i quaderni del cineforum 45 PASOLINI - UNA STORIA SBAGLIATA Il cinema di Pier Paolo Pasolini a quarant’anni dalla morte A CURA DI CLAUDIO ZITO E MARCELLO PERUCCA Claudio Zito, Marcello Perucca PASOLINI: UNA STORIA SBAGLIATA Il cinema di Pier Paolo Pasolini a quarant’anni dalla sua morte CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA CINEFORUM DEL CIRCOLO NOVEMBRE 2015 È una storia da dimenticare è una storia da non raccontare è una storia un po' complicata è una storia sbagliata. Cominciò con la luna sul posto e finì con un fiume d'inchiostro è una storia un poco scontata è una storia sbagliata. Storia diversa per gente normale storia comune per gente speciale cos'altro vi serve da queste vite ora che il cielo al centro le ha colpite ora che il cielo ai bordi le ha scolpite. Fabrizio De André/Massimo Bubola da Una storia sbagliata, 1980 La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza Pier Paolo Pasolini Bologna 5 marzo 1922 – Lido di Ostia 2 novembre 1975 Introduzione Questa rassegna del Cineforum del Circolo è nata di parto naturale. Fin troppo facile, ma al contempo obbligatorio, per una realtà come la nostra, celebrare il quarantennale dell’omicidio di uno dei più acuti intellettuali del secolo scorso, un artista “profetico” che continua a darci innumerevoli spunti di riflessione sulla realtà che viviamo tutt’oggi. L’Italia odierna, post-industriale ed economicamente in crisi, svela ancor più che nel dopoguerra le sue miserie non solo materiali, non superate con il boom e accentuatesi con la recessione. Chissà il rigetto che Pasolini avrebbe provato di fronte a una piccola borghesia italiana (“la più ignorante d’Europa”, dice Orson Welles ne La ricotta, mentre il popolo italiano era “il più analfabeta”) che oggi, in crisi, ragala il peggio di sé. E chissà come il Nostro avrebbe giudicato, sempre col suo sano moralismo, la massa istruita ma sottoproletarizzata dei ragazzi del nuovo millennio. Come avrebbe valutato la Chiesa di Bergoglio? Per non parlare degli intellettuali: ci sono ancora un Moravia, uno Sciascia...? In ogni caso, ci mancano terribilmente i moti di sdegno, anche quelli non condivisibili, di un fustigatore dei più geniali. Quarantennale, dicevamo. L’anniversario cade proprio di lunedì, giorno di proiezioni del Cineforum. Dal 2 novembre programmiamo cinque serate in compagnia del cineasta-giornalista-poeta e chi più ne ha più ne metta: tra le altre cose, Pasolini fu anche semiologo, sceneggiatore, direttore del doppiaggio di film stranieri, attore; e la sua carriera si è interrotta tragicamente: siamo sicuri che si sarebbe confrontato anche con altre discipline. Per altro abbiamo aperto la stagione con Nanni Moretti, uno dei suoi eredi ideali, che mai ha mancato di rendere omaggio a Pasolini; in forma filmica l’ha fatto esplicitamente nell’episodio In vespa di Caro Diario. Escludiamo il debutto Accattone, capolavoro che tuttavia abbiamo già presentato in una rassegna di poco tempo fa. Apriamo invece con Mamma Roma, film con cui Pasolini lavora per la prima volta con un’attrice professionista. E che professionista! La grande Anna Magnani. Dibattito da cineforum: il personaggio morto, inquadrato con i piedi in primo piano, è ispirato al Cristo del Mantegna? In tanti sostengono di sì, tra cui un conoscitore e collaboratore del Nostro come Bernardo Bertolucci. Ma c’è chi replica che i riferimenti pittorici sono altri. Antonio Pettierre di “Ondacinema”, coautore di una monografia dell’autore (www.ondacinema.it) è nostro ospite e ci introduce a questo e ad altri temi. Segue un altro caposaldo della filmografia pasoliniana: Il vangelo secondo Matteo. Dedicato alla figura (“all’ombra”) di papa Giovanni XXIII, il Vangelo è il discorso di un marxista alla parte più progressista della Chiesa Cattolica. L’intervista al non-attore protagonista, un antifranchista basco esule, riassume bene il dibattito sullo schieramento politico del film. Al di là di tale attribuzione, resta un’opera scarna, pittorica come non mai, che tra i sassi di Matera scova principalmente il lato terrestre, umano del Cristo, e ne ribalta l’iconografia dominante. Procedendo in ordine cronologico, abbiamo inserito Uccellacci e uccellini, il lungometraggio in cui è impiegato Totò, in un ruolo per lui davvero insolito. Mentre Mario Monicelli ricercava in Antonio De Curtis la maschera realista, Pasolini ne tira fuori il lato surreale, presente in tanti filmetti comici interpretati dal principe della risata, ma mai così prevalente. Affiancandolo al “riccetto” Ninetto Davoli, Pasolini lo fa dialogare con... un pennuto. Da questa bizzarra composizione esce una riflessione sul ruolo dell’intellettuale marxista nella società. Inusuale per il Cineforum è una serata dedicata ai corti e ai mediometraggi. Abbiamo scelto questa soluzione perché riteniamo che questi film siano tra i lasciti più felici dell’intera produzione cinematografica di Pasolini (e al contempo non era praticabile, per limiti di orario, accompagnare i due medi a un lungometraggio). La ricotta risale al 1963, dopo Mamma Roma e racchiude innumerevoli elementi della poetica dell’autore, dalla cristologia al ruolo dell’artista (qui un regista, interpretato da Orson Welles!) fino, nuovamente, ai rimandi alla pittura. La terra vista dalla luna e il corto Che cosa sono le nuvole? ripropongono la strana coppia Totò-Ninetto Davoli. Chiudiamo la rassegna col controverso Salò o le 120 giornate di Sodoma, un de Sade ambientato tra i repubblichini. Il film, l’ultimo della carriera, uscito postumo e dopo mille guai con la censura, è sconsigliabile agli spettatrori impressionabili, o deboli di stomaco. Opera sull’anarchia del potere (l’unica possibile? Il film sembra suggerirlo), ci offre l’occasione anche per parlare della morte di Pasolini, del tutto ascrivibile agli innumerevoli misteri d’Italia. O comunque, le cui circostanze restano alquanto oscure. |5| Biografia Noi siamo un Paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili. Imparerebbe che questo Paese è speciale nel vivere alla grande ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale. P.P. Pasolini, Scritti Corsari, 1975 I primi anni Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo 1922 da Carlo Alberto Pasolini, discendente da un’antica famiglia nobile romagnola, e da Susanna Colussi, maestra elementare di origini friulane e contadine. Nel corso della sua infanzia Pasolini si trasferisce con la famiglia in numerose città del nord Italia: da Bologna a Parma, da Conegliano a Belluno, Cremona e ancora Bologna. A Belluno, nel 1925, nasce il fratello Guido. Proprio a causa dei continui spostamenti – per i quali si definirà: “un nomade privato di un focolare stabile” - Pier Paolo avrà come unico punto di riferimento Casarsa, in Friuli, paese di origine della madre con la quale coltiverà sempre un rapporto di simbiosi mentre, al contrario, con il padre andrà progressivamente accentuandosi un rapporto assai conflittuale. quietudine che metteva in discussione in ogni momento il mio essere al mondo. [...] Quando mia madre stava per partorire ho cominciato a soffrire di bruciori agli occhi. Mio padre mi immobilizzava sul tavolo della cucina, mi apriva l’occhio con le dita e mi versava dentro il collirio. È da quel momento simbolico che ho cominciato a non amare più mio padre.” Mentre, riferendosi alla madre, confessò: “Mi raccontava storie, favole, me le leggeva. Mia madre era come Socrate per me. Aveva e ha una visione del mondo certamente idealistica e idealizzata. Lei crede veramente nell’eroismo, nella carità, nella pietà, nella generosità. Io ho assorbito tutto questo in maniera quasi patologica”. Sin dai tempi della scuola elementare, si nota in Pasolini una forte vocazione per la scrittura. Annota su un quadernetto, andato poi perduto durante la guerra, i suoi primi componimenti poetici. Dei suoi rapporti col padre Pasolini ha dichiarato a Dacia Maraini, in una intervista uscita per Vogue nel maggio 1971: “Tutte le sere aspettavo con terrore l’ora della cena sapendo che sarebbero venute le scenate [...] In me c’era una iniziale rimozione della madre che mi ha procurato una nevrosi infantile. Questa nevrosi mi aveva fatto diventare inquieto, di un’in- È di quell’epoca il conio del termine noto come “Teta veleta”, che più tardi lo stesso Pasolini spiegherà in questo modo: |6| “Fu a Belluno, avevo poco più di tre anni. Dei ragazzi che giocavano nei giardini pubblici di fronte a casa mia, più di ogni altra cosa mi colpirono le gambe soprattutto nella parte convessa interna al fondato l’Academiuta di lenga furlana. Ma non solo. Per Pasolini l’uso del dialetto rappresentava anche un tentativo di privare la Chiesa dell’egemonia sulle masse sottosviluppate, portando a sinistra l’uso dialettale sino ad allora prerogativa clericale. ginocchio, dove piegandosi correndo si tendono i nervi con un gesto elegante e violento. Vedevo in quei nervi scattanti un simbolo della vita che dovevo ancora raggiungere: mi rappresentavano l’essere grande in quel gesto di giovanetto corrente. Ora so che era un sentimento acutamente sensuale. Se lo riprovo sento con esattezza dentro le viscere l’intenerimento, l’accoratezza e la violenza del desiderio. Era il senso dell’irraggiungibile, del carnale - un senso per cui non è stato ancora inventato un nome. Io lo inventai allora e fu “teta veleta”. Già nel vedere quelle gambe piegate nella furia del gioco mi dissi che provavo “teta veleta”, qualcosa come un solletico, una seduzione, un’umiliazione”. Gli anni della guerra rappresentano per Pasolini un periodo estremamente difficile. Nel 1943 viene arruolato nell’esercito. All’indomani dell’8 settembre si rifiuta di consegnare le armi ai tedeschi e fugge per tornare, dopo molto peregrinare, a Casarsa Nel febbraio 1945 un grave lutto segnerà la vita di Pier Paolo. Il fratello Guido, arruolatosi nella Brigata partigiana Osoppo, viene ucciso presso le malghe di Porzûs, in provincia di Udine, durante un’azione compiuta da parte di un’altra formazione di partigiani garibaldini capeggiata da Mario Toffanin, detto “Giacca”. L’accusa all’Osoppo, mai provata, era quella di tradimento per aver avuto contatti con esponenti della X Mas di Junio Valerio Borghese. Pasolini metterà in versi la morte del fratello in una poesia, Corus in morte di Guido, che apparirà nello “Stroligut” dell’agosto1945. Fu per via della morte di Guido e del dolore straziante nel quale la madre si rinchiuse, che il rapporto fra Susanna e Pier Paolo divenne ancora più stretto. Il Friuli Durante gli studi superiori, Pasolini crea insieme a un gruppo di amici un gruppo letterario per la discussione di poesie. Collabora inoltre a “Il Setaccio”, periodico della Gioventù Italiana Littoria (G.I.L.) di Bologna e scriverà le prime poesie in dialetto friulano che, successivamente, raccoglierà nel volume Poesie a Casarsa (1942). Il dialetto, o meglio, la lingua friulana, rappresentò per Pasolini una sorta di opposizione al potere fascista. Infatti, come ebbe a dire in un’intervista a Enzo Siciliano: “Il fascismo non tollerava i dialetti, segni dell’irrazionale unità di questo paese dove sono nato; inammissibili e spudorate realtà nel cuore dei nazionalisti”. Anche per questo partecipò alla redazione della rivista “Stroligut” insieme ad alcuni amici friulani con i quali aveva Dopo la laurea, conseguita nel 1945, Pasolini inizia la sua militanza, aderendo nel 1947 al Partito Co- Pasolini ai tempi dell’Università |7| munista e iniziando una collaborazione al settimanale del partito “Lotta e lavoro”. L’adesione al P.C.I. non fu facile, a causa dell’uccisione del fratello ad opera di partigiani comunisti e della contrarietà dei genitori. Pier Paolo non volle comunque mai strumentalizzare il lutto che colpì la propria famiglia, per paura di infangare il nome di Guido. anni più tardi, troverà la morte. Della sua drammatica fuga verso la Città eterna, Pasolini scriverà: “Fuggii con mia madre e una valigia e un po’ di gioie che risultarono false, / su un treno lento come un merci, / per la pianura friulana coperta da un leggero e duro strato di neve. / Andavamo verso Roma. / Andavamo dunque, abbandonato mio padre / accanto a una stufetta di poveri, / col suo vecchio pastrano militare / e le sue orrende furie di malato di cirrosi e sindromi paranoidee. / Ho vissuto quella / pagina di romanzo, l’unica della mia vita: / per il resto, / son vissuto dentro una lirica, come ogni ossesso”. (Pier Paolo Pasolini, il poeta delle ceneri, a cura di Enzo Siciliano, in “Nuovi Argomenti” n. 67/68, Roma, luglio dicembre 1980). La militanza politica di Pasolini non fu facile, mal visto dai vertici del P.C.I. friulano e dagli intellettuali comunisti locali, per il fatto che si serviva della lingua del popolo, senza cimentarsi in soggetti politici. Il 15 ottobre 1949 la segnalazione del poeta da parte dei carabinieri di Cordovado per corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico, darà inizio a una umiliante trafila giudiziaria che ne cambierà per sempre la vita. Per questo fatto Pasolini verrà espulso dal P.C.I. L’Unità del 29 ottobre 1949 ne dà così l’annuncio: Gli anni romani I primi anni romani sono, per Pier Paolo, estremamente difficili. Si trova d’improvviso, catapultato in un mondo a lui sconosciuto, in una realtà nuova, quale è quella delle borgate romane. Disoccupato, costretto a vivere in condizioni precarie, Pasolini inizia a scrivere le prime pagine di quello che sarebbe poi diventato il suo primo romanzo, Ragazzi di vita, che narra le vicende di un gruppetto di ragazzi appartenenti al sottoproletariato romano. “ESPULSO DAL PCI IL POETA PASOLINI La federazione del Pci di Pordenone ha deliberato in data 26 ottobre l’espulsione dal partito del Dott. Pier Paolo Pasolini di Casarsa per indegnità morale. Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese”. Pasolini è distrutto. Espulso dal partito, perso il posto da insegnante che aveva a Casarsa, il rapporto con la madre che, almeno momentaneamente si incrina, decide di abbandonare l’amato Friuli. Con la madre si trasferisce a Roma, città nella quale inizierà una nuova vita e dove, molti |8| La madre di Pier Paolo, per sbarcare il lunario, inizia a lavorare presso una famiglia romana, mentre il padre, ammalato, che nel frattempo ha raggiunto la famiglia nella capitale, si indurisce sempre di più nei rapporti con il figlio. Pasolini lotta. Si rifiuta di chiedere aiuto ai letterati che conosce e cerca da solo di risollevarsi. Troverà lavori che gli permetteranno di non morire di fame: da comparsa a Cinecittà, a correttore di bozze. Riuscirà anche a farsi pubblicare qualche articolo su alcuni quotidiani. Nel frattempo conosce il grande poeta Sandro Penna, che diventerà un amico inseparabile. Fa la conoscenza anche con Sergio Citti, un imbianchino romano che lo aiuterà a imparare il dialetto romanesco, permettendogli di addentrarsi sempre di più nell’ambiente delle borgate romane, che diventeranno il mondo che sostituirà, in Pasolini, quello della amata Casarsa. successo di pubblico. Pasolini e il cinema Pasolini inizia a lavorare stabilmente anche per il cinema. Dapprima come sceneggiatore per Federico Fellini (Le notti di Cabiria (1957), Mauro Bolognini in Marisa e la civetta (1957) e La giornata balorda (1960), Francesco Rosi, Florestano Vancini e Carlo Lizzani, per il quale esordisce come attore nel film Il gobbo (1960). Lentamente e faticosamente Pier Paolo si lascerà Del 1957 è la raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci alle spalle i primi difficili anni romani. Stringe ami- e nel 1961 realizza il suo primo film da regista. cizia con numerosi intellettuali fa cui Giorgio Ca- Si tratta di Accattone, con Franco Citti, fratello proni, Carlo Emilio Gadda, Attilio Bertolucci. I dell’amico Sergio, nella parte del protagonista. suoi scritti cominciano ad essere pubblicati e con L’anno successivo sarà la volta di Mamma Roma, Ragazzi di vita, uscito nel 1955 per Garzanti, as- sempre con Citti e con una intensa Anna Magnani. sume un ruolo centrale nel panorama letterario Nel 1963 La ricotta, episodio del film collettivo italiano. Ro.Go.Pa.G., viene sequestrato e Pasolini imputato Scritto in dialetto romanesco, il romanzo suscitò per vilipendio alla religione. scalpore e non poche obiezioni di carattere mora- Seguiranno poi, fra le opere cinematografiche più listico. La presidenza del Consiglio dei ministri, importanti, Il Vangelo secondo Matteo (1964), Uccelnella figura di Antonio Segni, lo taccerà di porno- lacci e Uccellini (1965), Edipo Re (1967) Teorema grafia, per il tema della prostituzione maschile. (1968), Porcile (1969), Medea (1969). D’altro canto anche la critica, soprattutto quella Tra il 1970 e il 1974 lavora alla “Trilogia della vita”. marxista, fu feroce nei confronti del romanzo ma, Tre film, Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury nonostante questo, e nonostante l’esclusione dal (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1974), tratti riPremio Strega, Ragazzi di vita divenne un grande spettivamente dalle novelle di Giovanni Boccac- NELLA PAGINA PRECEDENTE - copertina della prima edizione delle Poesie a Casarsa SOPRA - Pasolini e la periferia romana |9| cio, dai racconti medioevali dell’inglese Geoffrey Caucher e dalle novelle arabe del Fiore delle mille e una notte. Pasolini si dedicò alla realizzazione di queste tre opere partendo dall’idea che, poichè la borghesia condannava, con una visione medioevale, il sesso, diventava necessario denunciare questa chiusura, portando il nudo e il sesso all’interno delle sue opere. Ma poiché la consapevolezza che semplici scene di nudo avrebbero potuto essere facile preda dei censori, utilizzò alcuni capolavori della letteratura antica per essere meno vulnerabile sotto questo punto di vista. L’intento di Pasolini era pertanto quello di innalzare un inno alla vita esaltando l’uomo libero e senza freni. Del 1975, uscito postumo dopo la morte del poeta, è Salò o le 120 giornate di Sodoma, liberamente tratto dalle “Centoventi giornate di Sodoma” del Marchese De Sade. Il film, trasposto nel 1944-45 durante la Repubblica di Salò, è una riflessione amara e lucida sulla degenerazione del potere. Potere che si distacca dall’umanità trasformandola in oggetto e dove il sesso, come ebbe a dire lo stesso regista “diventa la metafora sia pure in modo onirico e stravolto, di ciò che oggi il potere fa dei corpi”, cioè li mercifica. Nell’ultimo film di Pasolini l’essenza del potere è fatta di brutalità, sopraffazione, viltà e, soprattutto, certezza nell’impunità. Il ’68 di Pasolini di Roberto Carnero (Docente di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli Studi di Milano) Sembrerebbe di trovare una certa sintonia intellettuale tra le istanze della contestazione sessantottesca e le riflessioni che Pier Paolo Pasolini andava compiendo in quegli anni sulla società italiana. Tuttavia negli scritti pasoliniani emerge anche una forte antipatia verso le pose esteriori del movimento. recitavano le parole del decreto firmato da Ferdinando Mautino, il dirigente della Federazione comunista di Udine che prese la decisione. Del resto, il suo comunismo ‘inquieto’ aveva trovato espressione in alcuni versi celeberrimi del poemetto Le ceneri di Gramsci (il componimento eponimo dell’omonima raccolta, 1957), in cui, rivolgendosi all’urna del fondatore del Partito comunista italiano, scriveva: “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere”. E alcuni versi più avanti il poeta spiega tale contraddizione: “Attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione // la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza”. Davanti a Gramsci, assurto a simbolo dell’ortodossia marxista, Pasolini dichiara che il suo amore per il mondo popolare è qualcosa di viscerale, di estraneo a ogni ideologia. La conquista della coscienza di classe, che il comunismo indicava come l’obiettivo prioritario, in quanto preliminare alla possibilità di una lotta di massa finalizzata alla rivoluzione proletaria, avrebbe significato per il proletariato una maggiore consapevolezza politica, civile e culturale. Ma questo avrebbe finito con il compromettere quell’autenticità, quella originarietà, quella spontaneità che Pasolini vedeva come le caratteristiche fondamentali di quel proletariato e di quel sottoproletariato che nei suoi anni friulani prima e in quelli romani poi aveva imparato a conoscere. Da qui la sua sofferta posizione politica: da una parte razionalmente desidera, insieme con il Partito e aderendo al suo programma, l’evoluzione culturale e il miglioramento delle condizioni materiali di vita dei lavoratori; ma dall’altra intimamente teme che quel processo di cambiamento potrebbe determinare la corruzione dell’ingenua essenza proletaria. La contestazione secondo Pasolini Il ‘68 vede dunque Pasolini in una situazione Pasolini e la sinistra italiana Controverso e ambivalente il rapporto di Pasolini nuova e delicata. Destò scalpore la sua poesia Il Pci ai giovani!!, scritta in occasione degli scontri fra con il ‘68. A quell’epoca la figura di Pier Paolo Pasolini gli studenti che occupavano la Facoltà di Architet(1922-1975) era quella di uno degli intellettuali di tura di Roma e i poliziotti. Lo scrittore prendeva sinistra più in vista nel nostro Paese. Anche se i posizione contro gli studenti e a favore dei polisuoi rapporti con il Pci non furono mai dei più ziotti, poiché i primi erano “figli di papà”, mentre rosei, a far data da quando, alla fine del 1949, era i secondi erano figli del popolo, costretti dalla loro stato espulso dal Partito in seguito ai fatti di Ra- povertà a indossare la divisa. La critica alla società muscello “per indegnità morale e politica”, come e al sistema messa in atto da parte degli studenti|10| contestatori per Pasolini era solo apparente, in quanto interna alla borghesia e da questa del tutto assorbita. Ma il ‘68 è per Pasolini anche l’anno del film e del romanzo Teorema. L’avvento di un Ospite in una famiglia alto-borghese produce un autentico terremoto. Seducendo tutti quanti – madre, padre, due figli, oltre alla domestica – attraverso l’esperienza di una sessualità trasgressiva, mette in crisi le loro certezze e li spinge all’autodistruzione, una volta che, come all’improvviso è arrivato, altrettanto improvvisamente partirà da loro. L’unico personaggio su cui la sua visita avrà un effetto positivo è quello della domestica, in quanto, appartenendo al popolo, alla civiltà contadina, a lei è consentita quell’esperienza del sacro (a cui allude la figura dell’Ospite) che alla borghesia, la quale ha ridotto la fede a religione, razionalizzata e rassicurante con i suoi codici morali, invece risulta preclusa. La protesta antiborghese Pasolini disprezza e detesta la borghesia, e, andando avanti, la disprezzerà e detesterà sempre più, man mano che, con il miglioramento delle condizioni materiali del Paese e poi con il boom economico, assisterà all’inarrestabile processo di “borghesizzazione” della società italiana. Si può dire – come ha scritto Filippo La Porta – che “l’avversione per la borghesia, intesa non tanto come classe sociale quanto come mentalità, quasi come malattia, accompagna Pasolini fino all’ultimo”. Ma in cosa consiste questa “mentalità”? Spiega La Porta: “Nel ritenere che persone, affetti, corpi, oggetti, cose, insomma la vita, si possano possedere. Nel pretendere di codificare ciò che è incodificabile”. “Borghesia”, allora, non sarà più una classe, ma una condizione antropologica diffusa presso tutti gli strati sociali, una condizione che si basa sulla distruzione dell’originario patrimonio della millenaria civiltà contadina e popolare, a vantaggio della nuova civiltà di massa. A questo tema dedicherà molte pagine, percorse da una fortissima vis polemica, degli Scritti corsari (1975), la raccolta degli articoli usciti tra il ‘73 e il ‘75 principalmente sul Corriere della Sera, in cui parlerà del “nuovo fascismo” della società dei consumi. Ma lo vediamo già sintetizzato in alcuni versi della poesia Il glicine (nella raccolta La religione del mio tempo, 1961), scritta alle soglie del miracolo economico, quando la televisione già cominciava a entrare, con il suo potere seduttivo (anche sul piano linguistico, nel senso di un appiattimento delle possibilità espressive della lingua stessa), nelle case degli Italiani: “Il mondo mi sfugge, ancora, non so dominarlo / più, mi sfugge, ah, un’altra volta è un altro... // Altre mode, altri idoli, / la massa, non il popolo, la massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa. / E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole. / Muta il senso delle parole: /chi finora ha parlato, con speranza, resta / indietro, invecchiato”. Evidentemente la ‘contestazione’ di Pasolini era iniziata ben prima del ‘68. Scritti Corsari “Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io del resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca.” Scritti corsari è una raccolta (edita da Garzanti nel 1975) di articoli che Pasolini pubblicò sulle colonne del Corriere della Sera, Tempo illustrato, Il Mondo, Nuova generazione e Paese Sera, tra il 1973 ed il 1975 e che comprende una sezione di documenti allegati, redatti da vari autori. Negli Scritti si evidenziano i nodi centrali del pensiero pasoliniano. Vengono analizzati temi e fatti che toccano in maniera più o meno evidente la vita e la coscienza degli italiani. Si tratta di una analisi lucida e priva di retorica, a volte spietata e sgradevole, della società italiana dell’epoca. In molti casi i temi trattati risultano di estrema attualità ancora oggi, benché siano passati quarant’anni. Pasolini denunciava il degrado culturale e morale della società, scontrandosi con il conformismo imperante e, come sempre aveva fatto, andava controcorrente, come un corsaro all’assalto delle navi mercantili. Nei suoi articoli toccava temi delicati come l’aborto, sul quale scatenò una violenta polemica, il divorzio, la sessualità e l’omosessualità. I giovani, contro i quali scrive un articolo assai polemico che apparve sulle colonne del Corriere della Sera il 7 gennaio 1973, dal titolo “Contro i capelli lunghi”, |11| IN ALTO - Pasolini gioca a calcio con dei ragazzi delle borgate SOPRA A SINISTRA - copertina della prima edizione degli Scritti corsari SOPRA A DESTRA - dall’alto in basso: Pasolini e Orson Welles sul set de La ricotta; Pasolini con Anna Magnani sul set di Mamma Roma |12| sostenendo la tesi dell’omologazione della società italiana con il conseguente superamento del concetto di “destra” e “sinistra”. Di questo fenomeno, che all’epoca creò un grosso scandalo, Pasolini ne fornisce un’interpretazione semiologica, cioè attraverso l’analisi dei comportamenti e dei costumi. Pasolini racconta, in questi articoli, l’Italia. Un’Italia che non riconosce più e che rifiuta; un’Italia corrotta che verrà ben descritta in Salò, il suo ultimo film. Gli ultimi anni A partire dal 1970 Pasolini inizia a lavorare a Petrolio, che sarebbe stato il suo ultimo romanzo, uscito postumo per Einaudi in forma incompiuta sotto forma di frammenti e appunti. In Petrolio tratta temi scottanti quali l’Eni e la morte di Enrico Mattei con il coinvolgimento di Eugenio Cefis e dei servizi segreti. Tratta delle stragi di stato e della strategia della tensione. Pasolini, di questa sua ultima fatica diceva, nel gennaio del 1975: “Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita. Non voglio parlarne, però basti sapere che è una specie di ‘summa’ di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie”. E allo scrittore Paolo Volponi confidò: “Ci sono tutti i problemi di questi venti anni della nostra vita italiana politica, amministrativa, della crisi della nostra repubblica: con il petrolio sullo sfondo come grande protagonista della divisione internazionale del lavoro, del mondo del capitale che è quello che determina poi questa crisi, le nostre sofferenze, le nostre immaturità, le nostre debolezze, e insieme le condizioni di sudditanza della nostra borghesia, del nostro presuntuoso neocapitalismo. Ci sarà dentro tutto, e ci saranno vari protagonisti. Ma il protagonista principale sarà un dirigente industriale in crisi”. Nelle intenzioni dello scrittore il romanzo avrebbe dovuto contare di circa duemila pagine. In esso, nei frammenti, nei capitoli, nelle note e negli appunti che Pasolini ci ha lasciato, c’è tutta la storia del nostro paese nel periodo che va dagli anni Sessanta agli Ottanta. Petrolio appare anche come un libro in cui Pasolini mette molto di se stesso. Come, ad esempio, nel seguente brano: «Carlo guardava quei fascisti che gli passavano davanti. […] Le persone che passavano davanti a Carlo erano dei miseri cittadini ormai presi nell’orbita dell’angoscia e del benessere, corrotti e di- strutti dalle mille lire di più che una società “sviluppata” aveva infilato loro in saccoccia. […] I giovani avevano i capelli lunghi di tutti i giovani consumatori, con cernecchi e codine settecentesche, barbe carbonare, zazzere liberty; calzoni stretti che fasciavano miserandi coglioni. La loro aggressività, stupida e feroce, stringeva il cuore. […] Quella massa di gente sciamava per quella vecchia strada senza il minimo prestigio fisico, anzi fisicamente penosa e disgustosa. Erano dei piccoli borghesi senza destino, messi ai margini della storia del mondo, nel momento stesso in cui venivano omologati a tutti gli altri». (pp. 501-503) In Petrolio vi è addirittura (p. 546, Ed. Einaudi, 1992) un inquietante passaggio, un appunto premonitore: “La bomba viene messa alla stazione di Bologna. La strage viene descritta come una ‘Visione’”. La strage alla stazione di Bologna è del 2 agosto 1980 e, in questo suo ultimo romanzo incompiuto, pare che la “visione” l’abbia avuta proprio Pasolini. Intorno a Petrolio ruota un mistero andato via via infittendosi, soprattutto da quando, nel 2010, Marcello Dell’Utri allora senatore, nonché collezionista di libri antichi, dichiarò di essere in possesso di un manoscritto facente parte dell’opera di Pasolini e andato misteriosamente scomparso. In realtà il manoscritto - un capitolo mancante che avrebbe dovuto intitolarsi “Lampi sull’Eni” e che avrebbe dovuto contenere verità sull’uccisione di Enrico Mattei - Dell’Utri non lo mostrò mai, nonostante avesse dichiarato di volerlo presentare alla Mostra del libro antico di Milano. E guarda caso i personaggi principali, pur con nomi di fantasia, facevano chiaramente riferimento a Enrico Mattei e al suo vice Eugenio Cefis. Nel 1972 Pasolini inizia una collaborazione con Lotta Continua e firma, insieme ad alcuni esponenti di questa formazione, un documentario dal titolo 12 dicembre, sulla strage di piazza Fontana. Dal 1973 inizia la collaborazione con il Corriere della Sera, per il quale firmerà molti articoli, alcuni dei quali rientreranno nella raccolta degli Scritti corsari. Nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975, Pasolini |13| viene ucciso sul litorale di Ostia, in via dell’Idroscalo Il corpo, barbaramente straziato, viene ritrovato la mattina da una donna, Maria Teresa Lollobrigida, Toccherà all’amico carissimo Ninetto Davoli riconoscere il corpo del poeta “I capelli impastati di sangue gli ricadevano sulla fronte, escoriata e lacerata. La faccia deformata dal gonfiore era nera di lividi, di ferite. Nere, livide e rosse di sangue anche le braccia, le mani. Le dita della mano sinistra fratturate e tagliate. La mascella sinistra fratturata. Il naso appiattito deviato verso destra. Le orecchie tagliate a metà, e quella sinistra divelta, strappata via. Ferite sulle spalle, sul torace, sui lombi, con il segno dei pneumatici della sua macchina sotto cui era stato schiacciato. Un’orribile lacerazione tra il collo e la nuca. Dieci costole fratturate, fratturato lo sterno. Il fegato lacerato in due punti. Il cuore scoppiato”. (da: Perizia compiuta sul cadavere di Pasolini, Corriere della Sera, 2 novembre 1977) Nella notte i carabinieri fermano un giovane diciassettenne, Giuseppe Pelosi, detto “Pino la rana”, alla guida di una Alfa 2000 GT che risulterà di proprietà di Pasolini. Il ragazzo, interrogato dai carabinieri, di fronte all’evidenza dei fatti, confessa l’omicidio. Racconta di aver incontrato Pasolini presso la Stazione Termini e che lo scrittore gli aveva promesso un regalo se fosse andato con lui. Dopo una cena in un ristorante, secondo il racconto di “Pino la rana”, i due avrebbero raggiunto il litorale di Ostia presso una spianata che viene normalmente chiamata Idroscalo. Un luogo degradato, pieno di baracche abusive. Lì, secondo la versione di Pelosi, il poeta avrebbe tentato un approccio sessuale e, vistosi respinto, avrebbe reagito violentemente. La reazione di Pasolini avrebbe scatenato la feroce reazione del ragazzo. Il processo che segue porta alla luce retroscena inquietanti. Si ipotizza da diverse parti il concorso di altri nell’omicidio. Pasolini muore perché la sua macchina gli passa ripetutamente addosso, spappolandogli il fegato e il cuore, spaccandogli le ossa. Prima lo scrittore era stato massacrato con colpi inferti da oggetti contundenti. Una violenza tale che Pelosi, 17 anni, mingherlino (era alto 1 metro e 71 e pesava 70 kg), non può certo aver compiuto. Senza contare che, quando viene arrestato non ha praticamente macchie di sangue addosso, solo due o tre, sul polsino, sui pantaloni e sotto le suole. E non evidenzia neanche segni di colluttazione. Eppure Pasolini si era ben difeso durante l’aggressione. Non verrà mai fatta chiarezza. Pino Pelosi viene condannato a una pena detentiva di nove anni e sette mesi in tutti e tre i gradi di giudizio e risulterà essere l’unico colpevole per la morte di Pasolini. Eppure… eppure le ombre sul delitto Pasolini sono molte. Troppe. A cominciare dalle ipotesi che quello di Pasolini sia stato un delitto “politico”. Perché Pasolini stava scrivendo Petrolio, e in Petrolio parlava dell’Eni e faceva ipotesi sulla morte di Enrico Mattei e del coinvolgimento di Eugenio Cefis, suo braccio destro (e questo capitolo non fu mai ritrovato fra le carte dello scrittore, come abbiamo già visto). Perché Pasolini aveva scritto un articolo sul Corriere della Sera dal titolo: “Cos’è questo golpe? Io so” nel quale dichiarava di conoscere i nomi dei mandanti delle varie stragi di stato, da piazza Fontana, a piazza della Loggia, all’Italicus, pur non avendo le prove necessarie per denunciarli. Perché Pasolini sapeva “i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato ‘golpe’ (e che in realtà è una serie di ‘golpe’ istituitasi a sistema di protezione del potere)”. Insomma, perché Pasolini era un personaggio che dava fastidio. Un intellettuale, per di più comunista, che andava a ricercare verità scomode. Quindi, perché Pasolini era un soggetto da eliminare. |14| COS’È QUESTO GOLPE? IO SO di Pier Paolo Pasolini Corriere della Sera, 14 novembre 1974 Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ‘68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”. Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli. Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lon- tani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ‘68 non è poi così difficile. Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974. Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi. A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale. Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi. Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica |15| sono due cose inconciliabili in Italia. All’intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici. Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere. Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano. È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti - e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro. Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo. La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività. Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere. Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere. Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore. Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto. L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento. Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l’impotente intellettuale è tenuto a servire. Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana. E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista. Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi. Probabilmente - se il potere americano lo consentirà magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato. |16| I FILM MAMMA ROMA SINOSSI Mamma Roma, una prostituta non più giovane, in seguito al matrimonio del suo protettore Carmine, con una contadina, decide di abbandonare il mestiere. Desiderosa di cominciare una nuova vita insieme a suo figlio Ettore, cresciuto in campagna, compra una casa alla periferia di Roma e si aggiudica un banco al mercato rionale. Per Ettore, però, lei non è altro che un'estranea e a nulla valgono i suoi sforzi per garantirgli un lavoro e un avvenire sicuro. Mentre Carmine la spinge di nuovo sul marciapiede, minacciandola di raccontare la verità a Ettore, questi, che è venuto a sapere da tempo del passato di sua madre, lascia il lavoro per dedicarsi a piccoli furti con conseguenze che si riveleranno fatali per tutta la famiglia. CRITICA Pasolini ha voluto ricordare che il tema dell'amor materno, assente dai suoi romanzi, non lo è nella sua poesia; e che in questo film [...] c'è un'effusione autobiografica (come c'è, del resto, nella vibrante passione con cui Anna Magnani ha interpretato il suo ruolo). Alcuni difetti di logica [...] diventano “maniera”, urtano contro la inesorabilità dell'impostazione ideale, la raffrenano e la smorzano . [...] Pur essendo centrato su fatti più commoventi e su una visione più ampia e aperta della realtà, noi troviamo che Mamma Roma rimane artisticamente indietro ad Accattone [...]. Ugo Casiraghi, l’Unità, 1° settembre 1962 REGIA: Pier Paolo Pasolini INTERPRETI: Anna Magnani, Ettore Garofalo, Franco Citti, Silvana Corsini, Luisa Loiano, Paolo Volponi SOGGETTO: Pier Paolo Pasolini SCENEGGIATURA: Pier Paolo Pasolini, Sergio Citti - (coll. ai dialoghi) FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli, Franco Delli Colli - (operatore) MUSICHE: Carlo Rustichelli (coordinamento) - Brani di Antonio Vivaldi. La canzone "Violino tzigano" di Cherubini e Bixio è cantata da Joselito. MONTAGGIO: Nino Baragli SCENOGRAFIA: Flavio Mogherini ARREDAMENTO: Massimo Tavazzi AIUTO REGIA: Carlo Di Carlo DURATA: 106’ PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO DI PRODUZIONE: 1962 Mamma Roma è un piccolo capolavoro sul tramonto degli oracoli. L’anarchia di Pasolini qui è sentita nel profondo. Alla solitudine disperata di Accattone risponde l’impossibilità di essere normale di Mamma Roma e qui si coglie con maggiore invettiva, la responsabilità della società verso quella comunità abbandonata, soggiogata, offesa... laggiù, nei bassifondi della scala conviviale. La povertà, quando non serve come carne da cannone, serve come serbatoio elettorale. I boia sono sempre gli stessi. Anche le parate militari, ideologiche, culturali... che i semidei del parlamento inscenano ad ogni giro di boia... servono a un piccolo numero di potentati a mantenere l’ordine costituito. E Pasolini (sulle scorte di Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Thoreau, Ferrer, Russell...) insegna che la libertà di un uomo non è nulla se anche tutti gli altri uomini non sono liberi. L’obbedienza non è mai stata una virtù. Il patrimonio linguistico/figurativo di Mamma Roma è enorme. Le contaminazioni, gli scippi, i rimandi ad altri autori cinematografici, pittori o fotografi sono forti e non sempre denunciati. È la storia di un’educazione sbagliata. Di un’iniziazione alla vita (anche sentimentale) che Goethe, Flaubert, Proust, Rilke, Dostoevskji... hanno ampiamente trattato nei loro libri immortali. Pasolini butta via ogni carico letterario e rovescia sulla “tela bianca” una plasticità dell’immagine ereditata dal Masaccio e più ancora ri/mescola le figurazione Neorealista con l’iconologia della povertà che fuoriesce dai lavori di Henri Cartier-Bresson o Walker Evans. Il cinema di Pasolini (non importa se in bianco e nero o a colori), è una specie di tableau emozionale |18| che rivisita la dialettica della putrefazione e del superamento della cultura di regime o domestica. I chiaroscuri, il bianco e nero o il colore... sono disseminati secondo una morbidezza/grana bidimensionale che esalta la figura su uno sfondo arcaico che annulla il paesaggio e interrompe ogni flusso storico. “Amo lo sfondo, non il paesaggio” (Pier Paolo Pasolini). E ciò che viene dal suo cinema poetico non è per oggi, è per domani. Pino Bertelli, www.pierpaolopasolini.eu DIARIO DI LAVORAZIONE DEL FILM MAMMA ROMA DELL’AIUTO REGISTA CARLO DI CARLO non conosce nulla di Buñuel e che vorrebbe finalmente vedere il film. Tratto da Teoria e tecnica del film in Pasolini, a cura di Antonio Bertini, Bulzoni 1979 e da L’Europa letteraria, III, n. 17, ottobre 1962, Roma. Lunedì, 9 aprile Il ciak a Casal Bertone. C’è la troupe al completo: Pasolini, Ettore, la Magnani, Franco Citti e suo fratello Sergio, l’insostituibile aiutante e collaboratore di Pier Paolo, Tonino Delli Colli e suo cugino Franco operatore alla macchina l’assistente Gioacchino Sofia, Lina D’amico, la segretaria di edizione, Boschi, Franchi, Bruno Frascà, Casati della produzione, Mariano il capo, con Gianduia, Alberto, Alfredino, Profili, Conti, Silvio Citti e gli altri. É la stessa troupe di Accattone. Il sole oggi fa nascondino e si girano quindi solo pochi esterni: l’arrivo a casa di Mamma Roma con Ettore. Franco Citti che nel film sarà Carmine, il pappone di Mamma Roma, non si è fatto crescere i baffi come doveva. Li porterà finti e assomiglierà a Don Fefè Cefalù, il personaggio di divorzio all’italiana, interpretato da Mastroianni. C’è una schiera foltissima di fotografi che salutano il ritorno di Nannarella sul set e il ciak di Mamma Roma. - Sarà meglio di Accattone? - Non sanno dire altro. A pranzo Pier Paolo mi parla del prossimo film che girerà prima di quello africano, prima de Il padre selvaggio. Sarà uno sketch per un film a episodi sul vitalismo degli italiani. In breve la storia è questa: si sta girando un film storico, la scena della passione di Cristo. Sul Calvario le tre croci, la Maddalena, due angeli... il protagonista è il ladrone buono. Tutto è pronto; il regista si agita, strilla, urla. Si dispongono gli attori sulle croci, da ultimo il ladrone buono. Ma nell’attimo in cui viene inchiodato, è colpito da un infarto. Gli parlo di Buñuel. Penso anche all’inizio di Mamma Roma. Mi ricorda l’ultima cena di Viridiana. Pasolini mi dice che Martedì 10 aprile Oggi si girano gli interni nella stanza della casa di Casal Bertone. E naturalmente fuori c’è il sole che serve per svelare Pasolini calciatore. La Magnani incontra Citti: “Buongiorno, signor Citti, sempre stanco della vita, no?”. Franco non si scompone. Si gira dodici volte una scena con la Magnani, ma non diventerà una abitudine. Arriveremo a girare cinquantasei inquadrature in una giornata. Pasolini vuole “seguire” Anna nella battute e desidera indicarle le sfumature, i toni che lei ha già trovato ovunque nelle didascalie della sceneggiatura rigorosissima. Quasi non bastasse questa, Pasolini disegna nervosamente ogni inquadratura su dei fogli volanti con accanto il dettaglio tecnico e l’eventuale battuta. Serve anche per Delli Colli, che capisce a volo ciò che Pier Paolo vuole. Tra l’altro, è un abile giocatore di luci. Si prepara la scena del tango, sotto gli occhi di Bini, in visita alla troupe. Il lavoro prosegue fino al tardo pomeriggio. Sarà il ritmo di tutti i giorni. Dopo si andrà a vedere il “girato” del giorno prima. Bini non vuole nessun estraneo - oltre la Magnani, Delli Colli, Salina (l’assistente) e me - tranne Ettore che si abitua da oggi a “vedersi”. Forse non si è proprio reso conto di che cosa sia il cinema. Non nasconde esteriormente una certa ribellione all’immagine, ma in fondo è intimamente soddisfatto e contento. Venerdì 13 aprile Continuiamo gli interni a Casal Bertone. La Magnani è di un altro umore, ora che si è “rodata” e si è intesa con Tonino. Ha indovinato le luci per il suo naso, che lei chiama “la sciabola”. Seguita però a discutere con Pier Paolo perché insiste a farle recitare le battute staccate e mai unite. Mai una scena intera. Dice che “recita” e non è naturale come la vuole lui, girando in questo modo inconsueto. L’odio, la rabbia, l’umore, insomma, improvviso e secco com’è richiesto dal copione - non può essere “estratto” battuta per battuta. Ma Pasolini insiste. Le discussioni seguiteranno anche nei giorni a venire e Anna alla fine prenderà l’abitudine e ne sarà contenta. Oggi si girano anche le prime scene con Carmine (Franco Citti). È un attore nato, un temperamento eccezionale. Non occorre dirgli la battuta più di una volta, non occorre che Pasolini gli dica |19| niente oltre alcuni suggerimenti e la posizione fisica. Lo chiamano Fefè; sta al gioco e recita alcune battute in siciliano. Ettore parla con gli amici dell’intervista che hanno strappato a Franco nell’ultima trasmissione di “Cinema d’oggi”. L’artificio televisivo è stato esemplare e sono riusciti a presentarlo come volevano. Franco invece è tutto il contrario: basta rimanere poco tempo con lui e ci si rende conto. È difficile capirlo perché non dà confidenza, è scontroso, ha un habitus esteriore che è esattamente il contrario di se stesso. (Solo Pasolini l’ha capito). Fa il cinema perché Accattone gli ha aperto questa strada, ma fa l’attore così come un altro mestiere. Tutto ciò che guadagna lo spende e non gli interessa; perché - dice - se questa esperienza dovesse finire, ricomincerei tutto da capo. Sabato 14 aprile Finiti gli ultimi esterni a Casal Bertone, finalmente ci spostiamo. Sembravamo dei confinati. Gli interni per ora sono finiti e si va, nonostante l’inclemenza del tempo un cielo grigio e buio che promette pioggia, un sottile e continuo vento di tramontana che agita mulinelli di polvere - a Torre Spaccata, al villaggio Ina-Casa, dietro Cinecittà. Ogni giorno scopriamo una Roma inedita, che Pasolini in questi anni è andato a cercare con la pazienza, l’attenzione e l’osservazione di un esploratore. Si gira la scena della “fontanella” dove Ettore, preso a botte dai compagni, arriva grondante di sangue e incontra un vecchio “frocio” che lo spaventa, e scappa. Sarà una scena che ci perseguiterà giorni e giorni. Infatti il tempo non ci darà pace quasi fino agli ultimi giorni di riprese. Alla fine poi questa scena sarà tolta, al montaggio. C’è un prato lunghissimo che pare una collina e un deserto contemporaneamente. Un muretto, vicino, a strisce nere e bianche. In fondo una torraccia e, ai lati, enormi caseggiati popolari - una distesa - che paiono un muro. In proiezione vediamo tutto il girato. Ci sono delle scene stupende, quella del tango soprattutto. La Magnani è molto contenta e Pier Paolo questa volta non sa nascondere la sua soddisfazione e il suo compiacimento. Lunedì 16 aprile Pier Paolo mi dice che il commento musicale di Mamma Roma sarà costituito da brani del Cimento dell’armonia e dell’invenzione e del Concerto di San Lorenzo di Antonio Vivaldi. Si parla di musica. Chiedo se gli piace la musica elettronica, “Non mi piace Antonioni, non mi piace l’arte astratta e nemmeno la musica elettronica”. Nei prossimi giorni ci saranno accese discussioni. Giovedì 19 aprile Dopo alcuni esterni - siamo stati a Guidonia, nei giorni scorsi - eccoci di nuovo in interno. Siamo alla cava Aurelia, dietro San Pietro, per girare le scene del ricatto. C’è Luisa Orioli che nel film sarà Biancofiore, la compagna di vita di Mamma Roma. Lui, il ricattato è un certo signor Pellisier (La Paglia è il vero nome) proprietario di un ristorante, il quale darà a Ettore un posto di cameriere nel suo locale. È altissimo con una faccia allungata e grassoccia, la fronte molto alta e i capelli tutti dietro. Lo si trova sempre in un bar e non si sa bene cosa faccia nella vita. Non è stato scelto casualmente da Pier Paolo - come d’altronde non lo è stato nessun altro dei suoi personaggi - ma questo in modo particolare. Assomiglia a qualcuno... Venerdì 20 aprile Come Accattone ebbe la Morante, così Mamma Roma avrà Paolo Volponi. Sarà il prete, a cui Mamma Roma andrà a chiedere di sistemare suo figlio. Rifiuta il posto di manovale che il prete le offre e Mamma Roma cercherà qualcosa di più degno. Siamo ancora nella casa di Biancofiore: una stanzetta di poco più di quattro metri quadrati. Incredibile davvero che in questa superficie trovino posto la troupe, Biancofiore, Pellisier, la Magnani, Zaccaria, Pasolini e noi, oltre a quel cimitero di luci e di croci-sostegno appesi alle pareti e al soffitto. Vengono Moravia e Levi a trovare Pasolini. Ma Moravia è impaziente, non riesce a fermarsi più di pochi minuti, mentre invece Levi scopre luoghi bellissimi da dipingere, è divertito della definizione di Pier Paolo: “Geova onirico e preconfessionale”. Sabato 28 aprile Franco Citti è stato arrestato. Pasolini sapeva solo del fatto, ma non dell’arresto. È accaduto ieri sera a Piazzale Flaminio che a beneficio degli automobilisti è stato mosso e rimosso, coperto di bianco e di nero, di strisce e di zebre e pare diventato un parco per le automobiline dei ragazzini. Franco e un amico, ubriachi, in macchina, avrebbero “assalito”, con ingiurie, due dipendenti comunali che stavano rinfrescando di bianco alcune strisce, nel nuovo caos del piazzale, insultato pubblici ufficiali e fatto gesti osceni. Domani si scatenerà un’altra delle solite vergognose campagne della nostra stampa perbene. Non sembrerà vero a questi giornalisti di avere in mano il nuovo caso di quello che viene definito “il suo |20| pupillo”, per sputare sulla figura e sull’opera di Pasolini. Quanti meriteranno, domani, un epigramma? Giovedì 3 maggio A Cecafumo. Laggiù l’acquedotto con una fila interminabile di baracche, le baracche degli umili penso ai Rudy di via Veneto che ubriachi e molestatori, ma di altra condizione sociale... vengono accompagnati alla loro casa dopo gli schiamazzi notturni, dagli agenti che chiedono scusa ai loro genitori - un prato lunghissimo, verde con l’erba alta e qualche rudere sparso qua e là, circondato da una cintura di case enormi, bianche, a ventaglio: un paesaggio stranissimo, il più strano che ho visto qui a Roma. Il sole è infuocato e bruciante. Mi viene in mente una poesia di Pasolini: Al sole. “No, non a noi: tu manchi / a loro, che pure vivono a livelli / d’esistenza di sole, in pienezza, / e tra le baracche e sterri, / prati zeppi di canne e d’immondezza, / sentono in questa disorientata brezza, / con altro cuore, il tuo non esserci... Io sono qui, nel loro / mondo (ma sempre al mio impoetico / livello d’uomo colto, come sopra / un muro che si sgretola): / col vero cuore sento che tu manchi, sole”. Con Pier Paolo in macchina parliamo di Franco. Si confesserà, con la bocca amara e i ricordi vivi, al registratore, con me, isolato dagli altri. Venerdi 4 maggio Il ritmo del film sembrava essersi rallentato. La notizia di Franco ci ha tutti un po’ sconvolti. Si parla con Sergio, suo fratello, si domandano notizie ad altri amici. Il 15 ci sarà il processo. Pier Paolo è sempre più preoccupato. Franco, come ogni altro personaggio, è insostituibile. Non sono molte le scene da girare con lui, ma devono essere girate ancora quasi tutte. Ora siamo alle prese col mercato. Il mercato lunghissimo di Cecafumo. Venerdi 11 maggio Da mercoledì fermi nei pressi di un ospedale, dietro a piazza dei Navigatori a girare tutte le scene di Ettore con i compagni, l’ingresso, la corsia, il furto della radiolina all’ammalato Roscio. Durante le pause parlo con Maggiorani. Farà la parte di un malato, a cui Ettore ruberà la radiolina. Sul suo volto si legge tristezza e malinconica rassegnazione. I suoi ricordi migliori sono ancora fermi a Ladri di biciclette, per la cui interpretazione prese seicentocinquantamila lire. Mi dice che la sua debolezza è di non essere capace di chiedere. Non fu capace di chiedere allora, non è stato capace dopo. [...] Spera che l’incontro con Pasolini segni il nuovo incontro col cinema che gli sta tanto a cuore. Di Pier Paolo mi ha detto: “Non mi è nuovo, ma lo credevo più vecchio”. Martedì 15 maggio Siamo di nuovo in interni, agli stabilimenti De Paolis, dove è stata ricostituita, fredda e d’un biancore spettrale, la cella di segregazione che vede Ettore legato ad un tavolaccio di pietra, disteso come un crocefisso. Sono gli ultimi momenti di vita di Ettore, che, delirante invoca la madre. Pasolini stamattina usa per la prima volta il dolly sul corpo di Ettore, in inquadrature simmetriche di evidente ispirazione figurativa. Masaccio e Vivaldi si accomuneranno in una delle sequenze del film, forse la più bella. Mercoledì 16 maggio Franco Citti è stato condannato per i fatti del Flaminio a un anno e tre mesi di reclusione. A Ciampini, che uccise un uomo, daranno tre anni e alcuni mesi. La stampa si è scatenata. Ma la perla, in questo processo che riempie colonne e colonne di piombo, è la requisitoria del P.M., dottor Pedote. Un atto d’accusa, un processo alla letteratura e al cinema... Venerdì 18 maggio Siamo all’anulare olimpico, in fondo alla Flaminia vicino al Palazzetto dello sport. Sono le 20. Di sera, questo posto sembra un cimitero; c’è solo più luce. Alberi al neon fittissimi e tante strisce bianche per terra. Ne avremo per alcuni giorni; si devono girare gli esterni-notte più spettacolari del film ed anche i più tipici. Una carrellata continua, ininterrotta, un cameracar di oltre un chilometro e mezzo che segue Mamma Roma in una camminata piena di folgorazioni inventive, mentre “batte e balla il cha-cha-cha della vita”. Lo scenario è allucinante: sullo schermo si vedrà un nero assoluto, stagliato da figure che paiono ombre, da tanti punti di luce e da una croce, quella del Calvario. Freddo. Umido. Si rimane fino alle quattro di mattina. Prove su prove, chilometri di strada. Per alcune sere è |21| stata abbandonata l’Arriflex per la Mitchell... Lunedì 28 maggio Un grande salone - enorme, bianchissimo, vuoto - in uno dei tanti palazzoni dell’Eur è stato scelto come interno della Chiesa. Qui gli incontri di Mamma Roma col prete e altre scene d’ambiente. C’è Volponi, dopo il clamoroso successo del Memoriale, che non ha difficoltà a vestire la tonaca e ad entrare immediatamente nel personaggio. Deve essere un prete apparentemente sincero e dall’aria dimessa, ma con un fondo sostanzialmente ipocrita, che reagisce freddamente al dolore di Mamma Roma. Lunedì 4 giugno Finalmente Franco è uscito. Le ansie e le preoccupazioni - siamo ormai agli ultimi giorni delle riprese e non in molti abbiamo creduto alla sua scarcerazione - sono finite. Pasolini è piuttosto freddo con lui, quando lo rivede. L’incontro rientra nella normalità. Anna lo accoglie calorosamente e scherza. “Se le do uno schiaffo Citti, lei me lo restituisce?”. “No, le porgo l’altra guancia: è così che mi è stato insegnato”. Giovedì 7 giugno Non ho mai domandato alla Magnani, prima d’ora, cosa pensa di Mamma Roma e come avvenne l’incontro con Pasolini. È giunto il momento: siamo agli ultimi giorni ed è stato visto quasi tutto il “girato” che è stato quotidianamente montato con l’aiuto del bravissimo Baragli. “Molti hanno parlato del “ritorno” della Magnani” - mi ha detto Nannarella. “Non c’è nulla di eccezionale nel fatto che abbia accettato la parte di Mamma Roma, dopo due anni. Non ho mai interpretato più di un film in un simile intervallo di tempo, altrimenti sarei un’attrice ricca e invece non lo sono. Faccio solo i film che mi interessano, che giudico adatti a me, nonostante le continue, insistenti offerte che ho avuto e che seguito ad avere. “L’incontro con Pier Paolo: andai a Venezia per Castellani, la sera della prima de Il brigante. Fu lì che vidi Accattone e ne uscii sconvolta. Avevo conosciuto casualmente Pasolini, una volta, in casa di Elsa De Giorgi, e mi aveva detto che stava pensando a una storia - che sarebbe poi stata quella di Mamma Roma. Me ne parlò sommariamente e mi propose di interpretarla. Dopo la proiezione di Accattone, al Palazzo del cinema, ci fu l’incontro definitivo. Una sera, in macchina, dopo essere stati a cena, Pasolini mi raccontò come sarebbe stato in definitiva il vero volto di Mamma Roma. Nacque così il film. Il rapporto con Pier Paolo, nei primi tempi”, continua la Magnani, “è stato difficile, ma si è risolto subito in un rapporto di cordialità e di amicizia, come avviene di solito tra persone intelligenti che si capiscono. Sono contenta di lavorare con questi straordinari personaggi, soprattutto perché, quando posso, preferisco lavorare con i non attori”. La domanda che le pongo è imbarazzante, ma alla fine risponde: “Sono molto affezionata ai personaggi di Roma città aperta, di Amore, de La rosa tatuata, ma se non sbaglio credo che questo sia il personagggio più “grosso” che ho interpretato finora”. Venerdi 8 giugno Una sala, appena rinfrescata di calce, all’interno di una fattoria abbandonata, nei pressi di Frascati, è il luogo scelto per girare il pranzo di nozze, la prima scena del film. La tavola è a ferro di cavallo, piena di invitati: da Mamma Roma a Zaccaria, da Biancofiore ai papponi. Al centro, Carmine, lo sposo, la sposa e il padre. Mamma Roma deve entrare con tre maialetti vestiti con le giarrettiere, con un giglio in testa e col nastrino rosa. C’è da faticare. Ma in fondo anche questo problema è risolto felicemente. Sarà l’exploit comico del film: una sarabanda di battute, di invenzioni, di stornelli “burini” su arrangiamenti musicali dei “pezzi” di Vivaldi, in una cornice da ultima cena. Giovedì 14 giugno Da oggi, e per alcuni giorni, siamo confinati in un luogo terribile: è chiamato “canalone”. Sembra il letto di un fiume, abbastanza largo, con l’erba gialla, arido, infuocato dal sole bruciante di questa estate senza vegetazione. Dobbiamo girare “le scene del prato”, cioè gli incontri di Ettore con Bruna, con gli amici, la lotta. L’altro luogo, ancora per queste scene, sarà quel meraviglioso prato di Cecafumo attorno al quale abbiamo ruotato per tanti giorni, all’inizio. Ci si ripara sotto miseri ombrelloni da spiaggia, cercando ognuno di noi di rubare all’altro un centimetro d’ombra o comunque di riparo, tranne Pasolini che imperterrito seguita a stare ore e ore sotto il sole romano di piena. A Cecafumo non è stato dato il permesso alla produzione per girare sul prato. È di proprietà di persone che qualcuno di tanto in tanto ha letto nelle cronache romane, nei pettegolezzi su via Veneto. L’odio per Pasolini è un odio viscerale, categorico. Forse quell’epigramma? “Non siete mai esistiti, vecchi pecoroni papalini / ora un po’ esistete, perché un po’ esiste Pasolini”. Ma giriamo ugualmente, alla macchia, tra pochi giorni il film sarà finito. |22| IL VANGELO SECONDO MATTEO SINOSSI Seguendo fedelmente il Vangelo di S. Matteo, il film narra la vita di Gesù Cristo dall'Annunciazione alla Vergine Maria al matrimonio di Lei con Giuseppe, dalla nascita di Gesù alla strage degli Innocenti. Divenuto adulto, Gesù, nel deserto, affronta le tentazioni e dopo 40 giorni percorre la Palestina per predicare la Buona Novella, seguito dagli Apostoli. La Sua presenza fra gli uomini è segnata dai miracoli, dal Sermone della Montagna, dal tradimento di Giuda Iscariota, fino al momento in cui, processato da Pilato, viene condannato alla crocefissione. La Resurrezione conclude la vita terrena del Redentore. CRITICA Evitando rigorosamente i pericoli e i veleni dell’estetismo (...) ripropone così un Cristo radicato nella terra e nel paesaggio, circoscritto dalla dolente coralità della folla (...). Il suo è soprattutto un Cristo del processo implacabile e strenuo alla razza di vipere (...) che esplode nelle grandi sequenze della collera (...) e ritorna nel grido di protesta e di ribellione del Crocefisso, che si stacca sull’atroce indifferenza della città, murata nella luce dell’alba. Adelio Ferrero, Cinema Nuovo, n.171, settembre 1964 REGIA: Pier Paolo Pasolini INTERPRETI: Enrique Irazoqui, Margherita Caruso, Susanna Pasolini, Marcello Morante, Mario Socrate, Settimio Di Porto, Enzo Siciliano, Natalia Ginzburg, Ninetto Davoli, Enrico Maria Salerno (voce di Gesù Cristo) SOGGETTO: Pier Paolo Pasolini SCENEGGIATURA: Pier Paolo Pasolini, Sergio Citti - (coll. ai dialoghi) FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli, Giuseppe Ruzzolini (operatore) MUSICHE: Luis E. Bacalov (coordinamento) - Brani tratti da musiche di Bach, Mozart, Prokofiev, Webern, "Missa Luba" congolese, Spirituals e canti rivoluzionari russi MONTAGGIO: Nino Baragli SCENOGRAFIA: Luigi Scaccianoce, Dante Ferretti ARREDAMENTO: Andrea Fantacci COSTUMI: danilo Donati AIUTO REGIA: Maurizio Lucidi DURATA: 106’ PAESE PRODUTTORE: Italia, Francia ANNO DI PRODUZIONE: 1964 Note: - Il film è dedicato alla “lieta, cara familiare ombra di Giovanni XXIII” - XXV mostra del Cinema di Venezia: premio spe- Alcuni critici si sono meravigliati che Pier Paolo ciale della giuria; premio Ocic, premio Fipresci, prePasolini, scrittore marxista, traducendo sullo schermo mio Federazione Italiana Cineforum, Premio Grifone d’Oro Il Vangelo secondo Matteo, si sia mantenuto fedele al testo originale. Non c’è, infatti, incompatibilità assoluta fra - Nastro d’argento 1965 per Miglior film, fotografia il cristianesimo e il marxismo? Fra gli apostoli e i e costumi ragazzi di vita? Fra la poesia civile di sinistra e il cattolicesimo di destra? Nella meraviglia si esprimeva il moralismo d’una società come quella italiana, pochissimo religiosa e perciò costretta ad un conformismo di comportamento, Pasolini s’era “comportato” fin ora in un certo modo; come poteva, ad un tratto, “comportarsi” in un modo tanto diverso? In realtà Pasolini s’è mantenuto soprattutto fedele a se stesso; e poiché il cristianesimo costituisce in lui il nesso sentimentale e ideologico che collega le ardue esperienze opposte del marxismo e del decadentismo, egli è stato anche, in maniera molto naturale, fedele al cristianesimo. Un cristianesimo, appunto, di specie insieme popolare e raffinata, che gli ha permesso da un lato di illuminare il carattere rivoluzionario del messaggio cristiano, dall’altro di recuperare la bellezza che è nel testo del Vangelo e nelle interpretazioni che ne ha dato l’arte di tutti i tempi. Rispetto ad Accattone, Il Vangelo secondo Matteo segna un processo indubbio, prima di tutto per l’eccezionale impeto espressivo che in questo film rivela direttamente e immediatamente quali sono le |23| cose che stanno a cuore a Pasolini. E in secondo luogo perché, nelle singole parti, Pasolini mostra questa volta di sapere alleare la poesia ad una rifinitezza e levità che in Accattone, più elementare, non si potevano ancora che intravvedere. Pasolini ha un senso acuto della realtà del volto umano, come luogo d’incontro di energie ineffabili che esplodono nell’espressione, cioè in qualche cosa di asimmetrico, di individuale, di impuro, di composito, insomma il contrario del tipico. I primi piani di Pasolini sarebbero sufficienti da soli a mettere Il Vangelo secondo Matteo sopra un livello eccezionale. Ma questi primi piani non basterebbero a darci la storia di Gesù, come una galleria di ritratti non basta a darci l’idea degli avvenimenti ai quali hanno preso parte i personaggi. Il film, dunque, sarà un alternarsi di volti in primo piano e di scene drammatiche per lo più contemplate da lontano, cioè come può vederli uno spettatore il quale ora fissi lo sguardo sulle facce, ora cerchi d’abbracciare la scena intera. Niente dunque di naturalistico in questa maniera ora di avvicinare, ora di allontanare, volti e scena, semmai una rappresentazione francamente estetizzante, che non pretende mai, come fa il naturalismo, di darci la verità fotografica delle cose. Pasolini ha capito il valore plastico e poetico, così del silenzio, come della parola. Diciamo subito che i silenzi sono la forza del film e le parole la debolezza. I silenzi di Pasolini sono affidati all’organo che è più legato al silenzio: gli occhi. Non parliamo qui degli occhi degli spettatori, bensì degli occhi dei personaggi. Le sequenze silenziose del Vangelo secondo Matteo sono le più belle, appunto perché il silenzio è il mezzo più sicuro per farci fare il salto vertiginoso all’indietro che ci propone Pasolini con il suo film. La parola è sempre storica; il silenzio si pone fuori della storia, nell’assolutezza delle immagini: il silenzio della Annunciazione, il silenzio che accompagna la morte di Erode, il silenzio degli apostoli che guardano Gesù e di Gesù che guarda gli apostoli, il silenzio di Giuda che sta per tradire, il silenzio di Gesù che sa di essere tradito. Il silenzio nel film di Pasolini non è, d’altra parte, quello del cinema muto, cioè un silenzio per difetto; bensì è il silenzio del parlato, cioè un silenzio plastico, espressivo, poetico. Mentre i silenzi sono di Pasolini, le parole, ovviamente, sono del Vangelo. Abbiamo sempre pensato che la parola nel cinema ha un carattere veristico, cioè, in fondo, superfluo, come dimostra se non altro il fatto che per molto tempo il cinema fu muto e tuttavia lo stesso completamente e felicemente espressivo. Questo carattere della parola nel cinema rendeva tanto più difficile la trascrizione cinematografica d’un linguaggio così denso e così ricco di metafore, come quello del Vangelo. Vedendo il film di Pasolini si riporta l’impressione che lo schermo, per sua natura adatto all’immagine che scorre e si mostra, piuttosto che alla parola che si ferma e dice, non sia il luogo migliore per accogliere la risonanza di un discorso che sembra esigere le architetture e gli sfondi dipinti d’un tempio. Pasolini, il quale s’è servito della voce assai efficace di Enrico Maria Salerno, ha cercato in tutti i modi di risolvere il problema di questa incompatibilità, ma non vi è riuscito che parzialmente. Adesso resta da dire che specie di Gesù è questo di Pasolini. Diciamo subito che si tratta d’un Gesù molto diverso da quello conformistico che predomina ancora oggi. Non vogliamo sprecare troppe parole su un fatto ovvio: è chiaro che la bontà di Gesù ha, in sede storica, un carattere paradossale e rivoluzionario, e che, nel momento stesso che Gesù diceva: “Ama il tuo prossimo come te stesso”, egli diceva qualche cosa che non era soltanto l’espressione di un sentimento, ma soprattutto, rispetto al mondo di allora, qualcosa di oggettivamente sovvertitore. Per questo, Pasolini ha mirato |24| a darci un Gesù duro, violento, iconoclasta, inflessibile, come appunto doveva apparire ai suoi contemporanei e non come appare oggi a noi che, com’è stato già detto, non possiamo non dichiararci tutti cristiani. Lo stesso va detto dell’ambiente nel quale Gesù si trovò a predicare. Per essere pienamente rivoluzionario, il cristianesimo doveva essere non soltanto paradossale, ma anche “invisibile”. Che cosa di più invisibile allora, d’una religione predicata da un povero tra i poveri, in una provincia remota, in un linguaggio sconosciuto ai potenti? E così ci pare che anche il “miserabilismo” di Pasolini trovi una sua giustificazione storica e ideologica oltre che artistica. Pasolini ha preso i suoi attori dalla strada, sia si tratti di amici dell’ambiente letterario, sia di popolani dei luoghi dove il film è stato girato. E stata ancora una volta una buona idea e il rendimento è notevole. Enrique Irazoqui, lo studente spagnolo che interpreta il personaggio di Gesù, ha un volto che ricorda il greco, i bizantini e i primitivi. Questo volto, spesso grave oppure adirato, più di rado sorridente, è una delle più belle invenzioni del film. Alberto Moravia, l’Espresso, 4 ottobre 1964 TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SU IL VANGELO SECONDO MATTEO. INTERVISTA A ENRIQUE IRAZOQUI Pier Paolo ma, viceversa, tutti hanno parlato della propria interpretazione soprattutto la Chiesa Cattolica. di Giovanna Gammarota (da www.puntodisvista.net, 9/2014) Il 4 settembre 1964, alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Pier Paolo Pasolini presenta il suo sesto film: Il Vangelo secondo Matteo, un’opera per la quale impiegò due anni prima di trovare il volto che avrebbe interpretato il ruolo di Cristo. Per questo film Pasolini era stato invitato da Alfredo Bini, suo produttore storico, a recarsi in Palestina per dei sopralluoghi ma già sapeva che non avrebbe ambientato lì il suo film: il paesaggio, ma soprattutto i volti, non avevano più nulla di quell’antico che egli cercava, necessario a dipingere il quadro di una rappresentazione vera e pura quale era il testo del Vangelo di Matteo. Il film venne girato interamente in Italia: a Barletta, Crotone, Matera, Massafra, nella valle dell’Etna e nei pressi di Chia e italiani furono i visi, tranne quello di Enrique Irazoqui. Lo abbiamo intervistato dopo il suo passaggio in Italia alla 71ma Mostra del Cinema di Venezia. A cinquant’anni dalla presentazione a Venezia del Vangelo secondo Matteo quali analisi sono state fatte, secondo te, sul significato che Pasolini voleva veicolare con questo film? So di convegni in cui hanno parlato rappresentanti della Chiesa i quali hanno cercato di accaparrarsi il film ma di quel racconto epico-lirico in chiave nazional popolare che Pasolini aveva in mente non ho sentito parlare nessuno. Anzi direi che il film, in questo cinquantesimo anniversario, si è trasformato in un fiore all’occhiello per molti luoghi come per esempio Matera. Negli eventi ai quali ho partecipato sino ad ora non mi è parso che a qualcuno interessasse l’opera di In effetti la Chiesa ha dichiarato che questo è probabilmente il film più vero mai girato sul Vangelo. Qualche anno fa, In Spagna, mi trovavo a passare davanti a un museo del cinema, per curiosità sono entrato e ho visto in vendita il dvd, ho domandato: “Chi lo compra?” mi hanno risposto l’Opus Dei. Questo per me è uno schiaffo alle intenzioni del film. A Venezia, pochi giorni fa, sul palco assieme a me a parlare del Vangelo, c’erano cardinali e vescovi: hanno raccontato di come 800 padri conciliari lo applaudirono durante la proiezione al Concilio Vaticano II. Sono intervenuto dicendo che per me questo era il segno di un fallimento, perché quello che noi volevamo fare era restituire il Cristo a un popolo a cui l’avevano rubato per trasformarlo in una forma di potere della classe dominante. Quel popolo è esattamente lo stesso che durante la guerra civile spagnola, gridava: l’unica chiesa che illumina è quella che brucia. Pasolini ha dedicato il film a Papa Giovanni XXIII dunque la Chiesa si sente autorizzata a rappresentarlo. In realtà Pasolini lo dedicò alla persona Giovanni XXIII, colui che voleva aprire la Chiesa in un’epoca in cui si parlava di dialogo tra cattolici e marxisti, invece quello che rimane è la dedica a un papa di una Chiesa che Pasolini detestava. Parliamo invece della sinistra. Quando uscì il film, all’epoca, ci furono molte polemiche. Ricordo che Pasolini fece una proiezione, un mese prima di andare alla Mostra di Venezia, per un ristretto numero di invitati tra cui una rappresentanza del PCI, se non ricordo male vennero: Ingrao, Alicata, e Longo. Dopo la proiezione andammo, come sempre, da Rosati: questi tre che sedevano a un altro tavolo, mi chiamarono, sapevano che appartenevo al partito comunista clandestino spagnolo, mi dissero che |25| dovevo convincere Pasolini a tagliare tutti i miracoli perché altrimenti il film sarebbe diventato uno strumento di propaganda della Chiesa. Pier Paolo, saputo di cosa avevamo parlato mi chiese: “Tu cosa ne pensi?”, io risposi che i miracoli dovevano rimanere, o era il Vangelo secondo Matteo o non lo era. Ho invece provato un gran piacere, successivamente, nello scoprire che il film è stato una bandiera per il movimento della Teologia della Liberazione, molto importante in Sud America, e di cui fanno parte preti cattolici della sinistra radicale, quello che essi facevano era dare il messaggio evangelico alla gente, così com’era. Proprio ciò che noi volevamo dire con il film. Come si conciliano le posizioni politiche di Pasolini con la messa in scena di un film realizzato su un testo evangelico? Penso ci siano parecchie cose da dire su questo: voglio ricordare un carteggio tra Pasolini e Alfredo Bini, il produttore, in cui questi gli domanda come mai un ateo vuole girare un film sul Vangelo di Matteo. Pier Paolo risponde dicendo che fino a quel momento aveva conosciuto la bellezza morale, la bellezza letteraria ma non aveva ancora conosciuto la bellezza assoluta. Dunque ha voluto fare un film senza condizionamenti ideologici su quella che secondo lui era la bellezza assoluta. C’è un’altra cosa più sociale, nel contesto dell’epoca, il dialogo tra marxisti e cristiani. Pier Paolo lesse i Vangeli ad Assisi, dove fu invitato proprio nell’ambito di uno di questi confronti, questo spiega perché non vedesse contraddizioni tra il Vangelo di Matteo e il marxismo. Poi c’è un terzo fattore, strettamente personale: secondo me esiste un prima e un dopo il Vangelo, nella vita di Pasolini. Lui, che era un poeta maledetto, che era stato cacciato dal PCI perché omosessuale, che andava in tribunale ogni due ore a rispondere delle sue opere, non credo non abbia considerato quali sarebbero state le conseguenze nel fare un film su questo tema in un paese come l’Italia nel 1964: forse lo avrebbero lasciato un po’ più in pace. Ma sappiamo che non è stato così. Hai raccontato tante volte come è accaduto il tuo incontro con Pier Paolo ma non altrettanto di quando lui venne in Spagna a parlare con gli studenti universitari. Come fu quell’esperienza? Venne nel novembre del ’64 per tenere una conferenza. Non riuscimmo a ottenere il permesso per un’aula, alla fine la organizzammo nella sala delle autopsie dell’ospedale dell’università, un luogo abbastanza sinistro, non avevamo nemmeno le sedie, eravamo tutti in piedi, la sala era gremita. Vi furono altre conversazioni nell’albergo in cui lo avevamo ospitato, tra lui e il nostro padre intellettuale Manolo Sacristán, ne ricordo una molto interessante su grammatica e logica matematica, alla fine Pier Paolo venne a dirmi quanto eravamo fortunati perché in Italia non esistevano professori così. A quali conseguenze sei stato esposto per aver girato questo film? La conseguenza più seria la vissi durante il servizio militare: per tutti i quindici mesi fui ripetutamente punito, in primo luogo perché ero stato arrestato per motivi politici e poi perché avevo preso parte a una pellicola di propaganda comunista. Pensa mentre in Italia il film era osannato da 800 padri conciliari, in Spagna era considerato “propaganda comunista”. Pasolini ti propose di girare un altro film. Sì, Pier Paolo voleva fare con me Il padre selvaggio, mi disse che se non avessi accettato non lo avrebbe girato. E così è stato. A me non importava nulla del cinema: volevo e voglio ancora lavorare per la fratellanza universale. Volevo tornare a casa e fare la rivoluzione. Così non c’è stato Il padre selvaggio. Fu un errore. Era un film in cui voleva contrapporre la cultura europea bianca a quella nera africana, il conflitto che scaturisce quando la cultura bianca irrompe, anche se ben intenzionata, nell’Africa nera. Ma forse era il “Cristo” che doveva fare quel film, il Cristo di Pasolini doveva andare lì. Si è appena conclusa la Mostra del Cinema di Venezia dove in concorso è stato presentato il film Pasolini di Abel Ferrara, in cui Pier Paolo è interpretato da Willem Dafoe, che ne pensi? In primo luogo penso che nessun film al mondo, anche con il miglior attore, girato dal miglior regista, che abbia come tema la figura di Pier Paolo Pasolini, possa essere accettabile. Questo perché quel Pasolini che diceva a me e a Elsa quando arrivava e si lasciava cadere sulla sedia: “Che angoscia!”, quel personaggio dalla “disperata vitalità”, quel nervo che lui era non penso si possa interpretare. Quello che temo è che invece di avere un’immagine di Pier Paolo attraverso la visione dei suoi film, la lettura delle sue poesie, dei suoi romanzi ma soprattutto degli scritti corsari, si abbia un’immagine di Willem Dafoe come se fosse Pier Paolo Pasolini. In due parole: sarebbe il suo secondo assassinio. Perché secondo te Ferrara ha voluto affrontare quest’ultimo giorno di vita di Pasolini e non il personaggio? C’è un elemento che lo rende attraente per il pubblico: un finale con l’uccisione, quei quattro, cinque, che si buttano sul corpo di Pier Paolo, il sangue, la lotta. Viene mostrato ciò che, a mio parere, mai si deve mostrare: le fotografie di Pier Paolo ucciso a Ostia. |26| MAI. Assolutamente. Perché è deformante e morboso. Il vero Pasolini non è quello dei mostri che lo hanno ucciso, il vero Pasolini è quello della ‘disperata vitalità’, questo per me in un film non si deve fare, e meno ancora si deve affrontare come spettacolo quell’ultimo giorno nella vita di Pier Paolo. Qualche girono fa, a proposito di questo film, hai detto che questo continuare a strattonarlo da più parti lo sta annullando, come quando una figura diventa iconica per tutti e di conseguenza la sua essenza, il suo pensiero diventa nullo. Esatto, tutti vogliono recuperare Pasolini, farne una loro proprietà: la Chiesa, gli Stati Uniti, la destra, la sinistra. È successo lo stesso in Spagna con Antonio Machado che pur morendo in esilio, durante il fascismo era considerato il poeta ufficiale della Spagna. Cosa ha rappresentato nella tua vita l’incontro con Pasolini, che segno ti ha lasciato? La libertà. Da un giorno all’altro sono passato da un mondo fascista, grigio, omogeneo dove tutto era proibito, da una famiglia dove si pranzava alle due e si cenava alle nove a un mondo dove c’erano Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Alberto Moravia, Sandro Penna. Stando con loro ho capito forse la cosa più importante di tutte: che il fascismo non era soltanto una formazione politica, era anche un atteggiamento quotidiano. Che non esisteva soltanto il fascismo come forma di potere in un governo ma esisteva anche in tutto quello che si faceva durante il giorno. Il peggiore insulto, oltre all’essere fascista, poteva risiedere anche nell’essere qualunquista, volgare, erano tutti caratteri fascisti, questo mi hanno fatto capire. Pier Paolo e Elsa hanno rappresentato la scoperta della libertà, della vita. Le conversazioni con loro, quelle cene, quei viaggi rappresentano una felicità che ancora ricerco al punto che quando recentemente sono tornato a Massafra ho avuto la chiara sensazione di essere a casa. Per spiegare che tipo di rapporto avevamo ti dirò che in “Poesia in forma di rosa” l’ultimo pezzo, quello che si chiama “Vittoria”, Pier Paolo mi disse era dedicato a me, ma non poteva scriverlo perché dovevo rientrare in Spagna. Io ero il resistente, il partigiano, ciò che era stato suo fratello, forse. Quale poteva essere il rapporto tra Guido e un giovanotto di diciannove anni antifranchista clandestino, che veniva, praticamente da partigiano, a incontrare lui, quale era il rapporto tra questo e offrirmi il ruolo del Cristo, non lo so, ma penso che un rapporto ci sia. |27| UCCELLACCI E UCCELLINI “Non ho mai “messo al mondo” un film così disarmato, fragile e delicato come Uccellacci e uccellini. Non solo non assomiglia ai miei film precedenti, ma non assomiglia a nessun altro film. Non parlo della sua originalità, sarebbe stupidamente presuntuoso, ma della sua formula, che è quella della favola col suo senso nascosto. Il surrealismo del mio film ha poco a che fare col surrealismo storico; è fondamentalmente il surrealismo delle favole [...]”. Pier Paolo Pasolini SINOSSI Totò e suo figlio Ninetto si mettono in cammino per raggiungere un casolare nei dintorni di Roma e minacciare di sfratto della povera gente che non paga l'affitto e si ciba di nidi di rondine. Durante il cammino, i due discorrono di vita e di morte con un corvo parlante, un petulante e saccente ospite autoinvitato, sedicente intellettuale marxista vecchia maniera. Il racconto del corvo spinge padre e figlio a indossare un saio francescano, divenendo rispettivamente Frate Ciccillo e Frate Ninetto, per ripetere agli uccelli la predica di San Francesco. Con una certa fatica e una lunghissima preparazione spirituale, Fra' Ciccillo riesce a farsi ascoltare dai falchi e dai passerotti, facendo loro accettare il messaggio di Dio, senza però far desistere i rapaci dalle loro abitudini sanguinose. Ripreso il cammino in abiti borghesi, i due s'imbattono nei funerali di Togliatti, in manifestazioni popolari e in una prostituta. Continuano a camminare e a parlare finché, presi dai morsi della fame, uccidono il corvo per il loro pasto. CRITICA Il film imposta una favola filosofica, dibattendo problemi spirituali e sociali di attualità. Nonostante qualche cedimento di ritmo e d'invenzione, la difficile impresa può considerarsi in parte riuscita, soprattutto in alcuni momenti ricchi di poesia. Segnalazioni cinematografiche, vol. 60, 1966 REGIA: Pier Paolo Pasolini INTERPRETI: Totò, Ninetto Davoli, Femi Benussi, Francesco Leonetti, Gabriele Baldini, Riccardo Redi, Lena Lin Solaro, Rossana Di Rocco, Vittorio Vittori, Fides Stagni SOGGETTO: Pier Paolo Pasolini SCENEGGIATURA: Pier Paolo Pasolini FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli, Mario Bernardo MUSICHE: Ennio Morricone MONTAGGIO: Nino Baragli SCENOGRAFIA: Luigi Scaccianoce, Dante Ferretti PRODUTORET: Alfredo Bini DURATA: 85’’ PAESE PRODUTTORE: Italia ANNO DI PRODUZIONE: 1966 Note: - Fstival del Cinema di Cannes 1966: menzione speciale a Totò per l’interpretazione - Nastro d’argento 1967: miglior soggetto originale, migliore attore protagonista (Totò) [...] Proprio per appartenere a quel “cinema di poesia” [...] è un film da vedere [...]e non da descrivere: la sua realtà di messaggio etico-politico è tutta sostanziata dalle spezzettature, dai ritmi [...] dalle sottolineature sonore che costituiscono in ultima analisi la vera chiave contenutistica del film [...]. Cosicché l'ardita complessità di metafore [...] (ha) il potere di trasformarsi in umanissima tensione lirica. Lino Micciché, L’Avanti!, 12 maggio 1966 Uccellacci e uccellini (1965-6) è una favola ideo-comica che vede due protagonisti in Totò e Ninetto Davoli. Il primo episodio, tagliato poi nel film, rappresenta la crisi del razionalismo di fronte alla realtà più as|28| soluta del Terzo Mondo ancorato al mito e alla religione (quindi all’irrazionale). Un domatore di circo tenta invano di civilizzare un’aquila (che rappresenta l’irrazionalismo terzomondista) ma finisce per convertirsi lui alla visione più ampia e libera che gli insegna tacitamente l’animale, sino a volare via come se fosse lui stesso aquila. Il film come è in realtà, narra metaforicamente di due eventi importanti in quegli anni: 1) il rapporto della religione nei confronti della lotta di classe (e qui vediamo Totò e Ninetto che impersonano due umili fraticelli mandati da San Francesco a portare la novella evangelica a falchi (i prepotenti) e a passeri (gli umili); dopo varie difficoltà la predicazione viene recepita, ma non messa in pratica, perché i due frati vedono la loro gioia iniziale per il successo avuto annullarsi di fronte all’episodio di un falco che uccide un passero: tornano dal santo, che dice loro di riprendere la predicazione e non cessarla mai); 2) l’altro evento rappresentato è la crisi del marxismo (il marxismo della Resistenza e degli anni Cinquanta), che non può far fronte alle novità del mondo, soprattutto all’omologazione del linguaggio. Tutti devono per forza parlare allo stesso modo per non essere esclusi dalla società, e quindi si comportano tutti come consumatori di prodotti (inutili) che gli tolgono l’anima. E’ il corvo (che simboleggia Pasolini stesso) a voler portare alla coscienza di due popolani, Totò e Ninetto, padre e figlio, la crudeltà del nuovo mondo universalmente imborghesito; inoltre c’è il problema dell’esplosione demografica e della fame nelle aree sottosviluppate. Cosa deve fare un marxista? Rinnovarsi, fare della non-violenza (come volevano Gandhi e papa Giovanni XXIII) lo strumento migliore per rispondere all’altrui violenza; capire inoltre l’urgenza di una risacralizzazione del mondo (attraverso la cultura non superficiale e il mito), contro la volgarità desacralizzante del neocapitalismo. I due uomini, scocciati dalla “predica” di questo mite corvo, lo divorano dopo averlo arrostito: “Il corvo «doveva essere mangiato», alla fine: questa era l’intuizione e il piano inderogabile della mia favola. Doveva essere mangiato, perché, da parte sua, aveva finito il suo mandato, concluso il suo compito, era, cioè, come si dice, superato; e poi perché, da parte dei suoi due assassini, doveva esserci l’«assimilazione» di quanto di buono - di quel minimo di utile - che egli poteva, durante il suo mandato, aver dato all’umanità [...].” Viene da pensare che Pasolini, scrivendo queste righe, prevedesse, almeno come possibilità, la sua fine cruenta. www.homolaicus.com |29| CONVERSAZIONE CON NINETTO DAVOLI In L’importanza della figura femminile nella vita e nelle opere di Pier Paolo Pasolini di Cristina Girelli, www.storiaefuturo.com […] Qual è il ruolo che più le è piaciuto interpretare? Il ruolo, il film che mi è rimasto più impresso è stato Uccellacci e uccellini, ma per un fatto, diciamo, perché era l’inizio, il primo, l’entusiasmo della cosa, poi di aver lavorato con questo grandissimo personaggio… per me è stato Uccellacci e uccellini, anche gli altri, però Uccellacci e uccellini è quello che mi è rimasto più impresso. È quello a cui sono più affezionato perché lì è stato proprio l’inizio del mio lavoro. Ho conosciuto Pier Paolo, Totò, il mondo del cinema, anche se a me, ti dico la verità, non è che me ne fregava più di tanto perché non era la mia professione fare l’attore. Anzi ti dirò non volevo neanche farlo. È stato Pier Paolo ad insistere: “Dai Ninetto ti diverti, è carino”. Ed io: “Ma no, lascia perdere, ma che c’ho la faccia d’attore io?”. “No ma dai che ti diverti!”. È stato lui, Pier Paolo, a scovarmi. Poi una volta iniziato devo dire che è stata una scoperta meravigliosa. Io sto ancora lavorando, sto facendo teatro, tutte le sere ho lo spettacolo. Finisco il 19 di questo mese (febbraio), cioè tutte le sere affronto il pubblico, mi diverto, mi piace, perché è una cosa che ormai mi entra dentro e devo dire che ogni volta che faccio qualcosa sappi che comunque penso sempre a Pier Paolo. Sempre, immancabilmente, penso a Pier Paolo. […] |30| LA RICOTTA SINOSSI Stracci, una comparsa che interpreta la parte del ladrone buono in un film sulla passione di Cristo, non è che un poveraccio perennemente affamato. Quando la sua numerosa e poverissima famiglia lo va a trovare sul set, Stracci dona loro il cestino del pranzo che gli spetta in quanto attore, per consentire loro di consumare un misero pasto in mezzo al prato. Per non saltare il pasto riesce a “rimediare” un nuovo cestino, senza però riuscire a mangiarlo. Quando finalmente riesce a comperare un pezzo di ricotta lo mangia con atavica fame. Successivamente si divora gli avanzi rimasti sul set della scena dell’Ultima cena. Infine, stremato, torna sul set per girare la scena della crocifissione, ma subito dopo il ciak si scopre che è morto di indigestione sulla croce. Episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G. – Laviamoci il cervello CRITICA REGIA: Pier Paolo Pasolini […] La ricotta nell’opera cinematografica di Pasolini nasce INTERPRETI: Orson Welles, Mario Cipriani, dalla stessa ispirazione delle poesie; così come Accattone riLaura Betti, Edmonda Aldini, Vittorio prendeva sullo schermo i temi dei romanzi. L’idea amaraLa Paglia, Maria Berbardini, Rossana mente, dolorosamente sentita ed espressa in questo piccolo Di Rocco capolavoro è quella del contrasto tra la grande civiltà italiana SOGGETTO: Pier Paolo Pasolini SCENEGGIATURA: Pier Paolo Pasolini del passato simboleggiata dalla Sacra Famiglia dipinta da tutti FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli i nostri pittori su su dai primitivi fino ai secentisti, e la corCOMMENTO E COORDINAMENTO MUSICALE:: ruttela e l’imbastardimento di questa stessa civiltà, simboCarlo Rustichelli leggiata dalla disgregazione e decomposizione canagliesca SCENOGRAFIA: Luigi Scaccianoce, Dante di quella stessa Sacra Famiglia. Mentre Accattone, spoglio ed Ferretti COSTUMISTA: Danilo Donati essenziale conteneva la polemica umana e sociale di Pasolini, ARCHITETTO: Flavio Mogherini nella Ricotta si esprime, con modi barocchi e grotteschi, la PRODUTORE: Alfredo Bini polemica culturale e religiosa. L’episodio di Pasolini ha la DURATA: 35’ complessità, nervosità, ricchezza di toni e varietà di livelli PAESE PRODUTTORE: Italia, Francia delle sue poesie; si potrebbe anzi definire un piccolo poema ANNO DI PRODUZIONE: 1963 in immagini cinematografiche. Da notarsi l’uso nuovo e atNote: traente del colore alternato al bianco e nero. Orson Welles, Grolla d’oro per la miglior regia, Saint nella parte del regista straniero che si lascia intervistare, ha Vincent, 4 luglio 1964 creato con maestria un personaggio indimenticabile. Resterebbe ora da chiedersi il motivo della freddezza con la quale è stato accolto dalla critica cinematografica quest’episodio. La chiave del mistero va ricercata, secondo noi, oltre che nell’impreparazione culturale di molti critici , anche nella ingenua mancanza di tatto di Pasolini. Diamine: il regista nell’intervista dichiara: “L’Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa”, ed ecco scontentati così i partiti di destra come quelli di sinistra, Poi, peggio ancora, Orson Welles rincara: “L’uomo medio è un pericoloso delinquente, un mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista”, ed ecco scontentati tutti quanti. L’Italia del passato, infatti, era il paese dell’uomo, in tutta la sua umanità; l’Italia di oggi, invece, è soltanto il paese dell’uomo medio. Alberto Moravia, L’Espresso, 3 marzo 1963 (raccolta in: Alberto Moravia, Cinema italiano. Recensioni e interventi 1933-1990, Bompiani, 2010) […] Con l’uso del colore, le possibilità espressive (di Pasolini, ndr) s’allargano e si giunge, nell’episodio di La ricotta (1963), a un gioco di dissonanze e di contrappunti cromatici e sonori, di citazioni croma|31| tiche e pittoriche, di sacralità e desacralizzazione , che segna uno dei momenti più alti dell’invenzione figurativa del dopoguerra. È a partire da La ricotta che si rende conto che il suo cammino di intellettuale non ha alcun punto di contatto con quello del mondo sottoproletario con cui ha tentato per anni di identificarsi e di assumerne il punto di vista o rubarne la vitalità. Certo, nel borgataro e nel povero Stracci morto di fame di La ricotta è possibile riconoscere la figura dell’alter Christus, ma è lui, che si riconosce nella figura del regista interpretata da Orson Welles, che capisce di non poter del tutto diventare i suoi personaggi. Può certo ancora esercitare il suo ruolo di grillo parlante e di corvo, ma la sua storia non è più assimilabile a quella dei suoi personaggi popolari. […] Gian Piero Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, pag. 295, Einaudi, 2003 La ricotta, dal film allo spazio scenico Immaginato agli inizi degli anni sessanta, e sceneggiato nel 1962 (quindi, dieci anni prima che Elio Petri e Ugo Pirro constatassero l’impossibilità della classe operaia di accedere al paradiso) La ricotta di Pasolini è, in prima istanza, una sceneggiatura in forma di racconto, fertile di un’immaginazione e forza evocativa che sarebbero di per sé esaustive anche senza la visualità dell’immagine filmica. In cui il poeta radicalizza le riflessioni teoriche messe a punto nei tanti tipi di ‘scrittura’ diversi dell’immagine riprodotta (ma ad essa indirizzati). Come, ad esempio, il principio di ‘narrazione cinematografica’ quale sintassi autonoma (rispetto a quella della narrazione vergata e orale), conforme alle ‘partiture di preparazione al film’ (dal soggetto ai sopralluoghi), concepiti come vera e propria liturgia di introduzione alla natura collettiva - non più ‘ripensabile’ - della realizzazione filmica: nel momento del suo ‘distacco’ dall’artefice letterario al contributo di chi ne assumerà le responsabilità esecutive (direttore della fotografia, attori, maestranze). Dubbi, travagli, incertezze densi di analogie con la lacerazione, l’’esaltazione, il dolore che si accompagnano ad ogni ‘creatura’ che viene al mondo, strappata a quello delle idee. Dal progetto alla prassi, La ricotta (la cui edizione restaurata è parte integrante della serata al Vascello) divenne uno dei quattro episodi del film a episodi Ro.Go.Pa.G. – Laviamoci il cervello, dove Pasolini veniva affiancato ad autori di culto quali Rossellini, Godard e al ‘giovane’ Gregoretti. Trattandosi di una crudele allegoria incastonata come ‘film nel film’, la vicenda si compie, come triste rapsodia, nel corso delle riprese di un ‘peplum’ sulla Passione e la Deposizione del Cristo, in braccio a Maria, alla Maddalena e agli apostoli radunati sul Golgota. A un figurante di nome Stracci è assegnato il ruolo di uno dei ladroni crocefissi al fianco di Gesù, cui ‘spetta’ realmente di morire (‘a ciascuno la sua croce’) a causa di una congestione addominale per eccesso di fame e di cibo. Del resto - commenterà Orson Welles, magnifico e indolente regista del film in lavorazione, circondato da giornalisti melliflui e panciuti produttori - “Povero Stracci…non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo”riassumendo il senso di una morte narrata in un perfetto intarsio di tensione morale e ‘ridicolizzanti’ sequenze con fotogrammi accelerati - tra vocazione pittorica (primi piani di facce liete e lombrosiane, citazioni da Caravaggio, Pontormo, Mantegna) e vilipendio della religione farisaica (che costò a Pasolini una condanna penale e il sequestro dell’opera). Dotato di cruda compostezza cronistica, l’omaggio che Antonello Fassari e Adelchi Battista ne desumono sui praticabili del Vascello, asseconda quel teatro di ‘parola’ e ‘straniazione critica’ perorato da Pasolini nella prefazione ad “Affabulazione”, “Orgia” e “Bestia da stile”. |32| Su spogli elementi scenografici che rimandano ai residuati di un set cinematografico ‘povero e desolato’, il teatro di narrazione professato da Fassari lavora per sottrazioni e prosciugamento di orpelli, emozioni, consolazione. E Il ‘racconto’, costernato e neutro della sceneggiatura ‘tale e quale fu scritta’, esalta lo spessore politico e poetico della serata. Nella quale si trasfigura, con laico disinganno, il rapporto tra ‘assoluto e profano’ , tra ‘poveri cristi’ e calvario reale di chi affonda nell’indigenza ‘famelica’ senza (nemmeno) l’idea di chiedersi chi sono i suoi veri aguzzini - ad estremo sfregio della dignità umana, triturata in catene di montaggio tra (induzione ai) consumi e (momentaneo) valore d’uso. Angelo Pizzuto, http://www.articolo21.org |33| LA TERRA VISTA DALLA LUNA SINOSSI In un cimitero di periferia Ciancicato Miao e suo figlio Baciù (entrambi dai capelli inverosimilmente color rame), che vivono in un imprecisato futuro, piangono la morte della moglie-madre Crisantema, uccisa da un’indigestione di funghi avvelenati. Appena terminata la lamentazione funebre i due, constatato che Ciancicato ha ancora "qualche cartuccia da sparare" decidono di intraprendere un viaggio alla ricerca della Donna, madre e moglie che diventi la nuova anima femminile della loro catapecchia, in un paesaggio da bidonville, in cui passano di tanto in tanto due improbabili turisti vestiti da safari. Dopo tanto cercare si imbattono in Assurdina, che è sordomuta. Ciancicato Miao sposa Assurdina e i tre si trasferiscono nella catapecchia dei due Miao. Assurdina, con gesti accelerati come in Episodio del film collettivo Le streghe una vecchia comica muta, la trasforma la bicocca in un luogo grazioso e accogliente. Ma i due vogliono una casa più grande. Quindi convincono REGIA: Pier Paolo Pasolini Assurdina a simulare un tentativo di suicidio dal Colosseo, minacciando INTERPRETI: Totò, Ninetto Davoli, Silvana Mangano, Laura Betti, Luigi Leoni, Mario Cidi buttarsi se la società non le darà una mano: sotto il monumento si racpriani coglie una folla (tra cui dei complici) che iniziano a raccogliere una colletta, SOGGETTO: Pier Paolo Pasolini Il trucco pare funzionare. Se non che la coppia di turisti abbarbicata sopra SCENEGGIATURA: Pier Paolo Pasolini il Colosseo getta una buccia di banana su cui Assurdina scivola, cadendo FOTOGRAFIA: Giuseppe Rotunno nel vuoto. I Miao sono disperati e nuovamente soli. Ma quando stremati MUSICA: Ennio Morricone DURATA: 40’ dal dolore tornano a casa, i due ritrovano Assurdina vestita da sposa, sePAESE PRODUTTORE: Italia renamente intenta ad attenderli. Ciancicato e Baciù fuggono terrorizzati, ANNO DI PRODUZIONE: 1966 poi si fanno coraggio e prendono a interrogare l'apparizione. Constatato che Assurdina, sebbene morta può comunque cucinare, lavare i panni, fare i bisogni e andare a letto con Ciancicato, i due Miao gioiscono entusiasti. L'episodio termina con un cartello, che indica: "Morale: essere morti o essere vivi è la stessa cosa". CRITICA Subito dopo Uccellacci e uccellini […] Pasolini ha in mente di realizzare un nuovo film ad episodi con protagonisti Totò e Ninetto Davoli, con l’intento di approfondire quella che definisce la sua “vena comica”, il suo punto di osservazione disincantato sul mondo. Il progetto […] viene in parte ridimensionate allorquando nell’autunno del 1966 Dino De Laurentiis gli propone di partecipare con un cortometraggio al film che ha in produzione, dal titolo Le streghe, accanto agli episodi affidati alla regia di Rosi, Bolognini, Visconti e De Sica, L’intenzione del produttore, secondo i dettami dell’allora in voga “film a episodi”, era quello di incentrare il film attorno a un unico tema, in questo caso, intorno alla figura della donna-strega; un argomento, dunque, piuttosto lontano dalle usuali tematiche pasoliniane. Pasolini risponde alla domanda ripescando la vecchia traccia di uno stralunato racconto mai realizza, che avrebbe dovuto intitolarsi Il buro e la bura dove si narrano le donchisciottesche gesta di un padre e un figlio alla ricerca della donna ideale per la loro famiglia, della perfetta donna-madre, nel desolato panorama di una povertà tanto interiore che esteriore, nella disperata, volgare e stolida tenerezza del loro vuoto essere-nel-mondo. Così nasce La Terra vista dalla Luna, che appare, nella sua struttura fondamentale, come la continuazione, proiettata in un ipotetico presente-futuro, del viaggio di Uccellacci e uccellini. Ma la continuità del breve episodio con il precedente lungometraggio è tale solo in parte, poiché, come ha spiegato lo stesso regista, il vero nucleo di Uccellacci era l’ideologia, che in La Terra vista dalla Luna resta invece una sindone sfuocata, “misteriosa e imprevedibile”, avvolta dalle nebbie di uno sguardo fiabesco che trova risibile e assurdo il brancolare senza tempo dell’umanità. Dell’apologo |34| ideologico di Uccellacci e uccellini resta solo il clima generale, surreale e farsesco, generato in primo luogo dall’allegra tristezza di Totò e Ninetto Davoli, ancora una volta padre e figlio intenti a compiere un viaggio attraverso lo squallore del mondo del Dopostoria, a dimostrare l’assioma, espresso da Totò Innocenti di Uccellacci, secondo cui “i poveri passano da una morte a un’altra morte”. Il modello dichiarato dall’autore è quello “delle prime comiche di Chaplin”, che essendo “mute” dovevano contenere già nell’immagine tutta la forza espressiva di cui le didascalie, cioè le parole, non erano che una sintesi. Fu per questo motivo che l’autore non scrisse una vera e propria sceneggiatura “a parole” dell’episodio, ma ne elaborò le scene disegnandole sotto forma di fumetti. È in questa chiave di ricerca “linguistica” che il breve film, generalmente sottovalutato dalla critica, deve essere letto. La Terra vista dalla Luna, infatti, non è parte di una parentesi creativa di Pasolini, come molti all’epoca hanno sostenuto accusandolo più o meno chiaramente di formalismo, ma al contrario rappresenta il primo, graduale e consapevole passo del regista verso l’elaborazione concreta di quel “linguaggio filmico” che deve fare a meno della concettualizzazione borghese del discorso, e che non può essere compreso se affrontato con i soli parametri del “senso comune”. Risulta emblematica in questo senso anche l’epigrafe del film: “Visto dalla Luna questo film che si intitola appunto La Terra vista dalla Luna non è niente e non è stato fatto da nessuno… ma poiché siamo sulla Terra, sarà bene informare che si tratta di una fiaba scritta e diretta da certo Pier Paolo Pasolini.”; in essa viene messa in questione fin dall’inizio la sensatezza di qualsiasi esperienza umana, finanche di quella del regista, esperienza oramai ridotta ad un grottesco ed inutile viaggio attraverso una vita che non differisce in alcun modo dalla morte. In pochi, leggeri tratti, Pasolini riesce ad esprimere l’assurda condizione di solitudine e di incomunicabilità dei suoi personaggi (in cui si riflette anche la propria incomunicabilità), stravolgendone i gravami tragici attraverso un’aura comica che giunge quasi fino al cinismo esistenziale: la realtà del dolore e del disorientamento di questi individui-massa senza più amore e senza più storia, la loro intrinseca tragicità, trova la sua piena espressione in una “fine del mondo” immanente e senza senso […]. Gioco di specchi tra mondi complementari (quello della Terra e quello della Luna, quello della Vita e quello della Morte), dunque La Terra vista dalla Luna mantiene il suo margine di ideologia soltanto peritralmente, mettendo in scena le marionette di un Terzo Mondo interno all’occidente, quell’immenso mondo-periferia che è la società di massa, un Terzo Mondo culturale in cui l’inconsapevolezza dei due protagonisti aumenta l’enorme senso di morte e di tristezza che emana dalla loro vitalità ottusa, dalla loro infingarda e obbligata allegria a dispetto di tutto; un Terzo Mondo accentuato dall’ossessiva presenza di ue turisti stranieri che fotografano come “tipico” e “pittoresco” ogni angolo dello squallore in cui prende corpo questa fiaba amara dalla morale antioccidentale, questo feroce e disincantato atto di protesta contro la nuova, onnifaga società dei consumi e dell’industria culturale di massa. […] Nell’incantevole e imperscrutabile silenzio di Assurdina è riposto il senso, del tutto “muto”, della vita: il suo esistere senza aggettivi, senza definizioni, una vita che dall’esterno può essere denominata, usata, contemplata, ma del cui segreto consistere nessuno può farsi mai davvero interprete. […] Il ruolo della donna in una simile società è tale da essere pari al nulla della morte: la remissività di Assurdina che cela chissà quali cose (o forse anche il nulla) dietro al suo forzato silenzio, è nel contempo santità e ottusità, inferiorità e superiorità, rispetto alla violenta intraprendenza degli uomini della sua famiglia che pure ruotano attorno a lei per sopravvivere. Cos’è, in fondo, Assurdina? Un desiderio maschilista realizzato (la bellezza muta e disponibile), una vittima del proprio silenzio, o una “strega” come vorrebbe il titolo del film collettivo, il simbolo della moglie-madre di cui, morta o viva, in questa società non si può fare a meno? […] Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Ed. Il Castoro |35| CHE COSA SONO LE NUVOLE? SINOSSI La storia è una rivisitazione dell'Otello, recitato da un gruppo di marionette che sulla scena interpretano i ruoli shakespeariani ma che dietro le quinte si pongono delle domande sul perché fanno ciò che fanno. La rappresentazione è interrotta dal pubblico che, nel momento più drammatico, l'omicidio di Desdemona da parte di Otello, irrompe sulla scena e, disapprovando i comportamenti di lui e di Iago, li fa a pezzi. Un monnezzaro getta cantando le due marionette in una discarica, dove i due fantocci rimangono incantati a guardare le nuvole e notano la “straziante, meravigliosa bellezza del creato”. Episodio del film collettivo Capriccio all’ita- CRITICA liana Le tematiche caustiche e celatamente ideologiche di La Terra vista dalla Luna si trasformano, con Che cosa sono le nuvole?, in una ri- REGIA: Pier Paolo Pasolini flessione densamente poetica sul senso dell’esistenza, sul rap- INTERPRETI: Totò, Ninetto Davoli, Laura Betti, porto tra l’apparenza e la verità, tra l’agire e il pensare, e Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Domenico Modugno, Adriana Asti soprattutto, tra la nascita, il breve barlume di coscienza che è la SOGGETTO: Pier Paolo Pasolini vita, e la morte. Ed è proprio Pasolini, parlando dei suoi due cor- SCENEGGIATURA: Pier Paolo Pasolini tometraggi, a sostenere che ciò che li unisce, a dispetto della FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli forma “comico-picaresca” attraverso cui sono espressi, è quella MUSICA: La canzone Che cosa sono le nuche lui definisce “ideologia della morte”: la stessa ideologia, dun- vole?, di Modugno-Pasolini, è cantata da Domenico Modugno que, che era alla base della riflessione sulla religione del Vangelo, DURATA:20’ quell’ideologia immanente nel percorso umano e poetico di Pa- PAESE PRODUTTORE: Italia solini che fa corpo con l’inesplicabile mistero della vita, di quella ANNO DI PRODUZIONE: 1967 disperata vitalità che assume valore e significato solo grazie al mistero del suo avere fine. In Che cosa sono le nuvole? Pasolini fa luce sul rapporto di reciprocità tra la morte e la vita facendo ricorso ad una doppia finzione, quella della messa in scena nella messa in scena: il film è infatti la narrazione, effettuata tra le tavole di uno scarno palcoscenico teatrale, di come un gruppo di marionette pensanti, di uomini-marionette, personaggi di una beffarda e semplicistica versione grottesca della shakespeariana tragedia di Otello, manovrati dal marionettista-artigiano che li ha costruiti, reagiscono al loro obbligato destino, alla loro messa in scena sempre identica a se stessa. In questo modo Pasolini può dispiegare la realtà della finzione artistica cme se fosse (come dice a un certo punto il suo JagoTotò) “un sogno dentro un sogno”: in uno spazio vago e senza tempo, da cui si avvertono appena dei deboli segnali di un mondo esterno, diviene possibile osservare tanto l’esteriorità dell’arte, la sua apparenza, l’aspetto rivolto verso la società-pubblico (cioè la tragedia di Otello), - in altri termini , l’aspetto visibile e comunicabile di un’opera dell’immaginazione; quanto, come se il sogno dell’artista potesse vivere di vita propria, il pensiero dei personaggi e il |36| loro dubbio, l’incertezza che nasce da un’esistenza immobile, dalla ripetizione di un medesimo ruolo entro lo stesso destino che non ha mai fine, legato all’irrevocabilità delle disposizioni del marionettista: quanto, infine, l’inafferrabilità di quel “mondo esterno”, il mondo della “realtà”, che si svolge nel tempo, dove tutto è ogni volta diverso e dove tutto può cambiare. In altri termini, il mondo della vita. È come se il regista, dunque, mettesse in scena se stesso, il suo mondo interiore, quella monade artistica da cui non si esce, se non con la morte, che è l’unico atto della rivelazione del vero. Se l’arte è il tentativo di costruzione di una realtà necessaria, di qualcosa che resti oltre la singola vita, nella sua inequivocabile, straziante bellezza, che surclassa persino la “necessità” artistica, è il trionfo della gratuità, della caducità e del cambiamento, di tutto ciò che non trova spiegazione se non in se stesso: è solo la morte delle marionette, delle creature del pensiero, che di solo pensiero e di dramma tutto umano sanno nutrirsi, a rivelare improvvisamente la grandiosità dell’assenza di senso, di quell’unicità senza scopo che è l’attimo folgorante della vita. […] La vita delle marionette è nel contempo metafora della vita interiore e metafora della vita esteriore: da questo gioco ambiguo nasce la sensazione di inestricabilità del significato di questa fiaba. Il cammino delle marionette verso la coscienza, cominciato con i dubbi fuori scena dell’ingenuo Otello, si comie, con la morte, unico attimo in cui avviene la comprensione della verità, di quel tutto senza tempo e senza scopo che sovrasta le singole esistenze: come Pasolini aveva già detto nella poesia-commento del film La rabbia, “noi non siamo mai esistiti, la verità sono queste forme nella sommità dei cieli”. [...] Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Ed. Il Castoro |37| SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA SINOSSI I fatti si svolgono in due località, nella Salò dove Mussolini fece la sua ultima tappa (1944-45) e a Marzabotto dove i nazisti uccisero gli abitanti di un intero paese. Il filo conduttore è quello di De Sade: quattro "signori", fascisti di quel tempo, ma particolarmente colti, capaci di leggere Nietzsche e di citare Baudelaire, organizzano prima dei rastrellamenti e rapimenti di ragazzini e ragazzine e poi, coadiuvati da giovani militari fascisti, organizzano in una villa appartata tremende feste e infine uccidono tutti. Questi "signori" riducono a cose delle vittime umili. E ciò in una specie di "sacra rappresentazione". La vicenda si svolge nello spazio di tre giorni durante i quali le tre "narratrici" ingaggiate raccontano storie intonate alle caratteristiche dei tre diversi giorni: "cerchio delle passioni", "cerchio della merda", "cerchio del sangue". REGIA: Pier Paolo Pasolini INTERPRETI: Paolo Bonacelli, Giorgio Cataldi, Umberto Paolo Quintavalle, Aldo Valletti SOGGETTO: Donatien Alphonse (dal romanzo di François de Sade) SCENEGGIATURA: Sergio Citti, Pier Paolo Pasolini FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli MUSICA: Ennio Morricone MONTAGGIO: Nino Baragli SCENOGRAFIA: Dante Ferretti PRODUTTORE: Alberto Grimaldi DURATA:112’ PAESE PRODUTTORE: Italia, Francia ANNO DI PRODUZIONE: 1975 CRITICA Rileggendo in questi giorni L’Innocente di D’Annunzio, vi trovo un pensiero che sono tentato di applicare al Salò di Pasolini: “Ahimè, quante volte noi crediamo sentire la verità in una voce che mentisce! Nulla ci può difendere dall’inganno”. Penso alla verità dell’arte, ma anche alla trappola in cui può essere caduto il povero Pasolini e che può contenere, o non contenere, il film: così ambiguo, così sconcertante a chi non Note: sappia troppo giocare con le parole, e apportatore per tutti - Aldo Valletti è doppiato da Marco Bellocdi malessere profondo, sembrandomi il suo ultimo modo di chio e Giorgio Cataldi da Giorgio Caproni. usare l’immagine del male per condannarlo. - Pasolini fu assassinato prima che il film Mi chiedo se la ricerca della verità, che egli indubbiamente uscisse nelle sale. perseguiva con assillo furibondo, non fosse ormai guidata . - L'uscita nelle sale era prevista per il da una fantasia così ossessionata dal turpe da impedirgli di 22.11.1975 ma il film subì un sequestro prepossedere il reale. Mi sento molto vicino a quanti, suoi amici, ventivo. Uscì l’11.01.1976 ma fu sequestrato oggi si adoperano perché la sua fine appaia sotto una luce e il 30 dello stesso mese fu condannato per non ignobile. Dopo aver visto Salò, l’ipotesi che Pasolini sia oscenità e tutte le copie furono sequestrate. andato volontariamente in cerca di qualcuno che lo A febbraio 1977 fu dissequestrato ma con l’obbligo di alcuni tagli. suicidasse in uno scenario sentito come luogo canonico della desolazione mi sembra rafforzarsi. Il suo film, voglio dire, avvalora il dubbio che negli ultimi mesi Pasolini non sapesse più guardarsi da quella forma di autodistruzione, di separazione dalla realtà, di fuga dalla storia, che si esprime da un lato nella frenetica predicazione di assetti sociali utopisticamente regrediti e dall’altro nell’anarchico rifiuto dell’idea di potere, tenuto esso stesso per trionfale espressione dell’anarchia. Doveva esserci una dissociazione tragica, risolta nel delirio letterario, in un Pasolini che mentre rimpiangeva “il tempo del pane”, tornando a contemplare il mondo qual è denunciava la vocazione dei suoi protagonisti subalterni, umili e casti, a essere con la loro passività complici delle aberrazioni dei potenti, sboccando così in un nichilismo nel quale forse si esprime l’impotenza di molta cultura contemporanea a reggere la difficoltà di vivere. |38| Perché altrimenti Pasolini, col suo grande talento di artista, avrebbe scelto di ispirarsi, fra mille opere e mille esempi, a pagine della storia letteraria che per quanto possano essere interpretate come una rivolta metafisica non cessano perciò di restare un mito repellente, un rifiuto della ragione e dell’amore? Pasolini sapeva bene che l’immagine ha una concretezza sconosciuta alla parola, e che il simbolismo del marchese De Sade, una volta portato sullo schermo, non avrebbe potuto serbare la sua carica di scandalo intellettuale, ma prodotto un disagio fisico e morale in cui il fascino del male sarebbe stato maggiore del suo orrore. Se lo ha fatto, credo, è perché la nausea di sé, complice e vittima egli stesso del consumismo del sesso, lo induceva al più tetro “cupio dissolvi” che possa albergare in chi è costretto ad arrendersi dinanzi alla violenza corruttrice di quel potere che Pasolini considerava la negazione della storia e che invece è inerente alla sua stessa nozione. Perché la storia dell’umanità è la storia del potere, e viceversa. Salò trasferisce al 1944-45, nel clima della Repubblica sociale italiana, le vicende narrate nelle Centoventi giornate di Sodoma, scritte da Sade, esattamente centonovanta anni fa, in una cella della Bastiglia, e per la prima volta pubblicate, non a caso da uno psichiatra, nel 1904. Il film si apre su quattro personaggi (un’eccellenza, un presidente, un monsignore, un duca) che firmano un regolamento, da loro redatto, nel quale si prevede il cerimoniale delle pratiche cui si apprestano a dedicarsi. Di che cosa si tratti veniamo a sapere ben presto: appena rastrellati fra le campagne e sottratti a famiglie e collegi, adolescenti dei due sessi vengono raccolti in una villa, selezionati, e costretti ad assistere e partecipare ad azioni nefande, compiute su di sé e su di loro dai quattro signori e dalle guardie del corpo in divisa repubblichina. Perché l’atmosfera si scaldi, tre vecchie ruffiane d’abito e movenze eleganti (scendono scale come Wanda Osiris) raccontano a turno, accompagnate al piano da una quarta, nel corso di tre gironi intitolati alle manie, alla merda e al sangue, le maggiori perversità di cui sono state testimoni e protagoniste nel corso della vita: di un professore che si faceva masturbare dalle bambine, di un ministro che associava il piacere al culto degli indumenti carbonizzati, di un generale che amava mangiare escrementi, e via insanendo. I quattro signori, secondo il programma, ascoltano i racconti con crescente agitazione, pretendono ogni dettaglio, e sovente li interrompono per metterne in pratica i passaggi più scabrosi. Il film ci mostra così, senza veli, mani maschili che afferrano i giovani ospiti, li sbottonano, li piegano alle loro voglie, li trascinano nei cessi, coram populo li violentano, e se occorre li oltraggiano sino alla morte. Alle |39| ragazze innocenti si dà lezione su un manichino, e se taluna scoppia in lacrime la festa è più eccitante. Accade che i pranzi, serviti da giovani nude, si chiudano con brindisi sodomitici, commentati da canzoni della grande guerra, che si celebrino falsi matrimoni intervallati da dibattiti culturali, e che i giovani siano costretti a comportarsi da cani. La vetta si tocca durante un banchetto di nozze nel quale vengono servite feci umane fumanti, e tutti ne mangiano, quando si indice un concorso per il culo più bello (primo premio, la morte), e tre dei signori, travestiti da donna, sposano altrettanti ragazzi. Dopodiché bisogna punire quanti fra i giovani hanno violato la legge che proibiva rapporti fra sessi diversi. Una catena di delazioni porta i signori a scoprire che molti hanno compiuto infrazioni al regolamento. Siano dunque castigati immergendoli in un catino di sterco e sottoponendoli agli affronti più crudi. Chi sfugge al capestro, alla fiamma e alla garrota verrà accecato e scuoiato. Gli aguzzini assistono a turno allo spettacolo da lontano, muniti di cannocchiale, e la vista delle perfidie è pretesto per nuove delizie. Due danze chiudono il film: fra tre carnefici, che intrecciano un balletto da avanspettacolo, e fra due ragazzi che affettuosamente parlano di fidanzati. L’unica che non ha retto è la ruffiana pianista, gettatasi dalla finestra. Che Salò sia fedele alle Centoventi giornate, e che quindi non si debbano attribuire alla fantasia di Pasolini le sue infamie, importa poco. Nemmeno intimidisce l’operazione critica che sarà compiuta, in una bella gara di intelligenze, per affermare il valore libertario di questo catalogo di follie, con il prevedibile elogio della bellezza dell’inferno: dato ricorrente in una cultura che esorcizza la paura della propria sterilità celebrando le virtù dei porcili. Tanto meno l’accusa di non saper controllare i meccanismi moralistici indotti dalla tradizione. Ciò che sgomenta è il ricatto di cui tutti siamo vittime dinanzi a un film sul quale è quasi impossibile esprimere un giudizio che in qualche modo prescinda dalla morte violenta del suo autore, e non lo correli alla provocazione, esplicitamente cercata, di un Pasolini prigioniero del proprio ruolo in una società che digerisce ogni scandalo. Le sue intenzioni si conoscono. Egli intendeva compiere una metafora delle nequizie cui conduce il potere, quali gli sembravano esprimersi soprattutto nel rapporto sessuale sadico. In qualsiasi potere, insisteva Pasolini, c’è qualcosa di belluino, che porta al possesso dei corpi, usati come oggetti. I delitti nazifascisti nei mesi di Salò ne sono l’esempio storico piu persuasivo, ma oggi se ne ha la riprova nei crimini del consumismo. I veri anarchici sono sempre quanti manovrano le leve di comando: la storia non esiste, odio i corpi e gli organi sessuali, odio il sesso divenuto, da gioia e libertà per gli umili in epoche repressive, atroce espressione di violenza in epoche permissive. “Faccio un film perverso per protesta contro la perversione che è ormai dappertutto”. Mi chiedo questo: se la protesta non sia contro la perversione ma contro la vita stessa, se l’odio di sé non spingesse Pasolini a un supplizio autopunitivo in quel fango che a lungo era riuscito a intellettualizzare, aiutato dalle mode letterarie, ma del quale aveva misurato (anche per il complesso di colpa creatogli dal successo del cinema decameronico) l’irreparabile ribrezzo. Io non sono affatto sicuro che la ruffiana la quale si getta dalla finestra non sia il simbolo della coscienza di Pasolini. Mi sembra certo invece che il cammino della sua ricerca espressiva, volta a stilizzare la degenerazione in una specie di sacra rappresentazione del laido con elementi di sinistra comicità, sia stata frenata da ingorghi personali, dalla quasi maniacale venerazione di riti troppo vissuti o |40| sognati per potervi ironizzare senza straziarsi le carni. Lasciamo perdere l’immagine di Salò come asilo di pazzi, sebbene anche quella parentela fra il castello svizzero del Seicento in cui Sade aveva ambientato le fiabesche “Giornate” e la “Villa Triste” dei repubblichini confermi la sfiducia di Pasolini nell’analisi storica. È che gli spunti sarcastici del film, riassunti nelle barzellette idiote che i quattro signori ogni tanto si raccontano ma anche nell’irridente invito d’una ragazza a sopportare ogni ingiuria facendo un fioretto alla Madonna, sono annullati nello stupore che Pasolini, sotto l’apparenza di un occhio glaciale, prova nell’esibire le svolte del male. Il suo pessimismo giunge a inglobare le vittime, non tutte spaurite dal satanismo dei padroni. Viene il sospetto che egli abbia più odio per quei giovani corpi inermi, esposti dalla stupidità dell’innocenza a ogni oltraggio, che per i loro carnefici, strumenti d’una fatale demenza. Mai come di fronte a Salò si misura l’assurdo del crinale fra bello e brutto, buono e cattivo. Il distacco di Pasolini dalla sua terrificante materia essendo intermittente, il film ha nel contempo la sacralità d’un mistero blasfemo, narrato come un sogno mentale di assoluta coerenza, e la bassezza del cinema osceno che dell’accumulo di immondizie fa, a seconda della tollerabilità dello spettatore, un elemento stilistico o un fattore di tedio umiliante. Con molte intuizioni narrative, quali il rapporto fra la squisitezza triviale dei racconti e la matta bestialità delle azioni, le pitture “degenerate” di cui i mostri si circondano, l’uso di sfatte bellezze per le parti delle ruffiane di lusso, la musica che accompagna le orge, il silenzio delle torture finali e certe parentesi assorte, ma anche con civetterie quali la bibliografia sadiana offertaci nei titoli di testa e strappi di gusto quali l’attribuire a uno dei quattro carnefici una voce molto simile a quella di Aldo Moro, il battezzare Gentile e Missiroli alcuni campioni di sadismo, e far salutare col pugno chiuso una delle vittime. Salò è un film privo di gioia erotica, e per paradosso anche privo di volgarità, ma dove la luce dell’intelligenza di Pasolini è appannata da un’ideologia della sconfitta. Non saprei dar torto a chi, respingendo il ricatto d’una cultura che spesso si sposa allo snobismo, si dolesse di veder affidato a Salò il testamento di Pasolini. Il marchese De Sade si augurava, morendo, che la sua memoria scomparisse dallo spirito degli uomini. Forse Pasolini ha sperato che, avviato al suicidio universale, il nostro mondo traesse dal suo film il coraggio di buttarsi. Per rinascere come? Giovanni Grazzini, da AA.VV., Dedicato a Pier Paolo Pasolini, Gammalibri, Milano 1976, già in Giovanni Grazzini, Gli anni Settanta in cento film Salò e altre ipotesi - Incontro con Dacia Maraini di Giovanni R. Ricci, da: AA.VV., Dedicato a Pier Paolo Pasolini, Gammalibri, Milano 1976, già nel n. 7 della rivista letteraria «Salvo imprevisti» Roma, fine di marzo. Quaggiù è arrivata la primavera: il Tevere, pieno di luce, sembra meno inquinato del solito. Soffia un vento leggero. Fa caldo. Incontro Dacia Maraini, nel suo attico di quasi periferia, per un’intervista sulle ultime opere filmiche di Pasolini. Alberto Moravia lavora nella stanza vicina. Dalla finestra si vedono – nitidi – ampi spazi del lungofiume e un cielo di un azzurro particolare, che fa venire in mente – è una sensazione privata – certi pomeriggi di Inverness, in Scozia, o certe albe estive di Copenaghen. Parlare di Pasolini, dei suoi film, dei suoi libri significa, credo, impegnarsi su problematiche che vanno al di là dell’estetica, del formalismo letterario o visivo. Parlare e scrivere di Pasolini vuol dire calarsi nel magma politico-esistenziale di quest’Italia (quest’Europa) che ci circonda. Intanto il processo [si riferisce al processo in corso contro l’ultima opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini, Salò o le centoventi giornate di Sodoma] va avanti stravolgendo – come osserva Dacia Maraini al termine del colloquio – i ruoli effettivi, reali del carnefice e della vittima. Salò subisce, da noi, la condanna al rogo; in Francia lotta ancora coi baroni della commissione di censura; a Francoforte i bravi borghesi germanici arricciano il naso, evidentemente turbati più dal simbolismo dei cineperiodi che dal rimorso d’un retroterra storico in massimo grado colpevolizzante. Dacia Maraini è un’operatrice culturale che ama partire nel giornalismo, nella letteratura, nel teatro, nel cinema – da dati razionali, concreti, una donna che fa cultura e politica secondo una linea d’azione che niente ha da spartire coi tetri decadentismi in cui si dibattono vasti e ambigui settori della “intelligentija” romana. Discutere con lei intorno alla figura di Pier Paolo Pasolini, questo compagno di strada e di lotta costantemente attratto dal non razionale, dal non scientifico, è un’esperienza di grande interesse. Reputo giusto, e doveroso, trascrivere in modo pressoché integrale il resoconto fonografico del nostro dialogo, avvenuto a Roma tra le ore 12 e le 13 del 29 marzo 1976. |41| Inizierei col parlare di Salò. Come hai reagito tu dinanzi alla visione del film? Dice Sciascia: «I più non ne avranno che nausea e orrore: e o sentiranno l’impulso di ripagare con la violenza tanta violenza (magari sfasciando il cinema) o sentiranno tanta disperazione e dannazione da trovarsi a invocare Dio come nel film la vittima». E aggiunge di aver chiuso gli occhi alla ricerca di un buio fisico che si contrappone al buio morale erompente dallo schermo. Salò o le centoventi giornate di Sodoma è un film in certo modo sgradevole, però è anche una parabola DACIA MARAINI abbastanza chiara sulla violenza. In fondo le cose che infastidiscono sono le cose ambigue: Pasolini è invece estremamente chiaro, anche troppo, a tal punto che diviene quasi astratto, simbolico. Questa metafora sul Potere e sulla sua violenza verso gli oppressi si differenzia dal film della Cavani [Portiere di notte, ndr] che era tutto basato su un coinvolgimento della vittima dentro il male. Qui c’è un distacco nettissimo, manicheo: ci sono gli oppressi e gli oppressori, e fra di loro non si instaurano rapporti se non di brutale violenza. Forse la cosa che più colpisce non è tanto la violenza quanto la parte escrementizia: siamo abituati a vedere sia il sesso che la violenza, ma la parte escrementizia è nuova, e dà una certa impressione. Poi una cosa che dice Moravia e su cui io sono d’accordo è che il film non è sadico, perché non è fatto da una persona sadica: i film sadici sono i film americani. Sono talmente sadici da non dare più l’impressione del sadismo che – come in Mandingo e in certi film western – diviene un qualcosa di assolutamente assimilato. Salò, al contrario, è un film sul sadismo di una persona che non è affatto sadica. Pasolini a un certo punto della sua vita ripudia la trilogia Decameron-Canterbury-Oriente oppresso dalla sperimentazione quotidiana di un mondo ove anche i sensi hanno perso ogni ipotesi di felicità, di innocenza, e le stesse masse subproletarie sono omologate, standardizzate persino nell’aspetto fisico. Come mai, in che modo, in quali termini dall’apparente ottimismo della “Trilogia della vita” Pasolini perviene alla drammaticità mortuaria di Salò? Pasolini aveva seguito molto da vicino la trasformazione del sottoproletariato e ne era rimasto colpito. Bisogna dire che il sottoproletariato è lo strato sociale che è cambiato di più negli ultimi anni, passando da una specie di accettazione paesana della realtà a una presa di posizione molto violenta e brutale: i sottoproletari si sono impadroniti dei valori della borghesia portandoli alle estreme conseguenze, senza addolcimenti di alcun genere. E poiché il mondo che Pasolini conosceva meglio era appunto quello del sottoproletariato, partendo da queste considerazioni era portato a generalizzare. Qui, secondo me, lui sbagliava, perché non è vero che anche nel proletariato o negli studenti vi sia questa omologazione. Il discorso diviene anzi un po’ pericoloso, così com’è pericoloso risalire per esempio dal fatto che ci si veste in un certo modo al fatto che si pensa tutti nello stesso modo. È vero comunque che non c’e più la separazione di una volta tra mondo borghese e mondo popolare, ma questa piccoloborghesizzazione della massa è un fenomeno verificatosi ovunque. La massa oggi non è popolo ma piccola borghesia (come stile di vita), e da ciò Pasolini traeva la conseguenza che destra e sinistra si equivalgono, entrambe omologate da un certo modo di comportarsi, da una certa segnaletica. E arrivava al punto di dire che sotto il fascismo il sottoproletariato era più intatto perché l’ideologia fascista gli era imposta mentre adesso l’ideologia dominante gli viene inculcata e i sottoproletari la accettano come propria. Ecco, mi pare chiaro che Pasolini, ai tempi di Salò, volesse prendersela più col potere di oggi, distruttivo e omologante, che col fascismo repubblichino. Diceva anzi che era stata l’impossibilità di sopportare fisicamente “i beni di consumo di oggi, le facce di oggi, i capelli lunghi di oggi” a fargli proiettare la critica al Potere di oggi nell’epoca di Salò, che diventa simbolo recente eppure non storicizzato, per dirla con Argentieri «travestimento storicistico e sociologico di una angoscia esistenziale» (“Rinascita”, 28 febbraio 1975). Pasolini insomma sembrava più ossessionato da certa violenza mercificante del Potere che dai pericoli del neofascismo: era, questo di Pasolini, un atteggiamento politicamente motivato, vorrei dire oggettivo, scientifico, o non piuttosto personalistico, frutto di problemi di adattamento esistenziale integralmente soggettivi? I suoi atteggiamenti non erano mai dettati da ragioni oggettive: lui era molto soggettivo e la sua qualità consisteva appunto nel razionalizzare questa sua soggettività, questo suo irrazionalismo. E si è spesso trovato al momento giusto, nel posto giusto a creare, così, una sorta di scandalo, di rottura che aveva una sua funzione, come quando se la prese con gli studenti prima del ‘68. |42| L’erotismo. Diceva Pasolini: «I miei film non sono mai erotici, purtroppo». E a proposito di Salò: «No, neanche questo, non credo che sia erotico, può essere sconvolgente oppure non so scioccante, ma erotico no, mai, forse perché sono inibito e non so rappresentare l’erotismo in quanto erotismo... l’eros nei miei film è sempre un rapporto drammatico, metaforico» (“Il mondo”, 1 aprile 1975). In che senso l’eros pasoliniano è sempre rapporto drammatico? Anche nella “Trilogia della vita” l’eros è rapporto drammatico? In questo penso che lui avesse ragione. È vero che, così come Salò non è erotico-sensuale, anche gli altri suoi film non possono essere definiti erotici. Ed è vero che lui era inibito, che per lui l’eros era un dramma: basta pensare un momento alla sua vita, all’allontanamento dalla scuola, a tutto il resto per capirlo. La sua omosessualità, oggetto di persecuzione fin dal principio, evidentemente gli ha fatto vivere il sesso in maniera drammatica. Nella stessa “Trilogia” c’e un’idea indiretta della sessualità: la sessualità è rivista e vissuta attraverso gli occhi dei protagonisti, dei ragazzi di vita, dei giovani. È inoltre una sessualità molto letteraria e figurativa, sempre concepita come un quadro rinascimentale o come un’opera di Chaucer, di Boccaccio... È una sessualità molto raggelata, non è ricca di carica vitale, non è semplice, diretta, non lo è mai... «La vera anarchia è quella del potere». Sei d’accordo? Credo che Pasolini volesse dare alla parola “anarchia” – intesa come “disordine”, come caos un senso dispregiativo. L’anarchia in quanto fine politico è un’utopia, mentre di solito quando si parla di “realtà anarchica” ci si riferisce a una situazione negativa di confusione estrema. Penso che lui intendesse dire questo: è la condanna del Potere come legge del più forte. Naturalmente sono d’accordo. Ha scritto Leonardo Sciascia, a proposito dell’atteggiamento di Pasolini nei confronti del marxismo: «[...] Si potrebbe azzardare una specie di ipotesi di lavoro: che certe verità dette da Pasolini – sul capitalismo, sul comunismo, sulla violenza, sulla classe dirigente italiana (cioè non-dirigente), sull’istruzione pubblica fossero marxiste in quanto verità, per la capacità e mobilità del marxismo e far propria ogni verità [...] e non lo fossero per estrazione, per adesione, per meditazione» (“Rinascita”, 12 dicembre 1975). Qual è la tua opinione in merito? avanti i discorsi che lo interessavano con grande slancio e grande coraggio. Questo ha un’importanza enorme, perché il nostro è un paese poco coraggioso in cui gli intellettuali non parlano chiaro e il linguaggio è estremamente ermetico. In questo mondo letterario così estetizzante lui estetizzava in maniera clamorosa, violenta, ammirevole. Io credo che lui si sia espresso in modo completo soprattutto nelle poesie, più che nel cinema: per me le poesie sono il massimo che ci ha dato. Nelle poesie riusciva a fondere le preoccupazioni esistenziali private con il momento pubblico, con l’apertura verso la realtà politica. Anche perché forse la poesia si serve di strumenti irrazionali, non ha bisogno di una struttura rigida come il cinema o il romanzo. Come si poneva Pasolini in rapporto con le strutture economiche della produzione cinematografica tradizionale e capitalistica? E in che rapporto era coi circuiti del ci-nema cooperativistico e alternativo? Grimaldi, mi pare, è un altoborghese piuttosto illuminato, mentre d’altra parte abbiamo avuto Visconti che ha lavorato per Rusconi... Non c’è dubbio che oggi, è inutile nascondere la testa sotto la sabbia, l’artista, l’uomo di cinema lavorano con capitali borghesi: non è che ci siano molte scelte. I giornali, le case editrici, tutto appartiene al capitalismo, appartiene alla borghesia. I circuiti alternativi, sia quelli del cinema che quelli della letteratura, sono talmente embrionali e minimi che servirsene per un discorso un po’ allargato risulta quasi impossibile. Ogni tanto ci si lavora, ma certamente non possono essere questi gli unici canali a disposizione degli autori. E anche vero però che, all’interno di questa non-scelta, sussiste una differenza profonda: c’è come dicevi giustamente, Rusconi, che porta avanti una politica di conservazione, di oscurantismo, e ci sono altre produzioni che invece, se non altro, si avvicinano a tematiche più moderne, più interessanti: che poi lo facciano per ragioni economiche e non certamente politiche non importa poi molto, si sa, è ovvio. E in questo senso credo che Pasolini non avrebbe fatto un film per Rusconi. Mi pare di ricordare, ne abbiamo parlato a volte, che lui criticasse Rusconi. Quelle di Pasolini non sono tanto delle posizioni marxiste quanto piuttosto delle rotture. E in questo senso era più un cristiano, cioè era per lo scandalo nei confronti del mondo borghese, del Potere dominante. Sebbene non fosse sempre disposto a vedere la verità, era un uomo sincero, onesto, coraggioso e mai opportunista: rischiava spesso di andare contro l’opinione pubblica, di essere aggredito, attaccato, criticato... Non aveva niente a che vedere con quei letterati che si nascondono dietro le formule. Portava |43| Sembra esistere, seppure non negli ultimi tempi, anche un Pasolini che storicizza, che avvicinandosi dall’esterno tocca i confini espressivi del reportage, che guarda con qualche interesse al cinema-verità, magari al film d’intervento. Pensiamo agli Appunti per un film sull’India, a La rabbia (con quei brani di cinegiornali della fine degli anni Cinquanta rimontati da Pasolini: la guerra in Algeria, Papa Giovanni...). Pensiamo ai Sopralluoghi in Palestina (del ‘64) per il futuro Vangelo secondo Matteo, e a un filone come Comizi d’amore (in cui, sempre nel ‘64, Pasolini volle mettere insieme una serie d’interviste sui tabù sessuali degli italiani). E la collaborazione a 12 Dicembre di Bonfanti, e l’Orestiade africana girata in 16 millimetri... Pensi si tratti di filoni secondari? Viene da chiedersi se questi film abbiano qualche legame con l’altro cinema di Pasolini... Penso che Pasolini sentisse il bisogno, come credo succeda a tutti i registi che lavorano nel mondo cinematografico ufficiale, di intervenire in canali e in produzioni di tipo alternativo. E certamente qualcosa ha fatto: non molto, perché il tempo che gli portava via il cinema diciamo così costoso, ufficiale, era quasi tutto il tempo che lui aveva a disposizione. L’opera secondo me più riuscita è senz’altro gli Appunti per una Orestiade africana che ho visto recentemente in Spagna dove hanno fatto una proiezione, un dibattito su questo film e su di lui. Pasolini l’aveva girato per la televisione italiana e la televisione non l’ha mai messo in onda: quindi vedi che anche lavorare per canali non commerciali diventa un problema. Io per esempio devo fare un documentario sulle donne in un villaggio africano, il progetto è stato discusso e approvato ma sta lì da due anni, non riesco a iniziare i lavori. Sono sicura che il giorno in cui magari ho la possibilità di ultimarlo resta poi in un cassetto. È estremamente frustrante per un autore lavorare fuori dal cinema commerciale perché le sue opere o hanno scarsissima diffusione oppure, come nel caso del denaro pub-blico, finiscono con l’essere messe da parte. Ha scritto Moravia: «Si dovrebbe dire che Pasolini forse si sentì impacciato dalle parole e allora ricorse all’immagine che, per essere nuova per lui, dovette sembrargli, almeno per un certo tempo, più libera, più vergine, più espressiva» (“Corriere della Sera”, 6 dicembre 1975). Una tua opinione in proposito, e anche una tua posizione personale sul tema del rapporto parola-immagine. Pasolini certamente era una persona irrequieta e aveva il bisogno di provare sempre cose nuove. In questo senso credo che abbia ragione Moravia: Pasolini sentiva la limitatezza della parola (limitatezza come diffusione), soprattutto perché lui era poeta, scriveva soprattutto poesie e le poesie, si sa, hanno pochissima diffusione: il nostro è un mondo che in un certo senso rifiuta la poesia. Quindi Pasolini voleva parlare a un maggior numero di persone e non c’è dubbio che il cinema è il linguaggio più comune, che si diffonde meglio, che non ha bisogno di traduzione, che si può trasferire in altri paesi: c’è un senso di grande libertà a lavorare col cinema. Quanto al mio caso personale esiste una certa affinità di posizioni, anche se io mi muovo in un campo diverso dal suo, perché il cinema che io faccio è un cinema alternativo, un cinema d’intervento politico, ho fatto una cosa sull’aborto, faccio cose sui problemi delle donne... Per me il cinema e il giornalismo, due armi che io uso per intervenire pubblicamente, sono in effetti strumenti molto efficaci e immediati: i prodotti del cinema e del giornalismo possono circolare in tutti gli ambienti, hanno una capacità di intervento sulla realtà, di avvicinamento al problema che la letteratura è un po’ più difficile abbia. Qualche tema meno generale. Come vedi, all’interno di Salò e dei film precedenti, i rapporti tra Pasolini e la religione cattolica? Si può cogliere una certa intuizione del peccato, un certo interesse per il cristianesimo... Proprio per il suo carattere in fondo irrazionale Pasolini era abbastanza influenzato da fenomeni come il cattolicesimo, che razionalmente rifiutava ma che sentimentalmente subiva. E questo si ritrova, credo, in tutti i suoi film. Il suo è un tipico rapporto sentimentale con la religione: perché lui non era religioso. La religione diveniva un fatto irrazionale, emotivo... Sì, una religione irrazionale, mistica, emotiva e anche rituale. È molto importante il momento rituale. Non so se tu hai visto La ricotta: ne La ricotta, e anche nel Vangelo, c’è un rapporto sentimentale con Cristo. Addirittura di identificazione. Non solo, ma lui dà il Vangelo come se fosse vero, non lo discute, non lo storicizza: lo illustra, mettendoci dentro una carica di identificazione sentimentale e personale. E in questo torno a quello che dicevo prima: Pasolini, pur nella sua grande |44| capacità intellettuale, aveva con la realtà un rapporto fuori da moduli razionali. Pasolini e il femminismo. Pasolini e l’immagine (filmica) della donna. A me personalmente sembra che la posizione di Pasolini nei confronti della donna fosse abbastanza contestabile. A questo proposito, più che ai film di Pasolini, penso sempre a una pellicola di cui Pasolini ha fatto la sceneggiatura, le Storie scellerate di Citti, in cui mi pare vi sia un’immagine della donna oggettualizzata al massimo... Perché Pasolini dava quest’immagine della donna se la sua concezione del mondo era totalmente, innegabilmente democratica? Il rapporto di Pasolini con le donne passa attraverso il rapporto di Pasolini con la madre, perché è l’unico rapporto in cui è andato a fondo. Pasolini aveva pochissimi rapporti con le donne, soprattutto non aveva mai avuto un rapporto sentimentale, che è sempre un modo di capire le persone: amare una persone vuol dire capirla. Ora, l’unica donna che lui ha amato è la madre. Quindi in un certo senso lui ha cercato di vedere il mondo attraverso gli occhi della madre e attraverso quello che per lui rappresentava questa madre. Infatti, quando aveva un certo sentimento di amicizia con una donna, spesso la vedeva come una madre: è successo nel caso della Laura Betti, è successo nel caso della Elsa Morante. E, anche se io ero più giovane di lui, c’era un po’ anche con me questo tipo di rapporto. Quindi, non amando le donne, non le conosceva, non le capiva, e anche era portato per una specie di vezzo sentimentale a vederle attraverso gli occhi dei suoi ragazzi. E spesso parlava delle donne, non tanto delle donne intelligenti che lui conosceva e che stimava, ma delle ragazze, come ne parlerebbe un ragazzo di borgata, cioè con grande familiarità ma anche con molto disprezzo, con disinteresse. Il fatto di generalizzare, il fatto di non vedere le donne nella loro realtà lo ha poi portato, per esempio, a prendere una posizione così negativa nei riguardi dell’aborto. Sul “Corriere” ha scritto, e gliel’ho fatto notare, un lungo articolo contro l’aborto senza mai riflettere un momento che è la donna a subire l’aborto: lui ha visto tutto dal punto di vista di questo bambino ancora non nato, potenziale uomo, naturalmente maschio. Dunque ha sùbito colto il rapporto madre-figlio e l’aborto gli ha ripugnato profondamente perché ha visto una negazione di se stesso come figlio e una violenza da parte della madre. Senza pensare che invece la violenza prima è quella subita dalla donna. Questo non gli veniva neanche in mente, infatti quando a un certo punto gli ho detto: ma scusa, tu hai scritto un lungo articolo in cui sembra che la donna non esista, che l’aborto venga fatto non si sa da chi, che sia un atto meccanico, lui ha ribattuto: sì, forse è vero, non ci ho pensato, ho pensato soltanto alle ragioni del figlio immaginario, di questo figlio che deve ancora nascere. E questo è abbastanza indicativo: Pasolini vedeva un mondo con uomini reali e donne irreali. Così in certi momenti intuiva le donne come immagini della madre, in altri momenti le vedeva attraverso gli occhi dei ragazzi che amava, in altri momenti ancora le concepiva come figure poetiche e molto astratte. Non riusciva mai a vederle nella loro realtà, in maniera problematica. Vorrei sapere quale tra i film di Pasolini tu ami di più, per motivazioni estetiche o ideologiche o di altro genere. Uno dei film che amo di più è Accattone, poi Teorema, anche perché forse in Teorema ci sono due personaggi di donna che per la prima volta Pasolini prende abbastanza stranamente sul serio: il personaggio (interpretato da Laura Betti) della serva che finisce santa, martire, e il personaggio della moglie dell’industriale, che tenta di afferrare il mondo, di dare un senso al mondo attraverso un tipo di erotismo cieco ma non femminile come tradizione storica. Concluderei, se sei d’accordo, con qualche ricordo della tua collaborazione cinematografica e culturale con Pasolini. Il lavoro più impegnativo che ho fatto con lui è stata la sceneggiatura de Il fiore delle Mille e una notte. Pasolini aveva molta fretta perché la sceneggiatura doveva essere pronta entro un mese: è stato molto faticoso. E stranamente abbiamo lavorato in parallelo, cioè io ho fatto una metà, lui ha fatto l’altra metà, poi ci incontravamo la sera a vedere il lavoro reciproco, che – per quanto mi riguarda – lui ha modificato abbastanza durante la lavorazione del film. Infatti l’ho rimproverato di aver introdotto qualche modifica alle figure femminili, che io avevo cercato di rendere più dal punto di vista della donna e che lui non ha potuto fare a meno all’ultimo di cambiare. Poi, per esempio, gli ho molto rimproverato quella scena, non so se ti ricordi, della freccia, che io ho trovato bruttissima, anzi molto offensiva. Secondo me non è neanche un’idea sua ma dello scenografo perché è un’idea, così... quasi da barzelletta, no? Ecco, per il resto c’erano degli elementi meno oggettuali del solito nei riguardi delle donne. Fra gli ultimi film probabilmente è il meno antifemminista. Il meno antifemminista, sì. Forse si sente un po’ la mia mano, anche se in seguito appunto molte cose sono state cambiate. Comunque questo è il mio lavoro più impegnativo con Pasolini. Poi abbiamo fatto insieme alcun doppiaggi, alcuni – diciamo – adattamenti: Sweet movie, Trash... In realtà il lavoro di tipo pratico lo facevo io, perché lui non aveva tempo. Però mi aiutava a scegliere le voci, mi aiutava a scegliere i personaggi, e poi correggevamo insieme i dialoghi... Cioè avete fatto la traduzione e curato la parte tecnica.. . E curato il doppiaggio, sì, che è riuscito piuttosto bene proprio perché abbiamo compiuto una scelta scrupolosa delle voci, che non erano quelle del |45| mercato italiano ha rifiutato decisamente qualsiasi forma di film con sottotitoli. Adesso forse le cose stanno cambiando. Allora, comunque, noi abbiamo tentato di realizzare un doppiaggio che fosse più umano, un doppiaggio nel quale gli attori fossero consapevoli di ciò che facevano, conoscessero il film, venissero scelti perché veramente adatti a quella parte e non soltanto in base a opportunità di mestiere. Tutto questo con una calma, una attenzione che di solito non si usa. PASOLINI FRA MORAVIA E DACIA MARAINI doppiaggio tradizionale, ripugnanti per la loro meccanicità. Abbiamo cercato al contrario delle voci che dessero l’idea di un qualcosa di autentico, di genuino, di umano, ecco... Le voci originali... Nel caso di Trash si trattava d’una presa diretta, quindi le voci inglesi non erano affatto convenzionali. Mi riferisco alla convenzione del doppiaggio italiano che viene fatto in 56 giorni mentre gli attori non sanno che cosa vanno a doppiare: il massimo dell’alienazione. Il doppiaggio in Italia avviene così, no? Si chiama un attore, di solito perché partecipa a una certa cooperativa, e dunque spesso neanche adatto al personaggio, viene messo davanti a un testo che non conosce, vede soltanto quei brani che lo riguardano, doppia rapidissimamente – con uno stile ormai meccanico – la sua parte e poi se ne va, prende i soldi, e basta. Noi in realtà eravamo contrari al doppiaggio, ma nel mercato italiano è molto difficile sfuggire... Tu sei favorevole ai sottotitoli... Sarei per i sottotitoli, contro il doppiaggio, naturalmente, e anche Pasolini lo era, perché trovo che la lingua originale è molto più efficace. Però finora il Siamo al termine dell’intervista. Non so, se vuoi aggiungere qualcosa... Io vorrei adesso semplicemente dire una cosa che credo sia bene dire: anche se qui parliamo di tutt’altro, delle sue opere, dei suoi film, non bisogna dimenticare che è importantissimo oggi prendere posizione per far capire che non bisogna ucciderlo un’altra volta. Secondo me Pasolini è stato ucciso dall’intolleranza della nostra società profondamente repressiva, falsamente tollerante. E adesso si rischia di ucciderlo un’altra volta, proprio per intolleranza, perché in un certo senso questo ragazzo che l’ha ucciso sta diventando la vittima e lui il colpevole. Questo non deve accadere, bisogna prendere posizione contro ciò che hanno scritto, non so, Filippini su “Repubblica”, e altri. Questa società ha eliminato Pasolini, per mano di quello che vuoi, di un ragazzo inconsapevole, incosciente, immaturo, però oggi sta cercando di eliminarlo di nuovo facendone un colpevole, mentre basta rifiettere un attimo su quello che è stato fatto di questo povero corpo di uomo mite (perché era assolutamente un uomo mite, non sadico) per capire che non può assolutamente passare dalla parte dei colpevoli: la sua unica «colpa» era quella di essere dichiaratamente omosessuale. |46| Approfondimento LA MUSICA NEI FILM DI PIER PAOLO PASOLINI CON QUALCHE CENNO RIGUARDANTE ANCHE ALCUNE SCELTE PITTORICHE DEL POETA-REGISTA di Angela Molteni, da www.pierpaolopasolini.eu E finalmente arrivò il suono... Affiancare un commento sonoro alla proiezione di pellicole cinematografiche fu un evento che ebbe i natali contemporaneamente all’avvento della stessa arte cinematografica. Ma come!? – si obietterà – se fino alla seconda metà degli anni Venti si produssero e si proiettarono nelle sale solo film muti? Ebbene: mai come in questo genere di film l’accompagnamento musicale si rivela indispensabile. Proiettare un film muto a un pubblico senza un tale accompagnamento sarebbe come rappresentare un balletto escludendo l’orchestra (o anche solo uno strumento che fosse in grado di eseguire, per esempio, una melodia con il suo bravo accompagnamento in tre quarti). Se questa tesi non è convincente, provate a visionare un film muto senza alcun accompagnamento sonoro: vi sentirete irrimediabilmente condannati ad una forzata, sgradevole, insopportabile sordità; non solo: il film muto provocherà in voi una strana e indecifrabile sensazione di angoscia che nessun valido elemento estetico della pellicola sarà in grado di neutralizzare. Chi ha visto, per esempio, il film di Milos Foreman Amadeus sa esattamente di che cosa sto parlando. Riassumo brevemente: il sovrintendente dei compositori, “concorrente” di Mozart alla Corte dell’imperatore d’Austria Giuseppe II, impedì, allo scopo di boicottare il giovane compositore salisburghese, l’esecuzione di musica da ballo all’interno dell’opera teatrale che era in fase di allestimento. Mozart in quei giorni stava lavorando alle prove di Nozze di Figaro e per tale opera aveva tra l’altro composto un balletto: dovette subire l’imposizione del sovrintendente. Lasciò inalterati interpreti e scenario (i ballerini eseguivano quindi sul palcoscenico passi di danza) e fece contemporaneamente tacere l’orchestra. L’imperatore, invitato ad assistere alla prova generale, protestò vivacemente per l’incongruenza e l’insensatezza di quanto stava vedendo e, ottenutene spiegazioni dallo stesso Mozart, ordinò che la musica fosse immediatamente “reintegrata”. A Parigi, dal 1886, il Cabaret du Chat Noir divenne il luogo deputato alla proiezione di immagini animate, accompagnate da un pianoforte sulla cui tastiera si avvicendarono anche le mani illustri di Eric Satie e di Claude Debussy. Nel 1892 Émile Reynaud presentò al pubblico del Musée Grevin il suo “Théâtre-Optique”, dotato di alcune “pantomime luminose” in cui cani, clown, acrobati e cavallerizze si muovevano al ritmo di un’orchestrina, creando le premesse della sincronizzazione. Dalla preistoria alla storia: i manifesti che pubblicizzavano le “sedute” del Cinématographe Lumière al Grand Café del Boulevard des Capucines riportavano il nome della maison du piano nonché quello del pianista-compositore. Il più delle volte i pianisti si sedevano a fianco dello schermo e suonavano, improvvisando i brani a seconda del carattere delle scene. In Unione Sovietica, nel 1928, Sergej Ejzenstejn – il primo grande “cineasta” della Federazione delle Repubbliche Socialiste (Pasolini amò profondamente il cinema di Ejzenstejn, insieme a quello di Charlie Chaplin) – progettò l’introduzione in Urss del cinema sonoro. Il 20 luglio di quell’anno il regista e due suoi colleghi, Grigorij Aleksandrov e Vsevolod Pudovkin, pubblicarono un documento che passerà alla storia del cinema come il manifesto dell’asincronismo, i cui presupposti teorici sono: - dare priorità assoluta, in termini di importanza, al montaggio quale “mezzo fondamentale e unico, in virtù del quale il cinema ha raggiunto un alto livello espressivo”; - evitare di dare vita a una “produzione pseudoletteraria con rinnovati tentativi d’invasione teatrale”; - orientare la realizzazione di pellicole sonore a una “non coincidenza tra immagine visiva e immagine sonora: questo sistema”, sostenevano i registi, “porterà alla creazione di un nuovo contrappunto orchestrale”. Dagli anni Venti in poi, dunque, in Europa, e soprattutto in Unione Sovietica e in Francia, il cinema ricorse frequentemente a musicisti che raggiunsero grande fama non solo per le rispettive collaborazioni cinematografiche, quali: Sergej |47| Prokofiev (la cui musica fu congeniale proprio al cinema di Ejzenstejn), Juri Šaporin, Aram Cachaturian, Lev Švarz, Gavril Popov, Isaak Dunaevskij, Dmitrij Šostakovich in Urss; Maurice Jaubert, Georges Auric, Jacques Ibert, Darius Milhaud, Arthur Honegger in Francia. Un cenno particolare su Prokofiev: scrisse per Ejzenstejn le musiche per Aleksandr Nevskij, Ivan il Terribile, La congiura dei Boiardi. “Come credete che un normale musicista scriverebbe un pezzo per paesaggi autunnali?”, dirà il regista, nel 1946, durante una lezione di cinema. “Prenderà lo stormire delle foglie, poi passerà qualche venticello, una certa trepidazione. Prokofiev, invece, parte da una percezione molto complessa dell’immagine visiva. Per lui anche le diverse sfumature di colore giocano un ruolo nel passaggio all’immagine musicale. Qualsiasi musicista è capace di trasporre in musica uno stormire di foglie. Ma per tradurre il ritmo della tonalità di giallo dall’inquadratura nella corrispondente tonalità musicale, ci vuole ben altro talento [...] Quando noi registi abbiamo, per esempio, una fortezza in campo, non ci limitiamo a riprenderla di fronte, ma facciamo altrettanto con la torre, con le entrate eccetera, e dalla composizione delle diverse prospettive risulta infine una immagine globale. Allo stesso modo lavora con la musica Prokofiev (1)”. Tutto ciò significa, oltretutto, che la musica non deve essere mai al servizio del cinema e viceversa. Infatti, sono entrambe espressioni artistiche che utilizzano linguaggi non verbali e che tuttavia sono assolutamente differenti e agiscono in modo diverso e indipendente sulla percezione. Scriverà Pasolini: “I valori che essa [la musica] aggiunge ai valori ritmici del montaggio sono in realtà indefinibili, perché essi trascendono il cinema, e riconducono il cinema alla realtà, dove la fonte dei suoni ha appunto una profondità reale, e non illusoria come nello schermo.(2) . Primi approcci di Pier Paolo Pasolini alla musica e alle arti figurative Nel corso della seconda guerra mondiale, Pasolini – studente-laureando a Bologna – si recava sempre più di frequente a Casarsa, luogo di origine della madre, dove soggiornava spesso e per lunghi periodi, e dove aveva molti amici. Nei primi mesi del 1943 la cerchia degli amici si ampliò, con l’arrivo a Casarsa di una violinista slovena, Pina Kalc, rifugiatasi in casa di parenti a seguito delle vicende belliche. E, mentre gli accadimenti di quella terribile guerra disperderanno gli altri amici, Pina, rimasta sola, si dedicherà al tentativo di instaurare con Pier Paolo un’amicizia esclusiva. Di lei, Pasolini scriverà: . “[...] La conobbi nel febbraio del ’43. Subito dopo mi divenne necessaria per il suo violino(3); mi suonò dapprima il moto perpetuo di Janácek che divenne quasi un motivo del nostro incontro, e si ripeté in molte occasioni. La ricordo perfettamente nell’atto di suonarlo, con la gonna blu e la camicetta bianca. Ma presto cominciò a farmi udire Bach: erano le sei sonate per violino solo,(4) su cui emergevano, ad altezze disperate, la Ciaccona e il Preludio della III; il Siciliano della I. Le centinaia di sere che abbiamo trascorso insieme, dal ’43 all’estate del ’45 quando, finita la guerra ripartì per la Jugoslavia, mi danno la solita disperazione dell’inesprimibile, del troppo unico; tuttavia resta la musica come qualcosa di solido, di avvenuto senza equivoco e che riassume tutta la nostra tempestosa amicizia [...]” (5) Nei momenti di calma, in assenza delle incursioni aeree con allarmi che si ripetevano di giorno e di notte, Pina andava ogni giorno in casa Pasolini e dava lezioni di violino a Pier Paolo. Dopo le lezioni eseguivano insieme qualche duetto portato a termine con visibile emozione. Infine Pina suonava da sola Bach. “Era soprattutto il Siciliano che mi interessava”, narra Pasolini, “perché gli avevo dato un contenuto, e ogni volta che lo riudivo mi metteva con la sua tenerezza e il suo strazio, davanti a quel contenuto: una lotta cantata impassibilmente tra la Carne e il Cielo, tra alcune note basse, velate, calde, e alcune note stridule, terse astratte. Come parteggiavo per la Carne! Come mi sentivo rubare il cuore per quelle sei note, che per un’ingenua sovrapposizione di immagini, immaginavo cantate da un giovanetto siciliano dal petto bronzeo e ardente. E come invece sentivo di rifiutarmi alle note celesti!”(6) . Nel 1944, Pasolini scriverà uno Studio sulle sonate di Bach con molti paragoni letterari, quasi una ricerca di equivalenti, come, per esempio, alcuni passaggi musicali di una sonata e alcuni versi poetici. Frattanto, all’Università di Bologna – ove Pasolini otterrà la laurea con lode discutendo la |48| tesi Antologia della lirica pascoliana: introduzione e commenti(7) – le lezioni di storia dell’arte medievale e moderna sono tenute da Roberto Longhi(8); nel 1941 Longhi tiene i corsi “Sui fatti di Masolino e Masaccio”. Pasolini li frequenta con entusiasmo. La formazione di Pasolini, avvenuta alla scuola di un grande storico dell’arte quale fu appunto Longhi, gli permetterà non solo di costruire con grande gusto figurativo le inquadrature dei suoi film, ma anche di orientare il suo stesso pensiero. Longhi affermava, per esempio, che nei quadri di Caravaggio gli apostoli e i santi sono rappresentati da personaggi umili, dei ceti popolari; allo stesso modo Pasolini dichiarerà di avere scoperto che nel mondo della piccola delinquenza e dei ragazzi di strada, nel mondo del sottoproletariato, ci sono effettivamente dei “santi”. Oltre alla pittura, Longhi amava il cinema (andrà a Parigi appositamente per vedere La grande illusione di Jean Renoir e Il grande dittatore di Chaplin) e trasmetteva ai giovani allievi anche il “gusto” per la nascente arte cinematografica. Longhi, infine, oltre ad avere avuto, per quanto riguarda le arti figurative, molta influenza sulla formazione di Pasolini, rimarrà suo “consigliere” e critico quando il Poeta affronterà le sue opere cinematografiche. Nei suoi soggiorni a Casarsa, Pasolini frequenta spesso una sala cinematografica di San Vito al Tagliamento: proprio in occasione di una della sue puntate al cinema incontra un giovane pittore, Federico De Rocco. Vanno a dipingere insieme e Pasolini viene introdotto alle tecniche pittoriche: dipinge paesaggi “alla De Pisis”, sentendo di accingersi a conquistare un suo stile e una sua tavolozza. “I quadri appena terminati vanno a riempire le pareti del ‘camerone’ e quell’estate sono più di una dozzina. Quadri e poesie nascono sugli stessi fondali friulani”.(9) Più avanti, Pasolini stringerà stretti rapporti di amicizia con un altro pittore, Giuseppe Zigaina, con il quale rimarrà in contatto per tutta la vita e che sarà chiamato in qualche caso anche ad avere un ruolo nei suoi film. Giungeranno presto, per Pasolini, gli anni dell’insegnamento nella piccola scuola organizzata nella sua stessa abitazione (“il camerone” di cui parla il cugino Nico Naldini) in Friuli, delle prime pubblicazioni poetiche, e poi della fuga da Casarsa, con la madre Susanna, destinazione Roma, dopo la denuncia per atti osceni e corruzione di minorenni dell’ottobre 1949. Vera e propria vittima di persecuzioni dovute a quegli inestirpabili pregiudizi che tendevano, e tendono, a emarginare quando non a criminalizzare chi era, ed è, diverso – ho proprio l’impressione che ben poco sia mutato a oltre vent’anni di distanza dalla tragica scomparsa del Poeta – tale denuncia fu la prima di una lunga serie di vicende giudiziarie che costituiranno per Pasolini un vero e proprio calvario. A Roma, dopo alterne vicende, dapprima di miseria e di umile lavoro come insegnante in una scuola privata, quindi di lenta e progressiva affermazione, come scrittore prima, come regista cinematografico poi, Pasolini chiuderà definitivamente il violino nell’astuccio, ma gli rimarrà nel cuore “la musica come qualcosa di solido”, e di ciò si rintracceranno agevolmente i segnali significativi nelle scelte musicali “istintive” che costituiranno una parte non secondaria della sua opera cinematografica. Continuerà invece ad usare tele e pennelli: infatti, durante la lavorazione dei suoi film, spesso Pasolini utilizzerà disegni e schizzi, soprattutto per indicare la disposizione dei personaggi e degli elementi paesaggistici nelle inquadrature. 1961, l’anno di Accattone Dopo alcune collaborazioni alle sceneggiature di film diretti da registi già affermati, quali Soldati, Fellini, Bertolucci e altri, Pasolini inizia la lavorazione della prima pellicola cinematografica con un soggetto da lui scritto e diretto: Accattone. “Accingendosi a realizzare il suo primo film Pasolini ha idee ben chiare per quanto riguarda la musica che avrebbe adoperato. È convinto – come regola generale a cui rimarrà sostanzialmente fedele, sia pure con qualche eccezione – che è preferibile usare musica di repertorio (cioè brani classici o leggeri di autori noti) piuttosto che farla espressamente comporre. Questo perché, secondo Pasolini, è più efficace una buona musica già collaudata piuttosto che una mediocre partitura che, il più delle volte, è un cattivo rifacimento di temi e motivi già noti.”(10) Elsa Morante, l’amica più cara in quei giorni, ha una ricca collezione di dischi che sarà da allora in poi una preziosa miniera cui Pasolini farà ricorso per realizzare il commento musicale dei suoi film. In Accattone il commento musicale è costituito in gran parte da brani di Johann Sebastian Bach; vi è poi l’utilizzo di canzoni popolari e di stornelli con testi parodiati e una scena in cui esplode, |49| bellissimo, il blues di William Primrose St James Infirmary. Scrive Pasolini: “La Passione secondo Matteo di Bach, nel momento della rissa di Accattone, assume questa funzione estetica. Si produce una sorta di contaminazione fra la bruttezza, la violenza della situazione, e il sublime musicale. È l’amalgama (il magma) del sublime e del comico di cui parla Auerbach(11) [...] La musica si rivolge allo spettatore e lo mette in guardia, gli fa capire che non si trova di fronte a una rissa di stile neorealista, folklorica, bensì a una lotta epica che sbocca nel sacro, nel religioso [...] Io sentivo, sapevo, che dentro questa degradazione c’era qualcosa di sacro, qualcosa di religioso in senso vago e generale della parola, e allora questo aggettivo, ‘sacro’, l’ho aggiunto con la musica. Ho detto cioè che la degradazione di Accattone è, sì, una degradazione, ma una degradazione in qualche modo sacra, e Bach mi è servito a far capire ai vasti pubblici queste mie intenzioni(12)”. Il Coro finale della Passione secondo Matteo viene inserito dal regista sia nella scena sopra ricordata sia nelle ultime inquadrature del film, quando si compie il tragico destino di Accattone e sopravviene la morte, unica vera libertà concessa dalla società a uomini “privi di dignità” che ignorano (come Accattone) o rifiutano (come Pasolini) le leggi della “ragione dominante”. Sempre in Accattone, il secondo movimento del Concerto brandeburghese n. 2 di Bach viene utilizzato per creare forte contrasto nei confronti delle immagini che frattanto scorrono sullo schermo, quelle cioè in cui la prostituta Maddalena viene malmenata nella radura dell’Acqua Santa dai ragazzi di vita amici del suo sfruttatore. E Pasolini chiarisce: [...] Questo aver contaminato una musica coltissima, raffinata come quella di Bach con queste immagini, corrisponde nei romanzi all’unire insieme il dialetto, il gergo della borgata, con un linguaggio letterario che per me è di derivazione proustiana o joissiana. È l’ultimo elemento di questa contaminazione che rimane così un po’ esteriore nel film. Quanto alla scelta, è una scelta molto irrazionale, perché prima ancora di pensare ad Accattone quando pensavo genericamente di fare un film, pensavo che non avrei potuto commentarlo altrimenti che con la musica di Bach: un po’ perché è l’autore che amo di più; e un po’ perché per me la musica di Bach è la musica a sé, la musica in assoluto [...] Quando pensavo ad un commento musicale, pensavo sempre a Bach, irrazionalmente, e cosi’ ho mantenuto, un po’ irrazionalmente, questa predilezione iniziale”.(13) Anche la formazione pittorica di Pasolini entra in gioco, a partire da Accattone: “Come modello formale pensa alla grande tradizione pittorica italiana del Tre-Quattrocento, a Giotto, a Masaccio e quindi all’esigenza di rappresentare i suoi personaggi frontalmente, fortemente chiaroscurati, statuari”. E, riguardo al luogo prescelto per le ultime inquadrature del film, Pasolini scriverà: “[...] era soprattutto su Olevano [una località del sud del Lazio] che puntavo, come luogo dipinto da Corot. Ricordavo le sue montagne leggere e sfumate, campite come tanti riquadri di sublime, aerea garza contro un cielo del loro stesso colore.”(14) Nei primi giorni di aprile 1962 hanno inizio le riprese di Mamma Roma in un prato di Cecafumo alla periferia di Roma, sparso di ruderi antichi e limitato da una cintura di enormi caseggiati bianchi. In questo film Pasolini ha scelto di commentare alcune scene utilizzando musica di Vivaldi, ritenendola conosciuta, familiare al grande pubblico. In P.P. Pasolini, Per il cinema, Milano, Mondadori, 2001 la filmografia contenuta nel Tomo secondo relativa al film Mamma Roma riporta le seguenti indicazioni: Musica: Antonio Vivaldi: Largo in mi minore dal Concerto RV 443; Larghetto in sol minore dal Concerto RV 481; Largo in fa maggiore dal Concerto RV 540 - P 266. Sulla scelta del protagonista, Ettore, dirà Pasolini: “Ho visto Ettore Garofalo mentre stava lavorando come cameriere in un ristorante dove una sera ero andato a mangiare, [...], esattamente come l’ho rappresentato nel film, con un vassoio di frutta sulle mani come la figura di un quadro di Caravaggio”. Ancora dal punto di vista pittorico, la scena iniziale del film (banchetto di nozze), costituisce un forte richiamo a molte classiche rappresentazioni pittoriche rinascimentali |50| dell’Ultima cena (dal Ghirlandaio a Leonardo da Vinci). movimento, al movimento all’interno dell’inquadratura) per ricondurla in un ambito figurativo e pittorico. Il richiamo a Masaccio (che ritorna spesso nelle dichiarazioni della sua tecnica) non è casuale. L’obiettivo viene paragonato a un pennello nelle mani di un pittore, un pennello leggero e agile che, tuttavia, ha la forza di rendere greve, massiccia la materia, con una forte accentuazione del chiaroscuro. (15) Le esperienze successive, fino al progetto del Vangelo Tra il 1962 e il 1964 più che una successione di film vi è un intreccio di progetti. Durante un convegno ad Assisi, Pasolini, casualmente, legge il Vangelo di san Matteo e scopre quanta parte del mondo contadino dell’età di Cristo sia finita nelle pagine del testo dell’evangelista Matteo, “il più Il Vangelo secondo Matteo rivoluzionario perché il più realista”. Da questa Nel mese di aprile 1964 le prime scene del film lettura trae una riflessione: la storia di Cristo è furono girate in provincia di Viterbo, tra i massi fatta di due millenni di interpretazione cristiana; del torrente Chia (che “diventerà” per l’occasione tra la realtà storica è oggi si è creato lo spessore il fiume Giordano nel quale Cristo riceverà il del mito e questo mito è già un’idea trascinante battesimo). La troupe si trasferì quindi in Lucania: la parte antica di Matera (i Sassi) si trasformò in per farne un film. Alfredo Bini, produttore di Accattone e di Mamma una suggestiva Gerusalemme. Betlemme venne Roma, è attratto dall’idea e accoglie la proposta di “ricostruita” in un villaggio pugliese. Tra le realizzare un film sul Vangelo. Chiede però a montagne di Crotone furono effettuate le riprese Pasolini di dare la precedenza a un film a episodi delle scene del Golgota. i cui registi sono Roberto Rossellini, Jean-Luc Per Il Vangelo secondo Matteo Pasolini effettuò la Godard e Ugo Gregoretti. Pasolini realizzerà il scelta della musiche con la collaborazione di Elsa proprio episodio, La ricotta. Un brano musicale Morante. Il regista utilizzò in questo caso, vista la molto significativo che il regista inserirà nel film è sua dichiarata predilezione per Bach, alcuni brani il Dies Irae attribuito a Tommaso da Celano, (1190 dalla Passione secondo Matteo con i quali il ca - 1260), musicista oltreché discepolo e biografo compositore tedesco aveva ripercorso lo stesso di san Francesco d’Assisi. Nella Ricotta è anche cammino che Pasolini avrebbe intrapreso nel film notevolmente appropriata la sottolineatura dell’atmosfera grottesca di alcune scene, ottenuta con l’inserimento di un brano verdiano, “Sempre libera degg’io” dalla Traviata, deformato nel tempo, nella dinamica, nell’uso filologicamente non ortodosso degli strumenti, tutti elementi trattati nelle scene del film con intenti ironici e per qualche verso evocativi delle comiche degli anni Venti e Trenta. . Sugli intendimenti figurativi di Pasolini, scrive Antonio Bertini: “[...] All’uso semplificato e rigoroso degli obiettivi 50 e 75, impiegati in Accattone, Pasolini aggiunge il pancinor o zum. Si tratta di un obiettivo, come si sa, che permette di passare (senza soluzione di continuità) dall’inquadratura di un dettaglio o di un primo piano fino a un totale o a un campo lungo. [...] Sembra quasi ci sia la volontà – da parte del regista – di togliere all’immagine filmica l’impressione di La deposizione dalla Croce (1521) dipinta da Gambattista tridimensionalità, di profondità di campo di Jacopo, detto Rosso fiorentino, al quale si ispirò (dovuta soprattutto all’immagine in Pasolini per La ricotta |51| (e, in un certo senso, con lo stesso spirito che ispirerà il film di Pasolini: l’evocazione e la meditazione della morte). Dalla Passione secondo Matteo di Bach, oltre al Coro già udito in Accattone, Pasolini utilizza ripetutamente, nel Vangelo, un’Aria, originariamente per voce di contralto e orchestra, qui nella versione solo strumentale rielaborata da Ennio Morricone – nelle predicazioni in cui Cristo, una prima volta, parla delle beatitudini (beati coloro...) e ancora, quando raccomanda l’osservanza dei comandamenti oppure l’abbandono delle ricchezze (è più facile che un cammello...); quando si reca a pregare nell’Orto del Getsemani dopo avere rassicurato gli Apostoli (...vi precederò in Galilea...) e subito dopo ammonisce Pietro (...mi rinnegherai...); nel momento in cui prega il Padre perché allontani da lui la morte atroce che l’attende; quando viene processato, condannato a morte, deriso. Nel film, un rilievo notevole è dato anche al Gloria della Missa Luba congolese la cui citazione si può ascoltare in apertura del film (già dai titoli di testa); allorché Giuseppe torna alla sua povera abitazione dopo che l’Angelo lo ha illuminato circa il motivo della gravidanza di Maria; quando Cristo compie il primo miracolo; all’entrata in Gerusalemme e nell’ultima scena del film (la tomba è vuota, Cristo è risorto). Un altro compositore di cui si servì Pasolini per il suo Vangelo è Mozart: la Maurerische Trauermusik, K 477 (Musica funebre massonica), rende perfettamente l’atmosfera di “presagio” che si percepisce dopo che Gesù ha reclutato gli Apostoli (...pecore in mezzo ai lupi..., non sono venuto a portare la pace...); in seguito fa da commento alla salita al Calvario. Vi è anche un’efficace citazione di Ejsenstejn/Prokofiev (Aleksandr Nevskij) allorché i soldati di Erode compiono la strage degli innocenti e nel momento della terribile fine (la decollazione) provocata da Erodiade e Salomè a Giovanni il Battista. Nel film sono compresi inoltre brani originali di Luis Enrique Bacalov (nelle scene degli indemoniati e di Cristo che prega nell’orto di Getsemani) e di Anton Webern, spirituals e cori russi. Sui riferimenti pittorici vi è da dire anzitutto come sia noto che la scelta di Enrique Irazoqui per la parte di Gesù nel Vangelo sia stata casuale: alla prima occhiata, Pasolini fu certo di aver trovato il “suo” Cristo: lo stesso volto bello, fiero, umano, distaccato dei Cristi dipinti da El Greco. Nei molteplici primissimi piani immobili si può osservare un riferimento ai ritratti di trequarti tipici del tardo Quattrocento (Masaccio, ma anche Carpaccio); per quanto riguarda i farisei e gli scribi, già per le loro vesti sono simili alle figure degli affreschi di Piero della Francesca. Pasolini ha rappresentato Maria incinta appunto come nella figurazione della Madonna del Parto di Piero della Francesca: un volto semplice con le palpebre semichiuse, la ripresa frontale, e un arco sullo sfondo. Un’altra scena ispirata a Piero della Francesca è quella nella quale è ripreso Il battesimo di Cristo. Al posto dei tre angeli di Piero della Francesca vengono posti, sulla sinistra, tre giovani di campagna. Altri elementi che suggeriscono espliciti richiami a Piero della Francesca sono costituiti inoltre dalla ripresa dei farisei, vestiti tutti in modo uguale, dalla carrellata nel baratro roccioso, dal lungo primo piano del volto di Gesù. Molte scene del Vangelo, poi, si “rinviano” l’una all’altra: è la medesima operazione Il compositore Ennio Morricone. Iniziò con Uccellacci e uccellini un proficuo sodalizio con Pasolini. |52| La Madonna del parto, di Piero della Francesca. A questo affresco (14551465 circa) Pasolini si è ispirato per rafigurare Maria incinta nel suo Vangelo. intitolato Uccellacci e uccellini. In ottobre iniziano le riprese del film che, già dalla sceneggiatura, si è trasformato però in un film unitario; sarà organizzato del tutto artigianalmente, con un finanziamento minimo e nessun compenso per il regista. Inizia, con Uccellacci e uccellini, una proficua collaborazione di Pasolini con Ennio Morricone, Ennio Morricone che collaborerà alla realizzazione delle musiche e al coordinamento musicale del film e anche di successive pellicole pasoliniane: Teorema, Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte, Salò o le centoventi giornate di Sodoma. L’idea di aprire e chiudere il film con dei titoli cantati fu di Pasolini, che scrisse i testi; “la piccola ballata interpretata da Domenico Modugno potrebbe essere considerata, per la ricchezza di soluzioni e di allusioni ironiche e autoironiche a modi, stili, timbri, una sintesi estrema del comporre di Una nuova stagione nel cinema di Pasolini Uccellacci e uccellini segnerà un ulteriore passaggio Morricone nel cinema”.(17) nella storia del cinema di Pier Paolo Pasolini: dai Vi sono poi nel film, oltre a un bellissino blues lavori di carattere popolare a opere più dello stesso Morricone, due citazioni mozartiane, problematiche, che culmineranno in Teorema. dal Flauto magico (duetto Papageno-Pamina); Alla fine di aprile 1965 Pasolini pubblica su “Vie Aria di Sarastro, risolte gradevolmente dalla Nuove” tre soggetti cinematografici e invita i rielaborazione di Morricone, con degli assolo di lettori a fargli conoscere i loro pareri e violino e con l’uso di un’ocarina. osservazioni: tali soggetti sono “L’aigle”, È pure citata, sempre nella rielaborazione di “Faucons et moineaux”, “Le corbeau”, che Morricone, la canzone partigiana, tratta da un dovrebbero costituire i temi per un film a episodi motivo popolare russo, Fischia il vento che si ode compiuta in cicli di affreschi del Trecento, tra cui quelli di Giotto, nei quali lo scenario paesaggistico e architettonico viene riproposto dall’una all’altra scena. Da Giotto, poi, derivano le raffigurazioni della fuga in Egitto e dell’entrata di Cristo a Gerusalemme. Nella scena di Cristo nell’orto del Getsemani vi sono infine attinenze, sia di postura, sia paesaggistici alle opere omonime di Mantegna e di Giovanni Bellini. Rispondendo a un intervistatore sulle differenze e affinità tra Vangelo, Pasolini dichiarerà: “Il [...] contrasto [...] viene fuori nei riferimenti alla pittura: in Accattone c’è soltanto un elemento figurativo, Masaccio, e forse nel fondo Giotto e la scultura romanica, invece nel Vangelo ci sono numerose fonti: Piero della Francesca, negli abiti dei farisei, la pittura bizantina, la faccia di Cristo [...]” (16) |53| subito prima della sequenza dei funerali di Togliatti. A loro volta, i funerali di Togliatti, con quella vasta, corale e commossa partecipazione popolare, ma anche con la presenza di personaggi noti dell’epoca, sono un richiamo a un celebre, omonimo dipinto di Renato Guttuso. Il sodalizio tra il musicista Ennio Morricone e il regista ci permette di avere una indicazione più che significativa, che riportiamo qui di seguito, sulla “filosofia” che informava la sensibilità di Pasolini rispetto all’inserimento della musica nei film. “La musica di un film può anche essere pensata prima che il film venga girato (così come se ne pensano i volti dei personaggi, certi attacchi di montaggio ecc.): ma è solo nel momento in cui viene materialmente applicata alla pellicola, che essa nasce in quanto musica del film. Perché? Perché l’incontro e l’eventuale amalgama tra musica e immagine, ha caratteri essenzialmente poetici, cioè empirici. Ho detto che la musica si ‘applica’ al film: è vero, in moviola l’operazione che si compie è questa. Ma l’‘applicazione’ può essere in vari modi, secondo varie funzioni. “La funzione principale è generalmente quella di rendere esplicito, chiaro, fisicamente presente il tema o il filo conduttore del film. Questo tema o filo conduttore può essere di tipo concettuale o di tipo sentimentale. Ma per la musica ciò è indifferente: e un motivo musicale ha la stessa forza patetica sia applicato a un tema concettuale che a un tema sentimentale. Anzi, la sua vera funzione è forse quella di concettualizzare i sentimenti (sintetizzandoli in un motivo) e di sentimentalizzare i concetti. La sua è quindi una funzione ambigua (che solo nell’atto concreto si rivela e viene decisa): tale ambiguità della funzione della musica è dovuta al fatto che essa è didascalica e emotiva, resta un fatto misterioso, e difficilmente definibile. Io posso dire empiricamente che ci sono due modi per ‘applicare’ la musica alla sequenza visiva, e quindi di darle ‘altri’ valori. “C’è un’‘applicazione orizzontale’ e un’‘applicazione verticale’. L’applicazione orizzontale si ha in superficie, lungo le immagini che scorrono: è dunque una linearità e una successività che si applica a un’altra linearità e successività. In questo caso i ‘valori’ aggiunti sono valori ritmici e danno un’evidenza nuova, incalcolabile, stranamente espressiva, ai valori ritmici muti delle immagini montate. L’applicazione verticale (che tecnicamente avviene allo stesso modo), pur seguendo anch’essa, secondo linearità e successività, le immagini, in realtà ha la sua fonte altrove che nel principio; essa ha la sua fonte nella profondità. Quindi più che sul ritmo viene ad agire sul senso stesso. [...] “In altre parole: le immagini cinematografiche, riprese dalla realtà, e dunque identiche alla realtà, nel momento in cui vengono impresse su pellicola e proiettate su uno schermo, perdono la profondità reale, e ne assumono una illusoria, analoga a quella che in pittura si chiama prospettiva, benché infinitamente più perfetta. Il cinema è piatto, e la profondità in cui si perde, per esempio, una strada verso l’orizzonte, è illusoria. Più pratico è il film, più questa illusione è perfetta. La sua poesia consiste nel dare allo spettatore l’impressione di essere dentro le cose, in una profondità reale e non piatta (cioè illustrativa). “La fonte musicale – che non e’ individuabile sullo schermo – e nasce da un ‘altrove’ fisico per sua natura ‘profondo’ – sfonda le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita.”(18) Pasolini, nell’autunno del 1966 è in Marocco per un sopralluogo di ambientazione di Edipo re. Risponde a una intervista di Alberto Arbasino: “Un Edipo da girare in fondo al Marocco (in un’architettura arcaica e meravigliosa, senza pali della luce e quindi senza tutte le fatiche del Vangelo girato in Italia). Certi rosa e verdi stupendi; berberi quasi bianchi, però ‘alieni’, remoti, come doveva essere il mito di Edipo per i greci: non contemporaneo, fantastico [...]”.(19) Il regista compie poi un nuovo viaggio in Marocco per proseguire la ricerca dei luoghi più adatti alle scene di Edipo re e, al ritorno, partecipa con Capriccio all’italiana a un nuovo film a episodi, Che cosa sono le nuvole?, ancora con Totò e Ninetto Davoli: tale episodio sarà caratterizzato, tra l’altro, da una canzone (che ha lo stesso titolo dell’episodio cinematografico) musicata e cantata da Domenico Modugno su testo di Pasolini. In Edipo re, ispirato ai capolavori di Sofocle Edipo re ed Edipo a Colono, che girerà tra aprile a luglio 1967, Pasolini affronta una volta per tutte il suo personale “complesso di Edipo”. Assegna ai suoi personaggi un linguaggio che è il risultato di una mescolanza di vari dialetti e, allo stesso modo, nel film, gli scenari e il commento |54| musicale sono “costruiti”, come in un puzzle, con frammenti di immagini e di suoni nordafricani, turchi, giapponesi e rumeni, tutte melodie molto ambigue, indefinibili, poiché potrebbero essere allo stesso tempo arabe, slave o greche. Il regista curerà personalmente il coordinamento musicale del film: spiegherà così la sua scelta di tali musiche: “Esse sono un poco fuori della storia. Come io desideravo fare di Edipo un mito, così desideravo una musica astorica, atemporale”. Nell’estate del 1968 Pasolini gira con Ninetto Davoli un altro brevissimo film, La sequenza del fiore di carta, un episodio di Amore e rabbia, e cura personalmente la scelta del commento musicale. Qualche mese prima, in marzo, Garzanti pubblica il libro Teorema. Diverrà anche il soggetto dell’omonima pellicola cinematografica, presentata nel 1968. Chiamerà l’amico Zigaina a collaborare al film Teorema come consulente per il colore e per le tecniche pittoriche, e lo incaricherà di eseguire tutti i grandi disegni che nel film appaiono come opera di Pietro, il giovane pittore folgorato dall’amore per l’Ospite. Tra i brani musicali che commentano Teorema, la cui scelta è curata dallo stesso Pasolini, spicca soprattutto il brano iniziale del Requiem, l’ultima composizione di Wolfgang Amadeus Mozart. Il commento musicale originale è elaborato da Ennio Morricone. Mentre Teorema è ancora sotto sequestro per oscenità (sarà ritirato qualche giorno dopo la sua Domenico Modugno in una scena di Che cosa sono le nuvole? nella quale canta la canzone omonima scritta insieme a Pier Paolo Pasolini. uscita dalle sale di proiezione), nel novembre 1968 Pasolini inizia le riprese di Porcile; le concluderà nel giro di un solo mese. Il commento sonoro di Porcile, con musiche originali di Benedetto Ghiglia, interviene raramente nel dramma rappresentato nella pellicola, caratterizzando però assai efficacemente i due “mondi” che vi appaiono: quello contadino, con brani di sapore antico eseguiti prevalentemente con un flauto dolce; quello alto borghese con un quartetto d’archi che suona musica colta. In alcune scene Klotz-Lionello (con baffetti alla Hitler) suona voluttuosamente un’arpa e in altre scene sono proprio visualizzati quattro componenti di un quartetto d’archi in una delle grandi sale della ricca villa di Klotz. Pasolini scriverà alcune Note su Porcile per parlare del film alla conferenza stampa di presentazione alla Mostra del cinema di Venezia. In tali note dirà, tra l’altro: “Il messaggio semplificato del film è il seguente: la società, ogni società, divora sia i figli disobbedienti che i figli né disobbedienti né obbedienti. I figli devono essere obbedienti e basta. Dipingere con la tecnica di Giovanni Bellini una bolgia infernale”.(20) Un richiamo pittorico che mi è parso di individuare nel film è costituito dal notissimo Quarto stato di Pellizza da Volpedo (una delegazione di contadini si reca nella ricca villa del padrone-Klotz per riferire della orribile fine fatta, nel porcile, dal giovane Julian Klotz). |55| Tra maggio e agosto 1969 Pasolini effettua le mistero proprio dell’esistenza, coi suoi vasti riprese di Medea (interprete principale Maria paesaggi da preistoria, i suoi miseri villaggi abitati Callas, che riecheggia la tragedia di Euripide. da un’umanità contadina e primitiva, le sue due o Come nei film precedenti, il regista si propone di tre città modernissime già industriali e proletarie. rappresentare le storture presenti nel mondo Pasolini ‘sente’ l’Africa nera con la stessa simpatia moderno rifacendosi alle analogie presenti in poetica e originale con la quale a suo tempo ha epoca antica. “Ho riprodotto in Medea tutti i temi sentito le borgate e il sottoproletariato romano. E dei film precedenti”, dirà Pasolini. E proseguirà: questo è già un avvio per comprendere il rapporto “Specifico, per inciso, all’intenzione di quelli che che egli cerca di stabilire tra l’Africa nera e la la partecipazione della Callas indurrebbe in errore, Grecia arcaica che non mi riferisco affatto all’opera musicale di Cherubini. Su questo non c’è ambiguità possibile. La “trilogia della vita” Quanto alla pièce di Euripide, mi sono Dopo Medea, tre nuovi progetti, ispirati a semplicemente limitato a trarne qualche importantissime opere letterarie di tre culture citazione.[...]”. diverse, apriranno un nuovo capitolo della Tra i due personaggi principali, Medea e Giasone, cinematografia pasoliniana. Pasolini stesso chiama non vi è mai dialogo: canti i tre film “trilogia della vita”, e d’amore iraniani e antiche spiega che si tratta di: “ [...] film musiche giapponesi, indecifrabili sulla fisicità umana e sul sesso. e misteriose – le scelte per il Questi film sono abbastanza commento musicale sono dello facili, e io li ho fatti per opporre stesso Pasolini in collaborazione al presente consumistico un con Elsa Morante – passato recentissimo dove il “sostituiscono” le voci dei corpo umano e i rapporti umani protagonisti. erano ancora reali, benché arcaici, Nel corso della lavorazione di benché preistorici, benché rozzi, Medea si diffusero “voci” di un però tuttavia erano reali, e idillio nato fra la Callas e Pasolini: opponevano questa realtà tra loro si stabilì in realtà una all’irrealtà della civiltà profonda amicizia, destinata a consumistica”. durare negli anni anche dopo Durante l’estate 1970 Pasolini Medea. Pasolini riscoprirà, grazie scrive la sceneggiatura di dieci Maria Callas e Pier Paolo all’amicizia con Maria Callas, la novelle dal capolavoro di sua passione per il disegno e la Pasolini Boccaccio, scelte tra quelle che pittura. Farà numerosi ritratti alla hanno un equilibrio tra il tragico cantante, raffigurandola di profilo e utilizzando e il comico-burlesco e fa parlare i personaggi in una “tecnica mista” che prevedeva di inserire nel napoletano. Quest’ultima scelta – di ambientare le disegno anche fiori e conchiglie. novelle del Decameron a Napoli e dintorni – a mio Qualche mese prima di iniziare la lavorazione di parere è stato un vero e proprio “colpo di genio” Medea, Pasolini fece un viaggio in Uganda, in del regista; in ciò dissento da quanto dichiarerà Tanzania e al lago Tanganika, per studiare Morricone, che definirà “strana” la trasposizione l’ambientazione di Orestiade africana, una del pasoliniano Decameron nel Sud Italia. trasposizione “africana” della tragedia di Eschilo Nel Decameron Pasolini stesso assunse il ruolo di (il film non fu però mai realizzato). Durante tale un allievo di Giotto. Sulle pareti che, insieme ad viaggio, girò per la televisione italiana il aiuti, dipingerà appaiono rifacimenti di opere documentario Appunti per un’Orestiade africana, con giottesche. Si vestì come il “Vulcano” di Velasquez commento musicale di Gato Barbieri. nel dipinto La fucina di Vulcano conservato al Il documentario fu così commentato da Moravia: Museo del Prado: grembiule di cuoio e fascia “Diciamo subito che è uno dei più belli di Pasolini. bianca sulla fronte. Pasolini aveva visitato il museo Mai convenzionale, mai pittoresco, il madrileno nel 1964 e si era scoperto “tale e quale” documentario ci mostra un’Africa autentica, per al personaggio raffigurato nel quadro di niente esotica e perciò tanto più misteriosa del Velasquez. Inoltre, venne a sapere che La fucina |56| di Vulcano era stata dipinta dal pittore spagnolo a Roma ‘’con modelli tratti dalle borgate romane” e questo fu per Pasolini un ulteriore motivo di identificazione. “Quanto Accattone e Mamma Roma erano film di contestazione sociale”, dichiarerà il regista nel corso di una intervista, “espressione della volontà di presa di coscienza, tanto il Decameron rappresenta la mia nostalgia di un popolo ideale, con la sua miseria, la sua assenza di coscienza politica (è terribile dirlo, ma è vero), di un popolo che ho conosciuto quando ero bambino.” La musica, curata da Pasolini e arricchita da composizioni originali di Ennio Morricone, è costituita anche da antiche musiche napoletane, a cominciare da Fenesta ‘ca lucive, un “classico” della canzone napoletana (la musica, originariamente di autore anonimo, è attribuita a Vincenzo Bellini). Riferisce Morricone in una intervista: “[Pasolini] volle mettere una canzone napoletana [...] non è che io fossi molto contento di tutto ciò [...] Mi pare fosse Fenesta ‘ca lucive. Poi, a vedere il film, aveva ragione, perché era tutto collocato nel Sud, cioè era una trasposizione strana quella del Decameron. Quindi mi pareva giusto quello che m’aveva chiesto, anche se mi scocciava, dico la verità che mi scocciava proprio”. (21) Alcune scene di Decameron sono girate a Sana’a, nello Yemen del Nord; qui Pasolini girerà anche un “documentario in forma di appello all’Unesco” per fornire, attraverso immagini bellissime e suggestive, un’ampia documentazione di luoghi da salvare da un degrado e da una distruzione incombenti. Nella primavera del 1971 Pasolini scrive la sceneggiatura del secondo film della “trilogia della vita”, I racconti di Canterbury. Terminata la sceneggiatura, all’inizio dell’estate effettua alcuni viaggi in Inghilterra alla ricerca di luoghi e di personaggi adatti all’ambientazione del film. Lui stesso apparirà come Geoffrey Chaucer [vedi foto qui sotto], l’autore delle Canterbury Tales alle quali il film si ispira. Anche per questo film, così come per il successivo, Il fiore delle Mille e una notte, le musiche originali sono di Ennio Morricone. Parlando delle composizioni inserite nei tre film, e sollecitato dall’intervistatore che gli chiedeva se per essi avrebbe voluto fare della musica diversa, Morricone rispose: “Forse sbagliando ma... Comunque avrei fatto una musica originale, popolaresca italiana, negli episodi italiani. Poi, per l’Oriente, avrei fatto una versione diversa... adesso non so quello che avrei fatto. Non ho riflettuto: ho accettato passivamente certi suoi consigli [di Pasolini] ed in certi casi ho anche reagito dicendogli che mi sembrava sbagliato e lui ha accettato anche e spesse volte le mie osservazioni... Insomma, c’è stato sempre un dialogo, però, che mi vedeva all’inizio un po’ arrendevole. [...] Per Canterbury Tales ho scritto delle cose originali per zampogna”.(22) Nel 1972 Dacia Maraini collabora con Pasolini alla sceneggiatura del Fiore della Mille e una notte, che conclude la “trilogia della vita” del regista. Le riprese avverranno tra marzo e maggio 1973 in Nepal, Persia, Etiopia, nello Yemen del Nord e in quello del Sud. L’ultima fatica: Salò o le centoventi giornate di Sodoma “Il mio principale apporto a questa sceneggiatura”, disse Pasolini rispondendo alle domande di un intervistatore della televisione svizzera a proposito della trasposizione filmica delle Centoventi giornate di Sodoma di De Sade, “è consistito nel dare alla sceneggiatura una struttura di carattere dantesco che probabilmente era già nell’idea di De Sade, cioè ho diviso la sceneggiatura in gironi, ho dato alla sceneggiatura questa specie di verticalità e di ordine di carattere dantesco. Ma mentre lavoravamo a questa sceneggiatura, Sergio Citti [collaboratore alla sceneggiatura insieme a Pupi Avati] man mano si disamorava perché gli era giunta un’altra idea, l’idea di un altro film e io invece pian piano me ne innamoravo definitivamente quando è avvenuta questa illuminazione, quando cioè è venuta l’idea di trasporre De Sade nel ’44, a Salò.(23) Durante gran parte del film una pianista, in apparenza completamente assente da quanto sta accadendo attorno a lei, esegue come un’automa canzoni degli anni Trenta, qualche motivo di regime, alcuni Valzer e Preludi di Chopin, a rappresentare con il commento sonoro, oltre all’ambiente e al momento storico, la decadenza, il disfacimento di quell’epoca di massima espansione della dittatura, della repressione, della nefasta guerra fascista. Quando, dopo inenarrabili torture commesse su giovani tenuti come schiavi in una tetra villa di Salò, avverranno nei confronti degli stessi ragazzi e ragazze i primi crudeli omicidi, anche la pianista apparentemente estraniata, robotizzata, non reggerà allo strazio e al disgusto e si suiciderà. Sarà in questo |57| stesso momento del film che, anche musicalmente, si avrà la percezione “infernale” di ciò che sta accadendo, con alcune introduzioni accordali e canti dai Carmina Burana di Carl Orff, una composizione del 1936 che raccoglie antichi canti medievali e li rielabora unendo arcaico e moderno, musica colta e popolare con soluzioni antiche e attuali. (I contenuti dei Carmina Burana sono vari: accanto a canzoni sulla primavera, l’amore, le gioie del sesso e della tavola vi si trovano poesie satiricomoraleggianti che lamentano la perversione del mondo, la decadenza dei costumi e degli studi, la malvagità del clero e del potere, lo strapotere del denaro). Vi è infine da dire, a conclusione di questa breve riflessione sulle scelte musicali nei film di Pier Paolo Pasolini – oltre che su qualcuno dei riferimenti pittorici che in alcuni casi hanno costituito la fonte di ispirazione del regista e che sono, a mio parere, bene amalgamati e in gran parte assolutamente congruenti con i commenti musicali –, che un elemento rilevante in tutta la produzione cinematografica del poeta è il silenzio dei personaggi, l’assenza della parola e di qualsiasi altro suono. Le sequenze completamente prive di suono (la “musica dei silenzi”, la definisco), che prevedono la sola, nuda presenza delle immagini dei personaggi – a volte immobili, se si eccettua il fuggevole mutare di una espressione del viso o l’impercettibile movimento di una mano o, ancora, un lieve battere di palpebre – sono momenti indimenticabili nel cinema di Pasolini. Momenti nei quali pare di trovarsi in comunione spirituale con l’artista e con i personaggi da lui creati, momenti che fanno rimanere con il fiato sospeso, rispettosi, quasi timorosi di disturbare in qualche modo i pensieri, le riflessioni trasmessi in un modo così informale dal regista. Sono silenzi che pretendono il massimo della concentrazione intellettuale e un grande coinvolgimento emotivo da parte di chi, più che assistere, “partecipa” all’avvenimento che si svolge sotto i suoi occhi comprendendone e spesso condividendone i messaggi. Questa musica del silenzio è, nelle opere cinematografiche di Pier Paolo Pasolini, lo specchio stesso della sua poesia. NOTE (1) “Amadeus” n. 71, ottobre 1995 (2) Antonio Bertini, Teoria e tecnica del film in Pasolini, Bulzoni Editore 1979. (3) Pasolini aveva avuto una educazione musicale; aveva infatti iniziato a studiare il violino all’età di tredici anni. (4) Pasolini cita poco più avanti la Ciaccona, che è inequivocabilmente uno dei brani della II Partita (e non della III Sonata) per violino solo di Bach. Nel suo scritto, Pasolini intendeva riferirsi quindi alle tre sonate e tre partite per violino solo e più in particolare alla Ciaccona dalla II Partita (la Ciaccona appare solamente in questa Partita), al Preludio dalla III Partita (l’unica Partita che abbia un Preludio) e al Siciliano dalla I Sonata. (5) “Quaderni rossi del ‘46”, in Nico Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino 1989. (6) “Quaderni rossi...”, cit. (7) In un primo tempo Pasolini aveva pensato di laurearsi con una tesi sulla Pittura italiana del Novecento e aveva iniziato a lavorarvi nel 1942. Nello stesso periodo pubblicava sul “Setaccio” articoli di critica d’arte. (8) Roberto Longhi (1890-1970) fu storico dell’arte, scrittore e didatta. Fu tra i primi in Italia a introdurre un metodo di critica di tipo formale. (9) Nico Naldini, Pasolini, una vita, cit. (10) Antonio Bertini, cit. (11) Erich Auerbach (1892-1957), filologo e critico tedesco, ha dato contributi fondamentali allo studio della letteratura occidentale. Nella citazione, Pasolini si riferisce a un passo di Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946). (12) Quaderni di filmcritica - Con Pier Paolo Pasolini, Bulzoni, Roma 1977. (13) Ibidem. (14) Nico Naldini, cit. (15) Antonio Bertini, cit. (16) Nico Naldini, cit. (17) Sergio Miceli, Morricone, la musica, il cinema, Ricordi-Mucchi, Modena 1994. (18) Pier Paolo Pasolini, “La musica del film”, opuscolo allegato all’album discografico Ennio Morricone. Un film una musica, ora in Antonio Bertini, cit. (19) Nico Naldini, cit. (20) Ibidem. (21) Antonio Bertini, cit. (22) Ibidem. (23) Nico Naldini, cit. |58| Indice Introduzione.......................................................................................................................................................................5 Biografia..............................................................................................................................................................................6 I primi anni............................................................................................................................................................6 Il Friuli................................................................................................................................................................... 7 Gli anni romani.................................................................................................................................................... 8 Pasolini e il cinema.............................................................................................................................................. 9 Il ‘68 di Pasolini (di Roberto Carnero)........................................................................................................... 10 Scritti Corsari...................................................................................................................................................... 11 Gli ultimi anni.....................................................................................................................................................13 Cos’è questo golpe? Io so...............................................................................................................................................15 I film.................................................................................................................................................................................. 17 Mamma Roma..................................................................................................................................................................18 Diario di lavorazione del film Mamma Roma dell’aiuto regista Carlo Di Carlo.......................................................................................................................19 Il Vangelo secondo Matteo............................................................................................................................................ 23 Tutto quello che avreste voluto sapere su Il Vangelo secondo Matteo. Intervista a Enrique Irazoqui........................................................................................................................... 25 Uccellacci e uccellini........................................................................................................................................................28 Conversazione con Ninetto Davoli.................................................................................................................30 La ricotta........................................................................................................................................................................... 31 La Terra vista dalla Luna................................................................................................................................................ 34 Che cosa sono le nuvole?............................................................................................................................................... 36 Salò o le centoventi giornate di Sodoma..................................................................................................................... 38 Salò e altre ipotesi. Incontro con Dacia Maraini...........................................................................................41 Approfondimento: La musica nei film di Pier Paolo Pasolini (di Angela Molteni)...............................................47 |59|