LA GRANDE GUERRA IN ITALIA Rappresentazione e Interpretazione Oxford, Taylor Institution, 20-21 Aprile, 2012 Elenco completo degli Interventi Boitani Giacomo (Ri)fare gli italiani»: Post-war Italian national identity, Gramsci, commedia all’italiana and Mario Monicelli’s La Grande Guerra (1959) Mario Monicelli’s film La Grande Guerra is one of the most revered examples of the cinematic genre known as commedia all’italiana; its production generated a heated cultural debate in Italy, until the completed project received a massive popular response in terms of film-theatre attendance as well as a positive critical response, as exemplified by the ex-aequo Leon d’Or award it obtained at the 1959 edition of the Venice Film Festival. In his essay La Ricerca dell’Identità nel Cinema Italiano del Dopoguerra, Italian film historian Gian Piero Brunetta theorised that the Italian represented on screen in post-WWII Italian neorealist films such as Rossellini’s Paisà (1946) is characterised by “being born out of the war and the Resistance, [...] not possessing any type of history or registered identity, being subjected to deep amnesiac states from which he will only recover at the beginning of the 1960s.” In my paper I purpose to investigate how in its reference to Paisà, in its renewal of the practice of plurilinguism originally deployed in Rossellini’s war trilogy and in its substitution of the Crocean cultural background that characterised Rossellini’s depiction of the Resistance with a Gramscian conception of history, Monicelli’s La Grande Guerra represents a crucial step in this process of regaining of identity through cinematic representation from the mid 1940s to the early 1960s identified by Brunetta and articulate how the notion of Italian national identity proposed in these films is defined by its ‘fractured’ nature. In other words, this paper aims to suggest that very much in the same way that ‘la Grande Guerra’, the war, was instrumental in ‘fare gli Italiani’ after the Risorgimento, La Grande Guerra, the film, represented a crucial contribution to the attempt of ‘ri-fare gli Italiani’ after Fascism, WWII and the Resistance. ***** Caffarena Fabio A RMATI DI CARTA E PENNA : Soldati e scrittura tra racconto, memoria e storia della Grande Guerra Spartiacque del Novecento, il Primo conflitto mondiale rappresentò per molti individui l’evento-cardine dell’esistenza. In Italia, tra il 1915 e il 1918, le trincee e i fronti di guerra furono percorsi da un flusso ininterrotto di lettere e cartoline spedite e ricevute dai combattenti (nel caso italiano si calcola una movimentazione di circa quattro miliardi di missive in oltre tre anni di guerra), ma durante il conflitto i soldati compilarono anche numerosi diari e, una volta tornati alla vita civile, lasciarono sulla carta le loro memorie di guerra. Soprattutto i testi epistolari evidenziano anche visivamente la fatica di scrivere da parte di tanti fanti-contadini scarsamente alfabetizzati, in molti casi rivelano la loro sostanziale estraneità alle ragioni del conflitto e solo raramente adesioni patriottiche, nonostante la strumentalizzazione retorica e propagandistica delle lettere dei caduti attuata dal regime fascista tra gli anni Venti e Trenta. Si tratta di scritture che nel complesso rappresentano una forma di resistenza dell’individuo e della soggettività nei confronti dell’alienante e spersonalizzante realtà bellica. A quasi cent’anni di distanza dall’inizio del conflitto quel che resta di tale patrimonio di scrittura rappresenta un vero e proprio racconto collettivo della guerra, una sorta di forma di letteratura popolare, ma anche un insostituibile strumento per sondare aspetti di vita sociale e della mentalità dei combattenti, esposti ad un conflitto moderno non solo dal punto di vista tecnologico, ma anche – se non soprattutto – per le trasformazioni del mondo mentale che determinò. In tale contesto l’intervento intende evidenziare le peculiarità testuali e di linguaggio delle testimonianze scritte provenienti dai campi di battaglia, ma anche alcune questioni di metodo legate al loro utilizzo, per nulla semplice, all’interno del cantiere dello storico contemporaneo. 1 Camuffo Pericle “La guerra la fanno i fessi”: Giuseppe Prezzolini e il popolo italiano al fronte L’intervento intende prendere in esame la posizione di Giuseppe Prezzolini (1882-1982) nei confronti del popolo italiano impegnato sul fronte della Grande Guerra, mostrando come in essa vi sia, da una parte, ancora attiva e produttiva la componente dominante del suo interventismo, l’idea cioè, tutta “vociana”, di una rigenerazione nazionale attraverso la guerra intesa come “esame morale” di un popolo, e dall’altra, come questa convinzione venga messa in crisi dalla realtà della guerra e dal comportamento non solo dei militari ma anche dei civili italiani. Dalla lettura e dall’analisi dei testi che Prezzolini dedica specificatamente all’argomento, Dopo Caporetto (1919), Vittorio Veneto (1920), Tutta la guerra (1918), emerge un ritratto, tristemente attuale, dell’Italia e degli italiani di fronte al quale l’intellettuale toscano constaterà e misurerà, negli anni successivi, la sua posizione di apòta e di “italiano inutile”. ***** D’Eath Jessica Imparare ad amare la guerra. Interventionist ideologies in Italian children’s fiction, 1915-1938 Pinocchietto, the child protagonist of Bruno Bruni’s 1915 novel Pinocchietto contro l’Austria, flees his home to join “i nostri baldi soldati che così valentemente avevano iniziato la guerra per la completa indipendenza d’Italia, per far libera la Patria dall’Alpi al mare”. He – together with a host of fictional characters that emerged in children’s novels over the course of the war – contributes directly to Italy’s war effort, driven by the conviction that the 1915-1918 war represents an epilogue to the Risorgimento battles. Though the Great War features prominently as a theme in Italian children’s books produced during the conflict, the complexities of the interventionist debate are not reflected in children’s fiction of the period. Intervention, in texts produced between 1915 and 1918, is depicted almost exclusively as the result of a unanimous decision to rectify past national iniquities, and the people as spontaneously and uniformly patriotic. By the 1920s and 1930s, however, the portrait of the Great War as a patriotic campaign to liberate irredentist citizens and assert Italy’s territorial rights had begun to fade. Authors such as Antonio Beltramelli and Ugo Scotti Berni chose to revisit the concept of the interventionist question to comment on the existence of an insidious “enemy on the inside” who must be eradicated. Thus war is depicted, retrospectively, as a vehicle of social cohesion, and the interventionist issue is recast in social-Darwinian tones not dissimilar to that of Giovanni Papini’s “Amiamo la Guerra” (1914). This paper will explore the evolution of the representation of interventionist ideologies in Italian children’s literature. Drawing on a selection of novels for children published between 1915 and 1938, it will consider how the motivations underpinning the conflict were interpreted for children through their literature both during and after the war, and examine the ideological significance of these representations within their respective socio-historical contexts. ***** Daly Selena Marinetti in the First World War: writer, soldier and officer Filippo Tommaso Marinetti’s belligerence and celebration of war are two of the fundamental aspects of Futurist ideology as laid out in the movement’s founding manifesto in February 1909. Leading up to Italy’s entry into the war in May 1915, Marinetti was a fierce interventionist, and as soon as Italy declared war on Austria-Hungary, he signed up as a volunteer soldier in the Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti Automobilisti (VCA). He, along with other Futurists including Umberto Boccioni and Luigi Russolo, was sent to fight at the frontline in Trentino, where in October 1915 the VCA took part in the attack on Dosso Casina. Following the unit’s dissolution in November 1915, Marinetti dedicated most of 1916 to literary and theatrical pursuits, before returning at the beginning of 1917 to the front line near Gorizia and later at the River Piave, now as an officer. 2 This paper will engage in a comparative analysis of Marinetti’s experiences as a “soldato semplice” and as an officer in order to understand in what ways his perception of the war was altered by his radically different circumstances in 1915, and in 1917-1918. Of particular interest will be his attitudes towards irredentism, patriotism, his fellow soldiers, the representation of the Austrian enemy, and his process of meaning-making during the conflict. A wide range of primary source material will be consulted including Marinetti’s war diaries, newspaper articles written by him while at the frontline, sketches and drawings he made, Futurist manifestoes, pieces for theatre, parole in libertà paintings, and his war memoir, L’Alcòva d’acciaio (1921), recounting his experiences in 1918. ***** De Leva Giovanni Ufficiali narratori e soldati personaggi. Per una lettura della narrativa italiana della Grande Guerra Nel mio intervento, vorrei affrontare la narrativa italiana del primo conflitto mondiale alla luce del rapporto tra la figura dell’ufficiale e quella del soldato, rispettivamente intesi come narratore e personaggio del racconto di guerra. L’ufficiale, infatti, vi compare quasi sempre come voce narrante e protagonista, mentre al soldato semplice viene spesso riservato il ruolo di comprimario. Si tratta d’una peculiarità del caso italiano, se si pensa a titoli come Three Soldiers (1921) di Dos Passos o Soldier’s Home (1925) di Hemingway, oppure all’importanza del poilu nella produzione francese. Ad un narratore di buona cultura, d’estrazione borghese, di frequente interventista e volontario, il racconto italiano contrappone dunque un personaggio antitetico, descritto come analfabeta, d’origine contadina ed ignaro delle ragioni del conflitto. Nella maggior parte dei casi, le narrazioni si esauriscono perciò entro il raggio d’esperienza dell’ufficiale, in cui il soldato appare di volta in volta come fratello minore, bambino o diretta espressione della natura, in ogni caso quale destinatario della pedagogia e della disciplina del suo superiore. La mia ipotesi è tuttavia che il rapporto tra ufficiali narratori e soldati personaggi muti sensibilmente nel corso della narrativa di guerra. A partire dall’Introduzione alla vita mediocre (1920) di Arturo Stanghellini, passando per Trincee (1924) di Carlo Salsa, Cola (1927) di Mario Puccini e La meccanica (1932) di Carlo Emilio Gadda, fino ad arrivare ad Un anno sull’Altipiano (1938) di Emilio Lussu, si assiste infatti ad un graduale mutamento di prospettiva, che dalla preminenza dell’ufficiale si sposta verso l’esperienza di guerra del soldato semplice. Un’evoluzione che, qualora fosse verificata, offrirebbe fertili spunti di confronto con la letteratura degli anni Trenta, costituendo inoltre la base per la proposta di un canone della narrativa italiana della Grande Guerra. ***** Duyck Mathijs Veni, vidi, narrui. Esperienza, trascrizione e narrazione della Grande Guerra di Carlo Emilio Gadda. «Il modo d’essere del mio sistema cerebro-spinale durante e dentro la guerra fu cosa a un tal segno lontana dalle comuni, che credo possa giustificare il tentativo d’un breve resoconto materiato di fatti, i quali appariranno essere verità strane ed orride: e cionondimeno verità» (RR I 134). L’esperienza della Grande Guerra formò lo scrittore e la scrittura gaddiana ed è stata trascritta dall’autore in una serie di taccuini che compongono uno tra i più dettagliati diari bellici del periodo 1915-1919, pubblicato solo 36 anni più tardi e senza revisione dell’autore, con il titolo Giornale di guerra e di prigionia. La guerra, oltre a farsi impetuoso fiume carsico che scorre sotto l’intera opera gaddiana, viene anche trattata in una serie di «articoli», pubblicati sul quotidiano L’Ambrosiano e poi riuniti, insieme ad altri scritti, nella raccolta Il castello di Udine (1934). Nonostante Gadda avesse a disposizione il vasto serbatoio di materiale bellico che rappresenta il Giornale, i testi raccolti nel Castello recano ben poco dell’esperienza trascritta nei diari; le rare incidenze non oltrepassano il livello dell’aneddotica. È invece la narrabilità stessa della guerra ad occupare il centro del discorso letterario, mentre la retorica chiamata a facilitare il faticoso passaggio dalla vita vissuta alla narrazione pare cancellare dalla storia la presenza fisica del soldato, il suo corpo, di cui i diari registrano lo stato quasi continuo di malessere. La relazione vuole indagare il rapporto tra guerra, diario e racconto, ovvero tra esperienza, trasposizione in scrittura e deformazione letteraria. Districando i problemi legati alla possibilità di rendere «in alfabeti» l’esperienza della guerra si va a scoprire una problematica più ampia che sottosta all’intera prima stagione 3 della scrittura gaddiana, ossia il groviglio dell’io, che vive, descrive e si rende conto che narrare significa anche narrarsi. ***** Du Pont Koenraad The ‘authenticity effect’, a propaganda tool in trench newspapers As Isnenghi pointed out, three years after the intense debate between neutralists and interventionists the Italian intellectuals were again called upon after the defeat of Caporetto, when dozens of trench newspapers were launched with the aim of strengthening the consensus on the war effort. This time, however, the enrolment of artists, writers and intellectuals in the newly created Servizio P(ropaganda) had a levelling effect, excluding elitist ambitions, such as the futurists’ or D’Annunzio’s earlier interventionism. How voluntaristic this transformation of haughty artists into anonymous cultural employees could be, will be illustrated, among others, by Soffici’s testimony on the creation of the Servizio P. Moreover, the contribution will portray some editorial choices that were intended to make the newspapers both captivating and authoritative. Rather than upon the newspapers’ themes, which where imposed by the High Command and have been thoroughly analysed by others, the contribution will focus upon formal aspects, such as the newspapers’ subdivision into sections, their rendering of the contributors’ identities, editorial interventions and other peritextual elements. Thus, the analysis brings to light a persistent search of communicative modes that would fit the experience of total war. It is by all means remarkable how the journalistic discourse builds its authoritativeness upon the contributors’ battlefield experience. Moreover, the newspapers profile themselves as inclusive. Not only do they depict ordinary Italian soldiers from various ranks and regional backgrounds, they also often lend them a (real or fictional) voice by emphasising their presence as contributors. Therefore, it is at least partly legitimate to consider this “authenticity effect” as an ultimate attempt to bring about Italy’s ‘cultural regeneration’, which so many intellectuals had yearned for, even if this came at the cost of anonymity and if it burdened the country’s future with a ‘war culture’ that would long outlive the actual conflict. ***** Faccioli Alessandro Gianikian, Ricci Lucchi e l'autopsia dell'Archivio La Grande Guerra rappresenta per il cinema e la televisione italiani uno snodo a tutt’oggi irrisolto. In meno di un secolo sono stati realizzati oltre cento film di fiction e moltissimi documentari di montaggio. L’immagine del conflitto è stata però proposta quasi sempre relegando sullo sfondo importanti temi, argomenti e punti vista, schiacciati di volta in volta dall’opportunità politica, dalla mancanza di coraggio produttivo, dalla censura. Si può parlare di evidente difficoltà del cinema italiano di trattare criticamente in chiave spettacolare una delle roccaforti identitarie nazionali. Specchio di questa difficoltà, la persistenza di scelte visive e moduli narrativi che rendono conto del primo vero sacrificio collettivo nazionale in maniera troppo spesso stereotipa. Così non è successo in altre cinematografie, dove il mito della vittoria o le pratiche di rielaborazione della sconfitta e del lutto hanno lasciato spazio a riflessioni tanto più efficaci narrativamente, quanto storicamente più aggiornate e ideologicamente più fluide. Si può a buon diritto sostenere che, anche in Italia, esempi importanti di gestione responsabile della memoria audiovisiva della Grande guerra sono venuti negli ultimi anni da artisti vicini alla pratica del found footage, del riutilizzo creativo di immagini già esistenti. Nel mio intervento, dopo alcune rapide considerazioni di carattere generale sul fenomeno e sul relativo stato dell’arte, intendo prendere in considerazione il caso esemplare dell’opera di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, occupandomi dei loro film di montaggio, strettamente legati al patrimonio di cinegiornali e documentari conservato negli archivi europei. A donare una seconda vita alle immagini dimenticate di cineoperatori non solo italiani, concorre la suggestiva declinazione poetica del lavoro di questi cineasti, sospesi tra la necessità di ribadire la forza storica del documento e il desiderio di favorire inattesi cortocircuiti estetici per valorizzare la dimensione umana del soldato in armi e del civile sofferente. 4 Fantani Giulia Sulla lingua di guerra e prigionia di Carlo Emilio Gadda Il 24 agosto 1915 Carlo Emilio Gadda scrive la prima pagina di un diario che terrà sino al dicembre 1919, annotandovi, a cadenza piuttosto regolare, fatti, situazioni, pensieri: «Le note che prendo a redigere sono stese addirittura in buona copia, come vien viene, con quei mezzi lessicografici e grammaticali e stilistici che mi avanzeranno dopo la sveglia antelucana, le istruzioni, le marce, i pasti copiosi, il vino e il caffè» (C.E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Milano, Garzanti, 2009, p. 11). Nella mia relazione vorrei soffermarmi non tanto sulle “notizie” riportate da Gadda nel suo diario, quanto sui “mezzi lessicografici e grammaticali e stilistici” di cui l’autore si serve per descrivere la propria esperienza di guerra. L’interesse per l’aspetto formale del diario è doppio: da un lato il Giornale può rivelare il modus scribendi di un autore che cerca una strada prima delle sue prove d’esordio, dall’altro rivela un particolare modo di vivere e registrare gli eventi della Grande Guerra in cui traspare già il carattere dello scrittore. Vorrei analizzare in particolare alcuni aspetti del lessico (termini del gergo militare, forestierismi, dialettalismi, neologismi bellici) senza tralasciare qualche considerazione sulla grammatica (oscillante fra tradizione e spunti innovativi) e sullo stile (ora piano, memorialistico, quasi lirico nei passaggi descrittivi; ora telegrafico e sincopato sul modello dei bollettini di guerra). L’attenzione di Gadda per la lingua e in particolare per il lessico è ben testimoniata dal suo amico e compagno nel Lager di Celle Bonaventura Tecchi: «Gadda era attento alle parole: a quelle che leggeva, a quelle che volavano nell’aria della baracca [...] era tutt’orecchi alle varietà delle locuzioni, alle particolarità idiomatiche non solo delle diverse lingue ma anche dei dialetti». (B. Tecchi, Baracca 15 C, Milano, Bompiani, 1962, pp. 72-73). Così, attraverso un’analisi linguistica e stilistica del Giornale di guerra e di prigionia, vorrei tentare di mettere in evidenza gli aspetti peculiari che caratterizzano Gadda nel suo racconto di quell’evento eccezionale e traumatico di cui egli fu attento testimone. ***** Foot John Divided Memories. Italy and the First World War World War One divided Italians in radical ways. These divisions (over participation in the war, the meaning of the conflict, the events of the war itself and the military tactics involved) led to a series of memory wars after 1918. These conflicts were over how to remember the war, and what to remember, as well as over the facts of the war itself. A particularly intense battle was over forms of public memory, with a series of models emerging: a Catholic model of pity for the dead, a radical nationalist model which glorified the conflict and a socialist, internationalist model which saw the war as a tragedy and a crime perpetuated by capitalism. This paper will look at the memory wars which took place in Italy after 1918, with a focus on public memory and on the battles between fascists and socialists to impose their own versions of the conflict which had just ended, often through the use of violence. ***** Ghioni Gloria Maria Non c’era che la guerra»: l’esperienza bellica nella scrittura di Corrado Alvaro La presente relazione si propone di indagare la scrittura di guerra nella produzione di Corrado Alvaro (18951956), prolifico scrittore, drammaturgo e giornalista calabrese, inserito nei canoni della narrativa europea quale inesausto sperimentatore di generi e di tematiche. Alvaro, ufficiale nella Prima Guerra Mondiale fino al ferimento in territorio carsico, lascia in primis testimonianza della guerra nelle Poesie grigio-verdi (1917), prove immature ma interessanti, in cui prevalgono momenti nostalgici, ricordi della quiete familiare e dell’infanzia, nonché del paese e dei primi turbamenti amorosi. 5 Più memorialista sentimentale che cronachista, anche nei racconti (in rivista negli anni ’30) Alvaro attesta l’esperienza di giovani sradicati dalla terra d’origine, disorientati, inesperti e fragili, improvvisamente responsabilizzati e portati al fronte. In questa dimensione di confusione valoriale e di avvertimento dell’effimero, trova grande spazio il tema dell’ingresso difficile e accidentato nel mondo dei sentimenti e dell’erotismo, tra paura, senso di estraneità, pulsioni antitetiche, diffidenza e difficoltà relazionali, sia con donne più adulte sia con le cosiddette “donne di guerra”. Anche il patriottismo è affrontato problematicamente: ne è testimonianza l’unico romanzo interamente dedicato alla guerra, Vent’anni. Uscito nel 1930, l’opera ha per Alvaro innanzitutto valore documentario, per lasciare ai posteri memoria delle vicissitudini, dei rovelli, dei doveri nonché delle umanissime paure dei soldati. Insoddisfatto per l’aspetto stilistico dell’opera, Alvaro riprende il romanzo negli anni ’50, asciugando porzioni didascaliche, riflessioni parentetiche, divagazioni che rispondevano allo scopo originario ma che minavano il risultato estetico. Nell’affrontare l’analisi critico-testuale, in questa sede s’intende considerare le prove poetiche e prosastiche, i pochi frammenti diaristici e porzioni di testo tratte da entrambe le edizioni del romanzo (previa collazione e analisi variantistica). Si cercherà quindi di cogliere le relazioni delle suddette opere con il resto della produzione dello scrittore, con particolare attenzione al contesto letterario coevo, al fine di dimostrare la specificità dell’esperienza di Alvaro. ***** Giannanti Alessio Paura, fame e freddo: lo stile “disertore” nelle novelle di guerra di Federico De Roberto. (Appunti su stile e ideologia bellica) Nelle perlustrazioni critiche della letteratura della Grande Guerra si tende spesso a tralasciare – in favore delle preponderanti memorie degli intellettuali soldati – una categoria di scrittori che, senza essere stati testimoni diretti degli eventi (ad esempio, per ragioni anagrafiche) seppero comunque raccontare quello sconvolgimento epocale in modo non meno autentico. Tra gli scrittori, che operarono lontani dal fango delle trincee, spicca Federico De Roberto (1861-1927), il quale ormai ridotto ad una condizione di marginalità tentò, in quegli anni, un rilancio della sua attività, dapprima pubblicando in due volumi una serie di interventi apparsi sui quotidiani (ad es. «Giornale d’Italia»): Al rombo del cannone (1919) e All’ombra dell’ulivo (1920) e, soltanto alla fine del conflitto, pubblicò nove “novelle di guerra” che sono un’interessantissima prova della complessità e ambivalenza della rappresentazione letteraria. Infatti, se con la pubblicistica De Roberto muoveva da posizioni interventiste, adesso con le opere letterarie viene smentito ogni intento propagandistico e assistiamo ad un ribaltamento di significato attraverso il ritorno della forza demitizzante del realismo critico dei Viceré. Tra queste prove ha conquistato una certa rinomanza il capolavoro della narrativa breve La paura che costituisce una fortissima denuncia per quanto forse involontaria (si può richiamare il «caso Balzac») della vacuità di ogni eroismo e retorica del sacrificio. Le altre novelle meritano attenzione, anche per l’uso sperimentale del dialetto (La posta, La retata). E comunque tutte contengono una confutazione delle versioni ufficiali: la guerra in De Roberto è ricondotta alla sua tragica essenzialità, è vista come antieroica paura della morte e della fame (la povertà materiale è al centro dell’umorismo amaro di All’ora di mensa); come uno stato di calamità (Il rifugio) che investe l’uomo e contro cui si ribellano non istanze politiche ma le pulsioni vitali, l’istinto biologico di corpi che non vogliono sottostare alle leggi e alle imposizioni della retorica. ***** Grossi Erica The Memory of the Great War in the Pictures from the Italian trenches. Perceptive handicap as testimony In the Italian archives it is present a big mass of Great War’s pictures, which are visually eloquent but apparently “meaningless” as historical documents. However this material represents a chance for the Cultural Studies to sound out and study the main features of individual and collective experience of the soldiers in the trenches. In fact, the trench –as visual device and physical space for the life of million of men between 1914 and 1918– acquires through pictures in the 6 frame of the ground, the role of encoder for the experience and also of tool for building a memory, a testimony, a story of that. Following the principle for which the testimony is a lack, a lacuna [Agamben] and considering the intrinsic temporality and historicity, hence the memory and therefore the holes of the image [Didi-Huberman], we intend to analyse the photographic material from the Italian trenches just as the corpus of private and collective memories, subjects to the visual device of trench and for this reason structurally “full of voids”. In fact, the memory of the Great War –especially the one written and conserved in the archives of popular memoirs, already widely studied– builds itself on the perceptive fragmentation, due to the trench both as the device and as an anomalous space-time dimension: an exception to the experience and a recoding of human cognitive skills. In fact, the subject’s handicap pre-exists to the physical mutilations and wounds so as to determine not only the connection between the individual and the reality but also the possibility for him to be an eyewitness. ***** Gualtieri Alessandro Title: Eye-witness reports from the Italian Front manslaughter A 90-page handwritten diary of an Italian trooper of the so-called Great War is going to be introduced as an eye-witness account of some 4 years of intense fighting in the Italian trenches and the rest of the war spent in many different Austrian prisoner camps. The most unique feature of this long series of vibrant, gruesome and often moving accounts is its real-time reporting style which dramatically stands out especially when compared to thousands of post-war memoirs. In spite of being barely able to write and read, Settimio Damiani, the author of the diary, struggled to keep his sanity by thoroughly reporting each single aspect of his military endeavour throughout his unbiased accounts. This soldier was one of only 6% of the Italian population who could actually read and write in the early 20th century. Even more rare, was owning a pen or pencil in the midst of combat. During the presentation of the diary Italian Great War scholar Alessandro Gualtieri will underscore the quite unusual role of the above mentioned soldier during the infamous rout of Caporetto, where more than 10,000 Italians died and hundreds of thousands were taken prisoner. Settimio was in fact amongst the few sent to the front lines to repel the German/Austrian attack. As if Settimio Damiani had been sent to report “live” from the manslaughter, this will be a most unique and real historical and human appraisal of such a great battle of the First World War which has been already depicted just by mere fictional and biased accounts in the past. For the benefit of the International audience, Gualtieri has recently published the war diary in book form, filling in the historical and geographical gaps left by Settimio Damiani’s illiteracy and inevitable lack of a much bigger military and political picture. ***** Melloni Giorgio La Grande Guerra tra pedagogia e allegoria: la lezione di Lussu in Monicelli e Rosi Il saggio si concentra su La grande guerra di Monicelli (1959) e Uomini contro (1970) di Rosi. La grande guerra è un film “corale”, che dà immagine, voce, a una “massa di gente”, prevalentemente contadini, che per quattro anni “combatte una guerra assurda”. L’antimilitarismo storico e il pacifismo morale di Monicelli sono presenti in molti momenti del film, che rileggono in nuova chiave gli eventi della prima guerra mondiale. Fra i più interessanti son quelli originati dall'interpretazione allusiva che di Un anno sull’altipiano ci propongono gli autori della sceneggiatura: insieme a Monicelli, Age e Scarpelli e Vincenzoni. Si pensa qui sia al personaggio di Bordin, esemplato sullo zio Francesco del libro, sia a un altro frangente, che sta allo spettatore riconoscere, tra lo scorrere delle immagini e le righe marginali del “paratesto” dello Genette. L’eroismo casuale e sincero, assurdo e atroce degli antieroi del film, se da una parte affida allo spettatore una disincantata disamina della vita militare, dall’altra insegna – come ha scritto Goffredo Fofi – “la capacità di riscatto degli umili nel quadro di una grande tragedia storica e collettiva”, preannunciando il “risveglio delle coscienze” di un’Italia che si accosta “alle forme di una democrazia reale”[1]. Attraverso una sorta d’inversione chiastica e metonimica della funzione paratestuale del libro del Lussu, Rosi, assieme ai coautori della sceneggiatura di Uomini contro, Tonino Guerra e Raffaele La Capria, sospinge ai margini l’antigrafo lussuiano dell’adattamento. I 7 personaggi del protagonista Lussu (il Sassu del film), del tenente Ottolenghi, del generale Leone e del tenente di Stoccaredo si trasformano nel film di Rosi in modelli estremi, decostruiti, di un’interpretazione storicistico marxista di Un anno sull’altipiano, cui si sovrappone vieppiù la lettura metastorica della Grande Guerra. Questa dimensione allegorica fa di Sassu un personaggio kafkiano, dacché l’insubordinazione dello scrittore Lussu diviene condanna dei potenti della guerra, i giudici che processano e giustiziano senza appello la protesta di “una vera pace” di Sassu. Questi viene presentato emblematicamente in camicia bianca alla fine del film, in fondo a una cava baratro, sulla quale scende scura dopo una carrellata ottica la dissolvenza in chiusura. ***** Payer Isabelle La fratellanza alla prova della guerra e della scrittura da Gadda a Stuparich La fratellanza oltre che includere il legame fraterno in senso stretto, e un suo sviluppo metaforico, si esprime pienamente nello spazio dove l'individuo e il collettivo si incrociano. È quello spazio dove più compitamente si scrive la storia dell'umanità. Nel corso della storia la fratellanza, mentre resta un riferimento potente per i cristiani, cambia, in un contesto di secolarizzazione delle società. In Francia, soprattutto nel Settecento, emerge una dimensione politica della fratellanza e va a occupare un posto centrale nel periodo rivoluzionario, iscrivendosi a pieno titolo nella triade repubblicana accanto alla libertà e all'uguaglianza. Dal 1848 ai primi del Novecento la questione della fratellanza à al centro delle preoccupazioni e di molti dibattiti del mondo politico europeo. Sia che essa sia associata alla costruzione nazionale, come nell’Italia Risorgimentale, sia che prenda dimensioni più universali, come per esempio nella « grande fratellanza socialista » evocata da Jean Jaurès. Ma quando l'Italia nel 1915 entra in guerra, cosa resta della fratellanza ? Come giustificare le atrocità della guerra in nome della fratellanza nazionale ? Cosa sono gli altri soldati, presentati come nemici, se non « fratelli umani » ? Come ricostruire una comunità fraterna dopo l'esperienza della guerra ? Queste domande sono state affrontate da tanti scrittori italiani che hanno scritto della guerra. Proponiamo nel nostro contributo di mettere in relazione vari testi italiani (di Stuparich, Gadda, Lussu, Salsa per esempio) per tentare di definire se in una tragedia come la Prima Guerra mondiale possa esistere uno spazio per la fratellanza e se, dopo la guerra, la scrittura della memoria possa permettere la ri-nascita o la ricreazione di una comunità fraterna. ***** Petrossi Antonio Una lingua per il consenso. Studio sul linguaggio della propaganda interna La proposta di intervento riguarda i primi risultati di una ricognizione sull’influenza della lingua di Propaganda nella Grande Guerra sui meccanismi linguistici dei parlanti, analizzati nei testi elaborati degli scriventi semicolti. Il grado d’interferenza della propaganda sul modello linguistico di una popolazione si può misurare dalla presenza di tracce linguistiche negli epistolari, che sono l’ideale fonte documentaria per lo studio della soggettività e della mentalità collettiva di un’epoca, perché luogo di rielaborazione del vissuto quotidiano. Lo studio interesserà i volumi di una collana editoriale, “Le pagine dell’ora”, pubblicata dalla casa editrice “Fratelli Treves” in accordo coll’Ufficio Propaganda dell’Esercito, e la corrispondenza di militari e di civili, raccolta nei fondi conservati nell’Archivio Centrale di Stato e presso l’Ufficio storico dell’Esercito. La linea editoriale della collezione era articolata nella promozione di volumi che contenevano – come recita la presentazione della collana – “le espressioni più significative d’uomini di pensiero e d’uomini d’azione sulle vitali questioni del tempo”. Le pubblicazioni – iniziate nel 1916 e costituite da discorsi, memorie e saggi – avevano una grande diffusione tra i lettori per la semplicità linguistica e l’immediata comprensibilità 8 del messaggio, che forniva agli strati sociali meno acculturati un preciso indirizzo ideologico e un “collante culturale”. La collana, inaugurata da uno scritto del colonnello Angelo Gatti, “L’Italia in armi”, pubblicò in rapida successione diversi titoli di autori d’impatto sull’opinione pubblica. La ricerca si ripartirà in due fasi: innanzitutto si analizzeranno le strutture semantiche e stilistiche del linguaggio usato negli opuscoli (quelli pubblicati nel 1916), per ricostruire la struttura retorica della lingua di propaganda. Seguirà un esame sul grado di incidenza e di condizionamento linguistico ottenuto dal modello retorico e stilistico della propaganda sulle scritture private, segnalando riprese, riformulazioni, fraintendimenti e rovesciamenti delle strutture linguistiche e semantiche. L’impianto di indagine comparata su diversi piani permette di delineare dettagliatamente aspetti di storia linguistica e sociopolitica italiana poco indagati. ***** Santi Mara L’individuo e la folla nel d’Annunzio notturno: il narratore-oratore di guerra come interprete del passaggio culturale, politico e ideologico tra XIX e XX secolo Il paper intende analizzare il ruolo che Gabriele d’Annunzio svolse, nella sua duplice veste di narratore e di soldato della Grande Guerra. In particolare tale ruolo fu definito e assunto nel Notturno attraverso un processo esplicito che portò d’Annunzio a proporsi, nel contesto del conflitto mondiale, come figura esemplare di raccordo tra le istanze del secolo XIX e del nuovo secolo. L’analisi proposta poggia quindi sullo studio del Notturno, che, erroneamente definito un’ “esplorazione d’ombra”, è, tutt’altro che memoriale e intimistico, una consapevole rielaborazione mitopoietica dell’intera esperienza bellica dannunziana, estesa dal 1914 al 1921.1 Il Notturno è, in altri termini, un libro fortemente ideologico, non autobiografico bensì autoreferenziale e, come detto, mitopietico, testimoniante la riflessione in atto alla fine del secolo lungo e che cerca una cesura, un sistema in cui tout se tient, tra la cultura di cui l’Ottocento è stato espressione, e di cui d’Annunzio si fa portavoce, e la nuova epoca, di cui d’Annunzio propone una lettura interpretativa. Esemplare in tal senso è la tentata concliliazione tra la spersonalizzazione della guerra di massa e la tradizionale istanza individuale eroica; come esemplare è la figura del poeta oratore-interventista che, come un sacerdote, comunica alla folla il credo della Patria, esemplificando e modellizzando l’orazione politica che fa leva sulla partecipazione irrazionale al credo collettivo; operazione che sarà poi replicata dal Fascismo mussoliniano come da altre (coeve e successive) forze politiche. Infatti, mentre si pone come mediatore, per la folla, di una superiore visione del reale (in chiave etica e politica), d’Annunzio riprende l’iconografia ottocentesca che intreccia concetti religiosi e istanze politiche, e intanto avvia quel procedimento di gestione intellettuale delle masse che sarà determinante per le grandi ideologie del XX secolo, ideologie che, analogamente, poggiano sulla sovrapposizione di una superiore istanza ideologica alle scelte collettive e individuali e pongono alla guida delle folle un leader o una oligarchia legittimate nei rispettivi ruoli proprio dalla presunta superiorità intellettuale rispetto alle masse. ***** Serra Edda La prima guerra mondiale negli scritti di un irredento redento: Biagio Marin Cittadino asburgico, irredentista e vociano, Biagio Marin lascia un ricordo degli anni di preparazione al primo conflitto mondiale, che vive dalla parte italiana, con Scipio Slataper e Giani Stuparich (I delfini di Scipio Slataper), ma senza prendere parte diretta ai combattimenti sul fronte perchè malato. Significativi gli scritti degli anni successivi, Gorizia. La città mutilata, e Gabbiano reale, e quegli articoli di stampa, quasi introvabili oggi, in cui le ragioni del conflitto vengono riprese a distanza ora rispondendo alla necessità civile del ricordo pubblico collettivo, ora con dolente spirito critico, ora riprendendo la letteratura popolare scaturita nel conflitto (Camber Barni e La buffa). Altra fonte preziosa sono i suoi Diari, inediti, in cui la 1 Come dimostrano i più recenti studi filologici sull’opera, si vedano al proposito i contributi di Carla Riccardi e Mara Santi. 9 riflessione ed il ricordo si rinnovano costanti, ed i carteggi, come quello con Giuseppe Prezzolini edito di recente. ***** Snider-Giovannone Marie-Noëlle Soldati trentini e friulani irredenti? Quella che viene chiamata la Grande Guerra per la sua violenza e le condizioni disumane nelle quali sono vissuti soldati e popolazione civile rappresenta effettivamente una cesura della contemporaneità : ha cambiato il volto dell’Europa geopolitica e la società. Questa Guerra però non finì nel 1918, proseguì almeno fino al 1920, quando, tra gli altri, i soldati del C.S.E.O. (Corpo italiano di Spedizione in Estremo-Oriente) rimpatriarono con i cosiddetti irredenti dei Battaglioni neri. Questi irredenti erano, tra le centinaie di migliaia di soldati austro-ungarici prigionieri in Russia, circa diecimila italofoni del Tirolo del Sud e del Friuli orientale. Furono mandati a Torino, e dopo la Rivoluzione d’ottobre all’estremo est, con il Transiberiano che li portò in Cina nella concessione italiana di Tien Tsin. Lì arrivò da Napoli il C.S.E.O. In cambio della loro adesione alla nazione italiana, gli irredenti furono aggiunti a questo Corpo di Spedizione. Il diario del soldato Peirone, trovato negli Archivi dello SME a Roma, le memorie dell’infermiera svedese Elsa Brändström, attiva nei campi di concentramento in Russia, il racconto del rimpatrio dei prigionieri, rilasciato dal medico, Montandon, capo del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Siberia, le lettere del padre, militare in Siberia, che ispirarono al Prof. Pasquale Villani il libro Rievocare il privato, le Scritture di guerra nei musei, i testi dei canti di guerra, sono tutti testimonianze di un episodio della Grande Guerra spesso taciuti o tralasciati dalla storiografia ufficiale. Queste testimonianze meritano di essere divulgate per capire meglio come è stata vissuta la guerra da chi veramente l’ha fatta. . ***** Troncini Federico «Italiano per elezione»? L’irredentismo democratico di Robert Michels. Tra i fattori che contribuiscono a rendere “peculiare” la Prima Guerra Mondiale rientra senz’altro la straordinaria mobilitazione ideologica che vide protagonisti molti degli intellettuali più prominenti di entrambi gli schieramenti. Anche in Italia il ruolo svolto dal mondo intellettuale nel processo di orientamento dell’opinione pubblica fu decisivo. In questo quadro merita una particolare attenzione il caso per molti aspetti paradigmatico di Robert Michels (1876-1936), figura straordinariamente suggestiva di intellettuale “rinnegato”. A distanza di un secolo dalla sua pubblicazione, la fortuna del suo capolavoro, la Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie (1911), continua ad alimentare la sua fama internazionale, ma oscura quasi del tutto l’interesse che tuttora meriterebbero, sia pure in misura diversa, alcuni dei numerosi altri scritti. E, tra questi, soprattutto quelli dedicati ai temi del patriottismo, del nazionalismo e dell’irredentismo, che, per quantità e qualità, inducono legittimamente a parlare, accanto al più noto e celebrato Michels “studioso del partito politico”, anche di un Michels “studioso della tematica nazionale”. Obiettivo principale del progetto consiste – attraverso l’esame del suo fitto carteggio, conservato presso l’Archivio Roberto Michels della Fondazione Luigi Einaudi di Torino e finora del tutto inedito – nel ripercorrere le diverse fasi della riflessione michelsiana in relazione ai profondi dilemmi che l’entrata in guerra dell’Italia gli pose in quanto tedesco naturalizzato italiano, in quanto socialista e in quanto intellettuale cosmopolita. La rilettura dei suoi scritti e del suo carteggio permetterà: a) di fare luce su una porzione fondamentale della storia delle idee politiche in Italia; b) di approfondire il complesso insieme di contraddizioni cui si espose un’intera generazione di intellettuali di fronte al fallimento dell’internazionalismo socialista; c) di riesaminare la straordinaria capacità di penetrazione della retorica nazionalistica anche tra le file di quegli intellettuali che, come Michels, avrebbero dovuto essere – per nascita, formazione, principi ideali e convinzioni politiche – meno permeabili alle sue sirene; d) prendere in considerazione il travaglio esistenziale di coloro che, come Michels, tra 1914 e 1915, dovettero compiere una scelta lacerante tra la patria d’origine (la Germania) e la patria d’adozione (l’Italia). 10 ***** Vercesi Matteo La Grande Guerra in milanese. Caporetto 1917 di Delio Tessa Viene proposta un’analisi del ‘saggio lirico’ in milanese Caporetto 1917, del grande poeta dialettale Delio Tessa (1886-1939), composto nel 1919 ed inserito nella raccolta L’è el dì di Mort, alegher! (È il dì dei Morti, allegri!), edita nel 1932. Inserito nell’alveo della grande tradizione lombarda – narrativa e lirica – di Manzoni e di Porta, sensibile ai temi e agli stilemi del simbolismo francese e della produzione poetica del suo tempo (Pascoli, Gozzano e Ungaretti) ma altresì alle suggestioni dell’espressionismo mitteleuropeo, Tessa attua un processo di rottura degli schemi lirici tradizionali operando una divaricazione di metrica e sintassi, contrappuntando «per fratture e dissonanze» (Mengaldo) i suoi tessuti poetico-narrativi, ed offrendo in tal modo un suggestivo affresco della progressiva disgregazione degli statuti logico-razionali. La scelta del dialetto risponde all’esigenza di spezzare il giogo della retorica che imperò nel dopoguerra, durante il regime mussoliniano: il milanese dell’antifascista Tessa è la lingua di un popolo che ha perduto la fede in Dio e nel progresso («Riconosco ed onoro un solo Maestro: il popolo che parla», scriverà nella Dichiarazione posta a premessa de L’è el dì di Mort, alegher!); lingua della disarmonia, della solitudine, del disincanto e della follia. Caporetto 1917 è uno dei vertici della poesia italiana del Novecento inerente alla tematica della guerra, il quale presenta un elemento di innovazione nella pluralità di piani narrativi che confliggono, ove l’“io lirico” (il poeta che ha visitato il cimitero nel giorno dei Morti e che transita in mezzo ad una folla in esodo) appare decentrato rispetto agli eventi e alle scene che si susseguono (la fuga dei contadini, la periferia urbana con gli ‘stabilimenti bellici’, fino alla tragedia finale di una gioventù mandata al macello nelle trincee e all’amara constatazione della disfatta del Paese); qui il soggetto sembra disperdersi in una collettività scomposta, schiacciata dal peso della grande Storia e dalla mancanza di un senso condiviso. Il manoscritto del poemetto offre poi elementi significativi sulla sua genesi, mettendo in evidenza una distinzione dei vari piani narrativi – segnati dal poeta con inchiostri di diverso colore – strutturati in una sorta di partitura. ***** Vezzoni Alessia «Mia Carissima Mamma… » Spigolature dal carteggio inedito Gadda - Adele Lehr dell’Archivio Liberati Il contributo intende offrire una testimonianza diretta dell’esperienza bellica di Carlo Emilio Gadda, ripercorsa attraverso una selezione per frammenti (tra i più eloquenti stilisticamente e semanticamente costitutivi) estratti dalle lettere che il tenente degli alpini inviò alla madre, Adele Lehr, tra il settembre 1916 e la prima metà del 1919: dal fronte; quindi dalla prigionia; infine nelle tappe che ne scandirono il «gramo» rientro in Italia, la patria ormai da ridescriversi. Le lettere appaiono quanto più degne di rilievo poiché integralmente inedite (affiorate solo di recente dalla poderosa messe di carte gaddiane custodite nell’Archivio Liberati) e perché in grado di restituire quell’intrico autentico di affetti familiari che aveva avvinto l’essere Gadda - l’uomo, l’autore, il sopravvissuto - e che perdurerà, stringente, ad liminem. Delle lettere alla madre si vuole offrire una lettura critica (non soltanto microscopica), dialogante per comparazioni con quanto parallelamente registrato da Gadda, in date coeve, nei diari su campo (il fututo Giornale di guerra e di prigionia), senza trascurare le annotazioni dei carteggi altri, pubblicati ad oggi, per affinità diacronica. Scopo del raffronto è appurare ed estrinsecare eventuali oscillazioni nella resa di: topografia, paesaggio; cronaca di nudi fatti; biografia, condizioni psico-fisiche dello scrivente per vedere ancor più da vicino il volto di quella Guerra che fu anche di Gadda. ***** Viti Alessandro Guerra e ripresa di fiducia nella parola poetica Il Novecento della poesia italiana si apre nel segno della negazione: in opposizione all’apoteosi del panismo dannunziano in Alcyone, i poeti della nuova generazione lamentano la propria impotenza e arrivano a negarsi 11 in quanto tali: l’«io non sono/non voglio essere più un poeta» di Corazzini e Gozzano. Nella prima metà degli anni Dieci operano poeti come Sbarbaro, Rebora, Boine, in parte Campana, che, anziché allinearsi alle posture affermative delle avanguardie, prendono le mosse dall’operazione di abbassamento crepuscolare denunciando la propria emarginazione insieme esistenziale e sociale. La condizione di estraneità provata dall’io-poetico rispetto al mondo che lo circonda diventa una tematica cruciale della poesia italiana dell’epoca, che affronta così l’esperienza già baudelairiana della perdita d’aureola. Quale l’effetto della guerra su questi poeti? A differenza di futuristi, lacerbiani e vociani fiorentini, essi non aderiscono, o lo fanno con poca convinzione, alla retorica nazionalista (Gozzano scrive alcune novelle di circostanza, Boine stesso definisce insinceri i propri Discorsi militari). Tuttavia, dalla nuova dimensione di tragedia collettiva discende l’abbandono del tema dell’estraneità: la vicenda individuale scompare all’interno di un dramma più ampio. Partecipando alla guerra, Rebora riallaccia, pur nella comune sofferenza, il contatto con l’umanità, mentre Sbarbaro ritrova la fiducia nella natura e in una parola poetica che, nelle sue prose liriche di guerra, ha un tasso di figuralità e cromatismo superiore a quello di Pianissimo. In questo contesto entra sulla scena poetica Ungaretti, che meglio di ogni altro saprà sublimare liricamente l’esperienza vissuta al fronte: «Sono un poeta», rivendica da subito Ungaretti, che esordisce senza aver attraversato la fase crepuscolare di rifiuto della poesia. L’intervento si propone quindi di analizzare l’esperienza della guerra come uno spartiacque tra la poesia problematica ed ‘estraniata’ di inizio secolo e la lirica italiana del pieno Novecento, nuovamente fondata sul canto, pur nato da una condizione di dolore. ***** 12