scena francese,
che trita ogni mescolanza di generi in una forma schematica ed “autoritaria”, totalizzante, e pertanto
non contrastiva dal punto di vista psicologico.
Abbiamo più volte richiamato l’ambiguità della stupidità del badin, che al contrario di ogni possibile
previsione finisce col giocare in suo favore. La domanda sul conto di questi stolti è dunque sempre la
239
Rec. LEROUX, t.III, n°10.
Novelle di Sercambi, LXXXXV, (G. SINICROPI, 1972, t.I, pp.413-415).
241
Questa e la precedente: Ibidem, (G. SINICROPI, 1972 : p.414-415).
240
259
stessa: vera follia o malizia e gioco teatrale? Il niais è davvero uno stolto oppure un sottilissimo
simulatore?
Spesso la bestialità sembra un mezzo per pervenire a qualche fine insondabile e prendersi gioco di chi
tradisce o schernisce gratuitamente: la legge comica del taglione, il dupeur dupé ha per motore questa
idiozia ultra-umana e non solo non è possibile, ma non è nemmeno importante preoccuparsi di
stabilire se questi sot agiscano per calcolo o per imbecillità: il lato affascinante della meccanica degli
stolti è l’ambiguità, che rende inaspettata e sospetta ogni loro azione-reazione.
È per questa ragione che il sot si avvicina in modo straordinario all’immagine del moderno
Arlecchino: il cretino, cioè, che improvvisa le sue qualità in un contesto e che attraverso le azioni più
insensate arriva di volta in volta a svelare il ménage segreto della sua padrona, a scoprire una borsa
piena d’oro, a bastonare i cattivi.
Come Arlecchino il sot è povero in canna e per questo ingordo: nella maggior parte dei casi non fa il
suo dovere per prendere piuttosto parte ad un banchetto o si mette nelle situazioni ridicole per
rubare cibo e soldi.
Esistono molte anime semplici e niais nel teatro e nella narrativa italiane, ciò che viene direttamente
dalla commedia latina. Lo stolto assoluto, il cretino per eccellenza, è il marito: ma la varietà della
stoltezza umana è insospettabile ed è riconoscibile nell’incapacità del sot di ricoprire un qualche
ruolo sociale, sia esso un lavoro, una commissione, un iter studiorum.
Le due farse Jenin filz de rien242 e Pernet qui va a l’escolle243 – la prima realizzata probabilmente fra la
fine del XV secolo ed il 1525, la seconda fra il 1510 ed il 1525 – hanno per protagonista un infante
senza qualità.
Nella seconda farsa, il protagonista Pernet si prodiga in una esibizione ridicola di latino da cucina,
sufficiente, secondo lui, a farlo diventare curato: non si capisce se questa sua convinzione venga
dall’ignoranza media dei curati o dalla sua smodata ambizione.
PERNET
Per omnia secula seculorum. Amen.
Sursum corda. Habemus a Domine.
Qu’en dictes-vous ? Suis-je curé ? 244
242
ATF, t.I, pp.351-371.
Ibidem, t.II, pp.360-372.
244
Ibidem : p.360.
243
260
Ma la madre è fiera e ben felice di ascoltare i vaniloqui latini del figlio: ignorante, pure lei, è ben
convinta che il futuro riservi al fanciullo un posto da vescovo o addirittura da papa.
LA MERE DE VILLAIGE
Et, par mon ame, on dit bien vray ;
Mon filz chante déjà messe.
Et, par bieu, il sera evesque,
Je le sçay bien certainement,
Voire s’il vit guère longuement.
Aussi l’avois-je bien songé.
Regardez comme il est changé,
Depuis qu’il fut mis à nourrice.
Tout ce qu’il faict luy est propice,
Et si faict fort desjà de l’homme.
Je cuyde que d’icy a Romme
Il n’y a ne beste ne gent
Qui ayt si bel entendement
Comme il a. Le voyez-vous ?
Pernet que je parle a vous :
Il vous fault aller à l’escolle.
[…]
PERNET
[…]
Vous m’y verrez bien tost aprins
Mais que j’aye mon chat Meaulin :
Je le meneray avec my.245
Alla fine i due se ne vanno a fare l’esame per mettere nero su bianco le virtù del ragazzino. Ha inizio
una catastrofe basata sul malinteso e sulla comica ignoranza dello studente: il maestro indica le lettere
e si scopre così che il figliol prodigo non sa riconoscere nemmeno l’alfabeto. Parodia crudele delle
filastrocche infantili per apprendere l’alfabeto, la rassegna inizia dalla lettera “A”.
PERNET
Je le sçavoye desjà bien,
Quant je fuz batu de mon père,
Je crioye : a ! a !246
Arriviamo alla “B” e scopriamo ulteriori dettagli sull’alcolismo dell’adolescente:
LE MAISTRE
B
PERNET
Sainct-Jean, il ne m’en chault voire,
245
246
Ibidem : pp.360-361.
Ibidem : p.365.
261
Je viens tout fin de boire :
Je ne puis boire si souvent.247
Queste scenette comiche vengono probabilmente da una filastrocca molto in voga (e di cui
abbondano sosia ed imitazioni), il Sénefiance de l’A, B, C.248 Lo stesso stereotipo dello studentello
stolto, vanitoso ed ambizioso ritorna ne la Mère, le filz et l’examinateur249 – del primo decennio del
XVI secolo e di svolgimento non dissimile dalla farsa di Pernet – e nella Farce de la bouteille ove però
le ambizioni del protagonista si limitano a voler diventar prete. Qui l’imbecillità sembra indotta
dall’esagerata lettura delle sacre scritture, che il giovanissimo niais cita in continuazione senza alcun
nesso logico con la situazione concreta del dialogo.
Fra le mani il ragazzo stringe una bottiglia con dentro una nave e non fa che stupirsi dell’arte
misteriosa attraverso la quale è stata introdotta nel collo: osserviamo insomma il principio base della
stupidità, quello cioè di rimanere attoniti, estourdi, anche di fronte a cose e fenomeni normali.
Ie ne dy pas sy le pertuys
Fust ases grand pour le paser,
Mais de luy mectre sans caser,
Cela me faict trop esbahir.250
Di fronte alla stupidità del figlio la madre ed il vicino di casa sono sbalorditi e preoccupati: ma ecco
la soluzione inventata dal vicino, che d’altronde asseconda i desideri del ragazzotto.
LE VOESIN
Faisons en un homme d’eglise
Je n’y trouve aultre moyen.
LA FEMME
Helas ! compere y ne sait rien ;
Ce ne seroyt que vitupere.
LE VOESIN
O ! ne vous chaille, ma commere;
Il en est bien d’aultres que luy
Qui ne sayvent ny ta ny my.
Mais qu’il sache son livre lyre,
Et qu’il puisse sa messe dire,
C’est le plus fort de la matyere.251
247
Ibidem : p.366.
Rec. JUBINAL, t.II, pp.276-278. La composizione è del XV secolo.
249
ATF, t.II, pp.377-387.
250
Rec. LEROUX, t.III, n° 46 : p.6.
251
Ibidem : p.13.
248
262
Ed eccoci ancora una volta alla satira contro gli uomini di chiesa: per essere un prete non bisogna
troppo sbattersi nello studio, basta imparare meccanicamente a leggere e scrivere dalle scritture e poi
ripeter come pappagalli; il ragazzo è perfettamente d’accordo e vorrebbe incontrare un vicario per
avere il suo futuro radioso.
Racconto d’idiozia con forti strali anticlericali e desolante svolgimento narrativo, la composizione
doveva reggersi soprattutto sulle attitudini performative degli attori, sul gesto della bottiglia e
sull’espressività del niais, perché non vi sussiste alcun movimento drammatico notevole nella pièce,
che raggiunge un livello formale scadente e ridondante. A giudicare inoltre dalla battuta finale, in cui
si allude allo svolgimento di un’altra farsa dobbiamo supporre che non fu composta per essere
rappresentata sola, ma probabilmente come appendice di una pièce comica più strutturata, ipotesi
confortata anche dalla brevità della composizione.
Nella galleria degli stolti risaltano invece le formidabili attitudini di Maistre Mimin, che dà nome ad
una farsa composta fra il 1480 ed il 1490, che sembra recepire precocemente la moda del teatro
umanistico italiano verificabile soprattutto nella rinuncia al modello puro del badinage, cioè del
gioco puro e semplice dell’imbecillità.
Il testo è il primo della serie di farse dedicate alla celebre figura giocosa di maistre Mimin e merita di
essere sfogliato con attenzione, poiché – oltre al successo che riscosse sui palcoscenici del medioevo
francese – è una delle farse più considerevoli sotto il profilo stilistico e la comicità grossier vi lascia il
posto ad allusioni linguistiche curate pur nel tema triviale.
Nella farsa Raulet ha affidato suo figlio alle lezioni di un pedante, ma viene talmente imbottito di
latino che non riesce più a parlare il francese e ne esce mezzo stolto. Per sua fortuna ha una donna
che i genitori hanno gli hanno scelto per moglie che con le arti tipicamente femminili della
chiacchiera riuscirà almeno a restituirgli la parola, ma con risultati a dir poco dubbi.
La “tela” si apre su Raulet e la moglie Lubine: il primo ingiunge violentemente alla compagna di non
tardare mai più e questa risponde di essere rientrata tardi in casa per via di un grave problema che
affligge il figlio, che ha disimparato il francese.
[…] il ne parle plus françoys.
Son maistre l’a mis a ces loix :
Il s’i est fourré si avant
Qu’on n’entend non plus que un Angloys
Ce qu’il dit252
252
ATF, t.II, pp.338-359 : p.339.
263
Nell’orizzonte basso e popolare verifichiamo questa curiosa inversione del pensiero dantesco, in cui
notoriamente il parlar latino è un segno di sanità mentale e logica, oltre che di implicita saggezza
filosofica. Mimin è mezzo rimbecillito dall’ostinazione del maestro, che lo vuole trasformare in un
vero maistre più sapiente di qualsiasi altro umanista, benché le doti naturali del ragazzo – è un certo
maistre Mengin a sostenerlo – siano di tutt’altro tipo.
J’ay ouy dire a maistre Mengin
Qu’il avoit le plus bel engin
Que jamais enfant peult porter ;
Il ne s’en fault que rapporter
A son nez : voyla qui l’enseigne253
La pesante allusione alla pedofilia dell’antico precettore di Mimin è sottile, e dal pubblico doveva
essere colta subito. Sottolinea per noi Emmanuel Philipot:
Lubine, forte mécontente de ce que le Magister ait retenu son fils à l’école au delà du temps nécessaire,
invoque la contre-témoignage d’un certain « maistre Mengin », d’après lequel l’enfant avait un génie naturel
(« engin ») qui le dispensait de pâlir désormais sur les livres. Il est étrange que ni Fournier ni Hankiss n’aient
compris l’équivoque grivoise contenue dans le mot engin. Je me bornerai à rappeler l’adage rabelaisien « Ad
formam nasi cognoscitur ad te levavi. » Lubine dit cela en toute candeur, et c’est ce qui amusait l’auditoire.254
I genitori del ragazzo decidono così di andare a visitare la famiglia della donna che destinata a
Mimin, per mettere tutti al corrente della difficile condizione in cui versa il futuro sposo e provetto
umanista.
Tutti insieme se ne vanno poi nella scuola di Mimin a chiedere al maestro di rendere conto del
danno provocato. All’entrata il padre – prima prepotente e spaccone con la donna e risoluto contro il
maestro – mostra i segni della codardia e i suoi accompagnatori dovranno convincerlo ad entrare ad
affrontare il saggio uomo. Qui troviamo due personaggi gustosi e bien caratterizzati, Mimin, mezzo
insensato a pronunciare un latino rabbioso e maccheronico, ed il maestro, esaltato per i progressi
dell’allievo e per il successo di raffinatissimo sapiente che egli già promette d’avere in tutta Europa.
LE MAGISTER
Que tu ne me faces blasmer,
Aussi que j’aye de toy honneur,
Et que une foys tu soys seigneur,
253
254
Ibidem : pp.339-340.
TROIS FARCES LONDRES : p.80.
264
Maistre Mymin, apprens et lis.
Responde : quod librum legis ?
En françoys.
MAISTRE MYMIN
Ego non sire,
Franchoyson jamais parlare,
Car ego oubliaverunt.
LE MAGISTER
Jamais je ne vy ainsi prompt
Ne d’estudier si ardant.
[…]
Je te feray un si grant homme
Que tous les clers qui sont a Rome,
Et a Paris et a Pavie
Si auront dessus toy envie
Pource que tu sçauras plus qu’eulx255
La ripetitività delle profusioni in latino di Mimin rappresentano a nostro avviso un processo
realistico insolito nel genere ed una stilettata all’incomprensibilità degli umanisti e le loro sottili arti
della retorica e dell’insegnamento in latino: l’operazione di occultamento del significato delle battute
di Mimin è intenzionale e per scatenare l’effetto comico il nostro autore non esita quando serve, ad
innestare nelle battute un “latinazzo” grossolano ed ibridato di basso francese che entra in risonanza
con le digressioni alionee della Macarronea che affronteremo più avanti.
Couchaverunt a neuchias,
Maistre Miminus amitus,
Se fama tantost maritus,
Facere petit enfanchon.256
La famiglia, nonostante le cento lire rese per il servizio educativo del pargolo, vuol distruggere
l’educazione che il maestro ha inculcato nella testa di Mimin. L’educatore si fa da parte dopo aver
proposto una terapia assurda: che i parenti non lascino mai solo il ragazzo e gli impediscano di
leggere e di dormire. Ma i genitori preferiscono fare come si insegna a parlare ad un pappagallo;
metterlo cioè nella gabbia dei polli, il sedere all’insù, e sottoporlo alla chiacchiera fluviale della bru
che – fra le altre cose – lo costringe a ripetere una serie di giuramenti d’amore.
L’insegnamento da volatile ha il suo effetto quasi immediato: la ragazza fatua riesce a restituirgli la
lingua volgare, insegnandogli anche a parlar d’amore oltre la sterile sofistica.
255
256
ATF, t.II : p.344-345.
Ibidem : p.349.
265
Nella Farce du musnier et du gentilhomme à quatre personnages: l’abbé, le meunier, le gentilhomme et le
page,257 del 1550, un gentiluomo, credendo l’abate molto ricco, gli chiede un prestito per festeggiare
la quaresima e questi si rifiuta di concederglielo. I due discutono ed infine il gentiluomo promette di
andarsene se l’abate è capace di risponde a tre domande: qual è il centro del mondo, qual è il valore
del gentiluomo ed infine che cosa egli pensi.
L’abate fa travestire il suo compagno mugnaio di cui all’inizio della pièce ha potuto già verificare
l’acutezza in una breve scenetta. Questi risponde alle domande del gentiluomo con acutezza da
aristotelico: il centro del mondo é qui, se non ci credi misura ; il valore del gentiluomo è inferiore a
trenta denari perché Cristo fu comprato per questa cifra ; tu pensi che io sia l’abate, ma in realtà
sono il mugnaio.
La straordinaria somiglianza con una novelletta inserita nell’Orlandino folenghiano è subito
riconoscibile e vale la pena di riportare il passo italiano, benché lungo.
Ma perché sete uno spirito di vino,
qual plu non ebbe (oh voglio dir!) Platone,
cerco saper da voi quant’è vicino
lo ciel da terra in ogni regione,
dico l'empireo sopra ‘l cristallino.
Vostra excellentia intenda il mio sermone!
Oltra di questo dite giustamente
quant'è da l'oriente all'occidente.
E se di queste quattro dubitanze
mi soglierete presto giustamente,
vinti scodelle di buecche e panze
giuro farvi mangiar incontinente.
Ma se con solegismi et altre zanze
sofisticar vorete la mia mente,
né rendermi ragion che sia probabile,
vi trattarò da un asin venerabile.
Due cose giunte a queste intender anco
desidro, monsignore Griffar osto:
dite, piacendo a voi, né più né manco
quante son gozze d'acqua c'ha l'angosto
mar Adriano insin al lido franco,
pigliando il Greco col Tireno accosto.
Ultimamente, bon servo di Dio,
vorei saper qual or è 'l pensier mio.
Tornate al monastero, ch'io v'assegno
tutta la nott’ e il giorno a su pensarvi;
assotigliate bene il vostro ingegno,
se ‘l vi cale di trippe caricarvi
e non urtar le spalle in qualche legno,
che faccia la pugnata smenticarvi;
oltra di ciò se non la indovinate,
voi non sarete più messer lo abbate.
A questo punto l’abate se ne ritorna alla badia e si mette a piangere ed a disperare. Il suo cuoco si
rende conto della faccenda ed essendo grasso come lui accetta di rispondere ai quesiti al posto suo,
facendo ritornare l'appetito al prete pavido.
Oggi voi mi faceste il primo assalto,
ch'io narri quanto il ciel da terra dista;
Presto rispondo che gli è sol un salto,
257
Quanto alla terza ambigua dimanda,
ch'è di saper quant'acque sian in mare,
rispondo che, se ai fiumi si commanda
Coll. MONTARAN, t.I, n°10.
266
provandolo senza il « probo » del scotista:
lo diavolo cascando già giù d'alto,
quando privollo Dio de l'alma vista,
senza de tanti astrolgi la cura,
vi tolse giustamente la misura. -
con lui non debban l'onde sue meschiare,
voglio ch'in polve il corpo mio si spanda
se, quante gozze son, non so contare;
perché come potrò i' torvi misura,
senza levar de' fiumi la mistura? [...]
Meravigliossi a l'ottima risposta
d'un capo di lasagne il pro' Rainero:
- A la seconda – disse – senza sosta;
ché perder la badia qui fa mistero. Risponde il coco: – E questa anco riposta
Tenemo, e risoluta, nel carnero:
perché da l'Oriente a l'Occidente
una giornata fa, se 'l sol non mente.
Et ecco vi risoglio qui la quarta
ricchiesta, ch'era a dir lo pensier vostro;
quest'ultima, che più dolorosa et arta
credeste, ora la più facile vi mostro:
ciascun de voi, signori, non si parta
fin che chiaro v'appaia il stato nostro;
voi, dico, immaginate senza gioco,
ch'io sia il priore, e so ch'io son il coco.258
L’intreccio ritorna anche in Francia nell’opera di Nicolas de Troyes, le Grand parangon des nouvelles
nouvelles,259 in cui al di là della collocazione in una cornice narrativa più omogenea e coerente – con
il signore che tortura l’abate per comprarne i terreni – lo svolgimento (e le domande di cui si chiede
la soluzione) è praticamente lo stesso.
Dall’Italia abbiamo una fonte più antica: il Trecentonovelle di Franco Sacchetti dove nella IV
narrazione il signore in questione è un certo Messer Bernabò di Milano. Quello che cambia è sia la
natura delle domande, quattro e tutte più o meno dello stesso genere, sia le ragioni per le quali il
signore si scaglia contro il prete. Il mugnaio travestito da abate dovrà dire quanto è distante la terra
dal cielo, quanta acqua c’è nel mare, ciò che si fa all’inferno e quanto il signore valga. Il finale è
migliorato con la clemenza del signore che punisce l’abate scambiandone le rendite con quelle del
mugnaio.
La trama ha una tale diffusione in tutte le sue varianti che la vediamo ricomparire anche nel
Novecento (novella di Jehan Mansel, segnalata da Emile Mabille nelle note all’edizione del Grand
parangon) e trae origine da cultura e leggende popolari, sempre rispettando la fama di arguzia che i
mugnai si erano ritagliati nell’esercizio di un mestiere povero che costringeva alla truffa ed al
latrocinio sul grano macinato. La larga diffusione di questo espediente narrativo era nota già nel
Rinascimento se lo stesso Sacchetti chiudeva la sua narrazione ricordando una diversa versione della
storia.
258
Orlandino, (Cap. VIII, stt.37-75).
Nicolas de Troyes, Le grand parangon des nouvelles nouvelles, XL.
Ung Seigneur qui par force vouloit avoir la terre d’ung abbé s’il ne lui donnoit responce de trois choses qu’il demandoit; laquelle
il fit par le moyen de son mounier, (E. MABILLE, 1869, pp.177-180).
267
259
Alcuni hanno già detto essere venuta questa, o simil novella, al [...] papa, il quale, per colpa commessa da un
suo abate, li disse che li specificasse le quattro cose dette di sopra, e una più, cioè: qual fosse la maggior
ventura che elli mai avesse aùto. Di che l'abate, avendo rispetto della risposta, tornò alla badìa, e ragunati li
monaci e' conversi, infino al cuoco e l'ortolano, raccontò loro quello di che avea a rispondere al detto papa; e
che a ciò gli dessono e consiglio e aiuto. Eglino, non sappiendo alcuna cosa che si dire, stavano come
smemorati: di che l'ortolano, veggendo che ciascheduno stava muto, disse:
— Messer l'abate, però che costoro non dicono alcuna cosa, e io voglio esser colui e che dica e che faccia,
tanto che io credo trarvi di questa fatica; ma datemi li vostri panni, sì che io vada come abate, e di questi
monaci mi seguano; e così fu fatto.
E giunto al papa, disse dell'altezza del cielo esser trenta voci. Dell'acqua del mare disse: «Fate turare le bocche
de' fiumi, che vi mettono entro, e poi si misuri». Quello che valea la sua persona, disse: «Danari ventotto»;
ché la facea due danari meno di Cristo, ché era suo vicario. Della maggior ventura ch'egli avesse mai, disse:
«Come d'ortolano era diventato abate»; e così lo confermò. Come che si fosse, o intervenne all'uno e all'altro,
o all'uno solo, e l'abate diventò o mugnaio o ortolano.260
Pietro Toldo crede di riscontrare un intreccio analogo anche nel Pecorone di Ser Giovanni
Fiorentino, nell’avventura dei dottori Alano e Gimapier,261 ma oltre alla vicenda dell’interrogativo
filosofico e teologico, di cui, peraltro, al lettore non è fatta conoscenza del contenuto, qui le
similitudini con il racconto che abbiamo appena affrontato, sono praticamente inesistenti: si tratta
infatti della lite fra due teologi della Sorbona, che si perpetua fra la Francia e l’Italia con colpo di
scena ed un camuffamento finali.
2.3.4 – Falsi morti, aldilà, aldiquà, rêverie.
Ne l’Avocat qui se croit mort, l’influenza da parte della novellistica italiana pare fosse fortissima: il
testo è purtroppo disperso, ma ne abbiamo una notizia assai dettagliata da Louis Guyon, che
trascriviamo così come riportata da Petit de Julleville.
« En l’an 1550 […] un homme de qualité et de moyen, de sa profession avocat, tomba en telle mélancolie et
aliénation d’entendement, qu’il disait et croyait être mort : à cause de quoi, il ne voulait plus parler, rire, ni
manger, ni même cheminer, mais se tenait couché. Sa femme fit appeler des médecins, mais on ne lui sût
persuader de rien prendre, ni même manger ni boire aucun aliment pour entretenir sa vie, disant, pour toute
raison, qu’il était mort et que les morts ne mangeaient rien. Enfin, il devint si débile, qu’on attendait d’heure
à autre l’heure qu’il dût expirer. »
Un neveu du malade, après avoir « taché à persuader son oncle de manger, ne l’ayant pu faire, se délibéra d’y
apporter quelque artifice pour sa convalescente… Il se fit envelopper, en une autre chambre que celle du
malade, dans un linceuil, à la façon qu’on agence ceux qui sont décédés, pour les inhumer, sauf qu’il avait le
260
Trecentonovelle, IV.
Il Pecorone, VI,1. (E. ESPOSITO, 1974).
«Messer Alano, gran dottore di Parigi, veduta la Corte di Roma, si ritira ad una Badia di monaci in qualità di servente.
Adunato dal Papa un concistoro per rispondere alle sottigliezze di messer Giovan Pietro, altro dottore Parigino, ma
eretico, egli v'interviene sotto la cappa dell'Abate. Qui si fa conoscere e confonde quel dottore.»
268
261
visage découvert, et se fit porter sur la table de la chambre où était son oncle malade, et se fit mettre quatre
cierges allumés autour de lui, et avait commandé aux enfants de la maison, serviteurs et chambrières, de
contrefaire les pleurants autour de lui. Somme, la chose fut si bien exécutée qu’il n’y eut personne qui eut vu
cette farce qui se put contenir de rire ; mêmement la femme du malade, combien qu’elle fut fort affligée, ne
s’en put tenir, ni l’écolier même, inventeur de cette affaire, apercevant aucuns de ceux qui étaient autour de
lui faire laides grimaces, se prit à rire. Le patient, pour qui se jouait cette farce, demanda à sa femme que
c’était qui était sur la table : laquelle répondit que c’était le corps de son neveu décédé qu’on n’attendait que
les gens d’Eglise pour le porter en terre. Mais, répliqua le malade, comment serait-il mort, vu que je l’ai vu
rire à gorge déployée ? La femme répond que les morts riaient, témoin celui-là, qui, sans feinte aucune, l’était.
Le malade n’en voulut rien croire qu’il n’en eut fait l’expérience sur soi et pour ce, se fit donner un miroir,
puis s’efforça de rire, et, connaissant qu’il riait, se persuada que les morts riaient, qui fut le commencement de
sa guérison. Après cet acte comédien, monsieur l’écolier eut l’estomac affamé, pour avoir demeuré environ
trois heures sur cette table étendu, demanda à manger quelque chose de bon... on alla quérir, à la rôtisserie,
un chapon qu’il dévora, avec une pinte de bon vin, se tenant comme assis, ce qui fut remarqué du malade
qui, apercevant ce mort vivant, demanda si les morts mangeaient. On l’assura qu’oui, et qu’il le voyait
clairement ; alors il demanda de la viande, pour savoir si lui, qui était mort, mangerait comme l’autre... Il
mange, avale, boit et fait, en somme, toutes actions d’homme de bon jugement et, de là en avant, continua de
manger et, peu à peu, cette cogitation mélancolique lui passa... Cette histoire fut réduite en farce imprimée,
laquelle fut jouée, un soir, devant le Roi Charles neuvième, moi y étant. »
Rotrou, dans l’Hypocondriaque, tragicomédie ; Carmontelle, dans la Diète, proverbe, ont remis cette situation
à la scène; mais nous ne savons s’ils ont eux-mêmes connu la farce originale. Carmontelle (mort en 1806) l’a
probablement ignorée. Mais Rotrou a dû la connaître.262
Inevitabile pensare alla storia boccaccesca di Ferondo263 “sotterrato per morto”, in cui un abate,
invaghitosi della moglie del protagonista – d’accordo con lei, infastidita dalla gelosia del marito –
somministra all’uomo una polvere che lo getta in uno stato di morte apparente: così il prete può
beneficiare delle grazie della donna, mentre costringe Ferondo, risvegliatosi, a subire le pene del
purgatorio prima di liberarlo, nella contentezza generale dei canti e delle processioni. Ma certo in
Boccaccio attorno all’espediente della morte si condensa una trama assai più complessa della
completa pretestuosità del marito convinto d’essere morto con cui la farsa perduta dell’Avvocato
aveva inizio.
Pensiamo anche al favolello di Jean Bodel, le Villan de Bailleul, ove un villico che rientra affamato
dal lavoro è quasi sul punto di scoprire la moglie a letto con un prete. La fedifraga si salva
persuadendolo d’essere gravemente ammalato, e – una volta fattolo coricare – d’essere morto: la
donna lo copre così d’un sudario e comincia a piangere e a disperarsi. Il prete sopraggiunge e celebra
le esequie, ed il villano – adeguatosi a fare la parte del cadavere nel feretro – si accorge che la moglie
osserva il lutto a modo suo, intrattenendosi nella “camera ardente” con il prete complice
262
Rép. JULLEVILLE, op.cit., 1886, (n°257 : pp.296-297).
Il passo è preso da Louis Guyon, Diverses leçons, Lyon, 1625 (1 - II, cap. XXV).
263
Decameron, (III, 8).
269
dell’astuzia.264 La novella di Ferondo e il fabliau somigliano anche ad una storiella di Poggio265 dove
lo scemo del villaggio è convinto d’essere malato e poi morto e gli si fa un falso funerale.
Più prossima alla farsa nella elementarità dello svolgimento è la novella di Girolamo linaiuolo
fiorentino, che morì due volte e non risuscitò nessuna,266 sesta della raccolta di Anton Francesco Doni,
dove Girolamo è identificato da un viandante all’osteria come un conoscente appena deceduto. Il
povero linaiuolo si convince che è vero, torna a casa blaterando e si allestisce la camera ardente. Due
suoi amici assoldano due uomini per allestire una tavola imbandita al cimitero di S. Lorenzo e
fingersi morti; al che il protagonista è interrato nel luogo dove stanno i due bontemponi e si chiede
cosa facciano due morti alla tavola; questi rispondono che l’aldilà è così e che ben presto torneranno
nelle rispettive case. Girolamo lo stolto segue volentieri il loro consiglio, banchetta e se ne torna a
casa sua.
Parfois le badin est doué d’une fantaisie très vive et enjouée et il appartient alors à la société nombreuse des
fous, dont l’importance, dans la vie courtisane de l’époque, était devenue remarquable. L’esprit du Gonnella
italien, de Caillette, de Triboulet et de Polite, français, tel que nous les retrouvons chez Sacchetti, chez Des
Périers et dans la littérature populaire de la Renaissance, anime […] les héros de la farce Les trois galants et le
badin. Rabelais et les vieux poètes paraissent inspirer cette pièce, où la douce philosophie du rire est prônée
par tous les personnages. Le badin se présente aux trois galants, comme un rayon de soleil, qui réjouit leurs
âmes. Il commence par plaisanter sur les lettres de l’alphabet, puis il conte ses rêves extraordinaires et
glorieux. Dans son sommeil il est devenu roi, mais ainsi que La Fontaine dit de lui-même, en se réveillant il
se trouve : « Gros Jean comme devant ».267
Les Trois galants et le badin è una successione di deliri o rêverie, per lo più collegati alla tradizione
medievale del mondo degli stolti e di Cuccagna; la testa portata a spasso, come addormentata sul
busto: è questa la condizione del folle, che vive in sogno senza altresì dormire.
J’ay faict faire l’assemblee,
Des princes crestiens que menoye
Sur le turcs, et le combatoye ;
Et quant me resveillay au matin,
J’aperceutz que j’estoys Naudin […] 268
264
« ‘Frere’, dist ele, ‘tu es mors : | Dieus ait merci de la teue ame ! | Que fera ta lasse de fame | Qui por toi s'ocirra de
duel ?’ | Li vilains gist souz le linçuel, | Qui entresait cuide mors estre ; | Et cele s'en va por le prestre | Qui mout fu
viseuse et repointe. » Rec. MONTAIGLON – RAYNAUD, t.IV, pp.212-216 : p.214.
265
Facetiae, CCLXVIII: De mortuo vivo ad sepulchrum deducto loquente et risum movente.
266
Novelle di Anton Francesco Doni, (E. CAMERINI, 1863 : pp.18-20).
267
P. TOLDO, 1903 : pp.311-312.
268
Rec. LEROUX, t.II, n°39 : pp.9-10.
270
L’onore delle armi non è cosa che fa per lui, troppo pavido e pacifico e goliardico per vestirsi di
un’armatura e prendere colpi sulle spalle e dominare un qualsiasi potere temporale. Il badin vorrebbe
qualcosa di più libero ed ancora più al di sopra della legge sociale: inizia così a pensarsi come Dio.
Manda via dal mondo tutto ciò che è politica e guerra, apre le porte del suo immenso paradiso e vi fa
entrare i menestrelli e vi dona banchetti enormi (ma l’accesso sarà vietato ai ballerini per evitare che
il pavimento del paradiso crolli sotto il peso dei loro passi di danza).
Però, a smentire ancora una volta una qualsiasi lettura in chiave di rivendicazione sociale del teatro
profano, quando gli si domanda che cosa farà dei poveruomini che vivono della miseria e nel
disprezzo della società non si dimostra altrettanto democratico con quelli che dovrebbero essere i
suoi simili nella vita materiale di questo mondo.
Je les metroys en purgatoyre,
Pour parfaire leur penitence.269
Il suo furore moralizzatore si scaglia contro tutto e tutti: contro i sergenti, troppo ordinati; contro i
panettieri, colpevoli di fare pani troppo piccoli; contro gli osti che mescolano acqua e vino o il vino
nuovo con quello vecchio; contro i mercanti di legno e di cavalli, che tormentano troppo gli uomini
con le loro trattative estenuanti. Nel suo paradiso si deve vivere in costante baldoria, senza che
manchino cibo, vino e donne; come dicevamo, si tratta di una rivisitazione piuttosto pedissequa del
mondo di Cuccagna o Bengodi.
Jambons, bonne poules, bouilys;
Et aux vendredys, samedys,
De bons pouessons par adventure […].
Et pour vous dire au certain,
Venir feroys les pierres en pain.
[…]
Becaces, faisans, lapereaulx…
Je feroys que les rivieres,
Sans en mentyr poulce ny aune.
Seroyent du vin clairet de byaune,
Et le reste de vin francoys. 270
Le donne saranno ammesse nel suo regno, ma a patto che siano rese mute e che non abbiano più di
quindici anni, così da prendere solo le gioie dell’unione amorosa: infine tutto il mondo potrà gioire
269
270
Ibidem : p.14.
Ibidem : 17 e sgg.
271
di una eterna giovinezza e come in Rabelais o a Bengodi i cespugli fruttificheranno gioielli, cappelli e
vestiti. Quaresima la magra perderà il suo regno.
E certo il mito del fantastico paese di cuccagna non è invenzione francese, ma come minimo
europea. In questo caso è probabile che la provenienza sia per l’ennesima volta legata al fabliau. In
particolare sull’emigrazione di Quaresima e la Pasqua che si estende a tutto l’anno possiamo citarne a
titolo di esempio uno trovato nella raccolta Barbazan, molto celebre in quanto considerato fra le
prime testimonianze letterarie su Bengodi.
Li pais a à nom Coquaigne,
Qui plus i dort, plus i guaigne
[…]
Six semaines a en un mois
Et quatre Pasques a en l’an.271
2.3.5 – Valletti, cerretani e chiacchieroni.
Indefesso chiacchierone è l’eroe negativo della Farce du rapporteur,272 scritta nel primo trentennio del
Cinquecento; la storia è semplice: il «rapporteur» sparge maldicenze e malintesi fra i suoi compari e
commari. Le menzogne sono assai comuni: tradimenti ed adulteri inesistenti, discorsi riferiti con
intenzionalità o inventati di sana pianta. Il movente della maldicenza è futile. Come tipicamente
accade per i malparlieri italiani (provenienti come è noto dalla letteratura provenzale) la loro pulsione
primaria è la semplice noia.
LE BADIN
Trop me desplaist le sejourner,
Je n’ay icy que m’amuser ;
A perte ou gain n’a que courage.273
L’azione è tuttavia guidata da cinismo e disprezzo per il prossimo ed il protagonista della pièce non
esita a cogliere le crisi degli altri per realizzare la sua “strategia della tensione”. Il cinismo lo porta
fino al punto di criticare le vittime del suo gioco meschino per la loro credulità.
271
Rec. BARBAZAN, t.IV., pp.175-180.
Rec. LEROUX, t.II, n° 30.
273
Ibidem : p.3.
272
272
LE BADIN
Et la la la, il est bien pris,
On luy fera tantost sa saulce ;
Mais quel gentil homme de Beaulce !
Quel ivrongne, quelle tuache !
Contemples un peu sa grimase.
Comme il s’en va batre sa femme,
En l’apelant villaine infemme.
Mon Dieu ! mon Dieu ! quelle mygnye !
Et tant il est fol qui se fie
Aux rapporteurs palins de mefaict.274
Quando però il nostro cerca di raccogliere il frutto della sua maldicenza obbligandosi ad esser
presente alle scenate che si preparano e contribuendo anche ad aizzare la violenza della furiosa lite fra
moglie, marito e vicine di casa, ecco che le sue crudeltà vengono di colpo alla luce. Gli altri
personaggi, fatta chiarezza sull’equivoco e riacquistata fiducia l’uno nell’altra, potranno bastonarlo e
rimandarlo a casa.
A dispetto dell’elementarità della trama, questa farsa presenta numerosi elementi di singolarità
rispetto al repertorio farsesco: la costruzione dei dialoghi, soprattutto, ha una salda architettura logica
e la maniera con cui le menzogne vengono seminate ha una certa caratterizzazione psicologia e
stilistica. Anche il comico verbale si rivela meno meccanico e strutturato con agilità intorno al tema
principale dell’inganno e del tradimento, alla parola come luogo di elezione delle relazioni; siffatta
comicità verbale non si esaurisce inoltre nel presente dell’azione, ma risponde ad una visione più
unitaria del procedimento narrativo. Ad apertura del dialogo, ad esempio, si presenta come elemento
speculare all’azione del protagonista; menzogna ed arzigogolo vengono esaltati in una dichiarazione
di intenti che anticipa il contenuto delle frottole sparse nella pièce.
LE BADIN
Certes y fault que ie recorde ;
Ie iouray par desus la corde,
Concordant, ie concorderay,
A la corde descorderay,
I’entens descorder ma voysine.275
Notiamo il ritorno lessicale fra «recorder» («rapporter» in francese moderno usato anche
nell’accezione di fare la spia) e «corde», utilizzata qui nel contesto dell’espressione idiomatica «sous la
corde» che vuol dire “di nascosto”.
274
275
Ibidem : p.11.
Ibidem : pp.3-4.
273
Ciò guadagna un’ulteriore eco fonetica in «concorder» / «descorder» (“mettere in disaccordo”) cui si
sovrappone un livello successivo, costituito dalla deformazione dell’espressione «Jouer par desus la
corde» (che vuol dire «essere certi, agire con sicurezza») in «Jurer par desus la corde».
Di notevole valore anche il cambio dei registri, per nulla scontato in un genere che per sua stessa
natura si costituisce intorno alla biomeccanica scenica, priva quindi della complessità delle reazioni
umane, perché fatta di solo istinto e principi di causalità.
In questa narrazione netta ed elementare basata sul problema dell’inganno e delle reazioni a catena,
troviamo una strofa di sottile poesia e malinconia, incentrata sul tema della caducità della vita
probabilmente ancora improntato alla poesia carnascialesca che è tripudio di gioia in virtù della
brevità dell’esistenza.
Lamentazione sommessa sul tempo, questo passo rende ancor più odioso, se possibile, il crimine del
bugiardo e dona uno schizzo chiaro dello stato d’animo della vicina, afflitta dal pensiero della morte
e della giovinezza perduta.276
[Valletti e "cerretani"] […] méritent bien un rang à part. Rien de plus commun, en effet, dans ce théâtre, que
les charlatans débitant leurs drogues merveilleuses, ou les valets des deux sexes offrant au public leurs services
de toute sorte et leurs connaissances sans bornes. Maître Aliborum qui de tout se mêle, peut être considéré
comme le chef d’une nombreuse famille. Le Watelet de tous mestiers, maître Hambrelin, le Valet à louer, le
Clerc de taverne, la Fille batelière et la Chambrière à tout faire, exaltent le mêmes mérites d’un air à la fois
fripon et enjoué.
Picot [nelle note al monologo di Hambrelin, nella sua raccolta] rappelle à ce propos que le spécimen le plus
ancien de ce genre est une petite pièce provençale, n’ayant pas un caractère dramatique, due à la plume de
Raimon d’Avignon. Un homme y énumère tous les métiers qu’il sait faire et la famille de maître Aliborum
fait elle aussi plusieurs énumérations de ce genre.277
Ciarlatano che si dice in grado di guarire tutti i mali, Maistre Aliborum è il prototipo assoluto per
persistenza nel tempo del venditore fanfarone. Ne La chambrière à louer, à tout faire278 il farceur
Cristophe de Bordeaux riproduce gli stessi cliché del maestro fanfarone, ma in versione femminile (e
dello stesso autore, del resto, abbiamo anche una farsa del Varlet à louer, à tout faire).279
276
«Tout le bon temps s’en va perdu, | Plus n’est saison de bonne chere ; | Ainsy comme i’ey entendu, | Tout le bon
temps s’en va perdu. | Le mauvais temps est revenu, | Vous en scaves bien la maniere, | Tout le bon temps s’en va perdu,
Plus n’est saison de bonne chere.»
Ibidem : pp.11-12).
277
P. TOLDO, 1903 : pp.315-316).
278
Christophe de BORDEAUX, Chambrière à louer, à tout faire, Rouen, A. Cousturier, (s.d.).
279
Christophe de BORDEAUX, Varlet à louer, à tout faire, Rouen, A. Cousturier, (s.d.).
274
Oltre ai classici mestieri femminili come le pulizie, la cucina, il taglio, il cucito ed il ricamo, la
cameriera protagonista del sermone è disposta ad offrire i suoi servigi erotici al marito della padrona,
tanto per favorire la pace domestica.
Le mol faire devenir droit
Et faire d'un gros deux petits
Pour chercher mes appetits
[...]
en la chambre
Ou s'il advient que quelqu'un entre
Pour voir ma maistresse à couvert,
La reverence à cul ouvert
Ie fais comme ie suis tenuë
Ie la voy souvent toute nuë.
[...]
Si Madame va, en voyage
Et foit huit jours sans revenir
En ce la n'y à que tenir,
Que si Monsieur veut en sa place
Me retenir que ie ne face,
Aussi bien qu'elle ce qu'il faut,
Soit pour coucher en bas, en haut,
Au grand lict, en la garde-robe.280
La strega-cameriera è inoltre capace di leggere i tarocchi, vorrà esser trattata come una signora ed in
cambio ruberà il lardo e la cera delle candele per fare buon profitto e giusta economia domestica; è
inoltre specializzata in pomate per ringiovanire e nel campo esoterico è preparata a «Conjurer les
esprits | Qui courent de nuict par la rue»281.
A differenza del filone più “pauperistico” che vedrà i primi esempi nella Commedia dell’Arte e poi in
Molière e Goldoni, le serve in farsa sembrano essere le peggiori fra le donne: chiacchierone ed
erotomani al di sopra della media (già alta, come abbiamo visto nelle pièce analizzate).
Nel Débat de la nourrisse et de la chamberière,282 ad esempio, una cameriera ed una nutrice si
picchiano atrocemente per il piacere di un certo Johannes, che le incita, compiaciuto anche
dall’argomento licenzioso della discussione, ovvero chi delle due si conceda meglio dell’altra. Poi la
brigata se ne va a messa per cianciare e sproloquiare più che per pregare.
Fille basteliere è una parata o monologo dove vediamo la ciarlatana fare il suo ingresso nella città per
esporre le proprie doti amorose e medicali. Anche lei, come i più tipici ciarlatani da strada, prepara
280
Christophe de BORDEAUX, op.cit., (f. iij e sgg.).
Ibidem, (f. X).
282
ATF, t.II, pp.417-434.
281
275
unguenti miracolosi: dopo un breve racconto della sua carriera e formazione – una specie di bislacco
curriculum vitae in cui dichiara di essere stata servitrice di un saltimbanco, dal quale avrebbe appreso
le magiche arti della guarigione e degli intingoli miracolosi – le note di scena ci indicano come
l’attrice salti sul banchetto per chiamare a raccolta la folla dei clienti ed elogiare le sue preziose
cianfrusaglie.
Il doppio senso è sempre in agguato e richiama la fama di libertinaggio e licenziosità che avevano le
donne che praticavano la sua professione: dopo aver parlato delle proprietà di una «[…] pouldre si
notable & propine, | Syl y a ceans quelque nourisce | Qui ayt perdu le cours de son ruyseau, | Qu’elle
soyt lyee au plus pres de la cuisse, | Ie veulx mourir sy en deulx jours ne pisse | Asses pour faire
mouldre ung moullin a eau»283 eccola esporre le prodigiose doti di un trattamento contro le febbri ed
i calori maschili, di cui ci è dato apprendere solo la durata (un giorno) e l’assoluta necessità di una
“seduta privata” con la nostra. Poi l’allusione si fa esplicita e si evince facilmente la varietà delle
prestazioni mediche che la donna può offrire ai maschi della città.
Un bon viel homme de vilage
Vint a moi du meilleur courage,
Et me dict en ceste maniere :
Et vierge Marye, basteliere,
Tant vos racines portent vertus,
Mon povre membre ne tient plus.
Et soudain, sans attendre plus,
Ie lui happe son instrument
Et ie luy laue doulcement ;
Quant ie l’eutz laue une posse,
Soudain se va dresser son chosse,
Et le pauvre viellard de rire,
Et ie luy dix : en et puys, sire.
Et de me faire la gohee :
Ma femme sera racollee.284
È questa un’antenata dei commedianti grotteschi del Pont-Neuf, di Tabarin e del Baron de
Grattelard, ciarlatano della piazza Dauphine, che dai gridi e dalla filastrocche inventate per vendere
in piazza e dalle leggende e dai sermoni per truffare gli allocchi al mercato ripresero molte forme,
mettendole a profitto di una drammaturgia della vendita e dello scherzo.
283
284
Rec. LEROUX, t.I, n°1 : pp.8-9.
Ibidem : pp.14-15.
276
Farsa e forme liminari hanno un’affinità elettiva con il giocoliere ed il venditore dei quali imitano le
forme d’attrazione e di richiamo, le attitudini fisiche, il linguaggio fantasmatico e volgare: gli stessi
luoghi della mercatura sono sovrapposti a quelli dell’esecuzione performativa.
Bateleur, son varlet, Binete et deux femmes è una composizione piuttosto tarda (1555) dedicata ad una
famiglia di ciarlatani, quale mero pretesto per esibire un eclettico elenco dei lavoratori della strada e
del catafalco. L’intreccio è praticamente inconsistente: il giocoliere ed il valletto litigano prima sulle
rispettive doti e poi sul salario, mentre la moglie del padrone si vanta pubblicamente della sua
licenziosità. Nel frattempo doveva realizzarsi un’azione acrobatica, probabilmente il motivo di
attrazione principale per il pubblico. Più i ciarlatani si sbattono e sudano sul catafalco meno riescono
a fare affari. Si lagnano così con le donne:
Vous ne voules rien acheter
Vous estes asses curieuses
De voir inventions ioyeuseus.
Mais quant vient a faire payement
Rien ne voules tirer, vrayment.285
Nel Marchant de pommes,286 della metà del XV secolo, vediamo il mercante urlare fra la massa di
donne, mentre i compari fanno il loro tour di passe-passe (truffe e raggiri) fra la folla. Naturalmente
non bisogna mai fidarsi di questi valletti e giocolieri: in un favolello del XIII secolo il Garçon et
l’aveugle,287 il ragazzo è personaggio a dir poco inquietante, che si diverte a battere il maestro, a
prendersi gioco di lui e ad approfittare della sua grave infermità.
È lo schema base della relazione comica, ridotto all’osso, secco e crudele nella sua semplicità: vittima
e carnefice. La sostanza è la stessa nella più tarda le Sourd, son Varlet et l’Yverongne,288 in cui una serie
di malumori fra il padrone ed il servo si trasformano in botte ad un povero ubriaco che si trova a
passare da quelle parti e che chiede soltanto di riempire il ventre con altro vino. Il comico qui risiede
soprattutto nella catena di equivoci di cui è causa la sordità e l’idiozia del maestro, ma anche
nell’istinto del riso basso, scatenato dalla semplice oppressione dei deboli.
285
Rec. LEROUX, t.IV, n°10 : p.6.
Ibidem, t.IV, n°70.
287
le Garçon et l'aveugle, (M. ROQUES, 1921).
288
Rec. LEROUX, t.I, n°21.
286
277
In Maistre Mimin, le varlet et le chaussetier (o Maistre Mimin le goutteaux, del 1534),289 la coppia
padrone-servo (vittima-carnefice) è delle più anomale: uno è storpio e l’altro è handicappato. Il
Gouteaux si è scelto infatti un valletto sordo, e che per di più non fa che blaterare frasi sconnesse
tirate per i capelli dalle gesta letterarie gargantuesche.
Oltre alle sofferenze della gotta, Mimin deve pure farsi venire il sangue amaro per cercare di
comprendere le assurde chiacchiere del compagno.
LE GOUTEAUX
J’ay bien cause de m'indigner
Contre toy, sourd de Dieu mauldit.
Entens-tu point que je t'ay dit ?
Va-moy chercher ung medecin,
Ou me viens chauffer un becin.
Tant tu me faictz crier et braire.290
Il valletto è maniaco di libri e pare che investa nell’accrescimento della sua biblioteca tutti gli averi
che il padrone gli consegna per pagare i medici.
LE VARLET
Mon serment, j’en croy le libraire ;
Il m’a cousté dix karolus.
LE GOUTEUX
Sourdault, va querir ung bolus
Et ung cyrot bien delyé.
LE VARLET
J’en eusse prins ung relyé ;
Mais il eust cousté davantage.291
Ancora ricompare l’ambiguità della stoltizia: e qui non si capisce se il valletto parli delle sue passioni
libresche perché non ci sente o perché fa orecchie da mercante. Le occasioni di digressione
performativa in questo animato dibattito sono naturalmente infinite e tutte articolate come si può
ben immaginare attorno al problema della sordità.
LE GOUTEUX
Helas ! je suis bien prins sans vert.
Mourrai-je icy en etermin
Par ce meschant varlet sourdault ?
LE VARLET
289
ATF, t.II, pp.176-188.
Ibidem : p.176.
291
Ibidem : t.II, p.177.
290
278
Le libraire n’est point lourdault.
E mentre il maestro reclama medicine e cure ed invoca disperatamente un medico.
LE VARLET
Il y tousjours à reffaire?
Comment! est-il cousu trop large.
Varyment, il est de bonne marge
Et de belle impression.
LE GOUTEUX
Tant tu me faitz d’oppression !
[...]
Sçaurois-tu barbier attrapper?
Autant gaignerois à frapper
Ma teste contre la muraille.292
E quando finalmente il valletto riacquista l’udito, ci sembra che sia anche più indisciplinato. Ed
eccolo dare consigli al faceto maestro ormai in punto di morte; sostiene – filosofo e cialtrone – che
forse è meglio chiamare «[…] le curé ou vicaire, | Ce vous est ung quel chappelain; | Vous estes en
maulvais pelin; | Pensez de vostre conscience.»293
Finalmente in cerca di qualcuno che aiuti il Mimin, il valletto incontra il mercante di braghe che
dalle prime battute non sembra più sensato degli altri ed anzi, è più sordo del servitore. L’ultimo
arrivato sulle tavole del catafalco cerca di vendere la merce mentre il valletto è convinto di parlare ad
un prete; procediamo lungamente su questo dialogo a binari paralleli, quando finalmente un urlo di
Mimin richiama servo e mercante in casa. Inossidabile, lo Chaussetier si mette a prendere le misure
del mastro, cui pensa di dover cucire le mutande.
LE GOUTEUX
Bien voy que suis à mon trespas;
Ce n'est pas ce que je demande.
LE CHAUSSETIER
Une chausse doibt estre grande
Pour y entrer plus à son ayse.
Ca, la jambe, ne vous desplayse;
Elles seront prestes matin.294
292
Ibidem : t.II, p.179.
Ibidem : t.II, p.180.
294
Ibidem : t.III, pp.186.
293
279
Le chaussetier si rivela essere il più stupido di tutti e non comprende la situazione, anzi, a forza di
prendere misure ferisce il malato che comincia ad urlare ed imprecare e così si chiude questa farsa
eclettica, molto comica ma a tratti assai criptica.
La farsa del Mary, la femme, le badin qui se loue et l’amoureux295 (scritta fra 1500 e 1535) ha come
protagonista una donna che dovrà amaramente pentirsi di aver preteso dal marito un valletto: il
servitore si fa prendere a noleggio e una volta entrato nella casa pretende le chiavi della cantina e
quando vede la padrona a letto con l’amante la minaccia di spifferare tutto al marito. Ottiene così un
pagamento in cambio del silenzio, ma per lui sarà doppio il vantaggio e nulla la parola data quando
accetterà denaro dal marito per fornirgli informazioni sui movimenti della donna. La farsa si chiude
col pestaggio sulla schiena della sfortunata adultera.
Anche nella triviale Jeninot qui fist un roy de son chat par faulte d'aultre compaignon, en criant: le roy
boit, et monta sur sa maistresse pour la mener à la messe,296 (composta a cavallo fra XV e XVI secolo)
assistiamo ancora una volta all’ironia grossolana in salsa comica verbale di un valletto che un pretesto
vuol sellare la padrona e farsi portare al mercato.
Anche Guillaume qui mangea les figues du curé297 è un valletto stolto ed intrigante che, come sovente
accade, ha la pretesa di essere gran sapiente.
LE CURE (commence)
Guillerme !
GUILLERME
Placet, magistrum ?
LE CURE
Tu es ung notable poltron.
D’où viens-tu ?
GUILLERME
Où ? de foras
Ego fui duabus horas
Legendo epistolibus.
LE CURE
Que mauldit soit le lordibus:
Il n’a sens non plus que ung oyson.298
295
Ibidem : t.I, pp.179-194.
Ibidem : t.I, pp.289-304.
297
Ibidem : t.I, pp.328-350.
298
Ibidem : t.I, pp.328.
296
280
Ma il cretino non è poi così stolto come vuol far pensare. Prima manda all’aria le relazioni del
curato. Poi mangia due fichi che gli erano stati dati in custodia: il primo per fame e di nascosto, il
secondo spavaldamente, per mostrare al padrone come ha fatto col primo.299
Il genere profano francese è distante dalle esperienze comiche del Rinascimento italiano, perché per
“partito preso” estetico rifiuta qualsiasi determinismo. Alla base della drammaturgia italiana che
andava sviluppandosi nello stesso volgere di anni, risiedeva invece l’idea del tutto antitetica a questa
secondo la quale l’uomo può determinare il proprio futuro e costruire la commedia della propria vita
sulla base delle doti personali. Nella farsa, al contrario, non esiste dote personale: il destino degli
incontri e del mondo è ciò che vince su tutto in prospettiva antiumanistica ed antideterminista.
Possiamo così considerare una farsa più o meno “perfetta” da un punto di vista unicamente
letterario, facendo cioè considerazioni esclusivamente sull’intreccio. Ma in questo genere
essenzialmente performativo che è la farsa, la presenza del testo è il più delle volte del tutto
secondaria ed anche gli esemplari in cui emerge con maggiore vigore una prospettiva più
letterariamente “regolare” devono comunque sottostare alle regole dell’esecuzione scenica e
mantenere pertanto i caratteri “antiletterari” del genere.
Lo stesso personaggio della farsa è spesso meno di un tipo, un figurino di cartone in cui il tratteggio
psicologico non solo non viene realizzato, ma sarebbe addirittura controproducente ai fini del ritmo
generale delle pièce, interamente basate sul principio di azione-reazione.
Rispetto al ruolo della novella nella farsa, mano mano che la letteratura drammatica francese
evolveva in senso psicologico complicando il movimento narrativo, la trama della novella – in un
primo momento ripresa per porzioni che si facevano, sole, il centro principale della composizione
drammatica – diventava per lo più mera digressione al margine di una più complicata macchina
scenica: nelle trame molièriane, ad esempio, i riscontri si moltiplicano e i modelli vengono
intrecciati, ibridati, denaturati, rispetto alla loro forma originaria.
Del successo reale, performativo, di queste pièce ci è dato sapere poco o nulla: qualche eco risuona
nei rimandi interni alle altre farse del repertorio o nei sottintesi riferiti ad altre storie ed altri
personaggi conosciuti dal pubblico. Ma la risonanza letteraria e la circolazione di un testo non sono a
questo proposito completamente probanti e la forma scritta ha certamente agevolato la diffusione dei
299
Il dettaglio dei fichi compare anche nelle Piacevoli notti, (VIII-1) nella novella già citata dei tre pigri stolti e
dell’anello.
281
testi più “resistenti” da un punto di vista letterario e che quindi avevano un buon rendimento anche
sulla pagina, pensiamo in particolare all’irrinunciabile Pathelin e farse ad intrigo “perfette” come
quella quella del Pasté e de la tarte.
Col tempo si raggiungeva insomma un utilizzo più creativo e sicuro del modello letterario, con la
tendenza a ridurre il margine di azione dell’attore, che nella incalzante cantilena del verso
“mnemonico” farsesco raggiungeva il massimo grado di libertà d’esecuzione fisica ed espressione
mimica con il minimo dell’intervento verbale.
Si andava verso la modernità delle lettere teatrali; forma ibrida fra la rigidità del procedimento in
versi e rime e ginnastica del corpo attoriale, la farsa si trovò giocoforza schiacciata dalla nascente
commedia letteraria e costretta a lasciare libero il campo all’esecuzione da catafalco degli italiani. In
prosa, pura, assoluta ed improvvisa.
282
3
La fortuna dei vinti
283
3.1 – Circolazione di uomini, idee, pratiche.
3.1.1 – Due feste fra medioevo francese e rinascenza italiana.
Nel suo Ceremonial françois Theodore Godefroy riporta un estratto dagli Offices de France, stilato da
Iean Chenu “Advocat en Parlement”, in cui viene descritta l’entrata di Carlo VII nella riconquistata
città di Parigi, nel 1437: la descrizione è molto interessante e dimostra che nella capitale v’era una
vivace coesistenza di “saperi teatrali” in grado di progettare macchine festive e cortei ben organizzati,
ma tuttavia ancora legati alla dimensione festiva medievale, di matrice municipale, caratterizzata
dalla persistenza delle forme della sacra rappresentazione: scarse sono ancora a questa altezza
cronologica le tracce di quella dimensione ludica, pagana, propria del Rinascimento italiano.
Nelle pubbliche rappresentazioni del 1437 si fa facile esibizione della sgargiante cultura araldica
medievale1 e l’immaginario di cuccagna è ancora il punto di riferimento semantico della
trasformazione dello spazio civile in meraviglia, privo com’è di quella traslazione intellettuale che si
vedeva già nell’ortus conclusus delle feste e dei giardini italiani coevi, colmi di divinità elleniche e
romane.
1
A tal proposito si vedano le recenti considerazioni di Amedeo QUONDAM (2007).
284
Le roy ayant passé la porte sainct Denis vint au Ponceau, où un artifice estoit une fontaine, & sur icelle un
pot couvert d’une fleur de lys, laquelle du haut des ses trois feuilles iettoit Hypocras, vin & eau en
abondance ; dans cette fontaine se promenoient deux Dauphins. Dessous cette fontaine estoit l’arcade pour
passer, peinte en azur fermée de fleurs de lys […]2
Il trionfo non ha nulla della raffinata letterarietà petrarchesca delle pubbliche entrate italiane, ed
assume ancora molto facilmente forme processionali, eredità del teatro religioso. Il potere è una
assegnazione divina, proviene dall’alto e dal trascendente, e per questo ha bisogno di affermarsi in
eventi che conservino forti analogie con le forme religiose come territorio culturale in comune con le
rappresentanze civiche.
Il sovrano prende parte ad una manifestazione religiosa, che mostra innanzi tutto l’immanenza della
sua autorità. Come nelle feste sacre, allora, l’ingresso reale è occasione per mettere in scena le vicende
evangeliche del Cristo.
& dessus une terrasse l’Image de sainct Iean Baptiste monstrant l’Agnus Dei, entouré d’un choeur de
Musiciens habillez en forme d’Anges, chantans en toute melodie.
Devant la Trinité estoit un grand theatre, sur lequel estoient representez les Mysteres de la Passion, et Iudas
faisant sa trahison, ces personnages ne parloient, ains representoient ces Mystères par gestes seulement.
A la seconde porte Sainct Denys, dite depuis la porte au Peintre, estoient les Images de sainct Thomas,
sainct Denys, sainct Maurice & sainct Louys Roy de France, au milieu desquels estoit celle de saincte
Geneviefue Patrone des Parisiens.
Devant le Sepulchre estoit un autre theatre, où furent representez le Resurrection du Sauveur du monde, &
son apparition à la Magdelaine.
A la porte de saincte Catherine derriere Saincte Opportune, estoit un autre theatre, où estoit le S. Esprit
descendant sur les Apostres & Disciples.3
La sfilata diventa una processione, una via crucis, e laddove si fa riferimento esplicito al mondo
silvestre dei pastori – universo culturale d’elezione nello spettacolo moderno – è per ripetere la scena
della natività, nello stesso mélange religioso-allegorico della sottie e dei misteri.
Devant le Chatelet estoit un grand rocher, & terrasse couvert d’un bocage & pastis agreable, où estoient les
pastoureaux avec leurs brebis, recevans les nouvelles par l’Ange de la Nativité de notre redempteur, &
chantans Gloria in Excelsis Deo. Et au dessous l’arcade du dit rocher estoit un Lict de Iustice, où estoient
trois personnages representants la Loy de Grace, la Loy Eserite & celle de Nature. Et contre les boucheries
estoient representez le Paridis, le Purgatoire, & l’Enfer, & au milieu l’Archange sainct Michel pesant dans
une balance les ames des trépassez.4
2
GODEFROY, t.I : p.655.
Ibidem : p.656.
4
Ibidem.
3
285
Nella cronaca non emergono particolari mondani e non si fa alcuna allusione alla moda o alla
mondanità dell’incontro spettacolare. La vita più propriamente sociale sembra rimanere esclusa dalla
rappresentazione pubblica e civica, che si fa dialogo “alto” fra la monarchia e i vari organi della
municipalità che organizzano e partecipano dell’evento di ricongiunzione con il re di Francia.
Siamo ben lontani dal paganesimo rinascimentale e dal suo teatro di idoli.
A questa aderenza più spiccata dell’ingresso trionfale all’universo semantico della processione e della
parata medievali sembra involontariamente rispondere per antitesi la prosa di Bernardino Rincio che
descrive le ben diverse feste della Bastiglia di quasi un secolo dopo, con stile identico a quello del
Ceremonial.
Il clima che si respira nella cronaca del ’18 non è più quello di un paese stremato dal conflitto, che
festeggia il re vincitore nelle forme della tradizione cavalleresca e religiosa, ma quello di una corte
attiva ed alla moda, la corte propria d’uno stato che ha raggiunto il giusto grado di stabilità politica
per poter guardare al resto d’Europa come a un territorio di conquista. E, come spesso accade nella
storia, Graecia capta ferum victorem cepit: l’esotismo delle terre di conquista è lì a farsi amare dai
conquistatori, che finiscono per adottare la cultura dei vinti.
Il 22 dicembre del 1518 nel cortile del Bastide Saint-Antoine, il fortino universalmente noto sotto il
nome di Bastiglia, viene offerta in onore di quattro ambasciatori inglesi un’importante festa di cui il
tempo ha conservato dettagliata testimonianza. L’attento occhio aperto sul sontuoso festino è quello
di Bernardino Rincio, sedicente fisico e medico d’origine Milanese, forse in Francia al seguito di un
Galeazzo Visconti, che sembra avesse a sua volta contribuito personalmente all’allestimento
dell’evento. Bernardino secondo gli stessi opuscoli del 1518 è atrium et medicinae doctor ma di lui
sappiamo poco di più: da alcune lettere e da una dedicatoria scritta da uno studente5 abbiamo la sola
certezza che insegnò a Padova e Pavia prima di approdare a Parigi per qualche tempo ancora e
ripartire per Milano, ove concluse i suoi giorni.
Comunque sia, i festeggiamenti di cui il Rincio rende conto, celebravano la conferma dell’intesa
franco-inglese che si realizzava nella promessa di matrimonio fra Maria Tudor (figlia di Enrico VIII e
futura Maria I d’Inghilterra), di appena due anni, e François de France, il delfino, all’epoca poco più
che neonato.
5
D. SHAW, 1990.
286
Il fidanzamento dei due fanciulli, fortemente perorato dal cardinale di York, Thomas Wolsey, era
stato ufficializzato il 5 ottobre del ’18, a Greenwich, e la cerimonia fu ripetuta in Parigi il 16
dicembre dello stesso anno: la festa del 22 dicembre chiudeva le celebrazioni, che si erano estese
anche al tessuto urbano cittadino (St. Antoine, Hôtel de Ville e rue du Temple), in una serie di
eventi finanziati dalle associazioni della cittadinanza di cui, a differenza delle celebrazioni alla
Bastiglia, ci giungono solo vaghe eco nei registri ufficiali del municipio.6
È noto come destino volle annullare il precoce fidanzamento (il delfino non diventerà mai re di
Francia e la Tudor dovrà resistere alle intemperie dei turbamenti religiosi del suo paese), ma ciò non
toglie che lo scopo della missione diplomatica era sul momento di primaria urgenza politica e
confermava ulteriormente la fine della lega antifrancese.
Si comprende così perché l’autorità regia, responsabile diretta dell’organizzazione dei fasti, volle
lasciare traccia indelebile dell’avvenimento ed usarlo come strumento di propaganda non solo
diplomatica, ma anche popolare, avvalendosi a tale scopo l’editoria: Bernardino Rincio fu investito
del compito di stendere una dettagliata cronaca. E realizzò una pubblicazione ufficiale, insolita per
gli altri eventi effimeri della corte, per lo più affidati al tempo dalla scrittura privata e non lucrativa
dei tanti diaristi oppure a quella ufficiale, ma pure sempre “intima”, non compromessa con le finalità
del potere, delle lettere diplomatiche. Il resoconto dell’evento viene così dato alle stampe appena un
giorno dopo i festeggiamenti, e per di più in due lingue, latino e francese: per facilitarne la
comprensione alle rappresentanze diplomatiche estere ma marcare anche nell’opinione pubblica un
segno di stringente attualità.
L’opuscolo in questione esce dalle presse dell’officina di Jean de Gourmont sotto il titolo di Silva
apparatum, ludos, convivium breviter dilucideque explicans, per un totale di otto carte in-4°, dotato di
colofone molto preciso, ma quasi certamente falso sulla questione della data, visti i tempi di
composizione (letteraria e tipografica) assai stretti; per cui possiamo presumere che la vera uscita
fosse di almeno un giorno successiva. La traduzione in francese della cronaca (per la verità assai
sommaria), uscì invece a Rouen dalle presse di Richart, di cui si riconosce lo stemma, benché non vi
sia un colophon esatto ad attestare data e luogo di edizione. Abbiamo infine una nuova emissione
dell’opera in latino, sempre per le presse della stamperia parigina, ma con numerosi (e tuttavia
6
Ce ne restano solo copie sei-settecentesche, ad esempio il SAUVAL.
287
sensibili) miglioramenti al testo, pur sempre composto in modo sbrigativo.7 La prima stampa sembra
che dovesse coprire l’urgenza della cronaca d’attualità per la diplomazia estera, mentre non crediamo
si sbagli a ritenere che la seconda emissione, di poco più tarda, uscisse a compendio di quella volgare
per una sua più larga diffusione agli strati meno colti della popolazione.
La parabola letteraria del fisico dottor Bernardino Rincio si arresta comunque a questo episodio ed a
quello che lo precede di appena una settimana, legato anch’esso alle festività cittadine: un
Epitalamion uscito lo stesso giorno della celebrazione del fidanzamento (il 16 dicembre),
accompagnato da una traduzione volgare, in questo caso sfornata dalle medesime presse della gemella
in latino.8
Lo si sarà notato, si tratta di un programma di propaganda a mezzo editoriale, studiato nel dettaglio
del mercato: la pubblicazione della poesia encomiastica in coincidenza con le celebrazioni ufficiali, in
7
Si tratta di altri due in-4°. La nuova emissione latina è firmata sempre da Jean de Gourmont, mentre la traduzione non
reca luogo e data, ma contiene la marca del libraio rouennese Richart.
Riportiamo qui di seguito le tre versioni:
Bernardino Rincio, Silva apparatum, ludos, convivium breviter dilucideque explicans. Veneunt in aedibus Joannis
Gormontii, Impressum Parisii, in officina libraria Joannis Gormontii, calcographi, die vigesimo tercio decembris anni
M.D.XVIII (In-4 ̊, 8 ff.).
Bernardino Rincio, Le Livre et forest de Messire Bernardin Rince… contenant et explicant brefvement l'appareil du bancquet
faict à Paris à la Bastille pour la venue des orateurs et ambassadeurs d'Angleterre. Avec les jeux et le festin de ladicte Bastille , J.
Richart, (s.l.n.d.), (Rouen, 1518)
Bernardino Rincio, Sylva Bernardini Rincii... apparatum, ludos, convivium breviter dilucideque explicans. Veneunt in
aedibus Joannis Gormontii, Impressum Parisii, in officina libraria Joannis Gormontii, calcographi, die vigesimo tercio
decembris anni M.D.XVIII (In-4 ̊ , 8 ff.).
Sulla questione della successione delle pièce è doveroso riportare una nota bibliografica di Alfred Bonnardot che trascrive
un colophon con data diversa da quella segnalata nel catalogo elettronico OPALE-PLUS della nazionale francese e nel rep.
RENOUARD che fa riferimento anche agli esemplari della British Library. Abbiamo verificato l’esemplare inglese in
volgare e la data di impressione non è indicata nel colofone: la dedica reca la data del 23 dicembre 1518.
«[…] à la troisième page se lit la date de l’impression : ‘Impressum Parrhysiis in officina librairia Johannis Gormontij
chalcographi. Decimo Ca. Ianuarias, Anno M.D.XVIII.’ Ce millésime n’est pas une erreur puisqu’alors on comptait
1518 jusqu’au jour de Pâques de l’année nouvelle qu’en style moderne on nommerait 1519. Au-dessous du titre figurent,
comme sur l’édition française, trois blasons juxtaposés surmontés de couronnes. Celui du milieu contient l’Ecu de
France. Celui de droite renferme un écu mi-parti de France (une fleur de lys et demie) et de trois lions passants
superposés : c’est, je pense, le blason de Marie d’Angleterre, supposée femme du Dauphin. L’écu de gauche est écartelé au
Ier et au 4e de France, au 2e et au 3e des cinq hermines rappelant les armes de Claude de Bretagne. Il est à remarquer
que sur l’édition française, au lieu de cinq hermines on voit des dauphins. Cette différence pourrait peut-être aider à
reconnaître si l’édition latine a précédé ou suivi l’édition française que Brunet cite comme la première. A la fin de la
dédicace de l’édition française est la date du 23 décembre, ce qui donne a croire que le livre a paru lendemain même de la
fête, ce qui expliquerait ses nombreuses incorrections. Dans la même dédicace l’auteur annonce qu’il a faicte latine ceste
breue forest par le commandement du Roy. On n’est pas plus éclairé. Veut-il dire que l’édition latine a paru ou va
paraître […]». BONNARDOT : p.66.
Noi invece pensiamo che qui l’uso dell’espressione “latine” sia italianismo (o addirittura dantismo) per cui latino equivale
a dire “chiaro”: a nostro avviso questo dimostra che Rincio dovette essere più pratico di latino che di francese e che
presumibilmente avesse adottato questa lingua per la prima stesura, anche nel rispetto della funzione pubblicistica
ufficiale. Latino starebbe, per “chiaro”, dunque per volgare.
8
Le due edizioni dell’Epitaliamon sono in italico, quelle della Sylva in caratteri gotici.
288
doppia lingua, e poi il pamphlet occasionale della Sylva ad esibire l’unicità dell’avvenimento, i fatti e
lo splendore.
Il fine spiccatamente ufficiale della Sylva, che esce con funzione di carattere strettamente
informativo, è diverso da quello dell’Epitalamion, opera con diversa ambizione d’intrattenimento che
infatti “On […] vend en la maison de Jehan Gourmont à l'enseigne des Deux boulles” (corsivo mio,
n.d.r.), come recita il titolo.
Dobbiamo allora aspettarci che la Sylva sia esattamente l’immagine che la nuova corte di Francesco I
vuole proiettare di sé, nella città ed all’estero: un gioco di specchi nel quale ci sorprendiamo a trovare
tanta moda italiana.
Il paradosso è ancora una volta quello che informa tutta la cultura peninsulare del periodo: e qui è
tanto più acuto perché si svolge sul terreno dell’alleanza anti-imperiale ove correva proprio il grande
tema politico del controllo del nord Italia; dell’asservimento d’una regione la cui cultura non era solo
à la page, ma modello, direzione del gusto, modo di vita e di politica.
Le descrizioni di Bernardino Rincio, italiano alla corte che più d’altre in Europa era destinata ad
accogliere (o recludere) fuoriusciti d’ogni angolo della Penisola, sono fondamentali per capire a che
punto l’italianismo si fosse insediato nella nobiltà francese rispetto all’ingresso medievale di Carlo
VII a Parigi.
Rincio si sofferma soprattutto sui dettagli scenografici del banchetto: la corte della fortezza coperta
da tendaggi blu, nella consueta trasformazione dello spazio pubblico, naturalmente aperto, in spazio
privato e artificialmente circoscritto, ricorda i sontuosi banchetti offerti in piazza SS. Apostoli nel
1473 dal cardinale Pietro Riario.9 Il soffitto effimero così creato ospita una serie di pitture a tema
mitologico e silvestre, il pavimento è coperto di tappeti arancio e bianchi, la tavola è sontuosamente
apparecchiata, la luce di candele e fiaccole rischiara il tutto.
Le delegazioni inglesi e francesi seggono a posti alterni con le dame, che partecipano alle danze fino a
tardi: l’aspetto mondano, anche se in una cronaca con pretesa di ufficialità, è prioritario, così come lo
sono moda e costume in una corte che si fa spettacolo.10
Rincio sottolinea più volte quasi a titolo di pregio e a certificazione di gusto che tutto a corte è
italiano: le tappezzerie e le sete sono italiane, i tendaggi sono italiani, gli abiti di tutti i partecipanti
9
F. CRUCIANI, 1984.
L’ambito vestimentario sembra in questi anni suscitare un interesse senza precedenti in Francia. Proprio all’altezza del
1515 è possibile incontrare nel repertorio Renouard numerose pubblicazioni sui costumi e l’abbigliamento (ad esempio:
1503 n.35; 1507 n.60, 1508, n. 54; 1511 nn. 64-67).
289
10
sono italiani, italiani anche i balli, anzi più precisamente “alla milanese” ed alla lombarda. E non
mancano, naturalmente illustri rappresentanti del notabilato italiano: c’è la legazione di Leone X, il
conte Borromeo, il duca e la duchessa di Ferrara ed un «orateur de Venise» di cui non viene
specificata la funzione.
Alla moda italiana la corte si esibisce e si fa teatro di uomini e funzioni politiche; è per questo che
largo spazio è dedicato da Rincio all’esibizione delle gentildonne in danze pavane ed al ruolo visivo
che la corte ricopre nel turbine degli oggetti e del ballo.
Corte italianizzata, in quanto l’Italia è estensione politica della Francia. Corte italianizzata e
modernissima che adotta per la prima volta una danza nuova anche per l’Italia, ove risale ad appena
dieci anni prima. E del resto nella versione francese il cronista si preoccupa di specificare che le
pavane sono delle specie di basse dance, dando per inteso che il lettore medio possa non averle mai
viste. E grande è la capacità di assorbimento culturale della corte, se appena due anni dopo, nel
1520, nelle celebrazioni connesse ad un’altra intesa anglo-francese, (quell’evento “di massa” che fu il
“Camp” du Drap d’Or) fra le ricche e numerose celebrazioni ed esibizioni si registra anche una
“pavana” alla moda ferrarese con grande contentezza dei presenti.11
E poi la musica: nella serata della Bastiglia si suonano cialamelli di diverse dimensioni, così come era
uso nelle nuove mode musicali italiche almeno dal 1509; e l’attenzione con la quale Rincio descrive
l’orchestra è un segno del carattere moderno che i suoni e l’ensemble dovevano avere agli occhi dei
partecipanti. E sappiamo che nello stesso periodo Francesco I aveva chiamato a corte una nuova
orchestra, formata in buona parte da Italiani, cercando di aderire allo stile nuovo delle écurie,
innovate nel Cinquecento soprattutto nel ruolo dei fiati che furono estesi a più gamme tonali ed
aumentarono anche in numero complessivo.
Dalle lettere di naturalizzazione apprendiamo che in un primo momento cinque membri
dell’orchestra di Francesco I sono italiani (due suonatori di cialamelli, due trombe di Casale
Monferrato, un suonatore di corno veronese) ed addirittura nove saranno gli italiani parte della
formazione reale del 1529 dotata di corno, fagotti e dulciane.12 E di stile italiano, per concludere, è
anche la mascherata che si svolge alla Bastiglia dopo il banchetto.
11
I. CAZEAUX, 1975 : p.63. Si trova una raccolta di pavane anche nel cat. RENOUARD, datata 1529: Six gaillardes et six
pavanes avec treze chansons musicales a quatre parties (la data del ’29 è solo in un opuscolo, 1529 n. 1763).
12
GROVE dict. (t.XIX, p.509 – t.III, p.369). Lo sviluppo delle mode musicali italiane alla corte francese è tuttavia anche
esso legato al movimento più tardo di italianizzazione. Alle timide premesse che qui abbiamo accennato seguirono casi
come quello del violinista piemontese Baldassarre (Baldassarrino), da Belgiojoso, giunto in Francia sotto Enrico II: fu
290
Ci sembra macroscopico il cambiamento da quel lontano 1437: l’italianizzazione della cultura
francese (ma più in generale della cultura cortigiana europea) comincia a essere visibile, per così dire,
a occhio nudo.
Quello degli italiani in Francia, (e particolarmente degli italiani che si occupano a vario titolo di
teatro) sembra un fenomeno carsico: nel corso del XV secolo avvertiamo qua e là delle presenze,
emersioni difficili e sporadiche dalle stratificazioni delle fonti documentarie, presenze quasi afferrate,
ma subito disperse nel mutismo delle fonti.
3.1.2 – Invasione o festa viaggiante?
Fra le due rappresentazioni pubbliche appena viste e le rispettive cronache c’è il profondo
cambiamento degli uomini e dei loro costumi verso l’età e la cultura moderne.
Un addensamento delle fonti attorno alla presenza italiana alla corte di Francia si verifica per il regno
di Carlo VIII, primo sovrano mecenate delle italiche arti. Ad Amboise, il 29 gennaio 1497, XV anno
del suo regno, in un’ordinanza il sovrano stabilisce formalmente che Jacques Taillander si carica del
compito di occuparsi degli operai italiani impiegati nel castello.
Commectons, ordonnons et depputons par ces présentes a tenir le compte et faire le payement des gaiges et
entretenemens de certains ouvriers gens de mestier et autres personnaiges qu’auuons fait uenir de nostre
Royaume de cicille pour ouurer de leur mestier a lusaige et mode d’itallye, que suloit tenir et exercer nostre
amé et féal conseiller Maistre Jehan du boys contrerolleur general et secretaire de nos finances lequel de son
bon gre et consentement s’en est desmis et desisté pour profict dudict Jaques Taillander.13
È una delle prime prove indiziarie sulla presenza italiana alla nuova corte.
Il sovrano muore prematuramente nell’aprile del 1498 ed appena qualche mese dopo, in agosto, si
prepara l’«estat des gaiges», lista dei pagamenti rimasti inevasi, ove è menzionato ancora Taillander,
che dichiara d’avere donato assistenza alla comunità «douuriers, deuiseurs et gens de mestier, uenus
du Royaume de secille» assunti dal re, per consentire l’integrazione di questi «estranges et indigens»
“valet de chambre” del re e di Caterina de’ Medici. Mise in scena dei veri e propri spettacoli musicali come un balletto
“delle Ninfe” per una cerimonia diplomatica.
13
ETAT DES GAGES : p.101.
291
senza «aucune congnoissance en nostre royaume, dont ilz puissent auoir secours ny ayde a leurs
affaires»14 e di meritare pertanto il rimborso degli oneri anticipati al re.
È questo importante documento, l’état des gages di Carlo VIII, la celebrazione ufficiale, l’emersione,
dell’attività artistica italiana in Francia, perché vi figura una lista degli artigiani italiani di cui il re
s’era circondato.
Il mito biografico di Carlo VIII, re giovane, guerriero ed amante delle arti, si forma durante le
campagne italiane, in particolare a Napoli, quando nelle sue corrispondenze il sovrano esprime più
volte la volontà di importare in Francia le bellezze artistiche del meridione.15 Le fonti sono note già
alla critica della fine del XIX secolo, fra cui Benjamin Fillon, che in una risposta all’articolorepertorio di Anatole Montaiglon sull’état des gages scriveva:
Il resulte que la colonie des artistes italiens arriva en France en 1495, et qu’elle s’établit à Amboise, séjour
favori de Charles. Voisine de Tours, cette ville fut le foyer artistique où, la mode aidant, Michel Columb et
son école vinrent s’inspirer, de même que Jehan Perréal […], et toute cette nouée de peintres et de tailleurs
d’images […].16
Tutte le cose più belle del mondo: lo stesso état des gages in cui compare l’affaire di Taillander
contiene altre utili informazioni sui contatti fra Carlo VIII e lo stile e le manovalanze italiane, che
proprio sotto il suo regno cominciarono ad infiltrarsi nel tessuto sociale francese, sull’onda lunga di
quella specie di frenetica festa viaggiante che fu la prima campagna italiana, il cui frutto, lungi
dall’essere concretamente politico (ci vorranno ben altri spargimenti di sangue per guadagnare una
reale influenza sulla Penisola), fu soprattutto l’importazione di una straordinaria quantità di artefatti
italiani destinati ad abbellire il castello di Amboise.
La prima campagna d’Italia sembra un paradossale rito di appropriazione, vi si ripete su scala
nazionale il succedersi delle stazioni che caratterizza la classica entrata cittadina, ma in questo caso
ogni città fa da stazione e teatro effimero: più che una parata d’armi, la dissimulazione delle corti
italiane trasforma la missione militare di Carlo in una specie di enorme festa in maschera. Una sfilata
14
Ibidem : p.104. I documenti rimontano al 17 agosto 1498.
Ad esempio scrive ad un suo corrispondente: «voi non potete credere che bei giardini che io ho visto in questa città,
perché sulla mia fede mi sembra che non vi manche che Adamo ed Eva per farne un paradiso terrestre, tanto son belli e
pieni di ogni buona e singolare cosa.»
G. MONGELLI, 1976 : pp.63-64.
16
Nel numero del 15 novembre successivo Benjamin FILLON (1851) risponde alle considerazioni di Montaiglon appena
viste, aggiungendovi del suo. Nella risposta vengono citati una serie di passaggi della corrispondenza di Carlo VIII a
proposito delle bellezze e della cultura di Napoli.
292
15
nazionale di accoglienza, laddove si annidavano più seri voltafaccia politici e l’incomprensibile
broglio della politica d’alleanze italiane.
È una macchina trionfale lunghissima, un corteo che si allunga per poi contrarsi nuovamente
all’interno di ogni città: le accoglienze che gli italiani avevano riservato ai propri sovrani, ora si
estendevano alla nazione, in una reazione corale, nazionale, appunto, laddove la nazione politica non
esisteva.17
Una parata lunga mezza Penisola il cui ruolo mitopoietico era chiarissimo anche al sovrano, che
decide infatti di avere al seguito una corte di cronisti18 per narrare le imprese dell’armata, la cui presa
di Napoli per diritto di successione era logica premessa ad una nuova crociata in Oriente.
Rimangono numerose cronache come quadri e roman de geste, apparizioni o scene prese dal mondo
della cavalleria; l’impresa è un fatto epico e la serie di allestimenti scenici preparati dagli italiani per
l’occasione sono ben più della celebrazione che l’armata doveva aspettarsi.
Ciò che stupisce leggendo le cronache è la perfetta complementarità di tutte le parti coinvolte
nell’affare spettacolare dell’entrata di Carlo: l’esercito e la sua maestà perfettamente ordinata, con la
bellezza delle armature e degli stendardi; l’esibizione spettacolare dell’arme viene integrata in un
ambiente che si rende a sua volta teatro di gesta. La cultura rinascimentale valorizza e rinnova quella
cavalleresca; nella mutazione effimera del tessuto urbano e nella mascherata della corte in un
“theatro” totale si muta l’ordinario in straordinario e la storia diventa il copione dello spettacolo del
mondo.
Così la venuta di Carlo si impregna di segni profetici, il re è una sorta di deus ex machina ove tutte le
parti in causa vedono un tornaconto o temporeggiano per capire se possono averne: Savonarola
racconta per le strade di Firenze d’un nuovo re in arrivo, un principe vendicatore; le profezie di Santa
Brigitta annunciano che un re francese punirà l’alterigia fiorentina.
La cultura di Carlo, nutrita di romanzi cavallereschi la cui lettura pare coltivasse fin dall’infanzia,
sembra essere assecondata dalle signorie, specie quelle del nord, che preparano ingressi trionfali alla
17
Alcuni dettagli della spedizione che riportiamo di seguito sono ricavati dalla Spedizione di Carlo VIII in Italia di Marin
Sanudo, opera plagiata da Marco Guazzo, che la pubblica nel 1547, per Comin da Trino di Monteferrato col titolo
Histoire di messer Marco Guazzo, oue si contengono la venuta, & partita d'Italia di Carlo Ottauo re di Franza, & come
acquisto, & lascio il regno di Napoli. Il plagio fu smascherato da R. FULIN (1873).
18
Della campagna italiana Carlo VIII vorrebbe conservare una memoria indelebile: lo seguono scrittori e cronisti che
realizzano ad uso di Anna e della corte un aggiornamento quasi quotidiano sulle gesta eroiche del re, poi minuziosamente
trascritte e rielaborate da André de la Vigne.
André de la Vigne, le Vergier d’onneur, (A. SLERCA, 1981).
Pierre Desrey, Relation du voyage de Naples, (ARCH. CURIEUSES, s.I, t.I, pp.111-170).
293
moda cavalleresca, intessendo però il mistero francese con il gusto italiano. È il caso di Torino che
riserva all’esercito un’accoglienza in stile transalpino, con tanto di sacre rappresentazioni e parate
trionfali, durante le quali, Bianca di Monferrato (che accoglie personalmente il re alle porte della
città il 5 settembre del 1494) esibisce uno sfarzoso vestito che provoca l’ammirazione del re.
Etait habillée d’un fin drap d’or frisé, travaillé à l’antique, brodé de gros saphirs, diamants, rubis et autres
pierres fort riches et précieuses. Elle portait sur son chef un gros tas d’affiquets, surbrunis de fin or, remplis
d’escarboucles, de balais et hyacintes avec des houppes dorées, gros fanon et bouquets d’orfèvrerie
mignardement travaillés. Elle avait à son col des colliers à grand roquets garnis de grosses perles orientales,
des bracelets de même en ses bras et autres parures fort rares. Et ainsi richement vêtue elle était montée sur
une haquenée, laquelle était conduite par six laquais de pied, bien accoutrés de fin drap d’or broché.19
Ed al classico corteo francese è aggiunto un ciclo di rappresentazioni sulle gesta di Lancillotto,
rievocazione tutta cortese del medioevo fantastico: una pantomima ed una scena pastorale ove si
rappresentavano in allegoria la legge di natura e di grazia, con storie di Lancillotto.
Ad Asti Ludovico il Moro ed Ercole d’Este preparano l’accoglienza. Carlo esibisce la sua devise:
Voluntas Dei – Missus a Deo, il sovrano francese ripete la simbologia cristiana, l’emanazione divina
del potere. Al pari di Torino anche qui l’accoglienza è di stile francese; ed anche qui una donna
sovrana, la moglie del Moro, Beatrice d’Este, è vestita in stile transalpino, assieme ad altre ottanta
dame di corte. Il vestito non è da meno di quello di Bianca di Monferrato: il corsetto, con ampia
scollatura, brilla di diamanti, perle e rubini, le maniche in merletto sono ornate di lunghi nastri di
seta ed il copricapo è decorato con piume di struzzo rosse e grigie. Il sontuoso vestito è uno dei primi
innamoramenti di Carlo VIII che comanda una pittura dell’abito da spedire ad Anna di Bretagna.
Segue un passaggio a Monferrato ove si svolgono con quattro intermediari di Ludovico il Moro le
trattative per un prestito di 57.000 scudi al re con la promessa di altri 50.000 ducati per l’impresa
napoletana.
Qui il mito si articola: nelle cronache leggiamo che Carlo VIII non si fida dell’offerta e nella notte
dell’11 ottobre esige che le porte del castello di Mortara siano chiuse e controllate dalle sue armi,
facendo lo stesso anche nel castello di Vigevano, dove tuttavia il Moro con Beatrice D’Este non
avevano risparmiato le accoglienze, stando alla testimonianza dell’ambasciatore del duca D’Este,
Giacomo Trotti,20 che si dice meravigliato delle decorazioni effimere realizzate nel castello. Ma certo
il dettaglio della diffidenza, del fiuto quasi sacro del sovrano unto dal Signore, potrebbe essere stato
19
20
Ibidem : p.128.
Giacomo Trotti a Ercole D’Este, in C. FOUCARD, 1879 : p.786.
294
interpolato dalla vasta pubblicista sulla prima spedizione d’Italia, dopo l’ingresso del Moro
nell’alleanza antifrancese.
A Pavia – dove Carlo viene ricevuto in pompa magna21 – la cronaca delle imprese del re buono trova
una scena ghiotta per la propaganda: il re incontra Gian Galeazzo Sforza, gravemente malato e gli
promette di trattare il figlioccio di cinque anni, Francesco, come suo. Ad accrescere il pathos
contribuisce la scena in cui Isabella, moglie di Galeazzo e figlia dell’Aragona, si getta ai piedi del re
per implorarlo di salvare il padre Alfonso, allorquando Napoli sarà occupata. Il re risponde
seccamente: «Madame, il ne se peut faire».
A Pavia e Piacenza il re visita la certosa ed i castelli e riceve in dono delle forme di pregiato formaggio
grandi come mole, che fa spedire in Francia.
E finalmente il corteo militare volge a Firenze, dove, a dispetto dell’armatura appena indossata,22 al
re si nega anche la più piccola schermaglia: come è noto viene anzi raggiunto da Piero di Lorenzo de’
Medici che, senza opporre resistenza, contratta per la resa e cessione di Sarzana, Ripafratta, Pisa e
Livorno, favorendo così l’agonia della signoria che cederà sotto la rivoluzione savonaroliana.
Dopo Firenze è la volta di Lucca ed in Toscana più che altrove entrano in gioco le sottili dinamiche
campanilistiche italiane, per cui il re è accolto da una folla di gente che lo acclama e che si è fatta
cucire sulle camice la croce bianca di Francia; profumi vengono bruciati per le strade al grido di
«Francia! Francia!»: ai militari vengono offerte libagioni, bevande ed una festa per le strade. Carlo
VIII visita anche il tempietto reliquiario di Matteo Cividale e tocca il Volto Santo. Ottiene dalla
repubblica 20.000 ducati e volge le armi a Pisa, dove l’antifiorentinismo si scatena con fanatismo
goliardico, aizzato anche dalle notizie sulla repubblica savonaroliana, che fra l’altro invia una
delegazione al re. Le accoglienze riservate dai pisani al sovrano sono italianissime: una fiaccolata è
organizzata nella città e la folla getta con spregio il Marzocco nelle acque. Il 17 novembre il re torna
a Firenze; una parte delle mura difensive è stata abbattuta per consentirgli l’ingresso agevole nella
città con le truppe al seguito: uno scudo con i simboli della Francia e panni con scene allegoriche è
esposto in piazza della Signoria. Un carro precede il corteo militare, sovrastato da un imponente
giglio d’oro, al cui interno vi sono palme ed olivi. Segue anche la messa in scena della parabola
evangelica delle donne savie e delle donne folli, riportata sul finire del Vangelo di Matteo,23 fra
21
Bernardino Corio, Historia continente da lorigine di Milano tutti li gesti, fatti, e detti…, (A. MORISI GUERRA, 1978).
In quasi tutte le cronache si apprende questo dettaglio: dopo il giro del nord Italia, in Toscana il re cambia gli speroni
in legno e mette quelli di ferro, calzando l’armatura e la spada alla coscia.
23
Matteo, 25, 1-13.
295
22
l’episodio dell’entrata trionfale di Gesù nella città di Gerusalemme e quello della Passione, con ovvio
parallelo fra il sovrano dei cieli ed il sovrano francese. Il linguaggio dei cronisti non evoca solo la
sacralità del fatto e lo stupore attonito di assistere a qualcosa di trascendente: nella cultura delle corti
e delle signorie italiane s’è già da tempo installata la coscienza della classicità. Per segnare la
continuità del reame con le glorie della latinità si usa la simbologia storica. La rapidità della
conquista fa venire alla mente il veni vidi vici di Zela, Carlo è «sopra l’esempio di Giulio Cesare
prima vinto che veduto».24
L’un des procédés les plus courants du style panégyrique est l’usage de la comparaison historique. Parmi les
personnages traditionnellement cités, figure le plus souvent César, sorte d’étalon de base que le héros glorifié
est censé surpasser. Charles VIII est également associé à Alexandre le Grand et à d’autres conquérant
célèbres. Au-delà de leur aspect strictement rhétorique, ces inscriptions font ressortir deux notions
essentielles : le caractère sacré de la mission de Charles VIII et la légende du monarque invaincu.25
Carlo VIII contratta con il nuovo governo repubblicano i termini del controllo del territorio e lascia
la città nella convinzione che Savonarola è con lui e gli resterà fedele.
Il 2 dicembre il corteo dell’arma reale muove per Siena dove la cittadinanza ha preparato un
sontuoso ingresso, la cui simbologia, intrisa di mitologia e storia antica, evocava la discendenza
senese dai galli: un arco di trionfo alla porta Camolia26 celebrava la battaglia di Montaperti del 1260
catalizzando ancora una volta l’arrivo del re nell’odio regionale, antifiorentino, campanilistico.
Durante gli spettacoli pubblici una donna vestita da vergine canta un inno: sui trionfi, ovunque,
scritte in latino ricordano l’origine sacra della dinastia francese e paragonano Carlo VIII a Carlo
Magno. In uno slancio di benevolenza il re cambia d’avviso in merito ai 30.000 ducati che aveva
reclamato in prestito dalla città e si accontenta di prendere mille misure di grano per le sue truppe.
Riconoscenti, i senesi duplicano la quantità.
In Toscana la festa si fa incalzante: la marcia dell’arme è più rapida e diventa una cavalcata
indisturbata verso una gloria offerta sul piatto d’argento: i diplomatici del centro Italia fanno a gara
per incontrare il sovrano e dichiarargli la propria sottomissione.
La festa e la cultura come strategie diplomatiche, non per non essere schiacciati dall’enorme armata
francese, ma magari anche per ricavare benefici e mercanteggiare sulle divine richieste del sovrano: è
24
Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, I-19.
A. DENIS, 1979 : p.69.
26
Riprendiamo da Anne DENIS (1979) questo dettaglio di Tomme di Nofrio, Nell’ingresso fatto in Siena, Firenze,
Biblioteca Moreniana, Fondo Pecci, 54, fo. 71v.
296
25
la diplomazia uno dei mezzi di propagazione della cultura spettacolare italiana, perché siffatta cultura
è uno strumento della diplomazia.
Dopo essersi installato a Viterbo, il re manda le sue delegazioni nello stato Pontificio. Il papa è più
intransigente e lo stesso duca di Calabria, capitano delle truppe napoletane, ha appena lasciato Roma
per raggiungere il regno di Napoli.
Si fanno diverse trattative. Il re il 31 dicembre prende il controllo della città eterna, dove installerà
anche due patiboli in Campo de’ Fiori per far rispettare l’ordine alle sue truppe, che avevano
cominciato a saccheggiare la città e le ricche residenze cardinalizie. Il re fissa i termini d’un accordo
col pontefice: Cesare Borgia lo seguirà a Napoli per incoronarlo legato pontificale; all’arme francese
viene consegnato il principe turco Djem, fratello del sultano Beyazed, prigioniero (o curiosità
esotica) a Roma. Il re pretende anche il ripristino dei vescovi francesi ed il libero passaggio sullo stato
Pontificio: in compenso il Papa riesce a conservare il Castel S. Angelo, inizialmente preteso dal
regnante francese. Prima di lasciare Roma, il sovrano visita tutti i luoghi sacri principali e la leggenda
vuole che fosse in grado di orientarsi perfettamente nelle strade della capitale, apprese a memoria sui
libri. Salutato dalla popolazione come nuovo imperatore, il re riceve trionfi anche fra le vestigia della
latinità: André de la Vigne scrive che furono offerti giochi alla romana, di tori e cani da caccia, nei
luoghi storici dell’impero e che al re fu offerto il Colosseo. Da Sanudo apprendiamo invece che la
città era punteggiata di fiaccole e fuochi, illuminata al punto da sembrare incendiata: il re resta ospite
nei palazzi del Vaticano ed ostenta disinvoltura davanti al Papa, cercando di porsi come suo pari; ed
infatti, nella capitale della cristianità «dans la Chapelle Sainte-Petronille, que Charles VIII, le 20
janvier 1495 avait touché environ 500 [scrofuleux], jetant ainsi, s’il faut en croire son panégyriste
André de la Vigne, les Italiens, ‘dans une extraordinaire admiration’».27 Il 28 gennaio Carlo VIII
lascia la capitale, ed il Borgia appena fuori Velletri scappa, facendo presagire la leggerezza degli
accordi stretti con mezza Italia.
Le scaramucce che l’esercito si attendeva già dalla Toscana hanno luogo finalmente fra Garigliano e
Liri dove il re assedia Monte San Giovanni, fortezza ritenuta inespugnabile e che invece subisce
ingenti perdite ed è saccheggiata ed incendiata con grande impressione dei contemporanei, che
verificano la potenza delle 30.000 unità al seguito del sovrano. Il regno di Napoli si empie così «di
27
M. BLOCH, 1983 : p.312.
297
grandissimo terrore» per un «modo di guerreggiare, non usato molti secoli in Italia» ove invece si
«perdona sempre alla vita degli uomini».28
Le province del regno vogliono evitare ogni ulteriore recrudescenza militare: il 13 febbraio a San
Germano, una processione è organizzata per il re, che viene riconosciuto sovrano del regno. Carlo
emette editti e concessioni, chiede imposte, assegna marchesati e contee29 prima ancora che le sue
truppe raggiungano la capitale del regno: gli Abruzzi, ad esempio, cedono spontaneamente. «Avant
son entrée dans le royaume de Naples, toutes les villes sont lui ouvertes, et le roi de Naples, Alphonse
II est acculé à l’abdication, car il entend ‘tuta la terra cridare : Franza, Franza’. »30
A Napoli Carlo entra trovando la città nel disordine; Alfonso è scappato, dopo una notte di
tormento descritta in un celebre passo di Francesco Guicciardini.
Quel che di questo sia la verità, certo è che Alfonso, tormentato dalla coscienza propria, non trovando né dì
né notte requie nell’animo, e rappresentandosegli nel sonno l’ombre di quegli signori morti, e il popolo per
pigliare supplicio di lui tumultuosamente concitarsi, conferito quel che aveva deliberato solamente con la
reina sua matrigna, né voluto, a’ prieghi suoi, comunicarlo né col fratello né col figliuolo, né soprastare pure
due o tre dì soli per finire l’anno intero del suo regno, si partì con quattro galee sottili cariche di molte robe
preziose; dimostrando nel partire tanto spavento che pareva fusse già circondato da’ franzesi, e voltandosi
paurosamente a ogni strepito come temendo che gli fussino congiurati contro il cielo e gli elementi; e si
fuggì a Mazari terra in Sicilia, statagli prima donata da Ferdinando re di Spagna.31
La popolazione attacca ebrei e marrani distruggendone le case e saccheggiandone gli averi. L’arma del
re è rimasta a presidio delle fortificazioni principali, ma la situazione militare del regno è a questo
punto disperata. È il 22 febbraio. In Napoli il re entra con una semplice tenuta ed un cappello di
velluto nero, monta un mulo, quasi a sottolineare l’appropriazione del reame con legittima
successione. Con lo stesso significato calza speroni in legno in luogo di quelli in ferro. Un valletto
con due cani da caccia lo segue: al braccio il sovrano reca un falcone, dettaglio che ancora una volta
ci fa rilevare questo incontro di medioevo e moderno, questa alchimia realizzata in Italia per un
cambiamento della corte francese, la “passeggiata venatoria” in città (per cui «per essere galante
portare tutto dì uno sparvieri in pugno senza proposito») essendo per il Castiglione, appena dieci
anni dopo, consuetudine «hor goffissima» benché in passato «prezzata assai».32
28
Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, (I, XVIII).
Concessione del ducato di Pescara (Monte San Giovanni e i castelli del marchese di Ferrara) a Giovanni della Rovere;
o Fondi, che viene assegnata a Prospero e Fabrizio Colonna.
30
A. DENIS, 1979 : p.73.
31
Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, (I, XVIII).
32
È Amedeo QUONDAM (2007 : p.36) che fissa la sua attenzione sul dettaglio del falcone.
298
29
Cultura rinascimentale e cultura medievale a confronto: una serie di indizi sono a testimonio dei
legami ancora stretti del regno francese con l’universo delle forme medievali; ma è una cultura aperta
ad accogliere il rinnovamento, così il sovrano risiede diverso tempo nella città, della quale si
appropria e della quale lui ed i suoi uomini restano sbalorditi.33
Nella residenza di Castel Capuano, il re saccheggerà il ricco arredo, preparandosi a partire di nuovo
alla volta della Francia, per non cadere nella trappola della lega antifrancese costituita su iniziativa
veneziana (i veneziani del resto erano i soli che avevano accolto freddamente la calata del re) che
rischiava di bloccarlo a sud con tutte le sue truppe; due navi si preparano a partire, mentre il 12
maggio del 1495 il sovrano di Francia fa una cavalcata pubblica. I vascelli contengono fra le
numerose ricchezze trafugate, i battenti di bronzo della porta fatta per il castello nuovo da Guillaume
le Moine, la statua di bronzo di Alfonso e le vetrate della chiesa dell’Annunziata. Oltre ai pezzi
celebri sappiamo che furono imballate e traslate diverse sculture, 130 tappezzerie, 172 tappeti, 39
stendardi in cuoio dorato e dipinto, mobili, letti da campo, credenze, bauli; opere d’arte, oggetti in
avorio, mosaici, alabastri, ambre, pietre preziose d’ogni genere, carte e tavole topografiche, una
dozzina di ritratti di uomini e donne italiani. Ma la cosa più importante sono 1140 volumi rilegati
trafugati alla biblioteca napoletana, opere in cinque lingue, latino, greco, italiano, francese, ebraico,
raffinate edizioni a stampa e codici manoscritti: il primo fondo della immensa collezione traslata due
volte da Francesco I e divenuta la biblioteca di Fontainebleau, nucleo della Bibliothèque de France.
Ma Carlo VIII non si contenta dei semplici oggetti: assieme al vivace ricordo di questa festa
viaggiante, cui cercherà di consacrare le arti dell’amato castello di Amboise egli porterà con sé i saperi
e le tecniche artistiche del Rinascimento italiano, acquistando diversi artisti, architetti e maestranze,
giardinieri, pittori, miniaturisti, massoni, falegnami. Le stesse personalità che circa tre anni dopo
compariranno nell’état des gages.
La campagna o “viaggio” d’Italia, per Carlo fu un episodio formativo: gli stati italiani lo accolsero
come un eroe salvatore e gli dedicarono celebrazioni di raffinato gusto rinascimentale. Al sovrano si
svelava un modello di corte, in cui lo spettacolo del nuovo paganesimo era uno strumento politico.
33
«C’est un bon et beau pays plein de bien et de richesses. Au regard de cette citée, elle est belle et gorgiasse en toutes
choses autant que ville peut être […]. Ecrit en mon Chastel de Capouanne, en ma cité de Naples, le 22e jour de février»
LETTRES DE CHARLES VIII : t.IV, p.137.
299
3.1.3 – Fra scenografia artificiale e naturale. Altre feste.
Carlo si installa il 21 febbraio al Poggioreale, reggia sontuosa, costruita nel 1481 su disegni di
Giuliano da Maiano ed i cui giardini erano stati forse allestiti da Fra’ Giocondo da Verona.
Considerata a lungo come prototipo della rinascenza architetturale italiana, la reggia fu resa celebre
dal suo equilibrio compositivo, modello anche per Sebastiano Serlio. Dimostrazione dell’efficacia
delle nuove tendenze classicheggianti dell’architettura in essa si combinano la comodità e la
rappresentazione ideale, scenografica, della sovranità.
Era eretta su due piani e le gallerie con le arcate esterne formavano una specie di impluvium: gli
appartamenti agli angoli comprendevano ciascuno sei stanze; il reticolo regolare così composto
nascondeva sorprendenti stranezze, passaggi nascosti e persino la possibilità di inondare una stanza
per prendersi gioco dei presenti nella soddisfazione teatrale dell’otium postprandiale napoletano.
E poi la florida natura della canicola napoletana, con olivi, aranci, datteri: una specie di paradiso
terrestre che Carlo vorrà riprodurre in casa sua, cercando di vincere le stesse avversità del clima,
altrimenti sfavorevole alle lussureggianti regge napoletane.34
Attivi a Napoli durante il passaggio del re v’erano due nomi entrati a far parte della nuova corte
dell’esodo delle arti italiane del 1495: «Dom passollo Jardinier» e «guido paganino, paintre et
enlumineur»,35 due personaggi non nuovi al mondo del teatro.
Il primo è il celebrato frate Pacello da Mercogliano, fine giardiniere e botanico che sviluppò il
giardino come scenografia o gioco di modellazione dell’uomo sul naturale, intraprendendo la
direzione di quelle simmetrie e rimandi geometrici che caratterizzeranno lo stile del giardino francese
moderno. Pacello continuò la sua attività in Francia anche dopo la morte di Carlo VIII ed applicò al
parco di Blois i medesimi principi estetici che lo avevano indirizzato nell’allestimento delle
scenografie vegetali delle ville Aragonesi e divenne rapidamente molto noto per la cura artistica con
la quale componeva l’insieme vegetale: a lui si deve l’introduzione oltralpe di motivi portanti del
nuovo giardino, come il parterre monocromo o policromo che divide il terreno in porzioni funzionali
o come la coltivazione degli agrumi e l’installazione nel contesto naturale di macchine scenografiche,
34
Tant’è che si racconta che Pacello nei giardini reali di Francia avesse dovuto organizzare la coltivazione degli agrumi e
degli alberi sensibili al freddo dentro enormi vasi, che nella stagione più rigida erano rimossi e portati al riparo.
35
ETAT DES GAGES : p.107.
300
padiglioni e logge.36 Nella villa aragonese della “Duschesca” di Napoli Pacello aveva anche curato le
infrastrutture atte ad accogliere fastosi banchetti scenografici.
È in questo periodo che gli italiani eccellono nell’arte vegetale ed alla fine del XV inventano il
giardino a partire dall’orto medievale, aggiungendo i comandamenti del gusto moderno alla tecnica
della coltivazione custodita nei monasteri.
Nel 1499 esce per i tipi di Aldo Manuzio il Vecchio, l’Hypnerotomachia Poliphili, conosciuta in
Francia sotto il titolo di Songe de Poliphile, che eserciterà una influenza fondamentale nello sviluppo
delle architetture effimere da giardino e nella propagazione di un ideale di equilibrio totale
(tipografico, architettonico, umano): arte dei giardini, architettura effimera e macchine da spettacolo,
come generi contigui, che trovano nella letteratura classica e silvestre un efficace sistema di
rispondenze. E poi l’uso dell’acqua in un ideale classico di equilibrio naturale che passando per
Napoli si vena d’arabo: le osservazioni sulle ville romane perfezionano il modo di irrigare l’ortus e la
pratica dell’architettura idrica da parco e giardino, con le sue molte sfaccettature scenotecniche, resta
nelle mani degli italiani che difendono la loro reputazione fino a Caterina de’ Medici37 ed Enrico
IV.38
Il parco di Blois fu fondante per lo stile del giardino francese: del suo aspetto rimangono diverse
testimonianze39 ed incisioni, che ci riportano ad un gusto fortemente italiano. Uno dei giardini della
reggia, dotato di logge padiglioni e pergole era diviso in quattro compartimenti regolari a fontana
centrale con fusto decorato: a questo centro geometrico convergevano i vialetti, così come accadrà a
Versailles o a Fontainebleau.
36
M. BAFILE, 1954; G. MONGELLI, 1974; A. GIANNETTI, 1994; F. ZECCHINO, 2003.
I giardini del Castello di Chenonceau furono affidati a Enrico Norcisio, un calabrese
38
Il quale affida Saint-Germain-en-Layne e Fontainebleau al giardiniere Arancini, destinato a diventare sovrintendente ai
giardini reali e alle acque e fontane del re.
39
F. FARIELLO, 1967 : pp.89-91.
«Tucti detti cardini (di Bles), dove era primo terreno montuoso et sterile, ha fatto un donno Pacello Prete Napoletano,
quale per delectarse molto de questo exercitio fu conducto in Franza dal Roy Carlo quando fu in Napoli. Et vi sono
quasi de tucti fructi che sono in terra di Lavoro da poi de fiche de quali ancor che ce ne siano alcuni arbori, fanno li
fructi piccolissimi et rare volte vengono ad maturità. Ce ho visto molti arbori de melangoli et altri agrumi grandi, et chi
producono assai convenienti fructi; ma son piantati in certe cascie di legno piene di terra, et de inverno li retira sotto una
gran loggia coverta da neve et venti nocivi: quale loggia è in detto zardino dove sopra dove sono le habitationi di detto
prete zardinero».
Queste notizie intorno ai giardini di Blois sono registrate nella cronaca del viaggio del Cardinale Luigi d’Aragona nel
1518, compilata dal suo accompagnatore Antonio de Beatis: Itinerario di Monsignor R[everendissi]mo et Ill[ustrissi]mo Il
Cardinal da Aragona mio Signore…. Per noi in L. VOLPICELLA, 1876 : p.110. Le corrispondenze furono poi pubblicate
integralmente a cura di L. VON PASTOR, 1905.
301
37
Guido Paganino o Modanino – al secolo Mazzoni – entrava anch’egli in contatto con Carlo VIII
durante il passaggio a Napoli e veniva reclutato con modalità analoghe a quelle adottate per Pacello.
Si conosce poco della biografia del Paganino, ma fra le prime testimonianze sul suo conto si
conservano fonti che ne attestano il debutto nel mondo dell’arte come artigiano esperto in maschere
di cartapesta, di cui riforniva gli allestimenti teatrali estensi. Le sue maschere furono indossate per le
feste pubbliche date a Modena in onore di Eleonora D’Aragona ed Ercole D’Este, nel 1473 e nel
1476 si occupò degli apparati allegorici di Modena, con un “Ercole mitologico”: la fama dell’artista
in Italia ed in Europa gli derivò da questi contributi artistici ai famosi fasti spettacolari estensi.40
Il prestigio di Paganino si accrebbe nel tempo, e dalla scultura effimera passò alla lavorazione della
terracotta che usava con forte resa naturalistica e vigore passionale, specie nel genere sacro: lo
vediamo lavorare sul tema del Compianto del Cristo morto, dal quale tira esempi di grande forza
espressiva; in appena un quindicennio Modanino realizzò un numero significativo di gruppi scultorei
su questi genere, tutti fra Cremona, Ferrara, Venezia, Modena. Ma l’artista non abbandonò del tutto
l’attività effimera e con ogni probabilità partecipò anche agli allestimenti per Ferrante I ed Alfonso
II. La teatralità delle sue opere sacre era nel linguaggio popolare e di forte tensione spirituale e
scenica. Un pathos drammatico e popolare che per Carlo VIII fu trasferito alle decorazioni per il
castello di Amboise e al sepolcro reale per St. Denis, poi andato distrutto, come la maggior parte
delle sue opere realizzate in Francia, benché ivi lo scultore avesse consumato i migliori anni della sua
maturità artistica. L’attività di Paganino oltre le Alpi non ci lascia tracce d’esercizio scenotecnico, ma
non si esclude che possa avere partecipato all’allestimento delle feste reali: la permanenza a corte non
è breve, e ancora nel 1507 è al servizio di Luigi XII, per il quale si occupa di alcune statue per Blois.
Se si scorre ancora l’état des gages, ulteriori sono le presenze italiane di operai specializzati, artisti,
artigiani: come «dominico de cappo» d’origine napoletana, che esercita a corte la professione di
«faiseur de hardes», cioè sarto di capi femminili, abiti antichi e costumi. «Maistre bernardin de
brissac» è con ogni probabilità l’artista Bernardino da Brescia, qui qualificato come «ouurier de
planchers et menuisier de toutes couleurs». Per quanto riguarda l’abbigliamento ecco spuntare dal
censimento delle spese anche «Maistre siluestre abbast, faiseur d’abillemens de dames à lytallienne de
toutes sortes» e «jeahn armenaris, decouppeur de velloux à lytalienne, seruant aux habillemens des
40
RUSSO - CALORE, 1980; C. FALLETTI, 1983; LUZIO - RENIER, 1903; CRUCIANI - SERAGNOLI, 1987.
302
dames»: abiti all’italiana che ricordano la cronaca del Rincio e la corte tutta vestita alla moda
peninsulare.41
Sempre nello état des gages si incrociano anche le rivendicazioni pecuniarie per «Domenico de
courtonne, faiseur de chasteaulx, et menuisier de tous ouvrages de menuiserie».42 L’arco cronologico
della vita dell’artista43 (che s’installa in Francia con le prime significative presenze italiane nel 1495 e
muore quando la trasformazione s’è compiuta) rispecchia perfettamente la parabola del cambiamento
dell’arte francese sotto l’influenza del Rinascimento italiano. Nel regno di Napoli il Cortona aveva
visto e partecipato alla convergenza di ideali ed arti fra Ferrante I e Lorenzo il Magnifico, seguendo
gli umori di quella prima rinascenza italiana.44
Bassa però è la pensione assegnata a Domenico, inferiore alla media degli ingaggiati e maggiore solo
di quelle del guardiano di perrocchetti, o di Damasso, «tourneur d’albastre». La sua qualifica di
«menuisier» rispecchia il tirocinio presso il Sangallo45 ma l’état des gages del ’98 attribuisce al Cortona
anche la funzione, più enigmatica, di «faiseur de chasteaulx». Anatole Montaiglon ipotizzava che tali
castelli potessero essere quelli creati a scopo militare, in legno ed effimeri, che venivano impiegati per
la fortificazione provvisoria di un campo o per l’assedio d’una fortezza. Seguiamo però Pierre
Lesueur46 nel notare che la tecnica militare dei castelli in legno era allora desueta: una traduzione
delle mansioni del Cortona in quelle d’architetto è in più forzata, in quanto nella stessa lista delle
pensioni Fra’ Giocondo compare come «deviseur de bastiments», e non si comprende per quale
ragione la stessa qualifica non sarebbe stata adottata anche per il Cortona.
Vista la sapienza scenografica e teatrale dell’artista, esperto di teatri e “fabbriche” da giardino,
possiamo esprimere l’opinione che la sua qualifica fosse quella di progettista d’apparati effimeri,
macchine da teatro, carri, eschaffauds. E tale ipotesi crediamo sia avvalorata dal fatto che dell’attività
del Cortona non resta in Francia che qualche traccia, forse segno implicito della sua occupazione
prevalentemente nell’arte della costruzione effimera. I primi lavori del cortonese (che dopo la morte
di Carlo VIII è a Tours) di cui v’è documentazione in Francia sono quelli del 1510, quando ancora
come intagliatore realizza sei letti da campo per le camere reali del castello di Blois e quando in
41
J. F. DUBOST, 1997.
ÉTAT DES GAGES : pp.108-111.
43
Per la bibliografia dettagliata delle fonti, carte notarili, ricevute di pagamento ed ingaggi, per lo più conservate
all’archivio di stato di Parigi, si rimanda all’utile P. LESUEUR, 1928.
44
E. MÜNTZ, 1889-1895, t.I, pp.112-118.
45
Anche Sangallo aveva debuttato nelle arti applicate con lavori di falegnameria fine ed edile, che non tralasciò mai
durante la carriera d’architetto.
46
P. LESUEUR, 1928.
303
42
occasione del battesimo di Renata di Francia, occorso il 25 ottobre 1510, il nostro realizza due culle,
una pedana di legno per farle dondolare e tutto quanto occorre alle stanze della nuova arrivata della
casa reale.
Il 5 novembre del 1514 la giovane Maria Tudor (figlia di Enrico VII) faceva la sua entrata reale a
Parigi, dopo essere stata consacrata regina il 7 agosto, a St. Denis.47 I festeggiamenti nella capitale
durarono nove giorni e fra gli artigiani che curarono i numerosi allestimenti troviamo ancora il
Cortona, che esercita la sua abilità nella realizzazione di diverse fabbriche effimere per il piacere del
re e della regina e per lo svolgimento dei giochi: il duca di Valois, conte d’Angoulême e futuro
Francesco I, fu uno degli organizzatori più attivi dei festeggiamenti. I giochi si svolsero alla rue SaintAntoine, vicino all’hôtel de la Tournelle, dove furono posti eschaffauds per gli astanti e creata una
specie di piazza d’armi con barriere in legno, all’interno delle quali dovevano svolgersi le giostre.
Domenico realizzò l’arco di trionfo che dava accesso alla piazza d’arme: la struttura doveva essere
non più d’un insieme di telai atti a sorreggere le raffigurazioni delle strutture architettoniche e lo
schema araldico dei regnanti.48 Cinque colonne classiche reggevano altrettanti scudi, ciascuno di
colore diverso e collegati ad altrettante “emprinse”: a seconda dello scudo toccato gli sfidanti
avrebbero dovuto sostenere una prova diversa: tornei a cavallo per lo scudo dorato e argentato, giochi
a piedi lotte corpo a corpo per lo scudo nero ed infine quello grigio, che corrispondeva all’assedio, in
cui era previsto che i dieci difendessero un bastione. 400 lire sono date a saldo del lavoro di Cortona,
che include oltre all’arco di trionfo anche i fortini effimeri per lo svolgimento dell’ultimo gioco.
Non molto tempo dopo, il 1° gennaio del 1515, Luigi XII si spegne nella sua residenza di Tournelle:
le pubbliche cerimonie per la sepoltura ricordano i teatri di morte romani e fiorentini. Domenico da
Cortona partecipa agli allestimenti processionali come «menuysier de la feue Royne derrenière
décédée» e realizza tutte le strutture lignee che occuperanno le navate centrali di Nôtre Dame: l’opera
più importante è una grande camera ardente in legno, in forma di cappella con capitelli e false
struttura architettoniche. Il cortonese realizzò anche le macchine necessarie a ospitare la salma del re
e le effigi dipinte da Jean Perréal durante le due processioni: e mise in opera anche le suppellettili e
gli accessori, come i candelabri e le protezioni per ospitare ceri e banderuole: il lavoro di tutta
47
Molti dei documenti più interessanti sulle nozze fra Luigi XII e Maria d’Inghilterra in John BRIDGE, 1921-1929, t.IV,
pp.248-63.
48
Lo scudo di Luigi XII era affiancato a quello della regina, sovrastati entrambi dalla corona; appena sotto quello del
duca di Valois e a seguire i blasoni dei nove luogotenenti che prendevano parte alla guerra.
304
l’équipe coinvolta nella realizzazione del teatro funebre è diretta da un altro italiano, tale Francisque
de Campobasso, «maistre ingégnieur […] chargé de soliciter jour et nuyt à ce qu’ilz eussent à
diligenter leur oeuvre».49
Ed il Cortona contribuirà anche ad altri allestimenti reali: per le nozze di Eleonora d’Austria con
Francesco I, nel luglio del 153050 e per la così detta entrevue de Calais (l’incontro parata dell’ottobre
1532 fra Francesco I ed Enrico VIII): entrambi gli eventi erano stati realizzati sotto la supervisione di
Montmorency ed il contributo pittorico di Jean Perréal.
Ma fra gli allestimenti più importanti in cui Domenico da Cortona venne impiegato dal re vi fu il
festino offerto ad Amboise fra aprile e maggio del l518 quando vennero festeggiati la nascita del
nuovo delfino, François de France e le nozze di Lorenzo di Piero de’ Medici, duca di Urbino, con
Madeleine de la Tour Auvergne (ciò che apriva uno spazio di dialogo col papato).
La grande corte interna del castello era stata coperta da tendaggi blu a gigli di Francia: ai muri la
tappezzeria riportava storie e gesta dell’antichità, segno che le simbologie pagane s’erano integrate
alla cultura transalpina di corte.
Anche in occasione di questo doppio avvenimento si giocarono fra il 3 ed il 6 maggio meravigliosi
tornei: venne anche qui allestita una piazza d’armi e delle torri, in modo da ottenere combattimenti
«approchant du naturel de la guerre».
Nella piazza del mercato di Amboise era stata edificata una roccaforte in legno, completa di torri e
d’un fossato colmo d’acqua. Le mura erano difese da grossi cannoni che proiettavano nello spazio
palloni gonfi d’aria: «grosses balles pleines de vents, aussy grosses que le cul d’ung tonneau, qui
ruoient les combattans par terre, sans leur faire mal, et estoit forte chose plaisante a veoir des bonds
qu’elles faisoient».51 Il duca di Alençon con cento uomini a cavallo difendevano la fortezza effimera:
ai piedi della cittadella i duchi Bourbon e Vendôme alla testa di ben 500 uomini a piedi e cento
cavalieri attaccarono la roccaforte. Gli assediati si difesero per un po’, decidendo poi di uscire dalle
mura e cercare la tenzone in piazza: tutti si ingaggiarono nella battaglia, a cavallo e corpo a corpo ed
il divertimento generalizzato fu appena intaccato da quelli che nel trambusto della falsa guerra
49
P. LESUEUR, 1928 : p.25.
Guillaume BOCHETEL, le Sacre et coronnement de la Royne…, Paris, Geoffroy Tory, 1531.
Al primo ingresso di Eleonora nella città di Lione fu un architetto italiano, Salvatore Salvatori, a realizzare le medaglie
offerte dalla cittadinanza alla regina, al delfino ed al cancelliere. N. RONDOT, 1896 : p.18.
51
M. ANGIOLILLO, 1979.
305
50
finirono morti o feriti per davvero: «Et fut le plus beaulx combat qui fut oncques veu; mais le passetemps ne pleut pas à tous, car il y eut beaulcoup de tuez et affolez».52
Domenico ottenne in questo caso la commissione per la costruzione delle torri, degli eschaffault e
delle predelle sulle quali si celebrò il battesimo e si consumò il passaggio delle varie personalità che
partecipavano alla cerimonia e concepì anche la sala di celebrazione del matrimonio. Scarsi furono i
pagamenti, ma assennato fu l’artigiano all’impresa: 26 giorni e 10 notti di lavoro consecutivi per
appena 60 lire.
Nelle Vite alla biografia di Leonardo da Vinci, Giorgio Vasari racconta col gusto che gli è abituale le
stranezze del grande maestro vinciano: il brano sembra un pezzo drammatico in sé e vi si intende
come il teatro, luogo di sintesi e coesistenza di tutte le arti, sia un terreno di elezione per l’eclettica
genialità multidisciplinare dell’artista toscano. Il teatro è una scienza leonardiana e Leonardo è un
uomo teatrale.
Andò a Roma col Duca Giuliano de’ Medici nella creazione di Papa Leone, che attendeva molto a cose
filosofiche, e massimamente alla alchimia, dove formando una pasta di una cera, mentre ch’e’ caminava
faceva animali sottilissimi pieni di vento, ne i quali soffiando, gli faceva volare per l’aria; ma cessando il
vento, cadevano in terra. Fermò in un ramarro, trovato dal vignaruolo di Belvedere, il quale era
bizzarrissimo, di scaglie di altri ramarri scorticate, ali addosso con mistura d’argenti vivi, che nel moversi
quando caminava tremavano; e fattoli gli occhi, corna e barba, domesticatolo e tenendolo in una scatola,
tutti gli amici a i quali lo mostrava, per paura faceva fuggire. Usava spesso far minutamente digrassare e
purgare le budella d’un castrato, e talmente venir sottili, che si sarebbono tenuto in palma di mano. Et aveva
messo in un’altra stanza un paio di mantici da fabbro, a i quali metteva un capo delle dette budella e,
gonfiandole, ne riempiva la stanza, la quale era grandissima, dove bisognava che si recasse in un canto chi
v’era, mostrando quelle trasparenti e piene di vento, da ‘l tenere poco luogo in principio, esser venute a
occuparne molto, aguagliandole alla virtù. Fece infinite di queste pazzie, et attese alli specchi; e tentò modi
stranissimi nel cercare olii per dipignere e vernice per mantenere l’opere fatte.53
L’episodio dei budelli pieni d’aria ci riporta ai fasti di Amboise del 1518 ed è il punto di partenza per
cercare tirare qualche conseguenza dallo stato attuale delle conoscenze sul contributo determinante di
Leonardo al teatro rinascimentale italiano e francese. Fra il 1490 ed il 1518 l’artista partecipò
all’allestimento d’una serie di eventi celebrativi della corte.
Non esistono appunti di Leonardo per l’organizzazione del torneo del 1518, né esplicite menzioni
del suo nome nelle cronache, ma ci sono forti prove indiziare in favore di questa ipotesi: la prima è
certamente la residenza dell’artista nel castello di Amboise, (più precisamente nel non lontano
52
53
Per questa e la precedente, Mém. FLORANGE, t.I : pp.225-226.
Giorgio Vasari, Vita di Lionardo da Vinci, (L. BELLOSI, 1986).
306
castello di Cloux) che ebbe inizio nel maggio del 1517,54 dopo il lungo “corteggiamento” dell’artista
da parte del re; v’è poi il lungo rapporto di Leonardo con Lorenzo di Piero de’ Medici e la già citata
testimonianza del Vasari sulla passione del maestro per il palloni ed i figurini gonfiabili, tecnica che
quasi certamente fu usata per le sfere rimbalzanti che furono descritte nei resoconti di Amboise.
Sappiamo poi che Jean Pérreal, estimatore di Leonardo ed a lui legato in questo volgere di anni,
contribuì ai fasti di Amboise. Da un punto di vista strettamente documentario, abbiamo purtroppo
solo alcuni fogli d’un codice leonardiano in cui l’artista si concentra su disegni di salamandra ed
ermellino, parte integrante delle allegorie pittoriche esposte durante il torneo.55
Sebbene non esistano studi leonardiani per costumi databili al 1518 è plausibile che gli indumenti
dei cavalieri fossero stati da lui ideati: Aldovrandino Socrati scrive infatti da Amboise nel maggio del
1517 che il re aveva comandato al pittore di corte la realizzazione degli indumenti. Orbene, in quel
periodo Leonardo era giunto nella residenza reale ove il posto di pittore di corte era vacante; ed è
dello stesso periodo il foglio 12329 del codice Windsor contenente il disegno d’un vistoso elmo
sovrastato da un leone, di indubbia destinazione spettacolare.56 Per lo stesso ciclo di feste, inoltre,
sappiamo da Alessandro Visconti che una fu celebrata anche nel castello di Cloux dove appunto
Leonardo s’era da poco installato: lo spettacolo che vi si consumò sembra somigliasse alla famosa
scena meccanica del Paradiso realizzata da Leonardo nel 1490, al castello di Porta Giovia.57
Tutto congiura, insomma, in favore dell’ipotesi che le nozze ed il battesimo furono per Francesco I
un’occasione per esibire il talento del maestro a lungo richiesto e finalmente approdato nella corte
francese: e si spiega forse con le esigenti richieste tecniche di Leonardo ed il suo imprevedibile
eclettismo la quantità di lavoro che obbliga il Cortona a ritmi di lavoro così serrati.
I rapporti di Leonardo con la famiglia reale e con Francesco I avevano origini anteriori, nate, si
potrebbe dire, nel segno dello spettacolo.
Crediamo, infatti, che la pubblica rappresentazione di Parigi nel 1514 per le nuove nozze di Luigi
XII, (la cui sovrintendenza come s’è visto fu affidata al futuro Francesco I), possa essere stata
fondamentale nell’esportazione dello spettacolo di gusto italiano nella capitale: sicché un filo rosso
54
Fra l’altro Leonardo portò con sé una piccola corte di allievi italiani: il Melzi stesso, Andrea Salai o Salaino e Battista de
Villanis.
55
Codice H, fol.12 e fol.48 v.
56
Sempre nel settore dei costumi nei fogli Windsor 12577, 12576, 12575, 12574, si vedono diversi figurini dettagliati di
maschere silvestri. Sono stati recentemente ricondotti alle rappresentazioni durante le nozze di Isabella e Galeazzo.
(C. PEDRETTI, 1995).
57
M. ANGIOLILLO, 1979 : pp.24 e sgg.
307
disegnato dalla sanguigna di Leonardo sembra unire la giostra del Giuliano del 1475 a Firenze, con
quella milanese del 1491, realizzata per gli Sforza e poi con l’entrata di Luigi XII in Milano e le
celebrazioni lionesi al rientro del re in Francia… fino alle feste parigine e lorenesi del ’14 – ’18. Non
è un caso che l’immagine di Leonardo scenografo rimase viva per decenni nelle memorie dei
cortigiani.
Secondo la vulgata Leonardo visse dal 1504 al 1519 una fase di declino artistico e personale
contrapposta all’energia delle creazioni giovanili, ma gli ultimi tre lustri della vita sua furono in realtà
una fase di grande maturità artistica, caratterizzata dalla partecipazione ai fasti prima della corte
milanese italo-francese presieduta dal governatore Carlo d’Amboise e poi a quelli connessi alla fase
iniziale del regno di Francesco I. La residenza di Leonardo sotto l’egida del d’Amboise (e di Luigi
XII) si consumò fra il 1506 ed il 1513 in due residenze milanesi intervallate da una attività in
Firenze; il mecenatismo francese di questi anni ed il contributo leonardesco alle entrate reali
contribuirono alla formazione del mito del genio italiano. Il 16 dicembre 1506, in una lettera alla
Signoria di Firenze, Carlo D’Amboise menzionava per la prima volta Leonardo come architetto.
Le opere egregie, quale ha lassato in Italia, et maxime in questa città, Magistro Leonardo da Vinci, vostro
concittadino, hanno portato inclinatione a tutti che le hanno vedute, de amarlo singularmente, ancora che
non l’havessino mai veduto. Et noi volemo confessare essere nel numero de quelli che l’amavano prima che
mai per presentia lo cognoscessemo. Ma dappoi che qua l’havemo manegiato et cum experientia provato le
virtute sue, vedemo veramente che el nome suo, celebrato per pictura, è obscuro a quello che meritaria
essere laudato in le altre parte, che sono in lui de grandissima virtute: et volemo confessare che in le prove
facte da lui da qualche cosa che li havemo domandato, de disegni et architectura et altre cose pertinenti alla
condictione nostra, ha satisfacto cum tale modo, che non solo siamo restati satisfacti de lui, ma ne havemo
preheso admiratione.58
Poco si sa dell’attività architettonica di Leonardo per il governatore francese, ma è sorprendente
scoprire che l’edificio della villa che doveva sorgere a Milano si ispirava al Poggio Reale di Napoli,
quasi in continuità con quella importazione del Rinascimento napoletano che fu l’istituzione della
corte delle arti ad Amboise da parte di Carlo VIII. Il progetto per la villa fu concepito valorizzando la
funzione teatrale del luogo già presente nei giochi installati nella reggia aragonese, assecondando così
la nota passione per le feste del committente francese. Il giardino leonardesco, come quelli che
Pacello aveva fatto per Amboise, era un luogo di delizie con giochi d’acque, strumenti musicali ed
una voliera: a questo contesto piacevole rimonterebbero anche i disegni meccanici ed idrici del Vinci
58
C. PEDRETTI, 1995 : p.205.
308
per la realizzazione di fontane sonore59 e di automi per battere le ore, oltre all’uccello meccanico per
la «comedia», che secondo Carlo Pedretti sarebbe riconducibile agli studi per un allestimento
dell’Orfeo di Poliziano.
Nel 1515 Leonardo realizzava in Firenze un arcus quadrifrons effimero, in legno e tela, per la visita di
Leone X, diretto a Bologna per incontrare, in dicembre, il sovrano Francese. Furono anni di intesi
rapporti franco-italiani: prima di sottomissione militare – con la repressione di Genova nel 1507 e la
vittoria di Agnadello del 1509, entrambe celebrate con sfarzo sotto la direzione del d’Amboise – poi
di alleanze diplomatiche, con le corti medicee a Roma e a Firenze.60 Gli ultimi mecenati italiani di
Leonardo furono quei Medici già proiettati con le banche e la florida nazione fiorentina lionese,
verso l’unione con la corona di Francia. L’incontro di Francesco I con Leone X a Bologna fu forse
l’occasione in cui Leonardo conobbe il monarca, che poi gli commissionò la realizzazione della
residenza reale di Romorantin, mai edificata, ma sintesi efficace delle elaborazioni architettoniche fra
regno di Napoli e Francia.
Si parlava dell’inserimento di un trucco scenico leonardesco, il “Paradiso”, negli eventi svoltisi nel
’18 ad Amboise e Cloux. Le cronache francesi del ’18 sono invero molto avide di dettagli. In
compenso possiamo ricostruire l’evento attraverso i dettagli al contrario abbondanti sulla prima
rappresentazione dell’evento nel Castello Sforzesco il 13 gennaio del 1490, in occasione delle nozze
di Gian Galeazzo Sforza ed Isabella D’Aragona. È lo stesso autore del libretto, Bernardo Bellincioni a
spiegare che la rappresentazione si chiamava così perché vi era fabbricato «con grande ingegno ed
arte» di Leonardo da Vinci il «Paradiso con li sette pianeti che giravano», interpretati da attori
59
La villa per il D’Amboise fu progettata da Leonardo nel 1506-8. Del lavoro si conosce solo lo schizzo in due frammenti
nel Codice Atlantico (fol. 231 r-b): ed una serie di disegni descrive il sistema di convogliare e far zampillare l’acqua nei
giardini adiacenti. Abbiamo inoltre un modello idraulico di fontana sonora, un ponte levatoio, delle torri ottagonali ed
una serie di studi sulla canalizzazione delle acque nel territorio circostante. Più tardi Leonardo riprenderà le medesime
idee nel sogno di una rete idrica navigabile globale su territorio francese, dal mediterraneo alla manica, nel contesto di
progettazione della già citata reggia di Romorantin.
Schizzi e calcoli piuttosto dettagliati per una fontana da feste sono sempre nel Codice Atlantico, foll. 218r-b e 247v-a, e
rimontano agli ultimi anni del Quattrocento. Le «fontane di Erone» sono quelle specificamente dedicate all’addobbo del
banchetto (Codice Atlantico foll.293r-b; 212r-a; 364r-b e Windsor 12690, 12691 ed infine Ms. I di Madrid, foll. 114v115r). Memorandum Ligny, codice Atlantico, fol. 247r-a del ‘97-’99: si tratta di un alzato di parete a nicchie con una
serie di spire che probabilmente dovevano manovrare tende e scenari. Nello schizzo in pianta troviamo una annotazione
che conferma: «questa sia vestita di tela e poi inchiodata». Lo stesso dispositivo appare al fol. 304r-a: ove sono contenute
alcune note più tarde in crittografia con una proposizione di viaggio ed il desiderio di ottenere il libro del “vitolone”
(«Teatro di Verona», per Carlo Pedretti). Il foglio era originariamente unito al 218r-b sul quale vediamo alcuni calcoli e
schizzi relativi a una fontana a vino ed acqua per le feste.
60
Giuliano sposa Filiberta di Savoia, zia di Francesco I; Lorenzo di Piero sposa la nipote del re, Maddalena de la Tour
d’Auvergne.
309
recitanti.61 Ogni manuale di storia del teatro indugia sulla rappresentazione, il cui apparato doveva in
realtà essere piuttosto semplice: quello che qui ci interessa en passant è l’intuizione barocca, quasi
operistica, di Leonardo, che incastona il frons scenae come un intarsio, sfruttando la scatola ottica del
palco, fino a quel momento, ed ancora per molto tempo, legata ad una visione classica,
architettonica, frontale. I personaggi della macchina scenica leonardesca si muovevano in una mezza
ellisse dipinta in oro, punteggiata di stelle per effetto della trasparenza dei materiali utilizzati; attorno
all’ellisse ruotavano i segni dello zodiaco, anche essi retroilluminati.62
Dopo la festa del Paradiso, il 26 gennaio 1491 Leonardo organizzò un torneo in casa di Guido da
Sanseverino, capitano dell’armata degli Sforza e genero di Ludovico il Moro: le note e i disegni coevi
del codice Arundel (fol. 250r.) posso interpretarsi come appunti per un torneo ed altri schizzi di
costumi per “uomini salvatici” sarebbero legati allo stesso allestimento. Secondo Carlo Pedretti
scrittura e stile suggerirebbero una data compresa fra il 1490 ed il 1495 mentre il disegno del cavallo
con cavaliere ricorderebbe quello per il monumento allo Sforza. Schizzato accanto si rinviene anche
uno strano copricapo, un elmo con un baldacchino applicato in cima popolato da un pavone;
probabilmente uno dei costumi del torneo.
Un foglio del Metropolitan Museum contiene invece gli appunti per una messa in scena della Danae,
favola mitologica raccontata da Baldassare Taccone, che fu rappresentata nella casa di Giovan
Francesco Sanseverino conte di Cajazzo, il 31 gennaio 1496 e nella quale si impegnarono complesse
macchine scenotecniche per la resa d’una “mandorla in fiamme” con dentro un’attrice, che
compariva improvvisamente durante la recita.
61
«La seguente operetta composta da Messer Bernardo Bellinzone è una Festa ovvero presentatione chiamata Paradiso,
però che v'era fabbricato con il grande ingegno ed arte di Maestro Lionardo Vinci il Paradiso con tutti li sette Pianeti che
girava, & li pianeti erano rappresentati da homini in forma et habito che si descrivono dalli poeti, li quali pianeti tutti
parlano in laude della Duchessa Isabella, come vedrai leggendola».
Bernardo Bellincioni, Rime, Philippo di Mantegazi, Milano, 1493. (P. FANFANI, 1876-1878)
62
Nei manoscritti leonardeschi di questo periodo non compare alcun esplicito riferimento all’allestimento del Paradiso, a
parte gli appunti «generici relativi a sistemi di illuminazione e a decorazioni fatte di strutture temporanee con l’impiego
di drappi e verdure che il Calvi aveva già posto in relazione con i preparativi per i festeggiamenti in occasione delle nozze
di Gian Galeazzo con Isabella. E mancano anche gli studi dei costumi per gli attori, che pur devono essere esistiti, come
quelli assai più tardi a Windsor. L’unico che, in via di ipotesi, potrebbe assegnarsi a quel progetto è il piccolo disegno di
figura umana paludata all’antica nel W. 12725, un frammento estratto da un foglio del Codice Atlantico, il 18 r-b, che è
databile introno al 1490. È stato giustamente suggerito (Brizio) che la stessa decorazione della sala, con drappi e verdure
a cornice delle armi sforzesche e aragonesi e con compartimenti “dove era dipinto certe ystorie antiche et molte cose de
quelle che fece lo Ill.mo et Ex.mo S.re duca Francesco” può intendersi come una anticipazione dei programmi di
decorazioni murali che poco dopo Leonardo aveva previsto per Vigevano e per la Sala delle Asse al Castello Sforzesco».
C. PEDRETTI, 1995 : pp.290-291.
310
Al foglio 231v. del codice Arundel troviamo le dramatis personae di una rappresentazione teatrale,
con ogni probabilità di un Orfeo ripreso da quello di Poliziano. La didascalia lascia scarso spazio a
dubbi sulla natura scenografica degli appunti: «quando si apre il Paradiso di Plutone allor sian diavoli
che sonino in dodici olle a uso di boce infernali; quivi sia la morte, le furie, Cerbero, molti putti
nudi che pianghino; quivi fochi fatti di varii colori… movino ballando». Carlo Pedretti ha
recentemente associato queste pagine, (Arundel 231v e 224r), ad un foglio subito ribattezzato del
teatro (f. 50, tolto al codice Atlantico) in cui si descrive una macchina scenica: in questa pagina, v’è
un meccanismo a saliscendi non diverso da quello già pensato da Leonardo per le scavatrici ed
abbinabile agli appunti per una montagna apribile. Lo stile del disegno e la grafia suggerirebbero una
data intorno al 1508, stesso anno dei progetti della villa di Carlo D’Amboise a Milano quando
Leonardo produsse anche gli appunti del Codice Atlantico ove al verso del folio 629 si può ancora
vedere un uccello meccanico con la nota: “ocel de la comedia”. Un altro foglio volante dello stesso
tempo63 contiene lo schizzo della struttura di un palcoscenico con indicazione schematica del
meccanismo del sipario al quale si riferisce la nota: «a b tirante di corda che serve nel lasciare
discendere la tenda che occulta la comedia» ove appena accennato al centro della scena è il contorno
nel quale si può riconoscere la sagoma di una montagna.64
Sebbene non esistano fonti esplicite sulla committenza di questo Orfeo, la datazione al 1508 delle
relative carte leonardesche lascia grande spazio alla possibilità che esso fu realizzato proprio per il
governatore francese di Milano, e questo anche in ragione della coesistenza di queste note con quelle
per la villa milanese dell’Amboise.
3.1.4 – Centro, periferia, Lione.
In occasione dell’entrata di Francesco I a Lione nel luglio 1515 la ricca “nazione fiorentina” installata
nella città, rappresentata dalla persona di Lorenzo di Piero de’ Medici, faceva realizzare a Leonardo
da Vinci un leone meccanico – il marzocco simbolo di Firenze – in grado di camminare per una certa
distanza, sedersi, ed offrire in dono al re un mazzo di gigli.
63
64
Codice Atlantico, fol. 131v-a.
C. PEDRETTI,1995 : p.294.
311
La descrizione della macchina ci viene da un documento posteriore di Michelangelo Buonarroti il
Giovane65 il quale parla d’un altro banchetto, quello per le nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV,
segnalando l’affinità fra il meraviglioso leone meccanico offerto alla tavola degli sposi ed un noto
trucco leonardiano.
Le celebrazioni lionesi del ‘15 furono condotte con grande impegno della comunità italiana, che vi
prese parte con sforzo economico, ma anche come “padrona di casa”, in virtù dell’affermato primato
economico nella città e del clima di rinnovata distensione fra Firenze e Parigi.
L’evento era considerato strategicamente importante perché la città di Lione e le sue “nazioni”
speravano di mantenere anche sotto Francesco I le stesse prerogative speciali ricevute sotto Carlo
VIII: la strategia diplomatica dell’elusione festiva inventata dagli stati italiani era realizzata anche in
terra francese. Le decorazioni furono affidate a Jean Yvonnet e Jean Richier e probabilmente
Guillaume Le Roy si occupò delle miniature per il bel manoscritto intitolato l’Entrèe de Francois I,
Roy de France, en la citè de Lyon le 12 julliet 1515, raffigurante varie stazioni dell’entrata.66
L’ingresso del corteo reale dovette avvenire nella Porta del Vaso o del Leone, a nord, l’entrata
proseguendo verso sud lungo l’antico cardo romano, passando poi per il Bourgneuf, tra la collina e il
fiume, per attraversare i quartieri di Saint-Paul e di Saint-Jean. La processione si snodò poi per la rue
Mercière, proseguendo fino a piazza Saint-Nizier e rue Grenette per arrestarsi all’attuale cours
Lafayette. Era aperta dal re con la regina Claudia ed il maresciallo Trivulzio, con una lunga
processione di prelati: seguivano i dodici consiglieri di Lione, il procuratore, i notabili, i borghesi e le
varie “nazioni” cittadine.
Lucchesi, fiorentini e tedeschi con doni per il re, fra i quali dovette essere presumibilmente
presentato anche il leone leonardiano, insieme ad un pezzo di gioielleria d’analogo sembiante
zoomorfo.67
Le Jeudi douzième de Juillet mil cinq cent quinze, le roi notre souverain Seigneur François premier du nom,
a fait sa première entrée & venue en cette ville. Au devant duquel Messieurs les Conseillers habillés de robes
de damas tanney, & pourpoints des satin cramoisi, sont allés au devant, accompagnés de Messieurs les
65
Ibidem. La cronaca di Michelangelo Buonarroti il giovane citata da Pedretti è la Descrizione delle felicissime nozze della
cristianissima maestà di madama Maria Medici regina di Francia e di Nauarra, Giorgio Marescotti, Firenze, 1600.
66
Il manoscritto, conservato nella Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel, è mancante di alcune pagine e contiene
diverse miniature: non siamo riusciti a trovare la collocazione originale. Noi ci siamo avvalsi della rara copia ottocentesca
tirata a 150 esemplari, curata da L. GALLE e G. GUIGUE, 1899.
67
L’orefice Jehan Lèpere realizzò il leone d’oro offerto nel 1515 a Francesco I e le coppe d’oro offerte alla regina Claudia
e alla regina reggente (Archives Municipales de Lyon, BB, 35 – cc. 638-663g). Il leone aureo era seduto e teneva tra le
zampe lo scudo della città di Lione.
312
Marchands Allemands, habillés de livrées de draps gris, les Lucquois, habillés de robes de damas noir, les
Fleurentins, habillés de robes de velours, & après les enfans de la Ville, habillés d’accoutrements blancs, bien
montés & accoutrés, qui marcherent deux à deux, & après Messieurs les Conseillers, accompagnés de bon
nombre de Notables.68
I codici leonardeschi non conservano alcun disegno del leone, che però dovette certamente esistere:
non pare possibile stabilire con esattezza la data di presentazione dell’automa che potrebbe avere
fatto la sua comparsa in occasione del primo ingresso del re a Lione, il 12 luglio 1515 o più avanti
nello stesso anno, sempre a Lione o a Bologna, o ancora nel 1517, per l’entrata solenne di Claudia di
Francia nel capoluogo della Rhône. Secondo i documenti pubblicati da Edmondo Solmi nel 1904,69
un leone meccanico, probabilmente lo stesso di Leonardo, apparve il 30 settembre 1517 per
l’ingresso di Francesco I ad Argentan e se ne registra la presenza ancora ad Amboise nel 1518, per il
doppio festino di cui s’è detto sopra. Del resto la designazione dell’artista toscano come
“meschanicien d’estat”, meccanico, nell’atto d‘inumazione di Leonardo al 12 agosto 1519 è un
riconoscimento della prevalenza degli interessi sull’automatismo sviluppati negli anni francesi
essenziali per la cultura spettacolare e dei giardini.
Fatto sta che la presenza del leone nelle feste della nuova corte italianizzante sembra divenire una
prassi, sorta di topos dei fastosi banchetti della corte franco-italiana; il successo dell’invenzione era
garantito oltre che dalla complessità dell’invenzione tecnologica dall’efficacia della simbologia del
Marzocco che dona i gigli ai reali francesi.
Rispetto alle fonti, a parte la menzione del Vasari70 e del Buonarroti, Giovanni Paolo Lomazzo
trascriveva nel 1584 una conversazione con l’allievo di Leonardo, Francesco Melzi, in cui dava la
notizia della presentazione al re di Francia d’un fantomatico leone “tutto ripieno di gigli”.
Leonardo Vinci, il quale secondo che mi ha raccontato il Signor Francesco Melzo, suo discepolo,
grandissimo miniatore, soleva fare di certa materia ucelli che per l’aria volavano; et una volta dinanzi a
Francesco Primo, Re di Francia, fece caminare da sua posta in una sala un Leone fatto con mirabile artificio
et dopoi fermare apprendosi il petto tutto ripieno di gigli et diversi fiori, il che fu di tanta meraviglia a quel
Re et a tutti i circonstanti che ben poterono poi credere che volasse la columba di legno d’Archita
Tarentino, che un Diomede di bronzo, come riferrisse Cassiodoro, sonasse una tromba et un serpente, del
medesimo metallo, fosse udito sibilare che alcuni ucelli cantassero; et ancora la testa di bronzo di Alberto
68
Procès-verbal de l’entrée du roi – 12 Juillet. L. GALLE e G. GUIGUE, 1899 : pp.68-69.
E. SOLMI, 1904.
70
«Venne al suo tempo in Milano il re di Francia; onde pregato Lionardo di far qualche cosa bizzarra, fece un lione, che
caminò parecchi passi, poi s’aperse il petto e mostrò tutto pien di gigli».
Giorgio Vasari, Vita di Lionardo da Vinci, (L. BELLOSI, 1986).
313
69
Magno parlasse a San Thomaso d'Aquino, che perciò la ruppe credendosi che fosse un Diavolo, essendo
però fattura et opera matematica, come si confessa.71
Si tratta dell’estratto di un documento della Biblioteca Nazionale di Firenze pubblicato nel gennaio
2006 da Jill Burke:72 un Leone meccanico che Leonardo avrebbe realizzato ancora prima, nel 1509
per l’ingresso di Luigi XII a Milano ed incentrato sulla stessa allegoria dei gigli, impiegando soluzioni
tecnico-realizzative meno complesse. La presenza di Leonardo nelle celebrazioni conferma
soprattutto il suo contributo agli allestimenti milanesi, ma è per noi la prova ulteriore della
continuità sostanziale sotto il segno dello stile leonardiano dei trionfi reali e delle giostre svoltisi fra
Milano, Firenze, Lione e Parigi nel periodo compreso fra l’ultimo ventennio del Quattrocento ed il
primo del Cinquecento.
Nel 1515 lo spettacolo era una praxis politica della comunità lionese, che in quel periodo vantava la
presenza d’una florida comunità mercantile italiana. L’immigrazione italiana a Lione è sempre stata
attribuita all’ascesa al trono di Caterina de’ Medici ed Enrico II di Francia nel 1547, idea che ha
limitato l’analisi delle relazioni fra il capoluogo francese e le città italiane nel periodo appena
precedente, ricchissimo al contrario di scambi culturali e commerciali.
Le guerre d’Italia furono un formidabile fattore di accelerazione dell’economia lionese a causa del
trasferimento a più riprese nella città della monarchia di Francia: accelerazione della quale gli italiani
lionesi si giovarono. Al business non si comanda: i legami che la signoria fiorentina intrecciò con la
corona erano di natura economica e le guerre dei re, dopo una prima esitazione di Piero de’ Medici
costata cara alla signoria,73 furono finanziate in parte dai fiorini dei principali banchieri italiani, che a
Lione avevano le sedi dei loro banchi.
Già prima della spedizione di Carlo VIII nella Penisola, Cosimo il Vecchio gestiva gli affari in Lione
avvalendosi di un sensale, Francesco Sassetti,74 che sappiamo ottenere la nazionalità francese per sé e
71
Giovanni Paolo LOMAZZO, Trattato dell'arte della pittura, G. Pontio, 1584, (Della forza et efficacia dei moti, libro VII,
cap.I, f.105 15-28).
72
J. BURKE, 2006. Il documento originale è alla Biblioteca Nazionale di Firenze, f.princ. II.IV.171.
73
Ricordiamo che Piero di Lorenzo de’ Medici rifiutò il prestito a Carlo VIII per condurre la campagna italiana,
cosciente del rischio che essa comportava per la signoria: Carlo VIII si rivolse ai genovesi, ma anche all’altro ramo della
famiglia medici presente in Lione, quello di Pier Francesco. Il re entrò trionfalmente in Firenze e decretò anche la
cacciata da Lione dei banchieri che gli avevano rifiutato il prestito.
74
Detto en passant, per avere una idea della straordinaria forza propulsiva non solo economica del sistema bancario
italiano, basti vedere la cappella del Ghirlandaio in Santa Trinità, voluta in Firenze da Francesco Sassetti (che giace, fra
l’altro, in un sepolcro del Sangallo): straordinaria carrellata di alcuni protagonisti della rinascenza fiorentina e della
società del periodo che testimonia delle rete di relazioni che gravitavano attorno al sistema del risparmio cinquecentesco.
Su questo ritratto pittorico della borghesia fiorentina si veda A. WARBURG, 1902.
314
per il suo gruppo a condizioni vantaggiose: già nel 1470 i Medici gestivano nel capoluogo della
Rhône due banche, la più importante appartenente a Giuliano e Lorenzo; la seconda del ramo di
Pier Francesco de’ Medici, diretta da Francesco del Tovaglia.
La presenza delle comunità italiane in Lione si doveva soprattutto alle quattro fiere annuali, il cui
volume di affari dipendeva quasi esclusivamente dai mercanti del bel paese, lucchesi, genovesi e
fiorentini in testa. Le fiere erano state istituite nel 1419 nel numero di tre; in un editto del 14
novembre 1467 Luigi XI aveva aggiunto la quarta per favorire ancora di più la vocazione
commerciale di Lione e competere col primato commerciale di Genova.75 In questo senso la città
francese era più della repubblica un valido centro di scambio: indispensabile punto di passaggio per
le Alpi e nodo di navigazione fondamentale, con i due assi fluviali che consentivano facile accesso al
mare ed alla nazione francese a nord.
Certes les foires de Lyon avaient un caractère italien très affirmé, mais elles rendaient de grands services
économiques, remédiant entre autres à l’étroitesse monétaire du royaume. Un édit de mai 1487 rétablit
deux foires. En 1494, Charles VIII eut besoin d’un secours de 10.000 livres pour sa première expédition
italienne. Il engagea des pourparlers avec le consulat et les lettres délivrées à Auxonne en juin 1494
rétablirent les quatre foires avec les privilèges du temps de Louis XI. La vielle taxa aussitôt les habitants afin
de remettre au roi la somme promise. Les échanges bénéficièrent de nouveau d’une fiscalité très légère, qui
réjouit les Italiens. L’influence des foires explique que dès 1469, on trouvait a Lyon 33 maisons florentines
de commerce e de banque et autant de maisons gênoises et lucquoises. Au début du XVIe siècle les
principaux banquier florentins étaient les Gadagne, Gondi, Manelli, Salviati, Arnolfini, Nasi, Zanobi… ; les
principaux Génois étaient les Seve ; les principaux Lucquois, les Bonvisi, Burlamachi, Bandinelli… Les
expéditions de rois de France au-delà des Alpes n’ont fait qu’accentuer un mouvement déjà bien lancé.76
Lione fu una seconda Firenze e divenne la meta naturale per le famiglie che avevano problemi con la
Signoria; è il caso dei Pazzi, ad esempio, i quali, già installati in Lione, elessero la città francese a loro
residenza principale dopo la congiura che porta il loro nome.
È un ceto altamente mobile, abituato a lunghe residenze all’estero e ad una concezione cosmopolita
ed avanzata del commercio e dello scambio: i banchieri finanziarono anche le esplorazioni
geografiche, pensando di trovarvi nuovi territori di profitto.77 In questo contesto di finanza
internazionale le “nazioni” lionesi rappresentavano i gruppi d’interesse lucchesi, fiorentini e genovesi.
75
Le fiere proseguirono con alterne vicende per tutto il secolo XVI, ripristinate da Carlo VIII dopo la loro interruzione
nel 1484, per ragioni di antagonismo con la municipalità di Tours, che Anne de Beaujeu volle assecondare.
R. GASCON, 1956.
76
J. BOUCHER, 1998 : pp.40-41.
77
Nel 1523 una associazione che comprende Antonio Gondi e Tommaso Guadagno finanzia la spedizione in America di
Giovanni Verrazano, che visiterà una parte del litorale e che morirà in Brasile nel 1528.
Ibidem, (p.44).
315
Per avere un’idea della durata e della precocità della nazione fiorentina in Lione notiamo che già nel
1466 il gruppo siglò un accordo con il convento dei Jacobins, ottenendo l’usufrutto della cappella St.
Jean-Baptiste, poi ristrutturata nel 1501. Le modalità di finanziamento del luogo di culto furono
minuziosamente indicate in un nuovo statuto approvato nello stesso anno del restauro: la cappella
doveva rispondere alle esigenze di rappresentanza del gruppo; un inventario dei preziosi oggetti di
culto lì accumulatisi negli anni, risale all’11 agosto del 1517 ed è firmato da Tommaso Guadagni e
altri fiorentini di Lione. Inutile dire che elenca un numero notevole di preziosi ed oggetti di lusso.78
I segni della durevole persistenza degli italiani nel tessuto socio-economico della città sono evidenti
anche dalla loro presenza a più riprese nel consolato, posizione nella scala sociale ed amministrativa
difficile da raggiungere per uno straniero: nel 1505-1506 e 1513-1514 è console Nery Nasi, nei
bienni 1524-1525, 1550-1551, 1555-1556, 1560-1561, consoli i membri della famiglia Gerardino,
ai Giustiniani il biennio 1575-76, gli Albizzi consoli fra il 1525 ed il 1526, i Guadagni nel 1536-37,
Lussemburgo Gabiano nel 1534-44 e nel 1553-54, i Paffi nel 1540-41, 1548-49, 1553-54.79
L’influenza degli italiani in campo bancario era ben vista dalla componente autoctona del commercio
e dell’economia: la perfetta integrazione avvenne sul piano della complementarità economica, che
aggirava alla radice eventuali concorrenze fra lionesi e stranieri. Agli stranieri, a partire dal 1486 fu
vietata la vendita al dettaglio: così la municipalità saturava il mercato cittadino guadagnando una
posizione dominante nel commercio locale e al dettaglio oltre che del piccolo trasporto; gli stranieri
potevano esprimere la loro vocazione internazionale organizzando le missioni di esportazione ed
importazione, smerciando i prodotti lionesi all’estero, importando quelli italiani e fornendo ai
dettaglianti condizioni di acquisto vantaggiose sulle merci di lusso. Questo doppio binario
economico evitò per anni l’insorgere di manifestazioni xenofobe, ed anzi, favorì una perfetta
integrazione della comunità straniera, che fu riconosciuta dal mercato locale come ricchezza e
possibilità economica.
Il protocollo di svolgimento delle fiere lionesi era in larga parte affidato alla gestione diretta delle
nazioni: alla fine delle compravendite si apriva la fase dei pagamenti; ogni nazione si riuniva nelle
proprie sedi e stabiliva i tassi di cambio. I tassi di rendita del denaro messo in deposito venivano
fissati e nella stessa sede si stabiliva il calendario del borsino e venivano effettuate tutte le altre
transazioni: lettere di protesta o di cambio, pagamenti in contanti, compensazioni monetarie. Il
78
79
A. ROUCHE, 1912 ; M. MERAS, 1990.
J. BOUCHER, 1994 : pp.125-126.
316
ruolo primario dei fiorentini, che avevano il compito di aprire e chiudere le transazioni, si esprimeva
nel controllo del cerimoniale mercantile: il sistema bancario Lionese-fiorentino non solo era
floridissimo, ma era anche solidale con il commercio, di cui costituiva la spina dorsale e la
“conseguenza” monetaria: nel 1528 Andrea Navageri, ambasciatore della Serenissima, scriveva che la
quantità di denaro scambiata era immensa, e che Lione era il centro europeo del commercio
italiano.80
Rispetto all’attività industriale degli italiani a Lione, nonostante i tentativi di installazione
dell’industria tessile perseguiti da Luigi XI agevolando gli investitori stranieri con significativi sgravi
fiscali, va detto che la produzione delle manifatture italiane cominciò a decollare solo verso il 1515;
infatti gli italiani, essendo soprattutto importatori dai mercati nazionali, preferirono a lungo non
sviluppare una concorrenza endogena sul territorio oggetto dei loro commerci;81 la situazione cambiò
a partire dal 1515, quando un aumento della richiesta delle stoffe di lusso e decorate come la seta,
rese il mercato capace di assorbire una maggiore produzione locale senza intaccare l’importazione. Le
difficoltà d’una vera produzione di stoffe in territorio lionese, si esprimevano talvolta anche nelle
lotte caratteristiche del complesso campanilismo italiano: nel 1514, per esempio, Nicolas de Guide,
lucchese, dovette subire le rappresaglie dei compatrioti, che applicavano la legge vigente nella loro
città di origine secondo la quale il segreto della lavorazione artigianale delle stoffe doveva essere
custodito dai soli compaesani italiani; il trasferimento delle conoscenze manifatturiere restava un
patrimonio da custodire gelosamente. Solo nel 1536 si riuscì a dare un forte impulso all’industria
della seta, che finalmente trovava un’efficace installazione in Lione, con l’intento soprattutto di
danneggiare il vivace commercio genovese.
80
R. GASCON, 1971.
L’ampiezza delle operazioni è enorme. L’attività di prestito ad interesse è rivolta a tutte le classi sociali: si finanziano le
campagne europee dei francesi, ma anche le attività di piccolo commercio o importazione ed esportazione. Il volume di
affari è immenso: nel 1516 passano per le casse di Antonio Gondi circa 750.000 scudi d’oro. Nel 1520 fra i clienti della
banca figurano un generale di finanze, Jacques de Vienne ed il tesoriere di Francesco I, Jacques de Semblançay.
J. BOUCHER, 1998 : p.44.
81
Per la fabbricazione di stoffe di seta troviamo tuttavia qualche installazione precoce di italiani.
Nel 1466-1470: Giovanni Boneto, Estienne de la Vauge, Battista da Territo; nel 1466-1482: Francesco Garibaldi,
Malatesta di Antonio, Ilario di Facio, Marchetto da Venezia, Andrea Stella, Baldassarre da Solario, Raffaello da Pareto;
Nel 1513-1540 Niccolò di Guido (1513-1540). A Lione gli italiani importano anche le raffinate tecniche di lavorazione
della ceramica e del vetro: i maestri di questa arte provenivano soprattutto da Genova e da Firenze. Ed è buona anche
l’affluenza nella città degli armaioli, soprattutto d’origine milanese: Martin de Tras (1410-1435), Giovanni da Milano
(1414 – 1434), Giovan Piero de’ Medici (1465-1475), Tommaso da Milano (1466-1471), Romano degli Orsini (14931530). A tutte queste categorie professionali e più in generale ai documenti sui mestieri lionesi Natalis Rondot ha
consacrato il suo percorso critico. N. RONDOT, 1885-1887.
317
Nel 1548, in Lione, una compagnia di attori italiani eseguì la Calandria del Cardinale Bibbiena, per
onorare le nozze di Enrico II e Caterina de’ Medici: fra gli attori v’era Domenico Barlacchia,
gonfalone della signoria fiorentina ed uno fra i primi attori semiprofessionisti di cui si abbia
memoria;82 per la stessa occasione si convocò pure da Firenze lo scultore Zanobi Lastricati, che
contribuì alla costruzione delle scene.
Abbiamo già assegnato a questa pubblica rappresentazione il ruolo di limite cronologico della nostra
trattazione. Dopo tale evento si verificò infatti un formidabile aumento degli italiani anche nel
mondo della cultura e del teatro lionesi: da un punto di vista strettamente culturale, la città di Lione
fino a quel momento si era limitata a manifestazioni discontinue: gli eventi maggiori erano per lo più
connessi ad occasioni straordinarie, legate alla vita di corte più che a quella civile.
In un contesto che pure annoverava solo entrate e trionfi vediamo tuttavia spuntare il nome o il
ricordo precoce di qualche italiano: è il caso ad esempio di tale Jean Bonté, fiorentino, che lavorava
nel capoluogo delle Rhône dal 1490 al 1494, e la cui famiglia dovette installarsi definitivamente nella
città, se un Pierre Bonté «in artibus magister apprime doctus» vi eseguì diverse opere dal 1491 al
1515, sotto la protezione di Georges, cardinale d’Amboise: nel 1503 sembra che Pierre si fosse
occupato delle decorazioni per l’entrata nella città dell’arciduca d’Austria.83
Almeno fino alla seconda metà del ‘500, quindi, nella città tardò a decollare una particolare
propensione per le arti teatrali e letterarie a dispetto di una grandissima vivacità economica: ma il
carattere della spettacolarità lionese – anche di quella più rara, precocemente manifesta – ricordava le
modalità di riunione delle confraternite fiorentine di bontempi, nelle quali i modi della celebrazione
pubblica venivano integrati alla dimensione privata e vice versa, in una “condizione produttiva” a
metà fra la goliardìa municipale ed il festino di corte, perfettamente integrate nelle esperienze delle
riunioni giocose “della Cazzuola” o “del Pajolo”.
Nel 1513 i mercanti fiorentini ottennero il permesso di rappresentare misteri e costruire échaffauds
per fare recite in onore del papa; l’organizzazione dell’evento fu promossa dalla nazione e si svolse in
modo autonomo rispetto all’articolazione ufficiale delle celebrazioni. Più calzante nel senso
dell’integrazione fra spettacolo civile ed intrattenimento privato fu il caso di un francese, Pierre
Syrode, detto Grenoble, che organizzò privatamente una recita satirica di fronte a casa sua, in
82
83
Sull’evento di Lione che lo concerne, R. ANDREWS, 1999. Per la Calandria in Lione, J. BRYCE, 1991.
N. RONDOT, 1883 : p.17.
318
occasione dell’ingresso di Francesco I con la regina Claudia. Si trattava di una «ystoire où il blamait
des membres du corps commun»84 per la quale si segnala ora il legame con la pièce d’apertura delle
Opera jocunda di quel Giovan Giorgio Alione che a breve tratteremo. Oppure nel 1538, quando Jean
Neyron aprì nella rue des Bouchers una sala di spettacolo a destinazione semiprofessionale: la scena
era un’ambigua trasposizione in chiave classica dell’eschaffaud medievale, costituita da una
sovrapposizione di baldacchini con diverse rampe d’accesso. La simbologia funzionale della scena
medievale e le modalità di visualizzazione simultanea delle mansion restavano pertanto fattori
fondamentali dello spettacolo: la struttura lignea più alta rappresentava il cielo, sede dei personaggi
divini e sacri, più in basso la terra e sotto ancora l’inferno, la cui entrata, a forma di testa di drago,
poteva aprirsi e chiudersi, forse per mezzo d’un banale tendaggio; l’insieme consentiva la visione
simultanea del tempo e dello spazio propria delle rappresentazioni medievali.
Prima del caso singolare di Neyron, su Lione abbiamo per lo più notizie di misteri: uno dei più
importanti è offerto nel 1447 nella chiesa dei frati minori di San Bonaventura, la prima menzione di
un pagamento agli interpreti di tali eventi rimonta al 1485, mentre nel 1435 un’associazione laica
inaugurò un ciclo di sacre rappresentazioni.
La goliardia era legata alla presenza di comunità studentesche o università, di cui la vita lionese dei
primi anni del XVI secolo era ancora sguarnita, rispetto a Parigi. Erano sporadici avvenimenti come
quello che si consumò alla fine di maggio del 1457, quando furono rappresentate pièce satiriche
antimuliebri, che evidentemente toccarono la sensibilità di qualche consigliere municipale, se furono
seguite da un editto di censura che proibiva rappresentazioni sui catafalchi senza autorizzazione del
console.
O come quello del 1518, quando Pierre Molaris, in rappresentanza della Bazoche lionese, fondata
appena dodici anni prima, ottenne il permesso di rappresentare il mistero della Concezione.
In Lione apprendiamo delle attività teatrali più attraverso i divieti che per le cronache: se la recita
bazochiale del ’18 fu seguita da polemiche e decreti, fra il 1483 ed il 1518 i registri lasciano trasparire
una certa resistenza nel concedere le autorizzazioni per le pubbliche rappresentazioni. Ad esempio si
concede e poi si revoca la licenza per un mistero ed una vita di Santa Caterina ad un prelato, il
cardinale di Bourbon, oppure vengono dettate pesanti disposizioni in merito agli allestimenti
84
Per questo dettaglio e i seguenti: C. BROUCHOUD, 1865, che fornisce anche una bibliografia dettagliata, con le
collocazioni tutte ancora valide, dei documenti d’archivio impiegati.
319
organizzati da un tale attore Clément Trie. Sembra che la cittadinanza lionese avesse meno libertà
spettacolare di quanta non ne avesse a livello commerciale.
Intrattenimenti più evidentemente simili a quelli fiorentini si cominciarono a realizzare più tardi: gli
esempi sono innumerevoli e richiamano immaginari grotteschi e paradisiaci tutti toscani, con Dante
e Petrarca a fare da riferimenti visuali irrinunciabili. Pensiamo alla festa per Lorenzo Capponi ed
Elena Guadagno del 1554, sul tema dei continenti; oppure a quella del 1555, in cui una mascherata
all’antica sfilò per la strada. Ed ancora la parata di demoni che si svolse per le strade della città
vecchia durante il carnevale del 1552, ove fiorentini e lucchesi si sfidarono in bande e carri sul tema
di Plutone e Proserpina: la committenza e l’occasionalità dello spettacolo, oltre che la simbologia
impiegata, ci ricordano un banchetto celebrato a Firenze a casa di Matteo da Panzano sul tema della
discesa agli inferi di Proserpina. Questo celebre convivio meritò la menzione del Vasari fra le imprese
buffone della vita di Gianfrancesco Rustici: l’evento era stato realizzato dalla compagnia “della
cazzuola”, conventicola artistica (ma subito aperta al notabilato), il cui ricordo era certamente ancora
vivo nella nazione fiorentina di Lione, poiché a tale banchetto in Firenze parteciparono come attivi
organizzatori i personaggi più in vista, da Bartolomeo “Aristotele” Sangallo – inventore di prodigiosi
apparati scenici a saliscendi – ad Andrea del Sarto,85 passato poi per la Francia fra il ‘18 ed il ’20, in
coincidenza con le feste italianeggianti della corte. Al periodo si lega la storiella raccontata da Giorgio
Vasari, secondo la quale volle egli lasciare la Francia per Lucrezia del Fede, donna di dubbia
reputazione che «datoli il tossico delle amorose lusinghe», riuscì a farlo restare in Firenze, nonostante
le promesse ed il prestito ricevuto da Francesco I, che così «mai più con dritto occhio guardar non
volse per molto tempo pittori fiorentini».86 Ai “bontempi” della Cazzuola partecipava un’altra
85
In un altro di questi banchetti giocosi, organizzato stavolta dall’analoga confraternita del Pajuolo si racconta che
Andrea del Sarto trionfò con una rilettura della città ideale, proponendo al palato degli amici un tempio ad otto facce,
posto su salsicce a fare da colonne, capitelli in parmigiano e pavimentazione cosmatesca in gelatina.
«Un leggìo da coro fatto di vitella fredda con un libro di lasagne che aveva le lettere e le note da cantare in granella di
pepe, e quelli che cantavano al leggìo erano tordi cotti col becco aperto e ritti, con certe camiciuole a uso di cotte fatte di
rete di porco sottile, e dietro a questi per contrabbasso erano due pippioni grossi con sei ortolani che facevano il
sovrano.» Giorgio Vasari, Vita di Giovan Francesco Rustichi, ed. Giuntina (A. M. CIARANFI, 1963 : p.192).
86
Giorgio Vasari, Vita di Andrea del Sarto, (L. BELLOSI, 1986).
L’episodio vasariano sulla vita di Andrea del Sarto, fra l’altro, si riallaccia alla opinione che i fiorentini avevano maturato
per Francesco I, che nella città di Firenze s’era guadagnato la fama di appassionato collezionista d’opere italiane, da cui,
appunto, la promessa di Andrea di riportare a corte «alla tornata sua pitture, sculture et altre cose belle di quel paese».
Giovan Battista della Palla è una figura storica curiosa, che si occupa di trattare per conto del re l’acquisto di opere d’arte
in Italia: si trovava in Francia dal 1522 e si guadagnò in breve in favore di Luisa di Savoia e Margherita d’Angulême. I
maneggi di questo mercante d’arte ante litteram lo portarono infine in disgrazia: nel 1530 fu preso e condannato al
carcere a vita nella prigione di Pisa.
320
eminenza della goliardìa fiorentina, quel Domenico Barlacchia87 chiamato ad allestire in Lione la
Calandria per l’entrata di Enrico II e Maria de’ Medici qui già evocata. Così tutto sembra incrociarsi
e convergere in un centro: al solito mancano fonti documentarie anteriori, cosicché gli indizi si
incasellano in un vago quadro di casualità: Andrea del Sarto, Domenico Barlacchia, Aristotele
Sangallo, fra Firenze e Lione. E non è dato sapere se i bontempi e le feste fiorentine, ben radicate
nella Lione degli anni cinquanta del secolo, fossero stati importati già da prima. Nessuna
testimonianza precedente: forse che i ricchi banchieri, per non inimicarsi le istituzioni lionesi così
maldisposte verso le arti teatrali avevano limitato alla sola sfera privata gli intrattenimenti cui erano
abituati nella signoria?
3.1.5 – Un’immigrazione di lusso.
Il va e vieni di italiani fra un lato e l’altro delle Alpi sembra un’incessante risacca d’uomini, che
impregna il fertile terreno dell’espansione economica e militare della Francia,88 e che dona al
Rinascimento peninsulare una spinta internazionale ancor più forte.
Ma l’immigrazione in Francia ha connotati italiani particolarmente marcati da tempi anche più
remoti del XV secolo: fra il 1272 ed il 1305, per esempio, il Capitolo della Cattedrale di Laon,
vicino a Reims, conta il 21,5% di italiani, che detengono anche il record della massima permanenza
media pro-capite, pari a 17 anni rispetto ai 10 anni di soggiorno per gli immigrati provenienti da
altre regioni.89
Se per il medioevo l’unico modo di valutare i flussi migratori sono per lo più i registri parrocchiali ed
i capitoli religiosi, per il XV e XVI secolo abbiamo a disposizione le “lettere di naturalizzazione”,
tappa obbligata per chi installando un’attività propria in Francia avesse voluto esentarsi dal droit
d’aubaine, diritto proprietà (“di cuccagna”) esercitato dal re sui beni mobili ed immobili dello
straniero deceduto nei confini del reame. Le lettere di naturalizzazione assegnavano la cittadinanza
permettendo ai beneficiari di esercitare liberamente il diritto di proprietà in Francia e di trasmettere i
beni posseduti anche verso l’estero: per ottenere le lettere la démarche burocratica doveva partire da
un’esplicita supplica del postulante, cui seguiva un’inchiesta sui beni ed il versamento d’una tassa alla
87
C. FALLETTI, 1999.
I numeri e le statistiche che seguono vengono da C. BILLOT, 1984.
89
Ibidem : p.478.
88
321
Camera del Tesoro in base ai valori accertati; la procedura si chiudeva con la registrazione della
concessione. In realtà però, solo il primo e l’ultimo passaggio erano obbligati, per gli altri potendo
intervenire direttamente il re, che concedeva non di rado esenzioni totali o parziali sulle tasse di
naturalizzazione o interveniva informalmente nelle specifiche questioni di cittadinanza: per le
personalità più in vista, ad esempio, la procedura era del tutto formale, come nel caso di Teodoro
Trivulzio, governatore di Lione e maresciallo di Francia, cui Francesco I concesse la naturalizzazione
non solo saltando tutto il processo burocratico, ma anche compensando economicamente le tasse
imposte dalla camera dei conti con una donazione personale: di fatto, una remise des droits.
Su 149 analoghe remise des droits emesse sotto Francesco I son ben 24 quelle di cui beneficiarono gli
italiani: ciò che testimonia dell’importanza sociale dell’immigrato peninsulare. Si tenga conto
dell’ambito sociale limitato delle lettere di naturalizzazione, che concernono per lo più le classi alte, i
funzionari, gli intellettuali, e non riguardano il più cospicuo flusso mendicante, i ceti medio-bassi, le
maestranze ed i mestieri dello spettacolo e della vendita al dettaglio o ambulante. Il diritto di
naturalizzazione era più richiesto da chi presumeva di dovere trasmettere beni, dunque per lo più da
commercianti e banchieri.
I motivi di richiesta di naturalizzazione erano indicati soprattutto per le missioni di rappresentanza o
diplomatiche: non sempre le cause della residenza venivano indicate nelle domande di
naturalizzazione. La démarche veniva attivata spesso solo dopo l’accumulo cospicuo di beni all’estero,
ciò che poteva implicare diversi anni di permanenza sul suolo francese mai dichiarati.90
Cinquecentoquarantanove è il numero complessivo di lettere di naturalizzazione emesse sotto
Francesco I: è su questi dati che Claudine Billot costruisce il suo interessantissimo studio sugli
italiani naturalizzati in Francia, che avrà anche un seguito nel saggio di Jean-François Dubost
dedicato al periodo successivo, quello compreso fra il XVI ed il XVII secolo e che conferma, in
sostanza, una crescita del numero di italiani in Francia durante tutto il 1500, con una notevole
flessione solo a partire dal XVII secolo. Per il regno di Carlo VIII nessuno spoglio delle
naturalizzazioni è ancora stato realizzato: ma quanto si registra nei due studi francesi, conferma che
lo svolgersi dei conflitti armati e l’annessione di territori alpini e subalpini sono catalizzatori
demografici eccellenti per l’approdo degli italiani in Francia: forte è l’incremento delle
naturalizzazioni nel corso delle quattro guerre fra Carlo V e Francesco I, specie nei periodi 1521-26 e
1527-29.
90
Sono soprattutto gli artisti ed i rappresentanti diplomatici o le corti a dichiarare le cause del trasferimento.
322
Ragioni di gusto (l’apprezzamento del sovrano francese) e ragioni economiche (le banche e gli
investimenti tessili a partire dal 1536) guidavano gli italiani nei grandi centri della Francia: sul gusto
è interessante notare che l’immigrazione spagnola dello stesso periodo (sola paragonabile in termini
quantitativi a quella italiana) non riguardava quasi le attività manifatturiere, il commercio e l’officina
specializzata, ma si concentrava particolarmente nel servizio domestico o nelle funzioni militari.
Le lettere di naturalizzazione per gli italiani ci descrivono un’immigrazione “lussuosa” e di lunga
durata: un flusso migratorio condizionato più dagli accadimenti politico-economici, che dai cicli di
espansione-contrazione della natalità. Nel ’25, ad esempio, la perdita di Pavia da parte dei francesi
implicò un incremento dell’immigrazione pavese, in ragione delle rappresaglie contro i
“collaborazionisti”: chi aveva appoggiato il regno ebbe concesso automaticamente il privilegio della
naturalizzazione.
L’alta qualità dell’immigrazione italiana tracciata dalle naturalizzazioni si riscontra anche nella forte
presenza nobiliare: vengono naturalizzati Ercole II d’Este e figli, gli ultimi Paleologi di Monferrato, il
casato di Mantova e diversi capitani d’armi come il citato Teodoro Trivulzio o Guido Rancone da
Modena. Immigrazione di lusso, ove per lusso si intende l’alto livello di istruzione o specializzazione
professionale: su 280 naturalizzati Claudine Billot individua,91 oltre ai 164 che non dichiarano la
professione, 87 fra nobili e domestici, 27 religiosi, 22 mercanti cui vanno aggiunti 12 artigiani e 13
capitani d’arme. La maggioranza delle professioni dichiarate proviene dal settore dei servizi:
domestici milanesi o della Savoia, mercanti piemontesi e fiorentini, banchieri, librai o medici. E gli
italiani partecipano anche al funzionamento delle scuderie e delle armi reali.
Il dato del lusso è confermato anche dalle unioni matrimoniali non guidate tanto da logiche etniche,
quanto da vantaggio economico, ciò che storicamente caratterizza le classi agiate, che si preoccupano
di non disperdere il patrimonio nei passaggi generazionali. È anche notevole, ma non sempre
recensibile, l’immigrazione riflessa, sempre connessa a quella aristocratica, che porta con sé i servitori
specializzati.
Vi sono poi gli artigiani: sotto il regno di Francesco I troviamo recensiti un vetraio di Monferrato,
un orefice Fiorentino, due fonditori di cannoni, un armaturiere milanese; nel 1536 Francesco
concede i privilegi della naturalizzazione al gruppo degli italiani installati o installantisi a Lione per
consentire lo sviluppo della lavorazione dell’industria tessile pregiata delle stoffe in seta ed oro e dei
91
Ibidem : tav. 2.
323
manufatti in argento, ampliando di molto l’iniziativa dei sui due predecessori,92 con utilità «d’aucuns
notables personnaiges de nostre royaume» e «l’honneste et utile commodité qu’en advient à nostre
république».93 In questo caso al provvedimento di naturalizzazione se ne affianca anche uno
“liberista” che di esenzione fiscale per questi artigiani.
Il primato numerico delle “regioni migranti” va naturalmente a quelle sulla frontiera francese o
direttamente implicate nei giochi politici della nazione francese, il Piemonte, la Savoia e la Toscana:
un alto coefficiente qualitativo riguarda invece l’immigrazione proveniente dalle regioni meridionali
d’Italia. E notiamo anche la sproporzione fra Lione e Parigi, nel rapporto fra popolazione
complessiva e lettere di naturalizzazione: la capitale conta 300.000 abitanti e solo 18 menzioni di
Italiani; Lione, con una popolazione complessiva di 70.000 abitanti conta da sola 21 istanze
accolte.94 L’immigrazione italiana, lo si sarà immaginato, è di carattere prevalentemente urbano,
quasi mai rurale; e del resto sono numerosissimi gli italiani che partecipano anche alla gestione della
cosa pubblica: un amalfitano arriva a diventare procuratore del re a Martigue, un genovese vicepresidente della camera dei conti di Parigi ed un milanese è menzionato fra i consiglieri in
parlamento.
Il s’agit souvent d’un exode de compétences, du condottiere Rangone au sculpteur-ingénieur turinois Jean
Ambroix, du spécialiste des haras aux musiciens, du Rosso à Cellini. Ceci rappelle l’initiative de Charles
VIII ramenant de son expédition à Naples un groupe d’artistes à Amboise ou l’appel aux paysans ligures et
piémontais pour repeupler la Provence. Il y a donc poursuite d’une politique officielle.95
È ovviamente assai complicato stabilire in che misura una presenza italiana di questo tipo possa avere
influenzato la cultura della corte o della città: le qualifiche degli immigrati sono infatti per lo più
generiche o inesistenti ed un valet de chambre può essere in realtà qualsiasi cosa: da pittore a
musicista privato, a sarto.
La curva dell’immigrazione italiana al di là delle Alpi ha varie impennate in corrispondenza con
quelli che nella storia della cultura possiamo riconoscere come momenti di particolare
92
Carlo VIII aveva fatto appello alla popolazione genovese di installarsi nelle regioni meridionali; Luigi XII aveva
perseguito la causa dello sviluppo del mezzogiorno con analoghi appelli alla popolazione.
93
H. SCHUERMANS, 1885 : p.193.
94
C. BILLOT, 1984 : p.489.
95
Ibidem : p.487.
Giovan Battista Rosso del Rosso fu certamente l’artista che riscosse il maggiore successo ed ebbe i maggiori privilegi da
parte del re: specie per Fontainebleau di cui inventa praticamente lo stile. Nel 1539 viene incaricato di disegnare e
fondere un Ercole d’oro che sarebbe dovuto essere offerto a Carlo V: disegnò e fece realizzare anche una buona parte
delle suppellettili e dei preziosi accessori della reggia.
324
italianizzazione: è la realtà del flusso migratorio che fa montare la moda per le cose italiane? O è la
moda e l’espansione del gusto italiano che aumenta la richiesta dei “peninsulari” in Francia?
Crediamo che i due fenomeni si alimentino vicendevolmente: del resto, anche dal punto di vista
politico l’attrazione francese per l’Italia non sembra rispondere a logiche solo meramente
economiche, ma ad una specie d’esotica fascinazione difficile da spiegare se non con l’imprendibile
nozione di gusto.
Nel volgere del secolo decimosesto le egemonie culturali sembrano invertirsi: dalla cultura
cavalleresca borgognona alla raffinatezza del principato delle lettere, così come abbiamo visto il
fabliau nordico, piccardo o normanno, impastarsi dei toni novellistici del sud e lievitare nelle forme
della farsa ad aprire il futuro all’arrivo in massa della narrazione teatrale moderna.
Negli anni dell’aumento della presenza italiana in Francia si consumava un altro fenomeno per noi
interessante: la scomparsa progressiva di un panorama teatrale provinciale fino a quel momento non
solo florido, ma spesso più rilevante di quello cittadino.96
Ovunque in Francia misteri e farse si erano celebrati sempre con scarse differenze di investimenti fra
grandi e piccoli centri, ed anzi, la poesia e l’edizione teatrale profana erano legate soprattutto alla
provincia a nord di Parigi: sicché autori e dialetti praticati dai personaggi erano raramente di origine
urbana, tanto che si può affermare che il patrimonio genetico della farsa e dei misteri era del tutto
provinciale. A partire dal regno di Francesco I le attività spettacolari andarono progressivamente
concentrandosi nei centri maggiori del paese, Parigi soprattutto, ma anche Lione, e le due nuove
polarità spettacolari urbane cominciarono a diversificare e moltiplicare l’offerta di rappresentazioni.
Il fenomeno era legato al crescente accentramento della vita politica (e dunque anche di quella
culturale) nella zona di Parigi e dell’Ile-de-France, ma anche al ruolo guadagnato da Lione nella
tensione territoriale del paese verso la Penisola. È in questo tornante di anni che ha inizio la
centralizzazione del potere sulle città, nuovi centri nevralgici della gestione dello stato moderno.
Il potere economico attrattivo delle nuove città-capitali ed il tentativo della monarchia di ridurre il
potere delle province aristocratiche faceva convergere in due punti geografici le organizzazioni degli
96
Il Miracle de Théophile è composto a Parigi nel XIII secolo, e non ha nulla in più dal punto di vista estetico delle grandi
opere prodotte nelle grandi abbazie di provincia; basti pensare a Jehan Bodel e Adam de Hale. Fra gli autori più
importanti di misteri annoveriamo molti provinciali: Mercadé, Gréban, Jean Michel. Le rappresentazioni della
Confraternita parigina della Passione erano ben lontane dall’eguagliare quelle date a Bourges nel 1536 o quelle di
Valenciennes nel 1547. Le città di provincia gareggiavano fra di loro per i migliori spettacoli, al cui finanziamento ed
organizzazione partecipavano frequentemente tutti i cittadini.
325
spettacoli. La stessa istituzione dei governatorati rendeva la cosa pubblica estranea all’identità locale,
depauperandola del senso di appartenenza municipale e dunque anche dell’investimento personale
dei funzionari nella competizione campanilistica per la “miglior festa”. Il funzionario del re
disponeva di minori e più ottimizzati capitali ed aveva scarso ritorno personale dal maggiore o minor
fasto degli eventi festivi, dai quali invece in passato dipendeva l’apprezzamento dei rappresentanti
civici.
Il processo si manifestò fra Carlo VIII e Francesco I e nel caso di Parigi era enfatizzato da fattori
interni alla città: la presenza degli studenti, innanzi tutto, da sempre importanti agenti di interazione
spettacolare e l’impulso nella costruzione delle strutture necessarie a dare lustro alla rinnovata
capitale ed ospitarne fasti ed entrate. A dare una spallata al teatro di provincia fu anche il crescente
raffinamento del gusto da adeguare alle nuove tendenze non sempre disponibili, per così dire, in
provincia. Anche l’edizione teatrale riflette la tendenza alla concentrazione sociale nella capitale, che
in questi anni si affermò come nuovo centro di elaborazione e produzione delle novità teatrali.
La centralizzazione delle arti drammatiche era incrementale: Parigi diventava una vetrina e per
l’affermazione in tutta la Francia il nuovo autore drammatico dovrà scommettere sempre più sulle
edizioni parigine e sul successo nella capitale: pensiamo al fatto che dal sostanziale equilibrio
quantitativo delle edizioni fra Parigi, Rouen, Lione al XV e XVI secolo, nel 1628 la capitale era quasi
l’unico luogo d’edizione dei testi drammatici.
In questo moto di spostamento del baricentro teatrale del paese sui grandi centri si mossero anche
certe figure buffonesche italiane, al servizio della corte col ruolo di curiosità umane e buffoni: nani e
storpi piacevoli che si intravedono ancora nei fastosi banchetti dipinti più tardi da Paolo Veronese o
nelle gesta cesariane di Andrea del Sarto.
Le cronache conservano la memoria di qualcuno di questi uomini faceti: negli anni ’50 del secolo il
nano Agostino Romanesco fa ridere tutti, accompagnato da un certo Annibale; oppure lo Scipione,
citato nel 1572; o tale Pétavin, presente a corte fra il 1518 ed il 1519.
Il più celebre di tutti, però, era Filippo Visconti, detto Viscontin: lui ed il suo compagno Valfenière
comparivano nelle spese della corte con la qualifica di buffoni reali: lo stesso Anne de Montmorency
– protettore in questi anni delle arti italiane in Francia e responsabile di molti trionfi e spettacoli di
corte per Luigi XII e Francesco I – pare si avvalesse della loro compagnia.
326
Tous deux accompagnèrent le grand maître Anne de Montmorency lorsque celui-ci se rendit au-devant des
enfants de France et de la reine Eléonore à Fontarabie. «Viscontin et Valferniere, les plaisantins du roy,
entrerent dans la riviere jusques à leurs chevaulx, tout couvers d’eaue, comme s’ils vouloient aller au devant
des bateaulx, en criant : France, France !» (APF, t. IX, p.247). Nous suivons Viscontin de 1531 à 1535 dans
le Catalogue des actes de François I ; tantôt il reçoit des vins de Montils, près de Blois ; tantôt il touche une
gratification en argent ; tantôt enfin il figure comme capitaine de ce Montils, dont le vin avait le don de lui
plaire. Il mourut peu après 1535, sinon cette même année. Clément Marot, qui était son collègue, nous a
conservé son souvenir dans une épigramme :
«De Viscontin et de Calendre du roy. | Incontinent que Viscontin mourut, | Son ame entra au corps d’une
calendre, | Puis de plein vol vers le roy s’en courut | Encor un coup son service reprendre ; | Et pour mieux
faire a son maistre comprendre | Que c’est luy mesme et qu’il est revenu, | Comme on l’ouyt parler gros et
menu, | Contrafaisant d’hommes geste et faconde, | Ores qu’il est calendre devenu, | Il contrefait tous les
oiseaulx du monde.» 97
Quelli che abbiamo citato fino ad ora, sono esempi precoci di insediamento degli italiani nei settori
alti o specializzati delle arti e della cultura, a vario titolo connessi con lo spettacolo, che d’altra parte
sembra prendere in Francia tinte italiane a partire, ancora una volta, solo dalla metà del secolo: il
fenomeno dell’italianizzazione della corte francese è notevole con l’avvento di Francesco I,
nonostante nel periodo compreso fra il 1490 ed il 1520 si registri la prima ondata maggiore di arti e
mestieri italiani di dimensioni tali da implicare una saturazione di quel mercato almeno fino al 1530.
Il fenomeno della esportazione drammaturgica è più recente, fatto tanto più vero per le espressioni
teatrali profane italiane che giungono in Francia assai tardivamente.
È un’immigrazione tutta particolare, questa “immigrazione delle arti”, in cui i numeri non
rispecchiano direttamente i propri effetti: durante il trentennio a cavallo fra i due secoli si trattò di
assorbire il sistema produttivo italiano, importando non più stoffe, ad esempio, ma intere comunità
tessili, che nel territorio dovevano ripetere il primato già guadagnato nella Penisola. Una
immigrazione massiccia, ma meno visibile nell’immediato, in quanto meno espressamente artistica,
“infrastrutturale”,98 diremmo, rispetto a quella più estetica, futile o di intrattenimento che rende più
esplicita, esibendola a noi contemporanei, la presenza d’un nuovo gusto, le cui premesse stanno però
in questi tre decenni di silenziosa applicazione delle arti pratiche. Sul legame fra l’esportazione dei
saperi tecnici e lo sviluppo delle arti in Francia bisognerebbe forse riflettere con maggiore attenzione:
a noi basti qui sottolineare un paradosso; come, cioè, quasi per una singolare simmetria della storia,
97
E. PICOT, 1918 : pp.159-160.
Su scala locale la soluzione per gli stranieri era (1) ottenere in privilegio di Bourgeois du roi (2) vedersi riconosciuti i
diritti di naturalità come gruppo e comunità attiva nel contesto locale, infine (3) ottenere le lettere di naturalizzazione.
Abbiamo casi vari, in cui l’italiano è chiamato a ripopolare alcune zone o a fornire il know how per le manifatture:
privilegio accordato ai Lombards poi revocato (t.1, p.749) nel 1324 (t.1, p.781) e nel 1333 (t.2 p.96); t.8, p.182-184:
trattato fra Carlo VI e Genova per tutelare la comunità genovese installata a sud. Saint Quentin (1470), t.17 p.368,
Toulouse 1472 (t.17 – p.478), stesso anno a Bordeaux t.17, p.524, Languedoc nel 1475 (t.18, pg. 124).
Le collocazioni si riferiscono alla raccolta di ordinanze VILEVAULT.
327
98
la serie di scacchi politici che Francesco subì al 1530 (la disfatta di Pavia, la cattività madrilena, la
caduta di Lautrec davanti alle mura partenopee) ed il contemporaneo apogeo dell’imperatore Carlo
V (incoronato dal Papa in Bologna) spingano il sovrano francese ad imitare le monarchie della
Penisola, che avevano compensato l’indebolimento del loro potere attraverso l’arte e l’attività artistica
e di rappresentanza, che a partire da questa crisi si fa per la corte francese ancora più frenetica ed
“estetica”.
3.1.6 – Lo spazio fra libri e memoria.
Il Rinascimento, gran secolo delle crisi, è anche il secolo del consolidamento delle strutture logicorazionali del pensiero moderno ed è già stato notato come in questo processo ricoprano un ruolo
quasi simbolico l’architettura e la stampa, luoghi elettivi d’espressione dell’equilibrio aureo. Le due
“nuove” arti sono allo stesso modo rappresentative del concetto di bello come equilibrio: la tecnica di
impressione a caratteri mobili dona un’uniformità impensabile nella trascrizione a mano e la
medesima “perfezione replicabile” del prodotto libro si esprime anche in architettura nel principio di
simmetria e prospettiva algebrica: è così che l’albertiano De res aedificatoria, pur non essendo stato
concepito per la stampa, fu uno dei primi trattati architettonici a trovare nell’impressione un mezzo
ideale d’elezione.
La stampa del trattato nel 1485 avveniva però circa trent’anni dopo la pubblicazione, trent’anni di
intensa circolazione dei codici albertiani nelle corti, così che non è errato dire che la versione a
stampa uscì in un momento in cui i principi che v’erano enunciati avevano già passato il loro
momento di massima influenza sulla cultura architetturale del periodo.99
Per avere ancora un’opera dello stesso impatto, a parte la costante circolazione delle edizioni di
Vitruvio, si dovette attendere il 1537 con la stampa del Quarto libro di Serlio, opera invece pensata
per i caratteri mobili: la grande attenzione di questa edizione per l’illustrazione e la sua integrazione
nel testo, furono gli elementi primari dell’accoglienza che le riservò il mercato europeo.100
Sono questi gli anni in cui la stampa aveva raggiunto un apice produttivo destinato a saturare il
mercato ed a contrarsi nel XVII secolo; siffatta inedita abbondanza di prodotti editoriali apriva il
99
Fu pubblicata a Firenze, presso Niccolò di Lorenzo Alemanno, da Bernardo Alberti con dedica a Lorenzo de’ Medici e
lettera introduttiva di Angelo Poliziano.
100
S. DESWARTE-ROSA, 2004 : p.24.
328
mercato a classi diverse dall’élite tecnica o cortigiana destinataria della trattatistica quattrocentesca: le
nuove opere come quella di Serlio mediante il supporto grafico e la relativa accessibilità economica
del libro seriale, battevano la strada per la formazione d’una nuova società critica: la trattatistica
architettonica smetteva di essere un supporto didattico o formativo e poteva contribuire alla
formazione di un giudizio critico e d’una idea di spazio anche presso classi medie e mercantili.
Del resto sembra proprio che fra il 1520 ed il 1540 si consumasse in Europa una vera moda per
l’architettura, che divenne occupazione non più specialistica ma argomento di gusto e divulgazione,
arena di confronto intellettuale e popolare, capace di far emergere vere star come Giulio Camillo
Delmino, «il Divino Camillo», che – sapiente o cialtrone che fosse – fu fra gli uomini più noti ed
influenti sulla cultura del secolo decimosesto.
Tant’è che due edizioni a stampa dedicate all’architettura precedettero di poco il Quarto libro
serliano, a Venezia nel 1524 e nel 1536 a Perugia.101 Due opere che certo non spiccavano per
originalità – si trattava di due Vitruvio del tutto speculari in lingua volgare – ma che indicavano un
trend preciso, uscendo sull’onda della forte impressione che le imprese di Camillo avevano suscitato
in Venezia. Imprese in qualche modo limitrofe al luogo teatrale, seppure “invertito”, “capovolto”, ad
una specie di grande spettacolo dell’introspezione.
Giulio Camillo consacrò la sua esistenza alla costruzione di un teatro che potesse ricostruire
l’insegnamento della retorica antica, una sorta di spazio scenico al contrario in cui lo spettatore stava
sulla scena, da dove poteva osservare gli ordini di palchi disposti di fronte a lui. Sorta di lanterna
magica ante litteram, la cavea ricostruiva la sapienza mitologica dell’antico in sette ordini, divisi da
sette corsie corrispondenti ai sette pianeti. All’interno di ciascuna delle 49 case così “nidificate”,
erano ospitate delle rappresentazioni pittoriche, completate da iscrizioni e fascicoli contenuti in
cassettini o schedari.
Il teatro della memoria di Camillo è […] una distorsione del piano del teatro reale di Vitruvio. Ad ognuno
dei suoi sette passaggi vi sono sette cancelli o porte. Queste porte sono decorate con molte immagini. […]
Che non vi fossero posti a sedere per spettatori fra queste enormi porte di corsia decorate a profusione non
ha importanza, perché nel Teatro di Camillo la funzione normale del teatro è rovesciata: non c’è pubblico
seduto nelle gradinate a guardare il dramma sulla scena. Il solitario «spettatore» del Teatro sta dove dovrebbe
essere la scena e guarda verso l’auditorium, contemplando le immagini sulle sette volte e sette porte ai sette
livelli che salgono. […]
101
Francesco Lucio Durantino, M. L. Vitruuio Pollione De architectura traducto di latino in vulgare…, Venezia, fratelli da
Sabio, 1524; Giovanni Battista Caporali, Architettura con il suo commento et figure Vetruuio in volgar lingua raportato per
M. Gianbatista Caporali di Perugia, Giano Bigazzini, 1536.
329
In un teatro normale, del tipo descritto da Vitruvio, il retro della scena, il frons scaenae, aveva cinque porte
decorate attraverso le quali gli attori entravano ed uscivano. Camillo trasferisce l’idea delle porte decorate dal
frons scaenae alle immaginarie porte decorate delle corsie dell’auditorium […].102
Come le ultime tendenze in fatto di realizzazione dello spazio teatrale, Giulio Camillo realizzava una
platea sul modello del Teatro Marcello di Roma (i cui modelli gli erano stati presumibilmente forniti
da Sebastiano Serlio103) e la impregnava di retorica classica e cultura ermetica. Lo scopo di questa
costruzione era quello di dare allo spettatore una panoramica di tutta la sapienza del mondo in un
colpo: strumento formidabile di conoscenza, il teatro applicava i principi delle retorica classica,
concretizzando la tecnica dei loci e delle immagini mitologiche che li popolavano nella mente del
retore.
Forse Giulio Camillo a Genova, nel 1525, aveva già speso un patrimonio per la realizzazione di un
prototipo di questa “macchina della conoscenza”: la sua impresa passò allora di bocca in bocca ed i
più importanti intellettuali europei del secolo si interessarono ai dettagli dell’artefatto, attorno al
quale ben presto si propagò grande curiosità. Nel 1530 il Nostro conobbe l’ambasciatore francese a
Venezia, e probabilmente venne raccomandato da questi e da Pietro Aretino a Francesco I, che in
breve lo volle in Francia, decidendo di assumerne la causa e di fornirgli i ducati necessari per il
completamento della magnifica invenzione. Nel 1532 abbiamo notizie più dettagliate del grande
progetto del Delmino, stavolta in Venezia, dove pare fosse installato un altro segretissimo prototipo.
Fra il ‘31 ed il ’32 secondo la corrispondenza fra Wigle van Aytta (Viglius o Viglio) ed Erasmo da
Rotterdam104 apprendiamo che un teatro ligneo in miniatura sul modello di quello di Marcello è
realizzato a Venezia da Camillo con l’aiuto di Serlio e di Tiziano rispettivamente per le strutture e le
pitture. Purtroppo dei bozzetti di Tiziano rimane solo una testimonianza remota: vale a dire la loro
enumerazione nel catalogo della biblioteca dell’Escorial, dalla quale sono spariti a seguito di un
disastroso incendio.105
Appena il tempo di fare visitare la struttura a Viglio (che fra l’altro è l’unico a lasciare una
testimonianza dettagliata sull’aspetto della macchina) e poi la partenza ancora alla volta della Francia,
dove nel 1534 lavora per il re. Il suo soggiorno si prolungherà per due anni. Due anni di cui ci
giungono fantasiose leggende sulle virtù solari del grande saggio, ma durante i quali poco o niente
102
F. YATES, 1993 : pp.127-128.
S. DESWARTE-ROSA, 2004 : p.40.
104
OPUS EPIST. ERASMI: le notizie su Giulio Camillo sono in t.IX pp.475-479, t.X pp.29-30 e 226.
105
Per la bibliografia dei dati biografici qui resi si rimanda alla ricostruzione di F. YATES, 1993.
103
330
filtra sugli esiti del “teatro della memoria”. Comunque fossero andate le cose è certo che Francesco I
non fu soddisfatto dell’operato di Camillo, che venne rispedito a casa. Il divino rispose al mancato
apprezzamento reale con le Sette difese del Theatro, trattato illustrato dalla mano di Francesco
Salviati, ma nemmeno un nuovo viaggio a Parigi fu sufficiente a convincere il re a continuare a
finanziare il progetto: ben più gravose faccende occupavano ormai i pensieri del sovrano, alle prese
con il progressivo avanzare dell’Impero. La ricerca di Camillo continuò ma con poca fortuna: anche
Ercole II D’Este e la sua corte di passioni teatrali, (cui dedicherà il suo Trattato delle materie che
possono venire sotto lo stile dell’eloquente) ignoreranno la macchina mnemonica del Delmino. E si
narra che alla corte di Francia il nome di Camillo non potesse neanche più essere pronunciato al
cospetto del re perché costituiva grave onta per il sovrano, reo di aver creduto alle fandonie d’un
alchimista cialtrone: la diceria è riportata da una lingua forse troppo biforcuta come quella di Pietro
Aretino e sebbene possa essere esagerata, rende l’idea del declino di Camillo alla corte di Parigi. Dal
1536 al 1543 non sappiamo cosa egli abbia realmente fatto e dove abbia passato il suo tempo. Il suo
teatro mai completato, il trattato che si era ripromesso di scrivere mai cominciato e l’assenza di un
nuovo protettore dovettero essere le sue preoccupazioni negli anni della ricomparsa in Italia, nel
1543. È sotto Alfonso D’Avalos, governatore di Milano ed estimatore delle sue doti, che Camillo
riuscì a trovare nuova protezione: ottenne una pensione per trasmettere il segreto della sua opera e
nel 1544 pare che dettasse all’amico Girolamo Muzio l’unico trattato dedicato alla macchina teatrale,
che nel 1550 fu pubblicato postumo sotto il nome de L’idea del Theatro dell’eccellen. M. Giulio
Camillo con una dedica a Don Diego Hurtado de Mendoza.106
Ci siamo qui occupati della parabola insolita della vita di Delmino perché la sua opera è un simbolo
piuttosto evidente dell’identità che in questi anni si va costruendo fra teatro e mondo. Il teatro si
impone come spazio atto ad ospitare la memoria, come kultur, insieme complesso e totalizzante di
tensioni e saperi. Affidando la conoscenza alla scenotecnica, la macchina di Camillo diventa metafora
della teatralizzazione totale che si va verificando nella società di corte italiana. Il principe moderno
realizzava nella scena il suo programma pubblicistico.
In questa visione del sapere, lo spazio si configura come contenitore di conoscenze, interfaccia
concreta e “substanziale” della retorica antica e dell’immaginario ermetico, elementi che occupavano
uno spazio di urgenza nella cultura che andava elaborando il teatro (quello vero, pensato per lo
106
Giulio Camillo, L’idea del theatro, Lorenzo Torrentino, Firenze, 1550, (L. BOLZONI, 1991)
331
spettacolo): spazio di sguardi e di rimandi sociali che rappresentava se stesso attraverso i simboli
rinnovati dell’astrologia e della mitologia.
La corte francese nutriva in questi anni le stesse simbologie delle corti italiane, lo abbiamo visto nel
cambiamento delle allegorie da catafalco e nell’evoluzione di gusto degli ingressi trionfali fra Carlo
VII e Francesco I.
Il progetto del divino Camillo, che fosse o no cialtronesco, è accolto dalla Francia non per caso, ma
in linea con una direzione culturale tutta italiana che ridefiniva lo spazio come strumento per
proiettare il presente nell’Olimpo della complessa cosmologia pagana. Il teatro del magnifico
Camillo è espressione tecnologica della memoria: dominio dell’uomo sulla natura (la mente),
trasferimento ad un luogo reale dello spazio astratto che la retorica antica aveva insegnato a dividere i
spazi virtuali: come il teatro per spettacoli in questo senso l’arena di Camillo è una macchina, specie
di tecnologia applicata che si avvale delle sapienze italiane sull’argomento, che contribuisce anche ad
esportare, realizzando all’estero una prima modellizzazione del nuovo spazio teatrale già perfezionato
nelle corti padane.
Esprimendo siffatta correlazione fra spazio ed orizzonte culturale Camillo rappresenta una naturale
declinazione del pensiero rinascimentale, e precisamente grazie a questa sincronia con i tempi riesce
egli ad “ingannare” tutta Europa, in una utopica visione caleidoscopica del sapere, di cui rimase
vittima lo stesso Francesco I.
3.1.7 – Le commedie in libri.
Il manoscritto 2912 del fondo francese della BNF, noto come catalogo del libraio di Tours,107 è un
fascicolo di carte che rimonta al 1490-1500 e che contiene un elenco di 267108 opere facenti parte del
fondo in larga parte manoscritto di un libraio.
L’elenco è diviso in varie sezioni: libri «à la main» (1-185), «aultres livres et mistaires» (186-219),
moralités (220-238), libri impressi (239-267): al che, la lista si comporrebbe di 237 codici
manoscritti e 28 testi a stampa.
107
108
G. RUNNALS, 1982. La prima pubblicazione è ottocentesca: A. CHÉREAU, 1863.
Il conto è incerto su 265 per via di due menzioni generiche che citano «plusieurs autres» opere.
332
Fra questi titoli una buona parte – cinquantadue testi fra 34 misteri e 18 moralità – è riconducibile
al settore letterario drammatico, ma nessuno di essi può essere in qualche modo collegato alla
letteratura teatrale italiana, a dispetto anche della provenienza meridionale del documento e dunque
della sua relativa prossimità geografica con aree precoci di immigrazione.
Non soltanto nella limitata panoplia di titoli della bottega di provincia, ma neanche nell’editoria
nazionale francese v’è traccia dei rapporti di reciprocità che verso il 1500 cominciavano ad instaurarsi
fra le pratiche teatrali delle corti italiane con quella francese: sono disponibili diversi opuscoli e
cronache anche a stampa, questo è vero, ma la diffusione in Francia di commedie originarie della
Penisola non riguarda ancora in questo momento il mercato “di massa” dell’editoria drammatica, ma
la ristretta nicchia dei manoscritti della corte e della biblioteca regia.
E tuttavia la pubblicazione di opere che abbiano a vario titolo un qualche apporto italiano raggiunge
picchi quantitativi sorprendenti già alla fine del XV secolo: tanto per tornare alla provinciale Tours
l’elenco del libraio pur essendo tutto dedicato ai «livres en francois» comprende “vecchie conoscenze”
della letteratura italiana esportata (pure non caratterizzate da originalità o novità): vi troviamo la già
menzionata traduzione di Premierfait del novelliere boccaccesco, un Tresor de nature di Brunetto
Latini e un Fleur de vertus mondaines.109
Passando dai codici alla stampa antica il panorama non sembra mutare di molto. Noi stessi,
effettuando una ricognizione sull’indispensabile catalogo Renouard110 per le edizioni parigine dal
1500 al 1530, siamo stati inizialmente sconfortati dalla totale assenza di stampe di opere
drammatiche italiane per quel periodo, a dispetto invece di una intensissima attività editoriale degli
umanisti italiani su tutti gli altri rami dello scibile.
Vengono insomma pubblicate numerose opere di teologia, retorica, storia, diritto, poesia; gli
umanisti italiani, inoltre, curano le traduzioni dai classici o le opere di scienze naturali e possiamo
affermare che una buona parte delle opere umanistiche italiane davano bella mostra di sé in edizioni
spesso qualitativamente importanti.
Addirittura sulla piazza accademica parigina si consumano crudeli querelle che vedono contrapposte
le diverse ambizioni di conquista del mercato della cultura da parte di intellettuali emigrati dal bel
paese quali Publio Fausto Andrelini o Girolamo Balbi, che ingaggiano una strenua lotta di
109
110
Già identificato come una traduzione del Fiore di virtù da Gustave Brunet, (Man. LIBRAIRE, t.II, n.1262 e n.1286).
Rép. RENOUARD.
333
polemiche e maldicenze cui prende parte anche Cornelio Vitelli: i tre riescono anche ad avere il
diritto di insegnamento «post prandium» creando una sorta di studiuolo parigino.
Ma di testi teatrali, neanche l’ombra: le produzioni per il palcoscenico della Penisola non ricoprono
ancora un ruolo modellizzante su vasta scala; in Parigi sono impresse opere italiane di carattere
giuridico, retorico o teologico e che si esprimono soprattutto in lingua neolatina o in volgare francese
(in traduzione) e tutto quanto è profano è francese e collegato alla farsa ed alle moralité.
Per la stampa nazionale, ed in particolare per quella parigina, la letteratura neolatina resta ancora nei
primi anni del 1500 la principale occupazione delle presse editoriali: lavoro di trasferimento dei
codici su supporto moderno in cui dominano gli intellettuali italiani, già numerosi a sperare di
installarsi dietro le ambite cattedre sorboniane e dotati d’uno sviluppato bagaglio di conoscenze
editoriali.
Anche nel contesto delle lettere neolatine, della pur già prolifica pratica degli umanisti di scrivere
nuove commedie sull’esempio antico, non rimangono “tracce tipografiche” francesi. Così, sebbene
un Enea Silvio Piccolomini o un Tito Livio Frulovisio fossero ampiamente conosciuti quando non
pubblicati in Francia, non si trovava nell’antico Esagono nessuna traccia delle rispettive, Chrysis, e
Corollaria.
Se nella drammaturgia d’esportazione c’è penuria di intelletti italici originali, negli altri campi della
cultura francese gli italiani si guadagnano un primato, spesso aderendo anche integralmente alla
politica di conquista della Penisola: come già per Giovan Giorgio Alione, è il caso del menzionato
Publio Fausto Andrelini, che scrive vari elogi a Carlo VIII ed alla famiglia reale, oltre che produrre le
pluri-ristampate egloghe e la raccolta delle poesie giovanili (Livia), che in terra francese gli
sopravvivranno a lungo. L’attività di umanisti italiani come Andrelini è nell’editoria della capitale
francese addirittura incessante: fra edizioni critiche di Ovidio, pamphlet filogallici (in particolare
quelli dedicati alle vittorie di Napoli e Fornovo) e colte celebrazioni per le vittorie politiche del
regno, questo umanista italiano espatriato in Parigi contribuisce in soli dieci anni a produrre più di
trenta fra edizioni e ristampe, per i tipi di diverse officine e librai, alcuni dei quali legati all’editoria
“ufficiale” della corte e della municipalità.
Ma al fianco dell’Andrelini, sempre spogliando i repertori dei testi a stampa francesi del primo
trentennio del 1500, troviamo ben più celebri nomi di umanisti italiani, tutti presenti nell’editoria
parigina con commenti, opere letterarie o di filologica erudizione: da Lorenzo Valla ad Angelo
Poliziano a Leon Battista Alberti ad Aldo Manuzio.
334
E non mancano neanche i “bestseller” italiani, che visto l’importante numero di ristampe prodotte su
Parigi, dovevano essere agevolmente assorbiti dal mercato librario della città; oltre agli ovidiani
rimedi d’amore è il caso della famosissima opera di Battista Mantovano, l’Adolescentia, che rispetto
all’editio princeps italiana del ’98 arrivava relativamente presto a Parigi, (nel 1503) ed era destinata ad
essere proiettata in Europa proprio da un editore francese, Ascenzio Badio;111 e poi vi sono le edizioni
scolastiche di Plutarco di Girolamo Aleandro, che in Parigi insegnava le lingue classiche.112
Solo nella prima decade del Cinquecento si risvegliano i primi interessi timidamente sistematici per
l’apprendimento della lingua toscana (con le pubblicazioni conseguenti) e ciò ancora una volta grazie
alle guerre d’Italia, cui seguì un fenomeno di rinnovamento senza precedenti della lingua francese
delle classi agiate che assorbirono molti vocaboli a sud delle Alpi. Ma ancora una volta questo
processo è ben marcato solo nella seconda metà del secolo durante la quale cominciarono anche a far
sentire la propria voce i cultori del francese puro come Henri Estienne, che nel 1578 componeva e
faceva uscire i polemici Deux dialogues du nouveau langage françois italianizé et autrement desguizé,113
in cui dal titolo possiamo rilevare come le abitudini linguistiche xenofile si dovessero
«principalement» ai «courtisans de ce temps».
È una presa di posizione intellettuale diametralmente opposta a quella (sempre intellettuale) di
qualche decennio prima, quando nel 1511 (la stampa è del ‘13) Jean Lemaire de Belges volle
associare il clima di rinnovata concordia del regno con Firenze, legando alle intese politiche quelle
linguistiche e scrisse così la Concorde des deux languages.114 Mentre rimonta al 1510, in Roma, la
stampa del primo dizionario franco-italiano (e tedesco), il Vochabuolista, subito di fama europea.115
111
Giovanni Battista Spagnoli (detto Mantovano), Bucolica seu Adolescentia, Badius, Argentinae, 1503.
«Les livres [bilingue franco-italiani, n.d.r.] qui ont au le plus de succès au XVIe siècle ont été : J. de Flores, Historia de
Aurelio e Issabella (8 éd. + 1 éventuelle) ; P. Trédéhan, Trésor de vertu (7 éd.) ; L. Dominichi, Facécies et mots subtilz (5
éd. + 1 éventuelle) ; L. B. Alberti, La Deiphire (5 éd.) ; D. de San Pedro, Petit traité de Arnalte et Lucenda (5 éd.)». In
alcuni casi la prima edizione bilingue corrisponde alla prima edizione tout court. N. BINGEN, 1987 : p.XXVIII.
113
Henri Estienne (attribuito anche a Jean Franchet, detto “Philaugone”), Deux dialogues du nouveau langage françois
italianizé, et autrement déguizé, principalement entre les courtisans de ce temps, Genève, 1578.
114
Per il manoscritto (1511) e l’edizione antica (1513), ma anche per una completa bibliografia sull’argomento
rimandiamo a J. FRAPPIER, 1947.
Fra l’altro Jean Lemaire de Belges sarà un insolito mediatore culturale ante litteram: da una parte la concordia del toscano
e del francese come continuità fra l’Italia (entità linguistica, più che geografica) e la Francia; allo stesso tempo lo sviluppo
di una mitica genealogia fra cultura celtica e Troia (Les illustrations de Gaule et singularitès de Troie, 1512-13), destinata
ad inserirsi nei motivi gallicani del pensiero transalpino.
115
Per quanto riguarda i più generici dizionari va segnalato solo per conoscenza che il Vochaboulista usciva nella sua
versione tedesco / italiano / francese nel 1510 a Roma e nel ’13 a Venezia. Seguiva una lunga serie di edizioni ovunque in
Europa, ma soprattutto nei paesi di lingua sassone. La prima edizione francese è quella del 1533 tirata in Lione
probabilmente nelle officine giuntine. Purtroppo tale edizione è sparita da tutte le collezioni. Sempre a Lione la stessa
335
112
Comunque sia, grammatiche e dizionari della lingua italiana conobbero alte tirature nel periodo di
maggiore splendore delle passioni linguistiche per l’Italia, a cavallo cioè fra XVI e XVII secolo,
quando si diffusero anche diverse edizioni di classici italiani a scopo didattico (Dante, Petrarca,
Boccaccio, Ariosto in prima fila), non di rado postillate in francese con finalità di traduzione e studio
diretto della lingua.116 Per una prima opera completamente bilingue dovremo invece aspettare il
1545, ed è una bella scoperta rilevare che si tratta del primo libro del trattato di architettura di
Sebastiano Serlio.117
Il dato che ci sembra più significativo è che le opere che abbiamo estratto dal repertorio di Renouard
secondo il criterio della italianità dei contributi nella cronologia 1500-1530, possono per lo più
essere ricondotte al contributo (editoriale, filologico, storico…) di Ascenzio Badio.
Figura emblematica di questa aggregazione di testi italiani, “Josse Badius” è umanista ed editore,
sorta di Aldo Manuzio d’oltralpe, vorace e versatile intellettuale che pubblica fino ad ottocento
edizioni in trent’anni di attività, ispirata proprio ai modelli dell’editoria veneziana e del mercato
culturale italiano. Badio si premurò anche di curare la prima edizione di Terenzio in Francia per i
tipi di Trechsel in Lione, nel 1493: testo fondamentale nel quale compaiono alcune stampe
raffiguranti le strutture da spettacolo; una serie di disegni in pianta, in particolare, illustrano il
miglior spazio scenico per le commedie secondo i criteri delle messe in scena romane del 1474,
organizzate dagli accademici di Pomponio Leto. Come faceva Badius a conoscere queste recite, resta
un mistero. Lasciamo la parola a Henri Rey-Flaud:
opera ricomparirà nel 1541 per i tipi di Jaques Moderne. Il dizionario dovette circolare molto a prescindere dai luoghi in
cui fu edito (numerose edizioni tirate in Italia e Germania sono presenti nelle biblioteche di Parigi e Lione, ad esempio).
116
Le quattro edizioni didattiche dantesche sono anche le prime in Francia: Divina Commedia, la prima compare a Lione
nel 1547: Il Dante, / con argomenti, et dichiaratio- / ne de molti luoghi, novamen- / te revisto, et stampato. / In Lione,
per Giovanni di Tournes, 1547. Sempre a Lione vi saranno altre edizioni nel 1551, 1552, 1571, 1575. L’Orlando furioso
raggiunge sette edizioni “postillate”. La prima edizione in spagnolo: Orlando furioso […] traduzido en romance castellano
por Don Ieronymo de Urrea, Leon, M. Bonhomme, 1550. Ma in Francia non si pubblicava solo l’Olimpo delle lettere
italiane: nel 1547 Gilles Corrozet produceva un Bonne réponse à tous propos – Livre fort plaisant et délectable, auquel est
contenu nombre de proverbes et sentences joyeuses, raccolta di proverbi italiani tradotta da Giovanni Bellero, (Paris, BNF,
rés. Z.2628), che si riallacciava alle innumerevoli sue gemelle in lingua francese.
117
Sebastiano Serlio, [edizione comprendente] Il primo libro d’Architettura… Il secondo libro Di Perspettia [sic]… (tr.fr.
Jean Martin), (Jean Barbé), Paris, 1545. Dopo altre opere bilingue (La Historia di Aurelio e Isabella, Les très elegantes
sentences et belles authoritez, L’Amour de Cupido et de Psiché… tant en vers Italiens que Françoys) le più importanti per
questo studio sono: Leon Battista Alberti, La Deiphira… La Deiphire…,Gilles Corrozet, Paris, 1547; Ludovico Ariosto,
La Comédie des Supposez, Etienne Groulleau, Paris, 1552.
336
Il faut supposer qu’il a pu rencontrer Pomponius lui-même à Rome ou à Ferrare ou certains de ses élèves à
Paris… On avance aussi un possible voyage en Italie de Jean Pérreal, peintre lyonnais et compatriote donc de
Badius, voyage évidemment antérieur à l’édition de 1493. [...]118
La cultura pomponiana passò per la Francia anche attraverso Fausto Andrelini che proprio
nell’accademia aveva militato assistendo alle recite delle commedie classicheggianti. Sappiamo anzi
che Andrelini venne incoronato degli allori durante un “recital” poetico messo in piedi per il natale
di Roma del 1483.
È improbabile ricondurre l’edizione Trechsel ad un qualche contributo di Fausto Andrelini, ma i
percorsi suoi e di Josse Badius erano tuttavia destinati ad incrociarsi in quegli anni: dal 1491 al 1493
Fausto Andrelini lasciò dietro di sé solo poche informazioni, costretto ad una specie di esilio da
Parigi, a seguito delle polemiche ingaggiate con i compatrioti. Ascenzio Badio si trovava fino al 1499
a Lione dove aveva appena intrapreso una lunga attività editoriale, che continuerà con grande
successo in Parigi, associato a Jehan Petit fino al 1503 quando aprì un’officina propria.119
Si noti che la prima opera curata da Ascenzio Badio a Parigi, nel 1499 fu d’origine italiana, (una
Parthenice Catharinaria di Battista Mantovano, «ab Ascensio familiariter exposita») e che mentre
collaborava con Badio, nel 1502, Petit pubblicava anche un’opera encomiastica di Andrelini, già
qualificato poeta regio; quel De secunda victoria neapolitana «dove si esaltavano le imprese dei
francesi di Luigi XII nell’Italia meridionale» e che non «gli impedì più tardi di stringere amicizia con
Jacopo Sannazzaro, durante il soggiorno parigino di quest’ultimo dopo la morte a Tours nel 1504
del re Federico di Napoli, con il quale il Sannazzaro aveva condiviso l’esilio», come nota non senza
acredine Roberto Weiss.120
Autori preferiti del Badius erano del resto gli italiani, il cui contributo ai circa trecento volumi a
vario titolo curati o scritti dall’umanista ed ora custoditi alla BNF, è sostanziale: prevale su tutti
l’allora venerato (e venduto) Battista Mantovano, per il quale Badio effettua un’opera di reale
propulsione europea.
In generale le novità editoriali italiane arrivavano in Francia con un certo décalage, verificabile anche
per opere di grande notorietà, come per la famosa Aulularia (con innesti moderni sul finale) di
Antonio Cortesi Urceo, pubblicata nel 1502 in Bologna, poi in Venezia nel 1506 ed in Parigi nel
1515 e nel 1530. Il ritardo nel settore della drammaturgia è più enfatizzato anche per le lettere
118
H. REY-FLAUD, 1973 : pp.87-88.
Di cui fu erede Henri Estienne, altro grande “lascito” di Badio al mondo umanistico francese.
120
Nella voce Andrelini da lui curata per il Dizionario degli italiani illustri. Si segnala anche: A. RENAUDET, 1916.
119
337
neolatine quindi a maggior ragione per le commedie regolari in toscano: basti pensare che il centro di
primaria importanza per la commedia regolare, l’asse Mantova-Ferrara, aveva vissuto la stagione
d’oro del genere con le rappresentazioni e le stampe comprese fra il 1486 ed il 1502 (Formicone e
Cassaria sono agite e pubblicate fra il 1503 ed il 1508) e che il Truculentus, parte del corpus delle
dodici nuove terenziane scoperte nel 1429 da Niccolò Cusano, conobbe un volgarizzamento –
probabilmente in area veneta – finalizzato alla rappresentazione nello stesso periodo:121 i frutti di
queste esperienze dovettero aspettare circa quaranta anni per giungere in Francia.
La tendenza è analoga anche se andiamo a vedere il mercato delle traduzioni francesi di teatro
italiano, attestate almeno agli anni ’40 del XVI secolo, in contrasto ovviamente con le prime
traduzioni dei commediografi latini, che vennero realizzate dentro al primo decennio del secolo.122
Opere italiane di qualche attinenza con farsa e sue forme liminari, trovarono molto prima una
traduzione in volgare francese: opere meno celebri e “fuori dal canone” come quella di Giovan
Battista Gelli impressa a Lione nel 1550123 o la Comedia del sacrificio degli Intronati, sempre in
Lione, nel ’43.124 A parte la versione tradotta del Libro del pellegrino di Giacomo Caviceo, (opera
pluri-ristampata in francese a partire dal 1527)125 è ancora il caso delle facezie di Poggio, stampate in
volgare nel 1510 dalla vedova Trepperel126 - cioè da uno degli editori parigini più intensamente attivi
nella pubblicazione di opuscoli teatrali in formato agenda - che si premurò anche di offrire le presse
(ma non il loro contributo editoriale) per un Débat de l’homme et de l’argent,127 contrasto drammatico
di anonimo italiano, (senza data, ma la cui uscita può essere fissata attorno al 1511) il cui successo è
121
Il mitico attore Cherea, al secolo Francesco de’ Nobili, nel settembre dello stesso anno chiedeva l’autorizzazione a
stampare una serie di commedie in volgare, fra le quali, appunto, il Truculentus terenziano.
122
M. HORN-MONVAL, 1958. Le traduzioni di Plauto e Terenzio in Francia sono precoci anche rispetto a quelle di altri
classici del teatro latino. Per Plauto la prima è Plaute, Sensieult une œuvre novelle contenant plusieurs materes et premiers. La
premiere farse de Plaute nommee amphitrion laquele comprêt la naissance du fort Hercules, faite en rime, S.l.n.d., (Anvers,
Gerard Lien, 1503). Per quanto riguarda Terenzio, l’intensa circolazione manoscritta dell’autore nel corso del XV secolo
produce un codice in francese fin dal 1466 (Ms, XV s., 157 ff. [BN. Ms fr n a 4804]), la prima stampa, nota come
Therence en François è a Parigi, Antoine Vérard, senza data né titolo, ma probabilmente verso il 1500: verrà tirata anche
nel 1515, con scarse differenze. Bisogna attendere il 1534 per il più diffuso le Grand Térence françois en rimes et en prose
di Octavien de St Gelais, ristampato anche nel 1539.
123
Giambattista Gelli, La Circé, (tr.fr. Seigneur Du Parc), G. Roville, Lyon, 1550. Nel 1551 una edizione anche a
Rouen, per Dugort.
124
Accademici Intronati, La Comedie du sacrifice, des professeurs de l'academie vulgaire senoise, nommez Intronati, celebree
les jeux d’un karesmeprenant a Senes, (tr.fr. Charles Etienne), François Juste – Pierre de Tours, 1543. L’edizione rivista è
nel 1548 per Estienne Groullau.
125
Giacomo Caviceo, Dialogue très élégant intitulé le Peregrin…, (tr.fr. Françoys Dassy), Nicolas Couteau Galliot – du
Pré, Paris, 1527. Si registrano edizioni a Lione (1528, 1533), Parigi (1528, 1531, 1535).
126
Poggio Bracciolini, S’ensuyvent le Facecies de Poge translatees de latin en frâcoys q traictêt de plusieurs nouvelles choses
morales…, veufve Jehâ Trepperel, sd. (1510).
127
Anonimo Italiano, Le Débat de l'homme et de l'argent..., (tr.fr. Claude Platin), Jehan Sainct Denys, Paris, s.d. (ma prec.
1527). Altre versioni in Lione (sd. ma 1527) ed una indicata come “imprimé nouvellement” a Parigi, s.d.
338
attestato da una seconda edizione di poco successiva per gli Chaussard di Lione. Il dialogo è di
incerto utilizzo e non è sicuro che fosse stato realizzato espressamente per la messa in scena, ma è
comunque un veicolo di contatto delle forme dialogiche italiane con quelle transalpine.128
Ci basta sfogliare il vecchio ma mai datato Tableau di Lebègue sulle pièce comiche, utilmente diviso
in composizione, rappresentazione e impressione, per constatare che nel 1496-1502 ebbero luogo le
prime recite di commedie classiche nell’ambito dei collège, subito seguite dal Terenzio in francese e
vari volgarizzamenti; ma anche per renderci conto che pure il panorama delle composizioni originali
francesi è piuttosto desolante nella prima metà del XVI secolo in cui escono per lo più pièce
ascrivibili ad un ambito spettacolare medievale: la situazione rimane invariata fino almeno agli anni
’40.129
Anche le commedie classicheggianti in volgare italiano trovarono un certo mercato oltre le Alpi a
partire da questo periodo, quando – al di là degli esempi citati – i ben più sostanziali Suppositi ed il
Negromante ariosteschi furono tenuti in maggior conto dell’Orlando furioso.130
Furono questi gli anni in cui anche dal mondo della farsa si sollevarono le prime rivendicazioni d’un
rapporto del “genere” con la commedia classica, in un processo di sdoganamento (materiale, ma
anche morale) dei buffoni131 e delle loro lettere.
Poetes ont ansi la comedie,
Ou le cueur mol reciter s’estudie
Actes vilains, molz, & libidineux,
Force de femme, & cas verecondeux,
Stupres vilains infames adulteres,
Dont voluntiers ne sortent qu'improperes.
Vulgairement farces nous les nommons
Dont les ioueurs aucunesfois blasmons,
Aussi de droict ceulx qui gagnent leur vie
A tel estat sont notez d’infamie. […]
De comedie ont esté sectateurs,
Et escripuans, plusieurs bons orateurs,
C’est assavoir Cratin, Aristophane,
Nigidius, Celius le prophane,
Plus Menander, Eupoliz, Plautius,
Et pour la fin le fut Terentius. […]
Horatius, Perse, & aussi Iuuenal,
Furent aucteurs de ce ieu Satyral
128
E. BOTTASSO, 1951.
R. LEBÈGUE, 1946.
130
L’opera fu a lungo considerata all’estero una pedissequa imitazione dei poemi epici medievali, tanto che è singolare la
fortuna che le due commedie ebbero in Francia come in Inghilterra, rispetto alla scarsa circolazione del capolavoro
ariostesco. E. BOTTASSO, 1951.
131
B. GEREMEK, 1990.
339
129
Entre Latins conveoit par leurs liures,
Lesquelz ne sont de fentences deliures.132
Fra tutte le opere dell’Ariosto, i Suppositi restò a lungo la più apprezzata oltralpe ove fu tradotta sia in
versi che in prosa nell’ultimo scorcio del regno di Francesco I, durante cui si moltiplicarono in
generale le traduzioni dall’italiano, (come quelle del Cortegiano o del Furioso).133
La moda ariostesca era stata anticipata da un testo di Charles Estienne pubblicato nel 1543, la
Comedie du sacrifice (detta anche les Abusez),134 traduzione della composizione drammatica italiana
Gl’Ingannati abbinata ad un poema-mascherata, il cui titolo originale era Il Sacrificio degli Intronati:
si osservi allora il tentativo di abbinamento “alla francese” di due pièce italiane, secondo le regole
autoctone del varietà spettacolare “farsa/sottie”.135
L’introduzione della traduzione di Charles Estienne, dopo avere elogiato i «bons et modernes ésprits
Siénois, studieux de toute antiquité et honnêteté, faisant de leur langage tuscan une profession et
académie qu’ils nomment Intronati»,136 sembrava essere già al corrente della Lena e del Negromante e
anche dei Suppositi la cui traduzione in versi usciva infatti poco dopo, a Parigi nel 1545, per Jerosme
de Marnef, sotto il titolo di Comedie tres elegante, en laquelle sont contenues les amours d’Erostrate, fils
de Philogone de Catanie, et de Polymneste, fille de Damon, mise d’italien en rime française, traduzione
attribuita con certezza a Jacques Bourgeois, attivo nel teatro profano francese del periodo.
Si tratta della prima traduzione francese di una commedia regolare italiana in volgare, prima
sostanziale interruzione del monotono panorama di misteri, débat e monologhi su cui si articolavano
scena e stampa francese dalla fine del XV secolo. Una vera novità, insomma, che però dovette restare
un caso isolato, con scarsa risonanza, anche scenica, vista la difficoltà con cui l’esemplare è giunto
fino a noi. 137
132
Jeahn BOUCHET, Epistres morales et familieres du Traverseur, Poitiers, 1545, (f.I, 32 d).
Baldassare Castiglione, Le Courtisan, nouvellement traduict de langue ytalicque en françoys (tr.fr. Jacques Colin,
d’Auxerre), Jehan Longis e Vincent Sertenas, Paris, 1537 ;
Ludovico Ariosto, Roland furieux composé premièrement en ryme thuscane…, (tr.fr. Jean Martin), Sulpice Sabon – Jehan
Thellusson, Lyon, 1544;
134
Accademici Intronati, op.cit.
135
Le due pièce originali italiane, attribuite in passato a Ludovico Castelvetro e Alessandro Piccolomini, sono state poi
restituite alla creazione collettiva degli Intronati. R. MELZI, 1965.
136
Accademici Intronati, op.cit., (f.2).
137
Ritenuta a lungo perduta. La sola notizia della sua esistenza era nel Dict. LERIS : p.34.
340
133
Meno periglioso l’arrivo ai giorni nostri della quasi letterale traduzione dei Suppositi in prosa di Jean
Pierre De Mesmes,138 che in Italia forse preparò il suo bagaglio culturale e che d’italiano fece anche
un manuale o grammatica portativa, stampata nel 1548 e ristampata nel ’67 a Parigi e nel ’68 a
Lione. Jean Pierre de Mesmes muoveva da interessi prevalentemente didattici: la letterarietà della
traduzione e l’uscita nel 1552 (con falsa data del ’49, cioè la stessa della prima edizione monolingue)
di un’edizione bilingue dell’opera «pour l’utilite de ceux qui desirent sçavoir la langue italienne»,
sono prove inconfutabili di tale orientamento.
In complesso, giova ripeterlo, si tratta di cosa assai modesta e certo assai meno significativa della
trasposizione in veste francese dell’Andria e degli Ingannati compiuta alcuni anni prima da quell’altro assai
più versatile ed acuto cultore di umanità e di scienze naturali che fu l’Estienne […]. Il precettore dei figli di
Lazare de Baif segna veramente più e meglio di Jodelle, lo schiudersi nella Francia colta dell’interesse per il
teatro classico e italiano contemporaneo: la duplice traduzione dei Suppositi, quale ne possa essere l’ipotetico
significato di polemica fra i due opposti modi, due diversi linguaggi scenici – quello ligio severamente ed
asciuttamente ai modelli, e quello che si rifà, o almeno indulge alle formule della farsa, più vivaci ed insieme
più burattinesche – ha una notevole importanza per così dire contenutistica, di designazione della
commedia italiana che veramente fornirà l’intreccio, l’imbroglio-tipo fra quante nelle seconda metà del
sedicesimo secolo passarono sulle scene francesi dalle nostre, o, se si preferisce, da quelle classiche per il
necessario tramite di quelle italiane.139
Il rinnovamento arriverà come è noto, nel collegio di Boncourt, dove su tutti fece la sua comparsa
Jodelle in un movimento di esportazione della commedia italiana, più che per le forme classiche, anzi
rifiutate in virtù d’un convinto nazionalismo, per la trasposizione delle atmosfere contemporanee
nella dimensione “storica”, carattere che costituiva la freschezza del modello italiano, largamente
imitato in Francia a partire dagli anni ’60 del secolo: è il caso degli Esbahis, del 1561, prima
manifestazione esplicita d’una riluttanza per le forme biomeccaniche della farsa, che ancora aveva
fatto sentire il suo ascendente negli Ingannati, attestando la longevità nella scena francese del gusto
burattinesco perseguito dalla drammaturgia autoctona.140
La stessa speculazione estetica sulle forme del teatro e la ricezione teorica di Ludovico Castelvetro
rimontano solo al 1570, quando Jean de la Taille scriveva l’Art de la tragédie, in cui si postulavano le
138
Due edizioni della traduzione in prosa, la prima in solo francese, la seconda con testo originale: Ludovico Ariosto, La
Comédie des Supposez…, (tr.fr. J. P. de Mesmes), Groulleau, Paris, 1552; Ludovico Ariosto, Comedie des Supposez de M.
Louys Arioste, italien et françois, pour l'utilite de ceux qui desirent sçavoir la langue italienne, Hieronimus de Marnef, Paris,
1585.
139
E. BOTTASSO, 1951.
140
«Tuttavia, come si vede anche meglio nell’alquanto posteriore Reconnue del Belleaue nello strettamente plautino Brave
de Baif, le tracce d’italianismi s’incontrano piuttosto nei nomi, nei costumi od in certe uscite de personaggi; la commedia
italiana giunta ormai all’apogeo della sua fioritura è praticamente ignorata, o almeno, poco curata. La sua influenza
diretta – anzi, più propriamente l’influenza delle commedie di Ludovico Ariosto – sulla scena francese comincia davvero
soltanto col Négromant e coi Corrivaux di Jean de la Taille composti verso il 1562 e pubblicati nel 1573.» Ibidem : p.49.
341
unità di tempo e luogo e la necessità del diversivo per attrarre lo spettatore; ed ove si lamentava
anche l’arretratezza della drammaturgia francese, colpevole d’essere chiusa ancora nello spettacolo
antico. La tarda testimonianza di la Taille è una prova per così dire “interna” del ritardo della cultura
drammaturgica francese nel recepire le novità italiane: la farsa era difficile da “scrostare” dalla cultura
scenica francese ed i suoi caratteri restarono dati “genetici” del gusto transalpino. La fedeltà
all’ottosillabo, l’andamento eccezionalmente lento dell’azione, il gusto per la digressione e l’intarsio
monologico ed ancora lo sbilanciamento formale dei pezzi, dei ruoli e degli interventi o la tecnica del
verso spezzato attraverso l’abuso delle monorematiche, furono tutte reminescenze farsesche destinate
a sopravvivere a lungo nella drammaturgia francese, ma che consentirono anche il successo della
commedia italiana dei lazzi. La transizione dalle forme profane alla Commedia dell’Arte e poi il
ritorno a Molière si configurano così più come un passaggio di testimone, che come una sostituzione
d’opposti.
Entro questo interesse per la commedia all’antica – in definitiva, per la sola commedia italiana, poiché la
fortuna vera della spagnuola Celestina va tenuta su di una piano diverso e riveste un diverso significato – le
commedie di Ludovico Ariosto, anzi più esattamente i Suppositi hanno la parte preminente. Ed è tuttavia
una parte eccezionalmente modesta nei risultati e nel rilievo artistico; come se l’appello contenuto nel
manifesto della nuova letteratura francese, nella Defense et illustration di Joachim du Bellay, fosse caduto nel
vuoto o quasi – o come addirittura fosse stato lanciato per questo rispetto un po’ a caso, e senza
convinzione. Forse, chissà, per una segreta e non mai vinta diffidenza per la commedia considerata
deformatoria e menzognera immagine della vita: conseguenza inevitabile, a sua volta, della pervicace ed
insospettabile vitalità della farsa (pur caduta in basso loco dopo i momenti di grazia nel secolo precedente)
che seppe far naufragare i meglio intenzionati e più ortodossi disegni d’instaurazione di un teatro degno
continuatore dell’antico.141
Nel contesto anfibio della letteratura tradotta rientra anche l’attività di Lelio Manfredi autore di due
fra le traduzioni più apprezzate nell’Europa del Rinascimento: Carcere d’amore, ripreso dal testo
originale di Hernandez de San Pedro e Tirante il bianco, adattamento toscano del Tirante Blanco di
Joanot Martorell.142
Come si sa forse di meno, il Manfredi fu anche il misconosciuto autore di due commedie erudite in
volgare, il Paraclitus la Philadelphia, la seconda delle quali, pur non essendo un capolavoro dell’arte
drammatica rinascimentale può vantare d’essere una delle prime erudite italiane giunte in Francia.
141
Ibidem : pp.79-80.
Diego Hernandez de San Pedro, Carcer damore…, (tr.it. Lelio Manfredi), Zorzi di Rusconi, Venezia, 1514.
Joanot Martorell, Tirante il Bianco valorosissimo caualiere nel quale contiensi del principio della caualeria…, Federico
Torresano, 1538.
342
142
Tale circostanza, per usare le parole di Leonardo Terrusi,143 assume un valore altamente significativo
se si tiene conto della determinante influenza esercitata sulla commedia rinascimentale francese
proprio dal modello del teatro “erudito” italiano.
L’arrivo della Philadelphia in Francia, e precisamente nelle mani di Francesco I si deve alle
rocambolesche, sfortunate ed incaute avventure che legarono la vita del cortigiano Manfredi alle
passioni letterarie delle corti ferrarese e mantovana nel periodo di massima fioritura dell’attività
teatrale di quelle due corti.
I dettagli delle vicende personali ed “artistiche” di Lelio Manfredi sono tutti contenuti in un
fascicolo di corrispondenze studiate più recentemente da Carmelo Zilli144 e Leonardo Terrusi, e
tratteggiano un’immagine del cortigiano tutto teso fra ribellioni violente a fatica contenute nei denti,
strategie di successo sociale e pirateria letteraria.
Condannato al sempiterno e frustrante ruolo del traduttore, Lelio Manfredi alimentò le sue velleità
letterarie pensando d’esser ammesso nell’Olimpo delle lettere cimentandosi in un genere, la
commedia “erudita”, che prometteva in quelle corti un facile accesso alla celebrità.
Non all’Olimpo accederà il nostro, ma ad un precario stato economico, che lo costrinse a mendicare
rimborsi alla corte per il recupero di “certi panni” in pegno in un’osteria ove aveva soggiornato per
recapitare le sue fatiche in uno sfortunato viaggio a Ferrara. Le sue creazioni originali furono
puntualmente ignorate dai Gonzaga suoi committenti, i quali non gli consentirono mai di uscire dal
perimetro del mero strumento linguistico o tramite per alimentare la moda ispanofila della corte
ferrarese.
La stesura delle due commedie si può collocare con argomentazioni convincenti nel tornante d’anni
compreso fra il 1515 ed il 1521145 e la dedica assai sbrigativa acclusa al codice nel quale la
Philadelphia fino al 2003 era custodita in copia unica, ci lascia intendere che la consegna della
commedia alla memoria di Francesco I, “re dei franchi”, fu l’esito del fallimento della strategia del
consenso cortigiano, strenuamente perseguito dal Manfredi. In parole povere, secondo una pratica
che gli è comune, (ed indice più di semplicità che d’astuzia) il nostro autore avrebbe “strappato” la
dedica originaria al Gonzaga, sostituendola con quella al più autorevole re di Francia.
143
L. TERRUSI, 2003 : p.14.
C. ZILLI, 1991. Sulle corrispondenze si veda anche S. KOLSKY, 2003. Il carteggio riguardante Manfredi è conservato
all’Archivio di Stato di Mantova: Arch. Gonzaga, Serie F.II.8, F.II.9 e E.XXXI.3.
145
L. TERRUSI, 2003 : p.18.
343
144
Ciò che qui interessa è la scelta del monarca francese: il disperato tentativo di fuga dalle logiche
stantìe del “cortigianato” italiano dello sprovveduto Manfredi, riposava sulla convinzione che il re di
Francia potesse accettare di buon grado un’opera del genere della Philadelphia. Il che, visto il
contenuto della commedia, è un dettaglio di non poco conto, in quanto – come la maggior parte
delle sue contemporanee – l’opera di Manfredi è chiara espressione della società della diplomazia e
della simulazione, che dietro la macchina incessante delle agnizioni e delle finzioni, nascondeva il
cielo livido delle delazioni, quasi in mimesi con le dinamiche di un mondo organizzato sull’interesse
particulare. I moventi dell’opera sono insomma paludati in quelli propri del contesto culturale del
genere, di cui formalmente l’autore esibisce pure una conoscenza consapevole.
Elemento decisivo […] per la comprensione di un’opera come la Philadelphia appare proprio la fitta
tramatura di modelli letterari classici e moderni cui essa continuamente allude e rimanda […]. Ciò che un
tempo sarebbe forse stato liquidato come segno di una colpevole assenza di originalità e, nella fattispecie,
come prova che anche l’attività propriamente creativa di Manfredi altro non fosse che una sorta di
prolungamento della sua principale attitudine, quella di traduttore, se non di pedestre raffazzonatore, di
opere altrui.
Oggi è certo possibile proporre un’interpretazione molto diversa di tale processo di «imitazione»
intravedendone la sua natura di consapevole gioco allusivo, rivolto ad un pubblico chiuso e perfettamente
consentaneo all’autore.146
Non sappiamo quando effettivamente l’opera fu inoltrata al re di Francia, ma può darsi che l’autore
potesse avere avuto notizia dell’edizione parigina di una versione in francese della sua traduzione del
Carcere d’amore messa in opera nel 1525 e subito ristampata nel 1526.147
Se la Philadelphia è espressione di una moda tutta italiana, “mosaico-centone” (ancora l’espressione è
rubata a Terruso) di pratiche ed abitudini che in Italia s’erano consolidate in meno d’un decennio,
nello spedire la sua opera a Francesco I Lelio Manfredi effettuava il trasferimento dell’immagine di
una corte sull’altra, autorizzato certamente dalle notizie della grande italianizzazione del sovrano e
dello scenario parigino.
Ancora un segno, un indizio appena accennato della direzione culturale intrapresa dalla reggenza
francese; ma appena un indizio, appunto, traccia che come tutte le altre viste in queste pagine
disegna un panorama talvolta lacunoso delle tendenze culturali francesi del periodo, ma che lascia
intravedere tutte le premesse di quel moto di rivoluzione della drammaturgia francese che avrà luogo
negli anni ‘60/’70 del secolo.
146
Ibidem : p.46.
Diego Fernandez de San Pedro, La Prison d’Amour, laquelle traicte de l’amour de Lerian et Lauréolle faict en espagnol
puis translaté en tusquan […],G. Dupré, Paris, 1525 .
344
147
3.2 – La strana vicenda delle tracce perdute dei comici italiani.
3.2.1 – Concorrenza sleale: farsa o passione?
Pierre Gringore è conosciuto più per la sua immagine romantica nel ruolo di comprimario di Notre
Dame de Paris di Victor Hugo o di protagonista della pièce del 1866 di Théodore de Banville, che
per la reale biografia, sulla quale gravano grandi lacune.
D’origine normanna, dovette nascere negli anni ’70 del XV secolo: le rade testimonianze sulla sua
vita, oltre ai dettagli che si possono ricavare dalla sua opera, sono una serie di ricevute di pagamento
emesse dalla municipalità parigina a saldo delle pubbliche rappresentazioni che egli organizzava con
Jehan Marchand nella città, in qualità di Mère Sotte, qualifica corrispondente ad un grado di
prestigio nelle nebulose confraternite della città (Bazoche, Enfants Sans-Soucy…).
La sua più antica opera a noi pervenuta risale al 1499 ed è le Chasteau de labour, poema allegorico
che si ricollegava al tema tradizionale delle “noie del matrimonio”: condotto da Châtiment un
giovanotto vi fa il suo pellegrinaggio al cospetto di vari personaggi allegorici, scoprendo la
sempiterna morale del sacrificio per ottenere la felicità.
Al 1500 rimontano le sue Lettres nouvelles de Milan, le Chasteau d’Amours e la Complainte de la Terre
Sainte. Le ricevute di pagamento per gli allestimenti cittadini iniziano a comparire dal 1501; Pierre
Gringore spartisce i compensi con il compagno artistico Jehan Marchand.
345
A novembre di quel 1501 i due, con la qualifica rispettivamente di compositeur e di charpentier de la
Grande Coignée, allestiscono un mistero allo Châtelet de Paris, per l’entrata di Filippo d’Austria;148
nel febbraio 1502 viene loro corrisposto un altro compenso per un mistero organizzato per George
D’Amboise;149 il 19 novembre del 1504 organizzano l’entrata di Anna di Bretagna, sempre per le
rappresentanze civiche150 e dopo un periodo di silenzio ecco ricomparire Gringore sempre come
artefice di spettacoli: nel 1512, nel dicembre del 1514, nel febbraio del 1515 ed il 12 maggio del
1517.151 Improvvisamente, però, nel 1518 Pierre Gringore compare alla corte di Lorena: con una
lettera datata 5 aprile il duca lo nomina «héraut d’armes» ed il poeta prende il nome di
Vaudemont.152 A partire da questo momento le notizie sul suo conto si diradano, fino a scomparire
del tutto: il 10 aprile del 1523 potrebbe essere il «Mère sote, fatiste» che sbarca a Valenza, per i
misteri di San Severino e nel 1527 fa una Vie monseigneur sainct Loys, roy de France par personnaiges,
ingaggiato da una confraternita parigina. E nel 1534 in questo inspiegabile esilio volontario da Parigi
altre rappresentazioni da lui firmate vengono organizzate per il duca di Lorena.153
Delle rappresentazioni organizzate da Pierre Gringore ci sono giunte diverse testimonianze, fra cui
un manoscritto dello stesso autore intitolato La reception et entrée de la illustrissime dame et princesse
Marie d’Anglaterre (fille de Hen. VII),154 ove Gringore si presenta spiegando di avere ricevuto il
compito di organizzare il ricevimento. La cronaca di Gringore elenca con dovizia di particolari ed in
stile letterario tutte le scene simboliche messe in atto per le strade della città ed è completata da belle
miniature:155 il libro è stato concepito per esser letto da sguardi reali, e la sua presenza in Inghilterra
può farci ipotizzare che fu proprio la regina a portarlo con sé nella terra natale, dopo la morte del
marito, occorsa a breve distanza dalle nozze.
148
SAUVAL, t.III, p.534.
Ibidem : p.333.
150
Ibidem : pp.534-537.
151
Jeu du prince de sotz a Parigi, il 25 febbraio 1512; nel 1514 ingaggio con Jehan Marchand per un mistero alla porta
dello Châtelet offerto a Maria d’Inghilterra; 15 febbraio 1515 allestimenti per l’entrata di Francesco I; 12 maggio ‘17 per
Claudia di Francia.
SAUVAL, t.III, pp.493, 534, 533, 537, 593-94, 596-97; GODEFROY, t.I, 737-46. L’intero corpo di documenti dell’evento
del febbraio del 1515 (e altri analoghi che si svolsero nel periodo 1499-1526) è in Reg. dél. Paris.
152
H. LÉPAGE, 1848 : p.250.
153
Ibidem : p.247. Il poeta morì probabilmente nel 1538.
154
Pierre Gringore, La reception et entrée de la illustrissime dame et princesse Marie d’Anglaterre (fille de Hen. VII) dan (sic)
la ville de Paris, le 6. novre 1514. Avec belle peintures, British Museum: Cottonian MS Vespasian B.II. (C. R. BASKERVILL,
1934).
155
Cfr. supra. L. GALLE e G. GUIGUE, 1899.
346
149
Dalle cronache di Gringore ricaviamo soprattutto il carattere medievale dell’entrata: ad esempio alla
porta St. Denis una nave simboleggia il complesso civile della città, adottando la medesima retorica
di quella stazione per l’ingresso di Enrico VI nel 1431 e di Luigi XI, nel 1461.
In Gringore la moderna allegoria pagana si presenta incerta, legata ad una prospettiva scolastica e
gallica: le sue immagini non sono paragonabili alla forza rigorosa e leggera dell’allegoria
rinascimentale italiana (prendiamo il Salone dei Mesi di palazzo Schifanoia). Nella sua produzione
anche le intuizioni più precoci in direzione della simbologia pagano – si veda l’ortus conclusus con
pastori per le rappresentazioni allo Châtelet del 1501 – si risolvono in allegorie parlanti sul modello
della moralità per una dimensione ancora schiettamente municipale.156
Pensiamo a titolo di esempio alla festa del 1504, in cui un cuore (della città di Parigi) è sorretto da
tre figure allegoriche: Justice, Clergé, Commun, accompagnate da Honneur e Loyauté. Nel 1514 la
stessa idea è ripresa ma il cuore è del re ed è retto dal palmo della mano divina. La stessa Claudia, nel
1517, ha diritto al suo cuore, aperto dalle figure di Amore Divino, Amore Naturale e Amore
Coniugale. Lo sviluppo delle allegorie gringoriane è ancora ascrivibile al “medioevo fantastico”, di
cui il poeta è pienamente partecipe.
Besides groups of allegorical figures at the Porte S. Denis which included both private and political virtues,
and a group called the daughters of Justice at the Chatelet, there was in the final pageant an elaborate scene
– unusual in its approach to dramatic dialogue – presenting the ideal king in the person of Saint Louis, the
subject of Gringore’s chief work. In this scene Saint Louis received and accepted advice from his mother
and from Justice in regard to sapience and just judging, and then administered justice to three suppliants.
In the second pageant France was symbolized by a garden of flowers, chiefly lilies, cared for by the queen
with the help of the king and God. In the third “le peuple francoys” rested under a lily in a “clos de repos,”
attended by Concord and Union, while above sat a king called Libéralité, accompanied by Bon Conseil,
Bon Vouloir, Connaissance and Prudence.157
Nel 1525 viene pubblicato in Parigi il testo de les Heures de nostre Dame158 curato dal nostro poeta; è
un libro di lusso con privilegio del 1524, stampato in caratteri gotici ed ornato di rubriche e di
dodici grandi incisioni. Il legno stampato sul foglio 66 sollecitò l’attenzione di Emile Picot per via
dell’originalità iconografica della scena di passione che vi è raffigurata; e nel 1878 lo studioso fece
stampare un opuscolo159 in cui tratteggiava un’ipotesi affascinante sul contenuto dell’incisione, cui si
156
La cronaca di questo evento è stata attribuita ad André de la Vigne ed è riportata in H. STEIN, 1902.
C. R. BASKERVILL, 1934 : p.XXX.
158
Pierre Gringore, les Heures de nostre dame…, J. Petit, Paris, 1525.
159
E. PICOT, 1878.
157
347
riprometteva di indirizzare in seguito un’opera di ampio respiro su Pierre Gringore et les comédiens
italiens.
L’incisione rappresenta una scena di passione, ma salta subito all’occhio l’inconsueto programma
iconografico: al centro, le mani legate, ed in procinto di essere incoronato di spine, campeggia Cristo
in abiti professorali, con bonnet carré e veste lunga, così come era l’iconologia del poeta, o più
genericamente del letterato o del dottore in legge sul finire del XVI secolo. Ai lati si affollano invece
diversi personaggi di impronta grottesca, che secondo l’ipotesi dello studioso francese sarebbero
alcuni commedianti professionisti italiani.
Nella suggestiva lettura iconografica di Emile Picot l’uomo che porge la corona di spine in alto a
sinistra, sarebbe Pulcinella o Gianduja; mentre a destra, il personaggio con il lungo cappello
potrebbe essere un Graziano o un Pancrazio ed il cristo martoriato dovrebbe corrispondere allo stesso
poeta. Se l’identificazione fosse giusta, proseguiva lo studioso, si potrebbe ipotizzare un contatto di
Pierre Gringore con i “comici dell’arte”, a partire almeno dal 1517, anno in cui lo scrittore ed attore
francese lasciò le scene e la vita pubblica parigina per approdare alla corte di Lorena. La passione
sarebbe un’allegoria della competizione commerciale con i parvenu italiani, che invasero il mercato
spettacolare monopolizzato dalla coppia Marchand-Gringore, competizione cui si dovrebbe dunque
la drastica decisione di lasciare Parigi, ove allora Pierre Gringore ricopriva il prestigioso ruolo di
Mère Sotte.
La gravure scioglierebbe il mistero che circonda l’abbandono delle scene da parte del poeta in un
momento di successo ed ingaggi e – fatto ancor più straordinario – dimostrerebbe l’insediamento
commerciale di maestranze teatrali tale già da scalzare i tradizionali appaltatori delle rappresentazioni
civiche in Parigi fin dal secondo decennio del XVI secolo.
A prima conferma di questa ipotesi pensiamo al manoscritto del ’14 sopra segnalato. Perché
Gringore sentì l’esigenza solo in quel momento, (e cioè dopo circa tre lustri dalla sua comparsa come
poeta per le scene) di realizzare un resoconto della sua attività?
Potrebbe egli aver voluto rendere nota alla committenza reale la qualità del suo operato.
L’introduzione del manoscritto conforta questa idea: fra i motivi della realizzazione del bel codice
londinese si legge d’altronde una accorata difesa dalle maldicenze.
348
Figura 3. Legno dell'esemplare TOLBIAC B-2913
349
Que soubz telz gens la verite se celle. | Cuidant sauoir la pensee de lacteur. | Qui de ce cas a este inuenteur. | Et
ont voullu si noble entree extraire. | Non pas au vray mais du tout au contraire. | Par quoy ie en vueil faire
narration. | […] | Comme verras par ditz et vraye histoire.160
E ancora, le allegorie classiche cominceranno ad entrare nelle raffigurazioni di Gringore solo a partire
dal 1515.161 Dobbiamo leggere in questo dettaglio un tentativo di adeguarsi ai nuovi gusti
classicheggianti?
L’intuizione di Emile Picot è sospesa fra l’esattezza e l’esagerazione critica: da una parte rivela infatti
un fondo di verità, dall’altra è necessario correggere il tiro del critico francese, che non rimaneva
estraneo al fascino che alcune maschere italiane suscitavano ancora sulla cultura otto-novecentesca.
Cominciamo con l’escludere senza troppe esitazioni che il personaggio con la corona di spine in
mano possa essere Gianduja, maschera che oggi sappiamo relativamente recente, avendo visto la luce
solo nella Commedia dell’Arte del XIX secolo. Gianduja è infatti originario del piemontese e la sua
creazione risale al primo decennio dell’Ottocento per mano del burattinaio Giovan Battista Sales che
aveva bisogno di un sostituto per il suo Gerolamo. Il nome di questo bifolco chiacchierone pare
venga dalla qualificazione di bevitore, ovvero, “Gioan d'la douja”, Giovanni del boccale, oppure dal
francese “Jean Andouille” con allusione all’appetito pantagruelico del suo prototipo contadinesco.
Sebbene di nazionalità piemontese, (ciò che, assieme all’origine del nome, con ogni evidenza dovette
indurre Picot a forzare la mano nell’accennare a questa maschera) e quindi di area francofona,
Gianduja non corrisponde né al contesto né all’iconografia del soggetto dell’incisione, la maschera
originale essendo caratterizzata da abiti di foggia settecentesca con tricorno, codino, farsetto e calze
rosse. Nel corso del 1800 il personaggio divenne particolarmente famoso (nel teatro di prosa fu
perfezionato dal celebre Giovanni Toselli della Reale Sarda) ed è forse a causa della sua notorietà che
all’epoca Picot – nel delineare l’ipotesi sulla gravure – dovette averlo ben presente.
La nostra figura può corrispondere però ad un prototipo di Pulcinella, nella derivazione dal Maccus
di origine atellana; del resto la maschera del meridione italiano era ipergenerica ed affondava le sue
radici fin nel XIV secolo ove però, a differenza di quella incisa nelle Heures, si caratterizzava più
160
Pierre Gringore, op.cit., 1514 : f.I-v., in C. R. BASKERVILL, 1934 : p.XVII.
C. BROWN, 2007 (contiene anche alcune miniature del manoscritto).
161
A. BONNARDOT, 1885, (le Châtelet en belle humeur : p.119 e sgg.) ove si segnala la collezione stampe Fontette per la
presenza di una tavola che ricorda una rappresentazione allo Châtelet del 1515, firmata da Gringore e rappresentante il
mito di Cadmo Bellerofonte. Nel 1517 Gringore realizzava allegorie basate sulle storie di Semiramide, Coriolano,
Tantalo.
350
frequentemente per le somiglianze “ornitologiche”: la voce stridula, il naso ed il volto a ricordare un
becco, particolarmente per i Pulcinella collegati alla genealogia dell’atellano Kikirrus, che furono
quelli più importanti per la formazione del prototipo moderno, nasuto, gracchiante, vestito in
bianco con maschera demoniaca nera.
Fra il Pulcinella-maccus ed il Pulcinella-kikirrus la caratteristica comune è certamente il camicione
bianco ed il cappello (il tutulus latino che si allungherà nel corso del ‘500, pur ricomparendo a volte
con le sembianze originali162), ed è proprio questo cappello enorme la loro caratteristica più
importante, come si può vedere nella più antica illustrazione pulcinellesca, il ritratto di Paoluccio
della Cerra, dovuto a Ludovico Carracci e risalente alla seconda metà del Cinquecento, in cui il
personaggio compariva senza maschera ma non privo del caratteristico berretto. Il cappello è di fatto
l’unico minimo comun denominatore della maschera in tutte le sue numerosissime declinazioni nel
tempo e nello spazio; in prospettiva cronologica la presenza di questo inconfondibile copricapo
(allungato ed appiattito sulla sommità) nella gravure ci pare sia un fatto interessante, in quanto lo
stereotipo sarà messo “nero su bianco” solo più tardi da Silvio Fiorillo, ne la Lucilla costante, scritta
nel 1609 e pubblicata postuma nel 1632.
La circolazione di Pulcinella come personaggio fisso risale almeno all’attore napoletano Andrea
Calcese, maestro di Fiorillo, ma è più difficile distinguere fra Pulcinella e maschere “pulcinellesche”
analoghe nate in tutta Europa sul solco del modello tardo latino: le forme esteriori della maschera
italiana dovevano essersi comunque precisate già dalla prima metà del XVI secolo, ciò che rende
plausibile la nostra ipotesi. Sebbene non sia possibile verificare direttamente l’abbigliamento del
personaggio dell’incisione (in ultimo piano rispetto agli altri) il braccio in maniche di camicia
sembrerebbe compatibile con la veste del Pulcinella-maccus. Sempre sul merito del cappello
segnaliamo anche che in una celebre raccolta dedicata alle scene della commedia italiana, i
personaggi del Tombeau de Maitre André, (rispetto alla gravure meglio tratteggiati nei costumi),
calzano quasi tutti un lungo e ridicolo cappello, non dissimile dai due delle Heures.163
162
Pensiamo ad esempio alla celebre stampa del 1650 degli incisori Bonnart, “Polichinelle”, ora custodita al museo
Carnavalet della storia di Parigi.
163
C. GILLOT, s.d.
351
D’altronde
l’universalità
della
declinazione
meridionale del prototipo fece ovunque il
successo della maschera ed in Francia si innestò
facilmente sulle figure dello stolto e del fanfarone
che i numerosi ritratti teatrali d’estourdis avevano
riesumato dalla tradizione latina e poi medievale,
a conferma ancora del processo di passaggio del
testimone
che
stiamo
individuando
come
caratteristico del trasferimento in Francia delle
forme teatrali italianizzate moderne.
In basso a destra abbiamo quello che sembrerebbe
un “gruppo familiare”, unità fondamentale della
maggior parte delle azioni narrative della
commedia, poiché in esso si intrecciano le
relazioni base ed il motore dell’azione, e cioè
l’intrigo d’amore. Molto più tardi il gruppo
familiare raggiungerà la sua estensione completa
nella Compagnia dei Gelosi, sintesi della
primordiale
Figura 4. Le Tombeau de Maistre André.
esperienza
dell’arte,
la
cui
configurazione rispondeva al meglio al canovaccio
tipico della commedia, improntato alla tradizione erudita: due vecchi (Pantalone e Graziano), due
coppie d'innamorati, e due zanni (Pedrolino, primo zanni e Arlecchino, secondo zanni); fra le parti
“mobili” si potevano trovare il Capitan Spavento e la Serva (in seguito Colombina). Pur essendo un
modello di compagnia posteriore al nostro periodo di indagine, la composizione della troupe di
Andreini è ispirata a forme sceniche antiche ed è straordinario come il gruppo di personaggi sulla
destra sembri ricalcare questo modello, con tre uomini (un vecchio, un personaggio in età matura ed
un giovane) ed una donna.
Nella tipizzazione italiana, i vecchi si associano alla maschera generica del Dottore in legge o in
medicina: l’esasperazione dell’incompetenza, la pedanteria, l’intransigenza, sono i loro tratti basilari e
le confraternite goliardiche francesi apprezzavano questo personaggio la cui forma rispondeva
efficientemente allo spirito polemico studentesco. Il modello italiano del Dottore era vestito alla
352
maniera accademica bolognese: una veste nera fino alle ginocchia copriva la tunica, lunga invece fino
ai piedi.
Le nostre due figure maschili della gravure (la prima e la seconda a destra rispetto il personaggio
centrale) sembrano essere il frutto di un’ibridazione fra i due tipi specifici del dottore, Pantalone e
Graziano; i tratti essenziali del primo sono la calzamaglia, il mantello, il capello di lana, l’età matura
ma non avanzata; quelli del secondo sono invece l’età avanzata, la tunica, il bastone e sovente la
barba.
Effettivamente Picot individua nella figura sulla destra con cappello allungato «un Graziano o
Pancrazio»: bisogna ammetterlo, l’ipotesi non è peregrina, sebbene il mantello (che cela appena una
calzamaglia) e l’età matura (più che avanzata) ci ricordino piuttosto un Pantalone sempre provvisto –
fin dai tempi del suo antenato, il Magnifico – di lunga zimarra. Anche nel personaggio più avanti
possiamo notare una contaminazione fra le due maschere: da una parte il bastone e la tunica ad
indicare Graziano, dall’altra la barba ed il cappello “pantaloneschi”; il morbido berretto basso in lana
è qui completato dalla pallina di feltro sulla punta, segno specifico, addirittura, della maschera: i
tratti che contrastano con quelli originali di Pancrazio sono invece la tunica, il bastone e l’età forse
troppo senile.
È importante notare come il personaggio di Pantalone sia uno di quelli che otterranno un precoce
successo in Francia: cittadino di Venezia, era entrato sicuramente in contatto con le truppe francesi e
poteva essere un tipo di cui anche il pubblico francese conservava il riflesso leggendario del nome,
che deriverebbe dal soprannome «Pianta il Leone», con riferimento ironico alla conquista della terra
ferma da parte dei Veneziani, che sui territori di conquista erano usi piantare stendardi col leone
della repubblica di S. Marco.
Elemento secondo noi probante sull’identità fra questi ruoli italiani ed i due personaggi dell’incisione
è anche la presenza dei due adulti accanto alla fanciulla ed il giovane, cui sempre sono abbinati nella
trama della commedia erudita e poi dell’Arte.
La donna o fanciulla seduta in primo piano ha abiti aristocratici e lussuosi: la condizione nobile è
confermata dalla corona (una allusione alla pia Claudia di Francia?), mentre sappiamo che la
maschera dell’Amorosa (in seguito più tipicamente nella Commedia dell’Arte, “Isabella”) è
normalmente una giovane fatua vestita alla moda, in foggia aristocratica, ma sprovvista di espliciti
attributi di nobiltà. Il terzo uomo sullo sfondo sembra invece ricordare un Lelio amoroso, lo sguardo
353
in una smorfia astuta ed il berretto possono genericamente essere ricondotti al tipo del giovanotto
che agisce con scaltrezza per ottenere la donna della quale è invaghito.
Ma passiamo ora al gruppo a sinistra dell’incisione, più esplicitamente deforme, grottesco.
La figura che scorgiamo per intero sulla sinistra, la meglio visibile e caratterizzata dopo quella
centrale, ha un pugnale alla cintola che ne segnala la professione militare; il costume ed il corpetto
hanno tutta l’aria di corrispondere alle divise dei lanzichenecchi.
E non può allora non venire alla mente uno dei prototipi di maggiore successo drammaturgico in
Europa e più esatta corrispondenza trasversale fra le letterature di lingua romanza, il soldato
fanfarone, la cui origine più diretta è il miles gloriosus di memoria latina, che aveva avuto uno
sviluppo importante specialmente nelle letterature francofone, con la lunga schiera satirica dei francsarchers, riflessi di una professione militare alla deriva urbana. Possiamo insomma riconoscere con una
certa precisione la “parte in commedia” del figurino; che probabilmente, viste le date di uscita di
queste Heures fa riferimento preciso alla contemporaneità più stringente – caso non raro nella
produzione di Gringore – che confermerebbe la lettura dell’incisione nella chiave storico-allegorica di
urgenza d’attualità, suggerita dall’interpretazione generale della stampa di Emile Picot.
Qui l’esplicita allusione agli accadimenti politici contemporanei alla tiratura delle Heures è
confermata da alcuni documenti della municipalità di Parigi, contenuti nella raccolta di Felibien, e
risalenti all’estate del 1525, durante la cattività spagnola di Francesco I.164
Si tratta di decreti del parlamento e provvedimenti speciali presi per placare gli animi delle truppe
mercenarie italiane e lanzichenecche, che nella capitale francese attendevano di essere pagate da
Claudia di Francia, sfogando i propri istinti predatorî sulla popolazione.
Storie di cappa e spada, anzi di polvere da sparo e flottiglie nel centro di Parigi: mentre una banda di
una cinquantina di giovani archibugieri seminava il terrore ad un passo dall’Île-de-la-Cité,165 alla
164
Troviamo in FELIBIEN: 14 juin. Recherche des avanturiers. II, 665, a ; 19 juin. Bandes Italiennes aux environs de Paris.
II, 666, a ; 21 juin ; Les Avanturiers François se joignent aux bandes Italiennes pour desoler le pays. II, 666, b ; 23 juin.
Expedition contre les bandes Italiennes. II, 666, b ; 23 juin. Le comte de Braine agréé pour lieutenant du comte de S. Paul à
Paris. II, 668, a ; 23 juin. Pontoise menacé par les bandes Italiennes, demande du secours à Paris. II, 669, a ; 24 juillet.
Députés de Lansquenets défrayés à Paris. II, 670, a ; 26 juillet. Députation des Lansquenets au parlement. II, 670, b ; 26
juillet. Les Lansquenets ravagent les environs de Paris. II, 670, b ; 27 juillet. Le comte de S. Paul va trouver les Lansquenets.
II, 671, a ; 27 juillet. Les Lansquenets se logent à l’abbaye de Chelles. II, 671, a. Tutti gli atti ufficiali qui sopra raccontano
dell’estate calda di Parigi, nel 1525. Le truppe italiane nei pressi della città, unite a vari avventurieri di origine francese
causano problemi di ordine pubblico, con violenze e saccheggi ovunque, fino ai faubourg.
165
È denunciato il furto di dieci battelli sulla Senna, “auprès des Celestins”, da parte degli ultimi superstiti della banda,
all’epoca del verbale quasi per intero uccisa o morta in azioni criminose. Con piccoli battelli dal centro del fiume i
giovani sparavano sugli argini contro i testimoni: alcuni ritenevano che i membri della banda facessero i turni per
dormire, in modo da tenere il gruppo sempre attivo e di effettuare assalti quotidiani alla città di Parigi.
354
periferia sud-est della città le truppe ingaggiate dalla corona attendevano i salari e si arrogavano il
diritto di riscuoterli dalla popolazione.
I militari italiani avevano ottenuto da Claudia di Francia di restare nella periferia di Parigi, a carico
delle popolazione. Sebbene «Ambrois de Ville, chevalier prevost du comte de Bellejoyeuse, capitaine
general des bandes Italiennes» non lasciasse intendere nella sua relazione che la situazione fosse
davvero degenerata, apprendiamo dai provvedimenti del parlamento che la soldataglia attaccava la
popolazione, estorcendo e stuprando. La situazione fu risolta con il pugno di ferro, e solo
limitatamente ai faubourg, dopo numerosi tentativi di trattativa ed il pagamento, infine, delle truppe;
ma i villaggi limitrofi – le attuali banlieue metropolitane – rimasero sotto pressione con il
sopraggiungere di alcuni battaglioni di mercenari lanzichenecchi di stanza a Montreuil.
Gringore non è nuovo alla politica ed apre spesso le sue opere alla contemporaneità: non è
irragionevole pensare che la stampa raffigurasse proprio uno di questi mercenari che fecero le pagine
più significative della storia cittadina di quegli anni. Se consideriamo come le troupe di commedianti
fossero legate all’immaginario bellico e militaresco, poi, non è errato pensare al personaggio della
gravure come ad un ulteriore comico sulla scena, ipotesi avvalorata anche dalla posizione dell’uomo,
che analizzeremo più avanti nel confronto con i repertori gestuali.
Appena sopra vediamo una vecchia stringere una verga; i suoi tratti e la postura sono
straordinariamente somiglianti alla figura di furia conservata al museo dell’opera di Parigi e realizzata
nel 1654 per l’allestimento del Ballet royal des noces de Pélée et de Thétis e che ricorre anche nella
produzione torelliana. Le due testimonianze secentesche, sebbene poco rilevanti ai fini del nostro
studio, confermano l’appartenenza dell’incisione ad un’area semantica teatrale.
Allo stesso modo i dadi in basso a sinistra, posati sulla veste di un Gesù professore, portano la
memoria alle raffigurazione vernacolari della Passione, secondo una precisa tradizione grottesca legata
alle rappresentazioni dei misteri, che ponevano particolare accento sull’episodio narrato nei
Vangeli166 (quando appunto le vesti del Redentore vengono scommesse ai dadi): è certamente
superfluo accennare al valore mimetico del contrasto di registri, particolarmente sviluppato a partire
dagli episodi della passione del Cristo.167 Nelle tavole iconologiche di Aby Warburg fra le scene della
FELIBIEN, II, 664, a. : 10 juin 1525. Le guet battu par les mauvais garçons.
166
«E, dopo averlo crocifisso, spartirono le sue vesti, tirandole a sorte, per sapere che cosa toccasse a ciascuno.»
Marco 15, 24 – Nuova Diodati.
167
E. AUERBACH, 1946.
355
Passione si dà risalto all’immagine degli aguzzini che giocano la veste, particolarmente teatrale, fra
quelle cui più sovente corrispondono infiltrazioni grottesche nel linguaggio sacro.
Il martello tenuto in mano dal personaggio in secondo piano rispetto al lanzichenecco sembra
alludere al mestiere di maniscalco, essenziale nella preparazione delle entrate reali e nell’allestimento
dei catafalchi che ospitavano le scene offerte nel corso delle processioni festive e degli ingressi.
Nell’iconologia abituale della Passione il martello ricorre spesso, specie nel medioevo, cui si associano
i tre chiodi “a mazzo”: i due oggetti dovrebbero essere impugnati dallo stesso personaggio, ma qui,
anche effettuando un confronto con la stampa contenuta nell’esemplare di Vienna (tiratura di cui
parleremo più avanti), sembrerebbe proprio che i chiodi siano stretti dalla mano sinistra del
personaggio in terzo piano, quasi del tutto nascosto dagli altri, mentre il nostro maniscalco
impugnerebbe con la destra solo il martello.
Comunque stiano le cose abbiamo visto come in questi anni le maestranze italiane intervengano
massicciamente nella preparazione degli avvenimenti solenni festeggiati in Parigi, ed in particolare si
è accennato all’attività di Pietro da Cortona ed alla presenza di tale «Francisque de Campobasso»
nella direzione di diverse parate parigine del periodo. La figura si può collegare forse alle congreghe
dei mestieri, fino a quel momento responsabili degli allestimenti pubblici e per la prima volta
sorprese da esperti concorrenti italiani, che turbavano la realtà corporativa parigina e che erano giunti
in Francia in corrispondenza con quella “risacca d’uomini” che fu la prima guerra d’Italia.
Sotto quest’ottica se pure può sembrare imprudente parlare di Comici dell’Arte, non va esclusa la
possibilità che queste figure rappresentassero dei professionisti dello spettacolo ancora legati a vario
titolo alle maestranze ed alle arti, come il Cortona, appunto, specialista di “chasteaulx” effimeri e
maniscalco.
Più tardi sappiamo per certo che gli italiani ottennero gli appalti della città di Parigi per le pubbliche
rappresentazioni: nel 1530 le ingerenze italiane si erano tanto estese che un attore come Jehan du
Pont, a lungo sulla vetta della scena parigina, dovette riconoscere ad un tale «maistre André, italien»
l’autorità di ordinare le rappresentazioni.168
168
Du Pont-Alais ha una esistenza travagliata e rissosa, non dissimile dal mito di genio e sregolatezza che sarà il tratto
dominante dei comici dell’arte. Accenni satirici contro la corte gli costeranno il carcere: fu recluso assieme ai suoi
compagni di lavoro – Jacques le Bazochien e Jehan Serre – nel mese di dicembre del 1516.
L. LALANNE, 1854 : p.44 e APF : t.XI, p.250.
Nel 1524 lo troviamo offrire pubbliche rappresentazioni a Nancy H. LÉPAGE, 1848 : p.263.
Di ritorno a Parigi viene ancora imprigionato fra il 1529 ed 1530; ma entra nelle grazie di Francesco I fino al 1533. Nel
1534 un compenso di 225 lire per alcune rappresentazioni è l’ultima notizia sul suo conto.
356
Sono alcuni estratti dei registri dell’Hôtel-de-Ville a testimoniare l’atto obbligato di sottomissione
dell’attore francese. È in corso l’allestimento dell’entrata di Eleonora D’Austria a Parigi, siamo al 12
dicembre dell’anno 1530.
Ont esté mandé au dit bureau, par mondit sieur le gouverneur, maistre Jehan du Pont Alaix et maistre André,
Italien, estans au service du Roy, ausquels mondit sieur le governeur a enjoint faire et composer farces et
moralitez les plus exquises et le plus brief que faire se pourra pour resjouir le Roy et la Reyne a l’entrée de
ladite dame ; lesquels ont promis ce faire et, outre, ledit Du Pont Alaix a dit qu’il veut estre sujet audit
maistre André et luy obeir.169
Il dominio delle maestranze italiane si estende alle scenografie: nel cerimoniale di Godefroy, e nei
registri dell’Hotel-de-Ville, alla data 5 dicembre 1530 leggiamo ancora della presenza di un tale
«messire Mathée» con «ses compagnons», intenti a preparare i bozzetti di preparazione per le
sontuose rappresentazioni trionfali che si tenevano alla porta di St. Denis.
Les Italiens, c’est à sçavoir Messire Mathée et ses compagnons ont ce jourd’huy apporté au boureau, auquel
e[s]toit la compagnie dessus dite assemblée, des pourtraits en papier pour les inventions des mystéres qu’ils
seroient d’avis estre faits à l’entrée de la reyne Eleonor es lieux ausquels la ville est tenue les faire ; c’est à
sçavoir à la porte de Sainct Denys, au Ponceau et à la porte de aux Peintres, lesquels pourtraits ont esté veus
par mesdits sieurs assemblez ; et leur a esté demandé quel prix ils voudroient avoir pour faire lesdits mystéres
esdits lieux ; lesquels pour re[s]ponse que, en les fournissant de bois, ils voudroient avoir quatre-mil livres
tournois, ou que on leur donnast quatre cens escus pour eux quatre et un payeur et controlleur, et ils
mettroient volontiers ordre a l’execution desdits mystéres, lesquels pour re[s]ponse ont esté remis a la venue
de mondit sieur le gouverneur de Paris.170
Emile Picot sosteneva appunto nelle linee guida del suo saggio, che l’arresto improvviso nel 1517
dell’attività teatrale di Gringore fosse dovuto proprio al sopraggiungere di una concorrenza
professionale italiana in Parigi già a partire da quell’epoca. La cronaca del Rincio e quelle delle altre
parate sono una conferma in questo senso: al mutare delle mode cambia anche il vento per le
maestranze francesi, forse meno reputate di quelle italiane.
La scena della “tavola grottesca” delle Heures de nostre Dame si trasforma così da passione ad allegoria
della morte professionale del celebre Mère Sotte e del mondo stesso delle rappresentazioni
nell’ambito della confraternita di Bazoche.
Diventa la prima avvisaglia della fine incipiente d’una gloriosa stagione, quella delle farse, che –
ancora legate alla tradizione corporativa e municipale francese – avevano preparato un humus fertile,
ARCH. CURIEUSES s.I, t.III, pp.77-100 : p.89, (Extrait des comptes de dépenses de François Ier).
169
GODEFROY, t.I : p.787.
170
Ibidem : p.783.
357
un certo “gusto” del pubblico particolarmente adatto a recepire e far fiorire in seguito la commedia
italiana professionale, ma che non erano destinate a sparire del tutto trovando una ricollocazione
“semantica” nel linguaggio stesso della prima commedia francese.
I versi che accompagnano la stampa avvalorano questa teoria dell’apoteosi e morte del farceur.
En me prestant, sire Dieu, tes oreilles, | Veulles entendre a ma plainte et clameur, | Car tu sais bien, o facteur
des merveilles, | Comme je suis en grand doubte et tremeur. || Les mal vueillans, gens rempliz de injustices, |
Seront de toy arriére deboutez, | Ne a te veoir n’auront point leurs delices, | Mais au tourment d’Enfer seront
boutez. || Mon seigneur Dieu, plaise a toy me conduire | A cheminer justement en ta loy ; | Mes ennemis
tachent a me seduire ; | Monstre toy dont mon regent et mon roy. || Car a telz gens, plains de malignitez, |
Amour n’y est, ne confidence ou grace, | Et en leur bouche il n’y a verite : | Leur cœur est vain et rempli de
falace. || De leur gosier il ne sort que laidure | Et faulx blason, tout ainsy promptement | Que d’un sepulchre
infect et plain d’ordure, | Pour ce, mon Dieu, fais en ton jugement.171
Notiamo subito come la lamentazione sia contro alcuni «vueillans», genti che con ogni evidenza
provengono da lontano o comunque fuori dal contesto parigino; Gringore non sembra esposto
soltanto alle maldicenze, ma anche alla tentazione, come se il potere affabulatorio di costoro possa
indurre ad una deviazione dalla retta via, giacché nella loro verbosità non sta né «amour» né «verite»,
ma solo menzogne e «faulx blason».
Possiamo forse collegare queste affermazioni di Gringore con la paganizzazione delle simbologie
spettacolari francesi? Forse che Gringore, “faiseur de mysteres” non condivide l’estetica
paganeggiante, moderna, di questi nuovi artigiani da spettacolo?
Il passaggio ricorda inoltre Inferno XXI – XXII, due canti danteschi collegati alla tradizione popolare
e farsesca in cui l’invito alla conoscenza indirizzato al lector segnala il valore di “ermeneutica della
realtà” del capolavoro dantesco, a rivendicare il senso non univocamente fantasioso – farsesco,
diremmo – della Comedia. Il collegamento con la tradizione folklorica francese è posto da Dante a
segnare la demarcazione fortemente comica dei due canti, ricchi dei riflessi della professione del
barattiere, cioè di colui che affabula le masse con falsi sermoni. L’episodio libera le tensioni imposte
dallo stile alto e sovverte la morale in trasgressione adottando il registro basso dei ludi carnascialeschi,
la cui finalità era appunto la liberazione anarchica e folle circoscritta all’evento festivo. V’è poi nei
due canti danteschi un collegamento morfologico e stilistico con la tradizione delle diableries
transalpine che evidenzia ancor di più il riferimento al genere comico teatrale, alla tradizione comica
popolare, cioè anti-cortese e realistica, propria del comico letterario: sono note, del resto, le
171
Pierre Gringore, op.cit., 1525 : ff.66r-v.
358
importanti relazioni che intercorrono fra Dante e la letteratura transalpina, specie per lo sviluppo
della figura del Falsembiante e per il legame con la tradizione trobadorica e giullaresca a nord delle
Alpi.
Quello che più conta è come nei due canti Dante sottolinei la differenza sul piano retorico e
dirremmo «ermeneutico» fra la commedia letteraria e quella dei barattieri di strada, le cui bocche
sono piene di imposture, comandate dal denaro e dunque lontane dalla verità. E si noti come
Gringore appartenesse ad una confraternita, certamente pagato anche lui (restano le ricevute), ma in
qualche modo disinteressato, in quanto bazochien, “organo” del corpo municipale. Analogamente a
quanto intendiamo da Gringore ascoltiamo Dante: «ogn’ uom v’è barattier, fuor che Bonturo; | del
no, per li denar, vi si fa ita.»172
Il giullare è un ribaldo, imbonitore di folle che vende i suoi prodotti letterari come mercanzie. Il
comico di strada ed il venditore smerciano parole; sono soggetti alla legge della domanda e
dell’offerta, ciò che fa la differenza sostanziale fra essi e Dante. Il barattiere è «uno showman,
giocoliere o prestigiatore della parola, capace di far apparire come vera e naturale una realtà che
invece è falsa ed artificiale».173 Il bersaglio dei canti è insomma chi fa dell’impostura ideologica e
poetica il suo marchio di appartenenza.
La stessa onomastica dei canti richiama la tecnica scenica, farsesca, dei loro tratti caratteriali, e
l’espediente del “nome parlante” è uno dei principali segni distintivi delle forme comiche francesi
delle origini e della commedia tout court: per formularli Dante ricorre proprio al vasto repertorio di
nomignoli della tradizione giullaresca francese.
Nel campo della poesia comica oitanica il più famoso di questi nomi è “Alichino”. A proposito del quale i
commentatori hanno opportunamente richiamato la “mesnie Hellequin” (si tratta di un tema narrativo
diffusissimo; lo troviamo ricordato anche nel Jeu de la feuillée di Adam de la Halle), compagine diabolica
guidata appunto da Hellequin (da cui discende la maschera di Arlecchino)174.
Anche i nomi di Libicocco e Ciriatto possono essere ricondotti, sebbene indirettamente, allo stesso ambito
culturale. A proposito del primo già Spitzer ha proposto acutamente un avvicinamento con il frutto
dell’albicocca, che in francese troviamo impiegato per indicare metaforicamente il sesso femminile, e quindi
una persona sciocca. Per il secondo rimane invece accertata la derivazione da ciro, “maiale”: e va pertanto
accostato, come processo formativo e semantico, a Porcelet, anch’esso nome giocoso del sesso femminile
(“pour ce qu’il ne puet estre nez”) nel fabliau dello stesso titolo. (MR, IV, 144) 175
172
Inferno XXI, 41-42.
Questa e la precedente: M .PICONE, 1989 : p.16.
174
G. FAVATI, 1965.
175
M .PICONE, 1989 : p.26.
173
359
Un fatto che raccorda i versi in calce alla gravure ad un universo semantico comune almeno a quello
dei canti danteschi. Come Dante, anche Gringore si scaglia contro genti la cui colpa è nella parola,
nella bocca colma di imposture al punto da far loro meritare d’essere “boutez” all’inferno.
Là giù ‘l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.176
I rimandi alla tradizione farsesca ed agli accadimenti contemporanei avvalorano l’appartenenza della
scena di passione delle Heures ad un contesto drammatico. La prospettiva di Picot, inoltre, con i
dovuti aggiustamenti trova anche dei riscontri documentari e cronologici nelle nuove tendenze
sceniche e festive della corte francese. Diventa così plausibile pensare ad una decisiva influenza della
cultura scenica italiana su quella francese almeno dai primi anni del ‘500, in ragione anche di un
naturale periodo di conquista del difficile mercato dello spettacolo parigino, allora spartito fra le
confraternite cittadine, ampiamente impegnate nelle forme della rappresentazione profana
medievale.
3.2.2 – Ipotesi bibliografica per una vicenda di censura.
Secondo Emile Picot177 le Heures de Notre Dame, uscirono nel 1525: le copie della prima edizione
esaurirono quasi subito dopo la pubblicazione ed una nuova richiesta di privilegio fu inoltrata per
produrre una seconda tiratura. In aria di Riforma però il parlamento – secondo lo studioso proprio a
causa della libera raffigurazione della passione al foglio 66 – sollevò alcune perplessità sul contenuto
dell’opera ed il teologo sorboniano Guillaume Duchesne fu interpellato per valutare la liceità della
pubblicazione. La facoltà di Teologia dette così il suo parere negativo, intimando alle stamperie di
non produrre traduzioni di nessun tipo dai testi sacri, salvo autorizzazione speciale del parlamento.
Soltanto il 15 novembre del 1527, Francesco I accordò un nuovo privilegio, così l’opera fu
ristampata: le Heures, uscirono ancora nel 1528 con l’aggiunta degli Chantz royaulx e la medesima
gravure del Cristo dottore essendo così destinate ad essere distrutte. Tant’è, prosegue Picot, che allo
stesso anno 1528 risale la seconda emissione le cui differenze di composizione tipografica sono
176
177
Inferno XXI, 43-45.
E. PICOT, 1878.
360
trascurabili, ma dove troviamo la scena di passione grottesca sostituita da un legno sempre siglato dal
monogramma e raffigurante una specie di martire in costume moderno, con sullo sfondo una torre
in fiamme: nella nuova plancia il cambio di registro risulta evidente rispetto alla rappresentazione
grottesca.
Spariscono i “comici”, sostituiti da un uomo in ginocchio e da quattro personaggi:178 ed una
rappresentazione della passione basata sulla stessa composizione del legno grottesco, ma
iconologicamente più tradizionale, andava a completare le illustrazioni degli Chantz.
Emile Picot spiegava così la rarità dell’emissione “grottesca” del ‘27/’28, e la relativa disponibilità
dell’edizione dello stesso anno priva del legno proibito.
Dopo avere seguito la descrizione e la storia dell’edizione delle Heures de nostre Dame nel breve
saggio di Emile Picot su Pierre Gringore e les comédiens italiens sous François I, abbiamo creduto utile
accertare le forme materiali e lo stato delle edizioni antiche custodite alla Bibliothèque Nationale de
France nelle due sedi di Arsenal e di Tolbiac.
Gli esemplari più antichi delle Heures presenti nel catalogo della BNF sono associati in particolare
alle seguenti date e collocazioni (riportiamo assieme gli esemplari ritenuti omologhi nel catalogo e fra
parentesi quadre il luogo in cui sono conservate):
1. b-2913 [Tolbiac], réserve 8-t-2577 [Arsenal]: 1525;
2. b-2913(bis), b-2913(ter) [entrambi Tolbiac]: 1527;
3. réserve 8-T-2578 [Arsenal]: 1528;
4. 4-T-954 [Arsenal]: 1528;
5. réserve 8-T-2579 [Arsenal]: 1534.
178
Attributi dell’uomo al centro: inginocchiato in preghiera, abiti ed acconciatura signorili. Probabilmente è un
giovane rampollo. Sul fianco ha una bisaccia in cuoio. L’espressione è piegata alla sofferenza.
Attributi dell’uomo di sx-retro: abiti più modesti dell’uomo al centro. È raffigurato sull’atto di accostarsi al
protagonista, che indica con la mano destra.
Attributi dell’uomo di sx: possiede una alabarda ed un pugnale sul fianco. Anche gli abiti ricordano in qualche modo
una specie di divisa. Si porta la mano alla testa, sulla quale ha un cappuccio.
Attributi dell’uomo di dx: sembrerebbe preso nell’atto di argomentare o mendicare. È il più vecchio di tutti ed ha una
espressione triste e contrita. Si tiene con la mano destra su un lungo bastone, ha stivali e cappello. La mano sinistra è
aperta, il palmo orientato verso l’interno.
Attributi dell’uomo di dx-retro: poco visibile. Capelli lunghi. Viso gelato in una espressione di tristezza. Nessun
dettaglio rilevante per vestiti e corpo, celati dall’uomo che gli sta davanti.
361
Figura 5. Legno dell'esemplare ARSENAL 8-T-2577.
362
Ad un primo confronto limitato all’incisione grotesque dell’esemplare b-2913 e del 8-t-2577, si
notano facilmente alcune differenze: nonostante nel catalogo OPALE-PLUS i due esemplari siano
datati 1525 e vengano considerati identici, il legno grottesco (f.66) di b-2913 è più tardo per diverse
ragioni. Innanzi tutto, la scritta in basso a sinistra (1) «erba mea auribus percipe» che in 8-t-2577 è
posta in basso a destra e ben distanziata dal margine del legno179 – in b-2913 è invece composta assai
sbrigativamente più in alto ed a costo di una consistente abrasione della cornice del legno.
L’identica foliazione (2) in testa alle due tirature cambia caratteri e, sempre in testa, nell’esemplare
dell’Arsenal non v’è la scritta «vigilles des mors» che invece si trova in b-2913. Infine, anche la
didascalia ai piedi del legno della copia in Arsenal è posta qualche millimetro più in basso ed ha una
composizione tipografica differente: il capolettera occupa la spaziatura di due righe e l’ortografia
cambia in diversi punti rispetto alla copia Tolbiac, i cui caratteri non sono allineati e le iniziali sono
appena più grandi del corpo del testo. È evidente non solo la grande differenza di composizione
tipografica della pagina, ma anche il diverso stato di usura della matrice, che nell’esemplare Arsenal è
in condizioni decisamente migliori.
Ampliando l’analisi materiale e contenutistica alla globalità dei fogli ci si rende conto della
grossolanità dell’errore commesso in fase di catalogazione alla BNF.
Primo elemento sostanziale di differenza fra i due esemplari è il titolo: annunciante gli Chantz
royaulx senza disattendere le aspettative del lettore, b-2913 è privo di qualsiasi allusione ad eventuali
committenti mentre 8-t-2577 non menziona gli Chantz royaulx (che infatti non vi compaiono) e
recita al titolo «par le commandement de || haulte et noble princesse madame Regnee de bourbon
du- || chesse de Lorraine».
Proseguendo nella consultazione, il volume dell’Arsenal è introdotto da diversi fogli, assenti in quello
conservato a Tolbiac. Si tratta d’una incisione raffigurante il «Jardin de la Vierge florie»; di una
immagine della Vergine posta appena sotto al titolo (tanto che sul dorso in pelle il volume è
denominato Heures de la Vierge); ed d’una «Genealogia Christi» di gusto fortemente medievale. A
questa serie di pagine e legni non presenti in b-2913 si aggiunga anche la diversità dei privilegi180 ed
una composizione tipografica molto evidentemente diversa in numerosi luoghi.
179
Appena sopra questa scritta nella riproduzione di Picot compare anche una sigla in grafia moderna poco leggibile che
non abbiamo trovato in nessuna delle edizioni consultate. Probabilmente si tratta di una aggiunta del laboratorio
fotolitografico che la riprodusse.
180
b-2913 Æ Parigi, 25 novembre 1525 ; 8-t-2577 Æ Lione, 10 ottobre 1525.
363
Figura 6. Legno dell'emissione di Vienna.
364
Figura 7. Passione tradizionale degli "Chantz".
365
Esemplari tutt’altro che omologhi e la cui datazione può essere agevolmente stabilita attraverso i
calendari: pubblicazione d’uso pratico per eccellenza, il libro d’ore contiene sempre la successione
delle feste mobili a partire dall’anno di uscita o tutt’al più dall’anno successivo. Nel caso dei primi
due volumi della BNF, 8-t-2577 si apre con l’anno 1524 mentre b-2913 inizia a calcolare le feste
mobili a partire dal 1540. Diremo allora che 8-t-2577 è l’editio princeps del 1525 e che b-2913,
anche stando al repertorio di Avenir Tchemerzine,181 va correttamente datato al 1540.
Fotoriproduzioni e descrizioni corrispondono ed è giusta anche l’indicazione sul legno grottesco, che
viene definito «d’un tirage fatigué», esattamente ciò che ci faceva escludere la possibilità che le due
opere fin qui descritte fossero due emissioni diverse d’una stessa edizione. L’errore nel catalogo
OPALE-PLUS è certamente da imputare al privilegio del ’25 contenuto nell’edizione del ’40, unica
dopo gli esemplari del ‘27/’28 a contenere il legno grottesco. Ad ogni modo anche il repertorio
Tchemerzine, contiene un errore: l’esemplare 8-t-2577 viene descritto correttamente in tutte le sue
parti e vengono anche riprodotte tutte le incisioni non presenti nelle edizioni successive, ma della
passione grottesca si rende la riproduzione della plancia abrasa dell’edizione del 1540, quella
“fatigué”, riconoscibile per tutti i dettagli di usura e composizione tipografica sopra segnalati.
La seconda coppia di collocazioni riguarda due esemplari conservati a Tolbiac e schedati sotto l’anno
1527: il b-2913(bis) ed il b-2913(ter).
Per quanto riguarda il primo dei due dobbiamo fare attenzione ad un tranello ulteriore: l’esemplare
b-2913(bis) dal catalogo sembra corrispondere alla prima emissione del ’27, denominata da
Tchemerzine a p.606 “esemplare Didot”.182 Sono numerosi in effetti i punti di contatto con tale
variante, che devono aver indotto in errore l’archivista della BNF: il privilegio è del 15 novembre del
’27, reso direttamente a Gringoire; il foglio ciiij manca; gli Chantz royaulx sono annunciati ma non
presenti; Quatre Oraisons compaiono al «recto du f.2 e du f. 4». Ma a causa del titolo e dell’assenza
dell’incisione grottesca, b-2913(bis) non è di sicuro l’esemplare Didot 187: la nostra b-2913(bis)
dovrebbe invece corrispondere alla riproduzione che Tchemerzine riporta a pagina 613. Tutti i
dettagli congiurano verso questa direzione ed in particolare il carattere tondo per il testo dell’homme
phlebotomique; l’assenza degli Chantz nonostante l’annuncio nel titolo e soprattutto la sostituzione
della gravure grottesca del f.66 con l’incisione dell’uomo legato e della torre in fiamme sullo sfondo.
Ma dobbiamo rilevare ancora un errore sulle riproduzioni del repertorio Tchemerzine; con ogni
181
Gli esemplari delle Heures sono in TCHEMERZINE, t.III e vanno da p.601 a p.621.
Qui ci riferiamo alla descrizione del t.III, p.617.
182
Tale esemplare era in possesso appunto di Ambroise Firmin Didot, (Cat. FIRMIN-DIDOT, t.I, n°599).
366
evidenza, infatti, bisogna invertire l’illustrazione di pagina 613 con quella di pagina 612 che
corrisponde perfettamente all’esemplare b-2913(bis), (postille, stampigli ed annotazioni posteriori
incluse) che del resto non può essere quella descritta a pagina 612 a causa dell’assenza degli Chantz.
E passiamo all’esemplare b-2913(ter) che – sottoposto a recente restauro – è quasi il gemello del
precedente, ma vi si discosta per la presenza degli Chantz e di tutte le incisioni aggiuntive ad essi
associate: anche qui la passione grottesca è rimpiazzata dall’uomo e dalla torre in fiamme ed una
scena di Passione ben più tradizionale, che tuttavia ripete lo schema compositivo della grottesca,
compare nel fascicolo degli Chantz. Questo schema di indice e contenuti resterà invariato in tutte le
edizioni fino al 1540.
L’esemplare Arsenal 8-t-2578, contenente gli Chantz, come annunciato anche dal titolo e dotato di
privilegio parigino del 1527, va invece ricondotto Tchemerzine 606(b).
Rigato con tratti a sanguigna, manipolato e duramente rifilato dal rilegatore fino a mutilare lo
specchio di stampa, ci pare sia uno degli esemplari più rari fra le numerose tirature delle Heures
tradotte da Gringore: si tratta dell’ultima edizione prima del 1540 (b-2913) che contenga anche
l’incisione del Cristo dottore, plancia che d’altra parte qui mostra i primi segni di abrasione ed
invecchiamento, stavolta ragionevolmente imputabili alla rimozione del legno dai telai assemblati per
realizzare 8-t-2577;183 anche l’illustrazione dell’uomo “flebotomico” nel medesimo schema
compositivo ed apparato didascalico dell’originale è certamente tirata impiegando una plancia
copiata dall’originale. Altre singolarità di questa stampa sono un leggero velo giallo applicato a tutte
le maiuscole e l’uso di una carta con filigrana diversa da tutte le altre edizioni: dettaglio che assume
un certo significato se pensiamo che nelle Heures dal ‘25 al ’40 è in uso sempre la stessa carta.
Meno rilevanti ci sembrano invece le edizioni successive (la Arsenal 4-T-954 del 1528 e la 8-T-2579
del 1534) che rispettano in sostanza l’indice consolidato: Chantz completi, incisione dell’uomo e
della torre al f.66 in luogo della gravure grottesca ed oraisons alla fine del volume.
Esiste tuttavia una edizione ancora più misteriosa delle Heures, purtroppo non conservata alla
Biblioteca di Francia ma presente in copia unica alla Österreichische Nationalbibliothek di Vienna,
descritta in un breve saggio di Louis Karl,184 il quale nella stessa sede fornisce anche una riproduzione
183
Si tratta di una intaccatura nettissima, probabilmente fatta con una sgorbia o analogo strumento, che si vede in alto a
sinistra e che ricompare anche nel “tirage fatigué” di b-2913.
184
L. KARL, 1931 : pp.352-355.
367
che ne evidenzia la grande differenza (a parità di composizione) di tratto rispetto alle due scene di
passione fin qui descritte.
È questione qui di un terzo legno grottesco, quindi, contenuto in una edizione somigliante
solamente alla nostra 8-t-2577, che non viene segnalato in nessun repertorio oltre a questo saggio di
Karl e la cui iconografia ripete esattamente quella della gravure del Cristo dottore, (fatta eccezione
per il tratto, più rudimentale e stilizzato).
Le cahier A est remplacé dans cet exemplaire par deux feuillets de garde, l’un contenant des vers
dédicatoires, écrits à la main et commençant:
Oysiveté la mere des malices | Rend les seruants subjectz a plusieurs vices.
Le feuillet suivant (B) est décoré par la figure anatomique ou phlébotomique d’un homme debout, suivie du
rondeau: Tous corps humain. Les treize gravures sur bois sont identiques à celles des éditions ordinaires, mais
elles sont coloriées à la main. Au dernier feuillet (fol.90v°) on lit la prière en vers: Gubernateur du ciel et de la
terre, donnant en acrostiche le nom de l'auteur, ensuite la devise de la Confrérie des sots: Raison par tout,
remplaçant le colophon. Les caractères gothiques, la mise en pages sont conformes aux exemplaires
imprimés sur papier (1525) qui ont cependant une page-titre et la marque de l'imprimeur à la fin.185
Non abbiamo toccato con mano il volume, ma basandoci sulla descrizione di Karl possiamo provare
a formulare qualche ipotesi.
L’esemplare di Vienna può essere solo precedente all’edizione che abbiamo identificato come la
princeps (8-t-2577): non si spiegherebbe in nessun altro modo la scomparsa totale della gravure più
rozza e stilizzata che v’è contenuta.
Infatti le copie BNF del ’25, del ’27 e del ’40 contenti il Cristo dottore usano tutte il legno
“perfezionato” della Passione grottesca, che compare per la prima volta in 8-t-2577, sicuramente del
1525. Poco prima di questa edizione la copia viennese fu probabilmente impressa a Parigi o in
Lorena, senza permesso (non vi compare alcun privilegio reale), per sbloccare la censura attivata da
Guillaume Duchesne che firmò il divieto di pubblicazione il 23 agosto del 1525. 186
Si dovette attendere fino al mese di ottobre per ottenere la concessione a pubblicare. È in tale
intervallo di tempo che la gravure grottesca venne ridisegnata e migliorata (il che ne mette in
evidenza anche la centralità nel progetto editoriale di Gringore), mentre si elaborava manualmente
l’esemplare pregiato destinato a René di Bourbon-Montpensier, rilegato in marocchino rosso e
decorato dalle doppie C del casato della committenza, oltre che colorato (e dedicato) a mano. Forse
Pierre Gringore sperava di ottenere con il dono e la dedica alla duchessa di Lorena (presso la quale il
185
186
Ibidem : p.353.
A. H. TAILLANDIER, 1837. Rép. BONNET, t.II : p.1752).
368
Nostro aveva già trasferito la sua attività poetica) una specie di certificazione o intercessione in più
per far passare più agevolmente la sua opera sotto gli strali della censura regia.
E così fu probabilmente: all’esemplare lavorato a mano di Vienna, seguì infatti il princeps Arsenal 8-t2577, (senza ombra di dubbio quello riprodotto anche da Picot nella sua opera su Pierre Gringore e i
comici dell’arte), con tanto di scuse nel colofone: «Cestes Heures ont este imprimees audict pays de
Lorraine et es Allemagnes et lesquelles il a monstrees et communiquees a aucuns docteurs de la
Faculte».
Stampate non appena ottenuto il privilegio in Lione il 10 ottobre del 1525 (o forse già pronte?) le
copie del libro d’ore furono immesse sul mercato e fu in quel momento che il Parlamento dovette
sollevare altre polemiche sulla liceità del testo. Si spiega la richiesta di un nuovo privilegio, che sarà
concesso con la data del 25 novembre del 1525, ma che sarà impiegato solo nelle edizioni successive
(a nostra conoscenza compariva per la prima volta nel 1540 in b-2913).
Per una nuova edizione delle Heures, bisognerà attendere il 1527, quando uscirono due diverse
emissioni: aggiunti i Canti reali per rendere più succulenta l’opera, Pierre Gringore fece uscire
un’edizione “mondata”, ove l’incisione grottesca al f.66 era sostituita dalla stampa dell’uomo e della
torre in fiamme che abbiamo descritto ed ove gli Chantz riportavano a compendio visivo il Cristo
tradizionale: si tratta dei nostri esemplari b-2913(bis) e b-2913(ter). Tuttavia, particolarmente legato
all’idea della gravure grottesca, l’autore forse sperò di poter “diluire” nella massa degli esemplari
ufficiali e consentiti qualche copia pirata contenente ancora il legno grottesco.
Siamo così arrivati all’uscita della rara edizione del ’27/’28, appartenente al fondo dell’Arsenale sotto
la sigla 8-t-2578 e contenente la gravure grottesca al foglio 66 a differenza degli analoghi suoi stati: la
probabile distruzione di questi esemplari ne giustifica l’attuale rarità (la copia all’Arsenal è, a quanto
ci risulti, unica, non meno dell’esemplare viennese del ‘25) e siamo propensi a credere che l’impiego
di un legno diverso da tutte le altre edizioni per la realizzazione dell’uomo flebotomico possa essere
collegato alla contemporanea composizione delle due differenti emissioni, e dunque alla necessità di
avere due matrici.
Le gravure della passione (entrambe le versioni del Cristo dottore) sono contrassegnate dal medesimo
monogramma GS, che si compone di una “s” inscritta dentro ad una “G” in stampatello maiuscolo,
con un tratto ascendente intersecato con croce a due traverse.
369
Auguste Bernard, nella sua affascinante quanto dubbia opera sull’incisore lorenese Geofroy Tory,
avanzava l’ipotesi che il monogramma GS sormontato dalla croce di Lorena indicasse la mano del
protagonista della sua monografia. Lo studioso andò oltre, attribuendo al celebre artista non solo
questa composizione, ma anche tutte le altre ad ornamento del volume delle Heures, benché
ammettesse egli stesso che lo stile fosse completamente differente. Fra le opere contenenti il
medesimo monogramma, Bernard elencava nel suo saggio anche una Histoire […] de la triumphante
et glorieuse victoire obtenue contre les seduyctz et abusez Lutheriens mescreans… di Volcyr de Sérouville
le cui incisioni sono state poi attribuite a Gabriel Salmon, così come il monogramma GS sul quale
rimangono tuttavia alcuni dubbi di attribuzione ad un anonimo “monogrammista”.
Anche Emile Picot è assai critico nei confronti delle congetture di Bernard e segue piuttosto le
notazioni stilistiche di Ambroise Firmin Didot187 quando obietta che le figure in questione sono
tirate troppo sommariamente per essere della mano del grande maestro lorenese. Del resto anche le
iniziali non corrispondono a quelle del nome dell’artista e la teoria di Bernard secondo la quale GS
contrassegnerebbe le opere incise e non quelle disegnate dal lorenese con Godofredus Torinus Scalpsit,
è una evidente forzatura.188
Albert Ohl de Marais189 da una parte smonta la dubbia attribuzione del monogramma GS a Geoffroy
Tory e dall’altra suggerisce ragioni convincenti per le quali la sigla corrisponderebbe a Gabriel
Salmon.190
Le iniziali contenute nelle marche e nei monogrammi del XVI secolo sono solo in rari casi alterate
rispetto al nome “d’officina” dello stampatore: seguendo questo principio, inoltre, nel nostro caso la
lettera S non può essere l’abbreviazione della parola sculpsit / scalpsit perché si tratta di una abitudine
sopraggiunta solo più tardi nella storia della stampa. La lettera caratterizzante dello stemma è inoltre
la G, e Salmon era abitualmente chiamato Gabriel, mentre Tory era conosciuto soprattutto sotto il
suo nome di famiglia. Un dato storico si aggiunge a questi elementi di attribuzione, vale a dire
l’intensa attività di Gabriel per la corte di Lorena ed il sicuro rapporto diretto con Pierre Gringore e
Volcyr de Serouville in seno a quell’entourage nobiliare.
187
Cat. FIRMIN-DIDOT.
MONOGRAMMISTEN, t.III, pp.101-103.
189
A. OHL DE MARAIS, 1931.
190
G. CLUTTON, 1938.
188
370
3.2.3 – Confronto con i repertori gestuali.
Come abbiamo visto, nell’interpretazione in chiave grottesca dell’incisione delle Heures, Emile Picot
azzardava una “allegoria dei comici italiani”, peccando forse nell’applicare univocamente ai
personaggi i cliché di maschere italiane più tarde, con in più l’anacronismo di usarne le sembianze
ottocentesche: Emile Picot scriveva il suo saggio in un momento storico in cui la critica e lo
spettacolo europei, ed italiani in particolare, conservavano ancora molti aspetti della Commedia
dell’Arte come mercato produttivo e spazio artistico creativo. È probabile che la familiarità del
pubblico dell’epoca con le maschere abbia influenzato la lettura iconografica dello studioso francese.
Se è vero che per la fine del XV e l’inizio del XVI secolo è azzardato chiamare in causa i tipi fissi con
i loro nomi propri, dobbiamo considerare che la Commedia dell’Arte legava le sue origini a
patrimoni mimici e gestuali dell’antichità, provenienti dall’humus letterario latino, deformato sotto la
lente delle rappresentazioni medievali e dell’istrionismo giullaresco.
L’incisione si avvale d’un patrimonio semantico che, cronologicamente non riconducibile alla
commedia italiana e dell’Arte, affondava comunque le radici nello stesso milieu culturale, legato alla
narrazione profana e a quell’humus culturale che abbiamo tracciato come ampiamente condiviso sui
due lati delle Alpi. Rimane problematico stabilire quanta tradizione figurativa e quanto citazionismo
involontario ci siano nella raffigurazione delle ore del 1525, ma crediamo che la presenza del
linguaggio spettacolare non possa essere negata specialmente tenendo conto dell’impressione del
1525 di Vienna, in cui si vede distintamente il lanzichenecco in primo piano tenere con la mano una
maschera sul volto. Rimane più problematico identificare con certezza la provenienza italiana dei
personaggi.
S’è ampiamente parlato sopra di come lo spettacolo medievale francese avesse origini comuni a quelle
italiane; in un patrimonio semantico le cui somiglianze reciproche sembrano talvolta straordinarie
pur se non direttamente giustificabili da un punto di vista storico: germinazioni parallele, risorse
novellistiche e contatti anteriori o contemporanei al nostro arco cronologico accomunano la nascente
letteratura drammatica profana francese con quella italiana.
Orientare la ricerca su un confronto attivo della nostra incisione con tre repertori gestuali stilati in
epoca più tarda – la Chirologia di Bulwer, La mimica degli antichi di Andrea de Jorio e L’arte de’
cenni di Giovanni Bonifaccio191 – può aprire il percorso a molteplici rischi, ma anche fornire un’utile
191
In nota le chiameremo, rispettivamente : CHIROLOGIA, MIMICA e ARTE DE’ CENNI.
371
mappa di orientamento nella verifica dell’ipotesi di Emile Picot. Scegliamo repertori di immagini
posteriori al nostro arco cronologico in quanto una attenzione sistematica per la gestualità teatrale (e
la sua rappresentazione pittorica) muove i primi passi solo più tardi, come ha messo in luce l’attività
di ricerca del centro César per la ricerca sull’immagine teatrale.192 Ma va detto che quelli di Bulwer e
Bonifaccio, primi manuali sistematici del linguaggio gestuale, ricavavano il loro contenuto da una
solida tradizione occidentale e retorica riscoperta dalla trattatistica italiana rinascimentale,
Quintiliano e Castiglione prima di tutti. Per dirla con Andrea de Jorio «[…] tanti e tanti [sono gli]
esempi della identicità de’ nostri segni e loro significati con quelli de’ nostri più remoti
predecessori.»193
Siamo convinti che una analisi iconografica più approfondita dell’incisione del 1525 sul modello di
quella di Alba Ceccarelli Pellegrino194 per la raccolta Fossard, sveli effettivamente alcuni particolari
interessanti.
L’arte de’ cenni del “giureconsulto e assessore” (così si qualifica il nostro) Giovanni Bonifaccio è la
prima opera moderna con ambizione di sistematicità scritta con lo scopo di repertoriare i gesti, in
quanto linguaggio universale e “naturale”, espressione confidata all’uomo da Dio, “favella visibile”,
“muta eloquenza […]” o “un facondo silentio”: e siamo solo al titolo dell’opera.
Il volume riporta una serie di posizioni topiche associandole ad un significato (scenico o sociale) in
base a citazioni prese dalla letteratura umanistica, rinascimentale e latina ed a considerazioni sul
comportamento e l’educazione. Il principio alla base del trattato si ispira all’espisodio biblico della
Torre di Babele, per cui il gesto sarebbe un dono divino, la lingua universale nel castigo dei
molteplici linguaggi particolari e la lingua più naturale, spontanea. In tale visione il linguaggio dei
gesti è anche il più trasparente, quello che rende impossibile la dissimulazione, giacché il corpo rivela
sempre le tensioni che l’intelletto cerca di nascondere: è questo l’anello di congiunzione etica, per cui
in Bonifaccio il gesto non è solo universale, ma anche buono. Nel repertorio si tenta di creare un
nesso fra la gestualità contemporanea e quella antica, in un eclettico esercizio di curiosità e sapere
letterario, che rispecchia la visione manierista ed enciclopedica (nozionistica) del classico, in cui
l’auctoritas è mescolata con disinvoltura alle scritture sacre ed alla storiografia latina, a dare
affidabilità e credibilità alle informazioni repertoriate mediante l’artificio dell’accumulo. La
connessione fra retorica, gesto e teatralità è una prova implicita della stretta connessione del
192
César – Calendrier électronique des spectacle sous l’Ancient Régime, (http://www.cesar.org.uk).
MIMICA (n°23: Gesti descritti e dilucidati dai classici).
194
A. CECCARELLI PELLEGRINO, 1998.
193
372
patrimonio gestuale antico con quello umanistico e della Commedia dell’Arte: la longevità e la
trasversalità di alcune figure dell’espressione corporea è sorprendente.
Pensiamo banalmente al “gesto della cicogna” descritto da Bonifaccio come espressione d’insulto: è
lo stesso che ricompare in una infinità di pièce di gusto farsesco, e che è giunto pressoché immutato
fino ai nostri giorni. L’origine di questa mossa volgare ma irresistibilmente ridicola, secondo il nostro
trattatista si perde nella notte dei secoli, alle radici stesse della cultura occidentale.
Il gesto della cicogna
Questo era un gesto di scherno, che si faceva dietro ad alcuno, ponendo la punta del dito indice sopra la
sommità del pollice, tenendo l’altre dita raccolte, in forma del becco della cicogna, con spesso movimento del
braccio, e della mano imitando quel gesto che col suo collo è dalla cicogna fatto, in modo di percuotere con
la mano nella parte inferiore. Persio dice che Giano erà felice, perché avendo due faccie, l’una dinnanzi e
l’altra di dietro non gli era fatto da tergo questo scherno:
O Iane à tergo quem nulla ciconiam pinsit.
E pinsit significa percuotere, come anticamente prima che si trovasse l’uso de’ molini nelle pile col pistello i
pistori pistavano il grano. Di questa cicogna e di come essa si formi scrive Svetonio nel fine della vita di
Caligula. E S. Girolamo scrivendo a Rustico a Monaco in una sua epistola gli dice; Non ascoltar gli adulatori,
perché da poi chi ti haveranno lodato, nel partirsi da te, si subito respexeris ciconiarum deprebendes post te
colla curuari.195
La Chirologia di Bulwer è un inventario di poco posteriore ispirato dagli stessi principi, ma con una
particolare attenzione al moto delle mani e alle pose espressive drammatiche (rispetto a Bonifaccio
tutta l’area semantica dell’autore inglese ruota attorno alla gestualità spettacolare), con relativa
interpretazione “semantica” legata alla tradizione figurativa, oltreché retorica e performativa. Lo
sforzo sistematico è più evidente nell’opera di Bulwer, che divide il suo trattato in due volumi, la
chironomia e la chirologia, e che alle illustrazioni sociali del Bonifaccio sostituisce vere tavole
scientifiche, incasellate in lettere e numeri, in cui ad ogni posizione delle mani si fa corrispondere
uno stato d’animo: ogni casella è un “chirogramma” e si ricollega a nozioni eterogenee di retorica,
pedagogica, politica e filosofica, seguendo i principi dell’erudizione umanistica da cui la cultura di
John Bulwer, fisico teorico dunque filosofo naturale, proveniva.
In questo senso, se la prospettiva di Bonifaccio era fortemente legata alla tradizione popolare e
religiosa, quella dell’inglese aveva come punto di riferimento più solido tanto le scritture quanto la
Istitutio oratoria di Quintiliano, che analizzava, come è noto, la gesticolazione come strumento
funzionale all’abilità retorica. Al di là del diverso background culturale i principi di Bulwer erano
tuttavia comuni a quelli di Bonifaccio, specialmente nella visione positiva e veritiera del linguaggio
195
ARTE DE’ CENNI : p.335.
373
performativo dei segni, laonde considerato espressione univoca rispetto al parlato menzognero.
Rispetto a questi primi due il trattato sui gesti di Andrea Jorio di cui ci avvaliamo è ancora più
recente e maggiormente legato ad una realtà socio-geografica (Napoli) ma appartiene alla stessa
tradizione di sistematizzazione inaugurata da Bonifaccio e Bulwer e riprende anche il sincretismo fra
retorica antica ed espressione gestuale comune.
La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano usciva a Napoli nel 1832: canonico della
Metropolitana di Napoli; cavaliere di II classe dell’Aquila Rossa di Brandeburgo; socio onorario
dell’Accademia delle Belle Arti, il suo autore, Andrea de Jorio, sembra volere emulare le prospettive
sapienziali del mondo antico, appunto.
Il De Jorio ha un compito: ‘offrire al pubblico un saggio della mimica dei napoletani e del suo
concatenamento con quella degli antichi’. È vero, egli dirà, che ‘tutti i nostri discorsi cominciano col
moderno’ (cioè col gestire dei napoletani). Ma è vero, altresì, che il moderno ‘è il primo scalino per montare
al piano nobile del grande edificio mimico’. In tal modo, se da un lato si possono ‘apprestare nuovi lumi agli
archeologi per l’intelligenza dell’antichità sia figurata che scritta’ dall’altro si ha proprio ‘l’impegno di non
pochi dotti, specialmente ultramontani, nel rintracciare l’antichità dei noti moderni usi’.196
Anche per Andrea Jorio l’interesse per il mondo classico è prevalente, e nel “gestire” napoletano sono
stati conservati meglio gli antichi segni del dialogo antico: il popolo napoletano diviene protagonista
di una specie di populistico epos classico, che a noi interessa quasi in appendice rispetto ai due
precursori secenteschi per qualità teatrali e significanti.
Qui la scansione teorica (contrariamente ai due repertori precedenti basati prevalentemente sulla
tradizione culturale) si fa più scientifica e lo Jorio sente anche la necessità di dare un’interpretazione
di carattere linguistico all’impiego del gesto, identificato nella duplice funzione del
significato/significante. La sicurezza dell’uomo ottocentesco sulla validità della codifica razionale del
messaggio gioca stavolta un ruolo fondamentale nel formulare l’ambiguità del gesto rispetto alle
lettere o ai geroglifici, laddove invece i suoi due predecessori affermavano la totale ed inequivocabile
trasparenza del gesto.
Ma procediamo finalmente con la lettura del legno delle Heures, iniziando dal militare sulla sinistra
che abbiamo già collocato nel tipo del lanzichenecco | soldato fanfarone | franc archer. Ed è Aby
196
MIMICA : p.XIV.
374
Warburg197 il primo a stimolare una riflessione sull’iconografia di questo personaggio: secondo la
logica associativa a lui propria lo studioso tedesco metteva in relazione fra di loro diverse
rappresentazioni belliche o di lotta, con attenzione alla posizione dei singoli personaggi; il braccio
teso verso l’alto, ad arco, si associa normalmente ad atti di aggressione armata.
Questa posizione prevede una lancia o un’arma stretta nel pugno del personaggio, il corpo teso nello
sforzo: è il caso della Battaglia di Ercole e i giganti (British Museum, Londra), dei Lottatori di
Antonio Pollajuolo (Ashmoleam Museum, Oxford), della Morte di Orfeo (Metamorphoseon, Venezia,
1497) o de La lotta per i pantaloni sia del Maestro delle Banderuole che nella versione di un anonimo
fiorentino.
La mano sulla testa in queste scene è di solito armata, nell’atto di scagliare una lancia o colpire un
altro soggetto con clava o spada, secondo un’iconologia tipica delle varie “-machie” del linguaggio
artistico classico. Il braccio sinistro della nostra figura recepisce forse questo atteggiamento
militaresco in senso traslato: privandolo cioè della carica di aggressione reale (esplicitata nell’arma)
per rappresentare un attacco di tipo verbale e di scherno sul piano gestuale. La mano in atto di
scagliare un’arma diventa la mano a cappello poggiata sulla testa. C’est n’est qu’abuz: una critica al
“faulce blason” quando si ferisce, addirittura, con la lingua biforcuta. Nella stampa del ’25 è inoltre
evidente come il personaggio indossi una maschera, che, sfoderata e subito infilata diventa una sorta
di strumento d’offesa.
Nel repertorio gestuale di Giovanni Bonifaccio troviamo un riscontro ancora più diretto fra la posa
del militare ed i paragrafi intitolati “Coprirsi la testa con le mani, ò con la veste” e “Toccarsi il capo”.
Per il primo si scopre immediatamente che è sia «gesto di timore» che di aggressione; ambiguità che
nel linguaggio classico è per Bonifaccio soltanto apparente: all’atto di aggressione si accompagna
infatti sempre un motivo di paura o eccitazione a rendere cangiante l’emozione.
Effettivamente nella tradizione iconografica delle scene di Passione, la paura di toccare il sacro
mentre lo si aggredisce sottolinea la gravità dell’azione; mentre nelle scene di lotta, la paura evidenzia
il pericolo della reazione dell’avversario: «[la mano sulla testa] è gesto di timore, quasi che si voglia
difender [il capo] da qualche percossa». Ma ecco subito sottolineata la pericolosa ambivalenza di cui
rimane vittima Tiberio Sempronio Gracco:
197
A. WARBURG, 1914.
375
T. Graccho volendo raccomandar la sua salute al popolo, postasi la mano sopra il capo ascese in
Campidoglio; ma ciò gli successe male, essendo quel gesto da’ suoi nemici interpretato che egli dimandasse il
diadema, e così la signoria. Conforme a quel detto della scrittura: Ideo accipient Regnum decoris, & diadema
speciei de manu Domini quoniam dextera sua teget eos, & in brachio Sancto suo defendet illos. In una
medaglia di Gallieno Imp. È una figura che fa un così fatto gesto, per accennar sicurezza, e fermezza; con
queste lettere appresso: SECVRITAS AVG. Plauto disse:
- Quin etiam hoc illi dicito | Facturum me, ut nec etiam aspicere aedes audeat; | Capite obuoluto, ut fugiat
summo cum metu. (sic)198
In generale, comunque, ci dice Giovanni Bonifaccio, anche il solo levare il braccio ferma l’istante
«della forte e valorosa attione» il riferimento è a Davide «In manu potenti, & brachio excelso».
Immancabile poi il richiamo a Virgilio: «[Enea] invitando in Sicilia i suoi soldati al gioco del cerchio,
disse loro, che a chi dava il cuore d’entrar in quella pugna, ne facesse segno con alzar il braccio: |
Nunc si cui virtus, animusque in pectore praesens | Adsit: & evinctis attolat brachia (sic) palmis.» La
valorosa postura non esclude però la gaglioffaggine; il braccio verso l’alto è ancora una volta «volontà
di voler offendere». Le auctoritas per Bonifaccio sono stavolta Petrarca e Ariosto, più volte
menzionati durante tutta L’arte de’ cenni: in questo caso del primo poeta Bonifaccio riporta: «Morte
già per ferire alzato il braccio.» Per il secondo, abbiamo invece il passo in cui Ruggiero uccide
Rodomonte: «Alzando più che alzar si possa il braccio.»199
La mano destra del lanzichenecco segue invece la linea della gamba e si protende in avanti,
sostenendo una canna (a ricordo forse della spugna d’aceto dell’episodio di Passione); in Bulwer
questa posizione corrisponde al Gestus LV: Indignatione timeo. Il passo dedicato a questa espressione
corporea sembra concorde nel segnalare l’ambiguità gestuale dell’aggressione.
In the practice and conversation of common life was ever frequent and is so deeply imprinted in the manners
of men that you shall in vain persuade a man angry and enraged with grief to contain his hand from this
passion. […]
This gesture of the hand is significant also in fear, admiration and amazement. Hence, Plutarch, relating the
injuries that the pirates whom Pompey vanquished did the Romans, says the greatest spite and mockery they
used to the Romans was this: that when they had taken any of them, and that he cried he was a citizen of
Rome and named his name, then they made as though they had been amazed and afraid of that they had
done; for they clapped their hands on their thighs and fell down on their knees before them praying him to
forgive them. 200
198
ARTE DE’ CENNI : p.31. La citazione di Plauto è da Mostellaria.
Ibidem : p.258.
200
CHIROLOGIA, Gestus LV: Indignatione timeo, (tavola B, «R»).
199
376
Veniamo ora alla donna seduta destra con la corona, che abbiamo identificato come una amorosa: la
mano alzata con l’indice in alto e le altre dita raccolte sotto il pollice corrispondono nel repertorio di
Bulwer all’illustrazione «G» della tavola chirogrammatica C denominata Terrorem incutio. Eccone la
descrizione:
Gestus VII: Terrorem incutio [inflict terror]:
The holding up of the forefinger is a gesture of threatening and upbraiding. Hence, this finger is called minax
or minitans by the latins, [because by it we convey the threats and use it in reproving one ]. He force of this
finger in denouncing threaten things when it is brandished in way of terror, Seneca acknoledgeth where he
sayeth that of old in children: [movement of the fingers was wont to cause tears ]. Hence, also, Plutarch
borrowed his [“Boldly to stretch forth the finger,” with regard to him who pronounces terror on another].
To this may be referred the relation of a worthy and right elegant countryman of ours in this in his voyage
into the Levant, who [spoke of] being in the Isle Rhodes; and one morning prying up and down, a Turk met
him and threatening him for an Englishman and a spy, with a kind of malicious posture, laying his forefinger
under his eye, he seemed to have the look of a design. 201
Anche Bonifaccio accenna ad una posizione analoga a quella della donna, che definisce “Alzar la
mano in atto di offesa” che è: «Gesto d’animo inimico, e che voglia castigare o fare ingiuria & offesa,
anzi come disse Ulpiano questo atto è l’istessa ingiuria punibile; ‘Si quis pulsatus quidem non est,
verum manus adversus eum levatae & saepe perterritus est, quasi vapulaturus, non tamen percussus,
utili iniuriarum actione tenetur. Alleva manum tuam super gentes alienas, ut videant potentiam
tuam: dice la divina scrittura et Davidde. Leva manus tuas in superbias eorum in finem’; Et altrove:
‘Extendisti manum tuam, & devoravit eos terra’. L’Ariosto di Bradamante e del mago incantatore
dice: ‘disegnando levargli ella la testa | Alza la man vittoriosa in fretta.’»202
A tale posizione di minaccia si aggiunge quella del dito, che fa parte della stessa sfera semantica
riconducibile ad attacco e aggressione. Con il dito indice disteso e tutti gli altri raccolti e premuti dal
pollice, si fa il «gesto delle minaccie», che viene ulteriormente rafforzato qualora si agiti con un
impeto il braccio, «quasi come il dito fosse una verga da percuotere il minacciato». Bonifaccio
segnala che lo stesso Dante parlò di questo gesto: «Ch’i vidi lui à pié del ponticello | Mostrarsi e
minacciar forte co’l dito, | Et udil nominar Geri del Bello».203 Se andiamo a vedere la figura del ’25 ci
accorgiamo che la posizione della mano della donna è diversa da quella del legno posteriore, ma che
mantiene un medesimo (se non più enfatizzato) significato di aggressione violenta, potendosi leggere
come un vero schiaffo, le dita unite ed il braccio teso in direzione del volto del cristo dottorale.
201
CHIROLOGIA, Gestus VII: Terrorem incutio, (tavola C, «G»).
ARTE DE’ CENNI : p.304.
203
Ibidem : p.331.
202
377
Rispetto alla figura del vecchio con il cappello curvo sulla destra si può notare come esso possa
corrispondere alle due pose in Bonifaccio dette “star dritto” e “star appoggiato”: il primo è un atto di
prontezza alla battaglia, e sappiamo che nelle funzioni religiose medievali era uso cavalleresco
assumere questa posizione, con cui si soleva dimostrare una devozione militante al Cristo. Lo stare
poggiati è invece un atto di fermezza e stabilità.
[…] Perciò nel rovescio d’una medaglia a Ophelio Macrino Imp. è una figura di donna, che rappresenta la
Dea Sicurezza, che co’l braccio destro sta appoggiata ad una colonna, & con la mano sinistra ha un’asta con
queste parole. SECURIT ASTEMPORUM: e perché questa fermezza, e perpetua stabilità massimamente si
ritrova in Dio, del quale è scritto: Ego sum, & non mutor: però anco gli Etnici ne i loro falsi Dei la
descrissero onde Ovidio di Gioue disse che stava appoggiato al suo scettro: Celsior ipse loco, sceptroque
innixus eburno.204
L’aria di sprezzatura (notiamo incidentalmente come sia uno dei principi enunciati dalla trattatistica
comportamentale del Rinascimento) del vecchio sembra anche più evidente nel primo legno del ’25,
ove i tratti del volto sono meglio disegnati in una espressione contrita di diniego.
Per il personaggio centrale, che sopra abbiamo associato ad un maniscalco, abbiamo trovato una
possibile corrispondenza con una posa descritta da Andrea de Jorio; quella “bocca spalancata” che se
non è accompagnata dagli “occhi esprimenti un bisogno, ed animati da una certa vivacità”, ma da
occhi socchiusi, e bocca “abbandonata”, è una contraffazione parodica della “mossa dello stupido”
diventando gesto ingiurioso di beffa.205
Tale mimica del dileggio è riconfermata più in là nel trattato.
6. – Mordersi le dita o le labbra.
Anche questo gesto dinoterà minaccia, se gli sguardi saranno minaccianti, giacchè può anche esprimere la
Rabbia, la Beffa, di cui parleremo a suo luogo.
Il suo significato di minaccia è lo stesso del precedente, di volersi cioè mangiare l’inimico, come nell’atto si
tenta di fare delle proprie dita. Le nostre donnicciuole lo dichiarano con l’espressione che sogliono
aggiungere al mordersi le dita, minacciando. Esse dicono: Se mi vien fatto, ti mangerò a golìo (a), cioè con
quella ansietà con la quale le donne gravide addentano il comestibile da esse ardentemente desiderato.206
204
Ibidem : p.445.
MIMICA : p.138.
206
Ibidem : p.197.
205
378
Ed infine alla voce “rabbia, furore”, troviamo anche: «mani e dita morsicate. Vale lo stesso se le dita
si mettano fra i denti, sia di punta, sia per lungo»207 ciò che corrisponde esattamente alla posa del
maniscalco, che morde le dita proprio di fronte alla vittima delle vessazioni.
Si prosegua finalmente con la posa centrale assunta dal Cristo-dottore: le mani legate e rivolte verso il
basso hanno ancora un riscontro in Bulwer, Gestus VIII, Despero della tavola A, illustrazione «H».
To appear with fainting and dejected hands is a posture of fear, abasement of mind, and abject and
vanquished courage, and of utter despair.
The prophet Isaiah calls this habit of dejection or consternation, the faint hand, or the hand fallen down.
The prophet Ezekiel and Jeremiah call this apparition of fear, the feeble hand. And the author to the
Hebrews most appositely, the hands that hang down. The old annals of time, and the journals and diaries of
common life which contain a narration and exposition of things done give the best patterns of the hands’
expressions, as being the most natural registers thereof in so much as there are no interpreters so proper or
able to inform us of the validity and use of this languishing carriage and behavior of the hand.208
Il giureconsulto e assessore Bonifaccio, anche lui, non ha dubbi e precisa che le braccia verso il basso
vogliono significare abbattimento: sono un atto di cedimento che anche Torquato Tasso conosce ed
utilizza: «Ecco io chino le braccia, e t’appresento | Senza difesa il petto, hor che no’l fiedi?» assieme
ad Ariosto: «Ma hora vien chi questa voglia dome | E faccia cader l’ale al mio furore».209 Il che
assume ancora più valore quando le mani sono abbassate, come vediamo chiaramente nel nostro
professore al centro della scena, la cui posizione è la stessa sia per il legno grottesco del ’25 che per
quello del ’27.
Il tenere le mani abbassate è segno d’humiltà, d’abiettione, d’esser vinto, & di non voler più adoperare le
mani, né far difesa, ò resistenza. Plauto: | Pe.Imo si audias | Meas pugnas, fugias manibus demissis
domum. (sic) Ovidio fa dir à Deianira addolorata: | Mens fugit admonitu, frigusque perambulat artos, | Et
iacet in gremio languida facta manus. E di Fineo converso in sasso: | Sed tamen os timidum, vultusque in
marmore supplex. Summissaeque manus, faciesque abnoxia mansit.210
Lo stesso Andrea de Jorio in due punti distinti del suo repertorio mimico apporta segni
inequivocabili della resistenza nel tempo di questa significazione gestuale: “braccia penzoloni” ad
indicare «speranza perduta, ossia l’esser fuori di speranza per la riuscita di qualche impresa»,211 da
207
Ibidem : p.245.
CHIROLOGIA, Gestus VII: Terrorem incutio, (tavola C, «G»).
209
ARTE DE’ CENNI : p.258.
210
CHIROLOGIA, Gestus VIII: Despero, (tavola A, «H»).
211
MIMICA : p.74.
208
379
associare alle mani “incrocicchiate” che «qualunque sia la posizione del corpo» sarebbero un «effetto
di dolore, di amarezza» tanto che in tale posa «si veggono alla Medea Ercolanense»; se accompagnano
circostanze esprimenti il dolore «le dita incrocicchiate e coi pollici alzati e combaciantisi negli
estremi, […] esprimono l’amarezza profonda» soprattutto quando come nel nostro caso sono
rovesciate. Perfetta la corrispondenza col gesto del Cristo dottore in questo passo:
Schiavo
1. – Polsi l’uno incrociato sull’altro, con le mani rovescie, sian distese, sian in pugno. Come in questa
posizione sogliono talvolta essere ligati gli schiavi, così contraffacendola, ed aggiungendovi la testa un poco
china, ed il volto corrispondentemente afflitto, dinoterà uno che si trova in schiavitù. Gli schiavi Frigii
rappresentati dagli antichi, spesso si veggono nel descritto atteggiamento.212
Più propriamente legata alla figurazione della Passione e della divinità è invece la posizione a sedere
del protagonista: secondo la tradizione prima pagana e poi cristiana la sedia significa sacralità.
Bonifaccio specifica come «haver sedia è avere dominio, e residenza» trovando vari esempi ancora
una volta nella sacre scritture, in Virgilio, nel diritto romano,213 ma anche nella storia e nella cronaca
più o meno recenti. Ed è così portato l’esempio artistico di Ferrara, ove ancora si vede la statua di
bronzo del Duca Borso sul trono e col bastone, a mostrare la fermezza sullo stato, e che Bonifaccio
interpretava con l’ausilio delle parole di Ariosto: «Vedi il primo duce, | Fama della sua età, l’inclito
Borso | Che siede in pace.»
Tra gli altri doni e privilegi che fece Papa Alessandro al Prencipe di Vinegia in ricompensa d’essere da lui
stato restituito nel Pontificato contra l’oppressione di Federico Barbarossa imp. fu il seggio, & il guanciale
d’oro, che tuttavia esso prencipe fa portar avanti di sé con gli altri suoi egali ornamenti, quando
solenemmente esce di palazzo.
L’atto di sedere dimostra stabilità, fermezza, dominio: «e però è scritto: Antiquus dierum sedit. Et
anco: Sedebit Dominus Rex in aeternum. E si dice, Deum sedere super Cherubim per esprimer la
212
Ibidem : p.252.
«Me si calicola voluissent ducere vitam | Has mihi servassent sedes.
Et disse anche l’istesso poeta:
Pendimus in Latium sedes ubi fata quietas
Ostendunt. I Consoli Romani nel principio del loro magistrato, per segno di giurisditione, e di grand’honore sopra le
sedie d’avorio sedevano; onde Ovidio disse:
Et nova conspicuum pondera sentit ebur. […]
Gli stessi romani per gran favore costumarono di donar à i Re stranieri una sedia d’avorio, cosi honorando il Re
Masinissa, & anco Siface dapoi che si fu dichiarato loro amico e dei cartaginesi nemico. Et à Tolomeo Re d’Egitto,
quando seco rinovàrono l’amicitia, mandarono in dono una così fatta sedia con una toga & una tonica di porpora.»
ARTE DE’ CENNI, p.452.
380
213
pienezza della sua somma sapienza; della quale Salomone disse: Anima eius sedes sapiētiae. Il Tasso
similmente disse: sedeva al suo governo il Re del mondo.»214 Qui naturalmente le citazioni sarebbero
sterminate, collegandosi il trono ad una tradizione antropologica non soltanto occidentale, tanto che
Andrea de Jorio introduce il problema dell’identificazione del protagonista nel complesso
iconografico indicando la posizione seduta fra i segnali «che hanno bisogno di un poco di attenzione
per distinguerli». Tale carattere autorevole è enfatizzato quando si segga in una folla e quando tutti i
personaggi rivolgano lo sguardo verso il soggetto seduto, o quando si occupi un posto distinto,
«perché più alto, o dagli altri un poco discosto, oppure nel mezzo di un quadro»215.
La posizione seduta si associa anche all’esercizio del giudizio, ragion per cui l’uomo di legge o il
senatore sono tradizionalmente raffigurati su una seduta. Anche la tonaca del nostro personaggio
sembra appartenere al contesto giuridico ed universitario ed è ulteriore conferma dell’identificazione
con lo stesso Gringore, “Mère Sotte” della confraternita ruotante attorno al palazzo di giustizia. Il
topos figurativo del giudizio può essere parimenti applicato alla donna in basso a destra, la cui
posizione di potere è di per sé confermata anche dalla vistosa corona.
La relazione fra il sedere ed il giudizio compare anche – è Bonifaccio che ci viene in aiuto – nelle
sacre scritture.
Christo S.N. disse a’ suoi discipoli, che in premio d’averlo in questo mondo seguitato: cum sederit filius
hominis in sede maiestatis suae, sedebitis & vos super sedes duodecim iudicantes duodecim tribus Israel: E
negli Atti degli Apostoli è scritto; che Herode vestitus veste regia sedit pro tribunali. Iethro dimādò à Mosè
suo cognato, perche cosa egli solo sedesse, & il popolo à lui concoresse; al quale egli rispose, perché era
Giudice tra di loro. E Davidde disse: Sediti su per thronum qui iudicas iustitiam. E si dice, come per
proverbio, che Advocatorum est stare, & iudicum sedere: & è scritto nelle leggi, che i giudici debbano
giudicando sedere. Dante per questo disse una volta: Hor tu chi sè che vuoi seder à scranna, | Per giudicar da
lungi molte miglia, | Con la veduta corta d’una spanna.
E devono anche i giudici sedere, perche sedendo, & quiescendo anima fit prudens, come dice il Filosofo: ma i
rei devono star in piedi avanti il Giudice, se però non sono in dignità costituiti, perche non devono patir la
pena, & ingiuria di non sedere prima che siano conuinti; ma però siedono in luogo inferiore al Giudice.216
La facoltà “cathedram magistralem ascendendi”, cioè insegnare agli altri, è inoltre tipica dei dottori e
dei maestri. La superiorità dell’uomo seduto in cattedra non è incompatibile con lo smacco, la
214
Con la precedente, Ibidem : p.454.
MIMICA : pp.20-21.
216
ARTE DE’ CENNI : p.456.
215
381
calamità e la cattiva sorte: nella tradizione cristiana è essa infatti anche la posizione del mendicante e
dello stesso cristo martoriato in alcune scene di Passione.217
Un Cristo che qui mostrava tutta la sua ascendenza profana e che dispiacque per la sua estrema
espressività (ma anche per l’evidente causa “particulare”) al consiglio teologico della Sorbona, che lo
rese così raro e così misterioso.
3.2.4 – Propaganda politica e giochi da sot.
Nel contesto storico delle guerre d’Italia si sviluppò una letteratura di propaganda caratterizzata da
una notevole prossimità con le forme tipografiche e di distribuzione dello spettacolo profano. Specie
durante il regno di Carlo VIII e Luigi XII le linee di questa inedita pubblicistica di propaganda
furono particolarmente aggressive e spregiudicate ed implicarono una certa permeabilità dei confini
letterari e linguistici franco-italiani.218
L’imprimerie specifica per lo spettacolo così precocemente caratteristica in Francia, offriva pratiche e
saperi adattati alle esigenze della performance e della pubblica rappresentazione, tecniche d’un
217
«È anco atto di giacere in qualche miseria, e calamità: Come è scritto nel Vangelo del cieco nato: Non ne hic est, qui
sedebat, & mendicabat. & in un altro luogo è detto: Illuminaris his qui in tenebris, & in umbra mortis sedent. Et
sedentibus in regione umbrae mortis lux orta est. E di Giobbe si legge, che nella sua grandissima miseria, sedebat in
sterquilino. Virgilio in questo sentimento disse:
Sedet, aeternumque sedebit
Infaelix Theseus. E Tibullo:
Illius ad tumulum fugiam supplexque sedebo,
Et mea cum muto fata querar cinere. […]»
Ibidem, (p.458).
218
Pensiamo solo alla lista lunghissima delle pubblicazioni poetiche e degli opuscoletti che seguirono la battaglia di
Chiara D’Adda del 14 maggio 1509:
IN LATINO: Andrea Mocenici, Bellum cameracense; Benedicti Arluni, De Bello Veneto; Jovii Benedicti, Carmen de gallico
trophaeo in Venetos; Sylvioli Antonii, Carmen de triumphali atque insigni victoria Ludovici XII […]; Quinzani Stoae, De
Bello Veneto confecto; Publii Fausti Andrelini, Epistola in qua Anna […] francorum regina exhortatur maritum
potentissimum… […].
IN ITALIANO: Paulo Danza, Guerre horrende de Italia.[…]; Niccolò degli Agostini, I successi bellici seguiti nell’Italia dal
fatto d’arme di Gieradadda del 1509 […]; La miseranda rotta de’ Venetiani a quelli data da lo invictissimo et christianissimo
Lodovico re di Franza […]; Lamento che fa el Principio de Venetia con li suoi venitiani de li terre perse, […]; Lamento di
Venetia ne La rotta in Lombardia con quella di Peschiera. […]; La memoranda presa de Peschera […] dopo la rotta de
Agnadello data a Venitiani […].
IN FRANCESE: Guilleberto Chauveau, Lectres de la commission et summacion faicte aux Veniciens […]; Les Regretz de messire
Barthelemy d’Alvienne et la Chançon de la defense des Venitiens; La complainte de Venise ; André de la Vigne, Le Ballades de
Bruyt Commun sur les aliances de roys, des princes et provinces ; Jean d’Ivry, Les triumphes de France translate (sic) de latin en
francois par maistre […];Nicaise Ladam, La paix faite a Cambray entre l’empereur et le trescrestien roy de France avec leurs
aliez ; Pierre Gringore, L’entreprise de Venise e Le grant Credo de Venise; La lamentation de Venise; La legende des Veniciens,
[…] ; L’Entrée du Roy a Millan; Les lettres envoyées à Paris de par le roy nostre sire en sa court de parlament; Jean Marot, De
Caen, sur les deux heureux voyages de Genes et Venise victorieusement mis a fin par le treschrestien roy, Loys, douziesme […].
382
mercato a colportage che donava l’occasione anche tecnica per produrre una quantità di opuscoli (in
francese o in italiano, a seconda dei destinatari della propaganda) dedicati alle popolazioni.
Inaugurando un pregiudizio che talvolta ancor oggi sembra sopravvivere, la letteratura di propaganda
francofona deprecava l’etica degli italiani, considerati menzogneri e traditori, per giustificare le
invasioni e le ambizioni francesi sulla Penisola. Un’abbondante letteratura di questo tipo
accompagnava raccontandole, commentandole o celebrandole, le pure talvolta infruttuose campagne
italiane dei re di Francia.
Per quanto riguarda Pierre Gringore, in questi anni lo vediamo scrivere diverse opere di propaganda
come le Lettres nouvelles,219 primo capitolo di una produzione orientata a pubblicizzare la politica
francese a sud delle Alpi. Alle Lettres seguiva un’opera con lo stesso spirito, la Complainte de la Terre
Sainte, ispirata alla politica antiturca di cui il re di Francia, (emulo dei suoi predecessori, ma non
modello per i suoi nipoti, visto il cambiamento continuo di atteggiamento della Francia rispetto
all’incognita araba), sembrava volersi fare banditore.
L’Union des princes, del 1509, rivolgeva ugualmente i suoi strali contro la repubblica veneta; mentre
La chasse du cerf des cerfs, del 1510 era un violento attacco contro la persona e la politica di Giulio II,
colpevole del tradimento tipico dell’italien trompeur, staccatosi dall’alleanza francese e fattosi
promotore della Lega Santa degli stati italiani; l’Espoir de paix è un capitolo ulteriore degli attacchi al
pontefice e alla sua politica del tradimento; le Jeu du Prince des Sotz, del 1512, rinnovava le
medesime polemiche in forma drammatica ed infine ne l’Obstination des suysses si lanciava un attacco
feroce all’esercito svizzero e ai mercenari.
Al tratterello ingiurioso contro il nemico del sud Gringore aggiungeva composizioni teatrali di
stampo politico: la propaganda attraverso gli spettacoli, più dei factum (i foglietti politici distribuiti
prima e durante le guerre alla popolazione) poteva far sposare al volgo la causa delle guerra regia. Il
Jeu du Prince des Sotz di Pierre Gringore rientrava in questo contesto di propaganda: il varietà
drammatico era in tal caso composto da una sottie introdotta dal cry, da una moralità d’homme
obstiné e dalla farsa di Raoullet Plyotard.220
Abbiamo già affrontato nella prima parte della nostra trattazione le vicende editoriali di questa opera
di Mère Sotte; qui ci occuperemo brevemente della coppia sottie / moralità, giocate contro la politica
219
220
Pierre GRINGORE, Lettres nouvelles de Milan…, s.l.n.d. (E. BALMAS, 1955).
cfr. supra.
383
papale di Giulio II221 in un’ottica gallicana tesa ad attaccare il Papa con argomenti morali ai limiti del
protestantesimo, che negano la facoltà di giudizio etico da parte di un’autorità religiosa moralmente
corrotta.
Nella sottie si leggono diversi attacchi all’italianizzazione e ai nuovi costumi della Penisola che si
diffondevano fra i membri l’aristocrazia francese: siamo appena agli anni dieci del 1500 (la sottie è
agita per il martedì grasso del 25 febbraio 1512) e Pierre Gringore aveva già qualcosa da
rimproverare agli italiani, anticipando i malumori anticomici del 1525, visti per le Heures.
La Sottie contre Pape Jules II, era completamente costruita sullo svolgimento dialogico e non si
affidava ad un’azione propriamente narrativa: dopo un dialogo d’attualità fra due sot generici, si
introduceva l’argomento del tradimento di Giulio II alla corona di Francia. La svolta di Bologna del
1511 era letta da un punto di vista etico, enfatizzando la mossa della costituzione della Lega Santa
come beffa e scandalo per la sacra corona di Francia. I sot lamentavano i voltafaccia italiani ed
istigavano alla violenza di una azione militare più energica possibile: toni belligeranti che si
esplicitano fin dall’esordio, «C’est trop jouer de passe passe», tutto il contrario di quanto si affermava
nella farsa di Marchebeau scritta in un contesto di alleanze completamente diverso, in cui anzi era
necessario («Y fault») «jouer de passe passe».
Nelle frasi sconnesse dei sots di Gringore si intercettano fatti dettagliati di cronaca, come quello
dell’accoltellamento del Cardinale Alidosi per mano di Francesco Maria della Rovere, episodi che la
poesia svolgeva in funzione informativa.
L’azione era una specie di parata, in cui gli imbecilli accorsi esibivano le proprie qualità, con toni
assai più prosaici di quanto ci si attenderebbe da una composizione con velleità politiche.
LE PRINCE DE NATES
Mainte belle dame matee
J’ay souvent, en chambre natee.
Sans luy demander: « Que fais tu ? »
LE PREMIER
Vela bien cogné le festu.222
Le pièce comprese nel Jeu du Prince svolgevano ciascuna una precisa funzione comunicativa: il cry era
l’annuncio, il richiamo per un avvenimento che voleva informare anche sull’attualità politica, la sottie
aveva funzione satirica, mentre la moralità tirava una conclusione etica sulle precedenti
221
222
RGS, t.II, pp.105-174.
Ibidem : p.138.
384
considerazioni; infine la farsa, usata in funzione distensiva, esorbitava dal contesto strettamente
politico conservando tuttavia il tema del tradimento e della dissimulazione, fondamentali per la
corona nell’interpretare i complessi rapporti diplomatici con l’Italia.
La parata dei sot serviva anche a presentare tutti i personaggi, con commenti giocosi su rispettivi
costumi e sembianti: fra i nomi, ben diversi dalle pompose allegorie onomastiche delle moralità e di
altre sottie, v’era tutto l’universo autoreferenziale delle confraternite parigine e diversi sobriquet assai
evocativi del fermento e del genere teatrale in voga nella capitale a questa altezza di secolo.
Alcuni di essi possono esser rinvenuti anche in altre pièce223 e dovevano corrispondere ai personaggi
più noti delle confraternite profane della città; inutile dire che l’onomastica degli stolti si collegava
all’ambito semantico basso della povertà e della fame endemica.
Fra questi il “Seigneur du Pont Alletz” sembrerebbe essere l’attore Jeahn du Pont Alais, uno dei
pochi del genere di cui ci resti qualche testimonianza. Il nome “Abbé de Frevaulx”, forse non
identificava un attore particolare, ma certamente un’atmosfera, dal momento che era lo stesso di una
«abbaye facétieuse [mentionnée] dans plusieurs pièces, surtout normandes (d’où diverses formes
dialectales, telles que Frevaux, Frevault, etc.)»;224 fra l’altro la stessa parrocchia era menzionata anche
nel Marchebeau, pièce ancora a retroterra politico cui del resto allude lo stesso Gringore all’inizio
della sottie che stiamo analizzando.
Per quanto riguarda “l’Abbé de Plate Bource”, possiamo dire senza troppo sorprenderci che questo
nomignolo era comune (compare ad esempio anche nel Marchebeau) quanto il suo “trucco” comico,
essendo l’abbinamento ossimorico della qualifica un meccanismo parodico abbastanza comune nei
nomi parlanti. Con analogo meccanismo “Croulecu” associava “crouler”, “croller”, ovvero “tremare”
(dal latino popolare corrotulare inteso col senso di agitare o brandire) a “cul”, ciò che faceva l’abate in
questione un fannullone, ma anche uno che sfodera il sedere alla prima occasione, con ovvi
riferimenti all’omosessualità, argomento dominante della satira antiecclesiastica: il nome era
ricorrente e compare anche nel Sermon des frappeculz.
Scatenate le prime ilarità con i nomi e dichiarato nell’ozio l’argomento tutt’altro che ozioso, al verso
190 subentrava finalmente il Prince, da cui gli altri sot si facevano passare in rassegna; il sovrano,
223
Ritroviamo Plat d’Argent, Plate Bourse, abbé de Froicts Vaulx et le seigneur de Gayecte (con diversi altri), ad
esempio, nelle parodiche Lettres nouvelles contenantes le privilege et l’auctorité d’avoir deux femmes, ironicamente «données
en Pappegosse le penultième jour d’avril 1536», da tale Pirolon (in edizione moderna: Martijn RUS RODOPI, 1995 :
pp.215-217).
224
Per questi e i nomi che seguono: H. LEWICKA, 1968.
385
nonostante l’età avanzata, era accompagnato da Gayecte e si sollazzava a vedere i signori tutti riuniti.
Proprio Gayecte dichiarava la funzione tutta moralizzatrice del re di Francia, cui è dato per diritto il
compito di punire le malefatte e la depravazione del potere: subito si arrivava al punto della
questione con l’invocazione del popolo (Sotte Commune), proprio dopo avere ricordato che «[…]
prelatz font ung tas de mynes, | Ainsi que moynes regulliers; | Mais souvent dessoubz les courtines |
Ont creatures femynines | En lieu d’heures et de psautiers.»225
Le eccellenze ecclesiastiche erano così trascinate in un contenzioso con i principi profani, durante il
quale si doveva anche convincere Sotte Commune, il popolo, a non pensare al particolare soltanto,
in un invito a vedere la politica in ottica nazionale. Gli argomenti a favore del re erano politici ed
economici: si menzionava la consolidata stabilità e la fine dei conflitti interni e si elogiava per
concludere l’abbassamento delle tasse.
Al verso 335 si dava un taglio alle riflessioni politiche e si cominciava a dimostrare concretamente
tutta la depravazione del clero e del Papa; Mère Sotte sopraggiungeva accompagnata da Fiance e
Occasion, travestita da chiesa romana, per sproloquiare un monologo sulle proprie colpe, esibite con
spacconeria a tutti i convenuti, subito dopo comandati con un potere abusivo.
Col dialogo di Mère Sotte ed i prelati si sollevava una questione propria del gallicanesimo che come è
noto faceva dell’ingerenza papale sui vescovi di Francia una delle sue preoccupazioni principali:
sostenuta da Temporalità, la Mère pretendeva di governare su tutti; ma sulla sua strada si mettevano
i principi, che, fedelissimi al loro sovrano, non cedevano alle minacce dell’ingombrante presenza
papalina. E dalle parole si passava ai fatti («L’Eglise nous veult faire guerre, | Soubz umbre de paix
nous surprendre. [...] Il est permis de nous deffendre, | Le droit le dit, se on nous assault»).226
Come è possibile che il santo Padre, pastore di tutto il mondo, possa essere in verità così crudele?
L’arcano lo spiegava il Principe smascherando la Mère Sotte e mostrando a tutti chi si celava sotto le
vesti di chiesa.
La conclusione di questo “dialogo agito” salvava così chiesa e monarchia, scagliandosi non contro la
natura del potere ecclesiastico, ma enunciandone la compatibilità con quello regio, temporale,
purché esso venisse messo nelle mani di un uomo savio, ciò che evidentemente dal punto di vista del
poeta non era il caso di Giulio II. Gringore dice: la veste della chiesa va tolta al papa d’oggi ed
all’iniquità degli uomini ingiusti; ma sul potere della chiesa non discute.
225
226
RGS : t.II, p.148.
RGS, t.II, p.169.
386
I toni successivi della moralità227 si spingevano su orizzonti più eticamente connotati come naturale
prosecuzione dei versi della sottie. L’apertura era dedicata alla lunga lamentazione del popolo italiano
e del popolo francese: entrambi disillusi e vessati, il primo sottoposto alle conseguenze della
meschinità di Venezia, il secondo sotto il peso delle gabelle. Il popolo francese si mostrava bene a
conoscenza dei legami fra sistema bancario italiano e politica reale, ed in un punto rimproverava agli
italiani: «Tu as l’argent aussi. | Se je amasse des biens, il est ainsi | Qu’on te porte mon argent, ma
sustance».228 Irrinunciabile l’argomento dell’italien trompeur : «En ton blason fier je ne me dois, | Car
tu corromps promesses; dont tu voys | Pugnition divine qui te oppresse»,229 ma su questo tema
diffuso Gringore innestava pure una lamentazione sull’italianizzazione: si spiega così una battuta di
popolo italiano, che diceva di vedere ormai attitudine al tradimento anche nei francesi e dichiarava
seccamente: «Il n’est rien pire, par ma foy, | Qu’est ung François Ytaliqué.»230
Dopo questo débat-lamentazione sopraggiungeva il protagonista della moralità, tale Homme
Obstiné, ancora allegoria del Papa, qui impegnato a dichiarare la sua implicazione nel male e nel
peccato di simonia e la sua facoltà naturale di ingannatore. Arrivava subito dopo, dall’alto, Pugnition
Divine, a minacciare l’uomo ostinato per le sue malefatte, mentre Symonie e Ypocrisie aizzavano il
popolo francese, cercando di impartire insegnamenti sbagliati.
In modo del tutto speculare a quanto accadeva nella sottie si enumeravano i vantaggi ottenuti dal
popolo francese sotto gli ultimi regnanti: la condizione privilegiata del popolo transalpino era
espressa dalla Punizione, che diffidava chiunque ad avvicinarsi agli inquietanti compagni del Papa
simoniaco.
La conversazione risultava più statica, se possibile, della pièce contro Giulio II e gli argomenti si
avvolgevano su se stessi, fin quando non arrivava un deus ex machina a salvare, come si dice, “capra e
cavoli”: Demerites Communes, che assai sbrigativamente riusciva a convincere tutti i presenti sulle
rispettive responsabilità, con l’aiuto anche delle inquietanti facoltà di Pugnition Divine.
Oltre che per gli importanti dettagli sulla rappresentazione materiale delle farse che il Jeu du Prince
des Sotz ci fornisce, osserveremo in coda che questo varietà drammatico fu uno dei primi esempi di
sfruttamento del palcoscenico con scopi espressamente politici, qui significativamente accoppiati
all’occasione festiva del carnevale. La propaganda reale guadagnava sulle tavole degli eschaffaud quel
227
Il più delle volte detta de l’Homme Obstiné.
GRINGORE, t.I, p.246.
229
Ibidem : p.247.
230
Ibidem : p.248.
228
387
sicuro spazio di propagazione che poteva essergli garantito dalla capillarità del teatro e del mondo
dell’editoria ad esso legatosi molto precocemente.
La propaganda attraverso il teatro sarà paradossalmente uno dei fattori di decadenza del genere
drammatico profano francese: se da una parte i poeti francesi della scena non mancarono di lodare la
monarchia e di prestarsi ai suoi fini pubblicistici, dall’altra i profondi legami delle confraternite con
interessi interni e municipali, le rendevano estremamente imprevedibili, non sempre controllabili in
un quadro “programmaticamente” encomiastico.
La monarchia cominciò a preferire i creativi di corte, più affidabili e slegati dalle complesse
dinamiche degli interessi municipali e corporativi.
Del resto le confraternite piacevoli come la Bazoche erano già state censurate da Luigi XI fra il 1461
ed il 1483. Carlo VIII aveva loro restituito la facoltà di recitare, pur mantenendo nei loro riguardi un
atteggiamento ambiguo, continuando a sospenderne di tanto in tanto le attività. Nel 1486 le critiche
mosse in una recita contro il governo reale attiravano nuovamente sulla confraternita le ire del re, che
faceva recludere cinque membri nelle prigioni dello Châtelet e poi alla Conciergerie. A seguito di
questo episodio Carlo VIII ripristinò definitivamente il divieto di pubbliche rappresentazioni già
voluto dal suo predecessore. Alle soglie del XVI secolo, con Luigi XII le rappresentazioni di Bazoche
vennero nuovamente autorizzate, dietro la condizione, però, che esse non toccassero il lustro della
regina. Luigi XII, si guadagnava fama di liberalità: in proposito il tempo ha conservato un episodio
di magnanimità del re verso le arti di Talia, ed in particolare verso la confraternita della Bazoche, che
la storiografia ha sovente interpretato come un atto di dimostrazione della rinnovata sensibilità regia
per il mondo dei catafalchi.
[Le roy] honoroit [Anne de Bretagne] de telle sorte, que lui estant raporté un jour que les clercs de la basoche
du Palais; et les escolliers aussi, avoient joué des jeux où ils parloient du roy, de sa court et de tous les grandz,
il n’en fist autre semblant, sinon de dire qu’il falloit qu’ilz passassent leur temps, et qu’il leur permettoit,
qu’ils parlassent de luy et de sa court, non pourtant desreglement, mais surtout qu’ils ne parlassent de la reyne
sa femme en façon quelconque; autrement qu’il les feroit tous pendre.
Voila l’honneur qu'il lui portoit.231
Il giudizio dei teatranti su Luigi XII sembra non variare nel tempo. Per dominare i regni vicini non è
secondario il consenso delle genti umili di Francia e ci si avvale della poesia e dello straordinario
231
BRANTOME, t.VII, 316.
388
mezzo della stampa, per consentire la diffusione di opere gradite al pubblico popolare nelle quali
introdurre i rudimenti della politica anti-italiana. Il poeta partecipa dell’educazione delle masse
avvalendosi della popolarità dei generi drammatici profani.
Mais parautant que de detraction
Vsent souvent par folle affection
Nommans aucuns, & faisans du scandalle
On dit Satyre estre vne chose malle.
En France elle a de sotie le nom,
Par-ce que sotz des gens de grand renom
Et des petitz iouent les grands follies
Sur eschauffaulx en parolles polies,
Qui est permis par les princes & Roys
A celle fin qu'ilz sachent les derroys
De leur conseil qu'on ne leur ause dire
Desquelz ilz sont advertiz par Satyre.
Le roy Loys douziesme desiroit
Qu'on les iouast a Paris, & disoit
Que par telz ieux il scauoit maintes faultes
Qu'on luy celoit par suprinses trop caultes.232
Nei confronti dello spettacolo autoctono Francesco I si trova invece in una posizione paradossale: la
recezione delle novità europee della letteratura e dello spettacolo favorisce lo sviluppo di un modello
spettacolare basato sui medesimi principi tematici delle farse, ma rispetto ad esse più adeguato al
gusto moderno (prima della corte, ma ben presto anche delle masse); ciò che implica una erosione
del margine di movimento delle compagnie e delle confraternite parigine, che negli anni del regno
del Valois sono sottoposte ad una stretta censoria contrastante appunto con la politica di tutela delle
arti instaurata dal sovrano. Il re quasi a disperdere una “comunità comica” dominante in Parigi,
quella degli Enfants Sans-Soucy e ad emarginare figure dello spettacolo precedentemente di primo
piano come Pierre Gringore.
Tuttavia il sodalizio fra il regno di Francesco ed i bazochiens era stato inaugurato nel segno della
concordia: per il suo ingresso in Parigi del 1515 Francesco I assisté ad un festino offerto dal prevôt des
marchands et des échevins ed i bazochiali videro nell’insediamento del nuovo sovrano una
fondamentale occasione di riscatto dopo le lunghe vicende di censura e si esibirono in una farsa con
danze e canti di cui il re rimase soddisfatto: cogliendo al volo il favore reale così a lungo ricercato, i
confratelli inoltrarono una nuova richiesta di rappresentazioni, che il parlamento bloccò,
ufficialmente per via del lutto ancora in corso per la morte di Luigi d’Orleans, in realtà per il
232
Jeahn Bouchet, Epistres morales et familieres du Traverseur, Bouchet – de Marnef, Poitiers, 1545, (I, 32d).
389
perdurare dell’ostilità dei parlamentari verso i bazochiens. Contro gli ostacoli posti dal parlamento i
clerc decisero di rivolgersi direttamente a sua maestà, incaricando Clément Marot di inoltrare una
supplica scritta: il re accettò le richieste e i bazochiali chiesero il rimborso delle spese di
organizzazione dei bontempi reali, che fu accordato.
A questo iniziale favore da parte del sovrano fece seguito una progressiva perdita di interesse nei
confronti della confraternita, che durante le lunghe assenze reali dalla capitale doveva fronteggiare
anche i continui divieti parlamentari.
La produzione di carte di scarsa qualità d’impressione e con bassi costi di vendita, occasionava
dunque ampie tirature e consentiva l’accesso alla lettura ad un pubblico più ampio e
“medioborghese”, fino a quel momento parsimonioso consumatore di almanacchi e solo raramente
di “belle lettere”. La diffusione di generi bassi come la farsa e la sottie, era stretta a filo doppio alle
pratiche della stampa, la cui forza propagandistica si faceva tanto più forte quanto legata alla
diffusione della poesia popolare e drammatica.
Fra il 1504 ed il 1509 i poeti assoldati più o meno direttamente dalla corona avevano eccitato
l’opinione pubblica in direzione antiveneziana componendo opere come les Ballades de bruyt
commun,233 l’Entreprise de Venise234 e la Lamentation de Venise,235 cui poi si aggiunse lo spregio per il
papa, d’altra parte già oggetto di derisione nella moralità del Nouveau monde236 e ne La legende des
Venitiens237 ove Jehan Lemaire des Belges sotto apparenza storica e forma metrica “performativa”
concepiva un’opera polemica di carattere drammatico, ma espressamente riservata alla circolazione a
stampa ed alla diffusione fra il popolo minuto: una forte propaganda si rendeva tanto più necessaria
nel contesto della politica antipapale, più difficile da far accettare al popolino.
Anche Jean des Belges esprimeva prospettive politiche gallicane sostenendo la necessità di
un’assemblea conciliare nazionale e la superiorità di siffatto consiglio sull’autorità papalina: l’operetta
di propaganda rivendicava a sé un’attendibilità storiografica, qualificandosi l’autore come «indiciaire
233
André de La Vigne, les Ballades de bruyt commun sur les aliances des roys, des princes et provinces, avec le tremblement de
Venyse, s.l.n.d., (1508).
234
Pierre GRINGORE, l’Entreprise de Venise…, s.l.n.d.
235
A. MEDIN, 1889. Nei cataloghi di Francia non si trova la cinquecentina, senza data, ma probabilmente del ‘13.
236
Jean BOUCHET o Pierre GRINGORE, le Nouveau monde…, Eustace, Paris, s.d.
237
Jean Lemaire de Belges, La Légende des Vénitiens, ou autrement leur cronicque abbrégée, par laquelle est démonstré le très
juste fondement de la guerre contre eulx, s.l.n.d., (Geoffroy de Marnef, 1509). Ne circolava una edizione con privilegio
lionese del 1500.
390
et hystoriographe de la royne»; seguendo una regola generale della produzione pubblicistica238 della
propaganda, giacché era noto come Anna di Bretagna fosse profondamente religiosa e legata alla
Santa Sede, quindi super partes per l’opinione pubblica. Nella Legende des Venitiens all’opera principale
erano aggiunti anche alcuni brani di gusto esotico (sullo Shah di Persia ed il pellegrinaggio in
Palestina), secondo un’altra pratica specifica della letteratura popolare, che nelle ambientazioni
orientali trovava un sicuro campo di successo fra i ceti medio-bassi.
Il poeta André de la Vigne – attivissimo come Gringore nella produzione di versi per le scene – fu
uno dei più fecondi in questo campo. Nell’aprile del 1507, quando Luigi XII aveva castigato
l’autonomia della repubblica di Genova, componeva una ballata dal titolo Paternostre des Genevois,239
cui seguiva un Atollite portas et qui est iste rex gloire […] sur la prinse et conqueste de Gennes ove alle
invettive contro i genovesi, genti ostinate ed altère, si alternavano gli elogi di Luigi XII, «Dominus
fortis et potens, Dominus potens in prelio […] seigneur de tous seigneurs certains.»
Due anni appresso, […] quando [Luigi XII] ordina a Cambray quella lega congiurata ad annientare la
potenza della Serenissima, si ridestò spontaneo nei poeti francesi il ricordo, non solo delle non lontane
vicende di Genova, ma anche dei versi scritti per la sua caduta. Pierre Gringore, nell’Entreprise de Venise
ammonì i veneziani di temere il valore e la potenza di Luigi XII: «Prenez exemple à vos circunvoisins | Les
Genevoys ; ne faites plus des fins.»240
Oltre alla trascrizione creativa dei resoconti della prima guerra d’Italia – che modernamente
prenderanno il titolo di Histoire du voyage de Naples241 – André de la Vigne diede alle stampe le
Libelle des cinq villes d’Ytallye contre Venise242 e les Ballades des bruyt commun.
La maggior parte di queste stampe era corredata da un apparato illustrativo: ad esempio, nella
seconda composizione, all’ultimo foglio troviamo un legno rappresentante Luigi XII, seguito
dall’esercito cui alcune donne donano le chiavi della città lagunare. Nel volume vi sono quattro
238
Anche Gringore si qualifica analogamente nei suoi pamphlet anti-italiani, con lo scopo di donare prestigio e peso alla
sua parola. Sulle dubbie informazioni storiche rese dalla propaganda si veda Antonio Medin sulla Lamentation de Venise
(ma anche il saggio di Balmas sulle Lettres Nouvelle): «Rinfrancatasi dal timore, la Francia dà libero sfogo all’odio nutrito
contro la rivale; onde la disfatta dei Veneziani appare qui anche più grave di quanto fu veramente, ed il numero di morti
viene raddoppiato, perché nessuno storico ci dà una cifra maggiore di ottomila, ed anzi alcuni dicono che furono assai
meno. Insomma, leggendo questa ballata dobbiamo sempre ricordarci che essa è un canto di vittoria che i francesi a loro
maggior gloria finsero intuonato dall’oppresso nemico».
A. MEDIN, 1889, (p.12).
239
André de la Vigne lo compose nel 1507 per celebrare la repressione dei genovesi. Non si conosce alcuna edizione in
cui compaia da solo. Chiude la Louenge de roys de France, Eustache de Brie, Paris, 1508.
240
A. MEDIN, 1889 : p.15.
241
cfr. supra
242
André de La VIGNE, Le libelle des cinq villes d'Ytallye contre Venise est assavoir Romme, Naples, Florence, Gennes et
Millan, Abraham, Lyon, s.d.
391
ballate ed un rondeau: le prime tre ballate si riferiscono alle alleanze strette in vista della spedizione
del 1509; la quarta, intitolata le Tremblement de Venise è un panegirico della potenza francese, di
fronte alla quale vediamo la pavida repubblica veneziana spaventata e scossa dalle azioni militari del
re.
L’adozione in chiave ironica della preghiera è una delle forme più comuni del filone e viene ripresa
anche dall’anonimo autore di Chalon-sur-Saône, in un lamento satirico di Venezia intitolato le
Grand credo de Venise scritto durante le festività pasquali del 1509 parodiando il credo religioso.
Nella stampa dell’opera, consistente in appena quattro carte senza alcuna indicazione tipografica
conservate oggi nel fondo della Biblioteca Nazionale di Francia, figurano al titolo tre piccoli legni
distinti composti l’uno accanto all’altro: l’unione dei primi due forma l’immagine di una chiesa
gotica, il terzo rappresenta invece un cavaliere armato di spada e picca che muove in direzione d’una
cattedrale. Segue una prefazione de «lacteur»: al tergo dell’ultima carta otto versi ed altri due piccoli
legni rappresentano un personaggio vestito d’una tonaca ed un re che porta lo scettro e la mano della
giustizia. Il nostro Credo è composto di sedici strofe ed otto versi ed ha un’introduzione ove compare
il riferimento esplicito al Paternostre di André de la Vigne: «Vous avez veu la Paternostre | Des
Genevoys, deux ans y a». Il poeta si dichiara qui in modo enigmatico, ed è interessante che senta il
bisogno di indicare la sua provenienza non italiana («Le facteur n’est pas d’Ytalie ; | A Chalon fait sa
demourance»):243 si tratta forse di un indizio sull’attività degli italiani nell’ambito della propaganda
politica francese?
D’altronde anche per gli autori italiani, la nascente pubblicistica regia delle campagne francesi offrì
qualche impiego in più, dal momento che la propaganda era non di rado interessata a produzioni
poetiche in “lingua del sì” volte a rendere edotte le popolazioni conquistate: ed è noto come per
ragioni strategiche interne agli interessi del difficile campanilismo italiano, alcuni poeti delle regioni
dell’arco alpino parteggiassero senza troppa difficoltà per il re dei franchi.
È il caso di Giovan Giorgio Alione, che nella sua variegata produzione in italiano e francese ebbe a
produrre anche un poemetto in ottave sulla caduta del Moro: la Conqueste de Loys douziesme roy de
France sur la duchié de Milan. Avec la prinse du seigneur Ludovicque244 opera la cui ispirazione e i
contenuti erano affini a quelli delle Lettres nouvelles di Gringore, sia da un punto di vista
contenutistico che tematico.
243
Le grāt cre || do de Venise. S.l.n.d. (1509). Cat. ROTHSCHILD, t.I, n°540.
Fu pubblicata nelle Poésies Françoises de J. G. Alione (Parigi, 1836, tirata a 108 esemplari) con un biografia lacunosa ed
errata in diverse parti. Vi si accennerà più avanti.
392
244
In entrambi gli autori il tema stavolta antimilanese veniva sviluppato in ottave: analogo il tema,
analoga la metrica ed analoga anche la successione ritmica, con la chiusura delle strofe in motti e
detti popolari, secondo un’estetica propria al fabliau ed a Jean Molinet.
La composizione alionea può anche essere accostata al Voyage de Naples: ma la pratica delle lettere
politiche in chiave filofrancese ed antimilanese era per l’Alione un terreno letterario più antico,
rimontando al 1499 la composizione della Macarronea,245 in polemica con quella del ’91 di Bassano
da Mantova.
Opera in esametri zoppicanti e d’altrettanto claudicante latino parodico, la Macarronea è un esempio
calzante di come l’interesse “particulare” e campanilistico potesse portare un italiano ad auspicare la
“calata” dell’esercito transalpino. La lunga invettiva alionea si manifestava infatti nel solco delle
logiche antagoniste fra le fazioni piemontese e savoina, che non definivano due entità geografiche,
ma due partiti che nel ducato si contendevano il predominio nelle cariche dello stato. Ribadire il
proprio filo-francesismo serviva a rivendicare un primato sull’odiata Milano, che dopo la conquista
del re dei franchi rischiava di scalzare Asti dal suo importante ruolo di principale e florido avamposto
gallico nel nord d’Italia. E pure da un punto di vista culturale per gli astigiani il domino milanese era
un fatto più intollerabile dell’invasione straniera.
Anche Betuzzo da Cottignola, Simeone Litta di Milano e Graziano di Lucca furono tre poeti italiani
attivi in Lione, che si dedicarono proprio alla propaganda per Luigi XII, il terzo contribuendovi
anche con le presse dell’officina che gestiva.
La Frotola noua contra Venitiani composta per magistro Gratiano de la cità de Luca, nuovamente
stampada, per i riferimenti storici che contiene può essere datata al 1509: il legno usato per le
illustrazioni è lo stesso che orna anche una edizione lionese dell’Ospital d’amour, dettaglio già rilevato
al 578 del catalogo Rothschild, ove si segnala che forse il sovrano fece stampare a Lione, prima di
passare le Alpi, alcuni factum destinati ad essere distribuiti dall’arme agli abitanti dei paesi italiani
sotto l’influenza francese. Una nuova frotoleta contra li Veniciani, composta per Betuzo da Cottignola,
compare ancora nel catalogo Rotschild, al 1508, ma in effetti vi si allude alla lega di Cambray ma
non alla battaglia di Geradadda-Agnadello. La composizione deve essere quindi collocata fra questi
due eventi, più probabilmente al 1509, giacché la lega di Cambray risale al 10 dicembre 1508.
245
La Macarronea fa parte dell’Opera piacevole di Alione, per la quale si fornirà la dovuta bibliografia nel prossimo
capitolo. Segnaliamo qui l’edizione moderna in cui sono contenuti gli argomenti per la datazione: M. CHIESA, 1982.
393
Alla collocazione III, 2591 (563a) del catalogo Rothschild troviamo l’opuscolo di Simeone Litta di
Milano, Eoure nouvellement translatee de Italienne rime : en rime francoyse contenant laduenement du
trescrestien Roy de france Loys .xij. de ce nom a Milan.246 I fogli sono aperti da un’incisione con il re a
cavallo vestito di gigli ed armato di spada, che passa sui corpi di due uomini, diretto alle mura della
città e seguito da rappresentanze civiche in abiti da cerimonia. Sullo sfondo troneggiano le picche e
le spade mentre dal suolo si innalzano api. Nel cielo si vede una specie di fuoco o bagliore. Al V° dal
titolo si legge «C’est l’oraison des Lyonnoys | Ou des vers a six vingtz et troys.»
Le tre impressioni sono esempi indicativi di come dovevano essere nella forma materiale e nei
contenuti questi opuscoli il cui livello medio era assai inferiore rispetto a quelli qui trattati. Nel
nostro caso le comuni caratteristiche tipografiche avvalorano l’idea che le tre operette fossero state
confezionate su ordine reale prima della spedizione italiana: possono infatti essere ricondotte ad un
medesimo laboratorio e ad una medesima data. Le forniamo in appendice, per la prima volta a
quanto ne sappiamo.
Le Lettres nouvelles de Milan di Pierre Gringore compaiono sotto forma d’opuscolo di 6 ff. non
numerati, senza indicazione di editore di luogo e di data e frontespizio decorato da xilografia. Il testo
poetico reca anche un sottotitolo: S’ensuyt le debat des Francois con/tre le sire Ludovic. Avec les regretz
d’iceluy et complainte des milannoys; «[…] il poemetto trae la sua ragion d’essere dalla cattura di
Ludovico il Moro a Novara, nell’aprile dell’anno 1500, è così possibile datare l’operetta che ci
interessa tra il 10 ed il 20 aprile 1500. Non prima del 10, per ovvii motivi; non dopo il 20, poiché il
17 aprile i francesi rientrarono solennemente a Milano, e certamente il Poeta, se informato di questo
avvenimento non avrebbe mancato di parlarne […]».247 È dunque opera di circostanza, redatta per
cortigianeria ed esaltato spirito nazionalistico, che ripeteva le forme materiali ed i contenuti dei
factum di propaganda appena passati in rivista. L’attribuzione a Pierre Gringore si ricava
246
Eoure nouuellemēt || translatee de Italienne rime : en rime || francoyse contenant laduenement du || trescrestien Roy
de france Loys .xij. de || ce nom a Milan : & sa triumphante en || tree audit millan auec grande cōpaignie de noblesse ||
estant auec luy. Et de la dolente prinse de Riuolte || sur le venititens. Aussy cōment il a vaincu & rue ius || larmee
venitiēne : & prins prisonnier le seigneur Bar || tholomy Dauigliano. Et cōment il fut mene a mil || lan : et de la ioye
desdits millanoys et autres : de ladi || te victoire nouuellemēt audit trescrestien et illustre || Roy donnee.
Ce present liure nouuellement comme dessus est || dict trāslatz ditalien : en ryme francoyse : a este soubz || conge et licence
Imprime à Lyon le .ix. iour de iuing || lan mil cincq cens et neuf [1509].
247
E. BALMAS, 1955 : p.7.
394
dall’acrostico dell’ultima strofa.248 Il «débat» conta complessivamente 320 versi, ottonari e decasillabi,
alternati a caso e raggruppati secondo metri diversi: octains, dizains e tre rondeaux.
Il poema di Gringore è tratto in parte dal Grand jubillé de Millan, uscito sotto il nome misterioso di
Lemonde; quest’ultima opera fu scritta una decina di giorni prima, durante la concentrazione in fine
marzo delle forze francesi per l’offensiva finale; l’invettiva anti italiana è qui virulenta: si tenta ad
esempio una dubbia analisi filologica del nome Sforza, per dimostrare, nomina nomen, l’origine
umile e bastarda del casato milanese, contro la nobiltà viscontea usurpata e tradita.
Escript par Sph ou F: Force
Par F, vertu signifie ;
Sph du grec vient, je vous affie ;
Sporta, c’est fames, qui fain sonne :
Le nom à la chose consonne.249
L’opera di Gringore – stesa nello stesso periodo dei Chasteaulx – conobbe una sola edizione,
attualmente conservata in copia unica alla BNF passata pressoché inosservata fino alla sua scoperta da
parte di Eugenio Balmas.
Secondo lo studioso italiano le Lettres sarebbero un omaggio non richiesto al regime, realizzato da un
poeta desideroso di mettersi in mostra di fronte alla corte: è poco probabile, infatti, che Gringore –
all’epoca scrittore di provincia – avesse potuto ottenere subito una commissione regia; inoltre né
dedicatoria, né privilegi, né documenti ufficiali riportano una qualche richiesta della corte o
pagamenti effettuati allo scrittore. Oltre alle affinità con la creazione di Lemonde, le Lettres –
dedicate alle imprese militari connesse alla guerra contro il Moro – analogamente al Voyage de Naples
sono un adattamento di corrispondenze ufficiali. Il testo si divide in due sezioni; da una parte le
lettere reali, che espongono i fatti fra dimensione pubblica e privata; dall’altra parte un débat,
documento letterario e testimonianza dell’orientamento psicologico diffuso oltralpe, che esigeva
coesione nella popolazione, in un progetto di politico oltre i confini della nazione.
248
G entilz francoys, soyez de la victoire
R emercians Jesus le createur ;
I l nous appert que l’euvre meritoire
N ous vient du Ciel, Dieu est nostre adjuteur ;
G loire, triumphe, magnificence, honneur
O nt conquesté à Milan gens d’armes ;
R egretz, souspirs, Ludovic en son cueur,
E n a souvent et pleure maintes larmes.
Lettres Nouvelles, (f.5v.).
249
Non ci è stato possibile reperire il jubillé de Millan: ci affidiamo pertanto alle trascrizioni di Eugenio Balmas.
395
Ed infatti le lettere regie manipolate da Gringore, compongono un quadro storico inquinato di
imprecisioni intenzionali, esponendo mezze verità e omettendo dettagli significativi al fine di mettere
in cattiva luce le armi italiane e fomentare l’odio reciproco fra le popolazioni. Ecco la sinossi di
Eugenio Balmas alla versione dei fatti storici narrati da Gringore.
Ludovico il Moro, all’approssimarsi dell’esercito francese a Novara, è fuggito con una scorta di 100 cavalli,
abbandonando il suo esercito e l’artiglieria. Vi sono segni manifesti di decomposizione nella sua armata: un
condottiero ha già defezionato, altri si pensa seguiranno. Un poscritto aggiunge che Ludovico è stato fatto
prigioniero mentre tentava di fuggire travestito da francescano; una composizione è intervenuta fra i due
eserciti, a seguito della quale tutta l’artiglieria sforzesca è caduta in mano ai francesi. […] Un breve
commento a queste notizie fa sapere che, per festeggiare la vittoria, si fecero processioni a Parigi per tre giorni
consecutivi; il quarto giorno fu cantato il Te Deum solenne in Notre-Dame, e la sera fuochi di gioia furono
accesi, per rendere completo il tripudio popolare, «parmi les rues et carrefours».250
Balmas fa notare le molteplici inesattezze, che nel primo proclama riguardano soprattutto dettagli di
carattere cronologico, mentre nel secondo sono più esplicitamente tese a denigrare l’immagine del
Moro.
La notizia che il Moro è stato catturato in abito da francescano mentre, dissimulato tra i soldati svizzeri, tenta
di sottrarsi alla prigionia, costituisce il nocciolo della seconda parte del proclama reale. Il solo Bouchet […]
ha fatto sua questa versione; le altre fonti contemporanee, a cominciare dal Trivulzio nella sua Relazione alla
Signoria Veneta, raccolta dal Sanuto, parlano di Ludovico “camuffato” da svizzero e confuso con la truppa
anonima, che defluisce in disordine dalla città. Il solo Sismondi, tra i moderni, ha accolto la tesi reale,
sviluppandola: «Sforza, déjà vieux, bazané et d’une taille grêle, ne pouvoit passer pour un de ces vigoureux
montagnards. Il s’habilla en cordelier et, monté sur un méchant cheval, il essaya de se donner pour leur
chapelain».
La provenienza di questa notizia la rende, però, sospetta : vien fatto di pensare ad una interpolazione della
cancelleria reale, evidentemente interessata ad accreditare, presso l’opinione pubblica, la versione più
sfavorevole al Moro dal punto di vista morale, di un avvenimento di cui in fondo le armi francesi avevano
poca gloria da trarre.251
La storia della duplice capitolazione di Ludovico il Moro fu in realtà differente e il comportamento
dello Sforza ben più valoroso di fronte a difficoltà e sfortune oggettive, più vere di quanto non
vogliano farci credere le Lettres. Sappiamo inoltre che una delle strategie dell’esercito francese fu
quella di seminare il panico nella popolazione (è noto l’episodio, ad esempio, della rocca di Arazzo)
che non era propriamente lieta della dominazione transalpina. Infine il Moro – nella pubblicistica
francese emblema del principe traditore – dovette fare i conti con i voltafaccia dei sudditi: la caduta
della rocca di Milano ad esempio, che come si sa fu decisa forse più dalla corruzione che dalle armi,
250
251
Ibidem : p.23.
Ibidem : pp.54-55, [corsivo mio, n.d.r.]
396
con il famoso tradimento di Bernardino da Corte che la consegnò all’esercito del Trivulzio, forzieri
ed armi comprese.
Nonostante queste difficoltà incontrollabili anche per il più esperto dei condottieri, il Moro si batté
valorosamente e riuscì anche ad ottenere una vittoria nel marzo del 1500, poco prima della sconfitta;
diciassette giorni dopo, di fronte allo scontro decisivo nei pressi di Novara, lo Sforza vide il suo
esercito dimezzato da un altro tradimento, quello delle milizie svizzere. Il duca tentò effettivamente
la fuga in incognito, ma i Francesi costrinsero tutte le unità a passare sotto una picca al cospetto di
Trivulzio stesso, cui il Moro – terzo tradimento – fu indicato da due mercenari.
[L’accusa] di essersi travestito da ecclesiastico completa ammirevolmente il ritratto di Ludovico il Moro,
quale era venuto presentandolo la pubblicistica francese e quale ritroveremo nel poemetto di Gringore, di un
uomo capace di ogni nefandezza – non aveva forse fatto avvelenare il proprio nipote per usurparne il trono? –
e capace in particolare di tentare con l’inganno, la protezione di un abito venerabile, di sottrarsi alla giusta
punizione che lo aspetta. Gettando fango sul principe caduto è probabile che si siano voluti prevenire i moti
di simpatia dell’opinione popolare verso quest’uomo che un duro destino trascinava violentemente in basso,
dopo averne fatto per un attimo l’arbitro delle cose in Italia.
Gringore […] rispecchia fedelmente ed anzi sottolinea nel suo poemetto la tendenziosità del proclama reale:
senza essere bene addentro al segreto delle intenzioni della Corte, il suo intuito deve avergli suggerito in quale
direzione conveniva indirizzare il suo canto. La sua carriera successiva può ben fare fede della bontà della sua
idea, e del suo successo.252
Rispetto però alle altre composizioni politiche qui appena sfogliate l’originalità di Gringore sta
nell’aver introdotto un principio drammatico, sovrapposto al motivo convenzionale della
celebrazione della vittoria delle armi nazionali. Ed altra innovazione “teatrale” è l’introduzione della
“compliante”, genere aulico del Medio Evo, che appare qui piegato con disinvolta spregiudicatezza e
spiccato senso moderno a finalità più espressamente pratiche.
252
Ibidem : pp.55-56.
397
3.3 – Esterofilia per scelta: lo strano caso di Giovan Giorgio Alione.
3.3.1 – Un passato critico tormentato.
Di Giovan Giorgio Alione, nobile astigiano, sappiamo poco o nulla. Le notizie biografiche sul suo
conto sono frammentare, indirette e pervenuteci fortuitamente, ed al di là di qualche documento
notarile i soli dettagli affidabili sulla sua vita sono quasi tutti interni alla sua Opera piacevole (o
Jocunda), stampata nel 1521, ma elaborata con ogni probabilità fra i due secoli.253
Ad alimentare le incertezze biografiche ha contribuito nel tempo la singolarità dell’autore, per lo più
ignorato dalla critica italiana risorgimentale a causa delle sue idee filo-francesi ed affrontato con
larghissimi margini di imprecisione (e solo per quanto riguarda la sua produzione in lingua francese),
quasi esclusivamente dalla critica transalpina del primo Novecento. Nella galleria della letteratura
francese ed italiana Giovan Giorgio Alione è stato soprattutto menzionato in qualità di stravaganza
letteraria ed ha suscitato in particolare l’interesse specialistico della critica erudita e bibliofila.
La scarsità d’interesse attorno alla sua opera, le prese di posizione di certa critica “politicizzata”,
l’esiguità delle fonti, l’ambiguità linguistica, la marginalità geografica e culturale dell’area astigiana,
l’impossibilità di una classificazione esatta della sua produzione ed il dominio profano ed eclettico
253
Giovan Giorgio Alione, Opera jocunda no. d. Johannis. Georgij Alioni Astensis metro macharronico materno & Gallico
composita, Ast : per Francischum de Silua, 1521, die 12. mensis Marcij.
398
cui può essere ascritta, sono stati nel tempo una combinazione letale per una realistica lettura storicocritica di questa figura sospesa fra i due lati delle Alpi.
Alione è in una posizione linguistica e stilistica di forte impronta francofona: scrive indistintamente
in francese ed italiano, ma fra le lingue italiche preferisce il di per sé gallicizzante piemontese,
impiegato non senza intenzioni polemiche contro la dilagante unità linguistica fiorentina che si
imponeva nel classicismo. È stato pertanto considerato uno straniero non solo dalla critica italiana
del XIX secolo, ma pure dai suoi coevi e ciò si deve, oltre appunto al criterio caratterizzante della
lingua, anche alla sua completa adesione al gusto medievale francese, dalle cui forme espressive ricava
vitalità raggiungendo punte di originalità anche rispetto al modello profano d’oltralpe.
Le linee generali della sua opera non possono essere ascritte al Rinascimento: ciò si giustifica oltre che
con le appena citate scelte linguistiche e stilistiche, anche con storia stessa di Asti, centro cui fu
precluso lo sviluppo maturo della novità italiana dalle alterne dominazioni e dalla costante ingerenza
politica e sociale di Francia e Impero.
Alione però riesce ad introdurre degli elementi di novità nel genere farsesco, a “captare” in un certo
senso lo spirito ed alcune tendenze del Rinascimento italiano, specie nella realizzazione e nello
sviluppo di una “politica autoriale” (quasi assente nella vasta produzione teatrale profana francese) o
nell’attivazione di un dialogo (o lotta: la Macarronea) “impari” con il mondo della cultura italiana
più avanzata.
Sia ben chiaro: dal punto di vista di Alione il francesismo e “l’esotismo” profano d’oltralpe sono
valori aggiunti, dati estetici caratterizzanti. Nella sua produzione politica con modalità pratiche e
formali consapevolmente affini a Pierre Gringore esprime idee filogalliche ed antimilanesi. Si direbbe
un autore francese nato in Italia se non fosse che reazioni polemiche come quelle contro la
Macarronea misogallica del poeta minore (per importanza e per età) Bassano da Mantova,
testimoniano come pure in un ambito locale fosse l’Alione in rapporto dialettico con il più ampio
panorama culturale italiano.
Guardandoci da alcune esagerazioni critiche, come quella di George Ulysse - che tenta di usare la
“polemica delle macarronee” per dire, a proposito di contatti e scambi con la cultura italiana, che
«rien n’interdit de penser que Alione a essayé de suivre, dans la mesure du possible, l’évolution de la
399
Comédie Italienne»254 - ammetteremo la singolarità di Alione sia rispetto al contesto italiano, sia
rispetto a quello francese, cercando di sviluppare alcune considerazioni sulla sua produzione come
espressione di un contesto narrativo e letterario se non unico, almeno omogeneo, fra Italia e Francia.
Dal nostro punto di vista Alione suscita un particolare interesse per due ragioni fondamentali; una è
puramente cronologica, occupando la sua attività quasi perfettamente i nostri limiti temporali; l’altra
è invece di carattere stilistico, in quanto egli è l’unico vero farceur italiano, solo a riprodurre in Italia
in modo consapevole i moduli tipici del teatro profano francese.
Se pensiamo all’enorme deriva delle fonti, specie per le dimensioni che essa assume nell’ambito della
letteratura teatrale e maggiormente per la profana, niente ci fa escludere che qualcun altro in Italia
oltre ad Alione, si dilettasse nel sapido passatempo della scrittura da catafalco. Nessuna prova
documentaria ci conforta in questo senso, ma il baricentro della questione è per noi sensibilmente
diverso: il successo editoriale delle Opera jocunda sta forse lì a tracciare un’ulteriore testimonianza di
questo humus che consentì più tardi lo sviluppo di forti legami fra commedia francese ed italiana.
Prenderemo Alione non come innovatore o inventore di un genere, ma come una matassa
inestricabile di motivi: nella sua opera si accumulano novellistica italiana e umanesimo da accatto,
sottoposti alla forza centrifuga di forme letterarie più confusionarie, entropiche (fabliau, farsa, sottie,
barzelletta), a formare un tessuto tuttavia preciso, che bene si adatta alla nostra idea di un’unica
cultura drammatica profana fra Francia ed Italia, sviluppatasi e sfumata in un insieme omogeneo
attraverso secoli di stratificazione, ma così vitale da incidere sullo sviluppo di forme più mature
d’espressione teatrale. Ciò che rende davvero unico Alione è che alla retrocessione sulle forme
medievali egli fa corrispondere sempre una intellettualizzazione “rinascimentale”.
Alla grande fedeltà al modello, pedissequamente riconosciuta da pressoché tutti i critici che si sono
occupati della sua attività, Alione associa anche una rielaborazione dei moduli farseschi: beneficiando
della libertà del dilettante e dell’informalità del contesto in cui realizza le sue farse (se si trattasse di
un circolo di “bontempi” o se le sue farse erano scritte per essere messe in scena non ci è dato sapere,
ma è certo che non si tratta di un contesto propriamente professionale) riesce egli ad appropriarsi di
forme e luoghi letterari ed apportarvi una certa originalità, dando impronta autoriale ad un genere
che abbiamo visto frequentato per lo più da penne sconosciute, anonime.
Pur trattandosi di un esempio delimitato in coordinate spazio-temporali ristrette Giovan Giorgio
Alione è insomma l’autore più antico presso il quale si può osservare una sovrapposizione fra la
254
G. ULYSSE, 1983 : pp.73-74n.
400
produzione teatrale profana italiana e francese, spazio di interpolazione ideale di fitte influenze
reciproche e confronti diretti fra le letterature drammatiche dei due paesi.
Sul conto di Giovan Giorgio Alione s’è alimentata in passato una mitografia improbabile, la cui
diffusione è stata agevolata dall’ascendenza eclettica e popolare dell’opera sua, facile ad interagire e
mescolarsi con l’immagine storica del poeta: il mito di genio e sregolatezza ha facilmente preso piede,
a partire dalla più diffusa stampa dell’Opera piacevole, quella del 1601 (poi riprodotta nel 1625 da
Stefano Manzolino e modello anche per quasi tutte le edizioni ottocentesche) nella quale il tipografo
Virginio Zangrandi, astigiano pure lui, si divertiva ad aggiungere una nota storica in cui riportava
particolari a dir poco fantasiosi sulla vita del poeta. È da qui che muovono i primi “almanaccamenti”
sul conto del Nostro:255 da questa prefazione intrisa di cattolicesimo controriformista in cui il
tipografo oltre che censurare una parte delle Jocunda alludeva ad un improbabile incarceramento di
Alione, presumibilmente dovuto al tema salace e scandaloso dell’opera. Dopo di che vennero i
bibliofili: a questa nota storica credette per primo Jacques-Charles Brunet256 che si sentì anzi così
sollecitato dalle fantasticherie dello Zangrandi, che volle aggiungerne di nuove, più piccanti ed
originali nella sua rara ristampa delle sole poesie francesi contenute nell’Opera piacevole, a tutt’oggi
edizione alionesca di più vecchia data conservata ai rari e preziosi della Biblioteca Nazionale di
Francia.
Solo Paolo Antonio Tosi – bibliofilo milanese cui si deve la scoperta dell’editio princeps completa di
colophon e che produsse una ristampa della Macarronea contra Bassano – ebbe a ridimensionare in
parte le ricostruzioni storiche di Brunet e riuscì a produrre una prima lettura critica parzialmente
affidabile dell’opera e della biografia dell’autore astigiano.257 Con lui anche Carlo Vassallo contribuì a
mondare le fantasiose digressioni di Brunet in una recensione e feroce critica all’edizione Brunet ed
in alcuni altri suoi saggi.258 Claudio Giacomino e Carlo Salvioni espressero il proposito di dedicarsi ai
primi importanti studi sul dialetto di Alione, rimasti tuttavia incompleti,259 mentre di ben più scarso
255
L’espressione è di E. BOTTASSO, 1953.
Segnaliamo qui che nell’edizione citata dell’Opera piacevole di Enzo Bottasso si tratterebbe del bibliofilo Gustave,
mentre nel catalogo della BNF OPALE-PLUS figura il nome di Jacques-Charles, in acronimo J.C. nel titolo stesso
dell’edizione in questione. J. C. BRUNET, 1836, (riproduzione anastatica a tiratura limitata).
257
P. A. TOSI, 1843 : p.4. Sulle macarronee si veda dello stesso autore il contributo del 1864.
258
C. VASSALLO, 1865, 1889, 1890. La “stroncatura” (1865) dovrebbe essere comparsa sul giornale locale Il cittadino,
ma non ci è stato possibile reperirne una copia.
259
«D’un saggio sulla lingua dell’Alione il Giacomino pubblicò, nel quindicesimo volume dell’Archivio Glottologico
Italiano, soltanto lo “sbozzo fonologico” e lo “sbozzo morfologico” […]. Coi tipi del Loescher avrebbe dovuto uscire
l’edizione del Salvioni, con un’introduzione letteraria del Cotronei […]. Le vestigia del lavoro preparatorio fatto per essa
401
256
valore sono le note morfolinguistiche dell’opera di Francesco Emanuele Comune,260 ampiamente
costruite su pregiudizi e scarsa conoscenza dell’ortografia alionesca. Vero è comunque che la sintassi e
i criteri di trascrizione letterale della lingua alionea si ispirano nell’edizione princeps (poi ampiamente
rimaneggiata nelle stampe successive) ai principi assai labili dell’ortografia francese del XVI secolo;
l’autore stesso, essendo la Piacevole la prima opera a stampa di respiro letterario in un dialetto
tutt’altro che letterario e figlio d’un Dio minore, ebbe l’arduo compito di inventare una trascrizione
fonetica dell’astigiano fino a quel momento senza precedenti. L’edizione del 1521 si caratterizza per
questa grande incertezza ortografica che riadatta norme e pratiche della scrittura francese e che non si
consolida mai in regola generale: le tirature successive contengono un gran numero di correttivi
ortografici fin dal XVII secolo, che spesso però aggravano e rendono se possibile più indecifrabile
l’intenzione originale dell’autore.
Guida indispensabile da questo punto di vista è certamente l’edizione delle Opera jocunda firmata da
Enzo Bottasso che per realizzarla si è servito quasi unicamente dell’esemplare custodito alla Biblioteca
Regia di Torino, e che l’ha anche dotata di un prezioso glossario sulla altrimenti impervia
declinazione alionesca dell’astigiano medievale.
Tornando alle ipotesi biografiche tracciate sul conto dell’autore, ce n’è davvero per tutti i gusti: oltre
all’immaginaria “accademia alionesca” di cui parla con entusiasmo Alessandro Aluffi in un opuscolo
tratto da un discorso inaugurale del 1835,261 troviamo il nobile astigiano trasformarsi di volta in volta
in poeta maledetto, prigioniero “scapigliato” dell’Inquisizione a causa della sua audacia anticlericale,
o in attore bohémien a capo d’una troupe itinerante fra Francia ed Italia (è qui evidente la facile
confusione fra teatro e vita, associazione dell’immagine storica a quella del protagonista farsesco, Jan
Perolier); mentre qualche altro ritratto più conformista lo qualificava come notaio, avvocato, medico
o veterinario. Ci basti ricordare l’acredine con la quale sono state a ragione commentate le
considerazioni di Maurice Mignon.
dall’insigne dialettologo non vanno cercate fra le sue carte, ma colte, magari di sfuggita e quasi per caso, attraverso la sua
vastissima produzione di note linguistiche, specialmente lessicali.» E. BOTTASSO, 1953 : p.XI.
Due importanti studi per la riedizione commentata dell’opera di Alione costituiscono il corpus più importante ed
attendibile sul conto dell’autore. B. COTRONEI, 1889; F. GABOTTO, 1899.
260
F. E. COMUNE, 1923. E diffidare si deve della mediocre (e tuttavia diffusa) trascrizione di M. MARANZANA, 1929.
261
F. GABOTTO, 1899 : pp.57-59.
402
[Non è] il caso di pensare alla possibilità di una fortuna scenica anche occasionale dell’Alione fuori della
cerchia astigiana, e magari proprio a Lione – come, con arbitraria deduzione da documenti accennanti al
permesso accordato dai consoli scabini a certi fiorentini per la rappresentazione di “certains jeux et farces en
faveur et à la louange du pape” (evidentemente limitate alla cerchia ristretta della colonia toscana o
lombarda), ha fatto Mignon. […]
Dopo avere insistito sul soggiorno, di per sé non inverosimile, ma d’importanza molto limitata, dell’Alione a
Lione, [il critico francese] si lamenta di non avere potuto trovare « dans les archives notariales et
communales d’Asti… le texte des contrats entre des acteurs italiens et Alione directeur de troupe » (sic! E
perché non anche regista?). Lo studio è insomma completamente infirmato dalla anacronistica valutazione
di « ces comédies populaires, où excellaient les Ruzzante, Carracciolo, Sannazar, de ces contrasti et de ces
mariazi… où la verve populaire et locale, qui se donne libre cours en dialecte… se manifestent… en cette
manière toute italienne, qui donne parfois à l’improvisation une réelle valeur » introdotti in Francia
dall’Alione e da altri italiani!262
E veniamo dunque alle sole fonti documentarie sul conto di Alione a nostra disposizione, scoperte da
Carlo Vassallo e Ferdinando Gabotto verso la fine del XIX secolo.
La prima è un rogito notarile del 1503 (in copia settecentesca) che ne testimonia la nobiltà, in cui il
Nostro compare come testimone in quanto proprietario di un terreno a nord di Torino. Nel 1511,
’13 e ‘17 lo vediamo invece comparire in atti di maggiore importanza, quale membro del consiglio di
credenza astigiano,263 ciò che conferma il fatto che fosse un personaggio in vista della società
comunale, in rapporto con le arti maggiori e minori della città (che sembrano costituire il midollo
sociale anche delle sue farse) e che spiega anche i suoi legami “ideologici” con la Francia. Atto
ufficiale più importante e recente a nostra disposizione è infine la sua nomina da parte di Francesco I
a capitano del castello di Rainero, testimoniata da uno stipendio di dieci lire a lui reso dal
monarca.264 Ma è fuor di dubbio che i falsi biografici sul conto di Alione restarono per gli storici di
gran lunga più suggestivi della realtà: i tentativi di Tosi e Vassallo sono stati scarsamente recepiti
dalla critica fino almeno alla ricca edizione commentata dell’Opera piacevole realizzata da Enzo
Bottasso.265 Di questa terremo largamente conto nella nostra trattazione, assieme anche al già citato
saggio di George Ulysse, ma cercando di scremare dall’uno e dall’altro gli scorci più marcatamente
aprioristici, il primo concentrandosi su una troppo facile interpretazione in chiave italiana e
262
E. BOTTASSO, 1953 : pp.XXVI-XXVIIn.
C. VASSALLO, 1889 e 1890.
Nel sistema amministrativo dei comuni medioevali lombardi, la Credenza era il consiglio di quelli che assistevano i
Consoli. Era costituita dai cittadini più in vista (boni homines), coloro cui fides admittitur o che creditur, da cui
“credenziarii” o “silentiarii”: dovevano giurare nelle mani dei Consoli credentia, segretezza sugli affari di stato. Più tardi
vennero le Credenze, speciali organizzazioni delle arti minori che divennero espressione dell’allargamento della
rappresentanza civica: in Lombardia vi poteva partecipare anche un numero dai duecento agli ottocento cittadini.
264
Contenuto fra le Vadia officiariorum elencate nei conti della tesoreria di Asti. Grazie a questa sua carica abbiamo
anche la notizia più recente sul suo conto: A.S.T. – sezione camerale di Asti vol.1517 (art.99) e 1521 (f.77 v.).
F. GABOTTO, 1899 : p.45.
265
E. BOTTASSO, 1953.
403
263
sull’esaltazione dell’originalità di Alione, il secondo accordando al Nostro il semplice ruolo d’epigono
d’un genere straniero.
3.3.2 – Le stampe.
L’editio princeps dell’opera di Alione si deve a Francesco da Silva, stampatore che proveniva da un
esercizio quasi ventennale in Torino e che nel capoluogo piemontese aveva tirato diverse edizioni di
discreta qualità e facile mercato: dopo un iniziale cimento fra il 1501 ed il 1506 nel mercato della
stampa di qualità – periodo segnato dalle uscite di tre grossi in-folio ovidiani con commento e dalla
celebre Vita scolastica di Bovesin della Riva – l’attività delle presse del da Silva ebbe a subire una
mutazione interessante: solo due dei quattro in-folio tirati fra il 1506 ed il 1517 contenevano opere
classiche, gli altri due essendo opere di carattere giuridico. Alla drastica riduzione del numero
assoluto dei formati di lusso prodotti si associava anche il loro impiego per atti, in prodotti di
carattere funzionale. Questa deviazione di formato è in linea con la più generale ascendenza
commerciale delle opere tirate nel periodo torinese del da Silva, per lo più celebri trattati
ampiamente consumati dai lettori specialistici cinquecenteschi.
Fino al 1517, dunque, Torino, per edizioni condotte per lo più da solo, con la sporadica
collaborazione di qualche altra officina; poi, nel 1518 un cambiamento piuttosto radicale: l’officina
si sposta da Torino alla vicina Asti, in cui la stampa fino a quel momento era stata ben poca cosa: per
lo più misteri, libri d’ore, preghiere, opere devozionali.
Francesco da Silva non volle propriamente introdurre nella periferica Asti una produzione diversa da
quella lì diffusa: il trasferimento dello stampatore ed il suo esercizio in Asti sembrano essere piuttosto
dettati da esigenze meramente speculative, commerciali, e non ci pare abbiano nulla a che vedere con
un programma editoriale culturale. Nel breve volgere d’anni dell’esercizio astigiano, infatti, da Silva
produce una straordinaria quantità di in-folio (dieci in due anni), ma tutti contenenti atti della
cittadinanza o opere di diritto. Sono questi gli anni in cui l’attività del tipografo d’origine milanese si
incrocia con quella di una famiglia di editori e stampatori astigiani che fino a quel momento aveva
battuto i mercati di Venezia e Lione con successo considerevole e che nella città di Lione aveva
raggiunto una buona posizione sociale, i Gabiano.
404
A partire dal 1478 lombardi e piemontesi avevano installato le loro presse in Venezia, attratti dal
moderno e florido mercato delle stampe. Gian Bartolomeo da Gabiano, monferrino, era uno di
questi ed ebbe l’abilità commerciale necessaria a creare una rete di contatti europei, con filiali in
Francia e Spagna, tutte a conduzione rigorosamente familiare, come era uso nei “trust” editoriali del
periodo. A Baldassarre Gabiano, lo zio Gian Bartolomeo aveva fatto raggiungere Lione nel 1497 per
partecipare alla Compagnia d’Yvry dopo l’opportuna pratica in bottega a Venezia.
Il mercato del libro lionese aprì all’impresa nuove e ricche prospettiva economiche, e così nel giro di
appena quattro anni il giovane Baldassarre aprì anche una stamperia collegata all’attività dello zio,
con un socio già installato in Lione, Jean Bachelier.
Fu Henri Baudrier266 ad identificare per primo in Baldassarre de Gabiano l’editore responsabile delle
Aldine contraffatte che circolavano nella città nei primi anni del XVI secolo: il Gabiano sfruttava a
suo vantaggio la prossimità di Lione all’Italia per importarvi da Venezia i moderni formati aldini e
riprodurne l’elegante corsivo inciso da Francesco Griffo che in Venezia era tutelato dal diritto
d’autore. Gabiano si faceva mandare dalla città lagunare le novità di Aldo che poi falsificava, usando
un corsivo leggermente più pesante dell’originale, e reimmetteva nel mercato, aggirando i privilegi di
protezione imposti dalle concessioni papali e dal consiglio della repubblica. La trovata piratesca si
rivelò efficace ed in poco più di dieci anni vennero tirate in Lione circa quaranta edizioni
contraffatte.
Intorno al 1512 il fratello più giovane di Baldassarre, Lussemburgo,267 fu inviato sempre a Lione
dallo zio per potere aiutare l’espansione dell’ancora attiva compagnia d’Yvry. Al fratello, cinque anni
266
BIBLIO. LYONNAISE IV.
All’attività del giovane Lussemburgo Gabiano si deve l’installazione in Lione della più celebre casa di edizioni Giunti.
Nel 1519-20: Lucantonio Giunti e Giacomo de Gabiano avevano preso accordi per una comune intrapresa lionese: il 13
aprile del 1520 una accomandita è registrata al Tribunale della Mercanzia a Firenze, attraverso la quale il Giunti affida al
Gabiano duemila fiorini da impiegarsi sul mercato del libro lionese («per esercitare nella città di Lione di Francia et in
tutto il reame di Francia in libri a stampa et in onqni (sic) altra mercatantia come parrà a decto Jacobo…» Archivio di
Stato di Firenze, Mercanzia, 10831, c.179r.). L’accordo rimane in piedi fino al 1535 quando una nota sotto lo stesso
documento ne decreta la fine. L’associazione avrebbe dovuto cominciare a produrre dal gennaio del 1521, ma Giacomo
raggiunge Lussemburgo in Lione, già nel febbraio del 1520. Con Aymé de la Porte ed altri crea due compagnie di librai:
la Compagnie des lectures (commenti di diritto) la Compagnie des textes (testi di legge). Il cartello di intraprese così
strutturate andava sotto il nome di Grande Compagnie des Libraires. Lione – in quegli anni protagonista di una notevole
escalation editoriale, facilitata anche dall’aumento della concentrazione demografica (dai 20.000 abitanti del 1470 ai
60/70.000 del ’20) – aveva consumato fino a quel momento costosi lavori teologici e liturgici, generalmente illustrati e in
formati in-4°/in-folio. Il nuovo trust editoriale puntava ad edizioni più povere, a soggetto giuridico o scientifico: il livello
qualitativo della compagnia era abbastanza basso, ma abbondanti le tirature. A rilevare questa vocazione altamente
commerciale dei Gabiano v’è pure il cambiamento frequente delle officine, impensabile per un editore di qualità, ma di
maggiore convenienza economica. Gabiano si giovava della rete economica di famiglia, di quella dei Giunti e delle
botteghe francesi con proprietà italiana fra cui quelle di Francesco Turchi, Guillaume Bullé, Teobaldo Pagano, Giacomo
405
267
dopo, nel 1517, Baldassarre lascerà le redini dell’impresa trasferendosi ad Asti, dove impiantò una
nuova succursale, forse stimolato dalla voglia di fare ritorno nelle sue terre natali, o deciso a
colonizzare anzitempo lo squallido panorama librario di quella provincia d’Italia.268
In un contesto editoriale decisamente provinciale, Baldassarre Gabiano trovò presso il Da Silva un
punto d’appoggio ideale per la sua nuova intrapresa commerciale ed applicò in Asti la stessa strategia
dell’aggressività editoriale che aveva riscosso successo in Lione: non si avvalse per la prima opera
astigiana della sua rete di conoscenze europee, ma volle forse testare le affinità con la nuova officina
realizzando un’opera di qualche attinenza con la vita civile della comunità.
Il primo testo ad uscire dalle presse del Da Silva è così la Sylva nuptialis di Giovanni da Nevizzano,269
operetta misogina scritta da un notabile di provincia, che come da copione prometteva d’essere
venduta almeno ai numerosi estimatori di quello. Il mercato provinciale aveva potenzialità inespresse
e nascondeva opere facilmente vendibili almeno in un determinato entourage, destinate ad una
intellighenzia periferica affamata di vedere pubblicate le sue fatiche poetiche ed in grado anche di
garantirne la tiratura.
Appena due settimane dopo l’uscita della Sylva iniziò però per il Gabiano la principale sua attività in
Asti, stavolta collegata alle sedi francesi: la stampa dei repertori giuridici di Alberto Bruni, destinati
con ogni probabilità al mercato al di là delle Alpi e che durante tutto il secolo conobbero un numero
non indifferente di ristampe.270 Attività intensissima, che proseguì fino alla morte di Baldassarre,
sopraggiunta prematuramente nel 1519, al seguito della quale il Da Silva, ormai anziano, decise di
ritirarsi, essendo venuta meno anche la nuova rete di contatti stimolata dall’imprenditore
monferrino. Approfittò però il vecchio tipografo delle presse astigiane per l’ultima volta prima di
tornare a Torino, producendo una laboriosa edizione ben più insolita di quella del Nevizzano, le
Opera jocunda di Giovan Giorgio Alione di cui qui ci occupiamo.
La compresenza di Alione e Nevizzano nel medesimo repertorio, conferma l’esistenza d’un entourage
culturale di matrice giuridica, dell’appartenenza cioè di Alione se non ad una specifica categoria
professionale della legge, almeno della sua frequentazione con uomini (e temi) del diritto, che
Moderno e Vincenzo de’ Portinari. La compagnia fondata nel 1519 divenne nel 1530 una delle industrie della stampa
più importanti della regione francese. W. PETTAS, 1997.
268
E. BOTTASSO, 1999.
269
Giovanni Nevizzano, Silua nuptialis: in qua ex dictis moder. per regulam fallentias plurime questiones quottidie in
practica occurentes nundum per quempiam redacte in materia: matrimonij, dotium, filiationis, adulterij, originis, successionis
& monitoralium…, Francesco da Silva, Asti, 1518.
270
E. BOTTASSO, 1999
406
decidono infatti di pubblicare le loro piacevolezze letterarie presso un libraio che doveva essergli
familiare per mestiere.271
Il da Silva, quindi, che in Asti s’era occupato di atti ufficiali e diritto, era entrato in contatto con il
circolo di magistrati ed uomini di legge della città, con quella conventicola di notabili provinciali,
che praticava le lettere e che avrebbe voluto vederle uscire in stampa: Giovan Giorgio Alione dovette
pensare a lui per la stampa della sua raccolta. Si deve insomma al casuale contatto d’uno stampatore
col palazzo di giustizia astigiano la pubblicazione della sola cinquecentina italiana di farse alla
francese.
È evidente […] il carattere squisitamente riflesso, colto e quasi aristocratico delle farse alionesche, e quindi
anche, indirettamente, dell’ambiente ad esse più vicino e che meglio le poteva gustare – il che non esclude
del resto una più vasta diffusione.272
L’appartenenza di Alione ad un circolo giuridico non avalla l’ipotesi già detta fantasiosa d’una
confraternita alionea né conferma il carattere performativo del suo teatro, ma mette certamente in
luce una certa ambizione del Nostro ad emulare le pratiche della tradizione farsesca francese.
Ambizione che traspare anche dalla scelta del formato per la stampa, diverso per Alione dalla
produzione complessiva (torinese ed astigiana) del da Silva, che per le sue edizioni si divide fra l’infolio e l’in-quarto, mentre sono solo tre gli in-ottavo che possono essergli attribuiti: una
Epithalamion di Paolo Cerrato, evidentemente ospitato dal formato ridotto per il carattere
occasionale ed encomiastico dell’opera; un volgarizzamento dei celebri Soliloquia agostiniani; e
finalmente le Jocunda.
Va detto che la scelta del formato ridotto ed allungato (un 140x90mm evocante almeno la
“tascabilità” del francese agenda in 290x80mm) sebbene insolito, non testimonia una strategia
editoriale teatrale in quanto il volume delle Jocunda oltre a non contenere esclusivamente delle farse è
anche pesante, caratteristica in contrasto con i libretti di scena dei Trepperel, che si componevano di
massimo 8 carte.
271
La cultura giuridica dell’Alione lo fa accostare al compatriota e forse compagno, Giovanni Nevizzano. Esistono diversi
punti di contatto fra i due: dalla Sylva nuptialis, Alione forse ricava la citazione del libro dei Proverbi (17,22): «animus
gaudens aetatem floridam facit, spiritus tristis exsiccat ossa». La stessa Sylvaè operetta dal carattere misogino.
Enzo Bottasso avvalora l’ipotesi secondo cui i due condividevano le passioni letterarie. A conferma poi della continuità
dei temi misogini fra un lato e l’altro delle alpi (il modello sono le Quinze Joies) indichiamo che la Sylva del Nevizzano
conobbe edizioni di poco successive alla princeps in Lione (1524, 1526).
272
E. BOTTASSO, 1953 : p.XXIIIn.
407
Resta il fatto che il libriccino fu probabilmente prodotto avendo bene in mente le stampe teatrali
francesi, di cui a ben vedere è una sclerotizzazione in senso “estetizzante”: segno d’una conoscenza da
parte di Giovan Giorgio Alione di almeno qualche edizione di farsa, il che non sorprende in quanto
con ogni probabilità i trattenimenti teatrali francesi dovevano essere largamente praticati nelle
regioni settentrionali d’Italia e le agenda erano probabilmente distribuite agli astanti.
Il formato editoriale scelto per l’editio princeps voleva in qualche modo caratterizzarsi per “utilità
performativa”, restando però un’imitazione, adattamento forse raffazzonato, del celebre formato
francese professionale.
Il colophon della editio princeps delle Opera jocunda fissa la fine dell’impressione al 22 marzo del
1521; ma vi furono dubbi persistenti nella sua datazione: il primo esemplare noto ai bibliofili era
infatti monco delle ultime pagine e privo di frontespizio, cosicché venne datato inizialmente al 1496,
in quanto l’ultima parte del volume celebra l’entrata in Napoli di Carlo VIII, avvenuta il 22 febbraio
1495 e la vittoria di Fornovo, occorsa nel mese di luglio dello stesso anno.
Serafino Grassi fu il solo a datare la stampa del Da Silva al 1520,273 in base ai suoi studi eruditi sugli
archivi astigiani: sbagliò solo d’un anno e la fortuna volle che il già citato Paolo Antonio Tosi
rinvenisse un esemplare completo dell’opera, nel cui colophon la data di impressione era fissata
appunto al 1521. La copia completa appartenne poi per un periodo alla famiglia di bibliofili Brunet,
come segnalato anche nel catalogo Rothschild,274 ma curiosamente non esiste oggi in Francia alcun
esemplare custodito nelle biblioteche pubbliche.
Le edizioni successive a questa prima saranno prive delle poesie francesi che seguivano nel volume
originale quelle in italiano, ragione per cui Brunet ebbe a pubblicarle a parte, come rarità
bibliografica, in una preziosa edizione anastatica cui era allegata anche l’impressione dei primi
quattro rebus che traducono in crittogrammi i rondeaux a chiusura della raccolta. E si deve sempre a
Tosi la ripresa dell’edizione di Brunet, completata con l’aggiunta dei legni mancanti che qui
riproduciamo integralmente.
Pur presentando caratteristiche d’occasionalità provinciale (numerosi i riferimenti interni alla città
d’Asti e ai suoi personaggi), le pièce dell’Alione, forse giovandosi dei canali commerciali residui del da
Silva, conobbero una discreta circolazione, specie quando si guardi allo sconfortante panorama della
stampa astigiana del periodo ed ai suoi frutti.
273
274
S. GRASSI, 1890-1891.
Cat. ROTHSCHILD, t.IV : p.415 (n°25), ove si dà notizia del Rondeau en flameng.
408
La singolarità dell’Opera piacevole si deve anche alle scelte editoriali, fatte senza alcun criterio di
profitto, quasi a volere soddisfare l’edonismo d’uno scrittore a tempo perso e con le giuste sostanze
economiche per finanziarle: fu stampata in 16 mesi, periodo necessario al complesso e costoso
assemblaggio dei versi par figures; il formato diverso da quello abituale del tipografo; la scelta di
presentare in un solo volume tutte le farse, che «denota una totale noncuranza delle occasioni di
smercio dischiuse da altrettante edizioncine separate»;275 sono tutti fattori che ripetono il carattere di
intellettuale divertissement che va assegnato alla composizione alionea, la quale ha tratto successo
dalla sua unicità, linguistica, editoriale, di genere, stilistica, ortografica. Forse approfittando di
qualche residuo contatto col mondo della grande impresa editoriale europea, appena fatto
intravedere ad Asti dalla breve attività del Gabiano, questa originalità fu apprezzata in Italia e
Oltralpe.
Tant’è che si va da una reimpressione quasi identica alla prima edizione del 1560 per i tipi Giolito di
Trino (con falso luogo di edizione fissato in Venezia); a quella già citata di Virginio Zangrandi del
1601, in clima controriformista largamente mondata delle parti che potevano sembrare offensive per
le genti di chiesa ed anche di alcune poesie dialettali; da questa seconda ristampa viene poi quella di
Torino, per le officine di Stefano Manzolino, del 1625, che in tutto e per tutto rispecchiava le
censure del testo reso dallo Zangrandi.
3.3.3 – Di alcune farse nell’Opera piacevole.
Il presente spoglio dei temi e delle storie contenute nell’Opera piacevole riguarda le pièce che emulano
le forme del teatro francese e che nella raccolta alionea sono scritte in italiano e denominate farse
(con l’eccezione della storia dei cinque sensi, detta “cômedia”).
Per ragioni di carattere strutturale (segnalate in particolare dall’aumento di complessità degli intrecci
mano mano che si avanza nella lettura) è molto realistica l’ipotesi di Bottasso secondo la quale la
compilazione della raccolta del ’21 sia stata eseguita con un criterio fondamentalmente cronologico,
con l’unica eccezione della Cômedia de l’homo, posta ad introduzione della raccolta dopo il Prologo de
l’auctore per il suo carattere spiccatamente moraleggiante.
275
E. BOTTASSO, 1999 : p.137.
409
Nulla ci induce a pensare che la raccolta dovette uscire postuma ed abbiamo indizi abbastanza chiari
che alla composizione della versione a stampa dovette partecipare lo stesso autore: ecco un primo
motivo di “politica autoriale” improntato sul modello collaborativo dell’editoria italiana.
La mano dell’autore organizza il materiale preesistente e si rivela cosciente di una evoluzione stilistica
tentando allo stesso tempo di sminuire i toni generalmente volgari delle singole pièce.
L’insegnamento deve sempre accompagnare il motto di spirito e la volgarità che pure resta ghiotta
attrattiva scenica, va sorvegliata con l’intento morale e se possibile cercando anche di mettere in
mostra un certo spessore storico e letterario: quale migliore pièce allora se non la Cômedia de l’homo
per aprire l’indice delle farse?
La storiella del conflitto fra le membra del corpo e l’inevitabile deficit fisiologico che questo
comporta è un tema di lunghissima durata nella cultura letteraria europea, tornato alla ribalta verso
la fine del medioevo con la riscoperta della storiografia latina, e di Tito Livio in particolare, che ne
fornisce una versione celebre nell’apologo di Menenio Agrippa.276 Nella Francia medievale la stessa
storiella era altrettanto nota come uno dei più celebri passi del Aesopus latinus ampiamente traslati
nei repertori favolistici in lingua volgare detti Ysopet277 o nella ben diffusa Moralité du coeur et des
cinq sens, composta forse fra il 1377 ed il 1383. 278
Sono tanto notevoli le consonanze fra la nostra Cômedia e diversi altri esempi del teatro profano che
esse non mancarono d’esser segnalate nei repertori del teatro francese, ed in particolare sono state più
volte sottolineate le fortissime affinità della composizione alionea con la Farce nouvelle de cinq sens de
l’homme, con la Moralité joyeuse à quatre personnages, c’est à sçavoir le ventre, le jambes, le coeur et le
276
Tito Livio, Ab Urbe condita, libro II, 16, 32, 33.
È impossibile qui rendere conto della complessa rete di derivazioni e legami fra i vari Ysopet ed il Romulus. In tale
impresa si è cimentata con risultati eccellenti Julia Bastin, prima ad avere pensato un repertorio generale di questa
letteratura favolistica contenuto in due volumi poi estesi a quattro da Pierre Rouelle.
Ai primi due tomi della raccolta si accompagnano le preziose tavole delle corrispondenze, non solo con gli “originali” (ed
il concetto di originale è qui, se possibile, molto più vago di quanto non lo fosse nella farsa e nel fabliau), ma anche con
le altre raccolte circolanti in Francia, tutte declinazioni del motivo fedrico o esopiano.
Riportiamo qui la parte della tavola di derivazione che interessa questa trama, rimandando il lettore curioso alla
esplorazione del prezioso repertorio (ISOPETS).
277
Tavole t.I (1929)
Novus Aesopus
37. Les membres et l’estomac
Tavole t.II (1930)
Isopet I [B P L]
52. Les Ventre et les membres
278
Isopet de Paris
36
Isopet I
52 (a) 54 (b,c)
Isopet de Chartres
34
Isopet de Lyon
56
Isopet III
-
Romulus
III, 16
Walter l’Anglais
55
R. BOSSUAT, 1949 : p.347-360.
410
chef, e con la Guerre et débat entre la langue, les membres et le ventre, c’est assavoir la langue, le yeux, les
oreilles, les mains, les pieds.279 L’argomento scurrile risuona inoltre anche nel Débat du cus et du con280
ma l’Alione non conobbe per Enzo Bottasso questa composizione di cui invece doveva esser pratico
l’ignoto farceur dei cinq sens.
Il paradigma morale di tutte queste composizioni è sempre il medesimo, per cui un organo fra gli
altri (in Alione la disputa è per entrare nella ambita “conventicola sensoriale” dei sentimenti) lamenta
a vario titolo la scomoda presenza del deretano o del ventre «Un sac remply de putrefaction | De
pourete et grande infection»281 fino a che qualcuno non proclama, aizzato dalla vexata quaestio, la
solita astensione al lavoro.
Le varianti non sono sostanziali. Ad esempio nella trama di Giovan Giorgio Alione si riscontra un
rovesciamento che occorrendo anche nella Farce des cinq sens282 spinge Enzo Bottasso a parlare di una
influenza inversa della pièce di Alione su quella francese: in entrambe non è questione dello sciopero
di tutti contro il deretano poltrone e puzzolente, ma della defezione di questi che vede misconosciuta
da tutti la sua fondamentale attività escrementizia, indegna anzi d’essere annoverata nel curioso
consiglio dei sensi e delle abilità che sembra comporre l’uomo.
La farsa lionese è ben più breve e schematica rispetto a quella dell’autore italiano: (461 contro 920
versi) in essa risultano assenti le divagazioni ed insinuazioni dell’introito e della conclusio astigiane;
inoltre il farceur non tenta neanche di fornire una consequenzialità logica agli accadimenti, (il
banchetto dei sensi avviene e basta), mentre la lunga invocazione o soliloquio giocoso con cui
“l’homo” inaugura la Cômedia risponde alla preoccupazione di coerenza dell’Alione. Ed anche la
sostituzione alionesca delle auregle con nas, indubbiamente il più appropriato a criticare il fetore di
cul, risponde alla stessa esigenza di ragionevole consequenzialità: chi meglio del naso, infatti, per
criticare il flatulento personaggio?
Sulla data di stesura della Cômedia, facendo leva sull’ipotesi che fissa al 1509 la precedente farsa della
Dona ed al 1515 la successiva composizione del Lanternero, possiamo dire con scarsi margini di
incertezza che essa fu realizzata in un periodo compreso fra il 1509 ed il 1515. Ora, tutte le fonti non
farsesche dell’Alione sono ovviamente precedenti alla sua opera, ma la farsa dei cinq sens ci è
279
Rispettivamente: ATF, t.III, p.300-324; Rec. LEROUX, t.II, n°9.
Per l’ultimo non abbiamo potuto reperire nessuna edizione moderna : Jean de SALISBURY (?) trad. Jehan d'Abundance
(?), La guerre et le débat entre la langue, les membres et le ventre, Silvestre, Paris, s.d.
280
Rec. MONTAIGLON - RAYNAUD t.I, pp.133-136.
281
Jean de Salisbury (?) (trad. Jehan d'Abundance ?), op.cit., (f.2v.).
282
ATF, t.III, pp.300-324.
411
pervenuta in una stampa del 1545, mentre non troviamo riscontri nell’importante indice di
datazioni compilato da Halina Lewicka.283 Per quanto ci riguarda, dunque, l’ipotesi dell’influenza
inversa della pièce italiana su quella francese potrebbe anche essere valida, ma è molto difficile
appigliarsi come fa Bottasso ai soli riscontri stilistici (la francese “raffazzonatura” dell’italiana), in
quanto il sistema delle lettere profane è relativo e la più spiccata vicinanza della pièce di Alione con
forme drammatiche moderne (le forme, per rubare un’espressione al cinema, della “sceneggiatura di
ferro”) ha per noi scarso valore quando si voglia stabilire una successione storica con pretesa di
esattezza. Enzo Bottasso sottolinea anche come la pièce dell’Alione potesse aver circolato a Lione,
vista la presenza di Italiani nella città, il contesto di interesse culturale e la densa rete di rapporti che
la città del sud francese intratteneva in particolare con la non lontana Asti. Ma al di là del già citato
riscontro strutturale non ci sono prove documentarie che attestino con certezza questa ipotesi.
Pensiamo invece che sia più lecito sottolineare la persistenza del tema e la comunanza delle fonti fra
quelle dell’ignoto farceur e quelle impiegate da Alione: pure se in futuro dovessimo scoprire che la
pièce francese è precedente per stesura a quella del nostro, rimarrebbe tuttavia aperta la questione
delle germinazioni secondarie a partire da un comune e tradizionale tessuto narrativo.
Semmai allora le differenze che dobbiamo sottolineare sono di carattere teorico, riguardano cioè il
dialogo di Alione con la cultura italiana e classica, a perpetrare una polemica tematica e linguistica
contro il classicismo, polemica che si articola pure attorno alla critica alla corruzione italiana e
romana (« Il culo a Roma è favôrì e reverì ») e che si innesta comodamente nell’impostazione non
solo moraleggiante ma anche estetica dell’introitus, ove si legge
[…] Habì paçientia,
che nôi ne sema andà pescher
Plaut ni Terençi per çercher
de cômparir qui al parangôn
de côi chi san parler Jargôn
o rômagnol, ch’an astesan
et a côrrectiôn de côi chi san
sarà ô tractà nostr qui present
a l’hom, e d’i soi çinq santiment,
chi sôn l’eugl, nas, man, bôca e pe,
senza i quagl l’hom ne po’ sté an pe,
ni perfet esser reputà.284
283
H. LEWICKA, 1974 : per l’uso di questo repertorio di date valgono le stesse considerazioni fatte nella seconda parte di
questa trattazione.
284
Cômedia de l’homo, vv.11-22, (E. BOTTASSO, 1953 : p.5)
412
Mentre le farse sono di per sé prive di qualsiasi rivendicazione estetica – esistono cioè in quanto
materiali vivi di una precisa pratica scenica e pertanto non hanno bisogno di giustificare la propria
forma, che non potrebbe in nessun caso essere diversa da quella data – nell’Opera piacevole si instaura
un dialogo (seppure ai limiti del dilettantesco) con il sistema corrente della letteratura. V’è poi un
dettaglio, e cioè che non si registra in alcuna farsa dialettale francese l’allusione alla commedia
“sostenuta” come invece accade nel prologo.
Anche nello svolgersi della Cômedia in forma processuale è possibile ritrovare una marcata affinità
con la farsa francese: le forme del diritto civile e canonico (di cui anche in altri luoghi l’autore
italiano mostra di essere pratico), nel caso della Cômedia sono tesi a mettere ancora più in evidenza la
stoltezza della questione e la totale idiozia del dialogo. Rispetto alla farsa francese, però, Alione
aumenta l’effetto contrastivo, prolungando la procedura giuridica e le ambascerie, fino al trionfo ed
alla sentenza di un vero giudice in favore del sedere e del suo ingresso nell’ambita accolita dei sensi.
Le considerazioni sulle differenze reciproche fra la pièce di Alione e la farsa lionese vengono rese vane
quando si pensi alla universale diffusione sia del tema esopiano sia delle tecniche letterarie in qualche
modo connesse con le procedure giuridiche ed i processi: tutto si perde in un continuo mélange, in
una tradizione in cui il depistaggio delle fonti, il furto o anche solo l’ispirazione ad opere a noi
sconosciute è la prassi.
Nella Farsa del marito e della mogliere chi littigoreno per un petto, detta di Perô e Cheirina, ricorre
ancora una volta il tema processuale, messo di nuovo in contrasto con il motivo del tutto faceto della
plainte della coppia, articolata, come recita pure il titolo, attorno alla sgradevole flatulenza della
moglie. Ed è processuale pure la gemella francese di quella farsa: la Farce du pect o di Hubert, la
femme, le juge et le procureur285.
Di questa abbiamo già ampiamente reso la descrizione ed il commento nel capitolo sui luoghi
letterari e le influenze tematiche reciproche. Qui ci limiteremo a sottolineare la differenza per noi
primaria fra la composizione alionesca e quella transalpina, differenza lampante e significativa che
fino ad ora è stata incredibilmente trascurata da chi si è occupato delle Opera jocunda.
Nell’esemplare francese il farceur gioca la disputa fra marito e moglie tutta su un piano verbale e
biomeccanico, usando la celebre tecnica dell’esposizione in azione del motto, il già affrontato
proverbio in azione, ove non importa il significato traslato dell’espressione idiomatica, ma solo la sua
concretezza in quanto moto scenico e azione letterale.
285
ATF, t.I, pp.94-110.
413
Come il niais che non riesce ad avere la forza d’astrazione per capire che prix de marché non è un
nome proprio di persona, il farceur du pect sviluppa la trama attorno alla medesima stoltezza, solo che
ad un livello più alto: la seriosità con cui si affronta il tema tiene sempre separata, nascosta, la
dimensione del doppio senso. Il risultato è una stoltezza meccanica, appunto, avulsa da qualsiasi tono
moraleggiante.
Alione invece è attento a questo aspetto, e come per la Cômedia il tema grivois vorrebbe avere sbocco
in un più ampio insegnamento morale: il modello è ancora una volta quello della favolella istruttiva,
più evidente nella Cômedia attraverso Esopo ma sotteso anche alla farsa di Perô e Cheirina.
Naturalmente per un approccio moraleggiante è indispensabile, al contrario del comico linguistico
farsesco, che il peto trovi il suo corrispettivo: è così più scoperto presso il nostro autore italiano il
significato traslato dell’espressione. I due coniugi sono esempio morale per tutte quelle coppie che si
disputano per un vento puzzolente ma passeggero: in poche parole, per futili motivi.
Allora ecco di nuovo la maggiore coscienza autoriale di Alione rispetto ai farceur; il Nostro sembra
volere sviluppare non una commediola occasionale, ma un vero e proprio corpus o bizzarro florilegio
teatrale.
Del resto i ben documentati286 rapporti del teatro profano delle Jocunda con le Quinze joies du
mariage prescindono a nostro avviso dalle pièce ad esse direttamente ispirate ed intessono un po’ tutta
l’opera di Alione: la combinazione esplosiva dell’intento morale con la logica sovversiva della “gioia
al contrario” è forse l’esempio cui egli guarda per la costruzione delle sue parabole d’insegnamento a
tema sconcio e salace, ma che pure rispetto all’esempio francese egli vela di un alone ai limiti del
benpensantismo (anticlericale).
Sul tema del peto va detto che non ci sono pervenute ulteriori trame: fra novellistica e teatro profano
abbiamo un solo vago riscontro nella farsa di Frère Fillebert, e questo tenue allaccio non ci fa
escludere del tutto che la storiella fosse in voga e che altri esemplari più simili ai due in nostro
possesso potessero circolare all’epoca. La scarsa diffusione dell’espediente comico ha spinto ancora
una volta a pensare ad un’influenza inversa, salvo che le più recenti datazioni di farse confortano
piuttosto il contrario: se la datazione della farsa del peto si appellava ad una vaga attribuzione della
sua stampa agenda alle presse di Pierre Sergent (quindi fra il 1532 ed il 1547) oggi possiamo dire che
la composizione della pièce risale con relativa certezza al 1476, ben prima, insomma, della farsa
alionea.
286
E. BOTTASSO, 1953 e G. ULYSSE, 1983.
414
Tutti gli elementi addotti da Bottasso per dimostrare una influenza inversa sono qui contraddetti
dalla data ed a ben vedere contribuiscono essi stessi a dimostrare l’opposto: improntare un discorso
sulla cronologia attraverso l’elemento volatile dell’evoluzione stilistica è aleatorio ed a una tale visione
si può sempre obiettare che il miglioramento stilistico sussiste a maggior ragione a partire da modelli
preesistenti. Si possono spiegare così allora alcuni sorprendenti paralleli di espressione fra il prototipo
francese e la rilettura di Alione: proprio quando la disputa fra coniugi subisce una flessione negativa i
reproches della femme sono gli stessi della mogliere.
Farsa: « […] de meilleur lignaige | Et plus necte que vous ne dictes »287
Alione : « Insì te possô manzé i piogl | desutel! Fus pur tu insi net! »288
Oppure quando i due niais stabiliscono di dirimere la questione dal giudice ove Hubert dice: « Le
pet sera bien debattu ». Ciò che è identico al verso 225 dell’Alione, salvo che tale battuta è messa in
bocca al procuratore. Ed è pure impressionante la somiglianza d’una battuta di Hubert con quella di
Perô:
HUBERT
Sire, nous avons en masnaige,
Ma femme et noi, ung differend,
Sans plus, pour un peu de vend
Que j’ai sentu, dont m’en desplaist.
[…]
C’est ung pet,
Saichez, sire, et machez le cas.
PERÔ
Or, messer, e’ v’ô vogl côinter
secônd i debat de mainage:
a l’è accadù qui an mariage
tra chiella e mi çert different,
sôlament pr’un pochin de vent
chi me dè and’ô nas bel e net
[…]
A l’è un pet:
sapì, messer, chi antendi el cas,
a se crezea ch’e’ n’l’ancalas
dirlô, pr’amô ch’a l’è vergogna. 289
La scena della confessione della donna ricompare anche essa con modalità espressive simili nella farsa
italiana ed in quella francese, tanto che possiamo appena registrare la più esplicita confessione della
femme rispetto alla moglie alionea.
A questo punto spunta fuori un accenno assai degno di nota – vorrei dire sintomatico – ad un ordine
preciso del marito, di cui non è traccia nella scena iniziale, abbreviatissima, s’è detto, rispetto all’Alione: « Et
vostre mary vous dist-il | Que chargissiez le fais adonc ? »
287
ATF, t.I : p.96.
Perô e Cheirina, vv. 190-191, (E. BOTTASSO, 1953 : p.131)
289
Farsa: ATF, t.I, pp.99-100; Alione: cit., vv.254-263 (E. BOTTASSO, 1953 : p.134)
288
415
Dopo le proteste del marito di voler conservare la propria ‘maison nette’ e le reciproche promesse di coniugi
e procuratore, eccoci davanti a ‘monsieur le maire’, alla scena centrale cioè, sale e spunto della farsa
alionesca, nella quale soprattutto è evidente la sommarietà della lionese. Davanti al giudice, salutato col
medesimo augurio di bona vita, i due rispondono appena alla domanda del procureur (‘Comment est vostre
nom?’), né schiamazzano cercando di esporre il proprio caso l’uno prima dell’altro, il che non impedisce al
loro patrono di sbottare, con un’ira ch’è giustificata solo se pensiamo al corrispondente brano dell’Alione: «
Merde! | taises vous, bon gré Sainct Rémy ! | Voicy Hubert, qui dit ainsi…»290
Per esporre in questo modo le rimostranze del marito: « Hubert s’en plaint formellement […] |
Secondemente, dit que l’odeur | Luy espuentit sa maison, | et si luy dit que par raison | il n’apartient point à
sa femme | de jeter quelque ordure infame | en la maison de son mary. »291
Data la generale gratuità delle scene farsesche non ci stupisce che la trama del pect possa essere
lacunosa in alcuni punti: è un dato questo che va piuttosto ascritto al dominio estetico precipuo del
teatro profano francese, e così si rivela essere alla luce della cronologia più recente.
Il fatto che poi la conclusione della farsa sia ancorata così saldamente a quella del dialogo alioneo292
sta infine a dimostrare l’evidente conoscenza da parte del Nostro di pièce del repertorio francese, al
quale guarda con una certa determinazione intellettuale, quasi a volere esportare il teatro francese
nella sua Asti. E non è casuale che le farse prese in prestito vengano per lo più dalla vicina Lione.
La poco convincente e prolissa scena dell’interrogatorio e la frammentarietà delle motivazioni dei
niais ribadisce nella farsa in modo del tutto ozioso il concetto di identità di moglie e marito, e la
conseguente uguaglianza dei doveri, mentre in Alione la logica incalzante del processo sembra più
solida ed organizzata con maggiore rigore. Ancora una volta dobbiamo riflettere sul fatto che la farsa
è materiale per attori, in cui non tutto deve necessariamente comparire nero su bianco ed in cui
presumibilmente molte cose taciute vengono affidate all’abilità dei performer, necessità invece che
non si esprime nella costruzione “modellizzante” alionea.
In questo crediamo giochi un ruolo fondamentale anche la marginalità geografica e culturale del
Nostro dal modello di riferimento: lontananza che si fa distanza intellettuale, sforzo regolatore che
sarebbe insensato nel caos funzionale e nelle finalità stesse della produzione di testi farseschi.
Detto tutto questo vale la pena citare la decisa conclusione di Bottasso in merito.
290
«PROCURATOR: Tasive, bôn grà sen Martin: | Chi vist mai fer tanta cagà?» (cit. vv.354-355, E. BOTTASSO, 1953 :
p.139)
291
«PROCURATOR : […] Perô dis ch’a l’ôit côl pet | chi savea d’altr che de zebet | […] si dis che de côl tal savôr | fu
abôrminà tuta la cà, | e che meistr Hectôr sôstenrà ch’ô n’aspetta a fômna chi sia | de spianté gnunna punasìa and’la
stança de so’ marì | senza liçentia…» (cit., vv. 395-404, E. BOTTASSO, 1953 : p.141)
E. BOTTASSO, 1953 : p.XXXI.
292
« Et, si elle a peté ou vescy, | ou que du cul luy soit sorty | ung peu de vent, vous, son mary, | nous voulez-vous cy faire
accroire | que vostre part n’en debvez boire ? » (ATF, t.I : p.108.)
«JUDEX: […] e vogl che’l cônfessa alò | c’l’à fag el pet côn el cul chi è sô | ut dixit in deposizione, | quae est probata
probatione » (cit. vv. 569-570, E. BOTTASSO, 1953 : p.148, il commento citato è pp.XXX-XXXII.)
416
[…] ci possiamo con questo considerare ampiamente dispensati dall’insistere sull’indubbio carattere di
sciatta imitazione che questa farsa presenta nei confronti dell’astigiana : la peculiarità dell’argomento, cui ho
già accennato, ci preclude ogni possibilità di complicare in qualche modo l’immediatezza della
derivazione.293
Ove per Bottasso c’è sciatteria, lo si sarà inteso, per noi si annida la specificità linguistica della farsa.
Si è segnalata in più sedi un’affinità velata con Pathelin nello svolgimento processuale di Nicorao
Spranga, caligario, el quale credendo haver prestata sôa veste, trovò per sententia che era donata il cui
centro è una scenetta che sembra tolta alla ruse pathelinesca del processo giocoso, innestata qui sul
motivo faceto dell’amicizia opportunista dei due beoni, Nicola, appunto, e Bernardino. Affinità più
che velata quasi nascosta, che andrebbe ancora una volta inscritta nella casistica delle infinite
ricorrenze dei temi di lunga e trasversale persistenza. Semmai è più logico instaurare per questa farsa
di Nicolao un parallelo con la ruse che compare nella farsa dei deux Savetiers (il ricco e il povero, cfr.
supra), dove i punti di possibile giuntura tematica con la pièce alionesca sono ben marcati. La materia
resta comunque magmatica, se pensiamo che i deux Savetiers è stata anch’essa in molte sedi accostata
proprio al Pathelin: 
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Commedia regolare e comici sregolati - E