Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 DCB - Roma R I V I S TA PE R L A S C U O L A D E L L A D I O C E S I D I RO M A Editoriale: Pluralismo non solo culturale Tutta un’altra storia Il nome di Dio è Amore. La dimensione teo-logica della carità Le opere e i giorni Novità sulla valutazione IR o IRC? Un po’ di tutto o un po’ per il tutto Insegnamento della Religione Cattolica nella Scuola Primaria ed alunni diversamente abili In “media” virtus. Pluralità di strategie didattiche nella Secondaria di I grado Riprese & dettagli Incontri romani A classi aperte Notizie legali e sindacali Diario scolastico Materiali e documenti 2/2006 Religione Scuola Città Religione Scuola Città RIVISTA PER LA SCUOLA DELLA DIOCESI DI ROMA Anno XII (2006) n. 2 Sommario EDITORIALE Manlio Asta Pluralismo non solo culturale 3 Giuseppe Lorizio La Deus caritas est e la scuola 6 Direttore responsabile Angelo Zema Direttore Manlio Asta Angelo Zappelli Novità sulla valutazione 20 Mario De Luca IR o IRC? Un po’ di tutto o un po’ per il tutto 27 Antonio Passaro IRC nella Primaria e alunni diversamente abili 34 Livio Giorgioni Pluralità di strategie didattiche nella Secondaria di I grado 39 Consiglio di redazione Carmine Brienza - Giuseppe Iovino Filippo Morlacchi - Alessandro Tarzia - Grazia Palma Testa Pasquale Troìa Immagini e didascalie Pasquale Troìa Registrazione Tribunale di Roma Autorizzazione n. 137 del 11.04.1994 Progetto grafico e impaginazione Studio PardiniApostoliMaggi www.pardiniapostolimaggi.it Stampa Tipolitografia Trullo S.r.l. Via Idrovore della Magliana, 173 00148 Roma Finito di stampare nel mese di luglio 2006 www.tipolitografiatrullo.it Contributo per le spese di stampa e 15,00 in c.c.p. n. 30214001 intestato a: Amministrazione Ufficio Catechistico Vicariato di Roma indicare la causale del versamento Editore TUTTA UN’ALTRA STORIA Federico Corrubolo Un romano nel Far West 42 LE OPERE E I GIORNI Pasquale Troia Le opere e i giorni 46 RIPRESE & DETTAGLI Andrea Monda La Bella e la Bestia 53 INCONTRI ROMANI Paolo Aragona Ostia per l’Africa 59 A CLASSI APERTE M. Ferragina, C. Basile I disturbi dell’apprendimento della lettura 61 NOTIZIE LEGALI E SINDACALI Angelo Zappelli La ripartizione diocesana del secondo contingente 65 Diocesi di Roma Direzione, redazione e amministrazione Piazza S. Giovanni in Laterano, 6/a 00184 ROMA DIARIO SCOLASTICO Filippo Morlacchi Diario scolastico 67 MATERIALI E DOCUMENTI S.E. Mons. Rino Fisichella La cultura cattolica: identità e forza educativa di una tradizione 71 Editoriale S Stavolta la nostra rivista si presenta più articolata del solito. Una pluralità di voci e di temi – speriamo un coro, e non una confusione, sebbene le parziali dissonanze facciano parte della buona musica – vogliono esprimere la complessità del mondo di oggi, che si rifrange nel mondo della scuola. La storia del pensiero umano è segnata dalla tensione dialettica tra l’uno e il molteplice, l’identità e la differenze. Né un monismo parmenideo né un politeismo privo di centro possono adeguatamente «salvare i fenomeni», cioè rendere ragione della realtà. Accentuare troppo il centro significa non vedere tutta l’articolata fioritura delle infinite manifestazione della vita; soffermarsi solo sulla molteplicità dei particolari comporta l’impossibilità di cogliere il senso dell’insieme. Il mondo della scuola sembra oggi oscillare pericolosamente tra la Scilla del centralismo e la Cariddi della frammentazione. Una sperimentazione sregolata, la libertà delle istituzioni periferiche che rifiutano ogni controllo, una resistenza campanilistica del locale ad accettare logiche più ampie del proprio piccolo orticello sembra affiancata oggi da un rigurgito di centralismo. E forse questa seconda tendenza è più vivace e preoccupante dell’altra. Ne è prova – ci sembra – la recente polemica sulla valutazione dell’IRC. Angelo Zappelli, che ne ricostruisce le dinamiche, lascia intendere che su questo campo si so- Pluralismo – non solo culturale 3 no sovrapposte ingiustamente le prescrizioni di diversi soggetti istituzionali, che hanno prevaricato la legittima autonomia dichiarata dal DPR 275/99. Non sarebbe stato possibile lasciare alle singole istituzioni scolastiche decidere se compilare la valutazione di religione in una scheda a parte o invece insieme alle discipline? Il principio della personalizzazione, la logica dell’apprendimento, l’attenzione al territorio e tante altre innovazioni che sono ormai patrimonio condiviso della riflessione pedagogico-didattica e della nuova scuola suggeriscono che sarebbe bene evitare tutte le superflue imposizioni dall’alto, cercando invece di promuovere le iniziative locali, pur senza dimenticare la necessaria coesione del corpo sociale e l’orientamento condiviso al bene comune. Il principio di sussidiarietà, uno dei cardini della dottrina sociale della Chiesa, lo ripete da decenni. Il contributo del prof. De Luca ritorna ancora sul tema dell’«avalutatività» nell’IRC. Uno studio onesto del fenomeno religioso nella sua integrità non può limitarsi alla presentazione asettica di riti e fenomeni, senza sforzarsi di lasciar cogliere agli alunni il “profumo” della sensibilità religiosa e della fede. Sarebbe come voler insegnare scienze motorie senza mai portare gli alunni in palestra o fare un corso di cucina senza mettersi alla prova con i fornelli. La scuola deve formare per la vita, e non chiudersi in astrazioni autoreferenziali. Ecco perché in questo numero ci siamo occupati, ad esempio, di alunni diversamente abili (A. Passaro), e inauguriamo una nuova rubrica curata da M. Basile e C. Basile, intitolata «A classi aperte», in cui verranno offerte riflessioni per aiutare – anche nell’ora di religione – alunni in difficoltà. Sulla stessa linea si collocano le riflessioni di L. Giorgioni sulle diverse strategie didattiche nella scuola secondaria di I grado. Il vero pluralismo nella scuola, oggi tanto sbandierato, non deve significare la sostituzione di una cristianità tramontata con una diversa omogeneità, ma la valorizzazione sincera e accogliente delle differenze reali che ciascuna classe e ciascuna scuola esprimono. Le differenze reali: non quelle previste nella mente di un legislatore centralistico che vuol imporre le sue norme – che siano favorevoli o sfavorevoli alla Chiesa, in questa sede non conta –, tornando a fare della scuola l’espressione pe4 riferica di una struttura verticistica invece che la manifestazione viva della concreta comunità territoriale. La Chiesa, pur con le inevitabili lentezze ed imperfezioni legate alle fragilità degli esseri umani che la compongono, ha sempre saputo mettersi in ascolto delle differenze e delle originalità di ciascuno, come ricorda l’articolo di F. Corrubolo. L’auspicio è che la scuola impari a diventare davvero la scuola di tutti. Un evento ecclesiale di rilevanza culturale come la pubblicazione di una lettera enciclica non poteva esser trascurato in una rivista per insegnanti. Ecco allora l’impegnativo articolo di Mons. Lorizio, che può costituire una lettura formativa e di ricco contenuto per approfondire i temi sviluppati dal Papa e utilizzare con maggior consapevolezza e competenza questo documento magisteriale anche nell’attività didattica. Per chi trovasse troppo difficile questo approccio, la rubrica di cinema, dedicata stavolta al cartone animato de “La Bella e la Bestia” offre una proposta più semplice e direttamente fruibile per affrontare il tema dell’amore gratuito che «rende amabile ciò che ama». Un augurio di una serena estate agli IdR e a tutti i nostri lettori. Manlio Asta In copertina: Luigi Fillia, Case di Lerici, Torino, Galleria Civica d’Arte Molteplici e varie metafore hanno figurato la scuola in tutta la sua storia, sia nel lessico dei pedagogisti e degli insegnanti che in quello degli studenti. Ma forse un unico denominatore di sana retorica li accomuna: la scuola come casa. Già in ebraico era chiamata bet midrash (“casa della ricerca”); essa non è un luogo qualsiasi, né un non-luogo (secondo l’invenzione lessicale dell’antropologo etnologo M. Augé). È un luogo abitato: una piccola oikoumene, una terra dove gli abitanti la qualificano. È una casa dove la comunità e le sue relazioni la qualificano come habitat di persone (il senso di Gemeinschaft [“comunità”] deve pur prevalere su quello di Gesellschaft [“società”]). È una comunità dove le relazioni sono quasi parentali (il maestro genera alla cultura i suoi studenti, per cui anticamente era chiamato padre e reciprocamente chiamava figlio il suo studente). Una comunità educante in cui entri bambino e diventi grande (anche se non sempre adulto). Una scuola a colori – come le case di questa immagine – è la speranza di una comunità dai colori della diversità culturale, religiosa, sociale e civile. Se la speranza non è colorata dai sogni degli abitanti di queste case, vana è la nostra opera di docenti e di genitori. Come illusorio è quanto lasciamo credere di insegnare ai nostri studenti. 5 Il nome di Dio è Amore. La dimensione teo-logica della carità di Giuseppe Lorizio* «Chi è Dio?», la domanda risuonava nella ricordava molto da vicino quello aristotelichiesetta adibita ad aula di catechismo, deco, cui l’enciclica Deus caritas est dedica un’importante citazione, in un passaggio clamata dalla voce stridula ma decisa della decisivo e fondasuora e non passava mentale, nel quale, che qualche secondo Il prof. Lorizio ci offre una dotta riflessione mentre da un lato perché il folto grupsull’enciclica di Benedetto XVI «Deus carinon si nega il po di fanciulli, rigotas est». Mettendo a confronto metafisica profondo valore del rosamente diviso fra dell’essere e metafisica dell’amore, il testo pensiero greco-arimaschietti e femmipapale viene attentamente riletto, riporstotelico, si marca nucce, scandisse a tando con ampiezza gli autori che vi sono anche la differenza sua volta la risposta: citati, in particolare lo Pseudo Dionigi, di teo-logica rispetto al «Dio è l’Essere percui viene messo in luce l’apporto innovatomessaggio biblico, fettissimo Creatore e re rispetto alla precedente tradizione pagagià veterotestamentaSignore del cielo e na (Platone), giudaica (Filone) e cristiana rio: «La potenza didella terra», per ag(Gregorio Nisseno e Origene). Confrontanvina che Aristotele, giungere, poco più dosi con la più recente riflessione teologica, al culmine della filoavanti che Egli «ci ha l’autore argomenta che la presunta opposisofia greca, cercò di creati per conoscerlo, zione tra verità e carità è solo un falso dicogliere mediante la amarlo e servirlo in lemma. La presentazione della riflessione riflessione, è sì per questa vita, e per godi A. Rosmini sul tema dell’amore e le posogni essere oggetto derlo poi nell’altra, sibili applicazioni all’IRC concludono questo impegnativo contributo, che può aiutadel desiderio e dell’ain paradiso». Formure gli IdR a comprendere meglio – e dunmore — come realtà le la cui comprensioque sfruttare in maniera ottimale anche amata questa divine, nonostante le nell’attività didattica – l’enciclica. nità muove il mondo maldestre spiegazio—, ma essa stessa ni che ci venivano non ha bisogno di niente e non ama, solofferte, ci sfuggiva, ma che racchiudevano e tanto viene amata. L’unico Dio in cui Israecustodivano una sapienza antica, richiamale crede, invece, ama personalmente. Il suo ta a salvaguardia della trascendenza divina, amore, inoltre, è un amore elettivo: tra tutti che il pensiero moderno in modalità diveri popoli Egli sceglie Israele e lo ama — con se, ma sempre ideologicamente configurate, lo scopo però di guarire, proprio in tal mocercava di negare ed eludere. Si trattava ando, l’intera umanità. Egli ama, e questo suo che di formule il cui impianto speculativo * Preside dell’ISSR “Ecclesia Mater” e ordinario di Teologia Fondamentale nella Pontificia Università Lateranense. 6 Fonografo Pathé, modello 1907 Riprodurre è un’azione che descrive e connota un obiettivo dell’insegnare. È sinonimo (un po’ sintetico) di azioni che mirano a verificare le capacità dello studente di riproporre, dire a memoria, indicare qualcosa di precedentemente visto/ascoltato…, insomma un «fare memoria». Cioè si chiede al ragazzo di essere un riproduttore, un fonografo (per usare un termine arcaico). E tale abilità riguarda tutto ciò che fa parte del passato, di ciò che è già avvenuto, è già stato detto, visto, fatto… È quella parte del passato che deve diventare memoria. Solo in relazione alla memoria lo studente può fare da fonografo. Diversamente sarebbe un immemore ripetitore “temporis acti”, allorquando l’insegnante inserisce un gettone o comincia a girare quella manovella che dà motore e movimento al fonografo che – se non è rotto – comincia a riprodurre. Oggi gli studenti spesso sono molto “rotti” ad avere a che fare con un passato trapassato, che non permette di acquisire competenze e spesso restituisce soltanto l’odore di muffa e non il profumo della tradizione e dell’antichità. amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape» (DCE, n. 9, sottolineatura mia). 1. Metafisica dell’esodo Una lunga tradizione speculativa, nata da un geniale fraintendimento del testo biblico, aveva alimentato la “metafisica dell’Esodo”, elaborata su base agostiniana, strutturata e formulata nelle diverse tonalità dell’ontologia ispirate dalle dottrine tommasiane dell’«Ipsum esse subsistens» e dell’«actus essendi», secondo le due linee convergenti, caratteristiche della «filosofia cristiana», disegnate da É. Gilson: quella della perfezione e quella dell’infinità, entrambi qualificazioni dell’Essere da cui si diramano1. Felix culpa! dovremmo dunque esclamare di fronte a questo fraintendi1 mento di Es 3,14, se da esso si è generata tanta e così alta speculazione non solo teologica, ma filosofica. Quanto ad Agostino, al di là dei problemi filologici che una corretta ricostruzione del testo di Confessioni XIII, 31,46 pone, penso possa essere utile sottolineare l’orizzonte pneumatologico in cui situa il nostro rapportarci al bene. «Attraverso lo Spirito – scrive l’Ipponate – noi vediamo come tutto ciò che in qualche modo è, è buono, poiché è da colui che non è in qualche modo, ma è Colui che è» [«per quem videmus, quia bonum est, quidquid aliquo modo est: ab illo enim est, qui non aliquo modo est, sed quod est est»]. Non bisogna tuttavia dimenticare che una lettura (fraintendimento) in chiave ontologica del testo veterotestamentario era già stata intravista da quel grande mediatore cultu- Cfr É. GILSON, Lo spirito della filosofia medievale, Morcelliana, Brescia 19833, p. 65. 7 rale fra Bibbia e filosofia (Atene e Gerusalemme) che fu Filone Alessandrino: «Fra le virtù quella di Dio sussiste davvero dal punto di vista ontologico, poiché Dio è il solo che resti saldo nell’essere. “Io sono colui che è” (Es 3,14) fa comprendere che le realtà a Lui inferiori non sono, dal punto di vista ontologico, veri e propri esseri, bensì sono considerate sussistenti solo nell’opinione corrente» 2. Che è come dire l’ente o è creato o è nulla, ossia o è amato o non esiste. Ma con questo siamo ancora nell’orizzonte ebraico, ovvero possiamo ancora intendere questo rapporto di amore come rapporto fra Dio, il mondo e l’uomo3. Il messaggio cristiano interviene a dire che Dio è amore in sé e non solo in rapporto al mondo e all’uomo, ossia offre la prospettiva trinitaria come unico possibile coerente svolgimento della metafisica agapica. La Rivelazione sarà dunque manifestazione di questo amore e la sua credibilità apparterrà unicamente alla sua virtus amativa4. Alla precedente indicazione ontologica possiamo accostare almeno due altre acute osservazioni filoniane, la prima delle quali ha il senso di un monito: «Egli dice: Io sono colui che è il che equivale a la mia natura è di essere, non di essere nominato. Ma perché il genere umano non sia privato del tutto di una denominazione da dare al Bene supremo, Egli concede loro di servirsi di questo nome: Signore Iddio delle tre nature: l’insegnamento, la perfezione e l’esercizio, di cui nelle Scritture sono simboli Abramo, Isacco e Giacobbe»5. Infine un invito: la “risposta oracolare” data a Mosé è tale da lasciar intendere che «non essendovi in Dio alcuna cosa che l’uomo sia in grado di afferrare con la mente, egli ne conosca almeno l’esistenza»6. Rispetto alle questioni connesse con la “metafisica dell’Esodo”, Edith Stein, rifacendosi proprio al luogo agostiniano sopra citato, annoterà: «Mi sembra molto importante che a questo punto non si dica: “Io sono l’essere” oppure “Io sono l’ente”, ma invece “Io sono colui che sono”. Quasi non si osa chiarire queste parole con altre. Tuttavia, se l’interpretazione agostiniana è esatta, si può dedurre: colui il cui nome è “Io sono”, è l’essere in persona»7. Solo un essere personale, infatti, può creare. E qui incrociamo il luogo forse speculativamente più rilevante della nostra enciclica, dove leggiamo: «L’amore appassionato di Dio per il suo popolo – per l’uomo – è nello stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia. Il cristiano vede, in questo, già profilarsi velatamente il mistero della Croce: Dio ama tanto l’uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore. L’aspetto filosofico e storico-religioso da rilevare in questa visione della Bibbia sta nel fatto che, da una parte, ci troviamo di fronte ad un’immagine strettamente metafisica di Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose – il Logos, la ragione primordiale – è al contempo un amante con tutta la passione di 2 Quod deterius, 159, in FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, Bompiani, Milano 2005, p. 525. 3 Cfr F. ROSENZWEIG, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005. 4 Cfr H.U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, Borla, Roma 1977. 5 De mutatione nominum, II, 11-12, in FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati…, cit., p. 1549. 6 De somniis, I 231, in ibid., p. 1735. 7 E. STEIN, Essere finito ed essere eterno. Per un’elevazione al senso dell’essere, Città Nuova, Roma 19994, p. 367. 8 un vero amore. In questo modo l’eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da fondersi con l’agape» (DCE, 10). 2. Metafisica agapica Questa visione erotico-agapica di Dio affonda le sue radici in un’antica tradizione, quella che potremmo denominare, senza volerla in alcun modo contrapporre alla precedente, della “metafisica agapica” o “metafisica della carità”. Lo stesso pontefice, acuto interprete di Agostino, rimanda non solo a questo grande maestro del pensiero credente, in alcuni passaggi significativi dell’enciclica, ma svela la fonte della sua visione erotico-agapica del Dio cristiano rimandando al cap. IV del De divinis nominibus dello Pseudo Dionigi. E questo riferimento precede quelli agostiniani, invertendo così la cronologia dei personaggi. Siamo in ogni caso anche qui di fronte a un’antica sapienza, non tanto nutrita della metafisica aristotelica, quanto del pensiero platonico, nonché di quel neoplatonismo meritevole dei primi tentativi di conciliazione fra le due grandi figure speculative dell’antica Grecia. Si tratta, per dirla con una certa brutalità determinata dall’impossibilità di fornire in questa sede adeguati approfondimenti, di declinare quella “filosofia dinamica” dell’essere, richiamata anche dalla Fides et ratio (FeR, 97) e di indicare con chiarezza e determinazione nella vis amativa la dynamis che muove Dio, il mondo e l’uomo (i tre elementi della Stella della Redenzione) e ne determina il rapporto. L’autore del corpus dionisiano osa molto (e siamo grati al suo coraggio speculativo, che tante pagine della grande filosofia cristiana ha ispirato) perché, pur nell’orizzonte apofatico, ci suggerisce di nominare Dio, nella maniera meno impropria e idolatrica possi- bile ed indica all’enciclica la prospettiva teologica ispiratrice della prima parte. Segnaliamo qui, perché a nostro avviso particolarmente istruttivi, tre luoghi o momenti attraverso cui si esprime la trasgressione nell’opera dello Pseudo Dionigi: a) rispetto a Filone; b) rispetto a Platone; c) rispetto a Gregorio di Nissa e ad Origene. Né mi sembra troppo lontana dal vero l’ipotesi interpretativa secondo cui è forse proprio a causa di queste trasgressioni (riconducibili ad un unico movimento speculativo) che l’autore non solo resta anonimo, ma chiede al suo lettore-interlocutore Timoteo di custodire nel segreto quanto è andato esponendo. a) La trasgressione rispetto a Filone riguarda il divieto di nominare Dio. Divieto sostanzialmente accolto dallo Pseudo Dionigi in linea teorica, ma di fatto trasgredito nelle pagine della sua opera sui nomi divini. Potremmo raccogliere intorno al senso di questa trasgressione alcune riflessioni, la prima delle quali concerne la pertinenza della proibizione rispetto alle possibilità dell’uomo di nominare Dio. È Lui al contrario che si nomina e nominandosi denomina gli uomini e le cose. In questo senso il nome proprio di Dio può essere solo rivelato e non attinto razionalmente. La ragione – diceva già Filone – potrà giungere ad indicarne l’esistenza, ma non a chiamare per nome il Creatore del cielo e della terra. Ma, proprio perché innominabile, a Dio si addicono molti nomi, anzi tutti i nomi: «Così dunque – scrive l’anonimo – alla Causa di tutte le cose e che è superiore a tutte le cose non si addice nessun nome e si addicono tutti i nomi delle cose che sono, perché sia regina [il termine greco è basilèa] di tutte le cose e tutte le cose gravitino intorno a lei e da lei dipendano come causa, principio e come fine ed ella, secondo il sacro detto, sia tutta 9 in tutti e sia veramente celebrata come […] custodia e domicilio [di tutte le cose]»8. Di qui dunque non l’indicazione di un solo nome, ma di una pluralità di nomi, in analogia col famoso passo della metafisica aristotelica dove si dice che l’essere si dice in molti modi [tò dé òn lèghetai mèn pôllachôs: Metafisica G 2 1003 a 33-349]. E tuttavia la polisemia non degenera in anarchia, in quanto si offre in una “gerarchia” (termine caro all’anonimo) dei nomi, che così avranno una struttura piramidale. In questo quadro alla sfera del primo nome, che è il Bene, appartengono i tre nomi di Luce, Bellezza, Amore e, solo successivamente i tre nomi di Essere, Vita, Sapienza, cui seguono tutti gli altri. b) La trasgressione rispetto a Platone riguarda l’attribuzione del termine Eros a Dio e quindi l’identificazione Eros-Agape. Il “divino” filosofo non aveva osato tanto. Egli giunge fino al punto di indicare Eros come demone, attribuendogli un ruolo di mediazione, fra il cielo e la terra, i divini e gli umani. E non è certo un caso se tale identificazione venga asserita da una donna, quella Diotima di Mantinea, il cui nome evoca la mitica figura dell’amante che ha ispirato il grande poeta F. Hölderlin, cantore peraltro della nostalgia degli dei e della Grecia felice, casa di tutti i celesti. Ma la figura dell’«eterno femminino che ci trae verso l’alto» (W. Goethe) non è solo immanente e pagana, si pensi all’Afrodite terrena e a quella celeste delle Enneadi plotiniane, richiamata proprio a proposito di Eros e della sua dimensione divina. Teilhard de Chardin ed Henri de Lubac ci hanno insegnato ad interpretare cristianamente l’eterno femminino in riferimento alla Vergine Madre, la quale «ci mostra che cos’è l’amore e da dove esso trae la sua origine, la sua forza sempre rinnovata» (DCE, 42). I commentatori non mancano di rilevare la cautela con la quale lo Pseudo Dionigi si accinge a parlare di Dio in termini erotici, soprattutto in considerazione del fatto che le Scritture non indicano mai Dio col nome di eros e solo due volte dicono che gli uomini lo devono amare usando il relativo verbo, mentre comunemente si usa come noto la terminologia legata all’agape. Ciò accade, dice l’Autore, perché il termine eros è troppo spesso inteso in senso volgare. Abbiamo bisogno quindi di una sorta di «purificazione della ragione» (formula che l’enciclica ripete tre volte, in altri contesti ai nn. 28 e 29) per poter accedere ad una prospettiva erotico-agapica, che non sia fuorviante o addirittura irriverente. Ed è la ragione purificata (o redenta) che riesce a cogliere ed esprimere il senso autentico dell’eros, ossia il suo carattere estatico. Ancora una volta la dipendenza dallo Pseudo Dionigi risulta evidente: non è l’eros ebbro e indisciplinato che può esprimere il nome divino, ma appunto l’eros estatico (DCE, 4), di cui ad esempio in questo passaggio del presunto areopagita: «L’Amore divino è estatico, in quanto non permette che gli amanti appartengano a se stessi, ma a quelli che essi amano»10, cui fa eco l’enciclica: «Sì, l’eros vuole sollevarci “in estasi” verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni» (DCE, 5), e, più De divinis nominibus, I, 7, in DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere. Gerarchia celeste - Gerarchia ecclesiastica - Nomi divini - Teologia mistica - Lettere, Rusconi, Milano 1981, pp. 262-263. 9 ARISTOTELE, Metafisica, saggio introduttivo, testo greco a fronte e commentario di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1993, II, pp. 130-131. 10 De divinis nominibus, IV, 134, in DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere, cit., 310-311. 8 10 avanti: «amore è “estasi”, ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio» (DCE, 6). c) La trasgressione rispetto ai precedenti patristici (il Nisseno e Origene) si situa sulle precedenti considerazioni e riguarda l’annotazione dei commentatori secondo cui l’originalità dell’anonimo sta proprio nell’aver innestato in Dio la prospettiva agapico-erotica, laddove chi lo ha preceduto non ha ritenuto di dover valicare il limite antropologico, interpretando i due termini e il loro nesso come atteggiamenti fondamentali dell’uomo verso Dio. La prospettiva squisitamente teologica viene comunque salvaguardata per il fatto che si tratta appunto di una erotica della grazia, pur sempre antropologicamente declinata e non innestata nella vita divina stessa e nel mistero del Dio unitrino. Richiamando ancora una volta l’Agostino, caro al teologo Ratzinger, per indicare questo percorso propriamente speculativo e, direi, metafisico, si è evocata la figura della “terza navigazione”. La navigazione a gonfie vele secondo le indicazioni della “filosofia naturalista”, a dire di Eustazio, aveva condotto Platone nelle secche dell’immanentismo, la seconda navigazione che egli intraprende coi remi lo conduce a percepire la trascendenza dell’essere, sola capace di spiegare a fondo gli stessi fenomeni fisici. Ma il grande filosofo era giunto a un limite, da lui stesso profondamente avvertito, allorché aveva intravisto la necessità di una rivelazione divina per poter procedere nel cammino: così afferma nel Fedone 85d: «Perché su tali 11 questioni a me pare, o Socrate, come forse anche a te, che avere in questa nostra vita una idea sicura, sia o impossibile o molto difficile; ma d’altra parte non tentare ogni modo per mettere alla prova quello che se ne dice, e cessare di insistervi prima di aver esaurita ogni indagine da ogni punto di vista, questo, o Socrate, non mi par degno di uno spirito saldo e sano. Perché insomma, trattandosi di tali argomenti, non c’è che una cosa sola da fare di queste tre: o apprendere da altri dove sia la soluzione; o trovarla da sé; oppure, se questo non è possibile, accogliere quello dei ragionamenti umani che sia se non altro il migliore e il meno confutabile, e, lasciandosi trarre su codesto come sopra una zattera, attraversare così, a proprio rischio, il mare della vita: salvo che uno non sia in grado di fare il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su più solida barca, affidandosi a una divina rivelazione». Ora questa terza navigazione – come suggerisce un autorevole interprete sia di Platone che di Agostino – si compie col legno-barca della croce,11 che, come abbiamo avuto già modo di constatare, l’enciclica richiama in maniera decisa e decisiva. La possibilità dunque di “raccogliere”, ossia tener insieme l’essere e Dio passa attraverso la logica dell’incarnazione e della redenzione, sicché il teologo Ratzinger, così poteva affermare: «Il primato del Logos e il primato dell’amore si rivelano identici. Il Logos non apparve più solo come ragione matematica alla base di tutte le cose ma come amore creatore fino a diventare compassione verso al creatura. La dimensione cosmica della religione che venera il Creatore nella potenza dell’essere, e la sua dimensione esistenziale, la questione della redenzione, si compenetrarono e Cfr AGOSTINO, Amore Assoluto e “Terza navigazione”, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000. 11 divennero una cosa sola […]. Il tentativo di ridare, in questa crisi dell’umanità, un senso comprensibile alla nozione di cristianesimo come religio vera deve, per così dire, puntare ugualmente sull’ortoprassia e sull’ortodossia. Al livello più profondo il suo contenuto dovrà consistere oggi – come sempre in ultima analisi – nel fatto che l’amore e la ragione coincidono in quanto veri e propri pilastri fondamentali del reale: la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro unità essi sono il vero fondamento e lo scopo di tutto il reale»12. Il fondamento agapicoerotico che Benedetto XVI ci mostra nell’enciclica rinviando implicitamente a quella che amiamo denominare una “metafisica della carità”, induce ovviamente ad escludere ogni contrapposizione dialettica fra questa prospettiva teoretica e quella derivante dalla metafisica dell’essere o dell’esodo come l’abbiamo sopra descritta. E a questo proposito ci sia consentito richiamare un altro grande maestro del pensiero credente, studiato dal teologo Ratzinger, San Bonaventura e l’icona dei due cherubini: «Il primo fissa lo sguardo, innanzi tutto e principalmente sull’Essere stesso, affermando che il primo nome di Dio è “Colui che è”. Il secondo fissa lo sguardo sul Bene stesso, affermando che questo è il primo nome di Dio. Il primo modo riguarda in particolare il Vecchio Testamento, il quale proclama soprattutto l’unità dell’essenza divina, per cui fu detto a Mosé: “Io sono Colui che sono”. Il secondo riguarda il Nuovo Testamento, il quale determina la pluralità delle Persone divine, battezzando “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”» (Itinerarium mentis in Deum, V, 2). A questo riguardo bisognerà altresì annotare come il tentativo di conciliare i nomi di- vini del bene e dell’essere e quindi la metafisica della carità con la metafisica ontologica (o ontoteologica) secondo cui il bene o dilectio riguarderebbe il mistero di Dio quoad nos, mentre l’essere indicherebbe tale mistero in sé risulti poco convincente e teologicamente non pertinente se si considera il Dio del Nuovo Testamento nella prospettiva che gli è più propria, che è quella del “Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo” e dello “Spirito di Cristo”. L’articolazione trinitaria della formula Deus caritas risulta quindi decisiva ed imprescindibile proprio sul piano o livello fondativo, ed è in questo orizzonte o fondamento agapico che si situa il principio kenotico, attraverso cui il dinamismo estatico dell’eros trova espressione e configurazione storica. «“Se vedi la carità, vedi la Trinità” scriveva sant’Agostino» (DCE, 19). La citazione del De Trinitate risulta particolarmente significativa ed apre alla necessità dell’articolazione trinitaria della metafisica agapica, escludendo altresì il falso dilemma, molto attuale in alcuni settori della teologia contemporanea, tendente a contrapporre verità e carità. 3. Tra verità dell’essere e verità dell’amore L’attitudine antimetafisica di alcuni esiti del pensiero Novecento, soprattutto in quello che è stato definito l’ambito continentale, e che si potrebbe anche denominare ermeneutico, mette in campo un ulteriore falso dilemma, coinvolgendo in esso lo stesso cristianesimo, la cui concezione della carità sarebbe radicalmente alternativa rispetto al concetto di verità elaborato in sede metafisica13. In questa sede propriamente filosofica stupisce in particolare la confusione, ripetuta a mo’ di ritornello, fra la dimensione J. RATZINGER, «La verità cattolica», in Micromega 2/2000, p. 53. Si pensi alle posizioni convergenti di G. Vattimo e R. Rorty, recentemente riproposte in R. RORTY – G. VATTIMO, Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, Garzanti, Milano 2005. 12 13 12 oggettiva del vero (che ovviamente dal nostro punto di vista è irrinunciabile) con la prospettiva oggettivante (attribuita appunto ad una interpretazione in chiave metafisica della verità). Il rifiuto, certamente condivisibile, della seconda prospettiva, sembrerebbe dover necessariamente determinare la rinuncia ad ogni forma di oggettività, in particolare in ambito religioso, la cui appartenenza va ancora una volta reclusa nel privato delle coscienze, appunto soggettive. Queste tesi, peraltro molto diffuse non solo in Italia, in quanto tendenti ad esasperare la tematica della kenosi, come autosvuotamento di Dio, non mancano di esercitare un influsso non marginale anche su alcune proposte teologiche recenti14, tendenti ad esempio ad indicare il dinamismo kenotico in sede intratrinitaria15, come principio e fondamento della logica della fede cristiana, che a questo punto andrebbe meglio denominata come una vera e propria (il)logica16. Dal punto di vista invece di un’autentica logica della fede, mi sembra sia più corretto esprimersi in questi termini: la logica della fede cristiana ri-conosce il proprio principio nella kenosi del Logos, ovvero nel Lògos sarx eghèneto (Gv 1,18), dove il verbo dice riferimento al carattere storico di tale principio, e attraverso tale principio scopre il proprio fondamento nel nome del Dio neotestamentario che è ho Theòs agàpe estìn (1Gv 4,8). Sicché la logica della fede cristiana ha un principio kenotico e un fondamento agapico su cui poggia e attraverso i quali si costituisce e si esprime. Il principio kenotico va tuttavia interpretato e riflesso nella dinamica propria dell’inno della lettera ai Filippesi (2,6-11) in cui è attestato, dove alla kenosi del servo fa riscontro la sua esaltazione e glorificazione. Questa impostazione 14 «Con la fine della metafisica, scopo delle attività intellettuali non è più propriamente la conoscenza della verità, bensì quella “conversazione” nella quale ogni argomento ha il fondato diritto di trovare un accordo senza ricorrere ad alcuna autorità. Lo spazio lasciato vuoto dalla metafisica non deve più essere riempito da nuove filosofie che pretendano di esibire un fondamento estraneo alla “conversazione”. Nella cultura contemporanea questa posizione non è rappresentata solo dall’ermeneutica, ma anche da scienziati come Thomas Kuhn e Artur Fine, da filosofi come Robert Brandom e Bas van Frassen e di teologi come Jack Miles e Carmelo Dotolo [di quest’ultimo si cita La rivelazione cristiana. Storia, evento, mistero, Paoline, Milano 2002]» (S. ZABALA, «Introduzione. Una religione senza teisti e ateisti», in R. RORTY – G. VATTIMO, op. cit., p. 21). Un’analoga tendenza, forse molto meglio mascherata, a contrapporre carità e verità, nell’orizzonte antimetafisico, la rinveniamo in V. MANCUSO, Per amore. Rifondazione della fede, Mondadori, Milano 2005, dove leggiamo: «La verità infatti non è un teatro metafisico nascosto dietro chissà quale stella, ma è il bene degli uomini all’interno della vita concreta che coincide, ultimamente, con il bene della loro anima» (p. 39), e più avanti: «Ciò che è in gioco nella fede non è il soprannaturale; di esso “non si deve farne un oggetto, altrimenti lo si abbassa”, insegna Simone Weil. Ciò che è in gioco, piuttosto è questo mondo» (p. 40), «Se si vuol essere cristiani, non si tratta di professare una dottrina. Si tratta di lavorare» (p. 252) ecc. con i soliti luoghi comuni contro l’intellettualismo che caratterizzerebbe la sottolineatura della valenza veritativa della fede cristiana. Tra le altre posizioni teologiche nelle quali la tematica della kenosi assume un rilievo fondativo ed esclusivo, cfr K. RUHSTORFER «Credere e pensare: la presenza della rivelazione in occidente», in Il regno attualità 50 (2005) pp. 343-355. 15 Ad esempio H. U. von Balthasar sostiene che «l’annichilamento di Dio (nell’incarnazione) ha la sua possibilità ontologica nell’autorinuncia eterna di Dio, la sua donazione tripersonale». Di qui deriverebbero e qui si fonderebbero la kenosi della creazione, con particolare riferimento alla libertà creata e quella della croce. Per questa sintesi del pensiero balthasariano utilizziamo F. G. BRAMBILLA, Il Crocifisso risorto. Risurrezione di Gesù e fede dei discepoli, Queriniana, Brescia 1998, pp. 241-242, il quale non manca di rilevare il debito balthasariano verso Bulgakov, «liberato dalle sue escrescenze sociologiche» (ib., p. 241). Giustamente, a nostro avviso, L. Ladaria rileva come la tesi di von Balthasar risulti certamente suggestiva e particolarmente significativa in ordine al tentativo di pensare l’Assoluto in prospettiva agapica, ma anche come il termine kenosi vada più realisticamente applicato alla vicenda del Figlio e quindi alla sua vicenda storica e risulti problematico inserirlo nella trinità immanente, se non attraverso un’analogia troppo spinta, che finisce con lo smarrire il senso stesso della parola (cfr a tal proposito L. LADARIA, La Trinità mistero di comunione, Paoline, Milano 2004, pp. 226-227). Analoghe osservazioni critiche si possono altresì rivolgere all’utilizzo del termine kenosi in rapporto alla creazione. Come abbiamo rilevato in altra occasione, rifacendoci a Rosmini, il nascondersi di Dio va posto piuttosto in relazione alla vicenda del peccato e trova un suo ulteriore momento drammatico di nascondimento nella croce. 16 Coerentemente con una prospettiva radicalmente antimetafisica o postmetafisica, questa tendenza alla illogica viene richiamata da V. VITIELLO, «La metafisica della seconda persona», in Hermeneutica. Annuario di filosofia e di teologia, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 34-37. 13 fondamentale del tema impone un’articolazione che ci sembra di poter esporre secondo i seguenti passaggi: a livello gnoseologico, la logica della fede cristiana esige un pensiero rivelativo, nel quale il riconoscimento del vero non può mai essere disgiunto dall’esercizio della libertà e dal coinvolgimento della carità; in secondo luogo la logica della fede cristiana è una logica del paradosso (nei tre sensi – dirompenza, antinomia e compimento – che abbiamo indicato altrove); in terzo luogo la logica della fede cristiana è una logica simbolico-sacramentale, o se si vuole “eucaristica” (anche per questo aspetto rimandiamo ad altri nostri lavori). Il fondamento agapico della logica cristiana esige a sua volta che l’ontologia e la metafisica che vi si dischiudono debbano essere intese e sviluppate nel senso di una ontologia trinitaria e di una metafisica della carità. Si tratta, per il teologo fondamentale, della capacità di credibilità che solo l’amore può ingenerare e sviluppare e l’aggancio con le precedenti riflessioni è costituito dalla possibilità (che per chi scrive è una vera e propria necessità) di innestare la tematica della “credibilità” dell’amore nel quadro della prospettiva agapica. In questo senso vengono a coincidere la credibilità della Rivelazione con quella dell’amore17. Questo momento della nostra riflessione può felicemente incrociare un famoso frammento 582 di Pascal: «Ci facciamo un idolo della stessa verità; perché la verità senza la carità non è Dio, è la sua immagine e un idolo che non bisogna amare né adorare; e meno ancora bisogna amare o adorare il suo contrario che è la menzogna»18. Una pro- spettiva di particolare interesse, nella quale l’orizzonte amativo si coniuga felicemente con l’istanza veritativa e la riflessione sulla libertà e il suo esercizio, possiamo rinvenirla in sede fenomenologica, frequentando sia la prospettiva scheleriana dell’«amore che fa vedere»19, dove si ha modo di ritrovare una feconda attenzione alla figura del “pensiero rivelativo”, sia le riflessioni di Dietrich von Hildebrand, dove l’essenza dell’amore, come “risposta al valore”, assumendo la forma della Überverantwort, si declina in termini di coinvolgimento fra l’aspetto del dono e quello della libertà. Il luogo in cui queste dimensioni si armonizzano è da rinvenirsi nell’affettività, dove conoscenza e volontà svolgono ciascuna nel suo ambito il loro ruolo. La figura dell’amore sponsale, in questa prospettiva fenomenologica, svolge un ruolo paradigmatico rispetto alle altre forme di amore e alle loro espressioni. In ogni caso la dimensione della gratuità del dono non viene ad annientare la responsabilità della volontà libera, bensì a farle assumere un atteggiamento di cooperazione nella sanzione della relazione affettiva. Hildebrand così riassume il proprio pensiero a riguardo: «Vediamo dunque che ci sono due dimensioni della donazione di sé. La prima è di natura puramente affettiva. Ha il carattere di un dono che non ci possiamo dare volendolo, che è una pure voce del cuore. [La seconda è la voce del nostro libero nucleo personale = Die Zweite ist die Stimme unseres freien Personzentrums – espressione non presente nella traduzione italiana]. La seconda è il sanzionamento della presa di 17 Cfr H. U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, cit.; su questo tema balthasariano cfr R. FISICHELLA, Hans Urs von Balthasar. Dinamica dell’amore e credibilità del Cristianesimo, Città Nuova, Roma 1981. Alla “credibilità dell’amore” è stato intitolato il convegno celebrativo del centenario della nascita del teologo svizzero organizzato per ottobre 2005 presso la Pontificia Università Lateranense. 18 B. PASCAL, Pensieri, Opuscoli e Lettere, a cura di A. BAUSOLA, Rusconi, Milano 1978, p. 661 (fr. 582 Brunschvicg = 597 Chevalier). 19 Cfr il bel libro di G. DE SIMONE, L’amore fa vedere. Rivelazione e conoscenza nella filosofia della religione di Max Scheler, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005. 14 posizione donativa, affettiva dell’amore. Solo quando si hanno entrambe, la donazione di sé raggiunge il suo carattere pieno»20. La fenomenologia, anche quando tratta dell’amore di Dio, evita accuratamente ogni riferimento intradivino e, coerentemente col suo metodo e con le sue impostazioni, resta sul terreno più propriamente antropologico ed ontologico, lasciando alla teologia ulteriori approfondimenti. Concluderei osservando che la riflessione sul rapporto fede/ragione, sviluppata nell’ambito della “metafisica agapica” da un lato non intende instaurare alcuna alternativa rispetto alla classica “metafisica dell’essere”, ma consentire al lumen Revelationis di rivestirla della nuova luce che emana dal Vangelo; d’altro lato rende fondamentalmente estrinseca la domanda circa il rapporto della fede con la ragione e della teologia con la filosofia nei termini di una “filosofia prima” oppure di una “filosofia ermeneutica”. Inoltre il ricorso alla prospettiva della “metafisica agapica” consente di evitare una sorta di “riduzionismo ontologico”, nonché di ripensare radicalmente il modulo teologicofondamentale della triplex demonstratio, che – spesso anche per ragioni condivisibili – stenta a lasciarsi superare soprattutto nelle proposte elaborate in ambito tedesco, anche di recente21, intrecciandosi e non di rado confondendosi col “modello antropologico trascendentale”, magari rivisitato e riproposto in forme diverse. Infine la prospettiva da noi adottata consente di smascherare il falso dilemma tendente a porre in alternativa verità e carità. A questo proposito vale la pena richiamare un passaggio dell’omelia pro eligendo Pontifice, nella quale l’allora, ancora per poco, cardinale J. Ratzinger così si esprimeva: «Ed è questa fede – solo la fede – che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1Cor 13, 1)». 4. Le forme della carità in Antonio Rosmini La tematica del Deus Caritas ha svolto un ruolo preminente nella speculazione rosminiana. L’unità e trinità di Dio risplende nell’essere uno e triniforme. Da notare che è l’essere che riflette Dio, non viceversa, e la struttura agapica è determinante, anche perché, come Dio e l’essere, la carità è una e trina: alla forma dell’essere reale corrisponde la carità temporale (quella per es. esercitata dalle nostre Caritas); all’essere ideale, la carità intellettuale (penso ad esempio al progetto culturale e ad ogni attività di servizio teologico nella Chiesa); all’essere morale, la carità spirituale (penso al dono di sé di quanti sono perseguitati e messi a morte solo perché cristiani, ma anche alla martyria testimonianza che siamo chiamati ad vivere nel quotidiano). D. VON HILDEBRAND, Essenza dell’amore, introduzione, traduzione, note e apparati di P. PREMOLI DE MARCHI, Bompiani, Milano 2003, p. 191. 21 Risulta fin troppo evidente nella strutturazione dell’Handbuch der Fundamentaltheologie l’adozione di questo modulo: Cfr W. KERN H. J. POTTMEYER - M. SECKLER (edd.), Corso di teologia fondamentale. Vol. I: Trattato sulla religione; vol. II: Trattato sulla rivelazione; vol. II: Trattato sulla Chiesa; vol. IV: Trattato sulla gnoseologia teologica, trad. it. Queriniana, Brescia 1990; ma esso viene a determinare strutturalmente ad esempio anche le proposte di H. VERWEYEN, La Parola definitiva di Dio. Compendio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 2001; J. WERBICK, Essere responsabili della fede. Una teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 2002. 20 15 Il cap. VI della sezione VIII delle Costituzioni dell’Istituto della Carità22 contiene la descrizione e la gerarchizzazione delle tre forme della carità. Tutta la sezione, che riguarda le diverse opere di carità, si apre con un articolo concernente l’universalità della virtù teologale, espressa in questi termini: «L’amore è l’atto con cui la volontà tende verso il bene, ed è puro e perfetto quando non tende che verso il bene: infatti allora l’uomo vuole solo il bene, e perché è bene. Perciò questa volontà ama il bene dovunque sia, e ama di più quello che è più bene, e in tutto cerca il massimo bene. Quindi chi non ama Dio, che è il massimo bene, semplicemente neppure ama: se infatti amasse veramente, certo amerebbe Dio. E perciò la Scrittura parla semplicemente dell’amore come della vera carità, quando dice: “Chi non ama rimane nella morte” (1 Gv 3,14); e: “le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato” (Lc 7,47). Non dice “Chi non ama il fratello”, ma solo: “Chi non ama”, e neppure: “Poiché ha amato me”, ma “Poiché ha amato”. Infatti l’uomo che ha veramente in sé l’amore vuole ogni bene, perché vuole solo il bene, e così vuole il bene che c’è in Dio, il quale è bene senza attributi, e il bene che può esserci nell’uomo per qualità e partecipazione. E ciò significa amare Dio e l’uomo. Da ciò si vede che la carità è di sua natura universale, perché si estende a tutti i beni, secondo la specie e il grado di bontà per cui ciascuna cosa è buona»23. Ma, aggiunge il testo, sebbene l’uomo sia dotato da Dio di un cuore capace dell’infinito, tuttavia egli «per la limitatezza delle sue forze e soprattutto per la piccolezza del suo corpo, non può fare, per quanto sta in lui, se non poche delle molte cose che vorrebbe. Perciò ognuno, nell’esercizio pratico della carità deve porsi saggiamente un limite, perché i suoi sforzi, rivolti a molte cose, non si disperdano inutilmente. E quindi in questa comunione di fratelli, per valutare le forze dei singoli e adattare loro gli uffici di carità, sono stabiliti coloro che si giudicano più dotati di scienza e discrezione, con il compito di adattare i pesi alle forze di ciascuno e distribuire gli uffici di carità fra molti in modo che ognuno compia il massimo bene possibile, e dalle opere dei singoli messe insieme provenga il massimo bene che si può ottenere con il lavoro concorde di molti. E dato che dallo sforzo di molti, che collaborano concordemente e sono mossi da un’unica intenzione, si può avere un bene maggiore che se le stesse persone lavorassero singolarmente e separate, seguendo il loro giudizio personale; da ciò si capisce quanto tutti coloro che amano veramente debbano amare questa comunione di fratelli, poiché essa è il mezzo senza cui non si può compiere il bene maggiore»24. Dalla universalità della carità si fa provenire «quell’aurea indifferenza a qualunque opera di carità. Infatti, chi desidera il maggior bene possibile, deve guardare non solo a quello che fa lui direttamente, ma a tutto ciò che dall’opera sua ridonda nella somma di tutti i singoli beni. Quindi, anche se a lui sembra di fare poco bene, capirà tuttavia quanto grande diverrà quel poco di bene per il fatto che serve al grande bene che si accumula dall’opera di tutto il corpo della Società; e certo lui da solo non potrebbe fare 22 Il testo, pubblicato per la prima volta in edizione integrale, naturalmente in lingua latina, nel 1875 a Londra, porta come titolo completo Constitutiones Societatis a Charitate nuncupatae. Qui utilizzeremo la traduzione italiana che accompagna l’edizione critica curata da D. SARTORI (Città Nuova – CISR, Roma, Stresa 1996 = EC, 50). 23 EC, 50, pp. 436-437. 24 EC, 50, pp. 436-439. 16 di più, e nemmeno i singoli senza un’unica direzione»25. A proposito delle forme della carità, bisogna ricordare che il testo richiama ai membri dell’Istituto una indicazione fondamentale, che, ispirata alla suprema regola dell’umiltà, li invita a rimanere nello stato di vita comune a tutti i fedeli (il laicato) e a non cercare di diventare presbiteri o dottori se non in seguito alla chiamata divina e al suo severo discernimento26. Ed ecco come vengono descritte le tre forme di carità: «Gli uffici di carità, rispetto al bene del prossimo, a cui tendono direttamente, sono di tre specie. La prima specie comprende quegli uffici che tendono a giovare immediatamente al prossimo in ciò che riguarda la vita temporale: e questa si può chiamare carità temporale. La seconda specie comprende quegli uffici che tendono a giovare immediatamente al prossimo nella formazione del suo intelletto e nello sviluppo delle sue facoltà intellettuali: e questa si può chiamare carità intellettuale. La terza specie comprende gli uffici di carità che tendono a giovare al prossimo in ciò che spetta alla salvezza delle anime: e questa si può chiamare carità morale e spirituale»27. La terza forma della carità viene chiamata morale, in quanto «dispone l’uomo a compiere i doveri morali» e spirituale, in quanto è la stessa carità «elevata all’ordine soprannaturale, per cui l’uomo aderisce a Dio, ciò a cui tendono i mezzi religiosi con cui l’uomo, ottenuta la divina grazia, può adempiere gli obblighi morali»28. In analogia con le tre forme dell’essere si dà dunque un primato della terza forma sulle altre due, poiché «la carità spirituale tende a dare al prossimo ciò che è bene di per sé e solo bene, cioè la vita eterna. Invece la carità temporale e l’intellettuale offrono agli uomini soltanto beni relativi e parziali, che si possono dire beni solo in quanto sono ordinati con l’intenzione al bene assoluto della carità spirituale e ad esso in qualche modo dispongono. Perciò, parlando in senso stretto, le tre suddette specie di carità appartengono ad una sola [...], e quindi dobbiamo esercitare la carità temporale e l’intellettuale solo al fine di salvare le anime e di onorare nelle persone il nostro Dio e Signore Gesù, che volle prendere su di sé i bisogni di tutti noi»29. E aggiunge: «La principale e suprema specie di carità è la terza, che tende ad un bene più grande e più vero; poi eccelle la seconda specie, perché la formazione dell’intelletto è la più importante delle cose temporali e serve più da vicino alla specie suprema; la prima invece è la minima specie di carità»30. Il lavoro di chi si occupa di teologia (e conseguentemente di chi insegna religione) nella Chiesa e nella società civile va dunque annoverato nell’esercizio della forma intellettuale della carità e chiama in causa il rapporto fra Verità e Carità. La carità viene descritta come “via” della verità e sua “pienezza”, per cui l’Istituto dovrà «custodire in modo preclaro, contemplare ed indagare la verità, promuovendo in modo ottimo ed instancabile la cognizione della verità fra gli EC, 50, pp. 438-441. «Poiché lo stato che noi scegliamo è quello dell’umiltà e ci collochiamo fra i discepoli e non fra i maestri d’Israele, non dobbiamo abbandonare questo stato a noi carissimo senza un valido motivo e, quando possiamo, dobbiamo preferire quella carità che è propria di tutti i fedeli, assumendo lo stato di dottori e pastori solo quando si rende evidente la divina chiamata» (EC, 50, pp. 468-469). 27 EC, 50, pp. 466-469. 28 EC, 50, pp. 468-469. 29 EC, 50, pp. 468-469. 30 EC, 50, pp. 468-469. 25 26 17 uomini. Di qui deriva il genere di carità che abbiamo chiamato intellettuale, il quale tende immediatamente ad illuminare ed arricchire di cognizioni l’intelletto umano»31. La ricerca e la condivisione del vero, in quanto esercizio della carità intellettuale, si deve compiere nell’orizzonte della profonda unità, che, nella prospettiva sapienziale propria del Roveretano, caratterizza l’autentico sapere. A questo proposito le Costituzioni distinguono fra l’ordine assoluto della verità e quello relativo, laddove il primo fa sì che «tutte le scienze diventano una sola, ammirevole per chi la contempla e per l’unica essenza, in cui si scorgono tante cognizioni, la quale essenza è l’oggetto della beatitudine umana, cioè Dio; e per l’unico e fecondissimo principio, cioè Dio, da cui derivano tutte le cose; e infine per l’unico ottimo fine, che è sempre Dio, a cui tutte tornano. E quando si pensano tutte le cose unificate nella loro essenza, principio e fine, in tutte si onora e si conosce il principio e il fine di tutte, per cui Cristo disse: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesú Cristo” (Gv 17,3). Quando dunque ci dedichiamo alle scienze con l’unico fine di conoscere Dio, di obbedirgli e di aderire a lui con tutte le forze, lo studio di tutte le scienze diventa la scienza pratica di Dio, la sapienza, poiché allora in ogni cosa meditiamo la sua legge e la sua volontà, e consideriamo i suoi precetti; e di questa scienza Cristo dice ancora: “E io so che il suo comandamento è vita eterna” (Gv 12,50)»32. Nella prima forma di carità doniamo ciò che abbiamo, nella seconda ciò che sappiamo, nella terza noi stessi. Se l’essere ha a che fare con la carità e viceversa, questa, nel 31 32 EC, 50, 620-621. EC, 50, 620-623. 18 suo esercizio concreto e quotidiano, non può non ispirarsi alla triadicità delle sue forme, esprimendo, attraverso tale fondamentale riferimento, la propria origine trinitaria ed il proprio radicamento nel Dio uno e trino. La forma intellettuale della carità svolge un importante ruolo di mediazione tra il pensiero e il vissuto, fra la carità oggetto di speculazione teosofica e l’esercizio di essa nella concretezza dell’esistenza. Questo ruolo di mediazione risulta imprescindibile se non si vuole che la carità temporale diventi mero assistenzialismo e la martyria si offra in forme di fanatismo. 5. Spunti per l’IRC Una prima indicazione fondamentale che a mio avviso l’insegnante di religione può assumere da un’attenta lettura dell’enciclica si aggancia immediatamente alle riflessioni appena svolte ed in particolare alla sottolineatura del carattere intellettuale della carità. In questo orizzonte il lavoro quotidianamente svolto da chi insegna religione cattolica può, anzi deve, essere percepito e vissuto come autentico esercizio della carità, soprattutto in quella forma che Rosmini chiamava intellettuale e che noi potremmo definire culturale. Mostrare infatti la rilevanza dell’evento Cristo nell’ambito proprio della realtà scolastica, che eminentemente è quello della cultura, è infatti compito proprio, tra gli altri, dell’insegnante di religione. Tale collocazione del proprio insegnamento infatti consente che esso venga sottratto da un’interpretazione meramente nozionale dello stesso, senza tuttavia proporsi in forma di pura e semplice presenza accogliente e attenta ai bisogni delle persone che lavorano e abitano l’ambiente scolastico. La formazione degli insegnanti dovrebbe forse maggiormente tener conto di questo orizzonte agapico del sapere, nel quale – come direbbe K. Barth – si vive e si inserisce quello erotico della scienza. In questo senso allora non si tratta di un’opzionalità affidata al capriccio delle persone, ma di qualcosa che riguarda la natura stessa del messaggio e della comunità credente, cui ne è affidata la custrodia e la missione. Una seconda indicazione generale può innestarsi sulla necessità di mostrare la dimensione affettivo-erotica della fede, all’interno di un’attenta e adeguata educazione dell’affettività, così complessa e difficile soprattutto se rivolta all’età evolutiva. Qui è questione di equilibrio: l’insistenza su questa dimensione emozionale del credere può infatti facilmente generare impulsi sporadici di rapporto con Dio, dimenticandone la fatica della ragione e della volontà. Compito del docente-educatore sarà dunque sempre e comunque quello di aiutare e favorire il recupero delle dimensioni conoscitiva e volitiva, allorché emergesse con prevalenza schiacciante l’appiattirsi della fede dei propri interlocutori sulla dimensione meramente affettiva. E viceversa, sostenere e promuovere tale dimensione, quando essa fosse dimenticata o abbandonata o ritenuta avulsa dall’atto del credere cristiano. Una terza indicazione generale riguarda l’esperienza della carità come gratuità e il suo rapporto con la giustizia. È connessa alla credibilità di un insegnamento la necessità del docente di valutare giustamente i risultati raggiunti dai propri allievi, senza tuttavia mai confondere la valutazione dei risultati stessi con un giudizio sulla persona. Riuscire a far percepire questa differenza comporta certamente grande fatica, ma alla fine ripaga, anche in termini di riconoscimento del proprio lavoro da parte di studenti e colleghi. Posso testimoniare personalmente di contatti positivi, ad anni di distanza, con studenti cui magari avevo assegnato una valutazione bassa. Ricordiamo sempre il messaggio bonhoefferiano della “grazia a caro prezzo”. Altri spunti, soprattutto in relazione alla specificità della rivelazione cristiana del nome di Dio credo possano essere facilmente colti a partire dai confronti con la filosofia e le religioni monoteiste presenti in questo mio breve commento soprattutto alla prima parte dell’enciclica Deus caritas est. Si tratta della consapevolezza dell’unicità-universalità del messaggio cristiano da cui nasce un autentico dialogo interreligioso e interculturale, ma si tratta anche di cogliere e far cogliere l’amore umano (si pensi alla metafora sponsale che l’enciclica richiama) nella sua irriducibile peculiarità e nella sua indiscutibile universalità. Vorrei ora concludere tornando allo Pseudo Dionigi e richiamando l’invocazione alla Trinità, riportata nella Teosofia rosminiana: «Trinità sovrasostanziale superdivina e superbuona, custode della teosofia dei cristiani, conduci noi direttamente al vertice superinconoscibile e splendido e altissimo delle Scritture occulte, là dove i misteri semplici e assoluti e immutabili della teologia sono svelati, nella caligine luminosissima del silenzio che insegna in modo arcano; caligine che fa risplendere in maniera superiore nella massima oscurità ciò che è splendidissimo, e che in maniera esuberante riempie le intelligenze prive di occhi di splendori meravigliosi, nella piena intangibilità e invisibilità».33 Mistica Teologia, 997b-1000a. La traduzione cui facciamo riferimento è DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere, cit. 33 19 Novità sulla valutazione di Angelo Zappelli Secondo il Tar del Lazio la modalità di ciuci”) caratterizzanti la fine della Prima comunicazione del voto dell’IRC resta diRepubblica, rischia di incidere dolorosasciplinata dall’art. 309 del Testo Unico e mente sul futuro dell’IRC nel suo rapporquindi il voto non può essere incluso nelto con le riforme scolastiche. In controla scheda di valutazione, insieme alle altre tendenza rispetto all’atteso (e forse da discipline, come disposto dal Miur nella qualcuno temuto) rafforzamento della dicircolare sul portfosciplina nel suo setlio del novembre tore ritenuto più Il prof. Zappelli ricostruisce la vicenda, or20051. In mancanza debole, quello della mai nota a molti, della recente controverdi altre norme o valutazione, nonosia sulla valutazione dell’IRC, valutazione chiarimenti, di qui stante il consolidache il Tar ha imposto di inserire in una mento del rapporto agli scrutini finali, scheda a parte, dopo che una circolare midi lavoro degli IdR si dovrà tornare innisteriale del Miur aveva disposto il concon l’accesso al ruodietro di dodici antrario. In questo conflitto ideologico tra orlo consentito dalla ni, al dettato delganismi istituzionali, che fine fa la tanto legge 186 del 2003, l’art. 309 del Dedecantata autonomia scolastica? Come non il perenne conflitto creto Legislativo n. ritenere che sia la circolare ministeriale sia tra l’ex-ministro 297 del 1994 (il coi ricorsi al Tar costituiscano l’espressione Moratti e le orgaTesto siddetto degenerata della stessa volontà centralistinizzazioni sindacali Unico)2, il quale dica? Come restituire alle scuole la loro legitha prodotto un ulsponeva che il voto tima autonomia? E come liberare l’IRC da teriore segnale di dell’IRC andasse pregiudizi – purtroppo bilaterali – di nafragilità per l’IRC. posto su un allegato tura ideologica, riconoscendogli appieno la sua qualità di disciplina scolastica? Speriamo che almedella pagella stessa. no le scuole riescaUna norma ormai no a tenere diritto il timone della barca, desueta, preriforma, fac-simile di un pascontando sulla loro autonomia, senza farsaggio della legge clerico-fascista del 3 si condizionare troppo dal clima conflit1930 , sorta dodici anni fa all’interno del tuale clima di scambi politici (i cosiddetti “inC.M. n. 84 del 10.11.2005. Mentre l’articolo va in stampa, il Ministero ha preso atto delle ordinanze del Tar con nota prot. 690 del 09.06.06 e con nota prot. 5596 del 12.06.06, con cui si precisa che le istituzioni scolastiche «dovranno» rispettare l’art. 309 del Testo Unico. Le note sono reperibili sul sito web del Miur. Si tenga conto di questi aggiornamenti nella lettura del presente articolo. 2 «Per l’insegnamento della religione cattolica, in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia , per gli alunni che di essa si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae». 3 La legge n. 824 del 5.6.1930 recita all’art. 4: «Per l’insegnamento religioso, in luogo di voti e di esami viene redatta a cura dell’insegnante e comunicata alla famiglia una speciale nota, da inserire nella pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento ed il profitto che ne ritrae». 1 20 RENÉ MAGRITTTE, Il balcone, Gand, Museum voor Schone Kunsten Spesso è questa la condizione di alcune ore di lezione: si vedono in classe tante sedie e banchi ‘vuoti’ perché occupati da studenti assenti seduti (realmente) al balcone delle ore di lezione e presenti (virtualmente) ad osservare quel che l’insegnante dice e fa nel “mezzo del cammin della sua vita”. I banchi sono i silenziosi ed umili testimoni di pazienti ore sopportate, tollerate, partecipate, vissute dagli studenti. Meriterebbe una maggiore considerazione. Almeno per renderli più ergonomici. Essi ospitano per molte ore il corpo della mente dei nostri studenti. E per molte altre attendono che suoni la prima campana per poterli ancora ospitare. Una scuola senza sedie e banchi? Certo una scuola peripatetica. Ma da qualche parte bisogna fermarsi a riflettere. E cercare da sedersi. Perché gli ospiti di tali sedie siano presenti è necessario imparare a farli sentire abitanti di quel balcone degli eventi della vita e della cultura che ogni giorno avvengono durante il tempo della scuola. E nello stesso tempo fare in modo da lasciare quelle sedie per farli diventare protagonisti di nuovi eventi di vita e di cultura. Perché se oggi sono al balcone, domani saranno per la strada della vita a produrre e a fare. Ma per non aspettare molto, forse queste sedie vanno lasciate un po’ vuote, così da lasciar pensare che stanno agendo e operando e che sono loro spettatori e protagonisti del loro agire. L’accaduto Il Tar del Lazio è stato richiesto di esprimersi in due riprese da gruppi di ricorrenti diversi ma convergenti negli obiettivi, simpatizzanti di due organizzazioni sindacali della scuola: i Cobas e la Cgil. Le questioni poste erano varie, a proposito del portfolio previsto dalla legge di riforma Moratti nel 2003 ma osteggiato dalle organizzazioni sindacali. L’analoga circolare ministeriale del precedente anno scolastico 2004/054 aveva già proposto per la scuola primaria un modello nuovo di scheda di valutazione, in cui il voto dell’IRC era incluso, superando il dettato del Testo Unico. La ragione è semplice: tra il Testo Unico e la circolare, cioè tra il 1994 ed il 2004, la legislazione scolastica è cambiata notevolmente. È in questo intervallo che si collocano infatti le due principali ondate di riforme scolastiche dell’età democratica: quella attribuita al ministro Berlinguer e quella al ministro Moratti. Sia l’una che l’altra hanno introdotto una serie di innovazioni tali da consentire di giudicare agevolmente superato l’art. 309. Si pensi solo all’autonomia didattica ed al portfolio. In omaggio all’autonomia, in vigore dal 1° settembre 2000, il modello di scheda proposto per il 2004/05 accompagnava la circolare solo in forma di esempio, senza valore vincolante. In alcune scuole si era posto il problema del rispetto della vecchia norma del Testo Unico e si era giunti anche ad espressioni del Collegio docenti, a volte a favore a volte contro l’inclusione stessa. In generale, tuttavia, la tendenza al rientro del voto dell’IRC nella scheda era maggioritaria. La forma di mera proposta, rispettosa dell’autonomia delle singole scuole, aveva evitato al Miur i ricorsi giuridici. Stavolta invece, con la circolare del novembre 2005, il Miur non si è limitato a «proporre» ma ha «disposto» una scheda uguale per tutti, senza rispettare l’autonomia didattica delle singole istituzioni scolastiche e contraddicendo formalmente l’art. 309, ritenuto ormai di fatto superato, senza abrogarlo esplicitamente come gli artt. 144 e 177 sulla scheda in generale. In questo modo ha favorito la contestazione giuridica, portandola ai ricorsi collettivi dinanzi ai Tar, tra i quali ha trovato, al Tar del Lazio, un gruppo di tre giudici favorevoli al rispetto del vecchio art. 309. Le ordinanze del Tar del 1° febbraio 2006 sospendono quindi il valore della circolare sul punto in questione5. In attesa della sentenza su cui presentare ricorso successivo al Consiglio di Stato, il Miur emana un breve comunicato in cui afferma che, prendendo atto della sospensiva, le scuole «potranno» continuare a redigere la scheda senza il voto dell’IRC, allegandolo in una scheda esterna, così come si faceva prima6. Molti ne hanno dedotto che, sospesa la circolare del 2005, la questione era tornata, in pratica, alla situazione dell’anno precedente, in cui il Miur aveva solo «proposto» una soluzione, lasciando libere le scuole di decidere autonomamente. Nelle scuole tuttavia l’ordinanza del Tar del Lazio, pubblicizzata dalle organizzazioni sindacali succitate, peraltro in piena campagna elettorale, ha provocato un ritorno diffuso al voto dell’IRC posto sulla scheda allegata. La Flc-Cgil, evidentemente non soddisfatta della soluzione, ha posto alla stessa corte un altro ricorso contro la nota del Miur tro- Vedi la C.M. n. 85 del 3 dicembre 2004. Vedi le ordinanze n. 741 e 742 dell’1 febbraio 2006 emesse dalla sezione terza quater del Tribunale Amministrativo del Lazio formata dai giudici Mario Di Giuseppe, Linda Sandulli e Umberto Realfonzo. 6 Vedi la nota ministeriale del 3 febbraio 2006. 4 5 22 vando disponibile lo stesso terzetto di giudici a ripetere l’ordinanza anche su questo atto, precisando che la sospensiva precedente non consentiva la possibilità di derogare dall’art. 309 del Testo Unico7. In breve quindi siamo giunti all’attuale situazione, per cui l’art. 309, in attesa delle sentenze e dei ricorsi ai gradi superiori, è tornato ad esprimere un valore vincolante per le scuole, senza deroghe, almeno così per il Tar del Lazio, per i Cobas e per la Cgil. Le perplessità Gli interrogativi posti dall’intera questione sono molti. Proviamo ad elencarne ed esaminarne alcuni. Innanzitutto riguardo il principio dell’autonomia, tanto declamato da tutti come il cardine di ogni riforma scolastica, il punto di non ritorno per qualsiasi innovazione. Che fine ha fatto l’autonomia didattica e organizzativa delle singole scuole? Sul voto dell’IRC forse non vale? Sull’IRC vige una sorta di embargo, di zona franca dalle norme comuni? Qual è il collegamento della questione con il Regolamento sull’autonomia? Come sono conciliabili queste pretese centralistiche sul voto di una disciplina con il principio dell’autonomia? Perché le scuole non potrebbero decidere autonomamente sulla forma di comunicazione della valutazione finale alle famiglie? In secondo luogo: ma si può sapere perché tanto accanimento su una questione che sembra così marginale? In fondo si tratta solo di un dettaglio: non della valutazione in sé, non della disciplina in sé, ma solo della forma di comunicazione alle famiglie! Cosa si nasconde dietro tanta acredine? Perché solo il voto dell’IRC dovrebbe andare all’esterno della scheda? Cosa c’è di tanto delicato o di tanto mostruosamente contagioso nel voto dell’IRC per doverlo allontanare dal voto delle altre discipline? Nella revisione concordataria non si affermava che l’IRC si svolge «nel quadro delle finalità della scuola»8? Come si conciliano tali norme tra loro? Perché non si dice chiaramente il motivo per cui il voto di una disciplina dovrebbe andare a parte dalle altre? Cosa c’è di misterioso e di riservato nella scelta di una opportunità formativa? Si tratta forse di un ‘dato sensibile’ legato alla privacy? La scelta che le famiglie hanno compiuto sull’IRC rappresenta un loro diritto o una vergogna da nascondere? Se, come afferma l’Intesa, la scelta sull’IRC «non deve determinare alcuna forma di discriminazione»9, come si può tollerare tale differente modalità di comunicazione? Non ci si riferisce certo alla discriminazione tra chi sceglie l’IRC o le sue alternative, ma a quella tra questa disciplina (e/o le sue alternative) e le altre. Anche gli insegnamenti facoltativi e opzionali hanno la valutazione nella stessa scheda, perché l’IRC no? In terzo luogo: come si può uscire dall’evidente contraddizione tra la lettera della norma e la realtà della scuola? Quale può essere una soluzione coerente con il quadro pattizio e con le riforme scolastiche? Quali i tempi e le forze occorrenti per una soluzione duratura? L’autonomia In effetti il principio dell’autonomia esce praticamente svilito dall’intera partita. Tutti vogliono scavalcarla, l’autonomia, quando si parla dell’IRC. Né il Miur né i suoi oppositori provano alcun rispetto per la voce delle singole scuole. Eppure il Regolamento Vedi l’ordinanza del Tar Lazio del 15.3.2006. Legge n. 121 del 25.3.1985, art. 9,2. 9 Dpr n. 751 del 16.12.1985, punto 2.1 lett. a). 7 8 23 dell’autonomia consente alle scuole di ricorrere alla flessibilità nell’uso delle metodologie didattiche, nell’impiego delle risorse professionali e strumentali, nella programmazione dei tempi del curricolo e degli insegnamenti10. Sembra invece che sul voto dell’IRC si giochi per entrambi una partita sproporzionata, di mero e vecchio sapore ideologico. La scuola italiana ha forse ben altri problemi, schiacciata com’è tra una riforma e l’altra, considerata solo come terreno di scontro tra le fazioni opposte. Per le scuole infatti il problema non si pone, ma viene imposto dall’esterno; si tratta solo del voto di una disciplina un po’ diversa, vista l’origine pattizia, ma una disciplina tutto sommato alla stessa stregua delle altre, caratterizzata dalla stessa dignità meramente scolastica. Nelle singole scuole non si è affatto appassionati ed interessati alla collocazione del voto dell’IRC, rientrato infatti in pagella nel momento in cui ci si allontanava dall’ideologizzazione. Semmai si può dire che le scuole siano attualmente ‘intimorite’ dal tema, visto che i contendenti le attribuiscono tanto valore. I ricorsi al Tar sono del resto un tema classico degli interventi terrorizzanti nei collegi docenti. Al di là di queste sentenze non si riscontra alcuna volontà particolarmente emarginante relativa all’IRC. Lo dimostra il fatto che già prima della riforma e del famigerato portfolio il voto dell’IRC stava silenziosamente rientrando nella scheda comune. Le disposizioni successive all’autonomia avevano consentito alle singole scuole di stampare per proprio conto il documento di valutazione. L’occasione aveva provocato il rientro del voto dell’IRC in quasi tutte le scuole che vi si erano impegnate, grazie ad una conside10 11 Vedi il Dpr n. 275 del 8.3.1999, all’art. 4. Vedi la legge n. 824 del 5.6.1930, all’art. 4. 24 razione più pragmatica. Perché non lasciare quindi alle singole scuole di decidere in piena autonomia le modalità di trasmissione alle famiglie dell’andamento scolastico del proprio figlio? Perché non rispettarle nelle loro capacità autonome? Come non ritenere che sia la circolare ministeriale sia i ricorsi al Tar costituiscano l’espressione degenerata della stessa volontà centralistica? Appare evidente che sulla questione occorrerebbe una sana opera di deideologizzazione. In questa opera un ruolo decisivo dovrebbe spettare all’autonomia delle singole scuole, le più dotate della pratica didattica necessaria per riportare a tale sfera il problema in oggetto, senza confonderlo con questioni ideologiche legate ai rapporti tra Chiesa e Stato. Il sillogismo e le interpretazioni divergenti Venendo al nodo centrale della questione, l’uso del sillogismo aristotelico sembra opportuno e chiarificante: tutte le discipline scolastiche esprimono il proprio voto sulla stessa scheda; l’IRC è una disciplina scolastica a tutti gli effetti; quindi l’IRC esprime il proprio voto sulla stessa scheda. Il problema sorge tutto nella seconda affermazione del sillogismo. È questa che non trova tutti d’accordo. Sembra che sull’identità scolastica dell’IRC siano copresenti e si intersechino due linee interpretative: quella dell’assimilazione e quella dell’atipicità. La prima si basa sull’enunciato della revisione concordataria del 1984 e sull’Intesa del 1985 per concludere positivamente, che, quindi, la comunicazione del voto deve essere analoga a quella delle altre discipline. La seconda linea interpretativa si basa invece ancora sul vecchio Concordato del 1929, che con la sua legge applicativa11 negava voti ed esami all’IR obbligatorio e catechistico, optando per una forma di comunicazione speciale, prima inserita nella pagella scolastica e poi degenerata nell’allegato di cui al quarto comma dell’art. 30912. In fondo la partita del voto in pagella si gioca ancora su due concezioni divergenti dell’IRC: la scolastica e la catechistica. La concezione scolastica è quella coerente con la legislazione recente e con la dottrina conciliare. La concezione catechistica è invece coerente con i Patti del ’29, con la legge applicativa del ’30 e, sopravvivendo alla revisione del 1984, con l’art. 309 del Testo Unico. La linea prevalente nel lungo periodo è indubbiamente quella scolastica, visto che vanta dalla sua già tanti provvedimenti: dal ruolo degli IdR alla presenza dell’IRC nel quadro orario e nel credito scolastico, tutte vicende che richiamano per analogia quella in oggetto. La più recente di tali vicende riguarda la pubblicabilità dei voti dell’IRC sui tabelloni esterni usati soprattutto dalle scuole secondarie superiori per comunicare i risultati finali degli scrutini. Con una nota del 2004 il Miur ha risolto la disputa confermando la presenza di tale voto sulla base della motivazione che l’IRC, una volta scelto, «assurge al medesimo rango delle altre discipline»13. Principalmente questa linea interpretativa ha dalla sua le sentenze della Corte Costituzionale del 1989 e del 1991, in cui si delinea una disciplina pienamente scolastica e curricolare, cioè inserita nel percorso formativo offerto dalla scuola pubblica, che tuttavia per lo studente è facoltativa, da scegliere o non, secondo il principio della libertà di coscienza14. Il punto debole di tale linea è rap- presentato purtroppo dalla mancata abrogazione esplicita, sia della legge 824 del ’30 sia dell’art. 309 del Testo Unico. Peccato di distrazione o di presunzione? La linea minoritaria è invece quella catechistica, superata dai tempi ecclesiali e scolastici, ma non dai tempi dell’ideologizzazione anticlericale di stampo ottocentesco, alleata paradossalmente dell’intransigentismo cattolico. Per entrambi l’IRC non può che essere uno strumento dottrinale, non propriamente di carattere culturale. Dimostrare l’estraneità dell’IRC dal contesto scolastico, per poi passare ad altre forme di presenza della cultura religiosa nella scuola, è per entrambi l’obiettivo condiviso. Ora, la comunicazione del voto su un allegato della scheda di valutazione dimostra appunto tale estraneità. Questa linea interpretativa è riuscita nel 1986 ad ottenere un ordine del giorno della Camera su tale questione15, ripreso da una circolare ministeriale16, ed è poi riuscita anche a strappare l’inserimento dell’esclusione dalla scheda comune al quarto comma dell’ormai famoso art. 309 del Testo Unico. Il motivo invocato, ma ora sottaciuto, sarebbe quello della presunta discriminazione provocata dalla presenza del voto dell’IRC in pagella. È evidente come l’argomento riveli la sua aleatorietà nella facile ribaltabilità: non sarebbe maggiormente discriminatoria l’esclusione dalla pagella della valutazione di una disciplina scelta e svolta dal 90% degli alunni e delle famiglie? Le possibili soluzioni Non c’è dubbio che nel lungo periodo la soluzione più idonea, visto il processo di 12 Confronta la pressoché identica formulazione delle due espressioni legislative, sia pur a 64 anni di distanza, contenute nelle precedenti note 2 e 3. 13 Nota ministeriale del 16 giugno 2004 prot. 10642. 14 Vedi la C.M. n. 9 del 18.1.1991. 15 Vedi la risoluzione della Camera dei Deputati del 16.1.1986 n. 6-00074. 16 Vedi la C.M. n. 11 del 21.1.1987. 25 scolarizzazione dell’IRC nel quadro concordatario e la deideologizzazione dovuta all’autonomia delle scuole, sia quella dell’inserimento in pagella della valutazione dell’IRC, così come delle sue alternative. Altra cosa è stabilire il percorso politico e giuridico in base al quale si possa giungervi in un lasso di tempo più o meno breve. Certamente la via più semplice sarebbe quella dell’abrogazione pura e semplice dell’art. 309 ma l’incertezza dell’attuale fase di transizione politica e la sua mancata abrogazione nel contesto più favorevole appena trascorso, la rende una soluzione poco probabile. Attualmente si è in attesa della sentenza del Tar contenente le motivazioni della sospensiva. Immediatamente dopo, il Miur o altri, se lo riterranno opportuno, potranno ricorrere al Consiglio di Stato e poi ancora più su ad altre corti, per dirimere nelle aule giudiziarie quella che dovrebbe essere una semplice questione poco più che amministrativa. Nel frattempo le scuole ed i loro operatori vivono la vicenda da lontano, con un certo senso di impotenza. L’empasse in cui ci si trova in questa fase riflette l’incertezza politica sull’esito delle riforme scolastiche, sottoposte al vaglio delle opposte maggioranze al governo nelle ultime legislature. La loro alternanza alla guida del Miur ha sottoposto la scuola ad ondate opposte di richieste di cambiamento, senza giungere ad esiti chiari e condivisi dalla maggioranza dei protagonisti del complesso mondo della scuola. La conclusione positiva delle analoghe e recenti vicende attinenti all’IRC, come quella sul credito scolastico e quella sui tabelloni esterni dovrebbe consentire di aspettarsi una soluzione finale nella stessa direzione, cioè nel senso dell’inserimento in pagella, anche se dopo passaggi magari controversi e dolorosi. I segnali provenienti dalle vicende degli ultimi anni sono abbastanza eloquenti, oltre che coerenti. Il Garante sulla privacy ha già chiarito diverse volte, ad esempio, che la partecipazione all’IRC non costituisce impedimento alla pubblicazione dei voti, non trattandosi di ‘dati sensibili’17. Lo stesso Tar del Lazio nel fornire la risposta ad analoghi ricorsi in occasione dell’ordinanza 128/99 sul credito scolastico aveva sollecitato a interpretare la valutazione dell’IRC come quella di una ordinaria disciplina scolastica, senza riscontrarvi elementi di discriminazione una volta effettuata la libera scelta18. Così anche sul tentativo di estromettere il voto dell’IRC dai tabelloni esterni delle scuole, infine, il Miur ha efficacemente commentato nel 2004 che: «l’aver scelto di ricevere l’insegnamento della religione cattolica non denuncia di per sé l’intimo convincimento della fede abbracciata, che, ovviamente, può essere diversa da quella cattolica, ma soltanto il desiderio di essere correttamente acculturati sulla predetta materia». 17 Vedi il più recente comunicato del Garante sulla privacy del 14.6.2005, dopo quelli del 13.6.2000 e del 3.12.2004; in esso egli ribadisce che «i dati relativi agli esiti scolastici, per quanto riferiti a minori, non sono dati sensibili, non riguardano cioè informazioni sullo stato di salute, le opinioni politiche, le appartenenze religiose, l’etnia o gli stili di vita, ma attengono esclusivamente al rendimento scolastico degli allievi». 18 Il Tar del Lazio, con sentenza resa nota il 15 settembre del 2000 ma risalente al novembre del 1999, ha giudicato inammissibili i ricorsi contro l’O.M. n. 128 del 14 maggio del ’99 in cui si includeva il voto dell’IRC nel computo del credito scolastico da assegnare ogni anno agli alunni del triennio della secondaria superiore. 19 Nota già citata al n. 13. 26 IR o IRC? Un po’ di tutto o un po’ per il tutto Mario De Luca In un manifesto del New Age due metafore Infatti già da qualche tempo circolano in sembrano ben esprimere l’atteggiamento di vari ambiti culturali italiani, riflessioni sulalcuni teorici dell’educazione di fronte alle l’opportunità di trasformare l’insegnamento religioni: della religione cattolica in insegnamento «Che cosa chiede un avalutativo delle relimonaco Zen a un gioni3, presentandole Il prof. De Luca ci invita a riflettere sul un po’ tutte, arcaiche banco dove si vendorapporto tra razionalità ed emotività in ree contemporanee, seno hot dog? – Famlazione all’IRC. L’insegnamento – ormai è condo criteri da conmene uno ripieno di consapevolezza condivisa – non può ridur1 cordare. Ricordiamo tutto» . si ad una semplice consegna di nozioni teo«Ramtha: Ora, se che il termine «avariche; anche l’insegnamento della religione è stato colutatività» uno crede nel diavodunque deve fare i conti con un patrimoniato da Max Weber lo e un altro non ci nio di valori religiosi esistenziale e vissuto. (1864-1920); in alcrede, chi ha ragioÈ possibile acquisire vere competenze in cuni suoi studi sone, chi è nella verità? questo ambito con un insegnamento esclucio-filosofici ritiene – Discepolo: Tutti e sivamente avalutativo? E, in caso di rispoche nella sua attività due. – Ramtha: Persta negativa, quale plausibilità ne risulta ché? – Discepolo: di studio e ricerca lo per un IRC confessionale, in uno progetto Perché ognuno ha la scienziato sociale non di semplice multiculturalità indifferentista, ma di interculturalità vissuta? sua propria verità. – non debba inserire i Ramtha: Corretto, propri giudizi di va2 corretto» . lore rispetto ai fenomeni che analizza. Le due metafore esprimono la concezione Di rilievo la posizione di Flavio Pajer, Presiche ogni religione sia eguale alle altre e che dente del Forum Europeo per l’istruzione se si vuole si possono mettere tutte all’interreligiosa nelle scuole pubbliche. In uno dei no di un’unica disciplina di insegnamento, suoi interventi nella rivista della Scuola susenza riflettere sulle ricchezze e le specificità periore dell’economia e delle finanze (CeRche ciascuna vive ed incarna nella propria DEF) leggiamo al paragrafo 5.4 una delle tradizione. motivazioni che ci lascia inquieti almeno R. S. MILLER and the Editors of New Age Journal, As Above So Belows. Paths to Spiritual Renewal in daily Life, J. P. Tarcher, Los Angeles 1992, p. 5. 2 RAMTHA – DOUGLAS JAMES MAHAR, Voyage to the New World, Masterworks, Friday Harbour (Washington) 1985, p. 246. 3 Cfr L. CORRADINI, Insegnamento avalutativo della religione, interculturalità, confessionalità: quale possibile convivenza in «Religione Scuola Città» (2006), I, pp. 27-32. 1 27 FORTUNATO DEPERO, La toga e il tarlo, 1914, Rovereto, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto. È un automa confezionato, le cui parti sono appese e legate, nemmeno composte. È una metafora visiva di uno studente che ammassa, addiziona, aggrega conoscenze e abilità, le ‘impara’ e non le apprende, si configura e non si forma, sa portare il passo meccanicamente con quanto gli è stato insegnato ma non ha appreso a camminare autonomamente. Insegnare può produrre autonomi o formare persone, indurre ad una unità organica dei saperi o ad una aggregazioni di materie scolastiche, lasciare che la multiculturalità sia composita o a trasformarla in un processo di interazioni e dialogo culturale. Ma l’insegnare produce sempre qualcosa. E se questo ‘qualcosa’ non libera e non crea autonomia, fa certamente danno. Il tarlo di questo automa è forse nella presunzione di sentirsi in toga. Come quando un docente pensa di essere un professore perché finalmente ha un impiego (ed ora anche un ruolo). Oppure uno studente pensa di essere promosso perché assicura la presenza in classe e garantisce almeno le due interrogazioni per fare media. Quanto meccanicismo didattico da superare! quanto alcuni interventi successivi: L’istruzione religiosa tra emozione e ragione scientifica4. È il titolo di un paragrafo in cui si cerca di superare l’IR confessionale con un insegnamento di storia delle religioni neutro/ale, avalutativo. L’«emozione» richiama quello che è oggi l’IR legato all’identità religiosa del territorio; la ragione scientifica è l’ipotesi dell’IR aconfessionale tradotto in storia delle religioni. In questo articolo vorremmo porre l’accento sull’ambizione di sostenere, al cospetto del pluralismo religioso e della nuova configurazione europea, la conferma di una “via italiana” all’IRC, attraverso la riflessione pedagogica, giustificandone la plausibilità e articolandone la praticabilità. Rifletteremo sui due termini «emozione» e «ragione scientifica», poi sulla necessità di aprire qualche strada nuova, non in alternativa ma in forma complementare all’IRC. Riflessione pedagogica Il dibattito pedagogico ha negli ultimi anni invitato a muoversi nella logica del policentrismo formativo, della società educante e dell’educazione permanente. In una prospettiva di sistema formativo integrato, la scuola concorre alla piena umanizzazione degli alunni e ad un rispettoso esercizio delle libertà fondamentali dell’uomo, riconosciute a livello internazionale, attraverso l’opera di un insegnamento/apprendimento sistematico e critico della cultura e dei suoi linguaggi. La mediazione della cultura religiosa, operata all’interno della scuola in vario modo ed in forma disciplinata e sistematica dal- l’IR, trova la sua finalizzazione propria nel favorire una conoscenza intenzionale e ragionata del fenomeno religioso, specialmente nelle configurazioni presenti nel contesto vitale (ecco il senso della confessionalità in Italia), e nel contribuire a che tutti abbiano la possibilità: di comprendere la cultura in cui vivono; di situarsi responsabilmente nella propria storia e vita comunitaria; di conseguire una adeguata maturità di scelta di fronte a questa fondamentale dimensione della cultura e dell’umano che è la religione; di abilitarsi a convivere e a collaborare civilmente nella comprensione e nel rispetto delle scelte altrui. Per tali motivi l’IR non si può ridurre nei suoi contenuti ad una semplice rassegna storico-critica delle religioni. Non si può limitare all’esposizione delle sole fonti, nel suo rapporto con le culture o con le altre confessioni e religioni. Se è vero che la religione nella sua essenza sembra andare oltre la religione istituzionalizzata, è altrettanto vero che questa stessa essenza non è disgiungibile dalle forme storiche e confessionali in cui si mostra. La scuola può svolgere la funzione educativamente critica e razionale cui è deputata solo se sa “fare i conti” (pensare/ponderare, come suggerisce l’etimologia, è un contare e pesare), per il tempo necessario, con le conoscenze, i giudizi ed comportamenti assorbiti da ciascuno nella cultura e radice di appartenenza, attraverso la narrazione e rinarrazione delle ‘storie’5 nelle quali si riconosce, in atteggiamento d’ascolto, di dialogo e di conversazione con altre storie. Un procedere lento, e non scontato, verso l’intersog- Cfr Quale istruzione religiosa nelle scuole dell’Europa multireligiosa?, in http://rivista.ssef.it/site.php?page=20041220083446200. Cfr. J.S. BRUNER, La ricerca del significato (1990), trad. it. Bollati-Boringhieri, Torino 1993; ID., La cultura dell’educazione (1996), trad. it. Feltrinelli, Milano 1997; H. GARDNER, Educare al comprendere (1991), trad. it. Feltrinelli, Milano 1993; A. MC INTYRE, Dopo la virtù (1981), trad. it. Feltrinelli, Milano 1988; F. KERMODE, Il segreto della parola (1989), trad. it. Il Mulino, Bologna 1993. 4 5 29 gettività comunicativa tra comunità diverse che è, però, anche l’unico che offre a ciascuno la garanzia di giungere il più lontano possibile, ma rispettando la «coscienza morale e civile di ciascuno», dai punti di partenza in tema di maturità, capacità critica, equilibri esistenziale e sociale. Istruzione o (d-)istruzione religiosa: tra emozione e ragione scientifica Il tentativo di proporre un’istruzione religiosa in chiave di storia delle religioni e di qualsiasi forma di scienza delle religioni neutrale e “asettica”, richiama da vicino la sensibilità pedagogica dell’illuminismo: la necessità di illuminare con le sole forze della ragione, individuando il diritto dell’uomo di giudicare liberamente. Non dimentichiamo che un nuovo illuminismo può caratterizzarsi in analogia col passato come naturalismo, come laicismo, come liberalismo. È naturalistica la spiegazione data alla religione, che assume tendenze deistiche con Voltaire (1694-1778), quando non perviene addirittura all’ateismo di un d’Holbach (1723-1789); è laico l’illuminismo non solo per la sua lotta alla Chiesa ed ai suoi istituti assistenziali ed educativi, ma anche per l’energica affermazione di un’educazione civile da estendere a tutti i cittadini: così Nicolas de Condorcet (17431794), che affida allo Stato il diritto di impartire l’istruzione, perché ad esso spetta il dovere di illuminare i cittadini e di condurli alle verità della sola scienza. Non diversa la posizione dell’emozione che, se ben intesa, può risultare pedagogicamente rilevante. Essa ci richiama il romanticismo che è, più ancora dell’idealismo, assertore delle forze creative riposte nella fantasia e nel sentimento, considerate talvolta in opposizio6 ne alla stessa ragione. Ne consegue che sono soprattutto l’attività estetica e quella religiosa ad esprimere la pienezza della spiritualità ed a costituirsi come le supreme forme di conoscenza della realtà, ma – come precisa Schleiermacher – la vita dovrà essere vissuta con religione, cioè a dire con partecipazione attiva all’Assoluto, piuttosto che per la religione, in senso dogmatico o teologico. Atteggiamenti panteistici o pan-enteistici e un largo simbolismo completano le caratteristiche del fenomeno romantico, che, sul piano civile e politico, si collega, in tutta Europa, ai movimenti risorgimentali che avrebbero condotto a sviluppare lo spirito di unità nazionale dei popoli. La scuola non può continuare a funzionare come scuola della sola istruzione, secondo la sua impostazione originaria, nata dall’Illuminismo che, privilegiando la mera razionalità, sottovaluta quel corpo, quella formazione motoria, quella formazione emotivoaffettiva, che oggi sono riconosciute parte integrante e imprescindibile della piena formazione della persona umana. La scuola è nata come scuola del sapere, e stenta a divenire la scuola dei saperi: il sapere (conoscenze, nozioni, “retorica delle conclusioni”), il saper fare (capacità, abilità, competenze) e il saper essere (motivazioni, interessi, atteggiamenti).6 Al riguardo, è opportuno sottolineare che la formazione integrale implica la formazione di tutte le dimensioni della personalità, in primis quella emotivo-affettiva (intelligenza emotiva), sia perché l’amore dell’apprendere deve costituire la finalità educativa primaria da perseguire ai fini dell’equilibrio complessivo della personalità, sia perché senza l’amore dell’apprendere non tutti gli alunni apprendono nella scuola e fuori della scuola per tutto il corso della loro vita. D. GOLEMAN, Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano, 1997; ID., Lavorare con Intelligenza Emotiva, Rizzoli, Milano 1999. 30 Formazione significa acquisizione non di sole conoscenze, ma anche di capacità e soprattutto di atteggiamenti7, di motivazioni, di interessi, di amori: l’amore della matematica, l’amore della storia, l’amore della geografia, l’amore della botanica, l’amore della lettura, l’amore della grammatica, e anche la passione per la tradizione culturale e religiosa di appartenenza. Occorre che gli alunni apprendano «la gioia e il gusto di imparare e di fare da sé, perché ne conservino l’abito oltre i confini della scuola, per tutta la vita» e questa gioia può essere appresa solo se l’attività educativa e didattica risulta sempre fondata su quella che Bruner chiama la volontà di apprendere8 La scuola non può limitarsi a far immagazzinare fredde e aride conoscenze, e non può limitarsi nemmeno a far acquisire capacità, ma deve impegnarsi anche a far maturare atteggiamenti, facendosi carico soprattutto della formazione dell’intelligenza emotiva . Questa prospettiva mette molto in dubbio l’adeguatezza di un insegnamento religioso avalutativo, ma può portare all’apprezzamento di altre tradizioni e culture religiose. Promuovere una scuola nella quale non ci si accontenta di spiegare il “come”, ma si indagano i “perché” significa entrare nell’orizzonte della scuola per la persona, «scuola dell’educazione integrale della persona», come si sottolinea ad esempio nelle Indicazioni per la scuola secondaria di primo grado in relazione agli obiettivi generali del processo formativo. Le discipline – e fra queste l’IR confessionale – non hanno valore in sé e per sé, ma solo nella misura in cui sono orientate alla maturazione dell’alunno, apportando ciascuna il proprio contributo specifico. IRC confessionale o IR avalutativo? Se riflettiamo concretamente sulla scuola, ci risulta difficile pensare un insegnamento delle religioni avalutativo, così come ci è difficile pensare in genere un insegnamento neutro/ale. Basti pensare alle discipline di storia, italiano, filosofia, educazione civica o alla cittadinanza: nessun docente può esprimersi nozionisticamente, senza manifestare un minimo di calore o coinvolgimento nell’argomento proposto e disposto in senso scolastico e formativo. Senza riferirsi necessariamente alla riforma Moratti, che ha tentato di dare un’impronta propria (per lo più personalista) alle modalità di realizzazione dell’insegnamento, un insegnante di religione confessionale si contraddistingue per: • la chiarezza della posizione nei confronti della disciplina insegnata; • la correttezza della comunicazione dei contenuti perché affrontati in prima persona, perché approfonditi con titolo accademico specifico oltre che collegati con il contesto socio nazionale europeo, senza obiettivi di indottrinamento; • l’inserimento in una tradizione secolare simbolica/liturgica con valori civili ed etici incarnati. Ipotesi su percorsi di storia delle religioni in prospettiva di fenomenologia storicocomparata sono state da tempo pensate e proposte, ma permane un legittimo dubbio sull’effettiva neutralità nell’esposizione e traduzione dei contenuti in azione didattica. Nell’istante stesso in cui un mito viene narrato, un simbolo o un rito vengono “interpretati”, un fondatore viene descritto, una fonte testuale letta, perfino i gesti o il tono della voce forniscono una comunicazione di “valutazione” implicita od esplicita del contenuto trasmesso. 7 E. CRESSON, Insegnare ad apprendere. Verso la società conoscitiva. Libro bianco su istruzione e formazione, Lussemburgo, Commissione Europea, 1995; F. CAMBI (a cura di), Nel conflitto delle emozioni – Prospettive pedagogiche, Armando, Roma 1999. 8 J. S. BRUNER, Verso una teoria dell’istruzione, Armando, Roma 1967. 31 Un IR confessionale (non necessariamente cattolico: si può pensare anche ad altre confessioni presenti nella scuola con le finalità, gli obiettivi e i percorsi formativi della scuola) può rivelarsi molto più “scolastico” – cioè formativo – e onesto di una generica storia delle religioni. E ci sembra corretto l’uso del termine IR confessionale, non necessariamente cattolico, perché se questo è ratificato da un accordo tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano, considerando in alcune aree geografiche nazionali la dominanza di un cristianesimo ortodosso, valdese o comunque riformato, potrebbe con nuove intese di queste confessioni con lo Stato italiano, ratificarsi un IR parallelo, con le stesse caratteristiche scolastiche di quello cattolico. A sostegno di queste riflessioni va sottolineato che la scuola ha acquisito negli ultimi anni grazie alle scienze pedagogiche e didattiche un ruolo educativo soprattutto in tre direzioni: a) presa di coscienza e riflessione personale e collettiva su significati e valori che guidano le azioni umane sia individuali che collettive; b) iniziazione non solo a significati, valori e principi regolativi della vita comunitaria, ma anche a comportamenti che a questi si ispirino in modo coerente; c) interiorizzazione, sulla base di esperienze vive e coinvolgenti, di valori e significati di natura etica, sociale, politica, estetica, culturale, spirituale e, oggi in particolare, ecologica, soprattutto se essi hanno un particolare rilievo sul piano della vita pubblica e della convivenza democratica. In particolare la psicologia cognitiva, ha evidenziato l’impossibilità di scindere, e tanto meno contrapporre, nel concreto atto 9 didattico e in quello di apprendimento, le dimensioni emozionali, cognitive e volitive. Solo una concezione didattica riduzionista e asfittica può pensare che l’impegno di acquisizione di conoscenze, capacità e atteggiamenti possa esplicarsi in un contesto povero di significati, di valori, di aperture al futuro, di avventure intellettuali e sociali. Ciò che fa della scuola un’istituzione specifica è il suo carattere di finalizzazione verso conquiste personali, sociali e culturali fondamentali, riconosciute come tali dalle varie comunità, secondo piani e progetti che intendono sollecitare, guidare e sostenere tutti in questo cammino in modo sistematico e continuo. L’esperienza e l’interiorizzazione di valori e significati di natura sociale, comunitaria, politica, etica, estetica, culturale, spirituale sono corpo e sangue dell’impegno educativo della scuola. Non nel senso di indottrinamento o di proselitismo, ma di viva esperienza di vita9. Come presentare altre tradizioni religiose nel curricolo di IR confessionale? Il percorso di un’educazione interculturale è indicato in maniera suggestiva da Giuseppe Milan attraverso un parabola: Un saggio, guardando da lontano, grida: «Vedo una belva avvicinarsi!» Poco dopo, osservando la medesima figura, esclama: «Vedo un uomo venirmi incontro!» Infine, quando l’altro gli è ormai accanto, afferma: «C’è un fratello con me alla mia mensa!».10 La parabola descrive un punto di partenza, un itinerario, una situazione di arrivo: evoca, in sintesi, la struttura essenziale di un processo educativo all’alterità e all’ospitalità. Cfr G. DALLE FRATTE, Fine e Valore. Per una giustificazione dei fondamenti etici della pedagogia, Armando, Roma 1992, pp. 109-126. G. MILAN, Abbattere i muri, costruire incontri. Contributi all’educazione in ambito sociale e interculturale, Cleup, Padova 2002, p. 9. 10 32 Il pensiero e la prassi dell’interculturalità hanno ancora molti passi da compiere. «Pur essendo recepito in vari documenti nazionali e europei di politica educativa, numerosi pedagogisti esperti nel settore denunciano che il concetto di pedagogia interculturale manca di una chiara definizione semantica e di una condivisa elaborazione epistemologica»11. L’approccio educativo di tipo multiculturale vuole portare al rispetto delle culture “diverse” e quindi a forme di convivenza non conflittuale; rischia però di produrre separatezze e di rimanere prigioniero di schematismi rigidi e statici. L’approccio interculturale è il tentativo di una nuova sintesi, aperta all’universalità ma non pregiudizialmente indirizzata lungo la deriva dell’indifferentismo. Comunque un punto va precisato con vigore: dire interculturalità non significa dire relativismo. Né buona pratica interculturale è quella che mette fra parentesi identità e appartenenze per favorire l’incontro su un terreno neutro, ovvero di nessuno. Chi ha deciso che questa è l’unica strada possibile? Alla vulgata fin troppo facile dell’interculturalità all’insegna del relativismo va contrapposta la ricerca di un approccio che metta insieme identità e differenza, secondo la logica del riconoscimento reciproco. Educare “nel” pluralismo, rispettando da una parte la soggettività della libertà di coscienza e dall’altra l’oggettività della verità12. Non si fa adeguatamente caso ad un paradosso: il relativismo annulla le differenze, rende indifferenti le differen- ze, scompaginando la grammatica del dialogo ed esiliando la trascendenza stessa. L’educazione religiosa interculturale si pone come una dimensione fondamentale dell’educazione interculturale 13 . Si tratta di un’occasione da cogliere e valorizzare. Risulterà arricchente sia a chi appartiene alla tradizione cristiana sia per chi appartiene ad altre tradizioni etiche e religiose. Le precedenti annotazioni già hanno contribuito a disegnare alcune linee portanti dell’atteggiamento educativo e didattico da coltivare nel lavoro scolastico. Ritengo utile richiamare il criterio principale di azione: «Didatticamente, realizzare un’educazione religiosa di impronta interculturale non significa insegnare a conoscere tutte le religioni, accostandole sullo stesso piano, per poi lasciare all’educando la possibilità di decidere quella che gli sembra più giusta: aggiungere l’aggettivo “interculturale” all’insegnamento religioso vuol dire insegnare la religione alla quale si è liberamente scelto di aderire, quella ritenuta appropriata per la realizzazione del soggetto; ma accanto all’educazione ad una determinata etica, ad un certo credo e ad un dato culto, occorre educare all’incontro, al confronto e al dialogo con i soggetti di orientamento religioso differente»14. Una valida forma di educazione religiosa interculturale potrà anche essere rappresentata dall’attenzione al carattere universale dell’esperienza cristiana, di vissuti cristiani nei diversi continenti, fenomeno carico di promesse e insieme di inquietudini15. Cfr A. PORTERA, Pedagogia interculturale in Italia e in Europa. Aspetti epistemologici e didattici, Vita e pensiero, Milano 2003. Le tre parti in cui l’opera è suddivisa presentano la situazione della pedagogia interculturale in Europa, alcuni approfondimenti teorici, esperienze e proposte didattiche. 12 Cfr. P. VIOTTO, Presupposti filosofico-pedagogici dell’educazione di ispirazione cristiana, in AA.VV., Educare, sfida quotidiana per le scuole materne FISM, Roma, FISM 1998, pp. 63-64. 13 «L’educazione religiosa interculturale non solo è possibile e auspicabile, ma anche inevitabile»: ivi, p. 21. 14 A. PORTERA, Pedagogia interculturale…, cit., pp. 21-22. 15 Cfr P. JENKINS, La terza Chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Fazi, Roma 2004. 11 33 Insegnamento della Religione Cattolica nella Scuola Primaria ed alunni diversamente abili di Antonio Passaro dicap, concepire le diverse abilità apre l’inConcepire le diverse abilità segnante ad uno spazio relazionale e comu«Questi bambini nascono due volte. Devono nicativo basato sulla fiducia, sul credere imparare a muoversi in un mondo che la prinelle potenzialità e nelle possibilità. Si passa ma nascita ha reso più difficile. La seconda cioè dalla descrizione delle negazioni, alla dipende da voi» (G. Pontiggia) affermazione dei diversi spazi di espressione Il processo d’integrazione scolastica degli e di realizzazione, alunni diversamente ponendo al centro di abili attuato in Italia, Il prof. Passaro, dopo aver chiarito l’imporquesta visione l’imche ha il suo riferitanza di riconoscere l’apertura dinamicomagine ed il valore mento più completo evolutiva espressa dalla locuzione di «didella persona. nella legge 104/92, è versamente abile», invita a prendere in stato assunto come L’uomo non vale per considerazione il ruolo positivo, e talora patrimonio della culla sua bellezza o per perfino determinante che l’IdR può svolgetura del nostro Paela perfezione fisica e re nelle classi in cui siano presenti tali se. Da un suo esame neanche per la sua inalunne/i. Il lavoro può essere fruttuosaattento si può sottotelligenza: vale in mente svolto sia nei confronti dell’alunna/o lineare, oggi, il bisoquanto uomo. Ogni stessa/o, sia nei confronti del gruppo classe, gno di raggiungere uomo, sano o malato, con una crescita per tutti. una migliore qualità giovane o anziano, fisicamente perfetto o delle buone pratiche malato, è un figlio di Dio ed ha un destino di didattiche, alla luce della moderna ricerca vita eterna. Ogni creatura, nessuna esclusa, metodologica, e di stabilire migliori sinergie, porta in sé l’immagine del Creatore. fra azioni formative, educative e riabilitative. Quando si parla di alunni diversamente In particolare, in questi ultimi anni, si è anabili ci si riferisce ad una popolazione moldato divulgando il termine “diversamente to eterogenea per tipologia, con situazioni abile”, a sostituire il termine di handicappadiverse, in relazione anche alle dimensioni to, nella ricerca di superare lo statico conpsicologiche, contestuali e sociali, non clascetto di normalità, proponendo l’idea di insificabile o etichettabile. L’approccio all’atendere la normalità come pluralità di diffelunno diversamente abile richiede di afrenze e non come uniformità, definita dalla frontare il problema partendo dall’assunto comparazione con standard o livelli di preche la situazione non può essere considerata stazioni prefigurati. in una visione statica e assoluta, ma vada Senza dimenticarsi dei deficit o degli hanvalutata in riferimento agli aspetti partico34 GIACOMO BALLA, Lampada ad arco, 1909, New York, Museum of Modern Art La notte dell’ignoranza oscura la realtà. La luna fino ad ora aveva fatto da unica luce nella notte. Ora una lampada la illumina, rischiarando anche la luna, e lascia non solo apparire il reale, ma orienta verso la realtà schegge e frammenti di luce perché ricreino di notte quella realtà che di giorno il sole permette di esprimersi. Nell’analogia che si può intravedere, la luce del sapere (che non equivale all’illuminismo della ragione) permette di guardare e contemplare la realtà, penetrandola con l’intelligenza del sapere e la comprensione del cuore. Lo studente resta illuminato e illuminerà. Sarà la luce della notte successiva a quella in cui l’insegnante lo illumina. L’arco della sua luce non potrà essere segmentato da frammenti di luce ma da effusioni di “fiamme di luce” per incendiare di sé la realtà ed accenderla a nuove realtà future. Tutto questo è possibile con l’energia. L’insegnare educa a produrre energie, perché anche le notti di questi tempi siano illuminate. E la scuola ne è la centrale energetica. lari che la caratterizzano ed all’ambiente sociale in cui vive la persona. Ne deriva una conoscenza/valutazione che dovrà riferirsi alle informazione ed alle osservazioni, alla raccolta cioè di un insieme di dati utili a costruire un intervento, cercando di valorizzare gli aspetti positivi, superando la sola connotazione clinica e medicalizzante, e assumendo valenze psicologiche e sociali. Con la legge 104/92, si sono introdotti i concetti di Diagnosi Funzionale e di Profilo Dinamico Funzionale, strumenti interdisciplinari e non prettamente clinici, descrittivi di situazioni in un contesto di natura dinamica, con verifiche e modifiche periodiche, centrate nell’evidenziare le potenzialità e non solo i danni, che contengono al loro interno modalità e tecniche di intervento. Il Piano Educativo Individualizzato, che ne scaturisce, con il concorso di tutte le com- ponenti che operano nei riguardi della persona dell’alunno, genitori-specialisti-educatori-insegnati, potrà essere la base di avvio per l’équipe pedagogica, su cui elaborare le unità di apprendimento e costruire il piano di studi personalizzato. L’insegnamento della Religione Cattolica In questo lavoro di costruzione del percorso scolastico, l’IdR deve offrire il suo contributo, consapevole della situazione dell’alunno e del valore che la disciplina che insegna può trasmettere. Nella sua funzione docente, attraverso gli organi collegiali, potrà promuovere, all’interno della sua scuola, tutte le forme di accoglienza utili al processo di facilitazione dell’inserimento, diffondendo la cultura della diversità e dandole risonanza e valore nel POF. «Ogni istituzione scolastica predispone con la partecipazione di tutte le sue componenti 35 il piano dell’offerta formativa. Il Piano è il documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia» (Art. 3 D.P.R. 275/99). Nella sua funzione docente, all’interno dell’équipe pedagogica, potrà contribuire alla ricerca di metodologie e strategie di lavoro per una conduzione del gruppo classe che valorizzi la presenza dell’alunno diversamente abile e gli permetta di esprimere la sua partecipazione, progettando percorso laboratoriali nei quali possa inserirsi a pieno titolo. Infine, come docente della disciplina di Religione Cattolica, potrà attuare una didattica che parta dai bisogni emozionali dell’alunno diversamente abile, per ricostruire gradualmente la sua identità e la sua coscienza, attraverso la stesura di un piano di studi personalizzato, basato su di un approfondimento mirato degli Obiettivi Specifici di Apprendimento e contemplando le difficoltà e le possibilità dell’alunno. L’emanazione del D.P.R. 30/3/2004, concernente l’approvazione degli OSA propri dell’insegnamento della Religione Cattolica, nell’ambito delle Indicazioni Nazionali per i piani di studio personalizzati nelle scuole primarie e paritarie, ha fornito ai docenti un ulteriore spunto di riflessione ed un considerevole materiale di riferimento per la stesura degli obiettivi formativi. Se ci riferiamo agli alunni diversamente abili, occorre considerare che, nella loro logica interdisciplinare, gli OSA della R.C. testimoniano la ricerca costante di una unitarietà dell’insegnamento, tenuto conto del principio della unità del sapere, poiché pur concernenti un preciso ambito disciplinare, sono aperti alla interdisciplinarietà. 36 Nella loro espressione, indicano, inoltre, il livello essenziale di prestazione da far raggiungere, con una ampia e possibile “modellatura” dei percorsi. Nella costruzione di questo «abito di conoscenze e abilità» a misura dell’alunno, le Indicazioni Nazionali forniscono un quadro di riferimento su cui basarsi, nella progettualità, che tenga conto di alcuni principi validi per tutte le situazioni di disabilità e centrati su: – valorizzare le esperienze del fanciullo – riconoscere la corporeità come valore – valorizzare la diversità delle persone e delle culture come ricchezza – praticare l’impegno personale e la solidarietà sociale. Si ritiene utile sottolineare alcuni aspetti di questi Obiettivi Formativi Generali che possano fungere da guida per il docente di Religione Cattolica nella sue scelte metodologiche. • Partire dall’esperienza concreta dell’alunno e valorizzarla sarà il migliore avvio per il momento basilare dell’accoglienza. La storia di vita di ogni persona è una ricchezza e va conosciuta, analizzata, studiata per compenetrarsi nell’altro e comprenderne i bisogni. Un alunno diversamente abile può aver vissuto diverse situazioni fortemente negative o traumatizzanti che hanno inciso nel suo sviluppo psicologico. Basti pensare ai periodi di ospedalizzazione, alle deprivazioni affettive conseguenti, ai dolori fisici, ai vissuti di abbandono percepiti ed altro. Ciò implicherà un atteggiamento di forte rassicurazione, una valorizzazione delle potenzialità, un lavoro di rinforzo dell’autostima per ricostruire nel bambino una immagine di sé positiva ed una identità personale e sociale • Riconoscere la corporeità come valore condurrà ad attuare un insegnamento legato al- l’esperienza agita e guidata, al toccare, al manipolare al muoversi, e connessa all’esperienza senso percettiva, nella consapevolezza che l’apprendere nella dimensione simbolica è inscindibile dalla funzione epistemica della corporeità. • Quando si afferma che la diversità delle persone e delle culture è fonte di arricchimento, viene a sottolinearsi l’importanza di utilizzare situazioni reali dalle quali far nascere la coscienza ed il rispetto delle diversità, per una presa di coscienza della realtà degli handicap. Sarà compito dell’insegnante, nel quotidiano lavoro in aula, come sottolineato nelle Indicazioni, di «trasformare l’integrazione dei compagni in situazione di handicap in una risorsa educativa e didattica per tutti». • Praticare l’impegno personale e la solidarietà sociale comportano il costruire situazioni reali, nella vita quotidiana della classe, nelle quali gli alunni possano sperimentare l’impegno personale, con un lavoro attivo e condiviso. In questa immagine l’alunno diversamente abile deve poter offrire e ricevere stimoli affinché possano formarsi, in tutti gli alunni, identità e cittadinanze solidali. Dalla lettura degli Orientamenti metodologico-didattici, nelle Raccomandazioni per il contributo specifico dell’IRC alla elaborazione dei piani di studio personalizzati nella scuola primaria, a cura della CEI, viene evidenziato un percorso logico che si dipana dagli Obiettivi generali agli Obiettivi specifici, propri della disciplina RC per permettere la stesura degli Obiettivi Formativi. Si sottolinea che gli OF si realizzano attraverso la predisposizione di compiti di apprendimento accessibili agli alunni e, quindi, commisurati alle loro possibilità apprendimentali e, riferendoci ad alunni particolari, bisognerà scegliere obiettivi essenziali, chia- ri e significativi che possano essere corticalizzati/appresi. La loro applicazione richiede un processo graduale di apprendimento con modalità che rispettino le caratteristiche dell’alunno diversamente abile (tempi di attenzione, grado di memorizzazione, scansione delle fasi di consolidamento) e metodologie che rispondano ai bisogni imposti dalla tipologia di minorazione (scelta di sussidi e di materiale strutturato, uso di strumenti informatici e di ausili specifici). Inoltre, l’IdR nel presupposto che gli OF rispondano tutti al principio della sintesi e dell’ologramma, dovrà ricercare con i docenti del suo team tutte le possibili connessioni con i contributi delle discipline e della educazione alla Convivenza Civile. «E dentro, o dietro, le educazioni che scandiscono l’educazione alla Convivenza Civile vanno sempre riconosciute le discipline, così come attraverso le discipline non si fa altro che promuovere l’educazione alla Convivenza Civile e, attraverso questa, niente altro che l’unica educazione integrale di ciascuno a cui tutta l’attività scolastica è indirizzata» (dalle Indicazioni Nazionali). La scelta degli Obiettivi Formativi impegna il docente a commisurarsi con il mondo dell’alunno diversamente abile, con il suo essere, esprimersi, muoversi, comunicare, relazionarsi, interagire con l’ambiente, con le sue difficoltà, con i suoi ritmi, con i suoi bisogni, con le sue stranezze comportamentali. La formulazione più logica, considerato l’alunno e le sue difficoltà, richiede di partire dalla sua esperienza per adeguarsi al suo particolare universo semantico. Ciò presuppone un momento osservativo e riflessivo, un’accoglienza dell’altro e delle sue difficoltà per arrivare ad una condivisione totale, che permetta la costruzione di un processo di crescita affettivo-relazionale 37 (sentirsi accolto, sentirsi contenuto) e poi cognitiva (apprendere a…). Anche l’insegnante di RC dovrà poter dare il suo contributo, assieme all’insegnante di sostegno ed agli insegnanti curricolari, per la configurazione di UDA progressive e integrabili, considerando che le unità di insegnamento/apprendimento hanno la loro efficacia solo se sono interpretate come uno spazio di mediazione progettuale tra le conoscenze da impartire e le caratteristiche apprendimentali degli alunni a cui sono destinate. In questa prospettiva il progetto educativo sarà la risultante di una espressione collegiale riferita agli aspetti indicati nel Profilo Dinamico Funzionale (art. 4 – D.P.R. 24/02/94). Considerazioni finali L’IdR, nella scuola, si trova spesso a doversi confrontare, da solo, con situazioni apprendimentali e comportamentali di alunni diversamente abili, di cui non sempre ha l’esatta informazione; a ciò si aggiunge la pratica, non corretta, di non far coincidere le ore dell’insegnante di sostegno con quelle di RC, per potenziare altri momenti didattici, ritenuti più formativi. Di conseguenza, la presenza in classe di un alunno diversamente abile può essere vissuta come un problema di non facile soluzione, mentre, nei limiti temporali dell’intervento, anche l’IdR potrebbe offrire un suo valido contributo, tenendo conto di alcune linee guida su cui basare la personale azione didattica ed educativa: – approfondire la conoscenza della persona dell’alunno per la relazione; – collaborare con il docente di sostegno per rendere il proprio intervento didattico più efficace; – costruire in aula un clima di accoglienza, sensibilizzando il gruppo classe e 38 motivandolo alle forme di interrelazione e di socializzazione delle esperienze, che valorizzino la presenza dell’alunno diversamente abile; – ampliare nella propria didattica il momento della produzione espressiva (musicale, pittorica, psicomotoria, recitativa), nella quale l’alunno possa offrire meglio il suo contributo; – curare la propria formazione in servizio approfondendo il tema delle diversità; – partecipare ai GLHO (gruppi di lavoro operativi), nei quali esprimere il personale punto di vista e la collaborazione alla stesura del Piano Educativo Individualizzato; – contribuire a costruire nella scuola, e fuori di essa, un ambiente “abilitato” ad accogliere le diversità. Si è consapevoli oggi che i livelli di competenza di un alunno così particolare non si raggiungono con i miglioramenti ottenibili con la cura, l’educazione e la riabilitazione, ma solo ottimizzando l’ambiente di vita, motivandolo adeguatamente alla accettazione delle diversità, abbattendo i pregiudizi, le paure, gli atteggiamenti pietistici, per favorire accoglienza e condivisione, basilari per la cultura dell’integrazione. Tutta la ricerca pedagogica sulla coeducazione nel processo di integrazione di alunni disabili e non, ha posto in evidenza esiti positivi nell’aver favorito e potenziato il processo di apprendimento e di socializzazione degli uni e degli altri, costruendo personalità di migliore equilibrio sociale e psicologico, solidali e tolleranti che sapranno in futuro coniugare efficienza e solidarietà. In questa prospettiva l’IdR può avere una marcia in più se riesce a promuovere quella cultura dell’accoglienza, da cui nasca una volontà organizzativa rivolta a promuovere un reale progetto di abilitazione. In “media” virtus Pluralità di strategie didattiche nella Secondaria di I grado Livio Giorgioni la realtà dei ragazzi e dunque ragionevol«Non era meglio continuare a chiamarla mente foriere di efficacia. scuola media?». Invece no. La Riforma le ha La suddivisione della scuola secondaria di dato un nome più lungo, difficile da proprimo grado in un biennio iniziale ed un nunciare e gravido di tensioni al suo intermonoennio conclusivo riflette abbastanza no: secondaria, ma di primo grado; seconfedelmente i processi dello sviluppo evolutidaria, ma nel primo ciclo. vo di cui si è parlato. Eppure, forse, queChi è dunque l’alunsta scomodità lessino della scuola secale esprime meglio Il prof. Giorgioni ci riferisce in breve la condaria di primo la natura di questo sua esperienza di “pluralismo didattico” grado? complesso e affascinella secondaria di I grado: nel corso di soli Le considerazioni nante ordine scolatre anni, l’evoluzione degli alunni è così sulle possibili stratestico. E non a caso consistente da rendere non solo consigliabigie didattiche da il più breve tratto di le, ma assolutamente necessario adottare adottare nelle unità studi previsto dalla strategie diversificate. Il docente è il primo di apprendimento scuola italiana (un a dover riuscire a padroneggiare la comnon possono presolo triennio), è a plessità del mondo contemporaneo. scindere dalla risposua volta suddiviso sta a questa domanal suo interno (un da fondamentale. Intendo dunque trattegbiennio e un monoennio finale). Esso atgiare, seppure sommariamente, un ritratto traversa come un treno in corsa la fase inidell’alunno di scuola media nelle sue fasi ziale, più delicata ed intensa, della età evolutive essenziali in riferimento alla sua evolutiva dei ragazzi; come si suol dire, arvita scolastica. Traggo queste considerarivano da noi bambini ed escono adulti: zioni dalla mia personale esperienza e mi profondamente mutati non solo nel corpo scuso per i limiti inevitabili della mia anae nella mente, ma anche nelle attitudini, lisi. negli interessi, nell’atteggiamento verso se In prima media arriva un alunno carico del stessi, i coetanei, i docenti, lo studio e cobagaglio di esperienze della scuola primaria. sì via. In quegli anni ha imparato a rapportarsi Richiamare questi dati fondamentali, ben con i compagni e con il mondo degli adulti noti alla psicologia e alla pedagogia è imcollocandosi in una relazione educativa: l’aportante perché è solo dalla analisi attenta dulto, in questo caso l’insegnante, è colui di questi elementi che è possibile concepire da cui si può e si deve imparare, sia dai un piano di strategie didattiche aderenti al39 Da Cuadernos de pedagogía, mensile spagnolo di pedagogia, n. 349, settembre 2005, p. 78. L’illustrazione è emblematica. Certamente evidenzia un’interazione asimmetricamente speculare tra docente e discente. Se continueranno a guardarsi, senza guardare insieme gli ‘oggetti’ del sapere, probabilmente questa illustrazione apparirà come conflittuale o almeno alterante quella discrezionalità o privacy che dovrebbe tutelare l’arte dell’insegnare e quella dell’apprendere. Ma forse rappresenta anche quella correlazione di specularità e di ricerca di spazi e tempi di dominanza tra docente e discente. Come anche quella reciprocità che caratterizza l’asimmetria dell’interazione comunicativa dell’insegnare-apprendere. In tutti i modi rappresenta una comune base minimale di condivisione. Troppo poco per relazionarsi, ma tanto per non trascurarsi reciprocamente! contenuti che trasmette che dall’esempio personale. L’allievo intuisce, in maniera più o meno consapevole, che nell’apprendere dall’adulto si gioca la chance della sua crescita. Egli cresce, dunque per progressiva identificazione con il mondo dei grandi e l’insegnante diventa per lui figura di riferimento a cui guardare con fiducia. Ecco perché accoglie con disponibilità i percorsi suggeriti e gli strumenti necessari: egli è fiero del suo quaderno e dei suoi libri, che utilizza volentieri. 40 In prima media, gli elementi di discontinuità con la scuola elementare possono generare una sana sfida con se stesso e una forte carica motivazionale a fare meglio e di più. Anche la didattica, dunque, dovrà mirare a valorizzare le conoscenze pregresse e le competenze acquisite ed insieme ad incoraggiare l’impiego di tutte le abilità in vista di apprendimenti nuovi, motivando insieme l’entusiasmo e la responsabilità. Nello sviluppo delle unità di apprendimento può essere molto utile il metodo chiamato coo- perative learning, in cui gli allievi, divisi in gruppi di esperti, sono direttamente coinvolti nell’apprendimento proprio ed altrui, e sono incoraggiati ad impegnarsi con serietà sentendosi responsabilizzati dai docenti e gratificati dal riconoscimento dei compagni. Questo metodo consente anche al docente di riconoscere le potenzialità come anche i limiti di ciascun alunno, sui quali lavorare in seguito. L’esperienza insegna, infatti che, se soprattutto all’inizio gli allievi hanno bisogno del suo aiuto per minimizzare la dispersione e migliorare l’organizzazione del lavoro, in seguito essi stessi si sorprendono piacevolmente dei propri successi e sviluppano rapidamente abilità che neppure pensavano di avere, superando così ansie ed insicurezze. L’irrompere dei processi evolutivi tra la fine della seconda e l’inizio della terza media muta significativamente questo contesto. Alla rapida crescita fisica corrisponde, nella persona dell’allievo, una diversa coscienza di sé. Muta profondamente il rapporto con i compagni e soprattutto con i docenti ed il mondo della scuola tout court: ora l’alunno non è più orgoglioso del proprio quaderno e del libro a cui guarda sovente come a elementi che rimandano al suo passato di bambino in cui non si riconosce più e che intende superare. Inoltre, similmente al rapporto con i genitori, egli inizia a comprendere il proprio processo di crescita non più in termini di identificazione ma di differenziazione e a volte contrapposizione con gli adulti. Egli non si fida più ciecamente, ma si sente in diritto e in dovere di vagliare criticamente tutto ciò che la scuola gli propone. La relazione educativa, è evidente, si fa più complessa e non di rado assume i toni della opposizione polemica. Ora l’alunno vuole dire la sua, tende a porsi in un rapporto di tendenziale parità con il docente da cui non accetta più niente a scatola chiusa; tende a rifiutare l’apprendimento passivo e ad esso preferisce il confronto. Conosciamo bene i rischi di tale impostazione se viene eccessivamente assecondata: lezioni in cui ci si limita a dire la propria opinione su argomenti di attualità, ma senza ascoltare veramente, e soprattutto senza apprendere, secondo quel falso modello dialogico inculcato da molte trasmissioni televisive per adolescenti e giovani. Questo dato pone indubbiamente elementi di forte problematicità, ma può anche costituire una chance positiva che stimoli nuovi percorsi nella pianificazione di strategie didattiche. Nella mia esperienza trovo utile portare ai ragazzi di terza media a comprendere le conoscenze acquisite nei due anni precedenti come mattoni con cui costruire ora edifici di saperi adulti e consapevoli, ossia come basi di riferimento per ragionare e discutere evitando la deriva sterile dell’opinionismo relativista. Un solo esempio: il sesto comandamento imparato in prima, il sacramento del matrimonio imparato in seconda divengono la base per una riflessione etica sulla sessualità alla luce degli orientamenti della società attuale e costituiscono un filtro critico per la lettura di giornali, la visione di film, ecc. La didattica per concetti può essere particolarmente adatta e consigliabile, nello sviluppo di unità di apprendimento nell’ultimo anno di secondaria di primo grado. Essa, infatti, servendosi di tecniche quali il brainstorming, soddisfa l’esigenza dei ragazzi di dire la loro e al tempo stesso li aiuta a ordinare e comprendere meglio le loro conoscenze, a riconoscere i limiti e le contraddizioni insite nelle loro argomentazioni e ad allargare gli orizzonti del proprio sapere grazie all’ascolto degli altri. 41 T U T T A U N ’ A LT R A S T O R I A Un romano nel far west di Federico Corrubolo Tutti sappiamo chi sono gli indiani. Li abbiamo visti tante volte assaltare diligenze, urlare sui cavalli, rendersi responsabili di tremende crudelità nei film western. E naturalmente venire puniti in qualità di «cattivi» per tutte le loro malefatte. Il «cattivo» è una funzione insopprimibile in ogni forma narrativa. Esprime la parte oscura che ci portiamo dentro e si invoca la sua sconfitta grazie alle forze del bene che parimenti ci portiamo dentro. Ogni epoca ha i suoi cattivi esattamente come ha i suoi eroi. E così di volta in volta vediamo susseguirsi i persiani, i cartaginesi, giù giù fino ai giapponesi, ai tedeschi: tutti potentissimi ma irrimediabilmente sconfitti dai «nostri», i buoni di turno, greci, romani o americani che siano. A differenza di quanto accaduto per i tedeschi o i cartaginesi, agli indiani è toccato anche l’onore di venire «ricuperati» in qualità di vittime, di minoranze perseguitate. Chi scrive ricorda benissimo le lunghe lezioni di capi scout infervorati dal movimento degli «indiani metropolitani» che nel 1977-’78 ci persuadevano che il tepee era una struttura sociale pari se non superiore al branco e che il Grande Spirito aveva molto da insegnare a Kipling e a Baden-Powell. Oggi gli indiani d’America non sono più di moda come minoranza perseguitata. Su questa “poltrona” si sono insediate altre culture e civiltà, che vengono chiamate in causa (perlopiù da pensatori occidentali) per stigmatizzare vari aspetti dell’occidente: la sua insensibilità, la sua avidità, la sua inca42 pacità di dialogo. Papa Benedetto ci ricorda che l’Occidente «odia se stesso» e per autoaccusarsi adopera di volta in volta argomenti diversi. Si tratta di un caso unico fra le grandi culture del mondo. Nessun Bantu o Yoruba dell’Africa mette in discussione il fatto che la sua tribù è la migliore del mondo, e considera un fatto del tutto ovvio che veri uomini siano solo i Bantu o gli Yoruba: gli altri sono solo mezzi uomini che propriamente non esistono davvero (di qui le feroci lotte tribali che dilaniano l’Africa moderna e l’inefficacia dei tentativi occidentali di «democratizzarla»). La situazione non cambia molto se ci spostiamo in Medio Oriente: le lotte feroci tra sciiti e sunniti in Iraq stanno lì a ricordarci che ciascuna delle due parti si ritiene il vero Islam e invoca sull’altra la guerra santa. La Cina e l’India non hanno nessun dubbio sulla loro innata superiorità, ed è patetica la sorpresa con cui l’Europa fa i conti con un «nazionalismo indù» come fosse una novità, ed una ideologia imperialistica cinese che da Marco Polo in poi non è mai tramontata. Basta scorrere (dopo opportuna traduzione!) i testi scolastici di storia in uso in questi paesi per convincersi che il concetto di «pluralismo» (con l’inquietudine che ne deriva) è del tutto assente in queste millenarie civiltà, che per tutta una serie di ragioni non si sono mai confrontate se non con se stesse. Vale la pena di sottolineare che il caso Occidente è diverso. La curiosità dell’occiden- T U T T A U N ’ A LT R A tale per l’altro da Erodoto in poi è una costante. Inferiore fin che si vuole, d’accordo, ma pur sempre altro-da-sé. E il Vangelo ha conservato questo orientamento. La missione ad gentes è stata condotta certamente allo scopo di illuminare e far progredire popoli «inferiori», ma di fatto ha cambiato la mentalità degli stessi missionari, rendendo l’Occidente capace di ammettere l’esistenza di un mondo altrui, diverso dal proprio e degno di rispetto ancorché in molti casi considerato inferiore. Una riprova singolare di questo sta nella eccezionale vicenda di un mio parrocchiano ottocentesco, Filippo Rappagliosi, che da via Leonina (20 metri dalla chiesa della Madonna dei Monti, in pieno centro storico di Roma) finì proprio fra gli indiani d’America, giusto all’epoca del «far west», di Kit Carson e del generale Custer. Questo simpatico giovane romano era nato nel 1841 e a 15 anni entrò nella compagnia di Gesù, per diventare missionario. Dopo 13 anni di formazione, nell’autunno 1873 si imbarcò per l’America e giunse nel Montana dopo quattro mesi di viaggio. Iniziò il suo apostolato fra le Teste-Piatte, ne imparò lingua e costumi e dopo un anno di predicazione si sposto più a Est, fra i Pendentid’-orecchio. Alla fine del 1876 passò fra i Piedi-neri, dovette imparare daccapo la lingua (del tutto diversa dalle precedenti) e vi rimase fino alla morte, avvenuta il giorno dopo quella di Pio IX, il 7 febbraio 1878, a 37 anni. Un anno dopo i suoi familiari raccolsero le sue lettere che vennero pubblicate a cura della Compagnia di Gesù1. S T O R I A Dai suoi racconti emerge non solo la realtà della vita e della religiosità di alcune tribù indiane che non ci hanno lasciato alcun documento scritto, ma anche la volontà di comprendere la loro mentalità e persino di apprezzarne le virtù. Pur nel sostanziale quadro interpretativo della civiltà migliore che deve far progredire una civiltà inferiore, l’atteggiamento del giovane romano è cordiale ed affettuoso. In nome della fede in Cristo Gesù si mostra capace di accettare usi e costumi lontanissimi dai suoi. A volte ne ride e li presenta come strani e «curiosi», ma senza cadere nella derisione. Il suo stile è brioso e vivace. Vale la pena di ascoltare qualcosa. Un capo indiano tiene un breve discorso alla sua tribù la sera del Venerdì Santo 1874: (Vi metto qui per intero il piccolo suo discorso ed è proprio quale egli l’ha fatto, perchè io l’ho chiamato in camera, me lo son fatto ridire, l’ho scritto ed ora ve lo traduco alla lettera in italiano): «Uomini e donne tu tutti ti sei adesso confessato, e tu tutti ti vuoi adesso comunicare. Prenderai tu forse dopo di nuovo il peccato? Se tu vuoi riprendere il peccato e comunichi è un grande peccato, se tu ti sei confessato volendo riprendere il peccato, è un grande peccato. Ho finito». Poi s’incominciò la Messa cantata2. L’abbigliamento degli indiani in un giorno di festa è descritto con precisione: Quel giorno erano vestiti a festa, cioè, chi ne avea, era avvolto in una coperta di lana nuova, oppure una pelle di bufalo ucciso all’ultima caccia. Poi colori rossi in faccia o solo in Memorie del P. Filippo Rappagliosi d. C. d. G., missionario apostolico nelle montagne rocciose, Roma, 1879. Debbo alla cortesia di una discendente, Elisabetta Ponti Rappagliosi le fotocopie di questo volume ormai introvabile. 2 Memorie..., Lettera XI, Stevensville 11 aprile 1874, p. 91. 1 43 T U T T A U N ’ A LT R A fronte, o solo alle guance, o solo al mento, o per tutto il viso, le orecchie e il collo, secondo il gusto di ciascuno; e conchiglie, e grani di vetro, e cocci e filo di ottone o di ferro attorcigliati alle trecce, e collane di vario colore e specchi e crocefissi e medaglie pendenti sul petto, e tutto il resto che vi descriverò più a comodo un’altra volta. In una parola una vera mascherata per noi, ma per loro l’ultima moda3. Ecco le cronache di un mese mariano fra i Piedi-neri: La nostra buona madre Maria Santissima ha dovuto rassegnarsi a far qui la figura d’una buona selvaggia con tutta quella roba che le abbiamo messo addosso: perché dovete sapere che quello, che dalle parti nostre sono i voti d’oro e d’argento e le pietre preziose e le gemme, qui sono tutti i gingilli d’ogni genere de’ buoni selvaggi. La Madonna della missione di S. Ignazio ha una raccolta di doni tutta sua propria. Al petto una bella collana di conchiglie, e poi molti giri di grani di vetro a vari colori con il risalto di qualche grosso dente di lupo, qualche unghia di orso ed altre galanterie. Intorno al quadro vesti, cinte, fazzoletti, scarpe, maniglie d’ottone o di ferro, specchi, catenelle, bottoni ed ogni altro simile oggetto avuto dai bianchi e prima d’ora sconosciuto ai selvaggi. Nel mettere in ordine tutto questo tesoro (o questo sacco di robivecchi come diremmo noialtri romani) mi ci volle non poca pazienza. Trovai tra le altre offerte un cucchiaino da caffè ed un secchiello di latta che mi dettero non poco da fare per metterli al posto con qual- S T O R I A che decoro. Voltalo di qua, voltalo di là, mi pareva sempre un cucchiaino da caffè! Poco dopo aver finito d’ordinare ogni cosa tornai in chiesa e trovai un selvaggio in piedi sopra un banco che stava con molta devozione occupato ad attaccare la sua offerta. Era un pezzetto di coccio e tre fiammiferi e me li era andati a mettere proprio all’orecchio della Madonna! Poi si mise con la testa piegata sulla spalla, guardando fisso e parea che dicesse : «sì, stanno bene»4. Ancora più interessanti le osservazioni sul «galateo dei selvaggi» descritto in una lettera al fratello Luigi: Te ne stai un giorno in camera scrivendo o leggendo. Ecco che uno di fuori apre la porta e entra. Chi è? Un selvaggio. Come è entrato senza dirti niente, così senza dirti niente si mette a sedere dove più gli piace in camera tua. Piglia la sedia, oppure si mette a giacer per terra davanti a te o dietro le tue spalle, con la faccia voltata dove vuole, né più né meno che se tu non ci fossi. Non dicono mai al principio per qual motivo son venuti: per qualche tempo non dicono nulla: anzi, se tu appena essi entrano, domandi che vogliono, sei sicuro di averne per risposta ta che significa nulla. Saranno venuti per maritarsi, o perché il padre o la madre sta per morire, ma risponderanno ta. Allora tu seguiterai a leggere o scrivere come se nessuno ci fosse in camera; sei padrone tu come sono padroni loro: oppure potrai discorrere di quel che vorrai, aspettando che venga fuori il rospo come dicono i romani, perché sei sicuro che per qualche cosa sono venuti. Memorie..., Lettera XI Stevensville, 11 aprile 1874, pp. 91-92. Vale la pena di osservare che quando il giovane gesuita scrive bufalo riproduce l’inglese buffalo, termine che in italiano identifica il bisonte, la principale risorsa economica degli indiani dell’epoca. 4 Memorie..., Lettera XVIII, S. Ignazio, 10 maggio 1875, p. 115. 3 44 T U T T A U N ’ A LT R A Finalmente dopo una mezz’ora, un’ora di perdi tempo il selvaggio ti interrompe e dice: vieni che c’è uno che sta per morire! Sia timidità, sia regola di aspettare prima di domandare, il fatto è che questo è il loro modo di fare... Le cerimonie poi usate nell’entrare si usano nell’uscire, vale a dire il selvaggio si alza senz’altro e esce di tua camera come un cane muto. Se ti ha domandato qualcosa; una medaglia, un poco di tabacco da fumo, un poco di patate e che so io: tu gli dai la cosa ed egli se la piglia e se ne va: Grazie, oh, quanto è gentile, Vostra riverenza c’ha un cuore d’oro! Che? ci vuol altro, queste son parole inutili da queste parti. Se poi viceversa il selvaggio ti dà qualche cosa tu hai da fare lo stesso e sei dispensato dal dire grazie. Sono molti i passi interessanti (ed a volte spassosi) contenuti nelle ventinove lettere del volume. Dietro al tono vivace e scanzonato traspare però un profondo rispetto per il modo di credere e di vivere dei «selvaggi». Rappagliosi descrive il loro modo di credere e ne resta spesso edificato, pur annotando di continuo l’enorme distanza culturale, mentale che separa i «pastori» dal «gregge». Dovendo però concludere vale la pena di citare almeno l’inizio di una lettera del luglio 1875, la prima scritta dalla missione di 5 6 S T O R I A S. Pietro, nel Montana del Nord. Essa riveste infatti un carattere in qualche modo emblematico: Eccomi arrivato a S. Pietro. È una grande consolazione per un romano. Ma questo S. Pietro è un po’ differente da quel di Roma. Il Palazzo e la Basilica qui consistono in due piccole case di travi e di fango, col tetto coperto di terra: ognuna delle due case non è altro, ben inteso, che una camera a pian terreno. La piazza è il nostro campo, e il colonnato lo formano le montagne e colline che chiudono tutto intorno la nostra piccola valle...5 Forse proprio qui troviamo una chiave di lettura profonda del dialogo fra culture. Il gesuita romano che immagina nel Montana una piazza S. Pietro di terra e di fango dimostra di essere un cristiano «apostolico romano» e proprio per questo capace di vedere sotto qualunque cielo un frammento della Chiesa catholica. Un giovane capace di vedere il mondo con occhi non suoi e di portare al mondo il Vangelo della Chiesa senza complessi e senza paure. Padre Filippo morì assistito da un ufficiale dell’esercito americano, protestante. I «suoi» selvaggi lo piansero amaramente. La sua tomba è nella città di Helena, nel Montana centrale. In fondo, il cielo è lo stesso di quello di via Leonina... Memorie..., Lettera XIV, Stevensville, 12 giugno 1874, p. 105. Memorie..., Lettera XIX, S. Pietro, 27 luglio 1875, p. 116-117. 45 L E O P E R E E I G I O R N I Le opere e i giorni di Pasquale Troìa È il secondo anno. Di questo festival biblico. Un’idea originale. Che lascia stupiti alcuni e sospettosi forse altri. Ma intanto il festival si celebra, la gente partecipa numerosa, la Bibbia si lascia ospitare da tutto ciò che l’uomo ritiene degna di lei e della Parola del Dio che in essa si rivela. ✔ Il tema di quest’anno: I luoghi delle scritture. ✔ La finalità e i destinatari: il Festival è rivolto a tutti coloro che desiderano avvicinarsi alla Bibbia. Che questo incontro avvenga per la loro fede, oppure solo per curiosità, o magari per il gusto del bello espresso nell’arte sacra, o attratti dal gioco, l’importante è l’incontro tra l’uomo di oggi, in cerca di risposte per continuare a vivere, e il Libro che, pur affondando le sue radici lontano dal nostro tempo, rimane tuttavia Parola viva, rispondente alle attese dell’uomo contemporaneo. ✔ Le sezioni: i luoghi della Scrittura sono vissuti lungo il filo conduttore della manifestazione, che rimane quello della Bibbia in rapporto ai cinque sensi e strutturano le sezioni del festival: • udito: parolacheparla: Le scritture parlano in echi molteplici, suscitando ascolto riflessivo e interrogante… (conferenze, presentazione di libri, seminari formativi, staffetta di lettura); • vista: paroladavedere: Le scritture dischiudono l’invisibile, affinando lo sguardo sino a farne 46 contemplazione… (itinerari museali, leggere un’icona, installazioni d’arte, multimedia, spazio cinema); • gusto: gustarelaparola: Le Scritture sono cibo da condividere, rinviamo a un’altra fame e un’altra sete… (aperitivi biblici, a pranzo con l’autore, stand gastronomici); • tatto: parolatralemani: Le scritture non sono semplici segni tracciati, chiedono coinvolgimenti partecipi… (Bibbia scritta a mano, giochi e laboratori, percorsi biblico-narrativi, burattini); • olfatto: profumodiparola: Le Scritture divengono buon odore diffuso da chi le prega, le musica, le canta, le danza, le recita, le mette in versi… (spettacoli teatrali, recital, danze, mimo, concerti). ✔ Il programma: molto interessante, con autorevoli personalità: cfr. www.festivalbiblico.it. Oggi esiste anche l’Associazione Amici del Festival Biblico: è un gruppo di persone che si sta formando attorno ad un grande desiderio: rendere possibile il sogno di una vera e propria festa della Bibbia. Quando queste notizie saranno lette, il festival sarà concluso. Ma saranno informazioni sulla sua esistenza e quindi da mettere in programma per il prossimo anno e per una possibile partecipazione. Le Monde è un autorevole e storico quotidiano francese. Ma oltre all’impegno nel raccontare ed interpretare la storia quotidiana, mensilmente documenta e racconta i diversi mondi ed universi delle culture e della storia: Ecco allora le pubblicazioni L E O P E R E settimanali de Le Monde des Religions, Le Monde de l’Education… La rivista (82 pagine) è pregevole non solo per gli argomenti e per il tema del dossier che ogni numero presenta, ma anche per la qualità narrativa ed artistica delle immagini. Il linguaggio è chiaro, essenziale, paratattico, illuminante e con tutte quelle caratteristiche che qualificano il francese e la rendono una lingua che permette di parlare di ‘idee chiare e distinte’. I titoli sono efficaci, le espressioni sono da adottare come sintesi concettuale delle tematiche ma anche come efficaci formule di comunicazione. Autorevoli sono gli autori degli articoli e gli intervistati. Molto utile le informazioni sulle riviste religiose (per esempio Christus, Choisir, …) o che pubblicano articoli di interesse religioso (Études, L’arche, il mensile del giudaismo francese…). Molto attuali e spesso documentati con interviste e articoli le pubblicazioni religiose. Alcune (purtroppo poche) di queste poi le troviamo tradotte in italiano. Ovviamente un panorama dei convegni, seminari ed incontri religiosi francesi. Il sacro e il religioso nella sua contemporaneità e nelle sue storie e tradizioni è documentato e raccontato con tutti i suoi linguaggi: artistici, teologici, musicali, liturgici, letterari… La rivista pubblica anche dei numeri speciali (l’ultimo è Le judaïsme, 20 clés pour comprendre) e guide e strumenti per conoscere il mondo storico e attuale delle religioni. Una possibile difficoltà da parte di qualche collega: è scritta in francese. E beh! È soltanto una lingua e non una difficoltà! Ed una lingua europea, cioè della comunità/unione della quale siamo cittadini. Oggi non possiamo privarci dei prodotti culturali europei solo perché la lingua può farci ostacolo. Provate a chiedere a chi si è innamorato di qualche ragazza che parlava altre lingue. Pur di amarla e di ‘conquistarla’, ha imparato non solo la sua lingua, ma magari è andato a vivere anche nella sua nazione di cui ora è un cittadino! E I G I O R N I La rivista è apprezzata per lo sforzo e l’impegno a mostrare bene «le numéro d’équilibriste nécessaire pour présenter les differentes religions en respectant leur identités sans prendre parti pour l’une ou l’autre». Il sito amplifica queste informazioni e le documenta: www.lemonde-des-religions.fr/index.php. AA.VV., La luce sul tetto del mondo. Il Buddismo raccontato ai bambini, collana Nuovi amici, Edizioni Dehoniane Bologna 2006, ISBN 88-1076503-6, € 6,00. È la terza pubblicazione della collana (le prime due le abbiamo già recensite ed erano Mio cugino ha la kippà, L’Ebraismo raccontato ai bambini e Salam aleikum, Yasmin. L’Islam raccontato ai bambini: vedi RSC 2/2005). La collana “Nuovi Amici”, attraverso esperienze e linguaggi comprensibili per i bambini, presenta i tratti caratteristici delle varie religioni perché la conoscenza favorisca il dialogo e l’amicizia, allontanando il sospetto e la paura. Anche questa bellissima pubblicazione contribuisce egregiamente alle finalità della collana. Effettivamente sono raccontate e spiegate parole come “nirvana”, l’“ottuplice sentiero”, “mantra”, purificazione, “quattro nobili verità”… ed alla fine buddismo e cristianesimo a confronto. Il tutto in modo ludico e mediante storie di bambini e con qualche attività. La pubblicazione è aperta a ricevere «qualche avventura sui nuovi amici» che possono essere inviate a: [email protected]. oppure a: Redazione EDB Junior, via Nosadella, 6 – 40123 Bologna. Chi sa che gli IdR con i loro bambini della Scuola dell’Infanzia e con i ragazzi della Scuola Primaria non inventino altre storie condivise, considerando che le classi ormai sono sempre più ‘colorate’ di multiculturalità e multireligiosità… 47 L E O P E R E Da alcuni anni l’Assessorato alle Po l i t i c h e Educative e Scolastiche del Comune di Roma organizza e promuove iniziative, eventi e pubblicazioni per una educazione interculturale a Roma. Abbiamo avuto modo di parlarne altre volte su queste pagine. I protagonisti di questa educazione sono le scuole, i suoi studenti e i loro docenti. E tutte quelle istituzioni ed agenzie che oggi cooperano per contribuire a trasformare Roma in una città più solidale ed ospitale, secondo la sua tradizione e secondo un obbligato senso del futuro. Le iniziative sono molteplici e diverse. Conoscerle non sempre è facile. Gli strumenti e i mezzi sono • Intermundia News (il bimestrale sulle iniziative di Educazione Interculturale a Roma): ma spesso le informazioni sono già ‘avvenute’ e si arriva ad iniziative già realizzate. Però sul bollettino sono documentati eventi, progetti scolastici, pubblicazioni. Il bollettino è inviato in tutte le scuole ma più comodamente è visibile ondine su www.comune.roma.it/dipscuola. • Un appuntamento annuale in maggio durante la Festa Intermundia nei Giardini di Piazza Vittorio, recentemente intitolati a Nicola Calipari, a Roma. • Frequentare periodicamente la sede dell’Assessorato in via Capitan Bavastro, 94 – 00154 Roma. Con la presenza spesso si riscattano più informazioni e materiali che non con una semplice telefonata (sempre possibile ai numeri 06/671070008 dell’Assessorato e 06/671070201 del Dipartimento). Da tener presente che molti materiali e strumenti sono distribuiti gratuitamente (sempre garantendo una utilizzazione didattica). • Istituire in ogni scuola un polo di informazione, coordinamento e promozione di iniziative interculturali per un’educazione alla convivenza civile, interculturale ed interre48 E I G I O R N I ligiosa. Così come prevedono e richiedono i documenti della scuola della Riforma. Molti docenti di religione collaborano con le iniziative dell’Assessorato; in particolare con il Tavolo Interreligioso (coordinato dalla prof.ssa Paola Gabrielli). Che dire di tutto questo ‘fervore’ istituzionale? Almeno alcune osservazioni: ✔ finalmente le istituzioni si assumono queste responsabilità civili e specificamente educative; da ricordare che le istituzioni sono fatte di persone che professionalmente (o meno) sono motivate in questi progetti; ✔ il lessico di questi progetti ed iniziative predilige sempre la preposizione inter-, ma spesso viene confusa con quella multi-; per cui si caratterizzano come interculturali attività e progetti che sono di reciprocità multiculturale, cioè promuovono una reciproca conoscenza delle realtà culturali ed etniche mediante progetti, attività, iniziative e pubblicazioni. Tale conoscenza reciproca è fondamentale, ma soltanto preliminare per una educazione interculturale, che ovviamente richiede un progetto educativo. Affinché la conoscenza non si stemperi in curiosità soddisfatte ma inneschi invece un processo di cambiamento di comportamenti e di mentalità che qualificano identità dialogiche. ✔ Molti insegnanti di religione partecipano a queste iniziative interculturali. Alcuni garantiscono una presenza soprattutto a livello di base, nel fare lezione o nel promuovere progetti interculturali. Ma la loro presenza non è ancora ‘adulta’ professionalmente e istituzionalmente. I loro progetti e le loro iniziative spesso restano circoscritte alla scuola o al territorio, mentre alcune, per la loro qualità e per il paradigma culturale ed educativo che le caratterizza, meriterebbero di essere promossi ad una informazione più estesa e forse anche alla pubblicazione. Come per esempio ha fatto il nostro collega prof. Dario De Santis e forse come lui anche altri (che però non fanno pervenire informazioni) (cfr. box a p. 51). L E O P E R E ✔ Nell’ambito delle istituzioni cattoliche esistono molte associazioni, piccole istituzioni locali ed iniziative che promuovono il dialogo interculturale e specificamente interreligioso. Ma spesso la loro presenza è nella ‘sacrestia’ del mondo. O forse nella piazza antistante la parrocchia. Molte sono assenti nella cooperazione istituzionale, comunale, nazionale ed europea. Spesso tale assenza trova la sua autogiustificazione nelle lamentate difficoltà economiche o forse nella scarsa presenza di operatori. Non sempre è così. Il più delle volte è dimenticanza, espressione di una mentalità che privilegia la prossemicità del bisogno e non anche l’organizzazione delle risposte ai bisogni. Per esempio nell’ultima pubblicazione del Tavolo interreligioso (quella del libro e del DVD “Conoscere l’altro. Luoghi di culto a Roma”: cfr. box a p. 50) sono documentati i luoghi di culto di cinque comunità religiose presenti a Roma e che hanno aderito al Tavolo interreligioso, ma non sono presenti i luoghi di culto cattolici! In questo modo non è né garantita la multireligiosità delle comunità religiose presenti a Roma né tanto meno la finalità del dialogo interreligioso che il progetto intende realizzare. Le motivazioni di tale assenza? Ovviamente alcune si possono immaginare (certamente non possono essere documentate tutte: ma perché? Certamente è stata fatta una scelta: ma con quale criterio?). Mentre altre motivazioni non sono dovute all’Assessorato né al suo Tavolo interreligioso. Per l’assenza delle comunità cattoliche le motivazioni sono quelle del Vicariato di Roma e del suo Ufficio per la pastorale scolastica. Più volte ed in diverse occasioni il suo Direttore, mons. Manlio Asta, ha precisato e documentato le motivazioni per cui non è stato firmato il protocollo di intesa tra l’Assessorato e il Vicariato di Roma a proposito del tavolo interreligioso: in realtà, il Vicariato si è reso disponibile «a partecipare a tavole rotonde e a dibattiti a più voci su temi specifi- E I G I O R N I ci e a dare il suo contributo alla eventuale stesura di sussidi» (come ha scritto mons. Asta già nell’aprile 1998 e poi ripetuto ad ottobre 2001), ma il Vicariato non è stato più interpellato da parte dell’Assessorato. Viceversa, il Vicariato ha declinato l’invito a partecipare ad iniziative di “presentazione” delle diverse religioni o confessioni da parte del Tavolo interreligioso perché, a differenza di esse, la Chiesa cattolica ha già uno spazio specifico nella scuola, senza intraprendere attività extrascolastiche. Infatti – argomenta mons. Asta – mentre può essere significativo ascoltare un esponente di altra religione che presenta la propria esperienza spirituale in due ore, sembra superfluo fare altrettanto per presentare il cattolicesimo, quando c’è un’ora a settimana di tempo per farlo. Al contrario, sarebbero benvenuti i dibattiti e le tavole rotonde con la presenza anche di esponenti cattolici, o la partecipazione alla produzione di sussidi [come il DVD di cui parliamo]; ma la collaborazione del Vicariato non è stata più richiesta per simili iniziative. Evidentemente l’Assessorato chiedeva una partecipazione senza differenze (“o tutto il pacchetto, o niente”). E questo spiega l’assenza delle ‘realtà cattoliche romane’ nelle iniziative del Tavolo interreligioso. Tale documentazione chiarisce le motivazioni da un punto di vista formale ed istituzionale, ma non risolve la reale assenza di informazioni sui luoghi di culto cattolico a Roma che l’utente si attende e di cui non può che rilevare l’assenza. Anche perché nel precedente CD-ROM (Conoscere l’altro: Culture e religiosi. Tavolo Interreligioso di Roma) sono stati coinvolti due IdR (il prof. Gianmario Pagano e il prof. Pasquale Troìa) nel presentare le caratteristiche essenziali del cristianesimo di confessione cattolica. In quest’ultimo invece riscontriamo soltanto un’assenza che non passa ovviamente inosservata, anche perché è rilevante e dominante la presenza delle chiese cattoliche a Roma! 49 L E O P E R E Il DV D Luoghi di Culto a Roma si apre con un magnifico e azzurro cielo di Roma, attraversato da uccelli, con il cupolone di san Pietro in primo piano e campane a festa, ed una voce che annuncia: «Roma è per tutti la città della cattolicità, ma da sempre, dal suo stesso nascere è stata anche il crocevia di popoli, culture e religioni diverse». Sei studenti delle scuole di Roma, dai nomi e dalle identità multietniche e multireligiose (Krystle, Daniel, Francesca, Furio, Jawid, Margherita), vanno alla scoperta dei luoghi di culto di sei comunità religiose di Roma: qui incontrano un rappresentante di queste comunità che spiega la simbologia dei luoghi, la loro funzione, i modi di pregare dei credenti ed alcune caratteristiche della fede. Gli studenti osservano, domandano, esprimono curiosità. Gli incontri cominciano ✔ nella moschea di Monte Antenne a Roma (con Omar Camilletti del Centro Culturale Islamico d’Italia), ✔ poi nel monastero buddista di Santa Cittarama [=il giardino del cuore sereno] (con Bhikkhu Chanda Palo, Unione Buddhista Italiana), ✔ e di seguito nel luogo di culto della comunità valdese a Roma (in piazza Cavour, con il pastore Antonio Adamo, Coordinamento delle Chiese Protestanti); ✔ nell’unico tempio induista in Italia (ed il terzo tempio in tutta Europa) (con Svamini Hamsananda Giri, Unione Induista Italiana); ✔ nel Tempio maggiore [sinagoga] nel ghetto ebraico di Roma (con Anna 50 E I G I O R N I Ascarelli Blayer Corcos, Comunità Ebraica di Roma). Ed infine l’incontro con Maria Coscia, assessore alle politiche educative scolastiche del Comune di Roma (nello sfondo delle ‘cupole’ della sinagoga e delle chiese cattoliche romane) che spiega le finalità del Tavolo interreligioso: riconoscere che «le religioni sono una parte importante delle culture di ciascun paese» ed educare gli studenti al dialogo tra le culture e le religioni. Il DVD permette di percepire alcune quotidianità religiose di queste comunità e soprattutto alcuni elementi che spiegano le gestualità delle preghiere e le simbologie dei luoghi, motivando il tutto con gli elementi che caratterizzano le loro religioni. Queste ‘presentazioni’ si prestano molto bene ad una introduzione ad un approfondimento sui diversi ambiti che il DVD presenta, stabilendo comparazioni e rintracciando elementi dialogici. All’insegnante di religione e al docente di arte il compito di far immaginare e documentare (con qualche visita o con un percorso iconografico adeguato) gli elementi che caratterizzano (pur nella loro diversità stilistica e culturale) i luoghi di culto dei cristiani cattolici. Ho già sperimentato (nel biennio di un Liceo Scientifico) l’utilità di questo DVD: funziona e permette anche di proporre attività e suscitare domande e problematiche da parte degli studenti obbligando spesso il docente di religione a studiare ‘con più contemporaneità’ i credenti appartenenti a quelle religioni che spesso i libri di testo (e non solo quelli di religione) lasciano apparire come lontane nel tempo e circoscritte ad aree geografiche lontane da noi. Invece tutti siamo presenti in mezzo a tutti. L E O P E R E Il nostro collega di IRC, il prof. Dario De Santis, con gli studenti della classe 2E del Liceo-Ginnasio “Dante Alighieri”, nell’ambito del tema proposto dal Tavolo interreligioso “I luoghi di culto nelle diverse religioni” per l’anno scolastico 2004-05 ha presentato al suo Istituto un progetto interessante che gli è stato approvato e finanziato. Ora quel progetto è una realtà. È un DVD con due filmati, differenti tra loro solo per la presenza o meno di sottotitoli chiarificatori delle immagini. Il primo filmato, con sottotitoli, tende a coinvolgere soprattutto la sfera cognitiva dello spettatore, il secondo, senza sottotitoli, privilegia la sfera sensibile ed emotiva. Questo DVD è stato presentato al Tavolo interreligioso del Dipartimento delle Politiche Educative e Scolastiche del Comune di Roma, ricevendone Paolo Aragona, Il sorriso del cuore, Newton Compton Editori, Roma 2006, pp. 142, ISBN 88-5410604-6, € 7,90. Walter Veltroni, che presenta questo romanzo, lo definisce «la storia di un atto d’amore». È la storia della scoperta di se stessi mediante un’esperienza di adozione, quindi della scoperta di «una nuova visione dell’esistenza, quella di poter amare anche a distanza, di amare chi vive in realtà diverse». Il romanzo esemplifica e racconta le maggiori tematiche che l’adozione a distanza porta con sé: «il desiderio della solidarietà che è nel cuore di ognuno ma che convive, spesso, con il desiderio della gratificazione; il senso del possesso che si prova nei confronti di chi si aiuta; la tentazione che si ha di diventare artefici E I G I O R N I un vivo apprezzamento. Le riprese avevano tre ambiti di interesse: ✔ immagini del culto dal vivo ✔ il rito e il comportamento rituale dei credenti ✔ la musica sacra delle diverse tradizioni religiose. Perciò il titolo del DVD opportunamente è “L’uomo e il tempio. Tra parole, silenzi e musica. Un viaggio tra vecchi e nuovi culti nella capitale del cattolicesimo”. La scelta delle religioni si è basata su di un criterio cronologico relativo alla presenza e all’arrivo delle diverse fedi a Roma: Ebrei, Cristiani di confessione e tradizione cattolica, valdese, luterana, Testimoni di Geova, Cristiani ortodossi, Bahai, Musulmani, Hare Krishna, Buddisti di tradizione tibetana, Buddisti giapponesi di tradizione Soka Gakkai, Sikh, Buddisti della comunità cinese di Roma. Il DVD può essere richiesto al nostro collega ([email protected]), che è anche disponibile a condividere le esperienze e quindi a facilitare realizzazioni di progetti simili. della vita degli altri e di colonizzane il cuore». Aragona costruisce una storia breve (70 pagine) e – da buon insegnante – la rende leggibile anche alla luce di «materiali per la riflessione e l’approfondimento» (a cura del prof. L.O. Rintallo) didatticamente finalizzati per ognuno dei sette capitoli del romanzo con spunti di riflessione e approfondimenti disciplinari. Un’ottima idea che documenta il romanzo esemplificando e spiegandone il contesto storico, culturale ed interdisciplinare. Valorizzando ancor più le parole e la storia fino a rendercelo meno romanzo e più realtà. Come ulteriore espressione dell’amore che Aragona pratica per l’Africa e i suoi abitanti, ha completato questa polivalente pubblicazione con «La nostra Africa. Breve guida cinematografica con 35 schede di film» (a cura del giornalista G. Maritati). In appendice la scheda di “Ostia per l’Africa”, il Coordinamento giovanile nato nel 2004 per volontà del “Gruppo studentesco di iniziativa sociale” del Liceo scientifico “A. La51 L E O P E R E briola” di Ostia, dove insegna il prof. Aragona. Ed infine, utili indirizzi e siti web delle organizzazioni promotrici di ‘Ostia per l’Africa’ e altre organizzazioni impegnate per il Malawi. La pubblicazione (più che soltanto un romanzo) permette agli insegnanti (e non solo di IRC) di avere a disposizione strumenti e linguaggi diversi ma tutti globalizzati e finalizzati a creare – soprattutto a scuola – opportunità di conoscenza e di amore per gli africani e di sostegno per i volontari e i missionari che nelle terre del “continente di Gesù Cristo” si fanno operatori di pace e di giustizia. Per saperne di più, vedi l’articolo della rubrica Incontri romani (pp. 59-60). È stato pubblicato il Catalogo della Terza Rassegna internazionale di illustrazione per l’infanzia che abbiamo recensito nell’ultimo numero 4 del 2005. Il tema è quello dell’acqua. Le pagine del catalogo raccolgono le illustrazioni (a tutta pagina) in mostra con una scheda biografica per ciascuno dei 63 artisti. Le immagini sono belle, comunicative, coinvolgenti, particolari ed originali. Gli ideatori della mostra (M. Maggio e A. Nante) presentano la rassegna e gli illustratori. Presenti altri contributi come quello di E M. Gallizoli (fenomenologo della religione) che propone una breve scheda de L’acqua nelle religioni. Il formato del catalogo è 21x28,5, copertina in brossura, pubblicato da Edizioni Messaggero di Sant’Antonio, Basilica del Santo, via Orto Botanico, 17, 35123 Padova.2005, 207 pagine, € 25,00, ISBN 88250-1709-X. Cuadernos de pedagogía è una importante rivista di pedagogia, che quest’anno celebra il suo 31° anno di pubblicazione. Edita a Barcellona, documenta e rileva anche le attività delle altre regioni della Spagna. 52 E I G I O R N I È una rivista mensile, di ben 118 pagine (ogni numero costa 7,5 euro), edita da CISSPRAXIS (www.praxis.es) che appartiene al Gruppo Editorial Wolters Kluwe, un’azienda editoriale presente in 25 paesi che realizza pubblicazioni in campo educativo, scientifico, medico, formativo… La rivista è stampata in tre colonne, facilitando così la lettura (eccetto il dossier sul tema del mese che è in due colonne). È scritto in uno spagnolo molto accessibile, chiaro e semplice, nonostante la complessità di alcune problematiche pedagogiche. La rivista si articola in diverse sezioni tra le quali una parte rilevante è riservata alle esperienze didattiche ed ai progetti educativi, e al tema del mese. Attualità, reportage, agenda dei convegni e delle attività nazionali, così come spazi per le opinioni e un notevole e speciale spazio per la recensione di libri e strumenti didattici. Cuadernos de pedagogía ha come destinatari i docenti e gli operatori della scuola, dalla Educazione infantile (0-6 anni, distinta in due cicli da 0-3 a 3-6), all’Educazione primaria (da 6 a 12 anni suddivisa in 3 cicli), alla ESO (Educazione secondaria obbligatoria, dai 12 ai 16 anni suddivisa in due cicli, dai 12-14 ai 14-16 anni) ed infine al Bachillerato (dai 16 ai 18 anni) che dà luogo al titolo di Bachiller (maturo). Gli argomenti e le tematiche proposte sono quelle che ogni docente si augura di leggere: perciò la rivista risponde bene ai bisogni professionali degli insegnanti. A differenza di altre riviste (anche italiane) Cuadernos de pedagogía non presenta materiali didattici immediatamente fruibili (non è una rivista didattica), bensì propone studi, opinioni, esperienze e quanto di professionalmente utile al docente. Gli autori sono qualificati come docenti universitari, ma anche maestri e docenti che ogni giorno vivono la loro professione in classe con gli studenti. Nei numeri consultati manca una qualche presenza di riferimento ai problemi pedagogici dell’insegnamento della religione. Le immagini sono fotografiche ma anche illustrazioni e disegni dei bambini, a volte molto efficaci. R I P R E S E & D E T T A G L I La Bella e la Bestia, di Gary Trousdale (Usa 1991) di Andrea Monda Ecco un altro film che si rivela davvero efficace, all’interno di un corso di religione cattolica nelle classi medie superiori (ma suppongo anche in quelle inferiori), in particolare per introdurre gli studenti ad un tema che è il tema del cristianesimo: la carità. Come ha ben evidenziato la prima enciclica di Benedetto XVI, la carità non è un argomento ma è l’essenza, il cuore stesso del messaggio cristiano perché Deus Caritas est. Non si può quindi eludere, nei cinque anni di corso, un continuo ritornare su questa dimensione, davvero essenziale, della religione cattolica. Un prezioso ausilio per impostare e sviluppare il discorso cristiano sulla carità è la pellicola realizzata dalla Disney nel 1991, sotto forma di cartone animato (dopo la prima versione di Jean Cocteau del 1946 con Jean Marais) che riprende l’antica e famosa favola francese. Ausilio prezioso per una serie di motivi: il film rappresenta una delle ultime migliori pellicole della Disney, per bellezza dei disegni e delle musiche (2 premi Oscar per colonna sonora e canzone) e, soprattutto, la maggior parte degli studenti conoscono bene il film per averlo visto, magari qualche anno prima, in VHS o DVD (inoltre è molto facile procurarsene una copia in uno dei suddetti supporti). Del resto è uno di quei film (un altro è Men in black, già presentato in questa rubrica, vedi n. 2/2005) che, proprio perché è perfettamente noto agli studenti, non necessita di una nuova visione in classe, ma può essere illustrato e spiegato puntando solo sulla memoria della classe; in questo film non c’è infatti una sequenza particolare, una scena-chiave (come nel caso di Galline in fuga, vedi n. 1/2006) ma il tema della carità, che qui è ciò che si vuole illuminare e sviluppare, emerge prepotentemente da tutto il racconto e il senso della storia. La carità è, in qualche modo, la cosiddetta “morale della favola”; come già detto, infatti, qui ci troviamo di fronte ad una favola classica, con tanto di morale. n n n Innanzitutto, la favola… I giovani studenti delle classi medie superiori, al contrario dei loro genitori e dei loro nonni, hanno per lo più perso il contatto con il mondo delle favole e con l’oralità del racconto, peculiarità fondamentale di quel mondo. Se conoscono alcune favole non è perché qualcuno, in famiglia, gliel’ha raccontate ma proprio grazie alla continua riproposizione in versione animata della Disney. Non è molto (si perde davvero tanto senza la dimensione orale-relazionale della narrazione), anche perché la “commercializzazione” operata dalla Disney di questi testi è senz’altro “pesante”, ma comunque è qualcosa. Su questa piccola base si può costruire un discorso, una riflessione. Importante è riuscire a trasmettere l’aspetto più bello del mondo delle favole: la meraviglia. Su questo tema hanno scritto pagine mirabili due scrittori inglesi, entrambi molto apprezzati, tra l’altro, da Giovanni 53 R I P R E S E Paolo II e da Benedetto XVI: Gilbert Keith Chesterton e Clive Staple Lewis. Più modestamente anch’io mi faccio aiutare dalle intuizioni di questi due grandi scrittori per stimolare la riflessione degli studenti. In particolare Chesterton, nel suo capolavoro, Ortodossia, afferma molto acutamente: «…tutti amano le novelle meravigliose perché esse toccano la corda di un antico istinto del meraviglioso, ciò è provato dal fatto che nella primissima infanzia non abbiamo nemmeno bisogno delle novelle delle fate, ci bastano le novelle. La vita per se stessa ci pare interessante. Un bambino di sette anni si entusiasma a sentir dire che Tommy aprì una porta e vide un dragone; un bimbo di tre anni si entusiasma solo a sentir dire che Tommy aprì una porta. I ragazzi amano le novelle romanzesche; i bambini amano quelle realistiche perché le trovano romanzesche. Infatti soltanto a un bambino, io credo, si potrebbe leggere un romanzo realistico moderno senza annoiarlo. […] Una novella delle fate non è più o meno bella perché possano esserci più dragoni che principesse; è bella perché è una novella. La misura di ogni felicità è la riconoscenza. Tutte le mie convinzioni sono rappresentate da un indovinello che mi colpì fin da bambino. L’indovinello dice: che disse il primo ranocchio? La risposta è questa: “Signore come mi fai saltare bene”. In succinto c’è tutto quello che sto dicendo io. Dio fa saltare il ranocchio e il ranocchio è contento di saltellare». Forse sta qui il segreto del famoso ammonimento di Cristo: “se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli”. I bambini si meravigliano e vivono tutto con stupore e gratitudine. Che cos’è questo atteggiamento se non la fonte da cui nasce quel capolavoro della poesia e della spiritualità che è Il Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi? Il cristiano, la cui fede è basata sull’annuncio della Buona Novella, non può non ama54 & D E T T A G L I re la dimensione delle novelle meravigliose, del racconto e della (sana) fantasia. È una dimensione, quella del racconto, primigenia nell’uomo, in cui l’uomo ritrova se stesso amando egli sempre raccontare e ascoltare storie (per questo aspetto mi permetto di rinviare al mio precedente articolo sul film Big Fish in RSC n. 3/2005). Mi sembra quindi già importante, attraverso la lettura o la visione di testi come questo de La Bella e la Bestia, far riassaporare il gusto del racconto meraviglioso ai ragazzi, un gusto che spesso viene erroneamente associato alla dimensione dell’infanzia (e quindi poi abbandonato). È invece una dimensione fondamentale quella della meraviglia, al punto che lo stesso Chesterton affermava: «Il mondo non finirà perché finiranno le meraviglie, ma perché finirà la meraviglia». n n n … e la sua morale. Un altro aspetto molto importante delle favole è quello del significato morale. Ogni favola che si rispetti ha la sua bella morale. Nel citato saggio Ortodossia c’è un capitolo, il quarto, che l’autore intitola esplicitamente La morale delle favole e ad un certo punto vi leggiamo: «Le cose in cui ho sempre creduto di più sono le novelle delle fate: che a me sembrano essere cose interamente ragionevoli. Il paese delle fate non è altro che il soleggiato paese del senso comune. Abbiamo la lezione di Cenerentola; che poi è la stessa del Magnificat: “exaltavit humiles”. Abbiamo la famosa lezione della Bella e la Bestia: una cosa deve essere amata prima di essere amabile». Perfetta definizione della morale de La Bella e la Bestia. Ricordiamo tutti la trama della favola: Bella si sacrifica per il padre, caduto prigioniero nel castello della Bestia e, sostituendosi a lui, comincia a convivere con il mo- R I P R E S E struoso padrone dell’antico maniero maledetto da un odioso sortilegio. La presenza di Bella esercita un effetto sul suo ospite che pian piano, si addolcisce e rivela, sotto e oltre le orribili sembianze, un’intelligenza e soprattutto un cuore umano. Purtroppo le apparenze spesso creano le condizioni favorevoli per la crescita e la diffusione della diffidenza, del pregiudizio e della discriminazione e quindi nel finale della storia gli abitanti del villaggio si uniscono per cacciare la Bestia e finiscono per ucciderlo. Un bacio d’amore di Bella farà rinascere la Bestia che rivelerà il suo vero aspetto (ovviamente bello e aitante). I temi e le suggestioni che emergono da questa storia sono molteplici: l’amore vicario di Bella nei confronti del padre; la capacità dell’amore di andare oltre i pregiudizi; il conflitto tra relazioni vere e profonde da una parte, e dall’altra la paura che porta alla diffidenza e alla discriminazione; l’amore che supera la violenza e la morte. Ognuno di questi meriterebbero una discussione a se stante, ma in questa sede è forse opportuno soffermarsi sul tema principale, così come ben evidenziato dalla frase di Chesterton, il tema della carità: «…una cosa deve essere amata prima di essere amabile». Viene in mente la frase del vangelo di Giovanni: «non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16). L’amore cristiano, o agape, è riconoscere l’amore “primario” di Dio per l’uomo e ricambiare a quel dono d’amore. Come ha affermato Benedetto XVI nella sua prima enciclica: «Egli per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l’amore. Dio non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo “prima” di Dio, può come risposta spuntare l’amore anche in noi» (n. 17). È questa la dinamica della carità, ben rappresentata dalla favola della Bella e la Bestia & D E T T A G L I e ben spiegata dal già citato C.S.Lewis, altro grande scrittore inglese (oggi molto noto grazie alla trasposizione cinematografica, sempre marca Disney, del suo best-seller Le Cronache di Narnia), “allievo spirituale” di Chesterton, che nel suo saggio Il cristianesimo così com’è afferma che «Il cristiano pensa che ogni azione buona da lui compiuta scaturisca dalla vita di Cristo che è in lui; non pensa che Dio ci ami perché siamo buoni, ma che Dio ci rende buoni perché ci ama, proprio come il tetto di una serra non attira il sole perché è luminoso, ma è luminoso perché il solo ci sbatte sopra» e in un altro saggio, I 4 amori, distingue l’amore-naturale da quello soprannaturale e osserva che: «…l’“amore dono” naturale è diretto sempre verso oggetti che l’innamorato considera intrinsecamente amabili… Ma il divino “amore dono” che è nell’uomo gli permette di amare ciò che, per sua natura, non è amabile: i lebbrosi, i criminali, i nemici, gli imbecilli, i burberi, chi si atteggia a uomo superiore, chi si fa beffe del prossimo”. È la situazione della favola: la Bestia è tutto fuorché “amabile”, assomiglia piuttosto molto ad un lebbroso, un criminale, un nemico. «Amate i vostri nemici»: l’esortazione di Cristo, risuona con tutta la sua saggezza paradossale. È questo il senso ultimo della vicenda narrata dal film. Bella è ospite-prigioniera di un “nemico”, di un mostro che stava per uccidere il padre. Ma ecco che spunta l’amore, l’amore-dono divino, la carità. Un amore che cambia il cuore dell’uomo, lo converte. n n n Amore, conversione e paura Al naturale sentimento di paura che l’assale, Bella risponde con l’amore soprannaturale e così facendo apre una breccia nella dura (e mostruosa) corazza che ricopre il cuore della Bestia, induritosi in tanti anni di emargina55 R I P R E S E zione e discriminazione subite da tutto le persone che lo hanno avvicinato. L’amore di Bella pian piano compie il miracolo e rende amabile la Bestia. Questo processo nel film è bene evidenziato quando il regista fa vedere i tentativi della Bestia di rendersi piacevole agli occhi di Bella. È la scena del “corteggiamento” di Bella da parte della Bestia, che il regista condisce con scene piene di humour, come quando si vede la Bestia che davanti allo specchio adorna la sua folta criniera con fiocchetti azzurri e rosa e altre amenità. Ma oltre il sorriso c’è in controluce una profonda verità: amore produce amore, ricevere l’amore porta a donarlo, a restituirlo. Come dice il Papa, ecco che “spunta” l’amore in noi, una volta che ci rendiamo conto dell’amore di Dio che si riversa, di continuo, sulla nostra persona, sulla nostra esistenza. Non è un processo semplice, e l’esito non è facile né scontato, come viene bene rappresentato dal finale tragico della storia. La stessa dialettica della carità non mette l’uomo al sicuro dalle “ferite” della vita. Come osserva sempre C.S. Lewis nel suo saggio, la carità è qualcosa di così grande che mette in crisi l’uomo: «Noi desideriamo essere amati per la nostra intelligenza, bellezza, generosità, belle maniere, utilità. Non appena ci accorgiamo, invece, che qualcuno di sta offrendo il più alto di tutti gli affetti – la carità – siamo colti da un autentico malore… In una situazione simile, ricevere è più duro e forse più santo che non donare… Chiunque abbia dei buoni genitori, una buona moglie o marito, o dei bravi figli, potrà essere sicuro che, in determinate circostanze – magari anche per sempre, per quanto riguarda un suo particolare atteggiamento o abitudine – egli è oggetto di carità, e non amato perché amabile, ma perché colui che è l’amore stesso è nel cuore di chi lo ama». La carità è pura gratuità, è amore senza un motivo, senza un perché. Ed è proprio per questo che solo la carità permette un cam56 & D E T T A G L I biamento nell’uomo e nella sua storia, che mette in moto un processo di conversione. La Bestia, ancora prima della magica trasformazione finale, è già trasformato, meglio dire “trasfigurato” dall’amore di Bella. Egli è più gentile e umano, prima ancora di diventare umano anche nelle fattezze fisiche. Come a dire, già prima del Paradiso, l’uomo già sulla terra si trova in un cammino di lenta e continua conversione e trasfigurazione. Un cammino che può procedere solo “a colpi d’amore”. Bella è colei che “colpisce” la Bestia al cuore, in profondità, e avvia il suo processo di purificazione e santificazione. Tutto questo è più chiaro se si confronta il comportamento di Bella con quello degli altri abitanti del villaggio. Questi non amano “per primi” come fa Bella e non si possono rendere quindi conto della trasformazione della Bestia. Non vedendo la “bellezza” nascosta nella bestia essi rispondono alla mostruosità fisica della Bestia con la loro mostruosità spirituale e con la loro chiusura interiore. Si chiudono a causa della paura e vorrebbero chiudere fuori dal proprio piccolo cuore la Bestia, eliminandola del tutto. Interpellati dall’altro, dal diverso (e quanto è “diverso” la Bestia!), rispondono cedendo alla paura e al sospetto, generando pregiudizi e violenza. Essi cedono al primo e al più forte sentimento che la vista della Bestia provoca, la paura. n n n Amore oltre il sentimento La favola de La Bella e la Bestia è un testo infine che permette una riflessione su due aspetti legati al concetto di amore che qui esprimerò in termini estremamente sintetici: 1) l’opposto dell’amore non è l’odio ma la paura; 2) l’amore non è un sentimento. Sul primo punto, la vicenda di Bella è esemplare: la giovane ragazza, all’inizio della vi- R I P R E S E cenda, nelle segrete del tenebroso castello di proprietà dell’orribile Bestia, si trova nella situazione in cui lo scontro con la (comprensibile) paura è estremo. Solo un atto di volontà, che si concretizza in un atto di fiducia, apertura, speranza, può farla uscire dalla paralisi della paura. È l’atto che non viene compiuto dagli abitanti del villaggio, che si lasciano trasportare dal sentimento della paura che finisce, inevitabilmente, per sfociare nell’odio violento. Quando affronto questo discorso con i ragazzi vedo che “faccio colpo”. Anche se essi alla mia domanda «Qual è l’opposto dell’amore? » rispondono, istintivamente, «l’odio!», poi si rendono subito conto che atteggiamenti come l’indifferenza e la diffidenza sono segnali di una chiusura peggiore. Da qui spesso nasce una riflessione (che si allarga anche nella dimensione sociale) sul tema della paura e l’ignoranza come fonti su cui crescono i cattivi frutti del sospetto e del pregiudizio. Anche qui seguire il filo della storia raccontata nel film può essere di grande aiuto. Infine, in alcuni casi, si può arrivare ad affrontare un tema davvero difficile; mi riferisco al secondo punto: l’amore non è (solo) un sentimento, ma, appunto, come appena detto, un atto di volontà, di fiducia, di affidamento concreto, impegnativo, stabile. Ritroviamo tale affermazione, apparentemente paradossale, anche nella enciclica del Papa Deus Caritas est. In particolare, dice Benedetto XVI che la fede cristiana non nasce da una grande idea o da una filosofia, ma dall’incontro con Gesù e «nello sviluppo di questo incontro si rivela con chiarezza che l’amore non è soltanto un sentimento. I sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell’amore» (n. 17). Questo è, ovviamente, un durus sermo, un discorso duro per le orecchie dei nostri studenti adolescenti, un’età in cui la sfera sentimentale e affettiva sembra essere quella asso- & D E T T A G L I lutamente prevalente. Inoltre il mondo in cui sono immersi (la società contemporanea, dominata dai mass-media e dal loro linguaggio per immagini, spesso superficiale e semplificatore) è un mondo che esalta e assolutizza la sfera puramente interiore e sentimentale, creando spesso non pochi problemi a livello relazionale. Anche per questo è un discorso che vale la pena fare, lasciandoci guidare anche dalle immagini della favola nonché dalle preziose parole del Santo Padre: le prime e le seconde si muovono efficacemente in parallelo. «L’incontro con le manifestazioni visibili dell’amore di Dio può suscitare in noi il sentimento della gioia, che nasce dall’esperienza dell’essere amati» scrive Benedetto XVI ed è facile riscontrare questi concetti con le immagini della Bestia, «sorpreso dalla gioia» (è il titolo della splendida autobiografia di C.S. Lewis), colto in contropiede dall’esperienza di essere amata per la prima volta nella vita. «Ma tale incontro» avverte il Papa, «chiama in causa anche la nostra volontà e il nostro intelletto. Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l’amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell’atto totalizzante dell’amore. Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l’amore non è mai “concluso” e completato; si trasforma nel corso della vita, matura e proprio per questo rimane fedele a se stesso. Idem velle atque idem nolle – volere la stessa cosa e rifiutare la stessa cosa, è quanto gli antichi hanno riconosciuto come autentico contenuto dell’amore: il diventare l’uno simile all’altro, che conduce alla comunanza del volere e del pensare. La storia d’amore tra Dio e l’uomo consiste appunto nel fatto che questa comunione di volontà cresce in comunione di pensiero e di sentimento e, così, il nostro volere e la volontà di Dio coincidono sempre di più: la volontà di Dio non è più per me una volontà estranea, che i comanda57 R I P R E S E menti mi impongono dall’esterno, ma è la mia stessa volontà, in base all’esperienza che, di fatto, Dio è più intimo a me di quanto lo sia io stesso. Allora cresce l’abbandono in Dio e Dio diventa la nostra gioia. Si rivela così possibile l’amore del prossimo nel senso enunciato dalla Bibbia, da Gesù. Esso consiste appunto nel fatto che io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco o neanche conosco» (ancora il n. 17). È la situazione descritta nella Bella e la Bestia: Bella finisce per amare una persona che non conosce e tantomeno gradisce, una persona per nulla “gradevole”. In fondo ogni storia d’amore umana nasce dall’incontro tra due persone che fino a quel momento non si conoscono (quando non capita che i due già si sono conosciuti e, come si suol dire, “cordialmente detestati” – ogni volta che faccio questa battuta c’è sempre qualche studente che mi racconta di essere ora fidanzato con una persona che fino a qualche tempo prima trovava insopportabile). Ma come può accadere questo miracolo dell’amore? Ci suggerisce il Papa che : «Questo può realizzarsi solo a partire dall’intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a toccare il sentimento. Allora imparo a guardare quest’altra persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo». È quello che fa Bella con la Bestia, lo guarda con gli occhi del cuore. Continua l’enciclica: «Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all’altro ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno. Qui si mostra l’interazione necessaria tra amore di Dio e amore del prossimo, di cui la Prima Lettera di Giovanni parla con tanta insistenza. Se il contatto con Dio manca del tutto nella mia vita, posso vedere nell’altro sempre soltanto l’altro e non riesco a riconoscere in lui l’immagine divina. Se però 58 & D E T T A G L I nella mia vita tralascio completamente l’attenzione per l’altro, volendo essere solamente “pio” e compiere i miei “doveri religiosi” allora s’inaridisce anche il rapporto con Dio. Allora questo rapporto è soltanto “corretto”, ma senza amore. Solo la mia disponibilità ad andare incontro al prossimo, a mostrargli amore, mi rende sensibile anche di fronte a Dio. Solo il servizio al prossimo apre i miei occhi su quello che Dio fa per me e su come Egli mi ama. I santi – pensiamo ad esempio alla beata Teresa di Calcutta – hanno attinto la loro capacità di amare il prossimo, in modo sempre nuovo, dal loro incontro col Signore eucaristico e, reciprocamente questo incontro ha acquisito il suo realismo e la sua profondità proprio nel loro servizio agli altri. Amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili, sono un unico comandamento. Entrambi però vivono dell’amore preveniente di Dio che ci ha amati per primo. Così non si tratta più di un “ comandamento” dall’esterno che ci impone l’impossibile, bensì di un’esperienza dell’amore donata dall’interno, un amore che, per sua natura, deve essere ulteriormente partecipato ad altri. L’amore cresce attraverso l’amore. L’amore è “divino” perché viene da Dio e ci unisce a Dio e, mediante questo processo unificante, ci trasforma in un Noi che supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a che, alla fine, Dio sia “tutto in tutti” (1Cor 15, 28)» (n. 18). Ho lasciato, volentieri, ampio spazio alle parole del Papa perché, in modo semplice e profondo, sintetizzano molto efficacemente il senso di tutto il discorso che scaturisce dalla visione di un film come La Bella e la Bestia, altrettanto semplice e profondo. L’amore è sempre “primo”, precede ogni altra attività o conoscenza umana; solo se si dona e si riceve l’amore si può amare a propria volta e diventare amabili, come la famosa e antica favola francese felicemente dimostra. I N C O N T R I R O M A N I Ostia per l’Africa di Paolo Aragona naria”, sia per le garanzie che poteva offrire a liIl Coordinamento giovanile “Ostia per l’Africa” vello di fattibilità e di trasparenza nei progetti è nato nel 2004 per iniziativa del “Gruppo stuche per le possibilità che una struttura associatidentesco di iniziativa sociale” del Liceo scientifiva come una Onlus può garantire in termini co “A. Labriola” di Ostia, gruppo fondato nel amministrativi. 1998 da don Franco De Donno, viceparroco di Lo scopo principale che il Coordinamento si è S. Monica, a Ostia Lido, e docente di religione prefissato sin dalla prima riunione costitutiva presso l’Istituto. L’idea di fare qualcosa di “spedel giugno 2004 è quello di aggregare le diverse ciale” per l’Africa a partire dalle varie esperienze iniziative che sul territorio si occupano dell’Ache già sul territorio del XIII Municipio venivafrica per avvicinare l’intera realtà territoriale di no portate avanti per il continente più povero Ostia al continente africano, ai suoi valori culdel mondo, è nata nell’aprile 2004 su suggeriturali e alle sue problematiche sociali ed economento del sindaco Veltroni che, in occasione miche. Per manifestare nella concretezza questa della manifestazione Italia-Africa, avvicinato da attenzione alle esigenze don Franco e dagli studi una realtà così didenti del suo gruppo, Il prof. Paolo Aragona, IdR presso il Liceo versa e così drammatiha invitato i ragazzi a scientifico “A. Labriola” di Ostia Lido, ci camente provata è stariprodurre in piccolo presenta le iniziative del coordinamento to lanciato il primo nel loro quartiere giovanile “Ostia per l’Africa”, che stanno progetto e cioè la reaquanto a Roma si stava consentendo la costruzione di una scuola lizzazione di una scuofacendo in grande stile. in Malawi, ma soprattutto sono riuscite a la primaria a Matola, L’invito, piuttosto che coinvolgere centinaia di ragazzi di Ostia villaggio del distretto spaventare, ha prodotin un progetto missionario di alto profilo. di Balaka, nello stato to una risposta immedel Malawi. Il Malawi diata e i giovani si sono è uno dei paesi più poveri del mondo dove la messi all’opera per individuare le realtà più impiaga dell’Aids ha prodotto, su una popolazione portanti che avrebbero potuto appoggiare ed ardi 12 milioni di abitanti, più di un milione di ricchire un progetto che all’inizio aveva solo tanorfani. La scelta del Malawi e, nello specifico, to entusiasmo ma un nome e un programma del distretto di Balaka non è casuale. Infatti socerti: “Ostia per l’Africa”. no più di trent’anni che l’Associazione “SeconLa prima organizzazione che è stata contattata da Linea Missionaria” opera per il territorio del per la sua lunga esperienza di solidarietà con Malawi mediante la realizzazione di numerosi l’Africa è stata l’Associazione “Seconda Linea progetti (asili, scuole, dispensari, pozzi) e l’iniMissionaria” – Onlus, da quasi 40 anni gruppo ziativa primaria delle adozioni a distanza (fino missionario della Parrocchia di S. Monica, parad oggi circa 1700 orfani sono stati adottati atrocchia sin dal 1982 gemellata con la Diocesi di traverso l’associazione parrocchiale). Mangochi, in Malawi. Insieme all’Associazione Il costo della struttura, comprensivo di otto auOnlus, ai gruppi giovanili della Parrocchia, alla le, arredo scolastico e abitazioni per gli insesezione locale della Comunità di S. Egidio, il gnanti (obbligatorie per legge in quanto la moGruppo studentesco d’Iniziativa Sociale del Libilità in Malawi è estremamente difficile per la ceo Labriola ha deciso di fondare un’associaziocondizione delle strade e per l’inesistenza di ne di fatto che avesse come referente per i promezzi pubblici) è stato quantificato in 125 mila getti concreti in Africa “Seconda Linea Missio59 I N C O N T R I Euro. L’entità di tale somma non ha scoraggiato i giovani, che si sono messi subito all’opera per raccogliere i fondi nella speranza di riuscirvi in non più di due anni. Sono state messe in cantiere, fin dall’inizio, moltissime iniziative di carattere musicale, teatrale, culturale in genere, espositivo. Tutta l’estate del 2004 e la primavera e l’estate del 2005 sono state un fiorire di occasioni per la raccolta del denaro e, soprattutto, per la sensibilizzazione della gente, poco abituata a vedere dei giovani impegnare le loro energie e sacrificare il loro tempo per un obiettivo che, ai più, sembrava troppo arduo da raggiungere. Già alla fine dell’estate del 2005, il 31 agosto, i giovani del Coordinamento hanno consegnato a P. Mario Pacifici, parroco di Balaka, di ritorno con il gruppo musicale “Alleluia band” del Malawi dalla Giornata della Gioventù di Colonia, i primi 25 mila Euro. Dopo l’entusiasmo di quella serata, tra canti e balli “fuori ordinanza”, con davanti un solo anno per trovare gli altri 100 mila Euro, i giovani hanno stretto i ranghi e con una concretezza fuori dal comune hanno cominciato a coinvolgere, senza timidezza, tutte le realtà del territorio che man mano venivano loro a tiro. Politici di ogni schieramento, uomini e donne di spettacolo, imprenditori. E così sono cominciate a venir fuori mille altre occasioni. È stato stipulato un accordo con la società “Latte di Nepi” che ha accettato di inserire sulle proprie confezioni di latte il logo di “Ostia per l’Africa” che corrisponde, per ogni litro, a una donazione di 15 centesimi. È stato coinvolto il cantante Marco Masini che ha devoluto parte del ricavato del concerto tenuto ad Ostia lo scorso mese di aprile. È stato prodotto e commercializzato il CD Musicale Volo libero con canzoni composte e cantate dai giovani della Parrocchia di S. Monica, che sono anche stati 60 R O M A N I ospiti della trasmissione “Buona Domenica”. Tutte queste occasioni più la generosità dei bambini che rinunciavano ai regali di prima comunione, degli sposi che inserivano “Ostia per l’Africa” e la scuola di Matola nella propria lista di nozze, hanno portato, in meno di un anno, a superare gli 80 mila Euro. Un’ultima iniziativa dalla quale si sperano, con il contributo di tutti, di ricavare parte dei prossimi 45 mila Euro è la pubblicazione e la distribuzione di un romanzo sull’adozione a distanza dal titolo Il sorriso del cuore edito dalla Newton & Compton e già in libreria (vedi la recensione a p. 51). La speranza è che nel mese di ottobre 2006, quando i giovani del Gruppo studentesco del Labriola con alcuni rappresentanti del Coordinamento e con il loro caro don Franco, andranno in Malawi insieme al sindaco Veltroni per inaugurare la scuola, già oggi a buon punto, subito venga rilanciata un’altra occasione d’intervento che, nella consapevolezza del bene fatto, possa decollare da Ostia per atterrare in Africa sulle ali dello stesso entusiasmo che sta per consentire ai bambini di Matola, fino ad oggi privi di una scuola, di sognare un futuro possibile. Ma anche il Coordinamento “Ostia per l’Africa”, grazie a ragazzi di buona volontà, a una scuola aperta al quartiere, a dirigenti scolastici “illuminati” e a una Chiesa locale che sa integrarsi col territorio e relazionarsi con le realtà istituzionali, è stato ed è il frutto di un sogno, quello dei tanti che hanno creduto e profondamente ancora credono che c’è spazio per la speranza perché il cuore dell’uomo, anche se qualcuno vorrebbe far loro credere il contrario, è ancora capace di progettare amore. Per approfondire: www.ostiaperlafrica.it www.lineamissione.com A C L A S S I A P E R T E I disturbi dell’apprendimento della lettura Massimiliano Ferragina e Caterina Basile dando luogo alla difficoltà che cercheremo Gli adulti, ad un certo livello della propria di trattare in questo piccolo spazio di spunalfabetizzazione, specie se tale livello è meti per la riflessione. Infatti non pretendiamo diamente elevato, non leggono più ma, di fornire gli strumenti per una “formaziosemplicemente, “vedono” le parole e immene” nell’ambito dei disturbi dell’apprendidiatamente le traducono in immagini, in mento ma di suggerire riflessioni e strategie concetti complessi, in astrazioni. Per questo che rimandano, da un lato, ad approfondimotivo, probabilmente, non comprendiamenti ulteriori ,e mo più come l’apdall’altro, a struttuprendimento della Inauguriamo la rubrica «A classi aperte», rare interventi di cui lettura sia determiche offrirà indicazioni e suggerimenti per l’insegnante, se è un nato da una serie di la didattica dell’IRC nella scuola primaprofessionista, conofattori molto comcon bambini “difficili”. ria, in particolare sce bene le tecniche. plessi che comprenIn questo primo contributo si affrontano i dono, non solo la cadisturbi di apprendimento della lettura. pacità di riconoscere Nello specifico il simbolo grafemico, dell’IRC ma di tradurlo in un suono, di correlarlo ad Riconoscere il “disturbo di apprendimento un altro grafema e quindi ad un altro suostrumentale della lettura” non è semplice, no, che spesso non è semplicemente la specie nei primi due anni della scuola prisomma dei due suoni ma dà come risultato maria, in quanto condizionato dallo sviun fonema diverso; e, infine, comprendere luppo della maturità intellettiva del bamche più fonemi correlati danno luogo un bini che non sempre corrisponde all’età insieme di suoni che rimandano ad un conanagrafica, ma segue percorsi del tutto cetto che la nostra mente contestualizza e personali. Ma, già nel primo biennio, un colloca nell’ambito della propria esperienza segno di tale disturbo può essere l’eccessirendendolo concreto pur nella sua molteva lentezza nella lettura (meno di tre grafeplicità (casa = villa, appartamento, capanna, mi letti, al secondo, può essere un indipalazzo, ecc.). zio). Una volta individuato il problema Nei disturbi che riguardano l’apprendimencon l’intervento dello psicoterapeuta, si to dei meccanismi della lettura, ad un qualpossono predisporre una serie di piccoli che livello, tali correlazioni si inceppano interventi. 61 A C L A S S I A P E R T E Se il disturbo è significativo o se ci troviamo nella prima classe della scuola primaria, una serie di piccoli esercizi di lettura con parole collegate all’argomento che stiamo trattando, riconoscibili per il loro rimando al concetto, può servire per offrire all’alunno in difficoltà a “leggere” il significato prima che il significante, associandoli poi più facilmente: Esempio: Gli esempi sopra riportati sono stati realizzati con la semplice tecnica del Paint, al computer, ma nulla vieta al poliedrico insegnante di Religione Cattolica di avvalersi delle proprie capacità pittoriche o di utilizzare schede già strutturate con poesie, filastrocche (la rima aiuta la memorizzazione), piccoli testi dove la parola è affiancata dall’immagine. Con l’aiuto del computer e delle ClipArt e un semplice lavoro di copiaincolla non sarà difficile realizzare quanto ci serve. Gli esempi riportati sia in questa pagina che nelle due schede a p. 64 mettono in evidenza come, con semplici interventi, si possa permette al bambino con difficoltà nell’apprendimento proprio della lettura di inserirsi fattivamente nell’attività della classe senza sentirsi estraneo. Mantenendo questa struttura d’intervento si può rendere la scheda offerta all’alunno sempre più complessa sostituendo alle semplici parole intere frasi, sempre accompagnate da immagini esemplificative. 62 Non sempre è dislessia Solitamente la prima reazione che si ha di fronte ad un bambino con difficoltà nel leggere è quella di considerare il problema come dislessia perché magari risulta più facile intervenire avvalendosi dello specialista. La dislessia è una deficienza sensoriale circoscritta, è una difficoltà ad organizzare dinamicamente precisi circuiti mentali. Il disturbo dell’apprendimento della lettura invece è da considerarsi un sintomo e può essere il risultato di un insegnamento errato, di un insufficiente esercizio o di un superficiale lavoro a casa e comunque non sempre sfocia nella dislessia. In questo caso anche l’insegnante di religione può fare molto avvalendosi degli strumenti didattici e contenutistici a sua disposizione. La lettura e l’IRC La lettura, per l’insegnante di religione in particolare, è importantissima. Spesso viene sottovalutata. Con la lettura si aprono al fanciullo mondi che altrimenti rimarrebbero esclusi alla sua conoscenza e, in alcuni casi, vista la complessità dei contenuti, la A C L A S S I lettura risulta lo strumento privilegiato per la loro trasmissione, e ancora prima di essere un riconoscimento visivo delle lettere dell’alfabeto è un atto mentale e come tale suscita nel bambino una serie di reazioni a catena nel suo immaginario e nella sua fantasia. Imparare a leggere vuol dire non solo riconoscere, ma anche accettare e collegare i segni (le lettere) che compongono le parole, e sappiamo tutti quanto questo sia fondamentale per una disciplina come la nostra. La lettura comunque rimane un processo abbastanza complesso. Importante è per l’insegnante di religione creare percorsi didattici specifici per il bambino che presenta questo disturbo ma anche informarsi dai colleghi del team su chi in classe presenta questo disturbo, evitando così di mettere l’alunno in difficoltà e soprattutto per adeguare i contenuti della programmazione alle capacità del singolo apprendimento con unità di apprendimento mirate al potenziamento della lettura. Si possono inoltre formare delle unità d’apprendimento strutturate in modo da far lavorare la classe o l’alunno su dei testi biblici semplificati, con schede di lettura, dove le parole sono affiancate da figure. In questo modo si offre al bambino una griglia mentale interpretativa del rapporto tra la figura e la relativa lettera. L’IRC come disciplina è privilegiata in quanto lavora con una infinita gamma di segni, immagini e figure che associandole alle lettere contribuisce all’apprendimento della lettura stessa. Dal computer al laboratorio di lettura Poiché abbiamo a disposizione una vasta serie di strategie didattiche finalizzate al superamento delle difficoltà dell’apprendimento A P E R T E della lettura, non dimentichiamo il computer come validissimo strumento. Visualizzare le lettere sullo schermo e leggerle creando delle semplici sillabe che unite forniranno la parola da associare al disegno, sembrerà un gradevole gioco più che un percorso di facilitazione dell’apprendimento. Possiamo anche proporre agli alunni dei semplici giochi di anagrammi che gli consentono di rendersi conto della funzione delle singole lettere accompagnate da espressioni allegoriche o semplici giochi di pensiero che, come dei veri giocattoli, aiutano a superare barriere altrimenti invalicabili. Inoltre questo tipo di lettura abitua il bambino a leggere in modo intelligente con attenzione e comprensione evitando letture di sola espressione affrettate o superficiali. Molto importante è che l’insegnante di religione abbia chiaro che la lettura non è una competenza solo dell’italiano e che come docente può fare tantissimo. Un vantaggio che l’IdR ha sugli altri docenti è che agendo su più classi ha uno sguardo d’insieme, e come tale può promuovere in collaborazione attività di lettura di testi anche riguardanti la religione a livello laboratoriale. Il laboratorio di lettura è un luogo privilegiato in cui si realizza una situazione d’apprendimento che coniuga le singole conoscenze e abilità su compiti unitari e significativi per gli alunni. La caratteristica principale del laboratorio di lettura didatticamente parlando è quella di realizzare gruppi di alunni della stessa classe o per classi parallele, riuniti per livello di apprendimento o per seguire meglio ancora un progetto assecondando liberamente le attitudini degli alunni e gli interessi comuni. Il docente di religione infine nella sua piena libertà di insegnamento può 63 A C L A S S I strutturare percorsi di apprendimento della lettura individuando nel “contesto” l’elemento di facilitazione utile all’interpretazione dei significati; il contesto di volta in volta può essere costituito da un libro, da A P E R T E un racconto, un’insegna o altro che possa stimolare il desiderio d’apprendere, tutto in progressione per poter passare da una lettura per immagini a una lettura per interpretazione e quindi correggere il disturbo. Schede fotocopiabili Ritaglia e incolla mettendo in ordine Metti la didascalia giusta alla sequenza corrispondente 64 N O T I Z I E L E G A L I E S I N D A C A L I La ripartizione diocesana del secondo contigente di Angelo Zappelli Il 1.9.2006 entra in ruolo il secondo contingente di docenti di religione vincitori del concorso. La notizia è confermata dal perfezionamento di tutti gli atti, a partire dall’autorizzazione del Consiglio dei mini- Codice Dizione in chiaro diocesi stri (22 dicembre 2005), passando per il Decreto presidenziale (17 gennaio 2006) fino al Decreto ministeriale di ripartizione regionale (13 aprile 2006) ed ora al Decreto di ripartizione diocesana per il Lazio TOTALE Assunzioni Assunzioni Assunzioni a.s. 2005/06 a.s. 2005/06 a.s. 2005/06 scuola infanzia/primaria scuola secondaria I e II grado G1 G2 G3 G4 G5 G6 G7 G8 G9 GA GB GC GD GE GG GI GL GN Albano Anagni - Alatri Civita Castel1ana Civitavecchia - Tarquinia Frascati Frosinone - Veroli - Ferentino Gaeta Latina - Terracina - Sezze - Priverno Montecassino Palestrina Porto - S. Rufina Rieti Roma Sabina - Poggio Mirteto Sora - Aquino - Pontecorvo Tivoli Velletri - Segni Viterbo 26 5 12 6 6 13 11 23 6 6 13 6 124 8 8 13 8 10 15 3 8 3 4 7 5 13 3 3 8 3 66 5 5 8 5 5 11 2 4 3 2 6 6 10 3 3 5 3 58 3 3 5 3 5 TOTALE 304 169 135 65 N O T I Z I E L E G A L I (16 giugno 2006) di cui si pubblica di seguito la relativa tabella. Entrano in ruolo altri 3.077 docenti di religione cattolica su tutto il territorio nazionale, aggiungendosi ai 9.229 già immessi con il primo contingente. La percentuale degli IdR di ruolo passa così dal 40% al 55% dei posti esistenti. Per il Lazio si tratta di 304 nuovi docenti in ruolo, 169 della scuola dell’infanzia e primaria, 135 della scuola secondaria, di primo e secondo grado. Quantitativamente, aggiungendoli agli 877 del primo contingente, si forma un corpo di 1.181 IdR di ruolo nel Lazio sui quasi duemila esistenti. Scorrendo le cifre, visto che i dati si riferiscono all’organico 2005/06, si nota che la proporzione tra docenti della primaria e della secondaria è sempre più spostata a favore della primaria, che cresce di poco ma ancora costantemente. La diocesi che assorbe da sola quasi la metà degli IdR del Lazio è ovviamente Roma, seguono a distanza Al- 66 E S I N D A C A L I bano e Latina (incrementata rispetto al primo contingente). Cosa succederà ora? Innanzitutto i nominativi dei docenti in posizione utile in graduatoria del concorso saranno sistemati dall’Ufficio regionale in un elenco alfabetico e inviati alle rispettive diocesi le quali lo restituiranno aggiungendo le sedi scolastiche di destinazione (di solito le medesime in cui già si trovano). Nella seconda metà di luglio a tali docenti giungerà un telegramma di convocazione per un dato giorno (sempre di fine luglio) in cui recarsi all’Ufficio regionale di via Pianciani a Roma per la stipula del contratto a tempo indeterminato. Sulla data di partenza del contratto la soluzione stabilita per il secondo contingente è quella della distinzione tra la data della decorrenza economica, al 1.9.06, e quella della decorrenza giuridica, retrodatata al 1.9.05. Il che significa che l’anno di prova e di formazione sarà il 2006/07 e che quindi il ruolo sarà loro confermato solo con il 1.9.07. D I A R I O S C O L A S T I C O Diario scolastico di Filippo Morlacchi XII Forum europeo per l’insegnamento della religione Si è tenuto a Vienna dal 19 al 23 aprile 2006 il XII Forum dell’EuFRES (European Forum for Religious Education in Schools – www.eufres.org). Si tratta di un organismo costituito da un gruppo di esperti di vari paesi europei, inclusi quelli dell’Est, che si riuniscono ogni due anni per analizzare situazioni, problemi ed ipotesi inerenti all’insegnamento scolastico della religione nelle scuole. Il tema di quest’anno era di indubbia attualità: Futuro per cielo & terra. Sostenibilità e Spiritualità. Hanno preso parte al Forum quasi una cinquantina di partecipanti da oltre venti paesi europei. Le relazioni principali sono state affidate al prof. Herbert Pietschmann, docente di fisica teorica all’Università di Vienna, il quale per una intera giornata ha guidato il gruppo su tematiche di filosofia della scienza e sul rapporto scienza-fede, e al prof. Markus Vogt, che si è soffermato soprattutto sulla teologia della creazione. Qualche piccola difficoltà è sorta per l’assenza di traduzione simultanea (non a tutti il tedesco è familiare…), ma superando qualche intoppo “babelico” grazie alle competenze e alla collaborazione di numerosi partecipanti, la discussione è sempre stata vivace e costruttiva. Al di là delle ricche conferenze, ancor più proficuo ed interessante è stato infatti il confronto diretto tra persone impegnate nell’insegnamento scolastico della religione a vario titolo (IdR, responsabili diocesani, ufficiali di ministero, ecc.) di varia provenienza geografica. È stato possibile condividere esperienze, segnalare iniziative originali, ascoltare punti di vista comple- mentari, verificare sintonie inaspettate e promuovere orientamenti comuni. Interessantissimi sono stati i resoconti di coloro che provenivano dai paesi ex-comunisti (ad es. Lituania e Germania orientale): in queste terre l’insegnamento scolastico della religione ha poco più di un decennio di vita, e tuttavia viene svolto con straordinario impegno e senso di responsabilità in un ambiente realmente difficile e spesso indifferente. Altrettanto interessante è stato il dibattito sull’importanza di una educazione religiosa aperta all’interculturalità, ma attenta all’integrità dottrinale delle diverse confessioni: argomento sul quale si è registrata una diffusa sintonia dalla Spagna (dove non è facile fare i conti con la politica scolastica di Zapatero), al Belgio, alla Croazia, ecc. Da ultimo segnaliamo che Mons. Manlio Asta, direttore dell’Ufficio Scuola di Roma, è stato eletto tra i membri del «Kuratorium», cioè la commissione organizzativa dell’EuFRES. Gli altri membri sono attualmente: Avellino Revilla Cuñado (spagnolo, presidente); Wilfried Lenssens (tedesco, tesoriere); Johan Hisch (viennese, a cui spetta il merito dell’eccellente organizzazione logistica del Forum) e Rudi Palos (croato). Flavio Pajer, la cui presenza tra i membri del Kuratorium non era più rinnovabile per limiti statutari, conserva la responsabilità della redazione del foglio di collegamento dell’associazione. Al termine del convegno sono stati suggeriti alcuni possibili argomenti per il prossimo Forum: un confronto con le raccomandazioni ufficiali del Consiglio d’Europa, oppure i conflitti religiosi nella nuova Europa, o ancora il significato e l’utilità dell’insegnamen67 D I A R I O S C O L A S T I C O to religioso confessionale. È possibile che la sede sia Roma, se le altre ipotesi prospettate (Budapest e Bruxelles) non risulteranno praticabili. In ogni caso, ci saremo. Convegno regionale dei docenti cattolici Per la prima volta il 3 maggio 2006 è stato convocato un Convegno Regionale dei docenti cattolici. Sono stati invitati docenti cattolici di ogni disciplina e grado, attivi nelle scuole statali e cattoliche delle diocesi del Lazio. Il tema di studio era senza dubbio rilevante ed impegnativo: Tradizione religiosa, cultura e scuola. La presenza dei cattolici nella scuola. Il luogo prescelto era all’altezza del tema: il prestigioso auditorium dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ha accolto più che degnamente i convegnisti (circa duecento: un numero non elevatissimo, considerato il numero dei potenziali partecipanti, ma più che soddisfacente, tenendo conto che era la prima iniziativa di questo genere). L’evento è stato promosso ed organizzato dalla Conferenza Episcopale Laziale insieme alla Commissione per la Pastorale della Scuola, anche grazie al generoso contributo di diverse associazioni cattoliche operanti nell’ambito della scuola (Fidae Lazio, Fism, Aimc, Uciim, Scuola Nuova), che hanno consentito agli organizzatori di offrire anche un eccellente coffee-break. L’indirizzo di saluto ai partecipanti è stato rivolto da S.E. Mons. Lorenzo Loppa, Vescovo di Anagni-Alatri, delegato della Conferenza Episcopale Laziale per la Pastorale della Scuola. La relazione principale su «La cultura cattolica: identità e forza educativa di una tradizione» è stata affidata a S.E. mons. Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranenese. Il tema della trasmissione della fede è stato sviluppato da mons. Fisichella a partire da un’analisi del cosiddetto “testamento pastorale” di San Paolo 1 agli anziani di Efeso (At 20), ripercorrendo poi numerosi passi neotestamentari in cui viene menzionato il dinamismo del tradere da cui scaturisce la traditio. È la consegna vitale di sé stessi che forma la tradizione e la cultura: ecco perché – è stato affermato – se non si mette al centro la persona non si dà vera tradizione, né si può costruire un’autentica identità culturale.1 Sono state poi lette alcune brevi comunicazioni; tra queste, le spumeggianti considerazioni di Mons. Carmine Brienza hanno vistosamente raccolto il consenso dell’uditorio, poco prima che Mons. Asta chiudesse i lavori. Ci auguriamo che questa iniziativa, che ha co- Il testo completo della relazione di Mons. Fisichella è pubblicato alle pp.71-78 del presente fascicolo. 68 D I A R I O S C O L A S T I C O stituito un’originale novità in vista di una migliore conoscenza reciproca tra docenti di fede cattolica, non rimanga un evento occasionale, ma dia invece il via ad una feconda “tradizione”, da rinnovare di anno in anno. Il futuro della riforma Il nuovo governo si è ormai insediato da oltre un paio di mesi. Il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Fioroni, attraverso pochi atti ufficiali ed alcune interviste, ha già lasciato intravedere quale potrà essere – prevedibilmente – il futuro della riforma della scuola nel corso dell’attuale legislatura: alcuni aspetti secondari verranno forse cancellati (come il tutor e il portfolio), mentre altri elementi pedagogici generali (come il principio della personalizzazione) dovrebbero essere conservati. Intanto, la sperimentazione per il secondo ciclo è stata bloccata: troppi problemi, soprattutto in relazione alle diverse competenze tra stato e regioni, per iniziare nel prossimo anno scolastico. Purtroppo, a seguito delle controversie ben note agli addetti ai lavori e in conseguenza dell’intervento del TAR del Lazio sollecitato da alcuni sindacati2, il ministero si è espresso sfavorevolmente in relazione alla possibilità di esprimere la valutazione dell’IRC insieme alle altre discipline scolastiche. Torna dunque in vigore il vecchio Testo Unico, il cui art. 309 prescrive la redazione di una nota a parte. Ma ci auguriamo che questo non sia il segno di una recrudescenza di ostilità nei confronti del lavoro, professionalmente sempre più qualificato, degli IdR. Deve essere chiaro a tutti che l’IRC concorre alla formazione integrale dell’alunno ed è illegittimo relegarlo in un ghetto di subalternità, magari indorando la pillola con l’idea di uno “statuto speciale”. Molto interessante sarà ca2 3 pire che fine potrà fare il progetto di una valutazione degli insegnanti: forse gli IdR che si sono sottoposti alla valutazione concorsuale – magari dopo decenni di insegnamento – sono più preparati di altri di fronte a questa prospettiva. Che tuttavia rimane altamente problematica ed incerta: chi sarebbe competente a valutare? In base a quali parametri? Con quali esiti? La questione è decisamente complessa. Per saperne di più su cosa accadrà, ovvero – per dirla con Croce – per capire «ciò che è vivo e ciò che è morto» della riforma Moratti, possiamo anticipare che il Ministro Fioroni ha accettato di partecipare all’incontro degli IdR previsto per l’inizio del prossimo anno scolastico: l’appuntamento è fissato per sabato 9 settembre presso il Santuario del Divino Amore. Un’occasione preziosa per sapere cosa ci aspetta. I dati statistici sull’IRC per il 2005/06 Sono stati resi noti recentemente i dati statistici ufficiali relativi all’IRC nell’A.S. 2005/20063. Da tredici anni ormai il Servizio Nazionale per l’Insegnamento della Religione Cattolica della CEI commissiona all’Osservatorio Religioso del Triveneto l’elaborazione dei dati che le diverse diocesi italiane inviano sull’IRC. Quest’anno hanno restituito il questionario 189 diocesi italiane su 226 (83,6%); il numero di alunni di scuola statale rilevati corrisponde all’81,5% del totale: una parte della popolazione studentesca che, seppure non coglie la realtà nazionale nella sua interezza, è cospicua e significativa. Il 2005/06 non lascia registrare novità significative rispetto ai dati degli anni precedenti, ma solo la conferma di un trend di lieve flessione degli alunni avvalentisi, che corrispondono al 91,6%, con il corrispettivo Sulla questione, cfr l’articolo alle pp. 20-26. Consultabili sul sito della CEI: www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=328. 69 D I A R I O S C O L A S T I C O 8,4% di non avvalentisi; calcolando anche gli alunni delle scuole cattoliche si raggiunge circa il 92,4% della popolazione studentesca italiana: un dato sostanzialmente solido e ancora abbastanza consolante. La variazione nell’ultimo triennio corrisponde mediamente al -1,1%, con un calo più marcato nelle scuole dell’Infanzia (-1,7%), seguite dalle secondarie di II grado (-1,5); la scuola primaria tiene meglio di tutte (-0,5%). Gli IdR sono nella stragrande maggioranza laiche e laici (84,4%); in poco più di un decennio la quota di sacerdoti e religiosi si è contratta fino a dimezzarsi (dal 36,6% del ’93/94 al 15,6% del ’05/06). Si conferma l’osservazione secondo cui le percentuali di non avvalentisi sono molto più modeste nel Sud (solo 1,7%) che nel Nord (13,4%, ben al di sopra della quota nazionale) e nel Centro (9,3%; per questo dato si consideri però che la Toscana, regione con la più elevata percentuale di non avvalentisi – ben 16,9% – viene computata insieme al Centro e non al Nord). Il Lazio si attesta sul 7,5%, circa un punto percentuale al di sotto della media nazionale. Segnaliamo anche – purtroppo – che le Diocesi del Lazio partecipanti alla ricerca sono state in proporzione le meno numerose: solo 16 su 22. Riepilogando, la situazione non è affatto tragica come di tanto in tanto alcuni giornali vorrebbero farci credere; tuttavia una certa flessione è innegabile, e il fenomeno da non sottovalutare ci sembra quello relativo alla secondaria di II grado (l’età in cui una scelta di fede può maturare o perdersi) e quello relativo alla scuola dell’infanzia (comprensibile soprattutto a partire dalla nuova composizione multietnica e multireligiosa della popolazione). Si tratta di rimboccarci le maniche e fare di tutto affinché il contributo scolastico della religione cattolica non venga considerato uno spazio di egemonia (o un posto di lavoro) da conservare, ma come un’occasione preziosa per far conoscere la «gioia della fede» anche alle nuove generazioni. Dati statistici nazionali sull’IRC – percentuale di alunni avvalentisi Anno scolastico 2005/06 2004/05 2003/04 2002/03 2001/02 2000/01 1999/00 1998/99 1997/98 1996/97 1995/96 1994/95 1993/94 70 Scuola dell’infanzia Scuola primaria Secondaria di I grado Secondaria di II grado Totale 94,7 95,1 96,4 95,8 96,3 96,8 96,7 96,7 96,7 96,5 97,0 96,5 96,6 95,2 95,5 95,8 96,0 96,4 96,8 96,5 96,9 97,0 96,8 97,3 97,2 96,3 93,1 93,2 94,1 94,3 94,7 95,1 94,9 95,1 95,6 95,7 95,6 96,0 95,4 85,0 85,3 86,5 87,5 87,6 88,1 86,7 87,5 88,2 88,1 88,8 90,3 88,6 91,6 91,8 92,7 93,0 93,2 93,6 92,9 93,4 93,6 93,7 93,9 94,4 93,5 M A T E R I A L I E D O C U M E N T I La cultura cattolica: identità e forza educativa di una tradizione S.E. Mons. Rino FISICHELLA* Un testamento che rimane vivo «Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù… Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla perché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio. Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo io dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio… Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni ad insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare tra le lacrime ciascuno di voi. E ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità per tutti i santificati… Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò…» (At 20,17-38). Non è senza significato che poniamo questa nostra riflessione alla luce del testamento di Paolo. Il tema della cultura e del valore della tradizione tocca diverse problematiche connesse che, comunque, si condensano intorno ad un aspetto del tutto peculiare: come si può trasmettere la fede oggi e permettere che questo processo sia inserito nella cultura e produca cultura? Paradosso quasi insormontabile. Siamo chiamati a guardare al futuro e verificare come incidere nel presente della Chiesa e mi introduco con un testamento di un apostolo ormai anziano, sul punto di donare la propria vita con il martirio che strappa lacrime ai suoi uditori perché dice loro che non lo vedranno più! Tutto questo, tuttavia, ha un suo senso. Trasmettere la fede non è un passatempo per teologi chiamati a intrattenere il pubblico; è un impegno di chi ha compreso seriamente il proprio battesimo. E nessuno potrà mai dimenticare che prima di trasmettere un contenuto si deve considerare l’atto con il quale si trasmette. Questo è il primo punto decisivo con il quale ci introduciamo. È sufficiente riprendere tra le mani il testamento di Paolo per verificare subito che, stranamente, non parla di ciò che egli ha trasmesso – come ha fatto, ad esempio in altri due casi parlando dell’eucaristia (1 Cor 11) e della risurrezione del Signore (1 Cor 15) – ma di come egli si è comportato da apostolo e da maestro della fede. Tutti i verbi che san Paolo usa indicano un’azione concreta, uno stato d’animo, una decisione di vita e un impegno che egli si è assunto: «come mi sono comportato», «ho servito», «non mi sono mai sottratto», «predicare», «istruire», «condurre a termine», «rendere testimonianza», «dichiarare», «affidare», «pregare»…; la prima impressione che si ricava è quella dell’apostolo che nel momento in cui sa che sta trasmettendo sta consegnando se stesso e la sua vita. L’atto del trasmettere è, quindi, un atto mediante * Il testo riproduce integralmente la conferenza che Mons. Fisichella ha pronunciato il 3 maggio 2006 in occasione dell’incontro degli Insegnanti Cattolici del Lazio presso l’Auditorium dell’Università Cattolica. 71 M A T E R I A L I il quale ci si consegna. Non si consegna primariamente un contenuto; si consegna se stessi e tutto ciò che si è. Questo è l’impegno della fede che si raccoglie proprio nella indissolubilità di un credere come un atto con il quale ci si abbandona alla grazia di Dio che agisce in noi e mediante il quale si accoglie il Vangelo di Gesù Cristo. Trasmettere è un atto complesso, ma nello stesso semplice. È complesso perché composto di una serie di fatti che lo compongono e accompagnano; nello stesso tempo, è di una semplicità disarmante, perché richiama alla forma più fondamentale e originaria che ognuno di noi possiede, quella di esercitare la propria libertà. Trasmettere è davvero un atto di libertà con il quale si offre la propria vita come garanzia di verità e di senso. Se per tutta la vita dovessi rincorrere un’ipotesi senza mai arrivare a mostrare la sua affidabilità, sarebbe difficile poter comprendere che la si lascia come eredità. La vita richiede il rischio della libertà che sa accogliere la sfida della verità ultima sulla propria esistenza come risposta definitiva alla domanda di senso. «Le ipotesi possono affascinare, ma non soddisfano» – scriveva Giovanni Paolo II nella Fides et ratio – ed è vero. Deve venire il momento in cui, in forza della libertà che opera in noi e che realizza la personalità di ognuno, si sceglie di affidare la propria vita a una verità che si coglie come dono e offerta piena di senso. Questo sì è il momento in cui si può anche scrivere un testamento, descrivendo il cammino di una vita che merita di essere trasmessa perché ha portato significato all’intera esistenza personale. Cristo trasmesso del Padre Queste considerazioni, comunque, devono avere un loro fondamento, non possono essere solamente una riflessione del teologo a commento di un passo biblico. E la verità profonda di questo ragionamento proviene da ciò che costituisce il mistero della nostra fede: Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, viene offerto dal Padre all’umanità per esprimere la sua presenza perenne nel mondo. La prima vera trasmissione è l’atto con il quale il Padre dona se stesso nel 72 E D O C U M E N T I proprio Figlio. È una generazione che non conosce tramonto, perché permane come l’espressione massima dell’amore che sa donare senza nulla chiedere in cambio. Gesù Cristo, nelle parole di Giovanni all’inizio del suo vangelo, viene proprio presentato come il Verbo che è nel «grembo del Padre», cioè l’Unigenito, colui che è l’unico amato e che in questo amore, unico e immutabile perché eterno, egli genera continuamente come espressione culminante del suo amore. «Nessuno ha mai visto il Padre, l’Unigenito che è Dio nel grembo del Padre, lui lo ha rivelato e interpretato» (Gv 1,18): un amore, quindi, che si dona e offre nel generare, nel trasmettere se stesso. E l’evangelista è ancora più esplicito, quando afferma: «Dio ha così amato il mondo da consegnare il suo unico Figlio» (Gv 3,16). La trasmissione entra nella storia e non rimane una pura teoria sulla vita di Dio in se stesso; qui, al contrario, viene esplicitato il modo della consegna e ci viene detto che è un donare tutto quanto egli possiede ed è: l’amore che si consuma e offre fino alla fine senza nulla chiedere in cambio perché nessuno potrebbe corrispondere pienamente all’amore di Dio. L’enciclica di Benedetto XVI acquista in questo orizzonte tutto il suo valore programmatico non solo per la vita di fede, ma soprattutto per l’impegno culturale che immette quando chiede di far diventare l’amore stile di vita e contenuto proprio dell’esistenza credente. Per ritornare allo specifico del nostro tema, comunque, l’atto della trasmissione e della consegna del Figlio da parte del Padre è un atto che dice semplicemente amore. E la cosa diventa ancora più impressionante nel momento in cui il Figlio stesso è chiamato alla consegna suprema. Prima di consegnare e trasmettere qualcosa, egli consegna se stesso al Padre in un atto che dice puro amore di obbedienza alla sua volontà. È sempre l’evangelista Giovanni che coglie immediatamente la portata di questo fatto quando sottolinea che nel momento della sua morte Gesù «tradidit Spiritum» (Gv 19,30): consegna lo Spirito. Lo fa anzitutto in riferimento al Padre portando così a compimento quella visibilità dell’amore nel- M A T E R I A L I la storia dell’umanità che si fa concreto e visibile nella morte stessa assunta come forma di amore. Lo fa nei confronti della sua Chiesa e di quanti crederanno in lui, a cui consegna lo Spirito come presenza visibile e creatrice di un cammino che attraverserà i tempi e i mondi per restituire poi al Padre il popolo dei redenti. Da ogni parte volgiamo lo sguardo, permane questa condizione che ci assorbe e ci avvolge completamente. Trasmettere è un atto fecondo che si fa forte della presenza del creator Spiritus. Domandiamoci: perché la Chiesa sente l’esigenza nei momenti più delicati della sua vita, e soprattutto quando deve chiedere la coerente comprensione della fede da trasmettere e spiegare in diversi momenti e a popoli differenti, di invocare il creator Spiritus che visiti la mente dei credenti? Il digitus paternae dexterae che tocca Adamo è segno di vita che viene creata dalla presenza di Dio e che costituisce la sintesi di ogni vera condizione dell’uomo e del suo rapporto con Dio. La dignità della persona sta tutta qua, nell’essere toccata dallo Spirito che crea e per questo forma in ognuno la somiglianza e l’immagine con il creatore. A partire da qui si trasmette la forza che permette – nonostante la disobbedienza del peccato – di riportare al nuovo Adamo che trasmette vita nuova. Dobbiamo considerare, da ultimo, l’espressione storica permanente del trasmettere da parte di Gesù. Egli lo fa con i suoi discepoli nell’ultima cena, offrendo ancora una volta se stesso. Il pane e il vino sono segno che rinviano a colui che in essi è rappresentato e significato. Il Crocifisso e Risorto rimane veramente presente nel segno del pane e del vivo perché lui così ha voluto imprimere nella storia il dono totale di sé. Dove c’è vera tradizione, là vi è una fecondità di vita che non termina e alla quale non si può rinunciare. Se vogliamo seguire l’evangelista Giovanni anche in questo caso, allora dobbiamo comprendere il cammino che ci invita a fare. Lui non racconta l’istituzione dell’eucaristia, ma ci lascia il testamento del Signore. I discorsi di addio di Gesù (Gv 13-17) non sono altro che l’atto della trasmissione di sé; anche E D O C U M E N T I qui troviamo i punti salienti della sua esistenza: il servizio che si esprime nel lavare i piedi (13,1-15), l’amore al più lontano che si manifesta nell’atto di donare a Giuda il boccone prelibato del banchetto (13,2630), la reciprocità dell’amore tra i fratelli come segno concreto della sua presenza in mezzo a noi (13,34-35.14,14-21), l’invito a non disperderci, ma a «rimanere in lui» in un’unità profonda e radicale come quella dei tralci alla vite (15,1-7), il cammino verso la verità intera su di lui e su di noi che sarà data per la presenza dello Spirito (16,13) e la sua preghiera come protezione perenne per quanti saranno nel mondo a rendere testimonianza alla sua verità (17,1-26). L’eucaristia è insieme atto e contenuto con il quale Cristo trasmette se stesso alla sua Chiesa. A noi viene dato così il pegno di ciò che sarà la nostra vita e l’impegno perché quotidianamente ci apriamo al suo amore. Trasmettere con il rischio di tradire Sarei poco realista se pensassi che questo atto di trasmettere non fosse segnato anche dal pericolo del tradire. Non è un caso che proprio all’atto di Gesù di consegnare se stesso sia presente, come un’ombra opprimente, la consegna che Giuda fa del Maestro. Vendendo al sinedrio Gesù, egli sembra non voler compiere un opera di trasmissione al futuro, ma intende relegare nel passato della legge ciò che costituisce la storia, senza comprendere l’originalità e la novità dell’amore. In ogni trasmissione che la Chiesa e il credente compiono vi è sempre all’erta il pericolo del tradimento. Quante volte, forse senza neppure accorgersene, lo «Spirito è tradito e consegnato alla lettera» (H.U. von Balthasar). Ciò avviene ogni qual volta l’amore di Dio viene svuotato del suo mistero e ridotto a pura logica; così come quando la radicalità del suo vangelo viene annacquata per permettere di condurre una vita più tranquilla e maggiormente comoda, illudendo di poter tenere insieme la volontà di Dio e i propri progetti. Ciò che Dio compie e trasmette non potrà mai essere un reperto archeologico, non potrà mai essere rinchiuso nel passato. Il 73 M A T E R I A L I suo testamento è di oggi perché fino ad oggi, ancora oggi egli si consegna con un atto unico e supremo che non è mai ripetitivo, ma sempre originario; l’amore non può mai essere monotono perché diventa asfittico, privo di vitalità e incapace di generare. Sorgono inevitabili, a questo punto, delle questioni che concernono più direttamente l’ambito del processo culturale: quale linguaggio è possibile assumere per trasmettere? Il linguaggio assunto che deve trovare corrispondenza dell’interlocutore è capace di contenere in sé la verità da trasmettere? In che modo lo stile di vita dei credenti è capace di essere veicolo di trasmissione? Forse, in tutta questa serie di domande permane forte il rimprovero di Gesù: «Siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione… annullando la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,9.13). La persona al centro Quanto abbiamo cercato di dire finora ci riporta a uno dei temi centrali della nostra riflessione: la persona. È necessario che si riparta dal valore e dal senso della persona per ricostruire un tessuto culturale lacerato da opinioni che non riescono a cogliere la profondità del mistero contenuto. La memoria di ciò che «persona» significa deve riprendere posto nelle nostre lezioni, catechesi e gli strumenti propri che la Chiesa possiede, non per vanagloria né per trionfalismo alcuno, ma solo ed esclusivamente per permettere un salto qualitativo nell’attuale momento di passaggio culturale. Vorrei solamente accennare al ruolo determinante che l’occidente ha avuto nel momento in cui ha compreso l’originalità del concetto cristiano di persona. Se si vuole, è intorno a questo termine che si può rileggere la storia del progresso e della maturazione civile, culturale, sociale e politica. Fino al IV secolo, il termine è soggetto a una lunga discussione sul suo significato più coerente. Nell’accezione latina – che risentiva dell’origine etrusca – il termine persona va ricondotto allo spazio del teatro; indica infatti la maschera che copriva il volto dell’attore. Nella semantica greca, il termine pròsopon 74 E D O C U M E N T I indica ugualmente la maschera teatrale, ma insieme ad esso anche «ciò che cade sotto gli occhi», «ciò che si vede». La diatriba sul termine nasce proprio nel momento in cui si vuole esplicitare la fede nella Trinità e la presenza di tre persone con un’unica natura; alla stessa stregua, i primi cristiani dovevano esplicitare nei confronti di Gesù Cristo, il fatto che la sola persona divina era presente nella natura umana e in quella divina. Si deve alla grande intelligenza di Agostino la soluzione più adeguata che rimarrà fino ai nostri giorni. Egli ha saputo armonizzare il termine con il concetto, mostrando che la persona è se stessa nella relazione con l’altro. Saranno i concili, in seguito a stabilire dogmaticamente l’esattezza della formula; ciò che importa, comunque, è verificare che sulla base della chiarificazione trinitaria e cristologia del concetto si viene a produrre una delle conquiste più rivoluzionarie della cultura universale. Persona è un’identità propria che si qualifica nella sua relazione con l’altro. Per cogliere in profondità il valore semantico, è necessario comprendere la sua derivazione dalla sfera della fede nella Trinità. Nell’unità della natura divina, che non è divisa, ma partecipata totalmente, le tre Persone si qualificano e differenziano come Padre, Figlio e Spirito Santo; ognuna delle tre persone vive solo in relazione con l’altra in una forma di donazione e accoglienza totale che permette loro di essere identificate come Padre che tutto dona, Figlio che tutto riceve e Spirito Santo come Frutto del tutto dare e del tutto ricevere. La persona, insomma, si qualifica per la relazione d’amore che le permette di essere ciò che è. È alla luce di questa prospettiva che possiamo comprendere il valore portante della persona nel mondo contemporaneo e lo sviluppo che essa ha avuto nelle diverse istanze scientifiche. Dal concetto di persona scaturisce come conseguenza quello della sua dignità e del suo valore universale e, quindi, l’attenzione che è dovuta ad ogni persona, a tutta la persona e al bene di tutte le persone. Non è azzardato affermare che solo nella misura in cui si vuole salvaguardare il concetto di persona e la sua dignità è determinante che essa riman- M A T E R I A L I ga legata a Dio che ne garantisce l’esatta comprensione ed esplicitazione. Nella misura in cui si dimentica Dio si dimentica anche la persona che reca impressa in sé la sua immagine e somiglianza; nella misura in cui si dimentica la persona, si dimentica anche Dio che ne è la sua garanzia ultima. La conseguenza inevitabile che sembra proiettarsi all’orizzonte è quella di un’ulteriore Wende; questa svolta, tuttavia, non pone più al centro l’uomo, ridotto ormai a un ruolo marginale nei confronti della stessa natura, ma la tecnica. Se, d’altronde, la tecnica è in grado di determinare l’esistenza personale fin dai suoi primordi e neppure la scienza sente il bisogno di porre limiti alla sperimentazione sulla cellula umana scavalcando le stesse regole che si era data in precedenza, allora non si potrà evitare il verificarsi delle logiche conseguenze. L’uomo, sulla scena del teatro di questo mondo, non potrà più giocare il ruolo di protagonista a cui si era abituato per secoli, ma deve necessariamente lasciare il posto a chi ora pretende di determinare la sua stessa esistenza. Si riaffaccia sulla scena del mondo la tetra figura di Medea che uccide i suoi figli (O. Fallaci); è proprio così, la tecnica creata dall’uomo per rendere più umana la sua esistenza, sembra respingere in un angolo l’uomo stesso quasi si trattasse di un nuovo e mai mutato complesso di Edipo. È ormai condivisa l’analisi secondo la quale il nostro contemporaneo ha talmente delegato la tecnica a produrgli ogni cosa, da non comprendere più il grave pericolo in cui è caduto. La tecnica, infatti, ha assunto il ruolo di domina non solo della natura, ma anche dell’uomo riducendolo a un oggetto della sua sperimentazione senza curarsi più delle sue reazioni. Se cresce la tecnica, ma non aumenta di conseguenza anche l’orizzonte spirituale dell’uomo e la persona non permane in una dinamica di maturazione verso la trascendenza, allora si viene spogliati di ciò che possediamo come di più prezioso: la coscienza di sé, del proprio limite e dell’apertura infinita verso cui si è indirizzati. Condizione mortale, perché in questo modo non solo cessa il vero progresso, ma l’uomo stesso muore per asfissia. Egli, infatti, non E D O C U M E N T I ha più uno spazio spirituale che gli consente di andare oltre se stesso verso quell’orizzonte di senso ultimo che dà risposta alle sue domande fondamentali. Per paradossale che possa sembrare, la tecnica allontana anche ogni domanda sul limite, illudendo di una eternità che non può essere data dalla produzione dell’uomo. Si dovrà guardare con occhio vigile a come il pensiero maturato in Europa si porrà nel prossimo futuro nei confronti della sofferenza e della morte. Le tesi di M. Heidegger, solo per fare un esempio, diventeranno archeologia filosofica; la morte non sarà più l’ultimo baluardo da affrontare nella libertà propria della decisione di vita, ma un evento da scongiurare per l’illusione dell’immortalità. La morte non sarà più interpretata come un accadimento naturale e inevitabile della vita, piuttosto una sciagura da evitare come qualsiasi altra malattia. Come si porrà l’uomo davanti alla morte dopo l’illusione della tecnica di allontanarla per sempre da lui? Con la dignità propria della libertà cosciente o come una stupida conclusione che non si è potuto evitare? E se la vita sarà più o meno indefinita, ci sarà ancora qualcuno disposto a offrire la propria vita per gli altri? Le biotecnologie favoriranno un attaccamento alla vita oppure la renderanno insopportabile? Interrogativi non affatto ovvi e tanto meno inattuali; saranno sul tappeto nello sviluppo del pensiero a partire già da domani e provocheranno la fede dei credenti. La crisi di identità che stiamo vivendo è sotto gli occhi di tutti. Tolto il concetto di persona si allontana quello della sua sacralità e tutto cade nell’arroganza del più forte. Ne deriva la pretesa di imporre il diritto individuale su quello sociale e la conseguente distruzione di modelli sui quali l’occidente è fondato. Imporre l’esistenza del diritto individuale porta a imprimere nella società la volontà degli individui, spezzando in questo modo il concetto stesso di persona come relazione. Contraddizione insanabile, frutto dell’individualismo che regna sovrano, avendo distrutto ogni possibile tensione verso il bene comune. La prima conseguenza di questo stato di crisi è la solitudine in cui è caduto l’uomo contemporaneo. 75 M A T E R I A L I Privo di una relazione salda che gli consente di comprendere se stesso, è diventato ormai estraneo a se stesso; incapace di collocarsi e di comprendersi, tende a rinchiudersi in se stesso con la conseguente mancanza di amore e donazione gratuita. I rapporti diventano soggetti all’interesse individuale e la violenza dell’uno sull’altro ha la meglio. In questo contesto è necessario porre anche la crisi del matrimonio e della famiglia. Colto dalla paura di una incapacità stabile alla relazionalità e all’amore, si apre la strada a modelli che contraddicono e distruggono ogni relazione sociale. Il tentativo di minare alla base anche lo stesso concetto di matrimonio monogamico e tra persone di sesso diverso non è che uno degli ultimi bastioni che una cultura in crisi intende abbattere per l’imposizione di un progetto, estraneo al mondo, alla natura e alla stessa cultura che ha il solo intento di eliminare l’uomo. Sono convinto che solo mediante un recupero forte del concetto di tradizione questo sarà possibile. La tradizione, infatti, è forma di una trasmissione che inserisce in un processo più ampio e che genera conoscenza; a nostro avviso, esprime una risorsa di cui i credenti anzitutto dovrebbero farsi carico. La tradizione per noi non significa soltanto il riferimento a una storia bimillenaria che, nel bene e nel male ci appartiene, indica, piuttosto, la partecipazione diretta a una viva trasmissione della fede che ispira e genera cultura. I cristiani dovrebbero ricuperare, in questo frangente, la memoria perenne dell’evento salvifico di cui sono responsabili nel mondo e, all’interno di questo momento, ripensare il ruolo della loro partecipazione alla missione evangelizzatrice della Chiesa. Ogni azione credente, infatti, anche quella sociale, politica e culturale porta con sé la peculiarità di essere annuncio del vangelo che salva. Il recupero del senso della tradizione e del suo valore per il futuro è una strada da percorrere. Essa non è semplice; richiede, infatti, uno sforzo di originalità e un recupero di spessore speculativo, ma soprattutto un atto con il quale si prende coscienza della sua validità e una decisione di riproporla come carica di senso per il futuro. 76 E D O C U M E N T I La fede compagna di vita Giungiamo, così, al termine della nostra riflessione considerando la fede che deve essere trasmessa. È ancora papa Benedetto che ci ricordava a Köln: «Chi ha scoperto Cristo deve portare altri verso di lui. Una grande gioia non si può tenere per sé. Bisogna trasmetterla» (Omelia del 21 agosto 2006). Vorrei solo lasciare quasi a commento di queste parole, due testi in proposito che risalgono entrambi a s. Agostino, mediante i quali possiamo cogliere un insegnamento più profondo e attuale per la nostra stessa opera di trasmissione. Non entrerò nelle tecniche o nei particolari di come trasmettere; quanto ho detto all’inizio è lo scenario significativo che consente di cogliere il mio pensiero in proposito e ha già in sé – per chi vuole coglierle – le concrete applicazioni. Ciò che a me preme maggiormente è consegnare strumenti di riflessione perché la vostra intelligenza si provocata e la vostra libertà trovi esplicitazione concreta. Il primo testo presenta un fatto interessante: l’obbligo di imparare a memoria il credo. A più riprese, il santo vescovo sollecita i catecumeni a imparare a memoria il simbolo, spiegando loro il significato della sua consegna (traditio) e della sua riconsegna (redditio): «Ecco dunque: vi ho proposto questo breve discorso su tutto il simbolo, come vi dovevo. Mentre il simbolo lo udrete tutto di seguito, vi ritroverete tutto quanto è stato brevemente sintetizzato in questo discorso. Le parole del simbolo non dovete assolutamente scriverle per impararle a memoria, ma dovete mettervele in testa solo ascoltando; e neanche scriverle dopo che le avrete imparate, ma dovete conservarle sempre nella memoria e così riportarle alla mente. D’altronde tutto ciò che ora sentirete nel simbolo è contenuto nei testi divini delle Sacre Scritture e tutto vi capita di ascoltarlo, or qua or là, secondo l’opportunità. Ma quel che, raccolto così e redatto in una forma particolare, non è consentito scrivere, richiama alla mente quella promessa di Dio quando, annunciando per mezzo del profeta la nuova alleanza, disse: “Questa è l’alleanza che io concluderò con loro dopo quei giorni, dice il Signore: porrò M A T E R I A L I la mia legge nel loro animo e la scriverò nel loro cuore”. Per realizzare questa cosa, quando si sente il simbolo, lo si deve scrivere non su tavolette o su qualunque altra materia, ma nei cuori. Ed egli che vi ha chiamati al suo regno e alla sua gloria, quando sarete stati rigenerati con la sua grazia, vi concederà che sia scritto nei vostri cuori anche per mezzo dello Spirito Santo, perché possiate amare quello che credete e la fede operi in voi per mezzo della carità, e così possiate piacere al Signore Dio dispensatore di ogni bene non come servi che temono la pena, ma come uomini liberi che amano la giustizia. Ed ecco ora il Simbolo che, già catecumeni, vi è stato istillato per mezzo delle Scritture e dei discorsi della Chiesa, ma che dai fedeli deve essere confessato e professato sotto questa breve formula»1. Nell’unico testo che possediamo sulla redditio, il vescovo di Ippona introduce così il suo discorso ai catecumeni nella V domenica di quaresima: «Il simbolo del santo mistero che avete ricevuto tutti insieme e che oggi avete reso uno per uno, sono le parole su cui è costruita con saldezza la fede della madre Chiesa sopra il fondamento stabile che è Cristo Signore. Voi dunque lo avete ricevuto e reso, ma nella mente e nel cuore lo dovete tenere sempre presente, lo dovete ripetere nei vostri letti, ripensarlo nelle piazze e non scordarlo durante i pasti: e anche quando dormite con il corpo, dovete vegliare in esso con il cuore»2. Queste ultime espressioni fanno comprendere un ulteriore elemento della prassi primitiva: il credo non veniva recitato in primo luogo durante l’eucaristia, ma nella preghiera quotidiana. Non è un dato importante per noi oggi? Recitare ogni giorno il credo in cui sono stato battezzato; recarmi sulla tomba di Pietro e fare lì la mia rinnovata professione di fede come lui la fede davanti al martirio… allora sì che la domenica risulterà più comprensibile professare insieme a tutta la Chiesa la stessa, unica fede. Un ultimo tratto emerge dagli scritti di s. Agostino ed è la professione pubblica del1 2 E D O C U M E N T I la fede; nessuno di noi cada nella trappola che siamo uomini privati nei nostri impegni e privati in chiesa la domenica. Il cristiano è sempre, per sua stesa natura, un uomo pubblico e attesta pubblicamente chi è. Nelle Confessioni un brano attira la nostra attenzione in proposito. Agostino racconta delle sue frequentazioni con Simpliciano, durante il periodo milanese, a cui aveva confidato delle sue letture dei filosofi platonici tradotte dal retore Vittorino. Alla gioia di Simpliciano per questa notizia, si aggiunse una confidenza: la conversione del grande retore. «Evocò i suoi ricordi di Vittorino da lui conosciuto intimamente durante il suo soggiorno a Roma. Quanto mi narrò dell’amico non tacerò, poiché offre l’occasione di rendere grande lode alla tua grazia. Quel vecchio possedeva vasta dottrina ed esperienza di tutte le discipline liberali, aveva letto e ponderato un numero straordinario di filosofi, era stato maestro di moltissimi nobili senatori; così meritò e ottenne, per lo splendore del suo altissimo insegnamento, un onore ritenuto insigne dai cittadini di questo mondo: una statua nel Foro romano. Fino a quell’età aveva venerato gli idoli e partecipato ai sacrifici sacrileghi, da cui la nobiltà romana di allora quasi tutta invasata, delirava per la dea del popolino di Pelusio e per mostri divini di ogni genere e per Anubi l’abbaiatore, i quali un giorno contro Nettuno e Venere e Minerva presero le armi. Roma supplicava ora questi dèi dopo averli vinti, e il vecchio Vittorino li aveva difesi per lunghi anni con eloquenza terrificante. Eppure non arrossì di farsi garzone del tuo Cristo e infante alla tua fonte, di sottoporre il collo al giogo dell’umiltà, di chinare la fronte al disonore della croce… A detta di Simpliciano, leggeva la Sacra Scrittura, e tutti i testi cristiani ricercava con la massima diligenza e studiava. Diceva a Simpliciano, non in pubblico, ma in gran segreto e confidenzialmente: “Devi sapere che sono ormai cristiano”. L’altro replicava: “Non lo crederò né ti considererò nel numero dei cristiani finché non ti avrò visto nella chiesa di Cristo”. S. AGOSTINO, Sermo 212,2. ID., Sermo 215,1. 77 M A T E R I A L I Egli chiedeva sorridendo: “Sono dunque i muri a fare i cristiani?”. E lo affermava sovente, di essere ormai cristiano, e Simpliciano replicava sempre a quel modo, ed egli sempre ripeteva quel suo motto sui muri della chiesa… Perso il rispetto verso il suo errore, e preso da rossore verso la verità, all’improvviso e di sorpresa, come narrava Simpliciano, disse all’amico: “Andiamo in chiesa, voglio divenire cristiano”. Simpliciano, che non capiva più in sé per la gioia, ve lo accompagnò senz’altro. Là ricevette i primi rudimenti dei sacri misteri; non molto dopo diede anche il suo nome per ottenere la rigenerazione del battesimo, tra lo stupore di Roma e il gaudio della Chiesa. Se i superbi s’irritavano a quella vista, digrignavano i denti e si maceravano, il tuo servo aveva il Signore Dio sua speranza e non volgeva lo sguardo alle vanità e ai fallaci furori… Infine, venne il momento della professione di fede. A Roma chi si accosta alla tua grazia recita da un luogo elevato, al cospetto della massa dei fedeli una formula fissa imparata a memoria. Però i preti, narrava l’amico, proposero a Vittorino di emettere la sua professione in forma privata, licenza che si usava accordare a chi faceva pensare che si sarebbe emozionato per la vergogna. Ma Vittorino amò meglio di professare la sua salvezza al cospetto della santa moltitudine. Da retore non insegnava la salvezza, eppure aveva professato la retorica pubblicamente; dunque tanto meno doveva vergognarsi del tuo gregge mansueto pronunciando la tua parola chi proferiva le sue parole senza vergognarsi delle turbe insane. Così, quando salì a recitare la formula, tutti gli astanti scandirono fragorosamente in segno di approvazione il suo nome, facendo eco gli uni agli altri, secondo che lo conoscevano. Ma chi era là, che non lo conosceva? Risuonò dunque di bocca in bocca nella letizia generale un grido contenuto: “Vittorino, Vittorino”; e come subito gridarono festosi al vederlo, così tosto tacquero sospesi per udirlo. Egli recitò la sua professione della vera fede con sicurezza straordinaria. Tutti avrebbero vo3 ID., Confessiones, VIII, 2,2-5. 78 E D O C U M E N T I luto portarselo via dentro al proprio cuore, e ognuno invero se lo portò via con le mani rapaci dell’amore e del gaudio»3. La commozione della narrazione non deve far perdere di vista le importanti notizie che riguardano il nostro tema: «A Roma chi si accosta alla tua grazia recita da un luogo elevato, al cospetto della massa dei fedeli una formula fissa imparata a memoria». Per concludere La fede ci mette dinanzi alla visione dell’uomo più impegnativa che possa esistere. Dobbiamo ricordarci di questa nostra pretesa; essa si scontra con tutte le parvenze di libertà che vengono proposte e che, di fatto, limitano la formazione della persona perché ne impediscono il suo vero sviluppo. È per questo che stiamo sotto il fuoco incrociato perché ciò che proponiamo è scomodo, controcorrente e impedisce di ridurre l’uomo a un puro oggetto di mercato e l’amore a un puro fatto transeunte di un fine settimana. Nessuno di noi, tuttavia, potrebbe prendere sul serio la consegna di Cristo se non comprendesse che questa comporta l’essere trascinati con lui in un’offerta di amore che sa consegnarsi a ciò che agli occhi del mondo appare come sconfitta e fallimento. Possiamo esser emarginati, ma questo può essere anche la nostra forza. Certamente ci saranno molti che comprenderanno che dinanzi all’ideologia della banalità e dell’effimero che sa solo offrire concerti dell’ultima ora o divertimento sfrenato senza più regole, è necessaria un’opposizione profetica, tipica delle sentinelle che siamo chiamati ad essere e che ci rende non solo davvero moderni dinanzi al decadimento attuale, ma lungimiranti nel saper rispondere agli interrogativi che sorgono in tanti coetanei al termine di un lugubre fine settimana (cfr J. Ratzinger, Il Sale della terra, San Paolo, p. 271). Saremo veramente «sentinelle del mattino» se avremo in noi il coraggio per la Verità, l’unica che può realmente puntare gli occhi sulla bellezza dell’amore senza rimane folgorata. In quarta di copertina: un miniatore eporediese [1000-1001] illustra san Gregorio che detta i testi allo scriba Pietro. Dal Sacramentario del vescovo Warmondo, Ivrea, Biblioteca Capitolare, cod. 31/LXXXVI, fol. 8v. Certamente nessun insegnante pretenderà essere un san Gregorio Magno (per giunta “insignis praesul et auctor” ed ispirato [si guardi la colomba dello Spirito Santo davanti al suo orecchio]) come nessuno studente il suo personale “scriptor”. Ma in qualche modo quotidianamente ambedue lo sono. Nel colophon delle Omelie su Ezechiele di Gregorio Magno, X secolo, nella lunga dedica l’amanuense esprime il senso e la fatica del suo lavoro: «Labor scribentis refectio legentis. Haec deficit corpore, ille proficit mente. Quisquis in eo proficeris, mihi fratri Leoni meminisse digneris, qui hunc propriis manibus exaravi hunc librum [...] O quam dulcis est navigantibus portus: ita scriptori novissimus versus. Tria digita scribunt, totum corpus laborat. Dorsum inclinat, costas in ventrem mergit et omne fastidium corporis nutrit. Ideo tu, lector, leniter folia versa, manus lava, et sic librum tene et ei aliquid pro vestitura consterne. Deo gratias». («La fatica di chi scrive è nutrimento per chi legge. Questa indebolisce il corpo, quello giova alla mente. Chiunque ne trarrà vantaggio, voglia ricordarsi di me frate Leone, che questo scrisse di propria mano […]. O quanto dolce è il porto per i naviganti: così è per lo scrittore l’ultimo verso. Tre dita scrivono, tutto il corpo si affatica. Il dorso si piega, le costole affondano nel ventre e tutto alimenta il disgusto del corpo. Perciò tu, o lettore, gira le pagine con dolcezza, lavati le mani, e così conserva il libro e dagli qualcosa come protezione. Rendiamo grazie a Dio»). Un omaggio allo studente ed un invito alla “compassione” educativa dell’insegnante, ambedue scriptores et auctores di storie quotidiane e di nuove forme di cultura. 79