IN QUESTO NUMERO
Da oltre sessant’anni in prima linea
per il mantenimento dell’italianità
Grazie ai fondi assicurati di recente, è stata prolungata la
vita degli inserti della “Voce del Popolo”, compreso il nostro
dedicato alla storia e alla ricerca. Una notizia che ci fa piacere; una soddisfazione che, auspichiamo sarà condivisa dai
nostri lettori e da tutta la Comunità Nazionale Italiana, in
particolare. A quest’ultima è dedicato l’articolo di apertura:
una presentazione dell’ultimo volume pubblicato dal Centro
di Ricerche Storiche di Rovigno, di Ezio e Luciano Giuricin,
incentrato per l’appunto sul cammino storico compiuto dagli
italiani di queste terre – i rimasti – negli ultimi sessant’anni.
L’opera, uscita nell’ambito della Collana “Etnia X” suggella
il quarantesimo anniversario della fondazione dell’istituzione rovignese.
Seguono, all’interno, altri aspetti e momenti del ricco passato e patrimonio storico culturale dell’Istria (e
non solo), valorizzato da una serie di pubblicazioni e mostre: dagli scritti etnografici austriaci (recuperati da Lidija
Nikočević, direttrice del Museo etnografico dell’Istria con
sede a Pisino), alla ricostruzione del Teatro di Monte Zaro,
alle fotografie storiche, alla presenza economica e culturale
di una comunità “minoritaria” a Trieste... E non è tutto: tra
pillole e curiosità, l’anniversario dello sbarco sulla luna e la
nascita della Chiesa Anglicana. Buona lettura
di Ilaria Rocchi
P
arlare di cifre, di numeri, di dati, è praticamente
scontato, trattandosi di storia. E anche di anniversari, alcuni
“grandi”, altri “piccoli”, ma non
per questo di minore rilevanza. A
partire da questo dieci, bello tondo, che segna l'ultima pubblicazione uscita nell'ambito della Collana “Etnia” del Centro di Ricerche
Storiche di Rovigno: "La Comunità Nazionale Italiana. Storia e
Istituzioni degli Italiani dell'Istria,
Fiume e Dalmazia (1944 – 2006)"
di Ezio e Luciano Giuricin. Altra cifra, quaranta: sì, perché, per
il Centro di Ricerche Storiche di
Rovigno il volume da poco edito
è motivo di doppio vanto e importanza. Infatti, da un lato suggella
una ricorrenza invidiabile come
quella del quarantesimo della fondazione – celebrato lo scorso anno
–, dall'altro lato costituisce la continuazione di quella "biblioteca"
di opere monumentali dedicate
al territorio e alla CNI e nell'ambito della quale il manuale "Istria
nel tempo" può essere considerato come le “fondamenta”. “La sfida che abbiamo voluto cogliere, in
sintonia con le finalità fondanti del
Centro, è anche quella di offrire al
gruppo nazionale un utile quadro
di riferimento per la conoscenza
del proprio passato – scrive Giovanni Radossi, direttore del CRS,
nella premessa –; la valorizzazione di un patrimonio che, attraver-
so una costante riflessione e rivisitazione critica, possa alimentare
una maggiore consapevolezza di
sé e del proprio destino di comunità. Per noi si tratta di un'importante tappa, di un punto d'arrivo e,
al contempo, del punto di partenza
per un nuovo percorso di ricerche
e di studi sulla storia della Comunità Nazionale Italiana, e per l'avvio di nuovi spazi di confronto e di
dibattito sul ruolo, la presenza e il
futuro degli Italiani di queste terre. La vitalità della nostra comunità nazionale – conclude Radossi
– si rivela soprattutto nella capacità di interpretare, di estrinsecare e
di riconoscere la vita ed il proprio
bene in maniera inconfondibile.
Noi, siamo sempre più fermamente convinti che conoscere la nostra
storia ci aiuti meglio a comprendere il mondo in cui operiamo e nel
quale i nostri padri hanno affondato da epoche immemorabili le loro
e le nostre radici”.
Ma l’opera in questione si presta ad (almeno) ancora una lettura: le sue oltre mille pagine rappresentano un po' il traguardo di
un lungo lavoro di ricerca compiuto da Luciano ed Ezio Giuricin, protagonisti e profondi conoscitori delle vicende storiche della comunità
istro-fiumana e dalmata,
nonché collaboratori
del CRS. Dal lavoro
emerge un viscerale
attaccamento alle
vicende della CNI,
un impegno culturale indefesso e
costante che nulla toglie, anzi arricchisce un'in-
DEL POPOLO
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La “nuova frontiera” della storiografia della CNI? In copertina la sbarra di un confine e un soldato:
“elementi” che hanno diviso e che, purtroppo, continuano a dividere gli italiani di queste terre
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bato, 11 luglio 20
dagine storico-storiografica portata avanti con i dovuti rigore,
serietà e metodologia. L’obiettivo? Ripercorrere, con dovizia di
particolari e nel modo più fedele
possibile – esplorando aspetti finora trascurati da precedenti ricerche o rileggendo alcuni fatti e
fenomeni – la nascita e le vicende
della comunità italiana in Istria,
Fiume e Dalmazia durante la
Seconda guerra mondiale, il suo
divenire minoranza nello stato
federativo jugoslavo e negli stati indipendenti di Croazia e Slovenia. È stata ricostruita in questo modo, per la prima volta, la
storia complessiva della CNI dal
1944 al 2006, ricorrendo a un'aggiornata storiografia e a una ricca
documentazione d'archivio, fonti
di stampa e orali. Per “facilitare”
l'orientamento, il lavoro è stato
diviso in due parti organiche: la
prima, che consta in ben 640 pagine, contiene il testo – la sintesi
storica –, la seconda, in tutto 416
pagine, propone una serie di documenti, anche inediti. In questo
modo si offre al lettore la possibilità di diversi percorsi di lettura indipendenti tra loro. In totale
1056 pagine che, oltre a quelle di
Ezio e Luciano Giuricin, vedono
anche le firme di Maurizio Tremul, presidente della Giunta esecutiva dell'Unione Italiana (a cui
si deve una breve presentazione)
e di Giovanni Radossi, direttore
del CRS (per la premessa, come
già detto).
“Sinora (...) una vera e propria storia dei 'rimasti' non era
stata ancora scritta, ovvero non
era stata pubblicata un'opera in
grado di riassumere in modo organico e completo il complesso
cammino storico della nostra comunità nazionale in Istria, Fiume
e Dalmazia e di tracciarne, attraverso una seria riflessione critica,
i lineamenti fondamentali – precisano gli autori nell'introduzione
–. Con questi due volumi si è voluta colmare tale lacuna offrendo
al lettore un quadro di riferimento unitario che potesse riassumere, in un'unica opera, le varie tappe che hanno contraddistinto il
complesso e tormentato percorso della minoranza, focalizzandone i punti cruciali più difficili
(...). Ovviamente, l'opera – che
gli autori hanno potuto realizzare
solo grazie all'apporto e allo sforzo 'corale' dei ricercatori del CRS
– non ha la pretesa di essere completa ed esaustiva, né tanto meno
priva di difetti che potranno essere corretti, grazie ai suggerimenti
degli studiosi e al prezioso contributo dei nostri connazionali, nelle edizioni successive.
Segue a pagina 2
2 storia e ricerca
Sabato, 11 luglio 2009
PATRIMONIO La storia e le istituzioni dei «rimasti» ricostruita da Ezio e Luciano Giuricin
Da oltre sessant’anni in prima linea
per il mantenimento dell’italianità
Dalla prima pagina
Il suo principale obiettivo è
quello di offrire un contributo alla
riflessione critica sul passato della
minoranza e di costituire la tappa d'avvio di un ampio progetto
organico di studio, di analisi e di
documentazione” sulla storia della CNI.
Veniamo alla struttura del volume. Il primo “tomo” comprende, come si diceva poc’anzi, la
sintesi storica, articolata attraverso 10 capitoli generali e una serie
di appendici e schede di approfondimento su diversi temi e segmenti della storia della CNI e delle sue
istituzioni; a corredo, un apparato
iconografico che comprende 200
immagini, una ricca bibliografia
comprendente opere edite, materiale d'archivio e spoglio di giornali. Nei vari capitoli si focalizza
l'attenzione sui vari monumenti costitutivi della CNI in sessant'anni e
più di storia, analizzando i momenti cruciali e quelli di svolta. Gli autori hanno cercato di chiarire alcuni
meccanismi e le ragioni che hanno
portato una parte degli italiani del
territorio a rimanere: una scelta o
una serie complessa di condizioni
(e condizionamenti) che li hanno
portati a non imboccare la strada
dell’esodo. Si ricostruiscono quindi le vicende delle istituzioni che
tale comunità – quella dei rimasti
– si è data, seguendone l'evolversi
fino praticamente ai giorni nostri:
le conseguenze della loro strumentalizzazione; i tentativi di ribadire
la propria soggettività e l'autonomia da un potere totalitario e totalizzante; i vari defenestramenti; le
timide riprese; le pressioni "normalizzatrici"; l'emancipazione politica, democratica e civile avvenuta
agli inizi degli anni Novanta del
secolo scorso e la ripresa di questo
ultimo ventennio.
Impostare il lavoro non è stato
facile. "Un primo dilemma: si doveva trattare solo la storia dei 'rimasti', della comunità compresa
nelle istituzioni e negli ambiti sociali, associativi e politici riferiti al
territorio sottoposto prima al regime jugoslavo e quindi alla sovranità dei nuovi Stati sloveno e croato,
oppure gli italiani di queste terre,
compresi quelli che hanno scelto
la strada dell'esodo? Si doveva studiare la storia ufficiale delle istituzioni sociali e politiche della minoranza o piuttosto del tortuoso percorso compiuto, nel dopoguerra, da
un popolo vissuto per secoli in quest'area? E ancora: doveva essere la
storia 'in positivo' dei connazionali che hanno manifestato concretamente la loro identità, attestando e
difendendo orgogliosamente la loro
Gli autori, i membri del Comitato di redazione, i responsabili della pubblicazione e del CRS. Da sinistra: Ezio Giuricin, Orietta
Moscarda Oblak, Silvano Zilli, Marino Budicin, Giovanni Radossi, Nives Giuricin, Luciano Guricin e Raul Marsetič
presenza, oppure ‘in negativo’, anche la storia dei tanti episodi di opportunismo e di debolezza, l'analisi di sessant'anni di assimilazione
culturale e nazionale, di sottomissione politica, il racconto dei tanti
italiani ‘sommersi’? In altre parole dovevamo limitarci ad annotare
obiettivamente le tappe, gli avvenimenti, i fenomeni sociali e politici
che hanno contrassegnato il nostro
passato o anche cercare di spiegare
i tanti ‘perché’, spesso rimasti senza risposta, della nostra storia, chiarirne i punti controversi nel tentativo di porgere un’indispensabile
chiave di lettura del nostro presente?”, si sono chiesti Ezio e Luciano
Giuricin. I due autori hanno cercato di comprendere tutti gli aspetti
citati, rispondendo ai diversi piani
di lettura, seguendo e contestualizzando il cammino storico delle istituzioni della CNI, in primis le vicissitudini prima dell'Unione degli
Italiani dell'Istria e di Fiume e poi
dell'Unione Italiana, dagli ultimi
anni del secondo conflitto mondiale ad oggi. "Siamo partiti da un presupposto fondamentale – precisano
–: il percorso della nostra comunità nazionale in queste terre non è
(solo) quello di una minoranza. È
innanzitutto la storia di un popolo.
Il passato di una parte di Nazione
italiana trovatasi improvvisamente
staccata dall'alveo sociale e politico della propria matrice nazionale,
isolata dal proprio spazio culturale
(o sradicata, nel caso degli esuli,
dalla propria terra). La nostra storia
– ribadiscono i Giuricin – è soprattutto la storia delle lotte, del degrado, dell'isolamento, e se vogliamo
della 'cancellazione' o della 'riduzione' etnica imposti ad un popolo rimasto improvvisamente senza
'Madrepatria'."
La sintesi storica
I primi capitoli – I presupposti: la guerra, l'armistizio, la resistenza (1943 – 1945), Il dopoguerra. La Conferenza di pace, l'esodo
(1945 – 1947), Dalle opzioni al Cominform (1948 – 1951) – sono dedicati a quella che diventerà l'istituzione socio-politica della CNI in
Jugoslavia, l’Unione degli Italiani
dell’Istria e di Fiume (oggi Unione
Italiana), fondata nel 1944 su iniziativa del Partito comunista croato per
favorire e legittimare la linea annessionistica fra gli italiani dell'istroquarnerino. Seguono le varie fasi
di “evoluzione/involuzione” della
CNI, fasi di rilancio e rinnovamento, alle quali subentrano poi fasi di
stasi e di ristagno in tutti i campi di
attività, quindi nuovi slanci: Gli anni
bui. La lunga crisi della minoranza
(1952 – 1959); La rinascita degli
anni Sessanta (1960 – 1970); Un
percorso difficile. Dall'Assemblea di
Parenzo alla destituzione di Borme
(1971 – 1974); Il dopo Borme. Dalla lenta ripresa alla tesi sulla socializzazione (1975 – 1987); La grande
svolta (1988 – 1991); Le sfide degli
anni Novanta (1992 – 1999); La Comunità nel nuovo Millennio (2000 –
2006). Chiudono il primo volume
le Appendici, articolate in 4 grossi
specifici comparti, che costituiscono delle schede e tabelle di approfondimento, dove vengono affrontati temi, dati statistici e altri elementi
aggiuntivi che sono stati sacrificati
nella parte narrativa, ma che rappresentano dei tasselli fondamentali per
tracciare un profilo del percorso storico della CNI e delle sue istituzioni, come lo sono i dati sull'esodo e
sui censimenti, quelli sull'andamento delle iscrizioni nelle scuole italiane dal dopoguerra ad oggi, nonché
quelli sull'attività delle strutture
istituzionali, associative e culturali
della CNI; ma anche le schede (nella IV appendice), comprendenti un
profilo storico di tutte le istituzioni della CNI, ovvero i mass media,
compresi quelli radiofonici e televisivi, l’Edit, il Dramma Italiano, il
CRS ed altri enti e associazioni. Il
primo volume infine è corredato da
una cronologia dei principali avvenimenti dal 1944 al 2006.
I documenti
Il II volume comprende invece un'ampia raccolta di documenti
sulla storia dell'istituzione degli italiani in Jugoslavia e nei nuovi stati di Croazia e Slovenia, ma anche
di materiali di carattere più generale sulla storia dell'Istria nel periodo preso in esame. Questa seconda
parte, oltre a rappresentare un utile strumento di consultazione, è un
materiale preziosi di consultazione
per tutti quegli storici e studiosi intenzionati ad analizzare e approfondire le complesse vicende della
CNI e del territorio del suo insediamento storico nella seconda metà
del ’900.
Gli autori hanno selezionato
oltre 300 documenti, composti da
atti, leggi, delibere, decisioni, verbali, resoconti e articoli di giornale, rinvenuti negli archivi e nelle
biblioteche del nostro territorio,
ora conservati presso il CRS; e li
hanno suddivisi (questi documenti) nei 10 capitoli corrispondenti
a quelli della parte descrittiva del
I volume. Le fonti documentarie
pubblicate rappresentano perciò
una parte integrante del profilo
della CNI, di grande rilevanza storica, soprattutto perché alcuni documenti sono inediti. Tra la documentazione di carattere più generale si possono trovare i testi dei
vari trattati e accordi internazionali; le leggi, le disposizioni e le altre deliberazioni emanate dagli organismi politici durante la guerra e
nel dopoguerra.
La maggior parte dei documenti
è attinente alla storia delle strutture
istituzionali della CNI e in particolare dell’UI: statuti, indirizzi programmatici, risoluzioni, conclusioni, proclami, delibere... Inediti sono
i resoconti e i verbali dell'UIIF che
portarono alla defenestrazione del
presidente Antonio Borme, momento cruciale nella storia della
CNI. Non a caso, il giorno della
presentazione ufficiale del volume
è stata scoperta – nell'ambito dell'inaugurazione di un altro spazio
del CRS, l’edificio Albertini II – la
lapide in ricordo al prof. Borme, un
omaggio agli sforzi compiuti per
l’autonomia dell’Unione Italiana;
omaggio a un grande leader che
ha saputo lottare per dei valori importanti come l’orgoglio nazionale
della nostra minoranza.
Per concludere, alcune note
“tecniche”: la pubblicazione è stata finanziata dal Ministero degli
Affari Esteri italiano per il tramite
dell'Unione Italiana in applicazione della Legge n. 73 e successive
estensioni. L'opera, come detto in
apertura, rientra nella Collana "Etnia", decimo volume, diretta da
Silvano Zilli. Direttori responsabili Giovanni Radossi (CRS) e
Luciano Lago (UPT), del Comitato di redazione hanno fatto parte i
proff. Giulio Cervani, Giorgio Conetti, Raul Marsetič, Fulvio Šuran,
Claudio Rossit, Luciano Lago,
Alessio Radossi, Nives Giuricin.
Il progetto grafico e il coordinamento editoriale sono di Fabrizio
Somma, la redazione delle immagini è di Nicolò Sponza, l'ottimizzazione informatica di Massimo
Radossi. In calce al primo volume, una sintesi in lingua croata,
slovena e inglese.
storia e ricerca 3
Sabato, 11 luglio 2009
LETTI PER VOI «Le tenebre etnologiche» di Lidija Nikočević
Scritti etnografici austriaci sull’Istria
tra fine XIX e inizio XX secolo
«N
on può essere Istria!”
Con stupore, nel novembre del 1991, Lidija Nikočević (direttrice del Museo etnografico dell’Istria con
sede a Pisino), nel silenzio della
biblioteca del Museo etnografico
del castello di Kittsee, scartava
oggetti della collezione etnografica dei Paesi che erano stati della
Monarchia (Austroungarica). Dagli scatoloni, dagli involucri, uscivano oggetti quantomeno curiosi,
se riferiti all’Istria: ceramica variopinta, tulle, merletti... E, per
ammissione della stessa Nikočević,
profonda conoscitrice dell’Istria
nei suoi aspetti etnologici ed etnografici, ogni scoperta era accompagnata da una consistente dose
di stupore. Un po’ nascosto, agli
occhi dei colleghi austriaci: che
figura farebbe un esperto a stupire delle cose che invece dovrebbe
conoscere? E così, la curiosità ha
avuto risposta una volta tornata a
casa. E, dopo attenta documentazione, la conferma che sì, (anche)
quello era Istria: la ceramica variopinta, per quanto non prodotta
in Istria, in Istria era stata in uso;
il tulle ed i merletti, magari non di
sovente, venivano usati, indossati
dalle donne delle città ma anche
di qualche paese. Impossibile non
tracciare un parallelo con quanto,
nel campo, visto e registrato fino
ad allora: il vasellame essenziale e
rigoroso di Castelnuovo, la solidità e compattezza delle stoffe. Due
verità, dice la Nikočević, della cultura tradizionale in Istria. Nessuna delle due preponderatamente
falsa, nessuna delle due preponderatamente veritiera. Piuttosto due
verità parziali.
Dal materiale nell’accezione
più plastica del termine, allo studio della cultura (o delle culture)
dell’Istria, attraverso gli scritti ai
autori austriaci. Testi ancora non
tradotti e quindi sconosciuti non
solo al largo pubblico, ma anche
agli addetti ai lavori del settore.
Che cosa nascondono, questi testi,
e, di converso, che cosa svelano?
Che cosa ha mai motivato gli autori a scrivere le loro geografie, le
loro etnografie e, soprattutto, che
cosa c’è di rilevante in questo?
Ebbene, da qui nasce “Da ‘Le tenebre etnologiche’ – Scritti etnografici austriaci sull’Istria tra la
fine del XIX e l’inizio del XX secolo“, oltre trecento pagine di storia
corredata da foto e illustrazioni.
Dal generale al particolare.
L’Autrice inizia il suo viaggio etnografico-storico-culturale dall’analisi del periodo Austriaco in
Istria (meglio, quale la posizione
dell’Istria nell’ambito della Monarchia) trattando, quindi, del periodo austriaco nella storia locale della penisola e dello sviluppo
economico dell’Istria riferito al
periodo in esame.
Il secondo capitolo tratta dello
sviluppo dell’etnologia austriaca
nel XIX e agli inizi del XX secolo;
i capitoli successivi ci portano a
scoprire il contributo di vari profili (impiegati, politici, etnologi)
allo sviluppo dell’etnologia. Più
avanti, l’Autrice propone scritti etnografici sull’Istria a firma di vari
collaboratori di riviste di etnologia, etnografia e antropologia. Un
capitolo è dedicato all’Istria nei
diari di viaggio e letteratura turistica ed infine, l’analisi dell’im-
portanza dei testi austriaci con oggetto l’Istria.
Un po’ di particolari. Alla fine
del XIX e agli inizi del XX secolo, i
pochi studiosi interessati alla cultura istriana erano a conoscenza
delle visite di scrittori-viaggiatori
austriaci all’Istria. In quei viaggi,
spesso venivano raccolti oggetti
(che diedero vita poi a vere e proprie collezioni ) e successivamente,
di quei viaggi restavano resoconti
e scritti vari sulla vita, usi e costumi degli abitanti della penisola.. Il
lavoro di Lidija Nikočević si lega,
appunto, alla maggior parte degli
scritti stampati dal 1867 alla fine
della Prima Guerra.
I destini di P-ola (e dell’Istria)
cambiano radicalmente, quando
Vienna decide di fare del suo porto
il principale porto di guerra della
Monarchia. Servì costruire la ferrovia; Pola ebbe collegamenti con
Vienna, Trieste, Fiume; da piccola
cittadina di provincia, Pola diven-
ne un centro di notevole interesse e potenzialità. Porto militare,
arsenale, collegamenti per terra
e mare, commerci... insomma, fu
un fiorire di quasi tutti i settori.
L’Istria uscì dal suo involucro. Nel
corso del XIX secolo, poi, creebbe
anche l’interesse per la vita popolare. Nacquero scritti di carattere
storico, statistico, etnografico –
letterario. Un nome su tutti: Karl
Freiherr von Czoernig a la sua
“Etnografia della Monarchia austriaca”, un’opera nata per dare
dati, per quanto prodotti non in
termini puramente statistici, bensì narrativo-descrittivi L’autore si
impegnò per far emergere le particolarità dei diversi gruppi etnici
della Monarchia, tenendo anche in
debito conto appartenenza statale
e religiosa. L’Austria, in questo,
sarebbe dovuto essere stato del
benessere e della civilizzazione di
tutti i popoli che accoglieva.
“La Monarchia Austroungarica in parole e immagini, ideata
dall’erede al trono, Rodolfo, figlio
di Francesco Giuseppe, venne redatta al motto di “La conoscenza è conciliazione”: è necessario, insomma, che ogni popolo
conosca gli altri popoli della
Monarchia per elevare il livello
di reciproca comprensione che
apre alla tolleranza. Nell’enciclopedia, gli scritti sugli Italiani
e Sloveni dell’Istria hanno la firma di Peter Tomasin, dei Croati
d’Istria, invece, scrisse il sacerdote Vjekoslav Spinčić.
Alla fine del XIX secolo,
la curiosità diventa scienza: nascono varie istituzioni
etnologiche,
antropologiche; nei
Musei di sceinze naturali compaiono
collezioni etnografiche. Poi, nascerà il Museo etnografico austriaco
(fondato da Michael Haberlandt). A Haberlandt e collaboratori
si deve l’istituzione
della prima collezione di oggetti istriani (ma al Museo ci sono
anche collezioni di oggetti provenienti dalla Dalmazia, Bosnia e altre regioni dell’A-U). Importanti anche i testi
di Haberlandt, per quanto spesso stereotipati, sulla popolazione
dell’Istria .
Comparvero, poi, su riviste
varie, oltre agli scritti sulla cul-
tura dell’Istria, anche disegni abbastanza particolareggiati sui costumi dei luoghi.
Singolare, l’illustrazione di
Ludwig Karl Moser, della partecipazione di vari gruppi dell’Istria
e del Quarnero alle solennità per
il giuramento a Francesco Giuseppe per il 60.mo del Regno:
12mila partecipanti in abiti tradizionali. La cartolina della Monarchia.
Sostanzialmente, anche negli
scritti successivi, spesso veniva
sottolineata la mescolanza dei
popoli che apriva alla tolleranza e alla convivenza, ma spesso
veniva proposta anche una chiave di lettura dichiaratamente nazionale. Solitamente,
nello scrivere dell’Istria,
lo si faceva da un gradino più alto, con un
pizzico di colonialismo e parecchi stereotipi che spesso
rasentano la più
improbabile fantasia. Così quando quella che sarebbe diventata
scienza muoveva i
primi passi; quando ci si appoggiava soprattutto a resoconti di viaggio.
Interpretazioni, quindi, sdoganate dal rigore
scientifico, quello che si
sarebbe voluto vedere piuttosto che una ferma lettura di
quello che è (stato).
Un libro affascinante, questo
della Nikočević che ha saputo sposare scienza e letteratura. Rigore
etnologico e piacere narrativo.
(cierre)
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storia e ricerca
Sabato, 11 luglio 2009
Sabato, 11 luglio 2009
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MONUMENTI Recuperata una parte, inesorabilmente perduta, dell’antica Pola: ne è scaturita una singolare ricostruzione virtuale in 3D
A Monte Zaro «solo» un teatro, ma dalle dimensioni «ciclopiche»
Opera d’arte dell’architettura romana, era alto 32 metri e poteva ospitare fino a 5mila spettatori
di Arletta Fonio Grubiša
N
on era un anfiteatro ma “solo” un
teatro, alto 32 rispettabilissimi metri, alla pari del più elevato torrione dell’Arena di Pola, in grado di far accomodare fino a 5mila spettatori, un’opera d’arte dell’architettura romana davvero
mastodontica quella adagiata sul versante
settentrionale di Monte Zaro, di cui l’usura dei secoli ha cancellato fino all’ultima
traccia. Mai si direbbe che gli odierni edifici austroungarici e l’asfalto stradale celino un sottosuolo con siffatti trascorsi e, in
realtà, mai la ricerca scientifica ha avuto
modo di mettere completamente in luce il
maxi teatro romano di Pola letteralmente
spazzato via dal tempo. A corto di informazioni veramente dettagliate e del tutto
affidabili, attingendo dai pochi dati scaturiti da indagini vecchie cent’anni, la capodipartimento d’archeologia antica, Alka
Starac, operante presso il Museo archeologico istriano di Pola, è riuscita a compiere, invece, l’impresa del recupero e
della raffigurazione di una storia andata
inesorabilmente perduta. Ne è scaturita,
nell’ambito della sua mostra allestita negli spazi espositivi dell’Arena per l’estate
2009, una singolare ricostruzione virtuale della Pola romana. Eccelle, tra le architetture riprodotte mediante visualizazione
computeristica, proprio il teatro di Monte
Zaro, ciclopico al punto da addombrare,
in fatto di proporzioni, l’attuale, vicinissimo Teatro istriano (con tutto rispetto per
il rinomato politeama Ciscutti, ma cosa
sono 750 presenze di pubblico rispetto
alle migliaia d’epoca romana?!).
Scellerata volontà
della Serenissima
L’edificio scenico con il busto dell’imperatore
Le splendide immagini riproducenti il
teatro parlano da sè e fanno rimpiangere tanto di patrimonio architettonico costruito grazie all’industria edile e scomparso a causa della medesima industria.
È il sempiterno destino cucito dall’ambizione progettistica delle civiltà di turno,
avvicendatesi con spirito di distruzione
pro (ri)costruzione. Il fasto e la potenza
espressi dai latini con l’erezione del teatro di Monte Zaro sono finiti per crollare
all’epoca dei veneziani, a furia di voler
erigere le monumentalità e le costruzioni proprie, anche sotto pressione, per necessità di difesa. Così, sulle ceneri della
precedente storia è sorto sul Colle Castello l’odierno maniero della Serenissima.
Opera a firma del suo distinto costruttore francese, Antoine De Ville che dovette gioco forza ubbidire alle “indicazioni” del Senato veneziano, troppo comodo per commissionare l’estrazione di
pietre, a fatica, dalle cave romane e modellarle all’uopo quando si potevano attingere i blocchi bell’e preconfezionati su
misura, smontando il mega teatro lasciato da Roma. Scellerato destino. E non ci
fu un Gabriele Emo ad intervenire come
nel caso dell’Arena, che scampò alla sorte dell’essere trasferita pezzo per pezzo
a Venezia quasi per miracolo. Anche De
Ville, in questo caso, detiene i suoi meriti,
secondo quanto rivelato, fu questi a sconsigliare ai veneziani lo smantellamento
dell’Arena ma di accontentarsi delle pietre sul pendio dello Zaro. Tra due mali si
è scelto il minore...
tendibile, in ogni suo dettaglio. Come
si è fatto allora? Ecco che si è presa a
modello un’architettura simile e meglio
conservata: il teatro romano di Orange,
per grandezza e concetto di costruzione assolutamente somigliante al grande
co il terreno pendeva nella melma tanto che i romani dovettero procedere con
bonifiche e con la costruzione di una
struttura muraria profonda niente meno
che 6 metri. Le gradinate per il pubblico erano suddivise a tre piani alla pari
verso la parte interna del teatro. Se i disegni lasciati da Serli non errano, invece, l’imponente galleria presentava nella sua parte esterna tanto di arcate come
nel caso dei piani inferiori delle gradinate. I pilastri delle arcate del primo e
teatro romano di Pola. È proprio studiando le impressionanti dimensioni di
quello a Pola, lungo 85 e largo 120 metri, le proporzioni in altezza dell’edificio scenico che l’archeologa Starac è
riuscita a risalire all’altezza complessiva dei 32 metri. Altre particolarità interessanti sul teatro scomparso: le gradinate furono ricavate e modellate ad
opera di scalpello nella roccia viva e
poggiavano in parte su fondamenta in
pietra cuneiforme con arcate. Dalla parte anteriore della scena e sotto il porti-
dell’edificio scenico. Come scoprire
quanti erano i gradini per ciascun piano? Il sistema di calcolo premette che,
secondo modulo classico, l’altezza di
ciascun gradino era pari a 60 centimetri. Affidandosi a detta matematica, il
piano inferiore della gradinata doveva
contare 18 file, quello medio 15 (con tre
ingressi dal corridoio interno) e quello
più alto 7 compresa, in cima, la galleria di cui si sa che era decorata di marmi e coperta da tetto in tegole (tegulae)
ma non è noto se fosse aperta da arcate
secondo piano delle gradinate sfoggiavano nel mezzo delle semicolonne. Cinque le salite d’accesso per il pubblico
che poteva raggiungere sei settori di posti a sedere.
I tentativi di recupero
Come sentito durante la presentazione
delle immagini tridimensionali delle monumentalità di Pola, ad opera di Alka Starac, il teatro di Monte Zaro subì in epoca veneziana una sistematica demolizione essendo stato adibito a vera e propria
cava di pietre e marmi pronti alla riutilizzazione edilizia. L’ultimo testimone delle
reliquie ancora superistiti fu l’architetto e
il teorico italiano Sebastiano Serlio, nel
XVI secolo, il primo ad aver lasciato in
eredità ai posteri disegni e planimetrie (le
più complete a giudizio dell’esperta Starac) del grande teatro quando presentava
ancora visibili in altezza le gradinate per
il pubblico e l’edificio scenico. La prima
e anche unica ricerca archeologica fu condotta sul posto da Anton Gnirs, nel 1908.
È solo grazie a questa che furono salvati dalla decadenza pezzi di decorazione
architetonica oggi conservati al Museo
archeologico e si addivenì a informazioni utili sulla singolare architetura dalla
grandezza dell’orchestra definita nel perimetro di 25 metri e sul numero delle sue
gradinate. Tutto particolarità che si sono
dimostrate come non mai utili alla ricostruzione virtuale della monumentalità.
Ma non è bastato.
Somiglianze con Orange
Secondo indicazione di Alka Starac,
non vi è documentazione archeologica e
grafica sufficiente alla riproduzione at-
Necessarie ulteriori
ricerche archeologiche
Curiosità descrittive dell’edificio scenico. Manco traccia della facciata, ma si
va per supposizione: tutti i teatri romani
di questo tipo e così anche quello di Pola,
dovevano presentare nella loro parte più
alta i pennoni per stendere il velario, quel
“tetto” di tela con cui si copriva anche
l’Arena durante i ludi gladiatori.
Nel momento di risalire a una ricostruzione e a una raffigurazione virtuale quanto mai attendibile, l’archeologa
Starac si è imbattuta in situazioni del
tutto poco chiare. È uno studio, questo,
che ha portato addirittura a smentire le
valutazioni fatte da Gnirs e da Cassas.
Un secolo fa tutti e due avevano sbagliato nell’interpretazione dei disegni di
Sebastiano Serli: convinti che i tre piani
raffigurati avessero costituito il portico
adagiato alla facciata frontale del teatro. Invece si trattava della raffigurazione esterna delle strutture murarie semicircolari che racchiudevano le gradinate. In realtà, il portico dell’edificio teatrale, lungo 120 metri, esibiva solo due
piani e fior di colonne con scanalature.
Nei punti d’ingresso, la distanza tra le
colonne era più pronunciata, secondo i
bravi canoni della classica architetura
vitruviana.
La Starac asserisce, oggi, che tutti gli elementi architettonici in marmo
rinvenuti in loco appartengono all’edificio scenico alto 20 metri: basamenti
di colonne, capitelli di marmo proconesco, vari tipi di architravi e cornicioni in
marmo bianco greco. Secondo planimetria di Serlio, tre erano gli ingressi sulla
scena larghi 6 metri e lunghi almeno 48.
Facendo incetta della documentazione
di Gnirs, si è attinto anche dagli appunti
dilettantistici dell’ufficiale dell’Imperial
e Regia marina Schram, presi nel 1875,
durante la costruzione dell’edificio denominato Casa Schram sul posto della monumentalità. In base alle proporzioni del teatro e alle dimensioni degli
elementi architettonici che costituivano
l’edificio scenico si deduce che lo stesso
disponeva di tre piani (decorati in marmi e pietra calcare dipinta in colori sgargianti) con al centro una struttura architetonica, analoga al teatro di Orange, e
piazzata nel bel mezzo la colossale statua di marmo dell’imperatore. Il busto
della statua è stato rinvenuto dai posteri all’altezza dell’orchestra, esattamente
nel punto dove la scultura era precipitata. Si ritiene che soltanto ulteriori ricerche archeologiche ai piedi di Monte
Zaro potrebbero fornire un’interpretazione più fedele di questa ricostruzione.
6 storia e ricerca
Sabato, 11 luglio 2009
MOSTRE Serbi a Trieste, 1751 – 1914: la storia, il «peso» economico e culturale
Genti di San Spiridione: comunità piccola
ma di grande prestigio e rilevanza
U
n po come avveniva per
l’eterna rivale Fiume, la
città di Trieste deve la
propria espansione economica
e demografica ai provvedimenti
mercantili adottati dall’imperatore d’Austria Carlo VI all’inizio del ’700: la Patente di libera
navigazione nell’Adriatico, del
1717, e la proclamazione del Porto Franco di Trieste, nel 1719. I
due provvedimenti fecero affluire
in città mercanti, uomini d’affari,
armatori e marittimi provenienti da varie parti d’Europa e dall’impero ottomano, contribuendo
a costruire rapidamente le fortune
economiche dell’emporio adriatico: negli anni ’70 del ’700 arrivavano annualmente a Trieste
tra i 5.000 e i 6.000 bastimenti,
e venivano esportate merci per
6.000.0000 di fiorini.
Nacquero così diverse comunità etnico-religiose, tra cui
quella di religione ortodossa,
formata da Greci e Serbi che
iniziarono a giungere sporadicamente in città già nella prima metà del secolo, con un incremento soprattutto a seguito
della Patente di riconoscimento
dell’imperatrice Maria Teresa
del 20 febbraio 1751: con essa
si concesse ai Greci e agli Illirici
di fondare una comunità religiosa e di erigere una chiesa a Trieste, nella zona più prestigiosa
della città. Tra il 1751 e il 1781
giunsero o a Trieste un po’ più
di 150 Illirici – termine con cui
venivano definiti i Serbi – provenienti dall’Erzegovina e dalla Bosnia, dalla Dalmazia, dalle
Bocche di Cattaro e dal Montenegro. La costituzione ufficiale
di una Confraternita greco-illirica avvenne nel 1756; il suo primo Statuto fu deliberato dall’assemblea della confraternita ed
approvato dall’imperatrice Maria Teresa nel 1772. Nel 1781
la comunità ortodossa triestina
si divise nelle sue due componenti, greca e illirica, e nel 1793
venne approvato dall’imperatore il nuovo statuto della comunità illirica.
Ora, con una mostra che si
inaugura il 16 luglio (visitabile fino al al 4 novembre prossimo) al Castello di San Giusto,
il Comune di Trieste-Assessorato alla Cultura-Direzione Area
Cultura-Civici Musei di Storia
ed Arte, intende ripercorrere la
storia della Comunità Religiosa Serbo-Ortodossa di Trieste,
in occasione del 140.esimo anniversario della consacrazione
della chiesa di San Spiridione e
del 240.esimo anniversario della
prima messa celebrata a Trieste
in antico slavo ecclesiastico.
Se numericamente la Comunità Serbo-Ortodossa non raggiunse mai grandi numeri, da
poche decine a poche centinaia
di persone – nel 1864, periodo
particolarmente florido per Trieste, gli Illirici erano circa 500, i
Protestanti di confessione augustana 850, di confessione elvetica 520, anglicana 350, i Greci
ortodossi 1200 e gli Ebrei 4400
– il ruolo dei Serbi fu significativo: l’attività marittima era
di primaria importanza ma non
esauriva gli interessi dei commercianti della comunità illirica, che preferivano investire gli
Giuseppe Tominz: Ritratto di Drago Popovich,
1830-1835 circa, olio su tela 123 x 87,5 cm. Trieste,
Civico Museo Revoltella
ingenti capitali di cui disponevano
in diversi settori di attività. Oltre
all’acquisto e alla vendita di merci, provvedevano al loro trasporto
con naviglio proprio. Per finanziare gli acquisti fondarono le prime
banche private e per assicurare le
merci le prime compagnie di assicurazione: alla fine del ’700, su
quattordici compagnie esistenti
sulla piazza triestina, gli Illirici ne
controllavano otto.
Quando, il 20 febbraio del
1751, Maria Teresa emise la Patente di Riconoscimento in base
alla quale a Greci e Illirici veniva riconosciuto il diritto di fondare una propria comunità religiosa
e fondare una chiesa, la Comunità decise di innalzarne una dedicandola a San Spiridione. L’area
scelta era nel cuore della nuova
Trieste, accanto al Canal Grande.
Un’area instabile, visto che un secolo dopo chiesa e campanili erano così lesionati da dover essere
abbattuti. Il concorso per la nuova
chiesa venne vinto da Carlo Maciachini: un edificio monumentale ispirato all’architettura bizantina sovrastato da una grande cupola centrale e attorniato da quattro campanili. A decorarlo furono
chiamati insigni artisti lombardi,
in un profluvio di mosaici e marmi
preziosissimi che il restauro che si
sta ora concludendo restituisce in
tutta la loro bellezza e forza celebrativa. Il tempio doveva confermare a tutti il “peso” economico e
culturale di una comunità piccola
ma di grande prestigio e rilevanza.
Una comunità i cui membri stavano innalzando anche alcuni dei più
imponenti edifici privati della nuova Trieste.
La mostra intende sottolineare proprio l’importanza del ruolo
culturale ed economico che la comunità serba ebbe nello sviluppo
della città, mettendone in luce le
vicende storiche e artistiche e gli
intrecci familiari. Attraverso diverse sezioni, una ricca documentazione dà risalto ai personaggi più
rappresentativi che contribuirono
alle fortune economiche di Trieste, attivi nel settore commercia-
La chiesa serbo-ortodossa di San Spiridione a Trieste
le, marittimo, assicurativo e politico, nella beneficenza e nel collezionismo: le vicende biografiche, i
volti, i palazzi, i velieri di famiglie
e personaggi come i Gopcevich, i
Popovich, gli Opuich o gli Skuljevich – solo per citarne alcuni –
sono ricostruiti tramite ritratti, fotografie, progetti, libri, documenti
d’archivio.
Ampio spazio viene dedicato
alle vicende architettoniche della
chiesa di San Spiridione, a partire
dall’originario edificio settecentesco sino ai restauri di oggi: gli acquerelli che testimoniano l’aspetto
della chiesa settecentesca, i progetti chiamati a concorso nel 1859
per la realizzazione della nuova
chiesa, la documentazione degli
importanti lavori di restauro che
hanno riguardato le facciate, i mosaici e la sostituzione del tetto della chiesa di San Spiridione e che
si concluderanno alla fine di quest’anno. Accompagnano l’esposizione diversi manufatti liturgici:
Oreficeria moscovita: Servizio completo da messa, composto da 8
evangeliari ed oreficerie sette-ot- pezzi, argento sbalzato e dorato, smalti, paste vitree. Trieste, Comunità Religiosa Serbo-Ortodossa
tocenteschi ed antiche e raffinate
icone permettono di entrare virtualmente nella ritualità delle cerimonie religiose di confessione ortodossa. Due sezioni inoltre
sono dedicate alla biblioteca ed
alla scuola della Comunità Religiosa Serbo-Ortodossa di Trieste,
importanti istituzioni culturali che
hanno perpetuato il patrimonio
culturale serbo in città con le loro
raccolte di preziosi documenti e
antichi volumi.
Le opere esposte provengono
prevalentemente dai Civici Musei
di Storia ed Arte di Trieste, dalla
Comunità Religiosa Serbo-Ortodossa di Trieste e dalla chiesa di
San Spiridione, ma per garantire
la completezza del percorso espositivo ci si è avvalsi delle opere
d’arte di proprietà della Regione
Autonoma Friuli Venezia Giulia
e di diverse istituzioni museali, tra
cui il Civico Museo Revoltella ed
il Museo Etnografico di Servola a
Trieste, ed i Musei Provinciali di
Nicolas Cammillieri: “Polacca – La Navegazione”, capitano SpiGorizia, fornendo così anche l’occasione per ammirare opere inedi- ridione Popovich, 1820 circa, acquerello e tempera su carta, 440 x
576 mm. Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte
te o raramente visibili.
storia e ricerca 7
Sabato, 11 luglio 2009
PATRIMONIO La riscoperta di un segmento del passato finora marginalmente esplorato
Click sulla Storia:
ritratto di com’eravamo
di Carla Rotta
F
acciamo un esperimento.
Aprite un cassetto, quello dove solitamente custodite documenti, carte, foto. Fatto? OK. Sicuramente, tra le tante cose, ci sarà qualche foto vecchia, resa misteriosa e nostalgica
dal seppia che fa, come dire? antico. Sì, le foto delle nonne con
le gonne lunghe, chignon, scarpe (quasi) chiodate; i nonni con
i baffi e nella maggior parte dei
casi con addosso l’uniforme della
K.u.K. Kriegsmarine. Vediamo il
retro. Quasi un’opera d’arte: tutte riportano logo, firme, dicitire
degli studi fotografici dell’epoca. Documento doppio: sociologia, costume e quantaltro la foto;
arte, economia – artigianato il retro. Certo, le cose bisogna guardarle con attenzione; sicuramente raccontano più di quanto non
sappiamo o vogliamo leggere di
primo acchito. Il Museo Storico
dell’Istria con sede a Pola (colle
Castello per la precisione), ha offerto, con un’esposizione intitola-
Luigi Mioni
Immagini della situazione culturale, sociale e geopolitica istriana
mentare. Curatrice della mostra,
Lana Skuljan, che con questa ha
aperto “un nuovo capitolo mirato
alla scoperta di un segmento finora sconosciuto e soltanto marginalemnte trattato, del patrimonio
culturale istriano”. La Skuljan,
dice Marija Tonković nella recensione, supera la tematica data e
spazia in un contesto più ampio e
Fotografi e atelier dell’epoca
I fotografi: Alois Beer (Klagenfurt), Giovanni Bonivento
(Pola), Demetrio Buttignoni (Pola), Luigi Caenazzo (Rovigno), Attilio Ceregato (Rovigno), Blasius Circovich (Pola), Guglielmo Fiorini (Pola), Cesare Gallinaro (Pola), Angelo Ghega (Pola), Anon
Hauger, Edmondo Jellusich (Abbazia), Benedikt Legetporer (Bled,
Lussinpiccolo), Ivan Letis (Abbazia), G. Lion (Abbazia), fratelli
Luccardi (Pola), Rudolf Marincovich (Pola), G.B. Mazucco (Gorizia), Erminio Mioni (Pola), Luigi Mioni (Pola), Antonio Nemetz
(Pola), Johann Baptista Rottmayer (Trieste), Josip Škrablin (Abbazia), Stephan Vlach, Heinrich Zamboni (Pola).
Gli atelier: Aurora (Lussingrande), Betty (Abbazia), Flora
(Pola), Ofelia (Pola), Olympia (Pola), Schrecker (Pola), Sintich G.
& Co, (Pola), Venus (Pola).
ta “La fotografia in Istria fino al
1918 – dal fondo della Collezione di fotografie, negativi e attrezzatura fotografica”. Uno spaccato
di storia a doppia lettura.
Come si conviene a un’istituzione dello spessore dello Storico, è manovra onnicomprensiva:
esposizione, manifesto, catalogo, opuscolo e invito, per docu-
ricco che comprende la situazione culturale, sociale e geopolitica molto specifica nell’Istria del
periodo preso in esame.
Due pionieri
Caenazzo e Mioni
Perchè la mostra? In un certo senso è nata per celebrare
il 170.esimo anniversario della scoperta della fotografia, oggi
mezzo artistico d’espressione ed
elemento importante di comunicazione e documentazione visiva.
La fotografia nasce con Nicephore Niepce (siamo nel 1827), poi
entra nel suo percorso, Jacques
Mandè Daguerre, ancora William
Fox Talbot e via di questo passo per fare della fotografia l’elemento di comunicazione diffuso
che è oggi.
Dove e come si inserisce la fotografia in Istria? In Istria la fotografia apparve negli anni Settanta
del XiX secolo; i suoi inizi sono
legati ai nomi di due fotografi che
operavano agli inizi degli anni
1860 – Luigi Caenazzo (fotografo amatoriale di Rovigno) e Luigi Mioni di Pola, pioniere della
fotografia professionale in Istria.
Nel 1862, Luigi Mioni aprì il primo atelier fotografico professionale a Pola. Mioni, fu, inoltre, il primo fotografo della Marina. Proseguirono l’attività di Luigi Mioni, i
suoi due figli, Erminio ed Ernesto
con atelier a Pola e Trieste. A Pisino, tra i primi fotografi in Istria,
l’atelier fotografico di G. Lion.
La Marina, le navi
E questo (la fotografia della Marina) è uno specifico per
l’Istria. Ogni fotografo professionista, infatti, in qualità di civile, doveva munirsi di permes-
so (rilasciato dalla Sezione della
Marina presso il Ministero imperiale della guerra) per fotografare il porto e le navi Una guida turistica austriaca di Pola, riporta a caratteri ben evidenziati,
il divieto di fotografare il porto,
il paesaggio, edifici e fortezze.
Motivi di sicurezza, indibbiamente: Pola è porto militare importantissimo e come tale va tutelato.
Luigi Mioni fu il primo ad ottenere tale permesso ministeriale per
fotografare i luoghi proibiti (divenne, cioè, Marine Photograph);
dopo di lui, ottennero il permesso
Blasius Circovich e Rudolf Marinovich. Ci furono, però, anche fotografi stranieri nella storia della
fotografia della Marina: Alois Beer,
ad esempio, di Klagenfurt, fotografo imperiale e reale, ritrasse motivi
del porto e della città di Pola, vedute di altre città dell’Istria; ancora il triestino J.B.Rottmayer, l’austriaco Antun Hauger (legato all’atelier Rotes Kreutz) e Benedikt
Lergetporer.
Le foto dell’epoca erano solitamente ritratti in due formati (carta
da visita e formato gabinetto), incollata su cartone e, come detto,
sul retro riportava la “pubblicità”
(eh, il marketing non nasce mica
con noi) dell’atelier e del fotografo. Per dire, nome e cognome del
fotografo (o dell’atelier), indirizzo, eventuali premi.
Tanti «soggetti»
Accanto ai ritratti, gli scatti fissavano foto documentaristiche, reportage, panoramiche.
Ritratti, dunque: da foto singole a foto di famiglia (delle foto di
famiglia, ormai si è persa l’abitudine. Peccato), le foto “da fidanzati”; i ritratti in uniforme, poi,
bellissimi. Ancora, relativamente
alla KuK Kriegsmarine, le foto degli equipaggi di navi e sottomarini, ed infine le foto delle navi che
sono state l’orgoglio della Flotta.
Ebbene, proprio queste foto sono
diventate prezioso oggetto di studio dell’epoca. Varie panoramiche
e vedute sono servite, poi, a ricostruire i volti dei luoghi. Quando
al fotografia era scienza, viene da
pensare. Una cosa seria (non che
oggi non lo sia, ma forse è troppo comune e sempre più oggetto di
sperimentazione che rasente la fantasia). Forse lo confermano anche
i volti seri dei ritratti. Forse non
avranno avuto di che ridere (ma si
potrebbe obiettare che nemmeno
ogfgi si scherza), la guerra era per
le contrade, le condizioni di vita
erano quelle che erano. Ma a vedere le foto, sembra quasi di sentire
il fotografo che, contrariamente ai
sorrisi richiesti dagli “scattatori” di
oggi, facevano piovere sul soggetto un sussieguoso: “Guardate verso
di me... seri... non muovetevi... ancora un attimo, seri... così”. Click!
ANNIVERSARI La missione dell’Apollo 11 del 20 luglio 1969
Quarant’anni fa, l’uomo sulla luna
"Se la missione chiamata Apollo 11
avrà successo, l'uomo realizzerà il sogno,
inseguito a lungo, di camminare su un altro corpo celeste": 40 anni fa, era questa
la promessa della prima missione spaziale che avrebbe portato l'uomo sulla Luna.
Così la NASA l'aveva presentata ai giornalisti arrivati a Cape Canaveral (Florida) per seguire il lancio del Saturno V che
portava nello spazio il comandante della
missione Apollo 11, Neil Armstrong, il pilota del modulo di comando, Michael Collins e il pilota del modulo lunare, Edwin
Aldrin, più noto come Buzz. Armstrong
e Aldrin erano gli astronauti destinati a
camminare sulla Luna. L'evento ha tenuto con il fiato sospeso davanti agli schermi
televisivi e alle radio, più di 600 milioni
di persone.
Con i suoi 110 metri di altezza, un diametro di dieci metri e pesante oltre 2.000
tonnellate, il Saturno V era un gigante silenzioso sulla rampa di lancio 39A del
Kennedy Space Center; la navetta Apol-
lo con i tre uomini era rannicchiata sulla
sommità. Era il simbolo di un'America decisa ad accaparrarsi il primato più importante della sua più che decennale corsa allo
spazio contro l'Unione Sovietica. Nel 1957
l'Urss aveva stupito il mondo con il "bip"
del primo satellite artificiale, lo Sputnik,
l'anno successivo aveva spedito il primo
essere vivente nello spazio, con la cagnetta Laika a bordo dello Sputnik 2. Ed erano
sovietiche anche le sonde Luna lanciate a
partire dal 1959 per studiare la superficie
della Luna e il suo lato nascosto. Il Saturno
V, con la navetta Apollo e il suo equipaggio vennero lanciati in perfetto orario mercoledì 16 luglio 1969 e arrivano nell'orbita lunare sabato 19 luglio. Domenica 20,
mentre Collins restava sul modulo di comando, chiamato Columbia, Armstrong e
Aldrin entravano nel modulo lunare, chiamato Aquila.
Delle due ore e mezza trascorse sulla
Luna sono indimenticabili le immagini dei
passi, piccoli brevi corse, saltelli per "pro-
vare" la loro presenza. Poi alzarono la bandiera americana e lasciarono sul suolo lunare una targa di acciaio inossidabile con
le tre firme dell'equipaggio e quella dell'allora presidente Richard Nixon: "Here men
from the Planet Earth first set foot upon
the moon, July 1969, A.D. We came in peace for all mankind" (Qui uomini dal pianeta Terra posero piede sulla Luna per la prima volta, Luglio 1969 DC. Siamo venuti
in pace, in nome di tutta l'umanità).
L'allunaggio dell'Apollo 11 del 1969
ha destato parecchie polemiche e diviso
il pensiero dell'opinione pubblica in due
fronti: quello che crede alla teoria del complotto, ovvero che la missione non sia stata altro che una messa in scena architettata
dagli USA – che si sarebbero affidati niente meno che alla mano esperta del grande
regista Stanley Kubrick – e dall'altra parte
il fronte che crede alla autentica veridicità della missione. Tuttavia il 2009, sembra
allontanare i dubbi circa i complotti lunari e si prepara al meglio per festeggiare il
quarantesimo anniversario del primo sbarco dell'uomo sulla Luna. Molteplici manifestazioni sono pronte a ricordare quello
che fu un piccolo passo per l'uomo, ma un
grande balzo per l'umanità.
8 storia e ricerca
Sabato, 11 luglio 2009
CURIOSITÀ Un documento cruciale della vicenda è uscito dall’archivio segreto del Vaticano
Un inedito su Enrico VIII e un divorzio
che provocò lo scisma anglicano
I
n tempi di divorzi regali o
meno, di capi di Stato e di governo, desta particolare interesse poter leggere la lettera pergamena indirizzata nel 1530 dai
Pari di Inghilterra al Papa Clemente VII per perorare la causa di
annullamento di matrimonio tra
Enrico VIII e Caterina d’Aragona
per poter sposare Anna Bolena. Il
documento è stato reso accessibile al grande pubblico dalla perfetta riproduzione in facsimile curata
dalla società “Scrinium”, grazie a
un accordo con l’Archivio segreto vaticano. La lettera pergamena
è stata tirata in 200 esemplari al
mondo, al prezzo di 50mila euro
ciascuna: larga un metro e alta
due volte tanto, del peso di due
chili e mezzo, sotto la pergamena
pendono più di 80 sigilli di ceralacca. Sono proprio i sigilli a rendere veramente bellissimo il testo,
una versione ante litteram della
nostra posta certificata.
“Ma se (il Pontefice) non volesse farlo, trascurando le esigenze degli Inglesi, questi si sentirebbero autorizzati a risolvere
da se stessi la questione e cercherebbero rimedi altrove. La causa
del re è la loro causa. Se (il Pontefice) non interverrà o tarderà
ad agire, la loro condizione diverrà più grave, ma non irrisolvibile: i rimedi estremi sono sempre i più sgradevoli, ma l’ammalato tiene soprattutto alla propria
guarigione...”. Si legge nell’eccezionale testo, in cui chiaramente si “minaccia” quello che, due
anni dopo, diventerà lo scisma
anglicano. La pergamena, recapitata in Vaticano, che solo regnanti e capi di Stato in visita hanno
finora potuto ammirare, è giunta
a noi in condizioni straordinariamente buone, ulteriormente migliorate dal restauro conservativo effettuato prima della riproduzione del prototipo dei facsimile.
Una ufficializzazione, quella della lettera pergamena, di particolare importanza anche perché cade
nel cinquecentenario dall’ascesa
al trono di Enrico VIII. Durante
la presentazione i vari esperti, tra
loro anche l’archeologo Valerio
Massimo Manfredi, hanno ricordato il tribolato tentativo del re
inglese, che si è sposato ben sei
volte, di sciogliere il matrimonio
con la consorte Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena.
Un tentativo degenerato in un
duplice divorzio fino ad arrivare
allo scisma che ha sancito la nascita della Chiesa Anglicana.
Un’annotazione curiosa è
emersa nel corso della presentazione, costituita dal fatto che dalla stesura della lettera con cui il
re chiedeva il divorzio, negli anni
a venire, i firmatari della lettera
sarebbero stati messi davanti all’assunzione di una posizione definita, “anche a costo della vita”.
Due di loro, infatti, furono giustiziati nel 1537. Un marchese e un
barone un anno dopo furono condannati a morte come cospiratori e dopo di loro, l’anno successivo, anche due abati intimamente
contrari alle profonde innovazioni religiose attuale nel regno subirono la stessa sorte a causa del
loro “animo intimamente corrotto”. Una tragica fine ebbe in sorte
anche il fratello di Anna Bolena,
Lord Rochefort che, accusato di
Quest’anno Londra festeggia i 500 anni dall’incoronazione di Re Enrico VIII. Enrico visse e morì
a Londra e, per festeggiare questo avvenimento, in tutta la capitale inglese ci sono eventi e manifestazioni
Enrico VIII Tudor (Greenwich, 28 giugno 1491
– Londra, 28 gennaio 1547) fu re d’Inghilterra
e Signore d’Irlanda (in seguito re d’Irlanda)
dal 22 aprile 1509 fino alla sua morte
La lettera venne sottoscritta da 83 nobili, abati, vescovi e arcivescovi e indirizzata al pontefice Clemente VII per perorare la causa
di annullamento e poter impalmare l’amante Anna Bolena
relazioni incestuose con la regina, venne giustiziato con lei nel
1536.
I retroscena
Tornando al divorzio, quale che sia stata la causa remota
dello scisma anglicano, non v’è
dubbio che quella prossima, immediata e determinante, fu il desiderio di Enrico VIII, re d’In-
ghilterra (1509-1547), di liberarsi della sua legittima moglie,
Caterina d’Aragona, figlia di
Ferdinando e Isabella di Spagna
e zia del futuro imperatore Carlo
V, al fine di contrarre nuovo matrimonio con la Bolena, dama di
corte, la quale non voleva appartenergli se non come sposa. Di
tali intenzioni il sovrano non faceva mistero, pronto a percorrere
qualsiasi strada pur di ottenere il
suo scopo. Nel 1527, infatti, Enrico VIII assumeva alcune iniziative presso gli arcivescovi locali
e presso il legato papale, cardinale Wolsey, perché la causa di nullità del matrimonio del sovrano
con Caterina d’Aragona (che gli
aveva dato 6 figli, dei quali solo
Maria Tudor sopravvisse) venisse trattata in Inghilterra, ove cer-
A 500 anni dalla sua
incoronazione, rivive
il gossip della dinastia
Tudor attraverso la
presentazione ufficiale
del documento con
cui, nel 1530, chiese
il divorzio da Caterina
d’Aragona
tamente era agevole al re esercitare le sue pressioni. Ciò non
fu in alcun modo consentito dal
pontefice, che avocò a Roma la
discussione della causa.
Per le delicate implicanze che
il caso comportava, sia di natura
giuridica che di politica ecclesiastica, Clemente VII prendeva tempo prima di pronunziare una sentenza. Ed in questo frangente il re
e i suoi ministri non cessavano di
fare pressioni su Roma perché la
questione venisse tempestivamente risolta. Anche i Pari d’Inghilterra, tutti insieme, si mossero in favore del sovrano, e con il presente
documento intenzionalmente rivestito di una forma solenne nel
1530 chiesero al papa di porre fine
alla loro attesa e a quella di tutta la
nazione inglese.
La loro richiesta ha la caratteristica di un sollecito, non certo di
una supplica a vantaggio dell’annullamento, che essi mostrano di
ritenere scontato, tenuto conto
del parere favorevole già manifestato dai dotti inglesi, francesi e
italiani nonché della benevolenza sempre dimostrata dal re verso la Santa Sede. In chiusura del
testo i Pari dichiarano l’intenzione
di aderire comunque alla sentenza
che il pontefice stabilirà. È noto
poi come il papa dichiarasse legittimo il matrimonio di Enrico VIII
con Caterina d’Aragona, e dunque
insolvibile, e come il sovrano, impedito nei suoi disegni, passasse
a nuovo matrimonio e dichiarasse la Chiesa d’Inghilterra separata da quella Romana (scisma anglicano).
Anno V / n. 41 dell’11 luglio 2009
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina
Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: STORIA E RICERCA
Redattore esecutivo: Ilaria Rocchi / Impaginazione: Vanja Dubravčić
Collaboratori: Arletta Fonio Grubiša, Carla Rotta
Foto: Arletta Fonio Grubiša, Carla Rotta, Ivor Hreljanović, archivio e internet
La pubblicazione del presente supplemento viene supportata dall’Unione Italiana grazie alle risorse stanziate
dal Governo italiano con la Legge 193/04, in esecuzione al Contratto N° 83 del 14 gennaio 2008, Convezione
MAE-UI N° 2724 del 24 novembre 2004
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11.7.2009 - EDIT Edizioni italiane