Pubblicazioni del Centro Aletti
Il mantello di Elia 4.
ROMAN BRAGA
“OGNI MONACO
HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
© 1998 Arhiepiscopiå Ortodoxå Românå di Alba Iulia
© 1999 Lipa Srl, Roma
prima edizione italiana: ottobre 1999
Si ringrazia vivamente l’arcivescovo ortodosso Andrei Andreicu† di Alba Iulia per il permesso accordato per l’edizione italiana.
Lipa Edizioni
via Paolina, 25
00184 Roma
& 06 4747770
fax 06 485876
e-mail: [email protected]
http://www.agora.it/market/lipa
Autore: Roman Braga
Titolo: “Ogni monaco ha un suo segreto con Dio”
(titolo originale: Trepte duhovniceßti. Interviu cu Pårintele Roman Braga realizat de Dinu Cruga)
Traduzione: Maria-Cornelia Icå
Collana: Il Mantello di Elia
Formato: 170x240 mm
Pagine: 144
Stampato a Roma nell’ottobre 1999
da Abilgraf, via Ottoboni, 11
Proprietà letteraria riservata Printed in Italy
codice ISBN 88-86517-43-2
PRESENTAZIONE DI IOAN I. ICÅ JR.
traduzione dal romeno di Maria-Cornelia Icå
INDICE
Il monachesimo romeno e la sua spiritualità
Presentazione di Ioan Icå jr. ................................................................ 7
“Ogni monaco ha un suo segreto con Dio”
Intervista a padre Roman Braga ........................................................ 25
Appendice:
—Lettera di padre Ioan Kulighin ai suoi figli spirituali ........................ 129
—Il contributo della Romania
ad una spiritualità europea (T. Œpidlík) ................................................ 133
IL MONACHESIMO ROMENO E LA SUA SPIRITUALITÀ
Sono venuto a contemplare il Volto di Cristo scolpito nella vostra
Chiesa; sono venuto a venerare questo Volto sofferente, pegno di
una rinnovata speranza. La vostra Chiesa, consapevole di aver “trovato il Messia”, si sforza di condurre i propri figli e tutti gli uomini
che cercano Dio con cuore sincero a incontrarlo; lo fa mediante la
celebrazione solenne della divina Liturgia e l’azione pastorale quotidiana. Questo impegno coincide con la vostra tradizione, tanto
ricca di figure che hanno saputo unire una profonda vita in Cristo a
un generoso servizio ai bisognosi, un impegno appassionato nello
studio a un’instancabile sollecitudine pastorale. Vorrei ricordare qui
il santo monaco e vescovo Callinico di Cernica, tanto vicino al cuore
dei fedeli di Bucarest. [...]
La vostra terra è disseminata di monasteri, come san Nicodemo
di Tismana, nascosto sulle montagne e fra i boschi, ove batte il cuore
della preghiera incessante, dell’invocazione del santo Nome di
Gesú. Grazie a Paisij Veliµkovskij e ai suoi discepoli, la Moldavia è
divenuta il centro di un rinnovamento monastico che si è diffuso nei
paesi vicini alla fine del XVIII secolo e in seguito. La vita monastica,
che non è mai venuta meno, anche al tempo delle persecuzioni, ha
7
“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
offerto e offre ancora personalità di grande statura spirituale, intorno alle quali vi è stata in questi ultimi anni una promettente fioritura di vocazioni.
I monasteri, le chiese piene di affreschi, le icone, gli ornamenti
liturgici, i manoscritti, non sono soltanto i gioielli della vostra cultura, ma sono anche testimonianze commoventi di fede cristiana, di
una fede cristiana vissuta. Questo patrimonio artistico, nato dalla
preghiera dei monaci e delle monache, degli artigiani e dei contadini ispirati dalla bellezza della liturgia bizantina, rappresenta un contributo particolarmente significativo al dialogo fra Oriente e
Occidente, cosí come alla rinascita della fraternità che lo Spirito
Santo suscita in noi alla soglia di un nuovo millennio. La vostra terra
di Romania, fra la latinitas e Bisanzio, può diventare terra d’incontro
e di comunione. È attraversata dal maestoso Danubio, che bagna
regioni d’Oriente e d’Occidente: che la Romania sappia, come questo fiume, creare rapporti d’intesa e di comunione fra popoli diversi, contribuendo cosí a consolidare in Europa e nel mondo la civiltà
dell’amore! [...]
Grazie per aver voluto essere la prima Chiesa ortodossa a invitare nel proprio paese il papa di Roma; grazie per avermi dato la gioia
di questo incontro fraterno; grazie per il dono di questo pellegrinaggio che mi ha permesso di rafforzare la mia fede a contatto con
la fede di ferventi fratelli in Cristo! Venite, “camminiamo insieme
nella luce del Signore!” Grazie. Una visita che è indimenticabile,
Romania. Qui, si è oltrepassata la soglia della speranza!
Giovanni Paolo II
discorso al Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa Romena
Bucarest, 8 maggio 1999
Non è una cosa facile presentare il monachesimo romeno e la sua spiritualità.
Ci sono soprattutto due tipi di difficoltà che deve affrontare chi vuole scrivere su
questo tema: primo—la mia appartenenza al clero diocesano e la mia qualità di
professore mi rendono in qualche modo in una posizione esterna rispetto al fenomeno monastico; secondo—l’assenza di un approccio storiografico e fenomenologico al monachesimo romeno nella letteratura romena o universale. In qualche
modo possiamo dire che l’importanza che il monachesimo assume nella vita religiosa del popolo romeno è all’opposto della scarsità dei riferimenti bibliografici su
di esso. Questa scarsità è però molto significativa, non solo a causa delle mancanza di fonti documentarie scritte, ma soprattutto perché riflette una delle caratteristiche principali del monachesimo romeno: il suo carattere anonimo, tradizio-
8
PRESENTAZIONE
nale, orale, e la discrezione della sua presenza esteriore. Questa sua presenza
discreta nella vita pubblica è praticamente l’effetto del suo concentrarsi rigorosamente sui problemi spirituali, sui rapporti con la dimensione verticale, trascendente e sulla vita interiore nello Spirito Santo che fa bruciare totalmente ogni
traccia terrena nell’unione del monaco con Dio fino alla sparizione di qualsiasi
segno visibile nell’Invisibile.
Esistono pochi saggi e introduzioni sul monachesimo romeno nelle lingue
europee: manca ad esempio un articolo speciale su la “Roumanie” in Dictionnaire
de Spiritualité.1 In italiano però la situazione è un po’ diversa perché il lettore è
piú fortunato. Egli infatti può trovare due presentazioni generali: l’articolo sulla
“Romania” in Dizionario degli istituti di perfezione2 scritto da Ioan
Dumitriu-Snagov, e l’ottima introduzione di padre Elia Citterio dei Fratelli
Contemplativi di Gesú al volume dell’archimandrita romeno Ioanichie Bålan
Volti e parole dei Padri del deserto romeno,3 ispirato per la maggior parte
dalle ricerche di questo autore. Queste due presentazioni sono il risultato di due
ermeneutiche diverse, che solo una lettura comparata potrà mettere in risalto.
L’articolo di Ioan Dumitriu-Snagov ha un carattere puramente informativo e
una rigorosa divisione cronologica e confessionale. Dopo una breve introduzione
sulla vita spirituale in Romania dalle origini del cristianesimo fino al XIV secolo
(la fondazione statale dei principati di Valacchia e Moldavia), segue un capitolo
principale in cui passa in rassegna le evoluzioni del monachesimo ortodosso, e
afferma:
Le origini del monachesimo in Valacchia [principato del sud della
Romania, autonomo dal 1330] si debbono a Nicodemo († 1406) che,
nativo della Macedonia serba, si era formato all’ascesi sul Monte
Athos, professando nel monastero serbo di Chilandari e, dopo un
probabile soggiorno a sud del Danubio, nella Krajna (sotto il dominio serbo), ove pare abbia fondato due monasteri, passò in Valacchia
dove fondò Vodi†a (1369) e Tismana (1375–8).
Oppure:
Se è evidente che non si può escludere la presenza di una vita
monastico-eremita prima del sec. XIV in Moldavia [principato auto-
1
Esiste comunque il grande e importantissimo articolo di “un moine de l’Église Orthodoxe de
Roumanie” [P. A. Scrima, n. 1930], “L’avenement philocalique dans l’Orthodoxie roumaine”, Istina 3
(1958), pp. 295–328, 443–475.
2
VII (1985), coll. 1991–2009.
3
Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 1991.
9
“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
nomo dal 1359], è tuttavia certo che molti monasteri fondati nel
secolo XIV come Neam†, ebbero vita da monaci serbi seguaci di
Nicodemo di Tismana e da monaci venuti dal territorio del sud del
Danubio, in fuga davanti all’avanzare dei turchi.4
I caratteri generali del monachesimo romeno secondo questo studioso sarebbero: un equilibrio tra la vita eremitica e cenobitica, uno stile di vita facile ad adeguarsi alle varie situazioni piuttosto che una regola rigida, un’alternanza tra la
preghiera liturgica, il lavoro, l’ascesi e la contemplazione. I principali contributi
di questo monachesimo sarebbero la creatività artistica, culturale e il sostegno alla
vita nazionale, culturale, sociale ed ecclesiale: i monasteri sarebbero stati i principali centri di appoggio per il sostegno dell’autorità statale, della vita economica
feudale e per promuovere l’arte bizantina, per scrivere manoscritti e stampare i
libri liturgici, all’inizio in lingua slava e poi in romeno, e per difendere l’unità
nazionale della nazione romena. Come elemento particolare sono ricordati i monasteri “dedicati” dai principi romeni ad altri monasteri del Monte Athos, del Sinai,
dei Luoghi Santi, cosa che ha fatto sí che i principati romeni abbiano avuto un
ruolo panortodosso che ha favorito nei secoli XVII–XVII i contatti e gli scambi
con l’ortodossia greca, slava, georgiana, araba, ecc.:
Il lento avanzare della tradizione monastica in terra romena toccò
l’apogeo sul finire del secolo XVIII, allorché il rinnovamento filocalico athonita raggiunse il monachesimo romeno grazie all’opera
dello staretz Paisij Veliµkovskij (1722–1794). [...] La figura spirituale
di Paisij domina la prima metà del secolo XIX del monachesimo
romeno, costituendo anche il tramite fra la tradizione orientale e i
tempi moderni. La sua discendenza spirituale—gli startzi Giorgio
(1730–1806) e Calinic (1787–1869) di Cernica—prolunga e approfondisce l’esperienza vissuta dalla vita monastica, fino all’inizio dei
grandi mutamenti dei tempi che non tarderanno a recare le loro
prove e la loro crisi […]. La fondazione della moderna Romania
(1859)—con la confisca dei beni monastici e la repressione del monachesimo (1863)—tutte queste ingerenze dello stato moderno nella
vita della Chiesa ortodossa romena (che nel 1865 si era dichiarata
autonoma e nel 1885 aveva ottenuto da Costantinopoli il riconoscimento dell’autocefalia) ebbero l’effetto di una stasi per il monachesimo. L’equilibrio venne dopo che nel paese si arrivò a una certa stabilità politica, cioè, per gli ortodossi, dopo la prima guerra mondia-
4
10
Dizionario degli istituti di perfezione VII, 1985, coll. 1994–1995.
PRESENTAZIONE
le. Il monachesimo cominciò allora un’opera di rafforzamento con
l’approfondimento dell’antica tradizione filocalica.5
L’autore cita i primi volumi della traduzione della Filocalia fatti da padre
Dumitru Ståniloae (1903–1993), apparsi a Sibiu tra il 1946 e il 1948. La dura
repressione del monachesimo da parte del potere comunista portò con sé il bisogno
di una sua riorganizzazione sulla base dell’“apostolato sociale”, cosa che significava far funzionare dentro ai monasteri cooperative di produzione, con l’accento messo
soprattutto sulla conservazione dei monasteri come musei. La pubblicazione dei
successivi 6 volumi della Filocalia è stata permessa dal regime solo negli anni
1975–1981; dal punto di vista numerico, il monachesimo romeno aveva alla fine del
comunismo all’incirca 1500 monache e 1000 monaci in 122 monasteri e skit.
Questa è la versione che gli storici offrivano sul monachesimo romeno nel 1982.
Nello stesso periodo, una versione totalmente diversa, perché spirituale e dal di
dentro del fenomeno stesso, veniva offerta da padre Ioanichie Bålan (n. 1930) del
monastero di Sihåstria (Moldavia). Lui riuscí a pubblicare nella Romania comunista una grande trilogia dedicata al monachesimo romeno che ebbe un enorme successo: il primo volume, Vetre de sihåstrie româneascå (1981), è dedicato alla
genesi del monachesimo romeno; il secondo, Pateric românesc (1980),6 presenta
le principali personalità del monachesimo romeno e i loro detti memorabili, dalle
origini fino alla prima metà del XX secolo; il terzo Convorbiri duhovniceßti
(apparso in due volumi, 1984–1988)7 è una raccolta di dialoghi con le piú importanti personalità spirituali e teologiche alla fine di questo secolo.
Possiamo aggiungere qui anche i saggi di padre Ioan G. Coman riguardanti gli
scrittori spirituali di lingua latina e greca, dei secoli IV–V, nella Scytia Minor e nella
zona inferiore del Danubio,8 poi anche il saggio di padre Dumitru Ståniloae, “Sulla
storia dell’esicasmo romeno”, pubblicato alla fine del volume 8 della Filocalia romena (1979)9 e infine le importanti ricerche di Dan Zamfirescu e dell’archimandrita
Ciprian Zaharia degli anni 1983–198810 sul “Contributo romeno” al fenomeno paisiano e sulla precedenza delle traduzioni romene della Filocalia. I loro saggi molto
accurati hanno dimostrato che i monaci romeni hanno lasciato in manoscritto, anche
prima di Paisij e della sua scuola di traduzioni patristiche, la prima traduzione della
5
Ibidem, coll. 2001-2002.
6
Tradotto anche in greco moderno nel 1984 e in inglese americano nel 1994.
7
Il primo tradotto in greco moderno (1985) e in inglese americano (1994), alcuni frammenti
anche in italiano nel 1991, cf supra n. 3.
8
Scriitori bisericeßti în epoca stråromânå, Bucureßti 1979.
9
Bucureßti 1979, pp. 555–587.
10 Accanto a questi ultimi contributi romeni si collocano le ricerche dei monaci italiani Elia
Citterio e Dario Raccanello.
11
“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
Filocalia in lingua parlata, perché la versione di san Nicodemo del 1782 era in greco
e quella di Paisij del 1793 era in slavo antico. Essi hanno dimostrato anche il fatto
che Paisij si è ispirato molto a queste traduzioni romene.11
L’immagine del monachesimo romeno che emerge da tutti questi contributi è
profondamente diversa da quella arida dello storico. Un eccellente riassunto
divulgativo di queste ricerche è accessibile al lettore occidentale nella tesi di laurea di padre Romulus Joantå (attualmente metropolita Serafim di Germania e
dell’Europa Centrale): Roumanie. Tradition et culture hesychaste.12
In poche parole, questa è la situazione della ricerca sul monachesimo romeno.
Cercherò adesso di presentare alcuni aspetti piú caratteristici e meno conosciuti in
Occidente di questo fenomeno molto interessante.
L’origine del monachesimo romeno è strettamente legata alla genesi del cristianesimo ortodosso romeno, alle sue particolarità e alla genesi del popolo romeno stesso.
Praticamente il popolo romeno come tale è nato nel primo secolo dopo Cristo nella
Dacia conquistata dall’imperatore Traiano nell’anno 106, e proviene proprio dalla
fusione dei geto-daci—popolo indoeuropeo apparentato con i traci—e dei romani,
una fusione messa sotto il segno del lupo,13 come se fosse predestinato alle guerre, alle
invasioni, alle ondate barbariche, come se cioè fosse nato sin dall’inizio sotto il segno
del “terrore della storia”—dal primo invasore, il re persiano Dario, fino all’ultimo, il
comunista Stalin. La vera spina dorsale dello spazio romeno sono i monti Carpazi che
hanno rappresentato pure il centro religioso degli antichi geto-daci. Paradossalmente
si può dire che i romeni sono tra i pochi popoli che hanno avuto monaci eremiti anche
prima di essere cristiani. Si tratta dei gruppi religiosi degli abioi, ktistai, pleistoi,
kapnobates, theosebeis con una vita ascetica severa, di solitudine e celibataria, che
è stata una componente centrale della religione dei geto-daci di Zalmoxis, una religione di carattere misterico e sapienziale di tipo pitagorico centrata sulla dottrina e
sulla pratica di ricevere l’immortalità in un modo ascetico-contemplativo. I daci
erano visti come un popolo assai religioso, il cui primo scopo era di ottenere l’immortalità (hoi athanatizoutes). Zalmoxis è stato l’unico personaggio religioso barbaro ad attirare l’attenzione degli intellettuali greci e latini durante tutta l’antichità.14
11
C. Zaharia, “La Chiesa Ortodossa Romena in rapporto alle traduzioni patristiche filocaliche
nelle lingue moderne”, Benedictina 35 (1988), pp. 153–172; Elia Citterio, “La scuola filocalica di Paisij
Veliµkovskij e la Filocalia di Nicodemo Aghiorita. Un confronto”, in: Amore del bello. Studi sulla
Filocalia, Ed. Qiqajon, Comunità di Bose, 1990, pp. 181–207.
12 Difesa nel 1985 all’Istituto “Saint-Serge” di Parigi, e pubblicata presso l’Abbaye de Bellefontaine nel 1987, 320 pp.
13 Animale mitico che aveva un significato molto importante per ambedue i popoli, come ha
dimostrato M. Eliade, De Zalmoxis à Genghis Khan, Paris 1970.
14 Da Erodoto (Historia IV, 93–96) e Platone (Charmides 156d–157c) fino a Clemente di Alessandria
(Stromateis IV, 8, 57), Origene (Contra Celsum II, 34) e Giuliano l’Apostata (De Caesaribus 22).
12
PRESENTAZIONE
È soprattutto caratteristico un passo del dialogo Carmide (156d–157c) in cui
Socrate narra il dialogo con uno dei medici traci di Zalmoxis «dei quali si dice che
possano offrire anche l’immortalità» e che, a differenza dei medici greci che non curano che il corpo, Zalmoxis si cura della totalità dell’uomo, cioè sia del corpo che dello
spirito, perché «dallo spirito deriva tutto quello che si trova nel corpo». Per questo
Zalmoxis—diceva Socrate—curava prima lo spirito per poter poi guarire il corpo.
In un passaggio degli Stromata (IV, 8, 57–58), Clemente di Alessandria fa un
paragone tra il sacrificio dei geti e il sacrificio dei cristiani e si mostra contento
che la Chiesa sia piena della filosofia ascetica degli uomini e delle donne che riflettono sulla morte di Gesú.
Proprio queste analogie tra il cristianesimo e la religione degli antichi getodaci, tra l’ascetismo di Gesú e quello di Zalmoxis, possono offrire una spiegazione per la scomparsa della religione dei geto-daci e per la cristianizzazione rapida
e precoce della popolazione romanizzata in Dacia. Il cristianesimo predicato in
latino volgare ha avuto un ruolo decisivo nella genesi del popolo romeno. Lo dimostra l’arcaicità dei termini-chiave della fede cristiana, che in romeno sono quasi
tutti di origine latino volgare. Questa terminologia latina, accanto ai toponimi
altrettanto latini, sono delle prove convincenti—oltre le prove archeologiche—dell’autenticità della fede cristiana dei daci romanizzati e cristianizzati allo stesso
tempo e della continuità del popolo romeno in Dacia durante tutto il primo millennio dell’epoca cristiana. Sono due tesi molto importanti della nostra storiografia sviluppate specialmente in polemica con la storiografia ungherese nei secoli
scorsi, ma i risultati restano validi anche oggi.
Il paleocristianesimo della Scytia Minor e della Dacia era molto ricco dal punto
di vista spirituale. Lo dimostrano convincentemente i martiri dei secoli III–IV (una
straordinaria tomba dei quattro martiri paleocristiani è stata scoperta recentemente
a Niculizel in Dobrogea nel 1971), la presenza dei vescovi di Tomis ai primi concili
ecumenici, l’attività missionaria di san Niceta di Remesiana († 415) chiamato “l’apostolo dei daci”, ma anche la presenza di veri centri monastici fiorenti in questo
periodo in Dacia da dove usciranno poi Giovanni Cassiano († 435), Germano, i
“monaci sciti” all’inizio del VI secolo e Dionigi il Piccolo († 545) la cui attività teologica a Roma avrà un’importanza ecumenica per la Chiesa antica.
Alcuni esempi sono forse significativi. Il vescovo Teotimo di Tomis (fine del IVinizio del V secolo) era un aner philosophia trapheis (uomo educato nella filosofia), un asceta con i capelli lunghi, venerato dagli unni come “dio dei romani”,
amico di san Giovanni Crisostomo e difensore di Origene a Costantinopoli nel 403
davanti ad Epifanio di Salamina,15 autore di opuscoli e di dialoghi spirituali con15
Socrate, HE IV, 2; Sozomeno HE VIII, 14.
13
“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
templativi di cui si sono conservati alcuni frammenti eloquenti in Sacra Parallela
di san Giovanni Damasceno. Ecco una citazione: «Non ricordarsi di Dio significa
non ricordarsi la vita; dimenticare Dio significa la morte. Non dobbiamo aver presente in mente niente altro che Dio».16
San Paolino da Nola spiega nel Carmen XVII (vv. 217–220, 225–228) il
modo concreto in cui san Niceta di Remesiana, un asceta severo, è riuscito a fare
dei daci selvaggi e violenti dei monaci cristiani:
“O vices rerum! Vene versa forma!
ivii montes prius et cruenti
nunc tegunt veros monachis latrones
pacis alumnos”.
Nel Prefatio ad Ioanem et Leontium 1, 2, 3, san Dionigi il Piccolo descrive
cosí il monachesimo fiorente nella Scytia Minor:
«Novum forsitan videatur ignaris, si Scythia quae frigoribus
simul et barbaris probatur esse terribilis viros semper eduxerit calore ferventes et morum placiditate mirabiles; nobis hoc ita esse non
solum nativa quadam notitia, verum etiam experientia magistra
compertum est, quos ibidem per Dei gratiam constat exposita terrena congregatione sacramento renatos esse baptismatis, qui beatissimorum quoque patrum, quibus illa regio spirituali quodammodo
fertilitate gloriatur, caelestem conversationem in carne fragili meruimus intueri».
Ma questo fiorente paleocristianesimo e monachesimo dacio-romeno17 dovrà
presto subire il “terrore della storia” sotto la forma delle successive ondate barbariche e poi dei grandi imperi che hanno invaso, devastato o dominato per qualche
tempo l’antica Dacia dopo il ritiro sotto la pressione delle invasioni barbariche dell’amministrazione e dell’esercito romano nel 271. Dopo il crollo della frontiera
danubiana dell’Impero bizantino nel 602 a causa dell’invasione degli slavi, il
popolo romeno perderà il contatto diretto con le due Rome e per sopravvivere si
ritirerà per molti secoli in un modo di esistenza pastorale, a-storica, intorno ai
Carpazi, rimasti inaccessibili per gli invasori barbari.
In questo lungo periodo, il cristianesimo romeno riceverà alcuni tratti particolari: prima di tutto diventerà un cristianesimo popolare e cosmico18 e il monachesimo sarà sempre piú rigoroso, piú ascetico e contemplativo del tipo esicasta.
16 PG 90, 520B, 525A, 533D.
17 Il piú importante studio è di Emilian Popescu, “Frühes Mönchtum in Rumänien”, in:
Christianitas Dacio-Romana, Bucureßti 1994, pp. 217–234.
18 Analizzato in un modo molto accurato da Mircea Eliade, De Zalmoxis à Genghis Khan, cit.
14
PRESENTAZIONE
Questi due tratti sono praticamente il risultato di tutta un’arte di sopravvivere alle
aggressioni della storia in un modo spirituale ed escatologico. L’entrata nello spazio slavo e l’uso dello slavonico come lingua liturgica, per alcuni secoli non cambierà mai il carattere essenzialmente ascetico e spirituale del cristianesimo romeno.
Il monachesimo ha avuto un ruolo decisivo nello sviluppo del cristianesimo
romeno. Non si tratta però di un monachesimo come parte a sé stante, separato
dal resto del mondo e dalla chiesa. Si tratta di un monachesimo come fermento, in
vera osmosi con il popolo e capace di ispirare tutta una cultura. Di questo monachesimo, poi, il carattere piú specifico che emerge è la sua ispirazione esicasta. In
Romania il termine esicasta conobbe una fortuna unica in tutta l’ortodossia. Ne
danno testimonianza le innumerevoli denominazioni di montagne, colline, fiumi
e località con termini di origine monastica che ricordano il nome di tale o tale
monaco esicasta che ha vissuto in quei luoghi.
L’appellativo esicasta deriva dal greco hesychía, termine che designa uno stato
di calma, pace, solitudine, silenzio, assenza di ogni forma di agitazione, tanto esteriore che interiore. Nell’ambito della spiritualità cristiana, con la parola esicasmo ci
si riferisce oggi a due fenomeni distinti: il primo concerne quell’orientamento spirituale che coincide con le origini stesse del monachesimo orientale e che può essere
definito come un orientamento essenzialmente contemplativo che pone la perfezione
dell’uomo nell’unione con Dio tramite la preghiera. Il secondo riguarda un particolare metodo di preghiera, basato sull’invocazione incessante del nome di Gesú, la cui
forma viene codificata negli ambienti monastici del Monte Athos, nei secoli XIII e
XIV. In tale contesto, il termine si estende fino a comprendere sia il movimento di
rinnovamento spirituale in seno al quale quel metodo di preghiera si sviluppò grazie alla figura di san Gregorio il Sinaita († 1347), sia la sintesi filosofico-teologica
elaborata da san Gregorio Palamas († 1359) per difendere e sostenere quanti si servivano proprio di quel metodo. Tutti e due i fenomeni legati al termine esicasmo
hanno avuto una grande influenza sulla spiritualità della Chiesa romena. Essi però
sono stati assunti in un modo vivo e originale, tanto che si parla a buon diritto della
“tradizione esicasta romena” come di un fenomeno tipico, sviluppatosi fin dalle origini stesse del cristianesimo nelle terre romene e perdurante fino ai nostri giorni.
Padre Ioanichie Bålan ha radunato e sistemato una quantità massiccia di dati
riguardanti la tradizione esicasta romena nel suo libro Vetre de sihåstrie româneascå (1981) che in italiano si potrebbe tradurre con Centri di insediamento di
vita esicasta romena. La parola sihåstrie, dal termine greco hesychastérion,
indica il luogo dove vivono gli esicasti, sihaßtri in romeno. Questi “esicasteri”
hanno conosciuto una tale fortuna e sono stati cosí numerosi che la migliore soluzione per presentarli è parsa all’autore quella di individuare i vari centri o zone
geografiche che hanno visto fiorire stabili e importanti raggruppamenti. Vengono
cosí descritti ben 24 di questi centri, distribuiti nelle 5 regioni che costituiscono
15
“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
oggi la Romania: Dobrogea (2 centri e 9 esicasteri), Moldavia (8 centri e 57 esicasteri), Valacchia (8 centri e 64 esicasteri), Banat (1 centro e 8 esicasteri) e Transilvania (5 centri e 8 esicasteri).
Il sorgere e lo svilupparsi di un numero cosí impressionante di esicasteri è un
fenomeno pressoché unico nel mondo cristiano. Le comunità esicaste hanno rappresentato degli importanti punti di riferimento, non solo in relazione alla diffusione e
allo sviluppo del monachesimo, ma anche per la popolazione romena nel suo insieme. Desideroso di vivere in hesychía, il fedele zelante lascia il suo villaggio per dirigersi verso la foresta. Lí taglia degli alberi per costruirsi una cella e una chiesetta.
Con lui vengono a contatto i pastori e gli abitanti dei dintorni, i quali gli chiedono
preghiere e gli lasciano qualcosa da mangiare. Col tempo, altri fedeli si uniscono
all’eremita, desiderosi di condividere la stessa vita. Vengono costruite altre celle e in
qualche caso si scavano delle grotte nella pietra per ritirarsi in piú completa solitudine. Si comincia poi a organizzare il lavoro per il sostegno della piccola comunità:
un giardino, un orto, qualche arnia per le api. Ben presto sorgono nelle vicinanze le
prime case dei pastori e dei contadini. Non passano piú di due generazioni che già
un nuovo paese sorge, e allora gli esicasti lasciavano agli abitanti la loro piccola chiesa in legno, le icone, le costruzioni, e si trasferivano in un luogo piú solitario, piú
interno nelle foreste e sui monti. Si è calcolato che almeno 300 esicasteri abbiano
dato origine ad altrettanti insediamenti di villaggi e cosí siano scomparsi senza
lasciar traccia. D’altra parte, sul luogo di esicasteri precedenti, sorse la maggioranza dei monasteri romeni. Per farsi un’idea, basta pensare che di almeno ottocento
monasteri nel corso del tempo si è potuto stabilire una siffatta origine.
Il destino del monachesimo romeno è stato in stretta connessione col destino
delle province romene intra ed extracarpatiche. Dall’XI secolo, la Transilvania
entra sotto il dominio del regno cattolico ungherese che opprimerà per secoli la
popolazione romena e distruggerà i monasteri ortodossi sostituendoli con monasteri cattolici. Nel XIII secolo, il regno ungherese stava preparando un’ampia crociata per la conquista e la cattolicizzazione della Valacchia e della Moldavia. Il
progetto è stato per fortuna impedito dall’invasione dei tartari del 1240, che ha
distrutto per quasi un secolo il potere militare degli ungheresi. Per i romeni, la
terribile invasione dei tartari è stata un vero aiuto provvidenziale. Approfittando
della debolezza del regno ungherese tra il 1240 e il 1340, i principati medievali
romeni di Moldavia e Valacchia riusciranno ad organizzarsi. Tutto il loro sforzo
sarà di conservare l’identità spirituale e statale dei romeni, non solo contro l’espansione del cattolicesimo ungherese o polacco, ma anche contro la continua
espansione dell’impero turco musulmano verso l’Europa centrale e orientale.19
19
16
Cf fit. Papacostea, Românii între cruciatã ßi imperiul mongol, Bucureßti 1991.
PRESENTAZIONE
È stata la sfortuna storica del popolo romeno quella di vivere ad un crocevia di
grandi imperi—ottomano, austriaco, russo zarista e poi sovietico—e delle grandi
culture medievali e moderne. La resistenza dei romeni davanti a questi grandi
poteri non sarà solo militare, ma anche spirituale e religiosa. In questo modo si è
riusciti ad evitare durante la storia tanto una colonizzazione ed una integrazione
amministrativa, conservandosi lo statuto di un vassallaggio quasi autonomo,
quanto una assimilazione religiosa sia da parte del cattolicesimo, che della religione musulmana, che da parte di una ortodossia strettamente greca o slava.
Durante quasi duemila anni di disagi storici, i romeni sono riusciti a sopravvivere tanto dal punto di vista politico quanto dal punto di vista spirituale. Un ruolo
importante in questo meccanismo di sopravvivenza dell’ortodossia romena lo
avranno i grandi monasteri cenobitici fondati dai principi romeni in Valacchia e
Moldavia, nel XIV e nel XVIII secolo. Essi sono stati altrettanti centri di vita spirituale e dei veri bastioni che hanno difeso non solo il carattere peculiare dell’ortodossia romena, ma sono stati dei veri monumenti e manifesti spirituali sia per
la loro architettura, quanto per i loro famosi affreschi. È celebre ad esempio la sintesi stilistica architettonica e pittorica delle Chiese di Moldavia dell’epoca di
Stefano il Grande (1457–1504) e Petru Rareß (1527–1538, 1541–1546) o Vasile
Lupu (1634–1653) e quello dei monasteri di Valacchia del periodo di Neagoe
Bassarabo (1512–1521), Matei Basarab (1632–1654) e Constantino Brâncoveanu
(1688–1714). Si tratta di una sintesi del tutto particolare tra lo stile bizantino,
gotico e rinascimentale di una bellezza stupenda. Gli affreschi esterni—un’altra
particolarità—o quelli interni rappresentano tutta una teologia implicita, i cui
significati restano ancora da decifrare.
I documenti scritti originali del monachesimo romeno sono pochi. Il piú famoso e piú bel documento di questo tipo è Insegnamenti del Principe Neagoe il
Bessarabo al figlio Teodosio,20 uno scritto dell’inizio del XVI secolo in slavo
antico. Esso rappresenta una sintesi tra esicasmo e vita politica, un trattato di spiritualità, di arte militare e diplomatica paragonabile al Principe di Machiavelli,
ma all’opposto del suo atteggiamento.21
La mancanza di documenti scritti è anch’essa molto significativa: sembra che
l’ortodossia romena abbia scelto per esprimersi la via di una ricezione generosa,
ma creativa, dei grandi valori dell’ortodossia greca o slava, ma allo stesso tempo
la via di una sintesi nel linguaggio artistico. La Filocalia, cioè l’amore del bello e
dell’esicasmo, sembra che abbia penetrato profondamente l’ortodossia e il monachesimo romeno.
20 Ed. critica, Bucureßti 1970.
21 Cf D. Zamfirescu, Neagoe Basarab ßi Învå†åturile cåtre fiul såu Teodosie. Probleme controversate,
Bucureßti 1973.
17
“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
L’affermazione che il monachesimo romeno comincia con san Nicodemo (†
1406) è un errore, sia dal punto di vista storico che dal punto di vista spirituale.
San Nicodemo ha fatto solo un grande lavoro di riorganizzazione secondo le regole cenobitiche del monachesimo esicasta ed eremitico già esistente da molti secoli,
con la fondazione di qualche grande monastero cenobita secondo il desiderio di
alcuni principi romeni che volevano dare al monachesimo anche un’impronta culturale e politica. Ma anche dopo l’inizio del monachesimo di tipo cenobita, il suo
vero cuore resterà l’ispirazione esicasta.22
I metropoliti e i principi romeni non si sono impegnati soltanto nella costruzione di nuovi monasteri, ma hanno cercato anche di “organizzare” la folla dei
sihaßtri, raggruppandoli e imponendo loro una vita comunitaria secondo la tradizione dei monasteri athoniti. Insieme a tale tendenza, che conoscerà sviluppi
prosperi, persisterà sempre viva, pur subendo profonde modificazioni, quella “tradizione esicasta” che costituisce l’humus piú genuino della sensibilità monastica
romena.
Per quanto riguarda le figure, i personaggi piú importanti per il monachesimo
romeno, gli slavi rifugiati nei paesi romeni Basilio di Poiana Mårului (1695–1767)
e Paisij Veliµkovskij (1722–1794), sono assai ben conosciuti per non dover piú
insistere su di loro. In lingua italiana esiste un’ottima monografia di Dario
Raccanello,23 e anche la traduzione con un ampio saggio introduttivo di padre Elia
Citterio dell’Autobiografia dello staretz Paisij Veliµkovskij.24
Gli autori romeni (D. Ståniloae, C. Zaharia, D. Zamfirescu) hanno sempre
sottolineato l’importanza decisiva della spiritualità esicasta romena antica per il
fenomeno cosiddetto “paisiano” come un fenomeno particolare nel mondo ortodosso. Il paisianesimo era fondato su quattro pilastri: vita cenobitica, studio delle
Scritture e dei Padri, pratica della Preghiera di Gesú e manifestazione quotidiana
dei pensieri al padre spirituale. È interessante notare che la riscoperta delle
Scritture e dei Padri è andata insieme alla ripresa della Preghiera di Gesú e al suo
inserimento nel contesto cenobitico.
Contemporaneamente, lo staretz Paisij istituisce una vera scuola di traduttori
di testi patristici. Grazie alla traduzione slavonica della Filocalia greca—
Dobrotoljubie, stampata a Mosca nel 1793—e alla sua diffusione, ma anche
all’opera propagatrice dei suoi discepoli, l’eredità paisiana ha influenzato largamente tanto la Romania quanto la Russia.
22 Cf Tit Simedrea, “Via†a månåstireascå în Ïara Româneascå înainte de 1370”, Biserica Ortodoxå
Românå 80 (1961), pp. 673–687; Vasile Munteanu, “Organizarea månåstirilor româneßti în compara†ie
cu Bizan†ul pânå la 1600”, Studii teologice 36 (1984).
23 La Preghiera di Gesú negli scritti di Basilio di Poiana Mårului, Alessandria 1986 (diss.).
24 Abbazia di Praglia 1988.
18
PRESENTAZIONE
In Romania, lo spirito paisiano trionfa nella stessa organizzazione ecclesiastica. In Valacchia la sua opera è continuata dal suo grande discepolo romeno, lo staretz Gheorghe (1730–1806) che, per invito del metropolita Gregorio II di costituire una comunità monastica di tipo paisiano, sceglie di stabilirsi in uno skit abbandonato alle porte di Bucarest—Cernica—e in poco tempo lo trasformerà in un
grande cenobio. Il suo Testamento, una specie di regola, è il testo sistematico piú
importante e rappresentativo per il monachesimo romeno; è una versione adattata del paisianesimo, riconoscendo al suo maestro Paisij tre doni speciali e singolari: il dono della preghiera del cuore, il dono di guidare una moltitudine di fratelli, il dono di tenere insieme fratelli di varie nazioni. Nella letteratura romena, lo
spirito paisiano sviluppato a Cernica, con l’accento che tende a spostarsi sullo
sforzo ascetico e sulla vita attiva, è indicato come “la spiritualità cernicana”. Il
rappresentante piú celebre di tale spiritualità è stato san Calinic (1787–1869),
monaco a Cernica per 43 anni e poi vescovo a Rîmnic. Con la preghiera e l’ascesi
unisce la sua comunità che, sotto la sua guida, arriva fino a 350 monaci, orientandola anche verso la preoccupazione per i poveri e l’attività pastorale.25
Alcuni autori hanno cercato di mettere in opposizione la regola di Paisij
Veliµkovskij e quella di Cernica. I fautori di questa interpretazione dei rapporti fra
Paisij Veliµkovskij, Gheorghe e Calinic di Cernica, tra i quali il piú significativo è
proprio Dumitru Ståniloae, hanno cercato in questo modo di caratterizzare il “cernicanismo” come “spiritualità integrale”, che con il suo orientamento “pratico”,
“comunitario”, “equilibrato”, “romeno”, avrebbe fatto da controparte alla spiritualità “individualista” ed eccessivamente “contemplativa” degli slavi Basilio di Poiana
Mårului e Paisij Veliµkovskij. A differenza di questa interpretazione, Ciprian
Zaharia ne propone un’altra che mette in rilievo la continuità tra il “paisianesimo”
e il “cernicanismo”, rifiutando il loro distinguere in due spiritualità diverse.
D’altronde, il fatto stesso che lo staretz Gheorghe di Cernica, che è stato per 24 anni
discepolo di Paisij, si considerasse lui stesso “paisiano”, è molto significativo a questo proposito.
Sostenere rigorosamente un’opposizione tra un paisianesimo slavo strettamente contemplativo e un cernicanismo romeno, equilibrato e pratico, significa
introdurre una divisione artificiale tra le due dimensioni fondamentali della spiritualità ortodossa stessa: la Preghiera di Gesú e la vita cenobitica, il cui equilibrio costituisce l’essenza stessa tanto del paisianesimo che del cernicanesimo come
fenomeni spirituali. La differenza tra di loro è solo una questione di accenti.
Per quanto riguarda la Preghiera di Gesú e l’uso che di essa viene fatto a
25 Cf l’edizione del primo volume di testi di Cernica e di vari saggi su di loro fatta dall’archimandrita Clement Popescu e dal diacono Ioan I. Icå jr: Vie†ile, povå†uirile åi testamentele sfin†ilor stare†i
Gheorghe ßi Calinic de la Cernica, Ed. Deisis, Sibiu 1999.
19
“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
Cernica, è molto importante mantenere qui la distinzione essenziale che Dario
Raccanello sottolinea nella monografia dedicata a Basilio di Poiana Mårului e che
è presente negli scritti di questo autore, tra una tappa pratica (delatelnaja),
riguardante la purificazione dalle passioni, e una seconda tappa, contemplativa
(zritelnaja), destinata soltanto a coloro che hanno raggiunto l’impassibilità. Gli
startzi Basilio, Gheorghe e Calinic sono molto cauti rispetto all’uso contemplativo
(come “metodo”) della Preghiera di Gesú, e insistono invece sul valore pratico,
ascetico, dell’invocazione del Nome di Gesú, cosa che rende universale questa
preghiera. In altre parole, la Preghiera di Gesú viene fatta scendere dall’altezza
della contemplazione nel campo ascetico della lotta coi pensieri cattivi. Essa
diventa cosí una “spada di fuoco” nella lotta con i pensieri cattivi, i germi delle
future passioni, una “spada” di cui abbiamo tutti bisogno, non solo i monaci. A
differenza della Preghiera di Gesú contemplativa, accessibile solo a pochi, che
richiede delle condizioni speciali per essere praticata (purificazione ascetica,
impassibilità), la Preghiera di Gesú pratica, combattiva, richiede solo un’abilità
sempre aumentata per essere meglio utilizzata nella lotta contro le passioni.
L’universalità della pratica della Preghiera di Gesú non proviene dunque dall’altezza della contemplazione, ma dall’universalità delle passioni e dalla lotta che
tutti dobbiamo dirigere contro di esse. Questo uso pratico (proprio pragmatico)
della Preghiera di Gesú, rigorosamente ascetico e realistico, si è conservato a
Cernica lungo i secoli fino ai nostri giorni, quando padre Roman Braga l’ha ritrovato presso i monaci che ha incontrato lí, arrivando—secondo quello che dice lui
stesso—al paradosso che a Cernica ha “imparato la pratica della Preghiera di
Gesú prima di conoscere che cosa fosse questa preghiera”.
Il secolo XIX è stato uno dei piú difficili per il monachesimo romeno. La creazione della Romania moderna dopo l’unione nel 1859 dei Principati romeni di
Valacchia e Moldavia è stata accompagnata da una concezione laicista anticlericale. Lo stato ha confiscato nel 1863 quasi tutti i beni dei monasteri, ha chiuso
molti monasteri ed ha vietato l’entrata dei giovani nei monasteri. Solo dopo i 60
anni si poteva diventare monaco. Dei 250 monasteri e skit, ne sono rimasti aperti solo 75, il resto è stato trasformato in chiese parrocchiali, in prigioni e asili psichiatrici. Spariscono allora quasi tutti gli esicasteri. Dei 3500 monaci e delle 3045
monache alla fine del XIX secolo, restano solo 820 monaci e 2250 monache. La
maggior parte furono esiliati sul Monte Athos, in Palestina e persino in Russia.
Questo è stato il primo duro colpo che il monachesimo romeno abbia ricevuto
nella sua storia da parte dello Stato, e un anticipo di quello che si verificherà nel
periodo comunista.
Si avrà invece un notevole rinnovamento della vita monastica dopo la prima
guerra mondiale, specialmente durante la seconda guerra e l’inizio del potere
comunista, poco prima che si scateni la piú grande repressione contro la Chiesa
20
PRESENTAZIONE
della storia della Romania. È stato quasi come un ultimo fiorire spirituale prima
che l’inverno sovietico congelasse tutto, un fiorire che ha nutrito però in un modo
sotterraneo la vita spirituale in tutto questo duro periodo. Tale rinnovamento spirituale è stato dovuto alla riscoperta della spiritualità esicasta, della Preghiera di
Gesú e della Filocalia. Due eventi hanno contribuito a dar vita a questo fenomeno: la traduzione romena dei primi 4 volumi della Filocalia da parte di padre
Dumitru Ståniloae (apparsi a Sibiu negli anni 1946–1948) e l’attività del
“Roveto Ardente” presso il monastero Antim di Bucarest. Il “Roveto Ardente” è
il nome di un’esperienza unica nel contesto ortodosso.26 Si trattava di un gruppo
di intellettuali riuniti intorno al poeta e giornalista Sandu Tudor (1896–1961),
diventato monaco con il nome Agaton e poi schimonaco27 col nome di Daniil.
Morirà nel 1961 nella prigione di Aiud. Coscienti di tutto un mondo e di tutta
una gerarchia di valori che crollava, questi intellettuali cercarono di riscoprire i
fondamenti spirituali della persona umana, trovandoli nella Preghiera di Gesú e
nell’esperienza esicasta. L’incontro con padre Ioan Kulighin (“Lo Straniero”—n.
1885) rifugiato tra 1943–1946 dalla Russia nel monastero di Cernica, sarà decisivo. Da lui riceveranno l’insegnamento pratico della preghiera e una benedizione speciale per praticarla, ma anche i due volumi del famoso Sbornik esicasta di
Valaam. Padre Ioan Kulighin sarà poi arrestato nel gennaio del 1947 dai sovietici e sarà deportato in Siberia (dove morí negli anni ’50). L’intero gruppo del
“Roveto Ardente” avrà una sorte simile, saranno cioè tutti arrestati per azioni
ostili contro lo Stato e condannati a molti anni di prigione. Padre Daniil Sandu
Tudor morirà nel 1960, come tanti altri, in prigione. Pochi riuscirono a sopravvivere fino alla liberazione, avvenuta nel 1964.
L’esperienza del “Roveto Ardente” è stata un momento molto importante di
incontro tra la piú acuta spiritualità ortodossa e la grande intellettualità, realtà
che fino a quel tempo si erano mosse in universi paralleli, chiusi in se stessi.
A dispetto della politica di collaborazione col regime comunista che la Chiesa
adottò per sopravvivere, il monachesimo, anche se non fu totalmente soppresso,
ricevette un duro colpo da parte dei comunisti. Il nuovo regolamento monastico
del 1953 mise come condizione per l’esistenza dei monasteri la presenza dentro di
essi di piccole imprese di tipo comunista (kolhoz) e le preghiere e gli uffici liturgici di notte furono proibiti. Ma il monachesimo, nonostante tutto questo, non vole-
26 Cf P. A. Scrima, Timpul Rugului Aprins, Bucureßti 1996 [una traduzione italiana è in preparazione nella Comunità di Bose] e la testimonianza di padre Roman Braga nel suo volume tradotto
qui: Trepte duhovniceßti. Interviu cu P. Roman Braga realizat de Dinu Cruga (Isvoare duhovniceßti),
Arhiepiscopia Ortodoxå Alba Iulia, 1998, 126 pp. L’autore di questo saggio ringrazia vivamente l’arcivescovo ortodosso Andrei Andreicu† di Alba Iulia per la sua benedizione ed il permesso per l’edizione italiana di questo libro.
27 Sono i monaci “anziani”, detti schimonaci perché portano il grande cappuccio (mevga sch`ma).
21
“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
va morire. Anzi, stava proprio fiorendo, e per la formazione dei novizi si aprirono
tre scuole monastiche (a Neam†, a Cernica e a Hurezu). Per reprimere questo fenomeno paradossale, lo Stato comunista dovette imporre nel 1959 un altro regolamento ancora piú duro che rimandò a casa tutti i monaci piú giovani di 50 anni
e chiuse piú monasteri. Solo nel 1968 la repressione diminuí ed alcuni monaci riuscirono a tornare nei loro monasteri. Padre Dumitru Ståniloae ricevette il permesso di continuare la pubblicazione, negli anni 1975–1981, dei volumi successivi 5–10 della Filocalia romena, e padre Ioanichie Bålan riuscí a pubblicare negli
anni 1980–1988 la sua monumentale trilogia sul monachesimo romeno.
Alla caduta del comunismo, il monachesimo romeno si trovava paradossalmente in un relativo rifiorire, riunito intorno ad una decina di grandi padri spirituali che sono riusciti a sopravvivere alle persecuzioni. Dei grandi startzi come
padre Paisie Olaru (1897–1990)—un vero san Serafino romeno—o padre Cleopa
Ilie (1912–1998)—un altro Abba Poimen e il vero patriarca spirituale del monachesimo romeno—hanno avuto una grande importanza per tutta la vita spirituale della Romania ortodossa, e hanno determinato un grande numero di vocazioni
anche durante il comunismo.
L’umiltà, la delicatezza, la naturalezza, il rifiuto di qualsiasi eccesso, l’apertura verso i problemi della gente del mondo sono le principali caratteristiche del
monachesimo romeno.
La formazione non è mai stata separata dall’ufficio liturgico, tanto che praticamente si può parlare di una formazione liturgica del monaco, tramite la lettura dei
testi patristici e tramite il legame con la tradizione. L’ideale esicasta e filocalico è
rimasto vivo durante tutta la storia del monachesimo romeno, anche se non è mai
stato vissuto in maniera eremitica, ma solo nei grandi monasteri cenobitici. Il
monaco è per eccellenza un cålugår come si dice in romeno, parola che deriva dal
greco kalos geron = cioè “bell’anziano”. Il suo viso atemporale è l’icona ideale che
guida la vocazione dei giovani. Dobbiamo forse ricordare che uno degli ultimi eremiti del nostro secolo, san Ioan Iacov (1913–1960), canonizzato recentemente dalla
Chiesa Ortodossa Romena, era romeno. Partito nel 1936 per la Palestina, ha vissuto gli ultimi sette anni come schimonaco in una grotta nella valle arida di
Hozeva, dove morí nel 1960. Nel 1980 il suo corpo è stato trovato intatto ed è stato
esposto per la venerazione nel monastero di san Giorgio.
I monaci, gli startzi e i padri spirituali riuniscono tutta una tradizione millenaria centrata sulla liberazione dai peccati, sulla preghiera ininterrotta e sulla
bontà verso gli uomini e verso il mondo, loro sono le vere colonne spirituali del
popolo romeno. Come scriveva nel 1958 padre Scrima, «l’assenza stessa dei documenti è una prova che la tradizione è viva. Gli esicasti sono i “morti” di Dio, feriti dall’Amore e dalla Luce che si sono cancellati dal mondo per vedere l’Invisibile
dal quale ricevono adesso una vita nuova».
22
PRESENTAZIONE
Il monachesimo romeno ha sempre davanti come figura ispiratrice quella
dell’“Abbas”. Padre Cleopa o padre Paisie avrebbero potuto vivere in qualsiasi periodo storico. Il tradizionalismo e l’arcaismo rappresentano dei tratti evidenti del monachesimo romeno. Cosa che non può essere interpretata—come dice anche padre
Scrima—come “primitivismo”, o come spirito “medievale”, piuttosto come «il senso
forte dell’unum necessarium e come fedeltà per la preghiera ininterrotta dalla quale
si nutre tutto il mondo.»28 In altre parole, si tratta della capacità di realizzare la
dimensione verticale dello spirito, la contemplazione e la preghiera ininterrotta.
Che cosa significa piú precisamente questo carattere arcaico e tradizionale si
può forse meglio dedurre da due modelli molto significativi. Ambedue sono recenti e appartengono allo stesso fenomeno del “Roveto Ardente”.
Il primo consiste appunto nel racconto della conversione di Sandu Tudor, il leader del gruppo del Roveto Ardente: giornalista, poeta, polemista, un tipo di avventuriero ricco, sposato tre volte, allo stesso tempo un intellettuale di tipo enciclopedico, andò sul Monte Athos solo per curiosità di giornalista in cerca di notizie scandalistiche. Arrivato lí, un monaco romeno errante gli disse che non avrebbe potuto
scoprire niente della vita dei monaci se non avrebbe fatto come lui. Da buon giornalista, era disposto a fare tutto per ricevere un’informazione dal di dentro. Cominciò
dunque all’inizio a far finta di essere un buon credente molto devoto. E in verità tutte
le porte gli si aprivano e scoprí che sotto l’apparente decadenza si nascondeva il vero
monachesimo athonita. Alla fine si è convertito ed è tornato a casa con il modo di fare
la Preghiera di Gesú già imparato. Ha raccontato poi che ogni inchino che faceva lo
cambiava via via, anche se all’inizio tutto era una finzione.
Il secondo modello consiste nella figura di uno dei piú importanti rappresentanti del “Roveto Ardente” riuscito a sopravvivere: padre Roman Braga. Nato nel
1922 in un villaggio della Moldavia, accanto ad un monastero, ha seguito tra gli
anni 1935–1943 il seminario teologico di Cernica e poi la Facoltà di Teologia di
Bucarest. Nel 1948 viene arrestato insieme a tutti i partecipanti del “Roveto
Ardente” e fa la terribile esperienza della prigione di Piteßti. Dopo la liberazione
dalla prigione viene espulso a Brasilia. Dal 1972 vive negli Stati Uniti come staretz di un monastero ortodosso americano. Nel 1998 viene pubblicata in Romania
una straordinaria testimonianza della sua vita spirituale, una delle piú eloquenti
testimonianze sul monachesimo romeno, sul monastero di Cernica e sulla vita nelle
prigioni comuniste, qui tradotto in lingua italiana. Tutta l’esperienza monastica è
secondo lui concentrata sulla preghiera, sull’obbedienza e sull’umiltà. Al centro sta
la pravila, la regola della preghiera personale che ogni monaco deve fare nella sua
cella leggendo il Salterio e facendo ogni sera 200 metanie e praticando la Preghiera
28
Istina, 1958, pp. 308-309.
23
“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
di Gesú, e tutto questo in umiltà e specialmente in perfetto anonimato. Questi sono
insomma gli elementi decisivi per un’autentica vita monastica.
Secondo padre Roman Braga, due esempi sono soprattutto eloquenti: a padre
Antipa (venuto dall’Athos) hanno chiesto se il primo ministro Churchill, che era
molto amato a quel tempo dai romeni, avrebbe ricevuto la salvezza, visto che era
anglicano. La riposta di padre Antipa è stata molto semplice: “Se fa la sua pravila, riceverà la salvezza!”
Un altro esempio: padre Evghenie Hulea era in prigione. Anche se analfabeta,
sapeva a memoria tutto il Salterio, l’Acatisto, la Scala di Giovanni Climaco e li
recitava ogni sera davanti ai suoi compagni intellettuali. Per lui la formula della
salvezza era molto semplice: “Devi obbedire, andare in chiesa, fare la Preghiera di
Gesú e sarai salvato”, perché cosí l’uomo sente la bontà di Dio.
Mai—conclude padre Roman—riusciremo ad arrivare a quel livello di spiritualità a cui siamo riusciti ad arrivare in prigione quando la preghiera incessante era l’unica possibilità di sopravvivere allo sterminio.
Questo accento ostinato sulla spiritualità, sulla tradizione vivente, non scritta, sulla preghiera e sulla bontà con cui l’uomo spirituale si rivolge agli altri, a
tutto il mondo, che trova un’espressione commovente nel libro di dialoghi con
padre Roman Braga, può essere considerato come l’essenza stessa del monachesimo romeno, il cuore della ortodossia latina di Romania, predestinata a diventare
un luogo profetico, “terra d’incontro e di comunione” (Giovanni Paolo II).29
diacono Ioan I. Icå jr
29 Un ulteriore contributo sul monachesimo romeno si può trovare nello studio di p. T. Œpidlík,
“Monachesimo e religiosità popolare in Romania”, La Civiltà Cattolica, n. 3285 del 15 maggio 1987, pp.
237-246.
24
“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
INTERVISTA A PADRE ROMAN BRAGA
Non è facile “descrivere” una persona che vive nello Spirito e nella Verità come
il padre archimandrita Roman Braga. Le nostre parole sono incapaci di contenerlo. Difficilmente si lascia abbracciare dalle sue parole stesse, e solo in segreto.
Quali sono gli insegnamenti di padre Roman? La vita spirituale. Ci sono alcuni
passi della Scrittura ai quali torna in tutte le occasioni. Soprattutto “Non sono
piú io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20) oppure: “Io sono la vite, voi i
tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Il suo modo di parlare è semplice, molto semplice, e molto
diretto. È amico di tutti i santi Padri: conosce i modi di fare teologia in dettaglio,
ma fugge la tentazione della riflessione e coglie tutto nella preghiera.
La gente che lo circonda gli chiede consiglio, direzione spirituale e consolazione. Nessuno tuttavia sa chi è padre Roman Braga. E se qualche volta è facile sapere cosa l’ha stimolato a diventare monaco e cosa l’ha fatto rimanere monaco, non
è altrettanto facile conoscere come è cresciuto nella vita spirituale, quando ha
cominciato a respirare per la prima volta con lo Spirito Santo, quale è stata la
croce di Dio e del prossimo che ha accettato volentieri perché non fosse piú lui a
vivere, ma Cristo vivesse in lui.
Per questo, invece di parlare noi su di lui, abbiamo pensato che è molto piú
importante lasciare che lui stesso ci racconti i crocevia e le tappe della strada stretta che conduce a Dio.
Naturalmente, ho cominciato col chiedergli qualcosa sul luogo della sua nascita.
—Sono nato in Bessarabia, nel Codrii Låpußului. Noi ci vantiamo
dicendo che siamo stati sempre dei contadini liberi; non abbiamo mai vissuto sui latifondi dei boiari. Specialmente nella zona del Codrii Låpußului
non ci sono mai stati dei boiari. C’erano dei cosiddetti eserciti di contadini liberi dei principi romeni che, fino all’arrivo dell’esercito di Suceava o
27
“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
non so da dove, dovevano affrontare da soli i tartari che invadevano
Nistro. Sono nato tra questi contadini, nel Codrii Låpußului, vicino ad un
monastero, cosí che il fatto che io sia adesso monaco e sacerdote non è solo
per caso.
Sono nato nel villaggio di Condri†a, accanto al monastero di Condri†a.
Questo monastero è stato fondato dal principe Alessandro il Buono, dunque è molto antico. Il principe Stefano il Grande che ha fondato il monastero di Cåpriana, a solo 8 km da noi, dal mio villaggio, ha anche dotato il
monastero di Condri†a di quello di Cåpriana come suo skit.
Tutti e due questi monasteri sono stati subordinati al Monte Athos1 al
famoso monastero Zografu che adesso è un monastero bulgaro. I greci non
lo dicono piú, ma i bulgari riconoscono che Stefano il Grande ha costruito
il monastero Zografu.
Lei andava nella chiesa del monastero oppure in quella del suo villaggio?
—Dato che il nostro villaggio era molto vicino al monastero di
Condri†a, noi non abbiamo mai avuto una chiesa del villaggio, e tutti
andavamo nella chiesa del monastero. Sono stati sempre i monaci a battezzarci, a sposarci e a seppellirci. Nel cimitero del monastero c’era una
parte riservata ai laici. Il nostro villaggio era molto disperso: una casa qua
e una là, come erano i villaggi nelle montagne. Da noi, dal terrazzo della
nostra casa, d’estate si potevano sentire i monaci che cantavano nel refettorio con le finestre aperte: “Sotto la tua protezione noi tutti troviamo rifugio, Vergine santa Madre di Dio”. Mi ricordo anche adesso come, da bambino, li sentivo a mezzanotte quando celebravano l’ufficio del mattutino.
Tutto il villaggio sentiva suonare la campana del monastero. Ma durante
la notte non potevamo andare nel monastero, perché le porte erano chiuse. Era un monastero fortificato, munito di grandi mura. Ho sentito che
anche adesso le mura sono rimaste in piedi. Durante il comunismo è stato
trasformato in teatro. Nella chiesa di san Nicola d’Estate, l’altare è diventato il palcoscenico del teatro.
Che significa san Nicola d’Estate?
—C’erano due chiese: san Nicola d’Inverno e san Nicola d’Estate.
Erano chiamate cosí perché, dalla Domenica delle Palme, i monaci e le
celebrazioni si spostavano nella chiesa di san Nicola d’Estate. E dopo la
1
Il fenomeno di subordinare un monastero con i suoi beni alla giurisdizione di un altro monastero, specialmente del Monte Athos e della Palestina, per aiutarli, era frequente nel medioevo nei
Principati romeni.
28
INTERVISTA A P. ROMAN BRAGA
festa di san Demetrio ritornavano nella chiesa di san Nicola d’Inverno, che
aveva il riscaldamento.
Da bambino lei andava in chiesa con la mamma e con la nonna?
—Con tutta la famiglia. Infatti, nel nostro villaggio c’era una forte tradizione e un grande influsso monastico. Nella nostra casa non si cucinava
la domenica. Come d’altronde in tutte le famiglie del villaggio, il cibo era
preparato di sabato. E la domenica, dopo la liturgia, quando tornavamo a
casa, si scaldava soltanto. I nostri contadini non avevano molto da lavorare: la terra non era adatta per l’agricoltura, era una zona di boschi. La
gente non coltivava la terra, ma allevava animali e andava a caccia. Ed
aveva molto tempo libero. Il sabato pomeriggio nessuno lavorava nella
mia famiglia: tutti noi bambini facevamo il bagno, ci lavavamo i capelli. In
tutto eravamo otto bambini.
Prima di sposarsi, mia madre voleva entrare nel monastero di
Vårzåreßti, un’altra fondazione del principe Stefano il Grande nella stessa
regione, distante 15 km. Ma mio nonno non era d’accordo che lei diventasse monaca. E la fece sposare, come era l’abitudine in quel tempo: i genitori decidevano con chi dovevano sposarsi i figli. Ed è stato molto bene:
mio padre è stato un uomo molto buono, ma mia madre non ha mai
dimenticato che doveva farsi monaca. E il mio papà ha sempre avuto un
cosí grande rispetto per il suo desiderio e i suoi sentimenti che tutti i libri
che comprava per lei erano libri di celebrazione liturgica. Noi li abbiamo
avuti tutti in casa. Ci mancavano solo i Minei, cioè i 12 volumi con le celebrazioni dei santi del calendario. Ci mancavano perché a mio padre gli
sembravano troppi; ma abbiamo avuto il Salterio, l’Orologhion, il Triodion
che mia madre leggeva spesso, specialmente nel periodo della quaresima.
Li leggeva come letteratura. Mi ricordo che ho imparato a leggere su questi libri con l’alfabeto cirillico, prima di imparare a scuola l’alfabeto latino.
Tutti questi libri erano scritti in cirillico?
—Tutti. Mia madre leggeva molto bene il cirillico. Io l’ho imparato a 5
anni su un Acatisto a Maria Maddalena che possiedo ancora oggi. L’ho
custodito da quel tempo. Era stato stampato a Chißinåu in lingua romena.
Aveva dei caratteri molto belli.
Abbiamo avuto anche le Vite dei Santi stampate a Chißinåu in romeno, ma
sempre in alfabeto cirillico. C’erano anche dei giornali stampati con questo
alfabeto. Mi ricordo molto bene il giornale Cuvântul perché era proprio destinato ai contadini. Era pieno di barzellette e di consigli pratici affinché i moldavi non dimenticassero la loro lingua durante l’occupazione russa.
29
“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
Ma perché solo in cirillico?
—Perché cosí hanno voluto i russi. I libri che si leggevano in chiesa non
erano in russo, erano in romeno, ma prima del 1918 erano scritti in lettere
russe. Mi ricordo molto bene quei libri scritti in romeno ma con l’alfabeto
cirillico.
Dunque, i libri che suo padre comprava erano tutti in cirillico?
—Alcuni erano anche con caratteri latini, ma la maggior parte erano in
alfabeto cirillico, perché erano libri ecclesiastici che si leggevano in chiesa,
che non erano ancora stampati in lettere latine. Mia madre, che aveva una
certa vocazione monastica, non leggeva mai altri libri.
Leggeva ad alta voce, anche per i bambini?
—Leggeva sempre a voce alta. Noi bambini abbiamo sempre fatto le preghiere inginocchiati insieme a mamma e papà quando erano a casa. Mio
padre non sempre era a casa. Non aveva molto da fare come contadino. Era
un ottimo meccanico; lavorava a Cogan, in una fabbrica di pane di Chißinåu.
Se ne andava di lunedí e tornava alla fine della settimana, carico di tutto, di
libri e di molte altre cose. E mia madre aveva cura di noi e della casa.
E di sera si leggeva?
—Di sera, quando dovevamo fare la preghiera, mia madre faceva inginocchiare tutti noi bambini, poi si inginocchiava anche lei e leggeva le preghiere prima di andare a dormire, in un modo quasi monastico. Faceva leggere anche noi. Ci dava una regola di preghiera personale, come in monastero. Ci faceva leggere tutto il Salterio. Lei sapeva a memoria tutti i salmi.
Noi bambini leggevamo a voce alta. E lei ci correggeva quando facevamo
uno sbaglio. Io ero il piú piccolo e dormivo con mia madre. Mi ricordo che
lei si addormentava recitando i salmi. E non riusciva a finirli. E quando si
svegliava, durante la notte, e si voltava su un altro lato, continuava a recitare il salmo che aveva interrotto. Sapeva tutto il Salterio a memoria.
Dopo la preghiera serale, chiedevamo tutti perdono l’uno all’altro. Cosí
ci hanno insegnato i nostri genitori; anche loro chiedevano perdono a noi:
perdonatemi, me ne vado a dormire; cosí chiedevamo perdono anche noi
l’uno all’altro e andavamo ciascuno a dormire nella propria stanza da letto.
Ma io, poiché ero il piú piccolo, rimanevo a dormire insieme a mia madre.
Mio padre era assente tutta la settimana. E mi ricordo che durante la notte
mi svegliavo per andare fuori—come sapete, a quel tempo noi non avevamo case moderne con il bagno dentro—eravamo contadini, e il bagno era
fuori casa. Quando dovevo andare fuori, al bagno, era buio, il bosco era vici-
30
INTERVISTA A P. ROMAN BRAGA
no, si sentivano i cani abbaiare e avevo una grande paura. Mia madre veniva con me e mi aveva insegnato a recitare il salmo: “Il Signore è mia luce e
mia salvezza, di chi avrò paura? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò
timore?” E recitando questo salmo non ho mai avuto paura. Certo, il bosco
e i cani rimanevano lí, ma era come se io non li vedessi e non li sentissi.
Sono cresciuto in questo ambiente. La maggior parte dei miei fratelli si
sono sposati, ma noi piú piccoli siamo entrati in monastero. Mia madre
divenne poi vedova, perché mio padre morí in un incidente. Ma prima di
questo ci siamo preparati per andare in America. Mio padre preparò un
passaporto per tutti, come si usava a quel tempo. Era il 1927–1928. Molti
degli abitanti della Bessarabia emigravano in quel periodo in Canada; ma
a papà successe un incidente. Sopravvisse solo pochi mesi e poi morí, e
mia madre non si sposò piú. Quando fummo cresciuti, mia madre ci
mandò a scuola; ma non tutti, alcuni di noi sono rimasti contadini. La
sorella piú grande è rimasta contadina. Io sono andato in seminario.
Quanti anni aveva quando successe tutto questo?
—Avevo 12 anni. Dopo aver finito la scuola elementare, invece di andare al liceo, sono andato a Bucarest. Avevo lí un fratello monaco nel monastero di Cåldårußani. In quel monastero sono entrato anch’io come novizio, ed è stato il monastero a mandarmi al seminario.
A 12 anni?
—A 12 anni. L’intenzione era di ottenere la raccomandazione del superiore del monastero di Cåldårußani, che era anche lui della Bessarabia: si
chiamava Filaret Pamfil. Con questa raccomandazione potevo poi andare
al seminario di Cernica, che era meno costoso: le tasse non erano troppo
alte ed erano pagate dal monastero. Questo era il vantaggio. Se avessi
dovuto andare per conto mio ad un seminario o ad un liceo, non avrei
potuto, perché era molto caro. Ho cominciato cosí il seminario al monastero di Cernica ma l’ho finito a Chißinåu.
Quanto tempo è rimasto a Cernica?
—A Cernica ho studiato sei anni, fino all’inizio della guerra. Durante la
guerra, il seminario di Cernica è stato soppresso dal maresciallo
Antonescu. Perché? Perché uno dei suoi vicedirettori, il padre archimandrita Dionisie Urdißteanu, era stato un legionario.2 Piú tardi divenne supe2
Membro dell’organizzazione di destra di tipo fascista “Guardia di ferro”.
31
“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
riore del monastero di Secu. E lí anche morí. Che Dio lo perdoni. Nel 1940,
durante il governo legionario, lui e Cristofor Dancu prendevano il coro del
seminario e andavano a tutte le loro feste. Sono andati ad esempio ai funerali dei legionari di Predeal che sono stati ammazzati in prigione. E dal
momento che il seminario mostrava queste tendenze, quando Antonescu
ha cominciato a reprimere in qualche modo i legionari durante il suo
governo, è stato chiuso anche il seminario del monastero di Cernica. E noi
siamo stati distribuiti in altri seminari. Io ho fatto la richiesta e sono stato
messo nel seminario centrale di Bucarest. Lí ho frequentato la settima classe elementare. Nel frattempo, anche durante la breve occupazione degli
anni ’40, fino all’inizio della guerra, mia madre è rimasta in Bessarabia. Ed
è stata molto torturata dai comunisti, che hanno voluto annegarla nel lago
del villaggio perché aveva i figli in Romania. Quando ho finito la settima
elementare sono andato al seminario di Chißinåu. Lí ho terminato gli studi.
Dunque nel 1940, dopo di che la Bessarabia è stata ceduta ai russi, sua madre
è rimasta lí.
—Sí, mia madre è rimasta lí da sola. Con un mio fratello che è stato
fatto prigioniero e deportato in Siberia. Quando sono tornato a Chißinåu,
la Bessarabia è stata riconquistata dalla Romania. Sono state di nuovo
aperte le scuole romene.
Prima di proseguire con la narrazione, vorrei che ci fermassimo un po’ su questi primi 12 anni che lei ha vissuto in Bessarabia. In che modo gli si è scolpita nel
cuore la vita del monastero di Condri†a?
—Ho fatto la scuola elementare nel mio villaggio. Ho avuto ottimi insegnanti. Tutti cantavano nel coro del monastero. Erano amici dei monaci. I
monaci venivano a visitarli e a visitare anche noi a casa. Mi ricordo che
mia madre li chiamava per dare la benedizione agli animali, per benedire
l’acqua nella stalla. Mi ricordo come fosse ora che mia madre metteva sul
tavolo una tovaglia bianca come la neve. Padre Nicolae, lo ieromonaco del
monastero, era famoso perché poteva guarire le malattie del bestiame.
Quando un animale era malato, lo mandavano a chiamare per recitare e
benedire l’acqua. Di fatto, all’inizio di ogni mese, mia madre chiamava il
sacerdote del monastero per la benedizione dell’acqua nella casa e quella
della stalla per il bestiame. Eravamo molto amici del monastero, soprattutto perché la nostra casa era cosí vicina al monastero.
Cosa l’ha impressionata di piú nella sua infanzia?
—Certo, prima di tutto il paesaggio naturale del nostro villaggio, che il
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INTERVISTA A P. ROMAN BRAGA
poeta Alecu Russo ha descritto cosí bene nel suo Cantico della Romania;
anche lui era di quella zona, di Valea Cucului. Oltre a questo, sono stato
molto colpito dalle campane del monastero che sentivo durante la notte e
cosí sapevo che i monaci pregavano.
Sembra che le senta anche oggi!
—Veramente, le sento anche oggi. Mi ricordo che stavo a letto, ero bambino; le campane del monastero suonavano e mi rendevo conto anche nel
sonno che i monaci pregavano.
Pare che la sua preoccupazione per le cose spirituali sia sempre aumentata con
l’andare del tempo. Ma perché è successo cosí solo a lei, perché questa preoccupazione è mancata agli altri fratelli?
—Non so come lavora Dio. Mi ricordo solo una cosa, che è stata forse
l’elemento principale che mi ha fatto entrare in monastero. Ero in chiesa;
gli uffici religiosi erano lunghi, come si fanno nei monasteri ortodossi, ed
ero stanco. Tiravo per il vestito mia madre e le dicevo: “Andiamo a casa,
non ne posso piú, sono stanco”. Mia mamma invece ascoltava con grande
attenzione tutte le parole dell’ufficio, perché cosí sono i nostri contadini:
hanno la capacità di ascoltare con grande attenzione gli uffici religiosi. Il
suo orecchio era attento ad ogni parola. E, quando la disturbavo, mia
madre diceva: “Devi essere stanco in chiesa; è l’unica cosa che possiamo
fare per Gesú Cristo; almeno essere stanchi. Lui è morto sulla croce per
noi”.
Da bambino le si è impresso uno zelo ascetico.
—Mia madre era ascetica. Non trascurava nessun giorno di digiuno.
Ogni mercoledí, ogni venerdí e in tutti gli altri periodi di digiuno nella
nostra casa si lavavano con grande cura tutti i piatti: non si scherzava con
queste cose. Era una cosa molto seria. I nostri contadini temevano molto i
vecchi monaci: avevano un grande rispetto per loro. Mi ricordo padre
Dånilå. Era un uomo magro. Si chiamava Dånilå Grozavu, ma tutti lo chiamavano padre Dånilå. Aveva una barba lunga e scherzava e diceva a mia
madre: “Questo ragazzino rimane qui, da me”. Io lo amavo molto. Ma
pensavo: come avrei potuto rimanere qui con questo sant’uomo? La santità dei monaci m’intimidiva. Ce n’era un altro, padre Teodosie il vecchio,
di cui si diceva che aveva delle visioni: i demoni venivano a torturarlo. I
vecchi andavano da lui a confessarsi; noi da bambini non avevamo il
coraggio di andare a confessarci da tali uomini, erano troppo santi, troppo grandi. C’erano invece altri monaci piú giovani che erano piú vicini a
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“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
noi. La gente raccontava di padre Teodosie che accadeva spesso che
durante la confessione prendesse un legno dalla stufa e lo gettasse dicendo: “Non devi avere paura, perché questo è veramente sfacciato”. Parlava
e litigava col diavolo che lo tormentava.
Erano uomini con una grande vita spirituale. Noi lo sapevamo molto
bene. Padre Nicolae riusciva a guarire gli animali quando leggeva le preghiere. Ma tutti questi uomini leggevano le preghiere con semplicità; non
erano emotivi: erano uomini semplici, senza studi; non avevano emozioni
psicologiche, come si dice oggi: che fosse apparsa loro la Madre di Dio o
un angelo, o non so che altre visioni. Loro evitavano queste cose. Avevano,
direi, una specie di aridità quasi intellettuale. Erano uomini naturali. Per
loro la preghiera era una cosa naturale, l’esistenza di Dio dentro di loro era
naturale; come sarebbe stato possibile che Dio non fosse dentro di loro?
Loro pregavano come se parlassero in un modo naturale con Dio.
Dunque ha sentito da bambino questo tipo di vita spirituale.
—Sí, mi è capitato da bambino. E mi sono spaventato. No so come
vedevano le cose i miei fratelli. Non posso parlare a nome loro. Loro si
sono sposati tutti, eccetto Madre Benedicta. Dopo che mia madre, già
vedova, è entrata in monastero e ha comprato una casa nel monastero di
Varatec, mia sorella, Madre Benedicta, è rimasta lí con lei. Dunque non
posso parlare dei miei fratelli.
Quello che mi ha toccato di piú sono stati gli uffici in chiesa, quando
tutta la comunità usciva per la messa della vigilia e questi monaci anziani
vi partecipavano senza diventare stanchi. Cantavano l’inno “Luminå
linå”3 per un quarto d’ora. In quel monastero c’erano due cori: uno cantava sul modello bizantino, ed aveva canti molto lunghi, ed un altro cantava sul modello russo. Ma i nostri moldavi non amavano la musica religiosa russa. Mi ricordo come si prendevano in giro: voi cantate come se fosse
una marcia, dicevano al coro russo, come cammina un esercito; non cantate in modo spirituale. Due cori. E il canto era responsoriale: un coro cantava con la melodia russa; l’altro con la musica bizantina. Mia madre, in
chiesa, mi mandava accanto ai monaci. E, per non affaticarmi, guardavo
come cantavano. E so che mi sono affiancato al coro bizantino. Avevo solo
sei anni. Ero in prima elementare. I monaci mi hanno fatto una piccola
sedia perché ero troppo piccolo e non riuscivo a vedere il testo che si trovava sul leggio. E cosí, alto su questa sedia, ho letto il salmo 50 in chiesa
3
34
Si tratta dell’inno Fw~" iJlaro;n.
INTERVISTA A P. ROMAN BRAGA
quando avevo appena 6 anni. Poiché ero solo nella prima classe, tutti si
chiedevano da dove avessi imparato l’alfabeto cirillico: non sapevano che
era stata mia madre a insegnarmelo dall’età di 5 anni. Non ho imparato,
come si fa di solito, prima l’alfabeto. Ho imparato direttamente le parole.
Mia madre mi diceva: guarda, questa parola significa Dio. Poi io la cercavo in tutto il libro e cosí ho imparato facilmente.
Ero dunque molto abituato ai monaci. Loro erano gli amici della mia
famiglia. Mi colpiva molto anche il momento della Comunione. Da noi si
faceva la Comunione solo tre o quattro volte all’anno e c’era una grande
preparazione nella nostra casa, perché tutta la famiglia andava insieme a
comunicarsi. Anche alla confessione dovevamo andare tutti insieme. La
mamma ci faceva col dito un gesto di minaccia: “Devi dire tutto”. Non era
facile. Non mi aspettavo che fosse facile. Mi ricordo che mia sorella aveva
chiesto al confessore se Dio conosce il russo, perché alcune preghiere mio
padre le diceva in russo. Mia sorella le diceva anche lei in russo e non era
molto convinta che Dio la capisse. Mia madre ci aspettava e ci sorvegliava
fino a quando tutti non ci fossimo confessati. Il giorno dopo dovevamo leggere a casa le preghiere che si fanno dopo la comunione. Questa era l’abitudine. Durante i periodi di digiuno, mangiavamo come i monaci.
Praticamente mangiavamo sempre come i monaci. Se i monaci dicevano:
questa settimana non si mangia cibo bollito, forse gli altri mangiavano cibo
bollito, ma mia madre non ne faceva mai. Quello che dicevano i monaci per
lei era santo. Mangiavamo mele e pane, ed eravamo forti e sani; nessuno di
noi è mai stato malato. Sabato, prima della comunione, restavamo in chiesa per la preghiera. Venerdí, dopo i vespri, i monaci leggevano tutte le preghiere che si devono fare prima della comunione a voce alta.
Non ne omettevano nessuna?
—Nessuna, recitavano proprio tutte le preghiere. E non eravamo solo
noi, c’erano praticamente tutti gli abitanti del villaggio a ricevere la santa
Eucarestia nel sabato di san Teodoro, dopo una settimana di digiuno. Tutti
ascoltavano le preghiere. Dopo la comunione, s’interrompeva la liturgia e
si leggevano tutte le preghiere di ringraziamento. Cosí era nel nostro
monastero. Come d’altronde facciamo anche qui nel nostro monastero in
America. Mi ricordo come ci preparava mia madre e con quanta cura ci
intimidiva parlandoci di quanto è santo il Corpo e il Sangue di nostro
Signore e come dovevamo comportarci per santificarci, come non era permesso in quel giorno sputare, e come dovevamo essere tranquilli, dormire, non fare rumore. Chi voleva giocare, doveva essere ponderato, perché
aveva ricevuto Gesú dentro di sé. Non si dovevano baciare nemmeno le
35
“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
icone e i monaci non si lasciavano baciare la mano in quel giorno. Mi ricordo che una volta sono entrato presso il sacerdote all’altare e mia madre si
è spaventata perché pensava che qualcosa di male doveva accadere a
causa di suo figlio che era entrato presso il sacerdote all’altare. Ma allora
il sacerdote sorrise e le disse: “Lascia, Maria, questo tuo figlio diventerà
anche lui un sacerdote”. Ma come si era spaventata, povera mamma! Per
lei l’altare era un luogo santissimo. Tutte queste cose me le ricordo molto
bene. E quando sono andato in seminario, praticamente sono andato da
altri monaci, in un altro monastero, quello di Cernica.
Un attimo, padre. Quando lei è arrivato a Cernica aveva solo 12 anni. Fino ad
allora è rimasto nel villaggio natale. Dunque, è arrivato a Cernica nel 1934?
—Sí, nel 1934. Nel 1935 sono entrato in seminario. Nell’autunno.
Quale è stata la differenza tra la vita spirituale di Cernica e quella del monastero del suo villaggio?
—È stata solo una differenza di stile. A quel tempo Cernica mi ha colpito di piú. Nel mio villaggio c’erano solo 80 monaci. Cernica ne aveva di
piú. Nel 1935 Cernica era un nido di eremiti. Io sono rimasto con questa
idea di monastero di Cernica… Certo, c’erano anche dei monaci piú
moderni, nell’amministrazione, l’economo, il cellerario, perché c’erano
molti ospiti che venivano lí. Il superiore doveva ricevere molta gente…
La regola del monastero era quella di san Calinic o dello staretz Gheorghe?
—Lo spirito era quello dello staretz Gheorghe. Nel monastero si parlava
piú di lui che di san Calinic. Calinic aveva la tomba nella chiesa di san
Giorgio, dove mi addormentavo durante la vigilia. Perché anche noi seminaristi dovevamo andare alla vigilia. Siccome non ero abituato, mi sedevo su
quella tomba. Ma veniva padre Ezechiel Preda, il pedagogo, e diceva: “Non
è bene, non è bene! Andiamo in chiesa”. Solo questo sapevo di san Calinic:
che è stato un uomo molto bravo, un monaco santo e un vescovo, che è stato
anche senatore in Parlamento e che era sepolto lí. Invece, dello staretz
Gheorghe si parlava molto in monastero. I monaci anziani come padre Fotie,
padre Teodosie, che aveva anche la sedia esicasta per la preghiera del cuore,
erano tutti figli della spiritualità dello staretz Gheorghe. Io ho imparato lí che
cosa significhi la preghiera del cuore e la sedia per questa preghiera.
A 12 anni?
—A 12 anni. Tutti parlavano di padre Teodosie che leggeva gli scritti di
sant’Isacco di Ninive e di san Gregorio del Sinai. E che san Gregorio con-
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INTERVISTA A P. ROMAN BRAGA
sigliava l’uso di una piccola sedia per la preghiera esicasta. Io parlavo
spesso col discepolo di padre Teodosie, Pimen Georgescu. Lui vive ancora, è archimandrita nel monastero di Cernica. È molto vecchio. E lui mi
diceva quando ero lí che quest’uomo aveva una vita nascosta.
Mi ricordo come si preparava padre Fotie per “fare la sua settimana”.
Ciascun monaco a turno doveva celebrare una settimana in chiesa. Padre
Fotie metteva un velo tutto bianco sull’altare. Era molto pulito, vecchio,
con una grande barba bianca. Si preparava con tanta cura e santità per la
santa Liturgia che doveva celebrare tutta la settimana!
Padre Ghelasie era un eremita che non era mai uscito dal monastero; da
lui dovevamo confessarci. Aveva un viso bianco come la carta. Noi, i piccoli, avevamo un po’ paura di lui. Ma era di una bontà indescrivibile!
Quando andavamo da lui a confessarci noi bambini, che come tutti i bambini avevamo fatto anche degli sbagli, avevamo paura delle sue domande.
Soprattutto perché dovevamo dire tutto. Ma era cosí mite! C’era lí anche
padre Augustin, lo zio del Vescovo di Roman, vicario patriarcale, che ha
seguito suo zio in tutto. Per me il Vescovo di Roman era come un monaco
del Paterikon, checché ne dicessero gli altri membri del Sinodo che era difficile prendere una decisione quando il Vescovo di Roman partecipava al
Sinodo perché lui aveva sempre “la stessa opinione contraria”. Cosí era la
sua indole. Ma lo stile di vita spirituale, il fervore, l’ha preso da padre
Augustin, che per tutta la vita è stato ecclesiastico delle due chiese del
monastero di Cernica. Era come una vergine nel tempio di Dio. Un uomo
di grande santità e con una vita spirituale di grande elevazione.
C’era poi anche padre Dionisie. Lí c’era tutto un nido di eremiti. Padre
Nicodim, il campanaro del monastero. Me lo ricordo perché noi dormivamo nel dormitorio e non andavamo tutte le notti alla vigilia, ma soltanto
il sabato notte. Ma durante la settimana, ogni notte si sentiva la campana
del monastero e padre Nicodim il campanaro che cantava sui vialetti del
monastero, dalla chiesa di san Nicola fino alla chiesa di san Giorgio, le due
chiese di Cernica: “L’ora della preghiera, l’ora dell’inchino, andiamo, fratelli, alla preghiera”. E andava a svegliare tutti a mezzanotte per la preghiera. E dopo che andava con questo suo canto per essere sentito da tutti
in ogni parte del monastero, suonava la campana. Il suo canto era come
una sveglia. Dopo 15 minuti suonava la campana e il simandro.4
Queste cose sono state molto belle per me. Non potevo nemmeno immaginarmi di vivere senza di loro. E poi padre Nicodim entrava in chiesa con
4
Strumento costituito da un pezzo di legno o di metallo tenuto appeso in alto e percosso per
ottenerne un suono. Usato al posto delle campane per invitare alle funzioni religiose.
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“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
un grande mazzo di basilico: era un uomo semplice, il monaco campanaro,
e metteva il basilico alle icone della Madre di Dio e di Cristo; faceva un inchino e toccava con la fronte le icone. Mi ricordo queste cose con religiosità.
Dal monastero di Condri†a al monastero di Cernica. Da degli eremiti ad
altri eremiti. Uno stile tutto diverso. Questi ultimi sono molto vicini a
Bucarest. C’era una grande folla che veniva da loro, al monastero. Padre
Antipa, che era rimasto 40 anni al Monte Athos, diceva sempre: “Lottate,
ragazzi, lottate, perché io per 40 anni sono stato torturato dal demone della
sfrenatezza.” Mi ricordo anche che padre Antipa aveva una mappa e durante la guerra spostava delle piccole bandierine seguendo lo spostamento della
linea di combattimento. Era alla stesso tempo contro i russi e contro i tedeschi. Amava invece molto Churchill. Padre Antipa era anche lui un uomo
semplice. Padre Roman e io avevamo la stessa età e ci piaceva prendere un
po’ in giro padre Antipa sapendo che era ingenuo: “Padre—dicevamo noi—
questo Churchill è un settario battista e non c’è salvezza per lui”. “Cosa ne
sapete voi—rispondeva padre Antipa. C’è salvezza per lui perché è lui che ci
ha fatto quella Bibbia britannica”.5 “No—rispondevamo di nuovo—, non si
salva.” Fino a quando lui non si arrabbiava e diceva: “Figlio mio, se osserva
la sua regola di preghiera personale, c’è salvezza anche per lui”.
Nella loro semplicità, questo era tutto. C’è la regola di preghiera personale che ti salva. E che significa la regola di preghiera personale? Fare
cento o duecento inchini ogni sera, e recitare tutte le preghiere, il Canone
Paraclito della Vergine: questa era per loro la salvezza: fare la propria preghiera personale. Non perché erano bigotti, ma cosí era il loro modo di
capire la vita spirituale. E infatti avevano ragione. Perché, veramente, a
che serve tutta questa teologia senza un po’ di ascetismo?! Discutiamo di
teologia e rimaniamo con le nostre passioni.
Lei diceva che si confessava da padre Antipa. Ma in quel periodo non è stato
forse anche qualche altro monaco a dirigere la sua vita spirituale? Oppure è stato
proprio padre Antipa…
—Noi eravamo seminaristi. I fratelli del monastero avevano certamente un monaco come padre spirituale. Ma noi dovevamo andare regolarmente a fare la confessione e basta. Praticamente, in seminario, dopo tre o
quattro anni mi sono confessato dal padre archimandrita Nicodim
Sachelarie, che era anche il confessore del seminario. Padre Ioanichie
Bålan l’ha descritto nel Patericul Românesc. Secondo me, dovrebbe essere
5
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Si tratta di una versione romena della Bibbia pubblicata dalla Società biblica britannica.
INTERVISTA A P. ROMAN BRAGA
canonizzato. Era un uomo straordinario, di una incredibile discrezione
spirituale. Quest’uomo aveva un mistero. Senza dire che parlava il greco
antico, la lingua dei santi Padri. Faceva anche delle traduzioni. Ma la sua
vita piú profonda era intimamente legata ai santi Padri che leggeva in
greco. Lui viveva con i santi Padri. Loro erano i suoi amici. Non ho mai
visto un uomo come lui. Aveva una grande cultura, non solo patristica.
Una volta ad esempio ho fatto un grande peccato e sono andato da lui a
confessarmi non senza vergogna. E mi aspettavo di ricevere una penitenza severa. Invece lui mi ha dato da leggere I Fratelli Karamazov per fare l’analisi della figura di Alëœa e poi, dopo due settimane, mi ha chiamato a
parlare con lui. Quando parlava di Dostoevskij, lo faceva con tanta
profondità e con un’analisi cosí profonda! Ha fatto anche un dottorato in
teologia, ma per me resta un grande monaco. È stato tra i primi che i
comunisti nel 1959 hanno buttato fuori dal monastero, l’hanno deportato.
Lui era anziano, e avrebbe dovuto rimanere in monastero, ma l’hanno cacciato via perché aveva una grande influenza spirituale sugli altri…
E dove l’hanno esiliato?
—L’hanno spedito nel suo villaggio natale, a Måldåreßti…
E non avete saputo piú niente di lui?
—Ma sí. So che è rimasto lí ed ha aiutato i contadini a costruire una chiesa nel loro villaggio. Ma lui non abitava nel villaggio. Suo fratello gli ha
fatto una casetta fuori, i bambini andavano a visitarlo e lui raccontava loro
piccole storielle della Bibbia. Il resto del tempo lavorava. Scriveva. Io credo
che padre Sachelarie abbia lasciato piú manoscritti di quanto forse ne conoscano i monaci. Una persona a cui si dovrebbero chiedere piú informazioni è suo nipote, che era anche suo discepolo, padre Chiril Constantin, che
adesso è anche lui in America. Si sa solo che ha pubblicato Epitaful, un
manuale di calendaristica, Pravila… Non mi ricordo altre cose.
Si tratta di libri didascalici?
—No. Epitaful non è un libro didascalico; è un libro di meditazioni.
Praticamente, è una raccolta di epitaffi molto interessanti, scritti sui sepolcri del cimitero del monastero di Cernica. È una riflessione sulla morte.
Pravila è un libro di preghiere, di insegnamenti monastici.
Padre, lei ha detto che a Cernica ha sentito per la prima volta parlare della preghiera del cuore. L’ha imparata? Se ne è interessato fin dall’inizio?
—L’ho imparata in un modo indiretto, con l’accento messo piuttosto
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“OGNI MONACO HA UN SUO SEGRETO CON DIO”
sull’aspetto pratico che sulla sua teologia. Cosí ci ha consigliato il direttore
del seminario di quel periodo, l’archimandrita Chesarie Påunescu, che piú
tardi è diventato vescovo di Gala†i. Un’altra grande figura! Figlio di un
insegnante, è stato anche lui professore di latino in un liceo. Poi è entrato
nel monastero, è diventato archimandrita e direttore del seminario di
Cernica. Era un uomo molto severo, e questo non ci piaceva molto; solo
adesso lo so apprezzare; aveva un modo rigido, quasi legalista, di esser corretto; dovevamo rispettare tutte le forme della “pravila” [la regola di preghiera personale], anche se non riuscivamo a capire tutto. Viene poi anche
lo spirito, diceva lui. Adesso devi cominciare con la pratica. Devi praticare
la regola della preghiera personale. Devi ripetere la preghiera anche se la
dici automaticamente, perché la comprensione arriva piú tardi, giacché
anche lo Spirito Santo lavora piú tardi, dopo che ti sei abituato con la stanchezza. Questo era il suo metodo; non ti permetteva di trascurare neanche
il piú piccolo dettaglio. Secondo me, è stato un grande educatore.
Ma non è stato lui a parlarle per la prima volta della preghiera del cuore?
—Sí e no. Noi gli abbiamo chiesto cosa fosse la preghiera del cuore e lui
ci ha risposto: Non cercate per curiosità; basta per adesso che la ripetiate
il piú frequentemente possibile. Da lui ho imparato a dire sempre la preghiera del cuore senza essere troppo attento ai dettagli. Fai una cosa, poi
un’altra, parli con qualcuno e poi riprendi la preghiera. Per molto tempo
non ho saputo niente del metodo, che solo in seguito ho capito; solo dopo
la lettura dei santi Padri mi sono reso conto che la preghiera del cuore non è
una semplice preghiera, ma tutta una teologia fondata sulla presenza di
Dio nel nostro cuore, nel nostro universo interiore, nella liturgia interiore.
Tutte queste cose le ho capite dopo, quando sono andato alla Facoltà di
Teologia. A Cernica invece ho imparato la pratica della preghiera del cuore
prima di capire che cosa sia questa preghiera. Ho visto padre Teodosie che
la diceva di nascosto quando veniva in chiesa. Mi ricordo poi della sorella del metropolita Nikolaj di Rostov che morí a Cernica, esiliato dalla
Russia alla fine della guerra. Sua sorella era monaca anche lei. L’ho vista
come andava al sepolcro di suo fratello, era cieca, povera, e sempre mormorava qualcosa: diceva in russo la preghiera del cuore. C’era anche padre
Damian, il custode del cimitero che non parlava affatto. Lui aveva fatto il
voto del silenzio. Era giardiniere; trasportava sempre con la carriola delle
pietruzze per i vialetti del cimitero e allo stesso tempo aveva cura di un
monaco paralitico che giaceva nell’infermeria del monastero. Questo
monaco era padre Dometie, da 37 anni era paralitico, non poteva piú muoversi, e stava sempre a letto seduto. Talvolta noi andavamo da lui; nella
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INTERVISTA A P. ROMAN BRAGA
notte di Pasqua, noi seminaristi cantavamo per lui “L’angelo ha gridato”
e lui piangeva. Padre Damian aveva cura di lui, gli portava da mangiare,
lo lavava, tutto senza dire una parola. Muoveva solo le labbra dicendo la
preghiera del cuore, tutto il giorno, quando trasportava con la carriola l’erba che era cresciuta sulle tombe. Queste tombe dovevano essere sempre
pulite, perché era molta la gente di Bucarest che veniva nel cimitero, dal
momento che molte persone importanti di Bucarest erano sepolte lí. Padre
Damian riceveva anche un po’ di soldi per aver cura dei sepolcri. Dunque
lavorava sempre nel cimitero. La sera accendeva delle piccole candele.
Tutte le croci delle tombe avevano una piccola incavatura e lui metteva la
candela lí. Le candeline restavano accese tutta la notte, come se fossero le
luci di una piccola città.
C’erano anche altri padri che dicevano la preghiera del cuore, come per
esempio padre Nicodim, il campanaro. Ma c’erano anche dei monaci piú
giovani. Mi ha colpito molto l’economo del monastero. Credo che si chiamasse Visarion. Quest’uomo camminava sempre a piedi nudi e correva
dappertutto sulle colline, nella vigna; poche volte l’ho visto con i sandali.
Invece il mantello non lo lasciava mai, a nessun costo. Aveva un povero
mantello vecchio e scolorito. Doveva accompagnare gli operai alla vigna,
al frutteto, doveva aver cura anche delle stanze del monastero. Era sempre impegnato. Ed era stanco. Si vedeva com’era stanco, ma quest’uomo
non è mai mancato ad una veglia, dove leggeva alcuni salmi. Che straordinario fervore! Lui avrebbe potuto dormire, perché nessuno lo costringeva a lavorare tutto il giorno. L’economo di un monastero è sempre stanco.
Ma lui, invece di riposarsi, veniva in chiesa alla vigilia per leggere dal
Salterio. Non si capiva quello che leggeva: sapete come si legge nel monastero, con l’accompagnamento, senza capire tutte le parole; nemmeno ne
avevi il tempo, perché si recitava molto velocemente, ma padre Visarion
leggeva come se fosse una specie di bisogno. Era un monaco di una grande bontà. Lui come padre Damian, il custode del cimitero; uomini semplici, di una semplicità straordinaria. Non si poteva discutere di teologia con
loro. Loro sapevano solo questo: devi dire sempre Signore Gesú Cristo,
Figlio di Dio, abbi pietà di me e i Salmi, il Salterio. Cioè rispettare rigorosamente la regola di preghiera personale. Quello che io ho visto a Cernica è
stata proprio questa regola formale che doveva essere rispettata. I padri
spirituali dicevano che sentire delle cose spirituali viene piú tardi, ma che
all’inizio c’è la forma e l’ostinazione. Ma anche l’obbedienza. C’è qui qualcosa di segreto che può aiutare coloro che vogliono capire la peculiarità
della spiritualità romena.
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