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28/2015
politica
La lezione
su De Gasperi
Lectio degasperiana di mons. Galantino,
segretario generale della CEI
S’intitola La «ricostruzione» italiana. Il modello e l’esempio di Alcide De Gasperi l’intervento che mons. Galantino avrebbe dovuto tenere a Pieve Tesino (TN) – paese natale
del grande statista democristiano – lo scorso 18 agosto, in occasione della Lectio degasperiana 2015. «La politica come ordine supremo della carità: questa io credo dovrebbe
essere la grande avventura per chi ne sente la
missione», si legge nel testo preparato per
l’occasione, nel quale il segretario della CEI
accenna alle recenti polemiche che lo hanno
coinvolto: «È questo che mi ha spinto a essere fin troppo chiaro negli interventi di questi
ultimi giorni – almeno quelli non inventati –
sui drammi dei profughi e dei rifugiati: nessun politico dovrebbe mai cercare voti sulla
pelle degli altri e nessun problema sociale
(...) può far venir meno la pietà, la carità e
la pazienza». Galantino, che ha rinunciato a
presentare la lectio di persona (cf. riquadro
a p. 4), ha consegnato il suo testo, che è stato
letto dal prof. Giuseppe Tognon.
Vita trentina 30.8.2015, 15-17.
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Premessa
Porgo un saluto sincero a tutti voi, che avete
voluto impreziosire quest’appuntamento annuale
con la vostra presenza: saluto i familiari di Alcide
De Gasperi, i numerosi cittadini, i rappresentanti
delle istituzioni – le amministrazioni, la Provincia
di Trento e il Parlamento – e il caro arcivescovo di
questa Chiesa.
Quando, a nome della Fondazione trentina Alcide De Gasperi, il prof. Giuseppe Tognon mi ha
proposto la lectio su De Gasperi sono subito stato
tentato di rispondere di no; mi ha trattenuto dal
rifiutare il pensiero che non è mai giusto sprecare
occasioni di confronto e di riflessione, specie in un
tempo come il nostro, tutt’altro che incline al confronto e alla riflessione; non mi dispiaceva nemmeno il desiderio di poter rendere onore, come figlio
9 Valdesi: la porta è aperta
Mons. Forte, presidente dell’Ufficio CEI per l’ecumenismo
e il dialogo, porta il suo saluto al Sinodo metodista e valdese e torna sulla lettera di risposta alla richiesta del papa.
14 I vescovi e l’immigrazione
Le lettere dei vescovi di Crema, Vittorio Veneto e Treviso
e il messaggio dei vescovi della Liguria testimoniano la
presa in carico dell’emergenza profughi.
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Anno LX - N. 1213 - 4 settembre 2015
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di un antico militante democristiano nella terra di
Giuseppe Di Vittorio e come vescovo, a un cristiano così libero e coraggioso come è stato Alcide De
Gasperi.
Se potete dunque perdonare la mia audacia, a
maggior ragione vi chiedo di accogliere con benevolenza, sotto il nome di De Gasperi, le cose che porto
nel cuore e che spero possano aiutarci a recuperare
fiducia nella fede e nella politica, che è quello di cui
parlerò oggi. Abbiamo bisogno di entrambe, sempre di più. Senza politica si muore. Le società si disgregherebbero e la prepotenza umana dilagherebbe. Nessuno ha inventato ancora un sostituto delle
istituzioni politiche, del diritto, della democrazia. Le
società hanno bisogno di essere governate; da cristiani e da cittadini consapevoli, dobbiamo aggiungere che dovrebbero essere governate prima di tutto
secondo giustizia.
1. Le virtù personali
e le virtù politiche di De Gasperi
L’esempio di De Gasperi è sotto quest’aspetto
unico, dalle radici profonde. Sulla sua spiritualità
ho letto nel testo di Maurizio Gentilini1 l’ampio
saggio di don Giulio Delugan, storico direttore
di Vita trentina, che fu legato allo statista da uno
stretto e duraturo rapporto di amicizia. Emerge, in
seguito all’avvento del fascismo, il lungo «periodo
di umiliazione e di tribolazione» a cui De Gasperi fu costretto, periodo che «in certi momenti raggiunse dei toni veramente drammatici». Proprio di
quel periodo Delugan può scrivere: «Ho sempre
trovato e ammirato in De Gasperi – e lo dico non
per sciocca adulazione postuma, ma per rendere
omaggio alla pura verità oggettiva – il cattolico
guidato da una fede granitica, coerente, cristallina,
di una condotta pratica esemplare e a volte veramente ammirabile». E ancora: «Non ho mai notato neppure l’ombra del così detto sdoppiamento
di coscienza, per cui nella vita privata si seguono
certe norme di condotta e nella vita pubblica se ne
seguono altre».2
A ben vedere, ogni commento è superfluo… Si
capisce, invece, come De Gasperi abbia potuto attraversare alcuni tra i più difficili passaggi della storia contemporanea conservando una straordinaria
serenità d’animo. Le sue virtù personali sono state
1 Cf. M. Gentilini, Fedeli a Dio e all’uomo. Il carteggio di
Alcide De Gasperi con don Giulio Delugan (1928-1954), Fondazione Museo storico del Trentino, Trento 2009.
2 Ivi, 154-155.
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anche le sue virtù politiche. Ha avuto il dono di una
coerenza invidiabile: «La fede e la condotta religiosa
di De Gasperi – è ancora Delugan che scrive – non è
stata una bella facciata, che nasconde il vuoto come
certe facciate di palazzi in città bombardate durante la guerra; non è stata un abito da cerimonia per
certe solenni occasioni, o una luce tardiva sorta nel
suo spirito solo negli ultimi anni, ma qualche cosa di
intimo, di profondo, di incarnato nella sua anima, di
sostanziale e di genuino, che ha informato, plasmato
e guidato il suo spirito fin dai suoi giovani anni e l’ha
poi accompagnato ispirandone parole e azioni per
tutta la vita».3
La professione politica ha quindi condotto De
Gasperi là dove non avrebbe mai pensato di arrivare. Prima suddito ai margini di un Impero, poi di un
Regno che lo ha imprigionato e quindi finalmente
cittadino di una Repubblica che egli ha contribuito
in maniera decisiva a costruire e che, invece, non ne
ha sempre riconosciuto i meriti.
2. La «ricostruzione italiana»:
la complessa esperienza degasperiana
De Gasperi non è solo un esempio, ma è un modello che merita di essere studiato come elemento
centrale di una storia collettiva esemplare. L’esperienza degasperiana della «ricostruzione italiana» è
una cosa diversa e ben più complessa della formula
del «centrismo» con cui gli storici definiscono gli
anni dal 1948 al 1954. Essa è un’esperienza popolare che va oltre le vicende politiche nazionali: è una
forma alta di partecipazione e insieme una dimostrazione di ciò che si può realizzare quando la si
assume davvero come una missione di servizio.
Si può discutere se la «ricostruzione» sia stata il
compimento del Risorgimento, ma non si può negare che ha costituito il passaggio storico in cui le
donne e gli uomini italiani, popolo e Chiesa, hanno
dimostrato una straordinaria capacità di resilienza,
un’autentica conversione alla forma democratica,
a dimostrazione che la democrazia richiede sempre anche virtù eroiche perché non è mai un regime di comodo.
Durante la seconda guerra mondiale, la Chiesa,
soprattutto il basso clero, ebbe la forza di schierarsi
dalla parte del popolo e riuscì a non pagare prezzi
troppo alti alla sua compromissione con il regime
fascista. In cambio di questa benevolenza popolare
(una fiducia antica che come Chiesa dobbiamo sem3 Ivi,
2
164-165.
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pre nuovamente meritare) ha potuto chiamare alla
politica un’intera generazione di giovani, la generazione di Moro e di Fanfani, e tenere unito il mondo
cattolico. Ma questa nuova leva di deputati e senatori e quest’unità politica che abbracciava sindacati, associazionismo, organizzazioni religiose, e che
qualcuno nella Chiesa pensava di poter manovrare
a piacimento, non avrebbero avuto il loro successo
se non avessero incontrato un capo come De Gasperi, uomo dell’Ottocento, certo, ma un maestro, esigente, lungimirante, libero. Nel 1954 il ventre della
DC e i giovani leoni, impazienti, vollero scrollarsi
di dosso l’ingombrante leader: credettero di poter
fare meglio e in alcuni casi, forse, vi riuscirono, ma
con la fine politica di De Gasperi si chiuse davvero
un’epoca che ritorna attuale oggi.
Noi siamo in pieno nel passaggio verso una nuova intelligenza civile: il mondo è cambiato, nulla
sembra uguale a prima, e la memoria di maestri
come De Gasperi diventa ancora più attuale. Egli
non volle mai essere seguace di dottrine sterili o
antiliberali ed ebbe sempre la preoccupazione che i
cattolici non apparissero coloro che operavano per
la conservazione di una struttura sociale e statale
non voluta, solo ereditata, e in molte parti ormai
marcia.
I dieci anni che vanno dalla liberazione alla morte dello statista, nel 1954, sono stati il decennio più
eroico della storia politica italiana. Un decennio non
idilliaco, pieno di problemi, di opere incompiute e
anche di cose storte. La strategia politica degasperiana può apparire a qualcuno quasi scontata, vista
la divisione del mondo in blocchi, ma non si tiene
conto che nulla allora per l’Italia era scontato, che
il paese era radicalmente ignorante di democrazia
e, soprattutto, che il blocco moderato era profondamente conservatore. Portare i cattolici verso una democrazia governante in una alleanza strategica tra
classe operaia e ceto medio è stato per De Gasperi
come una traversata del deserto o del Mar Rosso.
Fu un decennio di scelte decisive, sbagliando le quali si sarebbe potuto rovinare tutto.
L’Italia che era entrata in guerra non esisteva
più. L’Italia che avrebbe dovuto essere, nessuno ne
conosceva con esattezza l’identità: il fascismo aveva
in qualche modo corrotto l’anima di un intero paese e le classi dirigenti antifasciste erano state messe
all’angolo, se non al confino. Dal 1946 si navigò
invece in mare aperto, con grandi partiti di massa che erano come delle grandi navi, potenti ma
zavorrate da tante attese e da correnti, e che per
entrare nel porto della democrazia domandavano
piloti abili e coraggiosi.
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3. I cardini della «ricostruzione» degasperiana
La ricostruzione degasperiana rimane un modello, perché De Gasperi l’ha ancorata intorno a tre
cardini, che restano solidi e che hanno consentito
che si aprisse la porta a una nuova Italia.
3.1. Rispetto delle istituzioni
ed esercizio di democrazia
Il primo cardine è il rispetto delle istituzioni e, in
particolare, del Parlamento. Basterebbe riprendere
in mano quanto disse in questa stessa circostanza
ormai dieci anni fa Leopoldo Elia, intervenendo su
Alcide De Gasperi e l’Assemblea costituente, per
trovarvi spunti ed elementi al riguardo.4
De Gasperi fu segretario di partito e poi presidente del Consiglio per otto anni, ma tutte le scelte fondamentali della sua politica interna e internazionale
sono state elaborate dai partiti all’interno del Parlamento, nel rispetto più assoluto delle regole e con un
faticoso quanto meticoloso lavoro politico svolto in
profondità. Ciò ha comportato non poche difficoltà
nel gestire sia le coalizioni di governo sia le diverse e vitali correnti di partito; ma mai De Gasperi
ha ceduto alla tentazione di coartare il Parlamento,
che era la sede in cui egli pretendeva il rispetto e in
cui poteva riconoscere alle opposizioni il ruolo che
meritavano. Quando nel 1953, preoccupato dagli
scricchiolii della propria maggioranza, propose una
nuova legge elettorale maggioritaria, contro cui si
scatenò una pesante campagna denigratoria, il suo
premio di maggioranza sarebbe comunque scattato
solo se la coalizione avesse raggiunto la maggioranza dei voti, il 50%!
Il Parlamento era la sede della legittimazione
della volontà popolare, il luogo nel quale, soprattutto, si costruivano le riforme sociali, l’anima
autentica di ogni democrazia, che non può ridursi a semplice politica fiscale e tanto meno a una
politica economica meccanica. De Gasperi aveva
ben chiaro che una crisi come quella del secondo
dopoguerra non poteva essere vinta con la leva
dei soli strumenti economici: era necessario che
una rigorosa politica di bilancio fosse inserita in
una visione politica internazionale ed europea
e venisse sostenuta – vorrei dire incarnata – da
una ferrea tempra morale. Nella relazione politica al congresso nazionale della DC del novembre 1952 De Gasperi disse: «Lo stato democratico
deve essere forte. La forza è prima interiore, nella
4 Cf. G. Tognon (a cura di), Su De Gasperi. Dieci lezioni di
storia e di politica, FBK Press, Trento 2013, 35-46.
3
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Lectio degasperiana: la decisione di Galantino
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ubblichiamo il comunicato diramato dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali
della CEI, con il quale mons. Nunzio Galantino ha
annunciato – «in continuità con l’atteggiamento di
riservatezza e di silenzio adottato» in seguito alle
polemiche sollevate dopo alcune sue dichiarazioni – la scelta di non tenere di persona la Lectio
degasperiana 2015 a Pieve Tesino (TN), programmata il 18 agosto scorso. Il testo del segretario
della CEI è stato letto dal prof. Giuseppe Tognon,
presidente della Fondazione trentina Alcide De
Gasperi, organizzatrice dell’evento.
In data odierna il segretario generale della CEI –
che questa sera avrebbe dovuto pronunziare il testo
allegato della Lectio degasperiana – in continuità con
l’atteggiamento di riservatezza e di silenzio adottato
nell’ultima settimana, ha deciso di diramare il seguente
comunicato.
Raggiungo i membri della Fondazione trentina Alcide De Gasperi con un saluto cordiale, che estendo
a tutti i partecipanti alla Lectio di quest’anno. L’invito
rivoltomi – e da me volentieri accolto – mi ha offerto
la significativa opportunità di riprendere tra le mani
alcuni scritti del nostro grande statista e di poterli
rileggere alla luce del momento storico che stiamo
giustizia della legge, e poi esteriore e strumentale, nell’autorità di imporre la legge e di punire i
trasgressori. La forza dello stato è nel suo diritto,
nella legittimità del potere, nella razionalità delle
disposizioni, nella precisione dell’ordine. Lo stato
è forte se il legislativo è illuminato e se è stabile e
forte l’esecutivo, anche per realizzare una politica
di riforme sociali».5
Oggi siamo più vicini di quanto crediamo alle
sfide che De Gasperi dovette affrontare, anche se
esse a molti non appaiono più così drammatiche.
Siamo di fronte alla necessità non solo di una nuova forma di convivenza fra i popoli, ma anche di
un nuovo modello macro-economico, di una nuova
politica industriale, di una politica dei diritti sociali
più completa. Chi pensa, chi adotta, chi realizza
queste riforme? Esse richiedono una democrazia
costruita con un di più di ascolto, un di più di pre5 F. Malgeri, De Gasperi e l’età del centrismo (1948-1954),
Cinque Lune, Roma 1987, 169.
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vivendo: un momento davvero gravido di nuove e
ampie possibilità per la società civile come per quella
ecclesiale.
Vi metto a disposizione il testo che per questa solenne occasione ho maturato. Mi scuso con ciascuno
di voi – a partire dagli amici della Fondazione – se
questa sera non sono a presentarvelo di persona,
come pur sarebbe giusto. La scelta di affidarlo al prof.
Giuseppe Tognon l’ho soppesata con cura al fine di
evitare, con la mia sola presenza, di contribuire a rafforzare polemiche o anche semplicemente di allontanare il momento del rasserenamento di un clima
invano esasperato.
Proprio nel soffermarmi su alcune pagine biografiche di De Gasperi, mi sono convinto che la disponibilità a fare un passo indietro a volte sia la via
migliore affinché alcune idee di fondo e alcuni valori
si accreditino, puntando ad affermarsi. Questa fiducia
è rafforzata dalla consapevolezza che, se con parole
forti ho potuto urtare la sensibilità di qualcuno, l’ho
fatto per un’istanza che continuo a credere esclusivamente evangelica.
Trento, 18 agosto 2015.
✠ Nunzio Galantino,
segretario generale della CEI
cisione e di attenzione ai dettagli, per adattare i
grandi principi dell’uguaglianza e della solidarietà
a regole sempre nuove di giustizia, che non può rimanere una questione confinata nelle aule dei tribunali.
De Gasperi è un modello. I modelli di un sarto o i prototipi di un’officina sono i materiali più
preziosi di ogni impresa, sono semi d’intelligenza e
d’esperienza, ed è su di essi che si fonda l’innovazione. Una politica senza memoria, che pretenda
di ricominciare da zero, non ha futuro e rischia, nel
migliore dei casi, di essere velleitaria. La politica,
come le istituzioni che ne sono il fondamento, ha
bisogno di tempi e di spazi di manovra, soprattutto in democrazia, dove l’equilibrio tra i poteri non
può ridursi al rispetto formale di regole. La democrazia non è soltanto una forma di governo, ma la
condizione necessaria per esercitare in positivo le
libertà individuali, civili e sociali. La democrazia è
un metodo di vita, un’aspirazione al riconoscimento della dignità delle persone e dei popoli.
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3.2. Il bene comune:
ispirazione della politica e della religione
Il secondo cardine della ricostruzione degasperiana è quello dell’ispirazione ideale della politica e
della religione al bene comune. Oggi ci appare una
cosa lontana, ma la politica che De Gasperi ha praticato era ben lontana dalla presunzione che la politica fosse tutto e che a essa potesse essere chiesto ciò
che invece non può dare: forza interiore, resistenza
al male, disposizione interiore alla solidarietà. «Dirsi
cristiani nel settore dell’attività politica – disse De
Gasperi nel 1950 – non significa aver diritto di menar vanto di privilegi in confronto di altri, ma implica il dovere di sentirsi vincolati in modo più particolare da un profondo senso di fraternità civica, di
moralità e di giustizia verso i deboli e i più poveri».6
Il progetto attuale di un umanesimo autosufficiente e di una società senza regole e senza limiti
non appartiene alla visione degasperiana. L’umanesimo presuntuoso e insieme superficiale che ben
conosciamo è fallito o, meglio, sopravvive in una
meccanica politica che non si preoccupa di distinguere tra ciò che ha un’anima e ciò che non ce l’ha
e non sa riconoscere dove c’è ancora vitalità. Certo,
non è ancora tempo di cure palliative – l’uomo e il
creato non sono moribondi – ma nemmeno è tempo
di cullarsi in false illusioni.
Recuperare la passione per la ricostruzione di un
popolo e di un mondo non è impresa facile, anche se
necessaria. Pascal – ma lo farà in maniera illuminata
anche Rosmini – in uno dei suoi frammenti più belli
ha descritto un terzo ordine della realtà, quello della
carità, che rispetto a quello dell’intelletto e delle cose
materiali o dei corpi, ha una potenza soprannaturale che non conosce eguali. «Gesù Cristo – scrisse Pascal – senza ricchezza e senza nessuna ostentazione
esteriore di scienza, sta nel proprio ordine di santità.
Non ha fatto invenzioni, non ha regnato; ma è stato
umile, paziente, santo a Dio, terribile per i demoni,
senza alcun peccato. (...) Tutti i corpi insieme e tutti
gli spiriti insieme, tutte le loro produzioni, non valgono il minimo moto di carità. Questo è un ordine
infinitamente più elevato. Da tutti i corpi insieme
non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: ciò
è impossibile, è di un altro ordine. Da tutti i corpi e
gli spiriti insieme, non sarebbe possibile trarre un
moto di vera carità: ciò è impossibile perché è di un
altro ordine, di un ordine soprannaturale».7
6 A. De Gasperi, «Discorso ai giovani», 1950, in Id., Scritti
e discorsi politici, vol. IV, Il Mulino, Bologna 2009.
7 B. Pascal, Pensieri, Opuscoli, Lettere, Rusconi, Milano
1978, 754-755: n. 829 ed. Brunschvicg e anche n. 698 (n. 308
ed. Lafuma).
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Questo terzo «ordine della carità» non è effimero o invisibile perché anima ogni fibra del creato. E
la politica può esserne la più alta traduzione nelle
cose degli uomini. La politica come ordine supremo
della carità: questa io credo dovrebbe essere la grande avventura per chi ne sente la missione. A questo
penso si riferisse Paolo VI quando parlava della politica come della «forma più alta della carità».
Credetemi, è questo che mi ha spinto a essere
fin troppo chiaro (qualcuno ha scritto «rude») negli
interventi di questi ultimi giorni – almeno quelli non
inventati – sui drammi dei profughi e dei rifugiati:
nessun politico dovrebbe mai cercare voti sulla pelle
degli altri e nessun problema sociale di mancanza
di lavoro e di paura per il futuro può far venir meno
la pietà, la carità e la pazienza. L’Europa che De
Gasperi ha contribuito a fondare era più generosa
di quella di oggi e i suoi capi politici farebbero bene
a ricordarsi da dove gli europei sono venuti e dopo
quali terribili prove. L’Europa non può diventare
una maledizione; è un progetto politico indispensabile per il mondo, a cui la Chiesa guarda con trepidazione, come un esempio, un dono del Signore.
Rispetto all’ordine politico della carità o, se volete, del bene comune, è chiaro che il riformismo – di
cui tanto si parla anche in questo tempo – non basta, o, almeno, non può essere fine a se stesso, quasi
potesse risolversi in un esempio di movimento per
il movimento. Esso è sempre necessario, è cura del
quotidiano o pena per il presente, ma appartiene,
come categoria, a una stagione della politica che è
ormai superata, nella quale si avevano troppe speranze di progresso e si dava importanza ai ruoli, anche tra il clero.
Ricostruire, invece, è cosa diversa. È un evento
che si realizza sulla spinta di una concentrazione di
virtù, di passioni e di intelligenza che va preparata e
che si manifesta solo a certe condizioni. Soprattutto
è un passaggio che richiede sempre grandi uomini,
figure capaci di interpretare il proprio tempo con
quella tenacia che non proviene dall’aver frequentato le migliori scuole, le migliori sagrestie o dall’aver
imparato tutte le astuzie della politica nelle segreterie dei partiti. Ci vuole altro...
La politica come ordine della carità è un’impresa
difficile eppure necessaria, un’esperienza del limite
che il cristiano può comprendere come anticamera
della salvezza. Ho letto nel testamento spirituale di
uno storico importante, Pietro Scoppola, il primo
dei miei illustri predecessori in questa tribuna degasperiana, una definizione della politica che a mio
parere è molto degasperiana: «La politica mi ha appassionato, non strumentalmente come mezzo per
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un fine diverso dalla politica stessa, ma come politica in sé, come disegno per il futuro, come valutazione razionale del possibile, e come sofferenza per
l’impossibile, come chiamata ideale dei cittadini a
nuovi traguardi, come aspirazione a un’uguaglianza irrealizzabile che è tuttavia il tormento della storia umana. Mi ha interessato la politica per quello
che non riesce a essere molto di più che per quello
che è».8
3.3. Una sana laicità… oltre il fanatismo
e lo smarrimento dei valori
Il terzo cardine della ricostruzione degasperiana
è quello della laicità, tema che ancora infiamma il
dibattito in Europa e nei paesi democratici, alle prese da un lato con fenomeni terribili di fanatismo e
d’intolleranza – ne sono stato testimone diretto nei
giorni scorsi, durante una visita compiuta in alcuni
campi di profughi iracheni – e, dall’altro, con uno
smarrimento generale di valori, una mancanza di
virtù che è più insidiosa di ogni laicismo.
L’Italia degasperiana è stata un’Italia diversa
anche sul piano dell’esperienza religiosa. De Gasperi ha dato una dignità diversa al laicato cattolico
– lo ha reso adulto, protagonista – e, pur rispettando la Chiesa e il papato, ha capito di che cosa era
capace il popolo italiano e in particolare i laici cattolici. «Il credente – disse il 20 marzo 1954 – agisce come cittadino nello spirito e nella lettera della
Costituzione e impegna se stesso, la sua categoria,
la sua classe, il suo partito, non la Chiesa».9 Pio XII
fu molto scontento di quel discorso e ordinò alla Civiltà cattolica di criticare e correggere De Gasperi,
che per l’ennesima volta soffrì in silenzio. D’altra
parte, due anni prima, Nenni aveva annotato nel
diario queste parole di De Gasperi: «Sono il primo
presidente del Consiglio cattolico. Credo di aver
fatto verso la Chiesa tutto il mio dovere. Eppure
sono appena tollerato».10
È giusto dire ad alta voce, almeno oggi, come è
stato fatto con Rosmini, che De Gasperi non è stato del tutto compreso dalla Chiesa e che ha patito
più di quanto avrebbe dovuto. Nessuno è profeta
in patria, e a De Gasperi, che tra i politici cattolici
dell’Occidente è stato forse il più capace, ma che ha
dovuto subire il condizionamento pesante da parte
dei conservatorismi politici ed ecclesiastici, è toccato
il destino di aver ragione anche davanti al sospetto
8 P. Scoppola, Un cattolico a modo suo, Morcelliana, Brescia 2008, 47-48.
9 Relazione al Consiglio nazionale della DC, 20.3.1954.
10 P. Nenni, Tempo di guerra fredda. Diari 1943-1956,
SugarCo, Milano 1981, 546.
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e, per certi versi, alla resistenza di papa Pio XII e
di molti suoi consiglieri. Aveva ragione De Gasperi.
La sua pazienza e il suo coraggio nella ricostruzione
politica, economica e civile dell’Italia sconfitta furono il miglior regalo alla storia del cattolicesimo politico italiano: portare la Chiesa a confrontarsi con la
democrazia e fare dei cattolici italiani il pilastro di
quest’ultima. L’Italia, con De Gasperi, passò da essere «il giardino del papa» a uno dei paesi fondatori
dell’Europa unita. Non è poco, anche se a noi oggi
appare quasi scontato.
4. De Gasperi: punti fermi
contro altari vuoti e poteri assoluti
De Gasperi veniva da lontano. Aveva vissuto in
prima linea il risveglio del cattolicesimo sociale e la
stagione delle opere. Veniva da un Trentino che era
stato un laboratorio per l’intera Europa di operosità cattolica, ma anche del rinnovamento della coscienza cattolica che, come in De Gasperi, si costruì
intorno a pochi punti fermi: la preghiera personale,
la Bibbia, la comunità. De Gasperi fu un uomo dai
rapporti umani corti, cioè vicini alla realtà quotidiana, ma dai rapporti politici lunghi, proiettati su una
scala e su un tempo che appartengono alla grande
storia. Realismo e prossimità, da un lato; visione e
disegno cristiani, dall’altro. Al centro, un’interiorità
solida e fiduciosa.
La laicità non è libertà individuale di fare ciò che
si vuole, non concerne leggi che devono assecondare i desideri di ciascuno, e non è nemmeno una
semplice morale laica, da piccoli borghesi garantiti
dal benessere: in positivo, la laicità è un progetto di
vita fondato sul rispetto della complessità dell’uomo,
sulla tradizione storica e sulla fiducia nella capacità
della politica di trovare un punto di mediazione che
non sia la rinuncia a ciò che si crede. La laicità della
politica è anche saper perdere con dignità per preparare tempi migliori; è anche comprendere che è
sempre meglio lottare per convincere che protestare per sdegnarsi; da cristiano e da vescovo dico che
laicità è anche fare chiarezza in mezzo al popolo
e poi rispettarne la volontà. Gli esempi, legati alla
cronaca di questa stagione, non mancano.
De Gasperi è un trentino, come lo è stato Antonio
Rosmini, che amo e che ho studiato con passione. I
due personaggi hanno molto in comune: sono stati
dei riformatori della società e della Chiesa, ciascuno
nel proprio ambito, ed hanno patito entrambi l’ostracismo di tutti coloro che non concepivano che la
storia fosse importante e decisiva anche nella Chie-
6
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sa, perché solo la realtà vivente è capace di lottare
contro altari vuoti e poteri assoluti. La storia non è
monarchica o teocratica, come non può esserlo la
coscienza, che è quell’abito interiore che ci richiama
sempre alla nudità e alla mendicanza davanti al Signore, ma anche davanti ai fratelli, ai compagni del
genere umano.
Va aggiunto che, grazie a De Gasperi e alla Democrazia cristiana, i cattolici italiani hanno avuto
anche il merito storico di riconciliare la fede con la
storia – uno degli esiti più alti del concilio Vaticano
II, che De Gasperi avrebbe vissuto certamente con
grande gioia e trepidazione accanto a Montini, il
futuro papa che gli era stato amico e consigliere e
che in qualche modo ne prese l’eredità dopo la sua
morte.
La ricostruzione italiana, compreso il capolavoro
degasperiano e togliattiano di concedere al Concordato del 1921 di essere riconosciuto nella nuova
Carta costituzionale, va ben oltre la riaffermazione
del potere temporale della Chiesa. Con i Patti lateranensi la «questione romana» si era chiusa ancora
all’insegna del potere temporale del papato e se non
ci fossero stati uomini come Sturzo e De Gasperi,
con i molti loro amici, per il cattolicesimo italiano le
cose avrebbero potuto mettersi molto male. Invece,
la lotta politica e la libertà di giudizio di laici come
De Gasperi hanno fatto in modo che non fosse quello il piccolo stato a cui guardare, lo stato oltre Tevere, ma piuttosto la Repubblica degli italiani, uno
stato democratico nuovo, costituzionale, di pace, di
sviluppo. L’Italia repubblicana è stata davvero un
caso di successo a livello mondiale: lo era stata già al
momento dell’unificazione, cent’anni prima che De
Gasperi fondasse la Democrazia cristiana, ma con
la Costituzione e con la ricostruzione degasperiane,
lo divenne su scala europea ed entrò così, con la sua
grandezza e i suoi limiti, tra le nazioni a cui guardare con rispetto e interesse.
Su questo principio della laicità e della religiosità
della politica De Gasperi ha molto da insegnarci.
La sua santità sta nella fecondità di ciò che ha fatto
in una lunga e operosa vita politica. E a noi oggi
appare più chiaro ciò che voleva dirci. Lo Stato vaticano dovrebbe essere come un’oasi, di pace e di
accoglienza, dove tutti coloro che hanno problemi
possano venire per farsi ascoltare e confortare. La
Chiesa cattolica non ha bisogno di mura respingenti, di eserciti agguerriti o di burocrazie mortificanti. La Chiesa ha bisogno di donne e uomini agili e
curiosi, rapidi nel comprendere e nel dimenticare
le offese, forti nell’amare, ambiziosi nell’intelletto,
coraggiosi nello sperare.
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Pensiamo spesso che il buon cattolico sia un
uomo a metà, una via di mezzo tra gli ambiziosi e i
disperati e non è vero. Pensiamo che un cattolico sia
un uomo con il freno a mano, che non possa godere
del successo della scienza o dei frutti della ricchezza,
ma sono bestemmie perché non c’è nessun motivo
che ci spinga a rinunciare a offrire al Signore il meglio dell’intelligenza e dello sviluppo economico e
tecnologico. Il cristiano è solamente colui che, anche in questi campi, mette tutto se stesso al servizio
degli altri e nelle mani del Signore. E De Gasperi
ha avuto il dono di comprendere che nella società
contemporanea non c’era e non c’è nulla di altrettanto potente e forte di una politica ispirata da valori universali, da cui dipendiamo tutti e a cui tutti
dobbiamo rispetto.
Certo, la politica non è forse quella che siamo
stati abituati a vedere oggi, vale a dire un puzzle di
ambizioni personali all’interno di un piccolo harem
di cooptati e di furbi. La politica è ben altro, ma
per comprenderlo è inutile prodursi in interminabili analisi sociologiche o in lamentazioni, quando
è possibile guardare a esempi come quello degasperiano. I veri politici segnano la storia ed è con
la storia che vanno giudicati, perché solo da quella
prospettiva che non è mai comoda, si possono percepire grandezze e miserie dell’umanità. Il Signore
è risorto in terra di Israele, tra il suo popolo, ma per
l’intera umanità.
La Chiesa inoltre non ha bisogno di grandi organizzazioni materiali perché ha a disposizione la
parola di Dio e l’intera fraternità umana; non ha
bisogno di diplomazie esclusive, ma di uno spirito
evangelico, come papa Francesco non si stanca di
ricordarci. Ma ciò che forse può valere per la Chiesa, seme nel mondo, non può valere per le società
contemporanee che hanno sempre più bisogno di
competenze politiche e d’intelligenze morali. Che
cosa saremmo noi vescovi italiani senza l’Italia? La
nostra missione non può essere disgiunta dal destino
di questo nostro paese, a cui siamo non solo fedeli,
ma servitori.
Ciò significa allora che il papa, i vescovi e i presbiteri hanno bisogno di essere inseriti a loro volta
in una comunità impegnata e solida che li ascolti,
certo, ma anche che li aiuti e li sostenga.
5. Un’eredità... oltre gli individui
«Chi sono oggi gli eredi di De Gasperi?». Un
anno fa, a Trento per ricevere il Premio internazionale «De Gasperi», Romano Prodi rispose in questo
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hiesa in Italia
modo che faccio mio: «La risposta non va cercata
solo in un singolo individuo – disse – ma nella forza
delle idee. Alle quali si deve aggiungere la particolare capacità che un politico per essere qualificato
come statista deve possedere: dire la verità alla propria gente; avere una visione coerente e competente
della realtà; avere il senso supremo della responsabilità, al di là della propria convenienza di parte e
della propria prospettiva personale; non vivere per
se stesso, ma per una prospettiva comune».
Un popolo non è soltanto un gregge, da guidare e
da tosare: il popolo è il soggetto più nobile della democrazia e va servito con intelligenza e impegno, perché ha bisogno di riconoscersi in una guida. Da solo
sbanda e i populismi sono un crimine di lesa maestà
di pochi capi spregiudicati nei confronti di un popolo
che freme e che chiede di essere portato a comprendere meglio la complessità dei passaggi della storia.
Il significato della guida in politica non è tramontato dietro la cortina fumogena di leadership
mediatiche o dietro le oligarchie segrete dei soliti
poteri. La politica ha bisogno di capi, così come la
Chiesa ha bisogno di vescovi che, come ha detto
papa Giovanni, siano «una fontana pubblica, a cui
tutti possono dissetarsi». Tra le luci della ribalta e il
buio delle mafie e delle camorre non c’è solo il deserto: la nostra terra di mezzo è un’alta vita civile,
che è la nostra patria di uomini liberi e che, come
tale, attende il nostro contributo appassionato e solidale.
Pieve Tesino (TN), 18 agosto 2015.
✠ Nunzio Galantino,
vescovo emerito di Cassano all’Jonio,
segretario generale della CEI
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hiesa in Italia |
ecumenismo
Un nuovo cammino
da fare insieme
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Saluto di mons. Bruno Forte
al Sinodo delle Chiese valdese e metodista
L’arcivescovo di Chieti-Vasto, mons. Bruno
Forte, è intervenuto, lo scorso 28 agosto, con
un suo saluto al Sinodo della Chiesa evangelica valdese (Torre Pellice, 23-28.8.2015). In
qualità di presidente della Commissione CEI
per l’ecumenismo e il dialogo, il presule ha
presentato alcune riflessioni sul cammino comune che si prospetta tra le due Chiese dopo
la storica visita di papa Francesco al Tempio
valdese di Torino (22 giugno), e in seguito alla
richiesta di perdono da lui formulata in quella sede. Forte è tornato anche sulla lettera di
risposta alla richiesta del papa – approvata
dal Sinodo valdese il 24 agosto (cf. riquadro a
p. 11) –, che aveva suscitato valutazioni contrastanti e polemiche sui media, definendola
«una lettera vera, bella, aperta» e «onesta»
(www.agensir.it 28.8.2015). E nel suo intervento ha ricordato le parole del pastore Bernardini, moderatore della Tavola valdese:
«La sua richiesta di perdono ci ha profondamente toccati e l’abbiamo accolta con gioia.
Naturalmente non si può cambiare il passato, ma ci sono parole che a un certo punto bisogna dire, e il papa ha avuto il coraggio e la
sensibilità per dire la parola giusta».
Stampa (1.9.2015) da sito web www.chieti.chiesacattolica.it. Titolazione redazionale.
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are sorelle e cari fratelli valdesi e metodisti,
è con gioia e commozione che mi ritrovo fra voi dopo molti anni, da quando –
era il 22 luglio del 1982 –, da voi fraternamente invitato, intervenni al Centro ecumenico
Agape per parlare del documento della Commissione fede e costituzione del Consiglio ecumenico delle
Chiese, approvato a Lima quell’anno, intitolato Battesimo, eucaristia e ministero, in dialogo, tra gli altri,
con gli amici Paolo Ricca, Renzo Bertalot e Bruno
Corsani. Ricordo ancora l’intensità e la vivacità di
quell’incontro, nel quale sperimentai una calorosa
accoglienza e un’intensa comunione di fede nel Signore Gesù, pur nelle innegabili differenze di teologia e di prassi che esistono fra noi.
In questa luce, comprenderete perché ho vissuto con molta partecipazione, anche se non presente
di persona, la visita del vescovo di Roma Francesco
al Tempio valdese di Torino lo scorso 22 giugno.
Partendo da quanto hanno detto i protagonisti di
quell’incontro, vorrei presentare qualche riflessione
che spero possa aiutare lo sviluppo del nostro dialogo e della nostra amicizia.
I due «punti caldi»
Mi fermo in particolare sui due «punti caldi»,
richiamati nel suo discorso dal moderatore della
Tavola valdese Eugenio Bernardini: da una parte,
quello del riconoscimento della confessione valdese
come «Chiesa» e non semplicemente come «comunità ecclesiale»; dall’altra, la questione della reciproca ammissione alla mensa eucaristica.
Rivolgendosi al papa, il moderatore ha detto:
«Noi vogliamo essere Chiesa, ci sentiamo Chiesa,
cerchiamo di testimoniare il Vangelo, di seguire il
Signore Gesù»; e, relativamente all’eucaristia, ha
affermato che «ciò che conta è che tutti in quel
pane e in quel vino vediamo il segno del corpo e
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hiesa in Italia
sangue di Cristo e crediamo che sia così. Il resto
sono interpretazioni teologiche, che non devono
dividerci». Si tratta di due questioni decisive, sulle quali anche da parte cattolica c’è la volontà di
dialogare con apertura e con sincerità. Fondamentale, poi, è stata la richiesta di perdono ai valdesi
pronunciata da papa Francesco, soprattutto perché
è nella verità che l’atteggiamento di accoglienza reciproca e di disponibilità alla riconciliazione potrà
essere costruttivo ed evangelico.
Vorrei anche ricordare che lo scorso 9 marzo,
in Senato, dieci diverse confessioni cristiane presenti in Italia hanno firmato un documento congiunto di condanna contro la violenza alle donne
(cf. Regno-doc. 25,2015,11): promotori di questo
documento sono stati proprio i valdesi, rappresentati in particolare da Maria Bonafede e Debora Spini. L’Ufficio CEI per l’ecumenismo e il dialogo ha
condiviso l’iniziativa, cercando di coinvolgere altre
Chiese cristiane. L’intenzione è quella di andare
avanti con la sensibilizzazione su questo tema, e di
farlo in modo congiunto, offrendo un esempio di
collaborazione su una questione che riguarda tutti i
cristiani e non solo. Questo dimostra che, se ci mettiamo d’impegno, riusciamo a trovare e valorizzare
ciò che ci unisce!
«Diversità riconciliata»
Nella visita al Tempio valdese papa Francesco ha
esordito con espressioni forti e chiare: «Con grande
gioia mi trovo oggi tra voi. Vi saluto tutti con le parole dell’apostolo Paolo: “A voi, che siete di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo, noi auguriamo grazia
e pace” (1Ts 1,1 – Traduzione interconfessionale in
lingua corrente)» (Regno-doc. 25,2015,11). Essere di
Dio e del Signore Gesù Cristo è la condizione più
alta di cui un cristiano possa essere grato al Signore:
è su questa appartenenza alla Trinità che si fonda la
natura più profonda della Chiesa.
Con questo riferimento al più antico testo cristiano, la prima Lettera ai Tessalonicesi, papa Francesco
è andato oltre la questione della dichiarazione di ecclesialità, mostrando come essa sia subordinata alla
primaria e decisiva partecipazione alla vita trinitaria.
È in tal senso che va letto anche il bellissimo riferimento alla «fraternità cristiana» fatto dal vescovo di
Roma: «Uno dei principali frutti che il movimento
ecumenico ha già permesso di raccogliere in questi
anni è la riscoperta della fraternità che unisce tutti
coloro che credono in Gesù Cristo e sono stati battezzati nel suo nome. Questo legame non è basato
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su criteri semplicemente umani, ma sulla radicale
condivisione dell’esperienza fondante della vita cristiana: l’incontro con l’amore di Dio che si rivela a
noi in Gesù Cristo e l’azione trasformante dello Spirito Santo che ci assiste nel cammino della vita. La
riscoperta di tale fraternità ci consente di cogliere il
profondo legame che già ci unisce, malgrado le nostre differenze» (Regno-doc. 25,2015,11-12).
Il papa era certo consapevole della portata di
queste affermazioni, come dimostra l’onesta precisazione che ha fatto seguire a esse: «Si tratta di una
comunione ancora in cammino – e l’unità si fa in
cammino – una comunione che, con la preghiera,
con la continua conversione personale e comunitaria e con l’aiuto dei teologi, noi speriamo, fiduciosi
nell’azione dello Spirito Santo, possa diventare piena e visibile comunione nella verità e nella carità»
(Regno-doc. 25,2015,12).
È qui che Francesco ha sviluppato l’idea centrale
del suo discorso, ripresa in seguito anche dai commenti di vari esponenti autorevoli della Chiesa valdese: il tema della «diversità riconciliata». Così l’ha
presentata: «L’unità che è frutto dello Spirito Santo
non significa uniformità. I fratelli, infatti, sono accomunati da una stessa origine, ma non sono identici
tra di loro. Ciò è ben chiaro nel Nuovo Testamento,
dove, pur essendo chiamati fratelli tutti coloro che
condividevano la stessa fede in Gesù Cristo, si intuisce che non tutte le comunità cristiane, di cui essi
erano parte, avevano lo stesso stile, né un’identica
organizzazione interna. Addirittura, all’interno della stessa piccola comunità si potevano scorgere diversi carismi (cf. 1Cor 12-14) e perfino nell’annuncio del Vangelo vi erano diversità e talora contrasti
(cf. At 15,36-40)». Questa diversità non sempre è
stata colta come ricchezza nella storia della Chiesa.
Perciò Francesco ha aggiunto: «Purtroppo, è successo e continua ad accadere che i fratelli non accettino
la loro diversità e finiscano per farsi la guerra l’uno
contro l’altro. Riflettendo sulla storia delle nostre relazioni, non possiamo che rattristarci di fronte alle
contese e alle violenze commesse in nome della propria fede, e chiedo al Signore che ci dia la grazia di
riconoscerci tutti peccatori e di saperci perdonare
gli uni gli altri» (ivi).
La richiesta di perdono
È a questo punto che le parole del vescovo di
Roma hanno toccato il loro vertice, non solo emotivo, ma anche teologico, pastorale e spirituale: «Da
parte della Chiesa cattolica vi chiedo perdono per
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hiesa in Italia
Disposti a scrivere insieme una storia nuova
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l Sinodo della Chiesa evangelica valdese «riceve con profondo rispetto, e non senza commozione, la richiesta di perdono da lei rivolta».
Esordisce così la lettera aperta indirizzata a papa
Francesco, il cui testo è stato approvato quasi
all’unanimità dai sinodali il 24 agosto. Si tratta
della risposta del massimo organo decisionale
delle Chiese valdesi e metodiste alle parole con
le quali il pontefice, lo scorso 22 giugno nella sua
visita al Tempio valdese di Torino, aveva chiesto,
a nome della Chiesa cattolica, «perdono per gli atteggiamenti e i comportamenti non cristiani, persino non umani che, nella storia, abbiamo avuto
contro di voi» (Regno-doc. 25,2015,12). Pubblichiamo di seguito il testo integrale della lettera
(www.chiesavaldese.org).
Caro fratello in Cristo Gesù,
il Sinodo della Chiesa evangelica valdese (Unione
delle Chiese metodiste e valdesi) riceve con profondo rispetto, e non senza commozione, la richiesta
di perdono da lei rivolta, a nome della sua Chiesa,
per quelli che lei ha definito «gli atteggiamenti non
cristiani, persino non umani» assunti in passato nei
confronti delle nostre madri e dei nostri padri nella
fede evangelica.
Desideriamo in primo luogo unirci a lei e alla
Chiesa cattolica romana nella gratitudine a Dio, la
cui fedeltà è più grande di ogni nostro peccato e le
cui «compassioni non sono esaurite, ma si rinnovano
ogni mattina» (Lamentazioni 3,22s). Il dialogo fraterno che oggi conduciamo è dono della misericordia di Dio, che molte volte ha perdonato, e ancora
perdona, la sua e la nostra Chiesa, invitandole al pen-
gli atteggiamenti e i comportamenti non cristiani,
persino non umani che, nella storia, abbiamo avuto
contro di voi. In nome del Signore Gesù Cristo, perdonateci!» (ivi).
Facendo eco alla richiesta di perdono avanzata
da Giovanni Paolo II in preparazione al Giubileo
del 2000, accompagnata dal documento della Commissione teologica internazionale Memoria e riconciliazione, papa Francesco ha non solo ribadito la necessità di chiedere perdono delle colpe passate a Dio
e a chi ne portasse ancora il peso delle conseguenze,
ma ha concretamente applicato quest’urgenza di
obbedire alla verità al rapporto con i valdesi.
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timento, alla conversione e a novità di vita, permettendo loro così di assumere ogni giorno di nuovo il
compito di servirlo.
Accogliamo le sue parole come ripudio non solo
dalle tante iniquità compiute ma anche del modo di
vivere la dottrina che le ha ispirate. Nella Sua richiesta di perdono cogliamo inoltre la chiara volontà di
iniziare con la nostra Chiesa una storia nuova, diversa
da quella che sta alle nostre spalle in vista di quella
«diversità riconciliata» che ci consenta una testimonianza comune al nostro comune Signore Gesù Cristo. Le nostre Chiese sono disposte a cominciare a
scrivere insieme questa storia, nuova anche per noi.
La nostra comune fede in Cristo ci rende fratelli
nel suo nome, e questa fraternità noi già la sperimentiamo e viviamo in tante occasioni con sorelle e fratelli cattolici: è un grande dono che ci viene fatto e
che speriamo possa essere condiviso da un numero
crescente di membri delle due Chiese. Questa nuova
situazione non ci autorizza però a sostituirci a quanti
hanno pagato col sangue o con altri patimenti la
loro testimonianza alla fede evangelica e perdonare
al posto loro. La grazia di Dio, però, «è sovrabbondata, là dove il peccato è abbondato» (Romani 5,20),
e questo noi crediamo e confessiamo, certi che Dio
vorrà attuare questa sua parola anche nella costruzione di nuove relazioni tra le nostre Chiese, ispirata
alla parola evangelica: «Ecco, io faccio ogni cosa
nuova» (Apocalisse 21,5).
La ricordiamo, caro fratello Francesco, nell’intercessione e le chiediamo di pregare per noi, invocando su di lei, sul suo servizio e sulla sua Chiesa, la
benedizione di Dio.
Torre Pellice, 24 agosto 2015.
«La sua richiesta di perdono – ha dichiarato il moderatore della Tavola valdese, pastore Eugenio Bernardini –, ci ha profondamente toccati e l’abbiamo
accolta con gioia. Naturalmente non si può cambiare il passato, ma ci sono parole che a un certo
punto bisogna dire, e il papa ha avuto il coraggio
e la sensibilità per dire la parola giusta». In questa
luce, i passi compiuti negli anni recenti per un riavvicinamento fra cattolici e valdesi sono stati riletti da
Francesco nel segno della speranza e dell’impegno
che ci aspetta tutti: «Incoraggiati da questi passi, siamo chiamati a continuare a camminare insieme (...).
Consapevoli che il Signore ci ha preceduti e sem-
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hiesa in Italia
pre ci precede nell’amore (cf. 1Gv 4,10), andiamo
insieme incontro agli uomini e alle donne di oggi,
che a volte sembrano così distratti e indifferenti, per
trasmettere loro il cuore del Vangelo» (ivi).
Oltre all’impegno comune per l’evangelizzazione, il papa ha voluto ricordare un altro ambito in
cui lavorare sempre di più uniti, «quello del servizio
all’umanità che soffre, ai poveri, agli ammalati, ai
migranti (...). Dall’opera liberatrice della grazia in
ciascuno di noi deriva l’esigenza di testimoniare il
volto misericordioso di Dio che si prende cura di
tutti e, in particolare, di chi si trova nel bisogno. La
scelta dei poveri, degli ultimi, di coloro che la società
esclude, ci avvicina al cuore stesso di Dio, che si è
fatto povero per arricchirci con la sua povertà (cf.
2Cor 8,9), e, di conseguenza, ci avvicina di più gli
uni agli altri. Le differenze su importanti questioni
antropologiche ed etiche, che continuano a esistere
tra cattolici e valdesi, non ci impediscano di trovare forme di collaborazione in questi e altri campi.
Se camminiamo insieme, il Signore ci aiuta a vivere
quella comunione che precede ogni contrasto» (Regno-doc. 25,2015,12-13).
La strada è aperta
A questo invito accorato ha fatto eco il pastore
Paolo Ribet: «Nel momento in cui siamo chiamati
alla fede, siamo anche esortati a metterci in cammino verso il Cristo, che è e rimane al di fuori e al
di sopra di noi. In questo percorso di persone e di
Chiese incontriamo fratelli e sorelle che condividono con noi il cammino. Oggi con gioia incontriamo
lei, papa Francesco, come un nuovo fratello nel nostro percorso, e vogliamo leggere la sua visita (che
è stata definita giustamente “storica”) proprio in
questa dimensione». Sul fondamento della comune
confessione di fede nel Signore Gesù e nella Trinità
santa, la visita del papa al Tempio valdese inaugura dunque un nuovo cammino da fare insieme, nel
segno della reciproca fiducia e della speranza nell’unico Dio, tre volte Santo.
Proprio nella prospettiva del cammino, la questione teologica della natura ecclesiale delle confessioni impegnate nel dialogo può essere risolta:
come in cristologia e in teologia delle religioni si
applica il principio della analogia Christi, che porta a discernere i vari gradi e forme della presenza
del Redentore nella vita e nella storia degli uomini,
così – senza appiattire l’una concezione ecclesiologica sull’altra – cattolici e valdesi potranno riconoscersi reciprocamente come Chiese. Se questo vorIl Regno -
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rà dire per i cattolici non rinunciare all’idea della
successione apostolica del ministero ordinato come
condizione della sacramentalità della Chiesa tutta,
per i valdesi vorrà significare l’irrinunciabile primato riconosciuto alla parola di Dio, che convoca
e genera la Chiesa, creatura Verbi, quando è accolta
nella fede. Ciò nulla toglierà al patrimonio dei doni
di Dio condivisi, dalla preghiera all’esercizio della
carità, dalla Bibbia all’economia sacramentale fondata sul battesimo.
In questa luce, potrà essere superata quella logica
del «tutto o niente» che ha portato alle reciproche
condanne, fino all’esclusione di fratelli e sorelle, pur
uniti dalla grazia battesimale, dalla partecipazione
alla ricchezza dei doni divini ricevuti nella propria
Chiesa, a cominciare dall’eucaristia. Occorrerà,
certo, il coraggio di avanzare nella comune comprensione delle parole del Signore, in una crescita di
comunione teologica e spirituale che esige reciproco ascolto e volontà comune di obbedienza al Dio
vivente e alla sua Parola. Ma la strada è aperta e il
clima umano e spirituale sperimentato nell’incontro
al Tempio valdese di Torino schiude possibilità inattese. Lo ha augurato Francesco a tutti i partecipanti
con le sue parole di chiusura: «Cari fratelli e sorelle,
vi ringrazio nuovamente per questo incontro, che
vorrei ci confermasse in un nuovo modo di essere
gli uni con gli altri: guardando prima di tutto la
grandezza della nostra fede comune e della nostra
vita in Cristo e nello Spirito Santo, e, soltanto dopo,
le divergenze che ancora sussistono (...). Il Signore
conceda a tutti noi la sua misericordia e la sua pace»
(Regno-doc. 25,2015,13).
Analogo è stato l’auspicio del Pastore Ribet che,
richiamando la volontà dei padri che costruirono
il Tempio valdese di Torino di vivere l’Evangelo in
modo «altro», ha osservato: «Spesso l’accento è stato messo sull’aggettivo “altro”, sulla diversità. Ma
oggi vorrei mettere l’accento sul verbo “vivere”.
L’Evangelo non è una dottrina, ma è una persona:
la persona Gesù Cristo. È un atto di grazia che il
Signore ci ha fatto e che noi siamo chiamati a testimoniare con le parole e con la vita nel contesto della
città in cui siamo posti (...), per il bene della città (...),
in una sinfonia di voci che si rafforzano e si completano a vicenda».
C’è molto da fare…
A sua volta il pastore Eugenio Bernardini ha affermato, rivolgendosi a papa Francesco: «Entrando in questo tempio, lei ha varcato una soglia sto-
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hiesa in Italia
rica, quella di un muro alzatosi oltre otto secoli fa
quando il movimento valdese fu accusato di eresia e
scomunicato dalla Chiesa romana. Qual era il peccato dei valdesi? Quello di essere un movimento di
evangelizzazione popolare svolto da laici, mediante
una predicazione itinerante tratta dalla Bibbia, letta e spiegata nella lingua del popolo. Da oltre otto
secoli, attraverso una storia a lungo segnata da varie forme di persecuzione e quindi scritta anche col
sangue di molti martiri, non abbiamo voluto essere
altro che una comunità di fede cristiana al servizio
della parola di Dio e della libertà del suo annuncio»
(Regno-doc. 25,2015,8-9).
Il moderatore ha quindi aggiunto: «Crediamo
anche noi che l’unità cristiana possa e debba essere
concepita proprio così: come “diversità riconciliata”, in cui occorre sottolineare sia la parola “diversità” sia l’esigenza che sia “riconciliata” (...). Ogni
Chiesa ha bisogno delle altre per realizzare la propria vocazione. Non possiamo essere cristiani da
soli (...). È nostra umile ma profonda convinzione
che siamo Chiesa: certo peccatrice, semper reformanda, pellegrina che, come l’apostolo Paolo, non
ha ancora raggiunto la mèta (cf. Fil 3,14), ma Chiesa, Chiesa di Gesù Cristo, da lui convocata, giudicata e salvata, che vive della sua grazia e per la
sua gloria. (...) In questo mondo, noi cristiani siamo
chiamati a dire la Parola della verità e della vita,
Il Regno -
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una parola che non ritorna invano ma che cambia
i cuori e le menti. Annunciare questa Parola è la
nostra fatica e la nostra gioia di sorelle e fratelli in
Cristo» (Regno-doc. 25,2015,9).
Gli ha fatto eco nel suo saluto di commiato Alessandra Trotta, presidente dell’Opera per le Chiese
evangeliche metodiste in Italia: «Andiamo con speranza, per portare speranza; la speranza alimentata
dall’ascolto di una parola di vita, che ci insegna a
osare, sempre, nelle occasioni private come in quelle pubbliche, le parole che rompono i silenzi delle
solitudini, dell’emarginazione e della rassegnazione;
che sfidano le chiusure degli egoismi, delle paure,
dei risentimenti. Andiamo e andiamo insieme, perché c’è molto da fare». È questa anche la ragione
per cui sono qui, quale presidente della Commissione dei vescovi italiani per l’ecumenismo e il dialogo:
per camminare insieme con tutti voi, al servizio del
Vangelo, per la causa di Dio e degli uomini, nostri
compagni di strada; per andare e andare insieme.
Perché c’è molto da fare…
Torre Pellice, 28 Agosto 2015.
✠ Bruno Forte,
arcivescovo di Chieti-Vasto,
presidente della Commissione CEI
per l’ecumenismo e il dialogo
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hiesa in Italia |
treviso e vit torio veneto
Non rispondiamo
come Caino
Lettera dei vescovi
di Treviso e Vittorio Veneto
sull’emergenza immigrazione
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«Recentemente l’arrivo di migranti ha dato
luogo a qualche episodio di particolare tensione sociale, anche a causa di scelte improvvide
per la loro sistemazione. (...) Vorremmo offrire ai cristiani, e a quanti credono nel valore
della solidarietà, alcune considerazioni pacate e, soprattutto, ispirate a ciò che orienta
la vita dei credenti». Così esordisce la lettera
firmata dai vescovi di Treviso, mons. Gardin,
e Vittorio Veneto, mons. Pizziolo, dedicata
all’emergenza immigrazione e datata 29 luglio. Vi si esprimono la coscienza della complessità del fenomeno e le denunce di una insufficiente gestione da parte delle istituzioni
civili e della strumentalizzazione di una parte del mondo politico. Ma vi si attesta soprattutto lo sforzo di una mediazione non facile
all’interno delle stesse comunità ecclesiali di
fronte a un fenomeno che suscita inquietudini e che al contempo impegna la verità della
testimonianza cristiana: «Vorremmo che preclusioni di principio, atteggiamenti di parte
dettati dall’appartenenza politica, come pure
l’accento posto solo sul “disturbo” che queste
persone ci arrecano, non ci togliessero la libertà interiore di pensare e agire secondo alcuni criteri irrinunciabili per i cristiani».
Stampa (31.8.2015) da sito web www.diocesitv.it. Titolazione redazionale.
ratelli e sorelle carissimi,
già da qualche anno al territorio delle nostre due diocesi, come del resto a tutto il
nostro paese, è chiesto di offrire accoglienza a un certo numero di «migranti forzati», tra i quali
vi sono richiedenti asilo, rifugiati e migranti economici, costretti (pagando e indebitandosi) a partire, in
particolare, dalle coste libiche. A oggi, in provincia di
Treviso, sono presenti circa 900 migranti, arrivati sia
nel 2014 che nel 2015: in media, circa 10 persone per
comune, uno ogni mille abitanti.
Recentemente l’arrivo di migranti ha dato luogo
a qualche episodio di particolare tensione sociale,
anche a causa di scelte improvvide per la loro sistemazione. Abbiamo voluto attendere che si attenuasse un certo clima surriscaldato, favorito da un’enfatizzazione dei fatti tipica dei mezzi di comunicazione. Vorremmo offrire ai cristiani, e a quanti credono
nel valore della solidarietà, alcune considerazioni
pacate e, soprattutto, ispirate a ciò che orienta la
vita dei credenti.
Rileviamo anzitutto che, se a livello nazionale ed
europeo la gestione dei flussi di migranti appare priva di una gestione sufficientemente pensata e debitamente organizzata, a livello di responsabili regionali
e comunali si mescolano, alla oggettiva difficoltà di
far fronte a richieste improvvisate di accoglienza, alcune componenti ideologiche; queste sembrano impedire di cogliere la dimensione drammatica di tante
situazioni umane. Il fenomeno migratorio è senza
dubbio di vaste proporzioni, ha radici complesse (che
«i grandi» non mostrano di saper o voler esaminare
con coraggio), domanda soluzioni impegnative.
Alcuni criteri
Come Chiesa noi vogliamo essere attenti osservatori della realtà, non condizionati da letture preconcette e frettolose di quanto sta avvenendo; e vogliamo
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Messaggio dei vescovi liguri
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on un messaggio rivolto anzitutto ai cristiani i
vescovi delle diocesi della Liguria si fanno interpreti, in quanto pastori di una Regione «di confine», della situazione drammatica di tanti profughi costretti a un «esodo forzato e disumano».
Consapevoli che la «situazione è complessa e che
ci sono responsabilità di portata planetaria», nel
loro messaggio, che porta la data del 16 giugno,
i vescovi invitano a superare «atteggiamenti ispirati dalla paura e dal pensare solo a sé stessi», e
rilanciano l’impegno delle diocesi a «offrire spazi
residenziali e a prestare assistenza, affiancandosi
ad altri organi e gruppi di volontariato». Pubblichiamo il messaggio integrale (www.chiesacattolica.it).
Noi vescovi delle diocesi liguri sentiamo il dovere
di rivolgerci ai fedeli, e a tutte le persone di buona
volontà della Regione, in merito alla situazione che
si è creata a seguito dell’onda migratoria dall’Africa e
dal Medio Oriente. Tali flussi vedono l’arrivo di molti
profughi, e anche la Liguria, come il resto d’Italia, ne
è fortemente interessata.
Infatti, anche alla nostra terra è richiesto di accogliere un numero crescente di donne, uomini e minori che sbarcano sulle coste del paese, visto come
«porta d’Europa», da loro sognato come rifugio e
speranza. Inoltre, la Liguria è terra di confine, e alcune zone vivono particolari esperienze di passaggio
verso altre nazioni europee, passaggi resi difficoltosi
o, addirittura, impediti.
Noi vescovi decisamente facciamo nostri gli inviti
all’accoglienza che ripetutamente papa Francesco rivolge. Sono dettati dal più autentico spirito evangelico. Chiediamo ai fedeli delle nostre Chiese, ai fratelli
cristiani e a tutti, di tenere aperto il cuore a questi
fratelli e sorelle in umanità, così duramente provati e
alla ricerca di una vita migliore e più sicura. Per questo motivo è richiesta la disponibilità e la collaborazione di chi ospita e di chi è ospitato.
Siamo consapevoli che l’attuale situazione è
complessa e che ci sono responsabilità di portata
planetaria. Ma siamo anche convinti che atteggiamenti ispirati dalla paura e dal pensare solo a sé
stessi non favoriscono la soluzione del problema.
cogliere soprattutto il «costo umano», per chi arriva
e per chi accoglie, di questi eventi. Desideriamo, nei
limiti delle nostre possibilità, aiutare a dare risposte che partano dalla considerazione della dignità e
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Anzi, l’aggravano perché costruiscono «muri» anziché «ponti».
Come Regione «di confine» chiediamo con fermezza che l’Europa si coinvolga con fatti concreti,
tempestivi e adeguati a questo dramma umanitario
e non lasci solo il nostro paese. Se l’Europa vuole
essere «casa comune» deve dimostrarlo, come pure
la cosiddetta «comunità internazionale». Finora, ha
mostrato un cuore duro e indifferente verso questo
esodo forzato e disumano. Auspichiamo altresì che
l’accoglienza sia sempre accompagnata da rispetto,
sicurezza e legalità, valori universali. Da tempo le nostre diocesi sono impegnate nell’offrire spazi residenziali e nel prestare assistenza, affiancandosi ad altri
organi e gruppi di volontariato.
A tutti esprimiamo apprezzamento, gratitudine
e, in non pochi casi, ammirazione per la dedizione
generosa, e rinnoviamo la disponibilità a collaborare
con le istituzioni, secondo le nostre forze, per il bene
di tutti.
Siamo certi che il Signore Gesù, che ha vissuto
personalmente l’esperienza del bimbo profugo e
si è riconosciuto nello straniero bisognoso di accoglienza, non ci farà mancare il suo aiuto.
Genova, 16 giugno 2015.
✠ Angelo card. Bagnasco,
presidente e arcivescovo di Genova
✠ Vittorio Lupi,
vescovo di Savona-Noli
✠ Mario Oliveri,
vescovo di Albenga-Imperia
✠ Luigi Ernesto Palletti,
vescovo di La Spezia-Sarzana-Brugnato
✠ Antonio Suetta,
vescovo di Ventimiglia-Sanremo
✠ Alberto Tanasini,
vescovo di Chiavari
✠ Vittorio Francesco Viola,
vescovo di Tortona
✠ Guglielmo Borghetti,
vescovo coaudiutore di Albenga - Imperia
✠ Nicolò Anselmi,
vescovo ausiliare di Genova
della situazione drammatica di tante persone. Vorremmo che preclusioni di principio, atteggiamenti di
parte dettati dall’appartenenza politica, come pure
l’accento posto solo sul «disturbo» che queste perso-
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ne ci arrecano, non ci togliessero la libertà interiore
di pensare e agire secondo alcuni criteri irrinunciabili per i cristiani. Ne segnaliamo alcuni.
Anzitutto, il rispetto della realtà. Questo significa
riconoscere che queste persone fuggono dalle loro
terre a causa di situazioni drammatiche e invivibili,
spesso ben più insostenibili di quelle che hanno spinto
nel passato tanti nostri conterranei a emigrare in altri
paesi. Si tratta in molti casi, come sopra accennato,
di migranti forzati, di persone che cercano sopravvivenza prima ancora che dignità; molti di loro sono
segnati da vicende terribili, da abusi, da storie di violenza e di morte; hanno il cuore sanguinante e il volto
rigato di lacrime. Chi ha occasione di ascoltare personalmente qualcuno di loro rimane senza parole.
Che cosa viene chiesto a noi cristiani? La nostra
terra, che si connota nell’opinione comune come regione dal cattolicesimo ben radicato, viene dipinta in
questi giorni – anche a causa alle frettolose semplificazioni dei media – come terra di inospitalità, di durezza, di egoismo. Vorremmo proprio che non fosse
così. Una certa integrazione con molti immigrati fa
ormai parte della nostra storia recente. Sappiamo,
del resto, che non mancano le persone che si prodigano con generosità e dedizione verso questi fratelli
disperati che stanno giungendo tra noi: lo fanno senza
clamore e senza richiedere niente in contraccambio,
sfidando anche – purtroppo – l’ostilità di alcuni. Li
ringraziamo di cuore. Si dice che vi sia chi specula
sull’accoglienza: è possibile; ma ci dispiace che questo giudizio talora sia espresso indiscriminatamente
su tutti, non esclusa la Caritas. Non vorremmo che
fosse un modo ignobile di cercare scuse alla propria
grettezza.
Come comunità cristiane non dobbiamo rinunciare a fare la nostra parte, per quello che possiamo,
senza rifugiarci dietro la vastità del fenomeno e la sua
infelice gestione «a livello alto». Abbiamo cercato
strutture, mezzi, persone; invitiamo al dialogo, alla
ricerca comune di soluzioni, alla solidarietà. Del resto ci sentiamo interpellati da domande non eludibili.
Sono le domande che risuonano nella Bibbia: «Dov’è
Abele, tuo fratello?» (Gen 4,9); «Chi è mio prossimo?»
(Lc 10,29); «A che serve, fratelli miei, se uno dice di
avere fede, ma non ha le opere?» (Gc 2,14).
Abbiamo «il coraggio del Vangelo»?
Sentiamo emergere più che mai l’interrogativo su
che cosa significa, in queste precise circostanze, essere
cristiani. Lo siamo davvero? Lo siamo oggi di fronte a
questi «scarti» dell’umanità? Lo siamo nella maniera
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che ci è richiesta dal Vangelo o secondo un cristianesimo accomodante che ci siamo rimodellati sulle nostre ideologie o sulle nostre chiusure? Forse questo è
il momento di verificare se abbiamo «il coraggio del
Vangelo», se l’essere discepoli di Gesù è un’esperienza
che solo ci sfiora o che realmente ci penetra.
Dobbiamo confessare che rimaniamo sconcertati
di fronte alla deformazione di un cristianesimo professato a gran voce, e magari «difeso» con decisione nelle
sue tradizioni e nei suoi simboli, ma svuotato dell’attenzione ai poveri, agli ultimi: dunque svuotato del
Vangelo, dunque svuotato di Cristo. I poveri, ci ripete
papa Francesco, sono «la carne sofferente di Cristo».
Non vogliamo credere che l’accoglienza e l’integrazione, per quanto impegnative, siano del tutto
impossibili. Esse chiedono però il coinvolgimento di
tutti: istituzioni, amministrazioni locali, privato sociale, associazioni, e certamente anche le comunità cristiane. Vorremmo che si potessero perseguire scelte
che nascano, nello stesso tempo, dall’intelligenza e dal
cuore; vorremmo che si mettesse in atto una progettualità che preveda un’accoglienza diffusa nel territorio. Del resto le nostre diocesi, attraverso la Caritas e
in collaborazione con altre realtà del privato sociale,
stanno sperimentando questo modello, il quale sta offrendo buoni risultati e mostra una sua efficacia.
E se proprio ci ritroviamo a constatare la precarietà
delle nostre risposte a questa drammatica emergenza,
non rifugiamoci nell’indifferenza, non rispondiamo
come Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9). Almeno lasciamo spazio alla tristezza
per non riuscire a fare quanto vorremmo, almeno solidarizziamo con l’amarezza di chi sperimenta il rifiuto di essere accolto, almeno piangiamo. Nell’omelia
della messa di Lampedusa, papa Francesco ha chiesto
cinque volte: «Chi di noi ha pianto?». E in Evangelii
gaudium ha scritto: «Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al
grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti
al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro,
come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea
che non ci compete» (n. 54; Regno-doc. 21,2013,651).
Il Signore ci renda «credenti credibili», uomini e
donne di solidarietà di pace, costruttori di un’umanità
nuova. Vi accompagnano la nostra umile preghiera e
il nostro affetto.
29 luglio 2015.
✠ Gianfranco Agostino Gardin,
vescovo di Treviso
✠ Corrado Pizziolo,
vescovo di Vittorio Veneto
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hiesa in Italia |
crema
Non è
una semplice
emergenza
Mons. Oscar Cantoni, vescovo di Crema,
sull’accoglienza dei profughi
«In queste ultime settimane, le Chiese di
tutta la Lombardia sono state interpellate
dalle diverse Prefetture per organizzare in
emergenza l’accoglienza di molti profughi.
(...) Anche la nostra piccola Chiesa di Crema
non ha potuto, né voluto, sottrarsi a questa
ingiunzione». Di un periodo estivo segnato
– in diverse diocesi – dalla necessità di farsi carico del fenomeno immigrazione sono
testimonianza le due lettere del vescovo di
Crema, mons. Oscar Cantoni, che qui pubblichiamo. La prima, più recente, porta la
data del 23 agosto e contiene «alcune direttive» per le parrocchie e le associazioni della
diocesi, affinché le stesse si rendano disponibili «a un’accoglienza responsabile e coordinata, in collaborazione con la Caritas diocesana e con le istituzioni civili». Di fronte
a un fenomeno «che ha assunto proporzioni
di emergenza», la seconda lettera (del 16 luglio) testimonia la fatica dei pastori nel tentare una mediazione dentro le loro comunità, dove incontrano resistenze, paure e talvolta «tenace e strenua» opposizione. Tanto
da constatare con amarezza: «Il “demone
della paura” dell’altro, del diverso da noi,
dello straniero, tende a prevaricare su tutto.
(...) Certe reazioni sconsiderate e irrazionali
(...) sono proprio il frutto di una mentalità
fondata sulla paura».
Indicazioni pastorali
lettera del 23 agosto
Alle comunità parrocchiali della diocesi,
ai presbiteri,
ai membri dei consigli pastorali e della Caritas,
alle aggregazioni laicali.
Di fronte al fenomeno dei profughi, che ha assunto proporzioni di emergenza, faccio appello
alla comunità cristiana perché si renda disponibile a un’accoglienza responsabile e coordinata, in
collaborazione con la Caritas diocesana e con le
istituzioni civili.
A oggi, in provincia di Cremona, sono presenti
circa 580 profughi, arrivati sia nel 2014 che nel
2015, dei quali 63 ospitati dalla diocesi di Crema
attraverso la Caritas. Si tratta di persone che hanno vissuto situazioni tragiche, che nessuno di noi
avrebbe mai voluto affrontare e che hanno comportato l’abbandono della famiglia, della casa,
delle proprie radici.
Questo fenomeno non può lasciarci indifferenti. L’accoglienza dei profughi non è una semplice emergenza da gestire, ma chiama l’intera comunità diocesana, in tutte le sue componenti, a
interrogarsi sulle ragioni evangeliche dell’accoglienza, così da mettere in atto azioni di discernimento e testimoniare lo stile di una Chiesa «in
uscita», che sa abitare le periferie umane e stare
accanto a chi soffre, come ripetutamente ci chiede
papa Francesco.
Stampa (31.8.2015) da sito web www.diocesidicrema.it.
Titolazione redazionale.
Alcune direttive
Credo opportuno offrire a tutti alcune direttive che possano mettere in luce come le singole
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parrocchie possono operare all’interno di questa
situazione:
– mettiamo ogni impegno perché sia assicurata una degna accoglienza mettendo a disposizione
eventuali strutture disponibili e, soprattutto, generando relazioni di comunione e di fraternità. I profughi non necessitano solo di cibo e di un rifugio,
ma di persone con le quali crescere in umanità.
– Per le parrocchie, comunità che annunciano
il Vangelo e spezzano il pane dell’eucaristia, l’accoglienza dei profughi può davvero essere un’opportunità concreta di esercizio della carità. Facendoci prossimi a chi soffre noi incontriamo la carne
di Cristo e incarniamo nell’oggi la Parola ascoltata
e il pane spezzato.
– Si garantisca un adeguato servizio religioso ai
profughi di religione cattolica; si favoriscano, inoltre, occasioni per un dialogo ecumenico e interreligioso, così da facilitare la conoscenza e la convivenza tra popoli, le culture e le diverse religioni.
– Si dia massima attenzione alla trasparenza
nella gestione dei contributi economici, mediante
una rendicontazione precisa dell’utilizzo dei fondi pubblici ricevuti per realizzare quanto previsto dalla convenzione firmata con la Prefettura di
Cremona.
La Caritas diocesana ha ricevuto un mandato
dai comuni dell’ambito territoriale di Crema, segno di stima e di fiducia, per coordinare l’ospitalità dei profughi. Resta inteso che le istituzioni civili
non si sottraggono alle loro responsabilità. Questo
ci spinge a garantire con responsabilità e correttezza, per quanto è nelle nostre disponibilità, l’accoglienza di queste persone nel rispetto delle convenzioni.
Nel Consiglio pastorale diocesano straordinario, già convocato per il 31 agosto, la Caritas diocesana offrirà possibili indicazioni operative per
proseguire e coordinare questa opera di accoglienza. Su di esse si farà un discernimento comunitario e saranno raccolte proposte concrete in vista
dei futuri passi delle nostre comunità. A questo
consiglio seguiranno incontri dei consigli pastorali
zonali per rendere operative e capillari su tutto il
territorio le scelte effettuate.
Mentre ringrazio tutti cordialmente, ricordo
l’invito di san Paolo: «Tutto si faccia tra voi nella
carità» (1Cor 16,14).
Crema, 23 agosto 2015.
✠ Oscar Cantoni,
vescovo di Crema
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Una tenace
opposizione
lettera del 16 luglio
«Nessuno può chiederci di non accogliere e abbracciare la vita dei nostri fratelli, soprattutto di
quelli che hanno perso la speranza e il gusto di vivere. Come è bello immaginare le nostre parrocchie,
comunità, cappelle, non con le porte chiuse, ma
come centri di incontro tra noi e Dio, come luoghi
di ospitalità e accoglienza» (Regno-doc. 26,2015,21).
È questo uno degli ultimi appelli, ma non l’unico,
che papa Francesco ha indirizzato al mondo nell’
omelia pronunciata domenica scorsa, 12 luglio, durante la santa messa in Paraguay.
Sono parole forti e scomode, che interessano
tutti i cristiani delle singole Chiese, chiamati a far
fronte, come nel nostro caso, tra le tante persone da
accogliere (senza dimora, poveri, ragazze di strada,
padri fuori di casa ecc.), anche ai profughi, dal momento che l’accoglienza fa parte della natura stessa
della Chiesa, comunione trinitaria.
Mi si permetta, innanzitutto, di constatare come
sia ben strano che il papa, sostenuto da un consenso universale e applaudito da tutti, venga poi sistematicamente censurato quando non concorda con
le interpretazioni ideologiche, con gli schemi mentali o spirituali di certi gruppi o di persone, anche
singole, soprattutto quando invita a una vera riforma della Chiesa in capitis et in membris attraverso
scelte che richiamano pastori e laici a una «Chiesa
in uscita», verso tutte le periferie, dal momento che
i poveri, tutti i poveri, quindi anche i profughi e i
rifugiati, sono al cuore del Vangelo, ma anche nel
cuore stesso della Chiesa.
Reazioni fondate sulla paura
Come sapete, in queste ultime settimane, le
Chiese di tutta la Lombardia sono state interpellate
dalle diverse Prefetture per organizzare in emergenza l’accoglienza di molti profughi. Si è trattato di un appello urgente, che non dava tempo per
troppe ponderazioni comuni.
Sia pure in misura molto ridotta, a differenza
delle altre diocesi, anche la nostra piccola Chiesa di Crema non ha potuto, né voluto, sottrarsi a
questa ingiunzione della prefettura di Cremona,
non certo per supplire i doveri della comunità civile né per mettersi in mostra, ma esclusivamente
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L’emergenza nelle dichiarazioni estive
È
stata un’estate segnata dall’emergenza immigrazione. In diversi passaggi – non solo relativi alla situazione europea – papa Francesco è
tornato sul tema, che è nel cuore del pontefice fin
dalla scelta di Lampedusa come suo primo viaggio apostolico. Riprendiamo di seguito alcuni dei
suoi pronunciamenti più recenti nei quali ha toccato il tema dell’immigrazione (www.vatican.va).
28 maggio – Discorso alla Conferenza
episcopale della Repubblica dominicana
«L’attenzione pastorale e caritativa verso gli immigranti, soprattutto quelli provenienti dalla vicina
Haiti, che cercano migliori condizioni di vita nel territorio dominicano, non ammette l’indifferenza dei
pastori della Chiesa. È necessario continuare a collaborare con le autorità civili per trovare soluzioni
concrete ai problemi di quanti sono privati dei documenti o del godimento dei loro diritti fondamentali.
È inammissibile non promuovere iniziative di fraternità e di pace tra le due nazioni che danno forma a
questa bella isola dei Caraibi. È importante saper integrare gli immigranti nella società e accoglierli nella
comunità ecclesiale. Vi ringrazio perché state vicini a
loro e a tutti quelli che soffrono, come gesto dell’amorevole sollecitudine per il fratello che si sente solo
e abbandonato, con il quale Cristo si è identificato».
17 giugno – Udienza generale
«Sabato prossimo ricorre la Giornata mondiale del
rifugiato, promossa dalle Nazioni Unite. Preghiamo
per tanti fratelli e sorelle che cercano rifugio lontano
dalla loro terra, che cercano una casa dove poter
vivere senza timore, perché siano sempre rispettati
nella loro dignità. Incoraggio l’opera di quanti portano loro un aiuto e auspico che la comunità internazionale agisca in maniera concorde ed efficace per
prevenire le cause delle migrazioni forzate. E vi invito
tutti a chiedere perdono per le persone e le istituzioni che chiudono la porta a questa gente che cerca
una famiglia, che cerca di essere custodita».
21 giugno – Visita pastorale a Torino
«Torino è storicamente un polo di attrazione lavorativa, ma oggi risente fortemente della crisi: il lavoro manca, sono aumentate le disuguaglianze economiche e sociali, tante persone si sono impoverite
e hanno problemi con la casa, la salute, l’istruzione e
altri beni primari. L’immigrazione aumenta la competizione, ma i migranti non vanno colpevolizzati,
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perché essi sono vittime dell’iniquità, di questa economia che scarta e delle guerre. Fa piangere vedere
lo spettacolo di questi giorni, in cui esseri umani vengono trattati come merce!».
7 agosto – Udienza al Movimento
eucaristico giovanile
«Il confitto si risolve con il rispetto delle identità.
Noi vediamo, quando guardiamo la TV o sui giornali, conflitti che non si sanno risolvere, e finiscono
in guerre: una cultura non tollera l’altra. Pensiamo
a quei fratelli nostri Rohingja: sono stati cacciati via
da un paese e da un altro e da un altro, e vanno per
mare... Quando arrivano in un porto o su una spiaggia, danno loro un po’ d’acqua o un po’ da mangiare
e li cacciano via sul mare. Questo è un conflitto non
risolto, e questa è guerra, questo si chiama violenza,
si chiama uccidere».
30 agosto – Angelus
«Purtroppo anche nei giorni scorsi numerosi migranti hanno perso la vita nei loro terribili viaggi. Per
tutti questi fratelli e sorelle, prego e invito a pregare.
In particolare, mi unisco al cardinale Schönborn e a
tutta la Chiesa in Austria nella preghiera per le settantuno vittime, tra cui quattro bambini, trovate in
un camion sull’autostrada Budapest-Vienna. Affidiamo ciascuna di esse alla misericordia di Dio; e a
lui chiediamo di aiutarci a cooperare con efficacia per
impedire questi crimini, che offendono l’intera famiglia umana. Preghiamo in silenzio per tutti i migranti
che soffrono e per quelli che hanno perso la vita».
Il 10 agosto, conclusa la sua missione in Giordania,
dove ha incontrato i tanti cristiani fuggiti dall’Iraq un anno fa a causa dell’avanzata dei jihadisti
dello Stato islamico, il segretario generale della
CEI, mons. Nunzio Galantino, ha rilasciato un’intervista a Radio vaticana nella quale è contenuta
l’affermazione – qui pubblicata – che ha sollevato
reazioni polemiche (it.radiovaticana.va).
«Anche qui, io penso che noi come italiani dovremmo un poco di più imparare a distinguere il percepire dal reale. Cosa intendo dire? Noi qui sentiamo
dire e sentiamo parlare di “insopportabilità” del numero di richiedenti asilo: guardate, questo – secondo
me – è un atteggiamento che viene, in questi giorni,
purtroppo alimentato da questi quattro “piazzisti” da
segue a pag. 20 >
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> continua da pag. 19
quattro soldi che pur di prendere voti, di raccattare
voti, dicono cose straordinariamente insulse! Capisco, lo so. Lo so che l’accoglienza è faticosa; lo so
che è difficile aprire le proprie case, aprire il proprio
cuore, aprire le proprie realtà all’accoglienza. La Giordania ha una popolazione che è di circa 6 milioni, 6
milioni e mezzo, ma sapete che lì ci sono due milioni
e mezzo di profughi che vengono accolti? Allora io
penso che quello che distingue la Giordania, il Kurdistan iracheno e le altre zone che stanno accogliendo
i profughi in questo momento dall’Italia, da noi è
questo: non perché loro hanno più mezzi, probabilmente hanno solo un cuore un poco più grande;
probabilmente vogliono veramente mettere vita con
vita con queste persone».
Il 14 agosto, intervistato sulle polemiche legate
alle dichiarazioni di mons. Galantino, il direttore
generale della Fondazione Migrantes della CEI,
mons. Gian Carlo Perego, ha così precisato il suo
pensiero (www.adista.it).
«Ognuno colora come meglio crede le proprie
espressioni e il proprio sdegno di fronte ad affermazioni insensate, pericolose per la vita delle persone
e irrispettose di un diritto, che è il diritto di asilo. In
ogni caso mons. Galantino non ha fatto altro che ribadire quello che sostiene anche il magistero sociale
della Chiesa dalla Populorum progessio in poi: tutelare un richiedente asilo, che non può essere etichettato come clandestino prima di averlo incontrato e
ascoltato, e tutelare la vita delle persone, perché respingere in mare significa uccidere. (...)
Noi facciamo il nostro dovere di accogliere e di
sostenere migranti, rifugiati, richiedenti asilo e persone in povertà. È un dovere che ci viene dal Vangelo (...). Sulla questione immigrazione, la politica sta
evidenziando gravi carenze e inadempienze, per cui
spesso la Chiesa, con le proprie strutture, si trova a
fare opera di supplenza di uno stato assente, che non
ha saputo organizzare un piano di accoglienza, di assistenza e di asilo richiesto dagli accordi di Dublino.
Sono le Prefetture che ci chiamano, ci chiedono di
accogliere le persone e ci pregano di fare quello che
non stanno facendo stato, regioni e comuni. E anche
le risorse che arrivano non vanno alla Chiesa, ma
sono per gli operatori, alcuni dei quali hanno trovato
lavoro anche in seguito a questa situazione (...).
Stato centrale, regioni e comuni non sono capaci
di collaborare per organizzare e gestire l’accoglienza.
Inoltre dal 2011 a oggi ancora non c’è stata quella
pianificazione richiesta di alcuni luoghi dove tutelare
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il diritto di asilo. Si tratta oggi di 85mila persone che,
spalmate su 8.000 comuni, non avrebbero l’impatto
drammatico che si vuole far credere. (…) Alcuni politici e alcune forze politiche non fanno nulla perché
hanno paura di perdere consenso, oppure alzano
la voce e sfruttano le paure delle persone per raggranellare un po’ di voti. E questo è davvero vergognoso».
Il 17 agosto il card. Bagnasco, presidente della
CEI, ha incontrato presso il seminario arcivescovile di Genova 50 profughi lì ospitati in seguito a
una richiesta del Prefetto. Al termine dell’incontro ha rilasciato la dichiarazione che riportiamo
(www.chiesadigenova.it).
«Quando vediamo centinaia, migliaia di persone, esseri umani: uomini, donne, bambini che
affrontano i viaggi della morte per arrivare in paesi
lontani dal proprio, per i motivi che ben sappiamo,
non possiamo non concludere che questo problema
è un’emergenza veramente umanitaria, una tragedia dell’uomo. Questo fatto non fa onore alla nostra
civiltà, in modo particolare a quella occidentale. È
l’Occidente in modo speciale che attraverso i suoi
organismi di carattere non soltanto europeo, ma a
livello internazionale e mondiale, deve affrontare seriamente e trovare vie di soluzione efficaci a questa
tragedia immane, a queste persone che fuggono dai
loro paesi per guerra, violenza, carestia e cercano un
futuro migliore.
Mi chiedo se questi organismi internazionali,
come l’ONU, in modo particolare, che raccoglie il potere politico, ma sicuramente anche il potere finanziario, hanno mai affrontato in modo serio e deciso
questa tragedia umana. È una vergogna, certamente,
per tutta la coscienza del mondo, ma può essere e
deve essere anche una sfida da affrontare con serietà.
Noi come Chiesa cattolica in Italia cerchiamo di
corrispondere a questa situazione umanitaria, in collaborazione e su richiesta delle autorità competenti,
come meglio possibile. Anche a Genova cerchiamo
di fare questo, ultimamente con questa accoglienza
nel seminario, se pur un’accoglienza temporanea,
anche con l’aiuto e col contributo dell’“otto per mille”
che è dovuto alla generosità di tanti italiani che firmano per la Chiesa cattolica. Li voglio ringraziare in
questo momento perché, grazie anche a questo loro
contributo, si è potuta fare tanta accoglienza, in vista
di un futuro migliore e di un’integrazione responsabile, che tutti desideriamo nel segno della giustizia,
nel segno della sicurezza e nel segno della collaborazione».
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perché si tratta di utilizzare evangelicamente una
precisa opportunità, che oggi la storia ci presenta
e da cui non possiamo sottrarci, dal momento che
accogliere i nostri fratelli in umanità, chiunque
essi siano e da qualunque parte essi provengano,
fa parte della «misura alta» della vita cristiana.
La fraternità accogliente è l’immagine che la
Chiesa profeticamente è chiamata a offrire al mondo, dal momento che essa vuole essere degna immagine del suo Signore, che non giace passivo di
fronte a nessuna delle sofferenze delle persone, e
volendo seguire i suoi insegnamenti, evangelizza
mediante la carità, che è la testimonianza più efficace e credibile.
Mi auguro che queste mie considerazioni siano
valutate da tutti, almeno da chi non si accontenta
di essere discepolo di Gesù solo di nome, ma anche di fatto; da chi dice di voler tutelare i «valori
cristiani», anche quando, come precisamente nel
nostro caso, l’arrivo di profughi può destare perplessità e scontento, tensioni e irritazioni, come in
parte è avvenuto in questi ultimi giorni a Crema
(e mi duole constatarlo!). D’altra parte la Chiesa,
per la sua stessa funzione educativa, non può accettare di sottrarsi nel plasmare nei suoi figli una
reale mentalità di accoglienza, anche se sappiamo
che non tutti recepiscono immediatamente questi
contenuti, cristianamente esigenti.
Il «demone della paura» dell’altro, del diverso
da noi, dello straniero, tende a prevaricare su tutto, porta spesso a generare tra la gente sospetti,
ansie e inquietudini, rinunciando ad apprendere
l’arte del convivere fra diversi, che oggi è ineliminabile nel nostro mondo. Il clima infuocato, a livello internazionale, certamente scoraggia chiunque, anzi porta a identificare quanti giungono tra
noi immediatamente come dei terroristi, portatori di strane malattie, e via di questo passo... Certe
reazioni sconsiderate e irrazionali, come quelle
del mancato dialogo tra i genitori della Manziana
(Ancelle) e i gestori della Caritas, nell’incontro di
martedì sera, con toni poco edificanti, sono proprio il frutto di una mentalità fondata sulla paura.
Un vero atto di umiliazione
Certo, occorre riconoscere che, venendo tra
noi, i profughi, accolti come ospiti, obbligano un
po’ tutti a «restringerci», facendo loro spazio: insomma, i profughi sono scomodi, ci infastidiscono, anche perché occorre mettere in conto qualche sacrificio personale e di gruppo. Tuttavia inIl Regno -
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sieme ci scuotono dal nostro perbenismo, fondato
sul pensare solo a noi stessi o ai nostri figli, spesso
oltremodo protetti e contemporaneamente lasciati poi a loro stessi... Non è certo allontanando i
profughi che diamo un valido sostegno educativo
ai nostri figli, i quali, in un futuro prossimo, considereranno come infelice la scelta di aver isolato
i rifugiati, sottraendoli al loro sguardo.
Non sono mancate in questi giorni opportuni
confronti con gli animatori della nostra Caritas
diocesana (a cui rinnovo la mia fiducia!) circa i
possibili luoghi in cui accogliere qualche decina
di profughi che la Prefettura di Cremona intende assegnarci. Le valutazioni sono state sofferte
e oculate. Non siamo né degli ingenui né degli
sprovveduti: avvertiamo i possibili rischi, anzi si
è cercato di prevenirli con ogni mezzo. Si è scelto la parte retrostante la scuola Manziana di via
Cesare Battisti 2, che tra l’altro ha avuto i pieni
consensi della ASL locale, e sono state garantite
tutte le sicurezze necessarie per evitare possibili incontri tra i nuovi ospiti con i bambini della
scuola dell’infanzia.
La tenace e strenua opposizione dei genitori con bambini nella scuola Manziana (Ancelle)
mi consiglia di trovare altre soluzioni non appena sarà possibile, rinunciando a un ambiente, da
competenti organi della Caritas diocesana ritenuto idoneo e, lo sottolineo, sicuro. È una forma
prudenziale che mi sento di prendere, che però
non può essere considerata un atto di codardia.
Certamente nella Chiesa non è valida la teoria
che vince chi grida di più, come questa mia decisione potrebbe essere erroneamente interpretata da qualcuno. Questa mia scelta è piuttosto un
vero atto di umiliazione, che accetto volentieri per
difendere e promuovere l’unità della Chiesa (che è
il bene più grande!) e così non fomentare ulteriori divisioni, dovendo, però, anche dolorosamente
ammettere che molti genitori della scuola cattolica sì la frequentano e la usano, ma non utilizzano
o comprendono le finalità educative che essa propone, tra cui proprio l’accoglienza!
Questi segnali che Dio permette sono ulteriori
prove di come la vita cristiana sia esigente per tutti e quanto siamo distanti da quegli ideali che essa
propone! Un motivo di seria considerazione, ma
anche di decisa conversione, per pastori e gregge!
Crema, 16 luglio 2015.
✠ Oscar Cantoni,
vescovo di Crema
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