Gennaio-Febbraio - Anno 8 - n. 1-2 - 2005 La biopsia prostatica Carlo Trombetta Un nuovo supporto all’impiego delle statine nel paziente diabetico non ipercolesterolemico: lo studio CARDS Arrigo F.G. Cicero Luca Laghi PRIMO PIANO Scompenso cardiaco: quali novità in tema di diagnosi, terapia e patologie associate? Spedizione in abbonamento postale - 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96 - Filiale di Milano Pietro Cazzola TESI Prevalenza e determinanti clinico-laboratoristici della sindrome metabolica in un campione di soggetti in età geriatrica Alessandra Miconi Ada Dormi Roberto Brillante Arrigo F.G. Cicero Antonio Gaddi INFORMAZIONI SCIENTIFICHE News on Skin Repair La cicatrizzazione delle ferite cutanee e le sue complicanze Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 1 La biopsia prostatica Scripta MEDICA Direttore Responsabile Pietro Cazzola Direzione Marketing Armando Mazzù Sviluppo e Nuove Tecnologie Antonio Di Maio Carlo Trombetta pag. Un nuovo supporto all’impiego delle statine nel paziente diabetico non ipercolesterolemico: lo studio CARDS Arrigo F.G. Cicero, Luca Laghi pag. 3 12 Registrazione Tribunale di Milano n.383 del 28/05/1998 Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa n.10.000 Redazione e Amministrazione Scripta Manent s.n.c. Via Bassini, 41 - 20133 Milano Tel. 0270608091 - 0270608060 Fax 0270606917 E-mail: [email protected] Consulenza Amministrativa Cristina Brambilla PRIMO PIANO Scompenso cardiaco: quali novità in tema di diagnosi, terapia e patologie associate? pag. 19 Alessandra Miconi, Ada Dormi, Roberto Brillante Arrigo F.G. Cicero, Antonio Gaddi pag. 32 INFORMAZIONI SCIENTIFICHE News on Skin Repair La cicatrizzazione delle ferite cutanee e le sue complicanze pag. 37 Pietro Cazzola Consulenza grafica Piero Merlini Impaginazione Felice Campo Stampa Parole Nuove s.r.l. Brugherio (MI) È vietata la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, di articoli, illustrazioni e fotografie pubblicati su Scripta MEDICA senza autorizzazione scritta dell’Editore. L’Editore non risponde dell’opinione espressa dagli Autori degli articoli. TESI Prevalenza e determinanti clinico-laboratoristici della sindrome metabolica in un campione di soggetti in età geriatrica Edizioni Scripta Manent pubblica inoltre: ARCHIVIO ITALIANO DI UROLOGIA E ANDROLOGIA RIVISTA ITALIANA DI MEDICINA DELL’ADOLESCENZA INFORMED, CADUCEUM, IATROS, EUREKA Diffusione gratuita. Ai sensi della legge 675/96 è possibile in qualsiasi momento opporsi all’invio della rivista comunicando per iscritto la propria decisione a: Edizioni Scripta Manent s.n.c. Via Bassini, 41 - 20133 Milano Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 3 La biopsia prostatica Carlo Trombetta La biopsia prostatica consiste nel prelievo di campioni di tessuto prostatico allo scopo di ottenere un preparato istologico. I frustoli prostatici dovrebbero essere di una certa lunghezza (circa 7 mm) e contenere il versante capsulare prostatico. L’ ago utilizzato deve avere dimensioni tali da rendere disponibile un adeguato frustolo di tessuto. La biopsia prostatica ecoguidata viene detta anche TRUSB (Trans-Rectal Ultrasond Biopsy) ed è la procedura più utilizzata oggi. Può essere eseguita sia per via transrettale sia per via transperineale. Quando eseguire la biopsia La diffusione del dosaggio del PSA sierico in soggetti asintomatici ha portato ad un significativo incremento del numero di biopsie prostatiche eseguite annualmente. La standardizzazione delle metodiche ecoguidata ha progressivamente ridotto la morbidità dell’indagine e contribuito ad una sua diffusione sempre più ampia. Le linee guida dell’American Urological Association (AUA) indicano le diverse opzioni terapeutiche ma non suggeriscono alcuna raccomandazione sull’approccio diagnostico ed in particolare sull’indicazione alla biopsia prostatica (1). Le linee guida dell’Associazione Europea di Urologia (EAU) analizzano in dettaglio il ruolo di: esplorazione rettale, PSA e suoi derivati, ecografia transrettale, Clinica Urologica, Università degli studi di Trieste e le loro correlazioni con la presenza di un carcinoma, ma non definiscono quali siano le indicazioni alla biopsia (2). Un’indicazione è desumibile dalla pubblicazione del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) che nel 1996 in una opuscolo sulle “Basi scientifiche per la definizione di linee guida in ambito clinico” identifica candidabili alla biopsia i soggetti che: hanno un’esplorazione rettale sospetta; un PSA basale superiore a 10 ng/ml; un PSA basale tra 4 e 10 ng/ml ed una PSA density > 0,12; un PSA basale > 4 ng/ml e una ecografia transrettale e/o un esplorazione rettale sospetta. Nel 1998 l’Associazione degli Urologi Ospedalieri (AUrO) propose delle linee guida in cui si indicava che “la biopsia prostatica andrà eseguita nei casi di sospetta eteroplasia prostatica, quindi nell’evenienza di un reperto rettale sospetto o di elevazione del PSA sierico e quando si desideri ottenere una diagnosi antomopatologica”. Si introduceva inoltre l’utilità dell’utilizzo della PSA ratio per valori di PSA totale tra 4 e 10 ng/ml. La 2nd Consultation on Prostate Cancer dell’Union International Contre le Cancer (UICC) tenutasi a Parigi nel 1999 suggerì il reperto rettale e il PSA totale come indicazioni alla biopsia specificando il tipo (sestante). Dalla letteratura contemporanea si deduce che: lo scopo della biopsia è quello di identificare quanto più precocemente possibile i pazienti con carcinoma prostatico per consentire un trattamento quanto più curativo possibile con la minore morbidità. Le biopsie devono essere effettuate in presenza di un forte sospetto di carcinoma prostati- Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 4 co e quando è desiderabile un trattamento. Questo significa che le biopsie non devono essere necessariamente effettuate in pazienti con modesta attesa di vita (Tabella 1). • Presenza di un PSA non elevato in rapporto all’età • Riscontro di PSA “stabile” nel tempo • Storia clinica di prostatiti Condizioni “particolari” 1. Familiarità: non esistono dati scientifici che consiglino un diverso approccio diagnostico nei soggetti con storia familiare di carcinoma prostatico e reperto rettale e PSA nei limiti. L’ atteggiamento prevalente è quello di una maggiore aggressività diagnostica qualora vi siano uno o più criteri di sospetto. 2. Pazienti in trattamento con finasteride: il suggerimento è quello di correggere per un fattore x2 i valori di PSA totale osservato (p. es: se il PSA osservato in paziente trattato con finasteride è 3 ng/ml esso equivale a un PSA reale di 6 ng/ml). Le vie di accesso La via transrettale, di gran lunga la più diffusa, viene generalmente eseguita con il paziente in decubito laterale sinistro. L’ago da biopsia viene fatto avanzare, utilizzando scansioni longitudinali, o in canali operatori presenti all’interno della sonda, o, più comunemente, attraverso una guida coassiale, comodamente montata a cavallo della sonda stessa, che permette di mantenere un canale di accesso sterile fino in prossimità della parete rettale (3). Le guide per l’ago bioptico possono essere monouso oppure sterilizzabili e riutilizzabili (4). I prelievi vengono eseguiti per ciascun lobo sul piano parasagittale, a livello di apice, linea mediana, base, ed eventualmente zona di transizione, approssimativamente con un angolo di 45° (5). Si tratta di una tecnica generalmente ben tollerata dai pazienti, di rapida esecuzione, che non richiede anestesia, ma che comporta un certo rischio di contaminazione batterica, per cui è indicata profilassi antibiotica, da iniziare la sera precedente o 3-4 ore prima e da continuare per 48-72 ore a seconda del- Tabella 1. I fattori che riducono il sospetto di tumore della prostata. • Prostata di elevato volume (alla palpazione o all’ecografia) • Assenza di noduli palpabili sospetti all’esplorazione rettale l’antibiotico impiegato. È in genere anche consigliabile l’esecuzione di un clisma di pulizia del retto 3-4 ore prima e la disinfezione della regione perianale e del retto con pomata antisettica (Figura 1) (6). La via transperineale si esegue con il paziente in posizione litotomica, sotto guida ecografica transrettale (7). Nei pazienti in cui la pervietà rettale sia stata esclusa da un precedente intervento chirurgico (p. es.: sottoposti a pregressa resezione addominoperineale del retto) o sia impraticabile come conseguenza di patologia coloproctologiche (stenosi anale serrata, emorroidi, ragadi, malattie infiammatorie intestinali in fase attiva) la procedura può essere condotta mediante un approccio ecografico transperineale, utilizzando un trasduttore di tipo settoriale, di solito ad alta frequenza, con resa ecografica Figura 1. Scripta MEDICA La biopsia prostatica 5 comunque nettamente inferiore rispetto alla via transrettale (8, 9). Una volta avvenuta la tricotomia e la disinfezione della regione perineale ed eseguita l’anestesia locale, viene inserito l’ago anteriormente al margine anale, attraverso il centro tendineo del perineo, sfruttando la presenza di una zona scarsamente vascolarizzata ed innervata e giungendo alla porzione posteriore dell’apice prostatico (10). L’ ago da biopsia penetra nella regione periferica della prostata a livello dell’apice ed attraversa la ghiandola verso la base, seguendo una traiettoria parallela alla parete rettale, su un piano perpendicolare rispetto a quello della biopsia transrettale (11). Nel tentativo di aumentare il numero di prelievi bioptici, coerentemente con le tecniche allargate in studio per la via transrettale, è stata anche proposto, in pazienti selezionati ad alto rischio, l’impiego dei “template” utilizzati per il posizionamento dei semi radioattivi in brachiterapia, con la possibilità di eseguire fino a 20 prelievi (12). La biopsia prostatica transperineale è sicuramente una metodica più “pulita” tuttavia, è condizionata da tempi più lunghi di esecuzione e dalla necessità di eseguire una aneTabella 2. Le complicanze della biopsia prostatica. Minori Dolore Ematuria (di durata inferiore ai 3 giorni) Emospermia Modesta rettorragia Lievi crisi vagali durante l’esame Modeste uretrorragie Ematoma perineale Disturbi dell’eiaculazione stesia locale. E’ stata riportata in Letteratura il rischio di sviluppo di tumore nel perineo da insemenzamento durante la retrazione dell’ago (13). Gli studi randomizzati che si sono proposti di confrontare le due tecniche (valutando i risultati, la tollerabilità dei pazienti, gli effetti collaterali e le complicanze) sono pochi. Grahyack riporta percentuali di falsi negativi variabili tra il 6 e 23% per la via transrettale e tra il 7 e il 27% per quella transperineale. André in uno studio di simulazione su 40 prostate di pazienti sottoposti a prostatectomia radicale per via retropubica, ha confrontato la sensibilità delle due metodiche, suddividendo la popolazione in esame in tre gruppi in base al volume, presenza di alto grado e stadio del tumore, ottenendo i seguenti risultati : nel gruppo A (volume tumorale < a 0,5 cm3 , assenza di alto grado e stadio pT2 ) si è riscontrato una sensibilità del 54,5% per la via transperineale e del 45,5% per la via transrettale; nel gruppo B (qualsiasi volume tumorale, alto grado in meno del 50 % del tumore, stadio pT2 oppure volume tumorale inferiore ad 1 cm3, alto grado ≥ 50%, stadio pT2, oppure qualsiasi volume, assenza di alto Maggiori grado, stadio pT3) la sensibilità è risultata del 95,8% nell’apIperpiressia proccio transperineale e del Sepsi 69,2% in quella transrettale; Ematuria (di durata superiore nel gruppo C (volume ≥ 1 a 3 giorni o con tamponamencm3, alto grado > 50% , stadio to vescicale ed anemizzazione pT2, oppure qualsiasi volume, acuta, necessità di trasfusioni qualsiasi % di alto grado, staed accidenti cardiovascolari dio pT3ab o pT4) la sensibilità conseguenti l’anemizzazione) è stata dell’80% per la via transperineale e del 100 % per Ritenzione urinaria acuta quella transrettale. Rettorragie massive Infezioni prostatiche Le complicanze L’incidenza di complicanze è discreta per le complicanze minori (17-40%) che non richiedono nessun trattamento (Tabella 2), mentre è estremamente Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 6 bassa per quelle maggiori, con percentuali di ospedalizzazione intorno all’1% (14-16). Modalità di prelievo I prelievi bioptici vengono eseguito con ago del calibro da 18 gauge, di tipo automatico. I frustoli di tessuto così ottenuti consentono di allestire un preparato istologico (Figura 2). La lunghezza dell’alloggiamento dell’ago in cui viene raccolto il frammento bioptico è variabile (in relazione alla marca): per ottenere una buona biopsia è consigliabile l’utilizzo di un ago con una cripta di almeno 15 mm (Figura 3). Dopo il prelievo occorre controllare la qualità del frammento rilasciato dall’ago, in caso di prelievo insufficiente ripetere il prelievo nella stessa sede. Ogni singolo frammento bioptico dovrebbe essere raccolto in un specifico contenitore, identificato con lettera o numero corrispondente alla sede di prelievo. La colorazione delle estremità dei vari frammenti può renderli riconoscibili; tali procedure devono essere uniformi e condivise tra clinico e patologo per evitare errori di interpretazione. La tecnica ottimale di conservazione dei frammenti bioptici dovrebbe avere i seguenti requisiti: mantenere il frammento su un piano orizzontale evitando il suo spontaneo incurvamento a forma di spirale infatti l’incurvamento del frustolo riduce la superficie di tessuto analizzabile, che passa per un piano orizzontale; mantenere uniti i frammenti più piccoli o spezzoni di tessuto, che possono perdersi se liberi nella provetta contenente formalina. Diversi studi clinici hanno dimostrato che il frammento bioptico può essere conservato in maniera efficiente in cassettine per tessuti, schiacciato tra due spugne imbevute di solu- zione fisiologica, secondo la tecnica sandwich o di pre-inclusione. Questa tecnica risulta più efficiente nel conservare la biopsia rispetto all’uso di frammenti fluttuanti e liberi in provette di formalina. Uno studio randomizzato e controllato ha dimostrato che questa tecnica aumenta del 7,2% la diagnosi di carcinoma e in maniera statisticamente significativa la quantità complessiva di tessuto sano e tumorale analizzato. La marcatura con inchiostro di china di una estremità del frammento bioptico, allo scopo di rendere orientabile un’estremità, è una procedura opzionale. È opinione di esperti che l’orientamento della biopsia possa essere utile: nel distinguere la sede del tumore (ad esempio nei casi in cui solo l’estremità interna della biopsia contiene tumore, ovvero l’estremità corrispondente alla zona di transizione, questo può aiutare nell’identificare un tumore della zona di transizione); Figura 2. Figura 3. Scripta MEDICA La biopsia prostatica 7 nella ripetizione di biopsia (correggere la profondità di inserimento dell’ago nella ghiandola); nella pianificazione di trattamenti conservativi o mini-invasivi (crioablazione, HIFU, brachiterapia, radioterapia esterne a modulazione di intensità). Compilazione della scheda anatomo-patologica ed invio al laboratorio La scheda che accompagna i prelievi bioptici, oltre a chiara indicazione dei dati anagrafici del paziente deve contenere informazioni relative alle seguenti voci a. Terapie mediche, chirurgiche o fisiche pregresse o in corso, eseguite per iperplasia benigna o carcinoma prostatico: finasteride; alfalitici; blocco androgenico; antiandrogeni; pregressa chirurgia, radioterapia, brachiterapia, crioterapia, trattamento con HIFU. b. Terapie pregresse o in corso per il carcinoma vescicale (chirurgia, BCG, ecc) c. Dovrebbe sempre essere riferita la notizia relativa ad altre neoplasie maligne sincrone o pregresse oltre al carcinoma uroteliale; con particolare riguardo alle neoplasie ematologiche, al carcinoma del colon, del rene e al melanoma maligno: anche se rare, localizzazioni prostatiche di queste neoplasie sono state descritte in letteratuTabella 3. Tecniche di immunoistochimica. ra e direttamente osservate dagli autori e la relativa diagnosi, specie su campioni da ago-biopsia e in assenza del dato anamnestico, può presentarsi di notevole difficoltà anche per il patologo più esperto. d. Rilievi clinici reperti ecografici e/o noduli palpabili; valori PSA; precedenti esami istologici; nome del medico interessato al caso (Tabella 3). La refertazione delle biopsie prostatiche I referti istologici di biopsia possono riportare 5 possibili diagnosi (17): 1) Tessuto prostatico benigno (rilevando l’eventuale presenza di infiammazione acuta o infiammazione cronica) 2) Neoplasia Prostatica Intraepiteliale di alto grado (HGPIN):la presenza di Neoplasia Prostatica Intra-epiteliale (PIN) di alto grado isolata (in assenza di concomitante neoplasia invasiva) non necessita di un trattamento aggressivo. È opportuno indicare la presenza di PIN di alto grado in ogni biopsia, anche in concomitanza di carcinoma in quanto questa lesione ha un significato predittivo per la presenza di foci di carcinoma concomitante in altre sedi della prostata. Dopo diagnosi di HGPIN è necessario ripetere la biopsia. La ripetizione della biopsia dovrebbe avvenire a medio termine (entro 6 mesi). Valutano: • Lo strato basale (p63 o 34betaE12 ovvero pool di citocheratine1/2, 5, 10, 14/15 della classificazione di Moll); (citocheratine AE3 sono sconsigliate perché comprendono anche cheratine di basso peso molecolare tipiche di cellule luminali) . • la natura prostatica della neoplasia (PSA preferibilmente monoclonale, PSAP) • la conferma di malignità in casi p63 negativi ancora dubbi: acetil-CoA-racemasi • eventuali forme a più o meno estesa differenziazione neuroendocrina: cromogranina-A Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 8 In questi pazienti è comunque consigliato un follow-up a lungo termine. 3) Proliferazione microcinare atipica (ASAP) ASAP è un acronimo utilizzato per identificare un microfocolaio di proliferazione acinare atipica in cui non è possibile specificare l’esatta natura di benignità o malignità. Tale reperto non è da considerarsi tumore e non è meritevole di terapia piuttosto i pazienti devono sottoporsi ad un follow-up bioptico indipendentemente dai valori di PSA. Il riscontro di tumore nelle biopsie di follow-up varia ampiamente dal 23 all’80% circa. Il rischio di biopsia positiva rimane alto nelle successive re-biopsie (40-50%). Alcuni Autori ipotizzano che in questi casi la biopsia sia stata eseguita secondo un piano tangenziale al focolaio tumorale, risultando in una minima rappresentazione di ghiandole atipiche. La ripetizione della biopsia nella stessa sede e nelle zone limitrofe può identificare un focolaio tumorale con percentuali diverse in letteratura. La sede del focolaio di ASAP nella biopsia in rapporto al margine inchiostrato, se presente, può essere un’informazione utile al clinico. Dalla revisione della letteratura si evince che è necessario ripetere la biopsia dopo diagnosi di ASAP. La ripetizione della biopsia dovrebbe avvenire a breve termine (entro 3 mesi) 4) Carcinoma: tipo, punteggio di Gleason, quantificazione del tumore nella biopsia (percentuale di ciascun frammento occupato dal tumore e mm di ciascun frammento). 5) Altro (neoplasia epiteliale diversa dall’adenocarcinoma prostatico ovvero neoplasia non epiteliale). Numero e sede dei prelievi L’ esecuzione di 6 biopsie prostatiche (biopsia a sestanti o “standard sextant biopsies” - SSB) secondo lo schema proposto da Hodge e successivamente modificato da Stamey è stata a lungo considerata dalla maggior parte degli urologi lo standard per la diagnosi di neoplasia prostatica (Tabella 4). • Gleason score • Numero di prelievi positivi • Percentuale di tessuto neoplastico presente nei vari prelievi • PSA La necessità di eseguire plurimi prelievi deriva dalla multifocalità della neoplasia prostatica che spesso non è evidenziabile dalla esplorazione rettale e dalla ecografia. Un maggior numero di prelievi: aumenta la probabilità di individuare la neoplasia, aumenta l’affidabilità della valutazione anatomo-patologica in caso di positività. Il candidato ideale alla biopsia a sestanti è il paziente con elevazione del PSA e un reperto rettale ed ecografico negativi (stadio T1c). All’estremo opposto vi sono i soggetti con reperto rettale francamente suggestivo di neoplasia, nei quali potrebbe essere sufficiente eseguire uno o due prelievi nell’area sospetta. Tra queste due situazioni estreme vi sono ovviamente le situazioni intermedie. In generale viene eseguita la biopsia a sestanti con uno schema variabile da caso a caso e da operatore ad operatore quando il PSA è elevato e in assenza di lesioni ecograficamente visibili, mentre, in presenza di una area sospetta alla ecografia o di nodulo apprezzabile alla palpazione, viene eseguita una biopsia mirata associata a un mappaggio prostatico. Mappaggio prostatico: numero e sede dei prelievi Da alcuni anni molti urologi hanno cominciato a chiedersi se le “standard sextant biopsies” (SSB) proposta da Hodge nel 1989 siano ancora sufficienti per individuare la neoplasia prostatica in prima istanza. Si è, quindi, assistito nel tempo ad un incremento dei centri dove vengono eseguiti più di 6 prelievi. Da una recente indagine eseguita in Florida Tabella 4. Informazioni prognostiche sullo stadio della malattia. Scripta MEDICA La biopsia prostatica 9 risulta che nel 63% degli 88 centri urologici presi in considerazione vengono eseguiti 8 o più prelievi in occasione della seduta di biopsia prostatica. Il problema si pone considerando che con le biopsie a sestanti la percentuale di positività alla prima biopsia è all’incirca del 20-30% e molti pazienti negativi ad una prima serie di biopsie devono poi essere sottoposti alla ripetizione di una seconda, talora una terza serie di biopsie, con il riscontro di neoplasia nel 20-40% dei casi. Che le SSB possano essere insufficienti per individuare una neoplasia prostatica emerge da alcune osservazioni su biopsie eseguite sul campione operatorio di prostatectomie radicali. Tali studi dimostrano che l’esecuzione di 6 prelievi bioptici su prostate sicuramente neoplastiche non permette di individuare la neoplasia in circa un terzo dei casi. Epstein riporta uno studio su 241 prostatectomie radicali eseguite per neoplasia prostatica diagnosticate a seguito del rilievo esclusivo di una elevazione del PSA in assenza di anomalie ecografiche o del reperto rettale (stadio T1c). Sul pezzo operatorio vengono eseguite biopsie a sestanti con il riscontro di neoplasia soltanto nel 67% dei casi. Figura 4. Schema di mappaggio prostatico che prevede 13 prelievi. Fink, confrontando vari schemi di biopsie sul pezzo operatorio di 91 pazienti, riporta per le SSB una percentuale di positività soltanto del 60%. Anche simulazioni al computer di schemi di biopsie su ricostruzioni tridimensionali della mappa neoplastica su campioni di prostatectomie radicali dimostrano che le SSB individuano la neoplasia soltanto nel 63-73% dei casi. Oltre al limite delle SSB nell’individuare la neoplasia, deve essere sottolineato che il 90% delle neoplasie non diagnosticate erano clinicamente significative e confinate e che quindi sarebbero sfuggiti alla diagnosi proprio quei pazienti che avrebbero avuto maggior necessità di un trattamento radicale. Queste considerazioni sembrano suggerire la necessità di eseguire in prima battuta più di 6 prelievi. Nel 1997 Nava ha dimostrato in uno studio prospettico randomizzato su 120 pazienti con PSA < 10 ng/ml e con ecografia e esplorazione rettale negativa che, incrementando il numero dei prelievi da 6 a 12 a 18, aumenta il potere diagnostico delle biopsie da 16% a 17% a 32% ed ha pertanto concluso che è consigliabile eseguire 12 prelievi nelle prostate più piccole (< 50 g) e 18 prelievi nelle prostate più voluminose (> 50 g) (18). Eskew nel 1997 propone le “Five region prostate biopsies”. Questa tecnica prevede l’esecuzione di 13 biopsie (18 se la ghiandola ha un volume superiore a 50 cc) comprensive delle zone laterali della prostata (Figura 4). In 48 dei 119 pazienti sottoposti a biopsia veniva individuato un carcinoma prostatico (40%). Il dato più significativo che emerge da questo studio è che 17 di questi 48 pazienti (35%) avevano una neoplasia nelle aree non comprese dalle SSB, con prevalenza delle sedi laterali. Biopsie mirate Uno degli argomenti controversi e dibattuti nella diagnostica del carcinoma prostatico è se è necessario eseguire delle biopsie sulle aree ipoecogene o semplicemente eseguire un maggior numero di prelievi random (19). Senza dubbio l’area ipoecogena rappresenta la zona della prostata dove è più probabile Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 10 trovare un tumore (potere predittivo positivo del 30-50%). Molti Autori eseguono tuttavia le biopsie senza tenere in considerazione la presenza o meno delle zone ipoecogene perché ritengono che la sensibilità e la specificità della ecografia prostatica transrettale sia troppo bassa e che i reperti ecografici siano irrilevanti sul piano bioptico. Attualmente vi sono diverse evidenze scientifiche a favore delle biopsie prostatiche mirate associate alle biopsie a sestanti dato che la probabilità di diagnosticare un tumore è più alta nei casi con lesioni ecograficamente visibili rispetto a quelli con ecografia negativa (Figura 5). Rietburgen ha dimostrato in uno studio di 1546 pazienti che la biopsia mirata incrementa il potere diagnostico del 5%. Fleshner è giunto alla stesse conclusioni dimostrando che il tumore era presente nel 17% dei casi con lesioni ecograficamente visibili. Presti ha tuttavia dimostrato che incrementando il numero dei prelievi random fino a 10, si incrementa il potere diagnostico delle biopsie eliminando quasi la necessità delle biopsie mirate. Il tumore prostatico è infatti spesso plurifocale e uno schema bioptico aggressivo potrebbe essere in grado di diagnosticare un tumore anche in zone diverse da quella sospetta. Non vi è, comunque, nessuna prova in letteratura che un protocollo bioptico con un alto numero di prelievi possa eliminare la necessità di eseguire dei prelievi mirati sulle aree ecograficamente visibili. Conclusioni La biopsia prostatica è una procedura routinaria che deve essere eseguita con l’ausilio dell’ecografo. In presenza di un PSA elevato (superiore ai 4 ng/ml) è necessario eseguire un mapping prostatico che sia in grado non solo di individuare la presenza di neoplasia, ma anche di dare un contributo informativo prognostico in caso di positività. Numerosi studi dimostrano che è consigliabile l’esecuzione, in prima istanza, di 10-12 prelievi perché si migliora l’affidabilità diagnostica della biopsia rispetto allo schema classico con sei prelievi proposto da Hodge. Tali studi suggeriscono di spostare l’attenzione sulle regioni laterali e anteriori della ghiandola. Nella pianificazione del numero di biopsie dovrebbe essere tenuto presente il volume della ghiandola anche se il vantaggio di incrementare ulteriormente il numero dei prelievi in caso di prostate voluminose non è stato ancora definito. In caso di ecografia positiva è consigliabile Figura 5. Biopsia prostatica transrettale ecoguidata. A destra la freccia indica l’apice dell’ago bioptico. Scripta MEDICA La biopsia prostatica 11 eseguire delle biopsie a sestanti oltre a quelle mirate sulle aree ipoecogene al di fuori del mappaggio prostatico per poter ottimizzare il potere diagnostico delle biopsie con il minor numero possibile di prelievi. L’esecuzione di 10-12 prelievi, per altro ben tollerata e non gravata da alte percentuali di complicanze, non sembra correlata con una maggior incidenza di diagnosi di carcinoma clinicamente non significativo. Bibliografia 1. http:// www.auanet.org 2. http:// www.uroweb.org 3. Ritchie AWS, Layfield LJ, Dekernion JB. 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J Urol 2002; 167:566 Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 12 Un nuovo supporto all’impiego delle statine nel paziente diabetico non ipercolesterolemico: lo studio CARDS Arrigo F.G. Cicero, Luca Laghi Introduzione È ormai ben noto che la principale causa di morte dei pazienti affetti da diabete nei Paesi industrializzati sono le malattie cardiovascolari, con un rischio di eventi cardiovascolari che è circa il doppio di quello riscontrato in soggetto coetanei non diabetici a parità di altri fattori di rischio (1). Questo data ha fatto sancire alle più recenti linee guida statunitensi l’equivalenza di rischio cardiovascolare fra soggetti affetti da diabete mellito e soggetti già colpiti da un evento cardiovascolare (2). Sebbene questa affermazione non sia perfettamente estendibile alle popolazioni mediterranee, in cui il diabete sembra essere leggermente meno aggressivo dal punto di vista delle complicanze vascolari, è comunque indicativa di quanto il rischio associato a questa patologia sia comunque estremamente elevato. I farmaci ipolipemizzanti hanno dimostrato la loro efficacia nei pazienti diabetici non solo sulla normalizzazione dei parametri laboratoristici correlati alla dislipidemia diabetica (elevata trigliceridemia, ridotta colesterolemia HDL), ma anche sulla riduzione degli eventi cardiovascolari. Dati recenti vorrebbero dimostrare una non efficacia del trattamento ipocolesterolemizzante nel ridurre l’ispessimento medio-intimale carotideo e femorale nei pazienti diabetici (3): la modalità di conduzione di questi studi sono tuttavia molto opinabili e Centro per lo Studio dell’Aterosclerosi e delle Malattie dismetaboliche “GC Descovich”, Dipartimento di Medicina Clinica e Biotecnologia applicata “D. Campanacci”, Alma Mater Studiorum Università di Bologna già aspramente contestate (4). I risultati dei principali trials clinici condotti con farmaci ipolipemizzanti e relativi ai sottogruppi di pazienti diabetici sono riassunti in Tabella 1. Fra i grandi trials non è stato citato il WOSCOPS perché aveva incluso un numero troppo basso di pianeti diabetici (N. = 72) per poter fornire risultati rilevanti. Tuttavia è da notare come questo sia stato l’unico studio ad aver dimostrato una rilevante azione preventiva del farmaco ipocolesterolemizzante (in questo caso la pravastatina 40 mg) sull’incidenza del diabete stesso (riduzione del rischio relativo = 30%) (5). Tuttavia è sempre complesso estrapolare risultati per sotto-gruppi di pazienti da studi non pianificati per valutare gli outcomes sugli stessi; in particolare, non è semplice estrapolare ai pazienti diabetici i risultati di uno studio elaborato primitivamente per valutare un effetto su pazienti ad aumentato rischio cardiovascolare che poteva eventualmente comprendere anche dei diabetici. Ad esempio, nello studio ASCOT, pianificato per valutare l’effetto protettivo dell’atorvastatina in pazienti ad alto rischio cardiovascolare, nei diabetici la statina sembrerebbe avere un’azione pressoché nulla sul rischio assoluto di eventi cardiovascolari e comunque poco rilevante sul rischio relativo (6). Sui numerosi problemi metodologici correlati al disegno dello studio ci siamo peraltro già soffermati in passato su questa stessa rivista (7). Oggi i risultati dello studio CARDS cancellano tutti i dubbi lasciati dall’ASCOT in merito all’efficacia della atorvastatina nella prevenzione degli eventi cardiovascolari nel paziente diabetico. Scripta MEDICA Impiego delle statine nel paziente diabetico non ipercolesterolemico: lo studio CARDS 13 Tabella 1. Efficacia di diversi trattamenti ipolipemizzanti nei pazienti diabetici: i risultati dei grandi trials. Studio Farmaco Numero pazienti diabetici Variazione assoluta Variazione relativa Significa-tività (p) Gemfibrozil Lovastatina 135 155 -7.1% -3.7% -55% -43% 0-19 ns - 4S Simvastatina 202 -22.5% -55% 0.002 - CARE Pravastatina 586 -8% -25% 0.05 - LIPID Pravastatina 782 -4% -19% ns - PROSPER Pravastatina 623 +4.7% +27% ns - ALLHAT Pravastatina 3638 -9% -18% ns - LIPS Fluvastatina 202 -16.1% -47% 0.041 - HPS Simvastatina 5963 -4.9% -25% <0.0001 - ASCOT Atorvastatina 2532 -0.6% -16% 0.425 - VAHIT Gemfibrozil 627 -8% -24% 0.052 - DAIS Fenofibrato 418 -5.3% -22% ns Prevenzione primaria - Helsinki Heart - AFCAPS/TexCAPS Alto rischio/ Prevenzione secondaria AFCAPS/TexCAPS, Air Force/Texas Coronary Atherosclerosis Prevention Study; ALLHAT, Antihypertensive and Lipid-Lowering Treatment to Prevent Heart Attack Trial; ASCOT, Anglo-Scandinavian Cardiac Outcomes Trial; CARE, Cholesterol and Recurrent Events Trial; DAIS, Diabetic Atherosclerosis Intervention Study; HPS, Heart Protection Study; LIPID, Long Term Intervention with Pravastatin Ischemic Disease; LIPS, Lescol Intervention Prevention Study; PROSPER, PROspective Study of Pravastatin in the Elderly at Risk; 4S, Scandinavian Simvastatin Survival Study; VA-HIT, Veterans Affairs HDL-Cholesterol Intervention Trial; WOSCOPS, West of Scotland Coronary Prevention Study; ns, not significant. I risultati dello studio CARDS Il Collaborative Atorvastatin Diabetes Study (CARDS) si aggiunge all’ormai lungo elenco di grandi trials che forniscono informazioni positive sull’impiego delle statine per la gestione del rischio cardiovascolare ed in particolare ai numerosi studi condotti con atorvastatina (MIRACLE, ASCOT, PROVE-IT). Ciò che contraddistingue il CARDS è la selezione dei 2838 pazienti che all’inizio dello studio dovevano essere tutti diabetici normocolesterolemici in prevenzione primaria (8). Quindi questo studio è stato pianificato per osservare un effetto clinico a lungo termine specificamente sui pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2, minimizzando l’eventuale effetto positivo osservabile in soggetti con una comorbidità rilevante in termini di ipercolesterolemia (non bisogna infatti dimenticare che atorvastatina è comunque una delle statine a maggior efficacia ipocolesterolemizzante). Il dosaggio di atorvastatina scelto per lo studio è quello base di 10 mg, lo stesso impiegato nello studio ASCOT. I criteri di inclusione dello studio CARDS sono riassunti in Tabella 2. La randomizzaione ad atorvastatina e placebo ha tenuto conto della distribuzione dei principali fattori di rischio cardiovascolare (età, sesso, abitudine al fumo, soprappeso, pressione arteriosa, durata del diabete ed assetto lipidico) e del loro eventuale controllo farmacologico. La durata media dell’osservazione è stata di circa 4 anni con un numero di pazienti usciti precocemente dallo studio minimo e non inficiante la validità dello stesso. Peraltro lo studio Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 14 è stato interrotto circa 2 anni prima di quando previsto dal protocollo (9) per la non eticità di continuare un trial in doppio cieco contro placebo data la positività dei risultati dal gruppo in trattamento farmacologico. Non si sono osservati effetti collaterali severi ed il riscontro di innalzamento di transaminasi o creatina fosfo-chinasi è stato percentualmente sovrapponibile nei 2 gruppi (e comunque inferiore all’1% dei casi). Il disegno dello studio è esemplificato in Figura 1. Il trattamento con soli 10 mg di atorvastatina ha consentito di mantenere l’80% dei pazienti ai livelli di colesterolemia LDL suggeriti dalle linee guida internazionali per quanto riguarda i pazienti diabetici (<100 mg/dL), in confronto col 23% dei soggetti sotto placebo come osservabile in Figura 2. Per quanto riguarda gli effetti sugli end-points forti dello studio, atorvastatina 10 mg si è dimostrata fortemente protettiva nei confronti degli eventi coronarici acuti e dell’ictus ischemico ia negli uomini che nelle donne, sia nei pazienti con colesterolemia LDL maggiore o minore di 10 mg/dl, colesterolemia HDL maggiore o minore di 54 mg/dl e trigliceridemia maggiore o minore di 150 mg/dl. Risultati positivi, amche se non statisticamente significativi si sono osservati anche per quanto riguarda i pazienti andati incontro a rivascolarizzazione coronarica (Tabella 3). Tabella 2. Criteri di inclusione dei 2838 pazienti reclutati per lo studio CARDS • • • • Diabete mellito di tipo 2 Uomini e donne Età: 40-75 anni Prevenzione primaria (non storia clinica di malattia coronarica, cerebrovascolare o claudicatio intermittens) • LDL-C ≥160 mg/dL • TG ≥600 mg/dL • Uno dei seguenti: – Ipertensione arteriosa definite dall’assunzione di farmaci antipertensivi o da una pressione sistolica ≥140 mmHg o da una pressione diastolica ≥90 mmHg – Retinopatia – Microalbuminuria o macroalbuminuria – Abitudine al fumo di sigaretta Limitazioni dello studio Anche uno studio apparentemente ben condotto come il CARDS soffre tuttavia di qualche piccola pecca metodologica. In particolare il numero dei Centri coinvolti è alto (132), costituendo quindi un fattore di disomogeneità e dispersione dei dati raccolti. Inoltre l’allargamento dei criteri di inclusione ai soggetti ipertrigliceridemici potrebbe aver causato una errata valutazione dei risultati ottenuti (sia in difetto che in eccesso) per una maggior inclusione di pazienti con diabete non ben compensato e di soggetti affetti da Iperlipoproteinemia Familiare Combinata, in entrambi i casi più gravi dal punto di vista del rischio cardiovascolare rispetto ad un paziente diabetico ben compensato (e quindi con maggior probabilità a priori di rispondere positivamente ad un trattamento con statine), ma anche probabilmente penalizzati da un trattamento meno aggressivo del diabete stesso e della dislipidemia diabetica (basso HDL, alti TG). Infine, anche se metodologicamente corretto, lo studio ha riguardato quasi esclusivamente soggetti di etnia sassone (britannici ed irlandesi) e non è sempre detto che i risultati ottenuti in questa tipologia di paziente, con un rischio genetico ed ambientale (per lo più cor- Scripta MEDICA Impiego delle statine nel paziente diabetico non ipercolesterolemico: lo studio CARDS 15 Figura 1. Disegno essenziale dello studio CARDS. 2.838 (70%) Randomizzanti 1.410 Allocati al placebo 1.428 Allocati ad Atorvastatina 10mg/die 1.398 (99.1%) Follow-up completato 1.421 (99.5) Follow-up completato Persi nel follow-up per: Mortalità 4 (0.3%) Morbidità 12 (0.9%) Persi nel follow-up per: Mortalità 10 (0.1%) Morbidità 7 (0.5%) relato a diverse abitudini alimentari) di sviluppare complicanze cardiovascolari significativamente superiori a quelle dei soggetti di razza mediterranea possano essere direttamente estesi anche ai nostri pazienti. Diabete e nota 13 o diabete (prevenzione secondaria) …”. La nota nuova allarga quindi la possibilità di prescrivere statine ai pazienti diabetici ipercolesterolemici indipendentemente dal rischio stimato con le Carte di Rischio del Progetto Cuore dell’ISS, accettando la definizione di diabete quale equivalente di rischio cardiovascolare. La definizione di ipercolesterolemia nel soggetto diabetico resta peraltro indefinita, per cui accettando il cut-off suggerito dalla maggior parte delle linee guida internazionali (LDL-C <100 mg/dL) la maggior parte dei Come noto a tutti i colleghi, in data 30 dicembre 2004 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale (Serie generale N. 305, Allegato 1, Pag. 100) la versione aggiornata e parzialmente corretta della Nota 13 sulla prescri100 Placebo Atorvastatina vibilità in esenzione dei farmaci ipolipe80 mizzanti. Per quanto riguarda il 60 diabete la nota dice letteralmente: “La pre40 scrizione a carico del SSN è limitata ai pa20 zienti affetti da… iper0 colesterolemia non corBase 12 mesi 24 mesi 36 mesi 48 mesi retta dalla sola dieta in soggetti con coronaropaFigura 2. Percentuale di pazienti che hanno raggiunto e mantenutia documentata, o preto livelli di colesterolemia LDL adeguati (<100 mg/dL9 secondo le gresso ictus, o arteriopiù recenti linee guida internazionali per la gestione del paziente diabetico patia obliterante periferica o pregresso infarto Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 16 Tabella 3. Effetto di Atorvastatina 10 mg e placebo sui principali end-points dello studio CARDS Evento Placebo* Atorva* Rapporto di rischio ? Rischio Endpoints primari combinat 127 (9.0%) 83 (5.8%)) 37% p=0.001 Eventi coronarici acuti 77 (5.5%) 51 (3.6%) 36% Rivas colarizzazione coronica 34 (2.4%) 24 (1.7%) 31% Ictus 39 (2.8%) 21 (1..5%) 48% .2 .4 .6 .8 1 1.2 In favore di In favore di Atorvastatina Placebo *Numero (%) sui randomizzanti nostri pazienti dovrebbe poter usufruire del trattamento in esenzione. Un grave limite della nota è la non prescrivibilità in esenzione dei fibrati e di altre categorie farmacologiche più specifiche sulla dislipidemia diabetica e potrebbe indurre a prescrizioni non completamente corrette o a mancate prescrizioni corrette (es.: associazioni di statine e fibrati scarsamente interagenti tipo pravastatina/fluvastatina + fenofibrato/bezafibrato) quando necessarie. ria). Le normative vigenti allargano la possibilità di prescrizione a carico del Sistema Sanitario Nazionale delle statine nei pazienti diabetici ipercolesterolemici, indipendentemente dal loro rischio cardiovascolare stimato, tuttavia è necessario porre una particolare attenzione anche alla dislipidemia diabetica associata, che può essere di per sé un segno di diabete non adeguatamente controllato, o un fattore di rischio da trattare adeguatamente a parte con farmaci specifici (fibrati, acido nicotinico). Conclusioni Lo studio CARDS ha dimostrato come il trattamento con 10 mg di atorvastatina di pazienti diabetici normocolesterolemici in prevenzione primaria sia sicuro e possa comportare un 37% di riduzione di incidenza di eventi cardiovascolari maggiori ed un 48% di riduzione di incidenza degli ictus, indipendentemente da età, sesso, pattern lipidico di base ed altri noti fattori di rischio cardiovascolare (ipertensione arteriosa, fumo di sigaretta) e complicanze del diabete (retinopatia, macro/microalbuminu- Bibliografia 1. Stamler J, Vaccaro O, Necton JD, Wentworth D. Diabetes, other risk factors, and 12-yr cardiovascular mortality for men screened in the Multiple Risk Factor Intervention Trial. Diabetes Care 1993; 16:434 2. Expert Panel on detection, evaluation, and treatment of high blood cholesterol in adults. Executive summary of the third report of the National Cholesterol Education Program (NCEP) Expert Panel on detection, evaluation, and treatment of high blood cholesterol in adults (Adult Treatment Panel III). JAMA 2001; 285:2486 3. Beishuizen ED, Van de Ree MA, Wouter Jukema J, Scripta MEDICA Impiego delle statine nel paziente diabetico non ipercolesterolemico: lo studio CARDS 17 Tamsma JT, Van der Vijver JCM, Edo Meinders A, Putter H, Huisman MV. Two-year statin therapy does not alter the progression of intima-media thickness in patients with type 2 diabetes without manifest cardiovascular disease. Diabetes Care 2004; 27:2887 LLA): a multicentre randomized controlled trial. Lancet 2003; 361:1149 4. Cicero AFG, Derosa G, Gaddi A. Statins and IMT. Diabetes Care 2005; In press. 8. Colhoun HM, Betteridge DJ, Durrington PN, Hitman GA, Neil HAW, Livingstone SJ, Thomason MJ, Mackness MI, Charlton-Menys V, Fuller JH, on behalf of the CARDS investigators*. 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Design of the Collaborative AtoRvastatin Diabetes Study (CARDS) in patients with type 2 diabetes. Diabet Med 2002; 19:201 Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 19 Scompenso cardiaco: quali novità in tema di diagnosi, terapia e patologie associate? Pietro Cazzola Introduzione Quando si parla di salute pubblica occorre ricordare un adagio che recita ”health care is vital to all of us some of the time, but public health is vital to all of us all of the time" (per tutti noi la cura della salute è di vitale importanza ogni tanto, ma la salute pubblica lo è sempre). Per la salute pubblica lo scompenso cardiaco rappresenta uno dei principali problemi a causa del continuo aumento della sua prevalenza. Ciò è essenzialmente imputabile a due motivi: il progressivo invecchiamento della popolazione e l’evidente successo dei trattamenti delle sindromi coronariche acute. La prevalenza dello scompenso cardiaco in Europa varia dallo 0,4% al 2% della popolazione: questo dato implica che ne è affetto un numero di pazienti compreso tra 10 e 50 milioni (1). La dimensione del fenomeno obbliga pertanto ad essere particolarmente recettivi nei confronti delle novità diagnostiche e terapeutiche ed attenti nel considerare anche le comorbilità che accompagnano questa sindrome peggiorandone la prognosi. Nella presente rassegna verranno illustrati tre nuovi aspetti dell’in- Specialista in Anatomia Patologica e Tecniche di Laboratorio, Milano tricato complesso di nozioni che caratterizzano lo scompenso cardiaco: l’uso dei peptidi natriuretici nel percorso diagnostico terapeutico; l’impiego dei β-bloccanti, con particolare riferimento al carvedilolo, per migliorare la prognosi; il trattamento dell’anemia associata. Peptidi natriuretici Risale agli anni ‘50 l’osservazione che il cuore svolge anche una funzione endocrina caratterizzata dalla liberazione di alcuni peptidi. Infatti i miociti producono una famiglia di ormoni che nell’insieme vengono definiti peptidi natriuretici. I principali sono rappresentati dal peptide natriuretico atriale (ANP) e dal peptide natriuretico cerebrale (BNP). ANP e BNP sono codificati da geni separati e vengono sintetizzati sotto forma di precursori. La liberazione dei peptidi natriuretici è conseguente a molti stimoli (stiramento della parete, dilatazione ventricolare e/o incremento pressorio) che comunque sono riconducibili ad un sovraccarico di volume (2). Questi ormoni svolgono una potente azione diuretica e natriureti- ca ed, inoltre, hanno effetto rilassante sulla muscolatura liscia: essi sono considerati gli antagonisti naturali del sistema nervoso simpatico e del sistema renina angiotensina-aldosterone (2-5). Nella Figura 1 sono illustrate la struttura di ANP e BNP e le loro principali caratteristiche. I confronti tra ANP e BNP hanno evidenziato che quest’ultimo ha delle prerogative che lo rendono maggiormente idoneo ad essere utilizzato come marker dello scompenso cardiaco e della disfunzione ventricolare sinistra (2, 6). Infatti in presenza di scompenso cardiaco i livelli plasmatici di BNP subiscono un significativo incremento che è apparso correlato alla classe NYHA (New York Heart Association) (7). Occorre tuttavia sottolineare che le concentrazioni plasmatiche di BNP aumentano anche con l’età e che sono più elevate nelle donne che negli uomini, ciò indipendentemente dalle condizioni funzionali cardiache (8, 9). Il BNP deriva da un precursore di 134 aminoacidi denominato preproBNP che per effetto dello stimolo secretorio viene privato di 26 aminoacidi e trasformato in proBNP. Questo ormone è ulteriormente scisso ad opera di una proteasi di membrana in due frammenti: il BNP e il frammento N terminale pro BNP (NT-proBNP) (Figura 2). Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 20 Figura 1. Struttura e caratteristiche dei principali peptidi natriuretici. Modificata da (5). ANP BNP Lunghezza peptide 28 aminoacidi 32 aminoacidi Recettore NPR-A, NPR-C NPR-A, NPR-C Precursore PreproANP (151 aa) PreproBNP (134 aa) Pro-ormone ProANP (126 aa) ProBNP (108 aa) Deposito del pro-ormone Granuli atriali Secreto nel ventricolo senza deposito Principali frammenti circolanti NT-proANPs; ANP NT-proBNPs; BNP Ormone biologicamente attivo ANP BNP Emivita plasmatica 3 min 21 min Stimolo liberazione Tensione transmurale atriale Tensione murale ventricolare Sede sintesi Atrio cardiaco Ventricolo cardiaco Azioni fisiologiche Natriuresi, vasodilatazione, Natriuresi, vasodilatazione, inibizione sistema RAA, azione antiproliferativa inibizione aldosterone, azione antiproliferativa ANP = peptide natriuretico atriale; BNP = peptide natriuretico; NPR = recettori peptide natriuretico; NT = N-terminale; RAA = renina-angiotensina-aldosterone Figura 2. La scissione enzimatica del proBNP con formazione del BNP e dell’NT-proBNP. Solo il BNP svolge attività endocrina legandosi a specifici recettori, mentre l’NT-proBNP viene eliminato a livello renale. Entrambe le molecole possono essere misurate con specifici test di laboratorio; quello per il BNP è stato approvato dalla FDA (Food and Drug Administration) nel 2000, quello per l’NT-proBNP nel 2002. In Italia, la Lombardia è stata la prima regione ad aver inserito il dosaggio di questi peptidi nel nomenclatore tariffario, per cui la spesa di questi test è a carico del Servizio Sanitario Regionale. Nella Tabella 1 sono riassunte le Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 21 Tabella 1. Principali differenze tra BNP e NT-proBNP. Caratteristiche BNP NT-proBNP Aminoacidi Peso molecolare Attività ormonale Genesi Emivita Principale meccanismo clearance Incremento con l’età BNP(77-108) 3,5 kilodalton SI Clivaggio dal proBNP 20 min Recettori natriuretici +?? NT-proBNP(1-76) 8,5 kilodalton NO Clivaggio dal proBNP 120 min Clearance renale ++++?? principali differenze tra BNP e NTproBNP. Nei pazienti con scompenso cardiaco, a causa della sua emivita più prolungata (120’ vs 20’) l’NT-proBNP raggiunge, rispetto al BNP, concentrazioni plasmatiche più elevate (Figura 3) (10). La clearance dell’NT-proBNP è prevalentemente renale e ciò ha indotto alcuni Autori a considerarlo non solo un marker cardiaco, ma piuttosto un marker cardiorenale (scompenso cardiaco e insufficienza renale sono condizioni con meccanismi fisiopatologici strettamente collegati) (12). In passato, a causa di questa principale via di clearance, si riteneva che i livelli plasmatici dell’NT-proBNP fossero maggiormente età-dipendenti di quelli del BNP (per riduzione della filtrazione glomerulare) (5), tuttavia una recente segnalazione ha contraddetto questa tesi (13). Studi recenti hanno mostrato che la valutazione dei livelli plasmatici dell’NT-proBNP è particolarmente utile per i seguenti scopi: discriminare l’origine cardiaca o non cardiaca della dispnea nei pazienti che giungono al pronto soccorso (14); formulare la prognosi nei pazienti con scompenso cardiaco (15); stratificare il rischio cardiovascolare nei pazienti con angina stabile ed instabile (16) e nei pazienti con diabete di tipo 2 e microalbuminuria (17); valutare il rischio di morte nei pazienti con nefropatia diabetica (18); predire il rischio di scompenso cardiaco nei pazienti con malattia cerebrovascolare (19); evidenziare le possibili complicanze cardiovascolari nei pazienti con obesità grave (20). β-bloccanti Dopo gli ACE-inibitori, i β-bloccanti rappresentano il secondo capisaldo della terapia dello scom- penso cardiaco. Le prime segnalazioni della loro utilità in tale patologia risalgono a studi condotti in Svezia negli anni ‘70 (21), ma è solo al termine degli anni ‘90 che i grandi trial hanno inequivocabilmente dimostrato che alcuni di questi farmaci riducono significativamente l’elevata mortalità che accompagna lo scompenso cardiaco (22-25). È tuttavia necessario sottolineare che la classe dei β-bloccanti è costituita da diverse molecole che nel corso del loro sviluppo si sono rivelate differenti in termini di effetti farmacologici, cardioprotetzione e tollerabilità. A conferma di ciò alcuni studi clinici [The Xamoterol trial (26), βBlocker Evaluation of Survival Trial (BEST) (27), SR MOXonidine for CONgestive Heart Failure trial (MOXCON) (28)] hanno evidenziato che i bloccanti adrenergici nello scompenso cardiaco non posseggono un effetto di classe. Tale concetto è stato poi ampliato dallo studio COMET (Carvedilol Or Metoprolol European Trial) i cui risul- Figura 3. Livelli plasmatici di BNP e di NT-proBNP in pazienti con scompenso cardiaco. Tratta da (11). Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 22 tati hanno reso possibile l’introduzione di una gerarchia di efficacia, in cui il carvedilolo occupa il primo posto (29). Carvedilolo: proprietà farmacologiche Il carvedilolo è un antagonista neuroormonale di terza generazione. Le sue attività farmacologiche primarie comprendono il blocco non selettivo dei recettori adrenergici β, la vasodilatazione e l’azione antiossidante: questi effetti possono essere attribuiti alle differenti regioni della sua molecola (30) (Figura 4). Recentemente è stato dimostrato che il carvedilolo ed il suo metabolita BM-91.0228 sono in grado di prevenire, in corso di occlusione e riperfusione coronarica, la necrosi e l’apoptosi dei miocardiociti (Figura 5): ciò indipendentemente dall’effetto β-bloccante (31). L’insieme di queste caratteristiche spiega il perché questa molecola permetta un’efficace cardioprotezione in un ampio spettro di condizioni morbose dell’apparato cardiovascolare. Carvedilolo nello scompenso cardiaco L’approccio diagnostico-terapeutico dello scompenso cardiaco è stato profondamente modificato quando nel 2001 sono state divulgate le nuove linee guida dell’American College of Cardiology/American Heart Association in cui i fattori di rischio cardiovascolare costituiscono già il primo gradino di un continuum patologico che conduce allo scompenso cardiaco refrattario (32) (Figura 6). Questa nuova stadiazione dà mol- Figura 4. Struttura e siti attivi del carvedilolo. β-bloccante α1-bloccante Antiossidante Figura 5. Effetto cardioprotettivo del carvedilolo in corso di occlusione e riperfusione coronarica. Tratto da (31). to rilievo all’aspetto preventivo dal momento che è sufficiente che un paziente sia affetto da ipertensione essenziale o da diabete mellito perché esso sia tipizzato come appartenente allo stadio A. Ne consegue che dal punto di vista terapeutico non è necessario che siano presenti i sintomi dello scompenso cardiaco per iniziare il trattamento (stadio A e B), in quanto quest’ultimo comincia con il controllo dei fattori di rischio. Tra questi un posto di preminenza spetta all’ipertensione e al diabete mellito che possono essere presenti separatamente o coesistere nel quadro clinico della sindrome metabolica. Nella popolazione diabetica, accanto agli agenti ipoglicemizzanti, i farmaci più usati sono gli antipertensivi. Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 23 Figura 6. Stadi evolutivi dello scompenso cardiaco e relativa terapia raccomandata dalle linee guida ACC/AHA (32). Stadio A Stadio B Stadio C Stadio D Alto rischio di scompenso cardiaco Presenza di alterazioni cardiache strutturali Presenza di alterazioni cardiache strutturali note Scompenso cardiaco refrattario Assenza di alterazioni strutturali cardiache; assenza di sintomi di scompenso Assenza di sintomi di scompenso Sintomi di scompenso cardiaco precedenti o in corso Necessità di interventi specialistici Pazienti con: Pazienti con: Pazienti con: Pazienti con: – ipertensione – diabete mellito – storia familiare di cardiomiopatia – farmaci cardiotossici – precedente infarto miocardico – disfunzione sistolica del ventricolo sn – valvulopatia asintomatica – dispnea – affaticabilità – ridotta tolleranza all’esercizio – sintomi a riposo nonostante la terapia medica massimalizzata – ricorrenti ricoveri ospedalieri Terapia Terapia Trattare l’ipertensione Astensione dal fumo Trattare l’iperlipidemia Favorire l’esercizio fisico Sconsigliare l’uso di alcol e di droghe ACE-inibitori nei pazienti con appropriate indicazioni Tutte le misure dello stadio A ACE-inibitori nei pazienti con appropriate indicazioni β-bloccanti nei pazienti con appropriate indicazioni Nell’ambito di questa grande categoria di farmaci la letteratura degli ‘90 ha evidenziato che l’impiego dei β-bloccanti tradizionali può aumentare l’insulino-resistenza e peggiorare il controllo glicemico nei pazienti diabetici. Studi come il LIFE (Losartan Intervention for Endpoint Reduction in Hypertension) (33), come il COMET (34) e come l’Atherosclerosis Risk in Communities Study (35) hanno mostrato che i β-bloccanti tradizionali aumentano dal 22% al 28% la comparsa di nuovi casi di diabete. Al contrario gli studi condotti con carvedilolo da Giugliano et al. (36) Terapia Tutte le misure dello stadio A Farmaci di routine: – Diuretici – ACE-inibitori – β-bloccanti – Digitale Restrizione apporto di sale e da Jacob et al. (37) hanno messo in luce che questo β-bloccante di terza generazione migliora la sensibilità all’insulina ed hanno fornito i presupposti per uno studio di confronto con metoprololo (37). Infatti nello studio GEMINI (The Glycemic Effect in Diabetes Mellitus: Carvedilol-Metoprolol Comparison in Hypertensives) (38) 1235 pazienti ipertesi (PAS > 130 ≤179 mmHg e PAD > 80 ≤ 109 mmHg) e con diabete di tipo 2 (HbA 1c 6,5%-8,5%), già in terapia con ACE inibitori o con antagonisti dei recettori dell’angiotensina II, sono stati randomizzati per ricevere in Terapia Tutte le misure dello stadio A, B e C – Supporti meccanici di assistenza – Trapianto cardiaco – Infusione EV continua (non intermittente) di inotropi a scopo palliativo – Ospedalizzazione doppio cieco carvedilolo (6,25-25 mg) o metoprololo (50-200 mg) due volte al giorno per 5 mesi. Obiettivo primario dello studio è stata la differenza tra gruppi della variazione, rispetto al basale, dell’HbA1c; obiettivi secondari sono stati le variazioni dei seguenti parametri: PAS e PAD, glicemia e insulinemia, insulino-resistenza, colesterolemia totale e frazionata, rapporto albumina urinaria/creatinina, abbandono dello studio per peggioramento del controllo glicemico (glicemia a digiuno > 270 mg/dL). Dopo 5 mesi di terapia di mante- Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 24 nimento la differenza tra gruppi della variazione dell’HbA1c rispetto al basale è stata pari 0,13% (p = 0,004) (Figura 7). La media dell’HbA1c è aumentata nel gruppo metoprololo (0,15%; p < 0,001), mentre è rimasta invariata nel gruppo carvedilolo (0,02%; p = 0,65). Per quanto riguarda la PAS e la PAD entrambi i farmaci hanno ridotto i valori pressori in modo sovrapponibile, mentre per quanto attiene la sensibiltà all’insulina solo il carvedilolo ha migliorato in modo significativo tale parametro [carvedilolo: -9,1% (p =0,004); metoprololo: -2% (p =0,48]; differenza tra gruppi: -7,2% (p =0,004)]. Tra gli altri parametri biochimici considerati si è rilevata una differenza statisticamente significativa a favore del carvedilolo (p ≤ 0,001) per la colesterolemia totale (carvedilolo: -3,3%, metoprololo: -0,4%) e per i trigliceridi (carvedilolo: 2,2%, metoprololo: 13,2%). La progressione verso la microalbuminuria è risultata meno frequente nel gruppo carvedilolo rispetto al gruppo metoprololo (6,4% vs 10,3%; p =0,04). Il profilo di tollerabilità dei due trattamenti non ha mostrato differenze statisticamente significative. Pertanto i risultati dello studio GEMINI confermano l’efficacia del carvedilolo come farmaco antipertensivo, sottolineano la sua superiorità rispetto al metoprololo in termini di effetti favorevoli sul metabolismo glucidico e lo indicano come β-bloccante ideale nel paziente diabetico iperteso. Tenendo in considerazione le linee guida dell’American College of Cardiology/American Heart Association Figura 7. Studio GEMINI: variazione dell’HbA1c rispetto al valore basale nei gruppi carvedilolo e metoprololo tartrato (38). lo studio GEMINI può a ragione essere considerato un trial condotto nello stadio A, mentre lo studio CAPRICORN (CArvedilol Post-InfaRct SurvIval COntrol in left ventriculaR dysfunctioN) ha esplorato l’efficacia del carvedilolo nello stadio B evidenziando che, quando sono presenti alterazioni strutturali e funzionali cardiache, l’aggiunta di questo β-bloccante alla terapia con ACE-inibitore riduce la mortalità globale del 23% (40) (Figura 8). Gli effetti del carvedilolo nello stadio C dello scompenso cardiaco sono stati valutati dal US Carvedilol Heart Failure Trials Program (22) e dallo studio COPERNICUS (Car- Figura 8. Studio CAPRICORN: riduzione della mortalità con carvedilolo nello stadio B dello scompenso cardiaco (40). Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 25 vedilOl ProspectivE RaNdomIzed CUmulative Survival trial) (25). Questi studi clinici hanno chiaramente dimostrato che l’efficacia del carvedilolo è rilevabile in tutti gli stadi di gravità dello scompenso. Infatti nelle formi lievi-moderate la riduzione della mortalità globale è stata del 65% (22) (Figura 9) e nelle formi gravi del 35% (25) (Figura 10). I dati dello studio COPERNICUS hanno evidenziato che le dosi più elevate di carvedilolo (25 mg bid) sono più efficaci delle dosi più basse (6,25 mg bid) nel migliorare la frazione di eiezione del ventricolo sinistro e la mortalità (25). Tuttavia occorre ricordare che quest’ultima nello studio MOCHA (Multiple Oral Carvedilol in Heart failure Assessment) è stata significativamente ridotta anche alle dosi più basse (6,25 mg bid) (41). I risultati conseguiti negli studi clinici sul trattamento dello scompenso cardiaco con carvedilolo sono apparsi subito nettamente superiori a quelli ottenuti con altri βbloccanti (23, 24, 27), tuttavia questa osservazione necessitava di una validazione clinico-sperimentale che solo uno studio di confronto poteva assicurare. Questa lacuna è stata ora colmata dallo studio COMET (29). Il COMET è iniziato nel 1996 (42) e i suoi risultati sono stati pubblicati nel 2003 (29). In tale studio 3029 pazienti sono stati randomizzati per ricevere carvedilolo (dose target 25 mg due volte al giorno) o metoprololo tartrato (dose target 50 mg due volte al giorno). È stato scelto il metoprololo tartrato perché nel 1996 il metopro- Figura 9. US Carvedilol Heart Failure Trials Program: il carvedilolo riduce la mortalità globale nello scompenso cardiaco lieve-moderato (22). lolo succinato a lunga durata d’azione (metoprololo XL) non era disponibile per i ricercatori del COMET (43). La dose di metoprololo tartrato è stata indicata dallo Steering Committee dopo un attento esame dei dati disponibili nel 1996 (43). La durata media del follow up è stata 58 mesi (si tratta del più am- pio e del più lungo trial condotto nello scompenso cardiaco). I pazienti dovevano avere frazione di eiezione ventricolare sinistra di 0,26, una classe NYHA da II a IV e, aspetto molto importante, dovevano essere stati ricoverati almeno una volta per cause cardiovascolari nei 2 anni precedenti. Figura 10. Studio COPERNICUS: il carvedilolo riduce la mortalità globale nello scompenso cardiaco grave (25). Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 26 Endpoint primari sono stati la mortalità per tutte le cause e il rischio combinato comprendente la mortalità per tutte le cause ed il ricovero ospedaliero per tutte le cause. I risultati hanno evidenziato che il rischio relativo della mortalità per tutte le cause è stato ridotto del 17% nel gruppo carvedilolo (Figura 11) e ciò si è verificato principalmente per una significativa riduzione del 20% della mortalità per cause cardiovascolari. Approssimativamente il 33% della mortalità del COMET è attribuibile allo scompenso, e per il 44% dei casi si è trattato di morte improvvisa (34). Il secondo endpoint primario comprendente la mortalità per tutte le cause o l’opedalizzazione non ha raggiunto la significatività statistica, ma è risultato favorevole al carvedilolo (-6%). Raramente i trial clinici permettono di delucidare i meccanismi con cui si producono gli effetti, tuttavia nel caso del COMET è possibile ipotizzare che i risultati ottenuti siano la conseguenza delle differenti proprietà farmacologiche delle due molecole e, nella fattispecie, nelle attività β2 antagonista e α1 bloccante posseduta dal carvedilolo (43). Quali sono le implicazioni pratiche del COMET? In assenza di ulteriori studi, il carvedilolo deve essere considerato il β-bloccante da preferirsi nel trattamento dello scompenso cardiaco (43). Dal momento che alcuni pazienti con scompenso cardiaco possono essere già in terapia con altri β-bloccanti, il passaggio al carvedilolo può essere ef- Figura 11. Studio COMET: mortalità per tutte le cause (20). fettuato secondo lo schema illustrato nella Tabella (29). È opportuno sottolineare che numerose indagini hanno confermato che nello scompenso cardiaco il carvedilolo è efficace e sicuro an- che in speciali sottopopolazioni di pazienti: anziani (22, 44); diabetici (38, 45, 46); pazienti con insufficienza renale (47-49); Figura 12. Studio COMET: mortalità per cause cardiovascolari (20). Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 27 pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva (50); pazienti con aritmie (51-57); pazienti con cardiomiopatia dilatativa idiopatica (58-61). In particolare, nei pazienti con fibrillazione atriale, una condizione che nello scompenso cardiaco può raggiungere una prevalenza di circa il 30 (62), lo studio CAFE (Carvedilol in Atrial Fibrillation Evaluation) ha dimostrato che l’aggiunta del carvedilolo alla digossina riduce la frequenza ventricolare, aumenta la frazione d’eiezione del ventricolo sinistro e migliora il punteggio dei sintomi in modo statisticamente significativo (52). Ogni paziente si aspetta dal suo medico null’altro che il meglio (63). Anemia Nei pazienti con scompenso cardiaco l’anemia ha una prevalenza elevata e rappresenta un fattore indipendente di rischio di mortalità (64, 65). Silveberg et al. (66) hanno rilevato che la prevalenza dell’anemia (Hb < 12 g/dL) varia in rapporto alla gravità dello scompenso cardiaco: 9,1% nei pazienti in I classe NYHA, 19,2% in quelli in II classe NYHA e 79,1% in quelli in IV classe NYHA. La comparsa dell’anemia nello scompenso cardiaco è riconducibile a molteplici cause: Ischemia renale: la prolungata vasocostrizione causa ischemia e danno renale con conseguente ridotta produzione di eritropoietina (EPO) (67). Citochine: il cuore danneggiato produce citochine come il TNFα (68) che determina anemia con tre meccanismi (69): riducendo la produzione renale di EPO, interferendo con l’attività dell’EPO a livello midollare e inibendo la liberazione di ferro da parte del sistema reticolo-endoteliale. ACE-inibitori: questi farmaci, che fanno parte della terapia standard dello scompenso cardiaco, possono causare anemia (70). Proteinuria: sovente i pazienti con scompenso cardiaco sono anche proteinurici e ciò determina una significativa perdita urinaria di EPO, ferro e transferrina (71). Malnutrizione: i pazienti con scompenso cardiaco spesso evidenziano inappetenza con conseguenti perdita di peso, ipoalbuminemia e anemia (72). Emodiluizione: l’aumento del volume plasmatico causa riduzione dell’Ht, tuttavia è stato recentemente evidenziato che nella maggior parte dei casi è presente anche una riduzione del volume degli eritrociti (73). Molti pazienti con scompenso cardiaco evidenziano un moderato aumento dei livelli plasmatici di EPO nel tentativo di compensare l’azione di questi fattori favorenti la comparsa dell’anemia, tuttavia l’aumento osservato è nettamente inferiore a quanto atteso (74). In questi casi, la terapia dello scompenso cardiaco, accanto a ACE-inibitori e/o bloccanti i recettori dell’angiotensina II, βbloccanti, e spironolattone (32), dovrebbe prevedere anche l’impiego di EPO esogena (75). Gli effetti del trattamento dell’anemia con EPO beta nel paziente con scompenso cardiaco sono stati recentemente descritti da Silverberg DS et al. (76) che hanno osservato come l’incremento dei valori di Hb si accompagni ad un miglioramento della classe NYHA, ad un aumento della frazione d’eiezione del ventricolo sinistro e ad una riduzione delle ospedalizzazioni (per tutti i parametri p <0,001). Questi dati confermano sia quanto già segnalato dagli stessi Autori (66, 77), sia quanto emerso da uno studio di Mancini et al. (78) in cui la correzione dell’anemia in pazienti con scompenso cardiaco moderato/grave si è associata ad un aumento del picco del consumo di O2 e della capacità d’esercizio. Oltre a ciò è necessario ricordare che osservazioni sperimentali indicano che i miocardiociti sono in grado di esprimere specifici recettori per l’EPO (79) e che la loro diretta stimolazione, in condizioni di ischemia/riperfusione, si traduce in una riduzione dell’apoptosi e dell’area necrotica, e nel miglioramento della funzionalità cardiaca (79-81). Bibliografia 1. Cleland JG, Cohen-Solal A, Aguilar JC, Dietz R, et al. Management of heart failure in primary care (the IMPROVEMENT of Heart Failure Programme): an international survey. Lancet 2002; 360:1631-9. Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 28 2. Clerico A, Iervasi G, Mariani G. Pathophysiologic relevance of measuring the plasma levels of cardiac natriuretic peptide hormones in humans.Horm Metab Res 1999; 31:487-98. 14. Nielsen LS, Svanegaard J, Klitgaard NA, Egeblad H. N-terminal pro-brain natriuretic peptide for discriminating between cardiac and non-cardiac dyspnoea. Eur J Heart Fail 2004; 6:63-70. 3. Maisel A. 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La patogenesi della contemporanea comparsa degli elementi della sindrome non è completamente chiarita, ma si suppone che l’obesità viscerale con i prodotti del tessuto adiposo (es. acidi grassi non esterificati, citochine, l’inibitore dell’attivatore del plasminogeno tipo 1, adiponectina) e l’insulino-resistenza giochino un ruolo primario nell’interazione di fattori ambientali e comportamentali in individui con una sottostante predisposizione genetica, e che le altre alterazioni sono sì conseguenze di queste ma contribuiscono anche ad un loro peggioramento. Centro per lo Studio delle Malattie Dismetaboliche e dell’Aterosclerosi “G Descovich”, Policlinico S. OrsolaMalpighi, Alma Mater Studiorum Università di Bologna Sindrome metabolica: predisposizione e predittività di malattia cardiovascolare e coronarica. Ogni componente della sindome metabolica è un fattore di rischio indipendente per la malattia cardiovascolare e coronarica, e la loro contemporanea comparsa in un soggetto comporta un rischio molto maggiore rispetto a quanto atteso dalla somma del rischio relativo dei singoli fattori. Sebbene il riconoscimento di tali condizioni cliniche sia relativamente semplice, la sindrome può restare misconosciuta per anni. La sua diagnosi precoce, oltre rappresentare un mezzo per identificare e studiare i pazienti ad elevato rischio di malattia cardiovascolare e per realizzare di conseguenza un’efficace opera di prevenzione dell’aterosclerosi e delle sue complicanze cliniche, rappresenta anche un mezzo per attuare un approccio terapeutico che derivi da una visione più olistica del problema, evitando il trattamento dei singoli disordini in modo separato. Infatti, l’approccio terapeutico al paziente dovrebbe mirare sia a risolvere una condizione presente sia a prevenire lo sviluppo delle altre componenti della sindome metabolica (tramite adeguata modificazione dello stile di vita più o meno associata all’utilizzo di appropriati farmaci). Da tali considerazioni deriva il motivo per cui negli ultimi anni la sindome metabolica ha acquisito una sua dignità clinica ed una notevole rilevanza epidemiologica. Diagnosi di sindrome metabolica L’ importanza dell’identificazione della sindrome metabolica ha suscitato l’interesse di diverse società scientifiche, ma a tutt’oggi non è stato ancora sviluppato un criterio diagnostico standardizzato, ed essendo la diagnosi altamente sensibile e dipendente dalla definizione che si sceglie come riferimento risulta difficile confrontare i diversi studi che hanno avuto come oggetto la valutazione della prevalenza della sindrome metabolica. Il criterio diagnostico che la World Health Organization (WHO) propone dal 1999 prevede che per la diagnosi è necessaria la compresenza di insulino-resistenza e di almeno due dei seguenti criteri: ipertensione, iperlipidemia, obesità, microalbuminuria (1) (Tabella 1). Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 33 Insulino-resistenza dimostrata da uno dei seguenti punti: • Diabete Mellito di tipo 2 • Iperglicemia a digiuno (IFG) • Ridotta tolleranza al glucosio (IGT) • o, per coloro che sono normoglicemici (<110 mg/dL), uptake del glucosio compreso nel quartile inferiore della popolazione di riferimento in condizioni di iperinsulinemia ed euglicemia. + due dei seguenti punti: • Ipertensione • pressione arteriosa >140/90 mmHg • o uso di farmaci antipertensivi •Trigliceridi plasmatici • ≥ 150 mg/dL (≥ 1.7 mmol/L) • HDL-C < 35 mg/dL (0,9 mmol/L) in uomini • < 39 mg/dL (1,0 mmol/L) in donne • Obesità totale o centrale • BMI > 30 kg/m2 o • circonferenza vita / fianchi > 0.90 in uomini > 0,85 in donne • Microalbuminuria • albumina urinaria ≥ 20 mg/min o (tasso di escrezione notturna albumina / creatinina ≥ 30 mg/g di albumumina nelle urine) Tabella 1. Sindrome metabolica secondo la WHO. Fattore di rischio Circonferenza vita (parametro surrogato di obesità viscerale) Trigliceridi Colesterolo HDL Livelli > 102 cm nei maschi > 88 cm nelle donne ≥ 150 mg/dL < 40 mg/dL negli uomini Scopo della tesi < 50 mg/dL nelle donne Ipertensione arteriosa Glicemia a digiuno Nel 2001 il National Cholesterol Education Program (NCEP) Adult Treatment Panel III (ATP III) suggerì un’altra definizione (Tabella 2) che al contrario della precedente non pone al centro del disturbo la resistenza insulinica, ma solo i suoi eventuali epifenomeni (2). Anche la più recente proposta dell’American Association of Clinical Endocrinologists considera le le stesse componenti ma non definisce il numero dei fattori di rischio necessari e la diagnosi è lasciata al giudizio clinico. Se un paziente sviluppa diabete la definizione di sindrome metabolica non è più applicabile (3). Nel gennaio del 2003 l’International Task Force for Prevention of Coronary Heart Disease in collaborazione con l’International Atherosclerosis Society ha diffuso un documento in funzione della prevenzione della malattia coronarica (Pocket Guide to Prevention of Coronary Heart Disease). All’interno di questa linea guida viene definita la sindrome metabolica come una combinazione di fattori che corrispondono a quelli che compaiono nella definizione proposta dall’ATP III. Cambiano però i valori soglia della glicemia e come indice di obesità viene considerato anche l’indice di massa corporea (BMI) in eventuale alternativa alla circonferenza vita (Tabella 3) (4). ≥ 130/85 mmHg ≥ 110 mg/dL* Sono necessari almeno tre fattori per la diagnosi di sindrome metabolica. *L’American Diabetes Association ha stabilito recentemente il limite di 100 mg/dL Tabella 2. Sindrome metabolica secondo l’ATP III (NCEP 2001). Lo scopo del nostro studio è quello di fornire dati sulla prevalenza della sindrome metabolica riguardo un campione di popolazione italiana in età geriatrica e in più di valutare l’applicazione di 2 criteri diagnostici diversi. I criteri diagnostici presi come riferimento sono quelli dettati dall’ATP III e dalla Task Force. Tale scelta deriva dal fatto che l’i- Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 34 dentificazione Risultati • Pressione arteriosa sistolica ≥ 130 mmHg e/o pressione arteriosa clinica proposta e conclusione diastolica ≥ 85 mmHg dall’ATP III e dalla linea guida Nella popolazione • Trigliceridi plasmatici a digiuno ≥ 150 mg/dL (≥ 1.7 mmol/L) della Task Force generale (756 sog• HDL-C < 40 mg/dL (1,4 mmol/L) in uomini nella pratica è la getti) la prevalenza < 50 mg/dL (1,30 mmol/L) in donne più facilmente apdella sindome metaplicabile perché bolica secondo i cri• Circonferenza vita > 102 cm in uomini non sono richieteri ATP III (27,9%) è > 88 cm in donne sti il test di tollerisultata essere mago BMI > 29,0 kg/m2 in uomini ranza al glucosio, giore della prevalen> 27,5 kg/m2 in donne la misurazione za trovata seguendo i • Glucosio a digiuno 110-125 mg/dL (6,1 – 6,9 mmol/L) dei livelli di insucriteri Task Force lina e della mi(22,5%) (Figura 1). croalbuminuria, Tabella 3. Sindrome metabolica secondo l’International Task Force Questo è un risultato for Prevention of Coronary Heart Disease. che compaiono atteso, perchè è diinvece tra i criteri retta conseguenza diagnostici dettati dalla WHO. nali dello stato di salute della del fatto che tale linea guida non esclude i pazienti con diabete di popolazione partecipante (5). Da tale popolazione sono stati tipo 2, come fa invece la definizione Materiali e metodi selezionati poi 345 soggetti di età dettata dalla Task Force. Tale diffesuperiore ai 65 anni. L’ analisi stati- renza nella prevalenza ovviamente I risultati si basano sull’elaborazio- stica ha incluso una descrizione sia permane indipendentemente dalne dei dati raccolti durante la valu- del campione totale del 2004 sia l’età e dal sesso. La prevalenza della tazione di 756 soggetti consecuti- del campione in età geriatria in sindome metabolica secondo i critevamente presentatisi nel periodo linea con la definizione di Sin- ri ATP III e Task Force risulta essere da maggio 2003 a febbraio del drome Metabolica secondo ATP III diversa anche nel campione in 2004 nell’ambito del Brisighella e Task Force. L’ analisi descrittiva è oggetto nel nostro studio (rispettiHeart Study, studio epidemiologico stata quindi ripetuta per sesso e vamente 33,6% e 26%) (Figura 2). longitudinale iniziato nel 1972 e classi di età con la costruzione di Si nota che rispetto alla prevalenza strutturato in controlli quadrien- specifiche tavole di contingenza. della sindrome nella popolazione Femmine Popolazione totale Figura 1. Prevalenza della sindrome metabolica: popolazione generale. Maschi Femmine 33.62% 26.37% 32.16% 27% 20.68% 27.90% 22.5% 28.20% 23.7% 27.60% 22.2% Maschi 40.35% ATP III Task Force ATP III Task Force Popolazione totale Figura 2. Prevalenza della sindrome metabolica: campione in età geriatrica. Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 65 65-69 70-74 75-79 22.70% 11% 37.80% 29.20% 34% 29.80% 30.60% 27% 40% 53.20% 35 Uomini Donne >79 Figura 3. Prevalenza della sindrome metabolica-ATP III in soggetti di 65 anni. totale la prevalenza nel campione di soggetti in età geriatrica aumenta ma solo apparentemente. Infatti l’aumento interessa solo le donne (40% secondo l’ATP III, 32% secondo Task Force). Tale tendenza a sviluppare sindome metabolica maggiore nel sesso femminile dimostrata in età geriatrica non è riscontrabile nella popolazione generale. La maggior prevalenza nella popolazione femminile può essere spiegata invece dopo la valutazione di ciascuna condizione che rientra nella sindrome. L’unico parametro che mostra una prevalenza nettamente maggiore nella popolazione femminile rispetto la popolazione maschile in età geriatrica è la circonferenza vita. Tale differenza potrebbe esistere per una caratteristica specifica della popolazione rurale di Brisighella di una maggiore tendenza a sviluppare obesità viscerale nella donne rispetto agli uomini, oppure a una sovrastima di questa dovuta all’applicazione di un valore limite troppo basso per la circonferenza della vita delle donne del nostro campione di popolazione. Dividendo il campione in fasce di età e considerando separatamente uomini e donne si riscontra un picco della prevalenza in corrispondenza della fascia di età che va dai 65 ai 75 anni evidente soprattutto nella popolazione femminile (Figura 3). Negli ultraottantenni la prevalenza subisce una diminuzione e ciò presumibilmente è dovuto alla nota aumentata mortalità associata a tale patologia. Per quanto riguarda l’uso alternativo del BMI come indicatore di obesità per la determinazione della sindome metabolica, siamo giunti alla stessa conclusione dello studio PROCAM che vede il BMI ugualmente rilevante nella valutazione della sindrome, rispetto alla circonferenza vita. La prevalenza della sindome metabolica nei soggetti con BMI maggiore a 30 kg/m2 risulta del 51% per gli uomini e del 57% per le donne, valori molto simili a quelli trovati nella valutazione della prevalenza della sindrome nel sottogruppo con circonferenza maggiore a 102 cm per gli uomini e a 88 cm per le donne (rispettivamente 56% e 59%). Inoltre abbiamo dimostrato tramite la regressione lineare tra il BMI e la circonferenza vita una relazione lineare consistente fra i due parametri. Il clinico può quindi scegliere la misura a lui più familiare. Bibliografia 1. World Health Organization. Definition, Diagnosis and classification of Diabetes Mellitus and Its Complications: Report of a WHO Consultation. 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LancasterDodrecht: Kluver Press; 1990. p.622 Scripta MEDICA Volume 8, n. 1-2, 2005 37 News on Skin Repair La cicatrizzazione delle ferite cutanee e le sue complicanze La ferita cutanea Il termine “ferita cutanea” indica un’interruzione della soluzione di continuo dell’epidermide e del sottostante derma dovuta ad eventi traumatici o chirurgici. Guarigione delle ferite Collagene Capillari ed epitelio Fibrina, piastrine Leucociti polimorfonucleati Macrofagi Linfociti Fibroblasti Il primo effetto causato dall’evento traumatico o chirurgico sulla cute è rappresentato dall’interruzione della continuità dei microvasi con conseguente emorragia. Allo scopo di ridurre la perdita ematica, il vaso leso si contrae ed espone il collagene sottoendoteliale ai fattori della coagulazione ed alle piastrine. Quest’ultime aderiscono al collagene sottoendoteliale, formano un tappo occludente il lume vasale e rilasciano alcuni mediatori solubili come il Platelet Derived Growth Factor (PDGF) ed agenti vasoattivi come la serotonina e l’istamina. Il periodo di vasocostrizione è seguito da un periodo più lungo di vasodilatazione, responsabile dell’edema e dell’eritema che compaiono nell’area traumatizzata. Infiammazione Proliferazione 0 1) coagulazione; 2) infiammazione; 3) proliferazione tessutale; 4) rimodellamento del tessuto cicatriziale. Coagulazione In rapporto all’entità della perdita tessutale, la guarigione delle ferite può avvenire con tre modalità: - per prima intenzione: in essa i margini di un tessuto vengono ravvicinati (ad esempio mediante sutura) e la guarigione si verifica senza complicazioni e con scarsissimi residui. - per seconda intenzione: consiste nella chiusura per colmata di una ferita lasciata aperta; la ferita va incontro a guarigione per successiva opposizione di tessuto di nuova formazione (tessuto di granulazione) nel contesto della perdita di sostanza. È questo un processo più lento che può dare esito ad una cicatrice ben visibile, a volte anche esuberante. - per terza intenzione: la ferita guarisce con la combinazione delle due modalità precedenti. Coagulazione Classicamente il processo di guarigione delle ferite, che può durare mesi, viene suddiviso in 4 fasi, embricate tra loro (Figura 1): Epitelizzazione e rimodellamento Infiammazione 14 7 Tempo (giorni) Figura 1. Le fasi di guarigione delle ferite cutanee. Tratto da Schultz GS, et al. Wound Reg 2003 21 Nella zona lesa, per effetto di fattori chemiotattici prodotti dalle piastrine e dall’attivazione dei fattori della coagulazione, vengono attratti granulociti neutrofili e macrofagi che danno inizio alla fase infiammatoria. Nelle prime 24 ore i neutrofili sono le cellule predominanti: essi hanno il compito di “pulire” la ferita da batteri e materiale necrotico, tuttavia non sono indispensabili al processo di guarigione. Al contrario, i macrofagi sono elementi cellulari essenziali per la cicatrizzazione in quanto, oltre a fagocitare batteri e detriti, liberano citochine che con effetti endocrino, autocrino e paracrino stimolano la proliferazione delle cellule epiteliali, dell’endotelio e dei fibroblasti. Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 38 I linfociti sono reperibili nella ferita circa 72 ore dopo il trauma e svolgono un ruolo importante nei processi immunitari. Cellule infiammatorie, fibroblasti e neovasi, immersi in una matrice formata da collagene e da matrice extracellulare (fibronectina, glicosaminoglicani e proteoglicani), sono gli elementi costitutivi del cosiddetto tessuto di granulazione, la cui formazione si realizza 3-5 giorni dopo l’evento lesivo. Proliferazione tessutale Quando nella ferita il numero di cellule infiammatorie comincia a decrescere, ha inizio la fase proliferativa, caratterizzata dalla riepitelizzazione, dall’angiogenesi e dalla sintesi di collagene e di nuova matrice da parte dei fibroblasti. La riepitelizzazione avviene per attivazione delle cellule epidermiche dei margini, le quali si staccano da quelle contigue e migrano sulla superficie della ferita formando un ponte epiteliale tra i due lembi. Questo processo è facilitato da un’adeguata umidità tessutale. Una volta che l’epitelizzazione è completata, tra le cellule compaiono nuovamente i dispositivi giunzionali che le ancorano tra loro ed alla membrana basale. I fattori angiogenetici prodotti dai macrofagi, dai fibroblasti e dalle cellule epiteliali promuovono la proliferazione degli elementi endoteliali che, coalescendo tra loro, danno origine a nuovi vasi che assicurano un’adeguata perfusione tessutale, condizione indispensabile per i processi riparativi. Questi vasi scompaiono a guarigione avvenuta e la cicatrice perde progessivamente il suo colorito rosso-violaceo. Fibroplasia, produzione di collagene e sintesi di matrice extracellulare costituiscono eventi cruciali nella guarigione delle ferite: questi processi iniziano 3-5 giorni dal trauma e proseguono per 2-4 settimane. Rimodellamento Dopo l’iniziale saldatura dei lembi, la sintesi di nuova matrice extracellulare perdura per parecchie settimane e la cicatrice spesso appare rilevata e rossastra. A livello cellulare e molecolare essa va incontro a un progressivo rimodellamento che termina quando viene raggiunto l’equilibrio tra accu- mulo dei componenti extracellulari e loro degradazione ad opera delle proteasi. Contemporaneamente la densità dei fibroblasti e dei capillari si riduce in maniera progressiva e la resistenza tensile aumenta fino alla soglia dell’80%, valore corrispondente alla condizione di normalità. Fattori che influenzano la guarigione delle ferite Il processo di cicatrizzazione delle ferite cutanee può essere influenzato da parecchi fattori Età Numerosi studi hanno documentato che nell’anziano la resposività cellulare è più lenta e meno efficace. Infezioni La contaminazione batterica delle ferite rallenta la loro guarigione in quanto prolunga la fase infiammatoria. Stato nutrizionale I processi di cicatrizzazione richiedono la presenza di vitamine, cofattori e macronutrienti quali le proteine. Negli stati di carenza nutrizionale, come nel caso dello scorbuto in cui è deficitaria l’assunzione di vitamina C, anche le ferite minori hanno difficoltà a guarire. Immunosoppressione In pazienti con compromissione del sistema immunitario si osserva un rallentamento della cicatrizzazione cutanea. Farmaci Numerosi farmaci (antiblastici, GM-CSF, anestetici locali) interferiscono negativamente con la guarigione delle ferite. In particolare gli antiblastici, agendo sulla fase replicativa, si oppongono anche ai processi riparativi. Radiazioni Le radiazioni riducono sia il numero che la funzione dei fibroblasti e ciò rende più debole la cicatrice nei confronti delle forze tensive; esse inoltre Scripta MEDICA Volume 8, n. 1-2, 2005 39 provocano alterazioni vasali che compromettono la perfusione tessutale. Tali effetti possono comparire anche a distanza di parecchi anni dall’esposizione. Tabagismo Il fumo di sigaretta contiene numerose sostanze (monossido di carbonio, nicotina, acido cianidrico) che sono tossiche nei confronti dei differenti elementi cellulari che partecipano ai processi riparativi. Malattie sistemiche Il diabete e le vasculopatie periferiche, a causa della ridotta perfusione tessutale e del coinvolgimento della componente nervosa (piede neuroischemico), costituiscono un grave ostacolo nella cicatrizzazione delle ferite, in particolar modo di quelle localizzate agli arti inferiori. Stress Durante i periodi di stress prolungato si innalzano i livelli plasmatici dei corticosteroidi che, come è noto, riducono l’efficenza del sistema immunitario. una pigmentazione simile a quella della cute circostante, sebbene possano mantenersi più chiare o lievemente più scure. Cicatrice matura Cicatrice piatta di colore roseo. Cicatrice lineare ipertrofica Per esempio chirurgica/traumatica: cicatrice di colore rosso, rilevata, talora pruriginosa, i cui limiti corrispondono ai bordi dell'incisione chirurgica originaria. Il quadro si sviluppa abitualmente entro alcune settimane dall’intervento. Queste cicatrici possono aumentare di dimensioni rapidamente per 3-6 mesi e successivamente, dopo una fase stazionaria, iniziare a regredire. In genere evolvono in un aspetto rilevato, simile a un cordoncino con un aumento variabile della larghezza della lesione. Il processo di maturazione completo può richiedere fino a 2 anni. Cicatrice ipertrofica larga e irregolare Cicatrici ipertrofiche e cheloidi Cicatrici ipertrofiche e cheloidi sono forme patologiche di cicatrizzazione, in cui l’aspetto più evidente è l’eccessivo accumulo di collagene. La loro eziologia non è nota, ma certamente svolgono un ruolo importante il background genetico e l’etnia (sono più frequenti negli individui di pelle scura). La patogenesi è riconducibile a disturbi quantitativi e qualitativi delle varie tappe di cicatrizzazione. Sono più inclini a sviluppare cicatrici ipertrofiche e cheloidi le ferite che attraversano le linee di tensione cutanea o che sono localizzate ai lobi auricolari o nell’area deltoidea. La classificazione delle cicatrici che possiede maggior rilevanza clinica è quella elaborata dall’International Advisory Panel on Scar Management (Plastic and Reconstructive Surgery 2002; 110:560): Cicatrice immatura Cicatrice di colore rosso, talora pruriginosa o dolente, lievemente rilevata, in corso di rimodellamento. Molte sono destinate a evolvere in modo fisiologico nel tempo e ad appiattirsi, assumendo Per esempio da ustione: cicatrice larga e irregolare, rossa, rilevata, talora pruriginosa che si mantiene entro i limiti dell'ustione originaria. Cheloide minore Cicatrice pruriginosa, localmente rilevata, che si estende a ricoprire i tessuti normali. Essa può svilupparsi fino a 1 anno dopo la lesione originaria e non mostra alcuna tendenza alla regressione spontanea. La semplice asportazione chirurgica è spesso seguita da una recidiva. Nella formazione dei cheloidi può essere implicata un'alterazione genetica. Sedi tipiche sono i lobi auricolari. Cheloide maggiore Cicatrice di ampie dimensioni, rilevata (> 0,5 cm), che può essere dolente o pruriginosa e che si estende sopra il tessuto normale. È sovente spesso causata da un trauma di scarsa entità e può continuare a estendersi per anni. Le cicatrici ipertrofiche e i cheloidi hanno un’elevata tendenza a recidivare ed il loro trattamento si avvale di numerose opzioni, non sempre avvalorate da studi condotti scientificamente. La chirurgia Scripta M E D I C A Volume 8, n. 1-2, 2005 40 Hansaplast med Riduzione delle Cicatrici Un recente studio randomizzato di Klopp R, et al. (J Wound Care 2001) ha confrontato gli effetti sui processi di cicatrizzazione cutanea di Hansaplast med Riduzione delle Cicatrici (un cerotto di poliuretano idroattivo) con quelli ottenuti mediante una medicazione convenzionale con garza in ambiente secco. A questo proposito sono stati reclutati 60 pazienti in cui era stata praticata un’incisione chirurgica per l’asportazione di nevi in regione addominale: in 30 pazienti la ferita è stata medicata con Hansaplast med Riduzione delle Cicatrici e in 30 pazienti è stata invece applicata una garza in ambiente secco. Alla rimozione delle suture, ogni gruppo è stato suddiviso in due sottogruppi, uno solo dei quali è stato medicato per 6 settimane con Hansaplast med Riduzione delle Cicatrici, mentre l’altro non ha ricevuto trattamenti. Il follow-up è durato 12 mesi. Per valutare l’andamento della cicatrizzazione sono state utilizzate le variazioni dei seguenti parametri misurati con un elaboratore computerizzato di immagini microscopiche: - 40 Gruppo Gruppo Gruppo Gruppo 35 1 2 3 4 30 Variazione (%) interviene solo quando le terapie applicative ed introlesionali falliscono. Attualmente c’è un nuovo, diverso ed efficace metodo per la riduzione delle cicatrici cutanee: il cerotto per la riduzioni delle cicatrici di Hansaplast med. 25 20 15 10 5 0 8 settimane 12 mesi Figura 2. Riduzione dello spessore masssimo della rugosità cicatriziale in rapporto alla 4a settimana dello studio. Gruppo 1 = Gruppo 2 = Gruppo 3 = Gruppo 4 = mai trattato Hansaplast med Riduzione delle Cicatrici per 6 settimane dopo la rimozione delle suture Hansaplast med Riduzione delle Cicatrici fino alla rimozione delle suture Hansaplast med Riduzione delle Cicatrici per tutta la durata dello studio giunture e flusso del microcircolo ai bordi della ferita; spessore massimo della rugosità della superficie cicatriziale; temperatura del tessuto cicatriziale. I risultati hanno mostrato che nel gruppo che è stato medicato per tutta la durata dello studio (sia nella fase acuta, sia nelle 6 settimane dopo la rimozione delle suture) con Hansaplast med Riduzione delle Cicatrici tutti i parametri considerati hanno avuto un’andamento più favorevole, con significatività statistica. In questo gruppo merita una particolare menzione la più marcata riduzione dello spessore massimo della rugosità cicatriziale (Figura 2) che comporta ovviamente anche un migliore risultato estetico. Per ulteriori informazioni su Hansaplast med Riduzione delle Cicatrici o per ricevere gli estratti degli studi clinici pubblicati scrivere a:[email protected]