IN QUESTO NUMERO Da oltre sessant’anni in prima linea per il mantenimento dell’italianità Grazie ai fondi assicurati di recente, è stata prolungata la vita degli inserti della “Voce del Popolo”, compreso il nostro dedicato alla storia e alla ricerca. Una notizia che ci fa piacere; una soddisfazione che, auspichiamo sarà condivisa dai nostri lettori e da tutta la Comunità Nazionale Italiana, in particolare. A quest’ultima è dedicato l’articolo di apertura: una presentazione dell’ultimo volume pubblicato dal Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, di Ezio e Luciano Giuricin, incentrato per l’appunto sul cammino storico compiuto dagli italiani di queste terre – i rimasti – negli ultimi sessant’anni. L’opera, uscita nell’ambito della Collana “Etnia X” suggella il quarantesimo anniversario della fondazione dell’istituzione rovignese. Seguono, all’interno, altri aspetti e momenti del ricco passato e patrimonio storico culturale dell’Istria (e non solo), valorizzato da una serie di pubblicazioni e mostre: dagli scritti etnografici austriaci (recuperati da Lidija Nikočević, direttrice del Museo etnografico dell’Istria con sede a Pisino), alla ricostruzione del Teatro di Monte Zaro, alle fotografie storiche, alla presenza economica e culturale di una comunità “minoritaria” a Trieste... E non è tutto: tra pillole e curiosità, l’anniversario dello sbarco sulla luna e la nascita della Chiesa Anglicana. Buona lettura di Ilaria Rocchi P arlare di cifre, di numeri, di dati, è praticamente scontato, trattandosi di storia. E anche di anniversari, alcuni “grandi”, altri “piccoli”, ma non per questo di minore rilevanza. A partire da questo dieci, bello tondo, che segna l'ultima pubblicazione uscita nell'ambito della Collana “Etnia” del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno: "La Comunità Nazionale Italiana. Storia e Istituzioni degli Italiani dell'Istria, Fiume e Dalmazia (1944 – 2006)" di Ezio e Luciano Giuricin. Altra cifra, quaranta: sì, perché, per il Centro di Ricerche Storiche di Rovigno il volume da poco edito è motivo di doppio vanto e importanza. Infatti, da un lato suggella una ricorrenza invidiabile come quella del quarantesimo della fondazione – celebrato lo scorso anno –, dall'altro lato costituisce la continuazione di quella "biblioteca" di opere monumentali dedicate al territorio e alla CNI e nell'ambito della quale il manuale "Istria nel tempo" può essere considerato come le “fondamenta”. “La sfida che abbiamo voluto cogliere, in sintonia con le finalità fondanti del Centro, è anche quella di offrire al gruppo nazionale un utile quadro di riferimento per la conoscenza del proprio passato – scrive Giovanni Radossi, direttore del CRS, nella premessa –; la valorizzazione di un patrimonio che, attraver- so una costante riflessione e rivisitazione critica, possa alimentare una maggiore consapevolezza di sé e del proprio destino di comunità. Per noi si tratta di un'importante tappa, di un punto d'arrivo e, al contempo, del punto di partenza per un nuovo percorso di ricerche e di studi sulla storia della Comunità Nazionale Italiana, e per l'avvio di nuovi spazi di confronto e di dibattito sul ruolo, la presenza e il futuro degli Italiani di queste terre. La vitalità della nostra comunità nazionale – conclude Radossi – si rivela soprattutto nella capacità di interpretare, di estrinsecare e di riconoscere la vita ed il proprio bene in maniera inconfondibile. Noi, siamo sempre più fermamente convinti che conoscere la nostra storia ci aiuti meglio a comprendere il mondo in cui operiamo e nel quale i nostri padri hanno affondato da epoche immemorabili le loro e le nostre radici”. Ma l’opera in questione si presta ad (almeno) ancora una lettura: le sue oltre mille pagine rappresentano un po' il traguardo di un lungo lavoro di ricerca compiuto da Luciano ed Ezio Giuricin, protagonisti e profondi conoscitori delle vicende storiche della comunità istro-fiumana e dalmata, nonché collaboratori del CRS. Dal lavoro emerge un viscerale attaccamento alle vicende della CNI, un impegno culturale indefesso e costante che nulla toglie, anzi arricchisce un'in- DEL POPOLO e oc av r/l it.h .ed www storia e ricerca An no V La “nuova frontiera” della storiografia della CNI? In copertina la sbarra di un confine e un soldato: “elementi” che hanno diviso e che, purtroppo, continuano a dividere gli italiani di queste terre • n. 09 41 • Sa bato, 11 luglio 20 dagine storico-storiografica portata avanti con i dovuti rigore, serietà e metodologia. L’obiettivo? Ripercorrere, con dovizia di particolari e nel modo più fedele possibile – esplorando aspetti finora trascurati da precedenti ricerche o rileggendo alcuni fatti e fenomeni – la nascita e le vicende della comunità italiana in Istria, Fiume e Dalmazia durante la Seconda guerra mondiale, il suo divenire minoranza nello stato federativo jugoslavo e negli stati indipendenti di Croazia e Slovenia. È stata ricostruita in questo modo, per la prima volta, la storia complessiva della CNI dal 1944 al 2006, ricorrendo a un'aggiornata storiografia e a una ricca documentazione d'archivio, fonti di stampa e orali. Per “facilitare” l'orientamento, il lavoro è stato diviso in due parti organiche: la prima, che consta in ben 640 pagine, contiene il testo – la sintesi storica –, la seconda, in tutto 416 pagine, propone una serie di documenti, anche inediti. In questo modo si offre al lettore la possibilità di diversi percorsi di lettura indipendenti tra loro. In totale 1056 pagine che, oltre a quelle di Ezio e Luciano Giuricin, vedono anche le firme di Maurizio Tremul, presidente della Giunta esecutiva dell'Unione Italiana (a cui si deve una breve presentazione) e di Giovanni Radossi, direttore del CRS (per la premessa, come già detto). “Sinora (...) una vera e propria storia dei 'rimasti' non era stata ancora scritta, ovvero non era stata pubblicata un'opera in grado di riassumere in modo organico e completo il complesso cammino storico della nostra comunità nazionale in Istria, Fiume e Dalmazia e di tracciarne, attraverso una seria riflessione critica, i lineamenti fondamentali – precisano gli autori nell'introduzione –. Con questi due volumi si è voluta colmare tale lacuna offrendo al lettore un quadro di riferimento unitario che potesse riassumere, in un'unica opera, le varie tappe che hanno contraddistinto il complesso e tormentato percorso della minoranza, focalizzandone i punti cruciali più difficili (...). Ovviamente, l'opera – che gli autori hanno potuto realizzare solo grazie all'apporto e allo sforzo 'corale' dei ricercatori del CRS – non ha la pretesa di essere completa ed esaustiva, né tanto meno priva di difetti che potranno essere corretti, grazie ai suggerimenti degli studiosi e al prezioso contributo dei nostri connazionali, nelle edizioni successive. Segue a pagina 2 2 storia e ricerca Sabato, 11 luglio 2009 PATRIMONIO La storia e le istituzioni dei «rimasti» ricostruita da Ezio e Luciano Giuricin Da oltre sessant’anni in prima linea per il mantenimento dell’italianità Dalla prima pagina Il suo principale obiettivo è quello di offrire un contributo alla riflessione critica sul passato della minoranza e di costituire la tappa d'avvio di un ampio progetto organico di studio, di analisi e di documentazione” sulla storia della CNI. Veniamo alla struttura del volume. Il primo “tomo” comprende, come si diceva poc’anzi, la sintesi storica, articolata attraverso 10 capitoli generali e una serie di appendici e schede di approfondimento su diversi temi e segmenti della storia della CNI e delle sue istituzioni; a corredo, un apparato iconografico che comprende 200 immagini, una ricca bibliografia comprendente opere edite, materiale d'archivio e spoglio di giornali. Nei vari capitoli si focalizza l'attenzione sui vari monumenti costitutivi della CNI in sessant'anni e più di storia, analizzando i momenti cruciali e quelli di svolta. Gli autori hanno cercato di chiarire alcuni meccanismi e le ragioni che hanno portato una parte degli italiani del territorio a rimanere: una scelta o una serie complessa di condizioni (e condizionamenti) che li hanno portati a non imboccare la strada dell’esodo. Si ricostruiscono quindi le vicende delle istituzioni che tale comunità – quella dei rimasti – si è data, seguendone l'evolversi fino praticamente ai giorni nostri: le conseguenze della loro strumentalizzazione; i tentativi di ribadire la propria soggettività e l'autonomia da un potere totalitario e totalizzante; i vari defenestramenti; le timide riprese; le pressioni "normalizzatrici"; l'emancipazione politica, democratica e civile avvenuta agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso e la ripresa di questo ultimo ventennio. Impostare il lavoro non è stato facile. "Un primo dilemma: si doveva trattare solo la storia dei 'rimasti', della comunità compresa nelle istituzioni e negli ambiti sociali, associativi e politici riferiti al territorio sottoposto prima al regime jugoslavo e quindi alla sovranità dei nuovi Stati sloveno e croato, oppure gli italiani di queste terre, compresi quelli che hanno scelto la strada dell'esodo? Si doveva studiare la storia ufficiale delle istituzioni sociali e politiche della minoranza o piuttosto del tortuoso percorso compiuto, nel dopoguerra, da un popolo vissuto per secoli in quest'area? E ancora: doveva essere la storia 'in positivo' dei connazionali che hanno manifestato concretamente la loro identità, attestando e difendendo orgogliosamente la loro Gli autori, i membri del Comitato di redazione, i responsabili della pubblicazione e del CRS. Da sinistra: Ezio Giuricin, Orietta Moscarda Oblak, Silvano Zilli, Marino Budicin, Giovanni Radossi, Nives Giuricin, Luciano Guricin e Raul Marsetič presenza, oppure ‘in negativo’, anche la storia dei tanti episodi di opportunismo e di debolezza, l'analisi di sessant'anni di assimilazione culturale e nazionale, di sottomissione politica, il racconto dei tanti italiani ‘sommersi’? In altre parole dovevamo limitarci ad annotare obiettivamente le tappe, gli avvenimenti, i fenomeni sociali e politici che hanno contrassegnato il nostro passato o anche cercare di spiegare i tanti ‘perché’, spesso rimasti senza risposta, della nostra storia, chiarirne i punti controversi nel tentativo di porgere un’indispensabile chiave di lettura del nostro presente?”, si sono chiesti Ezio e Luciano Giuricin. I due autori hanno cercato di comprendere tutti gli aspetti citati, rispondendo ai diversi piani di lettura, seguendo e contestualizzando il cammino storico delle istituzioni della CNI, in primis le vicissitudini prima dell'Unione degli Italiani dell'Istria e di Fiume e poi dell'Unione Italiana, dagli ultimi anni del secondo conflitto mondiale ad oggi. "Siamo partiti da un presupposto fondamentale – precisano –: il percorso della nostra comunità nazionale in queste terre non è (solo) quello di una minoranza. È innanzitutto la storia di un popolo. Il passato di una parte di Nazione italiana trovatasi improvvisamente staccata dall'alveo sociale e politico della propria matrice nazionale, isolata dal proprio spazio culturale (o sradicata, nel caso degli esuli, dalla propria terra). La nostra storia – ribadiscono i Giuricin – è soprattutto la storia delle lotte, del degrado, dell'isolamento, e se vogliamo della 'cancellazione' o della 'riduzione' etnica imposti ad un popolo rimasto improvvisamente senza 'Madrepatria'." La sintesi storica I primi capitoli – I presupposti: la guerra, l'armistizio, la resistenza (1943 – 1945), Il dopoguerra. La Conferenza di pace, l'esodo (1945 – 1947), Dalle opzioni al Cominform (1948 – 1951) – sono dedicati a quella che diventerà l'istituzione socio-politica della CNI in Jugoslavia, l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume (oggi Unione Italiana), fondata nel 1944 su iniziativa del Partito comunista croato per favorire e legittimare la linea annessionistica fra gli italiani dell'istroquarnerino. Seguono le varie fasi di “evoluzione/involuzione” della CNI, fasi di rilancio e rinnovamento, alle quali subentrano poi fasi di stasi e di ristagno in tutti i campi di attività, quindi nuovi slanci: Gli anni bui. La lunga crisi della minoranza (1952 – 1959); La rinascita degli anni Sessanta (1960 – 1970); Un percorso difficile. Dall'Assemblea di Parenzo alla destituzione di Borme (1971 – 1974); Il dopo Borme. Dalla lenta ripresa alla tesi sulla socializzazione (1975 – 1987); La grande svolta (1988 – 1991); Le sfide degli anni Novanta (1992 – 1999); La Comunità nel nuovo Millennio (2000 – 2006). Chiudono il primo volume le Appendici, articolate in 4 grossi specifici comparti, che costituiscono delle schede e tabelle di approfondimento, dove vengono affrontati temi, dati statistici e altri elementi aggiuntivi che sono stati sacrificati nella parte narrativa, ma che rappresentano dei tasselli fondamentali per tracciare un profilo del percorso storico della CNI e delle sue istituzioni, come lo sono i dati sull'esodo e sui censimenti, quelli sull'andamento delle iscrizioni nelle scuole italiane dal dopoguerra ad oggi, nonché quelli sull'attività delle strutture istituzionali, associative e culturali della CNI; ma anche le schede (nella IV appendice), comprendenti un profilo storico di tutte le istituzioni della CNI, ovvero i mass media, compresi quelli radiofonici e televisivi, l’Edit, il Dramma Italiano, il CRS ed altri enti e associazioni. Il primo volume infine è corredato da una cronologia dei principali avvenimenti dal 1944 al 2006. I documenti Il II volume comprende invece un'ampia raccolta di documenti sulla storia dell'istituzione degli italiani in Jugoslavia e nei nuovi stati di Croazia e Slovenia, ma anche di materiali di carattere più generale sulla storia dell'Istria nel periodo preso in esame. Questa seconda parte, oltre a rappresentare un utile strumento di consultazione, è un materiale preziosi di consultazione per tutti quegli storici e studiosi intenzionati ad analizzare e approfondire le complesse vicende della CNI e del territorio del suo insediamento storico nella seconda metà del ’900. Gli autori hanno selezionato oltre 300 documenti, composti da atti, leggi, delibere, decisioni, verbali, resoconti e articoli di giornale, rinvenuti negli archivi e nelle biblioteche del nostro territorio, ora conservati presso il CRS; e li hanno suddivisi (questi documenti) nei 10 capitoli corrispondenti a quelli della parte descrittiva del I volume. Le fonti documentarie pubblicate rappresentano perciò una parte integrante del profilo della CNI, di grande rilevanza storica, soprattutto perché alcuni documenti sono inediti. Tra la documentazione di carattere più generale si possono trovare i testi dei vari trattati e accordi internazionali; le leggi, le disposizioni e le altre deliberazioni emanate dagli organismi politici durante la guerra e nel dopoguerra. La maggior parte dei documenti è attinente alla storia delle strutture istituzionali della CNI e in particolare dell’UI: statuti, indirizzi programmatici, risoluzioni, conclusioni, proclami, delibere... Inediti sono i resoconti e i verbali dell'UIIF che portarono alla defenestrazione del presidente Antonio Borme, momento cruciale nella storia della CNI. Non a caso, il giorno della presentazione ufficiale del volume è stata scoperta – nell'ambito dell'inaugurazione di un altro spazio del CRS, l’edificio Albertini II – la lapide in ricordo al prof. Borme, un omaggio agli sforzi compiuti per l’autonomia dell’Unione Italiana; omaggio a un grande leader che ha saputo lottare per dei valori importanti come l’orgoglio nazionale della nostra minoranza. Per concludere, alcune note “tecniche”: la pubblicazione è stata finanziata dal Ministero degli Affari Esteri italiano per il tramite dell'Unione Italiana in applicazione della Legge n. 73 e successive estensioni. L'opera, come detto in apertura, rientra nella Collana "Etnia", decimo volume, diretta da Silvano Zilli. Direttori responsabili Giovanni Radossi (CRS) e Luciano Lago (UPT), del Comitato di redazione hanno fatto parte i proff. Giulio Cervani, Giorgio Conetti, Raul Marsetič, Fulvio Šuran, Claudio Rossit, Luciano Lago, Alessio Radossi, Nives Giuricin. Il progetto grafico e il coordinamento editoriale sono di Fabrizio Somma, la redazione delle immagini è di Nicolò Sponza, l'ottimizzazione informatica di Massimo Radossi. In calce al primo volume, una sintesi in lingua croata, slovena e inglese. storia e ricerca 3 Sabato, 11 luglio 2009 LETTI PER VOI «Le tenebre etnologiche» di Lidija Nikočević Scritti etnografici austriaci sull’Istria tra fine XIX e inizio XX secolo «N on può essere Istria!” Con stupore, nel novembre del 1991, Lidija Nikočević (direttrice del Museo etnografico dell’Istria con sede a Pisino), nel silenzio della biblioteca del Museo etnografico del castello di Kittsee, scartava oggetti della collezione etnografica dei Paesi che erano stati della Monarchia (Austroungarica). Dagli scatoloni, dagli involucri, uscivano oggetti quantomeno curiosi, se riferiti all’Istria: ceramica variopinta, tulle, merletti... E, per ammissione della stessa Nikočević, profonda conoscitrice dell’Istria nei suoi aspetti etnologici ed etnografici, ogni scoperta era accompagnata da una consistente dose di stupore. Un po’ nascosto, agli occhi dei colleghi austriaci: che figura farebbe un esperto a stupire delle cose che invece dovrebbe conoscere? E così, la curiosità ha avuto risposta una volta tornata a casa. E, dopo attenta documentazione, la conferma che sì, (anche) quello era Istria: la ceramica variopinta, per quanto non prodotta in Istria, in Istria era stata in uso; il tulle ed i merletti, magari non di sovente, venivano usati, indossati dalle donne delle città ma anche di qualche paese. Impossibile non tracciare un parallelo con quanto, nel campo, visto e registrato fino ad allora: il vasellame essenziale e rigoroso di Castelnuovo, la solidità e compattezza delle stoffe. Due verità, dice la Nikočević, della cultura tradizionale in Istria. Nessuna delle due preponderatamente falsa, nessuna delle due preponderatamente veritiera. Piuttosto due verità parziali. Dal materiale nell’accezione più plastica del termine, allo studio della cultura (o delle culture) dell’Istria, attraverso gli scritti ai autori austriaci. Testi ancora non tradotti e quindi sconosciuti non solo al largo pubblico, ma anche agli addetti ai lavori del settore. Che cosa nascondono, questi testi, e, di converso, che cosa svelano? Che cosa ha mai motivato gli autori a scrivere le loro geografie, le loro etnografie e, soprattutto, che cosa c’è di rilevante in questo? Ebbene, da qui nasce “Da ‘Le tenebre etnologiche’ – Scritti etnografici austriaci sull’Istria tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo“, oltre trecento pagine di storia corredata da foto e illustrazioni. Dal generale al particolare. L’Autrice inizia il suo viaggio etnografico-storico-culturale dall’analisi del periodo Austriaco in Istria (meglio, quale la posizione dell’Istria nell’ambito della Monarchia) trattando, quindi, del periodo austriaco nella storia locale della penisola e dello sviluppo economico dell’Istria riferito al periodo in esame. Il secondo capitolo tratta dello sviluppo dell’etnologia austriaca nel XIX e agli inizi del XX secolo; i capitoli successivi ci portano a scoprire il contributo di vari profili (impiegati, politici, etnologi) allo sviluppo dell’etnologia. Più avanti, l’Autrice propone scritti etnografici sull’Istria a firma di vari collaboratori di riviste di etnologia, etnografia e antropologia. Un capitolo è dedicato all’Istria nei diari di viaggio e letteratura turistica ed infine, l’analisi dell’im- portanza dei testi austriaci con oggetto l’Istria. Un po’ di particolari. Alla fine del XIX e agli inizi del XX secolo, i pochi studiosi interessati alla cultura istriana erano a conoscenza delle visite di scrittori-viaggiatori austriaci all’Istria. In quei viaggi, spesso venivano raccolti oggetti (che diedero vita poi a vere e proprie collezioni ) e successivamente, di quei viaggi restavano resoconti e scritti vari sulla vita, usi e costumi degli abitanti della penisola.. Il lavoro di Lidija Nikočević si lega, appunto, alla maggior parte degli scritti stampati dal 1867 alla fine della Prima Guerra. I destini di P-ola (e dell’Istria) cambiano radicalmente, quando Vienna decide di fare del suo porto il principale porto di guerra della Monarchia. Servì costruire la ferrovia; Pola ebbe collegamenti con Vienna, Trieste, Fiume; da piccola cittadina di provincia, Pola diven- ne un centro di notevole interesse e potenzialità. Porto militare, arsenale, collegamenti per terra e mare, commerci... insomma, fu un fiorire di quasi tutti i settori. L’Istria uscì dal suo involucro. Nel corso del XIX secolo, poi, creebbe anche l’interesse per la vita popolare. Nacquero scritti di carattere storico, statistico, etnografico – letterario. Un nome su tutti: Karl Freiherr von Czoernig a la sua “Etnografia della Monarchia austriaca”, un’opera nata per dare dati, per quanto prodotti non in termini puramente statistici, bensì narrativo-descrittivi L’autore si impegnò per far emergere le particolarità dei diversi gruppi etnici della Monarchia, tenendo anche in debito conto appartenenza statale e religiosa. L’Austria, in questo, sarebbe dovuto essere stato del benessere e della civilizzazione di tutti i popoli che accoglieva. “La Monarchia Austroungarica in parole e immagini, ideata dall’erede al trono, Rodolfo, figlio di Francesco Giuseppe, venne redatta al motto di “La conoscenza è conciliazione”: è necessario, insomma, che ogni popolo conosca gli altri popoli della Monarchia per elevare il livello di reciproca comprensione che apre alla tolleranza. Nell’enciclopedia, gli scritti sugli Italiani e Sloveni dell’Istria hanno la firma di Peter Tomasin, dei Croati d’Istria, invece, scrisse il sacerdote Vjekoslav Spinčić. Alla fine del XIX secolo, la curiosità diventa scienza: nascono varie istituzioni etnologiche, antropologiche; nei Musei di sceinze naturali compaiono collezioni etnografiche. Poi, nascerà il Museo etnografico austriaco (fondato da Michael Haberlandt). A Haberlandt e collaboratori si deve l’istituzione della prima collezione di oggetti istriani (ma al Museo ci sono anche collezioni di oggetti provenienti dalla Dalmazia, Bosnia e altre regioni dell’A-U). Importanti anche i testi di Haberlandt, per quanto spesso stereotipati, sulla popolazione dell’Istria . Comparvero, poi, su riviste varie, oltre agli scritti sulla cul- tura dell’Istria, anche disegni abbastanza particolareggiati sui costumi dei luoghi. Singolare, l’illustrazione di Ludwig Karl Moser, della partecipazione di vari gruppi dell’Istria e del Quarnero alle solennità per il giuramento a Francesco Giuseppe per il 60.mo del Regno: 12mila partecipanti in abiti tradizionali. La cartolina della Monarchia. Sostanzialmente, anche negli scritti successivi, spesso veniva sottolineata la mescolanza dei popoli che apriva alla tolleranza e alla convivenza, ma spesso veniva proposta anche una chiave di lettura dichiaratamente nazionale. Solitamente, nello scrivere dell’Istria, lo si faceva da un gradino più alto, con un pizzico di colonialismo e parecchi stereotipi che spesso rasentano la più improbabile fantasia. Così quando quella che sarebbe diventata scienza muoveva i primi passi; quando ci si appoggiava soprattutto a resoconti di viaggio. Interpretazioni, quindi, sdoganate dal rigore scientifico, quello che si sarebbe voluto vedere piuttosto che una ferma lettura di quello che è (stato). Un libro affascinante, questo della Nikočević che ha saputo sposare scienza e letteratura. Rigore etnologico e piacere narrativo. (cierre) 4 storia e ricerca Sabato, 11 luglio 2009 Sabato, 11 luglio 2009 5 MONUMENTI Recuperata una parte, inesorabilmente perduta, dell’antica Pola: ne è scaturita una singolare ricostruzione virtuale in 3D A Monte Zaro «solo» un teatro, ma dalle dimensioni «ciclopiche» Opera d’arte dell’architettura romana, era alto 32 metri e poteva ospitare fino a 5mila spettatori di Arletta Fonio Grubiša N on era un anfiteatro ma “solo” un teatro, alto 32 rispettabilissimi metri, alla pari del più elevato torrione dell’Arena di Pola, in grado di far accomodare fino a 5mila spettatori, un’opera d’arte dell’architettura romana davvero mastodontica quella adagiata sul versante settentrionale di Monte Zaro, di cui l’usura dei secoli ha cancellato fino all’ultima traccia. Mai si direbbe che gli odierni edifici austroungarici e l’asfalto stradale celino un sottosuolo con siffatti trascorsi e, in realtà, mai la ricerca scientifica ha avuto modo di mettere completamente in luce il maxi teatro romano di Pola letteralmente spazzato via dal tempo. A corto di informazioni veramente dettagliate e del tutto affidabili, attingendo dai pochi dati scaturiti da indagini vecchie cent’anni, la capodipartimento d’archeologia antica, Alka Starac, operante presso il Museo archeologico istriano di Pola, è riuscita a compiere, invece, l’impresa del recupero e della raffigurazione di una storia andata inesorabilmente perduta. Ne è scaturita, nell’ambito della sua mostra allestita negli spazi espositivi dell’Arena per l’estate 2009, una singolare ricostruzione virtuale della Pola romana. Eccelle, tra le architetture riprodotte mediante visualizazione computeristica, proprio il teatro di Monte Zaro, ciclopico al punto da addombrare, in fatto di proporzioni, l’attuale, vicinissimo Teatro istriano (con tutto rispetto per il rinomato politeama Ciscutti, ma cosa sono 750 presenze di pubblico rispetto alle migliaia d’epoca romana?!). Scellerata volontà della Serenissima L’edificio scenico con il busto dell’imperatore Le splendide immagini riproducenti il teatro parlano da sè e fanno rimpiangere tanto di patrimonio architettonico costruito grazie all’industria edile e scomparso a causa della medesima industria. È il sempiterno destino cucito dall’ambizione progettistica delle civiltà di turno, avvicendatesi con spirito di distruzione pro (ri)costruzione. Il fasto e la potenza espressi dai latini con l’erezione del teatro di Monte Zaro sono finiti per crollare all’epoca dei veneziani, a furia di voler erigere le monumentalità e le costruzioni proprie, anche sotto pressione, per necessità di difesa. Così, sulle ceneri della precedente storia è sorto sul Colle Castello l’odierno maniero della Serenissima. Opera a firma del suo distinto costruttore francese, Antoine De Ville che dovette gioco forza ubbidire alle “indicazioni” del Senato veneziano, troppo comodo per commissionare l’estrazione di pietre, a fatica, dalle cave romane e modellarle all’uopo quando si potevano attingere i blocchi bell’e preconfezionati su misura, smontando il mega teatro lasciato da Roma. Scellerato destino. E non ci fu un Gabriele Emo ad intervenire come nel caso dell’Arena, che scampò alla sorte dell’essere trasferita pezzo per pezzo a Venezia quasi per miracolo. Anche De Ville, in questo caso, detiene i suoi meriti, secondo quanto rivelato, fu questi a sconsigliare ai veneziani lo smantellamento dell’Arena ma di accontentarsi delle pietre sul pendio dello Zaro. Tra due mali si è scelto il minore... tendibile, in ogni suo dettaglio. Come si è fatto allora? Ecco che si è presa a modello un’architettura simile e meglio conservata: il teatro romano di Orange, per grandezza e concetto di costruzione assolutamente somigliante al grande co il terreno pendeva nella melma tanto che i romani dovettero procedere con bonifiche e con la costruzione di una struttura muraria profonda niente meno che 6 metri. Le gradinate per il pubblico erano suddivise a tre piani alla pari verso la parte interna del teatro. Se i disegni lasciati da Serli non errano, invece, l’imponente galleria presentava nella sua parte esterna tanto di arcate come nel caso dei piani inferiori delle gradinate. I pilastri delle arcate del primo e teatro romano di Pola. È proprio studiando le impressionanti dimensioni di quello a Pola, lungo 85 e largo 120 metri, le proporzioni in altezza dell’edificio scenico che l’archeologa Starac è riuscita a risalire all’altezza complessiva dei 32 metri. Altre particolarità interessanti sul teatro scomparso: le gradinate furono ricavate e modellate ad opera di scalpello nella roccia viva e poggiavano in parte su fondamenta in pietra cuneiforme con arcate. Dalla parte anteriore della scena e sotto il porti- dell’edificio scenico. Come scoprire quanti erano i gradini per ciascun piano? Il sistema di calcolo premette che, secondo modulo classico, l’altezza di ciascun gradino era pari a 60 centimetri. Affidandosi a detta matematica, il piano inferiore della gradinata doveva contare 18 file, quello medio 15 (con tre ingressi dal corridoio interno) e quello più alto 7 compresa, in cima, la galleria di cui si sa che era decorata di marmi e coperta da tetto in tegole (tegulae) ma non è noto se fosse aperta da arcate secondo piano delle gradinate sfoggiavano nel mezzo delle semicolonne. Cinque le salite d’accesso per il pubblico che poteva raggiungere sei settori di posti a sedere. I tentativi di recupero Come sentito durante la presentazione delle immagini tridimensionali delle monumentalità di Pola, ad opera di Alka Starac, il teatro di Monte Zaro subì in epoca veneziana una sistematica demolizione essendo stato adibito a vera e propria cava di pietre e marmi pronti alla riutilizzazione edilizia. L’ultimo testimone delle reliquie ancora superistiti fu l’architetto e il teorico italiano Sebastiano Serlio, nel XVI secolo, il primo ad aver lasciato in eredità ai posteri disegni e planimetrie (le più complete a giudizio dell’esperta Starac) del grande teatro quando presentava ancora visibili in altezza le gradinate per il pubblico e l’edificio scenico. La prima e anche unica ricerca archeologica fu condotta sul posto da Anton Gnirs, nel 1908. È solo grazie a questa che furono salvati dalla decadenza pezzi di decorazione architetonica oggi conservati al Museo archeologico e si addivenì a informazioni utili sulla singolare architetura dalla grandezza dell’orchestra definita nel perimetro di 25 metri e sul numero delle sue gradinate. Tutto particolarità che si sono dimostrate come non mai utili alla ricostruzione virtuale della monumentalità. Ma non è bastato. Somiglianze con Orange Secondo indicazione di Alka Starac, non vi è documentazione archeologica e grafica sufficiente alla riproduzione at- Necessarie ulteriori ricerche archeologiche Curiosità descrittive dell’edificio scenico. Manco traccia della facciata, ma si va per supposizione: tutti i teatri romani di questo tipo e così anche quello di Pola, dovevano presentare nella loro parte più alta i pennoni per stendere il velario, quel “tetto” di tela con cui si copriva anche l’Arena durante i ludi gladiatori. Nel momento di risalire a una ricostruzione e a una raffigurazione virtuale quanto mai attendibile, l’archeologa Starac si è imbattuta in situazioni del tutto poco chiare. È uno studio, questo, che ha portato addirittura a smentire le valutazioni fatte da Gnirs e da Cassas. Un secolo fa tutti e due avevano sbagliato nell’interpretazione dei disegni di Sebastiano Serli: convinti che i tre piani raffigurati avessero costituito il portico adagiato alla facciata frontale del teatro. Invece si trattava della raffigurazione esterna delle strutture murarie semicircolari che racchiudevano le gradinate. In realtà, il portico dell’edificio teatrale, lungo 120 metri, esibiva solo due piani e fior di colonne con scanalature. Nei punti d’ingresso, la distanza tra le colonne era più pronunciata, secondo i bravi canoni della classica architetura vitruviana. La Starac asserisce, oggi, che tutti gli elementi architettonici in marmo rinvenuti in loco appartengono all’edificio scenico alto 20 metri: basamenti di colonne, capitelli di marmo proconesco, vari tipi di architravi e cornicioni in marmo bianco greco. Secondo planimetria di Serlio, tre erano gli ingressi sulla scena larghi 6 metri e lunghi almeno 48. Facendo incetta della documentazione di Gnirs, si è attinto anche dagli appunti dilettantistici dell’ufficiale dell’Imperial e Regia marina Schram, presi nel 1875, durante la costruzione dell’edificio denominato Casa Schram sul posto della monumentalità. In base alle proporzioni del teatro e alle dimensioni degli elementi architettonici che costituivano l’edificio scenico si deduce che lo stesso disponeva di tre piani (decorati in marmi e pietra calcare dipinta in colori sgargianti) con al centro una struttura architetonica, analoga al teatro di Orange, e piazzata nel bel mezzo la colossale statua di marmo dell’imperatore. Il busto della statua è stato rinvenuto dai posteri all’altezza dell’orchestra, esattamente nel punto dove la scultura era precipitata. Si ritiene che soltanto ulteriori ricerche archeologiche ai piedi di Monte Zaro potrebbero fornire un’interpretazione più fedele di questa ricostruzione. 6 storia e ricerca Sabato, 11 luglio 2009 MOSTRE Serbi a Trieste, 1751 – 1914: la storia, il «peso» economico e culturale Genti di San Spiridione: comunità piccola ma di grande prestigio e rilevanza U n po come avveniva per l’eterna rivale Fiume, la città di Trieste deve la propria espansione economica e demografica ai provvedimenti mercantili adottati dall’imperatore d’Austria Carlo VI all’inizio del ’700: la Patente di libera navigazione nell’Adriatico, del 1717, e la proclamazione del Porto Franco di Trieste, nel 1719. I due provvedimenti fecero affluire in città mercanti, uomini d’affari, armatori e marittimi provenienti da varie parti d’Europa e dall’impero ottomano, contribuendo a costruire rapidamente le fortune economiche dell’emporio adriatico: negli anni ’70 del ’700 arrivavano annualmente a Trieste tra i 5.000 e i 6.000 bastimenti, e venivano esportate merci per 6.000.0000 di fiorini. Nacquero così diverse comunità etnico-religiose, tra cui quella di religione ortodossa, formata da Greci e Serbi che iniziarono a giungere sporadicamente in città già nella prima metà del secolo, con un incremento soprattutto a seguito della Patente di riconoscimento dell’imperatrice Maria Teresa del 20 febbraio 1751: con essa si concesse ai Greci e agli Illirici di fondare una comunità religiosa e di erigere una chiesa a Trieste, nella zona più prestigiosa della città. Tra il 1751 e il 1781 giunsero o a Trieste un po’ più di 150 Illirici – termine con cui venivano definiti i Serbi – provenienti dall’Erzegovina e dalla Bosnia, dalla Dalmazia, dalle Bocche di Cattaro e dal Montenegro. La costituzione ufficiale di una Confraternita greco-illirica avvenne nel 1756; il suo primo Statuto fu deliberato dall’assemblea della confraternita ed approvato dall’imperatrice Maria Teresa nel 1772. Nel 1781 la comunità ortodossa triestina si divise nelle sue due componenti, greca e illirica, e nel 1793 venne approvato dall’imperatore il nuovo statuto della comunità illirica. Ora, con una mostra che si inaugura il 16 luglio (visitabile fino al al 4 novembre prossimo) al Castello di San Giusto, il Comune di Trieste-Assessorato alla Cultura-Direzione Area Cultura-Civici Musei di Storia ed Arte, intende ripercorrere la storia della Comunità Religiosa Serbo-Ortodossa di Trieste, in occasione del 140.esimo anniversario della consacrazione della chiesa di San Spiridione e del 240.esimo anniversario della prima messa celebrata a Trieste in antico slavo ecclesiastico. Se numericamente la Comunità Serbo-Ortodossa non raggiunse mai grandi numeri, da poche decine a poche centinaia di persone – nel 1864, periodo particolarmente florido per Trieste, gli Illirici erano circa 500, i Protestanti di confessione augustana 850, di confessione elvetica 520, anglicana 350, i Greci ortodossi 1200 e gli Ebrei 4400 – il ruolo dei Serbi fu significativo: l’attività marittima era di primaria importanza ma non esauriva gli interessi dei commercianti della comunità illirica, che preferivano investire gli Giuseppe Tominz: Ritratto di Drago Popovich, 1830-1835 circa, olio su tela 123 x 87,5 cm. Trieste, Civico Museo Revoltella ingenti capitali di cui disponevano in diversi settori di attività. Oltre all’acquisto e alla vendita di merci, provvedevano al loro trasporto con naviglio proprio. Per finanziare gli acquisti fondarono le prime banche private e per assicurare le merci le prime compagnie di assicurazione: alla fine del ’700, su quattordici compagnie esistenti sulla piazza triestina, gli Illirici ne controllavano otto. Quando, il 20 febbraio del 1751, Maria Teresa emise la Patente di Riconoscimento in base alla quale a Greci e Illirici veniva riconosciuto il diritto di fondare una propria comunità religiosa e fondare una chiesa, la Comunità decise di innalzarne una dedicandola a San Spiridione. L’area scelta era nel cuore della nuova Trieste, accanto al Canal Grande. Un’area instabile, visto che un secolo dopo chiesa e campanili erano così lesionati da dover essere abbattuti. Il concorso per la nuova chiesa venne vinto da Carlo Maciachini: un edificio monumentale ispirato all’architettura bizantina sovrastato da una grande cupola centrale e attorniato da quattro campanili. A decorarlo furono chiamati insigni artisti lombardi, in un profluvio di mosaici e marmi preziosissimi che il restauro che si sta ora concludendo restituisce in tutta la loro bellezza e forza celebrativa. Il tempio doveva confermare a tutti il “peso” economico e culturale di una comunità piccola ma di grande prestigio e rilevanza. Una comunità i cui membri stavano innalzando anche alcuni dei più imponenti edifici privati della nuova Trieste. La mostra intende sottolineare proprio l’importanza del ruolo culturale ed economico che la comunità serba ebbe nello sviluppo della città, mettendone in luce le vicende storiche e artistiche e gli intrecci familiari. Attraverso diverse sezioni, una ricca documentazione dà risalto ai personaggi più rappresentativi che contribuirono alle fortune economiche di Trieste, attivi nel settore commercia- La chiesa serbo-ortodossa di San Spiridione a Trieste le, marittimo, assicurativo e politico, nella beneficenza e nel collezionismo: le vicende biografiche, i volti, i palazzi, i velieri di famiglie e personaggi come i Gopcevich, i Popovich, gli Opuich o gli Skuljevich – solo per citarne alcuni – sono ricostruiti tramite ritratti, fotografie, progetti, libri, documenti d’archivio. Ampio spazio viene dedicato alle vicende architettoniche della chiesa di San Spiridione, a partire dall’originario edificio settecentesco sino ai restauri di oggi: gli acquerelli che testimoniano l’aspetto della chiesa settecentesca, i progetti chiamati a concorso nel 1859 per la realizzazione della nuova chiesa, la documentazione degli importanti lavori di restauro che hanno riguardato le facciate, i mosaici e la sostituzione del tetto della chiesa di San Spiridione e che si concluderanno alla fine di quest’anno. Accompagnano l’esposizione diversi manufatti liturgici: Oreficeria moscovita: Servizio completo da messa, composto da 8 evangeliari ed oreficerie sette-ot- pezzi, argento sbalzato e dorato, smalti, paste vitree. Trieste, Comunità Religiosa Serbo-Ortodossa tocenteschi ed antiche e raffinate icone permettono di entrare virtualmente nella ritualità delle cerimonie religiose di confessione ortodossa. Due sezioni inoltre sono dedicate alla biblioteca ed alla scuola della Comunità Religiosa Serbo-Ortodossa di Trieste, importanti istituzioni culturali che hanno perpetuato il patrimonio culturale serbo in città con le loro raccolte di preziosi documenti e antichi volumi. Le opere esposte provengono prevalentemente dai Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste, dalla Comunità Religiosa Serbo-Ortodossa di Trieste e dalla chiesa di San Spiridione, ma per garantire la completezza del percorso espositivo ci si è avvalsi delle opere d’arte di proprietà della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e di diverse istituzioni museali, tra cui il Civico Museo Revoltella ed il Museo Etnografico di Servola a Trieste, ed i Musei Provinciali di Nicolas Cammillieri: “Polacca – La Navegazione”, capitano SpiGorizia, fornendo così anche l’occasione per ammirare opere inedi- ridione Popovich, 1820 circa, acquerello e tempera su carta, 440 x 576 mm. Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte te o raramente visibili. storia e ricerca 7 Sabato, 11 luglio 2009 PATRIMONIO La riscoperta di un segmento del passato finora marginalmente esplorato Click sulla Storia: ritratto di com’eravamo di Carla Rotta F acciamo un esperimento. Aprite un cassetto, quello dove solitamente custodite documenti, carte, foto. Fatto? OK. Sicuramente, tra le tante cose, ci sarà qualche foto vecchia, resa misteriosa e nostalgica dal seppia che fa, come dire? antico. Sì, le foto delle nonne con le gonne lunghe, chignon, scarpe (quasi) chiodate; i nonni con i baffi e nella maggior parte dei casi con addosso l’uniforme della K.u.K. Kriegsmarine. Vediamo il retro. Quasi un’opera d’arte: tutte riportano logo, firme, dicitire degli studi fotografici dell’epoca. Documento doppio: sociologia, costume e quantaltro la foto; arte, economia – artigianato il retro. Certo, le cose bisogna guardarle con attenzione; sicuramente raccontano più di quanto non sappiamo o vogliamo leggere di primo acchito. Il Museo Storico dell’Istria con sede a Pola (colle Castello per la precisione), ha offerto, con un’esposizione intitola- Luigi Mioni Immagini della situazione culturale, sociale e geopolitica istriana mentare. Curatrice della mostra, Lana Skuljan, che con questa ha aperto “un nuovo capitolo mirato alla scoperta di un segmento finora sconosciuto e soltanto marginalemnte trattato, del patrimonio culturale istriano”. La Skuljan, dice Marija Tonković nella recensione, supera la tematica data e spazia in un contesto più ampio e Fotografi e atelier dell’epoca I fotografi: Alois Beer (Klagenfurt), Giovanni Bonivento (Pola), Demetrio Buttignoni (Pola), Luigi Caenazzo (Rovigno), Attilio Ceregato (Rovigno), Blasius Circovich (Pola), Guglielmo Fiorini (Pola), Cesare Gallinaro (Pola), Angelo Ghega (Pola), Anon Hauger, Edmondo Jellusich (Abbazia), Benedikt Legetporer (Bled, Lussinpiccolo), Ivan Letis (Abbazia), G. Lion (Abbazia), fratelli Luccardi (Pola), Rudolf Marincovich (Pola), G.B. Mazucco (Gorizia), Erminio Mioni (Pola), Luigi Mioni (Pola), Antonio Nemetz (Pola), Johann Baptista Rottmayer (Trieste), Josip Škrablin (Abbazia), Stephan Vlach, Heinrich Zamboni (Pola). Gli atelier: Aurora (Lussingrande), Betty (Abbazia), Flora (Pola), Ofelia (Pola), Olympia (Pola), Schrecker (Pola), Sintich G. & Co, (Pola), Venus (Pola). ta “La fotografia in Istria fino al 1918 – dal fondo della Collezione di fotografie, negativi e attrezzatura fotografica”. Uno spaccato di storia a doppia lettura. Come si conviene a un’istituzione dello spessore dello Storico, è manovra onnicomprensiva: esposizione, manifesto, catalogo, opuscolo e invito, per docu- ricco che comprende la situazione culturale, sociale e geopolitica molto specifica nell’Istria del periodo preso in esame. Due pionieri Caenazzo e Mioni Perchè la mostra? In un certo senso è nata per celebrare il 170.esimo anniversario della scoperta della fotografia, oggi mezzo artistico d’espressione ed elemento importante di comunicazione e documentazione visiva. La fotografia nasce con Nicephore Niepce (siamo nel 1827), poi entra nel suo percorso, Jacques Mandè Daguerre, ancora William Fox Talbot e via di questo passo per fare della fotografia l’elemento di comunicazione diffuso che è oggi. Dove e come si inserisce la fotografia in Istria? In Istria la fotografia apparve negli anni Settanta del XiX secolo; i suoi inizi sono legati ai nomi di due fotografi che operavano agli inizi degli anni 1860 – Luigi Caenazzo (fotografo amatoriale di Rovigno) e Luigi Mioni di Pola, pioniere della fotografia professionale in Istria. Nel 1862, Luigi Mioni aprì il primo atelier fotografico professionale a Pola. Mioni, fu, inoltre, il primo fotografo della Marina. Proseguirono l’attività di Luigi Mioni, i suoi due figli, Erminio ed Ernesto con atelier a Pola e Trieste. A Pisino, tra i primi fotografi in Istria, l’atelier fotografico di G. Lion. La Marina, le navi E questo (la fotografia della Marina) è uno specifico per l’Istria. Ogni fotografo professionista, infatti, in qualità di civile, doveva munirsi di permes- so (rilasciato dalla Sezione della Marina presso il Ministero imperiale della guerra) per fotografare il porto e le navi Una guida turistica austriaca di Pola, riporta a caratteri ben evidenziati, il divieto di fotografare il porto, il paesaggio, edifici e fortezze. Motivi di sicurezza, indibbiamente: Pola è porto militare importantissimo e come tale va tutelato. Luigi Mioni fu il primo ad ottenere tale permesso ministeriale per fotografare i luoghi proibiti (divenne, cioè, Marine Photograph); dopo di lui, ottennero il permesso Blasius Circovich e Rudolf Marinovich. Ci furono, però, anche fotografi stranieri nella storia della fotografia della Marina: Alois Beer, ad esempio, di Klagenfurt, fotografo imperiale e reale, ritrasse motivi del porto e della città di Pola, vedute di altre città dell’Istria; ancora il triestino J.B.Rottmayer, l’austriaco Antun Hauger (legato all’atelier Rotes Kreutz) e Benedikt Lergetporer. Le foto dell’epoca erano solitamente ritratti in due formati (carta da visita e formato gabinetto), incollata su cartone e, come detto, sul retro riportava la “pubblicità” (eh, il marketing non nasce mica con noi) dell’atelier e del fotografo. Per dire, nome e cognome del fotografo (o dell’atelier), indirizzo, eventuali premi. Tanti «soggetti» Accanto ai ritratti, gli scatti fissavano foto documentaristiche, reportage, panoramiche. Ritratti, dunque: da foto singole a foto di famiglia (delle foto di famiglia, ormai si è persa l’abitudine. Peccato), le foto “da fidanzati”; i ritratti in uniforme, poi, bellissimi. Ancora, relativamente alla KuK Kriegsmarine, le foto degli equipaggi di navi e sottomarini, ed infine le foto delle navi che sono state l’orgoglio della Flotta. Ebbene, proprio queste foto sono diventate prezioso oggetto di studio dell’epoca. Varie panoramiche e vedute sono servite, poi, a ricostruire i volti dei luoghi. Quando al fotografia era scienza, viene da pensare. Una cosa seria (non che oggi non lo sia, ma forse è troppo comune e sempre più oggetto di sperimentazione che rasente la fantasia). Forse lo confermano anche i volti seri dei ritratti. Forse non avranno avuto di che ridere (ma si potrebbe obiettare che nemmeno ogfgi si scherza), la guerra era per le contrade, le condizioni di vita erano quelle che erano. Ma a vedere le foto, sembra quasi di sentire il fotografo che, contrariamente ai sorrisi richiesti dagli “scattatori” di oggi, facevano piovere sul soggetto un sussieguoso: “Guardate verso di me... seri... non muovetevi... ancora un attimo, seri... così”. Click! ANNIVERSARI La missione dell’Apollo 11 del 20 luglio 1969 Quarant’anni fa, l’uomo sulla luna "Se la missione chiamata Apollo 11 avrà successo, l'uomo realizzerà il sogno, inseguito a lungo, di camminare su un altro corpo celeste": 40 anni fa, era questa la promessa della prima missione spaziale che avrebbe portato l'uomo sulla Luna. Così la NASA l'aveva presentata ai giornalisti arrivati a Cape Canaveral (Florida) per seguire il lancio del Saturno V che portava nello spazio il comandante della missione Apollo 11, Neil Armstrong, il pilota del modulo di comando, Michael Collins e il pilota del modulo lunare, Edwin Aldrin, più noto come Buzz. Armstrong e Aldrin erano gli astronauti destinati a camminare sulla Luna. L'evento ha tenuto con il fiato sospeso davanti agli schermi televisivi e alle radio, più di 600 milioni di persone. Con i suoi 110 metri di altezza, un diametro di dieci metri e pesante oltre 2.000 tonnellate, il Saturno V era un gigante silenzioso sulla rampa di lancio 39A del Kennedy Space Center; la navetta Apol- lo con i tre uomini era rannicchiata sulla sommità. Era il simbolo di un'America decisa ad accaparrarsi il primato più importante della sua più che decennale corsa allo spazio contro l'Unione Sovietica. Nel 1957 l'Urss aveva stupito il mondo con il "bip" del primo satellite artificiale, lo Sputnik, l'anno successivo aveva spedito il primo essere vivente nello spazio, con la cagnetta Laika a bordo dello Sputnik 2. Ed erano sovietiche anche le sonde Luna lanciate a partire dal 1959 per studiare la superficie della Luna e il suo lato nascosto. Il Saturno V, con la navetta Apollo e il suo equipaggio vennero lanciati in perfetto orario mercoledì 16 luglio 1969 e arrivano nell'orbita lunare sabato 19 luglio. Domenica 20, mentre Collins restava sul modulo di comando, chiamato Columbia, Armstrong e Aldrin entravano nel modulo lunare, chiamato Aquila. Delle due ore e mezza trascorse sulla Luna sono indimenticabili le immagini dei passi, piccoli brevi corse, saltelli per "pro- vare" la loro presenza. Poi alzarono la bandiera americana e lasciarono sul suolo lunare una targa di acciaio inossidabile con le tre firme dell'equipaggio e quella dell'allora presidente Richard Nixon: "Here men from the Planet Earth first set foot upon the moon, July 1969, A.D. We came in peace for all mankind" (Qui uomini dal pianeta Terra posero piede sulla Luna per la prima volta, Luglio 1969 DC. Siamo venuti in pace, in nome di tutta l'umanità). L'allunaggio dell'Apollo 11 del 1969 ha destato parecchie polemiche e diviso il pensiero dell'opinione pubblica in due fronti: quello che crede alla teoria del complotto, ovvero che la missione non sia stata altro che una messa in scena architettata dagli USA – che si sarebbero affidati niente meno che alla mano esperta del grande regista Stanley Kubrick – e dall'altra parte il fronte che crede alla autentica veridicità della missione. Tuttavia il 2009, sembra allontanare i dubbi circa i complotti lunari e si prepara al meglio per festeggiare il quarantesimo anniversario del primo sbarco dell'uomo sulla Luna. Molteplici manifestazioni sono pronte a ricordare quello che fu un piccolo passo per l'uomo, ma un grande balzo per l'umanità. 8 storia e ricerca Sabato, 11 luglio 2009 CURIOSITÀ Un documento cruciale della vicenda è uscito dall’archivio segreto del Vaticano Un inedito su Enrico VIII e un divorzio che provocò lo scisma anglicano I n tempi di divorzi regali o meno, di capi di Stato e di governo, desta particolare interesse poter leggere la lettera pergamena indirizzata nel 1530 dai Pari di Inghilterra al Papa Clemente VII per perorare la causa di annullamento di matrimonio tra Enrico VIII e Caterina d’Aragona per poter sposare Anna Bolena. Il documento è stato reso accessibile al grande pubblico dalla perfetta riproduzione in facsimile curata dalla società “Scrinium”, grazie a un accordo con l’Archivio segreto vaticano. La lettera pergamena è stata tirata in 200 esemplari al mondo, al prezzo di 50mila euro ciascuna: larga un metro e alta due volte tanto, del peso di due chili e mezzo, sotto la pergamena pendono più di 80 sigilli di ceralacca. Sono proprio i sigilli a rendere veramente bellissimo il testo, una versione ante litteram della nostra posta certificata. “Ma se (il Pontefice) non volesse farlo, trascurando le esigenze degli Inglesi, questi si sentirebbero autorizzati a risolvere da se stessi la questione e cercherebbero rimedi altrove. La causa del re è la loro causa. Se (il Pontefice) non interverrà o tarderà ad agire, la loro condizione diverrà più grave, ma non irrisolvibile: i rimedi estremi sono sempre i più sgradevoli, ma l’ammalato tiene soprattutto alla propria guarigione...”. Si legge nell’eccezionale testo, in cui chiaramente si “minaccia” quello che, due anni dopo, diventerà lo scisma anglicano. La pergamena, recapitata in Vaticano, che solo regnanti e capi di Stato in visita hanno finora potuto ammirare, è giunta a noi in condizioni straordinariamente buone, ulteriormente migliorate dal restauro conservativo effettuato prima della riproduzione del prototipo dei facsimile. Una ufficializzazione, quella della lettera pergamena, di particolare importanza anche perché cade nel cinquecentenario dall’ascesa al trono di Enrico VIII. Durante la presentazione i vari esperti, tra loro anche l’archeologo Valerio Massimo Manfredi, hanno ricordato il tribolato tentativo del re inglese, che si è sposato ben sei volte, di sciogliere il matrimonio con la consorte Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena. Un tentativo degenerato in un duplice divorzio fino ad arrivare allo scisma che ha sancito la nascita della Chiesa Anglicana. Un’annotazione curiosa è emersa nel corso della presentazione, costituita dal fatto che dalla stesura della lettera con cui il re chiedeva il divorzio, negli anni a venire, i firmatari della lettera sarebbero stati messi davanti all’assunzione di una posizione definita, “anche a costo della vita”. Due di loro, infatti, furono giustiziati nel 1537. Un marchese e un barone un anno dopo furono condannati a morte come cospiratori e dopo di loro, l’anno successivo, anche due abati intimamente contrari alle profonde innovazioni religiose attuale nel regno subirono la stessa sorte a causa del loro “animo intimamente corrotto”. Una tragica fine ebbe in sorte anche il fratello di Anna Bolena, Lord Rochefort che, accusato di Quest’anno Londra festeggia i 500 anni dall’incoronazione di Re Enrico VIII. Enrico visse e morì a Londra e, per festeggiare questo avvenimento, in tutta la capitale inglese ci sono eventi e manifestazioni Enrico VIII Tudor (Greenwich, 28 giugno 1491 – Londra, 28 gennaio 1547) fu re d’Inghilterra e Signore d’Irlanda (in seguito re d’Irlanda) dal 22 aprile 1509 fino alla sua morte La lettera venne sottoscritta da 83 nobili, abati, vescovi e arcivescovi e indirizzata al pontefice Clemente VII per perorare la causa di annullamento e poter impalmare l’amante Anna Bolena relazioni incestuose con la regina, venne giustiziato con lei nel 1536. I retroscena Tornando al divorzio, quale che sia stata la causa remota dello scisma anglicano, non v’è dubbio che quella prossima, immediata e determinante, fu il desiderio di Enrico VIII, re d’In- ghilterra (1509-1547), di liberarsi della sua legittima moglie, Caterina d’Aragona, figlia di Ferdinando e Isabella di Spagna e zia del futuro imperatore Carlo V, al fine di contrarre nuovo matrimonio con la Bolena, dama di corte, la quale non voleva appartenergli se non come sposa. Di tali intenzioni il sovrano non faceva mistero, pronto a percorrere qualsiasi strada pur di ottenere il suo scopo. Nel 1527, infatti, Enrico VIII assumeva alcune iniziative presso gli arcivescovi locali e presso il legato papale, cardinale Wolsey, perché la causa di nullità del matrimonio del sovrano con Caterina d’Aragona (che gli aveva dato 6 figli, dei quali solo Maria Tudor sopravvisse) venisse trattata in Inghilterra, ove cer- A 500 anni dalla sua incoronazione, rivive il gossip della dinastia Tudor attraverso la presentazione ufficiale del documento con cui, nel 1530, chiese il divorzio da Caterina d’Aragona tamente era agevole al re esercitare le sue pressioni. Ciò non fu in alcun modo consentito dal pontefice, che avocò a Roma la discussione della causa. Per le delicate implicanze che il caso comportava, sia di natura giuridica che di politica ecclesiastica, Clemente VII prendeva tempo prima di pronunziare una sentenza. Ed in questo frangente il re e i suoi ministri non cessavano di fare pressioni su Roma perché la questione venisse tempestivamente risolta. Anche i Pari d’Inghilterra, tutti insieme, si mossero in favore del sovrano, e con il presente documento intenzionalmente rivestito di una forma solenne nel 1530 chiesero al papa di porre fine alla loro attesa e a quella di tutta la nazione inglese. La loro richiesta ha la caratteristica di un sollecito, non certo di una supplica a vantaggio dell’annullamento, che essi mostrano di ritenere scontato, tenuto conto del parere favorevole già manifestato dai dotti inglesi, francesi e italiani nonché della benevolenza sempre dimostrata dal re verso la Santa Sede. In chiusura del testo i Pari dichiarano l’intenzione di aderire comunque alla sentenza che il pontefice stabilirà. È noto poi come il papa dichiarasse legittimo il matrimonio di Enrico VIII con Caterina d’Aragona, e dunque insolvibile, e come il sovrano, impedito nei suoi disegni, passasse a nuovo matrimonio e dichiarasse la Chiesa d’Inghilterra separata da quella Romana (scisma anglicano). Anno V / n. 41 dell’11 luglio 2009 “LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat edizione: STORIA E RICERCA Redattore esecutivo: Ilaria Rocchi / Impaginazione: Vanja Dubravčić Collaboratori: Arletta Fonio Grubiša, Carla Rotta Foto: Arletta Fonio Grubiša, Carla Rotta, Ivor Hreljanović, archivio e internet La pubblicazione del presente supplemento viene supportata dall’Unione Italiana grazie alle risorse stanziate dal Governo italiano con la Legge 193/04, in esecuzione al Contratto N° 83 del 14 gennaio 2008, Convezione MAE-UI N° 2724 del 24 novembre 2004