Terra d'Otranto dalle Origini
alla Colonizzazione Romana
II
L'EPOCA MESSAPICA NELL'INTERPRETAZIONE
DELLA SCIENZA TRADIZIONALISTICA
Riesce di particolare interesse uno sguardo all'evoluzione della
messapografia, dall'antica scienza dei tradizionalisti ai moderni scoprimenti e alle recenti teorie. L'indagine storica è usa a simile genere
di retrospezione, poichè il procedimento di rivedere il corso delle
opinioni avanzate e formulate attraverso le diverse ere della cultura,
facilita la esattezza visiva dell'osservatore moderno, il quale dalla
elaborazione anche errata dei problemi può acutamente desumere
motivi ed incentivi atti ad una migliore sistemazione. E' quindi interessante rivedere il lavoro grezzo compiuto dagli altri, in base a superati angoli visuali, e Zar seguire alla esposizione dei dati messapici
storicamente esistenti, l'idea che di alcuni di essi ebbero a formarsi
gli antichi scrittori, dal mondo classico a quello contemporaneo.
Una rassegna della scienza tradizionalistica rimonta naturalmente, ma incidentalmente, ai Greci e ai Romani. Dico incidentalmente,
perché è stato benissimo constatato che i popoli classici limitarono
la loro attività storiografica al campo etnico proprio, toccando solo
di sfuggita argomenti di razze straniere (si ricordi Isocrate ateniese
(436-338) banditore dell'idea panellenica e della guerra ai barbari).
L'indagine fu quindi restia alla impostazione di storie universali, così. come oggi noi le intendiamo: ne deriva per conseguenza che le
vicende dei popoli anche limitrofi ai Greci e Romani rimangono in
una zona piuttosto oscura o scarsamente illuminata. Il punto di vista esclusivistico della storiografia e geografia antica ha pure causa
nella difficile comunicazione ,che favorisce la creazione di miti, la
loro divulgazione e la loro tradizione. Tutti sanno che Erodoto d'Alicarnasso, giustamente detto padre della storia, fu tra i pochissimi
che vollero guardare il mondo passato e presente con occhio universalistico ed imparziale. Ma la buona volontà dello stesso Erodoto
e dí pochi altri non ha potuto rompere i pregiudizi di razza, né superare le difficoltà tecniche delle ricerche del suo tempo.
Perciò nessuna meraviglia se l'ombra del mistero avvolge i fatti
messapici in un'epoca storica che cra in grado ,di un relativo accertamento e di una certa documentazione; niente di strano se i Messa43
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pi, pur geograficamente al fuoco del mondo ellenico, furono da questo scarsamente osservati, studiati, vagliati. Né si (leve dare troppa
importanza a quell'affinità etnica che avrebbe dovuto stabilire dei
facili incontri spirituali e scientifici fra gli Elleni e i Messapi.
Anche per i Macedoni la storiografia greca è rimasta indifferente Inno alle gesta decisive di Filippo ed Alessandro. La ragione
consiste nel fatto che la storia non aveva dei propositi positivamente
scientifici., ma rientrava eminentemente nell'atmosfera dell'epica e
si sviluppava dietro i canoni artistici e letterari. Per di più l'epoca
greco-classica è di pura nazionalità e mal si presta agli studi a sfondo critico e comparato. Quando si arriva al periodo alessandrino, la
storia dei Messapi è già troppo antica per prestarsi a ricerche proficue, specialmente per il motivo che gli studiosi di Alessandria erano rivolti con maggiore attenzione verso l'affascinante luce d'Oriente.
I passi relativi ai Messapi nei testi ellenici sono contati: essi
appartengono principalmente ad Erodoto, Tucidide, Strabone, Tolomeo e Pausania. Li abbiamo visti in varie occasioni e sottoposti a
giudizio critico.
In generale i 5 , potpot messapi sono posti ai margini e non hanno
alcuna specificazione sulle loro cose interne. Se infatti non potevano
negarsi i rapporti esterni e le lotte durissime coi Tarantini, poteva
invece facilmente prescindersi dallo sviluppo interno. La Messapia
circondata in senso largo dai Greci, bagnata da due mari e distendentesi lungo coste di non breve tratto, è ugualmente lontana dalla
vita greca; e poco ci è stato tramandato degli stessi effettivi rapporti
economici, marittimi e militari fra essa e le due Grecie.
L'argomento della barbarie rnessapica, secondo lo spirito ellenico, è stato rilevato anche da Saverio Caputi (Anacreontiche - Napoli,
1800). Dice egli nel suo opuscolo: «Bastava in tempo che fioriva la
Grecia il non esser Greco, a ben meritare chicchessia la patente e il
titolo di Barbaro. Nemmeno i Romani ne erano di ciò esenti. Catone
il Censore, il quale declamava contro i medici greci, scrivendo a Marco suo 'figlio tra l'altre cose egli gli dice: — sono eglino molto insolenti, chiamandoci Barbari, siccome gli altri — (Plinio, XXIX, 1). Ippocrate niegò il proprio suo aiuto ad Artaserse col fargli sentire che
egli non guariva i Barbari, i quali erano nemici dei Greci. Ma i Greci
ne avevan tutta la ragione, a sol motivo di aver dato agli altri la
vera idea, il giusto modello dei gran capitani e degli ottimi legislatori, dei prudenti politici e buoni filosofi, per quanto, come riflette
il signor de Rollin, quell'età comportava: maestri essendo in ogni
arte e scienza che rende culto e civile qualunque barbaro popolo.
Ne andavano di ciò i Greci tanto gonfi, che Platone tra gli altri ringraziamenti ch'egli faceva ogni giorno al sommo Giove, vi aggiunse
quello ,di esser egli nato greco e non barbaro, e il nostro Galateo, alludendo al sentimento del divin filosofo, stive allo Spinelli (op. cit.):
Graeci sumus et hoc gloria nobis accedit. —».
I Romani, che conquistarono la Messapia e le mutarono nome.
come al solito seppellirono nelle memorie storiche ciò che poterono
sapere, riducendo le nozioni sui Messapi a poche ed imprecise congetture. Nel periodo della prima romanizzazione sparviero città e popolazioni di Terra d'Otranto, e la sventura fece ammutire i sopravvissuti; e quando dopo alcuni secoli si giunse ad un periodo normale
di pace e di calma civile e rinacque la possibilità dell'investigazione,
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il ricordo delle cose passate e il materiale tradizionalistico fu ben
poca cosa e si rivelò inutile ad un sistema integrale di archeologia
salentina. Plinio, per spiegare l'invasione messapica, ricorre, come
abbiamo visto, al patronimico duce Messapo, fondandosi forse sull'analogia di Roma ed altre città antiche. Del resto, sparito lo stesso
nome nazionale dei Messapi, i Calabri apparivano in una luce diversa che si prestava all'equivoco e alla confusione.
Il processo di ellenizzazione, di cui si è occupato ampiamente il
Ribezzo, produsse un caos etnico-linguistico tale da rendere impossibile all'erudizione antica ogni identificazione di natura scientifica.
Infatti, con la sottomissione alla civiltà superiore degli venne pure a formarsi quell'annichilimento graduale della coscienza
etnica, che fece dimenticare agli stessi Messapi le origini autonome
e le tradizioni nazionali.
Nel Medioevo con le numerose invasioni e penetrazioni allogene,
con la nuova ventata di civiltà elleno-bizantina e la perdita della
continuità storica, che segna il più triste trapasso fra il inondo antico della cultura e il moderno, sparve e si cancellò quasi totalmente
il concetto e la nozione della più antica storia di Terra d'Otranto. Le
successive invasioni confusero le memorie del tempo antico e fecero
dimenticare le immigrazioni della protostoria, poichè è naturale che
il popolo invasore più remoto appaia aborigeno innanzi all'ultimo
invasore. Con la prospettiva di limitata cronologia, adottata dal Medioevo fin quasi ai nostri giorni, l'epoca messapica doveva apparire
lontanissima e misteriosa, tanto da impedire a un ipotetico investigatore ogni speranza d'indagine. Perciò il Medioevo, come negli altri
studi storici, segna pure per i Messapi un periodo di oscurantismo,
inferiore di gran lunga alle pur modeste cognizioni della scienza
greco-romana.
Quando il Rinascimento risvegliò nelle nostre contrade la conoscenza delle antichità, i primi studiosi di cose salentine appresero
forse per la prima volta, dopo secoli, alcuni dati relativi alla civiltà
messapica. E sebbene i tempi fossero prematuri per un'impostazione
scientifica della materia, è verosimile che anche prima del Galateo
gli umanisti idruntini siano stati mossi alla ricerca di vestigia iapigio-messapiche. Ma immaginiamo quali difficoltà non si frapposero
nel rinvenire un'ossatura autentica in 'coloro che avevano subito,
nello spazio di parecchi secoli, l'influsso preponderante di due civiltà superiori, la greca e la romana! La logica c'insegna che per
riconoscere l'individualità di un popolo scomparso, occorre svestirlo da tutti quegli elementi che assai facilmente ne sviano l'autenticità. La storia della cultura procede però con un'evoluzione alquanto lenta, non si sbarazza cioè prontamente dei grovigli pseudoeruditi
e cavillosi, non si libera il campo dalle opinioni ingannevoli e stirate,
ma si avvia alle scoperte positive, attraverso un viaggio lungo e tenebroso negli errori stessi. Se i nostri indagatori dei secoli immediatamente posteriori al Rinascimento si fossero umilmente 'contentati di
limitati e contingenti apporti, se avessero confessato di non essere
ancora in grado di portare delle conclusioni decisive, noi non avremmo oggi una vasta bibliografia sull'argomento messapico, gran parte
di essa priva di serietà scientifica, ma semplici, chiari e positivi dati
acquisiti.
Dopo il Rinascimento accadde ai nostri studiosi di perdere la ra45
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gione personale dietro alla illimitata fiducia verso i testi anche poetici degli antichi scrittori; e se fu un bene e un vantaggio l'oculatezza nello scrutare passi fondamentali dei classici, fu invece un danno
evidente la idolatria che in essi si ripose. Venne favorito quel lato
negativo della natura umana tendente all'illusione e alla falsificazione anche sul terreno storiografico o archeologico. Se per messapografia dobbiamo intendere un groviglio di citazioni di nomi, di riscontri, di date favolose, tale genere d'indagine è vivo nel secolo decimottavo; ma il risveglio scientifico veramente moderno ci permette legittimamente il sorriso innanzi a tanta bibliografia settecentesca.
Bartolomeo Ravenna da Gallipoli, Gaspare Papatodero da Oria,
Luigi Tasselli e molti altri che mi è stato possibile consultare, hanno, è vero, avuto dell'iniziativa e della buona volontà, hanno anche
magari esposto delle questioni di un certo rilievo, e citano con poca
pigrizia i classici greci e romani; ma sche conoscenza precisa si può
trarre dalle loro lunghe pagine tradizionalistiche? Che cosa concludere dalla rassegna dei soliti testi citati per testimoniare un'opinione
preferita e preconcetta? Che valore scientifico attribuire alla sequela volutamente confusionaria e studiatamente raggirata per ammettere il fantastico e il favoloso?
Quasi mai la scienza tradizionalistica è riuscita a portare alla
questione messapica un contributo di costruzione e di ermeneutica;
e se la consultazione di alcuni testi può ancora oggi riuscire proficua per certi riguardi retrospettivi, è però assodato che nessun problema di portata essenziale sarà risolto nei termini imposti dai tradizionalisti. Ho creduto consultare i più antichi per un certo interesse di erudizione, ma bisogna perciò escluderne ogni affermazione
aberrante dalle conquiste della storiografia moderna.
In sostanza gli studiosi messapici in Terra d'Otranto hanno conservato una forma arcaica e prescientifica sino ai primi decenni della seconda metà del secolo decimonono. Nei decenni precedenti era
cominciato in Europa il poderoso e originale movimento di ricostruzione storica mediante il metodo positivo, e specialmente le antichità
romane erano state oggetto di un'analisi critica, prescindente completamente dalle vecchie teorie della tradizione. Dal Niebuhr al Mommsen gli studi di storia romana assunsero un aspetto assolutamente
nuovo e ruppero la gretta cerchia dell'epoca precedente. Tali investigazioni arrecarono lievito e soffio di vita all'intero complesso di
ricerche sulle antichità classiche, ed anche le menti più acute della
cultura salentina iniziarono le loro ricerche e revisioni nel campo
della messapografia. Ma naturalmente i primi studiosi positivi non
poterono tuttavia proporsi degli ideali costruttivi, e dovettero invece
limitarsi alla demolizione del vacillante castello di leggende e fantasie.
Non è misconoscere i meriti di antichi cultori, se ho espresso un
giudizio poco lusinghiero sulla loro opera messapografica; in fondo
è il solito giudizio conveniente in qualunque ramo della scienza storiografica. Né presumiamo noi dell'epoca contemporanea di dare il
responso defintivo ed inappellabile.
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'Il
I CONTRIBUTI DELLA SCIENZA MODERNA
E LE NUOVE POSSIBILITA D' INDAGINE
Verso la seconda metà del secolo decimonono il generale fermento di ricerche sulla storia antica e l'archeologia, toccò nello sviluppo logico della ricostruzione storiografica il problema Messapico.
Le idee degli storici stranieri e nazionali vennero in tal modo a convergere con gli studi di eruditi locali, i quali nel nupvo ambiente
scientifico, si formarono una mente adeguata e capace di rifare con
metodi originali un campo di conoscenza critica e meno campanilistica. Bisogna riconoscere a uomini di vastissima erudizione e di
profonda concezione, come il tedesco Mommsen, il merito d'aver risvegliato gli ingegni col vivido lampo della cultura generale. I dotti
locali non si videro più isolati nell'ingrata fatica delle indagini, ma
sentirono accanto a loro l'appoggio e l'incoraggiamento dell'altra
scienza i cui compiti si basavano ora sulla valorizzazione di tutti i
contributi di effettiva importanza.
In un libro di Iscrizioni messapiche, raccolte da Maggiulli e Castromediano (Lecce, 1871 - pag. 5), mi è passata sotto gli occhi una
lettera di Teodoro Mommsen indirizzata al De Tommasi da Gallipoli,
nella quale l'illustre storico di Roma chiede al De Tommasi stesso
un suo opuscolo che raccoglieva alcune iscrizioni di lapidi messapiche, ed esalta con grande entusiasmo questa specie di investigazione.
E difatti egli, « per il solo amore delle scienze e di questa felice contrada », s'interessò tanto delle iscrizioni, fino al punto di recarsi appositamente a Lecce, Oria, Ostuni, Brindisi e Taranto (ottobre 1846)
ed in qualche altro luogo della penisola idruntina. In quel rapido suo
viaggio che fu di pochi giorni e che egli fece « per chiudere la bocca
a coloro che vogliono quelle iscrizioni essere false », fu soddisfattissimo non solo di aver veduto con i propri occhi due iscrizioni messapiche ch'erano in Ostuni, sopra due grandi macigni, trovati nel
1845, e di poterle trascrivere e cavarne i calchi, ma anche di aver
conosciuto in Oria l'Arcidiacono Giuseppe Lombardi, il quale gli comunicò alcune sue opinioni intorno all'alfabeto e lingua dei Messapi
ed alla numismatica oritana, che per suo passatempo letterario aveva registrata in un manoscritto. Il Mommsen, assicurato della sincerità di tali iscrizioni e raccolte notizie sui luoghi dov'erano state
trovate. ne pubblicò 59 in un opuscolo che ha per titolo Iscrizioni
messapiche, Roma 1848.
Intanto apparivano all'orizzonte i primi bagliori di una grandiosa rinascita della cultura salentina. Il viaggio di Teodoro Mommsen
aveva avuto luogo, come abbiam detto, nell'ottobre del 1846. Dieci
anni dopo un gruppo di giovani, stupendamente preparati ed amanti
della vecchia patria salentina, iniziavano con pubblicazioni di portata rivoluzionaria un'attività densa e laboriosa. Intorno al 1870, dopo la liberazione e l'unificazione d'Italia, i loro nomi eran già conosciuti e celebrati anche presso i dotti di Oltralpe. Il Barone Francesco Casotti, che ospitò durante la permanenza a Lecce il Gregorovius, fu il mecenate degli studi e l'incoraggiatore entusiasta della
gioventù. La corona d'illustri ricercatori si vanta di Luigi De Simo-
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ne e Sigismondo Castromediano, Giacomo Arditi e Cosimo De Giorgi,
Filippo Bacile e Luigi Maggiulli. Venne pubblicata in quel tempo la
Collana di scrittori salentini (1867-1874) e fu intrapresa pure la raccolta di opere e scrittori salentini di tutti i secoli; opere che abbiamo più volte citate, produzione di questi antesignani, che testimonia
lo sforzo gigantesco dell'indagine che molte volte, nonostante la fitta oscurità dei fatti e le gravi difficoltà, intuisce delle verità forse
in parte definitive.
La bibliografia tra il 1870 e 1'80 è ricchissima di lavori monografici sull'archeologia e la preistoria dei centri più importanti per gli
antichi abitatori. Insieme alla edizione delle « Iscrizioni messapiche
e le «Relazioni della Commissione di Archeologia e Storia al Consiglio della Provincia » del Castromediano, appariscono le « Note iapygo-messapiche » del De Simone, la « Leuca salentina» dell'Arditi, la
monografia su «Muro leccese » del Maggiulli, le « Ricerche di Archeologia preistorica in Provincia di Lecce » di Cosimo De Giorgi, il quale sul principio del nuovo secolo pubblica pure un saggio di documentazione su «Lecce sotterranea », nel quale rende un esatto e vastissimo conto degli scavi messapici della sua città.
In generale tutti son d'accordo nella revisione deí fantasiosi luoghi comuni emessi dai nostri antichi, quasi sempre facili nel dogmatizzare ipotesi inverosibili. Ma errerebbe di grosso chi pensasse ad
una pura opera di demolizione, mentre si dirige lo sguardo alla larga visione della preistoria, attraverso rinvenimenti d'importanza europea. I Messapi, prima avvolti, diciamo così, nella crepuscolare atmosfera della prefazione, divengono adesso degli invasori storici,
con una individuazione etnica che, pur imperfetta ed ipotetica, rappresenta una verità nel mondo delle nozioni possibili. Si inizia il lavoro indefesso nel campo glottologico, per poter fissare positivamente i caratteri essenziali dell'idioma nazionale messapico. Gli scavi, una volta irrazionali e casuali, diventano sempre più normali ed
espressivi, caposaldo fondamentale per ogni affermazione scientifica. Si può dire che in pochissimo tempo la scienza messapica si è
fatta adulta e si è posta decisamente al lato delle consorelle.
Nel primo trentennio del nostro secolo gli studi son proseguiti con
un fervore degno dei pionieri. Dei discepoli valenti hanno assimilato
e continuato la paziente opera di ricostruzione: Francesco Ribezzo
da Francavilla Fontana, orientalista e glottologo di fama, ha portato
sul terreno una prossima e felice soluzione della questione linguistica; Antimo Micalella da Castri ha scritto una ricca serie di volumi
sugli ultimi dati messapografici, mentre dei vivaci ed eleganti divulgatori come il Carruggio ed il Marti hanno informato il pubblico sulle conclusioni meno improbabili.
Manca, è vero, un'organica monografia sui Messapi che condensi
tutto il materiale interessante in un'armonica unità logica e metodologica; e non è un male se i moderni preferiscono piccole monografie ricche di documenti alle romanzate dissertazioni degli avi.
L'impostazione del problema è oggi veramente scientifica. Se
non ci sono (o sono, ancor oggi, per lo meno rarissime) delle date
cronologiche precise, c'è però uno spirito di visione comparata che
facilita molto il progresso delle ricerche.
Quali sono allora le nuove possibilità 'd'indagine? Non possiamo
certo anticipare gli eventi, né è nella nostra particolare competenza
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lo sviluppo delle singole branche pertinenti all'archeologia salentina.
Tuttavia dalle riuscite scoperte linguistiche del Ribezzo e dalla vasta comparizione di recenti scavi, è permesso sperare che molto prossimamente la storia messapica avrà una posizione degna nelle stesse opere generali. Abbiamo sempre insistito sulla topografia di Terra d'Otranto così centrale nei riguardi del cosmo italo-greco, ed è
naturale che la soluzione delle annose controversie sulla etnografia
e la lingua del popolo messapico rivelerà anche agli storici di altri
popoli importantissimi elementi ausiliari. Per nessuna ragione gli
studi messapici dovrebbero cadere in un ruolo di secondo ordine,
ma è augurabile invece che si mantengano a quel lustro che fu imposto dai primi ricercatori scientifici.
Solo con la pazienza e con la collaborazione generale ed altruistica fra i competenti dello scibile ani) co, si giungerà alla sintesi
delle conoscenze messapiche.
IV
IAPIGI E MESSAPI
Sui rapporti fra la razza iapigia e quella messapica ci siamo intrattenuti nella prima parte (v. « Zagaglia» fasc. 9 del marzo 1961),
svolgendo dei concetti iniziali e introduttivi su quella grandiosa immigrazione che il condottiero Messapo diresse, secondo una versione
comune, (che a suo tempo citeremo esaminandola), verso la contrada idruntina.
Rilevammo pure nella prima parte le difficoltà per lo studioso
moderno, nei riguardi di queste antiche colonizzazioni di popoli, sempre avvolte nel fondo poco decifrabile della leggenda locale e, per
di più, a causa dello spirito nazionale ellenico.
Noi siamo tra coloro che, pur distinguendo la nazionalità degli
Iapigi da quella dei Messapi, ritengono però che fra l'una e l'altra
esista un comune vincolo di iniziale fratellanza etnica. E' stato scritto sopra che le sedi originarie degli Iapigi e dei Messapi, e cioè l'Illirico e l'Epiro, erano a una distanza non troppo lontana, per cuí
dei rapporti dovevano essere facilmente sviluppati e continuativamente mantenuti fra Illiri e Messapi. Ma a questi ultimi la letteratura archeologica attribuisce pure una denominazione assai conosciuta nel mondo della storia antica, il nome di Pelasgi.
Le notizie sui Pelasgi toccano il nostro studio, perchè ad essi
risalirebbe l'origine degli stessi Messapi, se si tiene conto di quelle
antiche costruzioni dell'Ellade, del Peloponneso e dell'Italia, tanto
colossali da essere ritenute come opere dei mitici Ciclopi. Ed in Terra d'Otranto non mancano appunto le così dette mura ciclopiche o
pelasgiche.
Luigi Hugues (op. cit. - pag. 395), dice: « Alcuni scrittori considerano i Pelasgi come un ramo antichissimo della grande schiatta,
alla quale appartennero più tardi gli Elleni, nelle loro quattro famiglie dei Dori, degli. Eoli, degli Ioni e degli Achei. Altri li fanno di razza semitica, e propriamente del ramo fenicio di questa razza: \secondo altri, infine, i Pelasgi erano strettamente affini coi popoli illirici
del settentrione. Onde abbia avuto origine il nome di Pelasgi e chi
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4 - LA ZAGAGLIA
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lo usasse per primo, non sappiamo... Le tre opinioni sopra espresse
sulla origine dei Pelasgi si fondano ciascuna sopra validi argomenti:
tuttavia la più comunemente accolta è la prima, secondo la quale il
nome di Pelasgi non indicherebbe, rispetto ai Greci, una differenza
elnografica, ma sì soltanto cronologica, e comprenderebbe un medesimo popolo, in distinte età e in diverso grado di coltura... ». D'Altra parte lo storico della Grecia J. Beloch (I Greci sino ad Alessandro
il Grande, in Storia universale di Pflugk-Ilarttung - Milano 1914 - I,
pag. 142) ha scritto che i Preelleni non possono avere avuto íl nome
di Pelasgi, in quanto che è assurdo che il sopravvivente termine di
Pelasgi si riferisca in epoca storica a un popolo vinto e sottomesso,
e che mentre Omero ed Esiodo ammettono la coesistenza dei Pelasgi
e degli Elleni, si deve piuttosto credere che Pelasgi fosse l'antico nome degli stessi Elleni, fino al momento in cui toccarono il suolo greco ed abbandonarono la vecchia denominazione dicendosi elleni. L'illustre storico conclude così: « Tutte le analogie storiche dimostrano
al contrario che è piuttosto il nome dei conquistatori che resta ricongiunto più tenacemente che altrove alle regioni occupate per le prime. Si richiamino alla mente ad esempio nomi come quelli di Francia, Lombardia, Andalusia, Essex, Middlesex, Sussex, Ispaniola, Nova Inghilterra. Dato ciò, occorre ritenere che i Greci, allorchè oceuparono la pianura tessala, cioè quando immigrarono nelle loro sedi
storiche, portavano essi medesimi il nome di Pelasgi; chè un nome
nazionale dovevano pur portarlo allora ».
Ma accettando la tesi del Beloch, come si spiegherebbe la conservazione dei Pelasgi in tante contrade dell'Asia e dell'Europa? E'
preferibile secondo noi l'opinione di Esiodo e di Omero che fa coesistere Pelasgi ed Elleni. Infine non è detto che la teoria discriminatrice faccia nascere un contrasto etnico fra i due popoli abitatori
della Grecia. L'arianità, e cioè la discendenza da uno stesso ceppo
indoeuropeo, è sempre sostenibile, anche non credendo che i Greci
si chiamassero anticamente Pelasgi. Si può pensare che una prima
immigrazione indoeuropea nella Grecia potè avere il nome di Pelasga, e che in seguito nuovi apporti etnici dello stesso ceppo ebbero
una ragione di trasformarsi in Elleni.
La tradizione ha puntato e punta tuttora sulla grecità dei Messapi. Ora se nella prima metà del secondo millennio a.C. i Messapi
-si diressero nella terra salentina, se nello stesso tempo la colonizzazione degli Elleni non era ancora un fatto compiuto in Grecia, come
si potrebbe credere alla grecità dei Messapi? Si può rispondere solo
in un modo, coll'attribuire ai Pelasgi la funzione di pionieri ariani,
assai più limitrofi che non si creda allo spirito e alle istituzioni del
popolo ellenico.
Evidentemente i Pelasgi-Messapi dovettero aver una civiltà discretamente sviluppata, e la loro occupazione nella Grecia dovette
essere assai larga in profondità ed estensione, se alcuni dei nostri
studiosi locali, come il Profilo (op. cit. - pag. 11 e segg.) hanno pensato di far venire il duce Mssapo dal famoso regno della Sicionia
(di cui era nono re), fondandosi specialmente su Agostino (De civ.
Dei, XVIII, 2). Il. Profilo stesso adduce a conferma il Cantù e il Micali. Però, come abbiamo accennato nella prima parte, noi tendiamo
piuttosto a credere che gli Iapigi-Messapi siano passati dall'Epiro in
Puglia e non dalla meridionale Sicionia. La versione tradizionalisti-
i
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ca, che nasce da un passo di Plinio (Hist. Nat., III, cap. XVI, 1) che
dice: « Graeci Messapiam a duce appellavere... », ha ,facilmente collegato la Sicionia con la nostra colonizzazione messapica per evidenti ragioni di vanagloria nazionale. La floridezza e la grande nomea
del regno di Sicionia e la possibilità di qualche pretesto etimologico
hanno fatto concludere senza troppa revisione critica, che gli antenati messapi discendessero direttamente dagli abitanti della Sicionia. Come la leggenda di Enea ha esaltato l'amor proprio dei Romani, facendo risalire le loro antiche origini all'eroe troiano, così l'amor
proprio dei salentini, favorito dalle posteriori leggende fabbricate
dai Greci e Latini, ha posto in ingiustificata correlazione il principato dei Sicioni e l'insediamento messapico )di Terra d'Otranto. E'
verosimile invece che a sud degli Illiri si estendesse la stirpe messapo-pelasga, come sopra abbiamo visto, probabilmente affini ai primi.
L'Epiro ha la posizione geografica che assai accredita un'avvenuta
emigrazione dei Messapi all'al di là del mare Adriatico; e qualche
spinta di nuovi immigratori, probabilmente gli stessi elleni, avrà determinato più decisamente le stirpi messapiche all'abbandono idella
loro patria. E' risaputo che i motivi degli spostamenti dei popoli
consistono soprattutto nell'impulso indiretto delle ondate espansionistiche altrui: l'invasione germanica dell'Impero Romano fu, per
esempio, provocata dai movimenti di lontane orde orientali, che incalzavano e premevano sulle schiatte germaniche. Il fatto inoltre che
i Pelasgi appartenessero alla razza indoeuropea non è un impedimento all'ammissione della loro scacciata da parte degli Elleni. Può
darsi pure che i rimasti fossero posti in istato di schiavitù e di abbrutimento. In tal modo i Messapi, pressati in Epiro, poterono afferrarsi
al mare come l'unica ancora di salvezza, mentre al di là di esso c'erano gli lapigi, con cui avranno forse mantenuto amichevoli rapporti,
fino al momento della violenta immigrazione.
Può darsi pure che i buoni rapporti risorgessero in un secondo
tempo e avvenisse l'assimilazione fra vincitori e vinti nella sede
pugliese, altrimenti non potremmo spiegarci il persistere della denominazione collettiva di Iapigi-Messapi, che denota un certo grado
di comunità etnico-politica, conservata anche dopo l'invasione. Del
resto la stessa stabilizzazione dei Messapi dovette presto porre termine alle competizioni territoriali, e la comune origine fu più forte
del casuale contrasto territoriale.
Rimane però da spiegare meglio il complesso di favole sull'apparire dei Messapi conquistatori. Abbiamo già detto che il nembo di
gloria attorno al regno dei Sicioni costituiva una ragione capitale per
il consolidamento della leggenda. Bisogna aggiungere che Messapo
è il solito patronimico individuatore, creato dai Messapi, allorchè
vollero un capostipite chiaro ed illustre. Il processo dei patronimici
è un capitolo della storia generale antica, e sarebbe assurdo rifiutarsi ad ammetterlo proprio per i Messapi, tanto poco conosciuti e
misteriosi. Messapo è senz'altro il patronimico della gente messapica. Ci domandiamo però in quale epoca sia sorto questo patronimico
e se sia stata la fantasia mesapica a produrlo. Il problema presenta
i suoi lati interessanti alla critica moderna. Difatti, se furono i Greci a creare il mitico condottiero, ciò starebbe a dimostrare che nel
periodo storico, quando i fatti della vita antichissima ebbero una perfetta elaborazione mitica, gli Elleni conservarono nel loro patrimo51
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nio nazionale il ricordo dell'epoca precedente ed intesero elevare e
nobilitare le prime emigrazioni degli antenati.
Una seconda nota leggenda, riportata dal Krass (Storia di Lecce,
Bari 1936 a pag. 22-23), sull'autorità di Diodoro Siculo, che avrà indubbiamente il suo nucleo storico positivo, racconta che il cretese Idomeneo, sospinto dall'avventuroso suo spirito, dopo l'eccidio di Troia
capitò sulle coste salentine e sposò Luippa, figlia del re Malennio.
E' evidente l'analogia fra Enea che sposa Lavinia, figlia del re indigeno latino, dopo le lunghe peripezie del viaggio verso i lidi d'Italia,
e il cretese Idomeneo, che pure approda in un territorio italiano con
un epilogo nuziale. Tale riscontro afferma l'origine psicologica greca
nella formazione dell'epoca messapica. Non è sufficiente la colonia
di Messapo; occorre . che un nuovo eroe ellenico rinnovi e rinsaldi la
parentela spirituale con l'etnos greco. Chi, se non i Greci, ha potuto
dare alle leggende messapiche, abbarbicatesi in seguito sul suolo italico, la nota del romanzesco? Difficile è determinare l'epoca precisa
in cui le leggende assumono una forma storicizzata; come pure non
è chiaro se siano stati gli elleni della Grecia o della Magna Grecia
a costruire un certo sistema storico del popolo messapico.
In conclusione, ci pare accertata la invasione messapica in un
tempo compreso nel secondo millennio a.C. Alla protostoria iapigia
segue su Terra d'Otranto l'epoca che dai massimi colonizzatori fu
detta messapica. Il fatto messapico non esclude però ulteriori immigrazioni orientali nella parte probabilmente più meridionale di Terra
d'Otranto. Il nucleo positivo della leggenda d'Idomeneo rappresenta
simbolicamente una delle piccole ondate immigratorie di cui non possiamo stabilire l'epoca neanche approssimativamente, poichè non sappiamo quando detta leggenda sia stata inventata e tanto meno a quale epoca essa voglia riferirsi.
Quanto poi all'opinione di Pietro Marti (Nella terra di Antonio
Galateo, Lecce 1931 - pag. 39) sulla irruzione posteriore degli lapigi,
che egli pone in una maniera inesplicabile e con una convinzione
.assai strana, è del tutto inutile affannarsi alla demolizione. Forse il
Marti si è fondato, o per lo meno avrà preso a conferma della sua
tesi, le parole del Pais (op. cit. - pag. 339): «...io credo si spieghi
assai bene con l'estensione che i Messapi ebbero nelle Puglie prima
dell'invasione degli lapigi e con la conquista di questa gente la quale
non solo ricacciò i Messapi... ». Ma noi sappiamo che il Pais stesso
ha modificato, dopo, alcune delle sue opinioni espresse prima, e che
lo ha fatto con una certa convinzione scientifica; e ripetiamo perciò
che gli lapigi hanno preceduto i Messapi, anche se poco tempo prima; ed è a loro che si può attribuire il progressivo incivilimento nel
pieno dell'Eneolitico.
V
IL PAESE ABITATO DAI MESSAPI
Stabilita approssimativamente quella che fu forse la loro patria
di origine, seguita la loro emigrazione, passiamo ora alla descrizione
del territorio che i Messapi occuparono nell'antica Italia.
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Non è possibile specificare il punto di approdo, né le coste che
abitualmente i Messapi ebbero davanti nel loro viaggio transmarino.
Certamente essi formarono dapprima dei nuclei iniziali di colonizzazione, dai quali mossero in seguito verso una penetrazione più estesa
del nuovo paese; e tale paese, come già s'è accennato, ossia la Messapia, doveva essere quella penisola, chiusa approssimativamente dall'istmo tra Brindisi e Taranto, fino al promontorio di Leuca, detto
Iapigio, e propriamente quella parte di territorio che Strabone, nel
libro VI, confonde sotto lo stesso vocabolo di Messapia, lapigia, Calabria, Salentina, e poi anche distingue (par. cit. 277-282).
I predecessori dei Messapi, intanto, abitavano una zona su cui gli
scrittori antichi non si sono mai intesi unanimemente.
Abbiamo visto come dai passi Citati degli scrittori antichi (Erod.
VII. 170; Strab. VI, 277, 281, 282; Plinio III, XVI, 2 - ecc.) si desume
evidentemente che la Iapigia si estendeva sino al promontorio Salentino o Iapigio, oggi Capo Leuca. Diodoro intanto (XX, 35 e 80) dà il
nome di Iapigi a quel popolo della Puglia settentrionale che subiva
le aggressioni dei Sanniti. Questo ci serve per argomentare che l'estensione della lapigia, cosa ormai pure nota ed accettata data scienza moderna, toccava il monte Gargano e, fino al promontorio Salentino, comprendeva i Dauni, i Peucezi e i Messapi, questi ultimi altrimenti detti Calabri e Salentini. E se mettiamo in relazione ciò che
dice Diodoro (Ioc. cit.) col passo del Mommsen, citato nella prima
parte (v. « Zagaglia » fasc. 9 del marzo 1961), non è inverosimile pensare che originariamente gli Iapigi si siano stanziati verso il nord della Puglia, e che l'estendersi o anche spostarsi del loro nome dal nord
verso il sud della Puglia coincida con lo stesso spostamento e una
certa stabilizzazione degli stessi Iapigi dal Nord al sud, appunto
per le aggressioni dei Sanniti. ,Comunque, l'estensione della Iapigia
toccava questi confini.
Ora in una parte di essa i Messapi stabilirono la loro residenza
e costituirono le loro città; e non è detto che la Iapigia occupata
dai Messapi perdesse completamente la popolazione Iapigia. Il cambiamento di nome importa un mutamento di supremazia politica
entro un confine approssimativo. Come pure è logico che il periodo
di massima potenza messapica potè fare estendere dominazione e
denominazione per un tratto più largo di quello che è rimasto nella
storia. Il Profilo (op. cit. - pag. 6), con testimonianze di scrittori
antichi, afferma che la Messapia non s'inoltrò mai al di là della penisola idruntina, l'istmo della quale va da Taranto a Brindisi. La stessa Messapia fu divisa in due popoli distinti, cioè in Messapi, detti poi
Calabri, e in Salentini. Plinio (III, XVI, 14) ci ,dà i confini della Messapia, che approssimativamente vanno dal promontorio Iapigio fino
a Brindisi e Taranto, fino cioè alla Peucezia, sebbene abbia confuso
i due nomi di Messapia e Peucezia. Pausania (Descr. Graer. X, 10, 6)
NIEG77.',Túpi
ricorda i Messapi come confinanti coi Tarantini ( „
rx.:-/rrv(,iv ri 37.22(.0 .9 ...): i confini della Messapia sopra stabifIfJ"):■00
liti hanno quindi un fondamento. Quanto poi alla Sallenzia, essa non
dovette estendersi fino al suddetto istmo, ma in, massima parte verso
il promontorio lapigio, dalla parte dello Ionio. Infatti Plinio chiama
indifferentemente (III. XVI, 4) il Capo Leuca promontorio «Salentino
sive Iapygio », e nel libro II, CVI, 4, attribuisce Manduria ai Salentini.:
«In Salentino iuxta oppidum Manduríam lacus ad margines plenus »,
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La stessa cosa fa Livio (XXVII, 15): «Q. Fabius consul oppidum in
Salentinis Mandurium vi cepit ». Strabone (VI, 277, 281, 282) ci indica
anche il territorio Salentino. Mela (Chorog. II, 59) distingue í Salentini dagli altri popoli « tum Italici populi Picentes, Frentani, Danni,
Apuli, Calabri, Sallentini»; e ('II, 66) ne cita alcune città: « Iam ín
Calabria Brundusium, Valetium, Lupiae, Hydrus mons, tum Sallentíni
campi et .Sallentia litora et urbs Graia ». AI IL 68 dice poi:
« primus (sinus) Tarentinus dioiitur inter prumunturia Salleintinum
et Lacinium ».
Per tutte queste citazioni e per le altre riportate dal Profilo (op.
cit. - pag. 7-8), si può dunque accettare quanto afferma lo stesso Profilo, che cioè « la Sallenzia compresa quella parte dell'odierna nostra
provincia, che dal capo dell'Ovo, fino a Vaste si distende lungo la
marina, ristretta dentro terra da una linea tratta dalle vicinanze di
Manduria per S. Pancrazio, Salice, Magliano, S. Pietro in Lama, Sternatia, Soleto, .Cutrofiano, Scorrano e Botrugno fino al mare presso
Gagliano; e che la Messapia o Calabria dalle città di Vaste e Castro
lungo l'Adriatico non si estese più oltre delle pertinenze di 'Carovigno,
donde per Ceglie, Montemeso, Grottaglie ed Oria si allargò per il rimanente della contrada dentro terra confinante con la Sallenzia ».
La Messapia, secondo i confini sopra stabiliti, comprese molte
città di maggiore o minore importanza, fra le quali Hydruntum. Lupia, Rudia, Messapia, Thirea o Thuria, Hyria o Uria, ecc. La Sallenzia poi comprese pure città più o meno importanti, tra cui 1■Ianduria,
Neretum, Soletum, Aletium, Callipolis, Uxentum, Veretum, Leuca, Castrum Minervae, ecc.
E' giusto pensare però che i confini entro cui erano comprese
dette città, e cioè i confini della Messapia, della Calabria e della
Sallenzia, siano stati non sempre costanti, ma siano stati relativi ai
diversi periodi di tempo e ai diversi gradi di supremazia politica di
ciascuna regione, specialmente se si pensa al fatto che Strabone abbia chiamato la penisola idruntina confusamente Messapia, Calabria.
Sallenzia e Iapigia.
_ Dentro questo panorama corografico i Messapi svilupparono in
Terra d'Otranto la loro secolare civiltà. La posizione geografica del
paese da loro occupato si prestò a conservarli al centro degli scambi
etnici e culturali. Tra la Grecia e l'Epiro da una parte, la Magna Grecia e gli Iapigi dall'altra, essi dovettero avere sempre la possibilità di
fondere e scontrare il loro destino con quello dei popoli assai evoluti: la loro storia infatti divenne ben presto cronaca di lotte con
Taranto ed altre importantissime città. Le loro opere architettoniche
poterono attaccarsi assai bene alla terra conquistata e colonizzata;
l'anima etnica di protoelleni potè produrre anche nel nuovo paese
la sintesi armonica, che fu la dote più eminente del popolo greco.
A noi moderni, che dopo più millenni diamo uno sguardo alla vita
di questa gente antichissima, la Messapia sembra immedesimata coi
suoi colonizzatori che le diedero il nome. Un'autoctonia spirituale
dovè stabilirsi fra i Messapi e la Messapia, così che anche oggi non
è possibile ricordare l'una senza gli altri e non tenere in certo modo
giustificata quella opinione della scienza tradizionalistica che ha preteso riconoscere nei Messapi-lapigi gli autentici aborigeni di Terra
d'Otranto.
(contiva)
MARCELLINO LEONE
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