Maurice Borrmans Capitolo 1° di “ALTI E BASSI DEL DIALOGO ISLAMO-CRISTIANO” tratto da “ Dialoguer avec les Musulmanes, une cause perdue ou une cause à gagner? Pierre Tequi Editeur, Paris 2011 Traduzione dal francese a cura del CADR PRESENTAZIONE Nella casa comune che è ormai l’Europa che si sta allargando, e in questo piccolo villaggio che è diventato il nostro pianeta in via di globalizzazione, cristiani e musulmani, insieme a tanti altri, come tanti altri, sono chiamati a vivere insieme e a edificare una società degna degli uomini di tutte le culture e dei credenti di tutte le fedi. Salvo rare eccezioni, tutti i paesi membri delle Nazioni Unite e firmatari della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, oggi sono invitati a organizzare un pluralismo culturale e religioso che tenga conto dei diritti e dei doveri delle maggioranze nazionali e delle minoranze locali, autoctone o straniere. Le società del Golfo Arabo si sono sviluppate grazie a tecnici e a lavoratori venuti da altrove, cosa che ha comportato la presenza di numerosi cristiani, originari di tutti i paesi del mondo, in queste regioni che per 14 secoli erano state integralmente musulmane. Parallelamente, le società europee e americane conoscono immigrazioni recenti, numerose e diverse, provenienti dai Paesi Arabi, dalla Turchia, dall’Asia meridionale e dall’Africa subsahariana, per ragioni economiche, giuridiche o politiche. Ne è derivato un insieme di problemi che le nuove diaspore musulmane, in Europa e in America, hanno posto alle società che li hanno accolti: conflitti culturali, pluralismo religioso e a volte giuridico, ridefinizione della laicità, metodi di integrazione, ecc. Che ne è dunque oggi del Dialogo islamo-cristiano se, con questo termine, si intendono le molteplici situazioni locali che concernono le relazioni tra cristiani e musulmani ? Dialogo della vita quotidiana nei quartieri e nelle famiglie, dialogo dei servizi sociali, della cultura e della sanità, nelle scuole e nelle Università come nei dispensari e negli ospedali, dialogo della riflessione tra responsabili religiosi, esegeti e teologi, in Seminari di ricerca o in Colloqui di informazione, dialogo dello scambio spirituale e dei valori di interiorizzazione tra coloro che, riconoscendosi tutti cercatori di Dio, intendono condividere le loro esperienze e interrogarsi insieme sul mistero di Colui che dà senso all’uomo e alla sua storia. Si tratta di molteplici dimensioni del vivere insieme che i cristiani, umilmente da parte loro, si sforzano di praticare dovunque con i loro “fratelli maggiori” del giudaismo e i loro “fratelli in umanità” di tutte le grandi religioni storiche (Islam, Induismo, Buddhismo, ecc.) e di cui si vorrebbe qui precisare gli “ alti e bassi attuali” poiché si tratta del dialogo, necessario e difficile, tra cristiani e musulmani. All’indomani del Concilio Vaticano II (1962-1965) i cattolici pensavano, giustamente, che le audaci revisioni della Dichiarazione sulle Relazioni della Chiesa con le Religioni non cristiane (Nostra Aetate) aprivano una nuova era all’incontro interreligioso. Di fatto, in seguito alla sua istituzione, nel 1964, il Segretariato (romano) per i non cristiani (che diventerà, il 28 giugno 1988, il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso) e, nello stesso tempo, l’istanza parallela del Consiglio Ecumenico delle Chiese a Ginevra, non hanno mancato, da allora, di prendere delle iniziative o di rispondere alle iniziative di istituzioni musulmane, così suscitate, allo scopo di ridurre il muro di incomprensione o di superare lo “scontro delle ignoranze”. E’ certo che “l’orrore assoluto” del doppio atto terrorista commesso l’11 settembre 2001 a New York e a Washington ha rimesso in causa la fondatezza di tutti questi sforzi di dialogo. I mandatari e gli esecutori di questo atto hanno rivendicato motivazioni religiose islamiche, cosa che ha contribuito a convincere gli Occidentali e i Musulmani dei loro pregiudizi classici e dei loro attuali malintesi. Come dicevo nell’introduzione di un libro pubblicato allora con il titolo “Dialogue islamo-chrétien à temps et contretemps“, numerosi europei e americani hanno voluto vedere nell’islam solamente un’impresa terroristica, mentre molte popolazioni arabe e musulmane esprimevano più che mai il loro “antiamericanismo” o persino il loro rifiuto dei valori del mondo occidentale detto “cristiano”, confuso ormai con una modernità che avrebbe perso la sua anima. E’ per rettificare questo sguardo doppiamente pessimista, anzi, errato, non sprovvisto, secondo alcuni, di amalgami indebiti, che è opportuno interrogarsi sugli alti e bassi attuali del dialogo islamo-cristiano. Conviene innanzitutto prendere atto, molto semplicemente, che il dialogo continua non ostante molti nuovi ostacoli; bisogna poi considerare, con realismo e oggettività, che esso è contestato, anzi, criticato, da molti; infine è necessario valutarne più che mai sia l’urgenza che le opportunità. Che ne è dunque di questo Dialogo nello stesso tempo continuo, contestato, e sperato? Dialogo continuo Senza che sia necessario rifare la storia nel corso degli ultimi decenni, basti segnalare ciò che è avvenuto negli ultimi mesi del 2002 e durante tutto il 2003. Da parte sua, Giovanni Paolo II non ha smesso di ricordare a tutti l’urgenza del dialogo per risolvere i gravi problemi della politica internazionale. Il suo messaggio del 1° gennaio 2001 era chiaro: “Dialogo tra le culture per una civiltà dell’amore e della pace”, ribadito da quello del 1° gennaio 2002: “Niente pace senza giustizia, niente giustizia senza perdono”. E’ proprio ciò che ha ricordato nel suo messaggio del Natale 2002 e poi in quello del 1° gennaio 2003 per la Giornata Mondiale della Pace e ciò che ha ripetuto al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede in occasione dello scambio di auguri il 13 gennaio 2003: “No alla guerra! Essa non è mai una fatalità. E’ sempre una disfatta dell’umanità. Il Diritto Internazionale, il Dialogo leale, la solidarietà tra gli Stati, il nobile esercizio della diplomazia sono i mezzi degni dell’uomo e delle nazioni per risolvere i contrasti. E’ lo stesso messaggio di riconciliazione che ha portato alle popolazioni di Banja-Luka, in Bosnia Erzegovina, il 22 giugno 2003 in occasione di una visita pastorale in cui ha invitato tutti coloro che l’accoglievano a “una autentica purificazione della memoria mediante il perdono reciproco”. Ma è soprattutto nella sua esortazione apostolica post sinodale “Ecclesia in Europa”, del 28 giugno 2003, che ha incoraggiato i cristiani a fare il possibile per “favorire il dialogo con il giudaismo, sapendo che è di una importanza fondamentale per la coscienza cristiana […] e di avere un giusto rapporto con l’islam […], rapporto che deve essere gestito con prudenza: bisogna conoscerne in modo chiaro le possibilità e i limiti e conservare la fiducia nel disegno di salvezza di Dio, che riguarda tutti i suoi figli”. Il Papa ricordava anche le esigenze di “reciprocità nella garanzia della libertà religiosa”, tema essenziale, che il suo portavoce Mons. Jean-Louis Tauran, aveva sviluppato a Oporto, in Portogallo, in occasione delle assise dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. E’ proprio con questo stesso spirito che il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso ha continuato le sue attività e ha preso certe iniziative. Il messaggio di auguri indirizzato ai musulmani per la festa della Rottura del digiuno di Ramadan, il 5 dicembre 2002, aveva come titolo: “Cristiani e Musulmani insieme sulla via della pace”. Questo ideale è stato ripreso all’inizio del 2003 (1618 gennaio) nel corso di un Colloquio internazionale che esso ha organizzato a Roma, dove i rappresentanti di tutte le religioni si sono chiesti quali sono le risorse spirituali delle religioni per la pace. D'altronde si sa che questo stesso Consiglio Pontificio intrattiene costanti relazioni con il suo omologo Consiglio Ecumenico delle Chiese e intende continuare le sue riunioni annuali con alcune Istituzioni musulmane, come quella del Comitato permanente dell’Università al-Azhar del Cairo per il dialogo con le religioni monoteiste. La penultima si è tenuta al Cairo nel febbraio 2003 e l’ultima a Roma il 24 febbraio 2004. Da parte sua, la Comunione anglicana aveva fatto la stessa cosa il 10 e l’11 settembre 2002 sempre al Cairo, in seguito agli accordi firmati al Lambeth Palace di Londra il 30 gennaio 2002. Per quanto riguarda gli Ortodossi, hanno visto il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I presiedere a Bahrein, sul Golfo Arabo, dal 28 al 30 ottobre 2002, il Decimo Incontro Islamo-Cristiano tra ortodossi e musulmani su “Il ruolo della religione per una coesistenza pacifica”; il Patriarca aveva trattato lo stesso tema in occasione della sua visita a Doha, capitale del Qatar, dal 15 al 17 ottobre dello stesso anno. In Europa, in Asia e in Africa sforzi simili sono stati fatti non ostante le difficoltà locali e a volte scontri drammatici causati dalla situazione internazionale (guerra in Iraq e atti di terrorismo). In Francia ci sono stati molti dibattiti attorno alle elezioni dei Consigli Regionali e del Consiglio Nazionale del Culto Musulmano e anche circa la questione del velo, che ha richiesto i lavori e il rapporto della Commissione Stasi sulla laicità nella Repubblica. L’Istituto di Scienze e di Teologia delle Religioni di Marsiglia si è interrogato dall’11 al 15 settembre 2002 su “Dialogo e verità: le vie della mediazione interreligiosa”, Il Gruppo di Amicizia IslamoCristiano ha dibattuto a Parigi, il 25 e il 26 ottobre 2002, sulle responsabilità dei “Cristiani e Musulmani, credenti, nella città” e le molteplici manifestazioni che hanno accompagnato l’Anno dell’Algeria sono terminate con il Colloquio del 30 e 31 gennaio 2003 nella sede parigina dell’ Unesco il cui tema era :”I monoteismi in Algeria nel corso degli anni”. Simili Incontri [in seguito all’11 Settembre] sono avvenuti in Gran Bretagna, Germania, Norvegia… In Italia, dal 1° al 3 settembre 2002, la Comunità di S. Egidio ha radunato rappresentanti di tutte le religioni a Palermo, per un nuovo richiamo alla pace nello “spirito di Assisi”. A Roma, il PISAI ha ricevuto la delegazione del Segretariato della Lega del Mondo Islamico, presieduta dallo Sceicco saudita alTurki (15 ottobre 2002); ha partecipato alla conferenza di Emre Oktem, professore turco di Istambul su “La specificità della laicità turca” 22 gennaio 2003; ha organizzato la presentazione di “Lo stato delle Chiese nel Magreb” da parte dei vescovi dell’Africa del Nord (19/2/2003), ha proposto al suo pubblico di ascoltare Emma Atallah Soula, direttrice del Credif di Tunisi parlare di “La donna tunisina tra Oriente e Occidente”. Anche nei Paesi del Medio Oriente e nei Paesi Arabi, quali ad esempio: Egitto, Tunisia, Marocco, Libano, Giordania, Iran si sono svolte conferenze, colloqui, ricerche e via dicendo sul dialogo islamo-cristiano sempre in seguito all’11 Settembre. Lo stesso è avvenuto in Asia e in Africa. Il Dialogo contestato Gli sforzi intrapresi da circa 40 anni, sia da parte cristiana che da parte musulmana, continuano così, più o meno dovunque credenti di buona volontà, coscienti delle loro responsabilità spirituali, vogliono garantire o restituire alle loro rispettive religioni la propria missione di giustizia e di pace. Devono comunque constatare che questi passi sono ben lungi dall’ottenere l’unanimità: fondamentalisti e irredentisti vi si oppongono più che mai, per ragioni culturali, politiche o dottrinali, nei Paesi composti da maggioranze predominanti e da minoranze più o meno rispettate, in cui la dimensione religiosa fa talvolta parte dell’identità delle persone e delle comunità. Ciò avviene quanto più il dialogo interreligioso è piccola cosa nel campo ben più vasto di una globalizzazione in cui la politica, l’economia e la cultura danno a tutte le relazioni umane delle dimensioni contemporaneamente complesse e conflittuali. E’ dunque normale che il dialogo islamo-cristiano ne soffra, soprattutto dopo gli avvenimenti drammatici dell’11 settembre 2001 e quelli, altrettanto gravi, in Afghanistan, Iraq, Israele e Palestina, per non parlare che dei Paesi che sono al centro dei conflitti in corso. Chi non vede che gli scontri sanguinosi in Bosnia, Erzegovina, Cecenia e Kosovo in Europa, a Mindanau, nelle Molucche e in Pakistan in Asia, nel Sudan e nel Nord Nigeria in Africa, hanno una dimensione religiosa di cui è difficile misurare il grado esatto di importanza? E’ certo che la prima guerra del Golfo (1991) che ha liberato il Kuwait dall’invasione irachena e la seconda (2003) che ha provocato l’occupazione dell’Iraq da parte delle forze della Coalizione condotte dagli Stati Uniti, hanno risvegliato da ogni parte termini e antagonismi che si credevano scomparsi, quei vecchi demoni della “crociata” del “jihad” che si pensava di avere finalmente esorcizzato. Molti sono tentati di sposare la tesi del politologo americano Samuel P. Huntington e di vedere in tutto ciò uno “scontro” (ineluttabile) delle civiltà, da cui molte riletture della Storia o revisioni dolorose da parte di persone impegnate da lungo tempo nel dialogo interreligioso. Emblematico a questo proposito è il processo alle intenzioni che il professore tunisino Mohamed Talbi ha fatto a proposito del mio libro “Dialogue islamo-chretien à temps et contretemps” che riprende uno studio su “l’Islam e la pace” con un excursus su il jihad, pubblicato senza problemi nel 1987 nella rivista islamochristiana del PISAI e ripreso in questo libro [da cui è tratto il presente articolo] pubblicato nel 2002, in cui egli pretende di vedere la giustificazione teologica cristiana della politica americana antiislamica del Presidente George Bush, mentre, secondo lui, non ci sarebbe nel Corano nessun versetto in favore del ricorso alla violenza. Questo fatto non è purtroppo isolato. Molti altri sarebbero da analizzare per conoscerne meglio le motivazioni e gli scopi. Il 10° Summit dei 57 Paesi musulmani dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI) che si è tenuto nell’ottobre del 2003 a Putrajaya, capitale amministrativa della Malesia, è stato teatro di manifestazioni significative a questo proposito. Il suo Segretario Generale, il marocchino Abdel Ouahed Belkeziz ha constatato che i musulmani “sono presi da un sentimento di incapacità e di fallimento vedendo alcuni dei loro paesi occupati e altri sottomessi a embargo o a ogni sorta di blocco, o semplicemente minacciati di venire attaccati con il pretesto che sostengono il terrorismo”. Per quanto riguarda l’ospite del summit, il Primo Ministro malesiano Mahathir Mohamad , ha fatto appello alla “restaurazione dell’onore dell’Islam”, facendo purtroppo dei discorsi giudicati da molti europei particolarmente antisemiti: “Gli europei hanno ucciso 6 milioni di ebrei su 12. Ma oggi gli ebrei dirigono il mondo per procura. Ottengono che gli altri si battano e muoiano per loro”. Discorsi infelici, certo, ma espressione fedele di una grande parte dell’opinione pubblica musulmana. In proposito Kofi Annan ha voluto richiamare tutti ed ognuno al principio di realtà. Ha detto, da un lato che “gli attentati suicidi in cui centinaia di civili israeliani sono stati uccisi ciecamente, non sono accettabili” (ma perché non ha evocato anche le vittime palestinesi della repressione israeliana, infinitamente più numerose?) e ha constatato d’altra parte che “in troppi luoghi esiste un crescente sentimento di ostilità tra l’Islam e l’Occidente”. E’ brutto, pericoloso e falso. Ma tutti questi discorsi e questi fatti non vengono forse a confermare la tesi di Samuel P.Huntington ? Questo malinteso, non farebbe che aumentare in troppi paesi africani, europei e asiatici, malgrado ciò che affermava Vladimir Putin a questo summit malesiano dell’ OCI: “Il terrorismo non può in nessun caso essere attribuito a una religione, a una cultura, a una tradizione o a un modo di vivere”. Sollecitato dal nostro Istituto di Roma il PISAI, di descrivere, per il pubblico romano, lo stato attuale delle pubbliche opinioni nei paesi arabo-musulmani dopo i tragici avvenimenti dell’11 Settembre 2011, Mohammed Sammak, si è spiegato a lungo sull’anti-americanismo presente ovunque in mille forme inattese, mentre ha evocato molto o troppo brevemente la condanna musulmana degli atti terroristici. Molti amalgama si moltiplicano così, aiutati da generalizzazioni affrettate e da ignoranze endemiche. L’Occidente è allora assimilato al cristianesimo, all’imperialismo, al laicismo e al materialismo di cui gli altri subirebbero l’invasione culturale, mentre il mondo dell’islam sarebbe sinonimo di sottosviluppo e di violenza se non di terrorismo. Il fatto è che stampa, radio e televisione tradiscono troppo spesso l’immagine autentica dell’ “altro” per cui avviene questa reazione espressa in numerosi Colloqui in paesi musulmani: l’Occidente si è fatto una immagine falsa o falsificata dell’islam, di cui gli orientalisti sarebbero all’origine. Ma chi potrà mai dire chi ne sono i primi responsabili? Tanto più che, per alcuni, è difficile distinguere tra “resistenza” e “terrorismo”, esercitato da gruppi o da Stati. Sull’altro versante, molti si lamentano, in Occidente, di un linguaggio ufficiale “correttamente espresso” (per non infastidire nessuno!) che in nome di una inquisizione sottile o ipocrita, oppure di una laicità egalitaria, rifiuterebbe alla critica scientifica libera il diritto di esprimersi nei confronti dello Stato di Israele e della sua politica (subito accusata di antisemitismo) e anche dell’islam, della sua storia e delle sue debolezze (subito accusata di islamofobia). A complicare le cose intervengono allora le manifestazioni eccessive, anzi aggressive e troppo velocemente mediatizzate, di certi musulmani esaltati, in alcuni paesi europei. I Paesi Arabi vivono oggi, come al momento del primo conflitto del Golfo, nuove “guerre delle fatwa-s” in cui si contrappongono le interpretazioni contraddittorie che Ulama e Fuqaha fanno del loro islam: si ha il diritto di ricorrere a forze armate non musulmane (cioè “miscredenti” o “Kuffar”) per difendere o liberare territori islamici o almeno fare alleanza con esse? I pareri a questo riguardo sono i più diversi. A titolo di esempio si ricorda che: In Marocco, per iniziativa del Re, il 16 novembre 2001, una “cerimonia ecumenica” di preghiera per le vittime dell’11 settembre ha riunito nella Cattedrale cattolica di Rabat i rappresentanti di tutti i culti e i rappresentanti del Governo, testimoniando così la solidarietà e lo spirito di apertura del Regno. Ed ecco che una fatwa firmata da numerosi ulama marocchini esprimeva le sue riserve, se non la sua opposizione di un islam marocchino intransigente: “Nessuna alleanza con gli empi è permessa contro i musulmani, nessuna preghiera di musulmani è autorizzata in una chiesa o in una sinagoga, non esiste nessuna fraternità fra le “tre religioni abramiche” . Molteplici e contradditori sono dunque oggi gli atteggiamenti dei rappresentanti ufficiali o ufficiosi dell’islam in molti paesi. Come dichiaravano alcuni colleghi dell’Università tunisina alZaytuna qualche mese fa, è ora che un dialogo serio e approfondito si instauri tra i veri rappresentanti dell’islam come religione, perché adottino finalmente un atteggiamento comune di fronte alle rinnovate esigenze della modernità in materia di esegesi e di ermeneutica come i Diritti dell’Uomo e la bioetica. Se il dialogo tra cristiani e musulmani è così contestato, anzi rifiutato da molti responsabili religiosi musulmani per ragioni dottrinali e spirituali, quando non culturali o politiche, non è forse tanto più necessario misurarne esattamente i limiti e le possibilità con realismo, obiettività e generosità e precisarne di nuovo i compiti più urgenti? E se alcuni cristiani criticano o rifiutano il dialogo non è perché certi l’hanno indebitamente confuso con l’ecumenismo tra cristiani (pensando illusoriamente che si sarebbe arrivati a una “super religione” comune) e perché altri lo rimproverano di non raggiungere alcun risultato concreto (constatando amaramente che non vi si affrontano i veri problemi, come quello della libertà religiosa, compreso il diritto di cambiare religione)? DIALOGO SPERATO Non ostante le attuali difficoltà e i conflitti che sembrano talvolta interminabili, come quello che contrappone ancora israeliani e palestinesi, malgrado gli accordi di Oslo, la road map (2003) e l’ “accordo di Ginevra” (2003), gli uomini e le donne del dialogo sia da parte cristiana sia da parte musulmana hanno potuto rendersi conto dei nuovi sforzi che debbono fare per continuare ciò che è stato fatto e superare le contestazioni più recenti. Coscienti più che mai delle ambiguità presenti nelle ineluttabili implicazioni politiche (o ideologiche) e culturali dei loro incontri devono tuttavia liberarli per restituire al dialogo interreligioso tutto il suo potere di intervento al fine di organizzare un pluralismo rispettoso di tutti e assicurare delle convergenze sempre più strette per quanto riguarda i diritti dell’uomo e le richieste dello Spirito. Per fare questo, tutti sono invitati a superare lo “scontro delle ignoranze” che continuava a denunciare il palestinese Edward Said, professore negli Stati Uniti dove recentemente è deceduto. Una “scienza delle religioni” ben strutturata dovrebbe permettere a tutti, mediante l’insegnamento scolastico e la cultura mediatica, di avere una conoscenza oggettiva ed empatica del credo, della morale e dei riti reciproci. Possiamo allora augurarci che si passi da una “laicità areligiosa”, che alcuni sono tentati di sacralizzare nel nome di una civiltà detta “dei lumi” a una “laicità plurireligiosa” che tenga conto delle risposte che le filosofie e le religioni danno alle grandi domande che l’essere umano si pone da sempre, questioni enumerate, a giusto titolo, nell’introduzione alla Dichiarazione Conciliare Nostra Aetate? Non per caso molti Colloqui islamocristiani hanno raccomandato una riforma dei manuali scolastici di religione e di storia. E’ questo un vasto campo aperto alla collaborazione amichevole tra pensatori e pedagoghi ovunque ciò sia necessario, nella comune ricerca della verità storica e nel “Testardo rispetto” (è il titolo del libro che avevano pubblicato Mohammed Talbi e Ollivier Clément nel 1989) delle convinzioni religiose di ogni credente. Pur rispettando la specificità delle diverse teologie elaborate nel corso della storia a partire dai testi fondatori, cristiani e musulmani non sono forse chiamati anche a superare lo “scontro delle antropologie” e a scoprire al di là della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) e della Legge islamica (la shari’a) nella varietà delle scuole canoniche sunnite e sciite, quei valori fondamentali che si trovano nel cuore stesso del “diritto naturale” e che le fuqaha stesse considerano essere gli “scopi ultimi” (maqasid) di una Legge secondo loro ispirata divinamente e sviluppata umanamente? Questi valori sono: la persona, la religione, l’economia, la cultura e la famiglia. E’ proprio su questi valori che Colloqui numerosi e recenti hanno riflettuto sui fondamenti filosofici e teologici della eminente dignità della persona umana (califfo di Allah in questo mondo per i musulmani, o figli di Dio Padre per adozione, per i cristiani) per meglio discernere ciò che gli uni e gli altri intendono per “diritto naturale” o “legge rivelata” e trarne regole comuni di un’etica personalista di tipo monoteista. Nel corso di molteplici Seminari sul dialogo il Principe Hasan Ibn Talal di Giordania si è fatto paladino di questa ricerca di una piattaforma comune dei valori essenziali che sono la persona umana e il suo sviluppo, la famiglia e la sopravvivenza della specie, l’intelligenza e la civiltà, i beni economici e lo sviluppo tecnologico, la religione e la spiritualità. Consultando le due opere pubblicate recentemente dall’Istituto di Studi Islamo-cristiani dell’Università S.Joseph di Beirut , che relazionano sulle conclusioni e le raccomandazioni dei diversi Incontri negli ultimi 40 anni, si trova la lista in ordine di importanza dei temi più rilevanti e dunque dei problemi più urgenti che dovrebbero attirare l’attenzione degli uni e degli altri. La difficoltà è sempre la stessa: come passare dai principi generali in cui l’accordo è relativamente facile, alla soluzione dei conflitti settoriali, la cui applicazione, piena di sfumature, è di fatto difficile? Le reiterate manifestazioni di buona volontà e di ascolto reciproco non sono certo mancate, nel corso degli ultimi decenni, ma bisognava aggiungervi dei gruppi di ricerca o delle commissioni di studio per affrontare insieme le difficili sfide che la Conferenza di Annie Laurent ha evocato a Beirut il 15 dicembre 2000, alla Facoltà di scienze religiose dell’Università S.Joseph cioè i rapporti tra dialogo e tradizione, dialogo e verità, dialogo e missione (oppure dawa), dialogo e identità, dialogo e reciprocità. Su tutti questi argomenti si sono già avuti dei progressi, ma rimane da svilupparne le implicazioni a livello filosofico e teologico da una parte e a livello giuridico e pedagogico dall’altra. Resta comunque vero che tutti questi sforzi rischiano di limitarsi al dialogo interculturale se non vengono arricchiti da un supplemento d’anima che faccia appello alle energie specificatamente religiose dei partner di questo dialogo. Come Giovanni Paolo II si era permesso di dire alle decine di migliaia di giovani musulmani andati ad ascoltarlo allo stadio di Casablanca il 19 agosto 1985 su invito del defunto Hasan II, re del Marocco, cristiani e musulmani sono solidalmente chiamati a testimoniare Dio, la sua grandezza e la sua provvidenza in un mondo tentato da nuovi paganesimi che idolatrano l’uomo e la sua tecnologia e sono chiamati a collaborare sempre più per un migliore sviluppo integrale e globale che comprenda contemporaneamente l’economia, la cultura e lo spirito. Ed è giustamente quest’ultima dimensione che sola può garantire a tutti gli sforzi intrapresi fino ad ora, degli effetti duraturi e significativi. Ecco perché il Dialogo “continuo e sperato” dovrebbe prendere in considerazione le “tappe possibili di uno scambio spirituale”. Cristiani e musulmani, insieme ai fedeli delle altre Tradizioni religiose, non hanno forse molte cose da dirsi e molte esperienze da condividere riguardo a queste tappe che sono “il mistero di Dio, il dono della Parola, il ruolo dei profeti, la presenza delle Comunità, i segreti della preghiera e le vie della santità”? Un collega tunisino musulmano, troppo presto sottratto all’affetto dei suoi, Ahmed M’Chergui, lo diceva a Tunisi nel gennaio 2002:”troppo spesso siamo degli analfabeti sul piano religioso e dei sottosviluppati sul piano spirituale”, riconoscendo così che numerosi musulmani oggi ignorano quasi tutto del loro patrimonio teologico, ascetico e mistico arricchito a suo tempo dai grandi pensatori dell’Islam dell’Alto Medio Evo del Vicino Oriente. Non è forse la stessa cosa in Occidente dove molti dei nostri contemporanei soffrono di una “perdita di memoria collettiva e cristiana” nel nome di una laicità che esclude il “religioso” dall’ambito scolastico anzi sociale e culturale? Ci sono dunque molte cose da fare sia da parte musulmana che da parte cristiana, ed è proprio una delle chance del Dialogo far beneficiare gli uni gli altri dei frutti della propria modesta esperienza in questi diversi ambiti. Conclusione E così, tra le domande e la confusione generate della attuale situazione internazionale, per quanto riguarda le relazioni IslamOccidente e tra le incertezze e le angosce che vi provano gli uomini e le donne del Dialogo, sia da parte cristiana che da parte musulmana, è necessario non demoralizzarsi e riprendere coraggio sull’esempio del “l’uomo in bianco” (il Papa) che a Roma o sulle strade del mondo, invita al “dialogo islamo-cristiano a tempo debito e indebito”. Come abbiamo visto, questo Dialogo continua ovunque, malgrado le difficoltà e gli ostacoli, e numerose Istituzioni, sia cristiane che musulmane, vi si trovano impegnate. Certamente è contestato e criticato da molti, quando non è giudicato inutile da alcuni o pericoloso da altri: occasione, per tutti, di purificarne le intenzioni, di migliorarne i metodi e di moltiplicarne le realizzazioni. Ma non è forse il Dialogo portatore di una speranza, quella di una prima riconciliazione tra i fedeli di tutte le religioni per una migliore presa di coscienza delle loro responsabilità solidali dei valori di vita, giustizia, lavoro, amore e perdono, nel rispetto delle loro elaborazioni dottrinali specifiche e delle diverse espressioni mistiche? Se l’autonomia della “Città degli uomini” che deve comunque sottoporsi a un’etica superiore ha il compito di garantire, nell’armonia e nell’equità, un vero pluralismo, anche se è, di fatto, spesso gerarchico, è dovere delle religioni, in dialogo dialettico tra di loro, sapervi porre quel “fuoco sacro” degli interventi dello Spirito al fine di farne, in qualche modo, le primizie della “Città di Dio”.