La Comunità “Piccolo Gregge” Castellanza (Varese) Una Casa-Alloggio per persone in AIDS P. Carlo Merlo; Fr. Lino Casagrande; P. Pierpaolo Valli CASA-ALLOGGIO: UN’ACCOGLIENZA PER LA VITA Innanzi tutto ricordiamo che il nome dato a questo tipo di assistenza “Casa-Alloggio” serve per differenziarlo da altre risposte residenziali quali: Casa-Famiglia, Comunità, Residenza Sociale Assistita, ecc. Infatti, la CasaAlloggio si propone come un modello di accoglienza, anche temporanea, per quelle persone che, malate di AIDS, necessitano di un luogo e di un ambiente che permetta loro di sentirsi un po’ “a casa”, senza per questo perdere la speranza di rientrare nella propria famiglia, momentaneamente non in grado di assicurare un sostegno nel percorso difficile e doloroso della malattia. La Casa-Alloggio riduce l’ospedalizzazione a vantaggio di un’assistenza personalizzata, attraverso un sostegno multi - fattoriale, sanitario, umano, spirituale, psicologico e sociale. La Casa-Alloggio, a motivo dell’aumentata prospettiva di vita, viene considerata sempre più un luogo da cui ripartire e una opportunità da utilizzare al meglio. LA NOSTRA STORIA La Casa-Alloggio di Castellanza, denominata “Piccolo Gregge”, è nata nel 1993 dallo slancio di tre giovani religiosi camilliani. Desiderando realizzare l’insegnamento di S. Camillo, essi iniziarono ad accogliere quegli ammalati che rappresentavano “gli ultimi” evangelici: i malati di AIDS. Nel 1993, l’AIDS costituiva un’emergenza sociale assoluta. Non esistevano ancora terapie in grado di bloccare l’infezione né prospettive che facessero intravedere un destino diverso da quello dell’agonia e della morte. A ciò, si sommava nella quasi totalità dei casi l’effetto dello stigma sociale, della paura e dell’emarginazione: la maggioranza degli ospiti accolti in casa erano in realtà soli al mondo e affidati totalmente alle cure e all’affetto degli operatori e dei volontari della Casa. In questa prima fase dell’esistenza della Casa-Alloggio, la Comunità camilliana, insieme agli operatori laici e ai volontari, dovette far fronte soprattutto a questo tipo di emergenza, configurandosi sostanzialmente come un “hospice”, un luogo in cui la persona ammalata veniva preparata, per quanto possibile, ad andare incontro alla propria morte in modo dignitoso e sereno, riconciliandosi con il proprio passato. Nel primo triennio di esistenza della Comunità, l’équipe degli operatori e dei religiosi ha curato amorevolmente e sostenuto spiritualmente, accompagnandoli al passo estremo, oltre 70 persone, per lo più giovani al di sotto dei 40 anni. Le necessità erano prevalentemente a carattere sanitario da una parte, e di animazione e sostegno spirituale dall’altra. Le attività erano organizzate all’interno della casa (gruppi di parola, feste, attività di animazione, incontri di formazione/informazione), mentre le attività esterne (gite, vacanze) avevano carattere episodico. L’obiettivo principale, infatti, era il recupero del senso e della dimensione affettiva per ogni singolo ospite. La Comunità ha poi avuto, fin dall’inizio, un’attenzione speciale per la dimensione vocazionale e per la promozione della pastorale sanitaria all’interno della Chiesa locale e del territorio. In questo senso si è impegnata ad essere un punto di riferimento per quanti, soprattutto giovani, erano impegnati nel mondo della sofferenza e dell’emarginazione. Tra le varie iniziative che sono state messe in atto (esperienze di servizio e di accompagnamento personale, testimonianze e 81 P. CARLO MERLO; FR. LINO CASAGRANDE; P. PIERPAOLO VALLI gredire a comportamenti reattivi del passato, come la tossicodipendenza o la delinquenza. Trovarsi “vivi” a quarant’anni significa per molti ospiti, oggi, sostenere la fatica di una riqualificazione professionale e l’impegno di un’attività lavorativa, magari poco gratificante e, almeno all’inizio, non molto remunerata. Significa imparare nuovamente a camminare passo dopo passo, superando la logica del “tutto e subito” a cui erano abituati ai tempi della droga o della strada, abbandonata solo a causa della progressione della malattia debilitante. Il territorio dunque, in questa nuova fase di vita della Casa-Alloggio, è tornato ad assumere un ruolo di primo piano nella costruzione dei progetti individuali. Per “territorio” intendiamo i luoghi di residenza, le famiglie, il bar dell’angolo, l’impresa di pulizie o la cooperativa sociale, l’ex moglie, il figlio ventenne che ti crede già morto e che, invece, desideri stringere ancora fra le braccia. All’équipe degli operatori ora sono richieste attitudini e compiti nuovi, come attivarsi per trovare un posto di lavoro, aiutare l’ospite a raggiungere la ditta, escogitare sistemi per rendere queste persone più autonome e in grado, passo dopo passo, di essere autosufficienti. Oggi la Casa-Alloggio si sta trasformando in luogo “dove ancora ci si fa curare” ma anche dove gli ospiti possono porsi sempre più come attori e protagonisti. Si sta andando oltre la mentalità assistenziale. Ora riconosciamo che l’assistenza non è più casa-centrica ed allora dobbiamo centralizzare l’esperienza sulle persone e sui loro bisogni allargando l’attenzione sugli esclusi di oggi. conferenze anche in collaborazione con l’Asl per sensibilizzare il territorio sulle tematiche legate al mondo dell’AIDS), la più significativa è stata l’itinerario di “formazione alla carità per giovani”. LA REALTÀ ATTUALE: LE NUOVE SFIDE DELLA MALATTIA E IL LAVORO NEL SOCIALE Dopo il 1996, con i primi effetti dell’introduzione della terapia antiretrovirale “tripla” (un cocktail di farmaci che per la prima volta ha dimostrato di avere effetti stabili sulla riproduzione del virus, e quindi ha modificato in modo sostanziale le prospettive e le speranze di vita dei malati di AIDS), la Comunità si è trovata a mutare progressivamente il proprio volto. La permanenza media degli ospiti in Comunità, che nel primo triennio si aggirava fra i sei e i dodici mesi, è andata progressivamente allungandosi e, con questo, anche la qualità della vita, le aspettative per il futuro e le prospettive effettive o fantasticate di riorganizzare la propria esistenza. Alcune persone, che nel 1996 erano state accolte in Comunità con prognosi disperate, oggi godono di buona salute, non senza che questo abbia determinato in loro diversi momenti di crisi: dall’emblematica “sindrome di Lazzaro” (cioè l’ansia di doversi inventare una vita quando ci si credeva ormai destinati a morire) ad una varietà di emozioni quali la ritrovata speranza, le delusioni, le incertezze e le difficoltà rappresentate dal passato. Molti ospiti, infatti, di fronte alla prospettiva di tornare ad organizzarsi la vita, sono stati presi dalla paura di vivere, che li ha fatti reAnno Ingressi 1993 18 7 1 1 1994 11 6 5 2 1 8 1995 28 9 14 1 1 16 1996 28 5 19 4 1 24 1997 15 3 9 4 1998 12 2 5 2 1999 14 10 1 2 2000 7 8 1 2001 6 3 1 1 2 2 2002 7 3 2 1 3 1 56 58 18 80 5 2003-04 20 TOTALE 166 82 Dimissioni Decessi in comunità Decessi Decessi Totale Inserimento Perdita in ospedale in abitazione decessi lavorativo del lavoro 2 13 1 8 3 2 1 4 2 2 La Comunità “Piccolo Gregge” LA COMUNITÀ IN COLLABORAZIONE CON I LAICI Da alcuni anni la Comunità sta lavorando in équipe nella gestione dell’attività. L’équipe si ritrova con cadenza settimanale, per ripensare l’intervento clinico ed educativo e condividere le strategie di intervento. È coordinata da uno psicologo clinico e comprende il gruppo degli operatori camilliani, l’infermiera professionale, il medico e l’educatrice. L’équipe ha il compito di stabilire le lineeguida della gestione del caso, in particolare: l’accoglienza, il raccordo con i Servizi territoriali e con l’ospedale, il coordinamento degli interventi e il coinvolgimento dei volontari nei progetti individualizzati, il monitoraggio periodico dell’andamento dei percorsi individuali, la formazione permanente, il raccordo con il CICA (Coordinamento Italiano Case-Alloggio) e le altre realtà che si occupano di AIDS e il coinvolgimento del territorio. L’attività prevalente è l’accoglienza e l’assistenza dei malati di AIDS, tesa a: – reinserimento sociale e/o in famiglia, – attività lavorativa interna di assemblaggio (occasionale), – inserimenti lavorativi per alcuni ospiti, – accompagnamento spirituale. Altre attività sono: – la sensibilizzazione del territorio ai problemi legati all’AIDS (testimonianze, tavole rotonde…), – l’accompagnamento e formazione dei volontari. I punti qualificanti della Casa-Alloggio “Piccolo Gregge” sono: – la risposta a un bisogno, – l’attenzione alla soggettività degli ospiti, – la condivisione: c’è un forte coinvolgimento della Comunità nell’opera, – la nostra testimonianza, personale e comunitaria, – il modello camilliano (con la presenza effettiva di religiosi padri e fratelli) di assistenza al malato (assistenza globale) e l’accompagnamento del morente, – il coinvolgimento e la formazione dei volontari, – la preghiera e la liturgia (proposte concrete e segni). I punti critici della Casa-Alloggio “Piccolo Gregge” sono: – aumento delle persone portatrici di un forte disagio psichico, di quelle contagiate attraverso rapporti sessuali, di quelle in età avanzata, spesso straniere e dal mondo del carcere. Le loro storie di vita molto diverse hanno aumentato la complessità del lavoro nella Casa-Alloggio. – necessita di una re-definizione dell’intervento, sempre meno sanitario e più impegnativo sul versante relazionale. L’operatore è chiamato ad impegnarsi su progetti che coinvolgono le famiglie, il territorio e che interrogano nuove professionalità e competenze. – La complessità dei ruoli all’interno dell’équipe aumenta la difficoltà ad integrare in modo costruttivo le differenze. – Il coinvolgimento del territorio e della cittadinanza è il cuore dell’esperienza della casa, ma costituisce anche uno sforzo continuo e un investimento di risorse umane. Il volontario, infatti, necessita di continua formazione e di una grande attenzione da parte dell’équipe, perché sia possibile garantire un livello stabile di motivazione di fronte ai continui cambiamenti e alle mutate esigenze Una fase della terapia occupazionale 83 P. CARLO MERLO; FR. LINO CASAGRANDE; P. PIERPAOLO VALLI dell’utenza. In particolare, c’è la necessità di riunioni periodiche di formazione ed informazione e di rinnovare frequentemente il numero dei volontari (il turn over è molto elevato), valorizzando le esperienze in atto e favorendo le inclinazioni personali, senza discapito del progetto individualizzato e delle esigenze prioritarie dell’ospite. – Un rischio da evitare è quello che la CasaAlloggio diventi Casa-Albergo. L’ospite, infatti, si impegna oggi emotivamente in modo molto differente rispetto al passato. Il rischio è che, per sottrarsi a questa relazione, sia l’ospite che l’operatore trovino una via di fuga nel vivere la Casa-Alloggio come un albergo. – Un ultimo punto riguarda l’estrema precarietà e i messaggi di continuo cambiamento che provengono non solo sul versante dell’utenza, ma anche dall’assetto organizzativo sanitario. In questi anni le disposizioni stanno mutando rapidamente, costringendo le Case ad adeguarsi in tempi a volte brevissimi a standard sia strutturali che organizzativi estremamente complessi. Questo comporta inevitabilmente un carico di lavoro e di stress che ricade sugli operatori (burn-out, turn-over) e indirettamente sui progetti individuali. Queste sono le frasi più significative che sono emerse a Castellanza nelle nostre riunioni in occasione della Giornata mondiale 2002 per la lotta contro l’AIDS sul tema: “Live and let live”. “Vogliamo una casa migliore, vogliamo una vita migliore, adesso qui, anche con l’AIDS!… Questo deriva da noi tutti insieme. Una vita migliore non dipende solo dai farmaci nuovi. Vogliamo puntare sul benessere nella nostra Casa; sul benessere delle persone, delle nostre relazioni, dei nostri legami. Non è un criterio buono il lasciar vivere ma il far vivere. Dobbiamo uscire dalle nostre rassegnazioni e cronicizzazioni e brillare per responsabilità e concretezza. Il “Piccolo Gregge” non è solo una struttura extraospedaliera che eroga un servizio, ma è soprattutto un luogo di cura che inserisce delle persone (poche) in una casa lottando anche contro l’emarginazione sociale. Verso l’esterno abbiamo da portare non solo delle problematicità, ma anche il bello delle nostre relazioni, dei nostri trascorsi di vita, delle nostre feste, dei nostri cammini di crescita, dei nostri percorsi lavorativi, il bello dei nostri ricordi…”. Volontari presso il centro “Piccolo Gregge” 84 Il “Centre de Santé St. Camille” Davougon (Benin) P. Bernard Moegle; P. Christian Stenou, Camilliano CRONISTORIA 1955: creazione del lebbrosario di Davougon, ad opera di religiosi. 1987: arrivo dei religiosi camilliani francesi. Abomey diventa la zona pilota nell’Africa Occidentale per la polichemioterapia. In 5 anni, 177 lebbrosi e disabili sono reinseriti nei loro villaggi e nella rispettiva famiglia. 1990: creazione del Centro di Promozione Femminile di Davougon, che accoglie 70 - 80 ragazze a regime residenziale, in cui sono prese in cura molte ragazze sofferenti di lebbra o disabili. 1992: apertura di un nuovo dispensario “St. Camille” a Davougon, che ogni mese assiste in media 2.300 malati, adulti e bambini. 1994: creazione della parrocchia “St. Joseph” a Davougon, che comprende 13 villaggi. Davougon. Veduta parziale del Centro Mentre la lebbra è progressivamente scomparsa dal Benin, il Centro “Saint Camille” accoglie ancora molti assistiti. Perché? Perché è diventato un Centro Sanitario Polivalente, aperto a tutti i tipi di lebbra, causa di nuove esclusioni. PERSONE ESCLUSE DAL NORMALE SISTEMA SANITARIO DEL BENIN Alle strane malattie ultimamente individuate (60 nel 2001), si sono aggiunti i malati affetti dalle ulcere di Buruli, patologia progressiva che provoca estese mutilazioni e necessita di costose cure, raschiamento e trapianti di pelle (30% degli ospedalizzati). P. Christian si è specializzato in questa malattia e in altre gravi forme di dermatosi, ustioni od osteiti drepanocitarie, patologie difficili e croniche, che per i malati spesso sono motivo di umiliazione e di rifiuto dagli altri. Anche i malati di AIDS, sempre più numerosi, si trovano in questa categoria di persone rovinate, disperate, spesso abbandonate. In questo settore i Camilliani hanno portato con sé i volontari, che assistono questi malati nell’ambito del Progetto Sedékon (“Lo Spirito veglia su di te”), di Caritas-Benin, messo in atto a partire dal 1996. Deciso a fare tutto il possibile a favore dei malati, P. Bernard dirige un’équipe molto motivata e i risultati sono incoraggianti. Così, alle prese con un ingente lavoro quotidiano, il Centro Sanitario “St. Camille” tenta di rispondere ai bisogni dei più poveri, di quelli che non hanno la possibilità di curarsi altrove. 85 P. BERNARD MOEGLE; P. CHRISTIAN STENOU IL PROGETTO SEDÉKON REGIONE D’ABOMEY (BENIN) Dati e descrizione del Progetto Titolo: Progetto Caritas di Consulenza e Controllo nel campo dell’AIDS. Finalità: Mantenere la dignità umana delle persone che vivono con HIV/AIDS e delle loro famiglie, mediante la creazione di un ambiente amorevole e di speranza, dove i malati possano ritrovare la capacità d’agire. Servizi – consulenza già dalla immediata fase della comunicazione dei risultati del test. Oltre ad un supporto psicologico, morale e spirituale, lungo l’intero periodo della evoluzione della malattia la persona è a carico del progetto; – cure mediche a costo molto ridotto, non solo per le visite ambulatoriali, ma anche per l’ospedalizzazione o per le visite domiciliari; – aiuto mensile in forma di viveri e materiale sanitario; – per alcuni, un aiuto economico per iniziare un’attività lucrativa. Situazione Fase pilota: da febbraio 1996 a febbraio 1998 (2 anni) - 493 beneficiari. Seconda fase: da marzo 1999 a marzo 2001 (3 anni) - 989 beneficiari. Da aprile 2002 a maggio 2005 (4 anni) - 1.528 beneficiari. Totale: 3.010 persone. Centri – “Dispensaire St. Camille” di Davougon – “Centre Hospitalier Départemental” di Zou e di Collines. Dati relativi a Davougon Nuovi casi individuati ogni mese: 30/40. Ospedalizzati ogni mese: 20/30. Beneficiari di viveri, ogni mese: 90/100. Consulenze mensili: circa 200. Utenti del Centro Diurno: 8. Fascia di età più colpita: 30/50 anni. Équipe L’équipe del Centro è costituita da: 1 Direttore regionale: P. Bernard Moegle - 1 amministratore aggiunto - 6 consiglieri, 3 dei quali a Davougon, 2 al C.H.D. ed 1 che fa da tramite. 86 P. Christian Caratteristiche delle attività nella nostra regione – Il Centro Diurno, dove vengono a lavorare tre volte la settimana persone con HIV. Sono i malati più seguiti e meglio orientati. – Creazione dell’associazione “Gnenokpo Senigla” (“Curiamoci insieme, Dio provvederà”). – Aiuto agli orfani. Dei 300 registrati, 230 sono regolarmente sotto controllo sanitario. – Distribuzione settimanale (venerdì) dei viveri; distribuzione dei viveri nelle riunioni dei gruppi (25 persone per volta). – Il primo venerdì d’ogni mese, viene celebrata la messa per i malati. – È da segnalare la partecipazione sempre più frequente delle parrocchie grazie ad un nostro opuscolo d’informazione che diffondiamo ogni anno (questue, viveri, abbigliamento). Impatto del progetto Grazie alla nostra accoglienza, i malati si sentono a loro agio e protetti. Vanno e vengono liberamente, senza timore, e noi abbiamo fiducia in loro. Molti degli assistiti accettano di portare i congiunti a fare il test e di partecipare alle riunioni ed alle feste. I malati più poveri vivono più a lungo, per la loro regolarità nelle visite. A loro è assicurato il rimborso spese del viaggio (se provenienti da lontano) e la razione di viveri. Gli ospedalizzati escono meno perché beneficiano di cure quasi gratuite, di un’alimentazione corretta (con un supplemento di miele, spirulina e zucchero), di materiale sanitario e usufruiscono di un attento ascolto dei loro problemi. Tutti questi vantaggi li aiutano ad accettare meglio la loro situazione e a ritrovare il piacere della vita. Il “Centre de Santé St. Camille” Attraverso le riunioni di IEC (la Giornata mondiale dell’AIDS, per esempio), e soprattutto mediante il counseling, realizzato con molta cura, contribuiamo in parte a limitare la trasmissione del virus. I test d’individuazione veloce (quelli a lungo tempo sono insufficienti) ci permettono di prenderci a carico un maggior numero di persone con HIV. L’ottima fama del nostro Centro ha raggiunto un tale livello che ci inviano i malati da tutto il sud del Benin. – – – Problemi irrisolti – I fondi assegnati sono ancora insufficienti per l’acquisto di alcuni farmaci specifici (zovirax®, fongizone®, ecc.), per il trasferimento dei malati, per il varo della cooperativa, per l’assistenza agli orfani più piccoli o che studiano, per i bambini i cui ge- – – nitori sono ancora vivi ma non in grado di provvedere alle loro necessità. La tri-terapia ancora non è accessibile ai malati della nostra regione. Spesso perdiamo di vista le persone sieropositive e asintomatiche. Abbiamo previsto, con la collaborazione della nuova équipe di consulenti, la realizzazione di un maggior numero di visite domiciliari. Si erogano crediti per attività di reddito. Tuttavia l’effetto spesso è negativo: per evitare di dover rimborsare i finanziamenti ricevuti, i malati spariscono e, quindi, non possiamo più seguirli. È ancora difficile, per i nostri malati, parlare in pubblico, a viso scoperto. Gli articoli fabbricati dai nostri malati spesso restano invenduti, per mancanza di sbocchi commerciali. Numero di posti letto del Centro: 32 Numero di malati AIDS accolti 1980-1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 31/05/2005 TOTALE 15 113 159 221 274 318 397 424 437 445 222 3025 Numero Uomini AIDS 138 146 161 187 159 181 94 Numero Donne AIDS Numero di Donne in gravidanza AIDS 123 147 187 196 238 218 108 Numero Bambini AIDS Numero malati Deceduti 0 0 0 10 17 26 30 41 44 23 191 +++ +++ +++ +++ 74 92 79 115 48 Env. 2000 Numero di malati sotto (ARV) Antiretrovirali 8 76 84 Zinvié. L’Ospedale “La Croix” 87 Esperienza personale con un malato di AIDS P. Bernard Moegle, Camilliano I numerosi incontri, circa 2.000, con persone infette dall’HIV, mi hanno permesso di vivere esperienze umane molto ricche. In particolare, ho acquisito la certezza che non esiste una situazione totalmente disperata. Anche nel peggiore dei casi, quando un malato è completamente abbattuto a livello fisico e morale, egli ancora può trovar energia sufficiente per rimettersi. Per riuscirci, però, è condizione indispensabile che noi lo facciamo sentire nostro fratello o amico. Racconterò un esempio che rappresenta una vera e propria rinascita. Una religiosa di Cotonou, di famiglia molto nota, mi chiese d’accogliere il suo giovane fratello sieropositivo a Davougon per guarirlo dalla tossicodipendenza. Mi raccontò che il ragazzo era già stato in carcere per furto e, col suo comportamento, quotidianamente faceva piangere la madre e che il padre, esasperato, un giorno l’aveva cacciato via da casa. All’arrivo il giovane si mostrava irrequieto. Avevo accettato di prenderlo sotto le mie cure con l’intenzione di modificare questo suo comportamento. I primi giorni sono stati di mutua osservazione. Raymond, infatti, non parlava. Accettava, invece, ciò che io gli offrissi da mangiare. Sua sorella mi aveva consegnato i soldi del ragazzo e io li custodivo. Raymond usciva, talvolta si allontanava destando i miei timori, ma non sono mai andato dietro di lui. Tentavo invece di interessarlo alla lettura di diversi libri, tra i quali la vita di San Camillo. Così andò avanti per qualche settimana. Egli era più anziano dei malati del Centro. Mi vedeva curare e confortare al meglio le persone, e così anche lui cominciò ad interessarsi all’accoglienza dei nuovi, a mostrar loro la casa, a offrire loro da bere e da mangiare e a spiegare loro ciò che dovevano sapere. Ho cominciato ad ammirare profondamente la sua dedizione ed umiltà – anche il personale stimava molto Raymond – e oltre ad incoraggiarlo a proseguire nella sua opera, ho voluto mettergli una croce rossa al collo. Il padre di Raymond, essendo a conoscenza di questo profondo cambiamento operato nel figlio, venne a trovarlo e a riconciliarsi con lui. Passò il tempo, un anno: l’AIDS s’era aggravato e il ragazzo fu sopraffatto da un’infezione di toxoplasmosi… Ma è deceduto nella propria casa, attorniato dai suoi cari. Non esiste un amore che sia veramente senza recupero. P. Valentin con alcuni ospiti 88 L’HIV/AIDS all’ospedale “La Croix” di Zinvié Come non essere attenti a questa calamità che costituisce l’AIDS? P. Raoul Ayiou; Dott. Amen Sintondji L’Ospedale “La Croix” dei religiosi camilliani di Zinvié è un ospedale generale con una capacità di 125 posti letti attualmente. È composto da: - un reparto di Pronto Soccorso; - un reparto di Medicina generale; - un reparto di Chirurgia generale con alcune specializzazioni; - un reparto di Pediatria; - servizi d’appoggio (laboratorio, radiologia, ecografia, farmacia…). Nel reparto di Medicina generale, registriamo sempre dei casi di persone affette da HIV e questo ci spinge a prestare loro una cura adeguata. Abbiamo allora costituito un comitato per farci carico delle problematiche inerenti l’HIV che ha come responsabile un medico con diverse competenze: - la capacità dei gestire le dinamiche psicosociali delle persone affette dal virus dell’HIV (PVVIH); - la prevenzione delle infezioni opportunistiche; - la diagnosi e la cura delle infezioni opportunistiche nell’infezione da HIV; - la prevenzione della trasmissione dell’HIV in generale e durante il lavoro; - (assistenza) in particolare; - il Counselling (pre-test e post-test) per l’infezione da HIV/ AIDS; - la cura con gli Antiretrovirali (ARV); - la prevenzione della trasmissione Madre-Figlio dell’HIV/AIDS. Dopo aver conseguito queste competenze, l’Ospedale “La Croix” ha eretto nel gennaio 2005 un’Unità (servizio) d’Ascolto e di Consiglio Individuale (UECIC) per malati di AIDS. Questo servizio ha lo scopo di: - migliorare attraverso l’ascolto e il consiglio, l’efficacia della prevenzione delle IST/HIV/AIDS; - correggere i disordini nutrizionali; - rendere sempre più responsabile l’assistenza sanitaria dei malati sopraccitati, attraverso l’ascolto efficace e il consiglio individuale. La parte “individuale” di questa unità riguarda il counselling (pre e post-test) e quindi aiuta a promuovere la realizzazione dei test di depistaggio volontario (VTC). Tale servizio riguarda, inoltre, anche l’accompagnamento psichico sociale delle PVVIH e contribuisce a prevenire le infezioni opportunistiche dalle PVVIH. La parte “comunitaria” invece ha per scopo l’informazione e la sensibilizzazione delle popolazioni al problema dell’infezione da HIV. La fase-prova di questo programma è stata effettuata il 7 gennaio 2005. Una seduta d’informazione e di sensibilizzazione si è svolta nella sala di accoglienza dei malati e familiari dell’Ospedale. In questa seduta si è trattato l’argomento “modalità di trasmissione dell’infezione HIV”. I partecipanti hanno lavorato sul seguente questionario: VALUTAZIONE DELLA FORMAZIONE COMUNITARIA SULLE MODALITÀ DI TRASMISSIONE E I MEZZI DI PREVENZIONE DELL’INFEZIONE HIV. 1. Conoscete tutto quello che è stato dibattuto a proposito delle modalità di trasmissione dell’infezione da HIV? 89 PADRE RAOUL AYIOU; DOTT. AMEN SINTONDJI 2. Trovate interessante quanto è stato detto a proposito della prevenzione dell’infezione HIV? 3. Come trovate questa seduta di sensibilizzazione? - Inutile? - Poco pertinente? - Pertinente? - Molto pertinente? 4. Questo tipo di sensibilizzazione migliora realmente le vostre modalità di prevenzione dall’infezione HIV? - Sì - No 5. Volete che tali sensibilizzazioni si ripetano? - Sì - No - Se sì, dove?………………………………, I risultati di questa indagine hanno rilevato che: - Il 93% dei partecipanti conosce in modo incompleto o non conosce affatto le modalità di trasmissione dell’infezione HIV. - Il 69% dei partecipanti ha trovato molto pertinente la seduta e il 27% ha trovato la seduta pertinente. - Il 100% (tutti) riconosce che la campagna di sensibilizzazione li dispone meglio ad attuare misure preventive contro l’infezione da HIV. Tutti hanno auspicato che tali sedute si ripetano. Oltre questa unità di formazione e di ascolto, abbiamo ottenuto anche un piccolo spazio nel programma di Radio Immacolata Concezione - una radio cattolica - dove mandiamo in onda trasmissioni di I.E.C (Informazione, Educazione, Comunicazione) per sensibilizzare e raggiungere il maggior numero di persone. Inoltre, ricoveriamo e curiamo in Ospedale nel reparto di Medicina generale molte persone che presentano affezioni di tipo opportunistico a seguito della loro sieropositività o dell’AIDS ormai conclamato. A proposito della cura con ARV, la politica adoperata dallo Stato del Benin non permette ancora alle strutture sanitarie private e confessionali di metterla in atto. 90 La gestione della cura con ARV pertanto, è un impegno del ministero della Sanità Pubblica che ha creato dei centri dipartimentali (CIREC) a questo scopo. I malati di AIDS che hanno raggiunto un livello di depressione immunitaria e necessitano pertanto di farmaci ARV, vengono dunque indirizzati al CIREC incaricato alla distribuzione gratuita di questi medicinali. Abbiamo comunque una piccola speranza di poter fare beneficiare i nostri malati di questa cura perché disponiamo del minimo necessario. Infine, all’ultima supervisione, il ministero della Sanità ci ha proposto di associare il nostro Ospedale ai CIREC. Per quanto riguarda la prevenzione della trasmissione Madre-Figlio dell’HIV (PTMF), l’Ospedale ha le competenze necessarie ma non dispone di un reparto di maternità, conditio sine qua non per applicare concretamente il protocollo relativo a questa prevenzione. Per questa ragione, nella nostra struttura non possiamo occuparci di tale tipo di prevenzione. In generale, come religiosi camilliani, ci facciamo carico personalmente e con sollecitudine dei nostri fratelli e sorelle portatori di HIV/AIDS e ci preoccupiamo maggiormente di rendere sempre più efficace la cura globale dei nostri malati. L’HIV/AIDS all’ospedale “La Croix” di Zinvié Statistiche sul numero di malati di Aids degenti presso l’Ospedale “La Croix” La statistica non tiene conto dei sieropositivi che sono stati individuati in occasione di donazione del sangue. I dati riportati riguardano soltato i casi ospedalizzati. Il forte calo nel 2004 si deve all’apertura del Centro di Triterapia a Cotonou. Zinvié. Ospedale “La Croix” 91 Il Centro di accoglienza “Notre Dame de Fatima” Ougadougou (Burkina Faso) Stai soffrendo? C’è un posto per te Fr. Vincenzo Luise, Camilliano PRESENTAZIONE Il Centro d’accoglienza “Notre Dame de Fatima”, ubicato in un’area non lottizzata della periferia ovest di Ouagadougou, Settore 30, è una struttura creata e gestita dai religiosi camilliani. Da aprile 2001, con il sostegno dei Camilliani della Provincia Romana e dei benefattori occasionali, ci prendiamo cura dei portatori di HIV e dei malati di AIDS. Vorremmo ringraziare in particolare le organizzazioni “Chrétiens pour le Sahel” e “Terre d’amitié” che ci hanno aiutato con l’invio d’utilissimi farmaci e di materiale sanitario. L’organizzazione “Chrétiens pour le Sahel” ha anche finanziato la costruzione di un secondo corpo del fabbricato. Esso, infatti, dalla fine di giugno 2003 ci ha permesso di accogliere 64 malati, invece dei precedenti 32. Nell’accogliere i malati non si fa distinzione di razza né di fede. Basta una sola condizione: la sofferenza. Il Centro dispone in tutto di 64 letti e comprende diversi corpi di fabbricati: – uno per i magazzini, sala termica, lavanderia; – uno per la cucina, sala TV, soggiorno ed ergoterapia; – uno per le cure e la sorveglianza; – quattro per l’ospedalizzazione, ognuno dei quali ha 4 stanze a 4 letti, con servizi per ogni camera. Un corpo del fabbricato è l’alloggio per gli accompagnatori perché, in Africa, nessun malato va da solo all’ospedale. Questo corpo comprende: 3 docce, 3 WC, 3 lavandini per il bucato e una cucina. 92 I malati usufruiscono di 3 pasti giornalieri al Centro. Le cure sono gratuite perché i malati che si rivolgono al Centro in generale sono molto poveri. Accanto al Centro, c’è un C.S.P.S. per i malati del quartiere e della città. Esso è servito da un religioso camilliano infermiere e da quattro aiuto-infermieri. Il personale del Centro è costituito da 3 infermieri professionali, religiosi camilliani, 1 aiuto fisioterapista, 4 aiuto-infermieri, 2 portantine, 2 cuoche, 1 custode notturno, 1 incaricato della lavanderia, 1 giardiniere e un medico che viene 3 volte la settimana ed ogniqualvolta la sua presenza sia necessaria. Tutto il personale, tranne gli infermieri, è burkinabé e salariato. Per la provvista dell’acqua abbiamo un pozzo che ne fornisce di buona qualità. Nel pozzo c’è una pompa ad immersione elettrica che spinge l’acqua verso un serbatoio. OBIETTIVI Il profilo del malato di AIDS è molto particolare: spesso il suo stato fisico e psicologico è disastroso. Le scarse risorse finanziarie ostacolano l’accesso alla cura della malattia. Gli mancano i legami familiari, le speranze e la voglia di vivere. Le medicine non hanno nessun effetto se il malato è scoraggiato e non si unisce a noi nella lotta contro il male. Ci sforziamo per far sì che i malati stessi partecipino al processo di guarigione. La prima tappa è di fare in maniera che il malato abbia fiducia in sé, facendogli vedere che noi crediamo nella sua vita, che c’interessiamo specialmente a lui/lei, così com’è, con le sue ferite e problemi d’ogni tipo, e che dedichiamo tempo a lui come lo faremmo per un Il Centro di accoglienza “Notre Dame de Fatima” te per la ripresa del malato. A tal effetto, noi abbiamo contrattato un aiuto-fisioterapista per alleviare il dolore e rieducare al movimento; – l’accompagnamento spirituale è fatto dal religioso fratello e dai sacerdoti presenti nel Centro. Anche i religiosi camilliani della comunità del Seminario maggiore ogni settimana vengono a visitare i malati del Centro, pregando per loro e con loro quando essi lo desiderano; – infine, prima d’andar via, il malato riceve informazione sufficiente affinché possa gestirsi bene. Gli consegniamo i medicinali necessari per continuare la cura e l’invitiamo a venire da noi se qualcosa non va bene. amico, un fratello. Ogni malato ha un nome, non è un numero né un caso clinico. Siamo convinti dell’importanza di dedicare un momento d’ogni giornata all’ascolto, consapevoli che tutte le persone sofferenti hanno bisogno di parlare. Vogliamo accogliere e rispettare la parola ed il silenzio d’ognuno, perché essi sono sempre rivelatori di qualcosa del soggetto che c’è davanti a noi, senza necessità di usare le parole. Il risultato terapeutico dipende in gran misura dalla qualità dell’accoglienza e dal rapporto tra chi cura e chi è curato. La seconda tappa è di prendere di mira alcuni aspetti che hanno bisogno di una particolare attenzione: – la re-idratazione e la lotta contro la diarrea, per evitare che i malati restino prostrati nel loro letto. Questo si fa mediante la somministrazione per via orale di sali per la reidratazione. Ogni malato è stimolato a bere almeno 2 o 3 litri di liquidi al giorno. Quando la disidratazione è molto imponente si usa la via endovenosa; – la ripresa e lo stimolo all’alimentazione. Le candidosi oro-faringee si trattano con l’ingestione di 30 gocce, 2 volte il giorno, di violetto di genziana e per le diarree ribelli noi proponiamo l’acqua di riso. Dopo 2 o 3 giorni, il malato si sente meglio e comincia ad alimentarsi secondo il suo gusto, prendendo un nuovo piacere per la vita; – i dolori d’ogni tipo che assillano il malato costituiscono un elemento molto importan- Si dedica particolare attenzione agli accompagnatori, fornendo loro un’adeguata informazione affinché possano prevenire il male e curare i loro malati quando torneranno a vivere tra loro. STATISTICHE (2002-2005) Il Centro d’Accoglienza “Notre Dame de Fatima”, nel Distretto 30 della città di Ouagadougou, è una struttura creata e gestita dai religiosi camilliani e funziona dall’aprile del 2001. Attualmente ha 64 posti letto per accogliere e curare i malati di AIDS in fase terminale. La presente relazione statistica analizza i primi anni d’attività del Centro. I nuovi malati accolti al Centro sono 418: 214 donne (il 51,2% del totale) e 204 uomini (il 48,8%). Dei 418 malati passati nel Centro, una buona percentuale è passata attraverso ripetuti ricoveri, ogniqualvolta ulteriori cure e assistenza medica erano necessarie. Alcuni di loro hanno avuto quattro o cinque ricoveri nel nostro Centro. Osservando il numero dei decessi registrati all’inizio dell’attività del Centro, si desume che il ricovero avveniva spesso nella fase terminale della malattia, quando in pratica non c’era niente da fare. Successivamente, abbiamo potuto osservare un aumento sia nella durata dell’ospedalizzazione sia nel numero delle frequenze per ogni malato; si nota un calo nei decessi avvenuti nel Centro. Questa osservazione ci porta 93 FR. VINCENZO LUISE ad ipotizzare – poiché il servizio del Centro d’accoglienza “Notre Dame de Fatima” è diventato noto e, nello stesso tempo, si è allargata l’attenzione al malato di AIDS come persona da curare ed accompagnare e da non lasciare a se stessa – che chi beneficia del servizio d’accoglienza non è più il malato gra- ve o all’ultimo stadio del male, ma in una fase meno avanzata della malattia. Sono, quindi, malati che con appropriate cure, controlli e una buona alimentazione, possono sperare ancora di vivere per un certo tempo. La seguente Tabella illustra la distribuzione dei decessi. Anno Numero malati AIDS accolti Numero uomini AIDS Numero donne AIDS Numero bambini AIDS 2001 191 94 97 00 2002 232 109 122 01 103 17 2003 276 97 179 00 108 00 2004 326 145 173 08 131 150 Maggio 2005 141 49 81 11 58 49 1.166 494 652 20 462 287 TOTALE 94 Numero malati deceduti 62 Numero malati sotto ARV 00 Il Centro di accoglienza “Notre Dame de Fatima” MARIA, L’AIDS E I SUOI GENITORI Veramente non avevo voglia di far sapere agli altri le gioie, direi la grazia, che Gesù e la Vergine Maria, la Mamma Celeste, mi donano ogni istante della mia povera vita. Tutto è grazia di Dio e per la Sua gloria! Dietro insistenza, e nella speranza faccia del bene a qualcuno, ecco alcune esperienze che ho avuto nell’assistere questi nostri Signori e Padroni: i malati, particolarmente quelli sofferenti di AIDS! Il Centro d’Acco- glienza Nostra Signora di Fatima è un miracolo voluto dalla nostra cara Mamma Celeste. Esso, infatti, è cresciuto e si è ingrandito con le offerte dei poveri perché Gesù è il Dio dei bisognosi e il mondo si salverà attraverso la sofferenza e la generosità dei poveri. Il povero salverà il ricco! Ecco, dunque, qualche notizia breve della mia esperienza nel servizio dato con amore, come diceva San Camillo, verso un ammalato. Certamente, non baratterei un minuto della vita con tanti anni se trascorsi senza la carità verso i malati. Nel mio lavoro, sono seguito da un gruppo abbastanza numeroso di giovani burkinabé: gli angeli della carità. Sono loro che mi aiutano nel servire i lebbrosi, le vecchiette e i sofferenti di AIDS e altri malati, nei vari centri e a domicilio. Questi ragazzi fanno anche da segugi, vale a dire, mi segnalano i malati abbandonati o in difficoltà in famiglia... Insieme andiamo a donare la carità di Cristo a questi poveretti. Un giorno una ragazza mi segnalò che, in un quartiere alla periferia della parrocchia San Camillo, viveva una donna abbandonata, forse malata di AIDS. Andammo e trovammo una giovane donna, direi una ragazza, che sembrava più anziana per la magrezza del corpo e dal volto sfigurato dal male. Era sdraiata per terra, su un pezzo di stoffa. Ci avvicinammo e io le parlai. Lei mi rispose come se già mi conoscesse. Le diedi un po’ di soldi e ad un tratto vidi avvicinarsi una ragazzina, la sua sorellina. Erano sole, dei genitori neanche l’ombra. Le dissi allora di prepararsi perché l’indomani sarei venuto a prenderla per portarla al nostro Centro. Lei accettò e noi andammo via. La ragazza che mi accompagnava mi disse: “Fratel Vincenzo, non la riconosce?... Risposi: “No” e lei aggiunse: “È Maria, che anni fa veniva con noi a curare i lebbrosi ed a visitare i malati”. Mi ricordai com’era, del suo volto. Povera Maria, com’è ridotta. Il giorno dopo andammo a prenderla e la portammo al Centro. Il suo volto era tirato, senza un sorriso e sempre silenziosa: la sofferenza era evidente. Pian piano, dopo diverse visite e resasi conto che rispettavamo il suo dolore, Maria iniziò a parlare, recitammo le preghiere insieme. Lei iniziò a sentire tanto affetto e rispetto attorno a sé e questo le fu di gran conforto, così come le nostre preghiere a Gesù e alla Mamma Celeste. Questo contribuì ad un miglioramento spirituale in Maria. Un giorno, Maria mi chiamò e disse: “Papà, prima odiavo tutti, anche i miei genitori. Vedi, non vengono mai a farmi visita. È colpa loro se sono malata, perché mi hanno abbandonato a me stessa e sono caduta molto ma molto in basso. Prima li odiavo... ora non più! Odiavo tutti, soprattutto quelli che stavano in buona salute, ne ho contagiato tanti con la mia malattia. Me ne pento. Voglio scrivere a tutti quei poveretti a cui ho fatto del male, un male mortale, chiedendo loro che mi perdonino, ed io perdono mio padre e mia madre. Vedi, papà, Gesù è stato messo ed è in croce per espiare i nostri peccati, è sacrificio d’espiazione, è Lui l’Offerta purissima di ringraziamento, perciò è l’olocausto che si offre al Padre al nostro posto. Io sto in croce con Lui, per purificarmi e per offrirmi a Dio come espiazione dei peccati miei e di tutti gli esseri umani. Per questo sono in croce con Gesù, sulla stessa croce...”. Le risposi che era vero quel che diceva, ma di non scrivere nessuna lettera e di lasciar 95 FR. VINCENZO LUISE tutto nel cuore d’amore di Gesù, all’amore di Gesù. Dio, infatti, è misericordioso ed è più madre che padre, ci avrebbe pensato Lui a far comprendere a tutti quale era la vera vita. Lei insistette, volle scrivere, poiché era studentessa, una lettera d’addio al cappellano degli studenti, e me la diede. La portai e la lessi durante la Messa della domenica a tutti gli studenti: era una lettera d’addio e allo stesso tempo di speranza in un domani migliore nel paradiso di Dio! Fin quando Maria ha avuto le forze sufficienti, è venuta tutte le mattine alla Messa della comunità, si è confessata più volte. Un giorno, i suoi genitori sono venuti al Centro e sono rimasti a lungo con la figliola, con grandi dimostrazioni d’affetto. Arrivò, però, il tempo della partenza verso la Casa del Padre e della Mamma Celeste. Maria lasciò questo mondo chiedendo perdono ai suoi genitori e, a loro volta, i genitori chiesero perdono alla propria figlia... Maria è morta abbracciata dal papà e dalla mamma. Credo che al Centro Nostra Signora di Fatima sia stata un’anticipazione del paradiso. Nel nostro Centro sono accaduti altri avvenimenti evangelici. Uno, per esempio, è il caso di una giovane moglie che voleva strozzare il marito, molto più anziano di lei, che l’aveva ingannata, trasmettendole l’AIDS. Il marito era a letto, sotto trasfusione di sangue, e la donna, lì accanto, mi diceva: “Vedi, papà, mi ha ingannata, era ammalato e mi ha sposato sapendo quello che aveva. Lui ora è lì e domani io sarò al suo posto. I miei figli, che faranno? Io l’odio, ora l’ammazzo, tanto in ogni caso deve morire...”. Il marito ascoltava... Sono trascorse diverse ore, lui era sempre sul suo letto e noi seduti sul letto accanto. Questa povera donna, abbandonando i suoi sentimenti di rabbia, ha perdonato il marito. Lui è morto qualche giorno dopo, abbracciato dalla moglie mentre reciprocamente si chiedevano perdono... Adesso lei è in cura e prende i farmaci antiretrovirali e reagisce bene, sta bene. I bambini sono stati adottati da amici italiani e frequentano diligentemente la scuola. Tutto ciò grazie a Dio. Centro di ricerca CERBA 96 Hogar San Camilo - Lima (Perú) P. Zeffirino Montin, Camilliano INTRODUZIONE Il Centro è stato inaugurato il 30 settembre del 1995 dal P. Generale P. Angelo Brusco. E stato voluto dalla comunità camilliana dopo che nel 1993 riuscì a recuperare il chiostro nord dell’antico convento di Lima. La comunità del convento ha proposto a tutta la delegazione l’idea di una casa famiglia per malati di AIDS, accettata da tutti. Nei primi mesi del ‘94 si realizzò il progetto, approvato dalla Provincia e a fine novembre dello stesso anno iniziarono i lavori di ricostruzione che in 9 mesi hanno ridato vita al patio riportandolo al suo antico splendore. Camminando si fa strada... Come in molte opere nostre, il desiderio di avere un luogo dove sia visibile il carisma camilliano e diventi “palestra di carità” per le vocazioni ci ha portato a disegnare la nuova opera come “hogar” (casa famiglia, focolare domestico). 15 letti ci sembravano pochi, anche perché nel Perú non esisteva nessuna casa per accogliere le persone sieropositive o in stato di AIDS e la malattia si stava estendendo rapidamente, ma volevamo mantenere lo standard consigliato per una casa famiglia, senza superare la capienza di 18 persone. Si è formato un primo gruppo di esperti, si è disegnato il piano operativo dell’Hogar, il regolamento, i documenti necessari per l’ingresso e le informazioni per l’accompagnamento. L’entusiasmo e le necessità ci hanno fatto superare le difficoltà iniziali, impedendoci di desistere. Superate queste difficoltà iniziali, al principio di marzo del 1996 entrò il primo malato nella sua nuova casa. Per l’occasione, tutti erano presenti come se dovesse venire il presidente del Perù. Poi venne una seconda persona, cacciato di casa dalla moglie, con una ferita sulla fronte, frutto di una bastonata. Incominciammo a capire che il rifiuto della gente o la paura del contagio non erano gli unici ingredienti che colpivano una persona sieropositiva, ma vi erano storie di violenze, di infedeltà, di bugie. Incominciavamo il nostro cammino alla scuola di vita di questa gente, e questa è stata la nostra università. Non ci è stato difficile imparare tutto quello che si sapeva sulla malattia, aiutati anche dallo spirito dei pionieri che sempre attrae le persone a voler sapere di più. Complicato è stato dare un volto umano a queste storie e, se si desiderava aiutarli veramente, togliere lo stigma della discriminazione legato alla infezione. Nei primi anni, venuti a conoscenza del risultato del test Elisa, un gran numero di persone si toglieva la vita. La discriminazione e l’emarginazione della gente, il vedersi condannati a vivere soli, spesso senza appropriata cura medica, la mancanza di medicine ed esami hanno portato molti a prendere la decisione del suicidio. Perciò, quando ai primi di giugno arrivò Alfredo dicendomi che il medico gli aveva pronosticato un mese di vita e che voleva morire in pace, si radicò ancora di più in me la convinzione della necessità dell’Hogar dove, chi ne avesse bisogno, poteva morire in pace, cioè “bene”. Ed Alfredo non solo imparò a morire bene, ma anche a vivere bene ed a lungo. Ci ha lasciati nel maggio del 2002 ed è bene che mi soffermi un po’ su di lui. Era solito dire: “Dite a tutti che anche noi siamo esseri umani, con un cuore ed una mente, anche noi amiamo, pensiamo, camminiamo, come fanno tutti gli altri”. Quante volte ho ascoltato da Alfredo questa frase, come un disco che girava continuamente nella sua mente. Quello che sorprendeva era che non ti stancavi di ascoltare questa frase perché ogni volta saliva dal suo cuore con diverse tonalità, era come se non l’a97 P. ZEFFIRINO MONTIN vessi mai ascoltata. Era venuto per vivere l’ultimo mese della sua vita ed è vissuto 6 anni. Sempre mi chiedevo: “Qual è il punto centrale, il motore che può far vivere una persona?”. Da bambino ha sperimentato solo sofferenza e violenza, non ha conosciuto il papà e la mamma era un po’ fredda con i figli; tutto quello che ha imparato per la vita lo ha appreso fuori casa. La strada, la lotta per sopravvivere gli ha insegnato piccoli espedienti che lo hanno portato per alcuni anni in carcere. Lì ha contratto il virus HIV. Non lo spaventava tanto il pensiero della sofferenza, ma della morte. Paure, timori, ma anche, come lui ripeteva: “Ho vissuto un momento importante nel carcere mentre a letto ardevo per la febbre. Una volontaria si è avvicinata e con un panno umido e fresco mi ha tolto il sudore dalla fronte, ho provato una sensazione di sollievo così grande che ho detto: ‘Grazie!’. Una parola che da anni era sparita dal mio vocabolario e per di più difficile da dire e da ascoltare in un centro penitenziario. Era la prima volta che sentivo di essere amato e rispettato. Ringrazio quel gesto, così semplice, ma nello stesso tempo così importante che mi ha fatto risorgere e fare qualcosa di meglio nella vita”. Credo che così fossero i miracoli di Gesù. Partivano sempre da gesti semplici e carichi di bontà, fonte da cui Gesù ci invita ad attingere nella parabola del Buon Samaritano: “Vai e fai anche tu lo stesso”. Alfredo ha insegnato molto a tutti; ha ricevuto un gesto di amore che gli ha cambiato la vita e lui lo ha moltiplicato centinaia e centinaia di volte per gli altri. Quando è arrivato al Hogar non pesava più di 38 kg, un ascesso inguinale ed uno allo sterno, che suppuravano e bisognava pulirli tutti i giorni, erano la sua preoccu- Lima. Hogar S. Camilo 98 Hogar San Camilo - Lima (Perú) pazione maggiore. Nell’Hogar ha vissuto per 6 anni; è stato l’ambasciatore più trasparente di come lottare per la vita, di come amarla per vivere di più anche in mancanza di medicine; è stato il maestro paziente e generoso, anche se a volte per scaricare l’impazienza se la prendeva con se stesso borbottando alcune parole. A tutti diceva: “Devi mangiare, lavarti bene tutti i giorni specialmente le mani, non devi stare in ozio o a letto, cerca di perdonarti ed accettarti, perdonare ai tuoi cari e chiedere perdono a Dio”. Era quello che aveva imparato entrando all’Hogar. Per lui era legge, legge da osservare perché era la legge del gruppo. Alfredo ha fatto capire l’importanza dell’Hogar dei Camilliani. Non tanto la casa in sé, quanto i gesti di amore, realizzati ogni giorno per queste persone. Questi gesti e questo amore erano il centro della vita che ha permesso ad Alfredo di vivere 6 anni in più del mese pronosticato dal medico. È stato un ambasciatore anche per la durata della vita; infatti, mentre la maggior parte morivano entro un anno o un anno e mezzo, la sua sopravvivenza ha fatto spargere la voce che nell’Hogar San Camilo si era trovato il sistema per vivere più a lungo. L’ingrediente di tale sopravvivenza non era altro che l’amore. Come Camilliani non stavamo scoprendo niente di nuovo, ma semplicemente vivendo il nostro carisma. Varie persone sono venute per imparare come prendersi cura dei malati di AIDS e, non ultimo, lo stesso Ministro della sanità ha inviato quattro professionisti nel campo della salute per imparare come fare la visita domiciliare. DICEMBRE 1996 - GENNAIO 1997: NASCE E SI REALIZZA UN SOGNO Eravamo in piena estate. L’occasione si presentò visitando una ONG. Avevo letto che i figli di madri sieropositive non potevano prendere il latte della mamma perché con la vita avrebbero ricevuto anche la morte. La disposizione dei medici era assoluta e senza vie di scampo: “Non possono prendere il latte della mamma”. Immediatamente dissi alla signora Betty, la direttrice della ONG: “Quel latte è assolutamente necessario ad un gruppo di bambini per poter vivere, nessuno li sta aiutando e muoiono nel primo o secondo anno di vita”. Il suo viso, che al principio manifestava angustia e preoccupazione, improvvisamente si illuminò con un sorriso e dalle sue labbra uscirono queste parole: “Quando incominciamo?”. “Subito!”, risposi. Ero così felice che mi dimenticai di andare a parlare ad un gruppo di giovani. Involontariamente, ma grazie a questa necessità così urgente, l’Hogar San Camilo incominciava un’altra sfida: dar vita ai bambini nati da madri sieropositive. Fummo i primi in tutto il Perù, ma sapevamo solo che non si doveva dare il latte ai bambini; iniziammo perciò ad informarci. In poco tempo, raccolta la necessaria documentazione, sapevamo cosa fare e gli ospedali incominciarono ad inviarci i bambini. I primi tempi ci sedevamo con le mamme in un angolo del giardino e, tra una raccomandazione e la condivisione di una esperienza personale, si incominciò a mettere assieme un programma nato e voluto dallo stesso gruppo. Si creò uno spazio per le esperienze personali, uno per informarsi sulla malattia e sui suoi problemi. L’idea di lasciare un ricordo ai bambini suggerì di fare un album: “I miei primi passi”. All’inizio non è stato molto facile: da poco le mamme sapevano della loro sieropositività e si sentivano di aver dato vita e morte allo stesso tempo ai loro bambini. La familiarità e l’amicizia che si respirava nell’Hogar si rivelarono un appoggio importante per superare questo dolore, ricreando la speranza e la voglia di vivere. Si incominciarono i progetti, come se tutto dovesse iniziare di nuovo: mangiare, bere acqua, dormire, camminare, tenersi in movimento, sognare erano tutte cose nuove che le mamme stavano scoprendo, come se stessero anch’esse muovendo i loro primi passi nella vita. Tutti i mercoledì pomeriggio, a partire dal gennaio del 1997, sono stati dedicati alle mamme ed ai loro bambini. Dai vari centri materno-infantili incominciarono ad inviarci i bambini. All’inizio erano solo 5, poi 10, 20... In maggio erano 35, in luglio 45 ed a fine anno 67. Se da una parte eravamo contenti di poter aiutare questi bambini, dall’altra ci dava molta tristezza questo aumento così rapido; ma erano le previsioni del ministero che più ci preoccupavano, prima di tutto perché si parlava di alcune centinaia di mamme sieropositive e secondo perché sapevamo che quelle che venivano da noi erano solo una piccola parte. Dal 1997 al 99 P. ZEFFIRINO MONTIN 2005 sono passati più di 1.400 bambini e sono certo che più di 450 stanno giocando tranquillamente, sorridendo alla vita come tutti gli altri. Attualmente stiamo sviluppando moltissimo la relazione madre-bambino perché l’amore mutuo sia la forza della vita per ambedue; e non solo il mercoledì, ma anche il martedì è il giorno dedicato a loro per poter aiutare tutti i 150 bambini. Sono tre turni: martedì pomeriggio i più grandi (da un anno e mezzo a due e mezzo); mercoledì mattina i più piccoli (neonati fino ai 7 mesi); mercoledì pomeriggio quelli tra i 7 mesi fino all’anno e mezzo. Quando vengono le mamme diamo loro colazione o pranzo, un’ora di attività terapeutica condotta da due psicologhe, un’ora di condivisione di esperienze. Contemporaneamente sono disponibili un medico, l’infermiera, lo psicologo, l’assistente sociale, un avvocato ed alcuni volontari, sieropositivi e non. Non manca l’appoggio spirituale del sacerdote, sia con il dialogo personale che con la celebrazione della Messa. Se la prima fonte di trasmissione del virus è per via sessuale (96%), non dobbiamo togliere importanza alla trasmissione verticale che occupa il secondo posto con il 3%. Quello che preoccupa di più è che la maggior parte delle donne infettate sono adolescenti o giovanissime, perciò in età fertile: tutto ci indica che questo tasso aumenterà e porterà molte altre conseguenze come l’aumento di orfani, di famiglie distrutte ed incapaci di essere luoghi di educazione, di sviluppo e di crescita per il bambino. È questo il motto che abbiamo coniato per una campagna affinché il bambino nasca sano. In tutte le riunioni, nelle scuole, in gruppi parrocchiali e giovanili invitiamo tutte le donne che aspettano un bambino a farsi gli esami del sangue, includendo il test Elisa e l’ecografia. Se l’esame è positivo le invitiamo a mettere in pratica tutte quelle raccomandazioni necessarie per evitare la trasmissione dell’infezione del virus HIV al bambino. Siamo certi che con questa campagna possiamo fare abbassare l’indice attuale del 25% al 6 o 7 %. gruppo di bambini sieropositivi per alcune settimane. Ha sempre dato buoni risultati, iniettando nuove energie, salute, allegria e tanta voglia di vivere e vivere felici. Quest’anno il giovedì santo, oltre ad essere il giorno del ricordo dell’istituzione dell’Eucaristia, per 30 bambini sieropositivi ha rappresentato anche l’inizio di un nuovo aiuto: disporre di una migliore alimentazione. Attualmente solo 33 bambini in tutto il Perù ricevono gli antiretrovirali, la maggior parte perciò non solo non ha a disposizione il cocktail, ma non ha neppure da mangiare due o tre giorni la settimana. Non posso dimenticare la visita fatta con la dott.ssa Alessandra Viganò, dell’ospedale Sacco di Milano, all’ospedale del Niño di Lima nel marzo 2002. Visitando i bambini sieropositivi abbiamo conosciuto Juan, bambino di 8 anni che pesava non più di 13 kg e con le braccia e le gambe non più grosse del mio pollice. La dottoressa, mettendosi le mani nei capelli, esclamò: “Sono anni che non vedo una scena del genere. In Italia è dal ‘96 che non mi muore un bambino. Nascere e vivere in un paese povero... questa è la differenza. Se aveste le medicine la cosa sarebbe differente”. Quello che più dava tristezza era lo sguardo di Juan: un mese e mezzo prima era l’allegria di tutto il padiglione, faceva giocare tutti gli altri bambini, saltava e cantava. Improvvisamente non si era più mosso dal proprio letto, ed era, come spiegava la dottoressa Lemka, un mese che non sorrideva più e 20 giorni che non parlava più con nessuno. Quanti pensieri in quel momento passarono per la mia mente. Una volta ancora si stava confermando che “nascere e vivere in un paese povero è tutt’altra cosa che nascere e vivere in un paese ricco”. Per mancanza di medicine, che dal ‘96 non fanno più morire bambini in Italia e che permettono loro una vita normale fino all’ultimo momento, in Perù un bambino da un mese non sorride più e da 20 giorni non parla più. Con questo nuovo progetto vogliamo aiutare i bambini sieropositivi a poter vivere una vita migliore incominciando dal cibo e, perché no?, assicurando un giorno anche il famoso cocktail. “Vita felice” Una parola sulla “donna, e mamma” È il programma che da alcuni anni realizziamo durante l’estate portando al mare un In Perù sono in aumento le donne che si infettano con il virus HIV. Nel 1990 il rapporto “Che nasca un bambino sano”. 100 Hogar San Camilo - Lima (Perú) era di una donna ogni 14 uomini: attualmente il rapporto è di uno a due. I dati sono chiari e ci dicono che la maggior parte delle persone che si infettano sono donne giovani, spesso adolescenti, all’inizio di una vita che tanto hanno sognato da bambine: essere un giorno mamme. Nei barrios della periferia di Lima, città di 8 milioni di abitanti, vive la maggior parte delle persone infettate. Anche la nostra città non sfugge al denominatore comune mondiale che la povertà Nella ricerca dell’identità, vivendo sentimenti prima sconosciuti, molte ragazze incontrano l’infezione del virus HIV che le porta nel mondo delle persone isolate e rigettate dalla società. Molte mamme che vengono per il latte sono giovanissime e alla loro prima maternità, ormai prive della gioia di essere mamma e di darsi completamente alla crescita del loro bambino. Sono loro le maestre migliori per i loro figli: insegnano loro a lavarsi, a mangiare, a camminare, a vestirsi, Staff dell’Hogar S. Camilo è una delle cause principali della diffusione dell’AIDS. La mancanza di lavoro, di cibo, di servizi, di acqua, luce e fognature, la mancanza di aule scolastiche attrezzate e confortevoli, la presenza di una famiglia disunita ed una politica incapace di risolvere i grandi problemi sociali, fanno sì che i giovani si sentano insoddisfatti e lasciati soli, specialmente nel dare risposte ai valori fondamentali come il senso della vita e la sessualità. Entrano nell’adolescenza, dopo una infanzia piena di carenze, pensando di incontrare la libertà, ma si incontrano con uno dei grandi problemi della vita: la propria sessualità. a dormire, parlare, pregare... È per questo che nell’Hogar il programma Camilos Vida cerca di aiutare molto la mamma perché possa vivere di più e bene per poter insegnare ed accompagnare a lungo il proprio figlio. Speriamo che presto possano arrivare anche per tutte queste mamme gli anti retrovirali che garantirebbero una vita più lunga e migliore. Al Ministro della sanità abbiamo chiesto, a nome di tutte queste mamme, che possano accedere al mondo dell’educazione e della salute con migliori condizioni per poter insegnare meglio ai loro figli le basi della vita. 101 P. ZEFFIRINO MONTIN VISITA DOMICILIARE Da quattro anni funzionava l’Hogar e ogni tanto ci chiedevano di visitare qualche malato a domicilio. Questo ci ha permesso di valutare meglio tutto quello che si diceva dei malati: “Molti non escono di casa per paura di essere segnalati a dito, molti non vogliono andare all’ospedale perché sono trattati male, dopo la diagnosi scompaiono per un periodo e varie famiglie ci chiamavano perché non sapevano cosa fare quando si chiudevano nella stanza e non aprivano a nessuno”. I primi tempi furono molto difficili specialmente per le famiglie, perché diversi si suicidavano o si chiudevano nella loro stanza e non aprivano a nessuno, mettendo in difficoltà i familiari che non capivano il motivo di questo comportamento. Queste necessità ed altre ancora hanno fatto crescere il desiderio di dare inizio al programma della visita domiciliare. L’impulso maggiore è venuto dall’Anno Santo. Era un segno tangibile perché anche i malati di AIDS potessero profittare di questo dono del Signore. Mi sembrò che la forma migliore per celebrarlo fosse di visitarli, toglierli dall’isolamento, infondere in loro speranza e, come san Camillo, dare quelle cure di cui avevano bisogno. Nel ‘99 iniziarono le visite domiciliari con maggior frequenza e questo ha permesso di presentare il progetto alla ONG spagnola Anesvad, che immediatamente ha dato il suo consenso. Un vecchio pulmino, regalato dalla ex moglie del Presidente del Perù, ci ha permesso di arrivare nei posti più impensati. Il rifiuto e l’isolamento che vivevano questi malati ci ha messi varie volte in difficoltà specialmente nei barrios (quartieri) poveri, dove non esiste il numero civico e, per di più, si doveva essere discreti per rispettare la privacy. Un medico, un’infermiera, un’assistente sociale ed uno psicologo sono i componenti del gruppo che ogni giorno parte dall’Hogar per visitare 8 o 10 malati. La costanza di ciascuno e la voglia di fare le cose bene ci hanno permesso di mettere le basi di un protocollo, di redigere le cartelle necessarie per la storia clinica, sociale, psicologica ed infermieristica. Le varie competenze avrebbero dovuto assicurare l’attenzione globale ai diversi problemi dei malati incontrati. Non avevamo niente da insegnare, anzi tutto da imparare; e questo è quello che ci ha 102 permesso di crescere. Nel marzo del 2000 un gruppo di italiani venne a visitare il Perù; tra loro nacque l’idea di dotare l’Hogar di un’ambulanza, cosa che si concretizzò nel mese di settembre. Questo ci ha permesso di aumentare il numero delle visite domiciliari. Dal settembre 2000 a maggio 2003 il programma “Visita domiciliare” è stato sovvenzionato da Anesvad. Nel febbraio 2002 inoltrai una richiesta di aiuto al Ministero della sanità chiedendo la loro collaborazione attraverso l’invio di personale qualificato. Attualmente, la visita domiciliare è portata avanti da due gruppi di professionisti, il primo pagato da Anesvad ed il secondo dal Ministero. Oltre ai due medici, alle due infermiere, ai due psicologi, all’ostetrica ed all’assistente sociale, fanno parte del gruppo anche una suora, cinque persone sieropositive e due autisti. Nel Ministero si cominciò a parlare sempre più del modello della visita domiciliare, ritenendola una buona soluzione ai problemi dei sieropositivi. Fino al punto che il Ministro della sanità ha voluto firmare con noi una convenzione. Tale convenzione, firmata nel dicembre del 2002, faceva della “Visita domiciliare” uno dei modi per prendersi cura delle persone sieropositive. Era un riconoscimento importante, dopo tanti sforzi e difficoltà, che annullava la fatica, le delusioni, le frustrazioni che il lavoro a domicilio portava con sé. Questo importante risultato riconosceva che tutto quello che avevamo fatto con semplicità e costanza, con amore e umanità, era una vera forma di attenzione verso il malato. Ci rendemmo conto che la “scuola della carità” è molto più importante della tecnica e che il nostro carisma camilliano ha molto da dire nella nostra società. Il momento della firma della convenzione lo aspettavamo ansiosamente, in nome di tutti quei malati soli o abbandonati, senza fissa dimora, stesi su cartoni o vicino al pollaio, disidratati e senza cibo, agonizzanti nella più penosa solitudine. La firma l’ho messa con tanta voglia e penso che non ero io che firmavo, ma mille e mille mani che avevano cercato un giorno una mano amica che li potesse aiutare. Successivamente sono state fatte riunioni per definire come lo Stato avrebbe potuto realizzare la visita domiciliare, e questo è un passo in avanti nella realizzazione della convenzione. Un “programmone”... Hogar San Camilo - Lima (Perú) Forse nei paesi dove si è abituati ad avere il medico in casa, la visita domiciliare è considerata la cosa più normale della vita, ma nel Perù, dove uno per essere curato deve necessariamente andare nel centro di salute o all’ospedale, è un avvenimento importante. Le uniche volte che si vede un ufficiale sanitario bussare alla porta di casa è solo per comunicare qualcosa di urgente. Perciò la scelta dell’Hogar di seguire i malati nella loro casa è stata una scelta importante. Essa non mirava solo a stare vicino a persone che morivano in solitudine, ma dimostrava l’attenzione olistica verso il malato, tenendo in conto tutte le sue esigenze. L’integralità dell’approccio si è potuta realizzare attraverso la capacità di ascolto del gruppo di visita domiciliare e attraverso il recupero delle energie della persona e del gruppo familiare. Visitare uno nella sua casa è fargli capire che la sua salute non dipende solo dalla terapia, ma dalle energie sananti che uno ha dentro di sé e dalla solidarietà di chi gli sta vicino. In poche parole stiamo aiutando la persona ad essere soggetto attivo e centrale della propria salute. Necessariamente, per fare una mappa del tipo dei nostri interventi, abbiamo suddiviso i malati in tre gruppi: – area critica, con interventi per i malati terminali; – area della precarietà, con interventi a sostegno di situazioni invalidanti; – area della potenzialità, con interventi per il rilancio della persona. La visita domiciliare permette di avviare un insieme di attività che promuovono la persona, di migliorare la qualità di vita e di elaborare strategie per accettare il vissuto della sieropositività, promuovendo la solidarietà nella famiglia. Che lo Stato abbia voluto far proprio il modello assistenziale della visita domiciliare significa promuovere una collaborazione tra vari enti, integrare le responsabilità e le risorse per migliorare l’efficacia degli interventi, garantendo una continuità terapeutica. Veramente è un programmone! Non mancano difficoltà e problemi. Tre volte hanno tentato di assalirci, quattro volte hanno rubato i vetri del pulmino, due volte un faro ed altri pezzi. Poi ci sono momenti imbarazzanti come quella volta nella quale due dei nostri, avvicinandosi ad una porta per iniziare una visita, sono stati scambiati per ladri dalla gente del posto. Tuttavia i casi umani di sofferenza che incontriamo ci permettono di passare sopra i problemi e le difficoltà. Maria la incontrammo in una casupola di canne intrecciate, dopo aver lasciato le ultime case del barrio e aver camminato per venti minuti nella sabbia. La casa era insopportabilmente calda per il sole cocente e Maria stava seduta su una cassetta sgangherata con in braccio un bambino di un mese. Accanto a lei, l’altro figlio di sei anni. Entrando notammo il suo imbarazzo per non poterci offrire una sedia e per non avere un bicchiere d’acqua da offrire. Cosa poteva offrire se le uniche cose che aveva erano una scodella, due piatti di alluminio mezzi accartocciati, due cucchiai di plastica ed un biberon? Il marito di Maria, da poco uscito dal carcere, aveva appena portato via l’unica coperta, piena di buchi, per venderla e potersi drogare. Tra le lacrime ci raccontò tutto questo e ci confidò che da due giorni non mangiavano e non avevano nemmeno un centesimo per comperare neanche una caramella. Con molto dolore il giorno prima aveva dovuto dare il proprio latte al bambino, pur consapevole della proibizione di farlo a causa del virus HIV. In quel momento, mentre tutti ci sentivamo un po’ in colpa per non essere andati prima, udimmo una voce che ci ha lasciati senza parole e forse ci ha fatto sentire maggiormente tutta la forza ed il valore del messaggio. Carlitos, il figlio maggiore, con la semplicità ed il candore di un bambino disse: “Mamma perché piangi! Non vedi che ancora siamo vivi?”. Giosuè, bambino sieropositivo di 11 anni, due anni fa ha assistito la mamma nei suoi ultimi mesi di vita. Faceva tutto: ordinava la casa, lavava ed anche cucinava. Nelle ultime settimane la mamma entrò in una grande depressione e non voleva mangiare; Giosuè, seduto accanto a lei sul letto, con il piatto ed il cucchiaio in mano le diceva: “Mamma, ti ricordi che tre mesi fa quando ero all’ospedale tu mi dicevi di mangiare perché tu eri mia mamma? Ebbene, adesso mangia perché io sono tuo figlio”. La mamma è morta poco dopo e Giosuè è uno dei mille e mille orfani dell’AIDS. Lucho aveva già detto alla mamma di preparargli la cassa da morto e di comperare il 103 P. ZEFFIRINO MONTIN loculo al cimitero, ma grazie a Dio non ne ha ancora avuto bisogno. Quando l’infermiera lo visitò a casa sua, trovò che aveva una piaga fetida e molto estesa, dalle spalle fino ai polpacci. Senza questa visita Lucho forse sarebbe morto da anni. Ma la sua storia per me è iniziata nel Natale del 2000 quando nell’Hogar, mentre sistemavo i microfoni che erano serviti per celebrare il Natale per i bambini del programma “Camilos Vida”, si avvicinò un giovane che senza altre parole disse: “Grazie”. Pensavo che mi ringraziasse per la festa e per i regali dati ai bambini; ma lui insistette: “Grazie, Padre! Se non fosse stato per la visita domiciliare che state facendo forse sarei già morto, ma da due giorni ho incominciato a lavorare di nuovo come meccanico”. Era la prima volta che mi sentivo ringraziare nell’Hogar da uno della visita domiciliare; generalmente succedeva nelle loro case. Grazie a Lucho anche noi della visita domiciliare abbiamo ricevuto una iniezione di energia nuova, confermando quanto andavo ripetendo ai collaboratori della visita domiciliare: “Dobbiamo imparare alla scuola dei malati, loro ci insegnano come aiutarli”. Dalla prima visita abbiamo percorso più di 350.000 km e visitato migliaia di malati. Molti sono ritornati alla vita normale ed altri li abbiamo accompagnati fino all’ultimo momento per vivere pienamente ogni istante della vita. E la storia continua per dire a molti altri: “Vai e fa’ anche tu lo stesso”. Statistica Numero di malati AIDS accolti 1980-1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 31/05/2005 TOTALE 104 3 82 217 327 453 590 621 680 724 950 1030 5611 Numero Uomini AIDS 3 28 81 130 182 210 214 221 177 250 327 1823 Numero Donne AIDS Numero di Donne in gravidanza AIDS 32 102 143 210 242 257 290 327 362 407 2372 8 15 32 36 74 78 81 90 157 130 701 Numero Bambini AIDS 22 34 54 61 138 150 169 220 338 296 1416 Numero malati Deceduti 8 53 95 117 137 200 225 148 131 49 1163 Numero di malati sotto (ARV) Antiretrovirali 54 156 210