HAKOMAGAZINE 31 Cannibali ! HAKO estate 2004 Incontri con le culture dell’america indigena Sommario estate 2004 4. 5. 7. 13. 21. 25. 31. 37. 47. 55. 59. 64. Intenti Editoriale In cerca dei cannibali Ai piedi delle piramidi Mangiare gli dei Antropofagia rituale tra i tupinamba Vampiri peruviani Non c’è cibo migliore al mondo Pacifici, cannibali anasazi! Hic sunt cannibales Credo che siano cannibali Recensioni e novità Prossimamente TURISTI IN TERRA INDIANA Grande vaso in ceramica a cordolo irochese. In copertina: Cintura in pietra taino (Detroit Museum of Arts); Codice Tudela, Museo de America, Madrid. Retro di copertina: Canoa nootka, particolare da “Puerto de Nutka” di José Cardero, Spedizione Malaspina, 1791. ! e-mail: [email protected] http://www.hakomagazine.net Corrispondenza: Hako - via N. Tommaseo 2435131 Padova Abbonamenti c. c. postale n° 15557358 intestato a Sandra Busatta via N. Tommaseo 24 - 5131 Padova. Annuale (3 numeri): e 20,00; Sostenitore: e 26,00 Direttore responsabile: Marco Crimi Redazione: Sandra e Flavia Busatta Elaborazione digitale: Lucas Cranach Stampato in proprio Autorizzazione Tribunale di Padova n. 1542 del 28.2.1995 3 Cannibali estate 2004 Referenze bibliografiche e iconografiche Higueras M. D., NW Coast of America, Barcelona e Madrid, 1991; Donnan C., Moche Portraits, Austin, TX, 2004; Curtis E. S. (Coleman, McLuhan ed.), Portraits of North American Indian Life, 1972, Schele L., Miller M. E., The Blood of Kings, London, 1986; Discovering Archaeology, may/June 1999, Jusin Kerr per i rollout dei vasi maya. Fotografie di Sandra e Flavia Busatta. Mappa esplicativa sulla collocazione geografica delle popolazioni citate in questo numero. Sotto a sinistra: Aldeia tupinamba e ritratto di Staden in una xilografia dell’epoca. Sotto a destra: Stele dei prigionieri a Yaxchilan. A p. 3 dall’alto in basso: Danzatore seneca vestito da guerriero delle “Guerre Francoindiane” (Guerra dei Sette Anni”) a Ganondagan, NY. Guerriero nootka, di Felipe Bauza, Spedizione Malaspina, 1791. Trigonolite taino, NMAI, Washington, DC. Cattura di un prigioniero dal Codice Nuttal, Cultura mixteca. 4 HAKO estate 2004 Editoriale Nel settembre 2000 la prestigiosa rivista Nature pubblicava le prove indiscutibili che molti indiani del Sudovest americano preistorico praticavano l’antropofagia, un fatto che si sospettava da anni, ma che la correttezza politica impediva di prendere in considerazione, con la scusa che non esiste traccia di cannibalismo nelle tradizioni orali di hopi, zuni e altri indiani. Non si può dar torto agli indiani se rifiutano un imbarazzante cannibalismo istituzionalizzato, dato che una simile accusa ai tempi dei conquistadores poteva costare la schiavitù. Gli unici che non ne fanno una malattia sono i mohawk, che anzi sembrano vantarsene. Anche se gli studiosi non hanno del tutto appurato perché i popoli amerindiani praticassero il cannibalismo, alcuni fino al secolo scorso, è indubbio che la pratica fosse diffusa. E’anche vero che il cannibalismo rituale, quello che prendiamo in considerazione in questo numero, si trova un po’ in tutto il mondo, compresa l’Europa durante l’età della pietra. Sembra che anche i crociati l’abbiano praticato durante la Prima Crociata, ma stranamente nessuno si è levato a difenderli dall’accusa: oggi, dopo aver divorato simbolicamente popoli di tutto il mondo, non ci scandalizza più un’accusa del genere. Anzi, fin dai tempi dell’espansione europea rinascimentale, mentre gli spagnoli esecravano i cannibali, Montaigne nel suo famoso saggio Sui Cannibali introduceva una nuova nota multiculturale e, in pieno illuminismo, Voltaire basava il suo Candide su un protagonista urone. 5 Cannibali estate 2004 Sopra: “Cintura” in pietra taino. NMAI, Washington, D.C.. Sotto: Collana taino in conchiglia Tridacna gigas (particolare) facente parte della Collezione dei Medici. Museo di Antropologia, Firenze. 6 HAKO estate 2004 Caraibi In cerca dei cannibali La dicotomia dei miti arawak contro i cannibali caribi continua a dominare dai tempi di Colombo, ma su quale fondamento? Raymond E. Fletcher La nascita dei cannibali Il 23 novembre 1492 Cristoforo Colombo, durante il suo primo viaggio, si avvicinò a un’isola che chiamò Bohio, i cui abitanti gli dissero che era molto grande e che c’erano abitanti con un solo occhio nella fronte e altri che chiamarono “canibales”. Di questi avevano grande paura, tanto da ammutolire al vederli, perché essi li mangiavano. Il testo in cui questa descrizione è contenuta scomparve a metà del XVI secolo, ma era citata in un riassunto scritto da Bartolomé de Las Casas, probabilmente nel 1552. La parola caniba o canima secondo alcuni autori deriva dalla corruzione della parola carib cariba, “audace”; altri invece sostengono provenga dall’arawak taino e significa “gente della manioca”oppure “gente del clan della manioca”. Con un solo colpo, Colombo scoprì l’America e il Cannibale, ma fin dall’inizio questa scoperta è opaca, avvolta nelle dicerie e nelle interpretazioni controverse. Lo stesso Ammiraglio era incerto sulla natura dei canibales, che peraltro Idolo in pietra dei taino. Musée de l’Homme, Parigi. 7 non gli erano ignoti dalla letteratura classica e cristiana, dove monocoli e cinocefali, in quest’ordine citati da Plinio, Sant’Agostino e Isidoro da Siviglia, appaiono nel diffusissimo Imago Mundi di Pierre d’Ailly all’inizio del XV secolo. Nel 1493 compariva a Norimberga la popolare sequenza di 21 xilografie sulle razze mostruose, la Cronaca del Mondo di Hartmann Schedel, aperta proprio dal ciclope e dall’uomo con la testa di cane. È perciò probabile che Colombo abbia tradotto culturalmente gli insulti degli indiani contro i loro vicini quando il 4 novembre notava nel Giornale di Viaggio riassunto dal Las Casas, che nella costa settentrionale di Cuba, abitavano più a est uomini con un occhio solo e altri con il muso di cane “que comian los hombres” ed erano molto bellicosi: decapitavano i prigionieri, bevevano il loro sangue e tagliavano loro i genitali (Lestringant 1997). Colombo percepisce in canibal la radice del latino canis, ma in seguito cambia parzialmente idea e crea una nuova mitologia: il 26 novembre la parola latinizzata viene associata per apocope al Gran Cannibali Khan (Can) di Tartaria e il 24 dicembre, sentendo il nome nativo di Haiti, Civao, si convince che sia il vicino Cipango (Giappone) e che i cannibali, cui non crede troppo, in realtà siano i soldati del Gran Can, con cui bisogna negoziare, che vengono a razziare gli infelici isolani: costoro, spiega, non vedendo più tornare i loro compatrioti, pensano che siano stati mangiati. Ancora è incerto sul mostruoso appetito di questi inafferrabili nemici dei taino, ma il 16 gennaio 1493 deve abbandonare la zona e veleggiare verso la Spagna senza averli potuti incontrare davvero. Nell’ultimo approdo vide degli uomini armati di arco e frecce, dalla faccia sporca di carbone, dipinti e nudi, con i lunghi capelli legati e ornati di piume di pappagallo. Uno di loro accettò di parlare con Colombo e, dato che era più brutto d’aspetto degli altri indiani che aveva visto, l’Ammiraglio giudicò che doveva essere “de los caribes que comen los hombres”. Gli antropologi pensano si trattasse di arawak ciguayo, un piccolo gruppo separato linguisticamente e culturalmente dagli arawak taino con cui Colombo ebbe principalmente i contatti (Hulme, 1986:40). Sarà solo nel secondo viaggio, imbattendosi in un villaggio abbandonato a Guadalupa, che Colombo scoprì le prove di un pasto antropofago. La scena è descritta nella prima delle otto Decadi di Pietro Martire d’Anghiera, umanista italiano alla corte di Spagna e membro del Consiglio delle Indie: mancano gli attori del dramma, ma gli attrezzi di scena ci sono tutti, braccia e estate 2004 gambe infilzate negli spiedi, carne umana che bolle nei calderoni insieme a carne di pappagallo, una testa tagliata ancora sanguinante appesa a un albero. Le lettere che raccontano i viaggi di Colombo e costituiscono la prima Decade del De Orbe Novo di Pietro Martire d’Anghiera furono pubblicate già nel 1511 e subito vennero copiate e tradotte. Nella prima epistola l’umanista ricama parecchio sul terrore dei poveri taino: infatti, i cannibali li prendono da bambini e li castrano come capponi o porci da ingrassare e rendere teneri. È del tutto sparito il legame con il Gran Khan dei tartari, un’idea che morirà con Colombo. Pietro Martire forniva così il nucleo della leggenda dei Cannibali agli umanisti di tutta Europa. Padre Rymond Breton, che trascorse parecchi anni nelle Piccole Antille nel secondo quarto del XVII secolo aggiunse la sua parte alla storia cannibalica: i caribi delle isole, che chiamavano se stessi kalinago, avevano una lingua degli uomini e una delle donne, che era il risultato del fatto che dal Sudamerica i caribi avevano invaso le isole, ucciso tutti gli uomini e sposato le donne. Il religioso non spiegava, però, come mai nella società matrilineare caribe i figli maschi non parlassero la lingua della madre dopo la prima generazione e, comunque, non fu mai testimone di atti di cannibalismo. Chi erano i caribi ? Chi erano questi tremendi caniba, bellicosi invasori che secondo i 8 taino mangiavano carne umana ed erano associati all’oltretomba nella mitologia locale? L’antropologo Robert Myers ha scoperto uno schema di scorrerie a bassa intensità e di rapimento di schiavi in tutte le isole Windward, ma nulla supporta la reputazione dei suoi abitanti come cannibali su grande scala. Negli anni 1960 l’archeologo Ripley Bullen dell’Università della Florida, ha cercato di trovare tracce della supposta invasione di cui parla padre Breton nella ceramica Suazey, che appare nelle isole dalla Martinica in giù intorno al 1100 dopo Cristo, ma le sue teorie sono state contestate da altri autorevoli studiosi. Louis Allaire, dell’Università di Alberta e l’archeologo olandese Arie Boomert, hanno scoperto somiglianze tra la ceramica isolana e quella delle Guayane, ma la documentazione è incompleta. Linguisti come Berend Hoff e Douglas Taylor, tuttavia, dimostrarono che la lingua dei maschi caribe era in effetti una lingua pidgin priva di lessico completo e con una grammatica molto semplificata e, come le altre lingue pidgin, probabilmente riflette interazioni pacifiche di commerci tra gli abitanti arawak delle Piccole Antille e i caribi del Sudamerica. Questa interpretazione suggerisce che i caribi delle isole siano in effetti dei discendenti degli arawak e non successori di invasori della terraferma. Prima della riscoperta nel 1791, solo un numero molto limitato di persone aveva letto il Giornale di Colombo andato perduto, ma migliaia avevano letto la Lettera in cui egli sintetizzava le sue HAKO estate 2004 scoperte, datata 15 febbraio 1493. Possiamo considerare la Lettera, che godette di ampia pubblicità, più della natura di un opuscolo pubblicitario, con lo scopo di incoraggiare gli investitori e i coloni che di una relazione. L’Ammiraglio, comprensibilmente, mette in rilievo la piacevolezza di Cuba e di Hispaniola sotto tutti i punti di vista, dallo splendido paesaggio, agli abitanti miti e generosi, contribuendo così a creare quella mitologia da Paradiso Terrestre che ancora fa capolino in troppi scritti sulle Americhe: «è gente affettuosa e immune da cupidigia, e disponibili a ogni cosa; ché assicuro le Vostre Altezze che nel mondo non credo vi sia gente migliore né miglior terra» (in Garvia Arevalo, 1998). Oltre a tutto non conoscono né il ferro né armi come quelle spagnole e possiedono ornamenti d’oro. Quanto ai mostri di cui si favoleggiava, egli non li ha trovati né ne ha sentito parlare, tranne un carib che ha visto, che non gli è parso “più malformato degli altri”. Questi carib sono considerati molto feroci e mangiatori di carne umana, che arrivano con le canoe a razziare tutto quello che trovano, ma non devono destare preoccupazione perché usano archi e frecce con la punta di legno, «a causa della loro mancanza di ferro che non possiedono. Sono feroci tra gli altri popoli che sono vigliacchi all’eccesso, ma non ne faccio conto di loro più che del resto» (in Hulme, 1986:42). Peter Hulme acutamente notava che già dai primi appunti nel Giornale di Colombo appare quell’opposizione arawak/carib, il nobile selvaggio e il fiero cannibale, che «segna una divisione interna nella percezione europea dei nativi caraibici, variamente articolata in tutti i resoconti europei, dai primi appunti del giornale di bordo di Colombo fino alle opere storiche e antropologiche moderne» (Hulme, 1986:46). La storia ortodossa delle isole narra di un gentile popolo agricoltore che dal Venezuela colonizza i Caraibi, quello incontrato per la prima volta dall’Ammiraglio e chiamato arawak; poi degli invasori sudamericani feroci e cannibali, i carib, con il passare dei secoli avevano invaso le isole fino a Porto Rico. I miti arawak si dimostrarono troppo deboli contro gli spagnoli, ma i feroci carib misero su una resistenza tanto dura che gli spagnoli decisero di lasciarli perdere e rivolgere la loro attenzione alla terraferma, al Messico. Lo stesso Handbook of South American Indians, pubblicato nel 1946-50, ma ancora testo antropologico standard per l’area, si esprime in questi termini: i carib avevano un’economia più A fianco: Trigonolito in pietra. NMAI, Washington, DC. A p. 6: Sedile cerimoniale (zuho) in legno dei taino. Musée de l’Homme, Parigi. 9 basata sulla pesca che sull’agricoltra, erano più robusti fisicamente degli arawak, che cominciarono ad aggredire un secolo prima dell’arrivo di Colombo, schiavizzando le loro donne e “sterminando” gli uomini, forti di una cultura «che poneva maggiore enfasi sulla guerra, scegliendo i loro capi per la prodezza in combattimento piuttosto che per eredità; mancavano di elaborate cerimonie; non adoravano idoli; ed erano cannibali» (in Hulme, 1986:49). Allo stereotipo umanista qui è aggiunto quello evoluzionista che mostra la superiorità della civiltà agricola su quella dei pescatori. Hulme fa notare che tutto il brano, che abbiamo riassunto, è pieno di vocaboli carichi ideologicamente, che rinforzano lo stereotipo nonostante le prove storiche contrarie. I “miti” arawak, per esempio, combatterono ferocemente contro gli spagnoli: il cacique Guarocuya, cui i Cannibali mentori francescani diedero il nome di Enrique, ed eroe nazionale della Repubblica Dominicana, è solo il più noto dei capi che combatterono l’invasione, ed ebbe tanto successo che gli spagnoli gli dovettero concedere di stabilirsi in una enclave indipendente. La dictomia arawak/carib sembra sia stata resa ufficiale dall’editto del 1511 che definiva carib ogni indiano ostile agli spagnoli e mangiasse carne umana: questi carib, concludeva l’editto, non avevano anime da salvare, perciò potevano essere fatti schiavi. L’editto tentava di metter d’accordo gli interessi dei conquistadores e quelli dei frati, aggirando le leggi che proibivano la schiavitù secondo i dettami papali. Come abbiamo visto, però, gli stessi spagnoli non le applicarono sempre, se si trovavano in difficoltà, come nel caso di Enrique Guarocuya. Hulme (1986), con una lunga e complessa argomentazione, sostiene che anche le differenze linguistiche tra arawak e carib delle isole sono assai confuse nelle speculazioni degli studiosi e che in realtà i estate 2004 carib delle isole, che parlavano una lingua arawak, erano ovviamente arawak, ma dato che per secoli erano stati definiti carib, qualunque cosa voglia dire, vennero per pigrizia chiamati carib, una parola taino per definire gruppi differenti da loro come identità etnica, non necessariamente linguistica, mentre i gruppi amici erano definiti “guatiao” (amici, in relazione di parentela fittizia). Questa divisione, che definiva la popolazione delle varie province 10 “si son caribe o guatiaos” venne accolta dagli spagnoli come assai utile per i loro scopi. Prendendo spunto dall’editore dell’Handbook, Julian Steward, che riconosce l’inadeguatezza della divisione per aree culturali dell’opera e suggerisce una possibile riclassificazione in accordo a schemi che integrino le istituzioni dell’unità sociopolitica, Hulme parte dalla formazione sociopolitica tipica dei taino, il cacicazgo, o caciccato (in inglese chiefdom). Ne scaturisce un quadro secondo il quale le nozioni europee di nazione, guerra e conquista non hanno molto senso: conflitti circoscritti per terre agricole specifiche, condotti secondo lo stile che in Nordamerica è chiamato mourning war, la guerra del lutto, fatta di sporadiche battaglie altamente ritualizzate. I villaggi sconfitti vengono incorporati tramite adozione, in funzione subalterna, dando origine con il tempo a un caciccato, dove la linea dinastica ereditaria domina il villaggio principale e, se le circostanze lo permettono, può ingrandirsi e dare vita a “imperi” come quelli sudamericani o messicani. È probabile che i caciccati taino, parola che vuol dire “nobili”, si siano formati dalla dissoluzione, che il processo comporta, di altre entità politiche meno strutturate o di caciccati rivali perdenti. Ironicamente, perciò, conclude Hulme, quelle che i taino percepivano come aggressioni dei villaggi autonomi, erano in realtà il risultato del processo di formazione dei caciccati in reazione alla nuova situazione di instabilità dell’area. L’arrivo degli spagnoli mise fine al processo di formazione dei caciccati, mentre provocava l’alleanza militare dei villaggi delle Piccole Antille, meno vulnerabili delle società stratificate dei caciccati delle isole maggiori, producendo una capacità militare di grande efficacia tattica e di lunga durata, circa trecento anni. Affrontando la domanda di fondo: i caribi erano veramente canniba- HAKO estate 2004 Sopra: Trigonolite taino. Museo de America, Madrid. A p. 8: Recipiente a “cuore” in ceramica, Cultura taino, NMAI, Washington, DC. li? Hulme afferma che, sulla base delle informazioni colombiane, l’unica risposta è “non sappiamo” (1986:86-87). Non sappiamo se canibal significava davvero “mangiatore di carne umana” e se il riferimento era umano o mitologico. Hulme avanza l’ipotesi che, data la potenza universale del simbolo del corpo, i taino possano aver usato il termine affibbiandolo a quelli che ritenevano aggressori minacciosi del loro corpo politico. Il cannibalismo avrebbe avuto perciò un ruolo ideologico, che aveva lo scopo di reprimere il conflitto alla base dell’origine del caciccato proiettandolo verso quelli all’esterno della struttura sociopolitica stratificata, che stavano per esserne incorporati/ divorati e sfruttati. Questa spiegazione non mi sembra soddisfacente perché non rende conto della qualifica attribuita, per esempio, dagli algonchini narragansett, organizzati in una confederazione che forse poteva diventare un caciccato incipiente, non lo sapremo mai, contro i più vicini nemici irochesi, i mohawk, che significa “cannibali”, organizzati in maniera simile e forse anche più strutturata, essendo una delle tribù della famosa Lega degli irochesi. Gli irochesi praticavano il cannibalismo rituale fin dalla preistoria, così come lo praticavano gli anasazi del Sudovest degli attuali USA, che avevano nella cultura del Chaco un potente caciccato, i nomadi karankawa della costa texana, i maya delle città stato e gli imperiali aztechi. La spiegazione di Hulme non spiega questa diffusione del cannibalismo, vero, non simbolico. È invece probabile che i caribi praticassero il cannibalismo 11 rituale, assai diffuso in tutte le Americhe e che lo praticassero anche i taino, come facevano tutte le popolazione dell’area circumcaraibica, compresa la costa brasiliana (e molte popolazioni dell’area circumpacifica), salvo essere qualificati “caribi”, secondo le direttive dell’editto del 1511, ed essere resi schiavi senza problemi legali e religiosi, quando fece comodo. Bibliografia essenziale Hulme P., Colonial Encounters. Europe and The Native Caribbean, 1494 - 1797, London 1986; Lestrigant F., Cannibals, Berkeley, CA, 1997; Garcia Arevalo, M. A., “ I Taino negli scritti di Cristoforo Colombo”, in Dalembert L. P., Nobili C., Zanin D., I Caraibi prima di Colombo: la cultura del popolo Taino, Roma, 1998. Cannibali estate 2004 “Aqui comen carne humana”. “Qui mangiano carne umana” commenta lo scandalizzato cronista spagnolo sulla pagina del Codice Tudela, Museo de America, Madrid. A p. 5: Un tempio mixteco nel Codice Nuttal, British Museum, Londra. 12 HAKO estate 2004 Mesoamerica Ai piedi delle piramidi Dopo che il sacerdote aveva strappato il cuore ancora palpitante, cosa succedeva al corpo del sacrificato? Flavia Busatta Hai già impugnato nella tua mano lo scorticatore ./ Con quello dai piacere al dio, principe Nezahualpilli./ Si affligge il mio cuore, perché io sono di Nonoalco./ Uccello del paese del caucciù, ma mexica di lingua:/ Restano sparsi là i fiori della tua battaglia./ Sono un uccello del paese del caucciù, ma mexica di lingua. calpulli e i capi. Il banchetto era un modo di rafforzare i legami tra i commensali e questo era tanto più vincolante quanto più il “cibo” era speciale. E cosa vi era di più “speciale” della carne di un prigioniero sacrificato in onore di una divinità? Elencando i casi in cui un prigioniero sacrificato non diventava cibo, le fonti indigene e spagnole implicitamente affermano che, nella maggior Il turista che avido di notizie si aggira tra le sale del grandioso Museo di Antropologia di Città del Messico o tra gli straordinari reperti scoperti ai piedi di quel che resta della piramide del Templo Mayor, ben difficilimente potrà saziare la sua curiosità se si ponesse la fatidica domanda: ma dopo il sacrificio cosa avveniva del corpo di quel disgraziato? Guide e cataloghi, pudibondi, in ossequio alle istruzioni delle agenzie turistiche del governo messicano, a proposito tacciono. I codici e i cronisti, invece, (Sahagún, Codice Magliabecchiano, tanto per citarne due) ci riferiscono che tutte le cerimonie azteche pubbliche e private si concludevano con un banchetto. Più la cerimonia era importante più la cerchia di invitati al banchetto era ristretta, ma in ogni caso erano presenti i parenti, i membri della corporazione o del 13 parte dei casi, le vittime sacrificali finivano mangiate. «Dopo aver strappato loro i cuori e versato il sangue in un vaso di zucca che veniva offerto all’officiante, il corpo delle vittime veniva fatto ruzzolare giù per i gradini della piramide e andava a finire in una piazzuola antistante. Alcuni vecchi lo sollevavano e lo trasportavano nel loro tempio tribale, dove veniva smembrato e diviso per essere mangiato» e ancora «Dopo averli uccisi e strappato i loro cuori, sollevavano lentamente i loro corpi e li facevano ruzzolare giù per i gradini. Quando arrivavano in fondo, tagliavano la testa e la infilzavano con un bastone, poi trasportavano i loro corpi in case chiamate calpulli, dove li dividevano per mangiarli» (Sahagún, in Harris, 1984:122). Bernal Diaz del Castillo parla di vere e proprie “macellerie” associate ai templi: «Staccata dal tempio si trovava una piccola torre, la casa degli idoli, un vero e proprio inferno. La porta era una bocca spaventosa ..., ghignante e orlata di zanne per inghiottire le anime. Era circondata da diavoli e da serpenti...Questa casa era ingombra di marmitte, di pentole, di giare. È là che cuocevano le carni degli Indiani sacrificati. I sacerdoti li mangiavano. Vicino alla pietra dei sacrifici, c’erano dei Cannibali estate 2004 Sacrificio umano tra gli aztechi, Codice Magliabecchi, Biblioteca Nazionale, Firenze. coltellacci e dei ceppi, come nelle macellerie....» (Diaz del Castillo, 1955: 202) Come in tutte le società dedite all’antropofagia esistevano tuttavia alcune restrizioni o situazioni che non permettevano il consumo di carne umana di una persona immolata. Non poteva essere mangiato qualcuno che avesse legami di parentela o che appartenesse allo stesso gruppo o clan. Questo tabù era tanto forte che durante l’assedio di Tenochtitlan gli aztechi, che pure stavano morendo di fame, non mangiarono i corpi dei propri caduti, anche se non si dice nulla circa quelli degli spagnoli o dei tlaxcaltechi dal momento che le cronache ci riferiscono che questi ultimi mangiavano quelli dei nemici. In Nicaragua dove si erano insediati i pipil e i nicarao di lingua nahua, si sacrificavano uomini e bambini comprati i cui corpi tuttavia non venivano consumati se provenivano dalla stessa regione dell’offerente, per evitare il rischio di divorare un lontano parente. Oltre a quello di parentela il tabù alimentare colpiva anche le vittime sacrificali di alcune particolari divinità a causa delle caratteristiche peculiari della divinità stessa o perché erano considerate proprietà delle divinità a cui erano offerte. Era il caso di alcuni sacrificati in onore di Tláloc i cui corpi erano gettati nella laguna: «la carne la seppellivano e non la mangiavano perché Tláloc, a cui era dedicata la festa, era una divinità della terra e per questo li seppellivano» (Costumbres, 1945:44). Anche i bimbi del pipiltin sacrificati in onore degli dei dell’acqua erano sepolti. Un caso simile era rappresentato dalle fanciulle, discendenti di Tezcacoac, offerte a Xoquiquetzal, i cui 14 corpi erano gettati nel Ayauhcalli. Anche i sacrificati nel mese di Tlacaxipehualiztli1 non potevano essere mangiati dal loro catturatore poiché questi li considerava come suoi figli (Sahagún, 1956), né ovviamente poteva essere mangiata la carne delle vittime colpite da malattie contagiose, come quelle sacrificate nel “digiuno del sole” così come quelle dedicate alle divinità delle malattie contagiose come Atlatonan (Durán, 1967). I corpi di quelli che impersonavano Xochipilli nel mese di Tecuilhuitontli2, Chicomecóatl nel mese di Huey Tecuilhuitl3 e di Toci nel mese di Ochpaniztli4 dopo averli spellati li conservavano in una cassa. La maggior parte delle vittime sacrificali erano dunque mangiata con l’eccezione di alcune di loro, come certe raffigurazioni di divinità che venivano sepolte o bruciate o HAKO estate 2004 altre la cui forma di morte escludeva tale possibilità come quelli che venivano precipitati nel Pantitlan un grande gorgo nel lago Texcoco in cui i corpi si perdevano. Sahagún racconta come, dopo il sacrificio, il corpo della vittima fosse consegnato agli offerenti, che lo portavano nell’Apétlac. Da altri resoconti sappiamo come, con l’aiuto di alcune persone pagate, il cadavere fosse portato alla casa del padrone o al calpulli dove «i vecchi preposti a tale uffizio, prendevano il cadavere e lo mettevano in un bagno dove lo lavavano in acqua bollente, lo cucinavano e lo mangiavano» (Papeles, 1905-6, VI: 203). In Costumbres, fiestas, enterramientos y diversas formas de proceder de los indios de la Nueva España (1945), scopriamo che la carne delle vittime veniva cucinata in modo diverso a seconda dell’occasione - con mais e sale, ma senza aggiunta di chili - dai mercanti che offrivano vittime nel mese di Tlacaxipehualiztli1, in quello di Panquetzaliztli5 (Sahagún, 1969), e di Xocoltl Huetzi6 (Costumbres, 1945). I prigionieri e i bambini sacrificati in onore dei tlaloques venivano cotti con fiori e germogli di zucca (Sahagún, 1956 e Torquemada, 1969). In uno stato rigidamente stratificato come quello azteco, ove ferrei codici suntuari regolavano ogni aspetto della vita sociale, anche la distribuzione del corpo della vittima seguiva delle regole. La gerarchia sociale era la principale: tanto più alto era lo status sociale del “cannibale” tanto maggiore era la sua capacità di gestire magicamente il potere del morto e della carne umana; perciò gli alti gradi della società ottenevano le parti “migliori” ovvero più potenti magicamente. La maggior parte delle fonti concorda sul fatto che il cannibalismo rituale fosse prerogativa delle classi elevate: «la gente comune non la gustava mai, ma solo i personaggi importanti e i capi» (Durán, 1967:108) e uno dei privilegi dei guerrieri tequihua consisteva nel mangiare carne umana. I bambini e i sacrificati in onore degli dei dell’acqua «erano divisi tra la gente di rango e i capitani di guerra, ai quali soli era lecito quel cibo e minestra e in nessun modo ciò era lecito ai plebei» (Sahagún, 1956:241). Ovviamente se la cerimonia era molto importante la coscia, veniva inviata al tlatoani (Sahagún, 1956) ; perciò tra le 3000 pietanze servite a Motecuhzoma vi era di certo carne umana. In Costumbres si fa menzione del fatto che Motecuhzoma mangiava talvolta il cuore del prigioniero più valoroso arrostito nel mese di Xocotl Huetzi6. In genere la testa e il cuore erano appannaggio dei sacerdoti, ma le gambe e le braccia erano il boccone più prelibato e quello più spesso mangiato (Cervantes de Salazar, 1914); il corpo veniva diviso in tante parti quanti erano coloro che lo avevano catturato (al massimo sei): «il primo, che era quello che lo aveva catturato per davvero, prendeva la coscia destra. Il secondo la coscia sinistra, il terzo il braccio destro e il quarto quello sinistro, il quinto l’avambraccio destro e il sesto l’avambraccio sinistro» (Codice Fiorentino, VIII, 1950-55:75). Sempre Sahagun racconta che Motecuhzoma, credendo che gli spagnoli fossero dei, pensò che volessero «bere il sangue dei sacrificati... e mandò dei prigionieri perché fossero sacrificati. Ma qundo gli spagnoli videro la cosa, furono presi da nausea e scossi dal disgusto...E respinsero con orrore quel cibo macchiato di sangue... È perché credeva di aver a che fare con degli dei che Motecuhzoma aveva ordinato ciò; è perchè credeva che gli stranieri fossero degli dei che li aveva trattati come dei» (Sahagun, 1956, IV:94) Bernal Diaz del Castillo, da parte sua, ci informa della fine del tronco che veniva gettato agli animali degli zoo privati di Motecuhzoma che evidentemente erano considerati degni di Pietra dei Sacrifici. Museo di Antropologia e Etnografia di Città del Messico. 15 tale cibo. I cronisti raccontano che il corpo della fanciulla che impersonava Huixtocihuatl era per «i vecchi che custodivano i templi» (Motolinía, 1971:52), il corpo del prigioniero che impersonava Tezcatlipoca era mangiato dai nobili (Torquemada), mentre i sacerdoti mangiavano parte del corpo del sacrificato quando la dea Cihuacóatl «aveva fame» (Durán, 1967:130). In Chiapas e in Guatemala si sottolineava che alla gente comune non toccava nessun boccone di carne umana e tra i taraschi la carne si divideva tra i capi. In Nicaragua vi erano costumi più democratici: del corpo diviso in pezzi «il cuore andava al prete, i piedi e le mani al re, le cosce a chi lo aveva catturato, le trippe ai trombettieri e il resto al popolo perché lo mangiasse» (Lopez de Gómara, 1966, II:356). Il fatto di dare le mani e i piedi al re era una attenzione, perché queste erano considerate le parti più saporite. Anche in Chiapas e in Messico queste parti erano destinate al gran sacerdote e al re. Un racconto riferentesi ai taraschi nella Relación de Michoacán ci illumina sia sulla distribuzione dei pezzi del corpo sia su eventuali restrizioni legate al sesso o all’età. Cannibali Tariácuri, signore tarasco, sacrificò Naca sacerdote di una popolazione vicina con cui aveva dei dissapori. Dicendo che la carne era di uno schiavo, inviò la carne di Naca a Zurumban, capo di quel villaggio. Costui «chiamò le mogli e disse loro: “Venite, presto, donne e scaldate questa carne”. Dopo averla cotta, esse la tagliarono, la posero in alcuni vassoi e misero il tutto nel patio dove erano i capi e le dame e che la afferrarono e la mangiarono». Il corpo di Naca fu ripartito secondo le istruzioni date da Tariacuri: «le due cosce datele a Zurumban, il torso e le costole agli isolani, le braccia (e le spalle) a Curíngaro» (Relación de Michoacán, 1956, 58). Dopo che ebbero mangiato, un messaggero disse loro la vera identità del sacrificato e la sua appartenenza al gruppo. Come udì la verità «Zurumban andò nel patio prendendo a calci la carne e le sue mogli e mettendo le mani nelle bocche per toglierne la carne, ma non poterono sputarla perché era già nello stomaco e nel ventre e Zurumban fu molto sconvolto per l’inganno tesogli da Tariacuri» (Relación de Mechoacán, 1956:59). È evidente che le donne, almeno quelle di alto rango, avevano accesso al consumo di carne umana. Un’ulteriore prova dell’accesso delle matrone al banchetto umano si trova in alcune credenze popolari: «Se qualche bambino nasceva con macchie estate 2004 o voglie dicevano che era stata colpa della voglia di mangiare carne umana o di cane» (Costumbres, 1945:5556). Dalle prove testimoniali risulta dunque certo che gli aztechi praticavano su larga scala il cannibalismo rituale, il punto è: praticavano anche il cannibalismo gastronomico? o meglio fino a che punto si estendeva la ritualità. Christian Duverger ricordando il rapporto di parentela “mistica” che si instaurava tra catturatore e catturato e il conseguente tabù di assaggiare la carne del prigioniero da parte di chi lo aveva preso (ma i cronisti ci dicono che a costui era riservata la coscia destra), interpreta «il sangue versato dal sacrificato come un’oblazione della propria persona da parte del padrone del prigioniero» (1981:176), ovvero una sorta di autosacrificio per interposta persona. Inoltre egli afferma che il tabù pone Sopra: Coltello sacrificale antropomorfizzato, Museo del Templo Mayor, Città del Messico. A fianco: Scene di sacrificio e autosacrificio; Codice Tudela, Museo de America, Madrid. 16 al riparo dalla pedofagia autofaga, ovvero dal divorare se stessi tramite il figlio spirituale (il prigioniero). Il sacrificio del prigioniero ha perciò sempre valenze mistiche e sociali; per Duvenger i sacrifici permettono di «tessere nel seno della comunità un reticolo compatto di relazioni sociali». «Il valore gastronomico attribuito alla carne umana, se non può essere nascosto, non sopprime per questo la dimensione religiosa dell’antropofagia azteca. Al sacrificio è dato di santificare le carni che consacra e, fuori dal sacrificio, non c’è consumo di carne umana» (ibid.,: 177). Ma questa teoria si trova in difficoltà se si considerano i racconti di atti di antropofagia tra le popolazioni dell’altipiano che avevano come oggetto i caduti in battaglia. Se infatti il grido di Cuauhtémoc ai tlaxcaltechi durante l’assedio di Tenochtitlan: «Vi prenderemo e mangeremo, facendo di voi vittime sacrificali» (Cervantes de Salazar, 1914, III:178-179) rientra ancora nella HAKO estate 2004 categoria sacrificale, è più difficile farvi rientrare quanto riferisce Torquemada su come un tepecano uccise un huaynamoteco spaccandogli il cuore «…si avventò quindi a berne il sangue e molti suoi compagni cominciarono a squartarlo con i coltelli per portarsene dei pezzi a casa e mangiarselo» (Torquemada, II:585). Dal racconto sembra proprio che gli indiani di Tépec, amici degli spagnoli, praticassero del cannibalismo senza apparente connessione con il sacrificio umano. È probabile perciò che aztechi e tlaxcaltechi usassero portare via i cadaveri dal campo di battaglia per evitare che i caduti potessero essere mangiati dagli avversari, un fatto che era considerato anche un grave insulto (Cervantes de Salazar). I chalca, per esempio, minacciarono proprio di questo gli aztechi durante un combattimento: «Fatevi sotto alla svelta, messicani, perché le nostre donne stanno misurando i vostri corpi per servirli in salsa di chili» (Tezozómoc, 1949, 87). Dal canto loro i nobili aztechi si offrirono, per nulla metaforicamente, come manicaretto per i macehaultin7 se avessero fallito nella loro lotta contro Chalco: «se non riusciremo nel nostro intento ci porremo nelle vostre mani affinché la nostra carne sia il vostro nutrimento; così vi vendicherete di noi e ci mangerete in piatti bruciati e sporchi perché in questo modo saremo trattati con infamia» (Ramírez, 1951:62). Vale la pena di ricordare che i plebei erano praticamente esclusi dall’antropofagia rituale e che perciò quello sul campo di battaglia poteva essere uno dei pochi modi con cui un popolano poteva gustare questa prelibatezza col vantaggio di aumentare lo spregio del nemico. Se analizziamo ancora più a fondo le fonti notiamo che il cannibalismo “gastronomico” era tuttavia ancora più ampio: non solo si mangiavano i cadaveri dei nemici caduti, il che potrebbe essere considerato un modo di impadronirsi del loro potere, ma anche quelli dei “civili”. Il Conquistador Anonimo racconta come tutti nella provincia della Nuova Spagna mangiassero carne umana, che apprezzavano più di ogni altra e che in guerra “non risparmiavano la vita di nessuno che catturassero: anche se erano fanciulle molto belle le uccidevano tutte e se le mangiavano” (1970, 6). Cervantes de Salazar racconta di queste usanze più volte. Gli abitanti di Cempoala divorarono sì alcuni dei caduti di Tizpancinco , ma «ci fu chi con un bimbo grasso ben arrostito fece un pranzo e una festa per uno dei capitani indiani» (Cervantes de Salazar, 1914, I, 209). «Gli indios tlaxcaltechi e cempoalani considerarono quel giorno una festa, perché non lasciarono corpi che quei signori potessero mangiare con chili e pomodoro» (Cervantes de Salazar, 1914, II:22). Lo stesso Cortés ricorda come spesso gli spagnoli soffrissero la fame mentre gli indiani alleati facevano grandi banchetti: «Ci fu quella notte tra i tlaxcaltechi un grande banchetto con braccia e gambe dal momento che gli addetti alla graticola arrostirono più di 50.000 olle di carne umana. I nostri se la passarono molto male perché quel cibo non era adatto a loro» (Cortés, 1973:129). Il cannibalismo tra gli aztechi Scene di antropofagia rituale; Codice Fiorentino, non era perciò solo limitato alla Biblioteca Laurenziana, Firenze. pratica rituale, “anticamera” della sua sostituzione col sacrificio tanza pratica maggiore di quello di umano o della sua abolizione, ma si macellai» (Harris, 1984:124). Perchè affiancava pienamente ad esso. questo avvenne? Marvin Harris, sulla scorta di Harner, Harner e Harris suggeriscono che la afferma che l’enormità del numero risposta va trovata «nelle specifiche delle vittime sacrificali in Messico è tale - anche prendendo i valori più forme di esaurimento dell’ecosistema mesoamericano sotto l’impatto di bassi - che quello che lui chiama produzione intensiva e di crescita “approccio sentimentale”, cioè la demografica, sia nel rapporto costimotivazione religiosa, non è sufficiente benefici dell’uso della carne umana a spiegare un fenomeno tanto ampio e come fonte di proteine animali laddove unico. Per lui «i sacerdoti aztechi si opzioni meno costose non erano possono definire, a buon diritto, come disponibili» (ibid.,:124). macellatori rituali di un sistema Antropologi messicani come Ortiz de statalistico dedito alla produzione e alla redistribuzione di sostanziose Montellano hanno tuttavia negato quantità di proteine animali nella questa supposizione elencando una forma di carne umana. Ovviamente i vasta quantità di risorse alimentari e negando problemi di sussistenza. sacerdoti aztechi avevano altri doveri, Harris fa però notare come lo sfruttama nessuno di questi aveva un’impor- 17 Cannibali estate 2004 mento delle risorse aveva reso la carne animale - cervi, conigli, anitre, tacchini, cani e pesci - un genere di lusso riservato per legge solo alle élites, mentre la gente comune limitava la sua dieta a mais, erbe, alghe e inset- di una certa taglia da utilizzarsi come bestie da soma, per cui non valesse la pena reprimerlo. La concomitanza di questi fattori dunque «aumentava il valore del Aquila contenitore di cuori di sacrificati; Museo di Antropologia nemico come “carne ed Etnografia, Città del Messico. sui propri piedi” e ne diminuiva il valore come servo, schiavo e contribuente» ti8. «Sebbene cereali e fagioli in quanti(Harris, 1990:234). «Il punto non è in tà sufficiente potessero fornire tutti gli quale misura queste redistribuzioni aminoacidi essenziali, ricorrenti crisi di cannibaliche contribuivano alla salute produzione nel corso del XV secolo e al vigore del cittadino medio, ma in abbassarono le proteine a livelli che quale misura il rapporto costi benefici avrebbero giustificato biologicamente del controllo politico migliorava un insaziabile appetito di carne » sensibilmente in seguito all’uso di (ibid.,:124) carne umana per ricompensare gruppi La tesi sembrerebbe trovare un buon scelti.... Se la carne veniva fornita in appoggio proprio nella notazione di grandi quantità9 alla nobiltà, ai soldati Cortés circa la scarsità di cibo e la fame e al loro entourage e se l’offerta veniva che avrebbero patito gli spagnoli che sincronizzata per compensare il deficit abbiamo menzionato. del ciclo agricolo, Motecuhzoma e la Perchè dunque lo stato azteco fu il solo sua classe dirigente mantenevano che mantenne il cannibalismo accanto abbastanza credito per evitare un al sacrificio umano? crollo politico» (Harris, 1984, 125). La tesi di Gonzáles Torres che le due Le notizie riferite da alcuni cronisti pratiche avessero origine da due circa un uso gruppi diversi venuti in contatto e completamente fusisi nel crogiolo della Valle del profano della Messico, ma mai del tutto amalgamaticarne umana, 10 si è possibile , ma non spiega perché il ovvero la sua cannibalismo fosse ancora così diffuso tendenza ad anche in presenza di un’organizzazioabbandonare il ne statale evoluta. Resta tuttora sacro in direzione affascinante invece la tesi di Harris che di una sua più o non la mera necessità dovuta a scarsità meno spinta proteica spingesse gli aztechi al mercificazione, cannibalismo guerresco, ma il fatto che unite a quelle di per la classe dirigente azteca il rapporuna to costo benefici tra cannibalismo controriforma guerresco e sua soppressione fosse a vantaggio del primo sia per la carenza Pasto cannibalico; di valide fonti alternative di cibo di Codice Magliabecchi, origine animale come ruminanti e Biblioteca Nazionale, suini, sia per la mancanza di erbivori Firenze. 18 religiosa e aristocratica strettamente legata a leggi suntuarie attuata da Motecuhzoma, farebbero supporre che anche attorno al consumo di carne umana stessero coagulando alcune contraddizioni dello stato azteco. Bernal Diaz asserisce infatti, di «aver sentito dire che vendevano [la carne umana] al minuto nel mercato» (1939, I:188) e López Medel assicura che la carne dei prigionieri uccisi nei sacrifici era pesata e venduta nel mercato, come se fosse di un qualunque animale. Nella Relación de Queretaro si afferma che la carne umana dei prigionieri sacrificati si tagliava in pezzettini che, già cotti, si vendevano al mercato, come gourmet a prezzi molto alti. Bernal Díaz del Castillo racconta pure che i prigionieri «erano messi in delle stie» e che vide in vari villaggi delle costruzioni di legno e viticci «piene di indigeni, uomini e donne, imprigionati e ingrassati finché non erano abbastanza pingui per essere mangiati e per il sacrificio» (1939, I:271 e 293). Pomar afferma che la carne umana veniva suddivisa in porzioni non maggiori di un’oncia che venivano regalate ai personaggi importanti «cacicchi, capi e mercanti e a tutti quegli uomini ricchi dai quali cercavano di ottenere un qualche interesse» (1941:17-18). In Costumbres si dice che «la dividevano e la offrivano come dono ai signori e ai capi per ottenere favori», e «davano la carne ad alcuni signori e alla gente HAKO estate 2004 neri del corpo di Motecuhzoma (Costumbres); un altro tramite l’evidenza etnografica di prendere il caffè fatto con l’acqua del lavacro del morto, un costume che sembra deve essere stato abbastanza diffuso in epoca coloniale. Sacrificio gladiatorio tra i mixtechi; Codice Nuttal, British Museum, Londra. A fianco: Coltello antropoformizzato; Museo del Templo Mayor, Città del Messico. comune e tutti la mangiavano e davano al proprietario dello schiavo alcuni mantelli come prezzo e mais, fagioli e altri semi» (1945:42-47). Sembra che in luoghi lontani dal potere centrale come fra gli otomí del Quéretaro la carne umana si vendesse «come una cosa molto preziosa e costosissima». Se dunque tra gli aztechi il consumo di carne umana stava evolvendo da sacra ricompensa per le elite a semplice merce commestibile, anche se costosa, le loro probabilità di evolvere il loro stato verso un sistema stabile di governo imperiale erano molto basse- e infatti il loro “impero” si dissolse in un anno a differenza di quello inca che continuò a resistere con rivolte e sollevazioni per quasi due secoli. È difficile creare un impero sollecitando gli stati nemici a sottomettersi al proprio dominio se il proprio esercito va all’attacco al grido di “Vi mangeremo”, il che ovviamente non lascia spazio a ragionamenti sui costi e i benefici della sottomissione da parte degli sconfitti. Note 1 “Scorticamento degli Uomini” dal 2 al 22 febbraio circa. 2 “Piccolo Giorno di Festa dei Signori” dal 2 al 21 giugno circa. 3 “Gran Giorno di Festa dei Signori”, dal 22 giugno al 11 luglio. 4 “Spazzatura delle Strade”, dal 21 agosto al 9 settembre. 5 “Alzata degli Stendardi”, dal 10 al 30 novembre. 6 “Gran Giorno della Festa dei Morti”, dall’1 al 20 agosto. 7 I macehualtin rappresentavano lo strato più elevato della plebe, in genere erano operai specializzati o artigiani e avevano il diritto di prestare il servizio militare. 8 Tuttora il lago Texcoco fornisce piccoli pesci amarillos, raccolti di Spirulina, un’alga ad alto contenuto proteico che faceva parte delle razioni dei guerrieri aztechi, dei piccoli insetti e le loro uova. 9 Fonti azteche parlano di 80400 prigionieri sacrificati nel corso di 4 giorni e 4 notti nella dedica del Templo Mayor nel 1487. Calcoli moderni hanno ridimensionato la cifra a 14.000, ma altri ritengono che fossero circa 78.000. Secondo Bernal Diaz lo tzompantli più grande da lui visto conteneva 136.000 teschi; oggi secondo calcoli basati sulle dimensioni dei pali e dei teschi si suggerisce che non potessero essere più di 60.000, ma nella stessa piazza sorgevano altre cinque rastrelliere più due alte torri di teschi e mascelle umane tenuti assieme con calce. Si vede che la quantità di offerta di carne era effettivamente vasta. 10 Gonzales Torres cita anche fenomeni di endocannibalismo a riprova de confluenze tra clan e popolazioni di differenti tradizioni. Un caso di endocannibalismo si ebbe quando bevvero le ce- 19 Bibliografia essenziale Codice Fiorentino, Santa Fe, NM, 1950-55; Sahagún fray B., Historia general de las cosas de la Nueva España, Mexico, 1956 e 1969; Codice Magliabecchiano, Graz, 1970; Conquistador Anonimo, Mexico, 1970; de Orozco F. G. (a cura di), “Costumbres de la Nueva España” in Tlalocan, Mexico, 1945; Cervantes de Salazar, F. 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Nell’altro (a destra) Baby Jaguar sembra venire sacrificato dal dio Chac-Xib-Chac che impugna un’ascia mentre il dio A Morte sembra felice di accoglierlo; questa raffigurazione sembra collegabile al sacrificio k’ex dei bambini. Vasi del periodo tardoclassico (600 - 900 d.C.). A p. 19: Il pianeta Venere, spesso collegato a uno dei due Divini Gemelli, Hun-Ahau, Hunapu nel Popol Vuh, come dio della Stella del Mattino, e il cui ciclo era determinante nelle guerre maya, in particolare delle “guere delle stelle”. Dal codice di Dresda, folio 49 del Capitolo di Venere. 20 HAKO estate 2004 Mesoamerica Mangiare gli dei La decifrazione della scrittura maya, i ritrovamenti archeologici e la rilettura delle cronache dell’epoca gettano una luce più umana e meno agiografica sulla loro civiltà. Peter O’Quinn «I primi spagnoli che giunsero nello Yucatán furono, a quanto si afferma, Geronimo de Aguilar, nativo di Ecija e i suoi compagni i quali nell’anno 1511, in seguito a un trambusto sorto nel Darien tra Diego de Nicuesa e Vasco Nuñez de Balboa1, si unirono a Valdivia che era diretto su di una caravella a S. Domingo [......Fatto naufragio, i 20 sopravvissuti giunsero dopo tredici giorni di stenti, N.d.A.] alla costa dello Yucatán in una provincia chiamata “della Maya”, dalla quale ha preso il nome la lingua dello Yucatán stesso che viene chiamata appunto Mayathan, che vuol dire “lingua dei Maya”. Questi poveracci caddero nelle mani di un cattivo cacicco che sacrificò Valdivia e quattro altri spagnoli ai suoi dei e poi offrì alla sua gente un banchetto con le loro carni; mise ad ingrassare Aguilar2, Guerrero3 e altri cinque o sei che tuttavia praticarono un’apertura nella loro prigione e fuggirono su delle alture» (de Landa, 1983:3233). De Landa riporta qui quanto raccontato dallo stesso Aguilar che riferì: «Io e altri sei compagni rimanemmo in una stia, dal momento che, avvicinandosi un’altra festività, ingrassando, avremmo reso più solenne il banchetto con le nostre carni» (Sharer, 1994:732-733) A differenza di altre popolazioni mesoamericane come gli aztechi di cui i cronisti e i codici indigeni lasciano ampia testimonianza, non abbiamo molte relazioni circa il cannibalismo dei maya di cui è perciò arduo ipotizzarne l’estensione e le caratteristiche sia in tempi storici che soprattutto nel periodo 21 classico. De Landa riprende il tema del cannibalismo rituale nel capitolo XXVIII “Sacrifici cruenti e turpi degli abitanti dello Yucatán. Vittime umane uccise a colpi di freccia e altre cose.” In questo capitolo de Landa narra delle pratiche di autosacrificio e dei sacrifici umani sottolineando come: «I sacrificati di solito venivano sepolti nel cortile del tempio o, altrimenti, venivano mangiati e il loro corpo diviso tra astanti e nobili, mentre le mani, i piedi e la testa spettavano al sacerdote e ai suoi accoliti; le vittime sacrificate erano comunque considerate sante» (de Landa, 1983:134). Le croniche della conquista ci assicurano dunque la presenza di un cannibalismo associato al sacrificio umano presso i maya del tardo postclassico, ma questa pratica era un segno di decadenza o era una attività onorata da tempi immemorabili? La pratica era ben stabilita durante lo splendore di Chichen Itzà dove alcuni affreschi ci confermano la cerimonia: il nacom, strappato il Cannibali cuore dal petto della vittima, lo porgeva all’officiante, detto chilan, che lo strofinava sulla statua della divinità, mentre quattro aiutanti, vestiti da chac, afferravano il cadavere e lo facevano rotolare ai piedi della piramide dove altri sacerdoti scuoiavano il corpo eccetto che le mani e i piedi. Mentre il sacerdote, indossata la pelle della vittima, danzava per gli spettatori, il resto del corpo, se il sacrificato era stato un guerriero coraggioso, veniva mangiato dai nobili e dagli altri astanti. «Le mani e i piedi erano riservati al chilan e, se la vittima era un prigioniero di guerra, il catturatore indossava alcune delle sue ossa come segno di valore» (Sharer, 1994:544). Sembra che il sacrificio umano abbia avuto un picco durante il Periodo Postclassico a causa della forte influenza dei gruppi provenienti dall’Altopiano centrale, in particolare i toltechi . Il metodo più diffuso in quel periodo fu l’estrazione del cuore, come quella raffigurata nel folio 76 del Codice di Madrid, dove a presiedere il rito è il dio della morte custode del mantenimento della vita nel cosmo e nel folio 3 del Codice di Dresda, dove il sacrificato si trova su una pietra che ha alla base il mostro bicefalo della terra. Dal petto del sacrificato si erge un albero che costringe all’identificazione del sangue col mondo vegetale, in particolare col mais; sull’albero è posato un avvoltoio che si nutre delle interiora del morto estraendole da un occhio, il che potrebbe indicare che alcuni cadaveri erano lasciati ai rapaci. L’offerta del sangue era fondamentale in quanto aveva il significato di alimentare gli dei con la sostanza nutriente per eccellenza, sede dell’energia vitale, ed esaudiva il debito di reciprocità visto che gli dei avevano creato gli esseri umani impastando il mais con il proprio sangue. estate 2004 «Oltre ad alimentare gli dei, il sacrificio umano era inteso anche ad alimentare gli uomini con l’energia sacra. Ciò è evidente nei sacrifici dove la vittima si convertiva in manifestazione del dio e, dopo essere stata immolata, veniva ingerita dagli uomini, che in questo modo integravano l’essenza della divinità al proprio corpo» (de la Garza, 1998:119-120). «Per il significato del sangue umano in particolare, l’unico di origine divina e per la posizione dell’uomo nella natura come essere diverso per la sua coscienza che gli permetteva di riconoscere e venerare gli dei, dovevano essere gli uomini le principali vittime del sacrificio. Al momento della conquista spagnola comunque iniziava ad essere comune la sostituzione della vittima umana con un cane» (ibid.). Il sacrificio umano, con il corollario del cannibalismo rituale, era dovuto all’influenza delle popolazioni nahua dell’altipiano, che lo praticavano, o esso era già nel costume maya del periodo Classico? Possiamo qui supporre che una pratica come quella del cannibalismo, con tutte le complesse implicazioni culturali e sociali che comporta, non sia tra quelle più facilmente assimilabili o integrabili da una cultura. In genere l’abbandono delle pratiche cannibaliche in una società 22 è definitivo ed è accompagnato da proibizioni e tabù strettissimi spesso più stretti di quelli che regolano l’incesto. Si può pertanto supporre che, se la pratica era presente nel periodo Postclassico, essa dovesse essere presente anche in quello classico e che abbia accompagnato tutto l’arco della civiltà maya precolombiana. Detto ciò, resta il fatto che non è sempre facile trovare le prove archeologiche di tale pratica. Sicuramente il complesso mitico degli Eroi gemelli e della creazione del genere umano presentano parecchi spunti che possono condurre al sacrificio umano e alla pratica dell’antropofagia rituale in determinate circostanze. Per i maya il sangue umano era sacro in quanto proveniente dagli dei. «Esiste quindi una consanguineità tra gli uomini e il sacro; il sangue è l’energia vitale cosmica che proviene dagli dei e deve tornare a loro per mezzo del sacrificio. ... Senza sangue gli dei muoiono e l’universo finisce» (de la Garza, 1997, 127). Ma il sacrificio aveva anche lo scopo di restaurare o affermare l’essenza divina degli uomini, in particolare dei governanti che garantivano il rispetto del patto divino. Molti sacrifici erano soprattutto delle sacre rappresentazioni di miti cosmogonici in cui la vittima impersonava una divinità che in essa si substanziava. L’antropofagia rituale garantiva un’assunzione in senso proprio del dio. «In diversi riti la divinità incarnata veniva uccisa di fronte al tempio, sulla cima della piramide, e poi gettata lungo la scalinata sino alla plaza dove era squartata e ingerita dai fedeli; questo significava la discesa del dio dall’ambito del sacro del cielo (la cima della piramide) sino al mondo degli uomini, dove si integrava consustanzialmente con loro» (de la Garza, 1997, 127). Come giustamente osserva Nikolai Grube in Maya. Dei incoronati della foresta vergine, «i maya accordavano grande importanza al fatto di prendere prigionieri vivi e di mo- estate 2004 strarli pubblicamente nella capitale dei vincitori, di umiliarli e in molti casi di torturarli e alla fine ucciderli. [...] Una forma particolarmente macabra di sacrificio umano era quelle in cui i prigionieri venivano fatti rotolare da una lunga scalinata, legati insieme a formare una grande palla, riportando gravi ferite nelle caduta, quando ne uscivano vivi. Una sorte che poteva ugualmente toccare loro era quella di essere k’ uxaj, “torturati”, o eventualmente anche “mangiati”. Il cannibalismo rituale non era una pratica ignota nella Mesoamerica, anche se probabilmente era limitato alla punizione delle colpe più gravi (fra le quali vi era certamente la ribellione contro il “sovrano supremo”. In un testo ritrovato a Yaxchilan si parla dei prigionieri come di “cibo” per gli dei del luogo. Osservati da questa angolazione i prigionieri di guerra fungevano da nutrimento indispensabile per gli dei, i quali senza il regolare approvvigionamento di offerte umane si sarebbero indeboliti e avrebbero potuto perdere il proprio potere tutelare. La decifrazione dei geroglifici non ha tuttavia permesso di stabilire se i prigionieri venissero effettivamente mangiati o se fossero offerti agli dei solo simbolicamente» (2000:179-180). Alla luce dell’attuale stato delle ricerche sui maya di epoca precontatto non è possibile stabilire se il “cannibalismo” fosse reale o metaforico anche se vi è una forte tendenza a prendere in considerazione la prima ipotesi, ovvero la sua tragica realtà. Alcune figure nei bassorilievi del sito di Toninà mostrano un prigioniero acconciato con i tratti del giaguaro, orecchi e occhi, un tipo di X attributi riconducibili al dio “Baby Jaguar” (o G 3 della Triade di Palenque), una dività associata sempre al sacrificio che troviamo immolata e in compagnia del dio Chac-Xib-Chac, armato di mazza, e del dio A , il dio scheletrico della morte. Il sacrificio di bambini nella cerimonia k’ex che ricorda lo stratagemma della madre dei divini Gemelli, Xkik’, per sfuggire al Mondo degli Inferi e che viene rappresentato anche fuor di metafora in alcuni vasi maya, è stato confermato da ritrovamenti di ossa di infanti in alcune grotte. Delle ipotesi di Grube ci lascia solo perplessi l’idea che il cannibalismo rituale fosse una “punizione” per colpe gravi, dal momento che il cannibalismo rituale è usualmente un modo per acquisire grande potere magico. A conclusione ci pare di poter affermare che il cannibalismo rituale era sicuramente presente in area maya all’epoca del contatto e che è molto probabile che lo fosse anche prima dell’arrivo degli spagnoli, anche se, come si dice, non abbiamo ancora trovato la “pistola fumante”. 23 HAKO Un prigioniero viene presentato a un signore in un vaso maya del periodo tardoclassico (600 - 900 d.C.). Roll-out da un vaso maya. Kerr 5850/MS1688. A p. 20: Sacrificio umano. Codice di Dresda, folio 3 (particolare) Note 1 Vasco Nunez de Balboa scoprì per la Spagna l’Oceano Pacifico il 25 settembre 1513. 2 Aguilar in seguito, riuscì a raggiungere Cortés e contribuì in modo determinante alla conquista del Messico. Egli divenne consigliere e interprete: donna Marina, la schiava indiana di Cortés, traduceva il nauhatl in maya che Aguilar traduceva in castigliano per Cortés. 3 Gonçalo Guerrero, appresa la lingua maya, andò a Chectemal dove divenne l’uomo di fiducia del cacicco che aiutò nelle guerre locali, applicando tattiche europee e sposò una donna di rango da cui ebbe dei figli integrandosi totalmente nella società indigena e rifiutandosi di tornare tra gli spagnoli. Bibliografia essenziale de Landa D., Relazione sullo Yucatán, Roma, 1983; Sharer R. J., The Ancient Maya, Stanford, CA, 1994; de la Garza M., “La religione. Le forze sacre dell’universo maya.” in Maya Classici, Milano, 1997; de la Garza M., “Le forze sacre dell’universo maya. Il periodo Postclassico” in Gli ultini Regni Maya, Milano, 1998; Grube N., I Maya. Dei incoronati della foresta vergine, Köln, 2000; Schele L., Miller M. E., The Blood of Kings: Dinasty and Ritual in Maya Art, London, 1986; Schele L., Freidel D., A Forest of Kings, New York, NY, 1990. Cannibali estate 2004 Antropofagia tra i tupinamba. Qui e a p. 24: Stampe di De Bry ispirate al racconto di Hans Staden, che si può vedere raffigurato come un uomo barbuto.. A p. 23: Antropofagia tra gli indios dell’Amazzonia. Stampa ottocentesca. 24 HAKO estate 2004 Amazzonia Antropofagia rituale tra i tupinamba Un’analisi del testo di Staden illustra la complessità del rituale antropofago tra i tupinamba. Davide Stocchero Nel 1970 compare la prima edizione italiana del libro Wahraftige Historia (Marburgo, 1557) con il titolo La mia prigionia fra i cannibali: 1553 – 1555: in esso l’autore, un tedesco di nome Hans Staden, racconta i suoi due anni di prigionia presso una tribù di indiani brasiliani e manifesta il suo debito e la sua devozione a Dio per la protezione accordatagli durante la sua permanenza fra “l’empia gente pagana”. Partito da Lisbona come mercenario per la conquista del Nuovo Mondo, verso la fine del 1553 cade in un’imboscata e viene fatto prigioniero da una tribù di etnia tupinamba stanziata nella baia di Mangaratiba. Portato nel loro villaggio, viene rasato e rinchiuso in attesa di essere sacrificato come prigioniero di guerra in un rito antropofago. Dopo un primo momento di sconforto, Hans comincia ad elaborare una strategia per avere salva la vita: grazie alla sua abilità nell’apprendere le lingue impara rapidamente il tupi e cerca di convincere i suoi rapitori di essere francese. Questo gli avrebbe permesso di essere trattato con maggior delicatezza rispetto all’essere considerato portoghese, vista la diversa reputazione di cui gli europei godevano tra gli indios del Brasile. I portoghesi, fin dalla loro comparsa sul continente, avevano la fama di invasori e trattavano gli indigeni come bestie da convertire o, al massimo, schiavi da sfruttare. Al contrario, i francesi erano conosciuti come mercanti che cercavano di adattarsi alla mentalità indigena, al fine di scambiare al meglio i loro prodotti con il legname della foresta. I tupinamba sapevano benissimo come tutti i prigionieri portoghesi cercassero di dimostrarsi francesi e non erano disposti a sentire le loro menzogne. La strategia di Hans si 25 dimostra quindi infruttuosa. L’occasione per risollevare le sue sorti gli si prospetta casualmente: durante una epidemia che colpisce la gente del villaggio gli viene chiesto di intercedere presso il suo dio al fine di far cessare lo sterminio silenzioso dei tupinamba. Hans recita bene la parte di guaritore e, nonostante l’assenza di risultati concreti, riesce, nella veste di sciamano, a barattare il suo rilascio in cambio di un riscatto da pagare. In realtà nemmeno questo avviene: invece, ceduto come regalo al capo di un altro villaggio. Tuttavia fortunosamente, alla fine, riesce ad imbarcarsi su una nave normanna di passaggio. L’opera di Hans Stagen rappresenta un classico di viaggio scritto in un linguaggio semplice e diretto da una persona priva di specifica formazione antropologica. I vari capitoli si susseguono cronologicamente, con uno stile narrativo alquanto piatto che pone sullo stesso livello eventi e particolari profondamente diversi in quanto a rilevanza e interesse. L’autore non tenta di fornire interpretazioni di ciò che osserva e registra, e individua proprio in Cannibali estate 2004 questo atteggiamento la garanzia della veridicità del racconto. In questo lavoro ci concentreremo sull’antropofagia, serbatoio mitologico e pratica rituale complessa spesso indicata come linea di confine tra bestialità e umanità. I tupinamba, infatti, erano soliti cibarsi dei prigionieri di guerra durante una cerimonia di sacrificio le cui valenze cosmologiche e culturali rimangono poco chiare anche ai giorni nostri. L’obiettivo che qui ci si pone è quello di presentare una duplice lettura di quanto accadde ad Hans Staden, sia presentando i “fatti” così come da lui riportati, che interpretandoli alla luce degli studi storico-antropologici che sono stati condotti sulle popolazioni indigene del Brasile e in particolare sui tupinamba. Questo approccio, non molto corretto dal punto di vista metodologico ed epistemologico, ci permetterà comunque da un lato di evidenziare alcune salienze nelle scene descritte da Staden, dandoci una base da cui partire, e dall’altro di cominciare ad interpretare, all’interno di un quadro di riferimento teorico coerente, la pratiche culturali che vanno sotto il nome di “antropofagia”. mezzo, attraverso la foresta fino al mare dove avevano le loro imbarcazioni. […] …si mordevano le braccia per minacciarmi mostrandomi come mi avrebbero mangiato. Davanti a me camminava un capo armato della clava di legno con cui uccidono i prigionieri, e annunciava che avevano fatto schiavo un [portoghese] e volevano vendicarsi su di lui per la morte dei loro amici». I tupinamba, tribù che abita la foresta tropicale brasiliana vivendo soprattutto di agricoltura rotazionale e pesca, hanno catturato Staden in un’imboscata di gruppo. Il dover decidere chi avesse per primo raggiunto il prigioniero fa intendere l’esistenza di un legame privilegiato tra questi due individui, con importanti conseguenze una volta tornati al villaggio. Inoltre, i tupi e i portoghesi erano in guerra e la cattura di un nemico da parte tupi si profilava come la possibilità di vendicare le sofferenze inflitte alla loro comunità. I primi elementi di base sono quindi una situazione di guerra in atto, un rapporto “speciale” fra cacciatore e prigioniero e la vendetta verso il gruppo nemico. A pagina 109: «Appena dentro [al villaggio] tutte le donne accorsero verso di me colpendomi coi pugni, strappandomi la barba e gridando “Con questo colpo vendico il mio parente che le persone fra cui eri hanno ucciso”. […] Dopo un po’ vennero i due che mi avevano catturato e mi annunciarono di avermi regalato per amicizia al fratello del loro padre, il quale mi avrebbe custodito e poi ucciso, quando fosse venuto il momento di mangiarmi, per procurarsi così con me “un nome”». Ritorna qui il motivo della vendetta verso chi ha ucciso parenti e membri del proprio gruppo, e si aggiungono altri due importanti elementi che chiarificano il valore del prigioniero all’interno della realtà sociale del cacciatore. Primo, questo può essere ceduto per amicizia, inserendosi quindi in una dinamica di reciprocità sociale; L’incontro con i tupinamba Cominceremo la nostra analisi estraendo alcune brevi parti significative dall’opera di Staden ed evidenziando gli elementi che ci serviranno successivamente per costruire un semplice modello che possa far comprendere alcuni dei significati essenziali sottostanti la pratica dell’antropofagia rituale dei tupinamba. A pagina 102 si legge: «Mentre così attraversavo la boscaglia [alla ricerca di selvaggina] si levarono da entrambi i lati del sentiero alte grida, com’è usanza fra i selvaggi. E mi piombarono addosso di corsa. […] Poi cominciarono a litigare per me: uno sosteneva ad essere stato il primo a raggiungermi, l’altro che era stato lui a catturarmi. […] corsero tutti insieme, con me in 26 HAKO estate 2004 secondo, il suo sacrificio consente di acquisire quello che Staden indica con “un nome” e che, dal punto di vista antropologico, rimanda ad uno status socialmente riconosciuto dal quale derivano poi precisi diritti e doveri. Questi due estratti appaiono nella Parte Prima del libro, dove Staden racconta in prima persona come si sono svolti i fatti che lo vedevano protagonista. Nella Parte Seconda l’Autore si fa più distaccato e analitico e assume un punto di vista etnologico, trattando in maniera più o meno estesa diversi aspetti della cultura e dei costumi tupinamba. Di nostro interesse soprattutto il capitolo XXVI (Perché un nemico mangia l’altro), che contiene l’idea che Staden si era fatto di questa pratica: «Non lo fanno per fame, ma per grande odio e gelosia; e quando in guerra si battono in scaramucce si gridano l’un l’altro con profondo astio: […] “capiti ogni disgrazia a te che sei il mio cibo” […] “Voglio oggi stesso fracassarti la testa” […] “Sono qui per vendicare su di te la morte dei miei amici” […] “Oggi stesso, prima del tramonto del sole, la tua carne sarà il mio arrosto”. E così via. Tutto questo essi fanno per grande inimicizia». Staden quindi ritiene l’odio e la gelosia le motivazioni alla base del gesto immondo di consumare carne umana. Se così fosse, resterebbe da capire perché, tra tutti gli atti che si possono compiere per inimicizia, odio e gelosia, i tupinamba abbiano scelto di compiere proprio quello antropofagico e, soprattutto, perché esso sia inserito in un rito elaborato e costante che precede la preparazione e la consumazione della carne. È Staden stesso che rende la sua lettura dell’antropofagia assolutamente riduttiva presentandoci, nel capitolo XXIX (Con quali cerimonie uccidono e mangiano i loro nemici…), una descrizione di come il prigioniero viene trattato dal momento dell’ingresso nel villaggio nemico fino alla sua uccisione. Essendo un capitolo piuttosto lungo, si riporterà un suo riassunto parafrasato. Il nemico viene prima picchiato dalle donne del villaggio, poi gli vengono rasate le sopracciglia, viene cosparso di piume grigie e legato stretto. Una donna lo assiste e può avere rapporti sessuali con lui. È tenuto in vita finchè si prepara la cerimonia. Il suo corpo viene dipinto. Gli abitanti dei villaggi vicini sono invitati alla festa: si balla intorno al prigioniero, al quale viene offerto da bere e invitato a chiacchierare in compagnia dei suoi carcerieri. Secondo altri autori si lasciava il prigioniero per un momento libero e, appena questi tentava la fuga, lo si catturava nuovamente. Il giorno successivo si accende un fuoco e si danza attorno alla clava con la quale uccideranno il nemico. Il corpo di chi eseguirà l’uccisione viene cosparso di cenere. Il carnefice, davanti al prigioniero, annuncia: “Sì, eccomi, io voglio ucciderti perché anche i tuoi hanno ucciso e mangiato molti dei miei amici” e il prigioniero gli risponde: “Anche se Mantello in penne e piume tupinamba. Copenhagen. morto, ho ancora molti amici che certamente mi vendicheranno”. Allora il carnefice me con intento di purificazione lo colpisce dietro alla nuca fino a spirituale. Egli sarà riammesso sfondargliela completamente. Il nella società a pieno titolo solo corpo poi viene fatto a pezzi e dopo un lungo periodo di isolamenripartito fra i presenti. Le interiora to durante una festa che coinvolge vengono bollite dalle donne e tutto il villaggio. mangiate da loro insieme ai bambini. Quando la cerimonia è conclusa La pratica dell’antropofagia rituale tutti tornano a casa con la propria tra i tupinamba parte, l’uccisore si aggiunge un Occorre a questo punto ricomporre nome e il capo villaggio gli esegue in un quadro coerente gli elementi un’incisione sul braccio. Le cicatriche sono emersi dall’esperienza e ci sono onerevoli. Il carnefice non dalle descrizioni di Staden: un può nemmeno toccare la carne contesto di guerra, una vendetta da della vittima e deve osservare per perpetrare, una condizione di alcuni giorni delle regole severissireciprocità sociale, la preparazione 27 Cannibali estate 2004 Indios del Brasile. Litografia di J.-B Debret. e la tutela della vittima, la figura del carnefice, attore feroce in un primo momento e anima da purificare in un secondo, l’acquisizione di un “merito”, l’isolamento e il reinserimento nella propria società di appartenenza in seguito al superamento di una prova. La varietà e la ricchezza di questi elementi permettono di esplorare il significato dell’antropofagia tupinamba. Per fare questo ci riferiremo al lavoro di Agnolin (2002) il quale, rifacendosi a quella che lui definisce “Scuola Italiana di Storia delle Religioni”, interpreta la pratica dell’antropofagia rituale ponendola in relazione all’identità culturale dei tupinamba e analizzando i significati ad un livello simbolico. La pratica antropofagica costituisce uno dei momenti più alti della cultura tupi in quanto giunge al termine di un periodo di guerra, attività estremamente pericolosa ed imprevedibile, ed è diretta- mente coivolta nella ridefinizione dell’indentità tupi oltre che nel rinnovare l’equilibrio cosmologico tra l’uomo e la sua concezione sociale del mondo naturale. Secondo il sociologo brasiliano Fernandes la funzionalità della società tupi sarebbe subordinata all’aspetto religioso e cosmologico, basato sul culto degli antenati e a fondamento della pratica della guerra. Per questo autore, infatti, il nemico verrebbe consumato non tanto per beneficiare delle sue energie quanto per recuperare quelle di qualche parente che da esso era stato mangiato. Il sacrificio della vittima rappresenterebbe quindi una possibilità per riappropriarsi della completezza della collettività ordinata dagli spiriti degli antenati. In conclusione, emerge che la guerra tupi è uno strumento per ristabilire l’equilibrio sociale compromesso, reintegrando nella propria collettività gli spiriti dei parenti uccisi dai 28 nemici. A questo punto si può comprendere il principio di reciprocità sociale, in quanto la vendetta si muove alternativamente fra i diversi gruppi tupi: tutte le vittime prima o poi vengono vendicate dai propri compagni. Questo ha l’effetto non solo di far accettare con rassegnazione al prigioniero che il nemico consumi il suo corpo, ma di considerare questa come l’unica vera morte dignitosa per un guerriero tupi e lo stomaco del nemico come il solo luogo degno di accogliere un corpo dopo la morte. La cerimonia di preparazione del nemico rappresenta un percorso culturalmente definito all’interno del quale si manipola l’identità del soggetto appartenente originariamente ad un altro gruppo: alle manifestazioni violente di rabbia che accolgono il suo ingresso al villagio seguono la benevolenza e un atteggiamento di ospitalità: questo per riconoscere il valore e HAKO estate 2004 l’importanza del nemico, in quanto rappresenta la possibilità di liberare gli spiriti dei propri parenti da lui consumati. D’altro canto però il nemico non può diventare come uno dei carnefici, altrimenti sarebbe impossibile sacrificarlo: ecco allora la conferma della sua estraneità ricoprendolo di piume, dipingendogli il viso e schernendolo per la sua goffaggine. Il prigioniero di solito è ucciso quando è arrivato al limite oltre il quale sarebbe percepito come “uno del villaggio” e risulterebbe inaccettabile ucciderlo. Così come la guerra e il sacrificio della vittima instaura un legame di reciprocità fra diversi gruppi indigeni in conflitto fra loro, lo scambio della vittima all’interno del proprio gruppo permette di costruire delle alleanze basate su dono e controdono tra i diversi lignaggi all’interno del villaggio. La vittima funge da “interruttore” in alcune importanti dinamiche sociali tupinamba: catturare e sacrificare un nemico rappresenta una fase necessaria per accedere allo status di uomo adulto, un rituale di iniziazione, indispensabile per poter sposarsi e condurre una vita piena.È per questo motivo che, come riportato da Staden, il carnefice deve rimanere in isolamento dopo aver ammazzato il nemico: questa regola è tipica di moltissimi rituali di iniziazione, nei quali il soggetto smette le vesti di “uomo incompleto” e acquisisce quelle di “uomo completo”, cultu- è quindi chiuso: la riproduzione culturale della società tupinamba si basa sulla guerra e sull’antropofagia, pratica che attraverso la reciprocità lega tra loro gruppi diversi, lega lignaggi diversi in un villaggio tramite la circolazione della vittima, permette l’accesso al mondo degli adulti e alla creazione di una famiglia, ristabilisce l’ordine cosmologico originario e rinsalda i fondamenti culturali dell’intero universo tupinamba. Bibliografia essenziale Hans Staden (1970) La mia prigionia tra i cannibali 1553-1555 Longanesi & C.; Adone Agnolin (2002) Antropofagia ritual e identidade cultural entre os Tupinamba. Revista de Antropologia, Sao Paulo, USP, v.45 n.1, 131 - 185 India tarairiu. Dipinto di Albert Eckhout. Indios tupinamba. Disegni per l’opera di Jean de Léry che visitò il Brasile tra il 1555 e il 1558. ralmente definito e costruito per assumersi piene responsabilità e vivere nella sua società come un vero tupinamba. Seppur in maniera necessariamente schematica abbiamo fornito alcune coordinate lungo le quali inquadrare un rituale complesso come quello dell’antropofagia tupinamba. Come abbiamo visto quasta pratica è ben lungi dal ridursi al momento di consumo effettivo della carne, ma si snoda fino a toccare tutti i momenti della vita sociale Tupi. Concludendo brevemente, possiamo dire che l’antropofagia rituale consente primariamente di liberare l’anima degli antenati e permette al guerriero tupinamba di diventare un uomo adulto, anticamera dello status di antenato. Il cerchio 29 Cannibali estate 2004 Da in alto a sinistra in senso orario: Vaso ritratto moche rappresentante un alto dignitario (si noti il disegno a falce di luna sul copricapo). Vaso con l’effige di un prigioniero e disegno della “Cerimonia del Sacrificio”. Coppa in ceramica con scena guerresca di cattura di prigionieri. Ciondolo in turchese e oro dalla Tomba del Signore di Sipán. 30 HAKO estate 2004 Area andina Vampiri peruviani Presso i moche esisteva la pratica di bere il sangue dei prigionieri: è questo un caso di cannibalismo? Pierre Bricou p.27 fig.D) per l’immagine sul copricapo, e una Sacerdotessa (Priestess, p.27 fig.C), i prigionieri erano sgozzati. Il sangue raccolto in calici cerimoniali veniva offerto a un supremo sacerdote, soprannominato da Donnan Essere Radioso (Radiant Being) o Sacerdote Guerriero (Warrior Priest, p. 27 fig.A) . In La cultura moche (o mochica) è universalmente famosa per la splendida ceramica, in particolare i vasi ritratto e quelli a tema erotico che ne facevano una rarità nel panorama del Nuovo Mondo. Spesso vasi e piatti sono decorati con scene al tratto rappresentanti combattimenti e sacrifici umani un tema che Christopher Donnan nei suoi studi tra gli anni 1970 e 80 chiamò Presentazione (Presentation Theme) o Tema del Sacrificio (Sacrificial Theme). «Inizia con dei guerrieri moche che partono per la battaglia. Poi vi è il combattimento vero e proprio e alcuni guerrieri sono catturati. Tutte le loro armi, gli ornamenti e i vestiti vengono strappati loro di dosso. In seguito vi è una scena in cui i catturatori li fanno sanguinare in modo molto deliberato, io credo. Li colpiscono in faccia e gli strappano via le narigueras [ornamenti nasali, N.d.T.]. Mettono loro delle corde attorno al collo e li esibiscono in parata. Segue il sacrificio.» (Donnan, in Pringle, 1999:1). Sotto gli occhi attenti degli officianti, due alti sacerdoti, soprannominati da Donnan Sacerdote Uccello (Bird Priest, p.27 fig.B) per il suo aspetto di uccello antropoformizzato e Affresco della Sacerdotessa a Pañamarca, Perù. sacerdote Pipistrello (Bat Priest, 31 seguito i corpi erano smembrati e lasciati agli avvoltoi. Gli archeologi tendevano tuttavia a supporre che la cosiddetta “saga guerriera” (Warrior Narrative) fosse solo la raffigurazione di un evento mitico e non un avvenimento reale. Queste teorie furono però sconvolte dal ritrovamento, nel 1987, delle famose tombe di Sipán. Il “Signore di Sipán”, che occupava la tomba più ricca, datata verso il 300 d.C., era abbigliato esattamente con le insegne del “Sacerdote Guerriero” dell’iconografia moche: grandi, elaborati orecchini a disco, un’ampia nariguera in oro, una piastra proteggi-schiena e fianchi e un immenso copricapo d’oro con cimiero, tutti recanti il motivo a falce di luna simile alla lama del coltello sacrificale; analogo crescente era nell’impugnatura dello scettro presso la sua mano destra. Un altro personaggio era invece sepolto con quelli che sembravano gli attributi cerimoniali del Bird Priest. Entrambe le sepolture erano circondate dai corpi di vittime sacrificali, esseri umani e lama e da un ampio corredo di vasi funerari. «Non avrei mai immaginato che avremmo trovato questi paramenti. Io non avevo neppure osato parlarne al gruppo di ricerca per alcuni giorni perché le probabilità erano così remote che temevo di perdere la mia autorevolezza» disse Donnan (Donnan in Cannibali estate 2004 A D B C Scena della “Cerimonia del Sacrificio” o “Presentazione” da un vaso moche fase V , Museum fur Völkerkunde, Monaco di Baviera. Coppa sacrificale trovata nella “Tomba della Sacerdotessa” (Tomba 3A) a San José de Moro. Pringle, 2004:1). Nel 1991 scavi archeologici a San José de Moro nella valle di Jequetepeque portarono alla luce le ricchissime tombe di due donne di alto rango che il corredo permetteva di identificare come “sacerdotesse” della Cerimonia del Sacrificio. Nella tomba «fu rinvenuto un gran vaso nero di ceramica che conteneva vasi più piccoli, coppe e un calice di ceramica. Un gran vaso nero simile, che sembra contenere coppe, è associato alla figura C nel famoso murale di Pañamarca [...] Oltre a questo vaso in ceramica furono trovati altri calici in rame presso il gomito destro della donna. Questo tipo di calici è uno degli elementi più importanti della Cerimonia del Sacrificio ed è spesso raffigurato come offerta da parte della figura C» (Donnan C. B., Castillo Butters L. J., 1994:419). Queste scoperte convinsero gli archeologi che le scene su vasi e murales rappresentavano eventi reali e neppure occasionali. «La comparazione tra le tombe reali di Sipán e le tombe della Figura C di San José de Moro ci permette di comprendere l’estensione temporale della Cerimonia del Sacrificio. Le due tombe di Sipán corrispondono approssimativamente all’anno 300 d.C., mentre le tombe di San José de Moro sono posteriori di almeno 250 anni. La “Cerimonia dl Sacrificio” ebbe chiaramente una durata assai lunga nella società moche [...] La “Cerimonia del Sacrificio” trovò anche un’ampia diffusione geografica. Il murale di Pañamarca, che raffigura chiaramente questa cerimonia, si trova nella valle Nepeña, nella parte meridionale del territorio moche. San José de Moro è ad almeno 250 km a nord di Pañamarca, e Sipán circa 60 km ancora più a nord.» (Donnan C. B., Castillo Butters L. J., 1994:422-423). Ma se i principali attori della cerimonia avevano preso letteralmente corpo, dove erano i resti delle vittime? Già a metà degli anni ‘80, Donnan scoprì una “trincea”associata all’entrata principale della Huaca (piramide) di Pactanamù contenente i resti di un certo numero di maschi adulti legati, 32 sacrificati e gettati alla rinfusa nel pozzo senza nessuna offerta funebre. Le analisi rivelarono che alcuni erano stati decapitati, altri sgozzati e altri ancora erano stati precipitati trapassati da punte in osso. Gli esoscheletri di pupe di mosca sui torsi dei sacrificati indicavano che i cadavari erano stati lasciati a marcire. Ma questo non era ancora sufficiente. Nel 1995 Steve Bourget, dopo un attento studio dell’iconografia moche e dopo aver analizzato i culti delle montagne nell’area andina, fece una grande scoperta: nella plaza 3A della Huaca de la Luna (Piramide della Luna), dove tra le alte mura è incamerato una formazione rocciosa, egli scoprì su strati successivi i resti di 70 esseri umani e frammenti di figure e vasi in ceramica crudi. «Noi non avevamo mai trovato un vero sito sacrificale prima. Avevamo delle rappresentazioni iconografiche delle pratiche sacrificali. Avevamo delle prove indirette da contesti funerari e alcune prove di decapitazione, ma mai avevamo trovato un vero sito sacrificale. Per la prima volta noi possiamo realmente vedere come i moche praticassero il sacrificio umano» (Bourget, in Pringle 2004:1). Come per i sacrificati di Pactanamù i resti non giacevano nella posizione funeraria ortodossa delle tombe moche, adagiati sulla schiena, ma in modo scomposto, spesso i resti erano sparpagliati e vi erano esoscheletri di pupe di mosche HAKO estate 2004 nei resti dei torsi, un chiaro indizio di abbandono dei cadaveri alle intemperie e agli animali spazzini. I resti erano associati a una matrice di fango proveniente dai mattoni di adobe della piramide e, stante la scarsità di piogge nella zona, si pensa che tale matrice possa essere associata alle devastanti e torrenziali piogge legate al Niño. La scoperta dei resti nella plaza 3A della Huaca de la Luna condusse ad ulteriori investigazioni. Della cosa fu interessato l’antropologo forense John Verano. Questi e i suoi due assistenti cominciarono con lo stabilire l’età e il sesso dei morti, poi cercarono possibili tracce di malattie, traumi e violenze: nulla era dato per certo. «Nessuno vuole accusare qualcuno di omicidio se invece la morte è accidentale, né di mutilare un corpo quando magari è normale putrefazione» (Verano in Pringle, 2004:1). Tutti i corpi della plaza appartenevano a un preciso gruppo demografico: giovani maschi sani e fisicamente attivi; l’età media era 23 anni. Quasi tutte le vittime mostravano la presenza di vecchi traumi curati e guariti soprattutto all’avambraccio sinistro, fratture rimarginate sulle ossa frontali e parietali sinistre del cranio, e nasi rotti; alcuni mostravano traumi recenti in via di guarigione. Il numero di traumi riscontrati su questo gruppo di giovani maschi adulti era molto più alto di quello riscontrato nei resti di moche non sacrificati e i tipi di traumi erano tipici di una lotta o una battaglia: le fratture a metà dell’ulna potevano essere spiegate dal tentativo del soggetto di parare un colpo e le fratture sul cranio erano facilmente attribuibili alle mazze da guerra. Da questi indizi si poteva ragionevolmente supporre che la maggior parte dei sacrificati fosse costituita da veterani e non “guerrieri del weekend”. Verano tuttavia suggerisce di prendere con cautela la tesi che attribuirebbe all’iconografia fittile moche lo stesso significato metonimico di quella maya. Le scene di cattura dipinte dai moche rappresentano spesso i prigionieri colpiti al naso fino a farli sanguinare, e molti teschi esibivano piccole fratture che si irradiavano dal naso, un ulteriore segno che le immagini della saga guerriera erano accuratamente veritiere. Giudicando dalla guarigione delle ferite gli uomini colpiti sopravvivevano per circa due settimane dopo la cattura, una vita ben misera. Verano argomenta come dai reperti sembri che alcuni di essi fossero stati Affresco col dio Decapitatore. Huaca De la Luna, Cerro Blanco, Trujillo.. torturati Affresco di un guerriero moche con coppa rituale e di un prigioniero nudo e nell’attesa legato a Pañamarca, Perù. della fine: infatti ad alcuni era stato inserito all’attacco dei muscoli. «Per qualche qualcosa tra le dita e l’arco del piede e ragione questa gente ha evidentemenquesto oggetto era stato spinto su e te scarnito via i muscoli dalle ossa. Io giù. Quando giungeva, la morte era credo che sia un buon indizio per tuttavia rapida. Tra quelli infatti di cui parlare di cannibalismo, se se ne si ritrovarono le vertebre cervicali trovassero altri altrove» afferma il dr. intatte, molti presentavano sulle Verano (Verano in Pringle, 2004:2). vertebre segni da taglio davanti e La scoperta del cimitero dei sacrificati, lateralmente, tipici di quando viene le tracce sui corpi, i ritrovamenti delle tagliata la gola da dietro con un coltello tombe degli officianti e i residui di affilato; altri presentavano massicci sangue su coppe e mazze testimoniano sfondamenti del cranio caratteristici di come la Cerimonia del Sacrificio pesanti colpi di mazza. Analisi di rappresentata su vasi e murali moche residui scuri su mazze e vasi cerimoniali hanno rivelato che la sostanza era sangue umano. I cadaveri erano in seguito lasciati marcire. Sette di essi tuttavia presentavano sulle ossa i segni caratteristici della scarnificazione proprio 33 Cannibali non fosse una finzione mitica, ma una pratica che si era protratta a lungo. Per quanto tempo e quante vittime siano state sacrificate nella Huaca de la Luna sarà oggetto di futuri scavi, ma certamente la pratica non era confinata solo là. Un’ulteriore prova dell’ampiezza geografica di riti sacrificali tra i moche si ebbe nel sito di El Brujo, a 40 miglia a nord-ovest della Piramide della Luna. Qui, nel 1998, fu trovata un’altra fossa comune, ma il dr. Verano fece un’altra incredibile scoperta relativa a un gigantesco murale dai brillanti colori. Il murale, dipinto con vivaci tinte rosso cremisi e giallo cromo e che nel suo massimo splendore doveva essere visibile a miglia di distanza, raffigurava una fila di nobili moche che danzavano tenendosi per mano sopra le teste di prigionieri di guerra, ritratti nudi e con una corda attorno al collo. Analizzando accuratamente il dipinto gli archeologi scoprirono che un frammento di intonaco di fango all’altezza dei piedi dei danzatori era caduto e che dal buco sporgeva un pezzo d’osso che Verano identificò come l’estremità arrotondata di un femore umano. Il femore era stato strappato, scarnificato e inserito nell’intonaco: «I danzatori stavano ballando letteralmente sopra le ossa delle loro vittime» (Verano in Pringle, 2004:2). I moche, dunque, praticavano su vasta scala il sacrificio umano ed erano usi bere ritualmente il sangue delle loro vittime con qualche aggiunta. La Sacerdotessa, infatti, in alcune ceramiche sembra tenere in mano un piccolo frutto a forma di otre, detto ullucu, che è noto per le sue proprietà anticoagulanti. Ma chi erano i sacrificati? In un primo tempo, in base all’iconografia moche che sembra rappresentare quasi sempre combattimenti tra moche o estate 2004 almeno tra gruppi con gli stessi costumi e solo raramente iconicamente associabili a culture diverse, la maggior parte degli studiosi riteneva che quelli raffigu- rati fosse- ro combattimenti rituali tra moche il cui scopo era di procurarsi delle vittime per il rito sacrificale e ricordavano a tale proposito le “guerre fiorite degli aztechi”. Lo studio craniometrico eseguito sulle vittime a Pacatnamù comparato con individui moche provenienti da cimiteri convenzionali della zona ha indicato che i sacrificati e cittadini moche non appartenevano allo stesso gruppo. Benché non sia stato possibile scoprire la provenienza delle vittime è 34 certo che esse avevano una dieta alimentare diversa da quella delle popolazioni locali. Richard Sutter rivela che anche le vittime della Huaca de la Luna appartenevano ad un altro gruppo rispetto ai residenti della valle del Moche. Le élites delle piattaforme alla Huaca de la Luna sembrano invece appartenere a gruppi più settentrionali, simili a quelli della zona di Pacatnamù, mentre il gruppo dei sacrificati appartiene a un’altra comunità ben definita. I cadaveri presentano un’ampia varietà di tipi in contrasto con i residenti e le élites che nel complesso appartengono all’area costiera settentrionale e fanno pensare che le vittime venissero catturate da varie popolazioni limitrofe. Analisi sui resti dei capelli hanno rivelato inoltre che i prigionieri avevano una dieta marittima, mentre élites e residenti seguivano una dieta di tipo terrestre (Sutter R., 2002). Anche questo dato sembra indicare che i sacrificati non fossero parte della popolazione stanziale dell’area. Nella sua opera Moche Portraits, dove vi è un’analisi accurata dei vasi ritratto raffiguranti prigionieri in ceramica cruda ritrovati nella fossa comune e di alcuni vasi ritratto scoperti in altri scavi, Donnan ipotizza che questi vasi ritraggano delle persone ben note nella società moche dell’epoca, visto che questi individui sono raffigurati sia in differenti stadi di età (bambini, giovani adulti e uomini maturi) sia in differenti situazioni ovvero con tutti gli HAKO estate 2004 A fianco: uno dei resti trovati alla Huaca de la Luna. Sopra: una delle immagini in ceramica cruda ritrovate alla Huaca de la Luna. A p. 32 sopra: Il dio Decapitatore. A p. 32 sotto: Aia Paec, il dio decapitatore, ciondolo in oro dalle tombe di Sipan. attributi del rango o come prigionieri nudi. Poiché le giare scoperte nella fossa comune sono tutte differenti e i personaggi incredibilmente ben personalizzati, Donnan crede che vi sia una stretta associazione tra le persone ritratte e i sacrificati. Egli scarta l’ipotesi che i personaggi rappresentino condottieri di gruppi nemici prima al culmine del potere e poi da vinti, in quanto le zone di produzione di tali ceramiche sono esclusivamente le valli di Chicama, Moche e Virù e d’altra parte l’autore della ceramica, sia nello stile “vincitori” che “vinti”, è lo stesso. «I ritratti di persone come prigionieri potrebbero essere stati prodotti per commemorare la cattura e il sacrificio di specifici individui il cui ruolo, status e fisonomia erano ben noti nella società moche. E non è detto che il loro ritratto nudi, con la corda al collo, fosse insultante o uminilante. Al contrario potrebbe essere stato percepito come un onore, commemorazione del fatto che egli aveva compiuto il supremo sacrificio per il bene comune. Questo concetto ci è più facile da comprendere se pensiamo alle raffigurazioni della crocifissione di Cristo: le ragioni che esse producono e le emozioni che stimolano se viste da cristiani» (Donnan C.B., 2004:139). Questo salvataggio dei moche ci lascia però perplessi. Possiamo azzardare invece l’ipotesi che tra i moche potesse sussistere una tradizione simile a quella del “re sacro”, magari scelto presso un’altra popolazione, cosa che giustificherebbe l’estraneità etnica dei sacrificati - in modo simile, per esempio, all’impersonante Tezcatlipoca tra gli aztechi - , allevato, onorato e alla fine messo a morte dopo un combattimento rituale “truccato”. Ciò potebbe spiegare le regalia da guerriero moche che hanno entrambi i contendenti nel ciclo guerriero, in analogia con alcuni esempi del gioco rituale della palla dei sovrani maya. Così mentre il “re sacro” veniva messo a morte quando necessario - quasi tutti gli studiosi propendono nel vedere nelle devastazioni provocate da El Niño la “motivazione razionale” che giustificava tali sacrifici - la casta sacerdotale, attraverso il “Pontefice Massimo” di Sipán e gli altri sacerdoti, tramandava indenne il potere. Lasciando da parte speculazioni su cui futuri scavi potranno, speriamo, fare luce, resta il fatto che i moche praticavano, se non forse il cannibalismo rituale, di cui sono però sospettati, un tipo particolare di antropofagia: il vampirismo rituale. Benché questa pratica non venga tradizionalmente compresa tra quelle accettate come “antropofagia”, l’ingestione di parti 35 liquide del corpo umano, in questo caso il sangue, a nostro avviso vi si avvicina molto. Differenziare l’ingestione di carne da quella di sangue umano è più una questione di gusto che di sostanza! Bibliografia essenziale Donnan C. B., Castillo Butters L. J., “Excavaciones de tumbas de sacerdotisas moche en San Josè de Moro, Jequetepeque”, in Uceda S., Mujica E. (ed), Moche. Propuestas y perspectivas. Actas del Primer Coloquio sobre la Cultura Moche, Trujillo, 12 al 16 de abril de 1993, Lima, 1994; Donnan C. B., Moche Portraits from Ancient Peru, Austin, TX, 2004; Donnan C. B., The Burial Theme in Moche Iconography, Washington, DC, 1979; Bourget S., “Pratiques sacrificielles et funeraires au site moche de la Huaca de la Luna, Cote Nord du Perou” , in Bull. Inst. fr. études andines, 27 (I), 1998; Verano J. W., “Paleonthological Analysis of Sacrificial Victims at the Piramid of the Moon, Moche River Valley, Northern Peru”, in Chungara.Revista de Antropologia Chilena, v.32, n°1, 2000; Pringle E., “Temples of the Doom - human sacrifice “ in Looksmart 2004 (Discover, March 1999) <www.findarticles.com/p/articles/ mi_m1511/is_3_20/legacy/ai_54359911>; Pringle E., Temples of the Doom, in <www.mc.maricopa. edu/dept/d10/asb/anthro2003/legacy/moche/ moche_doom>, 1999; Sutter R., ANTH P376: Archaeology of Death, <http://users.ipfw.edu/ sutterr/P376/Q2Background.html>, Fall 2002. Cannibali estate 2004 Sopra: particolare di una mazza da guerra iroquiana. Sotto: Indiani assaltano un forte. Fort at N° 4, NH. 36 HAKO estate 2004 Nordest Non c’è cibo migliore al mondo Le popolazioni iroquiane sono famose per il loro complesso bellico che prevede la tortura, il sacrificio umano e il cannibalismo. Ciò nonostante sono state prese ad esempio di Buon Selvaggio da alcuni pensatori. Sandra Busatta Le popolazioni di lingua irochese settentrionali abitano la regione nordorientale del Nordamerica dal 900 d.C. circa e si svilupparono in una serie di culture archeologiche che diedero luogo, in epoca protostorica, a una serie di confederazioni tribali di cui la Lega degli Irochesi è la più nota e la più articolata. Ne facevano parte gli onondaga, i mohawk, i cayuga, gli oneida e i seneca, cui si aggiunsero nel XVIII secolo i tuscarora in fuga dalla North Carolina. Gli iroquiani settentrionali, però, comprendevano altre tribù confederate, come gli uroni, i neutrals, i petun o tabacco, gli erie e i wenro, che condividevano la stessa cultura e varianti della stessa famiglia linguistica e che furono sconfitti e in gran parte assorbiti dalla Lega degli irochesi, oppure diedero vita a nuove entità tribali come i wyandot e, in parte, i mingo. Più a sud esistevano altri iroquiani, come i susquehannock, i meherrin e altre tribù della costa centrale atlantica e i cherokee, molto più distanti linguisticamente e privi del complesso bellico che rese famosi gli iroquiani settentrionali e specialmente gli irochesi della Lega, di cui erano acerrimi nemici. Come afferma Fenton (1978) gli uomini irochesi riverivano la guerra più di ogni altra cosa, e con il commercio delle pellicce, essa divenne una forza devastante nella loro cultu- ra, che minacciò la struttura stessa della loro società. In The Man-Eating Myth (1979) W. Arens sostenne che il cannibalismo era solo il frutto della fertile immaginazione di antropologi e storici. Rispondendo a proposito del cannibalismo irochese, citato tra gli altri nell’articolo, Thomas S. Abler dimostrò in Iroquois Cannibalism: Fact not Fiction che, a proposito «dei popoli di lingua irochese del Nordamerica, il caso del cannibalismo nel primo periodo storico è così forte che non può essere messo in dubbio» (1980:309). Arens, peraltro, non era stato il solo, perché già altri avevano negato l’antropofagia irochese, come parte del tentativo da parte del movimento politico indiano sviluppatosi negli anni 1960 di edulcorare il passato indigeno, cioè di eliminare o nascondere quegli aspetti che, alla luce della sensibilità del XX secolo, si potevano considerare “negativi” o “vergognosi”. Usanze secolari come lo scotennamento, il sacrificio umano e la schiavitù, oltre al cannibalismo, venivano negate per ragioni politiche o addirittura ne veniva attribuita l’origine agli europei, come la schiavitù e la caccia agli scalpi. Cannibalismo preistorico e agricoltura Uno dei bersagli di Arens erano, ovviamente, le scoperte archeologiche, che dimostrano come il cannibalismo fosse comune in tutta l’area iroquiana 37 settentrionale almeno dal 1300. Secondo Wright (1966) il cannibalismo appare in Ontario nel XIV secolo, fino a raggiungere un picco intorno alla metà del XVI secolo, mentre le fortificazioni dei villaggi diventavano più complesse e si aggiungevano alle palizzate multiple anche dei terrapieni. James Tuck (1971b), lavorando su siti preistorici onondaga, spiegò l’origine del nome di uno dei siti, Bloody Hill (Collina Sanguinosa), già noto all’antropologo seneca Arthur Parker, come cimitero storico irochese. In questa località Tuck scoprì inequivocabili segni di cannibalismo in epoca preistorica: frammenti di ossa umane su una griglia da barbecue. Durante la fase Middle Iroquian (XIVXV secolo) le testimonianze archeologiche suggeriscono che l’aumento della guerra possa aver giocato un ruolo chiave nei cambiamenti di questo periodo, e in particolare nella comparsa del cannibalismo. Ossa umane nei siti Uren e Middleport in Ontario mostrano segni di essere state tagliate, cotte, aperte per mangiare il midollo e poi gettate nella spazzatura. Trigger (1994) pensa che i soli fattori ecologici o la crescente pressione demografica sulle risorse non bastino a spiegare queste trasformazioni e che si debbano considerare invece fattori socioculturali che portarono allo sviluppo dell’agricoltura nell’area iroquiana settentrionale. Durante il periodo Middle Cannibali Woodland la caccia forniva all’uomo iroquiano la possibilità di contribuire in modo sostanziale alla propria famiglia e di dimostrare il proprio merito individuale. Mentre la caccia, la pesca e il disboscamento delle radure per creare nuovi campi da coltivare erano attività importanti tra gli iroquiani successivi, queste erano attività collettive, da svolgere in gruppo, che non portavano prestigio all’individuo e quindi non contribuivano alla promozione sociale. «Mentre, in tempi storici, vi erano molti modi con cui un uomo poteva ottenere fama, gli iroquiani concordavano universalmente che il modo più importante era il valore in guerra» (Trigger, 1994:99). I giovani cercavano ogni scusa per attaccare briga e farsi notare, forse ciò portò alla costituzione di comunità più grandi per autodifesa e ciò mise in campo eserciti numerosi. «Gli uomini possono essersi sentiti minacciati dalla crescente importanza dell’agricoltura, che era un’occupazione femminile. In queste condizioni, il sacrificio del prigioniero potrebbe essere stato accolto con favore come una ragione ulteriore per fare la guerra. La credenza che il sacrificio di prigionieri incoraggiasse la crescita delle messi contribuì ad aumentare il prestigio maschile in una società che apprezzava sempre più l’agricoltura» (Trigger 1994:99). Questa teoria, però, non spiega il cannibalismo: infatti, tra molte popolazioni agricole del Sudest, come le tribù di lingua muscogee e i cherokee, anche se i prigionieri venivano torturati e uccisi, non erano mangiati. estate 2004 quando gli olandesi erano ancora alleati ai mohicani, i mohawk mangiarono un soldato olandese, salvo poi scusarsi e iniziare un’inossidabile alleanza con la Nuova Olanda. I Gesuiti hanno graficamente descritto la macellazione dei corpi in preparazione per essere mangiati, notando lo scuoiamento dei resti umani per il “pasto detestabile” (JR, 53:139). Un altro gesuita vide due “ubriachi” spellare una coscia, dopo di che uno lasciò la casa e rientrò nella capanna con un fegato in mano (JR 62:91). Nelle Relazioni Gesuite a cura di Twaites si fa riferimento al cannibalismo irochese in 31 dei 72 volumi, ma le popolazioni iroquiane non furono le uniche a praticarlo. Nel 1752 Charles Langlade, un meticcio franco-ottawa, guidò una spedizione ottawa e chippewa contro il capo miamii piankashaw detto La Demoiselle, alleato degli inglesi durante la lunga lotta per il controllo dell’Ohio. Alla fine gli ottawa-chippewa lo uccisero, lo cucinarono e lo mangiarono. Se, a quanto sembra, l’influenza francese e inglese riuscì a porre termine all’antropofagia tra gli irochesi – ma non alla tortura – verso la metà del XVIII Le guerre del castoro Nel XVII secolo le testimonianze si moltiplicano: nel 1626, Ricostruzione di villaggio iroquiano. 38 secolo, gli shawnee continuarono a praticarle fino alla guerra del 1812. Un passo molto citato narra con dovizia di orribili dettagli la tortura praticata nel 1637 dagli uroni su un prigioniero irochese, che si può considerare il metodo standard. Il prigioniero, dopo essere stato torturato lungo il percorso fino al villaggio dei vincitori, tagliandogli o strappandogli le unghie o le dita delle mani, giunto al villaggio era fatto passare attraverso il “gantlet”, due ali di indiani che lo tormentavano ancora. Se sopravviveva, veniva adottato in ogni caso: erano adottati gli scalpi di quelli che erano stati uccisi subito, i prigionieri che avrebbero preso il posto dei morti del villaggio da vendicare e i prigionieri destinati alla tortura e a fornire il pasto rituale. Questo era il trattamento normale per tutti gli uomini: alcune dita erano tagliate in ogni caso, e servivano da marchio di schiavitù. Il prigioniero che era lasciato vivere, era tenuto sotto osservazione per anni e poteva essere torturato e ucciso anche in seguito, se non si conformava alle aspettative dei suoi catturatori o se cercava di fuggire. Anche se le donne e i bambini venivano solitamente risparmiati, una volta HAKO estate 2004 giunti al villaggio, ciò non era affatto garantito. I neutral erano accusati di torturare le donne al contrario degli uroni che, pare, non lo facevano; i mohawk, sembra, bruciavano solo le donne anziane e gli onondaga facevano poca distinzione di sesso ed età nel torturare le vittime, torturando anche un bambino di dieci anni. Anche gli oneida e altri irochesi furono visti torturare donne. Padre Joques assistette al sacrificio di una donna al dio della guerra Aireskoi, i cui pezzi furono poi distribuiti ai vari villaggi per essere mangiati in feste solenni durante l’inverno (Knowles, 1985 [1940]:6970). In ogni caso i prigionieri venivano incorporati, metaforicamente o alla lettera. Il prigioniero destinato al sacrificio poteva essere torturato per qualche giorno, ma l’importante era che non morisse prima dell’alba. Prima era tormentato all’interno della grande casa del consiglio sede del capo di guerra, dai giovani, con i vecchi e gli adulti in seconda fila che osservavano. Quando era in crisi, il capo ordinava una tregua. All’alba dell’ultimo giorno, il prigioniero era portato all’esterno, tormentato anche da donne e bambini sotto la piattaforma, ma la tortura più “pesante”, che lo doveva uccidere, la praticavano alcuni uomini. «All’alba, il prigioniero veniva condotto fuori e costretto ad arrampicarsi su una piattaforma costruita sopra un’impalcatura di legno in modo che l’intero villaggio potesse vedere cosa gli stava accadendo – l’impalcatura fungeva da piattaforma sacrificale in assenza delle piramidi dal vertice piatto, erette a questo scopo nell’America centrale. Il compito di tormentare il prigioniero veniva assunto, ora, da quattro uomini. Questi gli bruciarono gli occhi, applicarono accette incandescenti alle sue spalle, e gli ficcarono in gola e nel retto tizzoni ardenti. Quando si vide che stava per morire, uno dei suoi aguzzini “gli tagliò un piede, un altro una mano e, quasi contemporaneamente, un terzo gli staccò la testa dalle spalle, gettandola tra la folla dove qualcuno se ne impadronì” per portarla al capo, che poco dopo organizzò una festa. Nello stesso giorno, venne organizzata anche una festa con Tomba altare di padre Lalemant nel santuario reliquiario a St. Mary among the Hurons, Ontario. il tronco della vittima, e mentre stavano rincasando, i missionari incontrarono un uomo “che stava trasportando una sua mano mezza arrostita infilata allo spiedo”» (Harris, 1984:116). Una delle storie più citate, raccontata ai gesuiti da un testimone oculare, un urone cristiano che era riuscito a fuggire, è il martirio dei gesuiti Lalemant e Brabeuf (JR, 34:31), che fu in seguito confermata dall’esame minuzioso dei corpi, che confermarono i dettagli delle torture e delle mutilazioni, fatta da un altro gesuita, Regnaut: «Non dubito di tutto quello che ho appena raccontato [compreso il cuore di Brabeuf mangiato] sia vero e lo sigillerei con il mio sangue: perché io ho visto lo stesso trattamento dato a prigionieri irochesi che i selvaggi uroni hanno preso in guerra, con l’eccezione dell’acqua bollente [usata per “battezzare” Brabeuf], che non ho visto gettare su nessuno» (JR, 34:33). Padre Bressani, cui furono tagliate quasi tutte le dita delle mani e che scrisse la sua Relazione con i moncherini, una volta tornato in Italia, salvo per miracolo, è esplicito: «Allora, poiché lo avevo battezzato, trasportarono tutte le sue membra, una a una, nella capanna dove stavo – scuoiandole in mia presenza, e mangiando le sue mani e i suoi piedi» (JR 39 39:81). Il riferimento è alla persecuzione dei convertiti cristiani da parte degli irochesi, un motivo che torna in un’altra testimonianza: «in presenza della donna cristiana, essi spaccarono tutte le sue dita con i denti, gli strapparono via mezza mano, e gli portarono via a morsi le orecchie, che ingerirono subito, crude» (JR, 62:75). Anche se è possibile che i gesuiti ne approfittassero per fare propaganda, i loro racconti sono confermati dall’archeologia del XVII secolo e da fonti indipendenti: il governatore francese Devonville descrisse le azioni dei suoi alleati indiani dopo aver sconfitto un gruppo di 800 guerrieri seneca nel 1687: «Fummo testimoni della penosa vista delle solite crudeltà dei selvaggi che tagliavano i morti in quarti, come in un macello, allo scopo di metterli in pentola: la gran parte furono aperti mentre erano ancora caldi per poterne bere il sangue» (NYCD 9:338). Galinee riferì che i suoi uomini erano abbastanza barbari da voler vedere la tortura del prigioniero in un villaggio seneca dal principio alla fine; furono poi offerte ai francesi parecchie porzioni della sua carne, dicendo loro che «non c’è cibo migliore al mondo» (Coyne 1903:35). Il sindaco olandese di Albany, Peter Schuyler, che lavorò in seguito per gli inglesi, guidò un Cannibali contrattacco di irochesi e indiani “cristiani” contro un esercito francoindiano che aveva incendiato tre villaggi mohawk nel 1693. Colden riferisce che Schuyler gli aveva raccontato che era stato invitato a mangiare il brodo dai suoi indiani, cosa che fece, ma immergendo il mestolo nella pentola, con orrore tirò su anche la mano di un francese, il che gli fece passare l’appetito (Colden 1958:132). I nemici erano mangiati dopo la tortura, nel villaggio, ma anche sul campo di battaglia. Durante le cosiddette Guerre del Castoro del XVII secolo quattro o cinquecento indiani miami marciarono verso sud contro i nemici irochesi. In loro assenza, un banda di seneca, una delle Cinque Tribù della Lega degli irochesi, distrusse il loro villaggio, lasciando viva solo una vecchia e portarono via con sé le donne e i bambini sopravvissuti. Ogni sera i seneca si accampavano, uccidevano un bambino miami e lo mangiavano e ogni mattina infilzavano uno stecco attraverso il cranio di un bambino e ponevano il cadavere seduto con il visetto rivolto a est, da dove sapevano stavano arrivando gli inseguitori miami. Giunti a un giorno dal loro villaggio i seneca mandarono a dire di preparare le pentole per un grande banchetto. Fu l’ultimo accampamento, perché infine i miami li raggiunsero e decisero di tendere loro un’imboscata. Quella sera i seneca decapitarono come estate 2004 al solito un bambino e prepararono il corpo per la pentola. Dato che era un bambino la testa non era considerata preziosa come quella di un guerriero: il cuoco, sentendo del rumore tra i cespugli, credendo che fosse un lupo, gli gettò la testa, che fu prontamente recuperata dagli scout miami. Quando i seneca carichi di bottino raggiunsero il luogo dell’imboscata, furono sopraffatti e ne sopravvissero solo sei. Due fuggirono, due furono decapitati e le teste appese al collo dei sopravvissuti, cui furono tagliate le mani, il naso e le labbra, e inviati a casa a raccontare quello che era successo. Poi partirono con i parenti che avevano trovato ancora vivi verso il loro paese (White 1991). Nelle stesse guerre secondo Jean de Lamberville nel 1682 gli onondaga assalirono gli illinois e portarono via circa settecento donne e bambini da distribuire tra i vari villaggi irochesi e «ne uccisero e mangiarono oltre seicento sul luogo, senza contare quelli che bruciarono lungo la strada» (Richter 1992:144). Nel 1658 Radisson e Groseillers furono testimoni dell’uccisione veloce, cottura e pasto di un irochese preso dai loro compagni uroni, mentre erano in viaggio verso il Mississippi. Cannibalismo rituale Da quanto abbiamo visto, l’antropofagia irochese non si limitava al consumo rituale di un prigioniero sacrificato o a 40 quello dei morti in battaglia, che può conservare aspetti sacrali, ma consumava anche civili come donne e bambini. Secondo Richter, anche se l’affermazione di Lamberville che gli irochesi mangiarono sul posto oltre seicento nemici nel 1682 fosse vera solo per metà, «qualcosa era andato terribilmente storto nella pratica della guerra del lutto (mourning - war)» (1992:148). La guerra poteva essere il risultato di una politica dibattuta e decisa in consiglio dai vecchi oppure una vendetta intrapresa da gruppi di giovani desiderosi di gloria senza la sanzione del consiglio, il caso più comune. In entrambi i casi un giovane intraprendeva una carriera che ritualizzava la guerra e che lo poteva portare alla cattura e alla morte o a occupare un ambito posto in consiglio. L’arrivo del fucile individualizzava ulteriormente la guerra e spesso i vecchi non erano in grado di controllare i giovani, come nel caso del soldato olandese citato. Le popolazioni iroquiane, come gli altri popoli indiani, non accettavano la morte, fosse violenta o per malattia e la perdita di una persona richiedeva la sua sostituzione tramite adozione, simbolica o reale, di un prigioniero e quindi il riequilibrio del “potere” clanico e tribale perduto. La matrona di una lunga casa poteva imporre l’akatq’ni’ (obbligo) cioè la guerra privata o piccola guerra o guerra del lutto, come viene chiamata in letteratura. Tutta la HAKO estate 2004 procedura era segnata da precisi riferimenti cannibalici: “l’appendere la pentola” significava l’inizio della guerra e il “rovesciare o rompere la pentola” significava porvi fine o interrompere una spedizione. Il capo della spedizione di guerra si appellava al dio della guerra (Agreskoué o Agriskoué in mohawk , Aireskoui in urone e varianti) per sanzionare l’impresa e al sole, il loro fratello maggiore, identificato con il Gemello Buono, per guidarli alla vittoria. Il Gemello Buono della tradizione mitica, Taronhiawagon, Colui che Sostiene i Cieli, identificato in seguito con il Creatore per influenza cristiana, appare ai mistici con una pannocchia secca (la farina di mais abbrustolita era l’unico cibo che i guerrieri si portavano via da casa), mentre mangia una gamba umana. Era un simbolo di carestia condiviso anche dagli uroni, dove il Gemello Buono si chiamava Iouskeha, anch’egli nipote della grande dea Aataentsik, creatrice e distruttrice. Iouskeha, anche nel mito urone, combatte e ferisce il Gemello Cattivo Atawiskaron, dal cui sangue nasce la selce usata per le armi. Iouskeha è creatore di questo mondo, signore degli animali e dei raccolti. «Iouskeha era identificato con la guerra, ma anche con il sole e tutte le forze benevole che rendevano possibile la vita umana; perciò il sacrificio del prigioniero era interpretato come un rinforzamento per assicurare la continuazione del mondo naturale da cui dipendeva tutta la vita» (Trigger 1994:52). Se Iouskeha appariva nei campi con brandendo uno stelo di mais ben sviluppato i raccolti sarebbero stati ottimi, ma se stava rosicchiando una gamba umana ci si doveva aspettare la carestia. Questo non è da interpretarsi come una scusa per il cannibalismo: uroni e irochesi aborrivano mangiare i propri amici e parenti, anche se ciò accadde durante le carestie provocate dalle epidemie, ma come un invito a procurare prigionieri per rinforzare il sole Iouskeha/ Taronhiawagon. Al dio della guerra Agreskoué erano dedicati sia la festa del cane, in cui un cane era ucciso e mangiato a simboleggiare il prigioniero che sarebbe stato sacrificato e mangiato al ritorno dalla guerra, che il prigioniero stesso. Cane era un insulto nei canti contro i nemici e il nome dato ai prigionieri. I guerrieri più famosi ricevevano la testa del cane dalla pentola, come poi avrebbero avuto quella del sacrificato e la testa stessa per due secoli restò simbolo della festa. Gli iroquiani erano cacciatori di teste e solo in seguito, per influenza dei nemici del Sudest, si diffuse la pratica dello scalpo. Secondo la relazione del gesuita Le Jeune (1637), testimone della tortura di un irochese tante volte citata, ciò avvenne nella casa del gran capo di guerra urone, dove si tenevano i consigli di guerra e che era chiamata “la casa delle teste tagliate”. I prigionieri venivano portati di villaggio in villaggio per essere distribuiti. Una tradizione onondaga rivela che questi prigionieri da adottare per rimpiazzare i parenti morti come forza lavoro erano chiamati we-hait-wat-sha, che indica un corpo tagliato a pezzi e sparso in giro, dato che simbolicamente essi erano sparsi tra i villaggi e, almeno nelle intenzioni, totalmente denazionalizzati e incorporati dopo aver subito umiliazioni e brutali maltrattamenti. Il prigioniero da sacrificare, adottato anch’esso e chiamato ritualmente “zio” o “nipote”, poteva dare una festa in proprio onore e recitare le proprie imprese quando il rituale era ancora rispettato e non era degenerato in un massacro. Il successo di un guerriero si misurava non solo dal suo coraggio e dal numero dei nemici uccisi, ma soprattutto dal numero di prigionieri catturati, per i quali egli portava una speciale corda ornata da disegni intrecciati con aculei di porcospino. Anche se in seguito all’arrivo degli europei motivazioni economiche e demografiche si intrecciarono nelle guerre del lutto, non tramontò mai l’elemento cerimoniale. I rituali prebellici ponevano l’accento sulla centralità dei prigionieri nella guerra. Se mangiare un sacrificato era impossibile, si sostituiva la sua carne con carne d’orso (considerato molto simile agli esseri umani). In seguito, pittografie sugli alberi o su corteccia mostravano il numero e il fato dei prigionieri e, secondo gli irochesi, 41 ignorare i rituali connessi ai prigionieri significava chiamare la sconfitta. Un onondaga spiegava questo punto di vista all’inizio del XVIII secolo, confuso dall’abitudine euroamericana di restituire i prigionieri. Per lo stesso motivo vi erano forti sanzioni religiose contro la perdita di vite del proprio gruppo. Parti particolari del sacrificato erano specificatamente dedicate ai guerrieri: il cuore, che poteva essere strappato alla vittima ancora in vita, era arrostito e mangiato e anche i bambini molto piccoli venivano abituati a bere il sangue dei prigionieri. Il sangue era a volte versato dai guerrieri nelle proprie vene con un taglio se il nemico era di particolare valore. I mohawk riservavano la testa e il cuore al capo, e il tronco al popolo comune; secondo alcuni, gli uroni, che stimavano adatta a un capo la testa di una preda animale, consideravano la testa umana adatta agli elementi più infimi della tribù, ma ciò è smentito da testimonianze contrarie (Knowles 1985 [1940]). Una guerra del lutto, comunque, non era scatenata solo per vendetta, ma per qualsiasi morte e, con l’avvento delle epidemie, si instaurò una spirale bellica sempre più incontrollabile: nonostante tra gli irochesi sembri che le matrone potessero decidere della sorte dei prigionieri, in realtà ciò fu probabilmente abbastanza vero quando si trattava di riempire i ranghi decimati dalle epidemie. Tuttavia abbiamo almeno due casi di capi guerrieri che distrussero decine di prigionieri, condannandoli a morte, e rifiutandoli come sostituti dei congiunti morti. Secondo White «fino a che punto le donne controllavano il fato dei prigionieri variava da gruppo a gruppo, ma tra gli algonchini e gli irochesi del pays d’en haut le donne esercitavano un significativo controllo sui prigionieri » (1991:325). Tra gli shawnee c’erano due serie di capi femminili, quelle di guerra e quelle di pace, ogni serie collegata a un’importante forma di approvvigionamento alimentare. Le donne capo di pace supervisionavano la piantagione dei vegetali e preparavano feste con vegetali, mentre le donne capo di guerra si occupavano della carne e dei vegetali selvatici. Le donne Cannibali capo civili potevano fermare le spedizioni di guerra, quelle di guerra, riunite in una società ereditaria capeggiata da quattro vecchie, accoglievano il ritorno dei guerrieri ringraziandoli per “la buona carne”, cioè i prigionieri, che portavano a casa, i quali fino agli inizi del XIX secolo erano bruciati al palo della tortura e mangiati, se esse riuscivano a toccarli prima delle donne capo civili. Anche tra i miami esistevano donne capo di guerra e di pace, che ricavavano il loro ufficio, però, in relazione a un maschio: la figlia maggiore del capo di guerra e del capo del villaggio diventavano rispettivamente capo donna guerriera o civile, ma il loro potere rituale non era altrettanto importante quanto quello delle omologhe shawnee. Mentre miami, shawnee e kikapoo continuarono a praticare il cannibalismo fino alla guerra del 1812, sembra che tra gli irochesi esso fosse cessato intorno alla metà del XVIII secolo, in concomitanza della Guerra dei Sette Anni. Alla fine del XVIII secolo James Adair e Philip Mazzei negavano la sua esistenza presso gli irochesi, a indicazione della sua scomparsa, anche se non era scomparsa la tortura e la cattura di prigionieri, come testimonia la Rivoluzione americana. Il cannibalismo era anche al centro del mito fondatore della Lega degli irochesi: un tempo le cinque tribù non erano unite in una confederazione, si facevano la guerra tra loro ed erano anche preda dei vicini algonchini. Un giorno Hiawatha, depresso dalla morte della sua famiglia si rifugiò nella foresta, dove viveva come un cannibale, uccidendo e mangiando i malcapitati viaggiatori che l’attraversavano. In seguito Dekanawidah, figlio di una vergine urone scacciato dalla sua tribù, giunse attraversando i laghi nella sua canoa di pietra bianca e trovò la capanna di Hiawatha. Si arrampicò sul tetto e guardò giù attraverso il buco del fumo. Intanto Hiawatha stava guardando dentro una pentola d’acqua e vide il riflesso del volto di Dekanawidah; pensò che quel volto fosse il suo e disse: Questo non è il volto di un cannibale. Così iniziò la sua rigenerazione morale: Dekanawidah si rivelò e affidò a Hiawatha, che era un fine oratore, il compito di unire le tribù e di ammansire il terribile onondaga Atotarho dai capelli fatti di serpenti. estate 2004 Particolare del “Sacrificio dei martiri gesuiti”, Mostra sulla Nouvelle France, Canadian Museum of Civilisation,Ottawa, da notare le dita tagliate. Questa è l’origine della Lega degli irochesi, in cui la guerra intestina e il cannibalismo erano vietati (Wallace 1972). L’antropofagia era rivolta solo all’esterno e, pensando a Hiawatha cannibale che genera guerre del lutto indiscriminate, era un segno del dominio della “natura” selvaggia e priva di freni sulla cultura e la società organizzata. Un 42 monito, quindi, che la guerra non prendesse il sopravvento, un evento che i fondatori del mito cercavano di scongiurare. Gli avvenimenti storici dovevano però strappare il tessuto della Lega e portare gli irochesi alla sconfitta e all’irrilevanza, un destino che essi avevano destinato a molti popoli, che avevano inghiottito come entità indipen- HAKO estate 2004 denti e identità definite. Rapporti messicani Il diffuso terrore che gli iroquiani provocavano nei loro nemici indiani e non indiani era senza dubbio legato al loro complesso bellico, ma anche se essi sfruttarono questo terrore, esso era un prodotto secondario della guerra, la cui motivazione principale era il sacrificio umano agli dei. Gli aspetti caratteristici del rito standard, cioè l’insistenza su un comportamento casto da parte dei torturatori durante la tortura, la danza e il canto richiesti alla vittima, la gentilezza mostrata verso la vittima durante la sua festa di morte prima dell’inizio della tortura, l’esigenza che la morte avvenisse su una piattaforma rialzata al sorgere del sole, la morte tramite coltello, gli aspetti cardiaci e il cannibalismo e anche la festa dell’orso con le scuse per non aver potuto mangiare un prigioniero illustrano bene il carattere cerimoniale del sacrificio. Esso ha però poco o nulla in comune, secondo Knowles (1940) con i sacrifici umani del Sudest e, secondo questo autore, anche i rapporti con il Sacrificio del Cane Bianco delle cerimonie di metà inverno non dimostrano che in quel rito il cane sostituisse l’uomo. Mentre il cannibalismo dei caddo meridionali sembra derivare da quello di popoli come i karanlawa e i tonkawa, le supposte somiglianze linguistiche e ceramiche tra caddo e irochesi non sembrano supportate, secondo Knowles (1940) dal complesso bellico. Questa opinione non è condivisa del tutto da Trigger, secondo cui certi «elementi chiave, compreso l’uso di prigionieri, la rimozione del cuore, l’uccisione della vittima su una piattaforma elevata e in vista del sole, e infine la cottura e l’ingestione di tutte le parti del corpo, collegano questo rituale iroquiani settentrionale con quelli praticati nel sudest degli Stati Uniti e in Messico dagli aztechi, anche se restano molte specifiche differenze. Sembra che le idee fondamentali di questa cerimonia si diffusero verso nord dalla Mesoamerica, come fecero il mais, i fagioli e le zucche (anche se forse non allo stesso tempo) e furono usate dai vari gruppi che ne svilupparono la propria versione» (Trigger1994:97). Secondo Knowles i tratti legati alla piattaforma e al sacrificio possono essere comuni, ma le somiglianze messicane nel basso Mississippi sono di natura del tutto diversa e le prove mostrano come l’accentuazione della tortura sia un aspetto iroquiano piuttosto recente, che non è condiviso dai cherokee se non dopo l’inizio delle guerre con gli irochesi, per vendetta, che si diffuse tra gli algonchini solo poco prima dell’arrivo dei bianchi per lo stesso motivo. Anche i tuscarora non conoscevano la brutalità delle cerimonie settentrionali fino a che non entrarono nella Lega degli irochesi. Sembra perciò che la progressiva ferocia del motivo del sacrificio umano sia stato sfruttato dagli irochesi consapevolmente allo scopo di terrorizzare i vicini e, nel caso delle altre confederazioni iroquiane settentrionali, di annientarle completamente. Martiri gesuiti e filosofi nudi I gesuiti giocarono consapevolmente sull’immagine parallela del duello simbolico tra cannibale torturatore e vittima e ordalia del martirio. Il missionario, infatti, non solo opponeva la sua pazienza e fermezza alla crudeltà, ma mostrava agli indiani, tramite il suo esempio, quale grandezza si potesse raggiungere con la vera fede. (Lestringant 1997). Jean de Brabeuf resistette tre ore prima di morire, ma il suo giovane compagno Gabriel Lale- Mappa della “Terra di Ochellaga” nella Nuova Francia, sec. XVII. 43 mant patì per diciassette ore: entrambi si guadagnarono la palma di martire presso la chiesa cattolica e una chiesa sacrario presso Saint Mary among the Hurons, Ontario. Gli irochesi li deridevano e si dicevano l’un l’altro che la carne dei francesi doveva essere buona, ne tagliavano delle strisce dai corpi vivi e la mangiavano di fronte a loro. Le profonde ustioni erano accompagnate da atti blasfemi come il battesimo con l’acqua bollente sul cranio scotennato di Brabeuf e la ferita al costato, come a Cristo. Di qui scaturì un fiotto di sangue, che venne avidamente bevuto dai guerrieri. La fine gloriosa dei due martiri venne narrata in termini agiografici da un altro gesuita, Pierre-François-Xavier de Charlevoix (1682-1761) nella sua famosissima Histoire et description génerale de la Nouvelle France, pubblicata nel 1744, che per quasi un secolo fu la fonte principale della storia canadese. Il martirio di Brabeuf e Lalemant era la prova finale dell’amore cristiano e la dimostrazione del successo dell’opera missionaria gesuita proprio tramite la tortura e l’antropofagia. Gli irochesi non sempre avevano tanta considerazione per la vittima: secondo Lestringant (1997) il gesuita Jogues fu ucciso con un colpo d’ascia, il suo corpo gettato nel fiume e la testa appesa alla palizzata difensiva del villaggi come trofeo, in realtà egli fu ucciso come una strega col tomahawk. Bressani, invece, rappresenta, secondo lo stesso autore, l’esempio del fallimento gesuita: Cannibali catturato insieme a un urone, quest’ultimo fu bollito e mangiato, ma Bressani «non fu considerato degno di tale fato» (1997:134). Gli bruciarono le unghie, gli tagliarono il pollice e due dita della mano destra e slogati i piedi. Le parti tagliate furono messe sul suo stomaco dove i cani le mangiarono, con abbondanza di morsi anche al prigioniero. Alla fine i cani se ne andarono e Bressani, con la carne imputridita e coperta di vermi cominciò a puzzare tanto che gli irochesi se ne liberarono vendendolo agli olandesi. Il relativo fallimento di Bressani, che mostrava le mani mutilate dal pulpito della natia Italia, contrasta, secondo Lestringant, con il completo successo di Brabeuf e Lalemant che, invece di essere respinti (vomitati) dagli antropofagi, avevano ricevuto dagli irochesi la grazia di una santa morte e, paradossalmente, il trionfo e la perfetta felicità. Pur apprezzando l’interpretazione di Lestringant, francamente credo che il povero Bressani sia stato salvato per puro caso. Talvolta la tortura durava giorni: se la vittima era spregevole spesso veniva uccisa subito; date le note tensioni interne agli irochesi, è possibile che una fazione abbia deciso di lucrare sul gesuita consegnandolo agli olandesi, che cercavano di salvare i francesi, anche se nemici per politica e religione, quando potevano. Padre Jogues era già stato salvato una volta dagli olandesi che lo estate 2004 avevano riscattato dai mohawk. Il racconto di Charlevoix, però, non serviva a condannare gli indiani, al contrario: egli li vedeva come esseri razionali la cui condotta, come quella degli altri esseri umani, era determinata soprattutto da considerazioni di onore personale e interesse ed era persuaso che la principale differenza tra indiani e francesi consisteva nella mancanza di istruzione degli indiani. Charlevoix, come gli altri gesuiti, era convinto che gli indiani potessero diventare dei buoni cristiani, anche migliori di molti francesi (Trigger 1994). «Dicendo infatti semplicemente che io sono ciò che sono i Selvaggi, mi danno, senza pensarci, il carattere del primo gentiluomo del mondo; perché insomma è un fatto incontestabile che le Nazioni che non sono state corrotte dalla vicinanza degli Europei, non hanno né tuo né mio, né leggi, né Giudici, né Prete» (1995:11-12), così scriveva Louis Armand de Lom d’Arce, barone de Lahontan (1666-1715), che aveva servito sotto Denonville nella campagna contro gli irochesi seneca nel 1687. Le sue memorie, Dialogues de Monsieur le Baron de Lahontan et d’un Sauvage dans l’Amerique, pubblicate nel 1703, il cui messaggio è che gli indiani sono veramente liberi e i francesi i veri schiavi, resero l’urone Adario, creato sulla falsariga di un capo 44 urone, le Rat, che Lahontan aveva conosciuto, un diretto prototipo del Nobile Selvaggio di Rousseau. Questo fine politico capo dei selvaggi critica la guerra come degenerata dalla razionalità civilizzata e la riporta a espressione di valore virile e, Aristotele delle foreste, non si sogna neppure di condannare la schiavitù. Il filosofo urone di Lahontan non è l’unico a bacchettare i civilizzati e viziosi europei: come nel Rinascimento i cannibali brasiliani erano serviti da prototipo utopistico, gli indiani del nord servono ai philosophes illuministi per criticare la propria società. «Sois donc Iroquois, si tu veux être hereux» (sii dunque irochese, se vuoi essere felice), scriveva in Les Lettres iroquoises (1752) J.H. Moubert de Gouvest. Dal canto suo Voltaire, nel 1767, sceglieva un urone per il suo Candide, ingenuo viaggiatore che a Parigi conosce il dolore della vita, critica il formalismo della morale e della religione e infine diventa uno stimato ufficiale e uomo colto, che l’educazione selvaggia giovanile preserverà dall’influenza dei pregiudizi. Come la Francia rinascimentale con Montaigne aveva eletto i cannibali brasiliani a portavoce filosofici, così i cannibali iroquiani sono scelti dagli illuministi per la loro battaglia contro l’Ancient Régime e per esplorare i rapporti tra natura e cultura. Bibliografia essenziale Abler, T. S., “Iroquois Cannibalism: Fact Not Fiction”, Ethnohistory 1980, 27/4:309-315; Arens, W., The Man-Eating Myth: Anthropology & Anthropophagy, New York, NY, 1979; Colden, C., A History of the Five Indian Nations Depending on the Province of New York in America, Ithaca, NY, 1958; Abler, T. S., “A Mythical Myth: Comments on Sanday’s Explanation of Iroquoian Cannibalism”, American Anthropologist 1988, 90:967-969; Harris, M., Cannibali e re, Milano 1984; Knowles, N., The Torture of Captives by the Indians of eastern North America, (1940) in Iroqraft Indian Reprints, Ohsweken, Ontario, Canada 1985; Lahontan, baron de, Dialoghi con un Selvaggio d’America, Pisa 1995; Lestringant, F., Cannibals. Berkeley, CA, 1997; Richter, D. K., The Ordeal of the Longhouse. The Peoples of the Iroquois League in the Era of European Colonization, Chapel Hill, NC, 1992; Trigger, B. G., Natives and Newcomers. Canada’s “Heroic Age” Reconsidered, Montreal, 1994; Wallace, A. F. C., The Death and Rebirth of the Seneca, New York, NY, 1972. HAKO estate 2004 Particolare di una pala di altare col sacrificio del martiri gesuiti. Mostra sulla Nouvelle France, Canadian Museum of Civilisation, Ottawa, Canada. A p. 42: Anello dato dai gesuiti agli indiani con il segno dell’ordine. 45 Cannibali estate 2004 Sopra: Pueblo Bonito a Chaco Canyon. “Lucidature da pentola” su una costola umana possono essere un indizio di cannibalismo: le ossa rotte e bollite per estrerne il midollo strisciano contro le ruvide pareti della pentola, pulendo e ammorbidendo l’osso circostante. Tali segni si trovano spesso nelle ossa del Sudovest. L’osso qui presenta anche le abrasioni causate dallo sfregamento dello stesso contro una roccia per spezzarlo. 46 HAKO estate 2004 Sudovest Pacifici, cannibali anasazi! Fame, stregoneria, controllo sociale e patologia: spiegazioni e testimonianze sul cannibalismo nel Sudovest preistorico degli Stati Uniti. Maya Judd I pueblo: studi recenti rivelano un differente Sudovest. Negli Stati Uniti il Sudovest comprende tutta l’Arizona e il Nuovo Messico, gran parte del Colorado meridionale e dello Utah. Antropologia, linguistica, archeologia ed ecologia assegnano a questa regione anche il territorio settentrionale e nord occidentale dell’attuale Messico. L’archeologia ha dimostrato che gruppi di cacciatoriraccoglitori dalla cultura assai simile, ma organizzata in sottogruppi regionali, abitano l’area da almeno 11.000 anni. Con il passare del tempo si evolsero tre gruppi, ciascuno su territori culturalmente distinti, anche se tutti finirono per coltivare il mais in aggiunta alla caccia e alla raccolta: le culture archeologiche degli anasazi, degli hohokam e dei mogollon. I ricercatori studiano il Sudovest da più di un secolo e col tempo questa zona si è definita come una terra di piccoli villaggi indipendenti chiamati dagli spagnoli “pueblo” (villaggio). Il Sudovest è stato a lungo considerato una notevole eccezione alla tendenza umana alla violenza, alla guerra e all’ordine sociale tramite questi metodi. Molti studiosi sostengono che i pueblo mantennero piccole comunità pacifiche, mentre contemporaneamente erano in grado di costruire complesse strutture architettoniche, di impor- tare pietre rare, piume e altri oggetti e di organizzare complesse reti regionali. Vedono benevoli re nei ripidi villaggi sulle falesie di Mesa Verde e pacifici indiani nelle Grandi Case di Chaco Canyon. Negli Stati Uniti in generale si pensa che i popoli pueblo vivessero in modo pacifico e armoniosamente spirituale, e sono spesso indicati come un esempio utopistico di valori comunitari e di un idilliaco stile di vita. Tuttavia, è sempre più evidente un altro punto di vista sull’antico Sudovest. Gli archeologi scoprono il cannibalismo Studi archeologici recenti e resoconti etnostorici fanno capire che il Sudovest preistorico non era così pacifico come si supponeva in precedenza e offrono un quadro più realistico del passato della regione, in cui la lotta per la sopravvivenza spesso sfociava nell’aggressione e nella guerra e talvolta ciò significava mangiare altri esseri umani. Una realtà in cui il potere politico era ottenuto tramite un controllo sociale violento e, in qualche caso, perfino patologico. Un passato dove le città cerimoniali facevano rispettare il loro potere con atti di violenza e anche cannibalismo. Le prove presentate a proposito del cannibalismo, anche se in modo un po’ polemico, dagli archeologi, tranne una o due eccezioni, si concentrano all’in- 47 terno dell’area culturale anasazi. Questa distribuzione ristretta delle testimonianze nell’area è localizzata principalmente all’interno o nei pressi dei siti Chaco, sia dentro Chaco Canyon (il centro dell’universo anasazi) che nei siti chacoani periferici (copie più piccole dell’architettura monumentale Chaco, connesse da una rete di strade a Chaco Canyon). Le prove archeologiche puntano anche a uno specifico periodo di tempo, più o meno dal 900 dopo Cristo al 1300 circa. Gli archeologi Turner e Turner ipotizzano un Sudovest governato da cultisti religiosi che esercitavano il controllo sociale tramite il cannibalismo. Brew, lavorando su resti funerari sulla Burnt Mesa, indica scoperte simili a quelle dei Turner: il tipo di segni sulle ossa, prove di arrostimento di crani, rotture sospette e tagli che indicano uno sforzo umano cosciente di estrarre prezioso midollo. I resti sono stati associati anche al processamento del corpo legato a diverse forme di sacrificio umano rituale e di cannibalismo in Mesoamerica. Anche se il sacrificio umano e il cannibalismo in Messico sono molto più antichi che in Sudovest, il tipo di danno perimortem è simile, come pure il tipo di conservazione e i contesti in cui sono state trovate le ossa. Mentre l’archeologia identifica sempre più differenti generi di Sudovest, gli studiosi hanno cercato risposte diverse a domande come: “È esistito Cannibali estate 2004 qui il cannibalismo e perché?” “Questi episodi di cannibalismo rappresentano uno sviluppo locale o un comportamento esotico introdotto?” “Chi erano i cannibali?” “Perché si nutrivano di uomini, donne e bambini?” (Turner, Turner 1999:459). L’idea che il cannibalismo sia esistito è sostenuta da parecchi archeologi, anche se sono state proposte varie spiegazioni per giustificare i brutali massacri e il possibile consumo di altri esseri umani. Spiegazioni e ragioni dietro il cannibalismo Sembra che il cannibalismo, nonostante il diffuso tabù, il folklore e le tradizioni orali contrarie, sia esistito in tutto il mondo, anche se per ragioni diverse. In generale, il cannibalismo è stato diviso in due categorie: l’endocannibalismo, che vede mangiare i membri della propria famiglia, gli amici e i vicini e l’esocannibalismo, che si nutre di stranieri e nemici. Sembra che la seconda categoria sia proibita con meno forza. Forse, come afferma Gibbons (1997:13), «Il cannibalismo è un fenomeno naturale, culturale e psicologico che è talvolta istituzionalizzato, anche se di solito ciò non avviene, e che i paleoantropologi pensano sia presente fin dalla più antica preistoria della nostra specie e di quelle a noi strettamente affini»: La parola cannibale deriva dal nome degli indiani caribi e si riferisce sia a una persona o a qualsiasi altro organismo che mangia la carne dei suoi simili. Esistono prove dell’esistenza del cannibalismo in tutto il mondo. Gli aztechi usavano il termine tlacatlaolli, “uomo-mais”, tra le molte parole che si riferivano al cannibalismo, per riferirsi a un «sacro pasto di carne umana sacrificata, cotta con il mais» (Turner, Turner 1999:3). Che l’umanità abbia praticato il cannibalismo è fuor di dubbio, ma le spiegazioni sul perché era o è praticato variano. Una ragione comune per gli atti di cannibalismo sembra sia la fame, che dà luogo al cannibalismo d’emergenza. Casi di questo tipo sono stati notati sia nelle crisi di carestia degli inuit che in casi più recenti, come quelli dei sopravissuti dei pionieri intrappolati Le teste umane sembrano essere state arrostite a faccia in sù su fuoco basso per cuocere il cervello come risulta dall’apparenza gessosa di questo teschio femminile di La Plata River che presenta anche segni di taglio. A p. 47: Le kiva a Pueblo Bonito, Chaco Canyon. sul Donner Pass durante la migrazione in California nel XIX secolo che quelli del disastro aereo sulle Ande del XX secolo. Si pensava all’inizio che la carne umana come fonte di cibo fosse una delle ragioni primarie del fenomeno (e non sarebbe diverso nel Sudovest), anche se studi successivi si sono orientati più sugli aspetti culturali e comportamentali piuttosto che sulle spiegazioni ambientali. In realtà, riguardo al Sudovest, Turner e Turner hanno messo in rilievo gli inverni molto più rigidi nell’area Mogollon, e anche l’assenza di esempi di cannibalismo in quell’area, il che rende la fame una spiegazione piuttosto dubbia per supposti atti di cannibalismo nel Sudovest (1999:8). Gli stessi autori propongono la sociobiologia e la psicologia evolutiva come spiegazioni dietro il cannibalismo. Turner e Turner sono d’accordo con Edgar e Crespi, che commentano: «Se si presume che il cannibalismo (o almeno l’esocannibalismo) faccia parte della violenza e dell’aggressività umane, allora il punto di vista evolutivo è che il comportamento cannibale può essere adattativo in certe condizioni, com’è nelle strategie riproduttive di certe specie di coleotteri, api e altri invertebrati e certe specie di pesci, 48 anfibi, uccelli, roditori e primati non umani» (1999:461). In generale, il cannibalismo avviene dove simultaneamente vi è guerra e/o violenza e di solito mangiare carne umana non è considerato moralmente malvagio quando non è praticato su membri del proprio gruppo. In altre parole, l’esocannibalismo non solo protegge quelli del proprio gruppo e distrugge gli altri, ma può anche fornire una necessaria fonte di cibo e quindi si può considerare come una strategia evolutiva per continuare a riprodursi all’interno di un gruppo specifico. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato anche che esista una base universale, evolutiva e neurologica per l’aggressività. A proposito del Sudovest, un’analisi dei particolari motivi basati su spiegazioni psicologiche o sociali sono difficili da sostenere, dato che i rapporti di parentela sono difficili da distinguere solo con l’aiuto dell’archeologia e così non è chiaro chi mangiava e chi era mangiato. Una terza spiegazione data dagli studiosi sul cannibalismo è il suo uso come elemento rituale. In certe parti della Cina, mangiare i propri cari defunti è un modo cerimoniale di dimostrare rispetto e amore verso di loro. In Brasile certi riti cannibalistici vengono eseguiti per ottenere forza e potere dalla vittima sacrificale. In realtà, il cannibalismo come elemento rituale in genere riguarda la trasmissione di qualità dai morti ai vivi. La spiegazione del cannibalismo come controllo sociale è strettamente connessa al cannibalismo rituale: come narra Herman Helmuth (1973:56), atti di cannibalismo possono essere motivati da «spregio, vendetta, furia e odio, timore del ritorno e della vendetta del morto (in questo caso l’evento può essere accompagnato dalla tortura e/o ingestione di parti del corpo mentre la vittima è costretta a guardare, come rappresaglia di un torto perpetrato dal popolo della vittima), punizione per un crimine o come sentimento di amicizia». Turner e Turner (1999) ipotizzano che i seguaci di un culto della Mesoamerica che migrarono verso nord abbiano trovato il cannibalismo un utile strumento per dominare e controllare gli anasazi del Sudovest. HAKO estate 2004 Ma nella patologia sociale e la psicopatologia si trovano altre spiegazioni: infatti, nella nostra società, la maggior parte dei casi di cannibalismo sono legati a psicopatici, da Albert Fish a Jeffrey Dahmer. Questi impulsivi e spietati cercatori di emozioni ignorano o violano completamente standard sociali e legali. Gli psicopatici hanno spesso istinti predatori, guidati da una natura egoista e sono completamente privi di coscienza. I sociopatici, d’altro canto, ignorano norme e leggi, ma lo fanno in modo più discreto, furtivo. La società spesso li chiama “perdenti” o “solitari” dato che tendono a lavorare nell’ombra (Machove 1998:68). Turner e Turner ipotizzano l’esistenza di una sorta di patologia sociale (che può essere avvenuta nel Sudovest) che nasce negli individui, ma può diffondersi come il comportamento di una folla o di un culto religioso sotto la guida di leader sociopatici. L’idea è che il comportamento di un individuo, che sia socialmente distruttivo, si può diffondere ad altri, per esempio, nelle gang, nei linciaggi e durante gli avvenimenti sportivi (Turner, Turner 1999:462). Gli autori commentano: «Il comportamento patologico di gruppo conduce inevitabilmente a considerazioni di culto religioso, che a sua volta fornisce l’ambiente favorevole al sorgere di persone socialmente patologiche». Essi pensano che, se modifichiamo il concetto di patologia sociale fino a comprendere la violenza istituzionalizzata o il comportamento sociopatologico, ci si può aspettare un culto guerriero cannibale. Butte, Arizona, nel 1901. Hough interpretò la scoperta di un piccolo deposito di ossa umane rotte e bruciate come un residuo di una festa cannibale. In quello stesso anno pubblicò un articolo su Harper’s Weekly, che per primo sostenne pubblicamente l’esistenza del cannibalismo nel Sudovest. Entrambi attribuirono la loro scoperta di ossa cannibalizzate alla carestia invece che a deliberate pratiche religiose. Infatti, «gli indiani del Sudovest all’epoca non praticavano il cannibalismo e questi studiosi lavoravano in un periodo di “cieco romanticismo” sul “nobile selvaggio”, perciò Il Sudovest cannibale Molti archeologi hanno dimostrato in modo concreto le pratiche di cannibalismo nel Sudovest, anche se per ragioni diverse. Le prime scoperte che portarono a ipotizzarlo si ebbero nel 1889, quando Gorge H. Pepper osservò empiricamente la possibilità dell’esistenza del cannibalismo in tempi preistorici a Chaco Canyon. Non pubblicò le sue scoperte fino a che trent’anni dopo, nel 1920, i funzionari dell’AMNH non lo pregarono di far conoscere almeno le sue note sul campo. Il suo contemporaneo Walter Hough scoprì tre individui a Canyon 49 probabilmente trovavano inconcepibile qualsiasi altra possibilità» (Turner, Turner 1999:105). Dopo questi primi studi il cannibalismo passò sotto silenzio, forse a causa di uno scarso interesse nella tafonomia1 umana: non fu che un secolo dopo circa che gli archeologi iniziarono a revisionare le ipotesi del passato e a cercare maggiori prove. Nel 1952 Watson Smith riprese l’ipotesi sulla base di un pozzo pieno di ossa umane disarticolate e nel 1970 Turner e Morris studiarono nuovamente una serie di ossa provenienti da Polacca Wash, traendo le stesse conclusioni. Nel 1976 Flinn, Cannibali Turner e Brew scavarono il sito LA4528 a Burnt Mesa nel Nuovo Messico nordoccidentale e giunsero alle stesse conclusioni: cannibalismo. Gli scavi a Polacca Wash e a Burnt Mesa diedero inizio a una nuova ondata di teorie e polemiche a fronte delle prove crescenti dell’esistenza del cannibalismo nell’antico Sudovest. Le ossa di Polacca Wash erano state scavate all’inizio da Alan Olson nel 1964 da un sito funebre multiplo nell’area hopi che conteneva solo estate 2004 sato, soprattutto sulla fronte e in modo massiccio, come pure la maggior parte delle mandibole. I denti anteriori sono regolarmente spezzati sia sulla mascella che sulla mandibola, come pure le cavità che sostengono l’osso alveolare, anche se i denti posteriori e di sostegno presentano solo danni minori. Ciò suggerisce che le facce furono fracassate mentre erano ancora coperte di carne, dato che il ramo mandibolare ascendente, e i muscoli massetere e buccinatore e il tessuto della guancia Sulle ossa collegate a fenomeni di antropofagia appaiono spesso profonde e ampie incisioni a forma di V ascrivibili a scarnificazione e non a combattimenti o accidenti. I segni su questa vertebra sono un buon indizio di cannibalismo. frammenti di ossa. Anche se la scoperta causò «eccitazione nell’ambiente archeologico e speculazioni sulle pratiche funerarie hopi, le ossa ricevettero un trattamento onorato e furono immagazzinate nel Museum of Northern Arizona» (Turner, Morris, 1970:320). Nel 1969 Turner le ritrovò, osservò l’insolito schema di frammentazione e cominciò a studiarle. Turner e Morris analizzarono con attenzione la sepoltura multipla che conteneva le ossa spezzate di almeno trenta individui (meno del 10% delle ossa erano intatte) e appartenevano a tutti i gruppi di età. I due studiosi osservarono che le rotture sembravano intenzionali, fatte quando l’osso era ancora vitale (perimortem). Notarono anche la mancanza di risanamento o di infezioni da ogni frattura o taglio, commentando: «Ogni teschio è fracas- avrebbero contribuito a proteggere i denti posteriori dai colpi che fracassarono i denti anteriori e la faccia» (Turner, Morris, 1970:321). Sembra che alcuni crani abbiano ricevuto almeno 20-25 colpi. Questi studiosi, per sostenere la loro teoria, indicano la presenza non solo della mutilazione facciale, ma anche la testimonianza delle ossa bruciate e l’indiscutibile smembramento dei corpi. Infatti c’è la prova del taglio e la frattura delle parti terminali distali e proximali, dei condili dei processori e delle superfici articolari e sembra che in molti casi i piedi siano stati rimossi dalla parte inferiore delle gambe. Oltre a ciò, i frammenti delle costole erano tutti di lunghezza uniforme, circa 10 cm., un fatto interessante se si considera che i moderni hopi tagliano le ossa da cuocere o fare lo stufato in pezzi di 50 circa 10 cm.. In breve, questi autori ipotizzano che «questi individui incontrarono una morte traumatica, probabilmente sul luogo della loro sepoltura, quando ciascuno venne mutilato, smembrato e ridotto a piccoli pezzi. Ripetuti colpi traumatici alla testa e al volto possono essere stati ritenuti necessari da parte degli aggressori per provocare la morte» (Turner, Morris, 1970:327). Il massacro sembra seguire da vicino un racconto tradizionale hopi sulla distruzione di Awatobi, a opera dell’alleanza di cinque villaggi hopi che si unirono con successo per distruggere un sesto villaggio, fiorente per il commercio con gli invasori spagnoli e altre tribù, dopo la grande Rivolta Pueblo del 1680. Secondo la storia, i prigionieri vennero portati verso i villaggi dei vincitori, ma durante il cammino furono messi a morte, smembrati e brutalmente mutilati. Il racconto narra che le vittime furono uccise per ridurre il conflitto che sorgeva dalla divisione dei prigionieri tra i villaggi. Il luogo e la natura della sepoltura di massa sembrano combaciare con la storia della distruzione di Awatobi. Anche se questo sito funebre pare appoggiare un’ipotetica situazione di cannibalismo, è anche vero che esistono altri casi di smembramento tra i pueblo in cui non avvenne necessariamente il divoramento del corpo. Day (1964:351) racconta la storia di Esteban il Moro, che fu mutilato e smembrato dagli zuni del Nuovo Messico per timore che fosse uno stregone. Il suo corpo fu tagliato in molti pezzi e distribuito tra vari capi per dimostrare il fatto che era mortale. I membri hopi della società Kwan smembravano regolarmente le streghe (maschi e femmine) se venivano scoperte nel villaggio durante l’iniziazione tribale (Titiev, 1944:135). In effetti alcuni archeologi, pur d’accordo con il fatto che nel Sudovest esistesse uno stato di guerra e violenza cronici, preferiscono spiegare i resti umani mutilati come battaglie rituali e brutali contro la stregoneria. Perciò, anche se non esisteva crimine più orrendo della stregoneria nel Sudovest e le vittime accusate di praticarla fossero spesso macellate, HAKO estate 2004 non erano necessariamente divorate. Walzer commenta (1999:52): «fare a pezzi e smembrare il corpo di una strega poteva servire a sfogare l’aggressività della comunità, neutralizzare il potere della strega, umiliarlo pubblicamente serviva da lezione anche per altre streghe clandestine». Così il dibattito continua, a proposito delle testimonianze da Polacca Wash e Burnt Mesa, se le vittime, anche se brutalmente assassinate e smembrate, furono in seguito mangiate oppure no. Due archeologi che credono fermamente che nel Sudovest sia esistito il cannibalismo, soprattutto in area anasazi, sono Turner e Turner che, dopo «trent’anni di scavi e ricerche e riesame dei resti scheletrici provenienti da 76 siti situati su tutto il territorio anasazi (che aveva il suo centro a Chaco Canyon), forniscono importanti prove sul cannibalismo come evento comune» (Turner, 1999:49). Turner e Turner affermano che negli studi su Polacca Wash e Burnt Mesa vennero formulate ipotesi inconcludenti dall’osservazione soltanto del danno macroscopico, «quello che che si può vedere a occhio nudo» (ibidem :7). Nella loro investigazione su larga scala, questi autori portarono avanti sia esami microscopici di routine sia tentarono di costruire una schema teorico che spiegasse meglio come e perché avvenne il cannibalismo. L’analisi delle ossa, più accurata attraverso il microscopio, rivelò che i segni dei tagli indicavano che le ossa erano state scarnificate allo stesso modo in cui la carne è tagliata negli animali cacciati. Gli archeologi conclusero che in molti casi «le ossa lunghe delle braccia e delle gambe furono spezzate per estrarne il midollo o bollite per ricavarne il grasso. Le teste decapitate furono arrostite a faccia in su sui carboni ardenti, poi fracassate per aprirle, a quanto pare per estrarre il cervello cotto» (Turner, 1999:49). La loro analisi tafonomica esplorò come gli assemblaggi di ossa furono depositati e danneggiati dopo la morte ed essi conclusero che gli esseri umani avevano procurato la maggior parte Una delle famose porte a T a Pueblo Bonito, Chaco Canyon. dei danni. Per esempio, essi osservarono la cosiddetta “lucidatura da pentola” sui frammenti umani, un modo in cui le ossa possono essere cambiate dal cannibalismo. Sono stati fatti esperimenti bollendo ossa rotte di animali in pentole di ceramica, un tempo un modo comune di estrarre grasso e sego dalle ossa. La “lucidatura da pentola” è il risultato dello sfregamento dei frammenti ossei contro le pareti grezze della pentola, che finisce per lucidare e ammorbidire le estremità ossee, un particolare che fu notato anche sui resti umani osservati da Turner e Turner. I ricercatori ottennero uno straordinario successo nel 1993, quando divenne chiaro che i siti in cui erano avvenuti i supposti episodi di cannibalismo non erano sistemati a caso. Mentre non esistevano prove di cannibalismo nella regione Mogollon dove, come abbiamo già detto, «inverni rigidi avrebbero dovuto produrre qualche genere di cannibalismo se le carestie fossero state la causa principale», quasi tutti i siti si concentravano nella regione Anasazi (Turner, Turner 1999:8). Turner e Turner cominciarono perciò a eliminare le motivazioni 51 di emergenza alimentare e cominciarono a considerare spiegazioni del cannibalismo di natura più culturale e di comportamento. La loro spiegazione combina sia ragioni di controllo sociale e sacrificio rituale che di patologia sociale. Una situazione che in ultima istanza cominciava in Messico. Secondo la ricostruzione di questi archeologi (Turner, Turner, 1999:46263), «intorno al 200 a. C. si sviluppò la cultura di Teotihuacan, centralizzata e stratificata, con il sacrificio umano connesso in modo minimo con la Piramide del Sole. Già nel 300 d. C. Teotihuacan dominava gran parte del Messico centrale, ma intorno al 650 d. C. la città fu saccheggiata e distrutta. Allora i toltechi emersero come Cannibali potenza regionale, ma, intorno all’anno 1000, la loro teocrazia militarista a sua volta crollò. Scoppiò una guerra civile tra i toltechi e, con la caduta della capitale, Tula, nel 1170 circa, l’anarchia regnò nel Messico centrale fino al 1350 circa, quando gli aztechi stabilirono la loro capitale a Tenochtitlàn». I Turner ipotizzano che con il crollo della città stato tolteca, seguaci di culti religiosi guerrieri, preti, pellegrini, commercianti e altri gruppi coinvolti nella guerra civile, o che fuggivano da essa, possono aver emigrato a nord verso il Sudovest degli attuali USA. In questo modo avrebbero portato con sé una serie di tratti culturali mesoamericani, tra cui il cannibalismo rituale, che gli immigrati possono aver usato per terrorizzare e dominare gli indiani della regione. Questi studiosi (1999:465-66) specificatamente pensano che nell’area Chaco un gruppo di questi messicani siano «stati in grado di usare queste pratiche a fini di controllo sociale, terrorizzando e sottomettendo la popolazione locale e sviluppando il sistema sociale gerarchico che vediamo riflesso nell’architettura regionale (...) In certo modo la loro pratica di violenza e cannibalismo, per quanto efficace strumento di controllo sociale, virò nella patologia sociale, che noi crediamo caratterizzasse questi culti nello stesso Messico». La stessa situazione, secondo i Turner, non si sviluppò nelle altre due regioni, perché i mogollon erano «troppo sparpagliati e “selvaggi” e le loro risorse naturali concentrate in modo insufficiente per renderli facile bersaglio da soggiogare sotto un potere centrale». Gli hohokam erano già politicamente stabili, troppo perché un piccolo gruppo di immigrati potesse minacciarli seriamente. D’altro canto l’area chaco-anasazi possedeva sia una serie di risorse che una popolazione relativamente ampia con scarso controllo sociale, dove una difesa efficace era difficile da organizzare, anche contro un gruppo di immigrati relativamente poco numeroso o, meglio, «seguace di un culto guerriero organizzato» (Turner, Turner 1999:469). Per dimostrare la presenza di messicani i Turner ricordano sia le somiglianze tra figure religiose anasazi e mesoa- estate 2004 Tower Pueblo a Mesa Verde, CO. A p. 51: Merci di lusso e ceramica anasazi. Museo di Pecos, Nuovo Messico. mericane sia i crani umani trovati a Chaco Canyon con modificazioni dentali intenzionali, una caratteristica messicana, non degli indiani del Sudovest. In particolare ricordano gli dei messicani Quetzalcoatl e Xipe Totec, che sembrano essere rappresentati in area anasazi sia con scene sulle ceramiche, oggetti e pratiche religiose che con dipinti nelle camere cerimoniali (kivas) che mostrano aspetti delle due antiche divinità messicane. È interessante notare che entrambi gli 52 dei sono connessi con il sacrificio umano, in particolare Xipe Totec, che sembra trovare nel Sudovest un forte parallelismo nel dio hopi Masauw. Entrambi gli dei indossano la pelle delle vittime sacrificali . Ulteriori prove, almeno sulla presenza dei messicani nel Sudovest, anche se non provano in modo diretto la pratica del cannibalismo, sono le mandibole con trasformazioni dentali intenzionali. Trovare denti trasformati intenzionalmente nel Sudovest è estremamente HAKO estate 2004 raro, mentre la modificazione dei denti in Mesoamerica è una caratteristica antica. I Turner suggeriscono che gli individui scoperti in Arizona e in Nuovo Messico in realtà provenivano dal Messico. Le prove di un’effettiva presenza messicana, le raffigurazioni estremamente simili di divinità connesse con il sacrificio umano e gli esami al microscopio dei frammenti ossei diffusi su un’area specifica del Sudovest, tutto portò i Turner a concludere che degli appartenenti a un culto guerriero emigrati a nord dal Messico usarono pratiche di cannibalismo come mezzo di controllo sociale. Terrorizzando gli oppositori e cuocendo e mangiando le loro vittime, instillarono un timore che non poteva essere superato facilmente. Gli autori commentano «Logicamente, il cannibalismo avrebbe potuto avere un potenziale adattativo che ai tempi degli anasazi non richiedeva nessuna nuova tecnologia, né un aumento del numero dei guerrieri e nessuna nuova abilità. I benefici, da un punto di vista socio-biologico ed evolutivo, sarebbero stati tre: controllo comunitario, controllo del comportamento riproduttivo (accesso dominante alle donne) e cibo» (Turner, Turner 1999:477). In altre parole, gli autori credono che da un punto di vista socio-biologico, il cannibalismo possa essere considerato un comportamento utile che aumentava le possibilità di sopravvivenza da parte dei guerrieri-sacerdoti messicani. D’altro canto, le loro pratiche cannibaliche, usate per umiliare e terrorizzare vittime indifese si possono considerare come socialmente patologiche, «devianti, distruttive, dannose, contagiose e anche maladattate”. Ciascuna prospettiva ha la sua logica; quello che può danneggiare a un livello di organizzazione biologica può essere benefico a un altro. Quello che è male per un gruppo (quelli divorati o intimiditi) è buono per un altro (i ben nutriti vincitori)» (Turner,Turner 1999:481). Qualsiasi siano le spiegazioni dietro la presenza di cannibalismo in area anasazi nel periodo tra il 900 e il 1300 della nostra era, i Turner propongono un’argomentazione convincente e prove concrete. Conclusione Si può concludere, senza ombra di dubbio, che il Sudovest non era il luogo pacifico e idilliaco che l’opinione popolare ha creduto così a lungo. Sono state accumulate prove più che sufficienti a sostegno dell’idea che il Sudovest era come qualsiasi altro posto abitato da esseri umani, un luogo caratterizzato da guerra e violenza, timore dell’ignoto, della magia e della stregoneria. Il Sudovest preistorico ha finalmente iniziato a rivelare la sua vera natura agli archeologi, esponendo il lato brutale e violento della natura umana. Che il lato crudele dell’umanità possa spingersi fino a mangiare i propri simili è dimostrato dalle prove raccolte da archeologi come Brew, Flinn, Morris, Turner e Turner. Hanno disseppellito un mistero che non è accettato facilmente per la sua crudezza, ma il carattere concreto delle prove non si può ignorare. I segni di coltello sulle ossa fatti intenzionalmente sono uguali a quello prodotte sulle ossa della selvaggina, la “lucidatura da pentola” su frammenti ossei, la curiosa misura dei frammenti di costole simile a quella delle ossa cotte dai moderni hopi, le somiglianze dei simboli religiosi e gli dei connessi con il sacrificio umano tra il Sudovest e la Mesoamerica, la prova della presenza degli antichi messicani, famosi per le pratiche di cannibalismo rituale. Forse non sapremo mai se i corpi furono smembrati non solo come reazione alla stregoneria, ma per rendere la cottura del corpo più facile. Forse non sapremo mai se il cannibalismo, se avvenne, fosse dovuto alla mancanza di cibo, per evitare la morte 53 per fame, o fosse usato come metodo di controllo sociale, cominciato forse con alcuni individui sociopatici o anche per garantire, evoluzionisticamente, la sopravvivenza del più forte. Ma è importante che restiamo aperti a ogni possibilità, per quanto orribile, e che non cerchiamo consolazione in visioni utopiche di città armoniose che non sono mai esistite e non esisteranno mai. Bibliografia essenziale Flinn L., Turner C. G. II, Brew A., “Additional Evidence for Cannibalism in the Southwest: the Case of LA4528”, in American Antiquity vol. 41, no. 3, 1976; Gibbons A., “Archaeologists Rediscover Cannibals”, in Science, agosto 1997; Lekson S. H., “War and Peace in the Southwest”, in Discovering Archaeology, maggio-giugno 1999; LeBlanc S. A., “Violence in the Prehistoric Southwest. A New Look at the Abandonment of Mesa Verde”, in Discovering Archaeology, maggio-giugno 1999; Turner C. G. II, “A Reign of Terror. Butchered human bones point to cannibalism in Chaco Canyon”, in Discovering Archaeology, maggio-giugno 1999; Turner C. G. II, Turner J. A., Man Corn. Cannibalism and Violence in the Prehistoric American Southwest, Salt Lake City, UT, 1999; Turner C. G. II, Morris N. T., “A Massacre at Hopi”, American Antiquity, vol. 35, n. 3, 1970; Walker W. H., “Withchcraft, Bloody Purges of Black Magic may explain evidence of Southwestern Violence”, in Discovering Archaeology, maggio-giugno 1999. Cannibali estate 2004 Macuina, capo principale dei Nootka, disegno di Tomas de Suria, Spedizione Malaspina, 1791. 54 HAKO estate 2004 Costa Nordovest Hic sunt cannibales Il dibattito sulla presenza del cannibalismo nella Costa Nordovest e sulle possibili motivazioni. Lucia Biella Un tema poco dibattuto e controverso della cultura dei popoli della Costa Nordovest dell’America settentrionale è quello della pratica del cannibalismo. La questione è stata recentemente risollevata da Jim McDowell che nel 1997 ha pubblicato Hamatsa, the Enigma of Cannibalism on the Pacific Northwest Coast. Egli stesso osserva come fino al 1980 sia stata data poca importanza alla questione e che, fino al 1960, si riteneva che la prima persona a descrivere tale pratica fosse stato il capitano inglese James Cook, approdato sulle sponde della costa Nordovest a Nootka Sound nel 1778. In realtà oggi è chiaro che gli scritti originali di Cook non contengono alcun diretto riferimento al cannibalismo dei nativi, ma che tali descrizioni erano del curatore dei suoi scritti postumi, pubblicati nel 1784 per ordine del re Giorgio III. I popoli costieri, che Cook e i suoi uomini incontrarono, erano principalmente dediti alla pesca del salmone, vivevano in lunghe case di legno abilmente decorate ed erigevano alti pali totem sulla spiaggia e davanti alle case stesse. Probabilmente questi popoli svilupparono la loro arte e i complessi rituali cerimoniali tra i 3.500 e i 4.000 anni fa. Arte e rituale rivelano la loro complessa struttura sociale. La visione nativa del mondo era vividamente espressa nel corso dei potlatch, cerimonie nelle quali veniva distribuita ricchezza, era confermato lo status sociale e convalidati l’ordine orizzontale e verticale della struttura sociale. La tribù incontrata da Cook era quella dei mowachaht, ma quando egli chiese loro come si chiamavano questi, non comprendendo la domanda, risposero “notkak” (intorno). Con questa parola gli indiani stavano spiegando a Cook che intorno al loro territorio vi era una stretta striscia di mare, ma da allora Cook iniziò a chiamarli nootka. Molti famosi navigatori ed esploratori seguirono Cook nelle sue spedizioni, tra essi John Ledyard, Heirich Zimmermann, William Bayly, David Samwell e Tomas Edgard riportarono in Europa resoconti sui popoli nativi in cui venivano descritte pratiche di cannibalismo. Nel 1785 il capitano e mercante James Strange ispirato dai racconti di Cook intraprese una spedizione verso la Costa Nordovest e nel giugno del 1786 raggiunse il territorio nootka. Nella sua intensa attività di commercio di pellicce di lontra marina con i popoli nativi egli tenne un diario in cui annotò la presenza di una barbara pratica di cannibalismo simile a quella presente sulle isole Sandwich (oggi Hawaii). Egli affermò che tale pratica era rivolta ai nemici uccisi in guerra ed era segreta. Questo probabilmente significava che non erano atti condivisi da tutta la popola- 55 zione. Strange volle dimostrare che i dubbi di Cook e dei suoi uomini erano fondati, ma in realtà non riuscì a fornire solide prove. Maggiori certezze vennero fornite da un assistente di Strange, Alexander Walker. Egli era dell’opinione che la pratica del cannibalismo fosse presente, ma non nel senso esteso del termine: per Walker non si trattava infatti di cannibalismo gustatorio, legato cioè a ragioni alimentari o gastronomiche, ma di una forma diversa che colpiva solo i nemici. Un altro assistente di Strange, il ‘Doctor’ John MacKay nel 1786 fu il primo europeo a vivere presso i nativi durante l’inverno, periodo in cui essi praticavano le più importanti cerimonie. MacKay era dell’opinione che essi non divoravano i nemici, ma che ne conservavano le parti per rituali segreti. Dopo aver sentito le riflessioni di MacKay, Hunter iniziò a mettere in dubbio l’esistenza del cannibalismo tra i nativi. Da qui le contraddizioni circa la presenza o meno di cannibalismo tra gli indiani. Infatti, solo la testimonianza di Walker aveva fornito una prova oculare di tale pratica, ma egli la smentì. In seguito, tutte le precedenti testimonianze non fornirono dirette evidenze di cannibalismo gustatorio, non chiarirono i motivi di tale pratica e non ne dimostrarono la presenza sull’intero territorio della Costa Nordovest. Parti di danze cerimoniali e di Danze Cannibali estate 2004 “Festa celebrata dai nootka per Macuina”, disegno di José Cardero, 1792 (particolare). del Cannibale furono osservate da Hoskins, Boit, MacKay, Jewitt, Sproat e Jacobsen. Ad eccezione di Jewitt e probabilmente di Jacobsen, nessuno di loro vide l’intera cerimonia. Nessuna delle testimonianze dei navigatori europei parla di cannibalismo rituale. Tale pratica, simulata o reale, è stata probabilmente mal interpretata dai naviganti europei che non avevano familiarità con questi concetti e che non conoscevano l’essenza culturale dei popoli nativi. Da queste riflessioni emerge che la specifica pratica del cannibalismo gustatorio non esisteva, ma le testimonianze storiche ed etnografiche non hanno definitivamente stabilito se fosse praticato il cannibalismo rituale. È da notare che gli storici contemporanei Archer e Fisher, che si sono occupati di questo argomento, non avvalorano la tesi del cannibalismo gustatorio, ma confermano l’esistenza di cannibalsmo rituale presso i popoli della Costa Nordovest. Il prof. Archer (1980) descrive i miti e la Danza del Cannibale; Fisher (1982) descrive i drammatici effetti del cannibalismo rituale in cui venivano visualizzate parti del corpo del nemico. In altre parole i nativi non praticavano il cannibalismo gustatorio, ma il cannibalismo rituale. Il cannibalismo rituale era praticato durante le cerimonie invernali. Il periodo sacro dell’inverno andava da settembre a marzo e in tale tempo si arrestavano tutte le attività stagionali come la pesca e la caccia ed avevano luogo le cerimonie importanti legate alla vita spirituale della comunità. Nel periodo invernale si rappresentavano i drammi mitici e gruppi di danza o danzatori singoli si esibivano con le loro maschere. Alle cerimonie potevano partecipare solo i nobili e, come per il potlatch, gli uomini comuni erano tollerati solo come spettatori. L’ordine sociale veniva soppresso: le società segrete prendevano il posto di clan e lignaggi. Esse erano organizzate gerarchicamente ed accoglievano solo i membri delle famiglie nobili; si componevano di individui suddivisi per classi di età e per accedervi era necessario un rito di iniziazione che prevedeva digiuni 56 e mortificazioni. La più importante e rispettata delle società segrete era l’Hamatsa, che possedeva particolari danze rituali. In essa vi erano i capi dei lignaggi più elevati e ciascun iniziato possedeva nomi particolari. Poiché durante le cerimonie venivano eseguiti atti di cannibalismo, l’Hamatsa era anche chiamata la società del Cannibale. Se la prima fase di contatto con i navigatori europei fu per i nativi un periodo di scambi commerciali e di benessere economico che garantì loro la continuità della cultura tradizionale, la seconda metà del XIX secolo fu un periodo di grandi sconvolgimenti economici e sociali. Il movimento di repressione, guidato dagli ufficiali governativi, vietò le pratiche native: venne eliminata la schiavitù, proibiti la poligamia, i potlatch e le cerimonie del periodo invernale. Inoltre, alcool e malattie decimarono la popolazione della Costa Nordovest e portarono gli indiani sull’orlo dell’estinzione fisica. Il forte ordinamento sociale fu comunque un fattore determinante di coesione sociale e di opposizione alla politica di assimilazione dei nativi. Gli spettacolari potlatch e le feste del periodo invernale continuarono ad aver luogo segretamente fino al 1951, anno in cui vennero in parte ripristinate. Tra il 1886 e il 1931 Franz Boas compì un approfondito studio sulla cultura degli indiani della Costa Nordovest e ne ricostruì i cardini principali. Boas con il suo assistente nativo, George Hunt, collezionò più di 10.000 pagine sulle idee tradizionali e sui valori degli indiani della Costa Nordovest. Il suo scopo era quello di ricostruire la cultura tradizionale usando informazioni ottenute dalla memoria dei più anziani e riguardanti le vestigia di un recente passato. Malgrado la grande massa di dettagli che accumulò in particolare sui kwakiutl, Boas fu abile a desumerne un quadro unificato della complessa cultura nativa. Egli trascrisse il loro linguaggio, studiò le leggende e l’arte tradizionale e descrisse le danze cerimoniali che aveva osservato. Dalle numerose informazioni, egli concluse HAKO estate 2004 che alcune cerimonie che aveva visto rappresentare erano forme molto raffinate di cannibalismo rituale. Nel 1914 Boas evidenziò che la tradizione dell’Hamatsa ed i miti ad essa associati venivano tramandati da almeno 23 generazioni. Dai dati raccolti da Boas emerse la necessità di analizzare il significato psicologico, religioso o ideologico di tali cerimonie. In particolare venne analizzata la tradizione culturale kwakiutl, come esempio documentato di questo fenomeno. Molti degli studi basati sugli scritti di Boas sono ricerche sul campo condotte dopo il 1935, periodo in cui vennero studiate le modalità di adattamento dei nativi alle mutate condizioni sociali. Gli etnografi si servirono delle informazioni desunte dai pochi potlatch che poterono osservare e che ricordavano il vecchio stile di vita; ma nessuno di loro fu in grado di spiegare interamente il pensiero alla base delle cerimonie rievocate e delle leggende raccontate. Secondo Aaron Glass, dell’University of British Columbia Museum of Anthropology, la danza Hamatsa rappresentava simbolicamente il conflitto tra la società tradizionale kwakiutl e l’influenza europea, in essa erano inclusi aspetti positivi e negativi. Per M.Mead (1937) le cerimonie invernali insegnavano i principi base della sopravvivenza: come usare opportunamente il cibo e conservarlo, per non temere la fame. Il rituale del cannibalismo non era un costume gastronomico, infatti esso era aborrito in tutta la Costa Nordovest, ma era legato all’acquisizione della forza. Secondo Druker (1967) le cerimonie invernali avevano un profondo significato spirituale. Nel corso delle cerimonie venivano distribuiti i privilegi ereditari. Secondo Spradley (1953) le cerimonie riaffermavano i valori della cultura nativa e li trasmettevano da una generazione all’altra dando continuità all’ordine sociale. Nel 1972 egli curò l’autobiografia di James Sewid, un influente kwakiutl che preservò la danza cerimoniale nel periodo in cui era illegale. Ruth Benedict, allieva di Boas, nel 1934 avanzò la teoria che i nativi avessero un modo di vivere ‘dionisiaco’, che solleci- “Vista degli stretti di Salamanca a Fuca”. Disegno di José Cardero, 1792 (particolare). tava la ricerca di sensazioni trascendentali con eccessi di estasi. Benedict li descrisse come megalomani per la loro frenesia distruttiva e per il loro delirio di onnipotenza alla ricerca di sempre maggiore prestigio sociale. L’interpretazione più unitaria è probabilmente quella di Stanley Walens, professore di antropologia all’Università della Virginia. Egli aveva premesse diverse da quelle di Benedict ed aggiunse un nuovo punto di vista alle interpretazioni. Egli caratterizzò i kwakiutl nel loro trascendentale sentimento religioso come ‘apollinei’ e non ‘dionisiaci’. Nella sua visione essi cercavano l’ordine, non l’eccesso. Egli afferma che le danze sacre erano legate alle ricerca di purezza e controllo di sé, non all’estasi. I kwakiutl definivano la loro identità, la società ideale e il loro luogo nell’universo attraverso una serie di metamorfosi: assimilazione, nutrimento e cannibalismo. Come attività universale il mangiare forma le basi della moralità in una totale relazione e in un sistema di causalità significativamente diverso dal nostro lineare concetto del sé centrato. Il nutrimento è la forza motrice del mondo, scrive Walens, e l’universo kwakiutl era basato sul presupposto che alcuni esseri erano mangiati da altri esseri e così via. Il cibo tra i kwakiutl è per Walens la metafora delle relazioni sociali. Nel 57 1981 Walens scrisse che la Danza del Cannibale era una danza sacra, che da un lato era espressione di relazioni e poteri secolari da trasmettere e dall’altro esprimeva la relazione spirituale tra l’aspetto animale e quello umano dell’uomo, tra le forze cosmiche creatrici e quelle distruttrici. Bibliografia essenziale McDowell J., Hamatsa. The Enigma of Cannibalism on the Pacific Northwest Coast, Vancouver, 1997; Strange J., James Strange’s Journal and Narrative of the Commercial Expedition from Bombay to the North-West Coast of America, a cura di Ayyar V., Madras 1928; Archer C. I., “Cannibalism in the Early History of the Northwest Coast: Enduring Myths and Neglected Realities”, The Canadian Historical Review 56 (December):4, 453-79; Fisher R. and Bumsted J. M. (a cura), An Account of a Voyage to the North West Coast of America in 1785 & 1786 by Alexander Walker. Seattle, WA, 1982; Jewitt J., Narrative of the Adventures and Sufferings of John J. 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Curtis (particolare). 58 HAKO estate 2004 Costa Nordovest Credo che siano cannibali Affermato e poi negato, il cannibalismo della Costa Nordovest era radicato nella ritualità delle élite indigene e nelle loro società segrete. Lucy C. Moore Dopo essere stati ospiti di re e beniamini dei filosofi nel XVII e XVIII secolo, i cannibali nel Novecento non piacciono: tra il 1900 e il 1980 il cannibalismo è diventato un soggetto di ricerca proibito. La Costa Nordovest non fa eccezione: gli storici hanno minimizzato tale comportamento, quando non l’hanno del tutto taciuto, come un rituale antico e simbolico in cui i nativi fingevano di mangiare carne umana, oppure hanno accettato senza problemi i dinieghi degli indiani (vedi, per esempio l’influente studioso Philip Drucker, 1951, oppure l’assai controverso William Arens, 1979, le cui tesi si sono dimostrate infondate). Tuttavia, anche se il significato sfuggiva del tutto ai testimoni del XVIII secolo, «da nessuna parte nel mondo questi riti cannibalici erano sviluppati in modo più elaborato che tra gli indiani della Costa Nordovest» (McDowell 1997:xvii). Sforzandosi di essere politicamente corretti, anche a scapito dell’evidenza storica, alcuni studiosi hanno continuato a ignorare la massa di prove documentarie accumulata dal grande Franz Boas e dal suo collaboratore, l’antropologo indiano George Hunt. Boas lavorò nella zona tra il 1886 e il 1931, intervistando indiani che spingevano i loro ricordi fino al 1850 circa; cercando di ricostruire la storia indiana com’era all’inizio del XIX secolo, egli si concentrò sulla trascrizione delle lingue, la registrazione di un gran numero di miti e leggende e documentando interviste in cui gli indiani raccontavano eventi cui avevano assistito o di cui avevano sentito parlare in passato. Dato che Boas aborriva trarre conclusioni fino a che non aveva accumulato un’enorme massa di materiale, possiamo dar credito alla sua interpretazione dei dati, «secondo cui alcune delle cerimonie a cui aveva assistito rappresentavano una forma di cannibalismo rituale altamente raffinato» (McDowell 1997:130). George Hunt, il principale assistente di Boas, era figlio di un’aristo- 59 cratica tlingit e di uno scozzese che lavorava per la Hudson’s Bay Company e poi aveva rilevato il negozio della compagnia a Fort Rupert; quindi Hunt era stato allevato virtualmente come un kwakiutl, aveva sposato un’aristocratica kwakiutl, era stato Cannibali iniziato nella Hamatsa o Cerimonia del Cannibale di quella tribù e aveva partecipato ad alcune Hamatsa, anche se non era un membro attivo. All’inizio del Novecento Hunt, che aveva avuto il privilegio di tagliare a pezzi il cadavere e servirlo ai danzatori hamatsa, fu coinvolto in una retata della polizia canadese, che aveva proibito la cerimonia in seguito alla messa al bando di tutte le cerimonie potlatch, e messo in galera con l’accusa di mutilazione di cadavere. Al processo a Victoria, Columbia Britannica, i suoi amici capi kwakiutl testimoniarono in suo favore, sostenendo che in realtà non si era trattato di un cadavere, ma di un manichino molto realistico, mentre l’avvocato riuscì a convincere la giuria che uno dei poliziotti lo aveva incastrato e Hunt venne rilasciato. Poco dopo, però, i capi kwaliutl deliberarono pubblicamente che in futuro nelle cerimonie Hamatsa si dovevano usare solo manichini e che i morsi dati alle braccia degli spettatori dovevano essere simulati e non reali. Questo per raffreddare le polemiche di quella parte di tribù che era contraria alla cerimonia e che aveva fatto filtrare la notizia alla polizia. Oggi molti studiosi tendono ingiustamente a ignorare l’opera di Hunt, che resta la nostra migliore fonte sulla Costa Nordovest. Senza questo antropologo autodidatta l’opera monumentale di Boas non sarebbe stata possibile, perché spesso basata su testimoni nativi e tradizione orale. Gli archivisti, gli studiosi, gli intellettuali e gli artisti indiani, invece, affermano di avere un debito di gratitudine per l’opera di Boas e Hunt, che ha dato loro la possibilità di recuperare estate 2004 gran parte della loro cultura e del loro passato. La cerimonia Hamatsa I kwakiutl (che oggi hanno ripreso il loro nome di Kwakwakawkw, ma per comodità continuerò a conservare il vecchio nome boasiano) hanno elaborato la forma più complessa delle cerimonie invernali, chiamate la danza del lupo, tsayeq (tseka), lokoala o nonlem dalle tribù nootka, e diffuse tra i tsimshian, gli haida e i salish della Costa. Questi rituali servivano ad ammettere dei novizi alla società segreta più élitaria, la società del Cannibale, l’Hamatsa. I kwakiul riferiscono di averne ricevuto il nucleo dai bella bella, insieme a quattro schiavi, di cui uno fu mangiato durante la danza, mentre il resto dei rituali sarebbero stati acquisiti tramite matrimoni. Nel 1914 Boas scoprì un’antica tradizione tra i kwakiutl meridionali nella storia dell’importante famiglia Gwasilla di Smith Inlet, che copriva 23 generazioni, secondo la quale i fatti sarebbero avvenuti tra il Maschera dell’Hamatsa. Ricostruzione su indicazioni di Franz Boas al Field Museum di Chicago. 60 1575 e il 1600 (Boas 1921). Con il commercio delle pellicce con gli europei, tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo, l’aumento degli scambi e delle guerre intertribali per controllare il flusso delle merci europee portò alla disseminazione dei tratti culturali e i kwakiutl sostituirono una cerimonia precedente dagli aspetti cannibalici più limitati con una nuova, assai più complessa e sofisticata, che in forma metaforica è ancora eseguita in luoghi come Alert Bay, Isola di Vancouver. Gli heiltsuk, un gruppo kwakiutl settentrionale da cui la cerimonia si diffuse agli altri gruppi kwakiutl dopo una scorreria schiavista per impadronirsi del rito, erano entrati in possesso di un mito fondatore sull’origine della società Hamatsa, che narra di come una donna diede vita a dei cani che, trasformatisi in uomini, scoprirono i segreti del Cannibale del Nord, solo per essere mangiati da lui. Baxbakwalanuxsiwae, “Colui che è il primo a mangiare un uomo alla foce del fiume”, detto anche Mangia Uomini all’Estremità Nord del HAKO estate 2004 Mondo o semplicemente Cannibale, viveva in una roccia sugli alti pendii di Naualakum (Montagna Faccia Soprannaturale), in fondo alle foreste all’estremità settentrionale del mondo. Il Cannibale era un mostro simile a un orso con il corpo interamente ricoperto di bocche insanguinate, che viveva in un’abitazione dal tetto di assi di cedro rosso e dal cui camino fuoriesciva un fumo rosso sangue. Vi abitavano anche la terrificante moglie Qominaga, che gli procurava i pasti e la schiava Kinqalalala, che catturava le vittime e raccoglieva i cadaveri, due spaventosi uccelli, le cui maschere di legno erano custodite in una scatola di legno insieme agli altri oggetti e ornamenti rituali – Qoaxqoaxualanuxsiwae (Corvo dell’Estremità Nord del Mondo), Hoxhogwaxtewae (Hohog del Cielo, la gru gigante) e Nenstalit (Orso Grizzly della Porta), sempre affamati di carne umana. Una delle prime vittime mitiche del Cannibale diventò il primo cannibale, o hamatsa, che imbevuto dello spirito del Mangia Uomini iniziò parecchi altri hamatsa nel culto segreto. Il Cannibale portava i novizi a vivere nella sua casa nei boschi per quattro mesi; dopo due mesi i novizi cominciavano ad apparire fuori del villaggio, urlando istericamente hap, hap, hap, mangia, mangia, mangia. Ogni hamatsa che tornava dalla foresta, folle di desiderio di carne umana, chiedeva di procurargli da mangiare alla sua sciamana, una guida spirituale che era sempre una sua parente, che fungeva da maestro delle cerimonie e portava il titolo di kinqalalala, la schiava del Cannibale mitico. Secondo il rito originale heiltsuk il cibo aveva tre forme: uno schiavo veniva ucciso, fatto a pezzi e mangiato dagli hamatsa; pezzi di carne erano strappati dalle braccia o dal torace di spettatori; dei cadaveri preparati in anticipo affumicandoli e impregnandoli di acqua salata. Quando l’hamatsa tornava al villaggio era in preda al furore e mordeva con violenza gli astanti. Il cibo fornito dalla kinqalalala era una mummia posta su un tamburo e macellata in pezzi che venivano inghiottiti interi, Maschere per l’Hamatsa. Museo di Ann Harbour, MI. che serviva ad attirare gli hamatsa dentro la lunga casa, dentro cui si svolgevano le cerimonie atte ad addomesticarli e a riportarli all’interno della vita civile. I giovani iniziati praticavano poi due danze e quando tutto era finito gli hamatsa ripagavano i padroni degli schiavi che erano stati uccisi e mangiati. Dopo questa cerimonia gli iniziati diventavano cannibali ufficiali, un gruppo d’élite privilegiato con obblighi e tabù speciali. La tribù nanaimo a Fort Rupert commemorava l’evento scolpendo la faccia del gigante Mangia-Uomini sulla roccia. Un nativo di Cape Scott a Hope Island, che aveva osservato di persona il sacrificio di una schiava, raccontò a Boas che la carne umana fresca era molto più difficile da mangiare di quella delle mummie e che, all’epoca della testimonianza, la cerimonia era meno cruenta. Un tempo l’hamatsa dopo aver morso e inghiottito la carne da un braccio del nemico si versava 61 dell’acqua molto calda in gola per mandarla giù. In seguito, fingeva solo di mordere via la carne, mentre dava un violento succhiotto e tagliava di nascosto un pezzo di pelle col coltello (Boas 1895). L’antropologo Ronald Olson, che scriveva nel 1935, trovò tracce di sacrificio umano e cannibalismo tra i kwakiutl haisla di Kitimat nei ricordi di cinque testimoni che si riferivano a danze avvenute tra il 1860 e il 1875. Vide le cicatrici, grandi come una moneta da mezzo dollaro, dei pezzi di carne strappati dalle loro braccia cinquant’anni prima. «Si racconta un episodio famoso, di quando circa sessanta o settant’anni fa Sanaxet ottenne in dono durante la sua iniziazione hamatsa due bambini schiavi da un capo tsimshian. Sanaxet li afferrò e li morse, mangiando la loro carne, finché entrambi non furono morti» (Olson 1940:177). Cannibali estate 2004 Iniziazione dell’hamatsa. Fotografia scattata nel 1902 da George Hunt. Un testimone privilegiato: George Hunt Una serie di fotografie fatte dal famoso fotografo Edward S. Curtis a un iniziato hamatsa della banda kwakiutl koskimo, che fa parte delle foto scattate nella zona tra il 1910 e il 1915, si basano pesantemente sugli scritti di Boas e non sono testimonianza dell’evento, ma foto di studio scattate spesso in pose drammatiche. Nonostante metta in dubbio l’esistenza del cannibalismo, Curtis riferisce che, quando riusciva a indurre qualcuno a discutere l’argomento, i kwakiutl riferivano che l’hamatsa mangiava carne umana, che tutti, tranne George Hunt, dichiaravano che in tempi moderni era praticata una sostituzione, ma che un tempo la carne era effettivamente umana (Curtis 191516). Il primo episodio cui Hunt fu testimone avvenne quando lui aveva 17 anni ed era giunto fresco fresco con una nave della Hudson’s Bay Company presso i kwakiutl nawhitti nel 1867. Si stava svolgendo la danza Cannibale e un sottocapo di nome Nunkamais uccise una giovane schiava sfondandole da dietro il cranio con un’accetta. Poi un vecchio hamatsa le aprì l’addome e le tagliò la testa, dandola all’iniziato. Smembrò il corpo a pezzi e lo distribuì tra gli altri hamatsa. Altri tagliarono lunghe strisce di carne e le fecero dondolare di fronte agli hamatsa, che le inghiottivano senza masticarle, in una gara in cui ognuno si sforzava di ingoiarne più degli altri. Alla fine della danza il capo riferì a Hunt che la carne sarebbe stata bollita e mangiata. Nel secondo episodio, nel 1871, tra gli owikeno, Hunt non solo assistette insieme all’agente della Hudson’s Bay Company di Fort Rupert, il capitano Alexander Moffatt, ma venne inviato nei boschi insieme agli altri assistenti di un importante hamatsa, Awati, che era in competizione con un altro famoso cannibale, Gwakiils, a cercare cadaveri adatti da mangiare, che non dovevano essere in decomposizione, ma secchi. Mangiarono le mummie di una donna e di un ragazzo. Nel 1875 Hunt tornò tra gli owikeno, che avevano invitato i nakwoktak di Nugent Sound. Una mummia venne procurata e mangiata nel solito modo, ma era evidente che l’hamatsa principale, Yahyekulagylis, aveva qualcosa in mente, mentre fissava la schiava di un suo compagno. Infine gli offerse cento coperte per la donna e l’altro accettò. Mentre gli altri hamatsa danzavano, egli saltò all’improvviso sulla donna, che cadde sulla schiena. Lui le affondò i denti in gola e lei lottò, graffiandogli la faccia, ma lui mantenne la presa, mentre due altri hamatsa le tenevano le gambe. Alla fine lei cessò di lottare; allora lui le aprì la pancia all’ombelico e le tirò fuori gli intestini, ne prese tra i denti un’estremità e corse intorno al fuoco trascinandosi dietro le budella come una corda. Gli altri hamatsa intanto tagliavano la gola alla donna e versavano il sangue in una scodella, che poi si passarono tra loro per bere. La carne fu fatta a pezzi e distribuita e, dato che tra gli owikeno c’erano molti hamatsa, riferisce Hunt, non ci fu difficoltà a consumarla tutta e a lasciare solo le nude ossa (Curtis, 191516). Le cerimonie tamananawas (danza degli spiriti), entro cui era compresa l’Hamatsa, avevano modificato alcuni degli aspetti più offensivi alla sensibilità eurocanadese per il decennio 1880, per via dell’influenza degli agenti 62 indiani e dei missionari. Di fatto il sacrificio umano degli schiavi era in genere scomparso, ma restavano i morsi agli spettatori, la mutilazione e il consumo delle mummie. Nel 1865 una cannoniera aveva bombardato un villaggio kwakiutl dopo il sacrificio di uno schiavo e, secondo alcuni, è possibile che la consumazione della mummia abbia progressivamente sostituito il sacrificio umano di schiavi a causa del bombardamento e altre pressioni, ma non vi sono prove in questo senso. L’Hamatsa kwakiutl e le cerimonie simili delle altre tribù, comunque, rientrarono nel bando della legislazione anti potlatch del 1885, ma solo nel 1913 il governo tentò di imporla ai kwakiutl, che restavano i più conservatori, su pressione dei missionari. Non bisogna però esagerare la capacità coercitiva della legge: il “pugno di ferro” non funzionò quasi mai, gli indiani trovarono le loro soluzioni di compromesso e in gran parte i kwakiutl continuarono a praticare le loro cerimonie clandestinamente fino ai giorni nostri (Cole e Chaikin, 1990). La quarta cerimonia Hamatsa cui Hunt fu presente finì in tragedia, a dimostrazione che esisteva un movimento anti cannibalistico anche all’interno dei kwakiutl. Nel 1892 i kwakiutl tlawitsis di Turnour Island invitarono tutte le tribù della zona, ma HAKO estate 2004 quando l’hamatsa Tsahahstala invitò i capigruppo a divorare un cadavere alla vecchia maniera, un gruppo di dissidenti propose invece di dar via doni o rompere scudi di rame (che avevano preso il posto degli schiavi uccisi). Tuttavia Tsahahstala l’ebbe vinta e fece portare una mummia preparata per l’occasione: dopo il primo boccone morì. Gli altri hamatsa che avevano partecipato al pasto morirono anch’essi immediatamente, un altro riuscì a vomitare e sopravvisse. I morti vennero sepolti in segreto, per la vergogna che fosse accaduto un episodio del genere proprio nel mezzo delle cerimonie invernali, e si disse che il Cannibale aveva portato via gli spiriti degli uomini. Hunt concluse che i dissidenti avevano avvelenato la mummia. A quanto pare, sia per le pressioni interne che esterne, la pratica di mangiare mummie, anche nelle Hamatsa clandestine, svanì in breve tempo dopo l’avvelenamento dei sei hamatsa (Curtis 1915-16). Nel 1922 sembra che tra i bella bella o nuxak esistesse ancora un uomo che possedeva l’insolita prerogativa di mangiare cadaveri (McIlwraith, 1948), ma per il 1936 la legge anti potlach era del tutto inattiva, se mai aveva veramente funzionato, anche se non fu revocata ufficialmente fino al 1952 grazie alle pressioni dell’organizzazione politica indiana Native Brotherhood della Columbia Britannica. I kwakiutl chiamavano se stessi il Fumo del Mondo e anche il Fumo dei Loro Fuochi, suggerendo che consideravano gli esseri umani consumatori di energia, che sono transitori e in trasformazione. L’origine del cannibalismo rituale tra i kwakiutl era basato sulla dialettica della reciprocità tra animali ed esseri umani, tra mangiatore e mangiato. Dato che i kwakiutl basavano la loro vita sul salmone, un pesce anadromo, cioè che risale la corrente, avevano sviluppato con esso uno speciale rapporto. Un antropologo offre questo approfondimento: «Dato che i salmoni sono umani [e viceversa] e gli umani mangiano salmoni, per analogia gli umani mangiano umani e sono perciò cannibali. Oltre a ciò, gli animali totemici che mangiano salmoni sono anch’essi de facto mangia- Cerimonia dell’Hamatsa, ricostruzione e parafernalia, Field Museum di Chicago. uomini. [...] La maggior parte degli animali totemici infatti mangiano uomini vivi (orche, lupi e orsi) o morti (aquile e corvi). Così, poiché questi animali rappresentano tutti dei collegamenti diretti nel ciclo di resurrezione sia per gli umani che per i salmoni, essi stessi sono per definizione umani. Tutti quegli animali il cui cibo è in qualche modo legato agli esseri umani [...] devono essere trattati in modo coerente con il carattere profondamente sacro del ruolo umano nella catena dell’essere» (Walens 1981:101). 63 Bibliografia essenziale McDowell, J., Hamatsa. The Enigma of Cannibalism on the Pacific Northwest Coast, Vancouver, 1997; Boas, F., “Social Organization and Secret Societies of the Kwakiutl Indians”, US National Museum Report, Washington, DC, 1895; Boas, F., “Ethnology of the Kwakiutl”, Bureau of American Ethnology, 35th Annual Report 1913-14, part 1 Washington, DC, 1921; Boas, F., L’organizzazione sociale e le società segrete dei Kwakiutl, Roma, 2001; Curtis, E. S., “The Kwakiutl, The Nootka and the Haida”. The North American Indian. Voll. 10 (1915) e 11 (1916), New York, NY, 1978; Cole D., Chaikin I., An Iron Hand Upon the People. The Law Against the Pothatch on the Northwest Coast, Seattle, WA/Toronto, 1990; McIlwraith, T. W., The Bella Coola Indians, Toronto, 1992 (1948); Olson, R., “The Social Organization of the Haisla of British Columbia”, Anthropological Records 2 (5):169-200; Walens, S., Feasting With Cannibals: an Essay on Kwakiutl Cosmology, Princeton, NJ, 1981. Cannibali estate 2004 Recensioni e novità Il NMAI sul Mall «Come nativo di Washington e Nativo Americano trovo il prossimo completamento e apertura di questa struttura simbolica profondamente significativa, personalmente e professionalmente», ha dichiarato Thomas Sweeney, Citizen Potawatomi, capo redattore della rivista American Indian del National Museum of the American Indian, di cui è il direttore degli affari pubblici. Washington, DC è il luogo dove molti indiani per secoli hanno vissuto o sono venuti in visita per ragioni politiche o professionali oppure personali e nel cimitero del Congresso riposano almeno 35 indiani tra cui il figlio di Cochiss e il nipote del capo John Ross. Nella capitale vi è il quartier generale del Bureau of Indian Affairs e il Ministero dell’Interno, da cui le tribù dipendono, l’unico gruppo etnico americano che dipende in primis da un ministero. È quindi giusto che l’ultimo pezzo del Mall disponibile ospiti la sede del National Museum of the American Indian, proprio a sud del Campidoglio, la sede di quel Congresso le cui leggi sono tanto importanti anche per gli indiani e a est del National Air and Space Museum. Istituito nel 1989 con un Atto del Congresso firmato dal Presidente Bush sr., finalmente vede la luce l’ultima parte del National Museum of the American Indian sotto la presidenza di Bush jr. , dopo l’apertura nel 1994 del George Gustav Heye Center of the National Museum of the American Indian nell’Alexander Hamilton U.S. Custom House al n° 1 di Bowling Green a New York City e la costruzione e l’apertura tra il 1998-99 del Cultural Resource Center a Suitland, Maryland, che ospita le collezioni del museo - qui sono stati trasferiti gli 800.000 oggetti dalla Research Branch del Bronx - e serve da struttura di ricerca, conservazione e appoggio. La storia comincia all’inizio del 1980 con i primi colloqui per far affiliare il Museum of the American Indian, Heye Foundation di New York City alla Smithsonian Institution, mentre due vecchi sostenitori come il senatore Inouye (Hawaii) e Nighthorse Campbell (Colorado, lui stesso di ascendenza cheyenne) introducevano in Congresso, alla Camera e al Senato, due progetti di legge gemelli nel 1989, che vedevano nello stesso anno la firma presidenziale, con lo stesso scopo. Nel 1993 la Smithsonian Institution affidava la progettazione dell’edificio nel Mall a un architetto canadese, il blackfoot Douglas Cardinal e, in seguito, al Polshek/Smith Group e a Johnpaul Jones (cherokee/choctaw). Una cerimonia di benedizione apriva i lavori nel 1999 e nel 2002 un’altra cerimonia benediceva la raggiunta copertura del palazzo. La costruzione vera e propria era data in appalto a CLARK/TMR, composta dalla ditta di costruzioni Clark del Maryland e da una ditta consociata dellaTabble Montain Rancheria, una tribù della California. Oltre ai fondi stanziati dal Congresso, hanno contribuito ai finanziamenti oltre 250.000 americani come individui, cui si sommano corporation, fondazioni e tribù, tra cui spiccano alcune delle più ricche casinò tribes come i pequot e i mohicani. La collezione, assemblata durante un periodo di 54 anni da George Gustav Heye (1874-1957) a partire dal 1903 ed esposta nell’omonimo museo che aprì a New York nel 1922, comprende oltre 800.000 oggetti raccolti in tutte le Americhe. Circa il 70% proviene dal Nordamerica (di cui il 3% dal Canada) e circa il 30% dal Centro e Sudamerica. Il Museo ha lavorato con oltre 500 nativi americani appartenenti a circa 300 comunità del Nord, Centro e Sudamerica, che hanno dato il loro parere su questioni che vanno dal design del museo nel Mall e del Cultural Resource Center, alla programmazione delle cerimonie e delle mostre inaugurali per l’apertura dell’edificio nel Mall il 21 settembre 2004, dalla processione Nativa Americana al festival musicale, culturale e culinario di una settimana a molte altre cose. Il Board of Trustees è di 23 membri, di cui 14 sono indiani, compreso il presidente Gourneau e il direttore del National Museum of the American Indian W. R. West jr, cheyenne/arapaho dell’Oklahoma e noto avvocato. L’edificio di cinque piani, con il suo design curvilineo e la copertura di calcare Kasota giallastro del Minnesota, dalla forma e lisciatura irregolare per dare l’impressione di una struttura creata dall’acque e dal vento, si apre sul tetto con un prisma che riflette la luce e la cambia durante il giorno ed è orientato secondo i punti cardinali. Si apre naturalmente a oriente e all’interno sfoggia materiali come bronzo, rame, granito e vari tipi di legni americani. All’esterno 20-30 grosse rocce e massi, note come “grandfather rocks”, saranno incorporate nel paesaggio, che riproduce le pianure orientali, anche attraverso numerose fontane. Cingue maggiori mostre inaugurali aprono l’attività del museo, esponendo circa 7000 pezzi: “I nostri universi: la conoscenza tradizionale forma il nostro mondo” presenta le filosofie e le cosmologie tribali; “I nostri popoli: dar voce alle nostre storie” si concentra su eventi storici visti da un punto di vista indiano; “Le nostre vite: vita contemporanea e identità” esplora gli aspetti culturali, sociali, linguistici e politici indigeni nel 21° secolo; “Modernismo nativo: l’arte di George Morrison e Allan Houser” presenta le opere di due importanti artisti indiani e “Finestra sulle collezioni: molte mani, molte voci” espone quasi 3500 oggetti provenienti dalla collezione del museo che illustrano l’ampiezza e la diversità delle culture native. 64