Didattica Speciale La formazione è una categoria complessa e problematica perché la questione educativa che si pone è quella della persona, del soggetto che si vuole formare, ma anche del soggetto che si forma, si con-forma, si deforma. La formazione è, altresì, un processo concreto, co-implicato nella prassi umana e che comprende anche azioni ed eventi che incidono sulla crescita ontologica e biopsichica del soggetto. (E’ necessario, dunque,) confrontarsi con il soggetto in formazione considerato nella complessità della sua esistenza, nella sua sostanza di carne e ossa, nella sua problematicità ma anche nella ricchezza del suo essere persona implicata in un contesto in cui può trovarsi il luogo dell’emancipazione o quello, al contrario, della reificazione e del dominio. Questo lavoro comporta, dunque, la chiarificazione di questioni relative all’uomo di cui vogliamo promuovere l’emancipazione, oltre le “stimmate” della disabilità, oltre qualsiasi altra definizione preconcetta di diversità”[1]. [1] V. Burza, La formazione tra marginalità e integrazione. Processi, percorsi, prospettive, Periferia, Cosenza 2002 , p. 150. La problematicità strutturale della formazione, infatti, la si può evincere dall’osservazione che la formazione è il risultato mai compiuto di azioni intenzionali e di eventi che si sottraggono alla volontà del soggetto. Basti riflettere sul fatto che noi siamo il frutto di un incontro-evento tra le persone che ci hanno generato e queste a loro volta sono il frutto dell’incontro-evento tra i loro genitori, in una catena infinita. La forma è produzione di “differenza”; l’uomo vive “differenziandosi” perché vive nella forma che non è qualcosa che si acquisisce una volta per tutte, ma è un continuo trasformarsi. Ecco perché quando si riflette sul fatto che l’individuo è un essere incompiuto si tende a dare a questa sostanziale incompiutezza un’accezione positiva; quando questa incompiutezza si compie e l’apertura originaria all’universo delle possibilità si trasforma in chiusura, l’esistenza non prosegue più. Gianfranco Bettetini in "Semiotica della comunicazione d'impresa” ci dà un elenco degli elementi individuabili a vario livello nella comunicazione, al di là dei singoli ambiti disciplinari: caratterizzazione aperta o bidirezionale (a volte pluridirezionale) dello scambio; possibilità di inversione dei ruoli fra emittente e destinatario; valorizzazione dell'attività partecipativa del destinatario, anche nei casi in cui ricopra il semplice ruolo di ricettore; attenzione agli effetti dell'azione comunicativa; tendenziale disponibilità a considerare il rapporto di comunicazione come un'interazione paritetica e, quindi, come una forma di conversazione almeno potenziale La comunicazione utilizza, contemporaneamente, una molteplicità di canali e di codici. La comunicazione umana avviene su tre livelli: a)verbale, ovvero il contenuto della comunicazione: b) paraverbale, ovvero il tono, il ritmo della voce, l’emissione dei suoni, la pronuncia; c) non-verbale, ovvero gli atteggiamenti posturali, la mimica facciale, la gestualità, la gestione della distanza dagli altri(prossemica). Il termine follia, da un punto di vista etimologico, deriva dal latino follis, un termine che approssimativamente significava: “soffietto, vescica, sacca, pallone, borsa, sacco gonfio d’aria”. Intorno al VI secolo si verifica un cambiamento di senso del termine “follia” che passerà, così, ad indicare la scarsa profondità d’intelletto di una persona, dimensione simile a quella di un pallone pieno d’aria. La follia è stata vista nel corso dei secoli, sia come una condizione patologica, inferiore, e sia come una condizione superiore in quanto aperta a dimensioni “altre” dell’esistere, diverse dallo stato di normalità. In numerose comunità primitive, ancora oggi, colui che è reputato “folle”, ben lungi dall’essere visto come un deviato, viene spesso considerato come un individuo mosso da forze particolari. Nell’età antica la follia si vestiva di abiti simili, in quanto veniva assimilata ad uno stato privilegiato; chi era folle era in diretto contatto con la divinità. A volte il folle, il pazzo è colui che non è riuscito a manifestare tutte le proprie funzioni vitali in quanto non conoscendo se stesso e gli altri, non riesce a portare avanti relazioni profonde col mondo circostante. Altro caso è quando vengono considerati “folli” quegli atteggiamenti che hanno origine nella sofferenza di vivere. In tale senso, pazzo lo si “diventa” a causa della combinazione di diversi fattori individuali, sociali e culturali come, ad esempio, una biografia segnata da vicende dolorose di abbandoni e violenze, una storia di legami sociali o relazionali molto poveri. Il movimento dell’antipsichiatria designa non tanto una scuola unitaria e organica, quanto una vivace e varia attività sia teorica che pratico-politica delineatosi, a partire dagli anni Sessanta, soprattutto in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Francia e in Italia. Uno dei principi basilari di questo movimento culturale, è stato la rivelazione della negatività dei manicomi. Nei manicomi, infatti, la vita fittizia e “manipolata” dei malati era una vita separata dal resto del mondo, dove tutto scorreva in una dimensione temporale immobilizzata in un eterno presente. La legge quadro 104/1992 e le successive disposizioni applicative dal titolo Atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle unità sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap, hanno definito e regolamentato una specifica metodologia di lavoro di grande importanza per l’integrazione scolastica. Sono previsti tre momenti:1) La diagnosi funzionale: a seguito dell’individuazione del soggetto come persona con deficit (ad opera dello specialista dell’ASL), viene redatta la DF che fornisce una descrizione analitica delle difficoltà e delle potenzialità dell’allievo in una serie di aree di sviluppo. 2) Il profilo dinamico funzionale (PDF). Dopo un primo periodo di inserimento scolastico, si individuano i prevedibili livelli di sviluppo che il bambino può raggiungere a seguito di specifici interventi educativi. 3) Il piano educativo individualizzato (PEI). Stabiliti i livelli di partenza dell’allievo e gli obiettivi da raggiungere, vengono progettati ed implementati gli interventi e le attività ritenute utili. Il PEI rappresenta la sintesi di tre progetti: quello didattico, quello riabilitativo e quello di socializzazione. Alda Merini Nel 1947 incontra quelle che definirà come "prime ombre della sua mente": viene internata per un mese all'ospedale psichiatrico di Villa Turno. La poetessa inizia poi un triste periodo di silenzio e di isolamento: viene internata al "Paolo Pini" fino al 1972, periodo durante il quale non manca comunque di tornare in famiglia, e durante il quale nascono altri tre figli. Dopo alternati periodi di salute e malattia, che durano fino al 1979, la Merini torna a scrivere; lo fa con testi intensi e drammatici che raccontano le sue sconvolgenti esperienze al manicomio. I testi sono raccolti in "La Terra Santa", pubblicato da Vanni Scheiwiller nel 1984. Dopo aver nuovamente sperimentato gli orrori del manicomio, questa volta a Taranto, torna a Milano nel 1986: si mette in terapia con la dottoressa Marcella Rizzo alla quale dedicherà più di un lavoro. Dal punto di vista letterario questi sono anni molto produttivi: naturale conseguenza è anche la conquista di una nuova serenità. Da cosa trae ispirazione? Da qualsiasi cosa, purché nasca dal dolore, o da un conflitto. Che poi non è del tutto vero, perché io quando ho scritto il Diario di una diversa ero veramente molto tranquilla, avevo vicino un amore che era mio marito. Per parlare del Diario dirò che ho fatto una tremenda constatazione a proposito dei soprusi in manicomio: tutti quelli che sono stati annientanti lo sono stati perché fuori non c'era nessuno che vigilava sul destino di questa povera gente. Purtroppo, in parte ho dimenticato. D'altra parte ringrazio Dio per questo. Si tratta più che altro di rimozione. In questo momento è serena? Per me è sempre un momento più o meno sereno. Quando uno porta fuori la pelle dal manicomio vive alla giornata. Ringrazio Dio di aver salvato la vita. Immagino che quello sia stato il momento più difficile della sua vita... Difficile sì, perché ero molto giovane. La carne gridava il suo diritto alla vita. Il castigo del manicomio somiglia molto al castigo divino. E' un castigo improprio. Lei si sente una diversa? No, ma io e lei non siamo uguali, lei non è stato in quella galera, il timbro del manicomio che ti porti dietro per tutta la vita è un timbro di alienazione. Che cos’è l’infelicità. Per me non esiste, però ho conosciuto la disperazione. La disperazione non è raccontabile, ma tutto sommato aver raggiunto i settant’anni, aver ricevuto i suoi orrori, l’operazione che ho avuto: tutto è vita. Alda Merini sta attraversando un momento sereno, ma ha conosciuto stati emotivi dolorosi. Impotenza, abbandono, smarrimento... Ce n'è per tutti. La vita non risparmia nessuno. Tre matrimoni, quattro figli, ventiquattro nemici...Ma c'è da dire una cosa: ho sofferto molto più fuori che in manicomio. Il manicomio è un'istituzione protetta e forse allora che ero più giovane avevo una tenuta più forte. Fuori ho trovato delle vere canaglie, qualcuno che mi ha ricattata e ferita anche su quell'esperienza che mi ha lasciato comunque in uno stato di turbamento. Per questo mi inquieta il delitto di Cogne, il fatto di questa donna protetta, silenziosa, che nega sempre, mi sconvolge. Io che sono stata presa, portata in manicomio in quattro e quattr'otto, senza potere dire niente, che non ho mai nutrito sentimenti di omicidio, non sono mai stata fatta segno di tanta delicatezza e mi domando perché. Siamo tutti delinquenti nella stessa maniera. Papa Giovanni quando è entrato per la prima volta a San Vittore ha detto: “fratelli, non siete peggio di me, siete stati più sfortunati. Siamo tutti colpevoli”. Lei vede i suoi figli? Hanno passato dei guai così tremendi. Me lo hanno riferito non solo loro, ma anche qualche assistente sociale onesta. Ci vediamo, ma anche loro hanno dei problemi nel guardarsi dentro e per capire la loro madre. I miei figli sono stati maltrattati, diseducati. Da me vengono, anche se l'incontro non è sempre armonioso. E' un dovere andare da un genitore, anche se non si sente amore. Il fatto è che chi appartiene alla mia generazione deve rassegnarsi a capire che il senso del dovere non c'è più. Questo è il prezzo più alto del manicomio. Se ci penso mi sale una rabbia sconvolgente. “Io sono curiosissima dei movimenti architettonici dei delinquenti. Riescono a comporre dei mosaici bellissimi”. “Il delitto è un privilegio dell’assoluto. Pensare un delitto non è commetterlo, ma è desiderarlo. Il delitto è un infame desiderio d’amore”. “Forse il manicomio si apre per questo, perché il vero peccato mortale per gli uomini è la libertà.(…) Sul nostro tetto non viaggiavano gli operai come su casa mia. Non ci molestava nessuno, anzi, ci ignoravano del tutto e questo per loro era un grande ossequio alla malattia mentale, che voleva dire un grande menefreghismo. Tanto che io non parlavo più. Ho imparato a parlare anni dopo(…). Al manicomio ci tenevano puliti. Allora poi siamo usciti, ci siamo sporcati con la terra, ci siamo cosparsi il volto e il corpo perché per dodici anni eravamo vissuti al chiuso, sognando di poter toccare, le rose, l’erba.(…)Eravamo di nuovo liberi di vivere sporchi”.