collana | Marketing e Comunicazione GOVERNARE LE RELAZIONI Obiettivi, strumenti e modelli delle relazioni pubbliche prefazione di Andrea Illy postfazione di Renato Mannheimer NUOVA EDIZIONE AGGIORNATA E AMPLIATA Introduzione alla seconda edizione Per prima cosa è importante ricordare che la prima edizione di questo libro, uscito il libreria nei primi mesi del 2003, teneva conto di un importante lavoro di confronto in rete con tutti i soci della Ferpi (federazione relazioni pubbliche italiane). Per parecchio tempo, ogni settimana il sito dell’associazione pubblicava una prima traccia di un capitolo dando la possibilità agli interessati di intervenire, aggiungere e correggere. Sono stati più di cinquanta complessivamente i miei colleghi che hanno collaborato attivamente e di questo li ringrazio. E’ anche rilevante dire che il libro è stato presentato e discusso con operatori, docenti e studenti nel corso del 2003 in una ventina di città italiane, e anche da questo road show sono emersi molti suggerimenti, critiche e osservazioni. A questo si aggiungano i tanti studenti universitari e di master con i quali ho interloquito in questi due anni e che hanno utilizzato la prima edizione come testo di esame; anche da loro sono venuti molteplici spunti e stimoli a rivederne alcune parti. Se poi teniamo conto che dal sito della Ferpi (www.ferpi.it) risultano scaricate qualcosa di più di un paio di migliaia di file del testo completo poiché la prima edizione dal 2004 pare introvabile nelle librerie e aggiungiamo che in questi ultimi due anni i cambiamenti intervenuti nella teoria e nella pratica delle relazioni pubbliche sono stati abbastanza travolgenti, si possono comprendere le ragioni di una seconda edizione, pur con sostanziale revisione. Ci tengo ad rivolgere un affettuoso ringraziamento a Fabio Ventoruzzo, oggi valido professionista e acuto analista in erba, al quale devo un intelligente e continuo confronto dei contenuti, una attenta e critica revisione dei testi, la prima stesura delle note che nella prima edizione erano assenti e l’aggiornamento di bibliografia e webgrafia che a suo tempo curate da Giancarlo Currò. Fabio si è laureato a pieni voti all’Università di Udine nel 2003 con una tesi sul Gorel con l’ottima professoressa Renata Kodilja e quindi ha usufruito di un assegno di ricerca per aiutarmi nelle relazioni con gli studenti di quell’ateneo per poi approdare ai primi incarichi professionali. Infine esprimo apprezzamento e stima verso Andrea Illy e Renato Mannheimer i quali hanno riletto e sostanzialmente confermato in prefazione e postfazione le opinioni già espresse per la prima edizione. (tmf) 1. Introduzione alle relazioni pubbliche 1.1 La giornata di Mario Rossi Mario Rossi vive e lavora a Milano, ha moglie e due figli di 18 e 20 anni, è impiegato presso Banca Intesa, tifa per l’Inter, legge Il Giornale e vota Forza Italia. Si sveglia alle sette, vive in un appartamento affittato alle Generali, dorme su un letto Ikea, vestaglia e pantofole acquistate in Rinascente, si lava in un bagno con sanitari Ideal Standard e si pulisce i denti con Colgate. Beve un caffè illy e indossa un vestito Marzotto. Prima di salutare la moglie, raccomanda al figlio Giacomo, maturando, di andare in Bocconi per l’incontro di orientamento, poi dice al maggiore, Giorgio, primo anno allo Iulm e interessato alla comunicazione finanziaria, di osservare con attenzione l’evoluzione della fusione TIM-Telecom: in banca si sussurra che sia in vista un importante accordo internazionale. Si dirige verso l’edicola, compra Il Giornale, prende la metropolitana, legge un articolo sui rapporti Bush-Putin, scorre un pezzo sul dibattito D’Alema-Rutelli-Ulivo, guarda come vanno le sue azioni AEM, vede se Moratti ha completato bene la campagna acquisti, si ricorda che in serata deve passare alla Vidas dove è volontario, e arriva in banca per iniziare la sua normale giornata di lavoro. Fermiamoci. Anche sua moglie, assistente in una boutique di prêt-à-porter, e i suoi figli, nel breve periodo compreso fra le sette e le nove di mattina, entrano in qualche relazione con almeno una ventina di organizzazioni complesse. E questo senza contare i pensieri che nel frattempo occupano la loro attenzione, i tanti messaggi che ricevono distrattamente ascoltando la radio del vicino, dando un’occhiata alle affissioni in metropolitana oppure sentendo le chiacchiere delle due ragazze in piedi vicino all’edicola che confrontano i rispettivi profumi. Nel corso di una qualsiasi giornata, una persona che vive in città entra in relazione con centinaia di organizzazioni complesse (alcuni recenti studi parlano di migliaia). Queste “relazioni” possono essere consapevoli e volute; consapevoli ma subite; oppure inconsapevoli e, quindi, anche in questo caso subite. Non serve procedere oltre, se non per concludere che, per ciascuna di quelle organizzazioni, la sia pur fuggevole – ma non sempre è tale – relazione intrattenuta con Mario Rossi e con altri come lui, costituisce un momento importante della loro attività primaria: quella che sempre più frequentemente gli analisti indicano come essenziali per la creazione di valore, la ragione stessa per cui esistono e che si può chiamare “missione”; diversa dalla “visione”, che è l’immagine del futuro che l’organizzazione si impegna a trasformare in realtà, e che – a sua volta – si differenzia dai “valori guida”, le regole comuni e condivise alla base del patto, più o meno esplicito, che impegna chi lavora all’interno di, con e per una organizzazione. Per compiere consapevolmente e in modo programmato il tragitto dalla “missione” alla “visione”, l’organizzazione identifica e attua una “strategia” il più possibile chiara e condivisa che, a sua volta, si compone di “programmi” che vengono attuati applicando specifici “strumenti operativi”. Si comprende dunque come la gestione consapevole dei sistemi di relazione con tutti coloro che possono aiutare o ostacolare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti abbia oggi assunto un peso crescente per ogni organizzazione1. Questa gestione costituisce il compito principale assegnato alle relazioni pubbliche. All’interno 1 Per avere successo una organizzazione deve integrarsi armonicamente ed entrare in relazione con tutti gli elementi dell’ambiente in cui intende operare. Partendo da questo presupposto il più reputato studioso internazionale delle relazioni pubbliche, James Grunig, sostiene che il cuore della professione sta proprio nella relazione. In questi ultimi anni la scuola di una organizzazione e intorno a essa, molte persone impegnano una parte rilevante del loro tempo e delle loro competenze professionali per sviluppare relazioni – dirette e indirette – volte a influenzare, orientare, modificare o consolidare le opinioni, i comportamenti, gli atteggiamenti e le decisioni di Mario Rossi. Accrescere dunque il valore della relazione con Mario Rossi costituisce oggi la finalità di ogni organizzazione. Attraverso questa relazione infatti, è possibile “ascoltare” e interpretare le opinioni, le aspettative e i desideri di Mario Rossi, definire obiettivi realistici, progettare e realizzare iniziative che ne facilitino il raggiungimento e infine, misurare se le iniziative intraprese siano state efficaci. Quando tali relazioni si propongono di orientare un comportamento di acquisto, le attività di relazioni pubbliche agiscono, normalmente, in supporto alla pubblicità, ma anche – come vedremo più avanti parlando di comunicazione integrata – alla promozione e al direct response. Sono invece queste altre discipline a essere applicate in supporto alle relazioni pubbliche, quando le relazioni con Mario Rossi si propongono di orientare i suoi comportamenti, le sue opinioni o le sue decisioni, diverse dal semplice consumo di un prodotto o servizio: per esempio, partecipare o meno domani allo sciopero dei bancari, votare ancora per Forza Italia, pensare che la Fiat abbia fatto bene a staccarsi dalla General Motors, concordare con Enzo Biagi che sarebbe bene introdurre forti incentivi anche per le aree depresse del Nord. 1.2 Pervasività Le relazioni pubbliche sono quelle attività consapevoli che una organizzazione -sociale, pubblica o privataintraprende per entrare e/o restare in relazione con i suoi pubblici influenti2: quelli che il suo gruppo dirigente (la “coalizione dominante”) ritiene possano agevolare oppure ostacolare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti. Così intese, le relazioni pubbliche sono divenute pervasive nella società contemporanea e la loro finalità è di contribuire a generare in quei pubblici specifici opinioni, comportamenti e decisioni che consentano all’organizzazione di raggiungere i suoi obiettivi con un migliore rapporto costi/benefici, e agli stessi pubblici influenti di ricavare un misurabile valore aggiunto dall’avere aiutato l’organizzazione3. Raramente una persona “normale” viene consapevolmente esposta a queste attività che si rivolgono – di norma – a soggetti attentamente preidentificati e selezionati: leader di opinione, giornalisti, decisori pubblici, personaggi influenti della comunità economica o finanziaria, personalità della cultura, dello sport e dello spettacolo; persone che possiedono le “chiavi del cancello”, i cosidetti gatekeeper che filtrano, reinterpretano e trasferiscono all’opinione pubblica, con il peso della loro autorevolezza, i messaggi elaborati dalle stesse organizzazioni. relazionale/sistemica di Grunig si è diffusa fino ad avere la prevalenza fra gli studiosi e nella comunità professionale più consapevole. 2 Il concetto di pubblico/pubblici (publics, in inglese) – sebbene fondamentale per le relazioni pubbliche – è stato oggetto finora di poche riflessioni teoriche che comunque rispecchiano in larga parte la “teoria situazionale” (Grunig e Hunt, 1984; Grunig e Repper, 1992). Secondo questa, i pubblici si aggregano quando percepiscono un problema (una conseguenza indotta dalle attività dell’organizzazione) su di una determinata questione (issue). Non tutti gli stakeholder diventano publics. È Freeman, nel lontano 1984, a utilizzare per primo il termine stakeholder indicando quei soggetti sui quali l’organizzazione, nel perseguire finalità istitutive e obiettivi operativi, produce conseguenze e – per converso – coloro i cui atteggiamenti, opinioni, comportamenti e decisioni, producono conseguenze sull’organizzazione. I publics possono invece rimanere allo stato latente (non percepiscono il problema), oppure evolvere e diventare – nell’ordine – pubblici consapevoli (riconoscono il problema, ma non sono interessati ad agire), oppure pubblici attivi (coinvolti e interessati alla risoluzione del problema). Negli ultimi tempi questa teoria è oggetto di osservazioni critiche che sottolineano la passività attribuita all’aggregazione dei pubblici che si formano solo in conseguenza di determinati comportamenti organizzativi riferiti a una particolare e specifica questione. 3 Le organizzazioni più efficaci raggiungono le finalità perseguite e queste sono, a loro volta, più facilmente raggiungibili se e quando sono negoziate proattivamente con i pubblici influenti. (Grunig, 1992). È la simmetria tendenziale della relazione, il cui fine è la comprensione delle reciproche aspettative e la inclusione di queste – ove ritenute accettabili – negli obiettivi operativi della organizzazione. Questo produce una conseguente accelerazione dei tempi di attuazione. Anche la consapevolezza precoce delle aspettative ritenute non accettabili, consente all’organizzazione di anticipare (e prepararsi al)le potenziali crisi: e questo concorre ulteriormente a diminuire i tempi attuativi, con un miglior rapporto costi/benefici. Capita talvolta, però, che non ne siano consapevoli neppure i soggetti influenti a cui quelle attività sono dirette. E questa è una delle ragioni principali per cui le relazioni pubbliche sono spesso accusate di essere “occulte”. Nel primo caso, non è utile, né opportuno, attribuire al relatore pubblico la responsabilità di esplicitare erga omnes le attività svolte, gli interessi rappresentati e gli obiettivi perseguiti... sarebbe come obbligare un commerciante a informare ciascun abitante del circondario di ogni vendita e di come sia stata conseguita! Piuttosto, è lo stesso soggetto a cui l’attività viene diretta a dover valutare se – e fino a che punto – sia necessario od opportuno informare i “pubblici di riferimento” che i suoi atteggiamenti e comportamenti, le sue decisioni e opinioni possono anche essere, di volta in volta, influenzate dal lavoro di relatori pubblici. È un comportamento, quest’ultimo, per alcuni aspetti inverosimile e per altri, al contrario, auspicabile. Da un lato, infatti, è normale che un leader d’opinione venga orientato da un numero sempre più ampio di “agenti di influenza” e che, in ogni caso, questo possa avvenire con frequenza più intensa rispetto a una persona normale. Il renderne fedelmente conto ai rispettivi “influenzati” o “influenzabili” sarebbe dunque complesso e verosimilmente tedioso al punto da complicare gli stessi flussi comunicativi sociali fino a renderli indecifrabili. Dall’altro, è anche vero che un leader di opinione è tale proprio in quanto riscuote la fiducia dell’influenzato e un rapporto di fiducia si basa, normalmente, sulla trasparenza e sulla credibilità della relazione. Appare dunque chiaro come non sia possibile definire regole generali valide per tutti e in ogni circostanza. L’influente dovrà valutare caso per caso, tenendo ovviamente conto del fatto che il suo interesse prioritario risiede, di norma, assai più nel mantenere e consolidare la fiducia dell’influenzato che non nel soddisfare le aspettative di un relatore pubblico. Peraltro, l’influente sa anche bene che, se si indebolisce il suo potere di influenza, rischia anche, e inevitabilmente, di perdere l’interesse e l’attenzione dello stesso relatore pubblico. Nel secondo caso invece (quando è lo stesso influente a non essere consapevole delle attività del relatore pubblico) è bene dire subito e a scanso di equivoci che, di norma, un operatore che non attiva una relazione trasparente con il suo interlocutore è un operatore scorretto, che viola i codici deontologici della professione, danneggia la credibilità sua, quella dell’interesse che rappresenta e, più in generale, quella delle relazioni pubbliche come professione. Questa precisazione, che assomiglia a un “anatema”, risulta necessaria poiché la trasparenza del relatore pubblico4 è (ma le eccezioni esistono sempre) condizione imprescindibile di efficacia. Come è possibile, infatti, immaginare un influente orientato nel medio-lungo periodo da un operatore il quale, nell’esercizio della sua attività, non agisce in modo trasparente, non esplicita i suoi interessi e neppure gli obiettivi che persegue? E ancora: come si può pensare che un operatore, conosciuto nella sua comunità professionale per svolgere la sua attività con modalità non trasparenti e comunque discutibili, possa raggiungere quel minino di consenso sociale che gli permetta di operare in via continuativa con successo? Naturalmente, questa “condizione di efficacia” vale soltanto per chi svolge l’attività professionale in modo continuativo. Dunque, se gli influenti avessero piena consapevolezza della diversità sostanziale fra un dilettante e un professionista, e delle implicazioni deontologiche e operative di tale diversità, l’identità percepita delle relazioni pubbliche sarebbe assai diversa da quella che è, e molte signore “bene”, ex politici, ex giornalisti, ex consulenti, ex avvocati non affollerebbero la professione come fanno oggi in misura crescente. Del resto, è impensabile, anche se sono in molti a desiderarlo, il fatto di porre oggi una barriera all’ingresso per l’esercizio delle attività di relazioni pubbliche. Essendo queste, come vedremo meglio più avanti, strettamente connesse alle dinamiche del “discorso pubblico” in una qualsiasi società democratica, una barriera all’ingresso assumerebbe un insopportabile sapore corporativo, non dissimile dall’esistenza, per fortuna, soltanto in Italia, Brasile, Panama, Perù e Nigeria, di un Ordine dei Giornalisti, istituito 4 Una relazione può dirsi trasparente in presenza dei seguenti passaggi: - dichiarazione della propria identità; - dichiarazione del soggetto che si rappresenta (questo vale non solo per i consulenti); - dichiarazione dell’obiettivo che si persegue. C’è anche un quarto, ulteriore passaggio applicabile solamente ove non si corra il rischio di divulgare informazioni utili alla concorrenza: ed è la dichiarazione delle modalità con cui si intende perseguire l’obiettivo. Il contenuto delle informazioni deve, inoltre, essere tempestivo, veritiero e attenersi come minimo alle norme di legge. Ma questi ultimi passaggi hanno a che fare con altre caratteristiche della comunicazione e attribuirli al concetto di trasparenza rischia di generalizzarlo e di svilirlo nella sua importanza. per legge5. Assai diverso sarebbe invece il riconoscimento che l’opinione pubblica più informata potrebbe attribuire a chi, nello svolgere la propria professione, entrasse a fare parte di una associazione professionale come, per esempio, la FERPI (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana), perché: – ha maturato almeno cinque anni di esperienza professionale dimostrabile; – ha superato un colloquio di ammissione con una commissione di pari; – si è impegnato, pena il decadimento dell’iscrizione, ad accumulare ogni triennio crediti di formazione e aggiornamento professionale, insieme a una verifica (sempre condotta da pari) dell’effettiva permanenza dei requisiti professionali che, a suo tempo, ne avevano consentito l’accettazione. Considerando questo ragionamento preliminare, forse un po’ semplicistico ma, crediamo, sufficientemente razionale, l’annosa questione delle relazioni pubbliche come strumento di persuasione occulta perde una parte consistente della sua forza, anche se, chiaramente, non tutta. Infatti, occorre considerare che gli iscritti alla FERPI sono 1.000, contro una stima di 70.000 operatori in Italia: 40.000 dei quali operativi nel settore pubblico (uffici stampa, uffici del portavoce e uffici relazioni con il pubblico); 10.000 nel settore privato (imprese); 5.000 in quello associativo (terzo settore) e altrettanti nelle società di consulenza, studi professionali oppure liberi professionisti. La situazione non è molto diversa nel resto del mondo. Si calcola infatti che siano almeno 3 milioni i relatori pubblici attivi, ma che non più di 250.000 partecipino a una delle diverse associazioni professionali esistenti, che possono essere suddivise in associazioni: - nazionali di persone (come la FERPI in Italia o la PRSA negli Stati Uniti);ù nazionali di imprese (come Assorel in Italia o la PRCA in Inghilterra); internazionali di persone (come la IPRA o la IABC); regionali di persone (come CERP in Europa o CONFIARP in America Latina); settoriali (come INRI per la relazione con gli investitori o IACP per la comunicazione politica); globali (come la Global Alliance for Public Relations and Communication Management, unica nel mondo che si propone come organizzazione “ombrello” per tutte le altre, ma che poggia le sue basi sulle associazioni nazionali di persone). In sintesi, quindi: - la trasparenza è necessaria fra il relatore pubblico e il suo diretto interlocutore; il fatto che il lettore comune di un qualsiasi giornale, un cittadino normale che intenda giudicare l’operato di un decisore pubblico o un consumatore che decida di acquistare un qualsiasi prodotto o servizio possano maturare un’opinione, oppure compiere una scelta, anche perché orientati da persone che ritengono influenti, le quali -a loro volta- possono essere state influenzate da attività consapevoli di relatori pubblici, è un problema che riguarda unicamente il rapporto fra l’influente e i suoi influenzati. Se si interpreta in questo modo la questione non è chiaro dove possa risiedere la persuasione occulta. 5 Sulla questione della regolazione è in corso un vivace dibattito (http://www.globalpr.org) tra regolazione della professione di per sé e/o regolazione delle pratiche specifiche della professione che maggiormente impattano sull’interesse pubblico. Nella prima rientrano i casi di Brasile, Nigeria, Panama e Peru in cui una legge dello Stato disciplina l’esercizio della professione. Nella seconda rientrano i casi di quei tanti Paesi, a partire dall’Italia, che in misura maggiore o minore, prevedono la regolazione per legge (hard) o per regolamento (soft) di alcune attività delle relazioni pubbliche, come la lobby, le investor relations, la comunicazione politica… Una interessante ‘terza via’ alla questione della regolazione e alla tutela dell’interesse pubblico si è aperta nel Febbraio 2005 con la concessione da parte del Governo britannico di un riconoscimento giuridico alla associazione professionale inglese (CIPR). Attraverso questo riconoscimento, che la Ferpi italiana persegue dal 1970, l’associazione professionale rappresenta la professione, definisce e regola i criteri deontologici e di accreditamento professionale e partecipa attivamente ai processi decisionali che tendono a regolare le specifiche pratiche professionali che maggiormente impattano sull’interesse pubblico. Naturalmente il problema non è così semplice, ma se non si parte da questo approccio di base si rischia di assumere posizioni irragionevoli. 1.3 Manipolazione È curioso ricordare come l’espressione “persuasore occulto”, resa popolare quasi cinquant’anni fa dal saggio di Vance Packard, The Hidden Persuaders, del 1957, fosse diretta a indicare gli operatori della pubblicità e non delle relazioni pubbliche. È curioso, poiché è difficile trovare un’altra attività così palese ed esplicita come la pubblicità. Oggi, fa sorridere l’idea che potesse suscitare scandalo un libro in cui si “rivelavano” nozioni come l’immagine di prodotto o la fedeltà di marca. Ma in quegli anni lo scandalo ci fu, e come. Fino ad allora infatti, la pubblicità – disciplina della comunicazione d’impresa che si propone soprattutto di creare e rafforzare una immagine di marca (brand image o brand identity) – aveva attirato soltanto un interesse secondario fra gli studiosi sociali. Fu il prorompente avvento della televisione negli Stati Uniti degli anni Cinquanta ad offrire alla pubblicità uno straordinario canale espressivo che, grazie anche a una positiva congiuntura economica, fece incrementare vertiginosamente – per la prima volta e con modalità consistenti e durature – i consumi di massa con l’affermazione dei supermercati e degli FMCG (fast moving consumer goods). Di qui, dalla constatazione oggettiva di una vistosa modifica dei consumi indotta in larga parte dalla pubblicità televisiva, le preoccupazioni di molti analisti e critici sociali, fra i quali Vance Packard. Nel suo pamphlet egli svela e mette a nudo per la prima volta i segreti di una attività che si propone di convincere i consumatori a compiere azioni non sempre volute e, magari neppure consapevolmente desiderate. Packard considera “oscena” l’idea che la sola differenza tra due prodotti possa consistere in una loro diversa “immagine” trasferita dalla pubblicità. Il fatto, poi, che un pubblicitario possa addirittura condurre ricerche di natura psico-sociale sui consumatori prima di creare il messaggio, al fine di pre-testarne l’accoglienza, gli suonava “sinistra”. Per capire quanta acqua sia passata sotto i ponti da allora, si pensi che già dal 1986 gli investimenti delle imprese in ricerche per conoscere l’impatto della comunicazione dei prodotti/servizi hanno superato quelli in ricerche per conoscere cosa i consumatori pensino degli stessi prodotti/servizi. Nelle società postindustriali di oggi – con qualche occasionale ritorno di fiamma proibizionista di soggetti talvolta anche influenti della comunità politica e sociale – la pubblicità è attività generalmente accettata e riconosciuta, e la conoscenza dei suoi principali processi interni abbastanza diffusa. È una attività in cui si stabilisce una relazione fra: – l’inserzionista, il quale acquista lo spazio di un “mezzo” per trasmettervi un messaggio, normalmente elaborato da una agenzia di pubblicità. Questo spazio viene venduto direttamente dall’editore del mezzo oppure da un suo concessionario, più o meno esclusivo; – l’editore, il quale vende uno spazio su un proprio mezzo, immediatamente riconoscibile come pubblicità dal lettore, direttamente o tramite un concessionario a un inserzionista rappresentato da una agenzia di pubblicità o da un centro media (sorta di gruppo di acquisto); – il consumatore del mezzo il quale lo acquista sapendo bene che vi troverà anche la pubblicità, e che questa è pagata dall’inserzionista. Più trasparente di così! I due anelli della catena, l’inserzionista e il destinatario del messaggio pubblicitario, si trovano accomunati da un patto esplicito e palese: il primo utilizza nel suo messaggio immagini, metafore, iperboli, evoca sentimenti, emozioni e trasferisce informazioni – unidirezionali, meticolosamente controllate, asimmetriche ed erga omnes – che si propongono di rafforzare una identità di marca e/o di stimolare un comportamento di acquisto; il secondo ne è del tutto consapevole e, in qualche caso, anche divertito e compiaciuto. Assai diverso invece è l’ambito di intervento delle relazioni pubbliche, che si trascinano da sempre un’ombra di disciplina “manipolatoria” proprio perché in molti casi le loro attività non sono palesi al grande pubblico. Non passa giorno che, su qualche giornale o rivista, le relazioni pubbliche non vengano accusate delle peggiori nefandezze.6 Per lo più, le critiche derivano da un equivoco di base: pochissimi infatti sanno che le attività di relazioni pubbliche, normalmente, si rivolgono a pochi soggetti, selezionati perché ritenuti influenti, affinché assumano decisioni, oppure orientino opinioni, atteggiamenti e comportamenti di altri, in merito a questioni rilevanti per le organizzazioni che a quelle attività danno vita. Detto ciò, non v’è dubbio che vi siano comunque diversi margini di ambiguità. 1.4 Ambiguità Il tema dell’ambiguità è sicuramente importante ed è bene affrontarlo subito, affinché sia chiaro che ci inoltriamo su un terreno ricco di sfumature, dove è arduo distinguere il bianco dal nero, ma anche – e forse proprio per questo – un terreno affascinante. Ci si propone, infatti, di delineare i connotati di una professione che si realizza nel pieno della contemporaneità, là dove vanno a incrociarsi i sistemi di relazione fra la società politica (i partiti, le istituzioni, i gruppi di interesse, i movimenti della società civile), la società economico-finanziaria (le imprese, le loro associazioni, i sindacati, i gruppi di pressione, i mercati finanziari) e la società dell’informazione (le agenzie, i quotidiani, i periodici, le radio, le televisioni, i new media, gli operatori della cultura e dell’educazione). È un incrocio assai friabile e, per molti aspetti irto di asperità, fra quelle che possiamo definire le tre principali componenti della nostra vita associata e che, per molteplici ragioni, si trovano a essere in rapida e imprevedibile trasformazione e sovrapposizione. È utile parlarne se non altro perché ciò consente di capire meglio il mondo in cui viviamo, di averne maggiore consapevolezza e di governare con più efficacia le relazioni che intratteniamo con la società. È utile parlarne anche perché ci permette di imparare a riconoscere le relazioni pubbliche quando queste vengono dirette verso di noi e con noi chiedono di aprire o sviluppare un dialogo oppure – e succede anche questo – quando esse vengono dirette contro di noi per modificare, senza essere sempre esplicite e immediatamente percepibili, qualche nostra opinione o comportamento. Oggi viviamo in un mondo in cui retorica ed esagerazione (gli anglosassoni parlano più crudamente di hype, “iperbole”) tendono a prevalere e a sostituirsi a quella che una volta sembrava, o comunque si chiamava “sostanza”: un mondo in cui una notizia non esiste se non viene accompagnata da uno “pseudoevento”, che si trasforma nella vera notizia7. Non si capisce perché le relazioni pubbliche debbano/possano sfuggire alla dannazione dell’ambiguità in una società in cui la “comunicazione” ha assunto valenze strutturali; in cui le sue leggi scandiscono il tempo dell’agenda politica, sociale e culturale del Paese; in cui il sistema dei media si è trasformato in un impressionante impasto di marmellata ove informazione, pubblicità, comunicazione, retorica, reality, trash e relazioni pubbliche si intrecciano e giornalisti, editori, pubblicitari, relatori pubblici, politici, imprenditori, analisti e investitori valicano costantemente i rispettivi confini professionali. 6 Scrive Kenny Ausubel, fondatore di Bioneers, un network di ambientalisti: “di tutte le orrificanti tecnologie distruttive del XX secolo, la più pericolosa è costituita ragionevolmente dalle relazoni pubbliche!!!”. Ancora, una recente ricerca della Public Relations Society of America (2002) – sebbene mai pubblicata – ha evidenziato come le relazioni pubbliche siano la professione verso cui gli americani provano minor fiducia e sicurezza. La Global Alliance, tramite l’approvazione del Protocollo Globale sull’Etica avvenuta nel 2003, si muove per tutelare l’interesse pubblico affermando anche che, laddove un relatore pubblico si trovi a rappresentare un interesse privato in conflitto con quello pubblico, deve privilegiare quest’ultimo. È un concetto di difficile interpretazione e di difficilissima applicazione, ciò non di meno è una affermazione importante. 7 Nel lontano 1962 lo storico americano Daniel Boorstin, nel suo pamphlet The image… or what happened to the American Dream, aveva rivolto una pungente critica sociale alla consuetudine di organizzare un evento ad hoc per diffondere una notizia, al punto che è poi l’evento stesso a fare notizia, oscurando l’eventuale informazione originaria. Per l’autore eventi (nel vero senso della parola) sono da considerarsi i maremoti, gli uragani, le guerre….mentre quelli costruiti artificialmente sono da considerarsi “pseudoeventi”, iniziative inventate dalle organizzazioni esclusivamente per attirare l’attenzione di uno o più pubblici. In quell’opera Boorstin critica la pervasività di questi “pseudoeventi” poiché contribuiscono a sovraccaricare in maniera irresponsabile l’ambiente comunicativo affollando di byte effimeri il sistema dei media e la testa delle persone. 1.5 Sostanza Le relazioni pubbliche sono oggi, a tutti gli effetti, una disciplina della comunicazione organizzativa e fanno parte della scienza del management la quale, a sua volta, si occupa della gestione delle organizzazioni complesse. Affermare che le relazioni pubbliche sono parte integrante della scienza del management significa attribuire loro un ruolo che si realizza prevalentemente nell’ambito delle organizzazioni complesse (governi, enti locali, organismi sovranazionali, imprese, associazioni, non profit, enti). È una scelta certamente discutibile che rischia anche di “tagliare fuori” alcuni segmenti storici delle relazioni pubbliche come, per esempio, la press agentry oppure le celebrity pr: attività che vedono l’operatore rappresentare, soprattutto presso i giornalisti, un “cliente-persona”, un attore, uno scrittore, un politico, con particolare attenzione alla cosiddetta “visibilità”, alla “creazione” della notizia, o dell’evento che fa notizia. Fra le tante espressioni usate dai critici per definire i relatori pubblici – ma Sir Tim Bell, grande professionista inglese, afferma di non sentirsi offeso quando viene chiamato così – è quella di “spin doctor”, ove l’uso del termine doctor implica comunque una specializzazione, un’applicazione, un impegno, una competenza, mentre spin deriva dal linguaggio della fisica, poi trasferitosi al baseball (la spin ball: una palla cui il lanciatore imprime un effetto speciale). Dunque, spin doctor come esperto che aggiunge un effetto speciale (alla realtà). A questo proposito, uno degli studi più accurati della storia delle relazioni pubbliche negli Stati Uniti e delle interrelazioni di queste con la cronaca politica, sociale ed economica, a cura di Stuart Ewen, è intitolato proprio PR! A Social History of Spin. Nella storia americana delle relazioni pubbliche, Phineas T. Barnum, famoso impresario di circhi equestri della seconda metà dell’Ottocento, è il più illustre esempio di press agent. Egli era dotato di uno straordinario talento per attirare l’attenzione delle prime pagine dei giornali nelle città in cui si avviava a presentare il suo spettacolo, creando di giorno in giorno storie fantasiose sulla vita privata dei suoi animali, al punto che ancora oggi “a Barnum and Bailey world (just as phony as it could be)” – dai versi di una nota canzone americana degli anni Trenta del secolo scorso (Paper Moon) – è un modo per indicare un mondo falso, di cartapesta, inventato. Del resto, il primo dei quattro modelli di relazioni pubbliche razionalizzati da James Grunig nel 1984 (si veda il capitolo 5), quello della “press agentry”, prescinde nei suoi postulati persino dalla verosimiglianza delle informazioni che vengono trasferite ai media. Tuttavia, pur confermando che anche la press agentry e le celebrity public relations ne sono parte legittima e importante, preferiamo sostenere un’impostazione di taglio prettamente sistemica, manageriale e organizzativa delle relazioni pubbliche dato che, dal secondo dopoguerra, e con intensità crescente negli ultimi trent’anni, le attività di relazioni pubbliche si sono strettamente insediate al centro della gestione delle organizzazioni complesse, e non sembrano esservi particolari segnali di un’inversione di tendenza. E ancora, le stesse attività di press agentry e di celebrity public relations si sono molto evolute negli anni fino a diventare attività rilevanti, quando non addirittura dominanti, anche nelle organizzazioni complesse. L’ufficio stampa o relazioni con i media, come l’ufficio immagine, sono infatti quasi sempre presenti nelle organizzazioni importanti e i loro responsabili sono sempre più frequentemente parte della coalizione dominante. Le celebrity pr, per alcuni studiosi, sono addirittura diventate una vera e propria disciplina, al punto che l’autorevole Philip Kotler ha loro dedicato un libro8 e sui mercati anglosassoni le celebrity public relantions rappresentano un segmento del mercato in grande crescita, al punto che la coalizione di associazioni professionali che ha dato vita al progetto XPRL (Extensible Public Relations Language, un progetto per creare un linguaggio informatico universale dedicato alle relazioni pubbliche) le include fra le attività prevalenti della professione9. È però importante sottolineare l’appartenenza delle relazioni pubbliche alla gestione delle organizzazioni perché ancora oggi, persino fra diversi operatori, esse vengono considerate in modo riduttivo come una funzione 8 Kotler P., Rein I., Stoller M., High Visibility: the Professional Guide to Celebrity Marketing, McGraw Hill, New York 1988; trad. it. Alta Visibilità: marketing delle celebrità, Isedi, Torino 1990. In questo libro gli autori enfatizzano il concetto di visibilità da intendersi come acceleratore di successo in presenza di un mercato altamente competitivo in cui i soggetti che aspirano a emergere sono tantissimi. 9 . Il concetto di celebrità non è da considerarsi solo ed esclusivamente con riferimento allo star system ma rientrano in un’accezione estensiva anche i leader aziendali, politici, sociali e culturali. di organizzazione di eventi e cerimoniale, in contrapposizione alle relazioni esterne, alla comunicazione o immagine: tutti termini equivalenti e accomunati soltanto dalla reticenza di molti operatori e di molte organizzazioni a usare in ogni specifica situazione quello più appropriato. D’altra parte, è importante ricordare che non vi è proprio nulla di riduttivo nell’organizzare un evento o nell’applicare il cerimoniale. In entrambi i casi, si tratta di attività che richiedono una elevata professionalità e rispetto alle quali si sono formati, negli anni, corposi bagagli di conoscenza, proprio come è avvenuto per l’ufficio stampa e la lobby oppure per le relazioni culturali e quelle internazionali e così via, tutte attività specialistiche che, come vedremo, declinano le attività di relazioni pubbliche. Questa insistente, patetica e perfino grottesca “febbre” degli operatori nel volersi definire diversamente da “relatori pubblici”, considerato termine screditato – e ora anche di molti docenti e studiosi cui viene riservato a livello accademico (e per le stesse ragioni) il medesimo ostracismo – sconta una davvero paradossale incompetenza professionale. Non può sfuggire infatti che non è cambiando nome e continuando a comportarsi come prima che si può pensare di recuperare reputazione e credito professionale. Se è vero (come è -almeno questo- fuori di dubbio) che relazioni pubbliche efficaci a medio termine sono quelle che comunicano i comportamenti effettivi, assume allora priorità assicurare che i comportamenti siano coerenti almeno con quanto l’interesse pubblico può legittimamente attendersi. E questo compito non può che spettare allo stesso interesse pubblico (attraverso una legge erga omnes che imponga comportamenti sostenibili), oppure alla comunità professionale (ed è quello che, pare di capire, la maggioranza degli operatori preferirebbe). Sfuggire a questa realtà cambiando nome, rifiutando di farsi assimilare a colleghi che fanno esattamente le stesse cose, costituisce una inconsapevole e anche abbastanza colpevole fuga dalla realtà e dalle proprie responsabilità. Alle relazioni pubbliche vengono oggi attribuite dagli studiosi tre (talvolta quattro, a seconda delle scuole) diversi ruoli professionali: – ruolo tecnico o operativo, che consiste nell’attuazione di programmi di relazioni pubbliche, normalmente già progettati e definiti; – ruolo gestionale o manageriale, per svolgere il quale l’operatore necessita, oltre che delle competenze già indicate, di una capacità di coordinamento delle risorse tecnico-operative; – ruolo strategico, in relazione al quale l’operatore partecipa alla “coalizione dominante” dell’organizzazione e contribuisce a definire quelle strategie che consentano di raggiungere gli obiettivi perseguiti interpretando – tramite un’attenta fase di ascolto preventivo – le aspettative e gli obiettivi dei cosiddetti “pubblici influenti”. Per gli studiosi Betteke Van Ruler e Dejan Vercic10, il ruolo strategico assume due profili diversi da tenere distinti: da un lato un ruolo “riflettivo” (reflective) che implica un continuo negoziato all’interno della coalizione dominante a tutela di una corretta interpretazione delle aspettative dei pubblici influenti; dall’altro un ruolo “educativo” per cui il relatore pubblico assiste gli altri componenti della coalizione dominante nella gestione dei rispettivi sistemi di relazione con i pubblici influenti assicurando la coerenza dei messaggi e la diffusione delle competenze relazional-comunicative, innescando una dinamica virtuosa che porterà quella organizzazione a ‘migrare’ dall’essere solamente ‘comunicativa’ ad essere pienamente ‘comunicante’. Rimane tuttavia, e bisogna prenderne atto, se non altro per capirne fino in fondo le ragioni, il fatto che l’espressione “relazioni pubbliche” non riscuote gradimento nei “piani alti” delle gerarchie aziendali, fra gli stessi operatori, nell’accademia e neppure fra i consulenti di organizzazione, coloro i quali disegnano gli organigrammi e definiscono i vari “titoli” delle funzioni della coalizione dominante. Le ragioni sono diverse e alcune vengono indicate di seguito per dare il sapore della discussione che da molti anni si agita in tutto il mondo su questa questione (the naming issue)11. 10 Dejan Vercic e Betteke van Ruler sono gli autori di Bled Manifesto on Public Relations, 2002 (scaricabile da http://www.bledcom.com), un importante tentativo della scuola europea per evidenziare e razionalizzare le specificità continentali rispetto alla tradizionale matrice anglo-americana nella pratica delle relazioni pubbliche. 11 È curioso notare come già al congresso europeo delle relazioni pubbliche tenutosi a Roma nel 1986, lo svedese Goran Sjoberg sottolineava una auspicabile omogeneità nella definizione della funzione svolta dai relatori pubblici. L’espressione “relazioni pubbliche” viene comunemente utilizzata per indicare le attività più diverse e non esiste alcuna protezione dal suo abuso, che è continuo, e non solo nel nostro Paese (il PR di discoteca, la PR massaggiatrice, il PR portaborse). In Italia, inoltre, si usano indifferentemente le due espressioni “pubbliche relazioni” e “relazioni pubbliche”. La prima dizione è errata e deriva da un’impropria traduzione dell’espressione inglese “public relations” (nel senso di relazioni con i pubblici influenti). Questa anomalia ha lasciato del tutto indifferenti gli stessi operatori, che – anzi – sono i primi a non curarsi del nome della loro attività professionale: è il classico caso del ciabattino che gira con le scarpe rotte. A nessun francese verrebbe in mente di chiamarle publiques relations, nessun spagnolo le chiamerebbe publicas relationes in Italia invece… Del resto, è anche un fatto che i relatori pubblici sono stati, e sono ancora oggi, responsabili o complici di comportamenti e decisioni discutibili sul piano etico, culturale, sociale, economico e, last but not least, estetico. Ciò permette di comprendere la titubanza di alcuni ad utilizzare tale nome per indicare attività che, invece, per la maggior parte, sono serie, legittime, rilevanti, eticamente irreprensibili. Inoltre, i giornalisti, ben consapevoli di quanto il loro lavoro dipenda dalle relazioni pubbliche, ma prigionieri del mito del giornalismo indipendente e contro il potere, non sempre gradiscono che i lettori ne siano al corrente, e questo crea un certo astio. Così, gli operatori di relazioni pubbliche -quelli che non fanno i buttafuori di discoteca, il portaborse del politico o il massaggio di appartamento- cercano, privi di senso del ridicolo, di distinguersi definendosi con un altro nome. Non a caso, quindi, la questione del nome emerge periodicamente all’attenzione degli organismi di rappresentanza professionale. Quando tale quaestio terminerà di riemergere nel dibattito pubblico a intervalli irregolari, spesso indotta da fatti di cronaca, vorrà dire che la professione avrà finalmente raggiunto la sua piena maturità. 1.6 Cerniera Le prime a fare un uso organizzato, disciplinato, consapevole e diffuso delle relazioni pubbliche sono, agli inizi del XX secolo, le imprese private, che affidano a operatori provenienti, per la maggior parte, dal giornalismo o dalla avvocatura12 il ruolo di “cerniera” con due sistemi di interlocuzione decisivi per gli obiettivi perseguiti e divenuti, con l’avvento della società industriale, troppo complessi per essere gestiti in prima persona dall’imprenditore: la decisione pubblica (il governo, il parlamento, l’amministrazione pubblica, i partiti) e l’opinione pubblica (la stampa, la radio, gli altri media e i leader di opinione). Di per sé, questo ruolo di cerniera assume necessariamente connotazioni ambigue e il suo successo stesso dipende, in gran parte, dalla capacità del relatore pubblico di accreditarsi, di rendersi credibile, e quindi anche di integrarsi presso questi due sistemi di interlocuzione, fino quasi a rendersi da loro indistinguibile. Questo però senza mai rinunciare alla piena e trasparente enunciazione degli interessi rappresentati. Un compito non sempre agevole, talvolta impossibile, sovente delicato e difficile. Vedremo infatti più avanti come fiducia e credibilità – condizioni ineludibili di una relazione che consenta di produrre un cambiamento consapevole e condiviso – siano strettamente legate alla trasparenza degli interessi rappresentati. E il tutto viene ulteriormente complicato dal fatto che il sistema economico, il sistema politico e il sistema dell’informazione, fortemente intrecciati (si pensi solo al caso italiano di Berlusconi), misurano la rispettiva legittimità con indicatori diversi: il profitto, il voto e il numero di copie vendute. Eppure, tutti e tre i sistemi hanno egualmente bisogno di essere credibili e di attirare il consenso di: – azionisti e consumatori, per quanto riguarda le imprese; – elettori, per i politici; – lettori, per i giornali. 12 Come vedremo meglio nel prossimo capitolo, la prima agenzia operativa di relazioni pubbliche è stata la Publicity Bureau di Boston nel 1900. Nel 1902 è stata la volta dell’agenzia dell’avvocato William Wolff Smith a Washington che per primo iniziò a svolgere in maniera sistematica l’attività di lobbying. Nel 1904 Ivy Ledbetter Lee fonda la Parker & Lee, agenzia specializzata in relazioni con i media. In sostanza si tratta sempre delle medesime persone, osservate da diversi punti di vista, le cui opinioni, i cui atteggiamenti, i cui comportamenti e le cui decisioni vengono influenzate da diversi agenti economici, politici e sociali, per di più in frequente conflitto fra di loro. Di qui anche la constatazione che nelle relazioni pubbliche, e in generale nella comunicazione delle organizzazioni, la competizione non si limita soltanto a organizzazioni concorrenti attive nello stesso settore, ma si estende a tutte quelle che, con maggiore o minore consapevolezza, si sforzano di occupare lo “spazio di voce” (share of voice) nei media e, soprattutto, lo “spazio di attenzione” (share of mind) di azionisti, consumatori, elettori e lettori. Negli anni Sessanta e Settanta, l’impatto comunicativo di una organizzazione, soprattutto per quanto riguardava i beni di largo consumo, veniva misurato in termini di percentuale, di share of voice: fatto 100 lo spazio occupato sui media da parte di una determinata categoria di prodotti (per esempio, i detersivi o i saponi), lo share of voice di una marca ne rappresentava l’x per cento. E in quegli anni, la quota di mercato effettiva di una marca corrispondeva, almeno in proporzione relativa, abbastanza fedelmente allo share of voice. La situazione in questi anni è fortemente cambiata a causa del cosiddetto “clutter”: lo straordinario affollamento di media e messaggi13, che ha finito per determinare una sorta di assuefazione (mitridatizzazione?) generale. Le organizzazioni hanno quindi spostato l’attenzione comunicativa dallo share of voice, che rimane pur sempre determinante, se non altro in chiave difensiva (“se perdo punti in percentuale rischio anche di perdere quote di mercato”), allo share of mind. Oggi, come già detto, siamo sommersi dal diluvio informativo e dalla comunicazione apparente e spettacolare. Attirare l’attenzione, lo share of mind, è dunque diventato l’obiettivo prioritario per le organizzazioni, al punto che autorevoli analisti economici e sociali sostengono che siamo entrati in una “economia dell’attenzione”. L’ambiguità delle relazioni pubbliche risiede dunque nel fatto che esse si occupano delle interrelazioni fra comunità economica, politica e dell’informazione e, inoltre, agiscono come “sale” della dinamica sociale, che per definizione è tutt’altro che chiara, cristallina e prevedibile. In questa dinamica ogni soggetto dichiara una propria identità e, dichiarandola, sviluppa con altri relazioni ritenute funzionali al raggiungimento degli obiettivi che persegue. L’efficacia di queste relazioni è correlata, soprattutto, alla familiarità dei contenuti dei messaggi trasferiti e alla fiducia/credibilità ispirata dal soggetto fonte di quel messaggio, ma anche, com’è ovvio, dal relatore pubblico che se ne fa portavoce. I contenuti del messaggio rispondono a un criterio, per così dire, oggettivo, mentre la fiducia suscitata dalla fonte primaria o secondaria è quasi interamente soggettiva. Risulta quindi facile comprendere come sia arduo definire regole valide per tutti, comportamenti sempre accettabili e metodologie applicabili in qualsiasi situazione. Comunque, un tentativo in tal senso è stato fatto -e da molti annidalle associazioni professionali e, in qualche caso, anche da leggi, norme e raccomandazioni di diversi Stati e Authorities. Ma è evidente che si tratta, comunque e sempre, di indicazioni di ordine generale, quando non generiche. A questo si aggiunga -per sottolineare la questione della ambiguità- che, come anticipato all’avvio di questo capitolo. la relazione fra i soggetti che interloquiscono ha assunto un valore fondamentale nella creazione del valore prodotto di una organizzazione. E questo impone l’adozione di indicatori condivisi di valutazione della relazione capaci di dare alle coalizioni dominanti delle organizzazioni e ai loro stakeholder una idea convincente dell’efficacia di una attività, le relazioni pubbliche, che assorbe risorse sempre più rilevanti. Ne parleremo nel dettaglio più avanti. 13 A riprova di questo sovraccarico info-comunicativo citiamo l’evidenza riportata da alcuni ricercatori dell’Università californiana di Berkeley, attenti a valutare il flusso di comunicazione/informazione che circola ogni anno nell’ambiente circostante (dal nome del progetto, How Much Info?): nel 2003 ciascun essere umano ha ricevuto/ritrasmesso 800 milioni di byte info-relazionali, con un incremento costante (dalla prima valutazione del 2001) del 30% annuo! (http://www.sims.berkeley.edu/research/projects/how-much-info-2003) 2. Un po’ di storia 2.1 Edward Bernays Edward Bernays (1891-1995) nasce a Vienna da Anna Freud, sorella di Sigmund, il quale a sua volta aveva sposato la sorella del padre di Edward. Il padre della psicoanalisi gli è zio due volte. Insieme ad Arthur Page e Ivy Lee (si veda poi il paragrafo 2.2), Bernays è il personaggio più emblematico della storia delle relazioni pubbliche. Nella sua lunga carriera professionale e nell’articolata riflessione espressa in molteplici saggi e libri, egli riassume in modo esplicito le tante ambiguità delle relazioni pubbliche di cui abbiamo parlato nel capitolo 11. Emigrato a New York da ragazzo, nel 1915 si occupa dei rapporti con i giornalisti per i balletti russi del grande coreografo Diaghilev e nel 1917 lavora anche per Caruso, Nijinsky e Ziegfield. A Broadway, cuore dello spettacolo americano, diviene rapidamente una celebrità: è il press agent più ambito. Durante la prima guerra mondiale entra a far parte del CPI (Committee for Public Information) del ministero della Guerra, creato dal presidente Thomas Wodroow Wilson e, dopo l’armistizio, lavora nell’ufficio stampa della Conferenza di pace di Parigi. Subito dopo si occupa attivamente del reinserimento lavorativo dei veterani di guerra. Nel 1920, su richiesta della NAACP (National Association for the Advancement of Coloured People), promuove ad Atlanta (Georgia) la prima, assai coraggiosa e provocatoria convention regionale della storica organizzazione per la tutela dei diritti degli afroamericani. Dal 1923 e per oltre trent’anni, Bernays ha come cliente più fedele la Procter & Gamble, una delle maggiori aziende americane, fra le prime nel settore dei beni di largo consumo. Per Bernays, la P & G è il “bread and butter” del suo lavoro e, al tempo stesso, uno straordinario terreno di sperimentazione creativa, in un contesto di cultura aziendale molto avanzata e disponibile all’innovazione. Nel 1928 gli viene chiesto di “riscaldare” l’identità del presidente Elvin Coolidge, considerato dall’opinione pubblica freddo e distante. Bernays prenota, a tarda notte, un intero treno in partenza da New York per Washington dopo la chiusura dei teatri di Broadway, e lo riempie di celebrità (attori, cantanti, scrittori): sotto gli obiettivi di fotografi di ogni testata e i microfoni di tutte le radio del Paese, gli invitati prendono la prima colazione alla Casa Bianca con il presidente e Mrs Coolidge, mentre il famoso cantante Al Jolson canta in diretta “Keep Cool…idge” (un gioco di parole, keep cool, “stai buono”), appositamente scritta da Bernays, e... gli americani si riconciliano con il loro presidente. Nel 1929 organizza una campagna a favore dei diritti delle donne e, in particolare, del loro diritto a fumare (in alcuni Stati dell’Unione la legge vietava il fumo alle donne); campagna aperta da una marcia di personaggi famosi lungo la Fifth Avenue. Pochi sapevano (a proposito di esplicitazione degli 1 Numerose le pubblicazioni sull’opera di Bernays. Tra i suoi scritti un posto di rilievo occupano: Crystallizing Public Opinion, 1922; The Enginireeng of Consent, 1956; The later years. Public Relations Insights, 1986. Diversi anche i testi che hanno scritto della sua attività professionale partendo dal libro di Stuart Ewen PR! The Social History of Spin,1996, per arrivare fino a quello di Larry Tye, The Father of Spin. Edward L. Bernays and the birth of Public Relations, 1998. Da segnalare infine la biografia online di Bernays consultabile su http://www.prmuseum.com. interessi rappresentati!) che Bernays lavorava in quel tempo anche per la American Tobacco Company. Nel 1930, in piena Grande Depressione e con le grandi aziende prese di mira dalla stampa e dall’opinione pubblica, la General Electric e la Westinghouse affidano a Bernays la commemorazione del cinquantenario della scoperta della luce elettrica. Sempre negli anni Trenta, lavora per le Ferrovie tedesche e per questo verrà in seguito inquisito dal Congresso, con l’accusa di avere fatto propaganda a favore della Germania nazista. Nel 1932, lavora per la General Motors e, nel 1939, per la Philco. Nel 1960, dopo avere abbandonato l’incarico per l’American Tobacco, aiuta Action for Smoking and Health per far conoscere agli americani i rischi del fumo. Attivissimo fino agli ultimi giorni di vita, le biografie dicono che all’età di 103 anni dalla sua casa nel Massachusetts, dove una compagna cinquantenne lo accudì fino agli ultimi giorni di vita, riceveva assiduamente ammiratrici di giovanissima età e nel contempo erogava consulenze telefoniche ai clienti per la straordinaria (anche per oggi!) tariffa di 1.000 dollari l’ora. La sua battaglia finale (persa!) fu la promozione di una legge per il riconoscimento giuridico delle relazioni pubbliche, insieme all’istituzione dell’obbligo di registrazione pubblica in un apposito albo per gli operatori2. I suoi avversari più decisi, proprio su questa fondamentale battaglia di trasparenza, furono (e sono) gli stessi operatori di relazioni pubbliche. Alla sua morte, il settimanale Life lo ha annoverato tra i cinquanta americani più influenti del XX secolo. 2.2 Arthur Page Arthur Page (1883-1960) si laurea nel 1905 a Harvard e fa il correttore di bozze nell’azienda paterna, la Doubleday, Page & Co., una delle più autorevoli case editrici americane, con la quale collaborerà fino al 1927. Fa una rapida carriera, divenendo prima redattore del periodico World’s Work e quindi vicepresidente. L’esperienza editoriale gli apre le porte di un vasto sistema di relazioni che va dai fratelli Wright (inventori del primo aeroplano) al presidente Franklin Delano Roosevelt. Nel 1917, con l’intervento americano nella prima guerra mondiale, lavora per due anni in Europa come ufficiale addetto alla redazione di materiali di propaganda da diffondere dietro le linee nemiche. Dopo la guerra, lascia la casa editrice a seguito di un dissidio con Frank Doubleday e accetta l’offerta del compagno di studi Walter Gifford, divenuto nel frattempo presidente della AT&T, di dirigere le relazioni pubbliche del colosso telefonico alla condizione di partecipare alla definizione e allo sviluppo delle strategie aziendali. Nella storia delle relazioni pubbliche, la AT&T ha sempre svolto un ruolo importantissimo in termini di sperimentazione, innovazione, razionalizzazione e formazione di quadri. Appartengono a Page affermazioni quali: “Le relazioni pubbliche sono assai più che la gestione della stampa, sono un modo di essere dell’organizzazione”; e “Ogni azienda nasce con il permesso del pubblico e vive con il suo consenso”. Arrivato alla AT&T nel 1927, Page sviluppa una forte iniziativa di “ascolto” commissionando sondaggi periodici (è il primo a farlo!) per misurare attitudini e opinioni dei consumatori verso l’azienda e i suoi servizi; convince i suoi collaboratori che i relatori pubblici hanno anche la funzione di 2 Nel settembre 1977 Bernays scriveva un articolo per IPRA Review (divenuta poi IPRA FrontLine) in cui fra l’altro sosteneva: “[…]le relazioni pubbliche sono diventate una professione. […] professione è una vocazione in cui l’arte viene applicata a una scienza nella quale l’interesse pubblico, piuttosto che la remunerazione economica, gioca il ruolo prevalente. Capisaldi di una professione sono: le sue associazioni volontarie di professionisti, il suo corpo consolidato di conoscenze e le sue articolazioni educative; la sua letteratura; il suo codice di etica. In più i suoi membri sono registrati e autorizzati dallo Stato. […]Le relazioni pubbliche hanno tutti questi requisiti, salvo uno: l’ultimo. […]Le RP produrranno il massimo beneficio quando i suoi operatori saranno formati ed esperti. Questo si potrà raggiungere quando la professione si batterà per la registrazione e gli esami di Stato, come protezione dell’interesse pubblico e della stessa professione. Soltanto in questo modo la professione potrà proteggere la società dagli eccessi di coloro che oggi si chiamano relatori pubblici ma che in realtà non lo sono.” “coscienza critica” dell’azienda, sostenendo al tempo stesso che le relazioni pubbliche costituiscono il lavoro di tutti i collaboratori di un’organizzazione e non solo degli specialisti. Nel 1939 afferma: “Le relazioni pubbliche non sono l’ufficio stampa, e neppure riguardano soltanto il management, sono quello che tutti in azienda, dal vertice fino all’ultimo collaboratore, dicono e fanno quando sono a contatto con il pubblico”. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, Page dirige il comitato esercito-marina per l’informazione alle truppe e, successivamente, viene invitato a riorganizzare le relazioni pubbliche dell’esercito. È attivamente partecipe del progetto Manhattan (quello della bomba atomica) e nel 1945 scrive il testo con cui, alle 11 di mattina del 6 agosto, il presidente Harry Truman informa gli americani che un aereo americano ha sganciato la prima bomba su Hiroshima. Alla fine degli anni Quaranta, lavora a sostegno del piano Marshall approvato nel 1947, e nel 1949 organizza il Comitato nazionale per una Europa libera (quello che dà vita a Radio Europa libera), ritenuto da molti un’organizzazione anticomunista finanziata dalla CIA. Attaccato dalla stampa progressista, chiede una commissione di inchiesta che lo libera da ogni accusa, ottenendo anche un appoggio esplicito dal generale Dwight D. Eisenhower. Nel 1952 ricambia il favore ricevuto e sostiene con determinazione l’elezione di Eisenhower alla Presidenza degli Stati Uniti. I profili di questi due grandi protagonisti della storia delle relazioni pubbliche (Bernays e Page), così simili nonostante le diversità ideologiche – democratico il primo, repubblicano il secondo – e culturali – orientato soprattutto dalle scienze psico-sociologiche Bernays, immerso nella politica quotidiana e nel giornalismo Page – segnalano la straordinaria contiguità delle relazioni pubbliche con la storia del XX secolo. 2.3 Le origini della professione negli Stati Uniti Scott M. Cutlip, il più importante storico delle relazioni pubbliche, ha pubblicato nel 1995 e con parecchio scalpore un affascinante libro3 in cui fa risalire le origini delle relazioni pubbliche: – – – – 3 alle campagne di informazione realizzate da consorzi di investitori inglesi alla fine del Seicento per convincere i britannici a diventare coloni e bonificare quelle paludi americane che sarebbero poi diventati gli Stati della Georgia e della Carolina; alla nascita e diffusione in tutto il mondo, che risale al Settecento, del mito dello scout Daniel Boone, per attirare verso le terre dell’Ovest i coloni, delusi dalle paludi ma ormai impossibilitati a rientrare nel Regno Unito; alla “tematizzazione” della Dichiarazione di Indipendenza americana dall’Impero britannico predisposta, alla fine del Settecento, da Samuel Adams e dai suoi seguaci indipendentisti per attirare il consenso di un’opinione pubblica americana che non vedeva allora grandi ragioni per staccarsi dal Regno Unito; agli sforzi degli ultimi anni dell’Ottocento dei grandi capitalisti di impedire un eccessivo controllo da parte di una stampa che, in quegli anni, iniziava a essere maggiormente “indipendente” rispetto ai “padroni del vapore”. Cutlip S. M., Public Relations History. From the 17th to the 20th Century. The Antecedents, 1995. Sulla storia delle relazioni pubbliche, sempre dello stesso autore si segnala anche The Unseen Power. Public Relations. A History,1994. Citiamo anche Cutlip, Center, Broom , Effective Public Relations, 1994; trad. it.: Nuovo manuale di relazioni pubbliche, a cura di Roggero, 2002. Sono tutti momenti storici in cui operatori di relazioni pubbliche hanno lavorato in modo consapevole e sistematico per influenzare le opinioni e i comportamenti di altri, e l’interessante studio di Cutlip ne analizza con meticolosità strategie, programmi e strumenti. Più tradizionalmente, invece, la nascita delle relazioni pubbliche come professione4 viene collocata ai primi del Novecento, quando a Boston (1900) nasce la prima società specializzata, la Publicity Bureau, che esordisce sul mercato gestendo i rapporti con la stampa per conto di un cliente assai prestigioso: l’Università di Harvard. Lo sviluppo delle relazioni pubbliche segue anche le dinamiche della politica americana: l’assassinio nel 1900 del presidente William McKinley, legatissimo al grande capitale monopolistico, porta alla Casa Bianca un Theodore Roosevelt assai più attento agli umori dell’opinione pubblica. Il nuovo presidente attiva inchieste e indagini sui grandi monopoli privati, in particolare quello delle ferrovie, che si devono anche difendere dai muckracker, come vengono definiti quei giornalisti senza “peli sulla penna”, dai quali nasce il mito del giornalismo investigativo anglosassone. I ricchi proprietari delle ferrovie (i Rockefeller, i Vanderbilt, i Morgan) non possono accettare che, nel momento in cui invocano il cosiddetto “interesse pubblico” e chiedono soldi al governo federale per costruire nuove infrastrutture, i giornali pubblichino inchieste in cui vengono continuamente rivelate le loro malefatte. Nasce, quindi, a Washington nel 1902, la società dell’avvocato William Wolff Smith, il primo lobbista ufficiale, cui viene affidato il compito di persuadere i politici ad assicurare i finanziamenti ai proprietari delle ferrovie, indipendentemente da ciò che i giornali scrivono su di loro. I rapporti con i giornali vengono invece gestiti, a New York, dalla Parker & Lee, nata nel 1904. Lee, anzi Ivy Ledbetter Lee (1877-1934), è riconosciuto come il padre delle relazioni pubbliche, anche perché è il primo a teorizzare che il potere economico deve accettare il principio secondo cui il giornalista ha il diritto di sapere e, quindi, che sia meglio aiutarlo piuttosto che ostacolarlo.5 Particolarmente interessante, nella letteratura sulla storia delle relazioni pubbliche, un saggio di Marvin Olasky6, in cui l’autore, un liberista “estremo”, sostiene con dovizia di documenti e citazioni che lungo l’arco della storia americana del ventesimo secolo le relazioni pubbliche sono state una potente arma di condizionamento dello sviluppo politico e sociale del Paese nelle mani della sinistra americana. Dal momento in cui – scrive Olasky – alcuni “pseudo-imprenditori” come Morgan, Rockefeller e altri hanno ritenuto di convincere il governo federale a fornire le risorse finanziarie per la costruzione delle grandi infrastrutture (ferrovie, strade, ponti, miniere, grandi stabilimenti industriali) per l’unificazione del Paese e lo sviluppo dell’occupazione, il potere economico si è trovato “obbligato” ad assoldare operatori di relazioni pubbliche capaci di legittimare presso l’opinione pubblica proprio l’erogazione di quei fondi in nome di un astratto concetto di “interesse pubblico”. Da qui, ha preso avvio una lunga deriva (definita dall’autore come “il passaggio dalle relazioni private alle relazioni pubbliche”) che dura ancora oggi e che vede larga parte dei responsabili delle relazioni pubbliche delle grandi imprese investire tempo e risorse per legittimare il ruolo sociale del potere economico. Si tratta di attività, conclude Olasky, del tutto inutili se il potere economico non fosse così inestricabilmente compromesso con il potere politico e con quello dei media. E questo è avvenuto soprattutto grazie al lavoro degli 4 Anche James Grunig (1984) fa notare come esistessero una serie di attività riconducibili alla pratica delle relazioni pubbliche che possono essere equiparate a delle pre-manifestazioni – seppur non consapevoli e programmate – della professione. Sono quelle che lo studioso chiama “public relations-like activities”, identificandovi tutte le attività, a partire dalla civiltà greca e romana, che miravano all’influenzamento delle opinioni altrui. 5 Riprendendo alcuni passi tratti dalla Dichiarazione dei principi di Ivy Lee: “Questo non è un ufficio segreto; tutto il nostro lavoro è fatto alla luce del sole. […] I nostri contenuti sono precisi. Ulteriori dettagli su qualsiasi argomento trattato verranno forniti prontamente e ogni giornalista verrà assistito nel verificare l'esatto stato dei fatti. […] Garantiamo piena informazione a tutti, anche a coloro che lavorano per i giornali che ci hanno criticato. […] Noi diffondiamo informazioni di cui possiamo verificare l’esattezza insieme con gli stessi giornalisti. […]”. 6 Olasky M. N., Corporate Public Relations. A New Historical Perspective, 1987. operatori delle relazioni pubbliche definiti “quasi tutti ideologicamente legati alla sinistra americana”. Un pamphlet sicuramente fazioso, ma attentamente redatto e ricco di suggestive informazioni. Nel 1906, alcuni proprietari di miniere di antracite ingaggiano Ivy Lee, ex giornalista, per stemperare e addolcire gli attacchi dei media contro l’ostilità padronale alle richieste dei minatori, volte a ottenere salari migliori. Lee riesce a ridurre sensibilmente la tensione convincendo i proprietari a rispondere, per la prima volta, alle domande della stampa. Nel 1912, lo stesso Lee passa a lavorare per le ferrovie della Pennsylvania dove, fedele alle ragioni del suo successo, tiene un comportamento considerato insolito: fornisce alla stampa ogni informazione relativa agli incidenti ferroviari, applicando una politica informativa trasparente e aperta. Lee lavora quindi per i Rockefeller a partire dal 1917, per la Croce Rossa durante la prima guerra mondiale, per l’associazione tedesca dei produttori chimici (I.G. Farben) agli esordi del nazismo e per la Camera di commercio russa quando l’Urss cerca il riconoscimento americano. Gli ultimi due clienti gli procureranno due diverse inchieste del Congresso per attività antiamericane. Negli anni compresi fra l’inizio del secolo scorso e la prima guerra mondiale, le relazioni pubbliche sono soprattutto la risposta organizzata delle imprese alle critiche mosse dall’opinione pubblica americana ai comportamenti del grande capitale considerato monopolistico e assoluto. Ai nuovi professionisti della comunicazione, le aziende affidano l’incarico di elaborare e fornire ai giornalisti argomenti, più o meno verosimili, che testimoniano la convergenza oggettiva tra gli interessi del sistema delle imprese e l’interesse generale. Nel 1913, preoccupato di quella che allora poteva sembrare una vera e propria offensiva delle relazioni pubbliche nella costruzione dell’opinione pubblica americana, il Congresso vara una legge speciale che vincola a un’autorizzazione preventiva l’utilizzo di fondi governativi per retribuire “esperti di relazioni pubbliche”. In particolare, la preoccupazione principale riguarda allora le attività della Hamilton Wright, la prima società di relazioni pubbliche internazionali, che rappresenta a Washington e con molta efficacia gli interessi economici, politici e culturali delle Filippine. Ma con l’arrivo della prima guerra mondiale è lo stesso grande capitale, mosso da inequivocabili interessi economici, a offrire i suoi servizi di relazioni pubbliche al governo per convincere l’opinione pubblica americana, tradizionalmente isolazionista, a inviare truppe sul fronte europeo. Una delle più straordinarie esperienze di quegli anni, in parte organizzata anche da Ed Bernays, è rappresentata dai fourminutemen7. In pratica e per un anno intero, migliaia di “moltiplicatori” volontari (liberi professionisti, operatori economici, pensionati, insegnanti, impiegati e casalinghe) dislocati nei centri abitati di tutto il vasto territorio americano, opportunamente addestrati e coordinati dalla già citata CPI, pronunciano in continuazione discorsi spontanei, lunghi al massimo quattro minuti, per spiegare le ragioni che richiedono la partecipazione americana alla prima guerra mondiale: nei cinema, nei bar, nei mercati, nelle scuole, negli stadi… ovunque vi sia qualche assembramento. L’opinione pubblica americana, grazie anche al lavoro di questi “fourminutemen”, finisce per appoggiare l’intervento in Europa. In proposito, risulta anche di fondamentale importanza il considerevole sforzo di comunicazione realizzato dal governo britannico. Il primo atto concreto del governo britannico, allo scoppio della guerra, è infatti quello di far saltare ogni cavo di comunicazione transatlantica fra la Germania e gli Stati Uniti. Per molti mesi, approfittando anche della lingua comune, il Regno Unito diventa, in tutti gli Stati Uniti, l’unica fonte diretta di informazioni dal teatro di battaglia. L’opinione pubblica americana viene così investita da una potente macchina di informazione tutta tesa a dimostrare come la salvezza dell’umanità dipenda dall’appoggio americano agli inglesi, contro i tedeschi. I tedeschi capiscono troppo 7 Citiamo tra gli altri, Fernando Fasce, La democrazia degli affari: comunicazione aziendale e discorso pubblico negli Stati Uniti 1900-1940, 2000 e il già citato Stuart Ewen, PR! The Social History of Spin, 1996. tardi il danno subito e contrattaccano con aggressività comunicativa, esponendosi oltre i limiti della credibilità8. Dopo l’armistizio del 1918, si riacutizza il conflitto sociale interno e le imprese affidano ai loro esperti di relazioni pubbliche l’incarico di contribuire a forgiare quel sistema di valori americani che pone in primissimo piano l’impresa privata, il mercato, il profitto e la concorrenza. Finita la grande crisi del 1929, il presidente Franklin Delano Roosevelt lancia il New Deal, ed è, tra l’altro, il primo a intuire l’importanza della “dimensione visiva” delle relazioni pubbliche affidando alla fotografia sociale il compito di diffondere nel Paese il senso della rinascita degli Stati Uniti all’insegna di valori simbolo come il lavoro, i grandi spazi, la terra, la famiglia. L’imponente rilevazione fotografica realizzata, su disposizione di Roosevelt, dalla Farm Security Administration viene resa gratuitamente disponibile a tutti i media e vede in campo i migliori fotografi sociali americani. Nel 1938, anche a seguito delle polemiche sui presunti aiuti alla Germania nazista di operatori come Ivy Lee e Ed Bernays e sulle attività di rappresentanza di Paesi terzi presso il Congresso da parte di società come la Hamilton Wright, il Congresso americano approva il Foreign Agents Registration Act, che obbliga chiunque svolga relazioni pubbliche per conto di un governo straniero a registrarsi presso un apposito albo e a rendere conto delle sue attività. Qualche decennio dopo (negli anni Sessanta) verrà istituita un’apposita commissione parlamentare presieduta dal senatore Fullbright, che, a seguito di testimonianze rese da molti operatori, deciderà ulteriori restrizioni alle attività degli operatori di relazioni pubbliche per conto di Paesi esteri. Da molti anni, le agenzie di relazioni pubbliche che operano negli Stati Uniti sono obbligate a dichiarare presso un apposito registro, quali interessi stranieri rappresentano, quali attività svolgono per conto di questi interessi e quale compenso percepiscono per realizzarle. Si tratta di dichiarazioni pubbliche e obbligatorie, pena il divieto di esercitare. In una newsletter settimanale, molto seguita dagli operatori, Jack O’Dwyer informa continuamente su questi contratti9. Ma c’è di più: ogni lobbista americano è legittimato a svolgere la sua attività soltanto quando abbia registrato, sempre presso il Congresso o il Senato, oppure presso il Congresso del singolo Stato ove svolge l’attività, il proprio nome, l’identità dei suoi clienti, gli onorari percepiti e le spese effettuate. Naturalmente questo non risolve le perplessità che le attività dei lobbisti sollevano in molti benpensanti e, proprio negli Stati Uniti, le polemiche sono spesso feroci. In ogni caso, è però certo che la regolamentazione americana impone un minimo di visibilità. In Italia, solo molto recentemente la Regione Toscana ha approvato una legge che regolamenta i gruppi di interesse. Lo scoppio della seconda guerra mondiale impegna nuovamente le relazioni pubbliche a sostegno della politica estera americana: lo stesso Roosevelt deve per prima cosa convincere gli americani, come aveva già fatto Wilson alla vigilia del primo conflitto mondiale, delle ragioni del conflitto e poi, a conflitto avviato verso la vittoria, riattivare le relazioni con le popolazioni dei territori occupati. Nel secondo dopoguerra, le grandi imprese americane affidano nuovamente alle relazioni pubbliche il compito di riprendere il dialogo sociale con l’opinione pubblica. Nel 1945, la Standard Oil incarica il grande regista cinematografico Robert Flaherty di produrre Louisiana Story, uno straordinario documentario sulla vita nelle paludi alla ricerca del petrolio. È un trionfo mondiale. Qualche anno dopo, gli esperti di relazioni pubbliche vengono anche utilizzati per ottenere il consenso del popolo americano sul piano Marshall (1947) e in seguito per agevolarne l’attuazione in Europa, riducendo le critiche più accese delle opposizioni politiche nei Paesi beneficiari. Negli anni Cinquanta, il maccartismo (termine 8 Un avvincente resoconto di questa “guerra di comunicazione” si può leggere – insieme a tanti altri casi relativi a conflitti internazionali: dalla deposizione del presidente venezuelano ottenuta da Ed Bernays per conto della United Fruit, preoccupata dell’esprorio di qualche piantagione di banane; alla guerra del Golfo del 1992 scatenatasi anche, se non soprattutto, per la campagna condotta dalla Hill & Knowlton per conto del governo del Kuwait in esilio – nel saggio dello studioso tedesco Michael Kunczik, Images of Nations and International Public Relations, 1996. 9 Per maggiori informazioni e curiosità: http://www.odwyerpr.com. che deriva dal nome del senatore ultraconservatore Joseph McCarthy, il quale – a sostegno della cosiddetta “vera America” e a guerra fredda appena avviata – sferra una durissima offensiva contro liberali e progressisti accusati di essere al soldo del comunismo bolscevico), il boom economico, la vittoriosa guerra di Corea guidata dal generale Douglas Mac Arthur e, soprattutto, l’arrivo della televisione nelle famiglie americane….sono tutti fattori che inducono le aziende a trasformare i propri apparati comunicativi, orientandoli maggiormente al mercato commerciale per spingere la crescita dei consumi. È il trionfo della pubblicità, la televisione entra in tutte le case, esplode la comunicazione di massa e le relazioni pubbliche si adeguano aprendo un nuovo fronte, quello del marketing public relation ancora oggi largamente prevalente: iniziative che affiancano, per sostenerle, le grandi campagne di marketing riguardanti i prodotti di largo consumo. La specializzazione delle marketing public relations diviene rapidamente preponderante nei mercati anglosassoni e questo enorme successo offre una motivazione economica ai migliori e più intraprendenti consulenti, fino ad allora di fatto liberi professionisti, per dare vita alle prime grandi agenzie di relazioni pubbliche. Nel 1954, un attore di secondo piano, Ronald Reagan, viene scritturato come portavoce prima dalla General Electric e poi dalla National Manufacturers Association, la “Confindustria” americana. Questa duplice esperienza lo vede percorrere tutti gli Stati per parlare ai lavoratori delle fabbriche e agli operatori economici, spiegando le scelte di politica aziendale della General Electric oppure le rivendicazioni della Confindustria americana. In tal modo Reagan si convince a “scendere in campo” e intraprendere in prima persona quella carriera politica che lo porterà alla Casa Bianca. Nel 1955, Chester Burger, un importante consulente, attivo fino a pochi anni fa, su incarico della AT&T scrive il primo manuale, destinato a essere utilizzato internamente dal gruppo dirigente, su Come utilizzare bene la televisione. È infatti iniziata l’era televisiva. Daniel Edelman (ancora oggi alla guida della Edelman Public Relations, la maggiore società di relazioni pubbliche del mondo non quotata in Borsa e non facente parte di un gruppo pubblicitario), per lanciare lo shampoo Toni negli anni Cinquanta, inventa le Toni-Twins, due bellissime ragazze gemelle che diventano vere e proprie celebrità. Dagli anni Sessanta, le relazioni pubbliche sono parte integrante della vita degli americani. Nascono e crescono le grandi agenzie guidate da eccellenti professionisti come Carl Byor, consulente del presidente Wilson durante la prima guerra mondiale, il già citato Daniel Edelman, David Finn, John Hill, fino a Harold Burson, a Loet Voelmans (il primo europeo a occupare la posizione principale in una grande multinazionale delle relazioni pubbliche, la Hill & Knowlton) e, più recentemente, Robert Dilenschneider (autore del famoso Dartnell’s Public Relations Handbook10). Con l’arrivo e la diffusione di Internet, nonché il forte impatto comunicativo dell’attacco dell’11 settembre, la centralità affidata alla comunicazione dalla presidenza Bush e la caduta verticale delle Borse, causata dalle truffe dei dirigenti delle grandi imprese americane, cambiano paradigma e panorama delle relazioni pubbliche americane. Fra le tendenze più accentuate: un sensibile tentativo delle organizzazioni di sviluppare relazioni dirette con i pubblici influenti e aggirare un sistema dei media considerato infido e comunque scarsamente autorevole; una forte accelerazione verso l’accumulazione di competenze e di conoscenze sistemiche e organizzative, nonché l’adozione di metodi di misurazione e valutazione dell’efficacia delle relazioni pubbliche tali da legittimare l’affidamento ai relatori pubblici di ruoli strategici nelle organizzazioni; la crescente consapevolezza, in una società sempre meno compatta e omogenea, del valore delle diversità (di genere, religiosa, etnica, razziale, di preferenza sessuale) come nuovo paradigma di relazioni pubbliche efficaci. 10 Robert Dilenschneider, già presidente e ceo Hill & Knowlton, oggi presidente di Dilenschneider Group. Tra le sue pubblicazioni principali: Dartnell’s Public Relations Handbook, 1996; oltre che Power and Influence, A Briefing for Leaders, Moses: CEO, e più recentemente 50 plus! Critical Career Decisions for the Rest of Your Life. 2.4 Italia: gli antecedenti Le relazioni pubbliche, come attività distinte dalla propaganda e dalla pubblicità, arrivano in Italia nell’estate del 1943, insieme alle truppe alleate che sbarcano in Sicilia. L’Italia è il primo Paese dell’Asse a cedere agli Alleati e quindi costituisce un interessante terreno di sperimentazione per identificare le modalità migliori per riannodare le relazioni con le comunità locali, dopo i tanti bombardamenti e la violenta occupazione del territorio. Il comando alleato recluta al proprio interno relatori pubblici di origine italiana, aggiungendo a questi anche un nucleo di italoamericani ad hoc, esterni all’apparato militare e selezionati per l’occasione. La nostra pubblicistica e alcuni storici parlano di “mafiosi italoamericani” inviati in Sicilia, al seguito delle truppe americane, per assicurare che le amministrazioni locali non finiscano in mano ai comunisti quando gli alleati si avviano a risalire la penisola. Si tratta di una tesi verosimile, anche se allora l’anticomunismo non costituiva la preoccupazione principale degli americani. Così come è anche verosimile che qualche operatore di relazioni pubbliche fosse mafioso e viceversa. In ogni caso, alcuni di questi operatori che operavano al fianco degli Alleati durante la guerra, decidono di continuare a lavorare per il comando militare che rimane in Italia anche dopo la fine del conflitto, oppure di passare al servizio delle prime multinazionali, soprattutto petrolifere (Mobil, Shell, Esso), che -prevalentemente a Genova- riaprono i battenti nel nostro Paese dopo gli anni di esilio obbligato causato dalla politica autarchica del regime fascista. Anche in Italia, però, come negli Stati Uniti, si trovano esempi di attività di relazioni pubbliche prima del secondo dopoguerra. Un bel libro dello storico Simona Colarizi11 racconta nei particolari i “sistemi di ascolto” adottati dal regime fascista che fin dagli anni trenta adottano metodologie di relazione molto sofisticate, che ancora oggi definiremmo avanzate. Una curiosità: gli informatori, a cui le centrali di ascolto chiedevano in continuazione di fare anche previsioni, venivano allora in gergo un po’ spregiativo chiamati “tarocchisti”. Ebbene, nei primi anni Ottanta, grazie all’ottimo analista e consulente strategico inglese Geoffrey Morris cofondatore del gruppo Intermatrix, apparve nella tecnica di costruzione degli scenari politici e socio-culturali una particolare e raffinata applicazione della metodologia Delphi, dal nome Trend Analysis by Relative Opinion Testing, chiamata, in gergo, Tarot (in italiano, tarocco). Delphi è una metodologia di ricerca qualitativa che normalmente si attiva per analizzare in chiave predittiva le tendenze di un fenomeno socio-culturale, tecnologico, economico o politico. In particolare, viene identificato un gruppo ristretto di dieci, massimo venti persone a diverso titolo competenti del fenomeno da analizzare. Nessuno degli esperti conosce il nome degli altri. Il coordinatore invia un primo documento a tesi e formula alcune (al massimo cinque) domande alle quali i partecipanti sono tenuti a rispondere in modo articolato. Ricevute le risposte, il coordinatore isola le aree di consenso e concentra un secondo giro di domande sulle posizioni diverse emerse dal primo giro. Ricevute queste seconde risposte il coordinatore propone ai partecipanti una prima bozza di relazione, chiedendo contributi ulteriori che vengono poi integrati in un rapporto finale. Il termine Delphi, come spesso accade, è molto abusato anche fra gli addetti ai lavori. Si fanno tanti pseudo Delphi, non predittivi, non scritti, con i partecipanti che conoscono gli altri e così via. Un secondo e più specifico antecedente riguarda l’avventura italiana in Etiopia nel 1936: intervento fortemente osteggiato dal governo britannico, alleato all’imperatore Hailè Selassiè. Nelle settimane che precedono l’invio delle truppe d’invasione italiane, Mussolini è preoccupato che i tradizionali legami di amicizia fra Regno Unito e Stati Uniti possano spingere gli americani ad abbandonare la loro posizione di neutralità. In tale eventualità, il governo italiano sarebbe stato molto probabilmente costretto a rivedere il suo programma. Il capo del governo invia quindi d’urgenza negli Stati Uniti un alto funzionario del ministero della Propaganda, Bernardo Bergamaschi, affinché selezioni un’agenzia di relazioni pubbliche americana per sviluppare una rapida azione di relazioni (lobby) con 11 Simona Colarizi, L’opinione degli Italiani sotto il Regime 1929-1943, Laterza Bari-Roma, 1991. l’amministrazione americana capace di neutralizzare le pressioni britanniche. L’azione mobilita anche le comunità italiane delle grandi aree urbane del continente nordamericano a sostegno delle mire coloniali fasciste e raccoglie fondi sufficienti a pagare l’intera operazione senza gravare sui conti nazionali. Sempre negli anni Trenta, la società Linoleum del gruppo Pirelli, sotto la guida di Giuseppe Luraghi, manager illuminato che nel dopoguerra guiderà anche l’Alfa Romeo, affida la sue relazioni pubbliche a due intellettuali di grido: Leonardo Sinisgalli e Alfonso Gatto. È il primo gruppo industriale privato italiano a istituire un ufficio relazioni pubbliche (il primo ente pubblico sarà nel 1954 la Provincia di Bologna). Nel 1934, Dino Villani progetta e lancia per la Motta il Premio Notte di Natale. Si tratta di quello stesso Villani che inventerà il concorso “Cinquemila lire per un sorriso” e, più avanti, “Miss Italia”. Vero antesignano di quella che, mezzo secolo dopo, verrà definita “comunicazione integrata”, Villani diventa nel dopoguerra, con Guido Mazzali e gli altri componenti della redazione del periodico Ufficio moderno, il faro di attrazione milanese per una generazione di giovani intellettuali, attirati dalle lusinghe dell’industria e della nascente comunicazione di massa. 2.5 Le macerie Protagonisti della storia delle relazioni pubbliche italiane come Alvise Barison (che sarà cofondatore e, per tanti anni, presidente onorario della FERPI), Vittorio Crainz (fondatore, insieme a Piero Arnaldi, della prima società di consulenza in relazioni pubbliche, il Sipr, Studio italiano public relations), Guido de Rossi del Lion Nero (ufficiale di collegamento dell’esercito italiano, imprenditore di relazioni pubbliche, mentore e grande saggio della professione per molti decenni), Guido Lopez (prima alla J.W. Thompson poi alla Mondadori) e Vittorio Gambaro (fondatore della Publirel di Milano), avviano la professione in Italia nei primi anni Cinquanta. Qualche anno prima, nel 1947, è un operatore di relazioni pubbliche del sindacato americano, Vanni Montana, il più attivo ispiratore oltre che protagonista della scissione socialista di Palazzo Barberini: una scissione che cambierà il corso della politica italiana. Il partito socialista aveva infatti ottenuto nel 1946 una strepitosa vittoria alle elezioni politiche, sorpassando il partito comunista, al quale però lo lega un patto di unità di azione. Ed è proprio questo patto che preoccupa la Casa Bianca e il sindacato degli Stati Uniti. Vanni Montana viene incaricato di agire per convincere i socialisti non filocomunisti a separarsi dal Psi, allora guidato da Pietro Nenni e a unirsi in un nuovo partito socialdemocratico diretto da Giuseppe Saragat (il quale diventerà più avanti presidente della Repubblica), fortemente voluto e incoraggiato, anche finanziariamente, dagli americani. La scissione di Palazzo Barberini rappresenta un successo non solo perché molti deputati vengono convinti ad abbandonare il Psi, ma soprattutto perché questi stessi deputati possono farlo con il parziale consenso dell’opinione pubblica, ottenuto attraverso un attento lavoro di gestione dei media e degli influenti svolto dallo stesso Montana. Il resto, naturalmente, è dovuto al fatto che la Democrazia cristiana assicura ai transfughi socialisti rilevanti incarichi in un nuovo governo e che il neonato partito socialdemocratico trova le sue casse ben fornite dalle donazioni dei sindacati americani. Anche questi fattori vengono coordinati, almeno in parte, da Montana. Con le elezioni politiche del 1948, esce alla luce del sole – ma operava già, con maggiore riservatezza, fin dal 1943 – l’USIS (United States Information Service), organismo del Dipartimento di Stato Usa (Ministero degli Esteri) preposto a svolgere in Italia un’intensa attività di relazioni pubbliche, che proseguirà per diversi decenni. All’USIS, infatti, si forma una parte importante della nuova generazione dei relatori pubblici italiani. Rispetto a quella tornata elettorale così decisiva per il futuro del Paese, l’USIS ha il compito di assistere e aiutare la campagna contro il Partito Comunista Italiano. Il notiziario quotidiano USIS per la stampa, una sorta di “agenzia” che risale al 1943 e ricco di notizie e informazioni sulla vita quotidiana negli Stati Uniti, diventa per la campagna del 1948 una vera e propria “clava elettorale” che sottolinea quotidianamente gli aiuti economici americani all’Italia (cibo, carburante, medicinali), senza omettere che quegli stessi aiuti cesserebbero immediatamente qualora i comunisti vincessero le elezioni. Molti i resoconti e i servizi giornalistici che descrivono iniziative spontanee di solidarietà e amicizia del popolo americano verso gli italiani, purché dichiaratamente anticomunisti. Al notiziario viene allegato un bollettino che fornisce agli altri media informazioni puntuali e precise su tutti gli aiuti distribuiti, indicando dettagliatamente i nomi delle navi, i porti di sbarco, il tipo di carico e la data dell’arrivo avvenuto o imminente. La consegna degli aiuti viene accompagnata da molteplici eventi pubblici. Ogni nave americana (le cosiddette “Liberty”) che sbarca in un porto italiano prevede una cerimonia e un discorso dell’ambasciatore americano, largamente diffuso e ripreso dai giornali italiani. A sua volta, il governo italiano stanzia ben 500 milioni di lire di allora per stampare manifesti e realizzare cinegiornali dedicati all’aiuto americano, e altri 8 milioni per stampare volantini. Il sindacato americano, nel frattempo, sostiene il dipartimento di Stato nell’attuazione del piano Marshall e, successivamente, avvalora le minacce di sospensione degli aiuti in caso di vittoria comunista. Nel gennaio del 1948 il notiziario riporta le affermazioni con cui il presidente del Committee for Industrial Organization (CIO) avverte che, se l’Italia desidera ancora usufruire dei finanziamenti del piano Marshall deve aderirvi senza riserve. Lo stesso Vanni Montana, tramite il notiziario e le trasmissioni radiofoniche della Voice of America, fa arrivare ai lavoratori italiani il secco invito del Dipartimento di Stato a non credere alle menzogne dei comunisti (Togliatti e Nenni), i quali sostengono che, nel caso di vittoria comunista, non ci sarebbe alcun blocco agli aiuti americani. Sul notiziario vengono anche pubblicate lettere scritte da cittadini americani ai loro parenti e amici in Italia, con inviti espliciti a votare per De Gasperi. Segue, sempre sul notiziario, la minaccia di un imminente divieto agli italiani emigrati in America di inviare soldi, doni e lettere ai familiari rimasti in Italia, nel caso si intende di vittoria comunista alle elezioni. Dopo la vittoria elettorale della Democrazia cristiana e la sconfitta del partito comunista, lo sviluppo della guerra fredda fra Est e Ovest nonché il crescente ruolo strategico dell’Italia al centro del Mediterraneo, inducono l’USIS a intensificare anche le sue attività culturali: traduzioni di libri, proiezioni di film, contatti con il mondo economico, scientifico e culturale. Cresce, inoltre, il numero di operatori italiani nelle molte sedi, anche periferiche, dell’USIS. Dal 1949, l’agenzia sviluppa una nuova attività di scambi e visite fra i due Paesi cui partecipano studenti universitari, professori, laureati e professionisti che intendono incrementare le loro conoscenze in differenti campi: scienze, tecnologia, sociologia e comunicazione. Il notiziario pubblica articoli e documenti sulla vita nei Paesi dell’Est, sulle prese di posizione sovietiche in politica internazionale, insieme a vignette, barzellette e storielle umoristiche che si propongono di aiutare gli italiani a comprendere la realtà dei regimi comunisti. Tra il 1951 e il 1952, vengono diffusi almeno nove milioni di copie di opuscoli anticomunisti. Lo scopo del notiziario non è solo quello di denigrare l’Unione Sovietica, ma anche di diffondere notizie sul miracoloso sviluppo economico italiano ottenuto grazie agli aiuti americani. Vengono diffusi dati sulle innovazioni, il benessere, l’aumento di produttività e la modernizzazione dello Stato. Il notiziario si diffonde sui lavori pubblici realizzati grazie al piano Marshall (ricostruzioni di strade, stazioni ferroviarie, reti di telecomunicazione, acquedotti, impianti elettrici e abitazioni), informa sulle visite di tecnici italiani negli Stati Uniti o sugli incontri con industriali americani in Italia. Con questi “scambi culturali” molti italiani hanno la possibilità di accrescere la loro cultura in termini di organizzazione del lavoro, di direzione aziendale, di tecniche di marketing e di comunicazione aziendale (public relations e human relations). L’USIS viene anche incaricata di curare in Italia l’identità della NATO. Oltre mezzo milione di materiali vengono stampati e distribuiti ogni mese in tutta Italia per spiegare il ruolo della nuova alleanza militare: giornalini affissi nelle bacheche delle fabbriche, nelle trattorie e nelle rivendite di alimentari. Il grande messaggio è che la NATO consente la speranza di una pace duratura e di un aumento del tenore di vita. Gli articoli evidenziano gli scopi difensivi di un’adesione italiana al Patto atlantico, la possibilità di ricostruzione e stabilità economica, oltre che il riconoscimento di una rilevante posizione internazionale, perduta con la sconfitta del fascismo. Alla radio e alla stampa viene affidata la “propaganda difensiva” immediata e continuativa, mentre libri, film, mostre, centri di informazione, scambi di persone e programmi educativi si pongono invece obiettivi di lungo termine e, soprattutto, intendono trasferire agli italiani la visione americana del progresso e della libertà, il senso di sicurezza. Gli opuscoli, i volantini, i manifesti sono diretti e distribuiti prevalentemente ai lavoratori, fra i quali è massiccio il voto comunista. Si tratta, in larga parte, di fumetti e fotoromanzi, con forte impatto visivo, più semplici da leggere e facili da memorizzare. Tra i media tradizionali, il cinema è, forse, il più importante. Cortometraggi e documentari vengono proiettati nei cinema cittadini prima dei film commerciali in programmazione in tutto il Paese grazie all’uso di unità mobili. Gli automezzi raggiungono paesi di montagna o di campagna. Mentre i film sono diretti al grande pubblico, altre attività dei centri di informazione si rivolgono a un pubblico selezionato e colto. Le sedi USIS ospitano biblioteche molto fornite, convegni, mostre e conferenze. Il programma più selettivo, ma anche di maggiore efficacia, è lo scambio di persone: l’USIS seleziona studiosi, giornalisti, sindacalisti, studenti e industriali influenti e offre loro l’opportunità di recarsi negli Stati Uniti per conoscere personalmente la realtà americana, purché al rientro siano disponibili a raccontare l’esperienza in conferenze e dibattiti. Quattro sono i centri che vedono nascere e crescere in Italia la professione delle relazioni pubbliche: Genova, Trieste, Milano e Roma. A Genova hanno sede le multinazionali petrolifere Esso, Mobil e Shell, ma anche l’Iri. A Trieste, con l’occupazione delle truppe alleate che durerà ancora per molti anni, anche le compagine marittime e assicurative della città acquisiscono una cultura della comunicazione. A Roma i primi liberi professionisti imparano il mestiere prestando servizio per l’USIS. Milano, invece, è il centro finanziario dell’Italia durante la ricostruzione economica. Il ruolo degli uffici di relazioni pubbliche delle multinazionali è fondamentale, perché essi favoriscono lo sviluppo della comunicazione e dell’informazione in Italia e creano i primi professionisti aziendali. Le grandi aziende americane basano, infatti, la loro politica comunicativa sulla cosiddetta “trasparenza” e, a differenza della maggior parte delle imprese italiane di allora, desiderano che la comunità conosca i loro progetti e i loro risultati. Per fare questo, utilizzano sia la stampa che la radio. I relatori pubblici diventano così “l’occhio e l’orecchio” dell’impresa, fungendo da anello di congiunzione fra l’azienda e la comunità. Il loro lavoro consiste nel captare e capire le aspettative e i bisogni della comunità, riferire alla direzione aziendale le proprie impressioni e sensazioni e infine, trasmettere al cittadino notizie, informazioni e politiche attuate dall’azienda. Nel 1952, sorge a Milano l’IPR (Istituto per le relazioni pubbliche), un’associazione nata per iniziativa di tecnici e studiosi e presieduta per molti anni dall’onorevole Roberto Tremelloni, autorevole esponente di quel partito socialdemocratico di Saragat, fortemente legato, come abbiamo visto, alle attività di Vanni Montana. Scopo fondamentale dell’IPR è quello di diffondere e promuovere la conoscenza delle relazioni pubbliche nel mondo imprenditoriale italiano, privato e pubblico. Gli obiettivi dell’associazione sono perseguiti attraverso pubblicazione di monografie, trasmissioni radiofoniche e corsi informativi. Nasce in quel periodo, su iniziativa dell’IPR, l’Oscar di Bilancio, che oggi viene gestito dalla FERPI ed è divenuto il più ambito premio in Europa di comunicazione finanziaria. La prima azienda a ricevere l’Oscar è la Motta, con la motivazione che l’azienda dolciaria è la prima a far conoscere il suo fatturato! Nel 1953, lo stesso IPR organizza il primo corso di Relazioni pubbliche, seguito nel 1955 da un corso di perfezionamento per dirigenti di aziende, tenuto al Politecnico di Milano. Dal 1955 al 1974, l’Istituto conferisce un premio annuale, il Premio Ezio Vanoni, a persone che con la loro opera favoriranno lo sviluppo delle relazioni pubbliche. Nel 1956, Vittorio Crainz e Piero Arnaldi costituiscono a Roma il primo studio professionale, la SIPR, preceduta nel 1955, sempre per iniziativa dei due operatori, dalla nascita di una casa editrice, la SEPA, che stampa riviste aziendali, in particolare per la STANIC, società petrolifera nata dalla fusione dell’americana Standard Oil con l’italiana ANIC (del gruppo ENI), e per la Compagnia carrozze letti (Wagon Lits). 2.6 La ricostruzione Negli anni Cinquanta, il Paese avvia la ricostruzione. I gruppi economici più impegnati nelle attività di relazioni pubbliche sono la Finmeccanica, con Leonardo Sinisgalli che a Roma dirige il mensile Civiltà delle macchine; Franco Fedeli, che a Genova si occupa della comunicazione interna dell’Italsider e le aziende petrolifere multinazionali (Lorenzo Cantini alla Esso, Francesco Vizioli alla Bp). Anche l’ENI di Enrico Mattei, per approvvigionarsi direttamente di petrolio senza dover sempre passare attraverso le “sette sorelle” (le grandi multinazionali che controllavano alla fonte l’estrazione del petrolio), consolida le sue relazioni con i governanti dei Paesi del Nordafrica affidando ai giornalisti Italo Pietra e Mario Pirani (oggi lucido e puntuale analista del quotidiano La Repubblica) l’incarico di gestire le relazioni pubbliche del gruppo. L’ENI si distinguerà per tanti anni (e si distingue ancora oggi) per una intensa attività di relazioni pubbliche internazionali, spesso in contrasto o, comunque, diversa e autonoma rispetto a quella ufficiale del governo12. Rilevante, in quegli anni, è anche l’attività comunicativa della FIAT, ma è soprattutto l’Olivetti, sotto la carismatica guida di Adriano Olivetti, ad attirare nella sede decentrata di Ivrea – utilizzando come “irresistibile” attrazione il Movimento Comunità, una delle più curiose esperienze politico-sociali del nostro Paese dal secondo dopoguerra – alcuni dei più brillanti intellettuali italiani, da Ottiero Ottieri a Franco Momigliano, ad Antonio Saffi, da Libero Bigiaretti a Giorgio Soavi. Sarà una stagione irripetibile, che durerà almeno un decennio oltre la morte di Adriano Olivetti avvenuta nel 1960, e che darà origine al mito mondiale, ancora oggi assai diffuso, del marchio Olivetti. In particolare, l’azione di Renzo Zorzi direttore della comunicazione Olivetti fino agli anni Ottanta, poi segretario generale per lunghi anni della fondazione Cini, costituisce un mirabile esempio di come un’organizzazione possa e debba integrarsi con le comunità in cui opera. Anche la Edison, influenzata dal successo ottenuto a livello mondiale dalla Standard Oil con Louisiana Story di Robert Flaherty, avvia un’intensa attività di produzione di documentari cinematografici, fra i quali si distinguono le prime opere di Ermanno Olmi. Un’attività che sarà poi intensamente proseguita anche dall’Enel, dopo la nazionalizzazione del 1963. Sempre sul fronte della cultura dell’immagine visiva, la Ferrania, allora di proprietà dell’IFI, finanziaria della famiglia Agnelli e produttrice della omonima pellicola film usata dalle produzioni italiane, affida all’intellettuale Guido Bezzola la pubblicità e le relazioni pubbliche, comprendendo in queste ultime anche la direzione dell’omonimo mensile culturale, ritrovo puntuale della nuova cultura cinematografica italiana del dopoguerra. Per molti aspetti, la politica sociale delle imprese italiane (IRI e Olivetti in prima fila) e soprattutto il modo in cui queste comunicano con i loro dipendenti fanno scuola, in quegli anni, nel resto d’Europa. Nascono nel 1956 l’Associazione italiana per le relazioni pubbliche e il Sindacato nazionale professionisti relazioni pubbliche. Le due associazioni, insieme, promuovono a Stresa, l’11 e il 12 ottobre dello stesso anno, la prima conferenza internazionale sulle relazioni pubbliche. Un’attenta lettura degli atti della conferenza rivela, fra l’altro, una curiosità: Piero Arnaldi, uno dei padri fondatori delle rp in Italia, viene redarguito dall’establishment della conferenza perché osa sollevare la questione della necessità e possibilità di misurare i risultati delle relazioni pubbliche, questione che tornerà a essere discussa alla fine degli anni Ottanta. Nel frattempo, la Pro Deo di Roma, istituzione educativa vaticana diretta da Padre Morlion che successivamente si trasformerà nell’Università Luiss, avvia il primo corso postlaurea di Relazioni pubbliche. Fra i docenti, si trovano Piero Arnaldi, Bartolo Ciccardini e Vitaliano Rovigatti. Nel 1958, nasce l’UNERP (Unione nazionale degli esperti di relazioni pubbliche). Otto anni 12 Si veda al proposito il bel libro di Franco Briatico (già direttore relazioni esterne dell’ENI): Ascesa e declino del capitale pubblico italiano, Il Mulino Bologna 2004. dopo, nel 1966, con Alceo Moretti presidente l’associazione radicalizza i contrasti fra i due poli di Roma e di Milano, incentrati soprattutto sul ruolo, sui criteri e sul tipo di rappresentatività delle associazioni. Giovanni Terranova viene eletto presidente, ma molti soci, prevalentemente milanesi, abbandonano. Nel 1967, si costituisce a Milano la FIERP (Federazione italiana esperti di relazioni pubbliche) rappresentativa soprattutto dei quadri aziendali. Viene subito avviato un lavoro volto a organizzare strutture regionali e comitati, per garantire una più equilibrata rappresentanza e approfondire le diverse tipologie di intervento proprie della libera professione. Viene anche affrontato il tema dei rapporti tra relazioni pubbliche e giornalismo, definitie “due funzioni diverse ma interdipendenti”. Nel 1968 l’UNERP cambierà il suo nome in FIRP (Federazione italiana delle relazioni pubbliche) e Alvise Barison, attivo professionalmente a Milano e responsabile del Centro commerciale americano, verrà eletto presidente. Fra il 1968 e il 1969 i rapporti fra le due associazioni si intensificheranno fino alla unificazione sancita il 17 marzo 1970 con l’assemblea costitutiva della FERPI, preceduta dalle assemblee di scioglimento della FIRP e della FIERP. In quegli anni, continuano in tutta Italia le attività dell’USIS. I suoi uffici sono ormai presenti nelle principali città, dal Nord al Sud, ma il personale viene diminuito a causa della riduzione dei fondi stanziati dal Congresso americano. Nonostante i tagli, le attività rimangono suddivise in quatto settori: – – – – l’informazione, che utilizza come canali privilegiati la stampa, la radio e il cinema; la cultura, promossa attraverso le biblioteche, gli scambi e i contatti tra americani e italiani; i progetti speciali, finanziati direttamente dal presidente degli Stati Uniti (che era ancora Dwight D. Eisenhower); le funzioni di consulenza e supporto all’ambasciata e ai consolati. I funzionari dell’USIS intrattengono frequenti relazioni con gli opinion leader che influiscono sugli orientamenti dell’opinione pubblica. Il dipartimento di Stato infatti, è convinto che i messaggi, se presentati da opinion leader italiani, risultano più efficaci. Per esempio, un ufficiale di collegamento tiene costanti contatti con CISL, UIL e Confindustria, per ottenere da parte loro la distribuzione di materiali favorevoli alla politica economica americana in cambio di informazioni, consulenze e servizi offerti dallo stesso USIS. La funzione principale dell’ufficio stampa rimane quella di fornire notizie, documentazioni, fotografie, testi di discorsi e procurare interviste con personaggi americani ai giornalisti italiani. Il notiziario contiene sempre informazioni relative allo sviluppo economico stimolato dagli aiuti americani, dalle loro consulenze tecniche e dai corsi di formazione del personale. Continua anche l’offerta di viaggi e borse di studio. Viene data la possibilità di ricevere i libri, per posta, direttamente a casa. Dal 1956, per facilitare ulteriormente la consultazione dei testi, sono pubblicate bibliografie su arte e architettura, economia, letteratura, storia, sociologia e comunicazione. A Trieste, Milano, Firenze e Roma vengono organizzate mostre per far conoscere e valorizzare la cultura americana. Presso la sede milanese dell’USIS, viene offerta l’opportunità di tenere corsi di relazioni pubbliche agli imprenditori, mentre, per quanto riguarda gli universitari, ciò è possibile presso l’Università internazionale per gli studi sociali di Roma. Dal 1954 l’USIS pubblica anche un mensile, Mondo occidentale, che invita gli italiani a comprendere la coincidenza fra gli obiettivi economico-politici e le tradizioni culturali dei due Paesi, in quanto entrambi parte del “mondo occidentale”. La Voice of America prosegue le trasmissioni anche in collaborazione con la Rai. La formula è sempre la stessa: notiziari, documentari radiofonici, musica e attualità. Settimanalmente, le trasmissioni radio rispondono a migliaia di quesiti degli italiani riguardo alla vita, l’arte e la cultura negli Stati Uniti. Nel 1955 si vendono in Italia ben 800 milioni di biglietti d’ingresso al cinema: un vero e proprio boom. L’USIS partecipa a mostre sul cinema, proietta pellicole a militari, studenti, gruppi di lavoratori, associazioni culturali, in occasione di fiere ed esposizioni, collabora alla preparazione dei cinegiornali, produce documentari, doppia e distribuisce film americani. In base a un accordo con il ministero dell’Istruzione, molti film USIS vengono proiettati nelle scuole, raggiungendo 4 milioni di bambini all’anno. Nel 1955, le biblioteche USIS sono undici, distribuite in tutta Italia, solitamente nel centro delle città. Gli utenti possono scegliere tra 59.000 libri in inglese e 22.000 in italiano. La consultazione dei testi è libera. Nello stesso anno, gli Stati Uniti partecipano ufficialmente per la prima volta alla Fiera campionaria di Milano. Il padiglione dell’USIS ospita un Trade Information Center e una mostra intitolata “Main Street Usa”. 13 Il Trade Information Center (Centro informazioni commerciali) viene realizzato da Alvise Barison, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti e impiegato all’USIS di Trieste, il quale, dopo aver lavorato a lungo nell’ufficio relazioni pubbliche dell’azienda tessile Marzotto di Valdagno, si trasferisce a Milano per gestire il nuovo centro di relazioni pubbliche americano in Italia. Lavora con Alvise Barison, e in seguito lo sostituisce, Gherarda Guastalla Lucchini, oggi attivissima imprenditrice di relazioni pubbliche e vicepresidente vicario della FERPI, nonché segretario generale dell’Oscar di bilancio. Scopo del Centro è quello di promuovere i rapporti commerciali tra Italia e Stati Uniti, incoraggiare la conoscenza del mercato americano e illustrare le facilitazioni ottenibili tramite le ambasciate e i consolati. Vengono messi a disposizione del pubblico elenchi di produttori e distributori americani, dati di mercato, statistiche sulla produzione, sul consumo e sul commercio estero. “Main Street Usa” si propone di presentare al pubblico l’autentica vita americana. La main street è infatti la via centrale, l’arteria che attraversa ogni città americana e intorno alla quale si svolge la vita quotidiana dell’americano medio. La mostra ricostruisce diversi ambienti modello: la casa, la scuola, la fattoria, la fabbrica e il grande emporio. 2.7 Le riforme sociali e il centrosinistra Con l’avvento del primo governo organico di centrosinistra (alla fine del 1963) cresce nelle imprese la necessità di innovare il tradizionale dialogo con il sistema politico. Fino ad allora, infatti, il rapporto con l’opposizione di sinistra era stato per lo più affidato alle relazioni sindacali, mentre quello con il governo si limitava a un monologo con la Democrazia cristiana. La nazionalizzazione dell’energia elettrica – prezzo pagato dai moderati ai socialisti per convincerli a entrare nella coalizione di governo – suscita la forte opposizione della Confindustria creando anche al governo la necessità di avviare un rapporto diverso con le imprese. Antonio Giolitti, ministro del Bilancio, e il suo giovane collaboratore, Giorgio Ruffolo, segretario generale della programmazione, oggi esponente dei Democratici di sinistra e commentatore del quotidiano la Repubblica, tematizzano nel Paese il concetto di programmazione economica e riescono a inserirlo nell’agenda mediatica. Per incentivare gli investimenti nel Mezzogiorno, presentano un apposito strumento operativo definito “contrattazione programmata”, lanciandolo con un vero e proprio piano di relazioni pubbliche: un tentativo illuminato di orientare gli investimenti industriali mediante lo strumento del negoziato e degli incentivi. Ma la Confindustria non cede all’invito del tandem Giolitti-Ruffolo e invita i suoi associati a ignorare l’offerta di dialogo. Soltanto alcune multinazionali illuminate approfittano dell’opportunità (come, per esempio, la 3M che progetta e sviluppa un’unità produttiva a Caserta). Anche Roberto Tremelloni, ministro socialdemocratico delle Finanze, fondatore e presidente dell’Istituto per le relazioni pubbliche, tenta uno sfortunato ma nobile e articolato sforzo per avviare un dialogo interattivo e intelligente fra Fisco e contribuente. È interessante notare come, all’inizio del 1999, un’analoga esperienza del governo D’Alema, coordinata da Carlo Azeglio Ciampi, allora ministro dell’Economia, e Antonio Bassolino, ministro del 13 Tutti i riferimenti sulle attività dell’USIS in questo capitolo sono una libera trasposizione di un ottimo lavoro di Valeria Mainini per la sua tesi di laurea allo IULM di Milano del 2000 dal titolo Le relazioni pubbliche in Italia dal secondo dopoguerra alla nascita della FERPI (1943-1970)” Lavoro, per rilanciare gli investimenti privati inducendo negli operatori la fiducia in una programmazione concertata degli investimenti pubblici, soprattutto nel Mezzogiorno, si sia irrimediabilmente infranta contro l’opposizione delle Regioni, seccate per non essere state sufficientemente coinvolte. Il principale comunicatore di questa operazione è stato Paolo Peluffo, consulente di Ciampi e oggi al Quirinale insieme ad Arrigo Levi. È lo stesso Peluffo che negli anni 1996-97 coordinò, insieme a Ricardo Franco Levi, la campagna di comunicazione del governo Prodi per l’ingresso nell’euro. In quegli anni Sessanta, oltre alla Olivetti, suscita ammirazione l’esperienza della Pirelli, con i Quaderni dedicati al dibattito e alla formazione manageriale e la rivista omonima che descrive e interpreta la complessità della società industriale avanzata attraverso inchieste e saggi di ottimo livello, accompagnati da servizi fotografici di grande qualità effettuati dalla nuova leva di fotografi sociali italiani (Gabriele Basilico, Cesare Colombo, Gianni Berengo Gardin, Toni Nicolini). Sul finire degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, quando, grazie al primo governo di centrosinistra, il partito socialista entra nella coalizione di governo, le imprese tendono ad affidare le loro relazioni pubbliche a intellettuali, quasi sempre progressisti, tentando in tal modo di colmare le forti distanze socioculturali fra società civile e società imprenditoriale. Dopo un’esperienza operativa alla Bassetti, nel 1961 apre a Milano l’agenzia di Aldo Chiappe, uno dei protagonisti delle relazioni pubbliche italiane. Nel 1963, alla vigilia delle elezioni politiche, la Democrazia cristiana chiama dagli Stati Uniti Ernst Dichter, forse il più noto consulente di relazioni pubbliche del momento, per impostare temi e messaggi della campagna elettorale. Dichter fa svolgere una ricerca e scopre che gli italiani, pur disponibili a votare DC, ne hanno una percezione di vecchiezza. Il consulente suggerisce di ringiovanire le liste e trasferire messaggi che proiettino un’identità più giovane. Questi consigli vengono ingenuamente tradotti dai democristiani in un manifesto, affisso a ogni angolo di strada, che ritrae una giovane bella e prosperosa con la headline “La DC ha vent’anni”. Si racconta che il leader del PCI, Palmiro Togliatti, non appena visto il manifesto, abbia dato l’ordine ai militanti delle sezioni comuniste disseminate in tutto il territorio nazionale di aggiungere al manifesto, a mano, il pay off “...ed è ora di fotterla”. Per la DC è un grande tonfo elettorale. Nella seconda metà degli anni Sessanta, le relazioni pubbliche della Ferrania, acquisita nel 1964 dall’americana 3M, si allargano dal cinema all’ambito più strettamente fotografico con l’intensa attività del CIFE, circolo di cultura fotografica, che a Milano organizza mostre storiche, offre spazi espositivi, tempi e occasioni di dibattito culturale alla nascente cultura italiana dell’immagine visiva. Nel mondo della comunicazione professionale è assai vivace in quegli anni anche l’attività della YAYA (capitolo italiano della Youth in Advertising Association), dove giovani comunicatori come Claudio Masi, Aldo Chiappe, Giuseppe Berger e Lillo Perri danno vita a tematizzazioni e confronti con la comunità politica, imprenditoriale e dell’informazione, affermando la presenza di una comunità della comunicazione attiva, pensante e partecipe della classe dirigente del Paese. 2.8 La paralisi Dalla fine degli anni Sessanta, il sistema politico si paralizza. Il partito comunista rimane forte, la Democrazia cristiana è indisponibile al dialogo e il partito socialista non cresce. Si alimenta la tensione sociale, e appena dopo l’esplosione del movimento studentesco, scoppiano le lotte sindacali dell’“autunno caldo”. Dimentichi della tutela degli interessi generali e con la complicità di un sistema dei media quasi interamente di proprietà di potenti forze economiche, i partiti di governo e il sistema delle imprese trovano nella illegalità della corruzione un intenso terreno di scambio che la sola opposizione comunista non riesce a ostacolare. Quest’ultima, peraltro, dopo qualche tentativo, smette persino di provarci. Nel 1974, anno del referendum del divorzio e della prima tv privata (TeleBiella di Enzo Tortora), Emilio Renzi, in Olivetti come copywriter insieme a Irene Bignardi, scrive un bel saggio sulle abilità comunicative di Marco Pannella, mentre la trimurti della FLM (Carniti, Mattina e Trentin) avvia i lavoratori metalmeccanici a una estenuante lotta sindacale per strappare nel nuovo contratto l’introduzione di una clausola che vincola le imprese a informare i consigli di fabbrica su strategie, investimenti e programmi aziendali corredando le informazioni con analisi delle implicazioni sui livelli occupazionali, delegando agli stessi consigli l’informazione ai lavoratori. Questa conquista si trasforma per il mondo del lavoro in una vittoria di Pirro. La gran parte delle imprese, in una situazione economica complessivamente difficile, è (irresponsabilmente) felice di interrompere ogni iniziativa di dialogo con i lavoratori e di delegare il sindacato a farlo. Quest’ultimo, a sua volta, non disponendo di risorse comunicative adeguate, diventa un vero e proprio ostacolo alla circolazione delle informazioni. Con il risultato che ci vorranno molti anni (fino alla marcia dei 40.000 a Torino del 1981!), prima che le imprese si convincano della necessità di riannodare relazioni decenti con i lavoratori. In quei primi del decennio muove i primi passi (era nata nel 1970) la FERPI (federazione relazioni pubbliche italiana) che riassume in sé due associazioni presistenti (Fierp e Fipr) nate nel 1956. A trascinare la neonata federazione è soprattutto Attilio Consonni, dirigente della Coca Cola e oggi presidente di Assobibe, insieme a Italo Capizzi e Federico Spantigati della Esso Italiana e a Guglielmo Trillo, capo delle relazioni pubbliche di Finsider. Con loro, molto attivi sul fronte della consulenza sono invece Guido De Rossi del Lion Nero, Lino Cardarelli e Aldo Chiappe. Quest’ultimo consolida l’avviato studio professionale nato a Milano nel 1961, e alla metà degli anni settanta dà vita all’Isforp, il primo istituto di educazione delle relazioni pubbliche, la cui esperienza viene prontamente seguita nel 1976 dalla IULM di Baridon, Alberoni e Roggero. Sempre nei primi anni Settanta, le relazioni fra impresa e società subirono una forte accelerazione con l’approvazione da parte di Confindustria dello Statuto Pirelli: un documento che porta la rappresentanza industriale fuori dalle secche corporative e della conservazione, consentendone la crescita fino all’assunzione di un ruolo di protagonista, naturalmente di parte, dello sviluppo civile e sociale del Paese. L’avvocato Agnelli assume la presidenza e protegge, fra il divertito e il complice, le irruenti avances relazionali verso l’opposizione e il sindacato del vice presidente e capo dei giovani industriali Piero Pozzoli. Curioso osservare il parallelismo dell’Avvocato allora “benignamente” in movimento verso sinistra e oggi un altro avvocato, Luca di Montezemolo, suo erede anche in Confindustria (oltre che in FIAT) che riapre il tavolo con le forze sociali dopo anni di appiattimento del suo predecessore su Palazzo Chigi in una linea di contrapposizione che ha prodotto tanti danni. Gli anni Settanta sono, per la neonata FERPI, anni di grande attività. Si tematizza nel Paese, per la prima volta e in un clima culturale turbato dal forte conflitto sociale in corso, l’importanza e il ruolo della comunicazione di impresa. A Firenze, nel 1972 – presidente Lino Cardarelli, che poi è stato fra l’altro viceresponsabile della ricostruzione della Repubblica Irakena – si svolge un convegno su “Immagine, pubblicità e comunicazione globale” ove si sottolinea la crisi dell’informazione indipendente, politica prima ancora che tecnica. La pubblicità viene vissuta dall’opinione pubblica come deviante, disinformativa, illusoria e negativa. È necessaria, dice la FERPI, una diversa concezione della comunicazione d’impresa, una grande alleanza di giornalisti, pubblicitari e operatori di relazioni pubbliche, responsabilmente uniti contro le mistificazioni… Nel 1974, a Milano, su iniziativa di Aldo Chiappe, la FERPI affronta per la prima volta in Italia la questione del consumerismo, la difesa del consumatore e il suo impatto potenziale sulle relazioni pubbliche. Nel 1976, presidente Guglielmo Trillo, la FERPI promuove a Roma il convegno “Comunicazione, partecipazione e opinione collettiva” nel quale si discute animatamente il concetto di opinione collettiva, teorizzato da Italo Capizzi, come la nuova frontiera nella segmentazione trasversale dei pubblici dal punto di vista degli interessi collettivi della società. Nel 1978, a Genova, la stessa FERPI promuove in accordo con la Regione Liguria, per la prima volta in Italia un confronto pubblico sul tema della comunicazione dell’amministrazione pubblica. Nel 1975 le sinistre avevano conquistato i grandi comuni e, grazie anche alle risorse del settore privato apportate dalla nascente pratica di sponsorizzazione culturale fortemente caldeggiata dai relatori pubblici, si inaugura la stagione dei grandi eventi culturali. Gli assessori alla Cultura assumono un rilievo pari a quelli all’Urbanistica: Franco Camarlinghi a Firenze, Renato Nicolini a Roma. Nella seconda metà dell’anno Eugenio Scalfari, aiutato da un infaticabile Giampaolo Gironda, avvia il suo Scalfagiro, un vero e proprio road show di venti tappe in altrettante città italiane per presentare il suo progetto di La Repubblica. Un trionfo di pubblico e di critica, quasi (?) un nuovo partito politico. Nel 1976, sulla prima pagina di una Repubblica da poche settimane in edicola, Giorgio Forattini scandalizza i benpensanti disegnando un pacchetto di Marlboro come podio sul quale Riccardo Muti dirige La Scala che in quei giorni avvia la tournee per il bicentenario americano grazie a una sponsorizzazione, per l’appunto, della Philip Morris. Sempre nel 1976, il deputato comunista Pietro Ichino – poi sostituito nella legislatura successiva dal compagno di partito Elio Quercioli, e quindi dal socialista Aldo Aniasi – presenta una proposta di legge per la regolamentazione delle attività lobbistiche e l’imposizione dell’obbligo di registrazione per tutti coloro che professionalmente lavorano per influenzare il processo decisionale pubblico. L’iniziativa, sostenuta dalla FERPI, è osteggiata dalla Confindustria perché una sua approvazione comporterebbe la “registrazione” di molti funzionari di Confindustria e un ulteriore esempio di quelli che l’allora presidente Guido Carli chiamava “lacci e lacciuoli’. Vince, ovviamente, la Confindustria grazie anche a un violento articolo in prima pagina del Corriere della Sera, a firma dell’allora direttore generale Paolo Annibaldi (poi direttore “relazioni esterne” della FIAT, e oggi sempre consulente del gruppo torinese), fratello di Cesare, a sua volta per lunghi anni direttore dei rapporti sindacali e poi culturali della FIAT. L’agente di cambio Urbano Aletti, allora presidente della Borsa di Milano, futuro senatore democristiano, affiancato da Furio Garbagnati, oggi CEO di Weber Shandwick, accoglie per la prima volta la visita di una delegazione comunista guidata dal deputato Eugenio Peggio. E sempre nello stesso anno, Franco Reviglio insieme ad Alberto Meomartini, Giulio Tremonti, raggiunti poco dopo da Domenico Siniscalco, fonda e lancia il CESEC (Centro studi economici), prima think tank moderata del partito socialista che perderà rovinosamente le elezioni provocando la congiura del Midas e l’avvento alla segreteria di Bettino Craxi, sostenuto da un Claudio Martelli attento alla comunicazione e alla modernizzazione del Paese. Attento alla comunicazione era anche, sul fronte comunista, il giovanissimo Walter Veltroni, frustrato da un clima caratterizzato dall’austerità pauperistica invocata da Enrico Berlinguer; dall’antiindustrialismo di una RAI monopolista e dalla esplosione del terrorismo che spinge il Paese a sperimentare un governo di grande coalizione. Tutti fattori che lasciano grandi spazi ai due amici “milanesi” Craxi e Berlusconi, che troveranno piena espansione nel decennio successivo: - il primo raccoglie nel 1976 un partito socialista agonizzante e lo rilancia con temerarietà e spregiudicatezza fino a conquistare per sé la presidenza del Consiglio e per i suoi compagni il 50% del potere del Paese a fronte di poco più e poco meno del 10% dei voti, grazie al suo “potere coalittivo’, decisivo per consentire alla DC di restare al governo del Paese; - il secondo, imprenditore edile, fonda TeleMilano nel suo quartiere satellite di Milano Due e punta tutte le sue carte sulla crescita della televisione privata. Protetto soprattutto da Craxi, Berlusconi forza l’interpretazione della legge e alimenta la spinta del mercato della pubblicità, fino a far saltare il monopolio RAI mettendo a disposizione dell’impresa privata prima uno, poi due e infine tre canali privati commerciali di grande successo non solo dal punto di vista della pubblicità – la quale soprattutto per questo esploderà negli anni Ottanta – ma anche dal punto di vista dei valori e dei contenuti culturali trasmessi, omologhi allo sviluppo della società dei consumi di massa. Negli anni Ottanta, complici la cultura modernizzante di un partito socialista la cui forza è sempre più sproporzionata rispetto al peso elettorale, e la cultura preindustriale dei due partiti maggiori (DC e PCI), va in scena la cosiddetta cultura dell’immagine (oggi, si potrebbe definirla della “visibilità”): non contano più le azioni e i fatti, credibilità e consenso si ottengono grazie ad articolate e sofisticate manipolazioni comunicative. Luca di Montezemolo guida le relazioni pubbliche della FIAT e tiene, insieme a Renzo Zorzi, il discorso più rilevante al convegno sulla sponsorizzazione culturale (il primo di una serie interminabile di ripetizioni che si susseguono tutt’oggi) che si tiene con Paolo Grassi alla Piccola Scala di Milano nel 1980. Qualche anno dopo lo stesso Montezemolo fa sognare gli italiani con le imprese di Azzurra nella Coppa America. È il primo esempio di un consorzio di grandi imprese costituito appositamente per una iniziativa di relazioni pubbliche. Nel 1981 nasce Assorel, associazione delle agenzie di relazioni pubbliche. Assorel non si contrappone alla FERPI, cui riconosce il ruolo di Federazione di persone e di tutela e promozione generale della professione, ma promuove una azione interna alla comunità delle agenzie (contratto comune, criteri base per la definizione di una agenzia rispetto a una società di professionisti ecc.) ed esterna (sviluppo della conoscenza fra le imprese di cosa siano e come operino le relazioni pubbliche). Nel 1982, il consiglio nazionale della FERPI approva un documento base sulle sponsorizzazioni culturali che diviene in breve la piattaforma professionale per questa nascente applicazione delle relazioni pubbliche. A Firenze, nello stesso anno, la FERPI tematizza in un convegno la figura del difensore civico. Nel frattempo, in Confindustria il neopresidente Vittorio Merloni inaugura a Genova e prosegue a Firenze la serie dei grandi convegni mediatici che lanciano l’organizzazione imprenditoriale come una stella del cinema, mentre il presidente della Montedison Mario Schimberni affida le relazioni pubbliche a Carlo Bruno, ex dirigente editoriale di Rizzoli, oggi titolare dell’agenzia Bonaparte 48. Nasce il progetto “Cultura”, coordinato da Pasquale Alferj, una esperienza temeraria e unica nel suo genere che si propone di affermare l’identità di una Montedison (nei fatti, aggressiva e pigliatutto) come azienda legata e intrecciata alla migliore cultura scientifica internazionale. Sono anche gli anni del grande successo della moda italiana: Beppe Modenese, attivo fin dagli anni Sessanta come esperto di relazioni pubbliche nel settore dell’abbigliamento, assume un ruolo di primo piano, che mantiene tutt’oggi, e diventa il vero “primo ministro” della moda mondiale. Le grandi imprese italiane (Alitalia, Montedison, Ferruzzi ecc.), fanno a gara per rifarsi il look (il logo) e accaparrarsi i costosissimi servizi della Walter Landor, società di corporate identity di San Francisco. Per la prima volta, nella seconda metà degli anni Ottanta, le imprese investono di più per sapere cosa i consumatori pensano della loro comunicazione che non dei loro prodotti. Nel 1986 si svolge a Roma, per la prima volta in Italia e in Campidoglio, il congresso europeo delle relazioni pubbliche sul tema: “Le relazioni pubbliche nella società europea che cambia”. In quegli anni, la SCR, la maggiore società italiana di consulenza in relazioni pubbliche, produrrà un considerevole sforzo di sintesi di riflessione teorica e operativa definendo la metodologia “gorel” (governo delle relazioni) che consente, fra l’altro, di misurare i risultati di una attività non soltanto di relazioni pubbliche, ma di comunicazione integrata. Sempre nella seconda metà degli anni Ottanta, nonostante i continui richiami alla sobrietà e alla moderazione lanciati mensilmente dalla newsletter Scrap, diretta da Antonio Pilati, poi autorevole membro dell’Autorità per la Comunicazione e quindi dell’Antitrust, le relazioni pubbliche italiane seguono, quando non alimentano, il cupio dissolvi dell’intreccio perverso della corruzione fra sistema economico, sistema politico e sistema dell’informazione che, nel 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, verrà portato alla luce da “mani pulite”. Nel 1989, per la prima volta il Corriere della Sera guidato da Giulio Anselmi dedica per due giorni consecutivi quattro colonne dedicate alla comunicazione di impresa. Le relazioni pubbliche delle aziende a partecipazione statale e quelle di una parte significativa del settore privato, assumono i connotati di centri di potere, delegati a smistare i favori che, reciprocamente e sulle spalle di un debito pubblico che aumenta a dismisura, si scambiano i tre sistemi portanti della società italiana (dell’economia, della politica e dell’informazione). Le eccezioni sono peraltro significative: mentre sul fronte dell’amministrazione pubblica, Stefano Rolando, allora direttore del dipartimento Informazione e Editoria della presidenza del Consiglio e oggi docente all’Università IULM, accelera verso metà decennio la sua lunga marcia verso l’affermazione della identità dei comunicatori pubblici e fonderà nei primi anni Novanta l’Associazione della Comunicazione Pubblica; sul fronte delle associazioni industriali, la Federchimica – diretta da Guido Venturini (oggi direttore generale del Touring Club) e con l’attenta e sapiente regia comunicativa di Paolo Rossi Doria – avvia l’esperienza di Fabbriche Aperte, una iniziativa che porta la società civile a vedere come le industrie chimiche italiane si avviano verso modelli più sostenibili. Sono anche molti gli imprenditori e i manager che, fortunatamente, resistono al degrado: e il lavoro dei loro operatori di relazioni pubbliche impedisce la rovina definitiva della professione. La svolta avviene dopo il ’92, con i processi di Tangentopoli che travolgono la prima repubblica svelando il ruolo di intermediazione avuto nella corruzione da diversi operatori di relazioni pubbliche. Si susseguono avvisi di garanzia e arresti di operatori di aziende e di società di consulenza. L’associazione culturale Correnti, ispirata da Federico Spantigati, teorizza che la sola comunicazione di impresa ormai credibile è quella che comunica i comportamenti reali e che, dopo tanti anni di consociativismo nel suo senso deteriore, l’identità di una organizzazione è il frutto della contrapposizione con le identità di altre organizzazioni. Giuliano Bianucci affianca Mario Segni nella strepitosa vittoria del referendum elettorale e nella elezione al Parlamento di oltre 150 deputati trasversali aderenti al “patto per la riforma elettorale”. L’avvio del grande processo di privatizzazioni – mentre si prolunga la fase di transizione a una seconda Repubblica fondata su una auspicata semplificazione del sistema partitico indotta da una legge elettorale però solo tendenzialmente maggioritaria – offre alle relazioni pubbliche uno spazio insperato, anche in termini di “governo” dell’intero processo di comunicazione integrata. Le agenzie di pubblicità si trovano, nella maggior parte dei casi, a subire, per la prima volta in modo esplicito, il coordinamento di operatori di relazioni pubbliche. Anche il boom della new economy, con la nascita di decine e decine di nuove iniziative economiche alla ricerca di fondi per decollare, tende a dare un ruolo centrale ai consulenti di relazioni pubbliche rispetto alla agenzie di pubblicità. Ma è un fenomeno di breve durata (come peraltro anche quello delle privatizzazioni) destinato a sgonfiarsi e che lascia migliaia di stock option senza alcun valore in mano alle agenzie di relazioni pubbliche che avevano accettato di rischiare insieme ai loro clienti. Nel 1994, Berlusconi travolge tutti con una massiccia campagna di comunicazione “virale” basata su migliaia di moltiplicatori e di testimoni e diventa primo ministro. L’esperienza dura poco e nel 1996 Romano Prodi, affiancato da Silvio Sircana (oggi direttore relazioni esterne delle FS), conquista Palazzo Chigi per l’Ulivo, soltanto per venire a sua volta scalzato da un Massimo D’Alema affiancato da Claudio Velardi e da Gianni Cuperlo. A partire dal 1997, le imprese tradizionali riprendono in modo significativo gli investimenti in relazioni pubbliche. Sul mercato che rinasce, la domanda diviene più competente e prende il sopravvento sull’offerta che invece aveva dominato la situazione fino ad allora. Prima della metà degli anni Novanta, il ministero del Tesoro, titolare delle azioni dei maggiori gruppi economici messi sul mercato (ENI, ENEL, Telecom, INA, le grandi banche ecc.), è governato dai cosiddetti “Ciampi boys”: da Mario Draghi a Fabrizio Barca, a Paolo Peluffo. Sarà soprattutto quest’ultimo a supervisionare e a consentire la “presa del potere” delle relazioni pubbliche nella appena nascente comunicazione finanziaria italiana, che esploderà a fine decennio con l’OPA di Olivetti su Telecom Italia. Si confrontano su questa opa due strutture italiane di relazioni pubbliche: la Barabino & Partners di Luca Barabino per conto di Olivetti e la Massmedia & Partners di Andrea Garbarino per Telecom Italia. L’elezione di Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica, seguito dal portavoce Peluffo, porta per la prima volta al Quirinale in forma ufficiale anche un “consulente” di relazioni pubbliche: Arrigo Levi, noto fino ad allora soprattutto come giornalista e inviato, già direttore del TG1. L’elezione di Prodi alla presidenza dell’Unione Europea trasferisce a Bruxelles, nella inedita veste iniziale di responsabile della comunicazione della Commissione e non di semplice portavoce del presidente, Ricardo Franco Levi, ex giornalista economico, poi fondatore e direttore del quotidiano L’Indipendente, quindi portavoce dello stesso Prodi quando era a Palazzo Chigi. Oggi il successore di Prodi, il portoghese Barroso ha addirittura elevato la funzione della comunicazione al rango di Commissario affidandola alla svedese Wallstrom! Nel 1999 le imprese italiane, al pari delle amministrazioni pubbliche e delle municipalizzate si trovano per la prima volta insieme alle prese con il cosiddetto millennium bug, una emergenza planetaria largamente anticipata che mette alla prova la capacità del Paese di “fare sistema” (come si direbbe oggi). È un momento magico poiché, sotto la attenta e appassionata co-regia di Franco Bassanini e di Ernesto Bettinelli per conto del governo, per la prima volta tecnici e comunicatori di tutte le organizzazioni private, pubbliche e sociali sul territorio nazionale si incontrano, formulano e realizzano con modalità coordinate e in pochi mesi programmi complessi di preparazione, di adeguamento e di comunicazione in attesa del possibile black out di Capodanno. Un vero miracolo, una esperienza di condivisione e di coompetizione la cui eredità si è dissolta sia perché il baco del millennio non aveva prodotto danni, sia perché i nuovi inquilini di palazzo chigi hanno preferito optare per una politica di contrapposizione. Sempre nel 2000 il successo del Giubileo esalta il sindaco romano Francesco Rutelli, sostenuto da tempo dalle abilità comunicative di Paolo Gentiloni, già direttore di Nuova Ecologia e poi redattore dell’Espresso. Entrambi si lanceranno nell’avventura della sfida nazionale a Berlusconi e si faranno aiutare inutilmente dal guru americano Greenberg. L’ultima volta che un politico italiano aveva chiamato un comunicatore americano era stato nel 1962, quando la DC chiamò Ernst Dichter di cui abbiamo già parlato. Dal 2000 la comunicazione delle organizzazioni italiane avvia un forte balzo in avanti, grazie alla coincidenza di molteplici fattori. Sul fronte del settore pubblico, in esecuzione delle riforme Bassanini degli anni Novanta che avevano accelerato la modernizzazione dello Stato, l’approvazione della legge 150/2000 che riconosce e incardina il ruolo della comunicazione nell’amministrazione stimola e spinge i comunicatori pubblici (stimati nel 2001 in 40.000 dal dipartimento della Funzione pubblica, oggi intorno ai 60.000 secondo le stime dell’Associazione della comunicazione pubblica) a darsi una identità e a formare una comunità professionale. I due annuali appuntamenti del Forum PA di maggio a Roma e del Compa di Novembre a Bologna, sono opportunità ove i comunicatori pubblici si scambiano casi, esperienze e nuovi paradigmi. La legge 150 è oggi ancora lontana da una sua piena applicazione, pur mostrando in bella vista le sue storture e contraddizioni. Ciò nonostante la legge è stata una leva di consapevolezza importante e la comunicazione pubblica ha rivelato impegni, dedizioni e talenti ragguardevoli, soprattutto a Torino ove opera Anna Martina, a Bologna ove il neo sindaco Cofferati si fa ora aiutare da Alessandro Rovinetti, a San Giorgio a Cremano ove Giancarlo Panico raccoglie crescenti consensi, a Roma ove Mariella Gramaglia svolge con passione e competenza il suo ruolo di assessore alla Comunicazione e a Genova ove l’assessore alla Comunicazione Anna Castellano raccoglie i frutti positivi di Genova 2004. Sul fronte del settore non profit, l’improvvisa crescita del settore, la presenza di personalità di spicco come Susanna Agnelli, Umberto Veronesi, Giovanni Moro, l’esperienza del settimanale Vita di Riccardo Bonacina, di associazioni come Sodalitas e alcuni eccellenti comunicatori come Giangi Milesi del CESVI, Carlo Barburini del Meyer e Alessandra Veronese della Banca degli Occhi, hanno dato ampia dignità e qualità alla comunicazione del non profit. Sul fronte della business and financial community, questi ultimi anni sono segnati da una stasi di investimenti sul fronte della comunicazione esterna ma da una notevole presa di potere da parte dei comunicatori nelle gerarchie dell’organizzazione. Si pensi solo che nel 2000, delle prime cento aziende della classifica Mediobanca soltanto in 60 il direttore della comunicazione dipendeva dal vertice. Oggi questo si riscontra in tutte e 100. Una crescita di ruolo rapidissima che vede in posizioni di eccellenza professionale comunicatori come Ludovico Passerin d’Entreves alle prese con il travaglio della FIAT; Gianluca Comin che è riuscito a portato l’ENEL fuori dalle secche di una identità pubblica a una identità privata, socialmente responsabile e fortemente attenta ai valori; Carlo Fornaro che dai ripetuti successi raccolti in una Vodafone ricca di risorse si trova ora in una RCS, ricca di programmi ma ancora frastornata da azionisti che stentano a trovare unità di intenti; Andrea Kerbaker, raffinato brand enricher di Telecom Italia che prova a dare ordine a un progetto Italia in cui c’è dentro tutto il suo contrario; Andrea Prandi che ha dato un forte contributo a fare di Merloni un nome di prestigio nei mercati del mondo e ora si trova a governare i processi comunicativi di una Edison esposta alle inquiete folate di pacchetti di azioni che passano da una mano all’altra. Né si può sottacere il cambiamento radicale in corse nella comunicazione delle banche ove operano fior di professionisti come Pierluigi Celli (Unicredit), Stefano Lucchini (Intesa) e Davide Cefis (BNL) e neppure il lavoro paziente, certosino, eccellente e integralmente internazionale che Anna Adriani sviluppa da Trieste per una illycaffè multinazionale di nicchia, vero gioiello dell’imprenditoria italiana nel mondo. Sono solo alcuni nomi di professionisti stimati che oggi dirigono la comunicazione delle nostre migliori organizzazioni. Ma per capire meglio come sono cambiate le cose in questi trent’anni conviene raccontare la metafora dell’Oscar di Bilancio che il 1 dicembre 2004 alla Borsa di Milano, con una prolusione del Nobel Stiglitz, ha celebrato il suo cinquantesimo. Nato nel 1954 su iniziativa dell’IPR di Roberto Tremelloni, poi andato in letargo negli anni settanta, quindi riattivato da Gherarda Lucchini, sempre come IPR nei primi anni Ottanta, infine affidato alle sapienti mani di Paolo Pasini negli anni Novanta quando fu la volta della FERPI ad andare in un lungo letargo. Ecco che nel 2000 l’Oscar viene rilanciato alla grande dalla stessa FERPI, rinata grazie a un sito popolare e interattivo (www.ferpi.it) che oggi riceve diverse migliaia di visite al giorno, e grazie alla decisione di partecipare attivamente alla fondazione, ottenendone la prima presidenza, della Global Alliance, organismo mondiale che raccoglie 65 associazioni nazionali. Fino alla fine degli anni Ottanta, l’Oscar veniva consegnato soltanto alle imprese, poi vennero istituiti premi speciali anche per le amministrazioni pubbliche e le organizzazioni non profit. Prima si premiavano solo i bilanci economici-patrimoniali, poi progressivamente venivano dati premi speciali anche ai bilanci sociali e a quelli ambientali, fino negli ultimi due anni a quelli di sostenibilità o di triple bottom line. Attivamente sostenuto da tutte le organizzazioni della business community (Borsa, Confindustria, ABI, ANIA, dottori commercialisti, revisori, direttori finanziari, analisti), dell’amministrazione pubblica (ANCI, UPI, Conferenza delle Regioni, Forum PA), della comunità non profit (Sodalitas, Vita, FIVOL, Anima) e dalla presidenza della Repubblica, l’Oscar del cinquantesimo verrà assegnato, per la prima volta, all’organizzazione (non più soltanto necessariamente impresa) che abbia rendicontato meglio le sue performance economiche, ambientali e sociali. E questo anche in omaggio a quella pratica crescente di politiche di responsabilità sociale delle organizzazioni che in questi ultimi anni ha davvero rivalutato e rafforzato il ruolo del comunicatore. Un bel passo avanti rispetto al primo premiato del 1954, la società Motta, con la motivazione che era la prima azienda italiana a rendere pubblico il volume del suo fatturato! Dunque ne ha fatti di passi la comunicazione delle organizzazioni. La comunità professionale è oggi stimata in almeno 70.000 persone e, partendo dal presupposto che si tratta di una attività labour e non capital intensive, un corretto approccio di valutazione porta a stimare in 12 miliardi di euro l’indotto annuo nel nostro Paese delle relazioni pubbliche! Nel bene e nel male, la comunicazione è divenuta la struttura stessa della nostra società e si potrebbe anche aggiungere che fra le tante discontinuità forti della storia, quest’ultima della globalizzazione è davvero la prima il cui centro propulsore, come dice Anthony Giddens, è proprio la comunicazione. Vero o non vero che sia, non c’è dubbio che la nostra classe dirigente (privata, pubblica e sociale) ne è pienamente convinta. Questo pone al comunicatore professionista una grande sfida di responsabilità e di consapevolezza. Da un lato, se tutti diventano comunicatori (fenomeno già in atto e in accelerazione) si corre il rischio della irrilevanza e della “commodity” della professione; dall’altro è necessario che gli stessi comunicatori si trasformino da tecnici in facilitatori aiutando le organizzazioni per le quali lavorano a trasformarsi da comunicative (dove esiste una funzione efficace di comunicazione) in comunicanti (dove tutte la struttura è abilitata comunicare). Come uscire da questa apparente contraddizione? La consapevolezza del problema è già il primo passo verso il suo superamento, quindi c’è un gran bisogno di studiare, di discutere di approfondire. Esistono poi due questioni specifiche che sono al tempo stesso una grande opportunità e un grande rischio. La prima è che è sempre necessario, oggi più che mai, che la stampa sviluppi nei lettori una visione “critica” della comunicazione delle organizzazioni, private, pubbliche e sociali. La fuffa, la panna montata (avrebbe detto anni fa Eugenio Scalfari) salgono ogni giorno, le manipolazioni e le mascalzonate crescono in maniera direttamente proporzionale ai costumi generali di un Paese che certo non migliorano (vedere per credere l’ultima classifica di Transparency International sul tasso di corruzione dei Paesi) e le persone prendono tante fregature grazie a una pervasiva e persuasiva comunicazione che tende a passare grazie alle scorciatoie tipiche dell’aumma-aumma generale fra sistema dei media, pubblicità, proprietà e organizzazioni. La seconda è che i professionisti della comunicazione devono riuscire a impedire che la moda imperante della responsabilità sociale di questi anni si trasformi in una semplice operazione di immagine. 3. I contenuti delle relazioni pubbliche Le relazioni pubbliche, lo si è già detto, sono quelle attività consapevoli che una qualsiasi organizzazione attiva per creare, sviluppare o consolidare relazioni con i suoi pubblici influenti: quei pubblici che la coalizione dominante1 ritiene possano agevolare oppure ostacolare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti. Dopo averne esplorato alcune criticità strutturali e ripercorso le dinamiche storiche negli Stati Uniti e in Italia, affrontiamo ora più in dettaglio alcuni aspetti legati alla loro operatività quotidiana. 3.1 A cosa servono La funzione delle relazioni pubbliche è di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di una organizzazione grazie ad una attività continuativa, consapevole e programmata di gestione e coordinamento dei sistemi di relazione2 che si attivano fra l’organizzazione stessa e i segmenti di pubblico per lei influenti. Sistemi di relazioni che, per essere efficaci, devono essere trasparenti, bidirezionali e tendenzialmente simmetrici. Può apparire superfluo scrivere che le relazioni pubbliche contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione. Eppure, per molti anni è valso – ed è ancora oggi diffuso – lo stereotipo per cui, in una organizzazione, le relazioni pubbliche rientrano fra le funzioni non indispensabili. C’è di più: anche per reazione a questa connotazione riduttiva, fra gli stessi operatori circola l’argomento che le relazioni pubbliche si debbano proporre obiettivi propri, autonomi, istituzionali, quasi che la funzione fosse indipendente dalla specifica organizzazione e gli obiettivi fossero dunque sempre gli stessi, in qualsiasi contesto o situazione: migliorare l’immagine, elevare la visibilità del top management e così via. Qualcuno ha addirittura sostenuto che le relazioni pubbliche svolgono, all’interno di un’organizzazione, una funzione di “rappresentanza” delle istanze degli stakeholder, quasi si trattasse di un ombudsman degli stakeholder nel cuore dell’organizzazione. Si tratta di interpretazioni estreme, difficilmente condivisibili e molto spesso fuorvianti. Nel primo caso, alla funzione viene riconosciuto un ruolo nice to have (utile, ma non strettamente necessario) poiché le si attribuisce la sola esecuzione operativa di eventi, programmi e iniziative decise da altri (dal vertice o dalle altre funzioni aziendali, quali il commerciale, il marketing, il 1 James Grunig (1992) definisce la coalizione dominante come il gruppo di persone in una organizzazione che detiene il potere di definire strutture e decidere strategie e programmi in un determinato periodo di tempo; la sua legittimazione deriva da coloro verso i quali questo potere viene esercitato. È evidente che all’interno delle organizzazioni ci può essere notevole differenza tra i vertici formali definiti dallo statuto o dalla legge e quelli sostanziali che esercitano effettivamente il potere: da qui la considerazione che la coalizione dominante è situazionale, nel senso che può variare a seconda della questione in oggetto. 2 I termiini comunicazione e relazione vengono usati in maniera confusa. È bene quindi distinguere la relazione, la cui costruzione e gestione è il fine ultimo che le relazioni pubbliche si propongono, dalla comunicazione, che invece ne diventa uno strumento attuativo. personale o la produzione). Di qui la consuetudine di alcune organizzazioni di affidare in toto le loro relazioni pubbliche all’esterno. Non ritenendola funzione essenziale, strategica, e neppure necessariamente continuativa, è giocoforza -anzi “moderno”- applicare l’esternalizzazione (outsourcing), una pratica normalmente consigliata per le funzioni tattiche che non fanno parte del core business (il “nocciolo duro” dell’organizzazione, l’attività che la contraddistingue)3. Nel secondo caso, alle relazioni pubbliche viene attribuito un ruolo generico e comunque adatto per tutti gli usi. È assai vago infatti dire, come spesso fanno anche gli operatori, che l’obiettivo delle relazioni pubbliche è quello di migliorare l’immagine di un’organizzazione.4 Nel terzo caso, alle relazioni pubbliche viene attribuito un ruolo di rappresentanza (similsindacale) degli stakeholder all’interno di un’organizzazione5, in una accezione che accentua fino a stravolgerla la fase dell’ascolto, definita anche ‘riflettiva’, che invece, come vedremo più avanti, rappresenta una delle diverse funzioni strategiche delle relazioni pubbliche. L’ascolto aiuta anche a identificare, rispetto a un obiettivo determinato e noto, le variabili davvero prioritarie e gli influenti effettivamente tali. La sua finalità è comprendere a fondo atteggiamenti, opinioni, valori e comportamenti degli influenti, sia quelli sulle variabili sia quelli sui destinatari finali, per attivare con loro iniziative di relazione capaci di facilitare, con risultati misurabili, il raggiungimento di quel particolare obiettivo, tenendo comunque sempre presente la necessità (pena l’efficacia stessa della relazione) di assicurare che gli stessi influenti ricavino un valore aggiunto percepito dalla loro relazione con l’organizzazione. Resta in ogni caso il fatto che attività di relazioni pubbliche non finalizzate al raggiungimento di un obiettivo specifico di un’organizzazione sono del tutto inutili. Nella definizione viene anche sottolineato che le relazioni pubbliche sono un’attività consapevole e programmata. Infatti, per il semplice motivo di esistere e di operare, ogni organizzazione anche se priva di una funzione interna di relazioni pubbliche e/o di un servizio di consulenza esterno, sviluppa relazioni con altri soggetti6 quali i collaboratori, i dirigenti, gli azionisti, i clienti, gli aderenti, i soci, gli elettori, le istituzioni; e spesso si tratta di relazioni non consapevoli e non programmate. Intendiamoci, non vogliamo affatto sostenere che questo sia di per sé negativo. Riflettendo sull’esperienza di vita quotidiana è facile constatare come una parte significativa della nostra vita di relazione non sia consapevole e neppure programmata. Vogliamo soltanto affermare che, in situazioni e condizioni 3 A proposito della differenza tra funzioni tattiche e strategiche rimandiamo al paragrafo 1.5 in cui si descrivono le funzioni tattiche-operative e quelle strategiche delle relazioni pubbliche, anche con riferimento ai ruoli individuati dal Bled Manifesto. 4 Si assiste anche ad una generale confusione attorno ai concetti di identità, immagine e reputazione. Il termine identità indica i valori alla base di una organizzazione veicolati con la comunicazione dei suoi comportamenti, mentre immagine fa riferimento alla percezione dell’identità che ne hanno i pubblici influenti e che viene solitamente trasferita da una comunicazione persuasiva. La reputazione, invece, si riferisce alla percezione dell’organizzazione che ne hanno i soggetti in base alla loro esperienza nel tempo, diretta od indiretta. Alcuni relatori pubblici attribuiscono prevalenza alla reputazione: i critici di questa scelta argomentano invece che la reputazione di per sé non implica, a differenza della relazione, strumenti di governo poiché soggetta soprattutto a variabili non governabili (a differenza della relazione) e non permette misurazione né valutazione: quindi non è una variabile manageriale. 5 È quella che viene definita “sindrome di Stoccolma”, ovvero la tendenza del relatore pubblico – fedele al suo ruolo riflessivo di interprete delle aspettative degli stakeholder presso la coalizione dominante – di sovrastimare l’importanza dello stakeholder presumendo che i suoi interlocutori interni la sottostimeranno, immaginando in tal modo di raggiungere un equilibrio accettabile. Il relatore pubblico rischia così di perdere la sua credibilità presso il cliente/datore di lavoro compromettendo così anche le stesse aspettative degli stakeholder e soprattutto l’efficacia del proprio lavoro. 6 Applicando alle organizzazioni la “teoria generale dei sistemi” del biologo austriaco Ludwig von Bertalanffy, è possibile postulare una stretta interdipendenza e interazione fra queste e tutti gli elementi che fanno parte della realtà sociale, economica e culturale nelle quali sono immerse. Attraverso tali interazioni ciascun attore influenza il comportamento degli altri. normali, gli obiettivi si conseguono con maggiore efficacia se le relazioni con chi ne può condizionare o influenzare il raggiungimento sono gestite e coordinate in modo consapevole e programmato. Un ulteriore concetto presente nella definizione è quello di “sistema di relazioni”, inteso come insieme di rapporti fra un’organizzazione e altri soggetti. Possono essere singole persone, gruppi di persone, imprese, associazioni, governi, enti locali, istituzioni che – sempre rispetto a uno specifico obiettivo perseguito dall’organizzazione – sono accomunati da interessi, valori, convinzioni o comportamenti omogenei, conflittuali o semplicemente condivisi. Così, un’impresa che importa e commercializza modem sviluppa relazioni con i suoi azionisti, i produttori internazionali di modem, i dipendenti, i distributori, i fornitori, i clienti finali, le banche. E ancora: con l’amministrazione pubblica, i concorrenti, i produttori e distributori di hardware e di software, la stampa tecnica e così via. Un’organizzazione che persegua i suoi obiettivi in modo consapevole, cercherà di gestire e coordinare i suoi numerosi sistemi di relazione in modo da facilitarne il raggiungimento. In proposito, si può osservare come la scienza manageriale di oggi distingua un’organizzazione ben diretta da una meno ben diretta anche in base al livello di consapevolezza con cui questa gestisce e coordina i suoi sistemi di relazione con gli influenti. Negli ultimi anni è stata attribuita un’importanza sempre più decisiva al concetto di “relazione”, tanto che molti misurano il vero valore aggiunto di un’organizzazione in base al livello di consapevolezza, di governo e di possesso (ownership) della relazione con gli stakeholder7. Sotto quest’aspetto, appare paradossale che i relatori pubblici preferiscano chiamarsi diversamente8 e siano così restii a capitalizzare, acquisendo nuove competenze e piena consapevolezza, il fatto che il termine “relazione” sia parte integrante della definizione stessa del loro lavoro: un vantaggio competitivo pressoché unico rispetto ad altri manager o consulenti di impresa. Tornando alla definizione, quando si dice che le relazioni pubbliche coordinano e gestiscono i sistemi di relazione di un’organizzazione si vuole soprattutto intendere che il coordinamento, a differenza della gestione, riguarda quei sistemi di relazione normalmente intrattenuti dalle altre funzioni manageriali. Per continuare con l’esempio dell’azienda che commercializza i modem, non spetterà certo alle relazioni pubbliche gestire i sistemi di relazione con la rete commerciale e neppure con i fornitori o le banche. Questo compito spetterà, rispettivamente, al direttore commerciale, all’ufficio acquisti e alla direzione finanziaria, così come competerà alla direzione risorse umane gestire le relazioni con i dipendenti e con i sindacati, e alla direzione marketing le relazioni con il mercato. La funzione delle relazioni pubbliche si eserciterà soprattutto nell’assicurare al vertice aziendale che quei sistemi di relazione siano coerenti e finalizzati al raggiungimento di obiettivi sinergici e nel “monitorare” che i messaggi chiave trasferiti siano efficaci e funzionali agli obiettivi perseguiti. Vi sono però anche alcuni sistemi di relazione la cui effettiva gestione viene normalmente delegata alle relazioni pubbliche. La situazione può variare secondo la specifica organizzazione, la sua storia, la sua cultura e, più ancora, la leadership e l’autorevolezza di chi ricopre la funzione di relazioni pubbliche. Tuttavia, in condizioni normali, questi sistemi di relazione comprendono le istituzioni e gli 7 Il benessere organizzativo è il risultato cumulato delle conseguenze che l’organizzazione produce sui pubblici influenti e che questi ultimi producono sull’organizzazione. Interpretando la capacità di creare benessere (wealth) come fattore di successo, sviluppare relazioni con gli stakeholder è un vantaggio che permette all’organizzazione di incrementare il suo valore. (Post, Preston e Sachs, 2002) 8 Sovente la comunità professionale si trova a discutere se i suoi professionisti debbano essere definiti comunicatori o relatori pubblici. Nel primo caso, la finalità del nostro lavoro è assistere le organizzazioni nel definire i contenuti, progettare e distribuire strumenti oppure programmi per trasferirli ad altri. Nel secondo caso, invece, la finalità dei relatori pubblici è di interpretare – ascoltandoli e dialogando con loro – i pubblici influenti, attivando e governando i relativi sistemi di relazione. Questa sottolineatura evidenzia come il termine comunicatore sottenda prevalentemente un ruolo tattico e operativo, mentre quello di relatore pubblico enfatizza il ruolo strategico e riflettivo, pur rimanendone l’operatività un elemento essenziale. organismi della decisione pubblica, la stampa e i cosiddetti “leader di opinione”. Sono inclusi frequentemente anche i dipendenti, i consumatori e gli azionisti ma, quando ciò accade, si tratta in molti casi di una co-gestione, rispettivamente con la direzione delle risorse umane, con la direzione del marketing e con la direzione finanziaria. I sistemi di relazione efficaci, si è detto, sono trasparenti, bi-direzionali e tendenzialmente simmetrici. Prescindendo dagli aspetti squisitamente etici, che pure non vanno sottovalutati, è certo che nella maggior parte dei casi, quando si ha a che fare con interlocutori con i quali l’organizzazione è genuinamente interessata a stabilire relazioni positive e durature, la trasparenza, la bi-direzionalità e la tendenziale simmetricità diventano condizioni di efficacia. Non si può infatti pensare di mantenere una relazione duratura e positiva con soggetti ai quali vengano trasferiti, con modalità non trasparenti, messaggi non corretti e ai quali non si assicuri la possibilità di dialogo e interazione. La questione etica interviene semmai, e in modo significativo, nei casi in cui l’operatore decida consapevolmente di avviare un’iniziativa non trasparente, unidirezionale o del tutto asimmetrica ritenendola più efficace. La distinzione è rilevante, perché l’operatore che agisce sistematicamente in modo non trasparente, unidirezionale e asimmetrico, prima ancora di violare l’etica professionale, è semplicemente un pessimo operatore. Nel caso in cui, invece, l’etica venga consapevolmente violata perché l’operatore è davvero convinto che, in quella determinata circostanza, la violazione consenta di ottenere un risultato più efficace, egli si trova di fronte alla propria coscienza e al giudizio dei suoi colleghi, i soli deterrenti realmente incisivi; sempre che non vengano violati i codici civili o penali, perché allora interviene lo Stato. Può darsi anche che un operatore decida di violare consapevolmente una norma deontologica perché la ritiene superata, da cambiare, e crede di poterlo fare solo rendendo pubblica la violazione. Un caso di questo genere è successo non molti anni fa in Italia in merito alla questione della correlazione, sia pure parziale, fra retribuzione e risultati ottenuti da un’azione di relazioni pubbliche. La deontologia infatti escludeva a priori tale correlazione, basandosi su un codice redatto quando l’unico modo per garantire un risultato era quello di “corrompere” l’intermediario (giornalista, politico o funzionario pubblico che fosse) e non tenendo conto dell’evoluzione tecnologica grazie alla quale è oggi possibile misurare i risultati con criteri relativamente oggettivi e, quindi, collegare a essi una parte della retribuzione. La polemica suscitata all’interno della professione dal caso accennato ha portato al superamento della norma e attualmente è frequente il caso di operatori che collegano una parte della propria retribuzione al raggiungimento di determinati risultati. La questione dell’etica professionale – qui trattata solo nei suoi aspetti essenziali – è, per le ragioni che abbiamo visto, centrale rispetto all’identità e alla percezione che nella società si ha delle relazioni pubbliche9. I processi con cui si attuano, a differenza della pubblicità, sono invisibili al grande pubblico e troppo poco noti perfino agli interlocutori più diretti, i cosiddetti “influenti” o “stakeholder”: una carenza in larga parte voluta dagli stessi operatori, che non sempre considerano imperativo essere trasparenti. Le cosiddette front organizations, per esempio, sono organizzazioni più o meno complesse, e più o meno prestigiose, che appaiono indipendenti e, in quanto tali, presentano all’opinione pubblica e al processo decisionale pubblico, con credibilità e autorevolezza (assai variabili a seconda dei casi), opinioni, ricerche, documenti, che in realtà rappresentano (indirettamente) gruppi di interesse molto specifici e non esplicitati. Molti operatori ritengono, e nella gran parte dei casi non a torto, che soltanto se presentati come “indipendenti” queste opinioni, queste ricerche, questi documenti possono essere 9 La percezione miopica che si ha delle relazioni pubbliche dipende anche in larga parte della scarsa rappresentatività delle associazioni professionali. In Italia, per esempio, su 70.000 operatori di relazioni pubbliche stimati, solo il 10% (6-7.000) partecipa ad una delle diverse associazioni. Anche in una prospettiva globale si rileva all’incirca la stessa percentuale, stimando che nel mondo vi siano circa tre milioni di persone che operano nelle relazioni pubbliche di cui solamente 300.000 appartenenti a una associazione professionale. valutati dagli influenti per il loro valore, mentre se venissero direttamente attribuiti alle fonti primarie, cioè ai gruppi di interesse che li hanno promossi e finanziati, la loro credibilità tenderebbe ad annullarsi, o comunque diminuirebbe fortemente. È una questione assai controversa poiché si può anche dimostrare che, in diversi casi, è proprio la trasparenza degli interessi rappresentati che attribuisce credibilità alle opinioni espresse. Comunque, è indubbio che, per un operatore, la via della front organization è la più usuale e, tutto sommato, la più semplice. 3.2 A chi si rivolgono Le relazioni pubbliche si rivolgono, in linea generale, ai pubblici influenti di un’organizzazione: soggetti dotati di poteri decisionali rilevanti per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti, oppure ritenuti influenti su questi10. In particolare, un’organizzazione attiva relazioni con questi pubblici per indurre in essi opinioni, atteggiamenti, comportamenti che consentano il raggiungimento degli obiettivi con il migliore rapporto costi/benefici e che, allo stesso tempo, permettano a quei pubblici di ricavare un qualche valore aggiunto dall’avere aiutato (o comunque non ostacolato) l’organizzazione nel raggiungere tali obiettivi. In questo concetto risiede il principio della tendenziale simmetria fra le parti di una relazione che presidia saldamente la descrizione di relazioni pubbliche efficaci. In sostanza i pubblici influenti di una organizzazione trovano interesse a contribuire a ridurre gli ostacoli o addirittura a favorirne gli obiettivi soltanto se pensano di ricavare un qualsivoglia ma misurabile valore aggiunto dalla relazione che in tal modo attivano con l’organizzazione. Per quanto riguarda il concetto di “stakeholder”, letteralmente, to hold a stake significa possedere o portare un interesse, un titolo, inteso (quasi) nel senso di un “diritto”. In sostanza, lo stakeholder è un soggetto (una persona, un’organizzazione o un gruppo di persone) che ritiene di sua sponte – non perché riconosciuto dall’organizzazione – di detenere un titolo per entrare in relazione con questa, un soggetto le cui opinioni o decisioni, i cui atteggiamenti o comportamenti possono oggettivamente favorire oppure ostacolare il raggiungimento di un suo specifico obiettivo. Così, per tornare ancora una volta all’esempio dell’impresa che importa modem, questa non riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi se si apre una fase di conflitto con i dipendenti, se le banche interrompono il credito, se i distributori scelgono un prodotto concorrente, se la stampa tecnica non sostiene l’efficacia del prodotto, se l’assistenza tecnica non funziona, se il ministero delle Finanze decide di imporre una tassa sull’innovazione tecnologica e così via. Ogni organizzazione ha stakeholder che possono più o meno variare rispetto agli obiettivi perseguiti e più o meno distinguersi da quelli di un’organizzazione concorrente. I giornalisti che si occupano di moda, per esempio, saranno stakeholder per tutti gli stilisti, ma ciascun stilista avrà azionisti, clienti e distributori diversi. Così, anche per un produttore di profumi il giornalista che si occupa di moda è importante ma, fra i tanti giornalisti, tenderà sicuramente a privilegiare l’esperto di 10 Riprendendo il dibattito sulla questione dei pubblici (si veda il paragrafo 1.2) è interessante citare i lavori di Joao Duarte, giovane ricercatore portoghese, che interpreta i pubblici come gruppi di persone che interagiscono con le organizzazoni in via continuativa, e non necessariamente su una questione specifica come argomentato da Grunig e Repper nella loro teoria situazionale. Questa interpretazione è utile perché – collegata al concetto di diversità – appare rappresentare un possibile nuovo paradigma per le relazioni pubbliche in quanto: - da un lato osserviamo la maggior efficacia – assiomatica ma profondamente verosimile – della comunicazione onewith-one; - dall’altro lato citiamo la constatazione – lapalissiana ma banalmente trascurata – che ogni essere umano é diverso dall’altro. Questa concezione estensiva di diversità (non associata cioè soltanto a questioni di genere, razza e cultura), incrociata con la nuova definizione di pubblici, offre all’interazione quotidiana organizzazione-ambiente una nuova prospettiva di cui le relazioni pubbliche devono prendere consapevolezza per operare in maniera socialmente responsabile. bellezza. C’è poi un’ulteriore questione che, ai nostri fini, chiarisce meglio l’impiego del termine “stakeholder” rispetto a quello, che peraltro molti utilizzano abitualmente come sinonimo, di “influente” ed è la questione della fonte di legittimità. Il termine “influente”, infatti, implica che sia l’organizzazione a ritenerlo tale, quindi la fonte di legittimazione è l’organizzazione stessa. Nel caso dello stakeholder, invece, è egli stesso a ritenere di avere il titolo per rivendicare il diritto di interloquire, e non sempre l’organizzazione gli riconosce questo titolo. Un esempio: negli anni Sessanta, i primi movimenti per la protezione del consumatore sorti negli Stati Uniti non venivano riconosciuti dalle imprese, ci sono volute mille battaglie prima che le aziende decidessero di prenderli in considerazione. Anche in Italia, alla fine degli anni Settanta, nessuna impresa considerava legittima la rappresentanza degli interessi generali rivendicata dall’allora nascente movimento ambientalista. Oggi, al contrario, nessuna azienda le cui attività incidano sull’ambiente (e sono praticamente tutte) pensa che gli ambientalisti non siano interlocutori rilevanti. Dal punto di vista pratico, i due termini possono sembrare in prima analisi intercambiabili, ma è bene essere consapevoli delle differenze. Esistono infatti tre diverse categorie: – influenti che si ritengono stakeholder, ovvero soggetti che l’organizzazione per prima ritiene influenti e che però sono anche stakeholder, cioè consapevoli e interessati a una relazione; – influenti che non si ritengono stakeholder, ovvero soggetti che l’organizzazione ritiene influenti ma che non si considerano tali; – stakeholder non ritenuti influenti dall’organizzazione, ovvero soggetti che si ritengono stakeholder ma che non vengono considerati tali dall’organizzazione. La distinzione è importante dal punto di vista operativo, perché per ogni specifico obiettivo perseguito l’organizzazione deve in primo luogo decidere quali siano i suoi influenti e quindi individuare quali tra questi sono effettivamente consapevoli di essere stakeholder e quali non lo sono, tenendo conto anche di quegli stakeholder che l’organizzazione, per i motivi più diversi, non intende riconoscere come influenti. Rispetto al primo gruppo, si può pensare che la relazione instaurata (o da instaurare) possa effettivamente essere, come suggerisce Grunig (si veda il capitolo 5), a due vie e tendenzialmente simmetrica, e che il modello comunicativo adottato possa essere diretto, sbrigativo, essenziale, argomentativo, pull. Rispetto al secondo gruppo, invece, l’organizzazione dovrà operare, in una prima fase, con modalità push, persuasive e con argomenti tali da attirare la loro attenzione cercando poi di persuaderli a diventare stakeholder, così da potere instaurare anche con loro una relazione interattiva e tendenzialmente simmetrica. Ne consegue che, per l’interlocutore soltanto influente, l’organizzazione dovrà adottare un diverso modello comunicativo, più indiretto, più attraente, e verosimilmente più oneroso. Seppure a volte questo non sia possibile e in determinate situazioni possa essere persino non auspicabile, in teoria un’organizzazione dovrebbe comunque tendere a trasformare i suoi influenti in stakeholder e a dialogare, a due vie e in modo tendenzialmente simmetrico, anche con quegli stakeholder che, a una prima analisi, non erano stati inclusi fra gli influenti. Il concetto di “stakeholder” viene anche spesso contrapposto a quello di “shareholder”, cioè a quello di “azionista”. Da anni, gli analisti dell’organizzazione e gli economisti d’impresa discutono se l’impresa debba essere in prevalenza una share o una stakeholder company. È un dibattito di notevole interesse che, in estrema sintesi, attribuisce al modello capitalistico anglosassone una prevalenza della shareholder company, ovvero di un’azienda il cui interesse primario è soddisfare le aspettative degli azionisti, e al modello capitalistico del continente europeo e del Giappone la prevalenza della stakeholder company, il cui interesse primario è invece soddisfare le aspettative di tutti gli aventi titolo (inclusi, ovviamente, gli azionisti). Queste due diverse accezioni del ruolo dell’impresa nella società capitalistica accompagnano, fino a farne ormai parte integrante, il dibattito intorno al welfare e al ruolo dello Stato nelle società contemporanee. Pur trovando la discussione stimolante, è necessario, ai nostri fini, richiamare l’attenzione su alcune mistificazioni che essa può nascondere. Se, per esempio, è vero che la stakeholder company dovrebbe essere, almeno sulla carta, quella più sensibile alle attività di relazioni pubbliche, è anche vero però che queste ultime nascono, crescono e maturano soprattutto sul mercato anglosassone, terra d’elezione delle shareholder company. Non solo: se consideriamo, come dovremmo, le imprese italiane come appartenenti al modello stakeholder company, sarebbe assai arduo riconoscervi negli anni, il segnale di un genuino interesse del management (fatte sempre le dovute eccezioni di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente raccontando la storia delle relazioni pubbliche nell’Italia del dopoguerra) a soddisfare le aspettative di tutti gli aventi titolo. Inoltre, la transizione in atto verso la nuova economia, con la fortissima accelerazione dei processi di finanziarizzazione e globalizzazione delle imprese, tende inevitabilmente a far prevalere, anche in Europa e in Giappone, il modello shareholder company, anche se non si può negare che gli scandali finanziari degli ultimi anni, emersi nei Paesi di entrambi gli schieramenti, hanno contribuito notevolmente a mettere all’ordine del giorno del dibattito economico e manageriale questioni di corporate governance e responsabilità sociale11 delle organizzazioni, tipiche invece del modello stakeholder company. 3.3 Il concetto di “comunicazione integrata” Si è detto che le relazioni pubbliche sono soltanto una delle varie discipline della comunicazione di impresa. Tra le altre, la più nota è sicuramente la pubblicità, che si propone soprattutto di creare, rafforzare e consolidare un’immagine di marca (le sue applicazioni sono l’annuncio, lo spot, il comunicato radio, il manifesto, il banner ecc.). Seguono la promozione – che ha lo scopo, prevalentemente, di vendere il prodotto e le cui applicazioni sono l’offerta speciale, la vetrina sul punto di vendita, il concorso a premi – e il direct mail o direct response o direct marketing – che ha l’obiettivo di stabilire una relazione diretta e di fedeltà con il consumatore provocando un’azione di risposta, e le cui applicazioni sono il coupon di risposta e/o l’iscrizione al club. Si discute inoltre se le sponsorizzazioni debbano o possano essere considerate una disciplina autonoma rispetto alle altre. La questione è controversa: le sponsorizzazioni, a seconda dell’accezione, fanno parte delle relazioni pubbliche, della pubblicità e delle promozioni. Nel primo caso rientrano le sponsorizzazioni classiche (culturali, sociali, ambientali), nel secondo quelle sportive e nel terzo le cosiddette “trasmissioni televisive sponsorizzate”. 11 La responsabilità sociale delle organizzazioni (o CSR, Corporate Social Responsibility) si è insediata in maniera pervasiva all’interno delle funzioni spettanti alle relazioni pubbliche. Anche la Global Alliance è impegnata dai primi mesi del 2004 in un intenso e acceso dibatto sulla connessione tra responsabilità sociale e relazioni pubbliche. Tutte le ricerche fin qui analizzate (per l’Italia segnaliamo il libro a cura di Nicoletta Cerana, Comunicare la responsabilità sociale, Franco Angeli, 2004) evidenziano la tendenza di assegnare alle relazioni pubbliche un ruolo importante nella gestione della CSR. Ciò enfatizza la crescita del loro ruolo nella definizione delle scelte strategiche (e ciò rappresenta un enorme opportunità per la nostra professione che va sostenuta). Al contempo, però, ciò comporta anche un paio di minacce: 1) si rafforza l’idea – sempre latente nei critici della CSR – che la responsabilità sociale sia solamente un’operazione di rp, o ancor peggio di immagine; 2) l’organizzazione – affidandone la gestione alle relazioni pubbliche – perde l’opportunità di considerare la CSR come occasione per la diffusione interna di una cultura organizzativa che ponga al centro dell’impresa i suoi sistemi di relazione con l’ambiente esterno. In gergo, mentre la pubblicità viene definita una disciplina “above the line”, sopra la riga, cioè visibile, trasparente, quantificabile, esplicita, tutte le altre si definiscono invece “below the line”, sotto la riga, cioè più difficilmente identificabili e quindi quantificabili. Ciascuna di questa discipline, nel tempo, ha consolidato un proprio corpus di conoscenze e proprie regole. Questo comporta, per esempio, che non si possano applicare alla promozione le stesse regole della pubblicità. L’efficacia dell’una o dell’altra dipendono infatti da criteri e modalità operative diverse: la promozione, se ha successo, produce effetti immediati (il concorso aiuta ad avvicinare il consumatore a un nuovo prodotto oppure a svuotare i magazzini di prodotti noti), mentre la pubblicità si propone obiettivi più a medio termine (rafforzamento dell’immagine di marca). Così, il direct marketing genera informazioni relative al singolo consumatore, per sviluppare iniziative di database o relationship marketing, mentre le relazioni pubbliche, nel caso di supporto a specifici obiettivi di marketing, organizzano eventi e sviluppano relazioni con i media per ottenere approvazione e consenso da parte di opinion leader credibili e capaci di attirare l’attenzione dei consumatori sul prodotto o servizio. È però anche vero che, per informare il consumatore dell’esistenza di una promozione, è spesso necessario servirsi della pubblicità, del direct mail e delle relazioni pubbliche. Così come, per parlare del sostegno a una politica riguardante l’ambiente, un classico obiettivo delle relazioni pubbliche, è possibile che una campagna pubblicitaria sui quotidiani possa essere molto utile per affermare verso gli influenti una posizione della Federchimica in merito a una nuova legge sull’impatto ambientale. Insomma, in funzione dell’obiettivo specifico perseguito dall’organizzazione, ciascuna disciplina può essere usata come disciplina-guida che coordina le altre oppure come disciplina-supporto che viene, a sua volta, coordinata da un’altra. Ecco allora cosa significa all’origine l’espressione “comunicazione integrata”: l’uso integrato delle diverse discipline della comunicazione d’impresa, utilizzando le specifiche caratteristiche di ciascuna per arrivare a sviluppare sinergie comunicative tali da raggiungere il risultato più efficace con il miglior rapporto costi/benefici. Tuttavia, in questi ultimi anni, l’espressione viene utilizzata anche in diverse altre accezioni. La comunicazione si dice infatti “integrata” quando: – – – – – – le organizzazioni si sforzano di rendere coerenti i messaggi rivolti all’esterno con quelli inviati ai collaboratori interni (comunicazione esterna e interna); le organizzazioni si sforzano di rendere coerenti i messaggi al mercato con quelli inviati agli influenti (comunicazione di marketing e istituzionale o corporate); la comunicazione online è coerente e sinergica con quella offline; i componenti della funzione di comunicazione di un’organizzazione lavorano in forte simbiosi e sinergia (oggi è possibile anche farlo online via Internet o Extranet) con i comunicatori delle varie agenzie esterne di professionisti; i componenti della funzione di comunicazione di un’organizzazione lavorano in forte simbiosi e sinergia con le altre funzioni dell’azienda (risorse umane per la comunicazione interna, finanza per la comunicazione finanziaria, marketing per la comunicazione al mercato); all’interno delle amministrazioni pubbliche, e per alcuni effetti perversi derivanti dalla legge 150 del maggio 2000, gli uffici del portavoce, gli uffici stampa e gli uffici relazioni con il pubblico riescono a dialogare fra loro perseguendo obiettivi comuni o perlomeno coerenti. È importante sottolineare la forte e visibile azione degli operatori più consapevoli, volta a rimediare con lo studio, la sperimentazione, la verifica, l’ascolto delle esperienze di altri, quelle che sono oggi le aree di maggiore criticità della comunicazione di impresa, che si presentano quando: – – – – – – – 3.4 ogni disciplina viene usata da funzioni diverse per raggiungere obiettivi diversi con messaggi diversi; il comunicatore interno non sa quello che fa quello esterno e viceversa; il comunicatore istituzionale va per la sua strada senza confrontarsi con quello che si occupa di comunicazione al mercato e viceversa; si va in Rete con un proprio sito senza preoccuparsi di dire cose coerenti con quelle che si dicono sui canali classici della comunicazione; i comunicatori aziendali e le agenzie esterne parlano linguaggi diversi e non si capiscono, con il risultato che il prodotto non piace agli uni ma neppure alle altre; i comunicatori in azienda si comportano come tecnici specialisti e, quindi, sono vissuti come tali dagli altri dirigenti interni, venendo così meno al ruolo fondamentale di coordinamento e gestione dei sistemi di relazione dell’organizzazione; i comunicatori di una amministrazione pubblica vivono separati gli uni dagli altri, ignorando le rispettive attività. Come si attuano Per ciascun specifico obiettivo perseguito dall’organizzazione, definito dopo l’ascolto attivo delle aspettative degli stakeholder rispetto alle conseguenze indotte in loro dalle sue finalità, l’attività di relazioni pubbliche si realizza innescando un flusso continuo e costante di azioni che: – – – – – – inizia con l’identificazione delle variabili (esterne, interne) le cui dinamiche orientano l’obiettivo definito; prosegue con l’ascolto dei pubblici influenti sulle variabili identificate e dei pubblici influenti sui destinatari finali; continua con la definizione dei messaggi chiave; applica un pretest che analizza i livelli di familiarità del contesto e del contenuto del messaggio e di credibilità/autorevolezza percepita della/e fonte/i; progetta specifiche iniziative di relazione realizzate con stumenti di comunicazione; si conclude con un’ulteriore fase di ascolto che misura l’efficacia delle azioni realizzate, facilitando così la progettazione e la realizzazione di nuove azioni. L’espressione “flusso continuo di azioni” usata nella definizione iniziale sottolinea la funzione operativa delle relazioni pubbliche. Troppo spesso infatti, in questi ultimi anni, gli operatori di relazioni pubbliche, frustrati perché tendenzialmente utilizzati come “tattici”, hanno abusato del termine “strategico” quasi a sottolineare la volontà di estraniarsi da una funzione operativa. Se quanto affermato fin qui appare convincente, il ruolo strategico delle relazioni pubbliche all’interno di una organizzazione appare evidente e non merita ulteriori sottolineature. Perché questo ruolo venga riconosciuto anche dagli altri, è però indispensabile che la funzione dimostri, con criteri misurabili e condivisi dal resto del management, la propria capacità di facilitare il raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione. Questo “flusso continuo” passa attraverso quattro macrofasi: ascolto iniziale, progettazione, attuazione, ascolto. La macrofase di ascolto iniziale è sostanzialmente una fase attiva sul campo, e che si realizza solo in parte a tavolino. È, di per sé, un’intensa e importante fase relazionale che fornisce all’organizzazione elementi utili per definire con chiarezza e consapevolezza le proprie finalità e i propri obiettivi nonché per decidere le politiche comunicative, gli stessi messaggi, e le azioni da intraprendere per diffonderli. Può anche succedere che, a seguito di un’attenta fase di ascolto cambino, talvolta anche sostanzialmente, gli stessi obiettivi perseguiti. Durante la macrofase della progettazione, in funzione di specifici e ben definiti obiettivi e in base ai risultati dell’ascolto, viene progettata una strategia relazionale che, normalmente, si attua utilizzando appositi strumenti di comunicazione e che, in funzione di parametri almeno parzialmente predeterminati e condivisi, si ritiene possano, meglio di altri, essere efficaci. La terza macrofase, quella dell’attuazione, esalta al tempo stesso la creatività e la capacità comunicativa delle relazioni pubbliche. Essendo le risorse disponibili (umane e finanziarie) sempre limitate, la sfida non consiste soltanto nel produrre iniziative che aiutino l’organizzazione a raggiungere l’obiettivo perseguito, ma soprattutto nel realizzarle con il miglior rapporto costi/benefici. La quarta macrofase, quella dell’ascolto, è cruciale. Qui è però necessario intendersi: l’ascolto non è separato dalla comunicazione, ma ne costituisce sempre una parte integrante. Malgrado ciò, come per qualsiasi altra funzione di management anche le relazioni pubbliche sono tenute a dimostrare di poter raggiungere risultati misurabili, valutando a seconda di ogni specifica situazione i quattro indicatori classici: – – – – output: la capacità dello strumeno di raggiungere l’interlocutore (quantitativa e misura l’efficienza); outtake: la ricezione da parte dell’interlocutore (quanti-qualitativa e misura sempre l’efficienza); outcome: la modifica effettiva del cambiamento nell’interlocutore (quali-quantitativa e misura l’efficacia della singola azione); outgrowth: la modifica effettiva del cambiamento della relazione fra le due parti (qualitativa e misura l’efficacia del programma nel suo insieme) Inoltre, avendo a che fare in prevalenza con sistemi di relazione le cui dinamiche sono per definizione veloci, il riavvio del ciclo porta inevitabilmente a una revisione degli obiettivi, e quindi delle variabili, degli stakeholder o degli influenti, della progettazione e, infine, dell’attuazione delle stesse o di altre iniziative prevalentemente comunicative. Le quattro macrofasi sopra descritte, sia pure a grandi linee, corrispondono alla migliore pratica operativa delle relazioni pubbliche e trovano applicazione in ogni efficace piano di relazioni pubbliche. 4. Interlocutori e strumenti 4.1 Le relazioni con i giornalisti Qualsiasi quotidiano, giornale radio o telegiornale è ricco di notizie le cui fonti sono sovente dirette e palesi al pubblico: si tratta di dichiarazioni di protagonisti, comunicati di agenzie di stampa, interviste oppure inchieste, resoconti e cronache puntuali di fatti, eventi o accadimenti vissuti in prima persona dal giornalista. Molte però sono anche le fonti indirette, raramente palesi al lettore, che un giornalista adopera abitualmente per il suo lavoro: comunicati delle organizzazioni, documenti finalizzati a dimostrare una tesi o una posizione, conversazioni telefoniche, tematizzazioni suggerite da soggetti terzi autorevoli e credibili e tanti altri stimoli di varia provenienza. Del resto, se un giornalista dovesse citare nei suoi articoli ogni fonte -diretta e indiretta- da cui ha tratto spunto, il giornale si trasformerebbe in un elenco telefonico, scoraggiando i già pochi lettori. A questo si aggiunga che molte fonti, per le ragioni più diverse, si inaridirebbero immediatamente se il giornalista decidesse di rivelarle. Rispetto a queste ultime fonti maggiormente “sensibili”, ovvero riservate e dunque di non libera verifica o consultazione, va sottolineato che una parte sempre più rilevante è costituita da relatori pubblici. Nulla di male, basta saperlo. Molti studiosi oggi sostengono che la ragione di fondo per cui la stampa (e quindi il giornalismo) perde in modo progressivo di credibilità agli occhi dei lettori è proprio il continuo moltiplicarsi di fonti non esplicite (o esplicitabili), al punto che i lettori anziché sentirsi soggetti sociali attivi grazie anche alla funzione critica esercitata dal giornalista che in qualche misura li rappresenta, si percepiscono sempre di più come oggetto passivo degli eventi. Si sentono traditi. Secondo il Bureau of Labor Statistics che adotta criteri definitori decisamente restrittivi, le relazioni pubbliche rappresentavano solo quattro anni fa negli Stati Uniti la terza industria come velocità di crescita (la prima è costituita dai servizi informatici e la seconda dai servizi per la salute). Per Glen Broom, professore all’Università di San Diego, il settore delle relazioni pubbliche negli ultimi 15 anni è a dir poco raddoppiato. Negli Stati Uniti vi sono assai più di 300 università che offrono lauree brevi o complete in relazioni pubbliche, e nel 70% dei casi a terminare questi corsi sono le donne. Anche in Italia, le attività di relazioni pubbliche sono in forte espansione1. Come spiegare una crescita così impetuosa? 1 In Italia nel 2001 venivano stimati circa 70 mila operatori di relazioni pubbliche (oggi dovrebbero essere intorno ai 90.000). Fra questi circa 40 mila appartengono all’Amministrazione pubblica, 10 mila alle organizzazioni private, 5 mila al terzo settore, 10 mila operano invece sul mercato come consulenti e liberi professionisti. Per misurare l’indotto dell’intero mercato professionale non si può ricorrere - come è stato fatto fino ad oggi - agli stessi indicatori utilizzati per le attività capital intensive come ad esempio la pubblicità: le relazioni pubbliche non acquistano spazi sui media e sono anzi una attività ad alta intensità di lavoro (labour intensive). L’implicazione è che per valutare l’indotto occorre censire il numero dei professionisti, attribuire loro un costo lordo unitario per le organizzazioni nelle (o per le) quali lavorano, moltiplicare quella cifra per 3 (come da parametri Ocse) per giustificarne la produttività. Applichando questa equazione al mercato italiano del 2001 e calcolando un costo unitario lordo conservativo pari a 50 mila Euro moltiplicato per 3 si ottiene un valore complessivo di circa 10,5 milardi di Euro. Una cifra ampliamente differente da quei 2,3 miliardi valutati per lo stesso periodo da Upa/Intermatrix utilizzando indicatori capital intensive (in pratica è un panel di aziende che indica i budget assegnati alle relazioni pubbliche e il dato viene dunque proiettato sull’universo). Nel corso degli anni, la maggiore consapevolezza dell’importanza del sistema dei media ha spinto i protagonisti della vita politica, economica, sociale e culturale a rivolgersi sempre più spesso agli operatori delle relazioni pubbliche per ricevere supporto nella gestione dei rapporti con i mezzi d’informazione, per influenzarne e, in qualche modo, condizionarne le attività. Ciò produce una crescente 'dipendenza' dei giornalisti dai relatori pubblici, dipendenza quasi mai evidente al pubblico poiché si riferisce a relazioni quasi sempre “invisibili” (a questo proposito si veda il Capitolo 1). Secondo Scott Cutlip, professore emerito dell’Università della Georgia e fra i maggiori studiosi mondiali della materia, quasi il 50% delle informazioni presenti su un giornale è frutto di una relazione del giornalista con una fonte professionale di relazioni pubbliche.2 Se a questo dato impressionante aggiungiamo le attività meno visibili degli operatori, possiamo concludere che le relazioni pubbliche, nell’insieme, rappresentano oggi la fonte primaria dell’informazione giornalistica e, quindi, della formazione dell’opinione pubblica. Una recente analisi di sociologi inglesi per conto dell'IPR (Institute of Public Relations) porta ormai la percentuale all'80%! Bisogna infine tenere anche conto dei cosiddetti “redazionali”, articoli che a un lettore non smaliziato appaiono liberamente scelti dalle testate, mentre in realtà sono frutto di un negoziato consapevole tra l’editore e l’inserzionista pubblicitario. Si tratta di un fenomeno particolarmente diffuso in Italia, ma presente, sia pure in forme meno esasperate, anche in altri Paesi. L’Ipra (International Public Relations Association) ha lanciato qualche anno fa una campagna internazionale contro la “Zakazuka”, pratica russa ma non solo, in base alla quale gli editori pretendono pagamenti diretti dalle organizzazioni, o dai loro consulenti, per pubblicare notizie di interesse generale in cui esse sono citate. Del resto, non si può negare che alcuni giornalisti si dichiarino disponibili ad affrontare o, fatto ancor più inquietante, a non affrontare determinati argomenti su richiesta dei relatori pubblici, talvolta accompagnata da favori, elargizioni di denaro, regali o collaborazioni lautamente retribuite. Si può dunque affermare, come sostengono alcuni impietosi osservatori, che l’informazione e, di conseguenza, il dibattito politico, economico e sociale, l’andamento dei consumi e dei mercati finanziari siano manipolati dalle relazioni pubbliche? La risposta è negativa, anche se la pervasività delle relazioni pubbliche è tale da non potere eludere, senza discuterla, la ricorrente accusa di manipolazione. Questa sicuramente avviene quando un operatore di relazioni pubbliche senza scrupoli lavora per un’organizzazione altrettanto spregiudicata e insieme incontrano un giornalista di dubbia moralità. Ma siamo nella patologia: anche se è innegabile che in alcuni settori della vita associata e in alcuni momenti della nostra storia recente, la patologia abbia largamente prevalso sulla fisiologia. La relazione fra il giornalista e l’operatore di relazioni pubbliche è, in effetti, una relazione “sofferta”. Mentre il primo si propone in primis di interpretare e raccontare avvenimenti e fatti che ritiene di interesse del suo lettore, il secondo ha come scopo primario quello di assicurare che gli avvenimenti e i fatti interpretati e raccontati dal giornalista aiutino il raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione per cui lavora. Se è chiara l’interdipendenza fra le due professioni, altrettanto evidente è la molteplicità di occasioni di confronto e anche di conflitto. E quando c’è conflitto, la relazione fra i due soggetti può risultare decisamente squilibrata. Da un lato, infatti, l’operatore di relazioni pubbliche, correndo il rischio di non essere più ritenuto affidabile, può limitarsi ad ostacolare il lavoro investigativo del giornalista e a “chiudere il rubinetto” dell’informazione, privilegiando, per esempio, altri giornalisti oppure decretando il “silenzio stampa”3. Dall’altro il giornalista, con i suoi articoli, può danneggiare l’interesse rappresentato dall’operatore di relazioni pubbliche, compromettendone l’attività. In più, 2 Una serie di studi condotti tra il 1963 ed il 1975 da Cutlip dimostrarono che circa il 45% delle notizie nei quotidiani ed il 15% di quelle diffuse da radio e televisione erano originate da una fonte di relazioni pubbliche (Scott M. Cutlip, “Public Relations in the Government”, Public Relations Review 2, Summer 1976: 19-21). Anche una ricerca condotta da Hill & Knowlton nel 1977 su un campione di giornalisti economico-finanziari evidenziò come i relatori pubblici fossero la fonte primaria di informazioni (Lucien Toney File, “How Business editors View Public Relations”, Public Relations Journal, 34 (February 1978): 8-9). 3 Soprattutto negli Stati Uniti è in atto una forte tendenza dei relatori pubblici ad ostacolare l’accesso diretto dei giornalisti ai datori di lavori o clienti e questo suscita reazioni negative nella comunità giornalistica. Forse così si spiega almeno in parte perché le relazioni pubbliche hanno quasi sempre “cattiva stampa”. come accade all’alcolista quando non riesce a capire di avere un problema, molti giornalisti sono troppo vicini alla loro stessa patologia per rendersene conto e si autoingannano, ostentando verso le relazioni pubbliche un atteggiamento pubblico arrogante e ostile. Non è un caso che le attività di relazioni pubbliche siano fra le più “ridicolizzate” dalla stampa. Talvolta, tuttavia, l’operatore di relazioni pubbliche, anziché lavorare, come dovrebbe, per facilitare il compito al giornalista, si trova effettivamente ad ostacolarlo: – negandogli l’accesso diretto alla fonte primaria; – fuorviandolo con informazioni parziali o solo verosimili; – ritardando le notizie e, quindi, visti i tempi sempre più stretti di lavorazione delle testate, svuotandole di fatto di valore; – intervenendo sul diretto superiore oppure addirittura sull’editore per evitare l’uscita di un articolo o per modificarne impostazione e contenuti. Il giornalista da parte sua, in certi casi, pur scrivendo su argomenti che rientrano nella sfera d’azione del singolo relatore pubblico decide di non interpellarlo, rivolgendosi solo ai concorrenti o ad altri soggetti ostili agli interessi che rappresenta. Ciò nonostante, le due professioni sono condannate a lavorare insieme, dipendono in larga parte l’una dall’altra e, senza dubbio, quando la relazione funziona bene, il vero beneficio lo trae il lettore al quale arrivano notizie più attendibili e complete. Il relatore pubblico si trova spesso ad agire al centro di un triangolo dove, per raggiungere i rispettivi obiettivi, interagiscono la comunità economica, la comunità politica e la comunità dell’informazione. Negli Stati Uniti di fine Ottocento, quando le relazioni pubbliche sono nate come professione, “contavano” in effetti soltanto la comunità economica e -seppure in subordine- quella politica. La stampa aveva scarsa autonomia, poco potere e neppure ampia diffusione. Infatti, la rivoluzione industriale aveva fatto crescere il potere di alcuni grandi imprenditori e banchieri (come i Morgan. i Vanderbilt e i Rockefeller), i quali per assicurare alle loro attività economiche un quadro normativo e operativo favorevole, o comunque non ostile, interagivano direttamente con i politici, gli amministratori e i funzionari pubblici, a livello sia federale che dei singoli Stati4. Le relazioni fra imprenditori e politici erano quindi gestite normalmente in prima persona. Il sistema era più semplice di quello attuale e imprenditori e politici avevano (o ritenevano di avere, che è quel che conta) scarso bisogno di interpreti o di intermediari. L’avvento di una stampa relativamente più libera e indipendente (con la crescita professionale dei cosiddetti “muckracker”, i pionieri del giornalismo investigativo, vicini al nascente movimento progressista americano) si colloca tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Si tratta di una stampa critica verso i comportamenti arroganti dei grandi monopolisti privati (ferrovie e miniere, energia e comunicazioni). Si crea così la necessità per gli imprenditori di servirsi di nuovi professionisti capaci di orientare i resoconti dei giornalisti che formavano quell’opinione pubblica la cui importanza lievitava, influenzando anche quello stesso potere politico da cui le imprese attendevano l’erogazione di ingenti risorse per mantenere elevato il proprio sviluppo. Il presidente Theodore Roosevelt entra in carica nel 1900 dopo l’assassinio del predecessore McKinley (considerato grande amico dei monopolisti e fortemente criticato dai muckracker) e viene molto influenzato dall’opinione pubblica. Pur repubblicano, avvia molteplici inchieste sulle “malefatte” di imprenditori e banchieri e vara leggi che ne limitano il potere. Le relazioni pubbliche, dunque, nascono soprattutto per gestire le relazioni con la stampa e non v’è alcun dubbio che, ancora oggi, i giornalisti ne sono i principali interlocutori. Del resto, gli stessi quattro modelli di Grunig (si veda il Capitolo 5) considerano il rapporto con i media sempre fondamentale per le relazioni pubbliche e, addirittura, i primi due modelli (quello di Barnum definito “press agentry” e quello di Ivy Lee noto come “public information”) considerano i giornalisti praticamente come gli unici interlocutori dei relatori pubblici. 4 È il periodo definito “the public be damned” (il pubblico sia dannato), frase pronunciata dal magnate Vanderbilt in una famosa intervista al New York Times che testimonia la scarsa considerazione riposta nel pubblico in generale ad ulteriore dimostrazione che soggetti influenti per le organizzazioni erano solo i giornalisti ed i politici. I primi professionisti a definirsi relatori pubblici sono nel 1900 i fondatori della società Publicity Bureau di Boston e pochi anni dopo, nel 1904, quelli della Parker & Lee di New York e della William Wolff di Washington. Escludendo quest’ultima, specializzata in attività di lobby che si avvale di operatori di formazione giuridica, i professionisti della altre due provengono dal giornalismo. Anche oggi un numero significativo di giornalisti che collabora con agenzie, quotidiani, periodici, radio e televisioni passa regolarmente a svolgere attività di relazioni pubbliche per conto di organizzazioni private, sociali e pubbliche di varia natura. Non v’è dubbio infatti che, per svolgere in maniera ottimale le funzioni di relazioni con i media -a parità di altre importanti condizioni- la conoscenza, la frequentazione e la pratica del giornalismo sono risorse importanti. C’è di più: in Italia esiste, a differenza degli altri Paesi, un Ordine dei giornalisti regolato per legge dello Stato. L’Ordine ha da molti anni al proprio interno un sottogruppo denominato Gus (Gruppo uffici stampa) che si è battuto con successo per imporre con una legge (legge 150 del maggio 2000) a tutte le organizzazioni centrali e periferiche dello Stato l’obbligo di assumere giornalisti iscritti all’Ordine nei rispettivi uffici stampa: quasi si trattasse di un’unica professione. In realtà, si tratta di due attività diverse, come lo sono quella di avvocato e di giudice, oppure quella di internista e di chirurgo. Giornalisti e relatori pubblici si occupano di informazione e comunicazione così come avvocati e giudici si occupano di legge, ma in entrambi i casi, siamo in presenza di mestieri diversi per finalità, valori, abilità e competenze richieste. Infatti, la finalità del giornalista è di interpretare per il lettore gli avvenimenti che osserva e analizza, mentre quella di un capo ufficio stampa è di sviluppare una relazione con il giornalista per trasferirgli, con modalità credibili (qualità dei contenuti) e fiduciarie (qualità della fonte comunicante), informazioni esplicitamente e sicuramente di parte. Inoltre, i valori primari del giornalista sono l’oggettività, l’autorevolezza della fonte e, soprattutto, la comprensione delle attese e degli interessi del lettore; mentre quelli di un relatoe pubblico che si occupi di media sono la comprensione delle aspettative e degli interessi del giornalista, la tempestività e la chiarezza delle informazioni, il tutto esplicitamente in funzione degli interessi del suo datore di lavoro. Infine, le abilità primarie del giornalista sono la rapidità di sintesi, la capacità di attrarre l’attenzione del lettore e la comprensione delle interconnessioni fra le notizie, mentre quelle del media relator sono la capacità di raccogliere notizie dalle fonti interne all’organizzazione, la comprensione piena degli obiettivi di questa, l’assemblaggio e la capacità di attirare l’attenzione del giornalista prima ancora del lettore, il che implica una notevole abilità relazionale, assai meno richiesta al giornalista. È peraltro decisamente paradossale che, proprio mentre l’Amministrazione pubblica del nostro Paese, impegnata in uno sforzo di modernizzazione per allineare la sua burocrazia a quella dei Paesi “più evoluti” necessita di partecipazione, comprensione, collaborazione e consenso dell’opinione pubblica, il nostro Parlamento abbia varato, unico al mondo, una legge che impone a Comuni, Regioni, Ministeri e altri Enti pubblici l’assunzione esclusiva di giornalisti iscritti all’Albo per ricoprire il ruolo di ufficio stampa! È paradossale soprattutto se si pensa che l’espressione “relazioni pubbliche” venne usata pubblicamente per la prima volta a Yale nel 1882 (per la verità, abbiamo recentemente visto un documento autografo di Thomas Jefferson del 1808 in cui l’espressione “state of thought”, usata nel senso di “politica”, viene corretta a penna dallo stesso Jefferson in “public relations”) in occasione della cerimonia per la consegna dei diplomi di dottorato, quando il giurista Norman Deaton disse che “per sostituire la corruzione delle clientele partitiche occorre perseguire un sistema di civil service, una riforma dell’Amministrazione pubblica in senso meritocratico, sviluppando rapporti orientati al pubblico bene: le relazioni pubbliche”. Fra giornalista e operatore di relazioni pubbliche, come si è visto, esiste un rapporto che, per quanto difficile, è di stretta interdipendenza. Oggi con l'uso di Internet e la possibilità di sviluppare e mantenere, a costi contenuti, relazioni dirette e interattive con ogni singolo componente di un pubblico influente, questa interdipendenza inizia ad allentarsi al punto che si può prevedere per i media soprattutto una funzione di “autorevole conferma” alle notizie che gli interessati riceveranno direttamente dalle organizzazioni. Questa tendenza avrà il duplice beneficio di accrescere l’importanza e l’autorevolezza dei media (e quindi la responsabilità dei giornalisti) e di allentare la tensione spasmodica che oggi caratterizza la relazione fra giornalista e operatore di relazioni pubbliche. Per capire più in dettaglio gli strumenti e le modalità di relazione fra giornalisti e relatori pubblici ipotizziamo ora il lavoro-tipo di un neoassunto capo ufficio stampa di un’università. Il suo primo passo sarà di ascoltare e comprendere gli obiettivi dell’organizzazione per cui lavora e identificare quali di questi possano essere facilitati da un buon sistema di relazioni con i giornalisti. Il secondo sarà di informarsi sullo stato dei rapporti dell’università con i media: quali sono i giornalisti e le testate che hanno scritto o parlato dell’università negli ultimi due anni, come ne hanno parlato, quali sono stati i temi affrontati e in quali occasioni/ momenti. In sintesi, è la costruzione di una sorta di “fotografia” della situazione esistente, identificandone i punti di forza e di debolezza (sempre in funzione degli obiettivi individuati al primo passo). A questo punto, egli avrà anche disegnato una sorta di “albero delle fonti”: quali sono le persone interne all’organizzazione che detengono l’informazione base o che possono accedervi. Nella prima fase, dunque, l’ipotetico neoassunto, che per semplicità chiameremo Giorgio Verdi, si è costruito una fotografia dei rapporti con i media, ne ha identificato i punti di forza e di debolezza e ha costruito un proprio albero delle fonti interne. Sempre in funzione degli obiettivi perseguiti, Giorgio Verdi inizierà quindi a censire e a tenersi costantemente aggiornato su ciò che i media dicono abitualmente su argomenti inerenti l’interesse rappresentato; su quali siano i temi e i soggetti che concorrono a formare le opinioni dei lettori; su quali siano infine i giornalisti che si occupano delle questioni rilevanti e le opinioni e le “posizioni” espresse. Egli costruirà dunque un sistema di monitoraggio quotidiano dei media. Il passo successivo sarà preparare una cartella stampa base che contenga, insieme a una descrizione dell’organizzazione per cui lavora, anche approfondimenti specifici per ciascun tema che, sempre in base agli obiettivi perseguiti, Verdi intende proporre ai giornalisti con un esauriente schema di domande e risposte, cercando naturalmente di identificarsi con il singolo giornalista la cui attenzione si propone di attirare. Questi testi dovranno necessariamente essere verificati e condivisi dai responsabili dell’organizzazione e dai principali componenti dell’albero delle fonti interne. A questo punto, è giunto il momento per Giorgio Verdi di fare il “giro delle sette chiese”: incontri personali e diretti di autopresentazione con i giornalisti identificati, possibilmente presso le loro sedi redazionali (per capire e conoscere il loro ambiente di lavoro). Ogni incontro, chiaramente ed esplicitamente non finalizzato ad ottenere la pubblicazione di alcunché, si conclude con la consegna di una copia della cartella stampa che comprenderà anche il nome, il numero di telefono, di cellulare e di fax di Giorgio Verdi nonché la sua e-mail e l’indirizzo del sito Internet dell’università. Il primo giro di incontri è importante perché, se ben condotto, darà a Verdi indicazioni precise in merito alle aspettative, alle opportunità, ai temi ritenuti maggiormente attraenti per ciascun giornalista incontrato. Queste informazioni andranno registrate in un apposito database, insieme a tutte le altre notizie raccolte sui singoli giornalisti, l’indicazione delle loro testate e una copia degli articoli e delle notizie da loro pubblicate negli ultimi due anni. Integrando le informazioni ottenute dalle fonti interne, le aspettative e le disponibilità raccolte nel primo giro di incontri con i giornalisti, Giorgio Verdi potrà iniziare, sempre in funzione degli obiettivi perseguiti, a programmare la sua attività operativa. È opportuno sottolineare che un capo ufficio stampa che arrivi in una nuova organizzazione e non svolga questi “compiti a casa” è un professionista di modesto valore. In realtà, non succede mai che qualcuno si trovi ad assumere una nuova responsabilità senza essere immediatamente operativo (un annuncio importante, una crisi, un grande evento, una scadenza importante), ma un bravo professionista deve essere in grado di preparare il suo programma e contemporaneamente seguire gli avvenimenti. Se non lo fa, è condannato (come in effetti sono condannati in molti) a seguire gli avvenimenti decisi da altri e in funzione di obiettivi che non necessariamente coincidono con quelli per i quali era stato assunto. Per completare l’esempio, ecco la sintesi di alcune fondamentali attività di cui Giorgio Verdi si dovrà occupare: e Un’attività di routine. Nell’attività di Giorgio Verdi abitualmente rientrano: – la rassegna stampa quotidiana e la sua diffusione presso i responsabili dell’organizzazione e i componenti dell’albero delle fonti interne; – il contatto periodico, almeno mensile, con la rosa ristretta dei giornalisti più sensibili e importanti; – gli incontri frequenti con le fonti interne per aggiornamenti tematici; – l’approntamento di materiali fotografici e grafici sull’organizzazione, i suoi prodotti/servizi e i suoi protagonisti; – la visualizzazione grafica dei temi più importanti; – l’aggiornamento del sito Internet, almeno della parte dedicata alla stampa. La predisposizione di un calendario. Nel corso dell’anno vi sono diversi momenti canonici in cui, in ambito universitario, occorre essere proattivi con la stampa: l’inaugurazione dell’anno accademico, le visite e le lezioni importanti in università, le riunioni rilevanti del senato accademico e del consiglio di amministrazione, i resoconti economici periodici, l’arrivo di nuovi docenti, i bandi e le assegnazioni di borse di studio, le esperienze di stage in aziende, le statistiche e i profili demo-psicografici degli studenti, le campagne di orientamento professionale per i maturandi, le campagne di reclutamento studenti dalle scuole superiori, le attività studentesche, gli eventi, le feste. Per ciascuno di questi momenti, nel corso dell’anno, Giorgio Verdi valuterà come e se intervenire con uno o più dei vari strumenti a disposizione di un ufficio stampa. La preparazione e realizzazione di campagne. Giorgio Verdi si propone anche di sviluppare iniziative ad hoc per attirare l’interesse dei giornalisti a tematizzare gli obiettivi a suo tempo definiti come perseguibili. L’intensità e il peso di queste iniziative dipenderanno ovviamente anche dalle risorse interne ed esterne, umane e finanziarie utilizzabili, ma è in questo frangente che, soprattutto, si vede la creatività di un ufficio stampa. È assai facile infatti comprare una pagina sul Corriere della Sera per 75 mila euro e riempirla dei contenuti desiderati. Ma come inventarsi un’iniziativa, una notizia, un evento che richiami l’attenzione dello stesso quotidiano nel senso desiderato e con contenuti coerenti con gli obiettivi perseguiti? La prevenzione di possibili emergenze. Diverse sono le situazioni di crisi che possono verificarsi in un’università e attirare inopinatamente l’interesse dei giornalisti. In collaborazione con altri colleghi dell'ateneo, Verdi dovrà prevederle, misurarne la probabilità di accadimento e decidere -in base a un equilibrato rapporto costi/benefici- per quali valga la pena di prepararsi ad affrontare e raccogliere tutte le informazioni necessarie, pronto a utilizzarle al momento opportuno. La verifica dei risultati. Giorgio Verdi avrà provveduto a creare un sistema di monitoraggio, condiviso con i responsabili dell’organizzazione, che gli consentirà di misurare i risultati del suo lavoro. Intanto i cosiddetti "output": il numero di contatti, comunicati, relazioni a tu per tu, telefoniche e via internet intrattenute. Poi i cosiddetti "out take": quanti cioè di questi contatti hanno prodotto un risultato concreto, non solamente in termini di millimetri/colonna (o minuti radio/tv), ma soprattutto in termini di qualità. Nel suo giro periodico di incontri con i giornalisti, egli sarà anche in grado di capire se le loro aspettative sono soddisfatte, se la qualità della relazione è migliorata. Spesso, è più importante misurare quello che non viene pubblicato rispetto a quante volte vengono ripresi i comunicati stampa emessi. Un passo successivo è quello di misurare gli "outcome": cioè, se i contenuti delle informazioni pubblicate o trasmesse sono state recepite dal pubblico cui erano dirette e se hanno contribuito o meno a modificarne opinioni, atteggiamenti, comportamenti o decisioni. È fondamentale per Verdi verificare periodicamente il suo lavoro con il responsabile dell’organizzazione e con l’insieme delle sue fonti interne. Database. Deve essere tenuto costantemente aggiornato un database che comprenda i nomi dei giornalisti ritenuti più interessanti e interessati, i loro vari recapiti (e-mail, cellulare, fax, telefono, indirizzo di redazione e di casa), le loro opinioni sui temi rilevanti per l’interesse rappresentato, i loro articoli già pubblicati sull’università, sui soggetti concorrenti e su temi inerenti l’interesse rappresentato nonché qualche indicatore sullo “stato della relazione”. Rassegna stampa quotidiana. La rassegna stampa quotidiana, dedicata ai temi “rilevanti”, deve includere le principali agenzie, testate quotidiane, periodiche, specializzate, e-zines e radio-televisive. La cartella stampa istituzionale. Deve essere tenuta costantemente aggiornata una cartella stampa istituzionale (da mettere anche sul sito Internet) con le informazioni e i dati sull’università. I comunicati stampa. I testi dei comunicati stampa devono essere di 1.000/1.200 battute pari ad una cartella di testo, in casi eccezionali due cartelle, titolo e indicazioni delle fonti per ulteriori informazioni compresi. Il titolo va pensato soprattutto per incuriosire il giornalista, e non il lettore. Quindi il titolo potrà/dovrà essere personalizzato in base alla conoscenza che si ha del giornalista. Si tratta di testi ufficiali che devono sempre avere indicata in modo visibile e in testa al foglio, una data, un’ora e un luogo di emissione. I comunicati stampa devono sempre contenere una “notizia”. Il testo deve rispondere alle domande: chi, come, dove, quando e perché. Ogni paragrafo non deve superare le cinque righe. Ogni periodo le tre righe. Il testo può anche talvolta contenere, in corsivo, la dichiarazione di un esponente ufficiale dell’organizzazione. In coda al comunicato, va inserita la frase: “per ulteriori informazioni rivolgersi a”, seguita da nome, cognome, telefono, cellulare, fax, e-mail della persona autorizzata a rispondere a eventuali richieste di approfondimenti. Il testo di un comunicato stampa va diramato simultaneamente alle agenzie, alle radio, alle tv, ai quotidiani, agli e-zines, ai blog dedicati, alle pubblicazioni specializzate e ai periodici, tenendo conto che, seppure questi ultimi avranno poco interesse a diffondere una notizia già uscita sui quotidiani o alla tv, è comunque importante che la ricevano per il loro archivio. Nei casi in cui il giorno di pubblicazione della notizia non è rilevante, è utile concordarne la data di uscita con un periodico e diffonderla agli altri media il giorno prima. Questo per ottenere un effetto cumulo fra i quotidiani e il periodico selezionato. La conferenza stampa. La conferenza stampa – normalmente registrata su nastro audio e talvolta anche su video – è, per l’organizzazione, un momento ufficiale in cui viene data ai giornalisti interessati l’opportunità di ascoltare dal vivo, e tutti nello stesso momento, una notizia che viene illustrata direttamente e personalmente da un esponente ufficiale dell’organizzazione. È uno strumento molto delicato, da usare con estrema parsimonia e soltanto se strettamente indispensabile. I giornalisti infatti, giustamente, non amano le conferenze stampa e, quando possono, preferiscono evitarle. Per contro, promovendole, le organizzazioni si espongono anche a domande non previste o imbarazzanti, alle quali è impossibile non dare de visu una risposta. In qualche caso, è vero, la conferenza stampa è inevitabile, ma nove volte su dieci potrebbe essere evitata con dei buoni comunicati stampa, seguiti da visite e/o telefonate. Per quanto riguarda la scelta del luogo, non sempre è utile tenere la conferenza stampa nella sede dell’organizzazione (specie se periferica, se c’è molto traffico, se la sede non è adatta), talvolta può essere preferibile un albergo oppure un posto dove i giornalisti sono abituati ad andare. L'incontro va convocato un paio di giorni prima, con un anticipo di mezz’ora rispetto al suo inizio effettivo (senza però dirlo esplicitamente), per dare il tempo a tutti di arrivare. Sono invitati i giornalisti rilevanti di tutte le testate rilevanti. Amici e nemici, interessanti e scocciatori. Mai dare a un giornalista il pretesto per dire di non essere stato invitato a una conferenza stampa, al fine di evitare le sue domande cattive! Normalmente l’incontro si tiene al mattino, alle 11, alle 12 o alle 13. Deve essere escluso il pomeriggio, poiché i giornalisti lavorano in redazione alla produzione del giornale e, salvo notizie di eccezionale importanza, le pagine dei quotidiani dell’edizione del giorno dopo sono già chiuse. Una conferenza stampa non deve durare più di un’ora: mezz’ora (al massimo) per la presentazione della notizia e mezz’ora per le domande e le risposte. All’ingresso, il giornalista viene invitato a riempire un modulo di identificazione e gli viene consegnata la cartella stampa preparata per l’occasione (comunicato stampa, eventuale materiale fotografico, grafico ed elettronico, testi di approfondimento, domande e risposte). Molti preferiscono consegnare la cartella stampa all’uscita per paura che, ricevuta la cartella, il giornalista decida di lasciare il luogo prima che la conferenza stampa inizi, oppure mentre è in corso. Se questo si verifica, è perché la conferenza stampa è inutile e non dà valore aggiunto al giornalista. Bisogna sempre e comunque evitare di promettere, come in certi casi si usa fare, che all’uscita verrà consegnato un “regalino”. Se la conferenza stampa è davvero utile, è vantaggioso consegnare prima la cartella stampa, perché in questo modo il giornalista avrà la possibilità di porre domande di approfondimento e chi risponde alle domande potrà semplificare le risposte richiamandosi ai contenuti della cartella già consegnata. Dopo un saluto veloce del capo dell’ufficio stampa, la parola passa all’esponente ufficiale dell’organizzazione (in qualche caso potrà anche essere più di un esponente, purché l’insieme della presentazione non superi la mezz’ora). Potranno essere proiettati anche filmati, lucidi, grafici elettronici, e presentati nuovi prodotti o servizi. Terminata la presentazione della notizia, il capo ufficio stampa apre la sessione di domande e risposte, chiedendo ai giornalisti di identificarsi per nome, cognome e testata rappresentata. Se, come spesso accade, invece di una domanda il giornalista tende a esprimere un concetto o un’opinione, il moderatore potrà e con cortesia interromperlo e chiedergli di sintetizzare la domanda, così da lasciare il tempo ai suoi colleghi di fare ulteriori domande. In coda alla sessione di domande e risposte, il moderatore dichiarerà chiusa la conferenza stampa e, se non è previsto un rinfresco, l’evento si chiude (è preferibile comunque offrire caffè, succo di arancia e brioche all’inizio, per premiare i puntuali che dovranno comunque aspettare i soliti ritardatari). Certamente, però, la conferenza stampa non è chiusa per il capo ufficio stampa, il quale dovrà immediatamente verificare quali giornalisti abbiano partecipato e quali no. A questi ultimi dovrà immediatamente far recapitare la cartella stampa, anticipandola con una telefonata e richiamando per verificarne l’avvenuto ricevimento. Inoltre sarà utile, verso la metà del pomeriggio, telefonare ai giornalisti ritenuti più importanti che hanno partecipato alla conferenza stampa per sentire se hanno bisogno di qualche ulteriore dettaglio informativo. In ogni caso, il capo ufficio stampa dovrà essere sempre disponibile a rispondere a eventuali telefonate per tutto il pomeriggio e fino a sera inoltrata. Il press brief. Piuttosto che una conferenza stampa, con tutti i problemi e le procedure che questa comporta, talvolta è meglio convocare un press brief: un incontro con alcuni (da tre a sei) giornalisti particolarmente interessati e rilevanti con i quali l’organizzazione ritiene di intrattenere relazioni privilegiate e ai quali vuole fornire una “interpretazione dietro le quinte” di un argomento o un tema di stretta attualità. È meglio che non vi sia una vera e propria notizia da comunicare. Se c’è, sarà necessario simultaneamente -avvertendo però i giornalisti invitati al press briefprovvedere anche con un comunicato stampa da inviare a tutti i possibili interessati, chiedendo nel contempo ai partecipanti al press brief l’embargo sull’avvenuto incontro. In questo caso, non si tratterebbe di una violazione deontologica poiché il press brief è, per definizione, un evento informale, non ufficiale. Normalmente un press brief è “off the record” cioè non viene registrato e ciascuno è (teoricamente) libero di dire ciò che vuole. Sarebbe tuttavia ingenuo stupirsi se le proprie parole, magari non attribuite direttamente, appaiono sul giornale del giorno seguente, o di qualche giorno dopo. I press brief si usano normalmente per i quotidiani e per i periodici, comunque per approfondimenti tematici e non per notizie. L’intervista. Il media relator, sempre in funzione degli obiettivi perseguiti, valuterà di volta in volta l’opportunità di proporre al giornalista l’intervista a un esponente dell’organizzazione oppure di accettare una simile iniziativa richiesta direttamente dal giornalista. In entrambi i casi, deve essere chiaro che l’offerta è esclusiva. Se l’iniziativa è del giornalista e Giorgio Verdi decide di accettarla, egli deve potere garantire che l’intervistato non concederà, prima o in contemporanea, un’intervista analoga sullo stesso argomento ad un’altra testata. Così, nessuno impedisce a Verdi di fare la stessa proposta a più giornalisti, ma se uno accetta, allora bisogna provvedere a ritirare l’offerta presso gli altri. Normalmente, un giornalista chiede un’intervista alla vigilia di qualche avvenimento importante e se ritiene il personaggio da intervistare sufficientemente importante. Da parte sua, il capo ufficio stampa propone un’intervista se vuole aumentare la visibilità del personaggio oppure se vuole che un certo argomento venga tematizzato. Fra queste due, spesso opposte esigenze di giornalista e relatore media si trova il giusto equilibrio e spetterà a Giorgio Verdi il compito di governare, più che subire, la relazione con il giornalista sempre in funzione degli obiettivi perseguiti, ma tenendo pienamente conto delle diverse esigenze del suo interlocutore. Si va diffondendo (soprattutto in Italia) l’abitudine da parte dell’ufficio stampa di pretendere dal giornalista una lettura (e una correzione) preventiva dell’intervista. È una pratica sconveniente, accettabile soltanto se il giornalista non ha -caso raro- particolare urgenza e se gli interventi sul testo sono utili per correggere notizie errate e accogliere informazioni aggiuntive rispetto a quelle pre-esistenti. Il telefono. Il telefono è uno strumento che ha notevolmente modificato il lavoro del giornalista. Un tempo i giornalisti erano sempre 'sul campo' a cercare notizie, a contattare personalmente le fonti, a “investigare”. L’avvento del telefono, e in particlare di quello mobile, ha sconvolto le loro abitudini. Oggi alcuni di loro sono più stanziali e al tempo stesso più disponibili, anche se necessariamente più distratti dal crescente moltiplicarsi delle fonti; mentre altri sono perennemente in movimento. Ci sono media relator che non ci pensano, che non sono mai stati in una redazione e che addirittura non sono neppure in grado di descrivere l’aspetto fisico di un giornalista con cui hanno parlato mille volte al telefono. Bisogna riconoscere che questa pessima abitudine, sempre più diffusa, potrebbe giustificare che gli uffici stampa siano gestiti da soli giornalisti (però in questo caso professionisti, non pubblicisti) i quali, perlomeno, dovrebbero conoscere i meccanismi di funzionamento di una redazione. In realtà, il telefono e il fax sono strumenti utilissimi e indispensabili per creare, mantenere e sviluppare una buona relazione con un giornalista. Ci si scambiano informazioni, si possono fare interviste, si controllano fonti, si inviano documenti. Nulla però sostituisce la relazione diretta, il contatto personale, la conoscenza fisica dell’altro. Internet Quanto detto per il telefono vale ancor più per la Rete. Che si tratti di Internet, Intranet o Extranet, il nuovo ambiente web è sicuramente, dopo la relazione interpersonale, lo strumento più importante e più utile per consolidare un sistema di relazioni. Tratteremo l’argomento diffusamente più avanti. Qui è però importante sottolineare quanto sia vitale per il media relator conoscere l’ambiente di lavoro, l’humus culturale, il modo di operare del giornalista con cui deve intrattenere una buona relazione. Educational- Junket. È impensabile che un giornalista, pur specializzato, possa essere competente su tutti i temi che interessano Giorgio Verdi e la sua organizzazione. Ne consegue la necessità di mettere il giornalista nelle condizioni di comprendere e valutare l’importanza delle informazioni che gli vengono trasferite. Con questa motivazione – giusta e legittima, anche se nella maggior parte dei casi, come vedremo, è solo un alibi – le organizzazioni sono solite offrire ai giornalisti viaggi, che in gergo si chiamano “educational”. Così il giornalista viene invitato a visitare una località turistica che si intende promuovere oppure, per tornare al caso dell’università, lo si porta a vedere alcune importanti università americane per mostrargli come funziona lo schema del 3 più 2 (bachelor più master). Più spesso, soprattutto fra i critici delle relazioni pubbliche, questi viaggi vengono chiamati “junket” (viaggi spazzatura). Si tratta di occasioni in cui si parla, si mangia e si beve molto. Insomma: si fanno amicizie. Sono occasioni in cui il giornalista si scioglie e cede alla relazione, tanto che alla fine funziona una sorta di “sanzione dei pari” invertita: anziché criticare il giornalista che scrive un resoconto entusiastico e acritico di un viaggio, si giudica male quello che non ne scrive o, peggio, che ne scrive con spirito critico. Come per la conferenza stampa, è meglio evitare gli educational- junket se non sono strettamente indispensabili (e qualche volta lo sono, non se ne può fare a meno). L’uso di questo strumento, infatti, porta a privilegiare (perché più facile) l’interazione con giornalisti che, per quanto seri e capaci, sono di fatto condizionati (se scrivi quel che ti chiedo ti invito al prossimo junket, altrimenti no). La questione, sia ben chiaro, non è “moralistica” ma di efficacia: privilegiare la cerchia ristretta dei giornalisti più “disponibili” può essere sicuramente un modo efficace per ottenere risultati a breve ma, come abbiamo visto, l’obiettivo delle relazioni pubbliche si sposta sempre più dallo spazio di voce allo spazio di attenzione e, normalmente, l’attenzione viene garantita da una testata autorevole e da un giornalista autorevole e stimato proprio perché esterno ai junket e ai giri stretti degli “amici degli amici”. Occorre, quindi, pur non trascurando nessuno (tutti i giornalisti sono importanti: è un errore privilegiare soltanto le grandi testate, in molti casi è molto più importante un giornale locale oppure uno specializzato), tenere nella dovuta considerazione i giornalisti più critici e indipendenti. Per concludere, proponiamo dieci consigli operativi per gestire i rapporti con i giornalisti: 1. paga essere onesti e non trovarsi mai costretti a dire una bugia. Non sempre è necessario dire tutta la verità, ma mai dire una bugia. La credibilità dell’interesse rappresentato e, a seguire, del singolo professionista sono i valori più importanti da salvaguardare; 2. date sempre al giornalista un valore aggiunto. Se non c’è valore aggiunto percepibile, non date nulla; 3. non pregate mai il giornalista di pubblicare o non pubblicare e non fate mai pressioni reali, velate o esplicite sull’editore, il direttore o il capo della pubblicità della testata; 4. fate bene i “compiti a casa” e indirizzate l’informazione a chi è davvero interessato a riceverla; 5. nell’argomentare un tema che avete scelto, partite sempre dall’interesse del giornalista, seguito da quello del lettore, mai da quello dell’organizzazione; 6. iniziate sempre con la notizia, mai lasciarla alla fine; 7. tenete conto delle specificità di ciascuna testata e dei tempi diversi di produzione di ciascun media; 8. ponetevi sempre l’obiettivo di ottenere un articolo corretto, non un articolo “favorevole”; 9. tenete sempre presente che siete solo una delle migliaia di fonti del giornalista e non quella privilegiata; 10. non fate menzione di una frase, un commento o una notizia -neppure in via confidenziale- se non desiderate leggerla sul giornale. 4.2 Le relazioni con il processo decisionale pubblico (la lobby) La “patologia”, ovvero la manipolazione che avviene quando un operatore di relazioni pubbliche senza scrupoli lavora per un’organizzazione altrettanto spregiudicata e, insieme, incontrano un decisore o un opinion maker di dubbia moralità, non riguarda però soltanto la relazione fra operatori di relazioni pubbliche e dell’informazione ma investe anche il rapporto dei primi con il processo decisionale pubblico. Del resto, se è vero che le relazioni pubbliche nascono da ex giornalisti, è anche vero che fra i primissimi operatori si trova anche un avvocato: William Wolff, titolare dell’omonima società di lobbisti, la prima sorta a Washington nel 1904. È importante sottolineare che il primo emendamento della Costituzione americana del 1787 parla esplicitamente del diritto del cittadino di rivolgersi ai decisori pubblici per tutelare i suoi interessi (“the right to petition the government for a redress of grievances”), mentre è curioso notare che la prima volta che la Library of Congress registra l’uso del termine “lobby” è il 14 marzo del 1794, quando viene richiesto ufficialmente lo sgombero dei corridoi del Congresso “infestati da questuanti professionisti”. In teoria, in una democrazia rappresentativa – l’ambiente istituzionale in cui le relazioni pubbliche esplicano al meglio le loro potenzialità5 – ogni decisione pubblica viene assunta tenendo conto dell’interesse generale. Leggi, regole e norme servono ad assicurare ai cittadini un ordinato svolgersi della vita associata: politica, economica e sociale. Esistono soggetti specificamente incaricati di questo compito e sono gli amministratori della cosa pubblica (alcuni eletti, altri di carriera, altri ancora designati dai primi). Rispetto a qualunque questione che meriti di essere regolata da un potere pubblico, questi soggetti hanno il compito di analizzare le diverse soluzioni possibili, tenendo conto di tutte le loro implicazioni, per scegliere quella che più delle altre tutela l’interesse generale. Ogni organizzazione complessa che operi nella società e sul mercato si trova a essere coinvolta in questo processo. Da un lato, infatti, deve attentamente osservare le dinamiche del processo decisionale pubblico al fine di prevedere tutte le possibili decisioni che potranno favorire od ostacolare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti. Dall’altro, deve attivare relazioni proattive con i diversi soggetti della decisione pubblica e con coloro che ne influenzano opinioni, atteggiamenti e comportamenti, al fine di contribuire a orientare quella decisione in una direzione favorevole a (o comunque non dannosa per) i suoi obiettivi. In questi ultimi decenni, lo sviluppo dei “gruppi di pressione”, delle cosiddette “lobby”, avviatosi negli Stati Uniti e progressivamente diffusosi anche negli altri Paesi, ha agitato i sonni di molti critici e osservatori sociali. Per l’economista Mancur Olson, la salute della democrazia non viene per nulla garantita dalla vigorosa competizione fra i gruppi di pressione contrapposti che, secondo altri renderebbe invece, almeno teoricamente, Parlamenti e Governi arbitri equanimi dell’interesse generale. Così, anche Jonathan Rausch argomenta che il decisore pubblico, assediato dai gruppi di interesse, si trova, proprio per questa ragione, impossibilitato a decidere e, quando decide, tende a farlo non tanto nell’interesse generale, quanto nell’interesse di quel gruppo di pressione che ha “pesato” di più. Il peso percepito di una lobby, tuttavia, non è sempre e necessariamente correlato alla sua reale efficacia o efficienza. Succede infatti talvolta che lobby leggere, flessibili, veloci e creative (Legambiente, per esempio, o Cittadinanzattiva sono sicuramente fra queste) riescano a spuntarla sui grandi centri di potere che sono invece sovente lenti, con processi interni farraginosi e, tendenzialmente burocratici. Naturalmente, se una lobby è al tempo stesso “importante”, leggera e creativa, può prevalere anche indipendentemente dal fatto che le soluzioni proposte tutelino l’interesse generale. Per citare un altro esempio, il Codacons è una lobby sicuramente molto potente che, normalmente, riesce a far prevalere interessi assai particolari facendoli sapientemente apparire di carattere generale. Anche in questo ambito, essendo i lobbisti dei professionisti, valgono le regole del mercato e si potrebbe dire che ciascun interesse rappresentato ha i lobbisti che si merita. La questione resta sicuramente aperta, anche se è indiscutibile che la presenza dei gruppi di pressione e delle lobby – comprese, si intende, le associazioni che rappresentano interessi diffusi come il lavoro, l’ambiente, il non profit, l’accademia o il consumo – assicura al decisore consapevole che vengano realmente affrontati tutti gli 5 Dejan Vercic, in un suo discorso all’assemblea generale dell’IPR inglese nel 2004, afferma che le relazioni pubbliche sono una vecchia e nobile professione che può vivere solamente in presenza della democrazia poichè solo questa permette alle persone di relazionarsi liberamente senza restrizioni di alcun tipo, fisiche o morali, e di utilizzare la ragione per comprendere i diversi sistemi (politico, economico e dei media) che compongo la società. Secondo Vercic, nel cercare di preservare la libertà dei singoli i relatori pubblici devono assumersi la responsabilità di favorire la diffusione della consapevolezza che esse sono consustanziali alla democrazia. (per la versione completa del discorso di Vercic: http://www.ipr.org.uk/news/speeches/AGM04_dejen_speech.pdf aspetti relativi a un determinato argomento. A questo resta -per l'intera legislatura se è un decisore eletto- la responsabilità di decidere, in base agli interessi che a suo insindacabile e legittimo giudizio rappresentano maggiormente la collettività. Tornando alla patologia, se ne può indicare un caso abbastanza recente: i verbali dei processi di Tangentopoli dei primi anni novanta (per chi avesse dubbi stimolati dalla massiccia campagna di rivalutazione di quel periodo e di criminalizzazione dell’operato della magistratura, anche se talvolta discutibile come qualsiasi altro corpo sociale, il consiglio è di leggere i verbali dei processi) sono una vera e propria rappresentazione esplicita e continuata di ripetute violazioni del codice penale e civile (molte delle quali avvenute grazie all’intermediazione o alla guida di relatori pubblici) finalizzate ad ottenere benefici per i corruttori da parte di amministratori e uomini politici corrotti. Comunque, tutti questi “eccessi”, pur innegabili, non sono di per sé attribuibili alle relazioni pubbliche, così come non si può dire che i politici siano, per definizione, dei corrotti oppure gli imprenditori dei corruttori, i giornalisti dei “venduti”, i magistrati dei persecutori e così via. Sta di fatto che, con frequenza sempre maggiore, le organizzazioni private, le associazioni, le organizzazioni del terzo settore e le stesse istituzioni pubbliche dedicano una parte crescente delle risorse umane e finanziarie per influire sul processo decisionale pubblico in funzione degli obiettivi perseguiti. Cresce, in ogni organizzazione, anche la consapevolezza che le attività di lobby non servono soltanto per obiettivi difensivi (impedire o ritardare un danno potenziale o diminuirne uno reale) ma anche per obiettivi espansivi (creazione di nuovi mercati, sviluppo di opportunità, commesse pubbliche…). In linea generale, si può affermare che, a parità di condizioni, l’efficacia di un’azione di lobby è direttamente proporzionale all’abilità con cui il lobbista riesce ad argomentare e convincere i suoi interlocutori che gli interessi particolari rappresentati sono, in effetti, interessi generali. Così, sempre a parità di altre condizioni, anche l’efficacia è direttamente proporzionale alla credibilità delle informazioni che il lobbista trasferisce al decisore (purché rilevanti per quest’ultimo). E, a sua volta, la credibilità del lobbista è strettamente correlata alla fiducia che il decisore ripone in lui e/o nell’interesse che egli rappresenta. L’insieme di queste due “condizioni di successo” dell’attività di lobby (argomentare interessi generali e trasferire informazioni credibili) è però direttamente condizionato da una tendenza che preoccupa sempre di più i lobbisti consapevoli e che, in larga parte, dipende dallo sviluppo tecnologico. Infatti, rispetto alle dinamiche delle tecnologie, appaiono troppo lenti i tempi intercorrenti all’interno di una organizzazione fra: – il lavoro dei competenti della materia ai quali è richiesto di elaborare le 'posizioni' da assumere tenendo conto di tutte le possibili implicazioni per l’organizzazione; – la conseguente decisione da parte del vertice di procedere; – la rappresentazione della posizione decisa presso i decisori da parte del lobbista. Sovente si finisce addirittura per influire sulla produzione di regole e norme che, quando arrivano, sono già obsolete, e questo non tanto per la tradizionale lentezza dei processi decisionali pubblici, quanto piuttosto proprio per la lentezza dei processi interni alle organizzazioni. Si può affermare che, oggi, la principale complessità dei processi lobbistici sia rappresentata dalla inadeguatezza e lentezza dei processi decisionali pubblici per cause sia interne che esterne alle stesse organizzazioni interessate.Ciò spiega, in parte, la crescente tendenza alle deleghe legislative agli Esecutivi e alle authority indipendenti, alle forme di devolution verso il basso (Regioni, Comuni, Province) o verso l’alto (Ue, Wto, Onu). Le organizzazioni, più o meno consapevolmente, reagiscono a queste variabili affidando ai processi lobbistici una valenza sempre più manageriale, con un orientamento verso modelli organizzativi orizzontali che richiedono l’integrazione di competenze diverse e specialistiche. In questo senso, nei processi di lobby, si possono distinguere l’issue manager dall’account , e l’analista dall’advocate. Al primo viene demandata la responsabilità di coordinare l’attuazione delle politiche pubbliche di un’organizzazione su una determinata questione di rilevante interesse. Al secondo viene affidato l’incarico di seguire e soddisfare tutte le esigenze e le aspettative del “cliente interno” che beneficerà o sarà penalizzato dal risultato dell’azione di quelle politiche. L’analista è invece la persona che possiede competenze specifiche sul tema e che analizza tutte le variabili che influiscono sul raggiungimento dell’obiettivo. Spetta, infine, all’advocate rappresentare la posizione dell’organizzazione verso gli attori del processo decisionale pubblico. Come si può facilmente intuire, ciascuna di queste figure professionali richiede abilità e competenze professionali diverse. La capacità di relazione, per esempio, è vitale per l’account e l’advocate, mentre è secondaria per l’issue manager o l’analista. La conoscenza approfondita delle procedure e delle tecniche inerenti ai processi decisionali pubblici è, in primo luogo, un’abilità dell’advocate, ma non deve sfuggire all’analista, il quale sarà ovviamente, insieme all’account, esperto della materia specifica. L’issue manager infine dovrà soprattutto saper produrre risultati dal lavoro di gruppo (management). In ogni caso, tutte e quattro le figure dovranno avere competenze specifiche nelle tecniche d’informazione, comunicazione, argomentazione, negoziazione e, si intende, nel lavoro di gruppo. La questione della crescente complessità dei processi decisionali pubblici si scontra anche con l'accelerazione richiesta dalla competitività indotta dalla globalizzazione e che investe ogni organizzazione, privata, pubblica o sociale. In una democrazia moderna questo potenziale (o reale) conflitto mette in discussione il ruolo storico della cosiddetta 'democrazia rappresentativa' e induce alcuni gruppi di interesse a tematizzare scorciatoie tali da metterla in pericolo. Ma, al contrario, molti analisti cominciano invece a ritenere che adottando processi decisionali inclusivi degli stakeholder prima ancora che siano definiti gli obiettivi specifici, le organizzazioni riescano ad accellerare i rispettivi processi decisionali e a produrre decisioni più efficaci. E' un processo quest'ultimo che produce amplissimi spazi operativi e gestionali a coloro che sappiano governare con efficacia i sistemi di relazione: in primis i relatori pubblici. Rispetto poi alla possibilità per il lobbista di esercitare la propria funzione, da diversi decenni si discute se, come e con quali obiettivi gli Stati debbano o possano regolarne le attività. Negli Stati Uniti esiste fin dagli anni quaranta una legge (“The Lobbying Act”, 1946), più volte modificata, che nella sostanza, più ancora di “moralizzare” le commistioni fra economia e politica, si propone di assicurare un minimo di trasparenza alle azioni di chi svolge abitualmente attività di rappresentanza di interessi presso il processo decisionale pubblico: a livello federale, ma anche a livello di singolo Stato e di singola Amministrazione. Il lobbista professionista si registra in un elenco depositato presso l’organismo decisionale, dichiara la sua identità, quella (periodicamente aggiornata) dell’interesse o degli interessi che rappresenta, gli obiettivi della sua azione e (periodicamente) compila e deposita un modulo in cui sono indicate le risorse finanziarie investite nello svolgimento della sua attività. In Europa, ogni Paese ha le sue modalità di regolazione ma non esiste ancora alcuna normativa direttamente vincolante per il lobbista. Nel Regno Unito l'onere della prova viene invertito: è il parlamentare che deve informare una apposita commissione etica della Camera dei Comuni di rapporti intrattenuti con rappresentanti di interessi. In Italia, il partito politico attualmente di maggioranza relativa, Forza Italia, alle elezioni politiche del 2002, ha indicato nel suo programma come rilevante la regolazione dei lobbisti, suggerendo una soluzione analoga a quella statunitense, ma non ne ha ancora fatto nulla. Inoltre, nei primi mesi del 2002 la Regione Toscana ha approvato, prima nel Paese, una legge che riconosce e regolamenta le attività dei gruppi di interesse. A sua volta, la Ferpi sostiene dal 1976 la necessità di una regolamentazione dell’attività lobbistica, sottolineando anche l’esigenza che ciascun luogo della decisione pubblica assicuri al lobbista registrato un servizio di assistenza e consulenza, affinché lobby forti e lobby deboli abbiano opportunità di accesso tendenzialmente simmetrico ai decisori. In sostanza, secondo la Ferpi la regolazione delle attività dei lobbisti non può (e non deve) essere una risposta al fenomeno della corruzione, ma deve assicurare che chiunque ne abbia “titolo” (decisori, giornalisti o altri soggetti interessati) possa avere una corretta rappresentazione del processo decisionale pubblico, in termini di soggetti attivi, interessi rappresentati e obiettivi perseguiti. Detto ciò, la visibilità dei processi decisionali potrebbe anche essere, ma non è detto che lo sia, un antidoto della corruzione. Sempre in Italia, l’avvio di un’articolata riforma dell’Amministrazione pubblica (con l’affermazione legislativa dei principi di ascolto, di accesso, di informazione, di comunicazione e di partecipazione ai processi decisionali pubblici), i processi di “devolution” e di “sussidiarietà" verso l’alto (Unione europea) e verso il basso (Regioni e altri enti territoriali), il crescente interesse dei decisori (eletti, di carriera o nominati) nei confronti di pratiche tendenti a garantire la continua visibilità personale attraverso il sistema dei media, la pervasività con cui ormai qualsiasi organizzazione ritiene di dover autorappresentare i propri interessi sono tutte variabili rilevanti, che hanno notevolmente modificato, e reso più complesso, il processo lobbistico nell’ultimo decennio, integrandolo peraltro sempre di più con le attività di relazioni con i media e con quelle di organizzazioni di eventi. Per tornare all’esempio di Giorgio Verdi, capo ufficio stampa di un’università, immaginiamo che egli venga spostato al ruolo di responsabile dei rapporti con il processo decisionale pubblico e seguiamo le varie fasi del suo insediamento (le ripetizioni rispetto a quanto detto a proposito dell’ufficio stampa servono a dimostrare la presenza nelle diverse nicchie della professione di costanti operative, le quali richiedendo competenze di base trasversali e rafforza l’argomento secondo cui il lavoro di ufficio stampa, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni giornalisti e legislatori, è in ogni senso parte assai rilevante delle relazioni pubbliche). Il suo primo passo consiste nell’ascoltare e capire gli obiettivi dell’organizzazione per cui lavora e identificare quali di questi obiettivi possano venire ostacolati o facilitati da un buon sistema di relazioni con il processo decisionale pubblico, sia a livello locale (partendo dalla Circoscrizione per arrivare al Comune, poi alla Provincia, quindi alla Regione) sia a livello nazionale e sovranazionale. Le questioni di cui si occupa un’organizzazione universitaria correlate con il sistema decisionale pubblico sono tantissime, da quelle geografiche (localizzazioni, ampliamenti, dislocazioni), a quelle sanitarie (rispetto delle norme di sicurezza, ambientali); da quelle inerenti le normative sul lavoro a quelle più propriamente educative (riforma universitaria, diritto allo studio). Il secondo passo consiste nell’informarsi sullo stato dei rapporti esistenti tra l’università e i vari soggetti della decisione pubblica: quali sono i decisori pubblici eletti, nominati o di carriera che, negli ultimi due anni, si sono occupati dell’università, come se ne sono occupati, quali i temi affrontati e abitualmente in quali momenti. Si tratta di costruire una sorta di “fotografia” della situazione esistente, identificandone i punti di forza e di debolezza (sempre in funzione degli obiettivi già identificati). A questo punto, egli avrà anche proceduto a tracciare una sorta di “albero delle fonti” interne: quali sono le persone interne all’organizzazione che detengono l’informazione base o possano avervi accesso. In questa prima fase, dunque, Giorgio Verdi elabora una “fotografia” della situazione dei rapporti con il processo decisionale pubblico, ne ha identificato i punti di forza e di debolezza e ha costruito un proprio albero delle fonti interne. In funzione dei suoi obiettivi prioritari, Verdi inizierà a censire e a tenersi aggiornato sulle attività “normali” dei soggetti pubblici rilevanti, su temi e soggetti che concorrono a formare le loro opinioni. Avrà dunque costruito un sistema di monitoraggio permanente delle issue prioritarie. Il passo successivo è quello di preparare un playbook, una cartella che contenga, insieme alla descrizione dell’organizzazione per cui lavora, anche approfondimenti specifici per ciascuna issue da proporre, in quanto ritenuta prioritaria, sempre in base agli obiettivi perseguiti, ai decisori e ai loro influenti, con un esauriente schema di “domande e risposte”, cercando, anche in questo caso, di immedesimarsi con il decisore (o con il suo influente) di cui intende attirare l’attenzione. Questi testi dovranno necessariamente essere verificati e condivisi dai responsabili dell’organizzazione e dai componenti rilevanti dell’albero delle fonti interne. Giunge quindi il momento per Giorgio Verdi di presentarsi personalmente e direttamente ai decisori e ai loro influenti, possibilmente incontrandoli presso i loro uffici (per capire e conoscere l’ambiente in cui lavorano). Ogni incontro, chiaramente non finalizzato a ottenere un risultato immediato, si conclude con la consegna di una copia di quella parte del playbook dedicato alla issue di cui l’interlocutore si occupa o potrebbe occuparsi. Nella copia, Giorgio Verdi deve indicare anche il suo nome, il numero di telefono, di cellulare e di fax, nonché la sua e-mail e l’indirizzo del sito Internet dell’università. Questo primo giro di incontri è importante perché, se ben condotto, darà a Verdi indicazioni precise in merito alle aspettative, alle opportunità, ai temi ritenuti più attraenti per ciascun decisore o influente incontrato. Queste informazioni andranno registrate in un apposito database, insieme alle notizie raccolte sulle persone e le loro organizzazioni e ad una copia dei documenti rilevanti raccolti. Riunendo le informazioni ottenute dalle fonti interne, le aspettative e le disponibilità raccolte nel primo giro di incontri, Giorgio Verdi potrà iniziare, sempre in funzione degli obiettivi perseguiti, a programmare la sua attività operativa. Ed ora presentiamo i punti in cui si articola l’attività di Giorgio Verdi e, più in generale, di chi gestisce i rapporti con i decisori pubblici. Una attività di routine. L’attività di routine del responsabile dei rapporti con il processo decisionale pubblico consiste in: – un monitoraggio continuo delle dinamiche delle issue prioritarie e un’attività di reporting ai responsabili dell’organizzazione e ai componenti dell’albero delle fonti interne; – un contatto periodico, almeno mensile, con la rosa ristretta dei decisori più importanti; – incontri frequenti con le fonti interne per aggiornamenti tematici; – un approntamento e aggiornamento di documenti riguardanti le posizioni della sua organizzazione sulle singole issue rilevanti; – una visualizzazione grafica dei temi più importanti; – un aggiornamento del sito Internet, almeno della parte dedicata alle singole issue. La predisposizione di un calendario. A seguito del primo “giro di contatti”, Verdi si sarà fatto un’idea in merito alla compatibilità fra i tempi operativi desiderati e quelli prevedibili, tenendo conto del calendario di lavoro dei diversi soggetti pubblici coinvolti in ciascuna issue. In base a questa valutazione, sarà possibile creare un calendario verosimile delle varie questioni e si potrà giudicare meglio quali di esse convenga provare ad anticipare o ritardare e quali semplicemente accompagnare nel loro iter naturale. Verdi progetterà quindi azioni di relazione che possono assumere le forme più diverse, in relazione all’obiettivo perseguito e alle risorse disponibili. La prevenzione di possibili emergenze. Diverse sono le situazioni di crisi che possono verificarsi in un’organizzazione e attirare inopinatamente l’interesse dei decisori pubblici. Insieme agli altri colleghi, Verdi dovrà prevederle, misurare la probabilità che si presentino, decidere, in base a un equilibrato rapporto costi/benefici, per quali di loro conviene prepararsi e raccogliere tutte le informazioni necessarie, per poterle utilizzare al momento opportuno. La verifica dei risultati. Giorgio Verdi crea un sistema di monitoraggio, condiviso con i responsabili dell’organizzazione, che gli consente di seguire periodicamente le dinamiche dei sistemi di relazione con i decisori pubblici. Per misurare i risultati di un’azione di lobby non ci si può limitare a verificare se la decisione auspicata viene effettivamente assunta. L’attività di relazione con la decisione pubblica, indipendentemente dalle decisioni prese, dipende infatti in gran parte dal rapporto di fiducia fra i decisori, i loro influenti, il lobbista e l’organizzazione che egli rappresenta. Inoltre, è sempre più frequente il caso di coalizioni di interesse che coinvolgono vari soggetti in un’azione coordinata di lobby. È quindi necessario adottare parametri e indicatori che consentano di valutare opinioni, atteggiamenti e comportamenti dei decisori pubblici. La verifica interna. È fondamentale, per Verdi, verificare periodicamente il suo lavoro con il responsabile dell’organizzazione e con le sue fonti interne. Il database. Il database, che deve essere tenuto costantemente aggiornato, comprende, all’interno del contesto decisionale, i singoli decision maker e i rispettivi influenti. Si tratta di un’analisi dettagliata che comprende atteggiamenti e attività svolte, dichiarazioni, storia personale, rapporti e relazioni. A questo proposito, si pone una rilevante questione riguardante la tutela della privacy. Bisogna sottolineare che tale questione riguarda anche il database dei giornalisti o degli opinion leader. La normativa esistente nonché considerazioni di carattere etico vorrebbero che chiunque detenga una banca dati informi le persone delle quali si detengono informazioni (e l’organo di vigilanza) dell’esistenza del database, chiedendo loro se desiderino accedere ai dati personali per eventualmente eliminarli, correggerli o integrarli. Per l’operatore di relazioni pubbliche consapevole, ciò rappresenta in realtà non tanto un nuovo vincolo dovuto al rispetto della privacy, quanto una grande opportunità di relazione con il decisore e di posizionamento professionale. La mappa delle issue. Tale mappa individua per ciascuna issue i gruppi di interesse attivi (di fatto o potenzialmente) e analizza il livello del loro coinvolgimento, le loro capacità operative, la loro possibile influenza. La issue analysis. Per ciascuna questione selezionata, la issue analysis contiene una descrizione sintetica, indicazioni normative, considerazioni circa gli sviluppi in corso e i loro possibili impatti sull’organizzazione. In essa, inoltre, vengono individuati i possibili sostenitori e gli argomenti che si prevede essi utilizzeranno, i possibili oppositori e le loro probabili argomentazioni, le eventuali alternative (non solo legislative, ma anche, per esempio, regolamentari). Infine, si giunge alle opzioni possibili, le finalità perseguite, la decisione scelta e le motivazioni a supporto. Il policy brief. Si tratta di un documento sintetico a uso interno che fornisce una maggiore comprensione della issue specifica, individuando le posizioni, le percezioni, il dibattito in corso e la sua possibile evoluzione. Si basa sull’analisi dei media, degli atti legislativi, delle dichiarazioni rilasciate in occasione di convegni e altri eventi da parte dei protagonisti del processo decisionale pubblico. Il dossier. Si tratta di un documento più approfondito rispetto al policy brief, sempre a uso interno, che analizza a fondo le opinioni e gli atteggiamenti dei singoli decision maker e degli influenti su specifiche questioni, basandosi anche sui risultati di ricerche ad hoc. La ricerca. In questa fase viene individuato il pubblico di riferimento e si sceglie se e in quali circostanze dichiarare il soggetto committente. Si tratta di una questione delicata. Normalmente queste ricerche vengono condotte da istituti specializzati, nei cui codici di comportamento è previsto l’obbligo di esplicitare il committente. Talvolta però i veri committenti tendono a celarsi dietro centri studi, istituti universitari, centri culturali che si finanziano svolgendo attività lobbistiche per conto di aziende, enti pubblici, associazioni varie. Si tratta delle cosiddette “front organization”, che, nei Paesi anglosassoni, vengono rapidamente svelate dalla stampa investigativa. Diversamente, nel nostro Paese è spesso sufficiente inserire nel comitato scientifico nomi di giornalisti e accademici “autorevoli” per ottenere una patente di rispettabilità, tutto ciò con la connivenza degli istituti di ricerca, i quali, pur consapevoli dei loro reali committenti, non li dichiarano agli intervistati. La trasparenza risulta invece garantita nei casi in cui è l’organizzazione stessa a svolgere l’indagine. Alla luce di quanto sostenuto, è evidente che la ricerca rischia di essere assai poco credibile e verosimile. Gli intervistati infatti risponderanno aderendo pregiudizialmente agli interessi del committente dell’indagine oppure, al contrario, esplicitando pregiudizialmente la propria contrarietà a quegli interessi. Una possibile soluzione consiste nel condurre l’intervista cercando di affrontare gli argomenti in modo indiretto, inserendo domande di controllo, domande “esca”, domande chiave, così da poter verificare, indipendentemente dal loro contenuto esplicito, la veridicità delle risposte. Il position paper. Si tratta di un documento sintetico (due o tre cartelle, al massimo) a uso esterno, chiaro, adatto a un lettore non esperto, che spiega la posizione dell’organizzazione su un tema specifico. Il position paper descrive brevemente il tema, illustra la posizione dell’organizzazione, analizza l’impatto del provvedimento, confuta le argomentazioni degli avversari. Può anche essere redatto con modalità modulari. È destinato direttamente ai decisori e ai loro influenti. Talvolta può accadere che il documento, caduto nelle mani di qualche concorrente, venga pubblicato sui giornali accompagnato da pesanti ironie. Anche per questa ragione, proprio per evitare di venire accusati di disseminare lungo i percorsi decisionali pubblici documenti di fonti non trasparenti, è bene inserire nome e cognome dell’estensore con relativo numero di cellulare e indirizzo di posta elettronica. Gli studi e le ricerche. Studi e ricerche forniscono dati ed elementi a sostegno delle argomentazioni contenute nel position paper. Si tratta di documenti che devono essere attendibili e comunicabili. Talvolta conviene utilizzare questi studi per sostenere le campagne sui media. Gli eventi. Gli eventi possono essere rivolti ai media (conferenze stampa, press brief, interviste, dichiarazioni) oppure indirizzati a segmenti specifici di decisori o loro influenti (convegni, workshop, dibattiti, tavole rotonde). Essi hanno l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico dei decisori e quello degli influenti. Inoltre, attirando l’attenzione dei media, suscitano l’interesse dell’opinione pubblica in favore della posizione espressa (il famoso “interesse generale”). La redazione di testi tecnici. I testi tecnici possono avere la forma di vere e proprie bozze di proposte di legge o di decreti (atti normativi), di emendamenti da utilizzare in sede di discussione deliberante oppure di atti di sindacato ispettivo (interpellanze, interrogazioni). Le newsletter. Le newsletter sono rivolte al decisore pubblico e ai suoi influenti e possono, talvolta, essere utili per mantenere il contatto, continuando a veicolare informazioni e messaggi. Esse possono anche servire da “ringraziamento” pubblico per l’interessamento dei decisori. I pareri "pro veritate". Si tratta di pareri realizzati da giuristi e costituzionalisti in merito a questioni che possono apparire dubbie sul piano legale. Servono a confermare la fondatezza di una tesi e, talvolta, anche come supporto “autorevole” a una argomentazione proposta sui media. Le cause legali. Visti i tempi storici della giustizia italiana, le cause legali servono soltanto per il loro “effetto annuncio”, a meno che non si tratti di ricorsi al Tar, volti a ottenere la sospensiva di un provvedimento dell’Amministrazione pubblica. In questo caso, l’effetto di “fermo” nell’applicazione del provvedimento è sovente assicurato. Talvolta è utile anche il ricorso alla Corte di giustizia europea oppure alla stessa Commissione europea. I tempi sono lunghi, ma l’effetto annuncio è sempre assicurato. Le coalizioni. Le coalizioni vengono sempre più frequentemente usate per allargare il fronte a sostegno di una determinata posizione e possono risultare un’arma vincente. Infatti, l’azione di più soggetti coordinati fra loro permette di rafforzare l’influenza sui decisori pubblici e attribuisce alla questione specifica un carattere più generale. Infine, si tratta di un passo necessario per la realizzazione di quello che gli americani chiamano il “grass root lobbying” o “lobbying dal basso”. Il grass root lobbying. Si tratta di una delle tecniche più diffuse per la sensibilizzazione della decisione pubblica. Affinché si realizzi, è necessario che le persone mobilitabili abbiano più o meno la stessa opinione e che siano disponibili a manifestarla (con una firma, una cartolina, una e-mail, una lettera, una manifestazione o un evento di altro genere). È una tecnica di realizzazione complessa, poiché richiede una forte capacità di coordinamento di gruppi, individui e organizzazioni non facili da gestire. In proposito, assume un forte rilievo la capacità di comunicazione interna, che deve essere veloce e tempestiva (la rete Internet è naturalmente utilissima in questo senso). Occorre evitare l’abuso di questo strumento per non rischiare di fargli perdere credibilità (si pensi ai referendum, per esempio). Internet. L’ambiente Internet ha profondamente modificato il modo di fare lobbying e permette lo sviluppo di azioni locali in base a strategie globali, facilita la raccolta e la veicolazione di informazioni, supporta ogni azione di “grass root”, può creare gruppi di interesse “virtuali” e gli investimenti richiesti sono normalmente modesti. La pubblicità. La pubblicità viene utilizzata sempre più di frequente per scopi di lobby. Si va dalla “lettera aperta” alla pressione esplicita, alla pubblicità istituzionale orientata verso una issue specifica. Serve soprattutto per dare al decisore pubblico la sensazione che l’organizzazione intende sensibilizzare l’opinione pubblica a sostegno delle proprie argomentazioni. Qualche volta può essere controproducente, generando un effetto di “pressione indebita”. L’audizione. Si tratta di un mezzo assai utile per parlare senza mediazione ai più diretti interessati. Ricorrendo a tale modalità, ci si espone ovviamente alle critiche e alle domande, anche a quelle degli avversari e dei concorrenti, e alle osservazioni dei media. Per evitare equivoci e malintesi, è sempre consigliabile preparare una sintesi del proprio intervento che non superi le due cartelle e consegnarlo in sala stampa e presso le redazioni prima dell’intervento (ai partecipanti, a conclusione dello stesso). I viaggi. I viaggi di decisori o di loro influenti sono assai simili, come utilità e come criticità, ai junket di cui si è parlato a proposito dei rapporti con la stampa. Suggeriamo infine dieci consigli operativi per la gestione dei rapporti con il processo decisionale pubblico: 1. paga essere onesti e non trovarsi mai costretti a dire una bugia. Non sempre è necessario dire tutta la verità, ma mai dire una bugia. La credibilità dell’interesse rappresentato e, a seguire, del singolo professionista sono i valori più importanti da salvaguardare; 2. esplicitate sempre il vostro interesse, quello specificamente rappresentato insieme all’obiettivo perseguito; 3. date sempre al decisore pubblico un valore aggiunto. Se non c’è valore aggiunto percepibile, non date nulla; 4. fate bene i “compiti a casa” e indirizzate l’informazione a chi è davvero interessato a riceverla, senza mai perdere di vista il vero decisore; 5. nell’argomentare un tema, partite sempre dall’interesse del decisore pubblico, seguito da quello del cittadino qualsiasi, mai da quello dell’organizzazione; 6. iniziate sempre con i punti salienti della richiesta, mai lasciarli alla fine; 7. tenere conto delle specificità di ciascun decisore, del suo gruppo di appartenenza e dei tempi diversi di ciascuna decisione; 8. ponetevi sempre l’obiettivo di ottenere dal decisore una posizione corretta, non “favorevole”; 9. tenete sempre presente che siete solo una delle migliaia di fonti del decisore e non quella privilegiata; 10. se non desiderate che una frase, un commento o una notizia vengano utilizzate impropriamente, non fatene menzione, neppure in via confidenziale. 4.3 Gli eventi e gli pseudoeventi Per evento si intende una iniziativa di comunicazione complessa, consapevole e circoscritta nel tempo, che un’organizzazione (ente, impresa, associazione) promuove per “convocare” alcuni suoi stakeholder (soggetti consapevoli di avere titolo e interessati a interloquire con la stessa organizzazione) e per “attirare l’attenzione” dei suoi influenti (soggetti ritenuti dall’organizzazione tali per il raggiungimento dei suoi obiettivi), inducendo entrambi a creare, sviluppare e consolidare relazioni interattive e tendenzialmente simmetriche fra di loro e con la stessa organizzazione. Strumento classico delle relazioni pubbliche che affianca e si intreccia alle relazioni con i media e alle attività di lobbying, l’evento occupa con sempre maggiore intensità la nostra vita quotidiana. Secondo una stima conservativa, si svolgono ogni giorno nel nostro Paese un migliaio di eventi, grandi e piccoli, che muovono risorse economiche per oltre 10 miliardi di euro l’anno. Ciò nonostante, non esiste una definizione condivisa del termine “evento”, così come non esiste fra i professionisti del settore una metodologia comune di approccio e neppure uno strumento condiviso che permetta a chi vi partecipa, a chi lo organizza e a chi lo finanzia di misurarne e valutarne l’efficacia. Si tratta di un settore che, sviluppatosi soprattutto in questi ultimi anni, ha contribuito in modo sostanziale a modificare l’agenda sociale, politica ed economica del nostro Paese. Infatti, per il sistema dei media una notizia non è tale se un evento non la rende pubblica e un’organizzazione, in molti casi, viene considerata priva di identità se non si afferma tramite un evento. Viviamo, dunque, immersi nella cultura dell’evento: conferenze stampa, presentazioni di prodotti e servizi, convegni, congressi, assemblee, mostre, esposizioni, si susseguono sovente al solo scopo di occupare spazi mediatici, nella speranza di attirare l’attenzione delle persone. Con sempre maggiore intensità ogni giorno che passa soggetti privati e pubblici, enti, organizzazioni, associazioni reclamano ad alta voce il diritto di autorappresentarsi (o di visibilità) sui media, al punto che quelli tra loro che non riescono a (o non cercano di) farsi notare scompaiono, non vengono considerati. Nel nostro Paese, questa sindrome, sviluppatasi intorno alla metà degli anni Ottanta con l’affermarsi della "cultura dell’immagine", ha subito una forte accelerazione negli ultimi anni. I professionisti più avvertiti si interrogano su una deriva che pure hanno contribuito a determinare e si confrontano per trovare strumenti con cui verificare l’efficacia reale di questi pseudoeventi. In particolare, alcuni tendono a distinguere fra evento -legato a una cultura di tipo relazionale- e spettacolo, più propriamente riferito ai canoni tradizionali della comunicazione di massa. Lo spettacolo rappresenta una risposta al continuo e crescente “affollamento” di comunicazione che inevitabilmente aumenta l’intensità dell’impatto necessario per attirare attenzione. Secondo Chiara Anteri, tra spettacolo ed evento vi è una differenza analoga a quella che separa l’andare a pesca gettando una mina in mare (di pesci se ne prendono e come) e l’andare a pesca con mille diverse canne ed esche, conoscendone le tecniche, studiando i pesci per capire come scovarli. In effetti, viviamo il passaggio fra una cultura massmediatico-comunicativa che ha caratterizzato il secolo scorso, e una più propriamente relazionale, la cui diffusione avviene anche, ma non solo, grazie alle applicazioni delle nuove tecnologie. Dal punto di vista dell’evento, queste ultime hanno contribuito a trasformare il concetto tradizionale di "territorialità", segnando il passaggio dalla dicotomia globale-locale alla nuova sintesi di “glocalità”. È importante anche sottolineare che il valore e l’efficacia di un evento sono direttamente proporzionali alla qualità, all’intensità dei suoi contenuti visibili, oltre alla loro corrispondenza con le aspettative degli effettivi fruitori. Come ha affermato il sociologo Alberto Abruzzese, in occasione del convegno “La cultura dell’evento”, tenutosi a Genova nel febbraio del 2001: L’evento pone il problema di rivedere l’enfasi che ha polarizzato la nostra attenzione nei tempi passati sulle strategie di visibilità e trasparenza e ripropone in modo un po’ imprevedibile la questione della sostanza […] la qualità dell’evento è nella sua intensità e non nella sua estensione. L’evento non si riconosce dal suo programma, bensì dalla sua potenza. La strategia dell’evento è nella sua profondità e non nella superficie. Necessariamente un evento deve essere: 1) di breve durata. La breve durata ne determina la “notiziabilità”, ovvero la possibilità di occupare uno spazio mediatico per “attirare l’attenzione” degli influenti, condizionata anche dai contenuti che si intendono veicolare. Non si può dire tutto nello stesso momento: ogni interesse ha bisogno di tempo per essere veicolato. Se è vero che determinati interessi sono sovrapponibili perché non si influenzano reciprocamente, altri invece devono seguire una scaletta di tempi definita in un palinsesto meditato; 2) di interesse condiviso. Anche se a molti può talvolta apparire rivolto a un grande pubblico, l’evento deve innanzitutto essere condiviso da un gruppo ristretto che vi ravvisi un forte interesse. Senza questo nucleo iniziale (core) non si potrebbe raggiungere la somma di interessi condivisi che poi determinerà il successo di pubblico; 3) coerente con l’ambiente circostante. L’evento deve essere plasmato secondo le caratteristiche dell’ambiente in cui opera. È necessario tenere sempre presente i conflitti delle diverse coalizioni (staff organizzativo, stampa, istituzioni, sponsor, partecipanti) e ascoltare ed essere consapevoli di storia, tradizioni, stili di vita, usanze del luogo in cui viene realizzato; 4) studiato nei minimi dettagli. I dettagli nell’evento non sono mai trascurabili, perché sostanziali espressioni della comunicazione. Nulla è scontato, tutto deve essere calibrato, a partire dalla definizione degli obiettivi che devono sempre essere coerenti con i diversi interessi che si intende rappresentare; 5) in continua evoluzione. L’evento non è mai statico ma un continuo mutare di azioni calibrate e rimodellate in base alla situazione contingente. Nell’organizzare un evento non bisogna mai “innamorarsi” di una soluzione convinti di avere trovato quella giusta. C’è e ci sarà sempre una soluzione migliore di quella appena trovata. Bisogna essere mentalmente aperti a cambiare traiettoria e a strutturare soluzioni alternative; 6) parte di un piano. Per essere in linea con gli obiettivi dell’organizzazione, l’evento deve essere inserito in un piano più ampio. Ascoltando i diversi interessi rappresentati, l’evento vive e offre a ciascuno modalità variegate di espressione, nel rispetto della pluralità degli interessi. La progettazione, che costituisce il cuore dell’evento, deve essere coerente con gli obiettivi stabiliti da ciascuna organizzazione che vi partecipa. In tal senso, è fondamentale l’analisi dell’ambiente, che permette di individuare l’interesse condiviso. L’evento scaturisce da una relazione fra soggetti diversi e attivi, che danno e ricevono informazioni, dialogano, ascoltano e mutano comportamenti a seconda delle reazioni che suscitano negli altri. Nella pluralità delle sue forme, l'evento è bilaterale perché implica un ricevere nel dare e un dare nel ricevere e la sua qualità è determinata dallo studio dell’ambiente e dalla relazione prodotta fra i soggetti coinvolti. La predisposizione all’ascolto è, quindi, alla base della progettazione e, soprattutto, della definizione degli obiettivi dell’evento. Del resto, in un evento devono necessariamente interagire fra loro le diverse strategie dei soggetti coinvolti e questo implica che il successo del promotore dipende soprattutto dalla sua capacità di garantire in modo imparziale la qualità della relazione tra i vari soggetti, lo scambio reciproco e il confronto. 4.4 Le marketing public relations Nella maggior parte dei Paesi dove le relazioni pubbliche sono “mature”, le cosiddette “marketing pr” costituiscono un segmento che assorbe più del 50% degli investimenti delle imprese (nel Regno Unito e negli Stati Uniti, i due mercati più sviluppati, siamo intorno al 70%). Per marketing pr si intende l’applicazione di metodi e strumenti di relazioni pubbliche che contribuiscono al raggiungimento di specifici obiettivi di marketing di un’organizzazione, creando, sviluppando e mantenendo relazioni, a due vie e tendenzialmente simmetriche, con tutti gli stakeholder attinenti alla filiera del mercato, incluso il consumatore finale. La situazione è diversa in Italia dove, se si considerano le financial pr separatamente, le marketing pr non superano il 30% del mercato. Per quanto riguarda le prime, si potrebbe però affermare che, almeno per una loro parte consistente -le attività rivolte al mercato retail- si tratta di attività sempre più vicine alle marketing pr, mentre andrebbero nelle investor pr le azioni financial rivolte ai diversi segmenti di investitori non retail, nelle regulatory pr le azioni financial rivolte alle autorità e agli organi di controllo dei mercati finanziari e nelle media relations, le attività di rapporti con la stampa finanziaria. Ma quali sono le ragioni dello scarso sviluppo in Italia delle marketing public relations? Occorre ripensare a come le relazioni pubbliche si sono sviluppate in Italia, rispetto ad altri Paesi. Se guardiamo agli Stati Uniti, il mercato delle relazioni pubbliche ha assunto dimensioni significative negli anni Cinquanta, quando sono aumentati vertiginosamente i consumi di massa e la televisione è entrata in tutte le case. È stato allora che i consulenti di relazioni pubbliche si sono trasformati in vere e proprie agenzie a servizio completo, chiamate dalle imprese a supportare le strategie di marketing, che trovavano, comunque, nella pubblicità il principale supporto comunicativo. Le relazioni pubbliche, in quest’ottica molto operativa e sussidiaria, consistevano soprattutto nella creazione e organizzazione di eventi (lancio e rivitalizzazione di nuovi prodotti, road show) volti ad attirare l’attenzione dei media e di altri opinion leader intorno a un prodotto o servizio: anticipavano e affiancavano, dunque, le grandi campagne pubblicitarie. Il modello applicato (si veda il Capitolo 5) era, nella migliore delle ipotesi, quello di Edward Bernays (a due vie, asimmetrico e persuasivo) e, nel peggiore dei casi, quello di Phineas T. Barnum (a una via e asimmetrico). In Italia, invece, il mercato delle relazioni pubbliche a supporto delle strategie di marketing si è svelato soltanto nella seconda metà degli anni Settanta: un periodo in cui, nel nostro Paese, i consumi di massa rappresentavano un disvalore, sia culturalmente sia socialmente, e il più importante mezzo di comunicazione di massa, la televisione, era dominato dall’ideologia pauperista e antindustriale dei tanti cattolici e marxisti che popolavano il servizio pubblico. Del resto, gli investimenti delle imprese in pubblicità erano, in proporzione al Pil, largamente inferiori al resto dell’Europa occidentale. Il management delle imprese era dunque poco orientato al marketing in generale e, di conseguenza, anche poco preparato a utilizzare, per il marketing, i servizi delle neonate agenzie di relazioni pubbliche. Come sovente accade quando si affermano nuovi servizi di consulenza per effetto di “mode importate”, la domanda subì un’offerta orientata principalmente verso attività di carattere istituzionale o corporate, soprattutto a causa della preferenza in tal senso da parte degli stessi relatori pubblici che, in quegli anni, orientavano il mercato. Infatti, la forte politicizzazione del Paese, l’elevato livello del conflitto sindacale, l’inquietudine dei giovani, fino all’esplodere del terrorismo, erano tutti fenomeni che inducevano le imprese (soprattutto quelle internazionali, le principali clienti delle agenzie di relazioni pubbliche) a voler meglio comprendere le dinamiche sociali, politiche e culturali, per acquisire legittimità nella comunità e interagire con un ambiente per molti versi ostile. Così, le agenzie di rp riuscirono a proporsi con successo come interpreti delle vicende socio-politiche e a facilitare la nascita e lo sviluppo di relazioni tra le imprese, il sindacato e il ceto politico. Non stupisce che, in tale contesto, i relatori pubblici cercassero di affrancarsi dalla “tutela” della pubblicità. In Italia, ciò è avvenuto soprattutto tramite l’offerta di servizi di consulenza di public affairs e di analisi socio-culturale e politica, radicalmente diversa da quella delle agenzie di pubblicità, per la maggior parte orientata a supportare le immagini di marca delle imprese commerciali. Il mercato era in crescita e, salvo rare eccezioni, le relazioni pubbliche si svilupparono tralasciando quasi del tutto le attività di supporto al marketing. Quando, negli anni Ottanta, “esplodono” anche in Italia i consumi e le tv commerciali, la domanda, fino a quel momento latente, di supporto al marketing delle imprese si orienta, oltre che verso le agenzie di pubblicità, verso le società di promozione vendita. Questo perché le società di relazioni pubbliche sono, al tempo stesso, sature di lavoro, poco stimolate e, soprattutto, non hanno le competenze necessarie per integrarsi utilmente nel marketing mix. Le marketing pr, quindi, mutano la loro natura e diventano a tutti gli effetti promozione. Anche le (poche) agenzie di relazioni pubbliche che si orientano alle marketing pr arrivano tardi e male, venendo quindi relegate in larga parte allo svolgimento di attività di “product publicity”, che si traduce prevalentemente nella occupazione di spazi redazionali sui media, in favore di prodotti e servizi: un’attività in gran parte mediata e facilitata, quando non esplicitamente negoziata con gli editori (all’insaputa dei consumatori), dagli investimenti pubblicitari. Nella prima metà degli anni Novanta, la crisi del mercato italiano delle relazioni pubbliche provocata soprattutto dalla vicenda di Mani Pulite, induce le agenzie a tentare un riposizionamento verso il supporto al marketing. L’operazione, in qualche misura riesce ma in ritardo e, a differenza di quanto avviene nel mondo anglosassone, raramente il consulente di rp siede al tavolo in cui vengono decise le strategie di marketing. La questione è rilevante non tanto perché sia gratificante sedersi intorno al tavolo dove si decidono le strategie di prodotto, quanto perché le relazioni pubbliche possono dare un importantissimo contributo al marketing, e non soltanto sul piano operativo. Oggi le imprese si chiedono come conquistare nuovi clienti, come mantenere i clienti acquisiti e, in generale, come creare e consolidare nel tempo e sul rispettivo mercato un vantaggio competitivo, sostenibile e differenziato. La risposta tradizionale si trova nel mix di pubblicità, promozione e qualità della forza vendita: una risposta inadeguata, tanto che ci si orienta in misura crescente verso la comunicazione integrata (intesa come mix fra pubblicità, relazioni pubbliche, promozione e direct response) e, più recentemente, la relazione col cliente e la conquista della sua attenzione hanno assunto una maggiore importanza della comunicazione e della ricerca dello spazio di voce in un sistema dei media sempre più affollato. Le ragioni sono molteplici. È un fatto, innanzitutto, che il consumatore sia sommerso dal “diluvio informativo” e che solo una minima frazione dei messaggi che riceve sono, in effetti, governabili dall’impresa: gestirli bene spesso segna la differenza. In questo senso, tende a crescere l’attenzione delle imprese verso quell’area della comunicazione d’impresa below the line e che comprende il direct response, la promozione vendite e le relazioni pubbliche: tutte attività che consentono relazioni e messaggi personalizzati e orientati ad attirare l’attenzione del consumatore. L’area del below the line – che ha superato ormai la soglia del 50% degli investimenti complessivi delle imprese – attira, ovviamente, sempre più l’attenzione delle grandi agenzie di pubblicità, le quali temono di farsi sottrarre la parte più dinamica del mercato. Da ciò deriva, da un lato, la tendenza alla concentrazione, per lo meno finanziaria, per quanto riguarda l’offerta di servizi e consulenza; dall’altro e sul piano della domanda, la consapevolezza da parte delle imprese che la pubblicità deve modificare i suoi paradigmi classici, centrati sulla comunicazione di massa erga omnes, per orientarsi verso una crescente attività di ascolto del consumatore, che consenta una relazione interattiva e sempre più simmetrica. Obiettivo classico che, come si è visto,è storicamente attribuito alle relazioni pubbliche, le quali trovano oggi un terreno particolarmente favorevole per integrarsi nei piani di marketing. Ormai, viene infatti attribuita un’importanza decisiva al fatto che le comunicazioni societarie (corporate) siano sinergiche e integrate con quelle di marketing. Se è vero, poi, che queste ultime danno al consumatore la ragione di un comportamento d’acquisto, le prime gliene danno la piena legittimità. Infine, tutte le ricerche indicano che l’informazione proveniente dai giornalisti, o da altri “moltiplicatori-stakeholder”, viene normalmente ritenuta dal consumatore più credibile e obiettiva della pubblicità vera e propria, ed è proprio nella credibilità percepita che si trova il vero punto di forza delle relazioni pubbliche rispetto alle altre discipline della comunicazione d’impresa. La pubblicità, solo per citare quella più nota, tende soprattutto a rafforzare un messaggio o l’immagine di una marca, ma lo fa con benefici assai maggiori quando quel messaggio o quella marca sono stati favorevolmente “testimoniati” da una fonte “terza” (è il fenomeno del “third party endorsement”). Se è vero che due terzi dei direttori marketing delle prime 500 aziende presenti nella classifica del periodico Fortune ritiene che, rispetto alle relazioni pubbliche, la pubblicità produce effetti uguali o superiori nel creare consapevolezza della marca (brand awareness), ben quattro quinti di loro attribuisce invece alle relazioni pubbliche un’importanza molto superiore a quella della pubblicità nel trasferire al consumatore la credibilità di una marca (brand credibility). Con l’Imc (Integrated Marketing Communications) l’organizzazione governa quindi il maggior numero possibile di fonti cui il consumatore viene esposto riguardo a uno specifico prodotto o servizio. Il risultato è rappresentato dal trasferimento pluri-canale e pluri-fonte di un messaggio coerente e chiaro, capace di superare la barriera del diluvio informativo (clutter), anche perché il messaggio incorpora sempre, esplicitamente, un agevole canale di ritorno, che il destinatario può decidere di attivare (e viene stimolato, incentivato a farlo) per avviare una relazione il più possibile simmetrica e interattiva con l’emittente, rafforzando in tal modo la fedeltà di marca. Così, le relazioni pubbliche spesso assumono il ruolo di disciplina guida in una campagna di Imc, e non soltanto nei segmenti del mercato in cui la qualità delle informazioni sul prodotto/servizio orienta in modo decisivo la scelta del consumatore, come le tecnologie dell’informazione, la salute, il business to business e i servizi finanziari; ma anche nei cosiddetti “Fmcg” (Fast Moving Consumer Goods) e nella grande distribuzione, settori in cui gli operatori stanno compiendo uno sforzo senza precedenti per costruire relazioni dirette e a due vie con gli interlocutori (obiettivo prioritario delle relazioni pubbliche). Le relazioni pubbliche, oltre a collaborare per la definizione delle strategie di marketing, servono anche da supporto operativo alla realizzazione di tali strategie e in modo particolare quando: – si intende creare interesse sul mercato per nuovi prodotti prima del loro lancio pubblicitario. Si chiama “effetto teaser”: l’attenzione della stampa e degli opinion leader viene attirata su temi, argomenti, questioni che, successivamente, vengono ripresi dalla campagna pubblicitaria vera e propria, con un conseguente effetto moltiplicatore dell’attenzione degli opinioni leader prima e della pubblicità poi. Si pensi, per esempio, al grande successo che riscuote il buzz o viral marketing, una semplice applicazione delle marketing public relations; – si desidera creare interesse sul mercato per nuovi prodotti che non verranno promossi con una campagna pubblicitaria. Non sempre un’organizzazione può permettersi una campagna pubblicitaria. Inoltre, i risultati che si possono ottenere da una campagna di relazioni pubbliche -sussidiaria o sostitutiva di una campagna pubblicitaria- sono talvolta, a parità di investimento, superiori; – l’obiettivo è quello di rivitalizzare l’interesse sul mercato per prodotti esistenti. In questo caso sono talvolta sufficienti iniziative volte ad attirare nuovamente l’attenzione verso la marca, verso un prodotto già conosciuto sul mercato; – si vuole contribuire a mantenere la leadership di una marca sul mercato. Normalmente si tratta di iniziative tattiche che non giustificano un forte investimento in pubblicità; – si intende creare interesse intorno alla pubblicità di una marca. In questo caso, assai frequente, si tratta di fornire un supporto diretto alla pubblicità; – l’obiettivo è quello di creare interesse intorno alla promozione o al packaging di una marca. Anche in questo caso, si tratta di fornire un supporto diretto alla pubblicità. Nelle situazioni descritte, le marketing pr mobilitano testimonial, eventi, opinion leader, l’attenzione dei media, ma devono tenere sempre conto delle strategie, dei programmi, dei tempi e dei messaggi ed essere con questi coerenti. 4.5 Le financial public relations Per financial pr si intendono le attività di gestione e coordinamento dei sistemi di relazione che una organizzazione intrattiene con i pubblici influenti capaci, attraverso opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni, di influenzare sui mercati finanziari l’andamento di un titolo, quotato, non quotato o che sta per esserlo, sui mercati finanziari. Per pubblici influenti, nelle financial pr, solitamente si intendono: – le istituzioni finanziarie, le autorità di regolazione del mercato finanziario (in Italia, la Consob) e, se esistono, quelle del mercato in cui l’organizzazione opera (per Tiscali, per esempio, l’Autorità di garanzie delle comunicazioni); – i giornalisti e commentatori finanziari che operano nei media, sia in quelli tradizionali (agenzie, quotidiani, periodici, radio e tv) che nei nuovi (Internet); – gli investitori istituzionali (gestori di fondi, analisti, operatori, sim, banche); – gli azionisti individuali; – i dipendenti azionisti; – gli azionisti clienti e fornitori; – i manager che determinano le performance dell’organizzazione sui mercati di riferimento. In Italia, le relazioni pubbliche finanziarie sono iniziate, di fatto, nella seconda metà degli anni Settanta con l’istituzione per legge della Consob. Fino ad allora la sola attività di rilievo, in tal senso, era la diffusione periodica ai giornali, da parte delle imprese quotate in Borsa, dei propri risultati economici. In quei tempi l'informazione finanziaria viaggiava su due canali paralleli e distinti: da un lato, l’informazione ufficiale sulle performance dei pochi titoli quotati in Borsa, che spostava poco o nulla sul mercato; dall’altro, i canali informali (ci sono tuttora, si intende, anche se con maggiore cautela, essendo nel frattempo intervenute sanzioni per chi ne faccia impropriamente uso) che animavano, queste sì!, le sedute di Borsa. Chi aveva l’informazione comprava o vendeva titoli prima che apparisse sui media. Si tratta del cosiddetto “insider trading”. Data le circostanze, non stupisce che la Borsa italiana fosse una delle più “asfittiche” d’Europa. La piena efficienza ed efficacia della Consob, ancora oggi sempre in discussione, ha richiesto molti anni di assestamento, ma la situazione si è andata gradualmente avvicinando a quella degli altri Paesi dotati di Borse più “vivaci”. Le aziende quotate sono state presto obbligate all’“informazione dovuta”. All’inizio è stata resa obbligatoria la pubblicazione del bilancio annuale (si pensi che nel lontano1954 la società Motta venne insignita del primo Oscar di bilancio, poiché pubblicava un bilancio in cui includeva i dati del suo fatturato!), poi è intervenuto anche l’obbligo di depositare relazioni semestrali sull’andamento aziendale. Oggi, la gran parte delle aziende quotate (anche se non è ancora obbligatorio per legge in Italia) pubblica relazioni trimestrali. Nella prima metà degli anni Ottanta, il mercato finanziario cresce con l’avvento dei primi fondi di investimento, mentre la maggior parte delle banche avvia aggressive reti di vendita accompagnandone la penetrazione del mercato con massicci investimenti nella comunicazione. Gli italiani cominciano ad avere maggiore fiducia e le aziende, attirate dalla crescita degli investitori, cominciano ad avvicinarsi al mercato di borsa. La prima vera e propria campagna di comunicazione finanziaria, a tutti gli effetti “integrata”, viene condotta nella seconda metà degli anni Ottanta dalla San Paolo Invest, braccio commerciale del San Paolo di Torino. La campagna, con investimenti in verità assai contenuti e comunque allineati a quelli concorrenti, fu talmente efficace e visibile da creare seri problemi al suo ispiratore (l’allora amministratore delegato Sergio Pugliese), che dovette dimettersi anche perché accusato di fare "troppa comunicazione”. Con la crescita del mercato e la diversificazione degli operatori finanziari, nascono i primi analisti finanziari (esperti che, per conto di banche e fondi, si specializzano e seguono l’andamento di comparti specifici, quali l’automobile, la meccanica e così via) e viene costituita l’Aiaf (Associazione degli analisti finanziari). La stampa, in larga parte posseduta da industriali o finanzieri anche loro protagonisti del mercato finanziario, “governa” l’informazione anche, quando non soltanto, in funzione dei propri interessi. Alcuni giornalisti si adeguano e preferiscono operare in Borsa da insider prima di dare le notizie che orienteranno i comportamenti dei piccoli investitori. La presenza dei fondi e degli investitori istituzionali, soprattutto di provenienza internazionale, comincia però a farsi sentire con l’avvio del processo di privatizzazione delle grandi banche nazionali e delle aziende Iri nella prima metà degli anni Novanta. Le società si trovano, in molti casi loro malgrado, costrette ad adeguarsi alle norme dei mercati più maturi e seri. Si tratta di una grande opportunità per le relazioni pubbliche finanziarie. Il ministero del Tesoro (azionista di Eni, Enel e poi anche di Iri, che a sua volta possedeva le grandi banche e Telecom) svolge, grazie a Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, quest’ultimo aiutato dal relatore pubblico Paolo Peluffo -ex giornalista del Messaggero, oggi portavoce del Quirinale- un’opera importantissima, affidando alle relazioni pubbliche la leadership per la comunicazione di tutte le principali privatizzazioni realizzate. Il modello applicato è quello inglese, diverso da quello americano che affida alle relazioni pubbliche un ruolo sussidiario rispetto alle operazione di finanza straordinaria delle imprese quotate in Borsa. La leggenda vuole che il modello venne scelto dai governanti italiani sullo yacht Britannica, in navigazione nel Mediterraneo, ospiti del Governo inglese e della società di pr inglese Dewe Rogerson, la quale, in effetti, otterrà la gestione delle prime privatizzazioni avviate sul mercato italiano. È il boom: prospetti, relazioni di bilancio, campagne pubblicitarie, relazioni con la stampa italiana e internazionale, road show vengono tutti usati con la regia di consulenti di relazioni pubbliche. L’attività delle financial pr viene svolta principalmente attraverso i seguenti strumenti: – informazione dovuta (relazioni di bilancio semestrali, comunicati obbligatori per legge); – informazione volontaria (trimestrali, comunicati stampa, pubblicità, lettere agli azionisti, newsletter, pagine di siti generalisti e siti dedicati); – relazioni con gli investitori (road show, incontri, presentazioni, uso di database e di siti dedicati o Extranet). Un'area che ha iniziato da poco ad espandersi sul modello francese è la comunicazione al mercato cosiddetto 'retail', ovvero singoli investitori al dettaglio. E' una attività che, a differenza delle altre qui sopra richiamate che si rifanno al modello di comunicazione corporate, si ispira al marketing public relations. Come per ogni area in cui operano le relazioni pubbliche, anche nella finanza è possibile distinguere l’attività normale da quella straordinaria. Quest’ultima può essere proattiva (quotazione, Opa, Ops, Ipo, scissioni, acquisizioni, aumenti di capitale) e reattiva (volta a difendersi da scalate e informazioni sbagliate o tendenziose). Il sostanziale fermo delle privatizzazioni italiane – intervenuto dopo le polemiche sulla cosiddetta “svendita delle telecomunicazioni” e a seguito del forte scontro sull’Opa ostile dell’Olivetti di Colaninno contro la Telecom Italia– ha indotto una pausa nel mercato delle financial pr, ma non ha fatto diminuire il lavoro dei relatori pubblici in questo settore, grazie anche alla “bolla” negli ultimi anni novanta della cosiddetta “new economy”. Oggi, però, il proseguimento del blocco delle privatizzazioni e la caduta verticale dell’interesse del mercato verso le nuove imprese legate a Internet hanno determinato una vera e propria crisi per molte società di consulenza e servizi di relazioni pubbliche e le hanno spinte ad altre specializzazioni. Le financial pr svolgono un ruolo importante anche per aziende non quotate in Borsa. Un’impresa, infatti, trae comunque vantaggio da una comunicazione trasparente, continuativa e professionale delle proprie performance economico-finanziarie, anche negative, in quanto tale comunicazione permette agli operatori di conoscerla meglio. Nel caso di una banca o di un finanziatore esterno, per esempio, una maggiore conoscenza della società da finanziare si può tramutare in una riduzione del rischio percepito e, conseguentemente, in una riduzione dell’eventuale tasso di finanziamento, garantendo quindi un vantaggio economico misurabile: fatto tanto più vero quanto più l’azienda costruirà una equity story chiara ed esaustiva. Allo stesso modo, l’uso professionale di messaggi di natura economica e finanziaria può incidere positivamente sulla credibilità e la reputazione dell’impresa tra gli stakeholder interni ed esterni (per esempio, sindacati, reti di vendita, azionisti, fornitori, finanziatori, pubblica amministrazione, operatori economici e sistema dei media). L’uso strategico della comunicazione finanziaria, associata alle altre attività di relazioni pubbliche e di comunicazione, può inoltre favorire eventuali operazioni di natura straordinaria, come le cessioni, le fusioni, gli aumenti di capitale. A questo proposito, non è un caso che negli Stati Uniti la funzione dell’investor relator sia presente anche nelle società non quotate o “quotande”. 4.6 Con Internet cambia il paradigma Si è più volte accennato al fatto che l’arrivo di Internet abbia cambiato il paradigma delle relazioni pubbliche. Un paradigma presente da oltre un secolo e fondato sulla convinzione che, per una organizzazione, sia possibile anzi, utile e necessario- facilitare il raggiungimento dei propri obiettivi negoziando l’approvazione e il consenso di stakeholder e influenti attentamente preidentificati con apposite iniziative relazionali e comunicative. Si è visto, inoltre, come si vada diffondendo un modello operativo a due vie e tendenzialmente simmetrico, in cui sia esplicito il “valore aggiunto relazionale”, non solo per l’organizzazione, ma anche per stakeholder e influenti. La crescita del mercato delle relazioni pubbliche, molto determinata dalle relazioni con i media, è stata però anche legata alla organizzazione di eventi e alla lobby, attività per nulla banali e sempre più sofisticate e complesse, considerando che è assai meno oneroso dialogare con gli opinion leader e affidarsi al loro potere di diffusione e moltiplicazione di opinioni, atteggiamenti e comportamenti, che non avviare un dialogo diretto e personale con i singoli consumatori o utenti attraverso un’azione che deve necessariamente tradursi in pubblicità sui mass media, sempre più costosa e dai risultati sempre più incerti. Prima di affrontare più diffusamente l’impatto specifico di Internet sulle relazioni pubbliche, bisogna sottolineare che questa tecnologia ha cambiato molti paradigmi, e, presumibilmente, molti altri ne cambierà. Difficilmente si può individuare una dimensione della nostra quotidianità che non sia stata modificata (oppure che non possa esserlo) da una sempre più pervasiva applicazione di Internet. Le relazioni pubbliche, si è affermato, aiutano un’organizzazione complessa a raggiungere gli obiettivi perseguiti tramite l’attivazione, il consolidamento, lo sviluppo e il coordinamento dei sistemi di relazione con i suoi pubblici influenti. Si tratta dunque, soprattutto, di comunicazione a due vie, di dialogo e di relazione: questo, si ribadisce, è lo specifico delle relazioni pubbliche rispetto alle altre discipline della comunicazione d’impresa. Abbiamo anche più volte sottolineato che le relazioni pubbliche si differenziano dalle altre discipline perché sono indirizzate prevalentemente agli influenti e non genericamente ai consumatori o comunque alle grandi masse. Ciò comporta che debba essere prestata una particolare attenzione alla natura e all’intensità della relazione fra l’organizzazione e i suoi stakeholder/influenti. La crescente complessità sociale, economica e culturale e la pervasività della comunicazione richiedono oggi alle relazioni pubbliche un orientamento sempre più accentuato verso la “segmentazione” degli stakeholder/influenti di un’organizzazione fino alla loro identificazione unitaria che consenta il trasferimento di messaggi specifici e rilevanti per chi li riceve, capaci di stimolare nei destinatari una reazione, in particolare, un desiderio di relazione interpersonale e interattiva6. La complessità che tale operazione, se venisse applicata trasversalmente ai sistemi di relazione di un’organizzazione, comporterebbe per la progettazione dell’albero relazionale scoraggia, anche dal punto di vista dell’impegno di risorse dedicate, un’applicazione diffusa delle metodologie effettivamente disponibili (per esempio, il Gorel che esamineremo nel Capitolo 6), seppure ciò vada a scapito dei risultati. Di fatto, nell’esercizio quotidiano delle relazioni pubbliche, si tende molto a “tirar via”, a 6 C’è da stigmatizzare il grado in cui i comunicatori contribuiscono all’ulteriore aggravamento dell’inquinamento comunicativo riscontrabile nell’ambiente (reale e virtuale). Tale contribuzione è legata alla tradizionale modalità persuasiva, unidirezionale e asimmetrica della comunicazione: ciò ha favorito - e continua ad incrementare - lo spamming generalizzato di messaggi (on/ off line) che crea un affollamento di media e di messaggi in cui è difficile per un’organizzazione emergere anche investendo considerevoli risorse. La responsabilità del comunicatore sta proprio nell’assunzione di piena consapevolezza e nel conseguente impegno ad operare un progressivo disinquinamento comunicativo attraverso la migrazione verso modalità di comunicazione maggiormente interattive e simmetriche. realizzare iniziative di comunicazione valide per tutti, senza prestare eccessiva attenzione alla segmentazione e prestandone ancor meno al one-with-one7. L’avvento e la diffusione negli anni Ottanta del personal computer ha determinato una forte accelerazione nelle applicazioni del database marketing, inteso come raccolta e utilizzo di informazioni (prevalentemente) sui clienti, grazie alla sensibile e progressiva riduzione del costo e dei tempi di trattamento di tali informazioni. Si sono quindi crescentemente diffuse, inizialmente tra le aziende di servizi finanziari (per esempio, le carte di credito) e di B2B, ma negli anni Novanta anche tra quelle produttrici di beni di largo consumo e nella distribuzione, le iniziative di marketing di relazione (relationship marketing), orientate prevalentemente alla fidelizzazione del cliente. In sintesi: – il database marketing consente - applicando alle informazioni ricavate da azioni di direct response (o acquistabili sul mercato) criteri psicografici di segmentazione del consumatore - di identificare valori, simboli e contenuti, anche informativi, da attribuire al prodotto/servizio offerto per attirare nuovi consumatori. Per esempio, se studiando con attenzione i clienti attuali scopro che il mio prodotto/servizio attira soprattutto giovani ragazzi che amano la discomusic, tenderò a diffondere comunicazione sul mio prodotto nelle discoteche o sui media dedicati a tale genere musicale; – il relationship marketing consente di comprendere quali sistemi di relazione avviare con il cliente per impedire che egli passi al prodotto/servizio concorrente e farlo restare fedele, convinto e moltiplicatore. In proposito, è stato dimostrato che l’acquisizione di un nuovo cliente ha un costo unitario più alto che non una buona manutenzione della relazione con un cliente esistente. Inoltre, se il cliente esistente riesce a essere attivato, attraverso i canali di relazione più vari, fino a farlo diventare “evangelista” del prodotto, il valore aggiunto ricavato dal cliente fedele e convinto sarà infinitamente superiore a quello di un cliente nuovo. Verso la metà degli anni Novanta, alcuni studiosi e operatori italiani (Carlo Alberto Pratesi, Jerry Iasevoli, Giorgio Eminente) hanno percepito la portata potenziale di un’applicazione del relationship marketing allo specifico delle relazioni pubbliche. Le nuove tecnologie consentono infatti, a costi contenuti e comunque decrescenti, di raccogliere, trattenere, organizzare e rendere immediatamente disponibili e utilizzabili ragguardevoli quantità di informazioni, continuamente aggiornate, non solo sui consumatori ma anche sui cosiddetti pubblici influenti, sulla loro identità e sulle loro opinioni, i loro atteggiamenti, i loro comportamenti e decisioni relative a questioni di specifico interesse per un’organizzazione. In questo modo, prescindendo dalle rilevanti questioni che si aprono in merito al rispetto e alla tutela della privacy, si moltiplica il valore aggiunto di almeno due delle quattro macrofasi del flusso delle relazioni pubbliche: – l’ascolto iniziale, per decidere come avviare la relazione e cosa comunicare affinché la relazione diventi interattiva; – l’ascolto successivo al trasferimento dei messaggi, per verificare se la comunicazione ha raggiunto i suoi obiettivi, nonché per rimettere a punto e riavviare il ciclo. Abbiamo fin qui descritto l’impatto delle nuove tecnologie dell’informazione sulle relazioni pubbliche in un periodo che arriva alla metà degli anni Novanta, non considerando, per il momento, le conseguenze prodotte dall’applicazione di Internet. Non cambiano, in questo lasso di tempo, la seconda e la terza macrofase del flusso delle relazioni pubbliche: quella della progettazione e quella del trasferimento dei messaggi. 7 La “comunicazione a” (one-to-one) enfatizza il ruolo dei media ritenuti - oggi più che mai in passato - potenti e influenti canali di trasmissione dei messaggi ai pubblici influenti. La “comunicazione con” (one-with-one), viceversa, pone l’accento su modalità di relazione quasi-diretta con i singoli pubblici influenti, riflesso del processo di disintermediazione delle relazioni pubbliche dalla comunicazione di massa. Il “rumore di fondo” dei media, il “diluvio informativo”, l’esplosione della cultura dell’immagine negli anni Ottanta e della comunicazione apparente negli anni Novanta, la pervasività crescente della comunicazione di massa hanno finito per determinare nei destinatari una sorta di “mitridatizzazione” e di assuefazione. I livelli di saturazione hanno raggiunto picchi sempre più elevati, al punto che, come si è visto, la questione di fondo per le organizzazioni si è ormai spostata dalla conquista dello share of voice a quella dello share of mind. Il perdurare e il crescere di questo fenomeno hanno causato problemi sostanziali alla comunicazione organizzativa nel suo insieme, oltre che alle relazioni pubbliche. Infatti, “catturare” l’attenzione dello stakeholder-influente, per sua natura più esposto di una persona comune ai messaggi delle organizzazioni, è diventato un esercizio sempre più complicato, che richiede risorse creative ed economiche crescenti rispetto a una offerta, almeno dal punto di vista della creatività, per lo meno stabile, quando non in calo. Sempre più frequentemente le aziende - ma ormai non esiste organizzazione complessa (ente, associazione, circolo, gruppo di pressione) che non si affanni ad alzare il volume della comunicazione con i suoi interlocutori hanno ceduto alla tentazione di passare (per usare una terminologia appropriata, parlando di Internet) da metodologie pull (ascolto e dialogo) a metodologie push (pressione unidirezionale). Con il risultato di complicare ulteriormente la situazione, elevare la soglia minima di credibilità dei messaggi, allargare la distanza fra i soggetti, rendendo sempre più difficile, quando non impossibile, lo sviluppo di una relazione a due vie, che, come abbiamo visto, rimane comunque la caratteristica specifica delle relazioni pubbliche. È a questo punto che arriva Internet. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con le sue applicazioni, sia reali sia potenziali, può facilmente comprendere che Internet consente alle relazioni pubbliche di saldare le quattro macrofasi. Vediamo come. È verosimile che gli stakeholder possano essere utenti di Internet e quindi possano decidere di collegarsi in Rete con l’organizzazione. Sicuramente in Internet è possibile la identificazione fino al limite di consentire, tramite password differenziate, a ogni singola persona un accesso del tutto personalizzato ed esclusivo a informazioni mirate, stabilendo con essa una interazione one-with-one. Resta saldo il principio base secondo cui è lo stakeholder ad avere (o a ritenere di avere) il titolo, a determinate condizioni, per interloquire con l’organizzazione e, quindi, verosimilmente l’interesse e il desiderio di farlo. Il pieno e integrale utilizzo dell’ambiente Internet consente quindi ad ogni organizzazione, con investimenti relativamente contenuti, la possibilità di attivare, consolidare, sviluppare e coordinare i sistemi di relazione con gli stakeholder per facilitare il raggiungimento dei suoi obiettivi. Non è un caso, peraltro, che l’utilizzo più comune di Intranet nelle organizzazioni complesse sia oggi orientato a facilitare le relazioni all’interno dei e fra i diversi segmenti di persone che fanno parte di una azienda. Le implicazioni operative di una tale fattibilità sono moltissime. Per esempio, in una situazione del genere è implicito che l’obiettivo primario della funzione di relazioni pubbliche di un’organizzazione diventa quello di riuscire a negoziare con gli influenti il loro volontario trasferimento al ruolo di stakeholder. Un ruolo che garantisce, attraverso una semplice password, la possibilità di esercitare il proprio titolo e accedere ad un ambiente virtuale, interattivo e personalizzato, di dialogo e relazione con l’organizzazione. Questo ragionamento, si intende, nulla dice su come si riesca a negoziare con l’influente il suo volontario passaggio al ruolo di stakeholder, ma permette facilmente di comprendere come l’impatto sulle modalità e sulle tecniche tradizionali delle relazioni pubbliche sia fortissimo8. In primo luogo, l’operatore utilizzerà per gli stakeholder tecniche, moduli, toni, contenuti e messaggi diversi da quelli adottati con gli influenti. Mentre, infatti, con i primi potrà affrontare direttamente le questioni che lo interessano, contando sull’attenzione già acquisita, ai secondi dovrà trasferire messaggi “rilevanti per loro”, cercando di catturarne l’interesse. Idealmente, le quattro macrofasi delle relazioni pubbliche e l’intero ciclo delle 8 Tramite un intelligente utilizzo di Internet è possibile integrare efficacemente gli sforzi nell'ambiente reale ed in quello virtuale per: - continuare ad utilizzare la comunicazione asimmetrica ed unilaterale (one-to-one) verso i destinatari finali; - favorire una comunicazione persuasiva e multilaterale (one-with-few) con coloro che influiscono sulle variabili e sui destinatari finali; - sostenere e incoraggiare una comunicazione pienamente simmetrica e bidirezionale (one-with-one) con gli stakeholder attivi. microfasi del Gorel (si veda il Capitolo 6) nello spazio virtuale di Internet trovano una piena e armonica composizione. Verosimilmente, non si arriverà mai a questi estremi e la fredda meccanicità dell’insieme non rende in alcun modo auspicabile che ciò avvenga. Quando si parla di “relazione”, infatti, bisogna sempre tenere presente che la più efficace è quella diretta, personale e face to face. Reale, dunque, non virtuale. Quest’ultima, in molti casi, serve solo come supporto. Nonostante ciò, le implicazioni sono rilevanti. Si pensi soltanto che, per esempio, se le relazioni con i media servissero realmente alle relazioni pubbliche soprattutto per informare e orientare, tramite i giornalisti, gli influenti e se fosse vero che trasformando gli influenti in stakeholder questi si convincerebbero a integrarsi in una rete virtuale con l’organizzazione che avvia il dialogo, le stesse relazioni con la stampa perderebbero una parte considerevole della loro importanza attuale (reale o percepita…), assumendo un ruolo di semplice, ma autorevole, conferma di ciò che gli stakeholder hanno già saputo direttamente dall’organizzazione, con tutte le implicazioni che questo comporterebbe. Ma, come ormai è accertato, l’arrivo di Internet non determina la sostituzione delle normali attività di relazioni pubbliche, allo stesso modo in cui non sostituisce il giornale o il negozio sotto casa. Tuttavia, adottando un approccio minimalista, anche per evitare gli strali dei tanti luddisti9 che operano nelle relazioni pubbliche, nello stesso modo in cui i giornali e il negozio sotto casa devono ormai considerare come variabile prioritaria le applicazioni di Internet, che decidano o meno di adottarle, anche gli operatori delle relazioni pubbliche devono prendere atto che con Internet è intervenuta una forte “discontinuità” metodologica e che le implicazioni, anche operative, di questa discontinuità sono di grande portata. Di seguito, verranno indicati sinteticamente alcuni aspetti rilevanti che caratterizzano il rapporto tra Internet e l’attività di relazioni pubbliche. 1) Per molti operatori delle relazioni pubbliche, Internet oggi è: – una vetrina must (come non essere in Internet?); – un “altro” canale di comunicazione per fare arrivare informazioni senza particolari costi di stampa e di distribuzione a tante persone. 2) Per coloro che, invece, hanno assimilato la visione delle relazioni pubbliche come governo delle relazioni, simmetriche e a due vie fra una organizzazione e i suoi pubblici influenti, Internet rappresenta un ambiente relazionale completamente nuovo, con regole nuove (ancora da esplorare e definire), che offre al relatore pubblico straordinarie opportunità operative. 3) Per iniziare a capire e applicare questa opportunità operativa con efficacia è però necessario: – riconoscere che il potenziale di Internet per le relazioni pubbliche è ancora da esplorare; – esplorare e imparare a fondo le tante applicazioni di Internet già disponibili; – conoscere il concetto e la pratica della comunicazione integrata (in tutte le sue accezioni). A che punto è oggi l’applicazione di Internet alle relazioni pubbliche? Sicuramente ci troviamo ancora in una fase iniziale, di scarso utilizzo. Solo eccezionalmente Internet viene sfruttato per: – prevenire e/o gestire una crisi; – identificare e/o monitorare le dinamiche di una issue rilevante; – comunicare interattivamente attraverso specifiche “e-lettere” inviate a pubblici specifici; – inserirsi, monitorare e/o intervenire nei gruppi di conversazione rilevanti; 9 Luddismo indica la tendenza (in molti casi evidente anche in operatori di relazioni pubbliche) ad osteggiare le nuove tecnologie e tutto ciò che comporta dei rischi per il normale evolversi della natura. Il termine deriva da Ned Ludd (la cui identità è però incerta): da lui la pratica di violenze e distruzione contro gli impianti industriali che si diffuse in Gran Bretagna nei prime due decenni dell’Ottocento. – comunicare, anche “uno-con-uno”, attraverso Intranet o Extranet. La regola è costituita ancora dalla comunicazione a una via e asimmetrica. Il fatto di utilizzare, almeno inizialmente, una nuova piattaforma tecnologica per fare, in modo diverso, le stesse cose che già si facevano prima rientra comunque nella norma e non deve quindi stupire. L’applicazione più comune di Internet, dopo la posta elettronica, è il sito istituzionale di una organizzazione: “Ma come… non sei in Internet?”. Raramente però in un’organizzazione il sito Internet rappresenta un’iniziativa delle relazioni pubbliche. All’inizio, la creazione del sito veniva promossa soprattutto dai sistemi informativi, poi dal marketing, infine dal top management. E ultime le rp, alle quali viene normalmente demandato il compito di assicurare la messa in rete dei discorsi dei manager e dei comunicati alla stampa. L’interattività (quando possibile) si attua solo via e-mail ed è raramente affidata alle rp, con risposte quasi sempre tardive. L’impostazione più frequente è di tipo comunicativo, non relazionale, a una via e asimmetrica. L’efficacia viene misurata, se viene misurata, sulla base degli Hits (eufemisticamente: How Idiots Track Success). Così, non si conosce l’identità di chi accede al sito, non si sa se quello che ha trovato è soddisfacente e neppure cosa stesse cercando. Una situazione che deve necessariamente essere modificata. In Italia, ormai molti milioni di persone frequentano la Rete e interagiscono con le organizzazioni, quando vogliono e come vogliono, anche quando queste non ci sono. Infatti, in Internet ciascuno può essere editore o giornalista. Ogni persona può influenzarne altre su idee, servizi e prodotti, senza alcun intervento dell’organizzazione (nei blog, nei gruppi di conversazione, nei siti dei fan club). Tutti possono organizzare, aderire o promuovere boicottaggi, e raccontare in Rete notizie false, essendo creduti (almeno da qualcuno!). La comunicazione è cambiata per sempre, e occorre prenderne atto interagendo con Internet in modo pienamente consapevole. L’integrazione fra tutte le possibili applicazioni di Internet – e quelle che verranno, poiché non abbiamo ancora visto nulla – in una visione generale della Rete come ambiente relazionale, e non come media o strumento, insieme a un’interpretazione del ruolo delle relazioni pubbliche nel senso suggerito dal quarto modello di Grunig (si veda il Capitolo 5) consentono di prevedere un grande futuro per il mestiere più bistrattato e, forse anche per questo, più stimolante e intrigante che esista. 5. I quattro modelli delle relazioni pubbliche 5.1 Il modello di Barnum (o della propaganda) James Grunig, docente presso l’Università del Maryland ha, fra gli altri, il grande merito di avere identificato quattro diversi “modelli” di pratica delle relazioni pubbliche. Si tratta di modelli suggestivi che ancora oggi convivono all’interno di un’unica organizzazione e che aiutano anche a ripercorrere e comprendere le principali dinamiche attraverso cui si sono sviluppate le relazioni pubbliche nel corso del XX secolo1. Il primo modello è quello della press agentry o publicity, largamente presente nella pratica odierna, proposto nella seconda metà dell’Ottocento da Phineas T. Barnum, un imprenditore dello spettacolo – proprietario di circo – famoso per la creatività con cui inventava storie sui suoi animali e sulle sue creature2 che faceva pervenire ai giornali locali qualche giorno prima del suo arrivo in città al fine di attirare curiosità e attenzione. Oggi, non c’è attore, sportivo, cantante, imprenditore “di grido”, politico, che non abbia un press agent o “portavoce”. Una legge dello Stato, la 150/2000 ne codifica addirittura la funzione nell’ambito della amministrazione pubblica. Questo modello fa leva sulla fantasia, la creatività e, soprattutto, sulla relazione del press agent con il “giornalista”, per “occupare” spazi sui media e, indirettamente, attirare l’attenzione del pubblico senza necessariamente porsi l’obiettivo del consenso o della comprensione. Pur esaltando il ruolo dei media, il modello testimonia una considerazione limitata dell’autonomia professionale del giornalista e della sua funzione di “quarto potere” a tutela dell’integrità del lettore in una moderna democrazia rappresentativa. Si pensi per esempio alla cosiddetta “politica dell’annuncio”, che ancor oggi prevale in molte organizzazioni, società finanziarie e, soprattutto, forze politiche e di governo. Secondo questa politica, per diffondere una notizia non è necessario che sia vera, cioè effettivamente accaduta. L’importante è che sia verosimile. Infatti, anche se la notizia in un secondo momento si rivelasse falsa, difficilmente un giornale la recupera per avvertire i lettori dell’errore commesso e, nei pochi casi in cui lo fa (per legge o per convinzione), in genere ciò avviene dopo molto tempo e, comunque, lo spazio dedicato alla rettifica è minimo. Si tratta evidentemente di un modello a una via3 (l’informazione viaggia dal press agent al giornalista) e asimmetrico4 (il giornalista dipende, sotto molti aspetti, dal press agent). Si consideri il 1 In realtà, sebbene i 4 modelli di Grunig siano del 1984, i primi pioneristici tentativi di razionalizzazione delle relazioni pubbliche appaiono già nel 1948 a opera dello storico Goldman il quale contrappone due periodi differenti: l’era di “the public be fooled” corrispondente all’incirca con il modello di Barnum e l’era di “the public be informed” corrispondente grosso modo al modello di Lee. 2 Si devono alla creatività di Barnum: la “donna cannone”, Jumbo l’elefante, i “gemelli siamesi” e altre caratterizzazioni. 3 Anche la semplice differenza tra comunicazione a una e a due vie è stata elaborata in testi precedenti, come quello di Cutlip e Center (1952) 4 La distinzione tra uni/bidirezionalità e asimmetria/simmetria indica rispettivamente la direzione della comunicazione e il suo fine. La comunicazione a una via trasferisce informazioni (monologo), mentre quella a due vie le scambia (dialogo). La comunicazione asimmetrica è sbilanciata in favore di uno dei soggetti e si propone di modificare opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni con attività anche retoriche persuasive, mentre la comunicazione simmetrica, poggiandosi su di una relazione più equilibrata e tendenzialmente simmetrica, si propone la comprensione reciproca delle aspettative dei successo crescente dei media del “pettegolezzo”: settimanali dedicati, ma anche rubriche di notizie mondane su periodici, quotidiani, radio e TV – ormai stabilmente presidiate dalle gesta di politici, imprenditori e finanzieri equiparati alle celebrities dello spettacolo – riportano informazioni verosimili intorno ad amori, ambizioni, risultati, progetti, alleanze dei protagonisti delle cronache, basandosi nel 90% dei casi almeno, su fonti costruite proprio dai press agent. Chiunque frequenti gli ambienti da cui quelle notizie, dichiarate certe e (quasi) mai smentite, provengono sa bene che sono per lo più inattendibili. Ma la maggior parte dei lettori non frequenta quegli ambienti e quindi non sa se ritenere quelle notizie attendibili (le ricerche sociali indicano una caduta tendenziale della credibilità dell’informazione giornalistica). Inoltre, per il semplice fatto di essere pubblicate in un certo modo piuttosto che in un altro, svolgono sovente la funzione di segnali di fumo, sotterranei e segreti decifrabili soltanto da raffinati esegeti o dagli stessi protagonisti. In sostanza, il giornalista che pubblica quasi esclusivamente informazioni riferite dai press agent si presta a una sorta di gioco “occulto” (talvolta ne è invece pienamente consapevole e complice, quando non autore) che si propone di spostare e modificare equilibri di potere, contratti, azioni di Borsa o, più semplicemente, giochi di coppia più o meno arditi. Fino ai primi anni Ottanta, questo esercizio riguardava soprattutto cantanti, attori e autori, poiché imprenditori, finanzieri, prelati, accademici, politici lo ritenevano abbastanza disdicevole e, salvo eccezioni, tendevano a “stare lontano dai riflettori dell’opinione pubblica”. Alcuni evitavano i giornalisti per continuare a gestire i propri affari senza dover rispondere a troppe domande, altri invece li schivavano solo per una legittima questione di pudore e di educazione, oppure perché ritenevano di non custodire alcunché di interesse pubblico. Negli anni Ottanta si inseguirono la crescita vertiginosa del sistema dei media (soprattutto della televisione commerciale), i consumi di massa, l’esaltazione acritica dei “capitani di ventura” del capitalismo e della politica nazionale, la crescita degli scambi azionari in Borsa, l’inevitabile influenza proveniente dai mercati internazionali; il tutto integrato con la diffusa volontà nella nostra classe dirigente di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dall’inarrestabile crescita del debito pubblico dovuta a forme deteriori di consociativismo tollerate per nascondere quanto sarebbe poi emerso dai successivi processi dell’inchiesta “mani pulite”. In tale clima si era sviluppata quella che, in termini clinici, si chiama “sindrome della visibilità”, ancora oggi (più che mai!) largamente diffusa: il protagonista esiste in quanto è visibile sul sistema dei media, se non è sui giornali non esiste. È l’apoteosi del modello di Barnum, della “comunicazione apparente”, secondo una definizione coniata dall’associazione culturale romana Correnti (stimolante palestra intellettuale per molti giovani relatori pubblici). In tutto il mondo questo è il modello di press agentry che, nell’immaginario collettivo, viene più comunemente associato alle relazioni pubbliche e che lo stesso Grunig, pur avendolo razionalizzato, considera il “frutto avvelenato” che gli Stati Uniti, attraverso il dominio economico e politico del mondo negli ultimi cinquant’anni e più recentemente attraverso la globalizzazione, hanno esportato ovunque contribuendo ad attribuire alla professione un’identità discutibile e ambigua. 5.2 Il modello di Lee (o dell’informazione) Il secondo modello è quello che sempre Grunig definisce della “public information”, avviato agli esordi del XX secolo da Ivy Ledbetter Lee, uno dei padri fondatori delle relazioni pubbliche. Anche in tale modello, la funzione del relatore pubblico è quella di produrre informazioni e diffonderle ai giornalisti. soggetti della relazione con la negoziazione di obiettivi operativi realisticamente perseguibili. Entrambi sono importantissime per le relazioni pubbliche. In questo caso, però, le informazioni riguardano fatti realmente accaduti e verificabili dal giornalista al quale viene riconosciuto il diritto “di sapere”, in quanto rappresentante dell’opinione pubblica. Si tratta di una parziale vittoria dei “muckracker” (giornalisti progressisti che nei primi anni del Novecento attaccano i grandi capitalisti e banchieri), di un modello che tende ad affermarsi anche grazie alla crescente influenza dei giornali sulle decisioni politiche. Lee sostiene, ovviamente, che le informazioni trasferite al giornalista devono anche essere esplicitamente e consapevolmente orientate a influenzare l’opinione pubblica a favore degli obiettivi dell’organizzazione committente. Se, per esempio, un relatore pubblico è disposto a comunicare al giornalista quanti siano i morti effettivi di un incidente sul lavoro poiché il pubblico ha il diritto di sapere, egli deve far sì che l’informazione sia costruita e trasferita in modo da sottolineare gli sforzi compiuti dall’impresa committente per evitare l’incidente, indicare le eventuali carenze legislative se ci sono, ed evitare accuratamente – informando che è stata messa a disposizione una somma di denaro per andare incontro alle prime esigenze dei parenti delle vittime – di fare pensare che l’impresa si ritenga responsabile dell’incidente. Attualmente il modello di Lee è diffuso prevalentemente nella parte più avanzata del settore pubblico e delle istituzioni, oltre che fra gli operatori economici e finanziari più avveduti. Il ruolo del giornalista, in questo caso, è di chiedere e ricevere informazioni il più dettagliate possibile, valutarle, interpretarle e decidere se, e come, renderle note ai suoi lettori, nel rispetto di determinate regole condivise. Fra il relatore pubblico e il giornalista si stabilisce in questo caso una relazione di fiducia e interdipendenza che si interrompe quando: – – il relatore pubblico fornisce al giornalista informazioni non fondate, confidando nel fatto che, anche grazie alla fiducia precedentemente conquistata, questi non compia ulteriori verifiche; il giornalista, in modo improprio, pubblica informazioni riservate oppure, senza autorizzazione, le attribuisce esplicitamente alla fonte. Anche quello di Lee è un modello a una via (chi comunica persegue soltanto il suo obiettivo e si preoccupa di soddisfare le supposte aspettative del giornalista), ma è assai meno asimmetrico del primo. Infatti, il giornalista non è soltanto uno strumento nelle mani della fonte che controlla la relazione, poiché gli viene riconosciuto un ruolo di tutela dell’interesse dei suoi lettori. 5.3 Il modello di Bernays ( della persuasione scientifica) Il terzo modello, impersonato – per gran parte del secolo scorso – da Edward Bernays ancora oggi prevale nelle grandi imprese internazionali e, da qualche tempo, anche in quelle italiane: è un modello maggiormente orientato alla relazione a due vie, è però ancora piuttosto asimmetrico. Questo modello assume integralmente i parametri delle discipline psicologiche e sociologiche e si propone la “persuasione scientifica” di determinati segmenti di pubblici influenti, in funzione degli obiettivi dell’organizzazione. A differenza dei precedenti, quindi, non si rivolge solo ai giornalisti, ma anche agli opinion leader e perfino ai consumatori finali. Alla base delle elaborazioni di Bernays sono, soprattutto, le opere di suo zio Sigmund Freud, di Walter Lippman e di Gustave Le Bon. Il modello proposto prevede un intenso uso delle ricerche sociali (sondaggi di opinione e focus group) e, in tal senso, si può considerare un modello a due vie: l’interlocutore viene infatti effettivamente “ascoltato”. Tuttavia, si tratta di un modello ancora asimmetrico, poiché l’ascolto viene valutato esclusivamente come informazione che permette di ottenere una persuasione scientifica, in funzione di obiettivi unilateralmente decisi e non negoziati preventivamente con l’interlocutore, del quale il relatore pubblico presume di conoscere il “bene”. Il modello di Bernays assume un carattere quasi ideologico nella misura in cui teorizza che le relazioni pubbliche, per il fatto di essere tali, rappresentano comunque un bene per la società e per i pubblici influenti. Per la prima volta, si sostiene che le relazioni pubbliche non devono essere rivolte esclusivamente ai giornalisti o ai decisori pubblici (lobby) e si riconosce infatti che il pubblico viene influenzato anche dai gruppi di pressione e, soprattutto, dagli opinion leader. Ottimo scrittore e divulgatore, ma soprattutto abilissimo professionista e straordinario creativo, Bernays investe una larga parte della sua vita (ha vissuto per 103 anni e, fino all’ultimo, è stato consulente di relazioni pubbliche per una tariffa di 1.000 dollari l’ora!) nel tentativo di capire come identificare i moltiplicatori, gli opinion leader e persuaderli ad esprimere comportamenti e opinioni volti a influenzare l’opinione pubblica attraverso i media, ma anche attraverso i grandi eventi e l’orientamento del processo decisionale pubblico. Egli inventa e, con enorme successo, diffonde in tutto il mondo quelle marketing public relations che tanto impatto hanno avuto sull’evoluzione dei consumi e dei comportamenti del consumatore. Bernays non solo ha reso il lavoro del relatore pubblico più complesso ed efficace, allargando la rosa dei suoi interlocutori anche agli opinion leader, ma ha elaborato e fornito metodi, strumenti e numerosi esempi operativi che consentono di identificare ed entrare in relazione con gli opinion leader, per influenzarli a orientare le scelte del consumatore finale, e raggiungere quindi, con il minor sforzo possibile, gli obiettivi perseguiti dall’organizzazione. 5.4 Il modello di Grunig (o della negoziazione) Il quarto modello, detto di Grunig, dal nome dell’accademico americano che lo ha razionalizzato, è un modello a due vie come quello di Bernays, ma tendenzialmente più simmetrico. È un modello che postula l’importanza preventiva dell’ascolto per le organizzazioni, da realizzare prevalentemente tramite la ricerca sociale e l’attenta analisi e identificazione dei soggetti influenti, definiti publics. Si tratta di un ascolto non orientato solamente alla costruzione di messaggi efficaci da trasferire in funzione di obiettivi specifici dell’organizzazione, come era nel caso di Bernays, ma anche e soprattutto volto ad aiutare l’organizzazione stessa ad ottenere un posizionamento dinamico dei suoi sistemi di relazione con gli stakeholder o gli influenti, perseguendo fini che tengano anche conto dei loro interessi e valori, incorporandoli nei propri. Il professionista delle relazioni pubbliche assume così anche il ruolo di “interprete attivo”, sia pure sempre ed esplicitamente di parte, dei pubblici influenti dell’organizzazione per la quale agisce e opera al fine di attivare e sviluppare quel dialogo, quella reciproca comprensione, che consente all’organizzazione di raggiungere più agevolmente i suoi obiettivi, proprio perché permette ai pubblici influenti di ricavarne un percepibile ed effettivo valore aggiunto. Per qualsiasi organizzazione, infatti, si apre una “questione” di relazioni pubbliche quando si ritiene che una sua decisione possa produrre conseguenze su altri soggetti (interni o esterni) oppure che, viceversa, il comportamento di altri soggetti (interni o esterni) possa produrre conseguenze sulle modalità con cui l’organizzazione opera. Le relazioni pubbliche, dunque, intervengono in relazione a eventuali conseguenze che possono derivare sia dai comportamenti dei pubblici influenti sia dai comportamenti dell’organizzazione stessa. Secondo il modello di Grunig, le relazioni pubbliche contribuiscono a rendere più efficaci le attività di una organizzazione soltanto se, e quando, permettono di conciliare le sue finalità con le aspettative (anche latenti) dei suoi pubblici influenti, costruendo con loro sistemi di relazione di qualità e a lungo termine. Infatti, sostiene Grunig, fiducia e credibilità dei pubblici influenti sono le caratteristiche fondamentali che permettono all’organizzazione di esistere. È quindi la relazione (e non la comunicazione in quanto tale) che diventa l’aspetto chiave di relazioni pubbliche efficaci; una relazione che può essere misurata ricorrendo a indicatori attinenti al processo e, soprattutto, riguardanti i risultati. Da soli, infatti, i primi sono poco rilevanti, seppure comunque utili a monitorare l’eventuale raggiungimento dei risultati desiderati. Per quanto riguarda la misurazione di questi ultimi, invece, ci si è finora basati soprattutto su tecniche quanti-qualitative di esposizione ai messaggi dei pubblici influenti e quindi sui mutamenti che intervengono nella loro conoscenza, nelle loro attitudini e nei loro comportamenti. Se però, come sostiene Grunig, è vero che le relazioni pubbliche di successo costruiscono relazioni a due vie e tendenzialmente simmetriche, occorre anche essere in grado di accertare se una relazione permette di realizzare cambiamenti anche all’interno dell’organizzazione, e non solo nei suoi pubblici influenti.5 Alla luce di queste considerazioni, si può affermare che una organizzazione efficace comprende tra le proprie finalità (missione, visione, valori guida e strategia) anche i valori di almeno alcuni suoi pubblici influenti, tenendo ovviamente conto del fatto che organizzazioni differenti hanno pubblici influenti differenti, i quali a loro volta esprimono valori diversi. L’organizzazione efficace persegue dunque il tragitto dalla missione (ciò che è e che fa) alla visione (ciò che vuole diventare), sviluppando una strategia capace di integrare i propri valori con quelli dei suoi pubblici influenti. Fin qui, Grunig. Ma – proseguiamo noi – i pubblici influenti di un’organizzazione si articolano in stakeholder (soggetti consapevoli di avere un titolo a interessati a interloquire) e influenti (soggetti ritenuti strategici dall’organizzazione, ma non consapevoli e neppure particolarmente interessati al ruolo di stakeholder). Con i primi, l’organizzazione sviluppa relazioni dirette, a due vie e simmetriche, tenendo conto che si tratta di soggetti consapevoli di avere titolo e, quindi, prevedibilmente interessati a una relazione non effimera, imperniata, in molti casi, sulla tematizzazione di argomenti direttamente attinenti alla fonte emittente. Rispetto agli influenti, invece, l’organizzazione si propone di tematizzare questioni a loro attinenti e per loro rilevanti (ovviamente rilevanti anche per l’emittente), così da convincerli progressivamente a “migrare” verso la categoria degli stakeholder e verso una relazione simmetrica a due vie. L’implicazione operativa, estremamente importante, di questo ragionamento è che, nello svolgimento delle sue attività, il relatore pubblico dovrà tenere conto non solo del fatto che ciascun obiettivo perseguito è influenzato da pubblici diversi, ma anche che per ogni obiettivo va realizzata una segmentazione trasversale del pubblico rilevante, ovvero distinguere gli stakeholder dagli influenti, per sviluppare con ciascun segmento argomentazioni diverse. Si tratta della base teorica dello stakeholder relationship management. 5 Criteri generalmente condivisi per la misurazione e la valutazione di una relazione (Y.H. Huang, 1997) sono: - control mutuality: il livello di governo sulla relazione che i partecipanti alla stessa sono reciprocamente disposti a cedersi; - trust: il livello di fiducia che i partecipanti ripongono nella relazione stessa; - commitment: il livello di impegno e di responsabilità che le parti sono disposti ad investire nella relazione; - satisfaction: il livello di soddisfazione che le parti hanno nella relazione; Tali criteri sono stati ripresi anche dallo stesso Grunig per una possibile misurazione e valutazione dei sistemi relazionali sia con metodi quantitativi (Grunig e Hon, Guidelines for Measuring Relationships in Public Relations, 1999) che qualitativi (Grunig, Qualitative Methods for Assessing Relationships between an Organizations and its Publics, 2000). Sulla base anche di questi lavori la Edelman worldwide ha realizzato nel 2003 un Relationship Index per valutare la qualità della relazione tra organizzazioni e stakeholder e per misurare l’efficacia dei programmi di relazioni pubbliche. 6. Il governo delle relazioni (stakeholder relationship management) 6.1 Una metodologia operativa Il ruolo delle relazioni pubbliche risulta essenziale anche, quando non soprattutto, nel coordinamento dell’insieme dei sistemi di relazione di un’organizzazione. In questo senso, una delle funzioni svolte dal relatore pubblico è quella di “quadrante”, di indicatore dinamico, capace di assicurare un governo coerente delle relazioni di un’organizzazione con gli stakeholder. In particolare, per un’organizzazione, i ruoli più rilevanti delle relazioni pubbliche sono quelli di: – – “monitorare” attivamente, con modalità coerenti e condivise dalla “coalizione dominante”, le dinamiche dei sistemi di relazione tra l’organizzazione e i suoi stakeholder, adottando strumenti di rilevazione costante capaci di segnalare, attraverso indicatori preconcordati, le performance relazionali rispetto alle finalità e agli obiettivi perseguiti; assistere le altre funzioni di direzione nello sviluppo di modalità di interlocuzione, di trasferimento dei messaggi, di verifica e valutazione dei loro sistemi di relazione con i rispettivi stakeholder. Si tratta, rispettivamente, del ruolo “riflessivo” e di quello “educativo”, così come sono stati recentemente descritti da Van Ruler e Vercic nel Bled Manifesto o, se si preferisce, del duplice volto di quel ruolo “strategico” di cui parla Grunig. La metodologia di base che presentiamo investe frontalmente e integra due ulteriori ruoli più tradizionali, suggeriti dagli autori del Manifesto e da Grunig, quello “manageriale” e quello “operativo”, e si richiama, coerentemente, alle quattro macrofasi operative delle relazioni pubbliche già descritte in precedenza, integrando anche quel poco che ancora si può dire della integrazione delle relazioni sia nell’ambiente reale che in quello virtuale di Internet. Ed è per questo che si chiama Gorel (governo delle relazioni, in inglese relationship management), una sorta di “canovaccio base”, che consente di affrontare e razionalizzare le diverse fasi in cui si attuano le attività di relazioni pubbliche. Un canovaccio che, per definizione, è in divenire e che ciascun operatore deve di volta in volta adattare alle specifiche circostanze in cui agisce. Così, per esempio, se su una determinata questione di relazioni pubbliche si intende applicare il modello interattivo e tendenzialmente simmetrico di Grunig, sarà indispensabile avviare il percorso con modalità diverse rispetto a quelle adottate in una situazione in cui, per svariate ragioni, si decide di applicare il modello delle persuasione scientifica di Bernays. Grunig, infatti, prevede che un’organizzazione ascolti i propri stakeholder rilevanti anche prima di definire gli obiettivi specifici da perseguire. Per Bernays invece, così come per il marketing in generale, la fase di ascolto degli influenti si realizza dopo la definizione degli obiettivi perseguiti. Bisogna inoltre tenere conto del fatto che né l’uno né l’altro, come avviene invece per il Gorel, distinguono fra influenti (sulle variabili e sui destinatari) e stakeholder (attivi e potenziali). La differenza fra questi approcci è rilevante ed ha molto a che vedere con la natura stessa della situazione in cui le relazioni pubbliche sono chiamate a intervenire. Secondo una distinzione di carattere molto generale, si può affermare che sia preferibile applicare il modello di Bernays per affrontare le problematiche attinenti specificamente a situazioni di mercato, soprattutto (ma non solo) per i beni di largo consumo e per le relazioni con i consumatori a diretto supporto di attività di marketing. Le problematiche più corporate o istituzionali, invece, vanno preferibilmente affrontate applicando il modello di Grunig. 6.2 Il visioning La prima fase del Gorel consiste nell’identificazione delle finalità che sono alla base della stessa esistenza di una organizzazione: • la missione (chi siamo oggi, cosa facciamo); • la visione (dove vogliamo essere fra tre-cinque anni); • la strategia (come intendiamo passare dalla missione alla visione); • i valori guida (quali regole condivise intendiamo applicare nell’attuazione della strategia). La responsabilità dell’attività di “envisioning”, come viene definita in gergo manageriale questa fase, è solitamente affidata al vertice dell’organizzazione e frequentemente rappresenta il prodotto di un lavoro collettivo di tutti i responsabili delle funzioni chiave (coalizione dominante). Il coordinamento può essere di volta in volta avocato dal responsabile esecutivo, da quello operativo, dalle relazioni pubbliche o, infine, dalle risorse umane o dal marketing. Molto dipende dalla specifica cultura dell’organizzazione. È comunque fondamentale che il responsabile delle relazioni pubbliche sia parte integrante di questa fase iniziale, per ragioni che verranno chiarite nel prosieguo della trattazione. 6.3 Gli stakeholder Se il risultato raggiunto nella prima fase del Gorel (envisioning) viene condiviso all’interno della coalizione dominante, ha inizio la seconda fase, che consiste nell’identificare e ascoltare gli stakeholder più importanti, quei soggetti consapevoli di avere titolo per interloquire e che sono interessati a farlo, ovvero i soggetti i cui comportamenti, opinioni e decisioni possono accelerare o ritardare l’attuazione della strategia nel passaggio dalla missione alla visione. Normalmente, questi stakeholder “attivi” sono i dirigenti, i dipendenti, gli azionisti, i principali fornitori, gli alleati, le istituzioni, alcuni media, i distributori, i sindacati, le organizzazioni della società civile rilevanti (consumo, ambiente, salute, territorio), e anche gli antagonisti. Insomma, tutti coloro che contribuiscono a legittimare socialmente1 l’organizzazione e provvedono ad attribuirle, o a contestarle, quella che si potrebbe definire “licenza di operare” nella società. Ciascuna organizzazione, tenendo conto della prima fase, individuerà stakeholder verosimilmente diversi. 1 La legittimazione sociale di qualsiasi organizzazione è subordinata alla sua capacità di soddisfare le aspettative dei pubblici influenti rispetto alle sue finalità istituzionali, dopo averli ascoltati in maniera preventiva e avere incluso – se ritenute accettabili – tali aspettative nel processo di definizione dei suoi obiettivi operativi. Il loro ascolto potrà avvenire “a tavolino” (analisi dei documenti rilevanti, dei comportamenti pregressi ecc.) oppure con modalità “attive” (interviste o ricerche condotte con modalità informali o formali: focus group, panel ecc.). In sostanza se è vero che nel perseguire le sue finalità l’organizzazione produce conseguenze sui suoi stakeholder, è altrettanto vero che questi ultimi producono conseguenze sull’organizzazione. L’obiettivo di questa prima fase di ascolto è di conoscere nello specifico esigenze e aspettative degli stakeholder riferite direttamente o indirettamente alle finalità dell’organizzazione. Esigenze e aspettative di cui comunque si dovrà tenere conto, sia integrandole nella fase successiva e, almeno in parte, appropriandosene; oppure decidendo di non integrarle, con la consapevolezza però, che quelle aspettative o esigenze in ogni caso emergeranno nella fase di attuazione della strategia definita, creando anche – in casi estremi ma non troppo remoti – potenziali occasioni di conflitto e di crisi. Si può facilmente comprendere come queste attività di ascolto attivo degli stakeholder debbano essere svolte con continuità, tenendo conto di tutte le dinamiche, man mano che si producono. 6.4 L’obiettivo perseguito La terza fase del Gorel (ma diventa la prima nel caso in cui si adotti il modello di Bernays) consiste nella identificazione degli obiettivi specifici dell’organizzazione, quelli che, una volta raggiunti, consentono all’organizzazione di dire: “ho realizzato le mie finalità”. Un esempio può aiutare a chiarire: l’idea di fondo non deve essere “per aumentare la mia quota di mercato penso che sia una buona idea andare sui giornali e influire sui comportamenti dei consumatori”, ma piuttosto: “per far crescere l’azienda devo aumentare la mia quota di mercato”. Succede spesso che i vertici delle organizzazioni e i relatori pubblici stessi dimentichino di chiarire questo aspetto. L’attenzione viene purtroppo quasi sempre rivolta agli obiettivi di comunicazione, che invece vengono “a valle” (come vedremo in seguito): un’abitudine che provoca frequentemente confusione comunicativa. Inoltre, gli obiettivi di un’organizzazione non vengono sovente scritti e resi noti a coloro ai quali si richiede di contribuire a raggiungerli. Risulta allora essenziale che il relatore pubblico, prima di avviare la sua attività relazionale e comunicativa, rediga una breve nota in cui indica gli obiettivi così come li ha percepiti, chiedendone condivisione e conferma alla coalizione dominante. Naturalmente, egli deve fare ciò tenendo conto delle aspettative o esigenze degli stakeholder ascoltati nella fase precedente qualora il perseguimento di un obiettivo possa sortire “conseguenze” per loro. È fondamentale che il testo sia scritto, perché in questo modo è possibile per il vertice inserire eventuali precisazioni, aggiunte, tagli o aggiustamenti. Le sfumature, infatti, risultano spesso di importanza cruciale. In base agli obiettivi definiti, il relatore pubblico potrà individuare anche altre categorie di stakeholder “potenziali”: gruppi che sarebbero interessati a una relazione con l’organizzazione, e quindi rientrare tout court fra gli stakeholder attivi, se soltanto fossero consapevoli delle sue finalità e obiettivi. Per fare un esempio: se la finalità di una organizzazione è la produzione di energia elettrica in una determinata quantità in un determinato periodo e fra gli obiettivi perseguiti ci fosse quello di costruire una centrale in un determinato territorio, è verosimile che istituzioni, opinion leader e residenti di quel territorio, se ne fossero consapevoli, sarebbero bene interessati ad una relazione con l’organizzazione. Ma non ne sono ancora consapevoli e il relatore pubblico dovrà valutare con molta attenzione la convenienza o meno di una informazione precoce per capire se e quanto sia utile tenere conto anche delle loro aspettative. Mentre con gli stakeholder attivi la relazione potrà essere avviata subito, senza grandi investimenti e con modalità dirette – magari anche attraverso il collegamento protetto da passsword a un sito Internet – , con gli stakeholder potenziali sarà necessario per prima cosa inviare loro (dopo averli attentamente identificati) un messaggio calibrato sui loro interessi e al tempo stesso familiare nei contenuti e credibile come fonte per attirare la loro attenzione. Quindi, ottenuto questo risultato, ci si potrà comportare esattamente come con gli stakeholder attivi. 6.5 Le variabili La quarta fase del Gorel prevede l’identificazione e l’analisi di variabili sociali, politiche, economiche, tecnologiche o di altra natura che si ritiene possano influenzare il raggiungimento del singolo obiettivo perseguito. Solo alcune di queste verranno indicate come prioritarie e queste, a loro volta, non potranno tutte essere ugualmente influenzate da un’attività di relazioni pubbliche consapevole e programmata. Un esempio: per un’azienda come l’Eni il rapporto dollaro/barile di petrolio così come la motivazione dei dipendenti rappresentano entrambi variabili essenziali al successo, tuttavia è difficile immaginare che un’attività di comunicazione consapevole e programmata possa influenzare in modo importante il rapporto dollaro/barile di petrolio, mentre è verosimile che possa incidere sulla motivazione dei dipendenti. La complessità, la durata e le modalità attuative di questa fase analitica dipendono molto dal tipo di organizzazione, dalla sua dimensione e dalle risorse disponibili. È però una fase essenziale poiché nessun sistema di relazioni può vivere “sotto vuoto spinto” o in “laboratorio”. Le relazioni pubbliche sono strettamente interrelate alle variabili socio-economiche, socio-politiche e socio-culturali ed è indispensabile che l’organizzazione possa beneficiare di sistemi di monitoraggio, di allerta e di allarme che ne tengano debitamente conto. È la fase del cosiddetto issue management, al quale concorrono, sempre a seconda della complessità dell’organizzazione, diverse figure professionali quali l’issue manager, l’account, l’analista e l’advocate: ciascuno con le sue competenze e funzione (si veda il capitolo 4). 6.6 Gli influenti Nella quinta fase del Gorel vengono selezionati – per ciascuna variabile ritenuta al contempo rilevante e orientabile in funzione di ogni obiettivo – i “soggetti influenti”, che non sono necessariamente consapevoli e neppure verosimilmente interessati a interloquire con l’organizzazione, che tuttavia quest’ultima ritiene possano influire sulle dinamiche di quelle variabili. Le diverse categorie di influenti tenderanno inevitabilmente a sovrapporsi in riferimento ai diversi obiettivi dell’organizzazione, anche se per ogni obiettivo e per ciascuna variabile vi saranno influenti specifici con pesi diversi. Un esempio: se l’obiettivo di uno stilista fosse “voglio che le sfilate di Milano decretino un grande successo alla mia collezione”, allora tra i giornalisti -che in questo caso sono sicuramente soggetti influenti- avrebbero importanza primaria quelli che si occupano di moda, mentre ne avrebbero assai meno quelli interessati all’economia e alla finanza. Il contrario accadrebbe invece se il suo obiettivo fosse “voglio trovare un partner finanziario”. Analogo approccio nell’individuare gli “opinion leader”, coloro cioè che – siano o meno influenti sulle variabili – possono invece contribuire con opinioni, comportamenti e atteggiamenti contribuire ad influenzare i destinatari finali (il consumatore, il cittadino, l’utente, il lettore o lo spettatore, a seconda dell’obiettivo perseguito e della natura dell’organizzazione). La distinzione dei pubblici influenti fra stakeholder attivi, stakeholder potenziali, influenti sulle variabili e opinion leader sui destinatari, inevitabilmente comporterà larghe sovrapposizioni ma contribuirà enormemente a una migliore e più puntuale identificazione degli interlocutori rendendo così più efficace (nel senso di un migliore rapporto costi/benefici) il lavoro del relatore pubblico2. In sintesi, quindi, le prime fasi del Gorel (che rientrano nella prima macrofase “dell’ascolto”) consentono al relatore pubblico di conoscere: – – – – le finalità dell’organizzazione; le aspettative o esigenze degli stakeholder prioritari (attivi, ma anche potenziali); l’obiettivo specifico perseguito; le variabili prioritarie che le influenzano il raggiungimento. Inoltre, per ciascuno degli ambiti indicati, le prime cinque fasi del Gorel permettono di individuare i soggetti influenti che ne orientano le dinamiche, agevolandole o ostacolandole. L’esempio riportato di seguito permette di chiarire meglio quanto sinora argomentato. Insegno e desidero, anche tramite l’insegnamento, contribuire allo sviluppo di un modo corretto di intendere e applicare le relazioni pubbliche (finalità). I miei stakeholder prioritari sono gli studenti, gli altri docenti, i miei colleghi professionisti che operano sul mercato (stakeholder attivi). Le loro aspettative o esigenze sono che io riesca a creare, fra gli studenti, dei giovani consapevoli e professionalmente competenti e il mio obiettivo specifico è quello di spiegare come funziona il Gorel. Fra le diverse variabili influenti e rilevanti per raggiungere quest’obiettivo si trovano anche: – – – l’attenzione personale di ogni studente; la chiarezza con cui espongo le diverse fasi del Gorel; il tempo e gli strumenti disponibili. Rispetto a ciascuna di queste variabili cambiano i soggetti influenti. Infatti, per la prima variabile (l’attenzione personale di ogni studente), un soggetto fortemente influente è rappresentato dal suo vicino di banco. Per la seconda variabile (la chiarezza con cui espongo le diverse fasi del Gorel) un soggetto fortemente influente è quella ragazza in terza fila che mi distrae e turba la mia capacità di controllo su ciò che dico. Per la terza variabile (il tempo e gli strumenti disponibili) i soggetti influenti sono il collega che mi ha costretto a ritardare l’inizio della lezione di oggi e il tecnico che non ha controllato a sufficienza la qualità della proiezione. L’esempio è banalissimo, ma può servire a capire la situazione nel suo insieme, tenendo conto del fatto che i relatori pubblici tendono spesso a occuparsi subito degli influenti, indipendentemente dagli obiettivi specifici perseguiti e dalle variabili esterne che ne condizionano il raggiungimento. Normalmente, un operatore immagina per prima cosa un evento oppure un comunicato stampa. Raramente si chiede quale sia il vero obiettivo del suo committente, oppure che cosa debba succedere nell’ambiente esterno affinché quell’obiettivo possa essere raggiunto. Se lo facesse, non saremmo sommersi di eventi inutili, quando non dannosi, e di comunicati stampa che infestano le caselle postali dei giornalisti, destinati a essere cestinati o, peggio ancora, a venire pubblicati per distrazione del redattore, contribuendo in tal modo al diluvio informativo di cui, come relatori pubblici, siamo complici e, come cittadini, vittime. 6.7 I messaggi chiave 2 Per una analisi delle modalità di relazione con gli stakeholder attivi/potenziali, con gli influenti sulle variabili/opinion leader e con i destinatari finali, anche con riferimento all’utilizzo di Internet: Muzi Falconi e Ventoruzzo,“Integrating Real and Virtual Environments in Stakeholder Relationship Management”, paper presentato in occasione di BledCom 2004 (scaricabile da: http://www.bledcom.com). La sesta fase del Gorel consiste nella definizione dei messaggi chiave. In questa fase, il relatore pubblico cerca di immedesimarsi nel soggetto influente che ha già identificato e con il quale desidera avviare una relazione. In tal senso, l’operatore deve porsi la seguente domanda: “Quale può essere il messaggio chiave che, se fosse saldamente insediato nella sua mente, potrebbe facilitare il raggiungimento dell’obiettivo da me perseguito?”. Proseguendo l’esempio dell’insegnante, proposto nel paragrafo precedente, è chiaro che la variabile cambierebbe di segno rispetto al mio obiettivo se: – – il tecnico fosse convinto che la qualità della proiezione è essenziale non tanto per l’efficacia della mia lezione, quanto per il suo prossimo passaggio di categoria; il collega che mi ha fatto ritardare le lezioni avesse chiaro che quel favore che mi ha chiesto glielo farò solo se la prossima volta non mi farà uno scherzo del genere. Dunque, rispetto ai due soggetti influenti identificati per la variabile “obiettivo specifico perseguito”, i messaggi potrebbero essere: – – per il tecnico: la qualità della proiezione è importante per il professore al punto che, se gliela assicuro, posso contare sul suo aiuto per la mia richiesta di passaggio di categoria; per il collega: ho capito che il collega ci tiene a iniziare le lezioni in orario, al punto che mi farà quel favore solo se non lo ostacolo e, anzi, lo favorisco in questo suo desiderio. Attenzione, però: affinché il messaggio risulti efficace, è necessario che sia (possibilmente) già familiare per chi lo riceve e che (comunque) la fonte risulti credibile. Così, è possibile che il primo messaggio al tecnico non sia efficace perché egli sa bene che nessun mio intervento potrà essergli di aiuto nella richiesta di passaggio di categoria. Qualsiasi sforzo io faccia per convincerlo del contrario è quindi destinato all’insuccesso. A questi due indicatori (familiarità del messaggio e credibilità della fonte) se ne potranno aggiungere altri, di volta in volta. In ogni caso, un messaggio poco familiare difficilmente riesce ad attirare l’attenzione (anche se talvolta può succedere), come pure un messaggio la cui fonte non viene ritenuta credibile difficilmente viene recepito (anche se talvolta può succedere). I due indicatori citati, peraltro, offrono una visione forse eccessivamente “confermativa” (riferita alla familiarità del messaggio) e “affermativa” (riferita alla credibilità della fonte) del lavoro del relatore pubblico. Infatti, non succede spesso che il messaggio sia familiare e, al tempo stesso, la fonte credibile: l’abilità dell’operatore consisterà del dosare il mix fonte-messaggio così da assicurare sia l’attenzione sia la risposta dell’influente. Nelle organizzazioni, ai processi di stesura e governo dei messaggi chiave che, se fossero chiaramente presenti all’influente, renderebbero più veloce e meno oneroso il raggiungimento di un obiettivo, nonostante la loro rilevanza, è dedicata assai poca attenzione. Si tratta di una pratica che, in quanto derivata da una metodologia usata in pubblicità, solleva apprensioni e scetticismo negli operatori. Inoltre, da un punto di vista strettamente “teorico”, qualcuno potrebbe obiettare che tanta attenzione alla definizione dei messaggi chiave potrebbe connotare le relazioni pubbliche come una disciplina assai più comunicazionale che relazionale. Si tratta di una critica plausibile, ma tant’è: le relazioni pubbliche solo recentemente si evolvono dalla comunicazione per assumere una valenza relazionale e gli studi su quest’ultima sono ancora relativamente pochi. Di certo, con le applicazioni di Internet3 e tramite strumenti di verifica e controllo quali il cruscotto predisposto dallo svizzero Gherard Butschi di Digital Management4, il software predisposto dallo sloveno Dejan Vercic insieme all’inglese Jon White5, l’applicazione a ogni issue e a ogni segmento di pubblici influenti del modello di Erika6 è possibile affermare che in questi ultimi anni e soprattutto in Europa sono stati compiuti sostanziosi passi avanti per la messa a punto di un sistema efficace di stakeholder relationship management. 6.8 Il pretest La settima fase del Gorel prevede il pretest dei messaggi chiave. Si tratta di una fase decisiva, soprattutto, perché consente di definire obiettivi quanti-qualitativi, specifici all’attività di comunicazione. Adattando le tradizionali metodologie di ricerca (sociale e di mercato), è possibile sondare campioni rappresentativi di influenti e rilevare i livelli di conoscenza pregressa e credibilità attribuita a contenuti e fonti di ciascun messaggio chiave. Tralasciamo per il momento gli aspetti tecnico-operativi di questa fase, per non distogliere l’attenzione dal Gorel nel suo complesso. È sufficiente, per ora, sapere che il risultato di questa fase permette al relatore pubblico di conoscere i livelli di notorietà e credibilità di ciascun messaggio e fonte, mettendolo nella condizione di aggiustare opportunamente gli stessi messaggi, prima di trasferirli all’universo degli influenti, ma anche di fissare obiettivi specifici, quanti-qualitativi, e -come vedremo- misurabili di comunicazione, oltre che di “negoziarli” con la coalizione dominante in funzione del suo sistema premiante. 6.9 La strategia operativa Arrivati a questo punto, restano da decidere le risorse disponibili, le modalità, i canali, i tempi e gli strumenti necessari per trasferire il messaggio (i messaggi) agli influenti. Si tratta dell’ottava fase del Gorel, quella della strategia operativa. Nelle organizzazioni, l’attività di relazioni pubbliche in alcuni casi inizia proprio da qui, poiché le prime sei fasi sono sovente riassunte in quello che, in gergo, si chiama “brief” e la settima (quella del pretest) viene saltata. È una scorciatoia non raccomandabile, soprattutto per chi lavora dentro all’organizzazione, per chi fa parte del gruppo dirigente e intenda 3 Muzi Falconi e Ventoruzzo, 2004. L’utilizzo di Internet e la sua auspicabile integrazione con gli sforzi di relazione/comunicazione nell’ambiente reale evita dispersioni e/o duplicazioni di messaggi incrementando l’efficacia relazional/comunicativa, contribuendo al disinquinamento comunicativo e conducendo a una riduzione degli investimenti in comunicazione da parte delle organizzazioni. 4 È un software professionale di straordinario interesse, indescrivibile in poche parole, ma che consente alla direzione della comunicazione di una organizzazione complessa di pianificare, progettare, implementare, controllare, valutare e rendicontare tutte le sue attività in qualsiasi località si realizzino. Si consiglia il collegamento a http://www.digitalmgmt.com/htm/demo/dmsUserWeb dove è possibile testare le potenzialità del software in una versione demo. 5 Clarity è un software esclusivo che permette di mappare i diversi stakeholder di un’organizzazione in relazione a una questione specifica. Il posizionamento degli stakeholder all’interno della mappa avviene con riferimento a tre indicatori: grado di influenza sull’organizzazione, attitudine verso l’organizzazione e importanza. 6 Il modello di Erika è stato elaborato da Erika Mallarini, una giovane ricercatrice SDA Bocconi, che – dopo aver individuato quattro livelli di relazione (assente, informativa, interattiva, partenariale) e quattro livelli di fiducia (assente, calcolativa, conoscitiva, valoriale) – ha costruito una matrice in cui incrociare questi quattro livelli. Procedendo con il posizionamento di ciascuno strumento di relazione/comunicazione nella tabella corrispondente al livello di fiducia e di relazione con riferimento a un specifico gruppo di stakeholder, è possibile ottenere una mappa che consente poi di definire obiettivi di relazione/comunicazione e di miglioramento molto precisi. (in: N. Cerana, 2004, p. 66) svolgervi un ruolo strategico. Altrimenti, a che serve lamentarsi, come fanno in troppi, di venire utilizzati soltanto in fase operativa? Certamente, infatti, la qualità di un intervento di relazioni pubbliche si misura soprattutto dalla cura posta nell’analisi dell’organizzazione, nell’ascolto degli stakeholder, nella comprensione dell’obiettivo perseguito, nell’approfondimento con cui si analizzano le variabili influenti, nella precisione con cui si identificano i soggetti influenti e nell’essenzialità e sintesi con cui si formulano e si testano i messaggi chiave. La strategia operativa, in pratica, consiste nell’insieme delle modalità con cui l’organizzazione decide di relazionarsi con i suoi influenti, in funzione del singolo obiettivo che intende perseguire. Di norma, ci si trova di fronte a differenti ipotesi strategiche, ognuna delle quali presenta punti di forza e di debolezza, che vanno analizzati con particolare cura e attenzione. Questo esercizio, in gergo, si chiama “swot analysis” (strength, weakness, opportunity, threat, ovvero punti di forza, punti di debolezza, opportunità e minacce). La sola cosa da non fare è sviluppare contemporaneamente più strategie: crea confusione e complicazioni operative controproducenti. È necessario scegliere una sola strategia, magari tenendone una seconda di riserva per essere pronti a sostituire la prima qualora insorgano dei problemi. 6.10 Il trasferimento Una volta fissati gli obiettivi specifici dell’azione di comunicazione e definita la sua strategia operativa, inizia la nona fase del Gorel, che consiste nel trasferire i messaggi agli influenti. Questa fase, assolutamente centrale del processo, è stata già ampiamente descritta quando sono stati affrontati i diversi segmenti e strumenti operativi delle relazioni pubbliche. Del resto, è praticamente infinita la gamma di iniziative possibili volte a tematizzare un messaggio, ad attirare l’attenzione di un influente, a rafforzare una sua convinzione o a modificare una sua opinione o comportamento. I soli vincoli sono rappresentati dalla strategia operativa stabilita nella fase precedente che, a sua volta, è condizionata dalle risorse, umane e finanziarie, dai tempi disponibili, dai canali utilizzabili e dalla complessità dei messaggi da trasferire. In termini generali, è possibile confermare che le relazioni pubbliche si realizzano trasversalmente attraverso l’ideazione e l’organizzazione di attività che consentano di entrare in relazione con: – – – gli influenti; i media, per ottenere una moltiplicazione dei messaggi chiave; il processo decisionale pubblico, per orientare decisioni favorevoli. Inoltre, le RP includono, verticalmente, diverse subdiscipline riferite ai segmenti di influenti cui sono rivolte: – corporate PR, che si rivolgono all’insieme degli stakeholder-influenti di una organizzazione; – marketing PR, che si rivolgono al complesso dei soggetti attori della fase di commercializzazione (reti, distributori, consumatori e relativi influenti); – financial PR, che si rivolgono ad azionisti, investitori, regolatori, operatori del mercato finanziario; – industrial PR, che si rivolgono a sindacati, associazioni di categoria; – internal PR, che si rivolgono a dipendenti, collaboratori, fornitori; – public affairs o lobby, che si rivolgono a istituzioni pubbliche, nazionali e locali, processi e protagonisti degli organi legislativi e regolatori; – international affairs, che si rivolgono a organismi, istituzioni e soggetti nazionali, sovranazionali e internazionali. Alle subdiscipline sopra indicate, se ne possono aggiungere altre che possono variare a seconda della cultura della singola organizzazione. Nelle relazioni pubbliche, esistono anche diverse funzioni specialistiche di natura trasversale, per esempio quelle di: – – – – – – analisi, studio, pianificazione e controllo. Si tratta della banca dati, il “think tank” centrale che raccoglie, ascolta e organizza l’informazione rilevante a disposizione. È il luogo di progettazione che garantisce coerenza al tutto, dell’amministrazione che assicura una programmata distribuzione delle risorse, della certificazione che misura e valuta i risultati; relazioni con i media. Prepara, distribuisce e si relaziona con tutti i media interessati a, e interessanti per, l’organizzazione; pubblicazioni, editoria on e offline. Progetta, produce e distribuisce ogni tipo di pubblicazione su carta o su altro supporto, anche telematico, rivolta a un segmento di stakeholder/influenti: interni, esterni o di confine; eventi e mostre. Progetta e assicura la migliore organizzazione possibile per eventi, convegni, workshop, stand per fiera o mostra, promossi dall’organizzazione; cerimoniale. Assicura il rispetto delle regole e dei vincoli formali, riceve le personalità, organizza le visite, accompagna i vertici nelle occasioni formali; account. Si tratta della persona a stretto contatto con il committente, interno o esterno, di cui ascolta le esigenze e interpreta le aspettative, trasferendole ai colleghi che collaborano al progetto. Assicura che la relazione si sviluppi positivamente, coordinandola e tenendola ben “oliata”. Riferisce sui risultati e sull’eventuale opportunità di effettuare cambiamenti imprevisti. Come già osservato, ogni organizzazione ha esigenze specifiche, pertanto, non esiste un unico modello di relazioni pubbliche, valido per qualsiasi situazione. Chiunque operi nelle relazioni pubbliche di un’organizzazione sviluppa proprie iniziative di relazione con gli influenti, sempre però in base a programmi determinati e in funzione di obiettivi pre identificati. 6.11 L’ascolto e la misurazione L’ultima fase del Gorel, la decima, chiude e, insieme, riapre il ciclo. Si tratta della fase di ascolto e di misurazione dei risultati. Nella settima fase, come ricorderete, avevamo pretestato i messaggi chiave e, per ciascun messaggio, avevamo identificato il livello di familiarità del contesto e del contenuto insieme quello di credibilità della fonte. Inoltre, in base a queste informazioni, avevamo potuto decidere gli obiettivi specifici dell’azione di comunicazione. Un esempio di ciò si può trovare nella seguente dichiarazione: “Se oggi il messaggio x ha notorietà cinque e credibilità quattro, considero realistico e fattibile in y tempo e con z risorse l’obiettivo di raggiungere notorietà sette e credibilità sei”. Nell’ultima fase del Gorel (ma in realtà non è l’ultima, dato che riavvia il ciclo) posso verificare se l’obiettivo è stato raggiunto, realizzando una seconda ricerca su un campione rappresentativo di influenti. Le modalità di svolgimento possono variare rispetto a quelle seguite per la prima ricerca, ma devono comunque risultare coerenti con esse. Per esempio, si può pensare che la realizzazione stessa della prima ricerca abbia prodotto un impatto proprio sul campione di influenti intervistati, impatto di cui, invece, non hanno risentito gli influenti non intervistati. In questo caso conviene, anche per verificare l’effettivo impatto della prima ricerca, servirsi di un campione composto per il 50% da influenti già intervistati e per il restante 50% da influenti non ancora intervistati. La ricerca di verifica, inoltre, può fornire elementi utili per rivisitare, aggiornare, mettere a punto il ciclo (dal visioning all’ascolto degli stakeholder, per poi passare alla definizione dell’obiettivo, all’analisi delle variabili, l’identificazione degli influenti, la stesura dei messaggi chiave, il pretest dei messaggi, la definizione della strategia operativa, il trasferimento dei messaggi, l’ascolto e così via). Infatti, essendo le relazioni pubbliche strettamente correlate alle dinamiche sociali, economiche e politiche dell’ambiente in cui si realizzano, è assai verosimile che rispetto al momento in cui è stata effettuata la prima ricerca, siano cambiate le condizioni di contorno. Il Gorel non è una “formula” e sicuramente presenta ancora diversi punti deboli e carenze concettuali. Il suo senso è, però, quello di offrire una “matrice di riferimento”, una metodologia generale, secondo un approccio ispirato alla disciplina del management, e il suo valore si trova nel suggerire un criterio verosimile di misurazione e valutazione dei risultati: esattamente come lo sono i criteri che si utilizzano per misuraree valutare i risultati di ogni altra azione di direzione di una organizzazione. ACCOUNT Inteso come ruolo professionale, è la persona che - dall'interno di un ufficio, reparto, dipartimento, società di consulenza o specifico programma - facilita, coordina e filtra le relazioni fra il cliente (interno/esterno) e i vari servizi interni/esterni. Un account può essere: junior, executive, manager, senior, director a seconda dei livelli di responsabilità e della peculiare cultura organizzativa in cui opera. Le competenze richieste a un account sono: - la capacità di ascolto e di relazione; - la rapidità con cui assorbe e interpreta le aspettative del committente, conciliandole con la possibilità effettiva di una loro soddisfazione da parte dei servizi della struttura per cui lavora; - la chiarezza, esaustività e tempestività nel reporting e nel monitoraggio delle dinamiche amministrative e finanziarie della relazione. Account viene talvolta usato anche come sinonimo di cliente. Il termine nasce nell’ambito della revisione contabile e poi si estende alle grandi agenzie di pubblicità per raggiungere, gradualmente, anche le agenzie di relazioni pubbliche, le società di consulenza e infine le stesse organizzazioni clienti, man mano che si strutturano internamente. ACCOUNTABILITY Essere accountable implica un insieme di rendicontazione, responsabilità e affidabilità. Con un solo termine, la lingua inglese riassume l'essenza di una buona relazione. Una persona o una organizzazione sono accountable verso un’altra persona o organizzazione. Essere percepiti accountable è obiettivo fondamentale di una qualsiasi attività di relazioni pubbliche. Peraltro (e per molti aspetti paradossalmente) una delle tante aspettative ancora inevase da parte degli stakeholder [vedi anche] delle relazioni pubbliche sta proprio nella piena accountability percepita della stessa professione. In effetti, criteri condivisi dalla comunità professionale che investano le attività di reporting, di procurement, di misurazione di efficienza [v. measurement], di valutazione di efficacia [v. evaluation] sono stati ad oggi soltanto abbozzati e solo parzialmente applicati. ADHOCRACY È il contrario della programmazione e della pianificazione. Nelle relazioni pubbliche accentra l'attenzione su una specifica questione o un obiettivo o un programma. Una organizzazione è adhocratic se la sua visione è proiettata verso il breve periodo, un obiettivo a termine oppure caratterizzata dalla improvvisazione, anche se talvolta geniale [v. lateral thinking] ed efficace. ADVERTORIAL È uno spazio/tempo di un medium [v. media], di opinione redazionale ma esplicitamente acquistato da una organizzazione. È uno spazio dal quale il soggetto esprime la sua opinione oppure una posizione su questione ritenuta - sì - di interesse pubblico ma che produce anche conseguenze [v. consequence] sull’emittente. Da non confondere con gli op-ed [vedi anche] che sono invece opinioni scritte in forma di editoriali che il medium, di sua sponte e non a fronte di un pagamento, ritiene di pubblicare pur se firmate da un rappresentante diretto dell' interesse tutelato, da un suo portavoce o testimone. La tecnica dell'advertorial viene lanciata da Herb Schmertz nei primi anni ottanta quando, come direttore delle relazioni pubbliche della Mobil, ogni mercoledì sulle pagine degli editoriali del New York Times, in un apposito spazio esplicitamente pubblicitario, appariva una opinione firmata dall'azienda su questioni di interesse pubblico. ADVOCACY È un termine rilevante nel dibattito culturale sulle relazioni pubbliche. Il leader della scuola “retorica” Robert Heath [v. rhetoric school], definisce come advocacy l'atto retorico dell'argomentare [v. argumentation] una questione. La Prsa (Public Relations Society of America) usa addirittura il termine come sostitutivo di lobby [vedi anche] e, paradossalmente, sceglie un termine proprio della professione legale (to advocate, an advocate) per differenziare i relatori pubblici dai legali! Nell’issue management [vedi anche] l'advocate indica la persona cui spetta argomentare ad altri in modo convincente una questione che sta a cuore del soggetto committente. Advocacy di una issue nel tempo è anche tematizzazione, mentre advocacy su una issue a breve è anche agenda setting [vedi anche]. AGENDA SETTING Sta per decidere l'agenda. Il termine deriva dalla sociologia per indicare l'intreccio costante di influenze reciproche fra soggetti privati, pubblici e sociali che porta alla decisione sui temi prioritari affrontati dal governo. I relatori pubblici hanno un ruolo importante, in alcuni casi determinante, nella definizione dei contenuti delle agende delle rispettive leadership organizzative. E questo non solo perché il relatore pubblico si trova sovente a svolgere un ruolo di “segreteria” del consiglio di amministrazione, comitato di direzione, consiglio direttivo o coalizione dominante (in questo ultimo caso, si limiterebbe a registrarne le volontà..), ma anche perché gli viene talvolta riconosciuto un ruolo di interprete delle aspettative degli stakeholder [vedi anche]: quel ruolo riflettivo [v. reflective role] studiato dalla scuola europea (Vercic, Van Ruler, Holstromm). In tal caso, rispetto ai ruoli classici della letteratura manageriale nordamericana: tecnico [v. operational role], manageriale [v. managerial] e strategico [v. strategy], si può considerare una ulteriore declinazione del ruolo strategico, insieme all'altra funzione “educativa” [v. educational role]. ANALYSIS Qualità e intensità dell'analisi di una questione [v. issue] determinano l'efficacia [v. effective] di qualsiasi azione di relazioni pubbliche. L'assunto è che non ci si deve fidare delle apparenze, delle prime risultanze, neppure del sentito dire, delle opinioni degli amici, degli stereotipi… Occorre incessantemente indagare, leggere, parlare con, verificare, curiosare, consultare, ricercare… Insomma, malgrado la prassi e le pressioni stimolino i relatori pubblici ad agire immediatamente, l'ascolto costituisce una fase fondamentale delle relazioni pubbliche ed è importante, prima ancora dei nostri interlocutori, convincere gli stessi operatori che è parte integrante (consustanziale) della stessa azione relazionale e comunicativa, al punto che sovente avviene proprio in questa fase che le relazioni interattive e simmetriche [v. symmetric] sviluppino la loro maggiore efficacia. Il rischio più elevato di una eccessiva attenzione all'analisi è la ‘paralysis by analysis': quando non si agisce perché bloccati da fonti e interpretazioni divergenti. Ed è proprio per questo che assume importanza per il relatore pubblico, cui viene riconosciuta una funzione strategica [v. strategy], essere anche un ottimo manager [v. managerial role] (capace di organizzare l'ascolto con modalità compatibili con i tempi dell'azione) e un ottimo tecnico [v. operational role] (disporre degli strumenti più adeguati per cogliere e interpretare le aspettative degli stakeholder [vedi anche]). ARGUMENTATION Argomentazione: è il cuore delle relazioni pubbliche. A differenza di altre discipline della comunicazione come la pubblicità e le promozioni che “affermano”, le relazioni pubbliche “argomentano”. Di qui, la loro maggiore complessità relazionale e la tendenza degli studi più recenti a valorizzare gli aspetti “negoziali” [v. anche Grunig, negotiative, systemic school] delle relazioni pubbliche (per esempio negli ultimi studi di Grunig e un forte richiamo lo si trova nel call for papers [vedi anche] di Bled 2004 scritto dallo sloveno Vercic) rispetto a quelli “persuasivi” (che hanno storicamente fatto la fortuna delle relazioni pubbliche fin dai primi anni venti del 900, quando Edward Bernays, incrociando le nascenti discipline della sociologia e della psicologia, sviluppò le tecniche di persuasione scientifica). ASYMMETRIC Il principio della asimmetria o simmetria [v. symmetric] della relazione [v. relationship] (o della comunicazione) è da anni al centro degli studi teorici delle relazioni pubbliche ed è anche una delle due dimensioni (assieme a uni/bidirezionalità) utilizzate da Grunig [vedi anche] per descrivere i modelli di pratica delle relazioni pubbliche. Una relazione è sempre asimmetrica in natura (c'è sempre un soggetto dotato di più peso) e lo è a maggior ragione quando ad avviarla è una organizzazione che, suo tramite, intende accelerare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti: che poi è la ragione stessa delle relazioni pubbliche. In particolare la relazione/comunicazione asimmetrica è sbilanciata a favore dell’organizzazione avendo come unico fine la persuasione: il cambiamento, cioè, delle opinioni, dei comportamenti e degli atteggiamenti degli influenti al fine di raggiungere gli obiettivi stabiliti dall’organizzazione in maniera autonoma, unilaterale e non negoziale. La tesi oggi prevalente degli studiosi (Grunig, Hunt, Vercic, Sriramesh...) è tuttavia che l'efficacia [v. effective] di una relazione - oggi e in questo ciclo economico, storico e sociale - è inversamente proporzionale alla sua asimmetria percepita: quanto più un soggetto percepisce di avere con un altro soggetto una relazione simmetrica, tanto più è possibile che l'uno tenga conto delle argomentazioni e aspettative dell'altro, che il negoziato giunga ad un risultato positivo per le due parti, e che si possa dunque definire efficace quella relazione. AUDIT Il termine, come anche quello già visto di account [vedi anche], deriva dalla tradizione contabile (gli auditor sono i revisori dei conti) e indica la verifica di una situazione determinata in un certo momento ad opera di una parte terza, presumibilmente indipendente, competente e interessata ad una valutazione oggettiva. Insomma, una certificazione. In relazioni pubbliche, una organizzazione affida a un consulente o a una società di consulenza [vedi consultancy] un audit delle sue politiche e dei suoi programmi di comunicazione. Normalmente questo si verifica quando: a) l'organizzazione si appresta a grandi cambiamenti, sa che dovrà cambiare, ma non è sicura dove e come; b) è arrivato un nuovo responsabile che vuole capire meglio cosa continuare e dove innovare; c) si profila l'ipotesi di cambiare società di consulenza e si desidera una opinione esterna sull'operato di quella in corso. In quest'ultimo caso, perché l'incarico abbia senso è necessario escludere a priori che la società che compie l'audit possa poi candidarsi a sostituire il concorrente…altrimenti l'indipendenza e l'oggettività vanno a farsi benedire. Un po’ come succede con le società di revisione che fanno i consulenti delle società di cui certificano i bilanci, o con le banche di investimento che, retribuite ad hoc, consigliano di acquistare azioni in loro possesso. Un'altra accezione di audit viene adottata dalle stesse società di consulenza che lo usano per indicare la fase analitica di un qualsiasi incarico ricevuto, a maggior ragione se, come sovente avviene, di contenuto generico (del tipo... “lei venga qui, dia una occhiata in giro e poi vediamo cosa fare…”). BACKGROUNDER È un documento di base, parte di un “pacchetto” informativo predisposto dal relatore pubblico, su una questione specifica [v. issue] che va poi argomentata [v. argumentation]. Contiene in forma narrativa, ma anche in forma sintetica e per punti sequenziali [v. anche fact sheet]., la storia della questione La sua finalità è consentire al destinatario di apprendere e comprendere la dinamica e l'evoluzione della questione fino al momento in cui interviene quella discontinuità che, per conto del suo committente, il relatore pubblico vorrebbe introdurre e che, tuttavia, viene illustrata in un'altra parte del pacchetto [v. position paper]. Il backgrounder è anche il documento che il relatore pubblico consegna al committente alla vigilia di un incontro o di un viaggio importante nel quale sono sintetizzate informazioni sulle persone e sulle questioni che in quell'incontro o in quel viaggio verranno affrontate. BALLON D’ESSAI Detta anche notizia civetta. Il termine è francese ma usato anche in altre lingue. E’ una notizia verosimile fatta filtrare per verificare la reazione dei mass media e dell'opinione pubblica [v. public opinion] oppure di uno specifico soggetto di fronte ad un provvedimento, una decisione, una ipotesi di soluzione. BARKER Un imbonitore, tradizionalmente la persona che davanti ad un negozio o una mostra incoraggia a voce i passanti ad entrare. Nel gergo dei relatori pubblici inglesi (ma anche americani) è quel professionista il quale adotta prevalentemente tecniche urlate per attirare l'attenzione dei pubblici. “To bark”, letteralmente vuol dire “abbaiare”. [v. anche hype, sexing up, spin] BARTER Indica uno scambio in natura e senza passaggio di denaro fra soggetti che comunicano e soggetti che possiedono direttamente i canali di comunicazione o ne sono i concessionari. È entrato nell'uso comune dei comunicatori in Italia soprattutto con l'ingresso delle televisioni private che spesso offrono spazi gratuiti in cambio di beni e servizi. Il primo esempio fu quello dello stesso Silvio Berlusconi, famoso per concedere spazi gratuiti a imprese in cambio di azioni delle stesse. È stato poi ampiamente utilizzato dalla seconda metà degli anni Ottanta nel caso delle cosiddette sponsorizzazioni televisive: interi programmi realizzati per favorire prodotti o servizi di imprese in cambio merci (o, ancora, di azioni), fino a divenire, come testimoniano atti giudiziari e confessioni di imputati e testimoni, strumento preferenziale per l'evasione fiscale nel caso di abbinamenti sportivi e coinvolgenti personalità dello spettacolo e della televisione. BELOW THE LINE Comprese nella comunicazione d'impresa sono quattro discipline: la pubblicità, le relazioni pubbliche, le promozioni e il direct marketing/response [vedi anche]. La sponsorizzazione, in effetti, non è disciplina autonoma poiché rientra se è sportiva nella pubblicità, se è televisiva nelle promozioni, se è culturale o sociale nelle relazioni pubbliche. Si usa il termine “below the line” per indicare le ultime tre in contrapposizione alla pubblicità indicata come “above the line”. In sostanza, mentre quest'ultima è sempre palese e visibilmente pagata con l’acquisto di spazi su media erga omnes, le altre tre sono o dirette alla persona o a pochi, oppure non pagate e comunque non sempre visibili erga omnes. BLED MANIFESTO (on Public Relations) Presentato a Bled (Slovenia) nel luglio 2002 è uno scritto a quattro mani di Betteke van Ruler e Dejan Vercic sullo stato dell’arte delle relazioni pubbliche in Europa. Tra gli scopi che si proponeva lo studio – punta dell’iceberg del progetto EBOK (European Body of Knowledge) di Euprera (European Public Relations Education and Research Association) , tra gli altri, quello di evidenziare (se presenti) alcune specificità “europee” diverse dalle tradizionale matrice anglo-americana. Una delle stimolanti prospettive uscite da quello sforzo fu di prefigurare tre (quattro) ruoli che i relatori pubblici possono assumere all’interno delle organizzazioni per le/nelle quali si trovano ad operare [v. educational role, managerial role, operational role, reflective role,]. Da notare che questi profili non sono auto-escludenti, anzi: ciascuna attività tradizionale e non di rp [v. anche lobby, media relations, event] può prevedere - e in parte lo reclama - la compresenza di ruoli BLUE SKY Espressione usata nelle relazioni pubbliche per indicare il discutibile ma frequente metodo con cui un evento [v. event], un prodotto/servizio, una persona vengono montati ad arte dal professionista e poi, al momento della massima attenzione, si verifica un flop perché l'evento fallisce, il prodotto/servizio non arriva sul mercato o la celebrità si ammala o comunque non viene apprezzata. BOUNDARY SPANNING Molti ricercatori (Heath, Grunig, Dozier...) usano questo termine per indicare quella “giuntura” fra l'attività di ascolto, quella di analisi e la successiva fase comunicativa. È uno dei diversi ruoli “strategici” del relatore pubblico [v. strategy]. In sostanza, individuato l'obiettivo, il relatore pubblico analizza le variabili interne ed esterne, sociali, economiche, tecnologiche, ambientali [v. issue, variable] le cui dinamiche ne influenzano il raggiungimento e - dopo avere selezionato fra le prioritarie quelle variabili che, al contrario di altre, possono venire influenzate da una consapevole e programmata azione di relazioni pubbliche - identifica [v. segmentation] i soggetti influenti [v. influential, influencer] con i quali avviare attività di relazione. “Spanning” sta per sondare, studiare, rovistare una questione, non necessariamente con modalità scientifiche (i tempi e le risorse solitamente disponibili raramente lo consentono), mentre “boundary” indica limite, confine: in pratica, uscire dal proprio ristretto seminato di conoscenze per apprendere e interpretare dinamiche ambientali rilevanti atte ad essere utilizzate per predisporre messaggi [v. message], eventi [v. event], azioni relazional/comunicative utili al raggiungimento dell'obiettivo perseguito. BRAINWRITING È una variante del brainstorming [v. anche] che si svolge con modalità scritta anziché orale, da preferirsi quando il gruppo dei partecipanti si mostra inibito nel proporre ad alta voce il proprio pensiero. Il brainwriting ha due forme di applicazione: può servire alla produzione di idee esattamente come nel brainstorming, oppure per raccogliere criticità (i vari rumor [vedi anche] interni di un'organizzazione) nel caso di indagini di clima. La forma di erogazione è la stessa in entrambi i casi: cambiano solo le domande. Poniamo che il conduttore ponga al gruppo la domanda:"Cosa vi infastidisce maggiormente nel vostro lavoro quotidiano?". I presenti scrivono di getto i loro pensieri su fogli bianchi (anonimi) che vengono fatti velocemente girare tra i presenti, in modo che ognuno debba scrivere la dichiarazione sul nuovo foglio che gli viene consegnato, senza troppo tempo per riflettere e senza conoscere l'autore della frase precedente. Il brainwriting, grazie all'anonimato, non richiede al partecipante di esporsi psicologicamente nei confronti del gruppo con dichiarazioni verbali e rappresenta quindi uno sfogo liberatorio di grande utilità. Deve essere però garantito in anticipo, dal facilitatore che gestisce la seduta, che le doglianze raccolte, oltre a rappresentare una testimonianza di ascolto e quindi di interesse per i problemi dei partecipanti, saranno fedelmente trascritte e riportate in videoscrittura allo scopo di rendere anonime le proposte. I fogli originali vanno poi truciolati per garantire l'anonimato. BRAINSTORMING È un termine assai abusato per indicare genericamente la fase di raccolta di idee (normalmente una riunione) sulla soluzione comunicativa da adottare per affrontare con efficacia una determinata questione. Abusato perché in effetti il brainstorming non è una semplice riunione, ma uno strumento specifico del processo creativo e del lavoro di gruppo. La sua efficacia dipende dalla professionalità di chi lo convoca, di chi lo conduce e di chi vi partecipa. Normalmente un brainstorming non deve avere più di 6, massimo 8 partecipanti e mai durare più di 30/40 minuti. I partecipanti vengono selezionati dal convocatore (il quale non partecipa attivamente), tenendo conto della massima diversità delle esperienze personali, punti di vista, competenze professionali. Il convocatore deve essere un soggetto riconosciuto come autorevole sulla questione e distribuire in anticipo (24 ore) una nota di una cartella (massimo 1800 battute) in cui sono illustrati l'obiettivo specifico della riunione e gli elementi oggettivi noti che ritiene debbano essere patrimonio comune di conoscenza prima che i partecipanti si incontrino. È importante assicurare che i posti intorno al tavolo siano assegnati evitando di mettere a fianco persone che si presume la pensino allo stesso modo. Il moderatore deve essere riconosciuto dai partecipanti come esperto della gestione di gruppi e non come esperto della materia. All'avvio della riunione il moderatore riassume la pagina di brief già inviata ai partecipanti, invita alla massima casualità e libertà di espressione e ricorda la fondamentale regola per cui nessun intervento deve durare più di due minuti e, ancora più importante, essere valutativo di un intervento precedente. Normalmente in piedi vicino a un flip chart (in italiano: lavagna a fogli mobili) e dotato di pennarelli di diversi colori, il moderatore si limita a riportare sui fogli mobili, senza indicare volta per volta il nome di chi interviene, la sintesi di quanto viene detto. Se il dibattito si smorza, il moderatore interverrà proponendo qualche simulazione creativa o qualche gioco fra i tanti che avrà nel proprio bagaglio professionale. Chi interviene ha facoltà di richiedere modifiche puntuali a quanto viene riportato sul foglio mobile relativo al proprio intervento.In conclusione il moderatore riassume le cose dette rileggendo le annotazioni dai fogli mobili (normalmente un brainstorming non dovrebbe riempirne più di quattro). Spetterà poi al moderatore predisporre una sintesi scritta del lavoro fatto da far pervenire al convocatore. BRIEF È un documento (brief) oppure una riunione (riunione di briefing... che prevede comunque la consegna di un documento scritto) in cui il soggetto committente descrive al (ai) proponente (i) appositamente convocato (i):- le caratteristiche della questione che intende consegnare al (ai) proponente (i) da affrontare con un programma di relazioni pubbliche; - le modalità e i tempi di consegna delle proposte; - le risorse che il committente è disposto ad investire su quel programma. Non sempre il brief implica competitività fra proponenti diversi e il termine viene utilizzato sia per una organizzazione quando ha bisogno di proposte di più soggetti esterni, sia quando l'organizzazione presenta la questione a soggetti interni preposti ad affrontarla con azioni di relazioni pubbliche. Il termine deriva dal linguaggio della pubblicità. Se il brief si propone di essere la base di partenza di un processo creativo [v. brainstorming] la sua lunghezza non può superare la cartella (1.800 battute). Se invece si propone di stimolare e ricevere proposte di programmi di relazioni pubbliche atti ad affrontare una questione specifica, può consistere anche in un articolato pacchetto informativo. CALL FOR... PAPERS / PROPOSALS / PROJECTS In italiano 'chiamata’ o ‘bando per....'. Quando una organizzazione invita i suoi interlocutori a proporre testi per un congresso o una pubblicazione, proposte di iniziative e di progetti di relazioni pubbliche. Perché la chiamata sia efficace è necessario che contenga sinteticamente le informazioni necessarie a chi partecipa per calibrare la sua proposta. CAPITAL INTENSIVE Espressione utilizzata per indicare una professione/attività ad alta intensità di capitali investiti. Per antonomasia, un’attività capital intensive è la pubblicità che si basa sull’acquisizione (tramite investimento di risorse consistenti) di spazi nei diversi canali di comunicazione [v. media]. Per valutare il valore di mercato basta poi sommare i capitali investiti dalle imprese private sui diversi media. Fino ad oggi anche il comparto delle relazioni pubbliche è stato valutato con gli stessi criteri utilizzati per la pubblicità e il riferimento più comune è quello alla indagine annuale Upa /Intermatrix che da venti anni consente di seguire le dinamiche degli investimenti esterni delle imprese private in comunicazione. Secondo l’ultima edizione della ricerca l’investimento annuale delle imprese private in relazioni pubbliche è di 2.3 miliardi di euro. Le relazioni pubbliche, tuttavia non acquistano spazi sui media e quindi le loro attività non possono essere considerate capital intensive, ma bensì labour intensive [vedi anche], ela cosa implica criteri di misurazione dell’indotto completamente differenti. CAUSE RELATED MARKETING Si intende quella tecnica di relazioni pubbliche/marketing che vede una organizzazione - normalmente una impresa di beni o di servizi - che invita i suoi consumatori ad acquistare un prodotto o utilizzare un servizio destinando una somma fissa o in percentuale ad una ‘buona causa’ normalmente promossa da una associazione non profit. Ad avviare questa tecnica fu l'American Express negli anni 70 negli Stati Uniti a livello locale, quando si era trovata in difficoltà con i ristoratori che tendevano a rifiutare la carta Amex a causa delle commissioni più elevate rispetto alla concorrenza. Ottenuto un forte successo a livello locale, nei primi anni ottanta e prima di decidersi a sperimentare una campagna nazionale, chiese alla consociata italiana di provarci. La campagna fu realizzata nel 1984 insieme al WWF Italia per la salvaguardia delle coste Italiane in collaborazione con l'editore Rizzoli/Corriere della Sera. Il successo fu travolgente (+40% nell’uso della carta!) e convinse la casa madre a lanciare la prima campagna nazionale americana per il restauro della Statua della Libertà, campagna che diede notorietà internazionale al cause related marketing. Oggi, grazie alla sua tematizzazione diffusa [v. advocacy], qualcuno inserisce il cause related marketing fra gli strumenti della corporate social responsibility (CSR). CELEBRITY PUBLIC RELATIONS Il termine celebrity si riferiva una volta solo a personalità dello spettacolo e dello sport e le rp correlate erano integrate nel modello operativo definito ‘press agentry’ [v. Grunig] ((gli altri tre sono public information, scientific persuasion e two-way symmetric)). Oggi - anche in virtù di un libro del celebre Kotler, autorevole studioso di marketing, tradotto in italiano da Isedi nel 1990 col titolo: Alta Visibilità: marketing della celebrità - nei mercati anglosassoni, celebrity sono anche il leader aziendale, sociale, politico e culturale. Da qui l'abitudine ormai consolidata di considerare le celebrity public relations come una delle specializzazioni più diffuse della professione, al punto che il progetto XPRL [vedi anche] le considera uno dei rami più importanti delle rp. Le qualità e competenze richieste implicano per il professionista: °discrezione assoluta sulle debolezze e criticità della celebrity con la quale il relatore pubblico finisce inevitabilmente per vivere a stretto contatto; °fedeltà assoluta… questione assai complicata per il relatore pubblico sul piano deontologico quando il suo stipendio/onorario proviene dall'organizzazione e non dalla persona e, come assai spesso avviene, gli interessi entrano in conflitto; °creatività, fantasia e una buona dose di spregiudicatezza, accompagnate ad una dettagliata e sempre aggiornata conoscenza delle regole dello ‘star system’ e dei suoi sottosistemi di giornalisti, press agent, veline e stelline. Ci riferiamo a organizzatori di eventi, associazioni imprenditoriali, culturali, circoli , salotti e think tanks - per la maggior parte front organisation [vedi anche] disponibili a sostenere la celebrity a determinate condizioni CLASS ACTION Un incubo ricorrente per le organizzazioni che erogano servizi o prodotti a molti (largo consumo): si verifica quando un insieme di persone che si ritengono danneggiate da un prodotto/servizio decidono di rivalersi come soggetto collettivo in sede di risarcimento danni. Da molti anni applicato negli Stati Uniti (e) soprattutto da quando avvocati - che in quel Paese sono anche retribuiti in percentuale sull'ammontare dei risarcimenti decisi dai tribunali - hanno iniziato a reclutare utenti/consumatori insoddisfatti disponibili, alleandosi anche con associazioni e coalizioni esistenti. Ora si tenta di estendere la class action anche nel sistema giuridico italiano. Recentemente se ne è parlato nel corso della vicenda della RC Auto e, ancora più recentemente, nella vicenda Parmalat. Per il relatore pubblico esperto in litigation public relations [vedi anche], la presenza nel sistema giuridico della class action modifica sostanzialmente il modus operandi. CLUSTER In relazioni pubbliche è una aggregazione omogenea di soggetti che fanno parte di un pubblico specifico (stakeholder [vedi anche], influenti [v. influential, influencer] o destinatari [v. end recipient]). Il termine viene dal marketing ove la ‘cluster analysis’ si propone di individuare gruppi omogenei con lo scopo di identificare le persone o le variabili simili fra loro in base a criteri prefissati. Si ottengono così gruppi coerenti al proprio interno ma differenti fra di loro. I cluster vengono anche impiegati anche in psicografia per fornire utili indicazioni sugli stili di vita dei consumatori in termini di opinioni, azioni, interessi. COACHING È una relazione professionale che si instaura tra una persona qualificata (coach) ed una singola persona (coachee) e che si propone di assistere quest’ultimo nello sviluppo di strategie relazionali e gestionali finalizzate alla attuazione di cambiamenti, as raggiungimento di successi o comunque alla realizzazione di obiettivi specifici e personali. COLOPHON Colonna normalmente posta all'inizio o alla fine di un mezzo [v. media] di informazione stampato in cui vengono riportate informazioni di servizio quali: il direttore responsabile, il direttore editoriale, il capo redattore, l'editore, la sede dell'amministrazione e della redazione, i responsabili dei vari servizi redazionali, i collaboratori, il costo dell'abbonamento, il costo della testata, il costo dei numeri arretrati…. COMMUNICATIONAL BEHAVIOUR È il comportamento comunicante delle organizzazioni come identificato dallo sloveno Vercic: l’organizzazione interagisce con i propri pubblici affidando alle relazioni pubbliche il governo dei sistemi di relazione con i pubblici influenti [v. Gorel o Relma]. Le relazioni pubbliche diventano allora funzione trasversale e strategica nel suo ruolo riflettivo [v. reflective role] ed educativo [v. educational role] individuati dalla scuola europea (Vercic, Van Ruler, Holstromm…) [v. Bled manifesto]. L’organizzazione comunicante attribuisce grande importanza alla comunicazione con i pubblici influenti e ne affida l'attuazione operativa a tutte le direzioni, con il coordinamento di una direzione dedicata. [v. anche comunicative behaviour] COMMUNICATION SOCIAL RESPONSIBILITY È la responsabilità sociale dei comunicatori. Risiede nell'assunzione di piena consapevolezza e nel conseguente impegno ad operare un progressivo disinquinamento comunicativo [v. info-communicative overload]. Questo impegno implica una migrazione delle pratiche quotidiane verso una ‘comunicazione con’ i pubblici di riferimento, dove l’ascolto è consustanziale al dialogo e all’interazione. Ciò favorisce, oltre al disinquinamento comunicativo, anche un sensibile miglioramento della qualità della comunicazione potendo disporre di modalità relazionali dirette e one-with-one, quelle ritenute maggiormente efficaci. COMUNICATIVE BEHAVIOUR È una variante del comportamento di una organizzazione individuate da Vercic [v. anche comunicational behaviour]. In questa dimensione le relazioni pubbliche sono intese come strumento operativo, verticale e push volto (quasi) esclusivamente alla produzione e diffusione di messaggi, con netta prevalenza del ruolo tecnico e manageriale [v. managerial role, operational role]. L’organizzazione comunicativa attribuisce grande importanza alla comunicazione ai pubblici influenti tramite i media e ne affida l'attuazione operativa ad una direzione dedicata. COMMUNITY RELATIONS Una delle più importanti e tradizionali specializzazioni delle relazioni pubbliche legate soprattutto al settore manufatturiero che ha a che fare con i programmi di iniziative e di relazioni che una organizzazione sviluppa e attua al fine di ottenere/rinnovare /rinforzare quella ‘license-to-operate’ cosi importante per attirare le migliori risorse, ottenere la legittimazione sociale, la benevolenza e l'alleanza delle istituzioni locali, ridurre il rischio in caso di situazioni di crisi [v. crisis communication, crisis management]. L'attenzione delle organizzazioni verso le community relations, forte negli anni sessanta e settanta, ma poi caduta nei decenni successivi, è molto cresciuta negli ultimi anni con la tematizzazione pervasiva della CSR. CONCEPT In relazioni pubbliche è il 'cuore’, o il 'core’ (nel senso romanesco del termine), la struttura, il senso autentico, la ragione, la 'ciccia’ di un progetto, di una iniziativa, di un programma di relazioni pubbliche. CONSENT (Consensus) La pubblicazione nel 1956 di ‘The Engineering of Consent’(ingegneria del consenso), fondamentale saggio di Edward Bernays, ha avviato una sterminata produzione di lavori sui rapporti fra consenso e persuasione, comunicazione, relazioni pubbliche, fiducia, reputazione, immagine, identità; concetti quasi sempre erroneamente usati con significati equivalenti. Nel suo libro Bernays teorizza che informando il pubblico in positivo è possibile raccogliere il necessario supporto a una causa, a un candidato, a una organizzazione. La ricerca, l'acquisizione, la manutenzione del consenso è in cima ai desideri dei vertici di ogni organizzazione e, più o meno esplicitamente, questo compito viene assegnato ai relatori pubblici. CONSEQUENCE Gli studiosi delle relazioni pubbliche usano il termine per indicare gli effetti che una organizzazione induce sui pubblici influenti. Per James Grunig, sostenitore della tendenziale simmetria [v. symmetric] relazionale per rendere più efficace l’organizzazione, è anche importante che il relatore pubblico, nel suo ruolo strategico/riflettivo, si preoccupi di analizzare e interpretare per la coalizione dominante anche le conseguenze che i pubblici influenti producono sulla organizzazione [v. reflective role]. CONSULTANCY Quando si parla di ‘public relations industry’ ci si riferisce solitamente all'insieme dei servizi di consulenza offerti alle organizzazioni da ‘solo consultants' ( i liberi professionisti), consulenti associati, imprese di consulenza locali, nazionali, regionali o globali. Poiché lo sviluppo delle relazioni pubbliche negli Stati Uniti e nel Regno Unito è sempre stato fortemente legato al settore privato dell'economia, si è indotta (in tutto il mondo...) una forte identificazione della professione con la consulenza, e la sua economia è assimilata alla somma dei budget investiti dalle imprese. Questa abitudine ‘distratta’ ha fortemente contribuito a ridurre la percezione reale del settore (in Europa, più legata al settore pubblico e sociale che non al privato) e della sua stessa economia. In Italia, su 70 mila relatori pubblici censiti nel 2001, ben 40 mila operavano nel settore pubblico, 15 mila in quello privato e 5 mila in quello sociale. Solo 10 mila erano i consulenti. Quanto poi a valutare l'economia complessiva del comparto, a fronte dei 2.5 miliardi di euro annui attribuiti alle relazioni pubbliche dall'Upa (che le considera capital intensive [vedi anche] come la pubblicità e stima i soli investimenti delle imprese private), la Ferpi calcola che il valore economico reale supera in realtà i 14 miliardi di euro l'anno. Questo perché considera le relazioni pubbliche come attività labour intensive [vedi anche], e per stimarne il valore, parte dal numero dei relatori pubblici (70 mila), definisce un costo medio lordo annuo di ciascuno (70 mila euro), e moltiplica questo valore per 3 considerando questa la soglia minima della produttività, arrivando quindi alla cifra sopra indicata. CONSUMERISM È diverso da consumismo e indica il fenomeno della protezione del consumatore. Negli Stati Uniti degli anni settanta, ancora prima degli ambientalisti, gruppi di consumatori consapevoli e organizzati (il primo leader fu Ralph Nader nella sua campagna contro i giganti dell'auto), hanno cominciato a dare grattacapi alle grandi imprese, accusate di non preoccuparsi abbastanza della sicurezza e della bontà dei prodotti/servizi. Anche in Italia il fenomeno si avviò nella seconda metà degli anni settanta grazie all'azione di Anna Bartolini, oggi la più autorevole e conosciuta rappresentante dei consumatori e di Gustavo Ghidini, antesignano del movimento e oggi autorevole giurista, accademico e commentatore del Corriere della Sera. La prima azienda italiana a prendere sul serio il movimento dei consumatori fu la Fiat che, alla fine degli anni settanta, commissionò a una società di consulenza inglese (Intermatrix), un primo rapporto sulla questione. Poi, seguirono le altre imprese di beni di largo consumo e di servizi. Oggi, il fenomeno si è istituzionalizzato e la gran parte delle associazioni sono scarsamente rappresentative e trasparenti. CONTENT ANALYSIS In relazioni pubbliche è l'analisi di contenuto di come il sistema dei media [vedi anche] tratta una determinata questione, una organizzazione, un prodotto o un servizio. Mentre in altri mercati più evoluti le società di servizio che forniscono questa analisi risalgono ai primi anni settanta, in Italia il primo a fornirla fu Nicola Bovoli alla metà degli anni ottanta su esplicita richiesta della Montedison, il cui direttore delle relazioni esterne era allora Carlo Bruno, oggi presidente di Bonaparte 48, agenzia di relazioni pubbliche. Negli anni novanta sono fiorite sia a Roma che a Milano società di servizi che forniscono analisi quali/quantitative sui contenuti dei media [v. evaluation, measurement] ma siamo ancora anni luce indietro rispetto ai mercati anglosassoni ove tutto ciò viene fornito al cliente in tempo reale, via Internet e con livelli assai sofisticati. [v. anche output] COOLING-OFF PERIOD È il periodo, cosiddetto ‘di ripensamento’, che consente all'acquirente di restituire un servizio o un prodotto acquistato al venditore senza aggravio di costi. In relazioni pubbliche è il tempo che si dà ad un interlocutore per valutare se utilizzare o meno (in esclusiva) le informazioni ricevute. In caso contrario, si intende che l'interlocutore accetta di non usare quelle informazioni prima che lo abbia fatto un altro soggetto interpellato per la stessa ragione e che abbia deciso di accettare. CO-OMPETITION Quando soggetti diversi che normalmente competono si alleano per cooperare e affrontare una criticità comune pur restando concorrenti. In questi frangenti le relazioni pubbliche acquistano un rilievo di eccezionale rilevanza. CO-ORIENTATION È una tecnica usata nelle relazioni pubbliche quando si mettono a confronto le opinioni di due soggetti rispetto ad una questione utilizzando anche le opinioni che ciascun soggetto esprime sulle opinioni dell'altro. È assai utile nei processi di negoziazione [v. negotiative] o di mediazione fra l'organizzazione e i suoi pubblici influenti. COPY Il termine viene dalla pubblicità e anche in relazioni pubbliche indica un testo. ‘Copywriter’ è chi scrive il testo, mentre ‘copy clearance’ è il suo processo di supervisione e autorizzazione. CORPORATE (Communication, Identity, Image, Social Responsibility…) Il riferimento è quasi sempre alle imprese private, ma si tratta di un errore. Corporate deriva dal latino ‘corpus’ che indica una organizzazione, indipendentemente dalla sua natura privata, pubblica o sociale. COVERAGE Si intende la ‘copertura’ che una azione di relazioni pubbliche ottiene sui media [v. media, measurement, evaluation]. CRISIS COMMUNICATION, CRISIS MANAGEMENT Il crisis management è una funzione strutturale del processo di direzione di una organizzazione (pubblica, privata, sociale) che analizza, predispone e coordina la gestione di situazioni di crisi prevedibili (intese come avvenimenti non attesi interni o esterni, che coinvolgono persone, processi, prodotti, attività finanziarie, commerciali o comunicative e che determinano - o potrebbero determinare - una soluzione di continuità critica alla identità, l’immagine o la reputazione dell'organizzazione stessa, andando ad incrinare i suoi sistemi di relazione con uno o più pubblici influenti). La crisis communication è invece l'insieme delle attività di comunicazione di una organizzazione al momento in cui la crisi si manifesta. Nelle organizzazioni più consapevoli la seconda è compresa nella prima e la funzione del relatore pubblico è di gestirne i processi comunicativi. Nella gran parte delle organizzazioni si tende invece a pensare che, affidando il crisis management alla comunicazione, la prima sia compresa nella seconda: e questa è la ragione per cui la gran parte delle volte che scoppia una crisi e dall'esterno si osserva con attenzione come viene gestita, ci si mette le mani nei capelli. CRITICAL SCHOOL Insieme alla sistemica [v. systemic school] e alla retorica [v. rhetoric school], è la terza scuola teorico-scientifica alla base del pensiero contemporaneo delle relazioni pubbliche. Per i 'critici' come Stuart Ewen, Jacquie L'Etang e Marvin Olasky nessuna teoria potrà mai impedire ai poteri 'forti' di piegare e di manipolare le coscienze delle persone e, nella società contemporanea, le relazioni pubbliche rappresentano la massima espressione di questo esercizio. DATABASE Unità informative archiviate e accessibili via computer. In relazioni pubbliche viene usato per indicare un archivio dinamico, usato spesso e continuamente aggiornato. DAYBOOK È il diario degli eventi della giornata, aggiornato a scadenze fisse del giorno, con cui normalmente le agenzie di stampa aprono i loro servizi. DEADLINE È la scadenza, il tempo limite di un lavoro. Nelle relazioni con i media [v. media relations] indica l'ora entro cui un comunicato [v. news release] o una notizia devono arrivare al destinatario con qualche speranza che venga ripreso il giorno dopo. DEBRIEFING Dopo una campagna, una iniziativa, un evento o un incontro importante i realizzatori si riuniscono per scambiarsi opinioni e suggestioni al fine di individuare le criticità incontrate ed evitare o ridurre la possibilità di una loro ripetizione. [v. brief] DECOY È un nome ‘civetta’ inserito in un elenco di destinatari per controllare che il messaggio giunga effettivamente a destinazione. DEEP THROAT Gola Profonda: è una fonte riservata e non citabile. Termine molto usato nel resoconto del caso Watergate per indicare la fonte anonima che informava Bob Woodward e Carl Bernstein, i due giornalisti del Washington Post che avevano fatto scoppiare lo scandalo. L'origine del termine viene dalla pornostar Linda Lovelace che negli anni ottanta si faceva chiamare così per la sua abilità di succhiare il membro maschile fin dentro la gola. DELPHI Indica una metodologia di ricerca cui sovente ricorrono i relatori pubblici quando devono ascoltare le variabili prioritarie [v. issue] e soprattutto si propongono di prevederne le dinamiche. Tecnicamente il metodo Delphi implica un gruppo ristretto di partecipanti (massimo 20), a vario titolo esperti della materia, o comunque ritenuti dal conduttore utili a gettare luce sul futuro. Sono persone che lavorano a distanza (uno sa chi sono gli altri, ma solo alla fine) e, in tempi ravvicinati (massimo due mesi), interagendo da due a tre volte e commentando i commenti degli altri. Il conduttore scrive una pagina di descrizione del tema e la accompagna con quattro/sei domande chiave. I partecipanti rispondono alle domande. Il conduttore raccoglie il consenso e isola le questioni su cui vi sono dissensi. Ripropone ai partecipanti soltanto le versioni estreme dei dissensi emersi chiedendo un secondo intervento ai partecipanti. Raccoglie nuovamente le aree di consenso emerse e ripropone una terza (e ultima) volta le questioni ove vi siano ulteriori dissensi. I partecipanti rispondono e il conduttore tira le somme, scrive le conclusioni inviandole ai partecipanti i quali però non hanno facoltà di ulteriori interventi correttivi. Una variante del Delphi è il Tarot (Trend Analysis by Relative Opinion Testing) creato nei primi anni 80 dall'inglese Geoffrey Morris di Intermatrix appositamente da applicare alla metodologia dell'issue management [vedi anche]. Definita una issue prioritaria, si identificano da 20 a 30 esperti della issue e li si vincola ad una sorta di Delphi permanente senza mai dire loro chi siano gli altri partecipanti. Il Tarot consente al conduttore un monitoraggio continuativo dell'evoluzione della issue. DEMARKETING Quando si ritarda la consegna di un prodotto/servizio per ridurre una domanda eccessiva rispetto alla capacità di produzione o di distribuzione. DESK RESEARCH È l’attività costante del relatore pubblico di analisi, lettura e interpretazione delle variabili esterne che influenzano il raggiungimento dell'obiettivo perseguito. DIRECT MARKETING / RESPONSE È una delle quattro discipline della comunicazione di impresa [v. corporate communication], insieme alla pubblicità, alle relazioni pubbliche e alle promozioni. Si tratta di una tecnica ‘below the line’ [vedi anche] che consente a un'organizzazione di aprire con i consumatori o pubblici influenti una relazione a due vie attraverso il canale postale o, più recentemente, Internet. Normalmente l'obiettivo perseguito è la generazione di contatti, il rafforzamento delle caratteristiche di un prodotto/servizio/idea nel destinatario e la raccolta di reazioni e feedback [vedi anche]. È una tecnica che tende a fidelizzare l'interlocutore, sviluppa i suoi effetti a medio termine e rafforza l'identità di marca. Il termine ‘marketing’ viene usato quando la singola operazione è commerciale, il termine ‘response’ - più sofisticato - venne introdotto alla fine degli anni settanta dalla Ogilvy & Mather per valorizzare l'aspetto interattivo della relazione. DISCLAIMER È una dichiarazione preventiva di chi avvia un processo comunicativo per avvertire gli altri soggetti della relazione di alcune precauzioni inerenti, per esempio, alla privacy o alla responsabilità dei contenuti della comunicazione. DIVERSITY E’ il nuovo paradigma delle relazioni pubbliche del ventunesimo secolo. Il presupposto è che la più efficace delle comunicazioni è quella one-with-one e one-withfew (in italiano uno-con-uno e uno-con-pochi, non uno-a-uno e uno-a-pochi) e che, oggi più che mai, le tecnologie e le conoscenze consentono alle organizzazioni di perseguire questo modello, quando si tratta di comunicare con i loro pubblici influenti. Se tutto questo è vero, così come è vero che ogni persona è diversa dall’altra e che è proprio la diversità nelle sue espressioni più varie (culturale, linguistica, di genere, di etnia, di religione, di abilità, di preferenza sessuale…) a determinare le dinamiche dell’ambiente in cui le organizzazioni operano, ne consegue che il governo della diversità equivale al governo dei sistemi di relazione [v. Gorel o Relma] con i pubblici influenti: cioè, alle relazioni pubbliche. DOGOODISM Indica una tendenza a fare sempre del bene in qualsiasi circostanza. In Italiano è simile al cosiddetto ‘buonismo’. In relazioni pubbliche è una tendenza da evitare, poiché finisce per minare la stessa credibilità dei soggetti. DOOR OPENER Un qualsiasi incentivo offerto all'interlocutore per attirarne l'attenzione e creare un atmosfera di dialogo. DOWNPLAY Una attività che sminuisce l'importanza di una questione, di una notizia, di un comportamento. EDIT Scrivere un testo o un articolo, oppure rivedere il testo di un altro autore per renderlo adatto alla pubblicazione. EDITOR Non è, come molti pensano un editore, bensì un giornalista semplice oppure responsabile di una pagina o di una rubrica o di un giornale (in questo caso ‘managing editor’). EDITORIAL - LEADER È un testo che appare come opinione del giornale o, se firmato, del firmatario. Si chiama anche leader. EDUCATIONAL ROLE Fra i diversi ruoli strategici [v. strategy] del relatore pubblico in una organizzazione è anche quello educativo. Partendo dalla premessa che tutte le funzioni direttive di una organizzazione gestiscono i rispettivi sistemi di relazione in base a linee condivise e verso obiettivi concordati e che le competenze comunicative siano diffuse attraverso l'organizzazione, il relatore pubblico assicura la coerenza dei comportamenti relazionali e comunicativi della coalizione dominante e sovraintende al trasferimento delle competenze comunicative nell'organizzazione, monitorandone costantemente le dinamiche. L'altra dimensione di ruolo strategico del relatore pubblico è quella riflettiva [v. reflective role]. [v. anche Bled manifesto] EFFECTIVE Efficace, diverso da efficient (efficiente). In relazioni pubbliche, il primo si riferisce all'outcome [vedi anche] (ma le opinioni o i comportamenti sono cambiati?), il secondo all'output [vedi anche] (ma quanti hanno ripreso quel comunicato o partecipato a quell'evento che fa parte del progetto che dovrebbe cambiare opinioni o comportamenti?). [v. anche evaluation, measurement] EFFECTIVE AUDIENCE Il pubblico potenzialmente esposto a un articolo. “EIGHTY / TWENTY” PRINCIPLE L'opinione diffusa che il 20% dei consumatori acquista l'80% di un prodotto o servizio. E-LETTER Lettera elettronica, anzi newsletter elettronica: utile ed efficace strumento di relazione con stakeholder [vedi anche] e pubblici influenti purché siano rigorosamente rispettate le norme più restrittive sul diritto alla privacy. EMBARGO Nelle relazioni con i media [v. media relations] è la data su un comunicato stampa [v. news release] che ne autorizza la pubblicazione. EMPOWERMENT È quell'azione consapevole per cui, in una organizzazione, un soggetto responsabile di una azione, un programma, un progetto coinvolge altri soggetti, indipendentemente dalla linea gerarchica, e attribuisce loro una parte (o tutto) della responsabilità e del potere per poter realizzare quell'azione, quel progetto, quel programma. END RECIPIENT (END USER) È il destinatario finale. Tra i pubblici influenti (coloro cioè che possono agevolare od ostacolare il raggiungimento degli obiettivi organizzativi – e quindi il passaggio dalla mission [vedi anche] alla vision [vedi anche]) sono quelli che subiscono le conseguenze, dirette e/o indirette, delle attività dell’organizzazione. Con i destinatari finali l’organizzazione utilizzerà strumenti di comunicazione erga omnes [v. comunicative behaviour] integrando le relazioni pubbliche con la pubblicità, il direct response [v. anche] e le altre attività below-the-line [vedi anche] e incentivando, in ogni caso la possibilità di feedback [vedi anche] immediato da parte dei destinatari (coupon, etc.). ENDORSEMENT È l'avvallo, la certificazione, il sostegno a un evento [v. event], una idea, un programma, un prodotto, un servizio. Mentre lo sponsor è chi sostiene finanziariamente un evento, una personalità, un prodotto, un servizio; l'endorser è proprio l'evento, la personalità, il prodotto, il servizio sponsorizzato. In relazioni pubbliche sfugge spesso che il maggior beneficiario della relazione sponsor-endorser non è il secondo ma il primo. ENGINEERING PERCEPTION Concetto formulato da Leonard Saffir che, a differenza della semplice persuasione, implica la creazione o la modifica del contesto in cui si formano le percezioni e si prendono le decisioni. ENVIRONMENTAL ANALYSIS / MONITORING Non è come molti pensano una analisi ambientale nel senso della qualità dell'aria o dell'acqua, ma una analisi o un monitoraggio del contesto storico, politico, sociale, tecnologico, economico e culturale in cui una organizzazione opera. [v. anche boundary spanning] ENVISIONING La riflessione di una organizzazione che definisce, aggiorna e rivede la propria missione (cosa sono e cosa faccio oggi) [v. mission], visione (cosa voglio essere e cosa voglio fare fra cinque anni) [v. vision], strategia (come intendo transitare dalla missione alla visione) [v. strategy] e valori guida [v. guiding principles] che devono orientare l'attuazione della strategia. EQUITY In relazioni pubbliche è il valore attribuito ai sistemi di relazione e all'identità di un organizzazione, di un suo prodotto, servizio o idea. Come scrivono già nel 1994 Norton e Kaplan (The balanced scorecard, Harvard University Press) ‘You cannot manage what you cannot measure, and you cannot measure what you cannot describe’, in italiano: ‘non puoi gestire quel che non puoi misurare e non puoi misurare quel che non puoi descrivere.’ ERGONOMICS La scienza che studia le relazioni fra chi lavora e il suo ambiente di lavoro. ETHICAL RELATIVISM Il concetto che i comportamenti etici siano diversi in contesti sociali diversi. EVALUATION La fase di lavoro spesso più importante del relatore pubblico quando, dopo avere realizzato una determinata iniziativa o campagna, valuta sul piano qualitativo - generalmente tramite comparazione con predefiniti obiettivi organizzativi – il valore dell’intervento comunicativo analizzando gli effettivi comportamenti, le opinioni e le decisioni dei pubblici influenti orientati da quella iniziativa [v. outcome]. È un processo che sottende grande capacità di interpretazione ed è naturalmente tendenzialmente soggettivo. È diversa, quindi dalla misurazione [v. measurement] che invece si occupa di attribuire valori soprattutto quantitativi - è quindi maggiormente oggettiva - agli spazi effettivamente conquistati da un comunicato o da una conferenza stampa, oppure - se si tratta di un evento - al numero di partecipanti a un evento[v. output, outtake], a prescindere se quella notizia o quell'evento potranno effettivamente modificare le opinioni, i comportamenti o le decisioni dei lettori o dei partecipanti. EVENT Daniel Boorstin, storico contemporaneo e autore nel 1962 del pamphlet ‘The Image: or what's happenened to the american dream?’ dice che un evento è una guerra o un terremoto mentre tutti gli altri eventi creati artificialmente per attirare l'attenzione di un pubblico su una idea, un prodotto, un servizio oppure una organizzazione, sono in realtà pseudo-eventi. In relazioni pubbliche gli eventi sono episodi di convocazione di pubblici specifici per tematizzare una questione che interessa a chi promuove, sponsorizza, finanzia. Naturalmente l'evento avrà successo se e quando la questione interessa anche gli invitati. Da qui l'importanza di pensare con attenzione a come articolare l'evento, dialogando con gli stakeholder [vedi anche], creando coalizioni di interessi con tutti gli aventi causa e tenendo in conto le aspettative e le attese dei pubblici che si vuole attirare. EXIT INTERVIEW È l'intervista che normalmente viene fatta al collaboratore che esce da una organizzazione, o lascia un prodotto o un servizio, per capire a fondo le ragioni dell’ abbandono ed evitare così che casi analoghi si ripetano. EXPATRIATE È il cittadino del Paese ove una organizzazione ha la sua sede centrale, espatriato ad operare per l'organizzazione in un altro Paese. EXPOSURE È il valore di esposizione di un pubblico ad un messaggio. Non implica né che il pubblico l'abbia in realtà visto o letto, tanto meno meditato o assorbito. Ma è un valore statisticamente importante nella fase di misurazione. Un’altra accezione riguarda l’esposizione di un soggetto al sistema dei media. [v. anche effective audience] EXTROSPECTIVE RESEARCH È l'analisi delle variabili esterne che possono esercitare influenza su un gruppo di persone o una organizzazione. EYE CONTACT Quando si guarda direttamente negli occhi dell'interlocutore. In alcuni Paesi è considerata una tecnica di relazione aggressiva e può essere controproducente, In altri è il contrario. In televisione è quando si guarda in macchina. FACT SHEET Letteralmente un unico foglio contenente i dati indispensabili per conoscere una questione. [v. anche backgrounder, position paper] FAIR USE La quantità di testo che, eccezionalmente, è consentito citare di un autore senza pagare il diritto d’autore e senza chiedere il premesso. [v. anche disclaimer] FAMILIARITY Un messaggio [v. message] è efficace [v. effective] quando chi lo riceve ha familiarità con il contesto. Non è necessario che conosca già il messaggio specifico, ma che almeno una parte del messaggio suoni familiare. FARM OUT Distribuire all'esterno dell'organizzazione una parte del lavoro da fare. Sinonimo di ‘outsourcing’. FAST TRACK Corsia preferenziale o privilegiata. FEE È il compenso/onorario professionale puro, escluse le spese del consulente (o singolo professionista) e degli eventuali fornitori. Può trattarsi, indifferentemente, di un compenso forfettario riferito ad uno specifico progetto o iniziativa/evento o campagna, oppure di un compenso periodico a fronte di una prestazione continuativa per un tempo determinato. FEEDBACK È il processo di raccolta di dati, opinioni, giudizi di uno o più soggetti su una specifica iniziativa per valutarne l'esito e correggerne gli errori. FIELD REPORT RESEARCH L'attività di reporting dalle fonti che sono sul ‘campo operativo’ (territorio, organizzazioni…). FINANCIAL RELATIONS L'insieme delle relazioni che una impresa ha con il mercato finanziario da cui trae le risorse economiche necessarie alla crescita. Normalmente rientrano sotto la responsabilità della direzione finanziaria che, a sua volta, può gestirle in cooperazione con la direzione comunicazione e con la funzione investor relations che, ancora, può essere interna alla direzione finanziaria, interna alla direzione comunicazione oppure riferire direttamente al vertice dell'organizzazione. “FIVE P's and W's” Le prime si riferiscono alla cinque ‘P’ di Kotler e riguardano le variabili del marketing: price (prezzo), packaging (confezione), product (prodotto), place (luogo), promotion (promozione). Importante ricordare che, in un momento successivo, Kotler ha anche aggiunto una sesta ‘P’ che sta per PR (Public Relations) o Power. Le seconde si riferiscono alle cinque ‘W’ del buon giornalista: who (chi), what (cosa), when (quando), where (dove), why (perchè). Anche in questo caso è buona prassi aggiungere una ‘H’, che sta per how (come). FLACK Termine con cui i media [vedi anche] ‘antipatizzanti‘ solitamente definiscono con intenzioni spregevoli i relatori pubblici. Il senso è quello della vacuità, della inconsistenza, della pura apparenza e anche di una certa volgarità. FLOW CHART Una visualizzazione grafica che descrive le fasi successive di un percorso operativo. FLYER È il nostro tradizionale volantino, buono per tutti gli usi. High Flyer è invece una persona che ‘vola alto’. FOCUS (group) L'obiettivo centrale. Usato insieme a group implica una tecnica di ascolto per raccogliere informazioni qualitative e approfondite su una questione di interesse da un gruppo di individui attentamente selezionati e coordinati da un facilitatore. FOLLOW UP È quello che si fa dopo un evento [v. event], la distribuzione di un comunicato [v. news release] o la fine di una iniziativa. Normalmente coinvolge attività di relazioni ex-post di ringraziamento, di verifica di gradimento e di interesse, e di rilancio per ulteriori relazioni. FORENSIC PUBLIC RELATIONS Vedere legal o litigation public relations FOUR-MINUTE-MEN Così sono chiamati quei volontari della società civile americana’ che alla vigilia dell'entrata nella prima guerra mondiale furono decisivi nel convincere l'opinione pubblica [v. public opinion] americana all'intervento. Ciascuno, più volte al giorno e in qualsiasi situazione relazionale si trovasse (in famiglia, al cinema, al bar, al lavoro…) si alzava in piedi, chiedeva la parola e in quattro minuti illustrava le ragioni che spingevano gli Stati Uniti ad entrare in guerra. L'intera operazione, guidata direttamente dal Presidente Wilson, è stata condotta dal CPI (Committee for Public Information) coordinata da Gorge Creel, in collaborazione fra gli altri, con Carl Byor e Edward Bernays. FRAMEWORK È la cornice di una situazione. FREELANCE Un professionista che opera in proprio al servizio di organizzazioni diverse e che, normalmente, si specializza in un'area di competenza (media relations, event management, public affairs, financial o marketing communication…[vedi anche]) oppure in un settore specifico (farmaceutica, chimica, elettronica…). FREEBIE Un gadget gratuito offerto da una organizzazione a chi partecipa a un evento [v. event] o una iniziativa. FRONT ORGANISATION Si usa questo termine per definire una organizzazione apparentemente autonoma e indipendente che si presta a compiere e a diffondere, assumendosene la paternità, argomenti, interpretazioni e dati che servono a sostenere gli interessi impliciti di altre organizzazioni che non vengono esplicitamente nominate come committenti, sponsor o partner. FULL SERVICE AGENCY Una organizzazione dell'offerta che propone al mercato un servizio completo di comunicazione (pubblicità, relazioni pubbliche, promozione, direct marketing…). FUNDRAISING Sta per raccolta fondi. E’ importante sottolineare che la progressiva integrazione fra organizzazioni non profit e organizzazioni donatrici non solo apre nuovi spazi operativi per funzioni di intermediazione relazionale ma incentiva anche lo spostamento del contenuto della raccolta non solo ai fondi ma anche al tempo volontario delle persone dell'organizzazione donatrice e di altri servizi/prodotti di queste. GATEKEEPER Chi tiene le chiavi del cancello. In relazioni pubbliche il gatekeeper è sicuramente un interlocutore rilevante. Talvolta è stakeholder [vedi anche] (consapevole e interessato alla relazione con l'organizzazione); altre volte è influente [v. influential, influencer] (non necessariamente consapevole e neppure interessato all'organizzazione ma rilevante per lei perché influente sulle variabili e/o sui destinatari); altre ancora è tutte e due le cose (sia possessore di titolo a interloquire sia rilevante per l'organizzazione). L'identificazione dei gatekeeper è una delle fasi più delicate delle relazioni pubbliche e richiede un attento lavoro di analisi delle variabili [v. issue, boundary spanning, environmental scanning] che possono orientare il raggiungimento di uno specifico obiettivo perseguito dall'organizzazione. Se questo lavoro non viene fatto, alla fine… quando gli obiettivi perseguiti non sono chiari, specifici e dettagliati, tutti sono gatekeeper (come tutti sono stakeholder o influenti) e quindi non serve a nulla identificarli e si finisce per comunicare con tutti sbagliando i messaggi e investendo risorse inutili. GHOST WRITER È una funzione classica del relatore pubblico e si realizza quando si è chiamati a predisporre un discorso, una dichiarazione, un testo o un documento per un'altra persona, normalmente un datore di lavoro o un cliente. La qualità e la capacità di scrittura sono di certo importanti, ma meno della empatia del relatore pubblico con la persona che poi userà il suo lavoro. Scrivere un discorso per chi non si conosce, o si conosce poco, è quasi tempo perso. GLOBAL PRINCIPLES Negli studi di Grunig si parla spesso di ‘global principles and specific applications'. Nella sua teoria globale delle relazioni pubbliche (ancora di fase di elaborazione), per global principles si intendono quei principi generali delle relazioni pubbliche che vanno poi applicati e adattati tenendo conto delle specificità culturali, economiche, religiose e professionali adatte allo specifico territorio in cui si applicano. La Global Alliance ha adottato questo concetto nella redazione del suo protocollo etico e nel suo programma strategico 2004-2009. [v. anche specific applications] GLOBALISATION Nel contesto delle relazioni pubbliche è particolarmente suggestiva l’argomentazione del sociologo inglese Anthony Giddens il quale sostiene che: °la globalizzazione ha esaltato assai più le diversità [v. diversity] e le differenze che non l'omologazione delle culture, dei valori e dei comportamenti [v. anche glocal]; °delle grandi rivoluzioni che hanno investito il genere umano, la globalizzazione è la prima che vede la comunicazione, da sempre alla perenne conquista del tempo e dello spazio, come motore principale. GLOCAL Una crasi fra global e local. Termine coniato ai primissimi anni novanta per indicare sia l'accezione di Giddens [v. globalisation] sia quella di Grunig [v. global principles]. GOODWILL Letteralmente, buona volontà. In relazioni pubbliche può essere interpretato come la disponibilità ‘al buio’ di un interlocutore, l'apertura di fiducia verso l'organizzazione prima del dialogo, perfino la reputazione [v. reputation], purché prima di un intervento consapevolmente orientato a influenzarla. Altrimenti, nella valutazione di una impresa, è il valore del patrimonio Intangibile [v. invisibile assets], ma si usa sempre meno man mano che gli intangibili trovano propri e condivisi sistemi specifici di valutazione. GOREL (Governo delle Relazioni) or RELMA (Relationship Management) Acronimo formulato alla metà degli anni ottanta dalla SCR Associati, allora società leader del mercato italiano delle relazioni pubbliche, nello sviluppo di un ‘canovaccio’ di riferimento per procedere all'attuazione e per misurare i risultati di una attività di relazioni pubbliche. Oggi, il termine di relationship management è largamente diffuso in tutto il mondo [v. anche relationship, systemic school]. In Italia, il metodo Gorel è in continua rivisitazione. Quel metodo, con una ampia flessibilità, viene oggi adottato da molte organizzazioni anche internazionali e da diversi professionisti. Il termine ‘governo’ è alternativo a quello di ‘gestione’ (management) poiché una relazione, se è interattiva e tendenzialmente simmetrica [v. symmetric], non può e comunque non deve essere gestita, ma ‘governata’ nel senso di governance [vedi anche]. GOVERNANCE Non esiste un termine italiano condiviso. Potrebbe essere ‘governò’, ma è troppo stretta la sua identificazione con il governo di uno Stato (tanto che in inglese si dice governance e non Government…). Viene usato con diverse accezioni: °si parla di governance per indicare il sistema di regole che assicura una corretta gestione delle organizzazioni; °se ne parla anche come applicazione di processi partecipati e inclusivi per arrivare ad assumere e implementare decisioni che producono o possono produrre conseguenze su altri. Tutte le accezioni hanno comunque in comune l'inclusione di nuovi soggetti nei processi decisionali delle organizzazioni private, pubbliche e sociali. GRASS-ROOT Letteralmente: radice erborea. In relazioni pubbliche implica una qualsiasi azione ‘dal basso’ con il quale il relatore pubblico si trova a confrontarsi con un pubblico. Con particolare riferimento all’attività di lobbying [vedi anche], ‘grass-root lobbying’ indica la mobilitazione civile (tramite manifestazioni, invio di lettere, scioperi…) per cercare di influire sui Processi Decisionali Pubblici (PDP). GROSS IMPRESSION Nei sistemi di misurazione quantitativa delle relazioni pubbliche [v. measurement, output] è l'indice delle uscite sui media [vedi anche] moltiplicate per i lettori potenziali [v. effective audience, exposure]. Il termine gross sta per lordo, nel senso che non potrò mai sapere quanti abbiano davvero letto quell'articolo, ascoltato o visto quel programma o quella notizia. Ma posso sapere potenzialmente quanti lo avrebbero potuto fare. GROSS RATING POINT (GRP) Nei sistemi di misurazione quantitativa della pubblicità è l'indice che misura la pressione sui media di una campagna. Si calcola moltiplicando l'audience per la frequenza di uscita. GRUNIG (models of PR) Felice elaborazione dello studioso americano James Grunig per sintetizzare quattro diversi approcci alle relazioni pubbliche che corrispondono anche ad altrettanti fasi storiche della professione, pur essendo oggi tutti e quattro i modelli adottati, e sovente anche nella stessa organizzazione. Eccoli: 1) Press Agentry: le relazioni pubbliche hanno un solo interlocutore prevalente che è il giornalista, al quale si forniscono notizie anche fantasiose purché creative e capaci di fare vendere più copie. Si viene così a creare un sorta di ‘dipendenza’ del giornalista dal relatore pubblico. Il modello è unilaterale e completamente asimmetrico [v. asymmetric] (nasce a fine 800 e Grunig cita come caso esemplare quello del proprietario di circo P.T. Barnum) 2) Public Information: le relazioni pubbliche hanno sempre lo stesso interlocutore prevalente (il giornalista) ma l’organizzazione gli riconosce il diritto ad una informazione veritiera anche se parziale, e all’accesso alla fonte per ulteriori approfondimenti. È sempre un modello unilaterale ma leggermente più simmetrico [v. symmetric]. Grunig attribuisce questo modello a Ivy Lee nei primi anni del novecento [v. anche muckracker]. 3) Scientific Persuasion (Two-Way Asymmetric): le relazioni pubbliche ascoltano i destinatari (consumatori, elettori, utenti, beneficiari) per capire chi sono i loro opinion leader [vedi anche] e per verificare l’efficacia [v. evaluation] dei messaggi [v. message] predisposti prima di trasferirli erga omnes. È un modello che anticipa il marketing, bi-laterale e assai più simmetrico. Grunig fa risalire il modello ai primi anni venti con l'attività di Edward Bernays. 4) Negotiation (Two-Way Symmetric): le relazioni pubbliche aiutano le organizzazioni a raggiungere le finalità perseguite ascoltando le aspettative dei - e sviluppando sistemi di relazione interattivi e simmetrici con - i pubblici influenti prima di decidere gli obiettivi specifici, tenendo conto delle loro esigenze quando non siano in conflitto con le finalità [v. envisioning], così da ridurre le resistenze al raggiungimento degli obiettivi così definiti. Il modello è interamente bidirezionale e tendenzialmente simmetrico, e la sua elaborazione è attribuita allo stesso Grunig. GUIDING PRINCIPLES Principi guida. Nel processo di envisioning [vedi anche] di una organizzazione è la fase successiva alla definizione della missione [v. mission] e della visione [v. vision] e precede quella della strategia [v. strategy]. È la declinazione dei principi generali di comportamento che l'organizzazione si impegna a rispettare nell'attuazione della strategia. HIDDEN PERSUADERS “Persuasori occulti” è il titolo di un libro scritto nel 1957 da Vance Packard (edito in Italia da Einaudi) in cui l’autore con straordinaria brillantezza porta alla ribalta dell’opinione pubblica [v. public opinion] la questione dell’uso delle tecniche di persuasione [v.anche Grunig] per veicolare un prodotto o un messaggio [v. message]. Se è fuor di dubbio che il concetto di “persuasori occulti” era stato originariamente coniato per indicare i pubblicitari e non i relatori pubblici, è pur vero che ancora oggi, a tanti anni di distanza, rimane uno stereotipo urticante con cui prima o poi finiscono per fare i conti tutti i relatori pubblici: trovandosi ad operare nell’incrocio tra i sistemi di relazione di società politica, dell’informazione ed economico-sociale possono dar luogo a percezione di attività opacamente (…il contrario di trasparente) manipolative e persuasive. HOSPITALITY Termine assai usato in relazioni pubbliche, tradendo così la natura originaria di una professione un cui strumento chiave è appunto l'ospitalità di interlocutori attentamente selezionati perché ritenuti influenti sull'obiettivo perseguito: giornalisti, politici, opinion leader, grandi clienti, medici, fornitori, azionisti, distributori… Da qualche anno e in qualche paese giornalisti, politici e analisti finanziari tendono a non accettare l'ospitalità e partecipano ad eventi ritenuti interessati a proprie spese. HOUSE AGENCY Agenzia di servizi interna all'organizzazione. Ciclicamente nascono e altrettanto ciclicamente defungono, a seconda della congiuntura economica. Nei periodi in cui le organizzazioni si trovano a ridimensionare le rispettive strutture interne di comunicazione, l'house agency evita il brusco licenziamento e dà tempo alle persone di verificare se sono in grado di farcela da sole. Normalmente vengono fatte in accordo con agenzie esterne che poi assorbono il personale. HOUSE ORGAN Strumento fra i più classici e più diffusi delle relazioni pubbliche. È il giornale interno dell'organizzazione [v. internal relations], talvolta diffuso anche ad alcuni pubblici esterni. HYPE, to Gonfiare, esagerare, sopravvalutare...attribuito sovente come caratteristica delle relazioni pubbliche, come anche l'altro termine spin [vedi anche]. [vedi anche sexing up] IMPACT È l'impatto di un evento [v. event], di una notizia, di una circostanza, di una campagna rispetto all'obiettivo perseguito. I parametri di valutazione e/o misurazione possono essere quantitativi o qualitativi [v. evaluation, measurement, output, outtake, outcome, outgrowth]. INFLUENCE È, da sempre, uno degli obiettivi strutturali delle relazioni pubbliche.Per la verità, fino alla metà degli anni Ottanta, questo obiettivo veniva interpretato dai relatori pubblici in senso ‘push’ (l'organizzazione si propone di influenzare i pubblici tramite le relazioni pubbliche). Oggi è interpretato in senso maggiormente bilaterale: anche i pubblici influenzano l'organizzazione e, attraverso il reciproco ascolto e una relazione tendenzialmente simmetrica [v. symmetric], si affrontano le issue [vedi anche] a beneficio di entrambi. INFLUENTIAL, INFLUENCER È un soggetto, non necessariamente consapevole e neppure particolarmente interessato alla relazione con l'organizzazione, che questa ritiene influente sul raggiungimento dei propri obiettivi, sia perché capace di orientarne le variabili [v. issue], sia perché capace di orientare le opinioni [v. opinion leader] dei destinatari finali [v. end recipient]. È diverso dallo stakeholder [vedi anche] (anche se spesso lo è anche) che invece è soggetto consapevole e interessato alla relazione con l'organizzazione.Normalmente lo stakeholder (che è a sua volta quasi sempre influente) viene ascoltato, con l’impiego di metodi pull e tendenzialmente simmetrici [v. symmetric], prima della definizione degli obiettivi. L'influente invece viene ascoltato dopo la definizione degli obiettivi con metodi push-pull, retorici e meno simmetrici. Da una accurata selezione di stakeholder e influenti dipende in larga parte la capacità del relatore pubblico di ridurre l'inquinamento comunicativo [v. info-communicative overload] e le risorse economiche da investire nella comunicazione. INFO-COMMUNICATIVE OVERLOAD È il sovraccarico che deriva dal crescente e incontrastato flusso di informazionecomunicazione che viene rilevato nell’ambiente esterno. Alcuni ricercatori dell’Università di Berkeley registrano ogni anno la quantità di byte inforelazionali che vengono immessi nell’ambiente (How Much Info?): nel 2003 ciascun essere vivente ha ricevuto/ritrasmesso 800 milioni di byte (sic), con un incremento costante annuo (dal 2001) del 30%. Fonti importanti anche pratiche di relazioni pubbliche sovente poco professionali mascherate dall’alibi di ‘insopprimibili’ esigenze dei nostri clienti/datori di lavoro (ad esempio, il virus da visibilità che li affligge… da quando però noi per primi li stimoliamo ad apparire, scatenandone - da veri e propri pusher - le loro crisi da astinenza). Per contrastare questo fenomeno si impone a tutte le organizzazioni, a tutti i relatori pubblici - e alla loro comunità professionale – di assumere piena consapevolezza di questo tipo di inquinamento, della sua scarsa efficacia e dei suoi danni certi e, conseguentemente, adottare pratiche comunicative maggiormente sostenibili e rendicontabili [v. Communication Social Responsibility]. INFOMERCIAL È una categoria mista di comunicazione a cavallo fra una notizia e una pubblicità pagata. In italiano, sono i cosiddetti publiredazionali. INSIDER Da insider trading, la pratica vietata in molti mercati finanziari di utilizzare informazioni sensibili (‘price sensitive’) riferite ad una società quotata in borsa per speculare sul titolo. I relatori pubblici, alla pari delle altre funzioni dirigenziali delle imprese quotate e dei loro consulenti più vicini, sono spesso in condizioni di farlo. INTERNAL RELATIONS I sistemi di relazione interni all'organizzazione hanno oggi in molti casi un peso superiore a quelli esterni. Tradizionalmente e fino alla metà degli anni Settanta la cosiddetta ‘comunicazione interna’ era dominio incontrastato delle direzioni del personale. L'esperienza di alcune imprese italiane (Iri, Italsider, Olivetti, Pirelli) e fino ai primi anni Settanta, è celebrata come una delle più innovative e interessanti del mondo intero. Nel contesto sfavorevole di una cultura imprenditoriale fortemente paternalistica e autoritaria, queste aziende hanno saputo acquisire quell'autorevolezza e quel consenso (che oggi tutti dichiarano e si sforzano di perseguire), anticipando con modalità proprie e diverse l'una dall'altra, quella che poi sarà la ‘mitbestimmung’ tedesca o, fra gli economisti, la ‘stakeholder society’. Negli anni Settanta, esasperati dalla situazione sociale, gli imprenditori (Confindustria e Fiat in prima linea) hanno colpevolmente lasciato la comunicazione interna, e per contratto (quello dei metalmeccanici del 76 sulla informazione dovuta), nelle mani del sindacato riducendo la funzione del direttore del personale a quella di controllore.Si è dovuto attendere fino alla marcia torinese dei 40 mila dei primi anni Ottanta, per assistere al rilancio della comunicazione interna con il risultato di riposizionare la funzione in direzione delle risorse umane, per poi passare in molti casi nel decennio successivo alla direzione comunicazione. È una vecchia questione: da chi deve dipendere la comunicazione interna? Non esiste un soluzione certa e buona per tutte. Se è la direzione risorse umane ad applicare all'interno dell'organizzazione le politiche aziendali, le spetta governare i processi di comunicazione servendosi delle competenze comunicative della direzione competente alla quale, a sua volta, spetta garantire la coerenza e il governo dei processi relazionali e comunicativi con tutti gli stakeholder [vedi anche] dipendenti inclusi. INTERNATIONAL RELATIONS Si discute se le relazioni internazionali siano parte delle relazioni pubbliche. E in tal caso, se i corpi diplomatici degli Stati non siano in realtà da sempre anche una espressione professionale delle relazioni pubbliche (public diplomacy). Dal punto di vista delle organizzazioni, non v'è dubbio che la globalizzazione [v. globalisation] abbia esaltato e reso pervasivo la questione delle relazioni internazionali. Un recente e ottimo volume (Global PR Handbook di Vercic e Shiramesh del 2003) parte dal presupposto che nel mondo di oggi sia impossibile esercitare la professione delle relazioni pubbliche in una ottica locale. I modelli di relazioni pubbliche internazionali sono molteplici e in continua evoluzione e tengono conto delle diversità di cultura organizzativa e di cultura dei diversi Paesi. [v. anche diversity, glocal, global principles] INVISIBILE / INTANGIBILE ASSETS Da diversi anni economisti di impresa sviluppano metodi e parametri per quantificare e misurare le attività soft delle organizzazioni quali la reputazione, l'immagine, l'identità e i sistemi di relazione. ISSUE (Management) Questione, variabile, fattore, problema. È la materia grezza di cui si occupano le relazioni pubbliche. Si crea una issue, si risponde a una issue, ci si confronta con una issue, ci si sforza di orientare, governare, gestire una issue. Alla fine degli anni Settanta in alcune multinazionali come Ibm e Philip Morris, e poi negli anni Ottanta con modalità pervasive da società di consulenza beniamine della comunità manageriale internazionale come Intermatrix o Burson Marsteller, si diffuse l'issue management inteso come orientamento dell'organizzazione al governo delle issue… Un po’ come oggi inizia a succedere con lo Stakeholder Relationship Management [vedi anche]. Nel Gorel [vedi anche] l'issue management è integrato nella fase di analisi delle variabili (interne/esterne) che influenzano il raggiungimento degli obiettivi dell'organizzazione, mentre lo Stakeholder Relationship Management è compreso nella fase (precedente) di ascolto delle aspettative degli stakeholder prima della definizione degli obiettivi e si sviluppa tramite l’integrazione verticale dei diversi sistemi di relazione con i vari segmenti di pubblici influenti. JUNK MAIL È la posta spazzatura, quella che noi relatori pubblici diffondiamo a piene mani quando non stiamo attenti alla individuazione preventiva degli interlocutori rilevanti. JUNKET O JUNK TRIP Il termine junk sta per ‘spazzatura’, ‘robaccia’, ‘schifezza’, ‘ferrovecchio’. In relazioni pubbliche un ‘junket’ oppure un ‘junk trip’ indica quel viaggio di gruppo che si offrono a giornalisti o altri segmenti di opinion leader [vedi anche] in luoghi esotici o comunque attraenti per presentare un prodotto, un servizio o un'idea che potrebbero benissimo essere presentati in luoghi meno ameni e costosi. L’obiettivo del junket è di ‘catturare’ quei giornalisti o opinion leader per qualche giorno e fargli un bel lavaggio del cervello passando insieme a loro ore serene e allegre - alimentate normalmente da consumi e divertimenti insoliti e di lusso - per sviluppare o rafforzare relazioni personali. Il termine junk è però spregiativo e viene usato da quei giornalisti, sempre più numerosi, che rifiutano di partecipare a queste ‘scampagnate’. JUST-IN-TIME Il riferimento è al noto sistema produttivo introdotto dai giapponesi alla fine degli anni Ottanta, oggi assai applicato anche in Europa e nelle Americhe. In relazioni pubbliche il riferimento è ironico, paradossale e concerne la classica reazione pavloviana per cui molti relatori pubblici, qualsiasi sia la natura della questione affrontata, reagiscono sempre allo stesso modo: facciamo una conferenza stampa [v. news conference] oppure facciamo un evento [v. event], o infine, facciamo una conferenza stampa che si trasformi anche in un evento. KEY PERFORMANCE INDICATOR (KPI) Nella più ampia tematica della valutazione e della misurazione delle relazioni pubbliche [v. evaluation, measurement], per KPI si intendono gli indicatori prescelti prima dell’avvio di un progetto che saranno poi adottati per misurarne l’efficacia o l’efficienza. KEYNOTE È l’intervento chiave, centrale di un convegno o un congresso. Il keynoter è una personalità specializzatasi nel fare interventi keynote. Il ‘ghost keynoter’ è chi si scrive i discorsi dei keynoter [v. ghost writer]. LABOUR INTENSIVE Le relazioni pubbliche, a differenza della pubblicità, sono una attività ad alta intensità di lavoro e a (relativamente) bassa intensità di capitale [v. capital intensive]. L'implicazione è rilevante quando ci si accinge a valutare l'indotto economico delle due attività. Mentre infatti ha senso misurare l'indotto della pubblicità sommando gli investimenti delle organizzazioni sui diversi media (vedi il Sic - sistema integrato della comunicazione introdotto dal Parlamento con la recente legge Gasparri, oppure l'annuale ricerca Upa/Intermatrix sugli investimenti in pubblicità), non ha invece senso alcuno utilizzare quegli stessi indicatori per le relazioni pubbliche le quali, come è noto, non acquistano spazi o tempi sui diversi media. Così, per valutare le relazioni pubbliche ha molto più senso censire il numero degli operatori, attribuire loro un costo lordo medio per l'organizzazione nella quale o per la quale lavorano, moltiplicare per tre questa somma in virtù di una sia pur modesta ma indispensabile produttività e si ottiene l'indotto complessivo. Così in Italia, nel 2001 erano 70 mila (di cui 40 mila nelle amministrazioni pubbliche), i relatori pubblici con un costo lordo annuo medio di 50 mila euro. Moltiplicando questa cifra per tre nel presupposto che la produttività di un quadro stia nella sua capacità minima di produrre costi esterni almeno tripli rispetto al proprio, si arriva a superare i 10 miliardi di euro l'anno. LABOR RELATIONS Relazioni con il sindacato dei lavoratori. Normalmente sono delegate alla direzione risorse umane (o personale), ma in situazioni di emergenza o in casi di negoziati particolarmente rilevanti si rende necessario anche l'intervento del relatore pubblico, quasi sempre per questioni attinenti i rapporti con la stampa, ma talvolta anche per i rapporti diretti con il sindacato oppure con altri soggetti istituzionali ritenuti rilevanti per il raggiungimento dell'obiettivo perseguito. LATERAL THINKING È il cosiddetto pensiero laterale, la capacità di affrontare creativamente più questioni diverse fra loro in contemporanea e anche di trovare collegamenti fra loro. Essenziale per chi fa relazioni pubbliche, soprattutto (ma non solo) se lavora in consulenza. [v. anche brainstorming] LEAFLET È il classico depliant (peraltro termine di origine francese), una rappresentazione stampata, non minima come un volantino né massima come una brochure (altro termine francese), in cui viene presentato un prodotto, un servizio, una idea o una organizzazione. Il leaflet va in distribuzione ai pubblici influenti oppure anche ai destinatari finali [v. end recipient]. LEAK Letteralmente… una ‘perdita’ di acqua o di benzina o altro liquido da un contenitore apposito. Figurativamente e in relazioni pubbliche, la fuoriuscita di notizie, di informazioni o di dati riservati malgrado le intenzioni (talvolta soltanto a quelle ufficiali ) dell’organizzazione. Il compito viene solitamente affidato al relatore pubblico al quale si chiede di 'spifferare’ l’informazione riservata assicurandosi che non venga rivelata la fonte. È una prassi assai diffusa ma esplicitamente condannata da tutti i codici etici della professione, poiché il relatore pubblico è sempre obbligato a citare la fonte delle informazioni che trasferisce. LEARNING CURVE La curva di apprendimento. In relazioni pubbliche più che una curva, di questi tempi, è una linea sempre in salita poiché la professione cambia con la velocità della luce e quei professionisti che non dedicano una parte consistente del loro tempo all’aggiornamento permanente, vengono inevitabilmente tagliati fuori dal mercato. LEGAL PUBLIC RELATIONS Da molti anni in Usa e da una decina di anni in Italia è quella specializzazione del relatore pubblico che svolge la sua attività per conto degli studi legali o di loro clienti. LEGITIMACY Legittimazione sociale di una organizzazione [v. license to operate]. La legittimità sociale di qualsiasi tipo di organizzazione (privata, pubblica, sociale) dipende dalla capacità di soddisfare le aspettative dei suoi pubblici influenti dando luogo a processi inclusivi nella fase di definizione degli obiettivi. Sul concetto di legittimazione ha scritto parecchie cose interessanti la studiosa Susanne Holstrom nell'ambito della sua teorizzazione del modello riflettivo [v.reflective role] delle relazioni pubbliche. LIABILITY Obbligo di responsabilità. Si usa anche per indicare il livello di rischio rispetto ad una determinata questione. LIAISE Dal francese ‘liaison’, legame, relazione, rapporto. To liaise… Legare o relazionarsi con… LIBEL Diffamazione, causa per…. LICENSE TO OPERATE Licenza di operare: un modo di dire per rappresentare il desiderio di una qualsiasi organizzazione a godere di una legittimità sociale [v. legitimacy]. In effetti è una licenza che non viene concessa da una normativa o da una camera di commercio, ma dai pubblici influenti consapevoli [v. stakeholder], sui quali le attività di quella organizzazione produce conseguenze. È una vera e propria legittimazione sociale dell'organizzazione, molto importante soprattutto quando scoppia una crisi e i pubblici influenti, se la licenza ad operare è stata ‘concessa’, fanno quadrato e sostengono l'organizzazione o comunque tendono ad essere indulgenti. LINE EXTENSION Un nuovo prodotto o servizio che estende una linea esistente di prodotti o servizi. LIST BROKER Un fornitore di servizio che propone al relatore pubblico liste di nominativi di persone con le quali avviare relazioni rilevanti. LITIGATION PUBLIC RELATIONS Da molti anni in Usa, e da una decina di anni in Italia, è quella attività specialistica di un relatore pubblico che, in stretta collaborazione con i legali e talvolta anche coordinandone le attività, assiste il datore di lavoro/cliente nel tutelarne la reputazione presso il cosiddetto tribunale dell’opinione pubblica. [v. anche legal public relations] LOBBY (Lobbying) È l'attività pubblica e trasparente [v. transparency] di chi opera per influire sugli esiti di un Processo Decisionale Pubblico (PDP, in inglese PPP: Public Policy Process). Il termine deriva da corridoio o anticamera, ove staziona chi non ha diritto ad entrare nei luoghi della decisione pubblica e per rappresentare le proprie argomentazioni ferma i decisori che vi si recano. In alcun Paesi (Stati Uniti, 1946 con il Lobbying Act) l'attività dei lobbisti è regolata fin dal secondo dopoguerra: sostanzialmente il professionista ha obbligo di registrarsi in un elenco accessibile al pubblico in cui indica gli interessi che rappresenta e di consegnare periodicamente alla istituzione presso la quale è registrato una relazione in cui illustra l'attività svolta e le spese sostenute. In Italia, la regione Toscana ha regolato le attività dei gruppi di interesse e la regione Calabria discute una analoga proposta legislativa. In Inghilterra l’obbligo di trasparenza spetta non ai lobbisti ma ai “lobati”. E’ il parlamentare della Camera dei Comuni, il Lord della Camera Alta o il Consigliere Comunale che ha l’obbligo di registrare una dichiarazione ad una apposita commissione ogni volta che viene coinvolto da un lobbista in una iniziativa tesa a influenzare il processo decisionale pubblico. Da non confondere con le attività più generali di Public Affairs [vedi anche] di una organizzazione di cui la lobby è soltanto parte. LOCATION E’ il luogo, accuratamente selezionato dal relatore pubblico, ove si svolge un evento [v. event]. [v. anche venue] LOW KEY / PROFILE Una campagna o una iniziativa low key o low profile è di basso profilo, di tono moderato. Quando l'obiettivo perseguito non è tanto la visibilità, quanto l'efficacia [v. effective] della relazione. MAILING LIST Termine usato anche in Italiano (anche solo come mailing) per indicare un elenco di persone da invitare ad un evento [v. event] o di giornalisti cui inviare una informazione. Impropriamente viene considerato come uno dei maggiori valori patrimoniali di un professionista delle relazioni pubbliche. Impropriamente poiché oggi la mailing list è una vera e propria commodity (un bene di uso comune privo di valore rilevante). Il valore patrimoniale sta semmai nei sistemi di relazione che il professionista è in grado di trasferire alla causa del suo cliente/datore di lavoro. MANAGEMENT Gruppo dirigente di una organizzazione. Top management è il vertice. Dominant coalition è il termine usato dalla scuola sistemica [v. systemic school] per indicare il gruppo di potere reale di una organizzazione che non coincide necessariamente, in una determinata situazione o in uno specifico momento, con il vertice formale. MANAGERIAL ROLE È il relatore pubblico che sviluppa i programmi già definiti, gestisce le risorse tecnico operative e mantiene le relazioni con i pubblici influenti al fine di guadagnarne la comprensione reciproca. È il ruolo dalle competenze gestionali che, oltre a possedere quelle tecniche accennate in precedenza, prevede una buona capacità di coordinamento delle risorse a disposizione. [v. anche Bled manifesto] MARKETING Disciplina manageriale, tipica delle organizzazioni che operano sul mercato, con la quale si pianificano e si sviluppano le attività di sviluppo, di promozione, di distribuzione e di commercializzazione di un prodotto o servizio. Tradizionalmente adottata dalle imprese e in particolare quelle di largo consumo, oggi si va diffondendo anche nelle imprese industriali e nelle organizzazioni pubbliche e sociali. MARKETING COMMUNICATION È una delle componenti (leva) fondamentali del marketing. Non si può sviluppare, progettare, distribuire e vendere un prodotto o servizio se il cliente potenziale non sa che esiste. La competizione per l'occupazione degli spazi sui media [vedi anche] e per attirare e mantenere l'attenzione del cliente potenziale è la finalità del marketing communication. Attenzione: nella lingua inglese communication senza la s, anche al plurale, indica la comunicazione come la intendiamo noi, mentre con la s, anche al singolare, indica la comunicazione come la intendono gli operatori delle telecomunicazioni. MARKETING PUBLIC RELATIONS È la specializzazione delle relazioni pubbliche quando operano a supporto del marketing. Fin dagli anni Sessanta nel mondo anglosassone, il ‘Marketing PR’ rappresenta la parte preponderante della professione in termini sia di investimenti che di persone impegnate. In Italia questo è forse vero oggi, ma non lo è stato per tanti anni. Infatti le attività di marketing public relations (con la sola eccezione della product publicity -intesa come informazione di prodotto- che viene da sempre attribuita alle relazioni pubbliche) sono da noi in larga parte realizzate dalle società di promozione e questo è dovuto al fatto che quando la comunicazione di marketing ha cominciato a diffondersi in Italia (nei primi anni ottanta) i relatori pubblici erano troppo impegnati in attività di public affairs [vedi anche] per interessarsi di marketing. MARKETING TERRITORIALE Molto di moda in questi ultimi anni in Italia con uno sviluppo direttamente proporzionale alla caduta libera degli investimenti. Mentre in altri Paesi come l’Irlanda, il Galles, la Francia, la Spagna e il Portogallo, per non parlare degli Stati Uniti si sono avviate intense e consapevoli attività di marketing territoriale fin dalla fine degli settanta prevedendo in anticipo la feroce competizione che si sarebbe scatenata nei Paesi occidentali per mantenere nel proprio territorio gli investimenti delle imprese, nel nostro Paese queste attività si sono avviate con modalità sistematiche soltanto a partire dal 2000. Si tratta prevalentemente di progetti integrati di sviluppo e comunicazione per attirare su un determinato territorio gli investimenti di imprese. Gli argomenti di attrazione si sono progressivamente spostati dalla messa in opera di infrastrutture pesanti e di incentivi economici allettanti alla predisposizione di condizioni di vita competitive. Il riferimento è soprattutto alle tre ‘T’ del consulente americano Richard Florida: Tecnologie (della comunicazione), Talenti (università e sistema educativo complessivo), Tolleranza (esaltazione della diversità come elemento di attrazione). Le relazioni pubbliche sono molto impegnate in queste attività anche e soprattutto perché solitamente gli investimenti in marketing territoriale vengono erogati da soggetti misti pubblico/privato (comuni, camere di commercio, associazioni industriali…) sovente messi insieme e coordinati da relatori pubblici. MASS In comunicazione (nel senso di comunicazione di massa) è un concetto molto cambiato in questi anni. C’è perfino chi dubita che possa ancora venire utilmente adoperato. I mutamenti - rispetto a 30/40 anni fa nel mondo anglosassone, a 30/20 anni fa in Italia - sono soprattutto indotti dalla crescente segmentazione e clusterizzazione [v. cluster] degli stili di vita del pubblico e dei suoi diversi media [vedi anche](incluse perfino le televisioni generaliste, grazie ad un sapiente utilizzo delle fasce orarie), fino ad arrivare, con Internet, ad un medium individuale, contrapponibile a quelli di massa (anche se alcuni sostengono che anche Internet sia un mass medium…). In relazioni pubbliche, ora che le tecnologie e lo sviluppo delle conoscenze consentono una sempre più precisa identificazione dei singoli interlocutori importanti per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti da una organizzazione, è in atto la tendenza a passare dal tradizionale concetto di target o di massa, connaturati ad una comunicazione tipicamente a, unidirezionale e erga omnes, al concetto di influenti [v. influential, influencer], stakeholder [vedi anche] o leader di opinioni [v. opinion leader], più consoni ad una comunicazione verso, maggiormente bidirezionale e tendenzialmente simmetrica [v. symmetric], fino ad arrivare al concetto di persona, tipico invece di una comunicazione con, del tutto bidirezionale e simmetrica, a testimonianza del rilievo che la diversità [v. diversity], basata sul principio che ogni persona è diversa da un’altra, ha per una concezione contemporanea e piena del valore delle relazioni pubbliche per una organizzazione. MEASUREMENT Da qualche tempo è l’Araba Fenice delle relazioni pubbliche: tutti ne parlano ma nessuno sa dov’è (o cos’è). Storicamente restii per motivazioni etiche (all'inizio le relazioni pubbliche erano solo media relations [vedi anche] e lobby [vedi anche], quindi se posso impegnarmi a fare uscire un articolo oppure a fare approvare un emendamento, eventi non controllabili, vuol dire che mi sono impegnato a pagare per avere l'uno e/o l'altro), poi per pigrizia e per prendere le distanze dai cugini pubblicitari. Oggi - con il continuo aumento degli investimenti in relazioni pubbliche - i professionisti subiscono pressioni crescenti perché l'efficacia [v. effective] delle loro attività siano misurate alla stregua di qualsiasi altra attività manageriale. I presupposti della questione sono: °non puoi gestire quel che non sai misurare e non puoi misurare quel che non sai definire, così nel 1994 Norton e Kaplan nel loro Balanced Scorecard (Harvard Business Press). Se allora le relazioni pubbliche sono parte del management di una organizzazione va da sé che devono essere misurabili; °ogni forma di misurazione è possibile soltanto se i criteri sono definiti in partenza [v. key performance indicator]. L’implicazione è che l’organizzazione deve, prima di avviare una azione di relazioni pubbliche, definire con chiarezza gli obiettivi perseguiti e i criteri che adotterà per misurarne il raggiungimento. In assenza di questo, non sarà possibile misurare alcunché; °la misurazione è una cosa e la valutazione è un’altra [v. evaluation]. Misurare vuol dire attribuire dei valori quantitativi alle relazioni pubbliche: parliamo di output [vedi anche] e, in parte, di outtake [vedi anche] (per esempio gli spazi effettivamente conquistati da un comunicato o da una conferenza stampa, oppure -se si tratta di un evento- il numero di partecipanti a un evento, a prescindere se quella notizia o quell'evento potranno effettivamente modificare le opinioni, i comportamenti o le decisioni dei lettori o dei partecipanti). Si tratta di un processo di natura oggettiva, in quanto non implica interpretazioni personali o inferenze di nessun tipo. Valutare implica invece attribuire valori qualitativi, introducendo interpretazioni maggiormente soggettive: parliamo dunque di outcome [vedi anche] e di outgrowth [vedi anche] (valutare cioè se quella determinata iniziativa ha contribuito a modificare le opinioni, i comportamenti o le decisioni dei lettori o dei partecipanti e se, e quanto, ha contribuito a rafforzare la relazione con loro). MEDIA È innanzitutto importante sottolineare che il termine deriva dal latino e quindi va pronunciato media e non ‘midia’. Al singolare si dice dunque medium. Un errore che facciamo in tanti e che segnala una eccessiva e inconsapevole dipendenza dalla lingua inglese (da qui l’idea di questo dizionario). Il medium è un canale (fisico come un giornale, etereo come una frequenza televisiva, virtuale come uno scambio di bit) che unisce l'emittente al ricevente e, nei casi di interattività, anche viceversa. MEDIA ACCESS Si intende il livello di accesso (basso, medio, alto; oppure cattivo, mediocre, ottimo) che un individuo, un'organizzazione o una popolazione hanno al sistema dei media (inteso come insieme dei media in un determinato Paese). [v. anche media] MEDIA BLITZ Una elevata concentrazione di uso dei media [vedi anche] da parte di una organizzazione o di un individuo per trasferire un messaggio in un breve periodo. MEDIA COVERAGE La 'copertura’che il sistema dei media [vedi anche] concede a una notizia, una questione, una iniziativa. MEDIA LIST Ha lo stesso significato di mailing list, solo che si riferisce esclusivamente ai media [v. media, media relations] e ai loro giornalisti. MEDIA RELATIONS La funzione delle relazioni con i media [vedi anche]. In Italia si usa più frequentemente, ma impropriamente, relazioni con la stampa o addirittura ufficio stampa. Quest'ultimo è errato poiché dire ufficio stampa implica una quasi passività/neutralità della funzione, quando invece il suo compito prevalente è di creare, sviluppare e consolidare relazioni con i giornalisti per conto di un ben specifico interesse; mentre relazioni con la stampa (letteralmente) è in effetti esclusivo di radio, televisione e internet. MERCHANDISING L'insieme di iniziative, strumenti e canali below the line [vedi anche] utilizzati da una organizzazione per supportare la vendita di un determinato prodotto/servizio. MESSAGE Significa il senso generale e il contenuto specifico di una parte del processo comunicativo.Il senso generale si determina quando, ad esempio nelle diverse sequenze del gorel [vedi anche], il messaggio - pur attentamente costruito in base a quello che l'emittente vorrebbe fosse nella testa del ricevente - assume il significato di un riferimento, di un contesto comune [v. familiarity], cui attingono le varie funzioni dell'organizzazione che poi lo declinano come meglio ritengono e attraverso tutti i canali disponibili. Il contenuto specifico è quando il messaggio viene trasferito esattamente come è stato costruito (ad esempio nella pubblicità, ove l'emittente, acquistando lo spazio, controlla il contenuto testuale del messaggio). METOOISM (“me-tooism”) È la sindrome del ‘vengo anch'io’, dell'imitazione. Quando un fenomeno, una espressione, una tendenza si diffondono rapidamente per cui un gran numero di persone (o anche di organizzazioni), pur se prive di consapevolezza specifica, fanno la stessa cosa o compiono le stesse scelte. Per esempio, è successo recentemente in Italia con la responsabilità sociale delle imprese. Succede anche quando qualche leader di opinione [v. opinion leader] esprime una opinione che, solo perché espressa da lui/lei, viene di per sé condivisa indipendentemente o quasi dai contenuti. MISSION Sta per ‘missione’ e in gergo organizzativo è la prima fase del cosiddetto processo di envisioning [vedi anche] organizzativo che comprende, oltre alla missione, anche la visione [v. vision], i valori guida [v. guiding principles] e, in qualche occasione, la strategia [v. strategy]. La missione di una organizzazione si riferisce al suo presente: cosa è, cosa fa. [v. anche gorel] MONITORING Osservazione consapevole e costante di una variabile [v. issue] le cui dinamiche accelerano o ritardano il raggiungimento di un obiettivo perseguito. Oppure, osservazione continua di attività legislative su questioni di interesse [v. lobby, public affairs] o dei comportamenti editoriali e redazionali dei media [v. media, media relations]. MUCKRACKER Così furono definiti quei giornalisti progressisti a cavallo fra il 19esimo e il 20esimo secolo che provocarono la nascita dei professionisti delle relazioni pubbliche [v. anche Grunig]. ‘Muck’ sta per immondizia, sterco e ‘racker’ per raccoglitore: quindi (mestatore) grattatore, raccoglitore di immondizie. I grandi capitalisti e banchieri americani di quel tempo si trovarono inaspettatamente sotto il tiro di continue inchieste giornalistiche definite muckracker che denunciavano le nefandezze nella conduzione dei loro affari (da qui si forma lo stereotipo del giornalismo investigativo anglosassone). Preoccupati che gli attacchi creassero difficoltà alle ulteriori concessioni federali di fondi per completare le grandi infrastrutture che stavano costruendo (telecomunicazioni, ferrovie, strade, elettricità) i capitalisti e banchieri assoldarono giornalisti perché passassero dall’altra parte per difenderli. Nascono nel 1900 a Boston la Publicity Bureau, prima agenzia di relazioni pubbliche e nel 1904 a Washington, la William Wolff , prima agenzia di lobby [vedi anche] creata da un ex avvocato MULTINATIONAL Termine che indica una impresa che opera in più Paesi. In effetti vi sono diversi modi per definirla: -International (sede centrale e decisionale nel Paese di origine con terminali all’estero prevalentemente distributivi e commerciali) -Transnational (sede centrale e decisionale nel Paese di origine con attività anche produttive in un numero limitato di Paesi normalmente confinanti o vicini) -Multinational (sede centrale nel Paese di origine ma con processi decisionali assai decentrati e attività produttive e commerciali in molti Paesi e in diversi continenti) -Global (sede centrale nel Paese di origine, con processi decisionali più accentrati che nelle multinazionali, con sedi produttive quasi sempre delocalizzate in Paesi a minore costo di mano d’opera e politiche commerciali interamente focalizzate sull’affermazione di marche globali). NEGOTIATIVE Per alcuni l'approccio negoziale alle relazioni pubbliche è alternativo a quello persuasivo e sostanzialmente si ispira al quarto modello di Grunig [vedi anche]. Per altri invece non è un approccio alternativo ma complementare e si applica soprattutto alle relazioni con gli stakeholder [vedi anche], intesi come soggetti consapevoli e interessati ad una relazione con l'organizzazione che ne ascolta le aspettative prima di decidere gli obiettivi specifici da perseguire. Secondo questa interpretazione [v. anche stakeholder relationship management] l'approccio persuasivo alla Bernays [v. Grunig] si applica invece agli altri pubblici influenti (stakeholder potenziali, influenti sulle variabili e/o sui destinatari [v. influential, influencer, opinion leader], oppure agli stessi destinatari [v. end recipient]) che non hanno necessariamente né consapevolezza né interesse alla relazione con l'organizzazione, ma ai quali quest’ultima attribuisce il potere di ritardare o accelerare il raggiungimento dei suoi specifici obiettivi. Nell'approccio negoziale la relazione è pull, diretta, interattiva, tendenzialmente simmetrica [v. symmetric] e labour intensive [vedi anche] ma non capital intensive [vedi anche]. Nell'approccio persuasivo la relazione è invece pull-push, meno interattiva, meno simmetrica e maggiormente capital intensive. NETWORK ANALYSIS È lo studio dei reticoli sociali inteso come analisi sistematica delle reti di relazioni informali e delle conseguenti mappe di flussi comunicativi. La metodologia della network analysis ereditando e ampliando le intuizioni della sociometria di Jakob Moreno e Kurt Lewin e della scuola di Harvard di Elton Mayo, costituisce oggi un approccio pienamente maturo nel panorama delle scienze sociali, grazie alla sua capacità di operare una sintesi tra aspetti qualitativi e quantitativi, individuali e strutturali delle relazioni che si stabiliscono tra individui e gruppi di individui. È una tecnica di indagine basata su un questionario strutturato rivolto a un campione rappresentativo di un pubblico influente per rilevare nodi, flussi, contenuti e frequenza della rete relazionale, per scovarne interruzioni e disfunzioni insieme alle cause che le originano.Gli intervistati segnalano le intensità relazionali con i diversi interlocutori su una lista di item. Con l'impiego di tecniche statistiche computerizzate viene ricostruita la rete dei flussi relazionali e i ruoli di ciascuno, evidenziando con appositi grafici punti di forza e debolezza. I risultati vengono utilizzati per progettare interventi migliorativi. NETWORKING La traduzione italiana più vicina a networking è ‘fare rete’, ‘fare sistema’. Una organizzazione fa sistema quando si relaziona con altre organizzazioni con modalità co-ompetitive [v. co-ompetion], sinergiche e complementari al fine di perseguire in comune specifici obiettivi condivisi. NEWS AGENCY / WIRE SERVICE ‘Wire service’ sta per agenzia di stampa e oggi anche per ‘news agency’. All'inizio del ventesimo secolo invece si definiva news o press agency una attività di ufficio stampa, tanto che il primo modello di Grunig [vedi anche] a la P.T. Barnum, si chiama ‘press agentry'. NEWS CONFERENCE / PRESS CONFERENCE / MEDIA CONFERENCE Conferenza stampa. Fino agli anni ottanta nella vita di una organizzazione era un evento raro che vedeva i suoi vertici incontrare i giornalisti [v. media relations] per esporsi alle loro domande, e si giustificava soltanto in presenza di avvenimenti e notizie ritenute così rilevanti per l'opinione pubblica [v. public opinion] da richiedere un annuncio pubblico simultaneo con i vertici disponibili a rispondere alle domande in diretta e di persona. La preparazione richiedeva giorni e giorni. Oggi le conferenze stampa sono routine, al punto che una notizia non è una notizia se non comunicata in conferenze stampa del tutto inutili alle quali peraltro partecipano prevalentemente giornalisti free lance [vedi anche] e di service in rappresentanza di testate con perenni problemi di organico. Le domande non ci sono quasi più: si arriva, si prende la cartella stampa e si scappa alla prossima. NEWS RELEASE / PRESS RELEASE Comunicato stampa redatto da una organizzazione e distribuito simultaneamente per la pubblicazione ai giornalisti interessati. Normalmente non supera le 20 righe di testo (1500 battute) anche se può essere corredato da appendici, note aggiuntive, immagini grafiche e fotografiche. Titolo e sommario sono in genere orientati ad attirare l'attenzione del singolo giornalista, e quindi possono variare, ma il corpo del testo è ufficiale e uguale per tutti i destinatari e risponde alle cinque ‘W’ [v. Five P's and W's] : who (chi), when (quando), what (cosa), where (dove), why (perché) e, dove possibile, con l’aggiunta della ‘H’ (how). Ogni comunicato (compresi i fogli aggiuntivi, le tabelle,le didascalie dei grafici e delle foto) deve contenere data di rilascio, indicazione inequivocabile della fonte e nome, indirizzo, telefono, e-mail di chi è in grado di fornire informazioni più approfondite. [v. anche media relations] NEWSLETTER Lettera di notizie. Non esiste espressione italiana se non, impropriamente, quella di ‘agenzia’ o, meglio, di ‘notiziario’. È uno strumento normalmente periodico di comunicazione (quotidiano, settimanale, mensile) con veste grafica dimessa, da consumo veloce, indirizzato ad un pubblico di esperti, appassionati o addetti ai lavori di una qualsiasi tematica. Qualche volta è a pagamento, sovente gratuita e esplicitamente redatta a cura di qualche organizzazione. Può essere anche una e-letter, cioè veicolata via Internet, list server a/o posta elettronica. NEWSWORTHY (-iness) Con orrendo neologismo: notiziabilità di una informazione. Una informazione è newsworthy (notiziabile) quando si ritiene possa interessare ai media [v. media relations]. NICHE Dalla lingua francese, indica nicchia e viene usato così anche in inglese. NIMBY ‘Not in my back yard’ (non vicino a casa mia, non nel mio giardino…). Espressione che indica la più classica delle reazioni di un gruppo di persone o di organizzazioni quando, pur riconoscendo necessario un intervento pubblico che modifica consolidati ma non più sostenibili comportamenti, difendono il diritto di non accettare quell'intervento nel loro territorio. Banalizzando il concetto potrebbe essere considerato una forma di ‘ecologismo da pianerottolo’. NUMBERS IN PR Tema controverso, sia per quanto attiene al numero di relatori pubblici effettivamente operativi sul mercato, sia per quanto attiene al valore economico delle relazioni pubbliche che della professione [v. capital intensive, labour intensive]. Rispetto al numero degli operatori, una interpretazione estensiva (relazioni pubbliche come attività delle organizzazioni per sviluppare consapevolmente sistemi di relazione con i loro pubblici influenti) porta a valutarli in 3 milioni nel mondo, 400 mila nella vecchia Europa e 70 mila in Italia (dati 2003). Una interpretazione ristretta (relazioni pubbliche come apporto strategico e non operativo alle organizzazioni per il governo delle relazioni con i pubblici influenti) riduce verosimilmente questi numeri a 1 milione nel mondo, 150 mila nella vecchia Europa e 30 mila in Italia. Rispetto al valore economico delle relazioni pubbliche la questione è di forte attualità da quando le organizzazioni, investendo somme crescenti, chiedono agli operatori una maggiore attenzione alla rendicontazione [v. accountability] e alla valutazione/misurazione [v. evaluation, measurement] dell'efficacia delle loro attività. Rispetto infine al valore economico della professione, la controversia riguarda se la professione sia da valutare come capital o labour intensive. Nel primo caso, ad esempio in Italia, nel 2003 l'indotto è valutabile in 3,5 - 4 miliardi di euro. Nel secondo caso in 10,5 - 12 miliardi di euro. Se capital intensive, si chiede ad un campione di organizzazioni quanto investono in relazioni pubbliche senza contare i costi lordi delle persone ma soltanto gli investimenti esterni, e si applica il risultato all'universo delle organizzazioni. Se labour intensive, si censisce il numero presunto degli operatori, si calcola un costo medio lordo annuo del singolo operatore per l'organizzazione, si moltiplica quel costo per tre come indicatore minimo di produttività e si tirano le somme. OP-ED (Opinion Editorial) Con questo termine si intende un testo scritto da un non giornalista, solitamente il rappresentante di un interesse, una azienda o un gruppo di pressione, che il giornale pubblica (nella pagina degli editoriali e/o dei commenti) perché il suo direttore ritiene sufficientemente interessante. Non è un publi-redazionale [v. infomercial] né comporta da parte dell'autore o dell'interesse che lo sostiene una qualsiasi contropartita monetaria [v. advertorial]. In relazioni pubbliche, è uno strumento applicato soprattutto quando si sviluppa una campagna di tematizzazione [v. advocacy]. Talvolta gli autori non sono neppure direttamente rappresentanti dell'azienda o del gruppo di interesse che lancia il tema, ma persone note e stimate per altre ragioni che esprimono una loro opinione sul tema [v. opinion leader], non troppo discordante da quella sostenuta dall'azienda o dal gruppo di interesse che gli chiede l’articolo e che poi si preoccupa di trovare il giornale disponibile a pubblicarlo. Alternativamente, prima si concorda l’uscita con il giornale purché l'articolo sia di una firma ritenuta appetibile dal direttore, poi si contattano le firme prescelte e si chiede loro se hanno interesse a fare uscire un editoriale a loro firma su una determinata testata. Naturalmente sarà necessario per il relatore pubblico far pervenire a chi accetta, un dossier di informazioni cui ispirarsi e magari anche qualche pezzo parzialmente confezionato per risparmiare fatica al testimone evitando così anche sempre possibili brutte figure nei contenuti... OPERATIONAL ROLE È il relatore pubblico che si occupa della ‘messa in opera’ delle azioni di rp. Questo profilo è legato all’esecuzione dei programmi di comunicazione sviluppati da altri. È, in altre parole, il tecnico che si occupa dell’ascolto, della progettazione, della formulazione e del trasferimento dei messaggi, della misurazione del loro impatto. [v. Bled manifesto] OPINION LEADER I leader di opinione sono soggetti cui l'organizzazione riconosce la capacità di orientare [v. influential, influencer] opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni dei destinatari finali [v. end recipient] dell'organizzazioni (normalmente i consumatori o gli utenti o gli elettori o i clienti..). Con questi leader di opinione l'organizzazione si relaziona dopo avere definito gli obiettivi, selezionato le variabili prioritarie e definito i messaggi [v. message] chiave destinati ad attirare la loro attenzione per stimolarli (offrendo loro anche opportunità e canali di diffusione) ad influenzare i destinatari finali nel senso favorevole all'obiettivo dell'organizzazione. OPINION POLL Sondaggio di opinione. In relazioni pubbliche lo strumento è utilizzato da decenni, anche se i non addetti ai lavori non se ne rendono conto. Molti dei sondaggi di opinione pubblicati dai media [vedi anche] o che rappresentano pretesti per convegni, tavole rotonde e dibattiti sono commissionati, e purtroppo non sempre con modalità trasparenti, da interessi ben precisi che intendono avvalersi dei risultati del sondaggio per influenzare [v. influential, influencer] le opinioni di altri, quasi sempre tramite i media. È ampiamente dimostrato che molti lettori e telespettatori sono facilmente influenzati dai risultati di un sondaggio di opinione: ‘se la maggioranza la pensa in un determinato modo allora vuol dire che deve essere così e anch'io allora la penso in quel modo…’ Naturalmente pochi sanno che in un sondaggio la formulazione della domanda può determinare il risultato e che basta modificarne una parola che cambia il senso del risultato (un esempio: se chiedo quanti sono favorevoli alla legalizzazione delle droghe trovo una minoranza; se chiedo quanti sono favorevoli ad una regolazione delle droghe trovo una maggioranza. Ma la domanda è la stessa…). Relatori pubblici e, ancora di più, sondaggisti e ricercatori sono responsabili di non poche manipolazioni assai discutibili. D'altro canto è anche vero che a stimolare questo modo approssimativo di fare comunicazione sono gli stessi media i quali, con modalità solitamente acritiche e pur di occupare spazio, sono ben felici di pubblicare articoli preconfezionati con tabelle improbabili e comunque non trasparenti che si riferiscono a sondaggi di opinione sulle materie più strampalate e sugli argomenti più frivoli.In alcuni casi invece il sondaggio di opinione è davvero utile per sapere come qualche segmento di pubblico la pensa su una determinata questione, ma si tratta di una minoranza e normalmente non serve alla pubblicazione.. OUTCOME All’interno del processo di misurazione e di valutazione [v. evaluation, measurement] è il cambiamento osservato nelle opinioni, nelle abitudini e nei comportamenti di coloro verso i quali è stato indirizzato uno sforzo consapevole e programmato di relazioni pubbliche. OUTGROWTH È l’ultimo livello di valutazione [v. evaluation] e rappresenta il risultato ultimo che le relazioni pubbliche si prefiggono. Esistono a tal proposito due filoni di studio che danno una significazione diversa al concetto di outgrowth: - c’è chi propende per la prospettiva relazionale e quindi tende a valutare le modifiche nelle diverse dinamiche relazionali [v. relationship]; - c’è invece chi enfatizza il ruolo delle relazioni pubbliche nel supportare - da qui l’importanza di una sua valutazione - la reputazione di una organizzazione [v. reputation]. Ben lungi dall’entrare in un discorso teorico, quello che preme sottolineare è l’importanza della definizione dell’oggetto della valutazione…anche per permettere alle rp di diventare attività maggiormente rendicontabile [v. accountability]. OUTPUT È il risultato immediato [v. measurement] di una qualsiasi attività di relazioni pubbliche. Classici criteri per la misurazione di tali output sono la copertura che i media [v. media coverage] danno alla notizia oppure all’evento [v. event], oppure il monitoraggio [v. monitoring] dei contenuti dei materiali pubblicati. In altre parole è una prima ed immediata misurazione del modo in cui un’organizzazione viene rappresentata esternamente. OUTTAKE È la misurazione [v. measurement] del grado in cui il destinatario di un messaggio lo riceve, gli presta attenzione, lo comprende, lo detiene nella sua mente..ed è in grado di richiamarlo all’occorrenza. PEER-to-PEER Letteralmente pari a pari. Il termine deriva dal linguaggio di Internet e, in relazioni pubbliche, implica una tendenziale simmetria [v. symmetric] fra i partecipanti a una relazione. PEER PRESSURE E’ quella forma di pressione, talvolta inconsapevole, che un gruppo di persone esercita su un componente del gruppo affinché adotti comportamenti omogenei e coerenti con quelli del gruppo. Quando è consapevole è normalmente frutto di una azione di relazioni pubbliche. Può assumere una connotazione regressiva laddove sia tale il comportamento invocato dal dissenziente e progressiva quando succede l’inverso. POSITION PAPER È un documento redatto dal relatore pubblico che serve a chiarire la posizione di una organizzazione con riferimento ad una particolare questione [v. issue]. Può essere redatto in maniera autonoma oppure può essere parte integrante di un intero “pacchetto” informativo più ampio e comprendente anche un documento riepilogativo delle dinamiche dell’intera questione [v. anche backgrounder, fact sheet]. Talvolta si usa anche il termine quali position statement POWERPOINT (Syndrome) È il pane quotidiano di molti - se non quasi tutti - i comunicatori che utilizzano questo programma, anche quando non serve. Ormai molti brief [vedi anche] basano la loro efficacia sulla presentazione in powerpoint dei materiali. Questo (ab)uso di una presentazione standardizzata è pericolosa: induce a seguire un percorso predefinito, ad annoiare gli interlocutori e porta i partecipanti al brief a ragionare e comprendere i messaggi esclusivamente in forma schematico/classificatoria. È la cosiddetta “sindrome di powerpoint”, un virus poco considerato, ma abbastanza ben diagnosticato, non solo da brillanti autori satirici, ma anche da puntuali analisi di efficienza organizzativa e di qualità della comunicazione. C’è chi lo definisce disinfotainment, tout court. C’è chi afferma anche che il “modello powerpoint” ha gravemente impoverito la comunicazione interna nelle imprese. E c’è addirittura chi ne ha disincentivato – per non dire proibito – l’uso interno/esterno. Un corretto processo di trasferimento dei messaggi [v. message] presuppone lavoro, attenzione, competenza, prove e verifiche, ricerca dei modi espressivi più adatti, coerenza rigorosa e attenta fra i concetti. Si osserva talvolta un presentatore, prigioniero di un formato prestabilito, cadere in imbarazzo davanti alla più semplice delle domande, perché è addestrato a ripetere la presentazione realizzata da qualcun altro. O perché, in preda a smania espositiva/oratoria, perde di vista l’argomento originario, a scapito dell’efficacia del processo comunicativo. Lungi dall’invocare sentimenti luddisti, ciò che preme sottolineare è l’importanza di un’ottimizzazione/razionalizzazione delle presentazioni in powerpoint a vantaggio dell’intero processo comunicativo. PRESS AGENTRY È il primo dei quattro modelli di Grunig [vedi anche]. Press agent è quel professionista che per conto di una organizzazione, un interesse, una persona, si propone di attirare l'interesse del giornalista [v. media relations] e lo spazio/tempo del suo medium verso il suo cliente/datore di lavoro. Il press agent, perlomeno nell'immaginario collettivo, poco si preoccupa che le informazioni pubblicate siano vere o false, positive, neutrali e negative. L'importante è occupare lo spazio per impedire che lo occupino altri. È un modello asimmetrico [v. asymmetric] che vede la fonte in posizione dominante e unidirezionale. PRESS RELEASE Comunicato stampa [v. news release] PROACTIVE Assumere l'iniziativa, essere proattivi: il contrario di reactive, che sta per essere reattivi. PROPAGANDA La parola deriva dal latino ed era utilizzata dalla Chiesa per indicare gli sforzi dei missionari che cercavano di diffondere idee religiose. Il termine viene spesso utilizzato – con connotazioni negative- anche in relazioni pubbliche per definire tutte quelle attività di comunicazione consapevoli, unidirezionali e push rivolte all’opinione pubblica [v. public opinion] allo scopo unico di diffondere determinate idee e/o influenzare opinioni, comportamenti ed atteggiamenti. E’ anche il titolo del primo e forse più bel libro di Edward Bernays, un libro del 1928 da poco ripubblicato in Usa presso l’editore Ig Publishing. PROTOCOL PUBLIC RELATIONS È la declinazione cerimoniale e protocollare delle relazioni pubbliche. Lungi dall'essere superato, il protocollo assume una sempre maggiore rilevanza non solo nelle relazioni internazionali [v. international relations], ma anche nelle normali relazioni quotidiane fra soggetti diversi. È un aspetto della professione che il relatore pubblico consapevole non può non ritenere rilevante. PUBLIC AFFAIRS È una delle attività tradizionali della professione e consiste nel governo dei sistemi di relazioni - e nella comunicazione trasparente [v. transparency]– con autorità locali, governi e parlamenti, comunità internazionali, organizzazioni sociali e culturali, associazioni d’impresa e sindacali,a associazioni di categoria, gruppi di interesse… L’obiettivo delle relazioni istituzionali (nella sua traduzione italiana) consiste nell’informare i legislatori o decisori su specifici problemi ed interessi e coinvolgere su questi anche l’opinione pubblica. Tra le varie attività che i public affairs prevedono, quella che occupa una posizione di maggior rilevanza – tanto da venir solitamente confusa con public affairs – è l’attività di lobbying [v. lobby]. PUBLIC INFORMATION È il secondo dei quattro modelli di Grunig [vedi anche] e si riferisce all'informazione oggettiva, quella dovuta, quella che magari non dice proprio tutto, ma quel che dice è fondato. Si tratta di una evoluzione del modello press agentry [vedi anche] che riconosce al giornalista il diritto di sapere. È un modello meno asimmetrico [v. asymmetric] e più bidirezionale. PUBLIC INTEREST Interesse pubblico. È il grande dilemma etico dei relatori pubblici. Come ci si deve comportare quando l'interesse che si rappresenta è in conflitto con un qualche interesse pubblico? Il protocollo etico della Global Alliance, ultimo in ordine di tempo e il più importante dei documenti etici delle relazioni pubbliche, è molto chiaro: si deve privilegiare l'interesse pubblico. Già, ma cosa è l'interesse pubblico? Il relatore pubblico può rappresentare un interesse pubblico che è in conflitto con un altro interesse pubblico, oppure un interesse privato o sociale che può essere coerente con un certo interesse pubblico e incoerente con un altro? La questione è tutt'altro che semplice… ma già l'affermare che di fronte a un conflitto potenziale che si palesa il relatore pubblico deve privilegiare l'interesse pubblico, per quanto affermazione carica di ambiguità, lo costringe comunque a trovare e razionalizzare altri interessi pubblici coerenti con l'interesse rappresentato: e questo non è l'ultimo dei vantaggi argomentativi, dialettici e retorici che un relatore pubblico possa desiderare. In ogni caso e alla fine, il vero interesse pubblico è quello, fra i tanti possibili, che il decisore pubblico decide di privilegiare quando assume una decisione. Ed è per questo che è così importante per un qualsiasi soggetto partecipare attivamente al processo decisionale pubblico: è l'unica garanzia che si ha che il decisore pubblico possa prendere in considerazione anche la nostra posizione. Se non la esprimiamo non possiamo pretendere che ne tenga conto. PUBLIC OPINION Termine coniato nei primi anni venti dal sociologo, giornalista e opinionista Walter Lippmann per declinare i compiti del giornalista: interpretare gli avvenimenti tenendo conto delle aspettative dell'opinione pubblica. È un concetto, oggi, carico di ambiguità. Rappresenta l'opinione della maggioranza? Viene indicata dai risultati dei sondaggi di opinione? È l'opinione espressa dai media più rappresentativi? E chi forma l'opinione pubblica? La classe dirigente? Sono i media? E, se è così, contribuisce di più la stampa o la televisione a formare l'opinione pubblica? Sono tutte domande che trovano mille e più risposte, diverse fra loro nella copiosa e spesso inutile letteratura. Per il relatore pubblico conviene aggirare la mal posta questione e preoccuparsi soprattutto di identificare i pubblici influenti e gli interlocutori primari dell'organizzazione, ascoltarli, tenere conto ove opportuno delle loro opinioni e basare le proprie iniziative su queste. PUBLIC RELATOR Il termine non è molto popolare ma comincia a crescere il suo uso. Relatore pubblico è il professionista che si occupa di relazioni pubbliche. Chi preferisce questo a comunicatore lo fa perché privilegia l'aspetto relazionale della professione a quello comunicativo e considera la comunicazione come strumento della relazione. PUBLIC RESPONSIBILITY È la responsabilità di una organizzazione e di una persona verso l'interesse pubblico o il pubblico o, come dice il sociologo tedesco Jurgen Habermas, la ‘sfera pubblica’ [v. public sphere]. In relazioni pubbliche rappresenta le modalità con cui una organizzazione si rende consapevole delle conseguenze [v. consequence] che le sue attività hanno sugli altri e si sforza di minimizzare quelle negative e massimizzare quelle positive ricevendo in cambio una più forte 'licenza ad operare’ [v. license to operate, legitimacy]. PUBLIC SPHERE La sfera pubblica, teorizzata nel secondo dopoguerra dal sociologo tedesco Jurgen Habermas, alla base della cosiddetta visione 'europea’ delle relazioni pubbliche, contrapposta dai suoi teorizzatori [v. Bled Manifesto] a quella americana. In sostanza, mentre negli Stati Uniti le relazioni pubbliche implicano soprattutto relazioni con i diversi pubblici di una organizzazione, prevalentemente privata; in Europa le relazioni pubbliche operano maggiormente all'interno della sfera pubblica (in tedesco, relazioni pubbliche si traducono in ‘offentlichkeitsarbeit’: lavorare in pubblico, con il pubblico, per il pubblico). PUBLICITY Attenzione: il termine publicity significa due cose diverse a seconda se chi lo usa è americano o inglese. Se inglese, publicity è sinonimo di pubblicità. Se invece chi lo usa è americano, publicity è sinonimo di ufficio stampa [v. media relations]. Il termine advertising, per intendere pubblicità viene comunemente usato anche in Inghilterra, ma publicity è considerato più raffinato e maggiormente ‘british’. QUALITATIVE / QUANTITATIVE Al di là del suo senso più evidente, è importante sottolineare che in relazioni pubbliche non sempre il secondo termine, come molti pensano, è più importante del primo. Se ad esempio ci si riferisce all'efficienza anziché all'efficacia [v. effective], oppure se si misurano gli output e gli outtake anziché gli outcome o gli outgrowths [vedi anche], il quantitative può essere più importante del qualitative. QUESTIONS AND ANSWERS (“Q & A’s”) Di fronte a qualsiasi questione [v. issue] emergente, il relatore pubblico accorto predisporrà un ‘Q & A’: un documento mai superiore alle due cartelle in cui sono elencate le domande più difficili e sotto ciascuna di queste le risposte più opportune. Nella cultura di Internet sono indicate come FAQ (Frequently Asked Questions), con la differenza che nel caso delle ‘Q & A’s’ si parla di ‘relevant’ (importanti) e non di ‘frequent question’ . RELATIONSHIP Il termine è di quelli centrali per una corretta e completa comprensione delle relazioni pubbliche intese come relazioni con i pubblici influenti sugli obiettivi perseguiti da una organizzazione. La sola raccomandazione è di leggere il libro ‘Public Relations as Relation Management. A relational (ship) Approach to the study and practice of Public Relations (2000), a cura di John A. Ledingham e Stephen D. Bruning e pubblicato da Lawrence Erlbaum Association (LEA). REPUTATION Anche in questo caso la sola raccomandazione è di visitare il sito del Institute for Reputation (http://www.reputationinstitute.com) e di leggere le opere di Charles Fombrun, fondatore dell'istituto stesso. Esiste una rilevante distanza fra la scuola relazionale (Grunig) e la scuola reputazionale (Fombrun). In realtà questa distanza non ha molta ragione di essere poiché la prima è una teoria generale che comprende e comunque non è in contraddizione con la seconda. REFLECTIVE ROLE Così come evidenziato dalla scuola europea, all’interno del ruolo strategico [v. strategy] è il relatore pubblico che, utilizzando un’attenta attività di ascolto e di auditing [v. audit], ‘riflette’ le aspettative dei pubblici influenti all’interno dell’organizzazione (leggasi coalizione dominante) e ‘fa riflettere’ l’organizzazione sulle proprie dinamiche relazionali e sui rispettivi modelli. È colui che si occupa della ‘coerenza’ esterna/interna degli obiettivi dell’organizzazione. [v. anche Bled manifesto] RESPONSIBILITY Il termine è molto di moda e si applica a parecchi aspetti delle relazioni pubbliche. Si parla di responsabilità sociale riferita alle organizzazioni (corporate), ma anche riferita alla professione [v. communication social responsibility]. Nella seconda accezione il riferimento è al contributo che le relazioni pubbliche danno o non danno all'interesse pubblico e al consolidamento o meno della democrazia. Le opinioni sono assai controverse. RHETORICAL SCHOOL Una delle tre scuole classiche delle relazioni pubbliche [v. anche critical school, systemic school]. Il suo studioso più conosciuto è Robert Heath per il quale la 'rappresentazione di un argomento’ [v. advocacy] da parte di una organizzazione è parte necessaria della stessa creazione di senso e della conoscenza, ha a che fare sia con i processi che con i contenuti del ‘discorso pubblico’ attribuendo voce paritaria a tutti i partecipanti con interesse al dialogo. Un dialogo imperniato su fatti (epistemologia), valutazioni (assiologia) e scelte politiche, di prodotti e di servizi (ontologia). ROI (Return on Investment) In relazioni pubbliche negli ultimi anni si parla molto (ma... si scrive assai meno) se le relazioni pubbliche possano essere misurate in termini di rientro dell'investimento. Su questa questione, l'ultima autorevole ricerca è quella realizzata dall'IPR inglese (Institute of Public Relations, http://www.ipr.uk.org), ma anche l'IPR americano (Institute for Public Relations, http://www.instituteforpr.com) ci sta lavorando da anni. La conclusione - per ora - di Anne Gregory, presidente dell'IPR inglese, è che non di ROI si deve parlare ma di valore generale delle RP sia in termini di valore aggiunto misurabile caso per caso, sia in termini di danni evitati, ovviamente meno misurabili ma pur sempre stimabili con gli stessi criteri e parametri usati dalle assicurazioni… RUMOR Il pettegolezzo, la voce, le rumeur (in francese). Le relazioni pubbliche sono sovente coinvolte e sia direttamente che indirettamente protagoniste ma anche vittime di un rumor. Uno dei più celebri sociologi francesi Jean Louis Kapferer ha dedicato un intero volume ai rumeurs, come crearli e come spegnerli. SEGMENTATION Il processo identificazione dei pubblici. Più ancora che nella pubblicità e nel marketing la segmentazione - in questo caso intesa come individuazione di ciascun pubblico influente con il quale l'organizzazione desidera/deve sviluppare una relazione - è la fase di gran lunga più importante delle relazioni pubbliche. Infatti una segmentazione attenta diventa essenziale per l'efficacia e l'efficienza di una azione di relazioni pubbliche quando riesce a distinguere fra: - pubblici comunque consapevoli e interessati ad una relazione con l'organizzazione in questione [v. stakeholder], - pubblici che sarebbero certamente interessati ad una relazione con l'organizzazione se fossero consapevoli della conseguenze che le sue attività possono avere o hanno su di loro (stakeholder potenziali) - pubblici che pur se non consapevoli né interessati, l'organizzazione ritiene comunque influenti sulle variabili che determinano il raggiungimento dell'obiettivo perseguito [v. influential, influencer], °pubblici che pur se non consapevoli né interessati l'organizzazione ritiene influenti sui destinatari finali della sua offerta [v. opinion leader]; °destinatari finali [v. end recipient] della offerta dell'organizzazione. SEXING UP Rendere qualcosa più attraente. Non dissimile da spin [v.spin, hype], si attua quando si aggiunge, si manipola, si ricostruisce una informazione, un argomento, una questione tenendo soprattutto conto del suo effetto persuasivo. Il più recente e più famoso dei casi di spin/sexing up è quello di Alistair Campbell già portavoce del governo laburista inglese, accusato di avere manipolato le informazioni [v. sexing up] in merito alle armi di distruzioni di massa irakene. La sua decisione di inserire nelle notizie da diffondere quella che Saddam aveva armi che avrebbero potuto distruggere l'Inghilterra in poche decine di ore, fu il frutto di un lungo negoziato e di pesanti pressioni che lo stesso Campbell esercitò sui servizi segreti inglesi affinché inserissero quella notizia in modo inequivocabile nei loro rapporti. Giustamente, egli riteneva che quella informazione, sicuramente gonfiata [v. hype, to],avrebbe portato l'opinione pubblica inglese, fino ad allora ostile, ad appoggiare la decisione di Blair di entrare in guerra a fianco degli americani. SHARE-of-MIND Spazio di attenzione (letteralmente ‘quota della mente’). La saturazione mediatica, il sovraffollamento dei messaggi e l'inquinamento comunicativo [v. info-communicative overload] spingono le organizzazioni a preoccuparsi assai più di conquistare lo spazio di attenzione dei pubblici piuttosto che di quello di voce (‘share of voice’). Le modalità sono tante: da quelle 'lecite’ come il marketing virale [v. viral marketing] e la spinta all'emozione creativa, a quelle meno 'lecite’ come la pubblicità subliminale e l'uso improprio delle relazioni pubbliche a fini di manipolazione e persuasione non trasparente. SHAREHOLDER / INVESTOR RELATIONS Le relazioni che una organizzazione, normalmente quotata in borsa, intrattiene con i suoi azionisti, con il mercato finanziario e con la comunità finanziaria in senso lato (autorità, investitori istituzionali, fondi di investimento, operatori del mercato). SYMMETRIC Assieme all’asimmetria [v. asymmetric] è una delle dimensioni di una relazione. Se è (almeno tendenzialmente) simmetrica, gli obiettivi dell’organizzazione sono definiti in maniera negoziale dopo aver preventivamente ascoltato ed interpretato le aspettative degli stakeholder [vedi anche]. Compito del relatore pubblico è di identificare con attenzione i pubblici influenti su una determinata questione per la quale opera [v. issue] con i quali creare, consolidare e sviluppare relazioni adoperando strumenti di comunicazione e canali relazionali che consentano l’ascolto delle loro aspettative, di interpretarle presso i componenti della coalizione dominante della organizzazione [v. management] e, infine, di argomentare con gli stessi pubblici influenti le posizioni definite in un flusso continuo di dialogo [v. negotiative] che consenta a entrambi (organizzazione e pubblico influente) di ricavare un valore aggiunto dalla relazione. Non esiste in natura una relazione completamente simmetrica, anche se la scuola sistemica di Grunig [v. systemic school] sostiene che l'efficacia cresce man mano che si raggiunge una simmetria nelle relazioni con gli stakeholder principali. Questa è una delle distinzioni fondamentali tra relazioni pubbliche e pubblicità. Le prime tendono alla simmetria, le seconde sono portatrici mediamente di messaggi unidirezionali e, proprio per questo, asimmetrici. [v. anche Grunig] SOCIAL REPORT Sta per bilancio sociale di una organizzazione e si affianca a quello economico e quello ambientale. I tre integrati fanno il bilancio Triple Bottom Line (tbl), focalizzati cioè sull'ultima riga - bottom line, appunto - dei tre bilanci: quella che solitamente indica i profitti o le perdite. Il recente interesse delle relazioni pubbliche per i bilanci delle organizzazioni indica una progressiva migrazione professionale dalla cultura dell'annuncio e delle intenzioni (necessariamente retorica, unidirezionale, push, asimmetrica, persuasiva) a una cultura della rendicontazione (dei comportamenti, negoziale, argomentativa, bidirezionale, pull e tendenzialmente simmetrica). SPECIFIC APPLICATIONS È la parte 'locale’ della teoria globale [v. globalisation, glocal] delle relazioni pubbliche. Infatti Jim Grunig [vedi anche] parla di generic principles [vedi anche] (ma generic nel senso dei medicinali..) e di specific applications. Anche la Global Alliance ha adottato la stessa terminologia. SPIN ‘To spin’: attribuire un effetto. ‘A spin ball’: nel baseball, lanciare una palla ad effetto. ‘A spin doctor’: in relazioni pubbliche, un esperto nel manipolare l'informazione. Fedele al detto inglese ‘if you can't beat them, join them’ (se non puoi battere l'avversario ti conviene unirti a lui), il leggendario Lord Tim Bell ebbe a dire: non mi dà fastidio quando mi danno dello 'spin doctor' poiché già quel 'doctor' è un segnale di attenzione che prima non mi veniva neppure attribuito.... Battuta non dissimile da quella di Jacques Seguela (creativo francese) che disse: ‘non dite a mia madre che faccio il pubblicitario. Lei mi crede pianista in un bordello’. Che il relatore pubblico abbia anche il compito di presentare l'informazione perché venga percepita dai pubblici influenti nella maniera più favorevole al raggiungimento dell'obiettivo perseguito da un cliente o da un datore di lavoro non può esservi dubbio alcuno [v. anche sexing up]. Se anche questa premessa venisse negata, allora verrebbe meno la stessa funzione delle relazioni pubbliche. Naturalmente la questione non è bianca o nera: nella storia dell'uomo l'informazione è sempre stata manipolata e aggiustata in funzione degli obiettivi di qualcuno. Così hanno fatto (e fanno) gli storici; così hanno fatto (e fanno) i giornalisti; cosi hanno fatto (e fanno) gli avvocati, i contabili e i relatori pubblici. Importante semmai è la differenza: gli storici compiono la loro manipolazione ex post, parecchio tempo dopo gli eventi narrati e tendono a basarsi su fonti terze e documenti; i giornalisti la compiono invece durante e immediatamente dopo l'evento narrato e tendono a basarsi su fonti dirette, verbali e quindi interessate; i relatori pubblici la compiono invece quasi sempre prima e durante l'evento narrato e sono essi stessi fonti importanti. Non è un caso che le tre figure professionali si sovrappongano Pericolosamente quando gli storici si fanno troppo contemporanei, quando i giornalisti si fanno troppo indovini, o quando i relatori pubblici si fanno anche giornalisti o storici. Le relazioni pubbliche sono una professione ambigua, proprio perché operano in quella terra di nessuno ove la comunità politica, quella economica e quella dell’informazione si relazionano di continuo. La sola uscita dall'ambiguità sta nell'etica professionale e nel rispetto primario dell'interesse pubblico rispetto a quello del datore di lavoro/cliente [v. public interest]. Detto questo, anche la interpretazione di quale sia e dove risieda l'interesse pubblico, in assenza di leggi,spetta al professionista e qui sta uno dei suoi principali valori aggiunti. SPONSOR / SPONSORSHIP Dal latino spondeo: prestare una sponda, sostenere, aiutare, attribuire il proprio buon nome ad una causa che ne ha bisogno. In relazioni pubbliche, la cosiddetta attività di sponsorizzazione è molto diffusa. Esiste la sponsorizzazione culturale (una organizzazione sponsorizza una mostra, un libro, un film, un concerto..), quella sportiva (quando si sponsorizza un atleta, una gara, una squadra, una partita), quella sociale (una causa, una iniziativa benefica, una raccolta fondi..), quella ambientale (la goletta verde..), quella televisiva (un programma...) e così via. In tutti i casi, l'organizzazione si impegna a versare fondi e/o servizi in cambio della presenza del suo nome in ogni momento di visibilità pubblica dell'evento [v. event] o della iniziativa sponsorizzata. STAFF Può indicare la posizione gerarchica - in termini di responsabilità operative e decisionali di una funzione organizzativa. Spesso le relazioni pubbliche e la comunicazione sono funzioni in staff al vertice aziendale. In questo caso il termine staff si contrappone a quello di line, attribuito alle funzioni più propriamente operative di una organizzazione come le vendite o la produzione. L'altra accezione di staff è invece riferita a un gruppo di persone a supporto di un leader: Così, lo staff del presidente, oppure lo staff del candidato o infine lo staff del senatore. In ogni staff che si rispetti c'è chi è responsabile delle relazioni pubbliche. STAKEHOLDER ‘To hold a stake’: detenere (to hold) un titolo (a stake) in (di) una organizzazione. E’ diverso da shareholder (azionista). Stakeholder è divenuto un termine buono per tutti gli usi. Oggi stakeholder sono azionisti, clienti, dipendenti, fornitori,cittadini..insomma tutti. Lo dicono fior di studiosi, economisti, consulenti aziendali, studiosi dell'organizzazione.... Quando un termine viene così abusato ci si chiede a cosa serva continuare ad usarlo. In effetti, ‘to hold a stake’ implica che non sia l'organizzazione a riconoscere quel ruolo ad un soggetto, ma che sia quest'ultimo ad averlo e ad esercitarlo. A sua volta questo implica che lo stakeholder sia consapevole di esserlo e che abbia l'interesse a sviluppare una relazione (positiva, negativa, neutrale) con l'organizzazione sulla quale produce (o dalla quale subisce) conseguenze [v. consequence]. In senso stretto quindi, gli stakeholder di una organizzazione sono pochi e facilmente identificabili. E questo è molto utile per una migliore economia della comunicazione. Volendo allargare, si può anche ritenere utile aggiungere una categoria di stakeholder potenziali (e allora ai primi andrebbe aggiunto il termine di attivi): coloro cioè che se solo fossero informati dell'organizzazione e delle sue attività (e quindi resi consapevoli) avrebbero interesse ad una relazione con l'organizzazione perché le attività di quest'ultima produce conseguenze su di loro e/o viceversa. Ma è chiaro che, a differenza del primo caso, in quest'ultimo è l'organizzazione stessa a decidere chi sono gli stakeholder potenziali. E questo, a sua volta, implica che la relazione con loro va avviata dall'organizzazione con un messaggio di natura persuasiva, atta cioè ad attirare la loro attenzione, mentre nel primo caso, quello degli stakeholder attivi, la relazione è facilitata dall'esplicito interesse di entrambi alla relazione. STAKEHOLDER RELATIONSHIP MANAGEMENT (SRM) È il processo manageriale con il quale un’organizzazione complessa - se fortemente orientata allo sviluppo di relazioni pull, simmetriche ed interattive con i suoi pubblici influenti - integra i propri sistemi relazionali con tutti i segmenti di pubblici influenti, sforzandosi di monitorarne e governarne le dinamiche per raggiungere con efficacia gli obiettivi definiti dopo aver ascoltato le aspettative degli stakeholder attivi [vedi anche]. È il governo delle relazioni con gli stakeholder [vedi anche] (attivi e potenziali) o, volendo essere un pochino più ampi senza però cadere nella inutilità delle eccessive generalizzazioni, con i pubblici influenti (compresi quindi anche gli influenti [v. influential, influencer] sulle variabili chiave [v. issue], e gli opinion leader [vedi anche] sui destinatari finali [v. end recipient]). In sostanza è il cosiddetto gorel [vedi anche], quando il relatore pubblico svolge un ruolo strategico [v. strategic role] ascoltando le aspettative dei pubblici influenti e interpretandole alla coalizione dominante [v. management] prima della definizione degli obiettivi da perseguire [v. reflective role] e aiutando i direttori delle altre funzioni a sviluppare i rispettivi sistemi di relazione con gli stakeholder con modalità coerenti e coordinate [v. educational role]. In una prospettiva di SRM è evidente che le organizzazioni fortemente orientate all’utilizzo di Internet come ambiente di relazione possono attuare e governare modalità relazionali più efficaci e rendicontabili favorendo l’integrazione tra strumenti relazionali reali e virtuali. Da qui la variante di Integrating Stakeholder Relationship Management (ISRM). STRATEGY / STRATEGIC ROLE In relazioni pubbliche, il termine strategia (o strategico) viene usato come 'un attimino’...tanto frequentemente quanto minore in una organizzazione è la funzione effettivamente strategica delle relazioni pubbliche. In effetti quello di svolgere un ruolo 'strategico’ è l'aspirazione di ogni relatore pubblico che si rispetti. Ma cosa vuol dire strategico? La letteratura è sterminata, ma in relazioni pubbliche gli studiosi concordano su due ruoli strategici: -quello riflettivo [v. reflective role]: la coalizione dominante di una organizzazione riconosce al relatore pubblico il ruolo di ascolto e di interpretazione delle aspettative dei pubblici influenti prima, durante e dopo le decisioni; -quello educativo [v. educational role]: la coalizione dominante [v. management] riconosce al relatore pubblico il ruolo di coordinamento dei sistemi di relazione dell'organizzazione con i pubblici influenti e del trasferimento trasversale alle funzioni di direzione di competenze relazionali e comunicative adeguate per governare direttamente quegli stessi sistemi di relazione. [v. anche Bled manifesto] SUSTAINABILITY Sostenibilità, nel senso prevalente di durata nel tempo. Una attività insostenibile è quella che non può durare. Termine di uso comune che deriva soprattutto dall'ambientalismo e si applica ai diritti umani e allo sviluppo economico. SWOT ANALYSIS Swot sta per strength (forza), weakness (debolezza), opportunity (opportunità), threat (minaccia). In pratica, è uno strumento di analisi di una situazione della quale si identificano le caratteristiche in base a ciascuna delle quattro famiglie indicate, per averne un quadro il più possibile chiaro prima di procedere ad un piano di azione. È un metodo semplice e molto (ab)usato in relazioni pubbliche, ma utile, se non altro per riflettere. SYSTEMIC SCHOOL È la teoria di James Grunig [vedi anche] per il quale ogni organizzazione, per avere successo deve integrarsi armonicamente nell'ambiente circostante e per fare questo con efficacia deve conoscere e interpretare i valori e le aspettative dei suoi pubblici influenti (stakeholder attivi) prima ancora di definire i traguardi specifici dell'organizzazione, così da selezionare obiettivi effettivamente raggiungibili. In un saggio del 2002 Grunig, accogliendo le osservazioni critiche dei suoi colleghi 'retori' e 'critici' [v. critical school, rhetorical school], arriva a sostenere che il cuore delle relazioni pubbliche è nella 'relazione’ [v. relationship] (dando grande soddisfazione ai 'retori') e che la 'simmetria’ [v. symmetric] (la condizione che a suo avviso rende davvero efficaci le relazioni pubbliche) si ottiene soltanto quando l'operatore di relazioni pubbliche esercita in egual misura le sue abilità persuasive nel convincere la coalizione dominante interna dell'organizzazione ad adeguarsi alle aspettative dei pubblici influenti come nel convincere i pubblici influenti ad adeguarsi alle aspettative della coalizione dominante [v. management] interna (dando così soddisfazione ai seguaci dell'approccio 'critico’). In questi ultimi anni si potrebbe dire che la scuola sistemica si è diffusa fino a diventare prevalente fra gli studiosi e nella comunità professionale più consapevole, mentre la scuola critica si è diffusa fino a diventare prevalente nei media e nei gruppi attivisti, al punto che recentemente Kenny Ausubel, fondatore di Bioneers, un network di visionari ambientalisti ha scritto: ‘di tutte le orrificanti tecnologie distruttive del 20esimo secolo, la più pericolosa è costituita ragionevolmente dalle relazioni pubbliche !!!’.. (tratto da http://www.holmesreport.com). TABLOID È un formato, normalmente più grande di un settimanale e più piccolo di un quotidiano. In relazioni pubbliche una iniziativa ‘tabloid' implica un po’ di esagerazione, di iperbole, di sottolineatura, a ‘grandi titoli' e al tempo stesso poca o comunque insufficiente e non completa informazione. [v. anche hype, sexing up, spin] TAKEOVER È una acquisizione - amichevole (friendly) o anche ostile (hostile) - di una organizzazione da parte di un’altra. Per le relazioni pubbliche è un momento topico e delicato di auto rappresentazione dell’organizzazione acquirente e/o acquisita. Vi sono società di relazioni pubbliche specializzate proprio in questa attività. TALK SHOW E un formato televisivo divenuto anche di uso comune in assemblee ed eventi ad hoc. Un facilitatore sollecita protagonisti a dire la loro su una o più questioni specifiche cercando di avviare tra i partecipanti un dibattito interessante per il pubblico presente e/o televisivo. Gli organizzatori di eventi [v. event] hanno raffinato il modello ed esistono oggi diversi modelli di talk show in funzione della serietà del tema trattato, dei protagonisti coinvolti, del facilitatore. TARGET È un termine che nella comunicazione d'impresa [v. corporate communication] ha due accezioni. La prima indica una meta da conseguire (spesso è usato nelle vendite per indicare l'obiettivo quantitativo del fatturato oppure l’obiettivo di comunicazione da perseguire, in modo unidirezionale e asimmetrico [v. asymmetric]. Ma indica anche - quando è usato come scorretta ma usatissima contrazione del termine target group - il pubblico di riferimento: un termine che non ha nulla a che fare con il cuore delle relazioni pubbliche, sostanzialmente a due vie e, almeno tendenzialmente, simmetriche [v. symmetric]. Un termine che sollecita la ‘comunicazione a’, anziché la ‘comunicazione con’. TAXONOMY È quello che manca nelle relazioni pubbliche: un insieme condiviso di definizioni dei termini più usati, a partire dallo stesso termine di relazioni pubbliche. È possibile che questa anomalia stia per essere superata grazie alle nuove tecnologie. Infatti è in realizzazione, a cura della comunità professionale e, in particolare alla Global Alliance e di un gruppo di associazioni nazionali e di professionisti dedicati, un software universale di relazioni pubbliche che parte proprio da una tassonomia condivisa. È l’XPRL [vedi anche] TEASER ‘To tease’ vuol dire prendere in giro, scherzare. In pubblicità una campagna teaser è quando si attira l'attenzione del consumatore senza indicare direttamente e subito la soluzione che poi verrà invece annunciata con un richiamo al teaser, soltanto dopo che l'attenzione sarà stata attirata. In relazioni pubbliche le iniziative teaser sono molto discutibili ed hanno parecchio a che fare con la percezione di opacità dei processi professionali. Ma non se usate per annunciare eventi [v. event] intorno ai quali si desidera attirare attenzione. TELECONFERENCE È la classica conferenza telefonica con la partecipazione dal vivo e contemporanea di più soggetti da luoghi diversi. Se ben condotta consente di risparmiare parecchio tempo e denaro e può essere visivamente integrata da immagini e grafici via internet. TESTIMONIAL Anche in italiano si usa il termine inglese ed è normalmente la celebrità che, in cambio di un compenso, si presta a parlare bene di un prodotto o a farsi ritrarre sorridente a fianco ad esso. In relazioni pubbliche il testimonial è anche la persona che si presta gratuitamente o dietro compenso simbolico o in natura, a sostenere pubblicamente una causa, a firmare un appello pubblico, a prestare il suo nome per una giusta causa nella speranza che il suo nome riesca a stimolare adesione, emulazione e partecipazione di altri. TIE-IN È un accordo, un legame che si instaura fra due o più soggetti intorno ad una questione specifica [v. issue]. In relazioni pubbliche e in pubblicità viene anche usato come sinonimo di co-marketing. TOP-of-MIND È un ricordo immediato. Non debbo andare a ricercare il ricordo. Mi viene spontaneo. In ricerca si chiama ricordo spontaneo, quello che viene in mente subito dopo la domanda del ricercatore. A caldo, si potrebbe dire. TRACK RECORD È l'esperienza passata. Cosa ho fatto su una determinata questione. E’ importante perché:‘l’esperienza non è ciò che ci succede, ma è quel che si fa con quel che succede’. TRACKING STUDY Uno studio continuativo che assicura il monitoraggio costante di un determinato fenomeno che si vuole studiare. TRANSPARENCY È la trasparenza nelle relazioni. In linguaggio informatico un oggetto è trasparente quando l’utente non se ne accorge neppure. Certo non è questa l’accezione che del termine ne fanno i comunicatori, le autorità, le organizzazioni quando la invocano per i consumatori, gli elettori, gli utenti dei servizi pubblici o gli investitori. È difficilmente negabile che l’opacità (cioè, il contrario della trasparenza) può essere assai utile in molte circostanze. Così come nessuno può impedire a organizzazioni, note per la loro ritrosia alla trasparenza, di avere reputazioni forti e consolidate, è anche chiaro che una politica spinta di trasparenza costringe l’organizzazione a rivelare informazioni che possono nuocere alla sua reputazione. Insomma, non è tutto oro quel che luccica e sarebbe bene che i relatori pubblici fossero consapevoli che ‘omaggiare’ troppo la trasparenza delle organizzazioni con le quali lavorano rischia anche di elevare a livelli insostenibili le aspettative degli stakeholder [vedi anche]. Il termine trasparenza con lo stakeholder può essere utilizzato, senza rendersi ridicoli, soltanto in presenza di alcuni passaggi comunicativi obbligati: a) dichiarare sempre la propria identità; b) dichiarare sempre il soggetto che si rappresenta (questo non vale solo per i consulenti…) c) dichiarare qual è l’obiettivo che si intende perseguire nella creazione, sviluppo o consolidamento della relazione con l’interlocutore. Questi sono i tre passi essenziali. Poi ce n’è un quarto che può essere applicato in tutti quei casi in cui non esiste il rischio di divulgare segreti utili alla concorrenza: come intendo perseguire quell’obiettivo nella mia relazione con te e gli altri. Il contenuto della informazione deve ovviamente essere tempestivo, veritiero e seguire le norme di legge. Ma, attenzione, queste ultime tre variabili non hanno a che vedere con la trasparenza ma con le altre caratteristiche della comunicazione. Attribuire tutto al concetto di trasparenza vuol dire annacquarlo. UNILATERAL Un messaggio o azione proveniente da una parte sola, unilaterale. Il riferimento più abituale è alla pubblicità. UNIQUE SELLING PROPOSITION (USP) La peculiarità, la caratteristica unica di un prodotto, servizio, idea che si vuole comunicare. Letteralmente: la proposta di vendita unica. UNIVERSE In ricerca, è il totale dei soggetti da cui viene estratto un campione rappresentativo secondo specifiche modalità. Più è piccolo l'universo più è grande in proporzione il campione rappresentativo. UNOBTRUSIVE RESEARCH È una tecnica di ricerca non invadente, non aggressiva, che si basa sul consenso prioritario quando non sul volontariato attivo del soggetto. VALUE Valore. Le organizzazioni che creano maggior valore per gli stakeholder [vedi anche] sono quelle che adottano e applicano modelli avanzati di relazioni pubbliche basati sul governo dei sistemi di relazione [v. stakeholder relationship management, Gorel] con gli stakeholder e sulla formulazione di politiche e comunicazione di comportamenti di responsabilità sociale. È il risultato di una immensa ricerca condotta per 17 anni su 327 organizzazioni Inglesi, Canadesi e Americane condotta dal Prof. James Grunig [vedi anche] dell'Università del Maryland. La squadra di Grunig avviò i lavori nel 1985 per concluderli nell'estate del 2002. Tre libri (pubblicati dalla Lawrence Erlbaum Associate) sono il frutto di questo lavoro: °il primo Excellence in Public Relations and Communication Management (1992) presenta una estesa illustrazione della letteratura insieme ai risultati di una ricerca quantitativa delle 327 organizzazioni che include questionari completati di 407 direttori della comunicazione, 292 leader di organizzazione e 4.361 dipendenti. La ricerca misura i diversi indicatori di successo per le relazioni pubbliche; °il secondo Manager's Guide to Excellence in Public Relations and Communication Management (1995), presenta approfondite descrizioni della ricerca qualitativa sulle 25 organizzazioni che hanno registrato i punteggi più alti e più bassi nella fase quantitativa; °il terzo, Excellent Public Relations and Effettive Organizations (2002) presenta i risultati completi e integrati delle due ricerche. VALUE ADDED Valore aggiunto. Se ne parla molto anche in relazioni pubbliche ma pochi sanno definirlo con precisione. Il valore aggiunto di una organizzazione è la ricchezza prodotta nel corso di un esercizio (un anno). Per una impresa lo si individua nella differenza fra la produzione lorda e il consumo dei beni e dei servizi. Nel caso del valore aggiunto apportato ad una organizzazione dalle sue attività di relazioni pubbliche siamo nel più ampio tema dei cosiddetti beni immateriali o intangibili. Tutti concordano ormai da diversi anni che questi ultimi costituiscono ormai la parte più importante del valore aggiunto di una organizzazione. Sono poi sempre in numero maggiore gli esperti che sostanziano questo ragionamento con l'argomento che il valore maggiore di una organizzazione è costituito dalla somma dei valori dei suoi sistemi di relazione con i pubblici influenti. Essendo le relazioni pubbliche quella disciplina del management che aiuta le organizzazioni a governare i sistemi di relazione con i suoi pubblici influenti, ecco la stretta correlazione fra relazioni pubbliche e produzione di ricchezza. VARIABLE Variabile. In relazioni pubbliche, e in particolare nel Gorel [vedi anche], variabile è usato come sinonimo di issue [vedi anche] o di questione. La gestione delle variabili equivale quindi all'issue management. Nel Gorel l'identificazione delle variabili che influenzano il raggiungimento dell'obiettivo di una organizzazione avviene subito prima della identificazione degli influenti [v. influential, influencer] e dopo quella degli obiettivi. In effetti non si possono sviluppare relazioni efficaci con gli influenti in ‘laboratorio’, prescindendo cioè dalle dinamiche sociali, politiche, economiche, tecnologiche o culturali. VENUE Luogo, località. In relazioni pubbliche si riferisce quasi sempre al luogo di un evento [v. event], a dove si svolge. In diverse organizzazioni esiste il venue manager, la persona esperta nelle località, sempre aggiornata sulle novità e le attrazioni. [v. anche location] VESTED INTEREST Interesse di parte. È un concetto fondamentale delle relazioni pubbliche. Per chiunque lavori e qualsiasi cosa faccia, il relatore pubblico per definizione rappresenta sempre un interesse di parte e questo, ad esempio, dovrebbe impedirgli deontologicamente di: - essere pagato anche da altre parti per lo stesso lavoro (commissioni da fornitori, coinvolgimento di altri partner...) - non palesare all'interlocutore della relazione la propria identità e quella dell'interesse rappresentato - rappresentare più interessi in conflitto anche potenziale, indipendentemente dall'opinione del cliente in proposito. VIDEO CONFERENCE Tutti oggi sanno cosa è una video conference, da non confondere (come spesso accade) con la teleconference [vedi anche]. Alla fine degli anni settanta era girata la leggenda metropolitana che l'industria dei viaggi sarebbe crollata a causa dell'imminente avvento della videoconferenze. Poi se ne è parlato poco negli anni ottanta, mentre la stessa leggenda è nuovamente riemersa negli anni novanta. Oggi, 2005, le videoconferenze sono assai più utilizzate di vent'anni fa, ma non ancora realmente scalfito l'industria dei viaggi, a dimostrazione che tutto si crea e nulla si distrugge. VIDEO NEWS RELEASE VNR (pronunciato ‘viiennar’): un comunicato video per la tv. In auge nei mercati più avanzati dai primi anni Settanta - adoperato per la prima volta con successo in Italia nel 1979 per presentare alle tante televisioni private di allora una particolare sigaretta (si chiamava Muratti Ariston) che consentiva al fumatore, con l'auto regolazione del filtro della sigaretta predisposto su tre diverse posizioni, di aumentare o diminuire il passaggio del fumo e delle sue sostanze - il Video News Release, anziché come un comunicato stampa [v. news release] che aiuta il giornalista a scrivere il suo pezzo, è stato interpretato in questi ultimi anni da Palazzo Chigi come materiale video che il sistema televisivo avrebbe dovuto usare così come predisposto dall'ufficio stampa, e questo ha provocato numerose reazioni negative da parte dei giornalisti. Più recentemente il Ministero della Salute statunitense è stato formalmente criticato dalla Corte dei Conti americana per avere investito dei soldi con la Ketchum (una delle maggiori agenzie internazionali di relazioni pubbliche) per la produzione e diffusione di una batteria di Video News Release che illustrano la riforma del sistema sanitario nazionale di quel Paese. La critica segnalava che una legge del 1913 ancora vigente impedisce all'amministrazione pubblica di investire soldi pubblici in attività di relazioni pubbliche. Ma lo stesso episodio ha invece prodotto un vero e proprio scandalo sulla stampa statunitense poiché le stazioni televisive che hanno accettato di mettere in onda la serie l'ha fatto senza alcuna modifica addirittura facendo passare l'annunciatrice, una professionista di relazioni pubbliche, come fosse la cronista da Washington. Lo scandalo è stato tale che la PRSA (Public Relations Society of America) è stata costretta a convocare il suo collegio dei probiviri ed emettere un editto sulla materia di VNR. VIRAL MARKETING Sta per marketing virale, va molto di moda oggi ma altro non è che quel che da sempre fanno i migliori operatori di marketing public relations [vedi anche]. In sostanza, rispetto ad un determinato pubblico cui si desidera far conoscere e provare un nuovo prodotto o servizio, si mette in moto un nucleo di ‘moltiplicatori' [v. anche four-minute-men] o leader di opinione [v. opinion leader]…(ovviamente dove per opinione si intende quella del pubblico specifico con il quale si intende comunicare) che adottano il prodotto-servizio pubblicamente, e invitano altri a fare altrettanto. Secondo Al Ries, iniziatore del concetto di posizionamento e autore del libro ‘The rise of PR and the fall of Advertising', la maggior parte dei nuovi prodotti e servizi di successo presentati sul mercato negli anni novanta hanno fatto leva su questa tecnica in fase di lancio per poi sostenerla in un secondo momento attraverso l'investimento pubblicitario, che sarebbe l'iter contrario a quello classico: prima la pubblicità poi le relazioni pubbliche a supporto. In Italia uno dei primi esempi conosciuti di viral marketing risale ai primissimi anni ottanta quando la Polaroid introdusse un nuovo apparecchio coinvolgendo in una famosa ‘caccia al tesoro’ estiva realizzata con la nuova Polaroid, tutti i giovani rampolli della migliore imprenditoria italiana e montandoci su una bagarre sui giornali estivi VISION Visione, la descrizione sintetica e condivisa di quello che l'organizzazione intende diventare in un tempo definito (3-5 anni). Nel processo di envisioning [vedi anche] – il primo passo del Gorel [vedi anche] adattato alla teoria sistemica di Grunig [v. systemic school] - la visione viene subito dopo la missione [v. mission], l' istantanea dell'organizzazione come è, e subito prima i valori guida [v. guiding principles] che guideranno l'organizzazione nel percorso dalla missione alla visione, rappresentato dalla strategia, ultima fase dell' envisioning. WALK THE TALK (and/or TALK THE WALK) ‘Camminare il parlato’: nota espressione americana per dire che un’organizzazione deve uniformare i suoi comportamenti alla autorappresentazione retorica della sua identita. È indubitabile che la franchezza nell’esporre ragionevolmente anche i punti di debolezza dell’organizzazione contribuisce largamente allo sviluppo di una relazione di fiducia fra un’organizzazione e i suoi stakeholder [vedi anche]. Se vogliamo è una buona ‘comunicazione con’. Esiste poi il contrario di ‘walk the talk’ che è ‘talk the walk’ (‘parlare il camminato’), che in pratica chiede al comunicatore di non rappresentare quel che l’organizzazione non ha agito, non ha fatto: è la comunicazione dei comportamenti, appunto. Non esiste una modalità applicabile e replicabile a tutte le organizzazioni anche se le stesse non possono esimersi dal ‘walk the talk’ e dal ‘talk the walk’: e farlo bene richiede tanta tecnica e tanta competenza. XPRL (Extensible Public Relations Language) XPRL è un progetto internazionale che si prefigge come obiettivo la costruzione di un linguaggio informatico condiviso per migliorare l’efficacia e l’efficienza nello scambio di informazioni e nella pratica quotidiana delle relazioni pubbliche. Lo scopo di tale progetto è la condivisione di linguaggi delle relazioni pubbliche. ‘Language’ sottende la capacità di essere compatibile con tutti i computer: gli strumenti sviluppati con XPRL sono comprensibili su scala globale. ‘Public relations’ indica la partecipazione di esperti di rp nella progettazione di uno strumento per le rp. ‘Extensible’ perche permette – e anzi incoraggia – un aggiornamento continuo e condiviso da parte di ogni singolo utente per incontrare le mutevoli esigenze della professione e dei suoi operatori. Questo glossario nasce, come in origine anche il testo cui è collegato, da una continuata interazione fra l’autore e i visitatori del sito www.ferpi.it Settimana per settimana, cinque voci alla volta e in ordine alfabetico, i visitatori hanno potuto segnalare errori, opinioni, aggiustamenti e fornire suggerimenti. Come per il libro, sono stati quasi una cinquantina gli interventi. L’autore ringrazia Michael Lahey, docente all’Università di Udine a Goriza, per lo spunto e qualche saggio consiglio. Lahey è autore di un ottimo Dictionary of Public Relations in lingua inglese pubblicatonel 2003 dall’editore Forum du Udine (www.forumeditrice.it). Account inteso come ruolo professionale, è la persona che – dall’interno di un ufficio, reparto, dipartimento, società di consulenza o specifico programma – facilita, coordina e filtra le relazioni fra il cliente (interno/esterno) e i vari servizi interni/esterni. Un account può essere: junior, executive, manager, senior, director a seconda dei livelli di responsabilità e della peculiare cultura organizzativa in cui opera. Le competenze richieste a un account sono: - la capacità di ascolto e di relazione; - la rapidità con cui assorbe e interpreta le aspettative del committente, conciliandole con la possibilità effettiva di una loro soddisfazione da parte dei servizi della struttura per cui lavora; - la chiarezza, esaustività e tempestività nel reporting e nel monitoraggio delle dinamiche amministrative e finanziarie della relazione. “Account” viene talvolta usato anche come sinonimo di cliente. Il termine nasce nell’ambito della revisione contabile e poi si estende alle grandi agenzie di pubblicità per raggiungere, gradualmente, anche le agenzie di relazioni pubbliche, le società di consulenza e infine le stesse organizzazioni clienti, man mano che si strutturano internamente. Accountability essere accountable implica un insieme di rendicontazione, responsabilità e affidabilità. Con un solo termine, la lingua inglese riassume l’essenza di una buona relazione. Una persona o un’organizzazione sono accountable verso un’altra persona o organizzazione. Essere percepiti accountable è obiettivo fondamentale di una qualsiasi attività di relazioni pubbliche. Peraltro (e per molti aspetti paradossalmente) una delle tante aspettative ancora inevase da parte degli → stakeholder delle relazioni pubbliche sta proprio nella piena accountability percepita della stessa professione. In effetti, criteri condivisi dalla comunità professionale che investano le attività di reporting, di procurement, di misurazione di efficienza (→ measurement), di valutazione di efficacia (→ evaluation) sono stati ad oggi soltanto abbozzati e solo parzialmente applicati. Adhocracy è il contrario della programmazione e della pianificazione. Nelle relazioni pubbliche accentra l’attenzione su una specifica questione o un obiettivo o un programma. Un’organizzazione è adhocratic se la sua visione è proiettata verso il breve periodo, un obiettivo a termine oppure caratterizzata dalla improvvisazione, anche se talvolta geniale (→ lateral thinking) ed efficace. Advertorial è uno spazio/tempo di un medium (→ media), di opinione redazionale ma esplicitamente acquistato da un’organizzazione. È uno spazio dal quale il soggetto esprime la sua opinione oppure una posizione su questione ritenuta di interesse pubblico, ma che produce anche conseguenze (→ consequence) sull’emittente. Da non confondere con gli → op-ed che sono invece opinioni scritte in forma di editoriali che il medium, di sua sponte e non a fronte di un pagamento, ritiene di pubblicare pur se firmate da un rappresentante diretto dell’ interesse tutelato, da un suo portavoce o testimone. La tecnica dell’advertorial viene lanciata da Herb Schmertz nei primi anni Ottanta quando, come direttore delle relazioni pubbliche della Mobil, ogni mercoledì sulle pagine degli editoriali del New York Times, in un apposito spazio esplicitamente pubblicitario, appariva una opinione firmata dall’azienda su questioni di interesse pubblico. Advocacy è un termine rilevante nel dibattito culturale sulle relazioni pubbliche. Il leader della scuola “retorica” Robert Heath (→ rhetoric school), definisce come advocacy l’atto retorico dell’argomentare (→ argumentation) una questione. La PRSA (Public Relations Society of America) usa addirittura il termine come sostitutivo di → lobby e, paradossalmente, sceglie un termine proprio della professione legale (“to advocate”, “an advocate”) per differenziare i relatori pubblici dai legali! Nell’ → issue management l’advocate indica la persona cui spetta argomentare ad altri in modo convincente una questione che sta a cuore del soggetto committente. “Advocacy” di una “issue” nel tempo è anche tematizzazione, mentre “advocacy” su una “issue” a breve è anche → agenda setting. Agenda setting sta per decidere l’agenda. Il termine deriva dalla sociologia per indicare l’intreccio costante di influenze reciproche fra soggetti privati, pubblici e sociali che porta alla decisione sui temi prioritari affrontati dal governo. I relatori pubblici hanno un ruolo importante, in alcuni casi determinante, nella definizione dei contenuti delle agende delle rispettive leadership organizzative. E questo non solo perché il relatore pubblico si trova sovente a svolgere un ruolo di “segreteria” del consiglio di amministrazione, comitato di direzione, consiglio direttivo o coalizione dominante (in questo ultimo caso, si limiterebbe a registrarne le volontà), ma anche perché gli viene talvolta riconosciuto un ruolo di interprete delle aspettative degli → stakeholder: quel ruolo riflettivo (→ reflective role) studiato dalla scuola europea (Vercic, Van Ruler, Holstromm). In tal caso, rispetto ai ruoli classici della letteratura manageriale nordamericana: tecnico (→ operational role), manageriale (→ managerial) e strategico (→ strategy), si può considerare una ulteriore declinazione del ruolo strategico, insieme all’altra funzione “educativa” (→ educational role). Analysis qualità e intensità dell’analisi di una questione (→ issue) determinano l’efficacia (→ effective) di qualsiasi azione di relazioni pubbliche. L’assunto è che non ci si deve fidare delle apparenze, delle prime risultanze, neppure del sentito dire, delle opinioni degli amici, degli stereotipi ecc. Occorre incessantemente indagare, leggere, parlare con, verificare, curiosare, consultare, ricercare. Insomma, malgrado la prassi e le pressioni stimolino i relatori pubblici ad agire immediatamente, l’ascolto costituisce una fase fondamentale delle relazioni pubbliche ed è importante, prima ancora dei nostri interlocutori, convincere gli stessi operatori che è parte integrante (consustanziale) della stessa azione relazionale e comunicativa, al punto che sovente avviene proprio in questa fase che le relazioni interattive e simmetriche (→ symmetric) sviluppino la loro maggiore efficacia. Il rischio più elevato di una eccessiva attenzione all’analisi è la “paralysis by analysis”: quando non si agisce perché bloccati da fonti e interpretazioni divergenti. Ed è proprio per questo che assume importanza per il relatore pubblico, cui viene riconosciuta una funzione strategica (→ strategy), essere anche un ottimo manager (→ managerial role) (capace di organizzare l’ascolto con modalità compatibili con i tempi dell’azione) e un ottimo tecnico (→ operational role) (disporre degli strumenti più adeguati per cogliere e interpretare le aspettative degli → stakeholder. Argumentation “argomentazione”: è il cuore delle relazioni pubbliche. A differenza di altre discipline della comunicazione come la pubblicità e le promozioni che “affermano”, le relazioni pubbliche “argomentano”. Di qui, la loro maggiore complessità relazionale e la tendenza degli studi più recenti a valorizzare gli aspetti “negoziali” (→ Grunig; negotiative; systemic school) delle relazioni pubbliche (per esempio negli ultimi studi di Grunig e un forte richiamo lo si trova nel → call for papers di Bled 2004 scritto dallo sloveno Vercic) rispetto a quelli “persuasivi” (che hanno storicamente fatto la fortuna delle relazioni pubbliche fin dai primi anni venti del Novecento, quando Edward Bernays, incrociando le nascenti discipline della sociologia e della psicologia, sviluppò le tecniche di persuasione scientifica). Asymmetric il principio della asimmetria o simmetria (→ symmetric) della relazione (→ relationship), o della comunicazione, è da anni al centro degli studi teorici delle relazioni pubbliche ed è anche una delle due dimensioni (assieme a uni/bidirezionalità) utilizzate da → Grunig per descrivere i modelli di pratica delle relazioni pubbliche. Una relazione è sempre asimmetrica in natura (c’è sempre un soggetto dotato di più peso) e lo è a maggior ragione quando ad avviarla è un’organizzazione che, suo tramite, intende accelerare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti: che poi è la ragione stessa delle relazioni pubbliche. In particolare la relazione/comunicazione asimmetrica è sbilanciata a favore dell’organizzazione avendo come unico fine la persuasione: il cambiamento, cioè, delle opinioni, dei comportamenti e degli atteggiamenti degli influenti al fine di raggiungere gli obiettivi stabiliti dall’organizzazione in maniera autonoma, unilaterale e non negoziale. La tesi oggi prevalente degli studiosi (Grunig, Hunt, Vercic, Sriramesh e altri) è tuttavia che l’efficacia (→ effective) di una relazione – oggi e in questo ciclo economico, storico e sociale – è inversamente proporzionale alla sua asimmetria percepita: quanto più un soggetto percepisce di avere con un altro soggetto una relazione simmetrica, tanto più è possibile che l’uno tenga conto delle argomentazioni e aspettative dell’altro, che il negoziato giunga a un risultato positivo per le due parti, e che si possa dunque definire efficace quella relazione. Audit il termine, come anche quello già visto di → account, deriva dalla tradizione contabile (gli auditor sono i revisori dei conti) e indica la verifica di una situazione determinata in un certo momento a opera di una parte terza, presumibilmente indipendente, competente e interessata a una valutazione oggettiva. Insomma, una certificazione. In relazioni pubbliche, un’organizzazione affida a un consulente o a una società di consulenza (→ consultancy) un audit delle sue politiche e dei suoi programmi di comunicazione. Normalmente questo si verifica quando: a) l’organizzazione si appresta a grandi cambiamenti, sa che dovrà cambiare, ma non è sicura dove e come; b) è arrivato un nuovo responsabile che vuole capire meglio cosa continuare e dove innovare; c) si profila l’ipotesi di cambiare società di consulenza e si desidera una opinione esterna sull’operato di quella in corso. In quest’ultimo caso, perché l’incarico abbia senso è necessario escludere a priori che la società che compie l’“audit” possa poi candidarsi a sostituire il concorrente, altrimenti l’indipendenza e l’oggettività vanno a farsi benedire. Un po’ come succede con le società di revisione che fanno i consulenti delle società di cui certificano i bilanci, o con le banche di investimento che, retribuite ad hoc, consigliano di acquistare azioni in loro possesso. Un’altra accezione di “audit” viene adottata dalle stesse società di consulenza che lo usano per indicare la fase analitica di un qualsiasi incarico ricevuto, a maggior ragione se, come sovente avviene, di contenuto generico (del tipo “lei venga qui, dia una occhiata in giro e poi vediamo cosa fare”). Backgrounder è un documento di base, parte di un “pacchetto” informativo predisposto dal relatore pubblico, su una questione specifica (→ issue) che va poi argomentata (→ argumentation). Contiene in forma narrativa, ma anche in forma sintetica e per punti sequenziali (→ fact sheet), la storia della questione. La sua finalità è consentire al destinatario di apprendere e comprendere la dinamica e l’evoluzione della questione fino al momento in cui interviene quella discontinuità che, per conto del suo committente, il relatore pubblico vorrebbe introdurre e che, tuttavia, viene illustrata in un’altra parte del pacchetto (→ position paper). Il backgrounder è anche il documento che il relatore pubblico consegna al committente alla vigilia di un incontro o di un viaggio importante nel quale sono sintetizzate informazioni sulle persone e sulle questioni che in quell’incontro o in quel viaggio verranno affrontate. Ballon d’essai detta anche “notizia civetta”. Il termine è francese ma usato anche in altre lingue. È una notizia verosimile fatta filtrare per verificare la reazione dei mass media e dell’opinione pubblica (→ public opinion) oppure di uno specifico soggetto di fronte a un provvedimento, una decisione, una ipotesi di soluzione. Barker un imbonitore, tradizionalmente la persona che davanti a un negozio o una mostra incoraggia a voce i passanti a entrare. Nel gergo dei relatori pubblici inglesi (ma anche americani) è quel professionista il quale adotta prevalentemente tecniche urlate per attirare l’attenzione dei pubblici. To bark, letteralmente vuol dire “abbaiare”. (→ hype, sexing up, spin) Barter indica uno scambio in natura e senza passaggio di denaro fra soggetti che comunicano e soggetti che possiedono direttamente i canali di comunicazione o ne sono i concessionari. È entrato nell’uso comune dei comunicatori in Italia soprattutto con l’ingresso delle televisioni private che spesso offrono spazi gratuiti incambio di beni e servizi. Il primo esempio fu quello dello stesso Silvio Berlusconi, famoso per concedere spazi gratuiti a imprese in cambio di azioni delle stesse. È stato poi ampiamente utilizzato dalla seconda metà degli anni Ottanta nel caso delle cosiddette sponsorizzazioni televisive: interi programmi realizzati per favorire prodotti o servizi di imprese in cambio merci (o, ancora, di azioni), fino a divenire, come testimoniano atti giudiziari e confessioni di imputati e testimoni, strumento preferenziale per l’evasione fiscale nel caso di abbinamenti sportivi e coinvolgenti personalità dello spettacolo e della televisione. Below the line comprese nella comunicazione d’impresa sono quattro discipline: la pubblicità, le relazioni pubbliche, le promozioni e il → direct marketing/response. La sponsorizzazione, in effetti, non è disciplina autonoma poiché rientra se è sportiva nella pubblicità, se è televisiva nelle promozioni, se è culturale o sociale nelle relazioni pubbliche. Si usa il termine “below the line” per indicare le ultime tre in contrapposizione alla pubblicità indicata come “above the line”. In sostanza, mentre quest’ultima è sempre palese e visibilmente pagata con l’acquisto di spazi su media erga omnes, le altre tre sono o dirette alla persona o a pochi, oppure non pagate e comunque non sempre visibili erga omnes. Bled manifesto (on public relations) presentato a Bled (Slovenia) nel luglio 2002 è uno scritto a quattro mani di Betteke van Ruler e Dejan Vercic sullo stato dell’arte delle relazioni pubbliche in Europa. Tra gli scopi che si proponeva lo studio – punta dell’iceberg del progetto EBOC (European Body of Knowledge) di EUPRERA (European Public Relations Education and Research Association) –, quello di evidenziare (se presenti) alcune specificità “europee” diverse dalle tradizionale matrice angloamericana. Una delle stimolanti prospettive uscite da quello sforzo fu di prefigurare tre (quattro) ruoli che i relatori pubblici possono assumere all’interno delle organizzazioni per le/nelle quali si trovano a operare (→ educational role; managerial role; operational role; reflective role). Da notare che questi profili non sono autoescludenti, anzi: ciascuna attività tradizionale e non di RP (→ anche lobby; media relations; event) può prevedere – e in parte lo reclama – la compresenza di ruoli. Blue sky espressione usata nelle relazioni pubbliche per indicare il discutibile ma frequente metodo con cui un evento (→ event), un prodotto/servizio, una persona vengono montati ad arte dal professionista e poi, al momento della massima attenzione, si verifica un flop perché l’evento fallisce, il prodotto/servizio non arriva sul mercato o la celebrità si ammala o comunque non viene apprezzata. Boundary spanning molti ricercatori (Heath, Grunig, Dozier e altri) usano questo termine per indicare quella “giuntura” fra l’attività di ascolto, quella di analisi e la successiva fase comunicativa. È uno dei diversi ruoli “strategici” del relatore pubblico (→ strategy). In sostanza, individuato l’obiettivo, il relatore pubblico analizza le variabili interne ed esterne, sociali, economiche, tecnologiche, ambientali (→ issue; variable) le cui dinamiche ne influenzano il raggiungimento e – dopo avere selezionato fra le prioritarie quelle variabili che, al contrario di altre, possono venire influenzate da una consapevole e programmata azione di relazioni pubbliche – identifica (→ segmentation) i soggetti influenti (→ influential; influencer) con i quali avviare attività di relazione. “Spanning” sta per sondare, studiare, rovistare una questione, non necessariamente con modalità scientifiche (i tempi e le risorse solitamente disponibili raramente lo consentono), mentre “boundary” indica limite, confine: in pratica, uscire dal proprio ristretto seminato di conoscenze per apprendere e interpretare dinamiche ambientali rilevanti atte a essere utilizzate per predisporre messaggi (→ message), eventi (→ event), azioni relazional/comunicative utili al raggiungimento dell’obiettivo perseguito. Brainwriting è una variante del → brainstorming che si svolge con modalità scritta anziché orale, da preferirsi quando il gruppo dei partecipanti si mostra inibito nel proporre ad alta voce il proprio pensiero. Il brainwriting ha due forme di applicazione: può servire alla produzione di idee esattamente come nel brainstorming, oppure per raccogliere criticità (i vari → rumor interni di un’organizzazione) nel caso di indagini di clima.La forma di erogazione è la stessa in entrambi i casi: cambiano solo le domande. Poniamo che il conduttore ponga al gruppo la domanda: “Cosa vi infastidisce maggiormente nel vostro lavoro quotidiano?”. I presenti scrivono di getto i loro pensieri su fogli bianchi (anonimi) che vengono fatti velocemente girare tra i presenti, in modo che ognuno debba scrivere la dichiarazione sul nuovo foglio che gli viene consegnato, senza troppo tempo per riflettere e senza conoscere l’autore della frase precedente. Il brainwriting, grazie all’anonimato, non richiede al partecipante di esporsi psicologicamente nei confronti del gruppo con dichiarazioni verbali e rappresenta quindi uno sfogo liberatorio di grande utilità. Deve essere però garantito in anticipo, dal facilitatore che gestisce la seduta, che le doglianze raccolte, oltre a rappresentare una testimonianza di ascolto e quindi di interesse per i problemi dei partecipanti, saranno fedelmente trascritte e riportate in videoscrittura allo scopo di rendere anonime le proposte. I fogli originali vanno poi truciolati per garantire l’anonimato. Brainstorming è un termine assai abusato per indicare genericamente la fase di raccolta di idee (normalmente una riunione) sulla soluzione comunicativa da adottare per affrontare con efficacia una determinata questione. Abusato perché in effetti il brainstorming non è una semplice riunione, ma uno strumento specifico del processo creativo e del lavoro di gruppo. La sua efficacia dipende dalla professionalità di chi lo convoca, di chi lo conduce e di chi vi partecipa. Normalmente un brainstorming non deve avere più di 6, massimo 8 partecipanti e mai durare più di 30/40 minuti. I partecipanti vengono selezionati dal convocatore (il quale non partecipa attivamente), tenendo conto della massima diversità delle esperienze personali, punti di vista, competenze professionali. Il convocatore deve essere un soggetto riconosciuto come autorevole sulla questione e distribuire in anticipo (24 ore) una nota di una cartella (massimo 1800 battute) in cui sono illustrati l’obiettivo specifico della riunione e gli elementi oggettivi noti che ritiene debbano essere patrimonio comune di conoscenza prima che i partecipanti si incontrino. È importante assicurare che i posti intorno al tavolo siano assegnati evitando di mettere a fianco persone che si presume la pensino allo stesso modo. Il moderatore deve essere riconosciuto dai partecipanti come esperto della gestione di gruppi e non come esperto della materia. All’avvio della riunione il moderatore riassume la pagina di brief già inviata ai partecipanti, invita alla massima casualità e libertà di espressione e ricorda la fondamentale regola per cui nessun intervento deve durare più di due minuti e, ancora più importante, essere valutativo di un intervento precedente. Normalmente in piedi vicino a un flip chart (in italiano “lavagna a fogli mobili”) e dotato di pennarelli di diversi colori, il moderatore si limita a riportare sui fogli mobili, senza indicare volta per volta il nome di chi interviene, la sintesi di quanto viene detto. Se il dibattito si smorza, il moderatore interverrà proponendo qualche simulazione creativa o qualche gioco fra i tanti che avrà nel proprio bagaglio professionale. Chi interviene ha facoltà di richiedere modifiche puntuali a quanto viene riportato sul foglio mobile relativo al proprio intervento.In conclusione il moderatore riassume le cose dette rileggendo le annotazioni dai fogli mobili (normalmente un brainstorming non dovrebbe riempirne più di quattro). Spetterà poi al moderatore predisporre una sintesi scritta del lavoro fatto da far pervenire al convocatore. Brief è un documento (brief), oppure una riunione (riunione di briefing) che prevede comunque la consegna di un documento scritto) in cui il soggetto committente descrive al/ai proponente/i appositamente convocato/i: - le caratteristiche della questione che intende consegnare al/ai proponente/i da affrontare con un programma di relazioni pubbliche; - le modalità e i tempi di consegna delle proposte; - le risorse che il committente è disposto ad investire su quel programma. Non sempre il brief implica competitività fra proponenti diversi e il termine viene utilizzato sia per un’organizzazione quando ha bisogno di proposte di più soggetti esterni, sia quando l’organizzazione presenta la questione a soggetti interni preposti ad affrontarla con azioni di relazioni pubbliche. Il termine deriva dal linguaggio della pubblicità. Se il brief si propone di essere la base di partenza di un processo creativo (→ brainstorming) la sua lunghezza non può superare la cartella (1.800 battute). Se invece si propone di stimolare e ricevere proposte di programmi di relazioni pubbliche atti ad affrontare una questione specifica, può consistere anche in un articolato pacchetto informativo. Call for (papers/proposals/projects) in italiano, “chiamata” o “bando per…”. Quando un’organizzazione invita i suoi interlocutori a proporre testi per un congresso o una pubblicazione, proposte di iniziative e di progetti di relazioni pubbliche. Perché la chiamata sia efficace è necessario che contenga sinteticamente le informazioni necessarie a chi partecipa per calibrare la sua proposta. Capital intensive espressione utilizzata per indicare una professione/attività ad alta intensità di capitali investiti. Per antonomasia, un’attività capital intensive è la pubblicità che si basa sull’acquisizione (tramite investimento di risorse consistenti) di spazi nei diversi canali di comunicazione (→ media). Per valutare il valore di mercato basta poi sommare i capitali investiti dalle imprese private sui diversi media. Fino ad oggi anche il comparto delle relazioni pubbliche è stato valutato con gli stessi criteri utilizzati per la pubblicità e il riferimento più comune è quello alla indagine annuale UPA/Intermatrix che da vent’anni consente di seguire le dinamiche degli investimenti esterni delle imprese private in comunicazione. Secondo l’ultima edizione della ricerca l’investimento annuale delle imprese private in relazioni pubbliche è di 2,3 miliardi di euro. Le relazioni pubbliche, tuttavia non acquistano spazi sui media e quindi le loro attività non possono essere considerate capital intensive, bensì → labour intensive, e la cosa implica criteri di misurazione dell’indotto completamente differenti. Cause related marketing si intende quella tecnica di relazioni pubbliche/marketing che vede un’organizzazione – normalmente una impresa di beni o di servizi – che invita i suoi consumatori ad acquistare un prodotto o utilizzare un servizio destinando una somma fissa o in percentuale a una “buona causa” normalmente promossa da una associazione non profit. Ad avviare questa tecnica fu l’American Express negli anni Settanta negli Stati Uniti a livello locale, quando si era trovata in difficoltà con i ristoratori che tendevano a rifiutare la carta American Express a causa delle commissioni più elevate rispetto alla concorrenza. Ottenuto un forte successo a livello locale, nei primi anni Ottanta e prima di decidersi a sperimentare una campagna nazionale, chiese alla consociata italiana di provarci. La campagna fu realizzata nel 1984 insieme al WWF Italia per la salvaguardia delle coste italiane in collaborazione con l’editore Rizzoli/Corriere della Sera. Il successo fu travolgente (+40% nell’uso della carta!) e convinse la casa madre a lanciare la prima campagna nazionale americana per il restauro della statua della Libertà, campagna che diede notorietà internazionale al cause related marketing. Oggi, grazie alla sua tematizzazione diffusa (→ advocacy), qualcuno inserisce il cause related marketing fra gli strumenti della corporate social responsibility (CSR). Celebrity public relations il termine “celebrity” si riferiva una volta solo a personalità dello spettacolo e dello sport e le RP correlate erano integrate nel modello operativo definito → press agentry (→ Grunig) (gli altri tre sono → public information, scientific persuasion e two-way symmetric). Oggi – anche in virtù di un libro del celebre Kotler, autorevole studioso di marketing, tradotto in italiano da ISEDI nel 1990 col titolo: Alta visibilità: marketing della celebrità – nei mercati anglosassoni, celebrity sono anche il leader aziendale, sociale, politico e culturale. Da qui l’abitudine ormai consolidata di considerare le celebrity public relations come una delle specializzazioni più diffuse della professione, al punto che il progetto → XPRL le considera uno dei rami più importanti delle RP. Le qualità e competenze richieste implicano per il professionista: • discrezione assoluta sulle debolezze e criticità della celebrity con la quale il relatore pubblico finisce inevitabilmente per vivere a stretto contatto; • fedeltà assoluta, questione assai complicata per il relatore pubblico sul piano deontologico quando il suo stipendio/onorario proviene dall’organizzazione e non dalla persona e, come assai spesso avviene, gli interessi entrano in conflitto; • creatività, fantasia e una buona dose di spregiudicatezza, accompagnate a una dettagliata e sempre aggiornata conoscenza delle regole dello star system e dei suoi sottosistemi di giornalisti, press agent, veline e stelline. Ci riferiamo a organizzatori di eventi, associazioni imprenditoriali, culturali, circoli, salotti e think tanks – per la maggior parte → front organisation disponibili a sostenere la celebrity a determinate condizioni Class action un incubo ricorrente per le organizzazioni che erogano servizi o prodotti a molti (largo consumo): si verifica quando un insieme di persone che si ritengono danneggiate da un prodotto/servizio decidono di rivalersi come soggetto collettivo in sede di risarcimento danni. Da molti anni applicato negli Stati Uniti, soprattutto da quando gli avvocati – che in quel Paese sono anche retribuiti in percentuale sull’ammontare dei risarcimenti decisi dai tribunali – hanno iniziato a reclutare utenti/consumatori insoddisfatti disponibili, alleandosi anche con associazioni e coalizioni esistenti. Ora si tenta di estendere la class action anche nel sistema giuridico italiano. Recentemente se ne è parlato nel corso della vicenda della RC Auto e, ancora più recentemente, nella vicenda Parmalat. Per il relatore pubblico esperto in → litigation public relations, la presenza nel sistema giuridico della class action modifica sostanzialmente il modus operandi. Cluster in relazioni pubbliche è un’aggregazione omogenea di soggetti che fanno parte di un pubblico specifico (→ stakeholder), influenti (→ influential; influencer) o destinatari (→ end recipient). Il termine viene dal marketing ove la cluster analysis si propone di individuare gruppi omogenei con lo scopo di identificare le persone o le variabili simili fra loro in base a criteri prefissati. Si ottengono così gruppi coerenti al proprio interno ma differenti fra di loro. I cluster vengono anche impiegati anche in psicografia per fornire utili indicazioni sugli stili di vita dei consumatori in termini di opinioni, azioni, interessi. Coaching è una relazione professionale che si instaura tra una persona qualificata (coach) e una singola persona (coachee) e che si propone di assistere quest’ultimo nello sviluppo di strategie relazionali e gestionali finalizzate alla attuazione di cambiamenti, al raggiungimento di successi o comunque alla realizzazione di obiettivi specifici e personali. Colophon colonna normalmente posta all’inizio o alla fine di un mezzo (→ media) di informazione stampato in cui vengono riportate informazioni di servizio quali: il direttore responsabile, il direttore editoriale, il capo redattore, l’editore, la sede dell’amministrazione e della redazione, i responsabili dei vari servizi redazionali, i collaboratori, il costo dell’abbonamento, il costo della testata, il costo dei numeri arretrati. Communicational behaviour è il comportamento comunicante delle organizzazioni come identificato dallo sloveno Vercic: l’organizzazione interagisce con i propri pubblici affidando alle relazioni pubbliche il governo dei sistemi di relazione con i pubblici influenti (→ Gorel o Relma). Le relazioni pubbliche diventano allora funzione trasversale e strategica nel suo ruolo riflettivo (→ reflective role) e educativo (→ educational role) individuati dalla scuola europea (Vercic, Van Ruler, Holstromm ecc.) (→ Bled manifesto). L’organizzazione comunicante attribuisce grande importanza alla comunicazione con i pubblici influenti e ne affida l’attuazione operativa a tutte le direzioni, con il coordinamento di una direzione dedicata. (→ comunicative behaviour) Communication social responsibility è la responsabilità sociale dei comunicatori. Risiede nell’assunzione di piena consapevolezza e nel conseguente impegno a operare un progressivo disinquinamento comunicativo (→ info-communicative overload). Questo impegno implica una migrazione delle pratiche quotidiane verso una “comunicazione con” i pubblici di riferimento, dove l’ascolto è consustanziale al dialogo e all’interazione. Ciò favorisce, oltre al disinquinamento comunicativo, anche un sensibile miglioramento della qualità della comunicazione potendo disporre di modalità relazionali dirette e one-with-one, quelle ritenute maggiormente efficaci. Comunicative behaviour è una variante del comportamento di un’organizzazione individuate da Vercic (→ anche comunicational behaviour). In questa dimensione le relazioni pubbliche sono intese come strumento operativo, verticale e push volto (quasi) esclusivamente alla produzione e diffusione di messaggi, con netta prevalenza del ruolo tecnico e manageriale (→ managerial role; operational role). L’organizzazione comunicativa attribuisce grande importanza alla comunicazione ai pubblici influenti tramite i media e ne affida l’attuazione operativa a una direzione dedicata. Community relations una delle più importanti e tradizionali specializzazioni delle relazioni pubbliche legate soprattutto al settore manufatturiero che ha a che fare con i programmi di iniziative e di relazioni che un’organizzazione sviluppa e attua al fine di ottenere, rinnovare e rinforzare quella “license-to-operate” così importante per attirare le migliori risorse, ottenere la legittimazione sociale, la benevolenza e l’alleanza delle istituzioni locali, ridurre il rischio in caso di situazioni di crisi (→ crisis communication, crisis management). L’attenzione delle organizzazioni verso le community relations, forte negli anni Sessanta e Settanta, ma poi caduta nei decenni successivi, è molto cresciuta negli ultimi anni con la tematizzazione pervasiva della CSR. Concept in relazioni pubbliche è il “cuore”, o il core (nel senso romanesco del termine), la struttura, il senso autentico, la ragione di un progetto, di un’iniziativa, di un programma di relazioni pubbliche. Consent (consensus) sul concetto di “consenso” – e sul rapporto fra consenso e persuasione, comunicazione, relazioni pubbliche, fiducia, reputazione, immagine, identità (concetti quasi sempre erroneamente usati con significati equivalenti) – la pubblicazione nel 1956 di The Engineering of Consent (“Ingegneria del consenso”), fondamentale saggio di Edward Bernays, ha avviato una sterminata produzione di studi e lavori. Bernays teorizza che informando il pubblico in positivo è possibile raccogliere il necessario supporto a una causa, a un candidato, a un’organizzazione. La ricerca, l’acquisizione, la manutenzione del consenso è in cima ai desideri dei vertici di ogni organizzazione e, più o meno esplicitamente, questo compito viene assegnato ai relatori pubblici. Consequence termine usato dagli studiosi delle relazioni pubbliche per indicare gli effetti che un’organizzazione induce sui pubblici influenti. Per James Grunig, sostenitore della tendenziale simmetria (→ symmetric) relazionale per rendere più efficace l’organizzazione, è anche importante che il relatore pubblico, nel suo ruolo strategico/riflettivo, si preoccupi di analizzare e interpretare per la coalizione dominante anche le conseguenze che i pubblici influenti producono sulla organizzazione (→ reflective role). Consultancy quando si parla di public relations industry ci si riferisce solitamente all’insieme dei servizi di consulenza offerti alle organizzazioni da solo consultants (i liberi professionisti), consulenti associati, imprese di consulenza locali, nazionali, regionali o globali. Poiché lo sviluppo delle relazioni pubbliche negli Stati Uniti e nel Regno Unito è sempre stato fortemente legato al settore privato dell’economia, si è indotta (in tutto il mondo) una forte identificazione della professione con la consulenza, e la sua economia è assimilata alla somma dei budget investiti dalle imprese. Questa distratta abitudine ha fortemente contribuito a ridurre la percezione reale del settore (in Europa, più legata al settore pubblico e sociale che non al privato) e della sua stessa economia. In Italia, su 70.000 relatori pubblici censiti nel 2001, ben 40.000 operavano nel settore pubblico, 15.000 in quello privato e 5.000 in quello sociale. Solo 10.000 erano i consulenti. Quanto poi a valutare l’economia complessiva del comparto, a fronte dei 2,5 miliardi di euro annui attribuiti alle relazioni pubbliche dall’UPA (che le considera → capital intensive come la pubblicità e stima i soli investimenti delle imprese private), la FERPI calcola che il valore economico reale supera in realtà i 14 miliardi di euro l’anno. Questo perché considera le relazioni pubbliche come attività → labour intensive, e per stimarne il valore, parte dal numero dei relatori pubblici (70.000), definisce un costo medio lordo annuo di ciascuno (70.000 euro), e moltiplica questo valore per tre considerando questa la soglia minima della produttività, arrivando quindi alla cifra sopra indicata. Consumerismo il termine, da non confondersi con “consumismo”, indica il fenomeno della protezione del consumatore. Negli Stati Uniti degli anni Settanta, ancora prima degli ambientalisti, gruppi di consumatori consapevoli e organizzati (il primo leader fu Ralph Nader nella sua campagna contro i giganti dell’auto), hanno cominciato a dare grattacapi alle grandi imprese, accusate di non preoccuparsi abbastanza della sicurezza e della bontà dei prodotti/servizi. Anche in Italia il fenomeno si avviò nella seconda metà degli anni Settanta grazie all’azione di Anna Bartolini, oggi la più autorevole e conosciuta rappresentante dei consumatori e di Gustavo Ghidini, antesignano del movimento e oggi autorevole giurista, accademico e commentatore del Corriere della Sera. La prima azienda italiana a prendere sul serio il movimento dei consumatori fu la Fiat che, alla fine degli anni Settanta, commissionò a una società di consulenza inglese (Intermatrix), un primo rapporto sulla questione. Poi, seguirono le altre imprese di beni di largo consumo e di servizi. Oggi, il fenomeno si è istituzionalizzato e la gran parte delle associazioni sono scarsamente rappresentative e trasparenti. Content analysis in relazioni pubbliche è l’analisi di contenuto di come il sistema dei → media tratta una determinata questione, un’organizzazione, un prodotto o un servizio. Mentre in altri mercati più evoluti le società di servizio che forniscono questa analisi risalgono ai primi anni Settanta, in Italia il primo a fornirla fu Nicola Bovoli alla metà degli anni Ottanta su esplicita richiesta della Montedison, il cui direttore delle relazioni esterne era allora Carlo Bruno, oggi presidente di Bonaparte 48, agenzia di relazioni pubbliche. Negli anni Novanta sono fiorite sia a Roma che a Milano società di servizi che forniscono analisi quali/quantitative sui contenuti dei media (→ evaluation, measurement) ma siamo ancora anni luce indietro rispetto ai mercati anglosassoni ove tutto ciò viene fornito al cliente in tempo reale, via Internet e con livelli assai sofisticati. (→ anche output) Cooling-off period è il periodo, cosiddetto “di ripensamento”, che consente all’acquirente di restituire un servizio o un prodotto acquistato al venditore senza aggravio di costi. In relazioni pubbliche è il tempo che si dà a un interlocutore per valutare se utilizzare o meno (in esclusiva) le informazioni ricevute. In caso contrario, si intende che l’interlocutore accetta di non usare quelle informazioni prima che lo abbia fatto un altro soggetto interpellato per la stessa ragione e che abbia deciso di accettare. Co-ompetition condizione che si verfica quando soggetti diversi che normalmente competono si alleano per cooperare e affrontare una criticità comune pur restando concorrenti. In questi frangenti le relazioni pubbliche acquistano un rilievo di eccezionale rilevanza. Co-orientation è una tecnica usata nelle relazioni pubbliche quando si mettono a confronto le opinioni di due soggetti rispetto a una questione utilizzando anche le opinioni che ciascun soggetto esprime sulle opinioni dell’altro. È assai utile nei processi di negoziazione (→ negotiative) o di mediazione fra l’organizzazione e i suoi pubblici influenti. Copy il termine è mutuato dalla pubblicità per indicare un testo. Copywriter è chi scrive il testo, mentre copy clearance è il suo processo di supervisione e autorizzazione. Corporate il termine si riferisce quasi sempre alle imprese private, ma si tratta di un errore, poiché corporate deriva dal latino corpus, che indica un’organizzazione, indipendentemente dalla sua natura privata, pubblica o sociale. Coverage si intende la “copertura” che un’azione di relazioni pubbliche ottiene sui media (→ media, measurement, evaluation). Crisis communication → crisis management. Crisis management è una funzione strutturale del processo di direzione di un’organizzazione (pubblica, privata, sociale) che analizza, predispone e coordina la gestione di situazioni di crisi prevedibili (intese come avvenimenti non attesi interni o esterni, che coinvolgono persone, processi, prodotti, attività finanziarie, commerciali o comunicative e che determinano – o potrebbero determinare – una soluzione di continuità critica alla identità, l’immagine o la reputazione dell’organizzazione stessa, andando a incrinare i suoi sistemi di relazione con uno o più pubblici influenti). La crisis communication è invece l’insieme delle attività di comunicazione di un’organizzazione al momento in cui la crisi si manifesta. Nelle organizzazioni più consapevoli la seconda è compresa nella prima e la funzione del relatore pubblico è di gestirne i processi comunicativi. Nella gran parte delle organizzazioni si tende invece a pensare che, affidando il crisis management alla comunicazione, la prima sia compresa nella seconda: e questa è la ragione per cui la gran parte delle volte che scoppia una crisi e dall’esterno si osserva con attenzione come viene gestita, ci si mette le mani nei capelli. Critical school insieme alla sistemica (→ systemic school) e alla retorica (→ rhetoric school), è la terza scuola teorico-scientifica alla base del pensiero contemporaneo delle relazioni pubbliche. Per i “critici” come Stuart Ewen, Jacquie L’Etang e Marvin Olasky nessuna teoria potrà mai impedire ai poteri “forti” di piegare e di manipolare le coscienze delle persone e, nella società contemporanea, le relazioni pubbliche rappresentano la massima espressione di questo esercizio. Database unità informative archiviate e accessibili via computer. In relazioni pubbliche viene usato per indicare un archivio dinamico, usato spesso e continuamente aggiornato. Daybook è il diario degli eventi della giornata, aggiornato a scadenze fisse del giorno, con cui normalmente le agenzie di stampa aprono i loro servizi. Deadline è la scadenza, il tempo limite di un lavoro. Nelle relazioni con i media (→ media relations) indica l’ora entro cui un comunicato (→ news release) o una notizia devono arrivare al destinatario con qualche speranza che venga ripreso il giorno dopo. Debriefing riunione nel corso del quale, generalmente dopo una campagna, un’iniziativa, un evento o un incontro importante, i realizzatori si scambiano opinioni e suggestioni al fine di individuare le criticità incontrate ed evitare o ridurre la possibilità di una loro ripetizione. (→ brief) Decoy è un nome “civetta” inserito in un elenco di destinatari per controllare che il messaggio giunga effettivamente a destinazione. Deep throat “gola profonda”: è una fonte riservata e non citabile. Termine molto usato nel resoconto del caso Watergate per indicare la fonte anonima che informava Bob Woodward e Carl Bernstein, i due giornalisti del Washington Post che avevano fatto scoppiare lo scandalo. L’origine del termine viene dal soprannome della pornostar Linda Lovelace, famosa negli anni Ottanta. Delphi indica una metodologia di ricerca cui sovente ricorrono i relatori pubblici quando devono ascoltare le variabili prioritarie (→ issue) e soprattutto si propongono di prevederne le dinamiche. Tecnicamente il “metodo Delphi” implica un gruppo ristretto di partecipanti (massimo 20), a vario titolo esperti della materia, o comunque ritenuti dal conduttore utili a gettare luce sul futuro. Sono persone che lavorano a distanza (uno sa chi sono gli altri, ma solo alla fine) e, in tempi ravvicinati (massimo due mesi), interagendo da due a tre volte e commentando i commenti degli altri. Il conduttore scrive una pagina di descrizione del tema e la accompagna con quattro/sei domande chiave. I partecipanti rispondono alle domande. Il conduttore raccoglie il consenso e isola le questioni su cui vi sono dissensi. Ripropone ai partecipanti soltanto le versioni estreme dei dissensi emersi chiedendo un secondo intervento ai partecipanti. Raccoglie nuovamente le aree di consenso emerse e ripropone una terza (e ultima) volta le questioni ove vi siano ulteriori dissensi. I partecipanti rispondono e il conduttore tira le somme, scrive le conclusioni inviandole ai partecipanti i quali però non hanno facoltà di ulteriori interventi correttivi. Una variante del Delphi è il TAROT (trend analysis by relative opinion testing) creato nei primi anni Ottanta dall’inglese Geoffrey Morris di Intermatrix appositamente da applicare alla metodologia dell’→ issue management. Definita una issue prioritaria, si identificano da 20 a 30 esperti della issue e li si vincola a una sorta di Delphi permanente senza mai dire loro chi siano gli altri partecipanti. Il Tarot consente al conduttore un monitoraggio continuativo dell’evoluzione della issue. Demarketing indica una strategia che consiste nel ritardare la consegna di un prodotto/servizio per ridurre una domanda eccessiva rispetto alla capacità di produzione o di distribuzione. Desk research è l’attività costante del relatore pubblico di analisi, lettura e interpretazione delle variabili esterne che influenzano il raggiungimento dell’obiettivo perseguito. Direct marketing/response è una delle quattro discipline della comunicazione di impresa (→ corporate communication), insieme alla pubblicità, alle relazioni pubbliche e alle promozioni. Si tratta di una tecnica → “below the line” che consente a un’organizzazione di aprire con i consumatori o pubblici influenti una relazione a due vie attraverso il canale postale o, più recentemente, Internet. Normalmente l’obiettivo perseguito è la generazione di contatti, il rafforzamento delle caratteristiche di un prodotto/servizio/idea nel destinatario e la raccolta di reazioni e → feedback. È una tecnica che tende a fidelizzare l’interlocutore, sviluppa i suoi effetti a medio termine e rafforza l’identità di marca. Il termine marketing viene usato quando la singola operazione è commerciale, il termine response – più sofisticato – venne introdotto alla fine degli anni Settanta dalla Ogilvy & Mather per valorizzare l’aspetto interattivo della relazione. Disclaimer è una dichiarazione preventiva di chi avvia un processo comunicativo per avvertire gli altri soggetti della relazione di alcune precauzioni inerenti, per esempio, alla privacy o alla responsabilità dei contenuti della comunicazione. Diversity è il nuovo paradigma delle relazioni pubbliche del XXI secolo. Il presupposto è che la più efficace delle comunicazioni è quella one-with-one e one-with-few (in italiano “uno-con-uno” e “uno-con-pochi”, non “uno-a-uno” e “uno-a-pochi”) e che, oggi più che mai, le tecnologie e le conoscenze consentono alle organizzazioni di perseguire questo modello, quando si tratta di comunicare con i loro pubblici influenti. Se tutto questo è vero, così come è vero che ogni persona è diversa dall’altra e che è proprio la diversità nelle sue espressioni più varie (culturale, linguistica, di genere, di etnia, di religione, di abilità, di preferenza sessuale ecc.) a determinare le dinamiche dell’ambiente in cui le organizzazioni operano, ne consegue che il governo della diversità equivale al governo dei sistemi di relazione (→ Gorel o Relma) con i pubblici influenti, cioè, alle relazioni pubbliche. Dogoodism indica una tendenza a fare sempre del bene in qualsiasi circostanza. In Italiano è simile al cosiddetto “buonismo”. In relazioni pubbliche è una tendenza da evitare, poiché finisce per minare la stessa credibilità dei soggetti. Door opener un qualsiasi incentivo offerto all’interlocutore per attirarne l’attenzione e creare un atmosfera di dialogo. Downplay attività che sminuisce l’importanza di una questione, di una notizia, di un comportamento. Editing scrittura di un testo o un articolo, oppure revisione del testo di un altro autore per renderlo adatto alla pubblicazione. Editor non è, come molti pensano un editore, bensì un giornalista semplice oppure responsabile di una pagina o di una rubrica o di un giornale (in questo caso managing editor). Editorial-leader è un testo che appare come opinione del giornale o, se firmato, del firmatario. Si chiama anche leader. Educational role fra i diversi ruoli strategici (→ strategy) del relatore pubblico in un’organizzazione è anche quello educativo. Partendo dalla premessa che tutte le funzioni direttive di un’organizzazione gestiscono i rispettivi sistemi di relazione in base a linee condivise e verso obiettivi concordati e che le competenze comunicative siano diffuse attraverso l”organizzazione, il relatore pubblico assicura la coerenza dei comportamenti relazionali e comunicativi della coalizione dominante e sovraintende al trasferimento delle competenze comunicative nell’organizzazione, monitorandone costantemente le dinamiche. L’altra dimensione di ruolo strategico del relatore pubblico è quella riflettiva (→ reflective role). (→ Bled manifesto) Effective “efficace”, diverso da efficient (“efficiente”). In relazioni pubbliche, il primo si riferisce all’→ outcome (ma le opinioni o i comportamenti sono cambiati?), il secondo all’→ output (ma quanti hanno ripreso quel comunicato o partecipato a quell’evento che fa parte del progetto che dovrebbe cambiare opinioni o comportamenti?). (→ evaluation, measurement) Effective audience il pubblico potenzialmente esposto a un articolo. “Eighty/twenty” principle l’opinione diffusa che il 20% dei consumatori acquista l’80% di un prodotto o servizio. E-letter lettera elettronica, anzi newsletter elettronica: utile ed efficace strumento di relazione con → stakeholder e pubblici influenti purché siano rigorosamente rispettate le norme più restrittive sul diritto alla privacy. Embargo nelle relazioni con i media (→ media relations) è la data su un comunicato stampa (→ news release) che ne autorizza la pubblicazione. Empowerment è quell’azione consapevole per cui, in un’organizzazione, un soggetto responsabile di un’azione, un programma, un progetto coinvolge altri soggetti, indipendentemente dalla linea gerarchica, e attribuisce loro una parte (o tutto) della responsabilità e del potere per poter realizzare quell’azione, quel progetto, quel programma. End user, o end recipient, è il destinatario finale. Tra i pubblici influenti (coloro cioè che possono agevolare o ostacolare il raggiungimento degli obiettivi organizzativi – e quindi il passaggio dalla → mission alla → vision) sono quelli che subiscono le conseguenze, dirette e/o indirette, delle attività dell’organizzazione. Con i destinatari finali l’organizzazione utilizzerà strumenti di comunicazione erga omnes (→ comunicative behaviour) integrando le relazioni pubbliche con la pubblicità, il → direct response e le altre attività → below-the-line e incentivando, in ogni caso la possibilità di → feedback immediato da parte dei destinatari (coupon ecc.). Endorsement è l’avvallo, la certificazione, il sostegno a un evento (→ event), un’idea, un programma, un prodotto, un servizio. Mentre lo sponsor è chi sostiene finanziariamente un evento, una personalità, un prodotto, un servizio; l’endorser è proprio l’evento, la personalità, il prodotto, il servizio sponsorizzato. In relazioni pubbliche sfugge spesso che il maggior beneficiario della relazione “sponsor-endorser” non è il secondo ma il primo. Engineering perception concetto formulato da Leonard Saffir che, a differenza della semplice persuasione, implica la creazione o la modifica del contesto in cui si formano le percezioni e si prendono le decisioni. Environmental analysis/monitoring non è come molti pensano una analisi ambientale nel senso della qualità dell’aria o dell’acqua, ma un’analisi o un monitoraggio del contesto storico, politico, sociale, tecnologico, economico e culturale in cui un’organizzazione opera. (→ boundary spanning) Envisioning la riflessione di un’organizzazione che definisce, aggiorna e rivede la propria missione (cosa sono e cosa faccio oggi) (→ mission), visione (cosa voglio essere e cosa voglio fare fra cinque anni) (→ vision), strategia (come intendo transitare dalla missione alla visione) (→ strategy) e valori guida (→ guiding principles) che devono orientare l’attuazione della strategia. Equity in relazioni pubbliche è il valore attribuito ai sistemi di relazione e all’identità di un organizzazione, di un suo prodotto, servizio o idea. Come scrivono già nel 1994 Norton e Kaplan (The balanced scorecard, Harvard University Press): “You cannot manage what you cannot measure, and you cannot measure what you cannot describe” (non puoi gestire quel che non puoi misurare e non puoi misurare quel che non puoi descrivere). Ergonomics la scienza che studia le relazioni fra chi lavora e il suo ambiente di lavoro. Ethical relativism il concetto che i comportamenti etici siano diversi in contesti sociali diversi. Evaluation la fase di lavoro spesso più importante del relatore pubblico quando, dopo avere realizzato una determinata iniziativa o campagna, valuta sul piano qualitativo – generalmente tramite comparazione con predefiniti obiettivi organizzativi – il valore dell’intervento comunicativo analizzando gli effettivi comportamenti, le opinioni e le decisioni dei pubblici influenti orientati da quella iniziativa (→ outcome). È un processo che sottende grande capacità di interpretazione ed è naturalmente tendenzialmente soggettivo. È diversa, quindi dalla misurazione (→ measurement) che invece si occupa di attribuire valori soprattutto quantitativi – è quindi maggiormente oggettiva – agli spazi effettivamente conquistati da un comunicato o da una conferenza stampa, oppure – se si tratta di un evento – al numero di partecipanti a un evento (→ output; outtake), a prescindere se quella notizia o quell’evento potranno effettivamente modificare le opinioni, i comportamenti o le decisioni dei lettori o dei partecipanti. Event Daniel Boorstin, storico contemporaneo e autore nel 1962 del pamphlet The Image: or what’s happenened to the american dream? scrive che un evento è una guerra o un terremoto mentre tutti gli altri eventi creati artificialmente per attirare l’attenzione di un pubblico su una idea, un prodotto, un servizio oppure un’organizzazione, sono in realtà “pseudo-eventi”. In relazioni pubbliche gli eventi sono episodi di convocazione di pubblici specifici per tematizzare una questione che interessa a chi promuove, sponsorizza, finanzia. Naturalmente l’evento avrà successo se e quando la questione interessa anche gli invitati. Da qui l’importanza di pensare con attenzione a come articolare l’evento, dialogando con gli → stakeholder, creando coalizioni di interessi con tutti gli aventi causa e tenendo in conto le aspettative e le attese dei pubblici che si vuole attirare. Exit interview è l’intervista che normalmente viene fatta al collaboratore che esce da un’organizzazione, o lascia un prodotto o un servizio, per capire a fondo le ragioni dell’abbandono ed evitare così che casi analoghi si ripetano. Expatriate è il cittadino del Paese ove un’organizzazione ha la sua sede centrale, espatriato a operare per l’organizzazione in un altro Paese. Exposure è il valore di esposizione di un pubblico a un messaggio. Non implica né che il pubblico l’abbia in realtà visto o letto, tanto meno meditato o assorbito. Ma è un valore statisticamente importante nella fase di misurazione. Un’altra accezione riguarda l’esposizione di un soggetto al sistema dei media. (→ effective audience) Extrospective research è l’analisi delle variabili esterne che possono esercitare influenza su un gruppo di persone o un’organizzazione. Eye contact quando si guarda direttamente negli occhi dell’interlocutore. In alcuni Paesi è considerata una tecnica di relazione aggressiva e può essere controproducente, In altri è il contrario. In televisione è quando si guarda in macchina. Fact sheet letteralmente un unico foglio contenente i dati indispensabili per conoscere una questione. (→ backgrounder; position paper) Fair use la quantità di testo che, eccezionalmente, è consentito citare di un autore senza pagare il diritto d’autore e senza chiedere il premesso. (→ disclaimer) Familiarity un messaggio (→ message) è efficace (→ effective) quando chi lo riceve ha familiarità con il contesto. Non è necessario che conosca già il messaggio specifico, ma che almeno una parte del messaggio suoni familiare. Farm out distribuire all’esterno dell’organizzazione una parte del lavoro da fare; sinonimo di outsourcing. Fast track corsia preferenziale o privilegiata. Fee è il compenso/onorario professionale puro, escluse le spese del consulente (o singolo professionista) e degli eventuali fornitori. Può trattarsi, indifferentemente, di un compenso forfettario riferito a uno specifico progetto o iniziativa/evento o campagna, oppure di un compenso periodico a fronte di una prestazione continuativa per un tempo determinato. feedback è il processo di raccolta di dati, opinioni, giudizi di uno o più soggetti su una specifica iniziativa per valutarne l’esito e correggerne gli errori. field report research l’attività di reporting dalle fonti che sono sul “campo operativo” (territorio, organizzazioni). financial relations l’insieme delle relazioni che una impresa ha con il mercato finanziario da cui trae le risorse economiche necessarie alla crescita. Normalmente rientrano sotto la responsabilità della direzione finanziaria che, a sua volta, può gestirle in cooperazione con la direzione comunicazione e con la funzione investor relations che, ancora, può essere interna alla direzione finanziaria, interna alla direzione comunicazione oppure riferire direttamente al vertice dell’organizzazione. Five P’s and W’s le prime si riferiscono alla cinque “P” di Kotler e riguardano le variabili del marketing: price (prezzo), packaging (confezione), product (prodotto), place (luogo), promotion (promozione). Importante ricordare che, in un momento successivo, Kotler ha anche aggiunto una sesta “P” che sta per PR (public relations) o power. Le seconde si riferiscono alle cinque “W” del buon giornalista: who (chi), what (cosa), when (quando), where (dove), why (perché). Anche in questo caso è buona prassi aggiungere una “H”, che sta per how (come). Flack termine con cui i → media “antipatizzanti” solitamente definiscono con intenzioni spregevoli i relatori pubblici. Il senso è quello della vacuità, della inconsistenza, della pura apparenza e anche di una certa volgarità. Flow chart una visualizzazione grafica che descrive le fasi successive di un percorso operativo. Flyer è il nostro tradizionale volantino, buono per tutti gli usi; high flyer è invece una persona che “vola alto”. Focus l’obiettivo centrale; nell’espressione focus group, implica una tecnica di ascolto per raccogliere informazioni qualitative e approfondite su una questione di interesse da un gruppo di individui attentamente selezionati e coordinati da un facilitatore. Follow up ciò che segue un evento (→ event), la distribuzione di un comunicato (→ news release) o la conclusione di un’iniziativa. Normalmente riguarda le attività di relazioni ex post di ringraziamento, di verifica di gradimento e di interesse, e di rilancio per ulteriori relazioni. Forensic public relations → legal public relations; litigation public relations. Four-minute-men così sono chiamati quei volontari della società civile americana che alla vigilia dell’entrata nella prima guerra mondiale furono decisivi nel convincere l’opinione pubblica americana all’intervento (→ public opinion). Ciascuno, più volte al giorno e in qualsiasi situazione relazionale si trovasse (in famiglia, al cinema, al bar, al lavoro) si alzava in piedi, chiedeva la parola e in quattro minuti illustrava le ragioni che spingevano gli Stati Uniti ad entrare in guerra. L’intera operazione, guidata direttamente dal Presidente Wilson, è stata condotta dal CPI (Committee for Public Information) coordinata da Gorge Creel, in collaborazione fra gli altri, con Carl Byor e Edward Bernays. Framework è la cornice di una situazione. Freelance professionista che opera in proprio al servizio di organizzazioni diverse e che, normalmente, si specializza in un’area di competenza (→ media relations; event; management; public affairs; financial communication; marketing communication) oppure in un settore specifico (farmaceutica, chimica, elettronica ecc.). Freebie gadget gratuito offerto da un’organizzazione a chi partecipa a un evento (→ event) o una iniziativa. Front organisation termine usato per definire un’organizzazione apparentemente autonoma e indipendente che si presta a compiere e a diffondere, assumendosene la paternità, argomenti, interpretazioni e dati che servono a sostenere gli interessi impliciti di altre organizzazioni che non vengono esplicitamente nominate come committenti, sponsor o partner. Full service agency un’organizzazione dell’offerta che propone al mercato un servizio completo di comunicazione (pubblicità, relazioni pubbliche, promozione, direct marketing). Fundraising sta per “raccolta fondi”. È importante sottolineare che la progressiva integrazione fra organizzazioni non profit e organizzazioni donatrici non solo apre nuovi spazi operativi per funzioni di intermediazione relazionale ma incentiva anche lo spostamento del contenuto della raccolta non solo ai fondi ma anche al tempo volontario delle persone dell’organizzazione donatrice e di altri servizi/prodotti di queste. Gatekeeper chi tiene le chiavi del cancello. In relazioni pubbliche il gatekeeper è sicuramente un interlocutore rilevante. Talvolta è → stakeholder (consapevole e interessato alla relazione con l’organizzazione); altre volte è influente (→ influential, influencer) (non necessariamente consapevole e neppure interessato all’organizzazione ma rilevante per lei perché influente sulle variabili e/o sui destinatari); altre ancora è tutte e due le cose (sia possessore di titolo a interloquire sia rilevante per l’organizzazione). L’identificazione dei gatekeeper è una delle fasi più delicate delle relazioni pubbliche e richiede un attento lavoro di analisi delle variabili (→ issue; boundary spanning; environmental scanning) che possono orientare il raggiungimento di uno specifico obiettivo perseguito dall’organizzazione. Se questo lavoro non viene fatto, quando gli obiettivi perseguiti non sono chiari, specifici e dettagliati, tutti sono gatekeeper (come tutti sono stakeholder o influenti) e quindi non serve a nulla identificarli e si finisce per comunicare con tutti sbagliando i messaggi e investendo risorse inutili. Ghost writer è uno dei tanti compiti che vengono normalmente assegnati al relatore pubblico e si realizza quando si è chiamati a predisporre un discorso, una dichiarazione, un testo o un documento per un’altra persona, normalmente un datore di lavoro o un cliente. La qualità e la capacità di scrittura sono di certo importanti, ma meno dell’empatia del relatore pubblico con la persona che poi userà il suo lavoro. Scrivere un discorso per chi non si conosce, o si conosce poco, è quasi tempo perso. Global principles concetto introdotto da James → Grunig, che nei suoi studi parla spesso di “global principles and specific applications”. Nella sua teoria globale delle relazioni pubbliche (ancora di fase di elaborazione), per global principles si intendono quei principi generali delle relazioni pubbliche che vanno poi applicati e adattati tenendo conto delle specificità culturali, economiche, religiose e professionali adatte allo specifico territorio in cui si applicano. La Global Alliance ha adottato questo concetto nella redazione del suo protocollo etico e nel suo programma strategico 2004-2009. (→ specific applications) Globalisation in riferimento specifico alle relazioni pubbliche è suggestiva l’argomentazione del sociologo inglese Anthony Giddens iche: - la globalizzazione ha esaltato assai più le diversità (→ diversity) e le differenze che non l’omologazione delle culture, dei valori e dei comportamenti (→ glocal); - delle grandi rivoluzioni che hanno investito il genere umano, la globalizzazione è la prima che vede la comunicazione, da sempre alla perenne conquista del tempo e dello spazio, in veste di suo motore principale. Glocal crasi fra global e local; termine coniato nei primissimi anni Novanta in riferimento sia alla → globalisation (Giddens) sia ai → global principles (Grunig). Goodwill letteralmente, “buona volontà”. In relazioni pubbliche può essere interpretato come la disponibilità “al buio” di un interlocutore, l’apertura di fiducia verso l’organizzazione prima del dialogo, perfino la reputazione (→ reputation), purché prima di un intervento consapevolmente orientato a influenzarla. Altrimenti, nella valutazione di una impresa, è il valore del patrimonio Intangibile (→ invisibile assets), ma si usa sempre meno man mano che gli intangibili trovano propri e condivisi sistemi specifici di valutazione. Gorel (governo delle relazioni), o Relma (relationship management), acronimo formulato alla metà degli anni Ottanta dalla SCR Associati, allora società leader del mercato italiano delle relazioni pubbliche, nello sviluppo di un “canovaccio” di riferimento per procedere all’attuazione e per misurare i risultati di una attività di relazioni pubbliche. Oggi, il termine di relationship management è largamente diffuso in tutto il mondo (→ relationship; systemic school). In Italia, il metodo Gorel è in continua rivisitazione. Quel metodo, con una ampia flessibilità, viene oggi adottato da molte organizzazioni anche internazionali e da diversi professionisti. Il termine “governo” è alternativo a quello di “gestione” (management) poiché una relazione, se è interattiva e tendenzialmente simmetrica (→ symmetric), non può e comunque non deve essere gestita, ma “governata” nel senso di → governance. Governance non esiste un termine italiano condiviso; potrebbe essere “governo”, ma è troppo stretta la sua identificazione con il governo di uno Stato (tanto che in inglese si dice governance e non government). Viene usato con diverse accezioni: • si parla di governance per indicare il sistema di regole che assicura una corretta gestione delle organizzazioni; • se ne parla anche come applicazione di processi partecipati e inclusivi per arrivare ad assumere e implementare decisioni che producono o possono produrre conseguenze su altri. Tutte le accezioni hanno comunque in comune l’inclusione di nuovi soggetti nei processi decisionali delle organizzazioni private, pubbliche e sociali. Grass-root letteralmente, “radice erborea”; in relazioni pubbliche implica una qualsiasi azione “dal basso” con il quale il relatore pubblico si trova a confrontarsi con un pubblico. Con particolare riferimento all’attività di → lobbying, grass-root lobbying indica la mobilitazione civile (tramite manifestazioni, invio di lettere, scioperi) per cercare di influire sui processi decisionali pubblici (PDP). Gross impression nei sistemi di misurazione quantitativa delle relazioni pubbliche (→ measurement; output) è l’indice delle uscite sui → media moltiplicate per i lettori potenziali (→ effective audience; exposure). Il termine gross sta per lordo, nel senso che non potrò mai sapere quanti abbiano davvero letto quell’articolo, ascoltato o visto quel programma o quella notizia. Ma posso sapere potenzialmente quanti lo avrebbero potuto fare. Gross rating point (GRP) nei sistemi di misurazione quantitativa della pubblicità è l’indice che misura la pressione sui media di una campagna. Si calcola moltiplicando l’audience per la frequenza di uscita. Grunig (models of PR) felice elaborazione dello studioso americano James Grunig per sintetizzare quattro diversi approcci alle relazioni pubbliche che corrispondono anche ad altrettanti fasi storiche della professione, pur essendo oggi tutti e quattro i modelli adottati, e sovente anche nella stessa organizzazione. Eccoli: 1) → press agentry: le relazioni pubbliche hanno un solo interlocutore prevalente che è il giornalista, al quale si forniscono notizie anche fantasiose purché creative e capaci di fare vendere più copie. Si viene così a creare un sorta di “dipendenza” del giornalista dal relatore pubblico. Il modello è unilaterale e completamente asimmetrico (→ asymmetric) (nasce a fine Ottocento e Grunig cita come caso esemplare quello del proprietario di circo P.T. Barnum); 2) → public information: le relazioni pubbliche hanno sempre lo stesso interlocutore prevalente (il giornalista) ma l’organizzazione gli riconosce il diritto a una informazione veritiera anche se parziale, e all’accesso alla fonte per ulteriori approfondimenti. È sempre un modello unilaterale ma leggermente più simmetrico (→ symmetric). Grunig attribuisce questo modello a Ivy Lee nei primi anni del novecento (→ muckracker); 3) scientific persuasion (two-way asymmetric): le relazioni pubbliche ascoltano i destinatari (consumatori, elettori, utenti, beneficiari) per capire chi sono i loro → opinion leader e per verificare l’efficacia (→ evaluation) dei messaggi (→ message) predisposti prima di trasferirli erga omnes. È un modello bilaterale e assai più simmetrico del precedente e che anticipa il marketing. Grunig fa risalire il modello ai primi anni Venti con l’attività di Edward Bernays; 4) negotiation (two-way symmetric): le relazioni pubbliche aiutano le organizzazioni a raggiungere le finalità perseguite ascoltando le aspettative dei – e sviluppando sistemi di relazione interattivi e simmetrici con – i pubblici influenti prima di decidere gli obiettivi specifici, tenendo conto delle loro esigenze quando non siano in conflitto con le finalità (→ envisioning), così da ridurre le resistenze al raggiungimento degli obiettivi così definiti. Il modello è interamente bidirezionale e tendenzialmente simmetrico, e la sua elaborazione è attribuita allo stesso Grunig. Guiding principles “principi guida”. Nel processo di → envisioning di un’organizzazione è la fase successiva alla definizione della missione (→ mission) e della visione (→ vision) e precede quella della strategia (→ strategy). È la declinazione dei principi generali di comportamento che l’organizzazione si impegna a rispettare nell’attuazione della strategia. Hidden persuaders l’espressione è mutuata dal titolo di un libro scritto nel 1957 da Vance Packard (Persuasori occulti, edito in Italia da Einaudi) in cui l’autore, con straordinaria brillantezza, porta alla ribalta dell’opinione pubblica (→ public opinion) la questione dell’uso delle tecniche di persuasione (→ Grunig) per veicolare un prodotto o un messaggio (→ message). Se è fuor di dubbio che il concetto di “persuasori occulti” era stato originariamente coniato per indicare i pubblicitari e non i relatori pubblici, è pur vero che ancora oggi, a tanti anni di distanza, rimane uno stereotipo urticante con cui prima o poi finiscono per fare i conti tutti i relatori pubblici: trovandosi a operare nell’incrocio tra i sistemi di relazione di società politica, dell’informazione ed economicosociale possono dar luogo a percezione di attività opacamente (il contrario di trasparente) manipolative e persuasive. Hospitality termine assai usato in relazioni pubbliche, tradendo così la natura originaria di una professione un cui strumento chiave è appunto l’ospitalità di interlocutori attentamente selezionati perché ritenuti influenti sull’obiettivo perseguito: giornalisti, politici, opinion leader, grandi clienti, medici, fornitori, azionisti, distributori. Da qualche anno e in qualche paese giornalisti, politici e analisti finanziari tendono a non accettare l’ospitalità e partecipano a eventi ritenuti interessati a proprie spese. House agency agenzia di servizi interna all’organizzazione. Ciclicamente nascono e altrettanto ciclicamente defungono, a seconda della congiuntura economica. Nei periodi in cui le organizzazioni si trovano a ridimensionare le rispettive strutture interne di comunicazione, l’house agency evita il brusco licenziamento e dà tempo alle persone di verificare se sono in grado di farcela da sole. Normalmente vengono fatte in accordo con agenzie esterne che poi assorbono il personale. House organ strumento fra i più classici e più diffusi delle relazioni pubbliche. È il giornale interno dell’organizzazione (→ internal relations), talvolta diffuso anche ad alcuni pubblici esterni. Hype, to gonfiare, esagerare, sopravvalutare...attribuito sovente come caratteristica delle relazioni pubbliche, come anche l’altro termine → spin. (→ sexing up) Impact è l’impatto di un evento (→ event), di una notizia, di una circostanza, di una campagna rispetto all’obiettivo perseguito. I parametri di valutazione e/o misurazione possono essere quantitativi o qualitativi (→ evaluation; measurement; output; outtake; outcome; outgrowth). Influence è, da sempre, uno degli obiettivi strutturali delle relazioni pubbliche. Per la verità, fino alla metà degli anni Ottanta, questo obiettivo veniva interpretato dai relatori pubblici in senso “push” (l’organizzazione si propone di influenzare i pubblici tramite le relazioni pubbliche). Oggi è interpretato in senso maggiormente bilaterale: anche i pubblici influenzano l’organizzazione e, attraverso il reciproco ascolto e una relazione tendenzialmente simmetrica (→ symmetric), si affrontano le → issue a beneficio di entrambi. Influential, influencer è un soggetto, non necessariamente consapevole e neppure particolarmente interessato alla relazione con l’organizzazione, che questa ritiene influente sul raggiungimento dei propri obiettivi, sia perché capace di orientarne le variabili (→ issue), sia perché capace di orientare le opinioni (→ opinion leader) dei destinatari finali (→ end recipient). È diverso dallo → stakeholder (anche se spesso lo è anche) che invece è soggetto consapevole e interessato alla relazione con l’organizzazione. Normalmente lo stakeholder (che è a sua volta quasi sempre influente) viene ascoltato, con l’impiego di metodi pull e tendenzialmente simmetrici (→ symmetric), prima della definizione degli obiettivi. L’influente invece viene ascoltato dopo la definizione degli obiettivi con metodi push-pull, retorici e meno simmetrici. Da una accurata selezione di stakeholder e influenti dipende in larga parte la capacità del relatore pubblico di ridurre l’inquinamento comunicativo (→ info-communicative overload) e le risorse economiche da investire nella comunicazione. Info-communicative overload è il sovraccarico che deriva dal crescente e incontrastato flusso di informazione-comunicazione che viene rilevato nell’ambiente esterno. Alcuni ricercatori dell’Università di Berkeley registrano ogni anno la quantità di byte info-relazionali che vengono immessi nell’ambiente (How Much Info?): nel 2003 ciascun essere vivente ha ricevuto/ritrasmesso 800 milioni di byte (sic), con un incremento costante annuo (dal 2001) del 30%. Fonti importanti anche pratiche di relazioni pubbliche sovente poco professionali mascherate dall’alibi di “insopprimibili” esigenze dei nostri clienti/datori di lavoro (per esempio, il virus da visibilità che li affligge, da quando però noi per primi li stimoliamo ad apparire, scatenandone – da veri e propri pusher – le loro crisi da astinenza). Per contrastare questo fenomeno si impone a tutte le organizzazioni, a tutti i relatori pubblici – e alla loro comunità professionale – di assumere piena consapevolezza di questo tipo di inquinamento, della sua scarsa efficacia e dei suoi danni certi e, conseguentemente, adottare pratiche comunicative maggiormente sostenibili e rendicontabili (→ communication social responsibility). Infomercial è una categoria mista di comunicazione a cavallo fra una notizia e una pubblicità pagata. In italiano, sono i cosiddetti publiredazionali. Insider (da insider trading) pratica vietata in molti mercati finanziari di utilizzare informazioni sensibili (price sensitive) riferite a una società quotata in borsa per speculare sul titolo. I relatori pubblici, alla pari delle altre funzioni dirigenziali delle imprese quotate e dei loro consulenti più vicini, sono spesso in condizioni di farlo. Internal relations i sistemi di relazione interni all’organizzazione, che hanno oggi in molti casi un peso superiore a quelli esterni. Tradizionalmente e fino alla metà degli anni Settanta la cosiddetta “comunicazione interna” era dominio incontrastato delle direzioni del personale. L’esperienza di alcune imprese italiane (IRI, Italsider, Olivetti, Pirelli) e fino ai primi anni Settanta, è celebrata come una delle più innovative e interessanti del mondo intero. Nel contesto sfavorevole di una cultura imprenditoriale fortemente paternalistica e autoritaria, queste aziende hanno saputo acquisire quell’autorevolezza e quel consenso (che oggi tutti dichiarano e si sforzano di perseguire), anticipando con modalità proprie e diverse l’una dall’altra, quella che poi sarà la “mitbestimmung” tedesca o, fra gli economisti, la stakeholder society. Negli anni Settanta, esasperati dalla situazione sociale, gli imprenditori (Confindustria e Fiat in prima linea) hanno colpevolmente lasciato la comunicazione interna, e per contratto (quello dei metalmeccanici del 1976 sulla informazione dovuta), nelle mani del sindacato riducendo la funzione del direttore del personale a quella di controllore. Si è dovuto attendere fino alla marcia torinese dei 40.000 dei primi anni Ottanta, per assistere al rilancio della comunicazione interna con il risultato di riposizionare la funzione in direzione delle risorse umane, per poi passare in molti casi nel decennio successivo alla direzione comunicazione. È una vecchia questione: da chi deve dipendere la comunicazione interna? Non esiste un soluzione certa e buona per tutte. Se è la direzione risorse umane ad applicare all’interno dell’organizzazione le politiche aziendali, le spetta governare i processi di comunicazione servendosi delle competenze comunicative della direzione competente alla quale, a sua volta, spetta garantire la coerenza e il governo dei processi relazionali e comunicativi con tutti gli → stakeholder, dipendenti inclusi. International relations è aperta e vivace il dibattito se le relazioni internazionali siano parte delle relazioni pubbliche. In una interpretazione estensiva, anche i corpi diplomatici degli Stati sono in realtà una espressione professionale delle relazioni pubbliche (public diplomacy). Dal punto di vista delle organizzazioni, non v’è dubbio che la globalizzazione (→ globalisation) abbia esaltato e reso pervasivo la questione delle relazioni internazionali. Un recente e ottimo volume (Vercic e Shiramesh, Global PR Handbook, 2003) parte dal presupposto che nel mondo di oggi sia impossibile esercitare la professione delle relazioni pubbliche in una ottica locale. I modelli di relazioni pubbliche internazionali sono molteplici e in continua evoluzione e tengono conto delle diversità di cultura organizzativa e di cultura dei diversi Paesi. (→ diversity; glocal; global principles) Investor relations → shareholder relations. Invisibile/intangibile assets da diversi anni economisti di impresa, analisti e sociologi sviluppano metodi e parametri per quantificare e misurare le attività soft delle organizzazioni quali la reputazione, l’immagine, l’identità e i sistemi di relazione. Man mano che crescono gli investimenti soft delle organizzazioni si moltiplicano gli sforzi per valutarne l’efficacia. Issue management questione, variabile, fattore, problema. È la materia grezza di cui si occupano le relazioni pubbliche. Si crea una issue, si risponde a una issue, ci si confronta con una issue, ci si sforza di orientare, governare, gestire una issue. Alla fine degli anni Settanta in alcune multinazionali come Ibm e Philip Morris, e poi negli anni Ottanta con modalità pervasive da società di consulenza beniamine della comunità manageriale internazionale come Intermatrix o Burson Marsteller, si diffuse l’issue management inteso come orientamento dell’organizzazione al governo delle issue. Un po’ come oggi inizia a succedere con lo → stakeholder relationship management. Nel → Gorel l’issue management è integrato nella fase di analisi delle variabili (interne/esterne) che influenzano il raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione, mentre lo stakeholder relationship management è compreso nella fase (precedente) di ascolto delle aspettative degli stakeholder prima della definizione degli obiettivi e si sviluppa tramite l’integrazione verticale dei diversi sistemi di relazione con i vari segmenti di pubblici influenti. Junk mail è la posta spazzatura, quella che noi relatori pubblici diffondiamo a piene mani quando non stiamo attenti alla individuazione preventiva degli interlocutori rilevanti. Junket, o junk trip in relazioni pubbliche, viaggio di gruppo che si offre a giornalisti o altri segmenti di → opinion leader in luoghi esotici o comunque attraenti per presentare un prodotto, un servizio o un’idea che potrebbero benissimo essere presentati in luoghi meno ameni e costosi. L’obiettivo del junket è di “catturare” quei giornalisti o opinion leader per qualche giorno e fargli un bel lavaggio del cervello passando insieme a loro ore serene e allegre – alimentate normalmente da consumi e divertimenti insoliti e di lusso – per sviluppare o rafforzare relazioni personali. Il termine junk (che sta per “spazzatura”, “robaccia”, “schifezza”, “ferrovecchio”) è però spregiativo e viene usato da quei giornalisti, sempre più numerosi, che rifiutano di partecipare a queste “scampagnate”. Just-in-time (JIT) con riferimento al noto sistema produttivo introdotto dai giapponesi alla fine degli anni Ottanta (oggi assai applicato anche in Europa e nelle Americhe), in relazioni pubbliche il termine è usato in termini ironici e paradossali per definire la classica reazione pavloviana con cui molti relatori pubblici, qualsiasi sia la natura della questione affrontata, reagiscono sempre allo stesso modo: facciamo una conferenza stampa (→ news conference) oppure facciamo un evento (→ event), o infine, facciamo una conferenza stampa che si trasformi anche in un evento. Key performance indicator (KPI) nella più ampia tematica della valutazione e della misurazione delle relazioni pubbliche (→ evaluation, measurement), per KPI si intendono gli indicatori prescelti prima dell’avvio di un progetto che saranno poi adottati per misurarne l’efficacia o l’efficienza. Keynote è l’intervento chiave, centrale di un convegno o un congresso. Il keynoter è una personalità specializzatasi nel fare interventi keynote. Il ghost keynoter è chi si scrive i discorsi dei keynoter (→ ghost writer). Labour intensive espressione impiegata per definire la qualità delle relazioni pubbliche, che a differenza della pubblicità sono una attività ad alta intensità di lavoro e a (relativamente) bassa intensità di capitale (→ capital intensive). L’implicazione è rilevante quando ci si accinge a valutare l’indotto economico delle due attività. Mentre infatti ha senso misurare l’indotto della pubblicità sommando gli investimenti delle organizzazioni sui diversi media (vedi il SIC – sistema integrato della comunicazione – introdotto dal Parlamento con la recente legge Gasparri, oppure l’annuale ricerca UPA/Intermatrix sugli investimenti in pubblicità), non ha invece senso alcuno utilizzare quegli stessi indicatori per le relazioni pubbliche le quali, come è noto, non acquistano spazi o tempi sui diversi media. Così, per valutare le relazioni pubbliche ha molto più senso censire il numero degli operatori, attribuire loro un costo lordo medio per l’organizzazione nella quale o per la quale lavorano, moltiplicare per tre questa somma in virtù di una sia pur modesta ma indispensabile produttività e si ottiene l’indotto complessivo. Così in Italia, nel 2001 erano 70.000 (di cui 40.000 nelle amministrazioni pubbliche), i relatori pubblici con un costo lordo annuo medio di 50.000 euro. Moltiplicando questa cifra per tre nel presupposto che la produttività di un quadro stia nella sua capacità minima di produrre costi esterni almeno tripli rispetto al proprio, si arriva a superare i 10 miliardi di euro l’anno. Labor relations relazioni con il sindacato dei lavoratori. Normalmente sono delegate alla direzione risorse umane (o personale), ma in situazioni di emergenza o in casi di negoziati particolarmente rilevanti si rende necessario anche l’intervento del relatore pubblico, quasi sempre per questioni attinenti i rapporti con la stampa, ma talvolta anche per i rapporti diretti con il sindacato oppure con altri soggetti istituzionali ritenuti rilevanti per il raggiungimento dell’obiettivo perseguito. Lateral thinking è il cosiddetto pensiero laterale, la capacità di affrontare creativamente più questioni diverse fra loro in contemporanea e anche di trovare collegamenti fra loro. Essenziale per chi fa relazioni pubbliche, soprattutto (ma non solo) se lavora in consulenza. (→ brainstorming) Leaflet è il classico depliant (peraltro termine di origine francese), una rappresentazione stampata, non minima come un volantino né massima come una brochure (altro termine francese), in cui viene presentato un prodotto, un servizio, una idea o un’organizzazione. Il leaflet va in distribuzione ai pubblici influenti oppure anche ai destinatari finali (→ end recipient). Leak letteralmente, una “perdita” di acqua o di benzina o altro liquido da un contenitore apposito; figurativamente, e in relazioni pubbliche, la fuoriuscita di notizie, di informazioni o di dati riservati malgrado le intenzioni (talvolta soltanto a quelle ufficiali) dell’organizzazione. Il compito viene solitamente affidato al relatore pubblico al quale si chiede di “spifferare” l’informazione riservata assicurandosi che non venga rivelata la fonte. È una prassi assai diffusa ma esplicitamente condannata da tutti i codici etici della professione, poiché il relatore pubblico è sempre obbligato a citare la fonte delle informazioni che trasferisce. Learning curve la “curva di apprendimento”; in relazioni pubbliche più che una curva, di questi tempi, è una linea sempre in salita poiché la professione cambia con la velocità della luce e quei professionisti che non dedicano una parte consistente del loro tempo all’aggiornamento permanente, vengono inevitabilmente tagliati fuori dal mercato. Legal public relations da molti anni in Usa e da una decina di anni in Italia è quella specializzazione del relatore pubblico che svolge la sua attività per conto degli studi legali o di loro clienti. Legitimacy legittimazione sociale di un’organizzazione (→ license to operate). La legittimità sociale di qualsiasi tipo di organizzazione (privata, pubblica, sociale) dipende dalla capacità di soddisfare le aspettative dei suoi pubblici influenti dando luogo a processi inclusivi nella fase di definizione degli obiettivi. Sul concetto di legittimazione ha scritto parecchie cose interessanti la studiosa Susanne Holstrom nell’ambito della sua teorizzazione del modello riflettivo (→ reflective role) delle relazioni pubbliche. Liability obbligo di responsabilità. Si usa anche per indicare il livello di rischio rispetto a una determinata questione. Liaise dal francese liaison, legame, relazione, rapporto. Da cui anche il verbo to liaise, legare o relazionarsi con qualcuno o qualcosa. Libel diffamazione, connota e normalmente si riferisce ad una causa per diffamazione. License to operate letteralemente “licenza di operare”, definisce il desiderio di una qualsiasi organizzazione di godere di una legittimità sociale (→ legitimacy). In effetti è una licenza che non viene concessa da una normativa o da una camera di commercio, ma dai pubblici influenti consapevoli (→ stakeholder), sui quali le attività di quella organizzazione produce conseguenze. È una vera e propria legittimazione sociale dell’organizzazione, molto importante soprattutto quando scoppia una crisi e i pubblici influenti, se la licenza a operare è stata “concessa”, fanno quadrato e sostengono l’organizzazione o comunque tendono a essere indulgenti. Line extension un nuovo prodotto o servizio che estende una linea esistente di prodotti o servizi. List broker un fornitore di servizio che propone al relatore pubblico liste di nominativi di persone con le quali avviare relazioni rilevanti. Litigation public relations da molti anni in USA, e da una decina di anni in Italia, è quella attività specialistica di un relatore pubblico che, in stretta collaborazione con i legali e talvolta anche coordinandone le attività, assiste il datore di lavoro/cliente nel tutelarne la reputazione presso il cosiddetto tribunale dell’opinione pubblica. (→ legal public relations) Lobby (lobbying) è l’attività pubblica e trasparente (→ transparency) di chi opera per influire sugli esiti di un “processo decisionale pubblico” (PDP; in inglese PPP, public policy process). Il termine deriva da corridoio o anticamera, ove staziona chi non ha diritto a entrare nei luoghi della decisione pubblica e per rappresentare le proprie argomentazioni ferma i decisori che vi si recano. In alcun Paesi l’attività dei lobbisti è regolata fin dal secondo dopoguerra (negli Stati Uniti, per esempio, dal 1946 con il Lobbying Act): sostanzialmente il professionista ha obbligo di registrarsi in un elenco accessibile al pubblico in cui indica gli interessi che rappresenta e di consegnare periodicamente alla istituzione presso la quale è registrato una relazione in cui illustra l’attività svolta e le spese sostenute. In Italia, la regione Toscana ha regolato le attività dei gruppi di interesse e la regione Calabria discute una analoga proposta legislativa. In Inghilterra l’obbligo di trasparenza spetta non ai lobbisti ma ai “lobati”. È il parlamentare della Camera dei Comuni, il lord della Camera alta o il consigliere comunale che ha l’obbligo di registrare una dichiarazione a una apposita commissione ogni volta che viene coinvolto da un lobbista in una iniziativa tesa a influenzare il processo decisionale pubblico. Da non confondere con le attività più generali di → public affairs di un’organizzazione di cui la lobby è soltanto parte. Location è il luogo, accuratamente selezionato dal relatore pubblico, ove si svolge un evento (→ event). (→ venue) Low key/profile si dice di campagna o un’iniziativa di basso profilo, di tono moderato; quando l’obiettivo perseguito non è tanto la visibilità, quanto l’efficacia (→ effective) della relazione. Mailing list, o anche solo mailing, termine usato anche in italiano per indicare un elenco di persone da invitare a un evento (→ event) o di giornalisti cui inviare una informazione. Impropriamente viene considerato come uno dei maggiori valori patrimoniali di un professionista delle relazioni pubbliche. Impropriamente poiché oggi la mailing list è una vera e propria commodity (un bene di uso comune privo di valore rilevante). Il valore patrimoniale sta semmai nei sistemi di relazione che il professionista è in grado di trasferire alla causa del suo cliente/datore di lavoro. Management gruppo dirigente di un’organizzazione. Top management è il vertice. Dominant coalition è il termine usato dalla scuola sistemica (→ systemic school) per indicare il gruppo di potere reale di un’organizzazione che non coincide necessariamente, in una determinata situazione o in uno specifico momento, con il vertice formale. Managerial role è il relatore pubblico che sviluppa i programmi già definiti, gestisce le risorse tecnico operative e mantiene le relazioni con i pubblici influenti al fine di guadagnarne la comprensione reciproca. È il ruolo dalle competenze gestionali che, oltre a possedere quelle tecniche accennate in precedenza, prevede una buona capacità di coordinamento delle risorse a disposizione. (→ Bled manifesto) Marketing disciplina manageriale, tipica delle organizzazioni che operano sul mercato, con la quale si pianificano e si sviluppano le attività di sviluppo, di promozione, di distribuzione e di commercializzazione di un prodotto o servizio. Tradizionalmente adottata dalle imprese e in particolare quelle di largo consumo, oggi si va diffondendo anche nelle imprese industriali e nelle organizzazioni pubbliche e sociali. Marketing communication è una delle componenti (leva) fondamentali del marketing. Non si può sviluppare, progettare, distribuire e vendere un prodotto o servizio se il cliente potenziale non sa che esiste. La competizione per l’occupazione degli spazi sui → media e per attirare e mantenere l’attenzione del cliente potenziale è la finalità del marketing communication. Attenzione: nella lingua inglese “communication” senza la “s”, anche al plurale, indica la comunicazione come la intendiamo noi, mentre con la “s”, anche al singolare, indica la comunicazione come la intendono gli operatori delle telecomunicazioni. Marketing public relations è la specializzazione delle relazioni pubbliche che operano a supporto del marketing. Fin dagli anni Sessanta nel mondo anglosassone, il marketing PR rappresenta la parte preponderante della professione in termini sia di investimenti che di persone impegnate. In Italia questo è forse vero oggi, ma non lo è stato per tanti anni. Infatti le attività di marketing public relations (con la sola eccezione della product publicity – intesa come informazione di prodotto – che viene da sempre attribuita alle relazioni pubbliche) sono da noi in larga parte realizzate dalle società di promozione e questo è dovuto al fatto che quando la comunicazione di marketing ha cominciato a diffondersi in Italia (nei primi anni Ottanta) i relatori pubblici erano troppo impegnati in attività di → public affairs per interessarsi di marketing. Marketing territoriale molto di moda in questi anni in Italia, con una accentuazione parallela al crollo degli investimenti sul territorio. Mentre in altri Paesi come l’Irlanda, il Galles, la Francia, la Spagna e il Portogallo, per non parlare degli Stati Uniti, si sono avviate intense e consapevoli attività di marketing territoriale fin dalla fine degli Settanta, prevedendo in anticipo la feroce competizione che si sarebbe scatenata nei Paesi occidentali per mantenere nel proprio territorio gli investimenti delle imprese, nel nostro Paese queste attività si sono avviate con modalità sistematiche soltanto a partire dal 2000. Si tratta prevalentemente di progetti integrati di sviluppo e comunicazione per attirare su un determinato territorio gli investimenti di imprese. Gli argomenti di attrazione si sono progressivamente spostati dalla messa in opera di infrastrutture pesanti e di incentivi economici allettanti alla predisposizione di condizioni di vita competitive. Il riferimento è soprattutto alle tre “T” del consulente americano Richard Florida: tecnologie (della comunicazione), talenti (università e sistema educativo complessivo), tolleranza (esaltazione della diversità come elemento di attrazione). Le relazioni pubbliche sono molto impegnate in queste attività anche e soprattutto perché solitamente gli investimenti in marketing territoriale vengono erogati da soggetti misti pubblico/privato (comuni, camere di commercio, associazioni industriali) sovente messi insieme e coordinati da relatori pubblici. Mass in comunicazione, nel senso di “comunicazione di massa”, è un concetto molto cambiato in questi anni. C’è perfino chi dubita che possa ancora venire utilmente adoperato. I mutamenti – rispetto a trenta-quaranta anni fa nel mondo anglosassone, e a venti-trenta anni fa in Italia – sono soprattutto indotti dalla crescente segmentazione e “clusterizzazione” (→ cluster) degli stili di vita del pubblico e dei suoi diversi → media (incluse perfino le televisioni generaliste, grazie a un sapiente utilizzo delle fasce orarie), fino ad arrivare, con Internet, a un medium individuale, contrapponibile a quelli di massa (anche se alcuni sostengono che anche Internet sia un mass medium). In relazioni pubbliche, ora che le tecnologie e lo sviluppo delle conoscenze consentono una sempre più precisa identificazione dei singoli interlocutori importanti per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti da un’organizzazione, è in atto la tendenza a passare dal tradizionale concetto di target o di massa, connaturati a una comunicazione tipicamente “a”, unidirezionale e erga omnes, al concetto di influenti (→ influential; influencer), → stakeholder o leader di opinioni (→ opinion leader), più consoni a una comunicazione “verso”, maggiormente bidirezionale e tendenzialmente simmetrica (→ symmetric), fino ad arrivare al concetto di persona, tipico invece di una comunicazione “con”, del tutto bidirezionale e simmetrica, a testimonianza del rilievo che la diversità (→ diversity), basata sul principio che ogni persona è diversa da un’altra, ha per una concezione contemporanea e piena del valore delle relazioni pubbliche per un’organizzazione. Measurement da qualche tempo è l’“araba fenice” delle relazioni pubbliche: tutti ne parlano ma nessuno sa dov’è (o cos’è). Storicamente restii per motivazioni etiche (all’inizio le relazioni pubbliche erano solo → media relations e → lobby), quindi se posso impegnarmi a fare uscire un articolo oppure a fare approvare un emendamento, eventi non controllabili, vuol dire che mi sono impegnato a pagare per avere l’uno e/o l’altro), poi per pigrizia e per prendere le distanze dai cugini pubblicitari. Oggi – con il continuo aumento degli investimenti in relazioni pubbliche – i professionisti subiscono pressioni crescenti perché l’efficacia (→ effective) delle loro attività siano misurate alla stregua di qualsiasi altra attività manageriale. I presupposti della questione sono: • non si può gestire quel che non si sa misurare e non si può misurare quel che non si sa definire – così nel 1994 Norton e Kaplan nel loro Balanced Scorecard (Harvard Business Press). Se allora le relazioni pubbliche sono parte del management di un’organizzazione va da sé che devono essere misurabili; • ogni forma di misurazione è possibile soltanto se i criteri sono definiti in partenza (→ key performance indicator). L’implicazione è che l’organizzazione deve, prima di avviare una azione di relazioni pubbliche, definire con chiarezza gli obiettivi perseguiti e i criteri che adotterà per misurarne il raggiungimento. In assenza di questo, non sarà possibile misurare alcunché; • la misurazione è una cosa e la valutazione è un’altra (→ evaluation). Misurare vuol dire attribuire dei valori quantitativi alle relazioni pubbliche: parliamo di → output) e, in parte, di → outtake) (per esempio gli spazi effettivamente conquistati da un comunicato o da una conferenza stampa, oppure – se si tratta di un evento – il numero di partecipanti a un evento, a prescindere se quella notizia o quell’evento potranno effettivamente modificare le opinioni, i comportamenti o le decisioni dei lettori o dei partecipanti). Si tratta di un processo di natura oggettiva, in quanto non implica interpretazioni personali o inferenze di nessun tipo. Valutare implica invece attribuire valori qualitativi, introducendo interpretazioni maggiormente soggettive: parliamo dunque di → outcome e di → outgrowth (valutare cioè se quella determinata iniziativa ha contribuito a modificare le opinioni, i comportamenti o le decisioni dei lettori o dei partecipanti e se, e quanto, ha contribuito a rafforzare la relazione con loro). Media medium, al singolare, è un canale (fisico come un giornale, etereo come una frequenza televisiva, virtuale come uno scambio di bit) che unisce l’emittente al ricevente e, nei casi di interattività, anche viceversa. È importante sottolineare che il termine deriva dal latino e quindi va pronunciato “media” e non “midia” – un errore che facciamo in tanti e che segnala una eccessiva e inconsapevole dipendenza dalla lingua inglese (da qui l’idea di questo dizionario). Media access si intende il livello di accesso (basso, medio, alto; oppure cattivo, mediocre, ottimo) che un individuo, un’organizzazione o una popolazione hanno al sistema dei media (inteso come insieme dei media in un determinato Paese). (→ media) Media blitz una elevata concentrazione di uso dei → media da parte di un’organizzazione o di un individuo per trasferire un messaggio in un breve periodo. Media conference → news conference. Media coverage la “copertura” che il sistema dei → media concede a una notizia, una questione, un’iniziativa. Media list ha lo stesso significato di → mailing list, solo che si riferisce esclusivamente ai media (→ media; media relations) e ai loro giornalisti. Media relations la funzione delle relazioni con i → media. In Italia si usa più frequentemente, ma impropriamente, relazioni con la stampa o addirittura ufficio stampa. Quest’ultimo è errato poiché dire ufficio stampa implica una quasi passività/neutralità della funzione, quando invece il suo compito prevalente è di creare, sviluppare e consolidare relazioni con i giornalisti per conto di un ben specifico interesse; mentre relazioni con la stampa (letteralmente) è in effetti esclusivo di radio, televisione e internet. Merchandising l’insieme di iniziative, strumenti e canali → below the line utilizzati da un’organizzazione per supportare la vendita di un determinato prodotto/servizio. Message significa il senso generale e il contenuto specifico di una parte del processo comunicativo. Il senso generale si determina quando, per esempio nelle diverse sequenze del → gorel, il messaggio – pur attentamente costruito in base a quello che l’emittente vorrebbe fosse nella testa del ricevente – assume il significato di un riferimento, di un contesto comune (→ familiarity), cui attingono le varie funzioni dell’organizzazione che poi lo declinano come meglio ritengono e attraverso tutti i canali disponibili. Il contenuto specifico è quando il messaggio viene trasferito esattamente come è stato costruito (per esempio nella pubblicità, ove l’emittente, acquistando lo spazio, controlla il contenuto testuale del messaggio). Metooism (“me-tooism”) è la sindrome del “vengo anch’io”, dell’imitazione. Quando un fenomeno, una espressione, una tendenza si diffondono rapidamente per cui un gran numero di persone (o anche di organizzazioni), pur se prive di consapevolezza specifica, fanno la stessa cosa o compiono le stesse scelte. Per esempio, è successo recentemente in Italia con la responsabilità sociale delle imprese. Succede anche quando qualche leader di opinione (→ opinion leader) esprime una opinione che, solo perché espressa da lui/lei, viene di per sé condivisa indipendentemente o quasi dai contenuti. Mission sta per “missione” e in gergo organizzativo è la prima fase del cosiddetto processo di → envisioning organizzativo che comprende, oltre alla missione, anche la visione (→ vision), i valori guida (→ guiding principles) e, in qualche occasione, la strategia (→ strategy). La missione di un’organizzazione si riferisce al suo presente: cosa è, cosa fa. (→ Gorel) Monitoring osservazione consapevole e costante di una variabile (→ issue) le cui dinamiche accelerano o ritardano il raggiungimento di un obiettivo perseguito. Oppure, osservazione continua di attività legislative su questioni di interesse (→ lobby, public affairs) o dei comportamenti editoriali e redazionali dei media (→ media, media relations). Muckracker muck sta per immondizia, sterco, e racker per raccoglitore: quindi “raccoglitore di immondizie”, in senso figurato “mestatore”. Così furono definiti quei giornalisti progressisti a cavallo fra il XIX e il XX secolo che provocarono la nascita dei professionisti delle relazioni pubbliche (→ Grunig). I grandi capitalisti e banchieri americani di quel tempo si trovarono inaspettatamente sotto il tiro di continue inchieste giornalistiche definite muckracker che denunciavano le nefandezze nella conduzione dei loro affari (da qui si forma lo stereotipo del giornalismo investigativo anglosassone). Preoccupati che gli attacchi creassero difficoltà alle ulteriori concessioni federali di fondi per completare le grandi infrastrutture che stavano costruendo (telecomunicazioni, ferrovie, strade, elettricità) i capitalisti e banchieri assoldarono giornalisti perché passassero dall’altra parte per difenderli. Nascono nel 1900 a Boston la Publicity Bureau, prima agenzia di relazioni pubbliche e nel 1904 a Washington, la William Wolff, prima agenzia di → lobby creata da un ex avvocato. Multinational termine che indica un’impresa che opera in più Paesi. In effetti vi sono diversi modi per definirla: international (sede centrale e decisionale nel Paese di origine con terminali all’estero prevalentemente distributivi e commerciali); transnational (sede centrale e decisionale nel Paese di origine con attività anche produttive in un numero limitato di Paesi normalmente confinanti o vicini); multinational (sede centrale nel Paese di origine ma con processi decisionali assai decentrati e attività produttive e commerciali in molti Paesi e in diversi continenti); global (sede centrale nel Paese di origine, con processi decisionali più accentrati che nelle multinazionali, con sedi produttive quasi sempre delocalizzate in Paesi a minore costo di mano d’opera e politiche commerciali interamente focalizzate sull’affermazione di marche globali). Negotiative per alcuni l’approccio negoziale alle relazioni pubbliche è alternativo a quello persuasivo e sostanzialmente si ispira al quarto modello di → Grunig. Per altri invece non è un approccio alternativo ma complementare e si applica soprattutto alle relazioni con gli → stakeholder, intesi come soggetti consapevoli e interessati a una relazione con l’organizzazione che ne ascolta le aspettative prima di decidere gli obiettivi specifici da perseguire. Secondo questa interpretazione (→ stakeholder relationship management) l’approccio persuasivo alla Bernays (→ Grunig) si applica invece agli altri pubblici influenti (stakeholder potenziali, influenti sulle variabili e/o sui destinatari (→ influential; influencer; opinion leader), oppure agli stessi destinatari (→ end recipient) che non hanno necessariamente né consapevolezza né interesse alla relazione con l’organizzazione, ma ai quali quest’ultima attribuisce il potere di ritardare o accelerare il raggiungimento dei suoi specifici obiettivi. Nell’approccio negoziale la relazione è pull, diretta, interattiva, tendenzialmente simmetrica (→ symmetric) e → labour intensive ma non → capital intensive. Nell’approccio persuasivo la relazione è invece pull-push, meno interattiva, meno simmetrica e maggiormente capital intensive. Network analysis è lo studio dei reticoli sociali inteso come analisi sistematica delle reti di relazioni informali e delle conseguenti mappe di flussi comunicativi. La metodologia della network analysis ereditando e ampliando le intuizioni della sociometria di Jakob Moreno e Kurt Lewin e della scuola di Harvard di Elton Mayo, costituisce oggi un approccio pienamente maturo nel panorama delle scienze sociali, grazie alla sua capacità di operare una sintesi tra aspetti qualitativi e quantitativi, individuali e strutturali delle relazioni che si stabiliscono tra individui e gruppi di individui. È una tecnica di indagine basata su un questionario strutturato rivolto a un campione rappresentativo di un pubblico influente per rilevare nodi, flussi, contenuti e frequenza della rete relazionale, per scovarne interruzioni e disfunzioni insieme alle cause che le originano.Gli intervistati segnalano le intensità relazionali con i diversi interlocutori su una lista di item. Con l’impiego di tecniche statistiche computerizzate viene ricostruita la rete dei flussi relazionali e i ruoli di ciascuno, evidenziando con appositi grafici punti di forza e debolezza. I risultati vengono utilizzati per progettare interventi migliorativi. Networking la traduzione italiana più vicina a networking è “fare rete”, “fare sistema”. Un’organizzazione fa sistema quando si relaziona con altre organizzazioni con modalità coompetitive (→ co-ompetion), sinergiche e complementari al fine di perseguire in comune specifici obiettivi condivisi. News agency → wire service. News conference, o press conference, media conference, “conferenza stampa”. Fino agli anni Ottanta nella vita di un’organizzazione era un evento raro che vedeva i suoi vertici incontrare i giornalisti (→ media relations) per esporsi alle loro domande, e si giustificava soltanto in presenza di avvenimenti e notizie ritenute così rilevanti per l’opinione pubblica (→ public opinion) da richiedere un annuncio pubblico simultaneo con i vertici disponibili a rispondere alle domande in diretta e di persona. La preparazione richiedeva giorni e giorni. Oggi le conferenze stampa sono routine, al punto che una notizia non è una notizia se non comunicata in conferenze stampa del tutto inutili alle quali peraltro partecipano prevalentemente giornalisti → free lance e di service in rappresentanza di testate con perenni problemi di organico. Le domande non ci sono quasi più: si arriva, si prende la cartella stampa e si scappa alla prossima. News release, o press release, comunicato stampa redatto da un’organizzazione e distribuito simultaneamente per la pubblicazione ai giornalisti interessati. Normalmente non supera le venti righe di testo (1.500 battute) anche se può essere corredato da appendici, note aggiuntive, immagini grafiche e fotografiche. Titolo e sommario sono in genere orientati ad attirare l’attenzione del singolo giornalista, e quindi possono variare, ma il corpo del testo è ufficiale e uguale per tutti i destinatari e risponde alle cinque “W” (→ Five P’s and W’s) : who (chi), when (quando), what (cosa), where (dove), why (perché) e, dove possibile, con l’aggiunta della “H” (how). Ogni comunicato (compresi i fogli aggiuntivi, le tabelle,le didascalie dei grafici e delle foto) deve contenere data di rilascio, indicazione inequivocabile della fonte e nome, indirizzo, telefono, e-mail di chi è in grado di fornire informazioni più approfondite. (→ media relations) Newsletter non esiste espressione italiana se non, impropriamente, quella di “agenzia” o, meglio, di “notiziario”. È uno strumento normalmente periodico di comunicazione (quotidiano, settimanale, mensile) con veste grafica dimessa, da consumo veloce, indirizzato a un pubblico di esperti, appassionati o addetti ai lavori di una qualsiasi tematica. Qualche volta è a pagamento, sovente gratuita e esplicitamente redatta a cura di qualche organizzazione. Può essere anche una e-letter, cioè veicolata via Internet, list server a/o posta elettronica. Newsworthy (-iness) un’informazione è newsworthy (con infelice neologismo, “notiziabile”) quando si ritiene possa interessare ai media (→ media relations). Niche dal francese, “nicchia”, ed è usato così anche in inglese. Nimby acrostico di “not in my back yard” (non vicino a casa mia, non nel mio giardino); espressione che indica la più classica delle reazioni di un gruppo di persone o di organizzazioni quando, pur riconoscendo necessario un intervento pubblico che modifica consolidati ma non più sostenibili comportamenti, difendono il diritto di non accettare quell’intervento nel loro territorio. Banalizzando il concetto potrebbe essere considerato una forma di “ecologismo da pianerottolo”. Numbers in PR, è un tema controverso, per quanto sia attiene al numero di relatori pubblici effettivamente operativi sul mercato, sia al valore economico delle relazioni pubbliche e della professione (→ capital intensive; labour intensive). Rispetto al numero degli operatori, una interpretazione estensiva (relazioni pubbliche come attività delle organizzazioni per sviluppare consapevolmente sistemi di relazione con i loro pubblici influenti) porta a valutarli in 3 milioni nel mondo, 400.000 nella vecchia Europa e 70.000 in Italia (dati 2003). Un’interpretazione ristretta (relazioni pubbliche come apporto strategico e non operativo alle organizzazioni per il governo delle relazioni con i pubblici influenti) riduce verosimilmente questi numeri a 1 milione nel mondo, 150.000 nella vecchia Europa e 30.000 in Italia. Rispetto al valore economico delle relazioni pubbliche la questione è di forte attualità da quando le organizzazioni, investendo somme crescenti, chiedono agli operatori una maggiore attenzione alla rendicontazione (→ accountability) e alla valutazione/misurazione (→ evaluation, measurement) dell’efficacia delle loro attività. Rispetto infine al valore economico della professione, la controversia riguarda se la professione sia da valutare come capital o labour intensive. Nel primo caso, per esempio in Italia, nel 2003 l’indotto è valutabile in 3,5-4 miliardi di euro. Nel secondo caso in 10,5-12 miliardi di euro. Se capital intensive, si chiede a un campione di organizzazioni quanto investono in relazioni pubbliche senza contare i costi lordi delle persone ma soltanto gli investimenti esterni, e si applica il risultato all’universo delle organizzazioni. Se labour intensive, si censisce il numero presunto degli operatori, si calcola un costo medio lordo annuo del singolo operatore per l’organizzazione, si moltiplica quel costo per tre come indicatore minimo di produttività e si tirano le somme. Op-ed (opinion editorial) con questo termine si intende un testo scritto da un non giornalista, solitamente il rappresentante di un interesse, una azienda o un gruppo di pressione, che il giornale pubblica (nella pagina degli editoriali e/o dei commenti) perché il suo direttore ritiene sufficientemente interessante. Non è un publi-redazionale (→ infomercial) né comporta da parte dell’autore o dell’interesse che lo sostiene una qualsiasi contropartita monetaria (→ advertorial). In relazioni pubbliche, è uno strumento applicato soprattutto quando si sviluppa una campagna di tematizzazione (→ advocacy). Talvolta gli autori non sono neppure direttamente rappresentanti dell’azienda o del gruppo di interesse che lancia il tema, ma persone note e stimate per altre ragioni che esprimono una loro opinione sul tema (→ opinion leader), non troppo discordante da quella sostenuta dall’azienda o dal gruppo di interesse che gli chiede l’articolo e che poi si preoccupa di trovare il giornale disponibile a pubblicarlo. Alternativamente, prima si concorda l’uscita con il giornale purché l’articolo sia di una firma ritenuta appetibile dal direttore, poi si contattano le firme prescelte e si chiede loro se hanno interesse a fare uscire un editoriale a loro firma su una determinata testata. Naturalmente sarà necessario per il relatore pubblico far pervenire a chi accetta, un dossier di informazioni cui ispirarsi e magari anche qualche pezzo parzialmente confezionato per risparmiare fatica al testimone evitando così anche sempre possibili brutte figure nei contenuti. Operational role è il relatore pubblico che si occupa della “messa in opera” delle azioni di RP. Questo profilo è legato all’esecuzione dei programmi di comunicazione sviluppati da altri. È, in altre parole, il tecnico che si occupa dell’ascolto, della progettazione, della formulazione e del trasferimento dei messaggi, della misurazione del loro impatto. (→ Bled manifesto) Opinion editorial → op-ed. Opinion leader i leader di opinione sono soggetti cui l’organizzazione riconosce la capacità di orientare (→ influential, influencer) opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni dei destinatari finali (→ end recipient) dell’organizzazioni (normalmente i consumatori o gli utenti o gli elettori o i clienti). Con questi leader di opinione l’organizzazione si relaziona dopo avere definito gli obiettivi, selezionato le variabili prioritarie e definito i messaggi (→ message) chiave destinati ad attirare la loro attenzione per stimolarli (offrendo loro anche opportunità e canali di diffusione) a influenzare i destinatari finali nel senso favorevole all’obiettivo dell’organizzazione. Opinion poll “sondaggio di opinione”. In relazioni pubbliche lo strumento è utilizzato da decenni, anche se i non addetti ai lavori non se ne rendono conto. Molti dei sondaggi di opinione pubblicati dai → media o che rappresentano pretesti per convegni, tavole rotonde e dibattiti sono commissionati, e purtroppo non sempre con modalità trasparenti, da interessi ben precisi che intendono avvalersi dei risultati del sondaggio per influenzare (→ influential, influencer) le opinioni di altri, quasi sempre tramite i media. È ampiamente dimostrato che molti lettori e telespettatori sono facilmente influenzati dai risultati di un sondaggio di opinione (“se la maggioranza la pensa in un determinato modo allora vuol dire che deve essere così e anch’io allora la penso in quel modo”). Naturalmente pochi sanno che in un sondaggio la formulazione della domanda può determinare il risultato e che basta modificarne una parola che cambia il senso del risultato. (Per esempio, se chiedo quanti sono favorevoli alla legalizzazione delle droghe trovo una minoranza; se chiedo quanti sono favorevoli a una regolazione delle droghe trovo una maggioranza; ma la domanda è la stessa.) Relatori pubblici e, ancora di più, sondaggisti e ricercatori sono responsabili di non poche manipolazioni assai discutibili. D’altro canto è anche vero che a stimolare questo modo approssimativo di fare comunicazione sono gli stessi media i quali, con modalità solitamente acritiche e pur di occupare spazio, sono ben felici di pubblicare articoli preconfezionati con tabelle improbabili e comunque non trasparenti che si riferiscono a sondaggi di opinione sulle materie più strampalate e sugli argomenti più frivoli.In alcuni casi invece il sondaggio di opinione è davvero utile per sapere come qualche segmento di pubblico la pensa su una determinata questione, ma si tratta di una minoranza e normalmente non serve alla pubblicazione. Outcome all’interno del processo di misurazione e di valutazione (→ evaluation, measurement), è il cambiamento osservato nelle opinioni, nelle abitudini e nei comportamenti di coloro verso i quali è stato indirizzato uno sforzo consapevole e programmato di relazioni pubbliche. Outgrowth è l’ultimo livello di valutazione (→ evaluation) e rappresenta il risultato ultimo che le relazioni pubbliche si prefiggono. Esistono a tal proposito due filoni di studio che danno una significazione diversa al concetto di outgrowth: c’è chi propende per la prospettiva relazionale e quindi tende a valutare le modifiche nelle diverse dinamiche relazionali (→ relationship); e c’è invece chi enfatizza il ruolo delle relazioni pubbliche nel supportare – da qui l’importanza di una sua valutazione – la reputazione di un’organizzazione (→ reputation). Ben lungi dall’entrare in un discorso teorico, quello che preme sottolineare è l’importanza della definizione dell’oggetto della valutazione, anche per permettere alle RP di diventare attività maggiormente rendicontabile (→ accountability). Output è il risultato immediato (→ measurement) di qualsiasi attività di relazioni pubbliche. Classici criteri per la misurazione di tali output sono la copertura che i media (→ media coverage) danno alla notizia oppure all’evento (→ event), oppure il monitoraggio (→ monitoring) dei contenuti dei materiali pubblicati. In altre parole è una prima e immediata misurazione del modo in cui un’organizzazione viene rappresentata esternamente. Outtake è la misurazione (→ measurement) del grado in cui il destinatario di un messaggio lo riceve, gli presta attenzione, lo comprende, lo detiene nella sua mente, ed è in grado di richiamarlo all’occorrenza. Peer-to-peer letteralmente, “pari a pari”. Il termine deriva dal linguaggio di Internet e, in relazioni pubbliche, implica una tendenziale simmetria (→ symmetric) fra i partecipanti a una relazione. Peer pressure è una forma di pressione, talvolta inconsapevole, che un gruppo di persone esercita su un componente del gruppo affinché adotti comportamenti omogenei e coerenti con quelli del gruppo. Quando è consapevole è normalmente frutto di una azione di relazioni pubbliche. Può assumere una connotazione regressiva laddove sia tale il comportamento invocato dal dissenziente e progressiva quando succede l’inverso. Position paper è un documento redatto dal relatore pubblico che serve a chiarire la posizione di un’organizzazione con riferimento a una particolare questione (→ issue). Può essere redatto in maniera autonoma oppure può essere parte integrante di un intero “pacchetto” informativo più ampio e comprendente anche un documento riepilogativo delle dinamiche dell’intera questione (→ anche backgrounder, fact sheet). Talvolta si usa anche il termine quali position statement. Powerpoint syndrome è la cosiddetta “sindrome di Powerpoint”, e indica l’attitudine di molti (se non quasi tutti) i comunicatori a basarsi sulla presentazione dei materiali in Powerpoint, anche quando non serve, per dare efficacia ai loro → brief. Questo (ab)uso di una presentazione standardizzata è pericoloso: induce a seguire un percorso predefinito, annoia gli interlocutori e porta i partecipanti al brief a ragionare e comprendere i messaggi esclusivamente in forma schematico/classificatoria. La “sindrome di Powerpoint” è un virus poco considerato e tuttavia abbastanza ben diagnosticato non solo da brillanti autori satirici, ma anche da puntuali analisi di efficienza organizzativa e di qualità della comunicazione. C’è chi lo definisce disinfotainment, tout court. C’è chi afferma anche che il “modello Powerpoint” ha gravemente impoverito la comunicazione interna nelle imprese. E c’è addirittura chi ne ha disincentivato – per non dire proibito – l’uso interno/esterno. Un corretto processo di trasferimento dei messaggi (→ message) presuppone lavoro, attenzione, competenza, prove e verifiche, ricerca dei modi espressivi più adatti, coerenza rigorosa e attenta fra i concetti. Si osserva talvolta un relatore, prigioniero di un formato prestabilito, cadere in imbarazzo davanti alla più semplice delle domande, perché è addestrato a ripetere la presentazione realizzata da qualcun altro; o, in preda a smania espositiva/oratoria, perde di vista l’argomento originario. Lungi dall’invocare sentimenti luddisti, ciò che preme sottolineare è l’importanza di un’ottimizzazione/razionalizzazione delle presentazioni in Powerpoint a vantaggio dell’intero processo comunicativo. Press agentry è il primo dei quattro modelli di → Grunig. Press agent è quel professionista che per conto di un’organizzazione, un interesse, una persona, si propone di attirare l’interesse del giornalista (→ media relations) e lo spazio/tempo del suo medium verso il suo cliente/datore di lavoro. Il press agent, perlomeno nell’immaginario collettivo, poco si preoccupa che le informazioni pubblicate siano vere o false, positive, neutrali e negative. L’importante è occupare lo spazio per impedire che lo occupino altri. È un modello asimmetrico (→ asymmetric) che vede la fonte in posizione dominante e unidirezionale. Press conference → news conference. Press release → news release. Proactive indica la capacità di assumere l’iniziativa, di essere proattivi; è il contrario di reactive, che indica invece reattività. Propaganda in relazioni pubbliche, oggi il termine è spesso utilizzato con connotazione negativa per definire tutte quelle attività di comunicazione consapevoli, unidirezionali e push rivolte all’opinione pubblica (→ public opinion) allo scopo unico di diffondere determinate idee e/o influenzare opinioni, comportamenti ed atteggiamenti. È anche il titolo del primo e forse più bel libro di Edward Bernays, un libro del 1928 da poco ripubblicato negli Stati Uniti (Ig Publishing). Protocol public relations è la declinazione cerimoniale e protocollare delle relazioni pubbliche. Lungi dall’essere superato, il protocollo assume una sempre maggiore rilevanza non solo nelle relazioni internazionali (→ international relations), ma anche nelle normali relazioni quotidiane fra soggetti diversi. È un aspetto della professione che il relatore pubblico consapevole non può non ritenere rilevante. Public affairs è una delle attività tradizionali della professione e consiste nel governo dei sistemi di relazioni, e nella comunicazione trasparente (→ transparency), con autorità locali, governi e parlamenti, comunità internazionali, organizzazioni sociali e culturali, associazioni d’impresa e sindacali,a associazioni di categoria, gruppi di interesse ecc. L’obiettivo delle relazioni istituzionali (nella sua traduzione italiana) consiste nell’informare i legislatori o decisori su specifici problemi ed interessi e coinvolgere su questi anche l’opinione pubblica. Tra le varie attività che i public affairs prevedono, quella che occupa una posizione di maggior rilevanza – tanto da venir solitamente confusa con public affairs – è l’attività di lobbying (→ lobby). Public information è il secondo dei quattro modelli di → Grunig e si riferisce all’informazione oggettiva, quella dovuta, quella che magari non dice proprio tutto, ma quel che dice è fondato. Si tratta di una evoluzione del modello → press agentry che riconosce al giornalista il diritto di sapere. È un modello meno asimmetrico (→ asymmetric) e più bidirezionale. Public interest “interesse pubblico”. È il grande dilemma etico dei relatori pubblici. Come ci si deve comportare quando l’interesse che si rappresenta è in conflitto con un qualche interesse pubblico? Il protocollo etico della Global Alliance, ultimo in ordine di tempo e il più importante dei documenti etici delle relazioni pubbliche, è molto chiaro: si deve privilegiare l’interesse pubblico. Già, ma cosa è l’interesse pubblico? Il relatore pubblico può rappresentare un interesse pubblico che è in conflitto con un altro interesse pubblico, oppure un interesse privato o sociale che può essere coerente con un certo interesse pubblico e incoerente con un altro? La questione è tutt’altro che semplice… ma già l’affermare che di fronte a un conflitto potenziale che si palesa il relatore pubblico deve privilegiare l’interesse pubblico, per quanto affermazione carica di ambiguità, lo costringe comunque a trovare e razionalizzare altri interessi pubblici coerenti con l’interesse rappresentato: e questo non è l’ultimo dei vantaggi argomentativi, dialettici e retorici che un relatore pubblico possa desiderare. In ogni caso e alla fine, il vero interesse pubblico è quello, fra i tanti possibili, che il decisore pubblico decide di privilegiare quando assume una decisione. Ed è per questo che è così importante per un qualsiasi soggetto partecipare attivamente al processo decisionale pubblico: è l’unica garanzia che si ha che il decisore pubblico possa prendere in considerazione anche la nostra posizione. Se non la esprimiamo non possiamo pretendere che ne tenga conto. Public opinion termine coniato nei primi anni Venti dal sociologo, giornalista e opinionista Walter Lippmann per declinare i compiti del giornalista: interpretare gli avvenimenti tenendo conto delle aspettative dell’opinione pubblica. È un concetto, oggi, carico di ambiguità. Rappresenta l’opinione della maggioranza? Viene indicata dai risultati dei sondaggi di opinione? È l’opinione espressa dai media più rappresentativi? E chi forma l’opinione pubblica? La classe dirigente? Sono i media? E, se è così, contribuisce di più la stampa o la televisione a formare l’opinione pubblica? Sono tutte domande che trovano mille e più risposte, diverse fra loro nella copiosa e spesso inutile letteratura. Per il relatore pubblico conviene aggirare la mal posta questione e preoccuparsi soprattutto di identificare i pubblici influenti e gli interlocutori primari dell’organizzazione, ascoltarli, tenere conto ove opportuno delle loro opinioni e basare le proprie iniziative su queste. Public relator “relatore pubblico” è il professionista che si occupa di relazioni pubbliche. Il termine non è molto popolare ma comincia a crescere il suo uso; chi lo preferisce a “comunicatore” privilegia l’aspetto relazionale della professione a quello comunicativo e considera la comunicazione come strumento della relazione. Public responsibility è la responsabilità di un’organizzazione e di una persona verso l’interesse pubblico o il pubblico o, come dice il sociologo tedesco Jurgen Habermas, la “sfera pubblica” (→ public sphere). In relazioni pubbliche rappresenta le modalità con cui un’organizzazione si rende consapevole delle conseguenze (→ consequence) che le sue attività hanno sugli altri e si sforza di minimizzare quelle negative e massimizzare quelle positive ricevendo in cambio una più forte “licenza a operare” (→ license to operate, legitimacy). Public sphere “sfera pubblica”, concetto teorizzato nel secondo dopoguerra dal sociologo tedesco Jürgen Habermas alla base della visione cosiddetta “europea” delle relazioni pubbliche, contrapposta dai suoi teorizzatori (→ Bled Manifesto) a quella “americana”. In sostanza, mentre negli Stati Uniti le relazioni pubbliche implicano soprattutto relazioni con i diversi pubblici di un’organizzazione, prevalentemente privata; in Europa le relazioni pubbliche operano maggiormente all’interno della sfera pubblica (in tedesco, “relazioni pubbliche” si traduce con Offentlichkeitsarbeit, lavorare in pubblico, con il pubblico, per il pubblico). Publicity attenzione: in inglese, publicity è sinonimo di “pubblicità”; in americano, publicity è sinonimo di “ufficio stampa” (→ media relations). Il termine advertising (pubblicità) è comunemente usato anche in Inghilterra, ma publicity è considerato più raffinato e maggiormente “british”. Qualitative/quantitative al di là del suo senso più evidente, è importante sottolineare che in relazioni pubbliche non sempre il secondo termine, come molti pensano, è più importante del primo. Se per esempio ci si riferisce all’efficienza anziché all’efficacia (→ effective), oppure se si misurano gli output e gli outtake anziché gli → outcome o gli → outgrowths, il quantitative può essere più importante del qualitative. Questions and answers (Q & A’s) posto di fronte a qualsiasi questione (→ issue) emergente, il relatore pubblico accorto predisporrà un “Q & A”: un documento mai superiore alle due cartelle in cui sono elencate le domande più difficili e sotto ciascuna di queste le risposte più opportune. Nella cultura di Internet sono indicate come FAQ (frequently asked questions), con la differenza che nel caso delle “Q & A’s” si parla di relevant (importanti) e non di frequent question. Reflective role così come evidenziato dalla scuola europea, all’interno del ruolo strategico (→ strategy) è il relatore pubblico che, utilizzando un’attenta attività di ascolto e di auditing (→ audit), “riflette” le aspettative dei pubblici influenti all’interno dell’organizzazione (leggasi coalizione dominante) e “fa riflettere” l’organizzazione sulle proprie dinamiche relazionali e sui rispettivi modelli. È colui che si occupa della “coerenza” esterna/interna degli obiettivi dell’organizzazione. (→ Bled manifesto) Relationship termine centrale per una corretta e completa comprensione delle relazioni pubbliche intese come relazioni con i pubblici influenti sugli obiettivi perseguiti da un’organizzazione. La sola raccomandazione è quella di leggere Public Relations as Relation Management. A relational (ship) Approach to the study and practice of Public Relations, a cura di John A. Ledingham e Stephen D. Bruning (Lawrence Erlbaum Association - LEA, 2000). Relma (relationship management) → Gorel (governo delle relazioni). Reputation anche in questo caso la sola raccomandazione è di visitare il sito del Institute for Reputation (http://www.reputationinstitute.com) e di leggere le opere di Charles Fombrun, fondatore del medesimo istituto. Anche se fra la “scuola relazionale” (Grunig) e la “scuola reputazionale” (Fombrun) si può rilevare una distanza rilevante, tale distanza non ha tuttavia molta ragione d’essere, poiché la prima è una teoria generale che comprende e, dunque, non è in contraddizione con la seconda. Responsibility il termine è molto di moda e si applica a molti aspetti delle relazioni pubbliche. Si parla di responsabilità sociale riferita alle organizzazioni (corporate), ma anche riferita alla professione (→ communication social responsibility). Nella seconda accezione il riferimento è al contributo che le relazioni pubbliche danno o non danno all’interesse pubblico e al consolidamento o meno della democrazia. Le opinioni sono assai controverse. Rhetorical school una delle tre scuole classiche delle relazioni pubbliche (→ critical school, systemic school). Teorico riconosciuto è Robert Heath, per il quale la “rappresentazione di un argomento” (→ advocacy) da parte di un’organizzazione è parte necessaria della stessa creazione di senso e della conoscenza, ha a che fare sia con i processi sia con i contenuti del “discorso pubblico”, attribuendo voce paritaria a tutti i partecipanti con interesse al dialogo. Un dialogo imperniato su fatti (epistemologia), valutazioni (assiologia) e scelte politiche, di prodotti e di servizi (ontologia). ROI (return on investment) in relazioni pubbliche negli ultimi anni si discute molto (ma si scrive assai meno) se le relazioni pubbliche possano essere misurate in termini di rientro dell’investimento. Su questa questione, l’ultima autorevole ricerca è quella realizzata dall’IPR inglese (Institute of Public Relations, http://www.ipr.uk.org), ma anche l’IPR americano (Institute for Public Relations, http://www.instituteforpr.com) ci sta lavorando da anni. La conclusione – per ora – di Anne Gregory, presidente dell’IPR inglese, è che non di ROI si deve parlare ma di valore generale delle RP sia in termini di valore aggiunto misurabile caso per caso, sia in termini di danni evitati, ovviamente meno misurabili ma pur sempre stimabili con gli stessi criteri e parametri usati dalle assicurazioni. Rumor il pettegolezzo, la voce, rumeur (in francese). Le relazioni pubbliche sono sovente coinvolte e sia direttamente che indirettamente protagoniste ma anche vittime di un rumor. Uno dei più celebri sociologi francesi Jean Louis Kapferer ha dedicato un intero volume a questo genere di fenomeni, al modo in cui crearli e in cui spegnerli. Segmentation segmentazione di un pubblico in fasce determinate in base ai processi identificativi. Più ancora che nella pubblicità e nel marketing, la segmentazione – intesa come individuazione di ciascun pubblico influente con il quale l’organizzazione desidera/deve sviluppare una relazione – è la fase di gran lunga più importante delle relazioni pubbliche. Infatti una segmentazione attenta diventa essenziale per l’efficacia e l’efficienza di una azione di relazioni pubbliche quando riesce a distinguere fra: - pubblici comunque consapevoli e interessati a una relazione con l’organizzazione in questione (→ stakeholder); - pubblici che sarebbero certamente interessati a una relazione con l’organizzazione se fossero consapevoli della conseguenze che le sue attività possono avere o hanno su di loro (stakeholder potenziali); - pubblici che pur se non consapevoli né interessati, l’organizzazione ritiene comunque influenti sulle variabili che determinano il raggiungimento dell’obiettivo perseguito (→ influential; influencer); - pubblici che pur se non consapevoli né interessati l’organizzazione ritiene influenti sui destinatari finali della sua offerta (→ opinion leader); destinatari finali (→ end recipient) della offerta dell’organizzazione. Sexing up l’azione di rendere qualcosa più attraente. Non dissimile da → spin, si attua quando si aggiunge, si manipola, si ricostruisce un’informazione, un argomento, una questione tenendo soprattutto conto del suo effetto persuasivo. Il caso più recente e famoso di sexing up è quello di Alistair Campbell, già portavoce del governo laburista inglese, accusato di avere manipolato le informazioni in merito alle armi di distruzioni di massa irachene. La sua decisione di diffondere la notizia che Saddam aveva armi che avrebbero potuto distruggere l’Inghilterra in poche decine di ore fu il frutto di un lungo negoziato e di pesanti pressioni che lo stesso Campbell esercitò sui servizi segreti inglesi affinché inserissero quella notizia in modo inequivocabile nei loro rapporti. Giustamente, egli riteneva che quell’informazione, sicuramente gonfiata (→ hype), avrebbe portato l’opinione pubblica inglese, fino ad allora ostile, ad appoggiare la decisione di Blair di entrare in guerra a fianco degli americani. Share-of-mind spazio di attenzione (letteralmente, “quota della mente”). La saturazione mediatica, il sovraffollamento dei messaggi e l’inquinamento comunicativo (→ info-communicative overload) spingono le organizzazioni a preoccuparsi assai più di conquistare lo spazio di attenzione dei pubblici piuttosto che di quello di voce (share of voice). Le modalità sono tante: da quelle “lecite” come il marketing virale (→ viral marketing) e la spinta all’emozione creativa, a quelle meno “lecite” come la pubblicità subliminale e l’uso improprio delle relazioni pubbliche a fini di manipolazione e persuasione non trasparente. Shareholder relations, o investor relations, le relazioni che un’organizzazione, normalmente quotata in borsa, intrattiene con i suoi azionisti, con il mercato finanziario e con la comunità finanziaria in senso lato (autorità, investitori istituzionali, fondi di investimento, operatori del mercato). Symmetric è una delle dimensioni di una relazione (→ asymmetric). Se tale relazione è (almeno tendenzialmente) simmetrica, gli obiettivi dell’organizzazione sono definiti in maniera negoziale dopo aver preventivamente ascoltato e interpretato le aspettative degli → stakeholder. Compito del relatore pubblico è di identificare con attenzione i pubblici influenti su una determinata questione per la quale opera (→ issue) con i quali creare, consolidare e sviluppare relazioni adoperando strumenti di comunicazione e canali relazionali che consentano l’ascolto delle loro aspettative, di interpretarle presso i componenti della coalizione dominante della organizzazione (→ management) e, infine, di argomentare con gli stessi pubblici influenti le posizioni definite in un flusso continuo di dialogo (→ negotiative) che consenta a entrambi (organizzazione e pubblico influente) di ricavare un valore aggiunto dalla relazione. Non esiste in natura una relazione completamente simmetrica, anche se la scuola sistemica di Grunig (→ systemic school) sostiene che l’efficacia cresce man mano che si raggiunge una simmetria nelle relazioni con gli stakeholder principali. Questa è una delle distinzioni fondamentali tra relazioni pubbliche e pubblicità. Le prime tendono alla simmetria, le seconde sono portatrici mediamente di messaggi unidirezionali e, proprio per questo, asimmetrici. (→ Grunig) Social report sta per bilancio sociale di un’organizzazione, e si affianca a quello economico e quello ambientale. I tre integrati fanno il bilancio triple bottom line (TBL), focalizzati cioè sull’ultima riga (bottom line) dei tre bilanci: quella che solitamente indica i profitti o le perdite. Il recente interesse delle relazioni pubbliche per i bilanci delle organizzazioni indica una progressiva migrazione professionale dalla cultura dell’annuncio e delle intenzioni (necessariamente retorica, unidirezionale, push, asimmetrica, persuasiva) a una cultura della rendicontazione (dei comportamenti, negoziale, argomentativa, bidirezionale, pull e tendenzialmente simmetrica). Specific applications ciò che riguarda gli interventi “locali” della teoria globale (→ globalisation; glocal) delle relazioni pubbliche. Infatti Jim → Grunig parla di → generic principles (qui “generic” nel senso dei medicinali) e di specific applications. Anche la Global Alliance ha adottato la stessa terminologia. Spin il verbo to spin significa “attribuire un effetto”; a spin ball, nel baseball, è una palla a effetto; a spin doctor, in relazioni pubbliche, un esperto nel manipolare l’informazione. Fedele al detto inglese “if you can’t beat them, join them” (se non puoi battere l’avversario ti conviene unirti a lui), il leggendario Lord Tim Bell ebbe a dire: “Non mi dà fastidio quando mi danno dello ‘spin doctor’ poiché già quel ‘doctor’ è un segnale di attenzione che prima non mi veniva neppure attribuito”. Battuta non dissimile da quella di Jacques Seguela (creativo francese) che disse: “Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario. Lei mi crede pianista in un bordello”. Che il relatore pubblico abbia anche il compito di presentare l’informazione perché venga percepita dai pubblici influenti nella maniera più favorevole al raggiungimento dell’obiettivo perseguito da un cliente o da un datore di lavoro non può esservi dubbio alcuno (→ sexing up). Se anche questa premessa venisse negata, allora verrebbe meno la stessa funzione delle relazioni pubbliche. Naturalmente la questione non è bianca o nera: nella storia dell’uomo l’informazione è sempre stata manipolata e aggiustata in funzione degli obiettivi di qualcuno. Così hanno fatto (e fanno) gli storici; così hanno fatto (e fanno) i giornalisti; cosi hanno fatto (e fanno) gli avvocati, i contabili e i relatori pubblici. Importante semmai è la differenza: gli storici compiono la loro manipolazione ex post, parecchio tempo dopo gli eventi narrati e tendono a basarsi su fonti terze e documenti; i giornalisti la compiono invece durante e immediatamente dopo l’evento narrato e tendono a basarsi su fonti dirette, verbali e quindi interessate; i relatori pubblici la compiono invece quasi sempre prima e durante l’evento narrato e sono essi stessi fonti importanti. Non è un caso che le tre figure professionali si sovrappongano Pericolosamente quando gli storici si fanno troppo contemporanei, quando i giornalisti si fanno troppo indovini, o quando i relatori pubblici si fanno anche giornalisti o storici. Le relazioni pubbliche sono una professione ambigua, proprio perché operano in quella terra di nessuno ove la comunità politica, quella economica e quella dell’informazione si relazionano di continuo. La sola uscita dall’ambiguità sta nell’etica professionale e nel rispetto primario dell’interesse pubblico rispetto a quello del datore di lavoro/cliente (→ public interest). Detto questo, anche la interpretazione di quale sia e dove risieda l’interesse pubblico, in assenza di leggi,spetta al professionista e qui sta uno dei suoi principali valori aggiunti. Sponsorship (dal verbo latino spondeo: prestare una sponda, sostenere, aiutare, attribuire il proprio buon nome a una causa che ne ha bisogno) in relazioni pubbliche, l’attività di sponsorizzazione, oggi molto diffusa. Esiste la sponsorizzazione culturale (un’organizzazione sponsorizza una mostra, un libro, un film, un concerto), quella sportiva (quando si sponsorizza un atleta, una gara, una squadra, una partita), quella sociale (una causa, una iniziativa benefica, una raccolta fondi), quella ambientale (la Goletta verde), quella televisiva (un programma) e così via. In tutti i casi, l’organizzazione si impegna a versare fondi e/o servizi in cambio della presenza del suo nome in ogni momento di visibilità pubblica dell’evento (→ event) o dell’iniziativa sponsorizzata. Staff può indicare la posizione gerarchic, in termini di responsabilità operative e decisional, di una funzione organizzativa. Spesso le relazioni pubbliche e la comunicazione sono funzioni in staff al vertice aziendale. In questo caso il termine staff si contrappone a quello di line, attribuito alle funzioni più propriamente operative di un’organizzazione come le vendite o la produzione. L’altra accezione di staff è invece riferita a un gruppo di persone a supporto di un leader: Così, lo staff del presidente, oppure lo staff del candidato o infine lo staff del senatore. In ogni staff che si rispetti c’è chi è responsabile delle relazioni pubbliche. Stakeholder (to hold a stake, detenere un titolo in/di un’organizzazione) diverso da shareholder (azionista), stakeholder è divenuto un termine buono per tutti gli usi: oggi stakeholder sono azionisti, clienti, dipendenti, fornitori, cittadini, insomma tutti. Lo dicono fior di studiosi, economisti, consulenti aziendali, studiosi dell’organizzazione. Quando un termine viene così abusato ci si chiede a cosa serva continuare a usarlo. In effetti, “to hold a stake” implica che non sia l’organizzazione a riconoscere quel ruolo a un soggetto, ma che sia quest’ultimo ad averlo e a esercitarlo. A sua volta questo implica che lo stakeholder sia consapevole di esserlo e che abbia l’interesse a sviluppare una relazione (positiva, negativa, neutrale) con l’organizzazione sulla quale produce (o dalla quale subisce) conseguenze (→ consequence). In senso stretto quindi, gli stakeholder di un’organizzazione sono pochi e facilmente identificabili. E questo è molto utile per una migliore economia della comunicazione. Volendo allargare, si può anche ritenere utile aggiungere una categoria di stakeholder potenziali (e allora ai primi andrebbe aggiunto il termine di attivi): coloro cioè che se solo fossero informati dell’organizzazione e delle sue attività (e quindi resi consapevoli) avrebbero interesse a una relazione con l’organizzazione perché le attività di quest’ultima produce conseguenze su di loro e/o viceversa. Ma è chiaro che, a differenza del primo caso, in quest’ultimo è l’organizzazione stessa a decidere chi sono gli stakeholder potenziali. E questo, a sua volta, implica che la relazione con loro va avviata dall’organizzazione con un messaggio di natura persuasiva, atta cioè ad attirare la loro attenzione, mentre nel primo caso, quello degli stakeholder attivi, la relazione è facilitata dall’esplicito interesse di entrambi alla relazione. Stakeholder relationship management (SRM) è il processo manageriale con il quale un’organizzazione complessa – se fortemente orientata allo sviluppo di relazioni pull, simmetriche ed interattive con i suoi pubblici influenti – integra i propri sistemi relazionali con tutti i segmenti di pubblici influenti, sforzandosi di monitorarne e governarne le dinamiche per raggiungere con efficacia gli obiettivi definiti dopo aver ascoltato le aspettative degli → stakeholder attivi. È il governo delle relazioni con gli stakeholder (attivi e potenziali) o, volendo essere un pochino più ampi senza però cadere nella inutilità delle eccessive generalizzazioni, con i pubblici influenti – compresi quindi anche gli influenti (→ influential; influencer) sulle variabili chiave (→ issue), e gli → opinion leader sui destinatari finali (→ end recipient). In sostanza, è il cosiddetto → Gorel, in cui il relatore pubblico svolge un ruolo strategico (→ strategic role) ascoltando le aspettative dei pubblici influenti e traducendole alla coalizione dominante (→ management) prima della definizione degli obiettivi da perseguire (→ reflective role) e aiutando i direttori delle altre funzioni a sviluppare i rispettivi sistemi di relazione con gli stakeholder con modalità coerenti e coordinate (→ educational role). In una prospettiva di SRM è evidente che le organizzazioni fortemente orientate all’utilizzo di Internet come ambiente di relazione possono attuare e governare modalità relazionali più efficaci e rendicontabili favorendo l’integrazione tra strumenti relazionali reali e virtuali. Da qui la variante di integrating stakeholder relationship management (ISRM). Strategic role → strategy. Strategy in relazioni pubbliche, il termine “strategia” viene tanto più usato quanto minore, in un’organizzazione, è la funzione effettivamente strategica delle relazioni pubbliche. In effetti svolgere un ruolo strategico è l’aspirazione di ogni relatore pubblico che si rispetti. Ma cosa vuol dire “strategico”? La letteratura è sterminata, ma in relazioni pubbliche gli studiosi concordano su due ruoli strategici: quello riflettivo (→ reflective role), in cui la coalizione dominante di un’organizzazione riconosce al relatore pubblico il ruolo di ascolto e di interpretazione delle aspettative dei pubblici influenti prima, durante e dopo le decisioni; quello educativo (→ educational role), in cui la coalizione dominante (→ management) riconosce al relatore pubblico il ruolo di coordinamento dei sistemi di relazione dell’organizzazione con i pubblici influenti e del trasferimento trasversale alle funzioni di direzione di competenze relazionali e comunicative adeguate per governare direttamente quegli stessi sistemi di relazione. (→ Bled manifesto) Sustainability sostenibilità, nel senso prevalente di durata nel tempo. Una attività insostenibile è quella che non può durare. Termine di uso comune che deriva soprattutto dall’ambientalismo e si applica ai diritti umani e allo sviluppo economico. SWOT analysis (SWOT sta strength, “forza”, weakness, “debolezza”, opportunity “opportunità” e threat, “minaccia”) si tratta di uno strumento di analisi di una situazione nella quale si identificano le caratteristiche in base a ciascuna delle quattro famiglie SWOT (strength, weakness, opportunity, threat) per averne un quadro il più possibile chiaro prima di procedere a un piano di azione. È un metodo semplice e molto (ab)usato in relazioni pubbliche, ma utile, se non altro per riflettere. Systemic school è la teoria di James → Grunig per il quale ogni organizzazione, per avere successo deve integrarsi armonicamente nell’ambiente circostante e per fare questo con efficacia deve conoscere e interpretare i valori e le aspettative dei suoi pubblici influenti (→ stakeholder attivi) prima ancora di definire i traguardi specifici dell’organizzazione, così da selezionare obiettivi effettivamente raggiungibili. In un saggio del 2002, Grunig, accogliendo le osservazioni critiche dei suoi colleghi “retori” e “critici” (→ critical school, rhetorical school), arriva a sostenere che il cuore delle relazioni pubbliche è nella “relazione” (→ relationship) (dando grande soddisfazione ai “retori”) e che la “simmetria” (→ symmetric), la condizione che a suo avviso rende davvero efficaci le relazioni pubbliche, si ottiene soltanto quando l’operatore di relazioni pubbliche esercita in egual misura le sue abilità persuasive nel convincere la coalizione dominante interna dell’organizzazione a adeguarsi alle aspettative dei pubblici influenti come nel convincere i pubblici influenti a adeguarsi alle aspettative della coalizione dominante (→ management) interna (dando così soddisfazione ai seguaci dell’approccio “critico”). In questi ultimi anni si potrebbe dire che la scuola sistemica si è diffusa fino a diventare prevalente fra gli studiosi e nella comunità professionale più consapevole, mentre la scuola critica si è diffusa fino a diventare prevalente nei media e nei gruppi attivisti, al punto che recentemente Kenny Ausubel, fondatore di Bioneers, un network di visionari ambientalisti ha scritto: “Di tutte le orrificanti tecnologie distruttive del XX secolo, la più pericolosa è costituita ragionevolmente dalle relazioni pubbliche” (www.holmesreport.com). Tabloid è un formato di stampa, normalmente più grande di un settimanale e più piccolo di un quotidiano; in relazioni pubbliche, un’iniziativa tabloid implica un po’ di esagerazione, di iperbole, di sottolineatura a “grandi titoli” e al tempo stesso poca o comunque insufficiente e non completa informazione. (→ hype; sexing up; spin) Takeover è una acquisizione, amichevole (friendly) o anche ostile (hostile), di un’organizzazione da parte di un’altra. Nelle relazioni pubbliche, è un momento topico e delicato di autorappresentazione dell’organizzazione acquirente e/o acquisita. Vi sono società di relazioni pubbliche specializzate proprio in questa attività. Talk the walk → walk the talk. Talk show formato televisivo divenuto di uso comune anche in assemblee ed eventi ad hoc. Di solito, un facilitatore sollecita protagonisti a dire la loro su una o più questioni specifiche cercando di avviare tra i partecipanti un dibattito interessante per il pubblico presente e/o televisivo. Gli organizzatori di eventi (→ event) hanno raffinato il modello ed esistono oggi diversi modelli di talk show in funzione della serietà del tema trattato, dei protagonisti coinvolti, del facilitatore. Target nella comunicazione d’impresa (→ corporate communication), il termine ha due accezioni: una meta da conseguire (spesso è usato nelle vendite per indicare l’obiettivo quantitativo del fatturato oppure l’obiettivo di comunicazione da perseguire, in modo unidirezionale e asimmetrico; → asymmetric); oppure come scorretta ma usatissima contrazione del termine target group (pubblico di riferimento), ciò che non ha nulla a che fare con il cuore delle relazioni pubbliche, sostanzialmente a due vie e, almeno tendenzialmente, simmetriche (→ symmetric). Un termine che sollecita la “comunicazione a”, anziché la “comunicazione con”. TAROT (trend analysis by relative opinion testing) → Delphi. Taxonomy un insieme condiviso di definizioni dei termini più usati – ciò che esattamente manca nelle relazioni pubbliche. È possibile che questa anomalia stia per essere superata grazie alle nuove tecnologie. Infatti è in realizzazione, a cura della comunità professionale e, in particolare alla Global Alliance e di un gruppo di associazioni nazionali e di professionisti dedicati, un software universale di relazioni pubbliche che parte proprio da una tassonomia condivisa. È l’→ XPRL Teaser (to tease, prendere in giro, scherzare) in pubblicità si dice di una campagna quando si attira l’attenzione del consumatore senza indicare direttamente e subito la soluzione – soluzione che verrà annunciata con un esplicito richiamo al teaser, soltanto dopo aver attirato l’attenzione. In relazioni pubbliche, le iniziative teaser sono molto discutibili e hanno parecchio a che fare con la percezione di opacità dei processi professionali. Ma non se usate per annunciare eventi (→ event) intorno ai quali si desidera attirare attenzione. Teleconference conferenza telefonica con la partecipazione dal vivo e contemporanea di più soggetti da luoghi diversi. Se ben condotta, consente di risparmiare parecchio tempo e denaro, e può essere visivamente integrata da immagini e grafici via internet. Testimonial normalmente la celebrità che, in cambio di un compenso, si presta a parlare bene di un prodotto o a farsi ritrarre sorridente a fianco ad esso. Termine di uso ormai corrente in italiano, in relazioni pubbliche il testimonial è anche la persona che si presta gratuitamente o dietro compenso simbolico o in natura, a sostenere pubblicamente una causa, a firmare un appello pubblico, a prestare il suo nome per una giusta causa nella speranza che il suo nome riesca a stimolare adesione, emulazione e partecipazione di altri. Tie-in è un accordo, un legame che si instaura fra due o più soggetti intorno a una questione specifica (→ issue). In relazioni pubbliche e in pubblicità viene usato anche come sinonimo di comarketing. Top-of-mind è un ricordo immediato, un ricordo che deve essere ricercato; in ricerca si chiama “ricordo spontaneo”, quello che viene in mente subito dopo la domanda del ricercatore. “A caldo”, si potrebbe dire. Track record è l’esperienza passata (cosa ho fatto, come ho agito rispetto a una determinata questione). È importante perché “l’esperienza non è ciò che ci succede, ma è quel che si fa con quel che succede”. Tracking study uno studio continuativo che assicura il monitoraggio costante di un determinato fenomeno che si vuole studiare. Transparency è la trasparenza (nelle relazioni). In linguaggio informatico un oggetto è trasparente quando l’utente non se ne accorge neppure. Certo non è questa l’accezione che del termine ne fanno i comunicatori, le autorità, le organizzazioni quando la invocano per i consumatori, gli elettori, gli utenti dei servizi pubblici o gli investitori. È difficilmente negabile che l’opacità (cioè, il contrario della trasparenza) può essere assai utile in molte circostanze. Così come nessuno può impedire a organizzazioni, note per la loro ritrosia alla trasparenza, di avere reputazioni forti e consolidate, è anche chiaro che una politica spinta di trasparenza costringe l’organizzazione a rivelare informazioni che possono nuocere alla sua reputazione. Insomma, non è tutto oro quel che luccica e sarebbe bene che i relatori pubblici fossero consapevoli che “omaggiare” troppo la trasparenza delle organizzazioni con le quali lavorano rischia anche di elevare a livelli insostenibili le aspettative degli → stakeholder. Il termine trasparenza con lo stakeholder può essere utilizzato, senza rendersi ridicoli, soltanto in presenza di alcuni passaggi comunicativi obbligati: a) dichiarare sempre la propria identità; b) dichiarare sempre il soggetto che si rappresenta (questo non vale solo per i consulenti); c) dichiarare qual è l’obiettivo che si intende perseguire nella creazione, sviluppo o consolidamento della relazione con l’interlocutore. Questi sono i tre passi essenziali. Poi ce n’è un quarto che può essere applicato in tutti quei casi in cui non esiste il rischio di divulgare segreti utili alla concorrenza: come intendo perseguire quell’obiettivo nella mia relazione con te e gli altri. Il contenuto della informazione deve ovviamente essere tempestivo, veritiero e seguire le norme di legge. Ma, attenzione, queste ultime tre variabili non hanno a che vedere con la trasparenza ma con le altre caratteristiche della comunicazione. Attribuire tutto al concetto di trasparenza vuol dire annacquarlo. Unilateral messaggio o azione proveniente da una parte sola, unilaterale. Il riferimento più abituale è alla pubblicità. Unique selling proposition (USP) letteralmente, “proposta di vendita unica”; nello specifico, la peculiarità, la caratteristica unica di un prodotto, un servizio, un’idea che si vuole comunicare. Universe in ricerca, è il totale dei soggetti da cui viene estratto un campione rappresentativo secondo specifiche modalità. Più è piccolo l’universo più è grande in proporzione il campione rappresentativo. Unobtrusive research è una tecnica di ricerca non invadente, non aggressiva, che si basa sul consenso prioritario quando non sul volontariato attivo del soggetto. Value valore. Le organizzazioni che creano maggior valore per gli → stakeholder sono quelle che adottano e applicano modelli avanzati di relazioni pubbliche basati sul governo dei sistemi di relazione (→ stakeholder relationship management; Gorel) con gli stakeholder e sulla formulazione di politiche e comunicazione di comportamenti di responsabilità sociale. È il risultato di una immensa ricerca condotta per 17 anni su 327 organizzazioni Inglesi, Canadesi e Americane condotta dal Prof. James → Grunig dell’Università del Maryland. La squadra di Grunig avviò i lavori nel 1985 per concluderli nell’estate del 2002. Tre volumi (pubblicati dalla Lawrence Erlbaum Associate) sono il frutto di questo lavoro: 1) Excellence in Public Relations and Communication Management (1992), che presenta un’estesa illustrazione della letteratura esistente e, a fianco dei risultati di una ricerca quantitativa delle 327 organizzazioni (che include questionari completati di 407 direttori della comunicazione, 292 leader di organizzazione e 4.361 dipendenti), misura i diversi indicatori di successo per le relazioni pubbliche; 2) Manager’s Guide to Excellence in Public Relations and Communication Management (1995), che presenta approfondite descrizioni della ricerca qualitativa sulle 25 organizzazioni che hanno registrato i punteggi più alti e più bassi nella fase quantitativa; 3) Excellent Public Relations and Effettive Organizations (2002), che presenta i risultati completi e integrati delle due ricerche. Value added valore aggiunto. In relazioni pubbliche, il valore aggiunto di un’organizzazione è la ricchezza prodotta nel corso di un esercizio (un anno). Per un’impresa lo si individua nella differenza fra la produzione lorda e il consumo dei beni e dei servizi. Nel caso del valore aggiunto apportato a un’organizzazione dalle sue attività di relazioni pubbliche siamo nel più ampio tema dei cosiddetti beni immateriali o intangibili. Tutti concordano ormai da diversi anni che questi ultimi costituiscono ormai la parte più importante del valore aggiunto di un’organizzazione. Sono poi sempre in numero maggiore gli esperti che sostanziano questo ragionamento con l’argomento che il valore maggiore di un’organizzazione è costituito dalla somma dei valori dei suoi sistemi di relazione con i pubblici influenti. Essendo le relazioni pubbliche quella disciplina del management che aiuta le organizzazioni a governare i sistemi di relazione con i suoi pubblici influenti, ecco la stretta correlazione fra relazioni pubbliche e produzione di ricchezza. Variable variabile. In relazioni pubbliche, e in particolare nel → Gorel, variabile è usato come sinonimo di → issue, o di questione. La gestione delle variabili equivale quindi all’issue management. Nel Gorel l’identificazione delle variabili che influenzano il raggiungimento dell’obiettivo di un’organizzazione avviene subito prima della identificazione degli influenti (→ influential; influencer) e dopo quella degli obiettivi. In effetti non si possono sviluppare relazioni efficaci con gli influenti in “laboratorio”, prescindendo cioè dalle dinamiche sociali, politiche, economiche, tecnologiche o culturali. Venue luogo, località. In relazioni pubbliche si riferisce in genere al luogo di un evento (→ event), a dove si svolge. In diverse organizzazioni esiste il venue manager, la persona esperta nelle località, sempre aggiornata sulle novità e le attrazioni. (→ anche location) Vested interest interesse di parte. È un concetto fondamentale dellerelazioni pubbliche. Per chiunque lavori e qualsiasi cosa faccia, il relatore pubblico per definizione rappresenta sempre un interesse di parte e questo, per esempio, dovrebbe impedirgli deontologicamente di essere pagato anche da altre parti per lo stesso lavoro (commissioni da fornitori, coinvolgimento di altri partner...); di non palesare all’interlocutore della relazione la propria identità e quella dell’interesse rappresentato, di rappresentare più interessi in conflitto anche potenziale, indipendentemente dall’opinione del cliente in proposito. Videoconference tutti oggi sanno cosa è una videoconference, da non confondere (come spesso accade) con la → teleconference. Alla fine degli anni Settanta era girata la leggenda metropolitana che l’industria dei viaggi sarebbe crollata a causa dell’imminente avvento della videoconferenze. Poi se ne è parlato poco negli anni Ottanta, mentre la stessa leggenda è nuovamente riemersa negli anni Novanta. Oggi le videoconferenze sono assai più utilizzate di vent’anni fa, ma non ancora realmente scalfito l’industria dei viaggi, a dimostrazione che tutto si crea e nulla si distrugge. Video news release (VNR; pronunciato “viiennar”) un comunicato video per la TV. In auge nei mercati più avanzati dai primi anni Settanta – adoperato per la prima volta con successo in Italia nel 1979 per presentare alle tante televisioni private di allora una particolare sigaretta (si chiamava Muratti Ariston) che consentiva al fumatore, con l’auto regolazione del filtro della sigaretta predisposto su tre diverse posizioni, di aumentare o diminuire il passaggio del fumo e delle sue sostanze – il video news release, anziché come un comunicato stampa (→ news release) che aiuta il giornalista a scrivere il suo pezzo, è stato interpretato in questi ultimi anni da Palazzo Chigi come materiale video che il sistema televisivo avrebbe dovuto usare così come predisposto dall’ufficio stampa, e questo ha provocato numerose reazioni negative da parte dei giornalisti. Più recentemente il Ministero della Salute statunitense è stato formalmente criticato dalla Corte dei Conti americana per avere investito dei soldi con la Ketchum (una delle maggiori agenzie internazionali di relazioni pubbliche) per la produzione e diffusione di una batteria di video news release che illustrano la riforma del sistema sanitario nazionale di quel Paese. La critica segnalava che una legge del 1913 ancora vigente impedisce all’amministrazione pubblica di investire soldi pubblici in attività di relazioni pubbliche. Ma lo stesso episodio ha invece prodotto un vero e proprio scandalo sulla stampa statunitense poiché le stazioni televisive che hanno accettato di mettere in onda la serie l’ha fatto senza alcuna modifica addirittura facendo passare l’annunciatrice, una professionista di relazioni pubbliche, come fosse la cronista da Washington. Lo scandalo è stato tale che la PRSA (Public Relations Society of America) è stata costretta a convocare il suo collegio dei probiviri ed emettere un editto sulla materia di VNR. Viral marketing sta per “marketing virale”, oggi molto di moda anche se altro non è che quel che da sempre fanno i migliori operatori di → marketing public relations. In sostanza, rispetto a un determinato pubblico cui si desidera far conoscere e provare un nuovo prodotto o servizio, si mette in moto un nucleo di “moltiplicatori” (→ four-minute-men) o leader di opinione (→ opinion leader) – ovviamente dove per opinione si intende quella del pubblico specifico con il quale si intende comunicare – che adottano il prodotto-servizio pubblicamente, e invitano altri a fare altrettanto. Secondo Al Ries, iniziatore del concetto di posizionamento e autore del libro The rise of PR and the fall of Advertising, la maggior parte dei nuovi prodotti e servizi di successo presentati sul mercato negli anni Novanta hanno fatto leva su questa tecnica in fase di lancio per poi sostenerla in un secondo momento attraverso l’investimento pubblicitario, che sarebbe l’iter contrario a quello classico: prima la pubblicità poi le relazioni pubbliche a supporto. In Italia uno dei primi esempi conosciuti di viral marketing risale ai primissimi anni Ottanta quando la Polaroid introdusse un nuovo apparecchio coinvolgendo in una famosa “caccia al tesoro” estiva realizzata con la nuova Polaroid, tutti i giovani rampolli della migliore imprenditoria italiana e montandoci su una bagarre sui giornali estivi Vision visione, la descrizione sintetica e condivisa di quello che l’organizzazione intende diventare in un tempo definito (3-5 anni). Nel processo di → envisioning – il primo passo del → Gorel adattato alla teoria sistemica di Grunig (→ systemic school) – la visione viene subito dopo la missione (→ mission), l’istantanea dell’organizzazione come è, e subito prima i valori guida (→ guiding principles) che guideranno l’organizzazione nel percorso dalla missione alla visione, rappresentato dalla strategia, ultima fase dell’envisioning. Walk the talk, e/o talk the walk (letteralmente, “camminare il parlato”) nota espressione americana per dire che un’organizzazione deve uniformare i suoi comportamenti all’autorappresentazione retorica della sua identita. È indubitabile che la franchezza nell’esporre ragionevolmente anche i punti di debolezza dell’organizzazione contribuisce largamente allo sviluppo di una relazione di fiducia fra un’organizzazione e i suoi → stakeholder. Se vogliamo è una buona “comunicazione con”. Esiste poi il contrario di “walk the talk” che è “talk the walk” (“parlare il camminato”), che in pratica chiede al comunicatore di non rappresentare quel che l’organizzazione non ha agito, non ha fatto: è la comunicazione dei comportamenti, appunto. Non esiste una modalità applicabile e replicabile a tutte le organizzazioni anche se le stesse non possono esimersi dal “walk the talk” e dal “talk the walk”: e farlo bene richiede tanta tecnica e tanta competenza. Wire service sta per “agenzia di stampa” e oggi anche per news agency. All’inizio del XX secolo, invece, si definiva news o press agency una attività di ufficio stampa, tanto che il primo modello di → Grunig, “à la” P.T. Barnum, si chiama → press agentry. XPRL (extensible public relations language) XPRL è un progetto internazionale che si prefigge come obiettivo la costruzione di un linguaggio informatico condiviso per migliorare l’efficacia e l’efficienza nello scambio di informazioni e nella pratica quotidiana delle relazioni pubbliche. Lo scopo di tale progetto è la condivisione di linguaggi delle relazioni pubbliche. “Language” sottende la capacità di essere compatibile con tutti i computer: gli strumenti sviluppati con XPRL sono comprensibili su scala globale. “Public relations” indica la partecipazione di esperti di rp nella progettazione di uno strumento per le RP. È “extensible” perché permette – e anzi incoraggia – un aggiornamento continuo e condiviso da parte di ogni singolo utente per incontrare le mutevoli esigenze della professione e dei suoi operatori. 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Future of Advertising Stakeholders http://www.fastinfo.org Institute for Public Relations (Fondazione indipendente focalizzata su ricerca ed education) http://www.instituteforpr.com Internet Advertising Bureau (Organizzazione non profit) http://www.iab.net PR Education (Sito tematico gestito dalla Colorado University) http://www.pr-education.org PR Measurement (Per la misurazione dei risultati delle attività di rp on line) http://www.prsleuth.com PR Museum (Museo on line di New York sui professionisti storici delle rp) http://www.prmuseum.com PRE-Fix (Comunità di professionisti in Gran Bretagna) http://www.pre-fix.org.uk/index.htm Mass Comm (Software per la valutazione dei risultati delle rp) http://masscom.com.au PR Radio TV Network (Le interviste con i protagonisti delle rp) http://www.tjwalker.com/prradiotvnetwork.htm Reputation Institute (Sito dedicato al reputation management) http://www.reputationinstitute.com Shel Holtz (Internet PR) http://www.holtz.com The PR Academy (Formazione on line nelle discipline delle rp) http://www.learnpr.com Gandalf (Pensieri sulla rete e sulla comunicazione) http://www.gandalf.it MicroPersuasion (Riflessioni sull’influenza dei blog e del giornalismo partecipativo sulla pratica delle rp) http://steverubel.typepad.com/micropersuasion Global PR Blog Week 1.0 (Discussione-evento on line sul fenomeno blog) http://www.globalprblogweek.com