collana
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Marketing
e
Comunicazione
GOVERNARE
LE
RELAZIONI
Obiettivi,
strumenti
e
modelli
delle
relazioni
pubbliche
prefazione
di
Andrea
Illy
postfazione
di
Renato
Mannheimer
NUOVA
EDIZIONE
AGGIORNATA
E
AMPLIATA
Introduzione alla seconda edizione
Per prima cosa è importante ricordare che la prima edizione di questo libro, uscito il libreria nei
primi mesi del 2003, teneva conto di un importante lavoro di confronto in rete con tutti i soci della
Ferpi (federazione relazioni pubbliche italiane). Per parecchio tempo, ogni settimana il sito
dell’associazione pubblicava una prima traccia di un capitolo dando la possibilità agli interessati di
intervenire, aggiungere e correggere. Sono stati più di cinquanta complessivamente i miei colleghi
che hanno collaborato attivamente e di questo li ringrazio.
E’ anche rilevante dire che il libro è stato presentato e discusso con operatori, docenti e studenti nel
corso del 2003 in una ventina di città italiane, e anche da questo road show sono emersi molti
suggerimenti, critiche e osservazioni.
A questo si aggiungano i tanti studenti universitari e di master con i quali ho interloquito in questi
due anni e che hanno utilizzato la prima edizione come testo di esame; anche da loro sono venuti
molteplici spunti e stimoli a rivederne alcune parti.
Se poi teniamo conto che dal sito della Ferpi (www.ferpi.it) risultano scaricate qualcosa di più di un
paio di migliaia di file del testo completo poiché la prima edizione dal 2004 pare introvabile nelle
librerie e aggiungiamo che in questi ultimi due anni i cambiamenti intervenuti nella teoria e nella
pratica delle relazioni pubbliche sono stati abbastanza travolgenti, si possono comprendere le
ragioni di una seconda edizione, pur con sostanziale revisione.
Ci tengo ad rivolgere un affettuoso ringraziamento a Fabio Ventoruzzo, oggi valido professionista e
acuto analista in erba, al quale devo un intelligente e continuo confronto dei contenuti, una attenta e
critica revisione dei testi, la prima stesura delle note che nella prima edizione erano assenti e
l’aggiornamento di bibliografia e webgrafia che a suo tempo curate da Giancarlo Currò. Fabio si è
laureato a pieni voti all’Università di Udine nel 2003 con una tesi sul Gorel con l’ottima
professoressa Renata Kodilja e quindi ha usufruito di un assegno di ricerca per aiutarmi nelle
relazioni con gli studenti di quell’ateneo per poi approdare ai primi incarichi professionali.
Infine esprimo apprezzamento e stima verso Andrea Illy e Renato Mannheimer i quali hanno riletto
e sostanzialmente confermato in prefazione e postfazione le opinioni già espresse per la prima
edizione. (tmf)
1. Introduzione alle relazioni pubbliche
1.1
La giornata di Mario Rossi
Mario Rossi vive e lavora a Milano, ha moglie e due figli di 18 e 20 anni, è impiegato presso Banca Intesa, tifa
per l’Inter, legge Il Giornale e vota Forza Italia. Si sveglia alle sette, vive in un appartamento affittato alle
Generali, dorme su un letto Ikea, vestaglia e pantofole acquistate in Rinascente, si lava in un bagno con sanitari
Ideal Standard e si pulisce i denti con Colgate. Beve un caffè illy e indossa un vestito Marzotto. Prima di salutare
la moglie, raccomanda al figlio Giacomo, maturando, di andare in Bocconi per l’incontro di orientamento, poi
dice al maggiore, Giorgio, primo anno allo Iulm e interessato alla comunicazione finanziaria, di osservare con
attenzione l’evoluzione della fusione TIM-Telecom: in banca si sussurra che sia in vista un importante accordo
internazionale. Si dirige verso l’edicola, compra Il Giornale, prende la metropolitana, legge un articolo sui
rapporti Bush-Putin, scorre un pezzo sul dibattito D’Alema-Rutelli-Ulivo, guarda come vanno le sue azioni AEM,
vede se Moratti ha completato bene la campagna acquisti, si ricorda che in serata deve passare alla Vidas dove è
volontario, e arriva in banca per iniziare la sua normale giornata di lavoro. Fermiamoci.
Anche sua moglie, assistente in una boutique di prêt-à-porter, e i suoi figli, nel breve periodo compreso
fra le sette e le nove di mattina, entrano in qualche relazione con almeno una ventina di organizzazioni complesse.
E questo senza contare i pensieri che nel frattempo occupano la loro attenzione, i tanti messaggi che ricevono
distrattamente ascoltando la radio del vicino, dando un’occhiata alle affissioni in metropolitana oppure sentendo
le chiacchiere delle due ragazze in piedi vicino all’edicola che confrontano i rispettivi profumi.
Nel corso di una qualsiasi giornata, una persona che vive in città entra in relazione con centinaia di
organizzazioni complesse (alcuni recenti studi parlano di migliaia). Queste “relazioni” possono essere consapevoli
e volute; consapevoli ma subite; oppure inconsapevoli e, quindi, anche in questo caso subite. Non serve procedere
oltre, se non per concludere che, per ciascuna di quelle organizzazioni, la sia pur fuggevole – ma non sempre è
tale – relazione intrattenuta con Mario Rossi e con altri come lui, costituisce un momento importante della loro
attività primaria: quella che sempre più frequentemente gli analisti indicano come essenziali per la creazione di
valore, la ragione stessa per cui esistono e che si può chiamare “missione”; diversa dalla “visione”, che è
l’immagine del futuro che l’organizzazione si impegna a trasformare in realtà, e che – a sua volta – si differenzia
dai “valori guida”, le regole comuni e condivise alla base del patto, più o meno esplicito, che impegna chi lavora
all’interno di, con e per una organizzazione.
Per compiere consapevolmente e in modo programmato il tragitto dalla “missione” alla “visione”,
l’organizzazione identifica e attua una “strategia” il più possibile chiara e condivisa che, a sua volta, si compone
di “programmi” che vengono attuati applicando specifici “strumenti operativi”.
Si comprende dunque come la gestione consapevole dei sistemi di relazione con tutti coloro che possono
aiutare o ostacolare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti abbia oggi assunto un peso crescente per ogni
organizzazione1. Questa gestione costituisce il compito principale assegnato alle relazioni pubbliche. All’interno
1
Per avere successo una organizzazione deve integrarsi armonicamente ed entrare in relazione con tutti gli elementi
dell’ambiente in cui intende operare. Partendo da questo presupposto il più reputato studioso internazionale delle relazioni
pubbliche, James Grunig, sostiene che il cuore della professione sta proprio nella relazione. In questi ultimi anni la scuola
di una organizzazione e intorno a essa, molte persone impegnano una parte rilevante del loro tempo e delle loro
competenze professionali per sviluppare relazioni – dirette e indirette – volte a influenzare, orientare, modificare o
consolidare le opinioni, i comportamenti, gli atteggiamenti e le decisioni di Mario Rossi. Accrescere dunque il
valore della relazione con Mario Rossi costituisce oggi la finalità di ogni organizzazione. Attraverso questa
relazione infatti, è possibile “ascoltare” e interpretare le opinioni, le aspettative e i desideri di Mario Rossi,
definire obiettivi realistici, progettare e realizzare iniziative che ne facilitino il raggiungimento e infine, misurare
se le iniziative intraprese siano state efficaci. Quando tali relazioni si propongono di orientare un comportamento
di acquisto, le attività di relazioni pubbliche agiscono, normalmente, in supporto alla pubblicità, ma anche – come
vedremo più avanti parlando di comunicazione integrata – alla promozione e al direct response. Sono invece
queste altre discipline a essere applicate in supporto alle relazioni pubbliche, quando le relazioni con Mario Rossi
si propongono di orientare i suoi comportamenti, le sue opinioni o le sue decisioni, diverse dal semplice consumo
di un prodotto o servizio: per esempio, partecipare o meno domani allo sciopero dei bancari, votare ancora per
Forza Italia, pensare che la Fiat abbia fatto bene a staccarsi dalla General Motors, concordare con Enzo Biagi che
sarebbe bene introdurre forti incentivi anche per le aree depresse del Nord.
1.2
Pervasività
Le relazioni pubbliche sono quelle attività consapevoli che una organizzazione -sociale, pubblica o privataintraprende per entrare e/o restare in relazione con i suoi pubblici influenti2: quelli che il suo gruppo dirigente (la
“coalizione dominante”) ritiene possano agevolare oppure ostacolare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti.
Così intese, le relazioni pubbliche sono divenute pervasive nella società contemporanea e la loro finalità è di
contribuire a generare in quei pubblici specifici opinioni, comportamenti e decisioni che consentano
all’organizzazione di raggiungere i suoi obiettivi con un migliore rapporto costi/benefici, e agli stessi pubblici
influenti di ricavare un misurabile valore aggiunto dall’avere aiutato l’organizzazione3.
Raramente una persona “normale” viene consapevolmente esposta a queste attività che si rivolgono – di
norma – a soggetti attentamente preidentificati e selezionati: leader di opinione, giornalisti, decisori pubblici,
personaggi influenti della comunità economica o finanziaria, personalità della cultura, dello sport e dello
spettacolo; persone che possiedono le “chiavi del cancello”, i cosidetti gatekeeper che filtrano, reinterpretano e
trasferiscono all’opinione pubblica, con il peso della loro autorevolezza, i messaggi elaborati dalle stesse
organizzazioni.
relazionale/sistemica di Grunig si è diffusa fino ad avere la prevalenza fra gli studiosi e nella comunità professionale più
consapevole.
2
Il concetto di pubblico/pubblici (publics, in inglese) – sebbene fondamentale per le relazioni pubbliche – è stato oggetto
finora di poche riflessioni teoriche che comunque rispecchiano in larga parte la “teoria situazionale” (Grunig e Hunt, 1984;
Grunig e Repper, 1992). Secondo questa, i pubblici si aggregano quando percepiscono un problema (una conseguenza indotta
dalle attività dell’organizzazione) su di una determinata questione (issue). Non tutti gli stakeholder diventano publics. È
Freeman, nel lontano 1984, a utilizzare per primo il termine stakeholder indicando quei soggetti sui quali l’organizzazione,
nel perseguire finalità istitutive e obiettivi operativi, produce conseguenze e – per converso – coloro i cui atteggiamenti,
opinioni, comportamenti e decisioni, producono conseguenze sull’organizzazione. I publics possono invece rimanere allo
stato latente (non percepiscono il problema), oppure evolvere e diventare – nell’ordine – pubblici consapevoli (riconoscono il
problema, ma non sono interessati ad agire), oppure pubblici attivi (coinvolti e interessati alla risoluzione del problema).
Negli ultimi tempi questa teoria è oggetto di osservazioni critiche che sottolineano la passività attribuita all’aggregazione dei
pubblici che si formano solo in conseguenza di determinati comportamenti organizzativi riferiti a una particolare e specifica
questione.
3
Le organizzazioni più efficaci raggiungono le finalità perseguite e queste sono, a loro volta, più facilmente raggiungibili se e
quando sono negoziate proattivamente con i pubblici influenti. (Grunig, 1992). È la simmetria tendenziale della relazione, il
cui fine è la comprensione delle reciproche aspettative e la inclusione di queste – ove ritenute accettabili – negli obiettivi
operativi della organizzazione. Questo produce una conseguente accelerazione dei tempi di attuazione. Anche la
consapevolezza precoce delle aspettative ritenute non accettabili, consente all’organizzazione di anticipare (e prepararsi al)le
potenziali crisi: e questo concorre ulteriormente a diminuire i tempi attuativi, con un miglior rapporto costi/benefici.
Capita talvolta, però, che non ne siano consapevoli neppure i soggetti influenti a cui quelle attività sono
dirette. E questa è una delle ragioni principali per cui le relazioni pubbliche sono spesso accusate di essere
“occulte”.
Nel primo caso, non è utile, né opportuno, attribuire al relatore pubblico la responsabilità di esplicitare
erga omnes le attività svolte, gli interessi rappresentati e gli obiettivi perseguiti... sarebbe come obbligare un
commerciante a informare ciascun abitante del circondario di ogni vendita e di come sia stata conseguita!
Piuttosto, è lo stesso soggetto a cui l’attività viene diretta a dover valutare se – e fino a che punto – sia necessario
od opportuno informare i “pubblici di riferimento” che i suoi atteggiamenti e comportamenti, le sue decisioni e
opinioni possono anche essere, di volta in volta, influenzate dal lavoro di relatori pubblici.
È un comportamento, quest’ultimo, per alcuni aspetti inverosimile e per altri, al contrario, auspicabile. Da
un lato, infatti, è normale che un leader d’opinione venga orientato da un numero sempre più ampio di “agenti di
influenza” e che, in ogni caso, questo possa avvenire con frequenza più intensa rispetto a una persona normale. Il
renderne fedelmente conto ai rispettivi “influenzati” o “influenzabili” sarebbe dunque complesso e
verosimilmente tedioso al punto da complicare gli stessi flussi comunicativi sociali fino a renderli indecifrabili.
Dall’altro, è anche vero che un leader di opinione è tale proprio in quanto riscuote la fiducia dell’influenzato e un
rapporto di fiducia si basa, normalmente, sulla trasparenza e sulla credibilità della relazione.
Appare dunque chiaro come non sia possibile definire regole generali valide per tutti e in ogni circostanza.
L’influente dovrà valutare caso per caso, tenendo ovviamente conto del fatto che il suo interesse prioritario
risiede, di norma, assai più nel mantenere e consolidare la fiducia dell’influenzato che non nel soddisfare le
aspettative di un relatore pubblico. Peraltro, l’influente sa anche bene che, se si indebolisce il suo potere di
influenza, rischia anche, e inevitabilmente, di perdere l’interesse e l’attenzione dello stesso relatore pubblico.
Nel secondo caso invece (quando è lo stesso influente a non essere consapevole delle attività del relatore
pubblico) è bene dire subito e a scanso di equivoci che, di norma, un operatore che non attiva una relazione
trasparente con il suo interlocutore è un operatore scorretto, che viola i codici deontologici della professione,
danneggia la credibilità sua, quella dell’interesse che rappresenta e, più in generale, quella delle relazioni
pubbliche come professione. Questa precisazione, che assomiglia a un “anatema”, risulta necessaria poiché la
trasparenza del relatore pubblico4 è (ma le eccezioni esistono sempre) condizione imprescindibile di efficacia.
Come è possibile, infatti, immaginare un influente orientato nel medio-lungo periodo da un operatore il quale,
nell’esercizio della sua attività, non agisce in modo trasparente, non esplicita i suoi interessi e neppure gli obiettivi
che persegue? E ancora: come si può pensare che un operatore, conosciuto nella sua comunità professionale per
svolgere la sua attività con modalità non trasparenti e comunque discutibili, possa raggiungere quel minino di
consenso sociale che gli permetta di operare in via continuativa con successo? Naturalmente, questa “condizione
di efficacia” vale soltanto per chi svolge l’attività professionale in modo continuativo. Dunque, se gli influenti
avessero piena consapevolezza della diversità sostanziale fra un dilettante e un professionista, e delle implicazioni
deontologiche e operative di tale diversità, l’identità percepita delle relazioni pubbliche sarebbe assai diversa da
quella che è, e molte signore “bene”, ex politici, ex giornalisti, ex consulenti, ex avvocati non affollerebbero la
professione come fanno oggi in misura crescente. Del resto, è impensabile, anche se sono in molti a desiderarlo, il
fatto di porre oggi una barriera all’ingresso per l’esercizio delle attività di relazioni pubbliche. Essendo queste,
come vedremo meglio più avanti, strettamente connesse alle dinamiche del “discorso pubblico” in una qualsiasi
società democratica, una barriera all’ingresso assumerebbe un insopportabile sapore corporativo, non dissimile
dall’esistenza, per fortuna, soltanto in Italia, Brasile, Panama, Perù e Nigeria, di un Ordine dei Giornalisti, istituito
4
Una relazione può dirsi trasparente in presenza dei seguenti passaggi:
- dichiarazione della propria identità;
- dichiarazione del soggetto che si rappresenta (questo vale non solo per i consulenti);
- dichiarazione dell’obiettivo che si persegue.
C’è anche un quarto, ulteriore passaggio applicabile solamente ove non si corra il rischio di divulgare informazioni utili alla
concorrenza: ed è la dichiarazione delle modalità con cui si intende perseguire l’obiettivo.
Il contenuto delle informazioni deve, inoltre, essere tempestivo, veritiero e attenersi come minimo alle norme di legge.
Ma questi ultimi passaggi hanno a che fare con altre caratteristiche della comunicazione e attribuirli al concetto di trasparenza
rischia di generalizzarlo e di svilirlo nella sua importanza.
per legge5. Assai diverso sarebbe invece il riconoscimento che l’opinione pubblica più informata potrebbe
attribuire a chi, nello svolgere la propria professione, entrasse a fare parte di una associazione professionale come,
per esempio, la FERPI (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana), perché:
– ha maturato almeno cinque anni di esperienza professionale dimostrabile;
– ha superato un colloquio di ammissione con una commissione di pari;
– si è impegnato, pena il decadimento dell’iscrizione, ad accumulare ogni triennio crediti di formazione e
aggiornamento professionale, insieme a una verifica (sempre condotta da pari) dell’effettiva permanenza dei
requisiti professionali che, a suo tempo, ne avevano consentito l’accettazione.
Considerando questo ragionamento preliminare, forse un po’ semplicistico ma, crediamo, sufficientemente
razionale, l’annosa questione delle relazioni pubbliche come strumento di persuasione occulta perde una parte
consistente della sua forza, anche se, chiaramente, non tutta. Infatti, occorre considerare che gli iscritti alla FERPI
sono 1.000, contro una stima di 70.000 operatori in Italia: 40.000 dei quali operativi nel settore pubblico (uffici
stampa, uffici del portavoce e uffici relazioni con il pubblico); 10.000 nel settore privato (imprese); 5.000 in
quello associativo (terzo settore) e altrettanti nelle società di consulenza, studi professionali oppure liberi
professionisti. La situazione non è molto diversa nel resto del mondo. Si calcola infatti che siano almeno 3 milioni
i relatori pubblici attivi, ma che non più di 250.000 partecipino a una delle diverse associazioni professionali
esistenti, che possono essere suddivise in associazioni:
-
nazionali di persone (come la FERPI in Italia o la PRSA negli Stati Uniti);ù
nazionali di imprese (come Assorel in Italia o la PRCA in Inghilterra);
internazionali di persone (come la IPRA o la IABC);
regionali di persone (come CERP in Europa o CONFIARP in America Latina);
settoriali (come INRI per la relazione con gli investitori o IACP per la comunicazione politica);
globali (come la Global Alliance for Public Relations and Communication Management, unica nel mondo
che si propone come organizzazione “ombrello” per tutte le altre, ma che poggia le sue basi sulle
associazioni nazionali di persone).
In sintesi, quindi:
-
la trasparenza è necessaria fra il relatore pubblico e il suo diretto interlocutore;
il fatto che il lettore comune di un qualsiasi giornale, un cittadino normale che intenda giudicare l’operato
di un decisore pubblico o un consumatore che decida di acquistare un qualsiasi prodotto o servizio
possano maturare un’opinione, oppure compiere una scelta, anche perché orientati da persone che
ritengono influenti, le quali -a loro volta- possono essere state influenzate da attività consapevoli di
relatori pubblici, è un problema che riguarda unicamente il rapporto fra l’influente e i suoi influenzati.
Se si interpreta in questo modo la questione non è chiaro dove possa risiedere la persuasione occulta.
5
Sulla questione della regolazione è in corso un vivace dibattito (http://www.globalpr.org) tra regolazione della professione
di per sé e/o regolazione delle pratiche specifiche della professione che maggiormente impattano sull’interesse pubblico.
Nella prima rientrano i casi di Brasile, Nigeria, Panama e Peru in cui una legge dello Stato disciplina l’esercizio della
professione. Nella seconda rientrano i casi di quei tanti Paesi, a partire dall’Italia, che in misura maggiore o minore,
prevedono la regolazione per legge (hard) o per regolamento (soft) di alcune attività delle relazioni pubbliche, come la lobby,
le investor relations, la comunicazione politica… Una interessante ‘terza via’ alla questione della regolazione e alla tutela
dell’interesse pubblico si è aperta nel Febbraio 2005 con la concessione da parte del Governo britannico di un riconoscimento
giuridico alla associazione professionale inglese (CIPR). Attraverso questo riconoscimento, che la Ferpi italiana persegue dal
1970, l’associazione professionale rappresenta la professione, definisce e regola i criteri deontologici e di accreditamento
professionale e partecipa attivamente ai processi decisionali che tendono a regolare le specifiche pratiche professionali che
maggiormente impattano sull’interesse pubblico.
Naturalmente il problema non è così semplice, ma se non si parte da questo approccio di base si rischia di
assumere posizioni irragionevoli.
1.3
Manipolazione
È curioso ricordare come l’espressione “persuasore occulto”, resa popolare quasi cinquant’anni fa dal saggio di
Vance Packard, The Hidden Persuaders, del 1957, fosse diretta a indicare gli operatori della pubblicità e non delle
relazioni pubbliche. È curioso, poiché è difficile trovare un’altra attività così palese ed esplicita come la
pubblicità. Oggi, fa sorridere l’idea che potesse suscitare scandalo un libro in cui si “rivelavano” nozioni come
l’immagine di prodotto o la fedeltà di marca. Ma in quegli anni lo scandalo ci fu, e come. Fino ad allora infatti, la
pubblicità – disciplina della comunicazione d’impresa che si propone soprattutto di creare e rafforzare una
immagine di marca (brand image o brand identity) – aveva attirato soltanto un interesse secondario fra gli studiosi
sociali. Fu il prorompente avvento della televisione negli Stati Uniti degli anni Cinquanta ad offrire alla pubblicità
uno straordinario canale espressivo che, grazie anche a una positiva congiuntura economica, fece incrementare
vertiginosamente – per la prima volta e con modalità consistenti e durature – i consumi di massa con
l’affermazione dei supermercati e degli FMCG (fast moving consumer goods). Di qui, dalla constatazione
oggettiva di una vistosa modifica dei consumi indotta in larga parte dalla pubblicità televisiva, le preoccupazioni
di molti analisti e critici sociali, fra i quali Vance Packard. Nel suo pamphlet egli svela e mette a nudo per la
prima volta i segreti di una attività che si propone di convincere i consumatori a compiere azioni non sempre
volute e, magari neppure consapevolmente desiderate. Packard considera “oscena” l’idea che la sola differenza tra
due prodotti possa consistere in una loro diversa “immagine” trasferita dalla pubblicità. Il fatto, poi, che un
pubblicitario possa addirittura condurre ricerche di natura psico-sociale sui consumatori prima di creare il
messaggio, al fine di pre-testarne l’accoglienza, gli suonava “sinistra”. Per capire quanta acqua sia passata sotto i
ponti da allora, si pensi che già dal 1986 gli investimenti delle imprese in ricerche per conoscere l’impatto della
comunicazione dei prodotti/servizi hanno superato quelli in ricerche per conoscere cosa i consumatori pensino
degli stessi prodotti/servizi.
Nelle società postindustriali di oggi – con qualche occasionale ritorno di fiamma proibizionista di soggetti
talvolta anche influenti della comunità politica e sociale – la pubblicità è attività generalmente accettata e
riconosciuta, e la conoscenza dei suoi principali processi interni abbastanza diffusa. È una attività in cui si
stabilisce una relazione fra:
– l’inserzionista, il quale acquista lo spazio di un “mezzo” per trasmettervi un messaggio, normalmente
elaborato da una agenzia di pubblicità. Questo spazio viene venduto direttamente dall’editore del mezzo
oppure da un suo concessionario, più o meno esclusivo;
– l’editore, il quale vende uno spazio su un proprio mezzo, immediatamente riconoscibile come pubblicità dal
lettore, direttamente o tramite un concessionario a un inserzionista rappresentato da una agenzia di pubblicità o
da un centro media (sorta di gruppo di acquisto);
– il consumatore del mezzo il quale lo acquista sapendo bene che vi troverà anche la pubblicità, e che questa è
pagata dall’inserzionista.
Più trasparente di così! I due anelli della catena, l’inserzionista e il destinatario del messaggio pubblicitario, si
trovano accomunati da un patto esplicito e palese: il primo utilizza nel suo messaggio immagini, metafore,
iperboli, evoca sentimenti, emozioni e trasferisce informazioni – unidirezionali, meticolosamente controllate,
asimmetriche ed erga omnes – che si propongono di rafforzare una identità di marca e/o di stimolare un
comportamento di acquisto; il secondo ne è del tutto consapevole e, in qualche caso, anche divertito e
compiaciuto.
Assai diverso invece è l’ambito di intervento delle relazioni pubbliche, che si trascinano da sempre un’ombra
di disciplina “manipolatoria” proprio perché in molti casi le loro attività non sono palesi al grande pubblico. Non
passa giorno che, su qualche giornale o rivista, le relazioni pubbliche non vengano accusate delle peggiori
nefandezze.6 Per lo più, le critiche derivano da un equivoco di base: pochissimi infatti sanno che le attività di
relazioni pubbliche, normalmente, si rivolgono a pochi soggetti, selezionati perché ritenuti influenti, affinché
assumano decisioni, oppure orientino opinioni, atteggiamenti e comportamenti di altri, in merito a questioni
rilevanti per le organizzazioni che a quelle attività danno vita.
Detto ciò, non v’è dubbio che vi siano comunque diversi margini di ambiguità.
1.4
Ambiguità
Il tema dell’ambiguità è sicuramente importante ed è bene affrontarlo subito, affinché sia chiaro che ci inoltriamo
su un terreno ricco di sfumature, dove è arduo distinguere il bianco dal nero, ma anche – e forse proprio per
questo – un terreno affascinante. Ci si propone, infatti, di delineare i connotati di una professione che si realizza
nel pieno della contemporaneità, là dove vanno a incrociarsi i sistemi di relazione fra la società politica (i partiti,
le istituzioni, i gruppi di interesse, i movimenti della società civile), la società economico-finanziaria (le imprese,
le loro associazioni, i sindacati, i gruppi di pressione, i mercati finanziari) e la società dell’informazione (le
agenzie, i quotidiani, i periodici, le radio, le televisioni, i new media, gli operatori della cultura e dell’educazione).
È un incrocio assai friabile e, per molti aspetti irto di asperità, fra quelle che possiamo definire le tre principali
componenti della nostra vita associata e che, per molteplici ragioni, si trovano a essere in rapida e imprevedibile
trasformazione e sovrapposizione. È utile parlarne se non altro perché ciò consente di capire meglio il mondo in
cui viviamo, di averne maggiore consapevolezza e di governare con più efficacia le relazioni che intratteniamo
con la società. È utile parlarne anche perché ci permette di imparare a riconoscere le relazioni pubbliche quando
queste vengono dirette verso di noi e con noi chiedono di aprire o sviluppare un dialogo oppure – e succede anche
questo – quando esse vengono dirette contro di noi per modificare, senza essere sempre esplicite e
immediatamente percepibili, qualche nostra opinione o comportamento. Oggi viviamo in un mondo in cui retorica
ed esagerazione (gli anglosassoni parlano più crudamente di hype, “iperbole”) tendono a prevalere e a sostituirsi a
quella che una volta sembrava, o comunque si chiamava “sostanza”: un mondo in cui una notizia non esiste se
non viene accompagnata da uno “pseudoevento”, che si trasforma nella vera notizia7.
Non si capisce perché le relazioni pubbliche debbano/possano sfuggire alla dannazione dell’ambiguità in
una società in cui la “comunicazione” ha assunto valenze strutturali; in cui le sue leggi scandiscono il tempo
dell’agenda politica, sociale e culturale del Paese; in cui il sistema dei media si è trasformato in un impressionante
impasto di marmellata ove informazione, pubblicità, comunicazione, retorica, reality, trash e relazioni pubbliche
si intrecciano e giornalisti, editori, pubblicitari, relatori pubblici, politici, imprenditori, analisti e investitori
valicano costantemente i rispettivi confini professionali.
6
Scrive Kenny Ausubel, fondatore di Bioneers, un network di ambientalisti: “di tutte le orrificanti tecnologie distruttive del
XX secolo, la più pericolosa è costituita ragionevolmente dalle relazoni pubbliche!!!”. Ancora, una recente ricerca della
Public Relations Society of America (2002) – sebbene mai pubblicata – ha evidenziato come le relazioni pubbliche siano la
professione verso cui gli americani provano minor fiducia e sicurezza. La Global Alliance, tramite l’approvazione del
Protocollo Globale sull’Etica avvenuta nel 2003, si muove per tutelare l’interesse pubblico affermando anche che, laddove un
relatore pubblico si trovi a rappresentare un interesse privato in conflitto con quello pubblico, deve privilegiare quest’ultimo.
È un concetto di difficile interpretazione e di difficilissima applicazione, ciò non di meno è una affermazione importante.
7
Nel lontano 1962 lo storico americano Daniel Boorstin, nel suo pamphlet The image… or what happened to the American
Dream, aveva rivolto una pungente critica sociale alla consuetudine di organizzare un evento ad hoc per diffondere una
notizia, al punto che è poi l’evento stesso a fare notizia, oscurando l’eventuale informazione originaria. Per l’autore eventi
(nel vero senso della parola) sono da considerarsi i maremoti, gli uragani, le guerre….mentre quelli costruiti artificialmente
sono da considerarsi “pseudoeventi”, iniziative inventate dalle organizzazioni esclusivamente per attirare l’attenzione di uno
o più pubblici. In quell’opera Boorstin critica la pervasività di questi “pseudoeventi” poiché contribuiscono a sovraccaricare
in maniera irresponsabile l’ambiente comunicativo affollando di byte effimeri il sistema dei media e la testa delle persone.
1.5
Sostanza
Le relazioni pubbliche sono oggi, a tutti gli effetti, una disciplina della comunicazione organizzativa e fanno parte
della scienza del management la quale, a sua volta, si occupa della gestione delle organizzazioni complesse.
Affermare che le relazioni pubbliche sono parte integrante della scienza del management significa attribuire loro
un ruolo che si realizza prevalentemente nell’ambito delle organizzazioni complesse (governi, enti locali,
organismi sovranazionali, imprese, associazioni, non profit, enti).
È una scelta certamente discutibile che rischia anche di “tagliare fuori” alcuni segmenti storici delle relazioni
pubbliche come, per esempio, la press agentry oppure le celebrity pr: attività che vedono l’operatore
rappresentare, soprattutto presso i giornalisti, un “cliente-persona”, un attore, uno scrittore, un politico, con
particolare attenzione alla cosiddetta “visibilità”, alla “creazione” della notizia, o dell’evento che fa notizia. Fra le
tante espressioni usate dai critici per definire i relatori pubblici – ma Sir Tim Bell, grande professionista inglese,
afferma di non sentirsi offeso quando viene chiamato così – è quella di “spin doctor”, ove l’uso del termine
doctor implica comunque una specializzazione, un’applicazione, un impegno, una competenza, mentre spin deriva
dal linguaggio della fisica, poi trasferitosi al baseball (la spin ball: una palla cui il lanciatore imprime un effetto
speciale). Dunque, spin doctor come esperto che aggiunge un effetto speciale (alla realtà). A questo proposito,
uno degli studi più accurati della storia delle relazioni pubbliche negli Stati Uniti e delle interrelazioni di queste
con la cronaca politica, sociale ed economica, a cura di Stuart Ewen, è intitolato proprio PR! A Social History of
Spin. Nella storia americana delle relazioni pubbliche, Phineas T. Barnum, famoso impresario di circhi equestri
della seconda metà dell’Ottocento, è il più illustre esempio di press agent. Egli era dotato di uno straordinario
talento per attirare l’attenzione delle prime pagine dei giornali nelle città in cui si avviava a presentare il suo
spettacolo, creando di giorno in giorno storie fantasiose sulla vita privata dei suoi animali, al punto che ancora
oggi “a Barnum and Bailey world (just as phony as it could be)” – dai versi di una nota canzone americana degli
anni Trenta del secolo scorso (Paper Moon) – è un modo per indicare un mondo falso, di cartapesta, inventato.
Del resto, il primo dei quattro modelli di relazioni pubbliche razionalizzati da James Grunig nel 1984 (si veda il
capitolo 5), quello della “press agentry”, prescinde nei suoi postulati persino dalla verosimiglianza delle
informazioni che vengono trasferite ai media.
Tuttavia, pur confermando che anche la press agentry e le celebrity public relations ne sono parte legittima e
importante, preferiamo sostenere un’impostazione di taglio prettamente sistemica, manageriale e organizzativa
delle relazioni pubbliche dato che, dal secondo dopoguerra, e con intensità crescente negli ultimi trent’anni, le
attività di relazioni pubbliche si sono strettamente insediate al centro della gestione delle organizzazioni
complesse, e non sembrano esservi particolari segnali di un’inversione di tendenza. E ancora, le stesse attività di
press agentry e di celebrity public relations si sono molto evolute negli anni fino a diventare attività rilevanti,
quando non addirittura dominanti, anche nelle organizzazioni complesse. L’ufficio stampa o relazioni con i
media, come l’ufficio immagine, sono infatti quasi sempre presenti nelle organizzazioni importanti e i loro
responsabili sono sempre più frequentemente parte della coalizione dominante. Le celebrity pr, per alcuni
studiosi, sono addirittura diventate una vera e propria disciplina, al punto che l’autorevole Philip Kotler ha loro
dedicato un libro8 e sui mercati anglosassoni le celebrity public relantions rappresentano un segmento del mercato
in grande crescita, al punto che la coalizione di associazioni professionali che ha dato vita al progetto XPRL
(Extensible Public Relations Language, un progetto per creare un linguaggio informatico universale dedicato alle
relazioni pubbliche) le include fra le attività prevalenti della professione9.
È però importante sottolineare l’appartenenza delle relazioni pubbliche alla gestione delle organizzazioni
perché ancora oggi, persino fra diversi operatori, esse vengono considerate in modo riduttivo come una funzione
8
Kotler P., Rein I., Stoller M., High Visibility: the Professional Guide to Celebrity Marketing, McGraw Hill, New York
1988; trad. it. Alta Visibilità: marketing delle celebrità, Isedi, Torino 1990. In questo libro gli autori enfatizzano il concetto di
visibilità da intendersi come acceleratore di successo in presenza di un mercato altamente competitivo in cui i soggetti che
aspirano a emergere sono tantissimi.
9
. Il concetto di celebrità non è da considerarsi solo ed esclusivamente con riferimento allo star system ma rientrano in
un’accezione estensiva anche i leader aziendali, politici, sociali e culturali.
di organizzazione di eventi e cerimoniale, in contrapposizione alle relazioni esterne, alla comunicazione o
immagine: tutti termini equivalenti e accomunati soltanto dalla reticenza di molti operatori e di molte
organizzazioni a usare in ogni specifica situazione quello più appropriato. D’altra parte, è importante ricordare
che non vi è proprio nulla di riduttivo nell’organizzare un evento o nell’applicare il cerimoniale. In entrambi i
casi, si tratta di attività che richiedono una elevata professionalità e rispetto alle quali si sono formati, negli anni,
corposi bagagli di conoscenza, proprio come è avvenuto per l’ufficio stampa e la lobby oppure per le relazioni
culturali e quelle internazionali e così via, tutte attività specialistiche che, come vedremo, declinano le attività di
relazioni pubbliche.
Questa insistente, patetica e perfino grottesca “febbre” degli operatori nel volersi definire diversamente da
“relatori pubblici”, considerato termine screditato – e ora anche di molti docenti e studiosi cui viene riservato a
livello accademico (e per le stesse ragioni) il medesimo ostracismo – sconta una davvero paradossale
incompetenza professionale. Non può sfuggire infatti che non è cambiando nome e continuando a comportarsi
come prima che si può pensare di recuperare reputazione e credito professionale. Se è vero (come è -almeno
questo- fuori di dubbio) che relazioni pubbliche efficaci a medio termine sono quelle che comunicano i
comportamenti effettivi, assume allora priorità assicurare che i comportamenti siano coerenti almeno con quanto
l’interesse pubblico può legittimamente attendersi. E questo compito non può che spettare allo stesso interesse
pubblico (attraverso una legge erga omnes che imponga comportamenti sostenibili), oppure alla comunità
professionale (ed è quello che, pare di capire, la maggioranza degli operatori preferirebbe). Sfuggire a questa
realtà cambiando nome, rifiutando di farsi assimilare a colleghi che fanno esattamente le stesse cose, costituisce
una inconsapevole e anche abbastanza colpevole fuga dalla realtà e dalle proprie responsabilità.
Alle relazioni pubbliche vengono oggi attribuite dagli studiosi tre (talvolta quattro, a seconda delle scuole)
diversi ruoli professionali:
– ruolo tecnico o operativo, che consiste nell’attuazione di programmi di relazioni pubbliche, normalmente già
progettati e definiti;
– ruolo gestionale o manageriale, per svolgere il quale l’operatore necessita, oltre che delle competenze già
indicate, di una capacità di coordinamento delle risorse tecnico-operative;
– ruolo strategico, in relazione al quale l’operatore partecipa alla “coalizione dominante” dell’organizzazione e
contribuisce a definire quelle strategie che consentano di raggiungere gli obiettivi perseguiti interpretando –
tramite un’attenta fase di ascolto preventivo – le aspettative e gli obiettivi dei cosiddetti “pubblici influenti”.
Per gli studiosi Betteke Van Ruler e Dejan Vercic10, il ruolo strategico assume due profili diversi da tenere
distinti: da un lato un ruolo “riflettivo” (reflective) che implica un continuo negoziato all’interno della coalizione
dominante a tutela di una corretta interpretazione delle aspettative dei pubblici influenti; dall’altro un ruolo
“educativo” per cui il relatore pubblico assiste gli altri componenti della coalizione dominante nella gestione dei
rispettivi sistemi di relazione con i pubblici influenti assicurando la coerenza dei messaggi e la diffusione delle
competenze relazional-comunicative, innescando una dinamica virtuosa che porterà quella organizzazione a
‘migrare’ dall’essere solamente ‘comunicativa’ ad essere pienamente ‘comunicante’.
Rimane tuttavia, e bisogna prenderne atto, se non altro per capirne fino in fondo le ragioni, il fatto che
l’espressione “relazioni pubbliche” non riscuote gradimento nei “piani alti” delle gerarchie aziendali, fra gli stessi
operatori, nell’accademia e neppure fra i consulenti di organizzazione, coloro i quali disegnano gli organigrammi
e definiscono i vari “titoli” delle funzioni della coalizione dominante.
Le ragioni sono diverse e alcune vengono indicate di seguito per dare il sapore della discussione che da
molti anni si agita in tutto il mondo su questa questione (the naming issue)11.
10
Dejan Vercic e Betteke van Ruler sono gli autori di Bled Manifesto on Public Relations, 2002 (scaricabile da
http://www.bledcom.com), un importante tentativo della scuola europea per evidenziare e razionalizzare le specificità
continentali rispetto alla tradizionale matrice anglo-americana nella pratica delle relazioni pubbliche.
11
È curioso notare come già al congresso europeo delle relazioni pubbliche tenutosi a Roma nel 1986, lo svedese Goran
Sjoberg sottolineava una auspicabile omogeneità nella definizione della funzione svolta dai relatori pubblici.
L’espressione “relazioni pubbliche” viene comunemente utilizzata per indicare le attività più diverse e
non esiste alcuna protezione dal suo abuso, che è continuo, e non solo nel nostro Paese (il PR di discoteca, la PR
massaggiatrice, il PR portaborse). In Italia, inoltre, si usano indifferentemente le due espressioni “pubbliche
relazioni” e “relazioni pubbliche”. La prima dizione è errata e deriva da un’impropria traduzione dell’espressione
inglese “public relations” (nel senso di relazioni con i pubblici influenti). Questa anomalia ha lasciato del tutto
indifferenti gli stessi operatori, che – anzi – sono i primi a non curarsi del nome della loro attività professionale: è
il classico caso del ciabattino che gira con le scarpe rotte. A nessun francese verrebbe in mente di chiamarle
publiques relations, nessun spagnolo le chiamerebbe publicas relationes in Italia invece…
Del resto, è anche un fatto che i relatori pubblici sono stati, e sono ancora oggi, responsabili o complici di
comportamenti e decisioni discutibili sul piano etico, culturale, sociale, economico e, last but not least, estetico.
Ciò permette di comprendere la titubanza di alcuni ad utilizzare tale nome per indicare attività che, invece, per la
maggior parte, sono serie, legittime, rilevanti, eticamente irreprensibili. Inoltre, i giornalisti, ben consapevoli di
quanto il loro lavoro dipenda dalle relazioni pubbliche, ma prigionieri del mito del giornalismo indipendente e
contro il potere, non sempre gradiscono che i lettori ne siano al corrente, e questo crea un certo astio. Così, gli
operatori di relazioni pubbliche -quelli che non fanno i buttafuori di discoteca, il portaborse del politico o il
massaggio di appartamento- cercano, privi di senso del ridicolo, di distinguersi definendosi con un altro nome.
Non a caso, quindi, la questione del nome emerge periodicamente all’attenzione degli organismi di rappresentanza
professionale. Quando tale quaestio terminerà di riemergere nel dibattito pubblico a intervalli irregolari, spesso
indotta da fatti di cronaca, vorrà dire che la professione avrà finalmente raggiunto la sua piena maturità.
1.6
Cerniera
Le prime a fare un uso organizzato, disciplinato, consapevole e diffuso delle relazioni pubbliche sono, agli inizi
del XX secolo, le imprese private, che affidano a operatori provenienti, per la maggior parte, dal giornalismo o
dalla avvocatura12 il ruolo di “cerniera” con due sistemi di interlocuzione decisivi per gli obiettivi perseguiti e
divenuti, con l’avvento della società industriale, troppo complessi per essere gestiti in prima persona
dall’imprenditore: la decisione pubblica (il governo, il parlamento, l’amministrazione pubblica, i partiti) e
l’opinione pubblica (la stampa, la radio, gli altri media e i leader di opinione). Di per sé, questo ruolo di cerniera
assume necessariamente connotazioni ambigue e il suo successo stesso dipende, in gran parte, dalla capacità del
relatore pubblico di accreditarsi, di rendersi credibile, e quindi anche di integrarsi presso questi due sistemi di
interlocuzione, fino quasi a rendersi da loro indistinguibile. Questo però senza mai rinunciare alla piena e
trasparente enunciazione degli interessi rappresentati. Un compito non sempre agevole, talvolta impossibile,
sovente delicato e difficile. Vedremo infatti più avanti come fiducia e credibilità – condizioni ineludibili di una
relazione che consenta di produrre un cambiamento consapevole e condiviso – siano strettamente legate alla
trasparenza degli interessi rappresentati. E il tutto viene ulteriormente complicato dal fatto che il sistema
economico, il sistema politico e il sistema dell’informazione, fortemente intrecciati (si pensi solo al caso italiano
di Berlusconi), misurano la rispettiva legittimità con indicatori diversi: il profitto, il voto e il numero di copie
vendute.
Eppure, tutti e tre i sistemi hanno egualmente bisogno di essere credibili e di attirare il consenso di:
– azionisti e consumatori, per quanto riguarda le imprese;
– elettori, per i politici;
– lettori, per i giornali.
12
Come vedremo meglio nel prossimo capitolo, la prima agenzia operativa di relazioni pubbliche è stata la Publicity Bureau
di Boston nel 1900. Nel 1902 è stata la volta dell’agenzia dell’avvocato William Wolff Smith a Washington che per primo
iniziò a svolgere in maniera sistematica l’attività di lobbying. Nel 1904 Ivy Ledbetter Lee fonda la Parker & Lee, agenzia
specializzata in relazioni con i media.
In sostanza si tratta sempre delle medesime persone, osservate da diversi punti di vista, le cui opinioni, i cui
atteggiamenti, i cui comportamenti e le cui decisioni vengono influenzate da diversi agenti economici, politici e
sociali, per di più in frequente conflitto fra di loro. Di qui anche la constatazione che nelle relazioni pubbliche, e
in generale nella comunicazione delle organizzazioni, la competizione non si limita soltanto a organizzazioni
concorrenti attive nello stesso settore, ma si estende a tutte quelle che, con maggiore o minore consapevolezza, si
sforzano di occupare lo “spazio di voce” (share of voice) nei media e, soprattutto, lo “spazio di attenzione” (share
of mind) di azionisti, consumatori, elettori e lettori.
Negli anni Sessanta e Settanta, l’impatto comunicativo di una organizzazione, soprattutto per quanto
riguardava i beni di largo consumo, veniva misurato in termini di percentuale, di share of voice: fatto 100 lo
spazio occupato sui media da parte di una determinata categoria di prodotti (per esempio, i detersivi o i saponi), lo
share of voice di una marca ne rappresentava l’x per cento. E in quegli anni, la quota di mercato effettiva di una
marca corrispondeva, almeno in proporzione relativa, abbastanza fedelmente allo share of voice. La situazione in
questi anni è fortemente cambiata a causa del cosiddetto “clutter”: lo straordinario affollamento di media e
messaggi13, che ha finito per determinare una sorta di assuefazione (mitridatizzazione?) generale. Le
organizzazioni hanno quindi spostato l’attenzione comunicativa dallo share of voice, che rimane pur sempre
determinante, se non altro in chiave difensiva (“se perdo punti in percentuale rischio anche di perdere quote di
mercato”), allo share of mind. Oggi, come già detto, siamo sommersi dal diluvio informativo e dalla
comunicazione apparente e spettacolare. Attirare l’attenzione, lo share of mind, è dunque diventato l’obiettivo
prioritario per le organizzazioni, al punto che autorevoli analisti economici e sociali sostengono che siamo entrati
in una “economia dell’attenzione”.
L’ambiguità delle relazioni pubbliche risiede dunque nel fatto che esse si occupano delle interrelazioni fra
comunità economica, politica e dell’informazione e, inoltre, agiscono come “sale” della dinamica sociale, che per
definizione è tutt’altro che chiara, cristallina e prevedibile. In questa dinamica ogni soggetto dichiara una propria
identità e, dichiarandola, sviluppa con altri relazioni ritenute funzionali al raggiungimento degli obiettivi che
persegue. L’efficacia di queste relazioni è correlata, soprattutto, alla familiarità dei contenuti dei messaggi
trasferiti e alla fiducia/credibilità ispirata dal soggetto fonte di quel messaggio, ma anche, com’è ovvio, dal
relatore pubblico che se ne fa portavoce. I contenuti del messaggio rispondono a un criterio, per così dire,
oggettivo, mentre la fiducia suscitata dalla fonte primaria o secondaria è quasi interamente soggettiva. Risulta
quindi facile comprendere come sia arduo definire regole valide per tutti, comportamenti sempre accettabili e
metodologie applicabili in qualsiasi situazione. Comunque, un tentativo in tal senso è stato fatto -e da molti annidalle associazioni professionali e, in qualche caso, anche da leggi, norme e raccomandazioni di diversi Stati e
Authorities. Ma è evidente che si tratta, comunque e sempre, di indicazioni di ordine generale, quando non
generiche. A questo si aggiunga -per sottolineare la questione della ambiguità- che, come anticipato all’avvio di
questo capitolo. la relazione fra i soggetti che interloquiscono ha assunto un valore fondamentale nella creazione
del valore prodotto di una organizzazione. E questo impone l’adozione di indicatori condivisi di valutazione della
relazione capaci di dare alle coalizioni dominanti delle organizzazioni e ai loro stakeholder una idea convincente
dell’efficacia di una attività, le relazioni pubbliche, che assorbe risorse sempre più rilevanti. Ne parleremo nel
dettaglio più avanti.
13
A riprova di questo sovraccarico info-comunicativo citiamo l’evidenza riportata da alcuni ricercatori dell’Università
californiana di Berkeley, attenti a valutare il flusso di comunicazione/informazione che circola ogni anno nell’ambiente
circostante (dal nome del progetto, How Much Info?): nel 2003 ciascun essere umano ha ricevuto/ritrasmesso 800 milioni di
byte info-relazionali, con un incremento costante (dalla prima valutazione del 2001) del 30% annuo!
(http://www.sims.berkeley.edu/research/projects/how-much-info-2003)
2. Un po’ di storia
2.1 Edward Bernays
Edward Bernays (1891-1995) nasce a Vienna da Anna Freud, sorella di Sigmund, il quale a sua volta
aveva sposato la sorella del padre di Edward. Il padre della psicoanalisi gli è zio due volte. Insieme ad
Arthur Page e Ivy Lee (si veda poi il paragrafo 2.2), Bernays è il personaggio più emblematico della
storia delle relazioni pubbliche. Nella sua lunga carriera professionale e nell’articolata riflessione
espressa in molteplici saggi e libri, egli riassume in modo esplicito le tante ambiguità delle relazioni
pubbliche di cui abbiamo parlato nel capitolo 11.
Emigrato a New York da ragazzo, nel 1915 si occupa dei rapporti con i giornalisti per i balletti
russi del grande coreografo Diaghilev e nel 1917 lavora anche per Caruso, Nijinsky e Ziegfield. A
Broadway, cuore dello spettacolo americano, diviene rapidamente una celebrità: è il press agent più
ambito. Durante la prima guerra mondiale entra a far parte del CPI (Committee for Public Information)
del ministero della Guerra, creato dal presidente Thomas Wodroow Wilson e, dopo l’armistizio, lavora
nell’ufficio stampa della Conferenza di pace di Parigi. Subito dopo si occupa attivamente del
reinserimento lavorativo dei veterani di guerra. Nel 1920, su richiesta della NAACP (National
Association for the Advancement of Coloured People), promuove ad Atlanta (Georgia) la prima, assai
coraggiosa e provocatoria convention regionale della storica organizzazione per la tutela dei diritti degli
afroamericani. Dal 1923 e per oltre trent’anni, Bernays ha come cliente più fedele la Procter & Gamble,
una delle maggiori aziende americane, fra le prime nel settore dei beni di largo consumo. Per Bernays, la
P & G è il “bread and butter” del suo lavoro e, al tempo stesso, uno straordinario terreno di
sperimentazione creativa, in un contesto di cultura aziendale molto avanzata e disponibile
all’innovazione. Nel 1928 gli viene chiesto di “riscaldare” l’identità del presidente Elvin Coolidge,
considerato dall’opinione pubblica freddo e distante. Bernays prenota, a tarda notte, un intero treno in
partenza da New York per Washington dopo la chiusura dei teatri di Broadway, e lo riempie di celebrità
(attori, cantanti, scrittori): sotto gli obiettivi di fotografi di ogni testata e i microfoni di tutte le radio del
Paese, gli invitati prendono la prima colazione alla Casa Bianca con il presidente e Mrs Coolidge,
mentre il famoso cantante Al Jolson canta in diretta “Keep Cool…idge” (un gioco di parole, keep cool,
“stai buono”), appositamente scritta da Bernays, e... gli americani si riconciliano con il loro presidente.
Nel 1929 organizza una campagna a favore dei diritti delle donne e, in particolare, del loro diritto
a fumare (in alcuni Stati dell’Unione la legge vietava il fumo alle donne); campagna aperta da una
marcia di personaggi famosi lungo la Fifth Avenue. Pochi sapevano (a proposito di esplicitazione degli
1
Numerose le pubblicazioni sull’opera di Bernays. Tra i suoi scritti un posto di rilievo occupano: Crystallizing Public
Opinion, 1922; The Enginireeng of Consent, 1956; The later years. Public Relations Insights, 1986.
Diversi anche i testi che hanno scritto della sua attività professionale partendo dal libro di Stuart Ewen PR! The Social
History of Spin,1996, per arrivare fino a quello di Larry Tye, The Father of Spin. Edward L. Bernays and the birth of Public
Relations, 1998. Da segnalare infine la biografia online di Bernays consultabile su http://www.prmuseum.com.
interessi rappresentati!) che Bernays lavorava in quel tempo anche per la American Tobacco Company.
Nel 1930, in piena Grande Depressione e con le grandi aziende prese di mira dalla stampa e
dall’opinione pubblica, la General Electric e la Westinghouse affidano a Bernays la commemorazione
del cinquantenario della scoperta della luce elettrica. Sempre negli anni Trenta, lavora per le Ferrovie
tedesche e per questo verrà in seguito inquisito dal Congresso, con l’accusa di avere fatto propaganda a
favore della Germania nazista. Nel 1932, lavora per la General Motors e, nel 1939, per la Philco. Nel
1960, dopo avere abbandonato l’incarico per l’American Tobacco, aiuta Action for Smoking and Health
per far conoscere agli americani i rischi del fumo. Attivissimo fino agli ultimi giorni di vita, le biografie
dicono che all’età di 103 anni dalla sua casa nel Massachusetts, dove una compagna cinquantenne lo
accudì fino agli ultimi giorni di vita, riceveva assiduamente ammiratrici di giovanissima età e nel
contempo erogava consulenze telefoniche ai clienti per la straordinaria (anche per oggi!) tariffa di 1.000
dollari l’ora. La sua battaglia finale (persa!) fu la promozione di una legge per il riconoscimento
giuridico delle relazioni pubbliche, insieme all’istituzione dell’obbligo di registrazione pubblica in un
apposito albo per gli operatori2. I suoi avversari più decisi, proprio su questa fondamentale battaglia di
trasparenza, furono (e sono) gli stessi operatori di relazioni pubbliche. Alla sua morte, il settimanale Life
lo ha annoverato tra i cinquanta americani più influenti del XX secolo.
2.2 Arthur Page
Arthur Page (1883-1960) si laurea nel 1905 a Harvard e fa il correttore di bozze nell’azienda paterna, la
Doubleday, Page & Co., una delle più autorevoli case editrici americane, con la quale collaborerà fino al
1927. Fa una rapida carriera, divenendo prima redattore del periodico World’s Work e quindi
vicepresidente. L’esperienza editoriale gli apre le porte di un vasto sistema di relazioni che va dai fratelli
Wright (inventori del primo aeroplano) al presidente Franklin Delano Roosevelt. Nel 1917, con
l’intervento americano nella prima guerra mondiale, lavora per due anni in Europa come ufficiale
addetto alla redazione di materiali di propaganda da diffondere dietro le linee nemiche. Dopo la guerra,
lascia la casa editrice a seguito di un dissidio con Frank Doubleday e accetta l’offerta del compagno di
studi Walter Gifford, divenuto nel frattempo presidente della AT&T, di dirigere le relazioni pubbliche del
colosso telefonico alla condizione di partecipare alla definizione e allo sviluppo delle strategie aziendali.
Nella storia delle relazioni pubbliche, la AT&T ha sempre svolto un ruolo importantissimo in termini di
sperimentazione, innovazione, razionalizzazione e formazione di quadri. Appartengono a Page
affermazioni quali: “Le relazioni pubbliche sono assai più che la gestione della stampa, sono un modo di
essere dell’organizzazione”; e “Ogni azienda nasce con il permesso del pubblico e vive con il suo
consenso”.
Arrivato alla AT&T nel 1927, Page sviluppa una forte iniziativa di “ascolto” commissionando
sondaggi periodici (è il primo a farlo!) per misurare attitudini e opinioni dei consumatori verso l’azienda
e i suoi servizi; convince i suoi collaboratori che i relatori pubblici hanno anche la funzione di
2
Nel settembre 1977 Bernays scriveva un articolo per IPRA Review (divenuta poi IPRA FrontLine) in cui fra l’altro
sosteneva: “[…]le relazioni pubbliche sono diventate una professione. […] professione è una vocazione in cui l’arte viene
applicata a una scienza nella quale l’interesse pubblico, piuttosto che la remunerazione economica, gioca il ruolo prevalente.
Capisaldi di una professione sono: le sue associazioni volontarie di professionisti, il suo corpo consolidato di conoscenze e le
sue articolazioni educative; la sua letteratura; il suo codice di etica. In più i suoi membri sono registrati e autorizzati dallo
Stato. […]Le relazioni pubbliche hanno tutti questi requisiti, salvo uno: l’ultimo.
[…]Le RP produrranno il massimo beneficio quando i suoi operatori saranno formati ed esperti. Questo si potrà
raggiungere quando la professione si batterà per la registrazione e gli esami di Stato, come protezione dell’interesse pubblico
e della stessa professione. Soltanto in questo modo la professione potrà proteggere la società dagli eccessi di coloro che oggi
si chiamano relatori pubblici ma che in realtà non lo sono.”
“coscienza critica” dell’azienda, sostenendo al tempo stesso che le relazioni pubbliche costituiscono il
lavoro di tutti i collaboratori di un’organizzazione e non solo degli specialisti. Nel 1939 afferma: “Le
relazioni pubbliche non sono l’ufficio stampa, e neppure riguardano soltanto il management, sono quello
che tutti in azienda, dal vertice fino all’ultimo collaboratore, dicono e fanno quando sono a contatto con
il pubblico”. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, Page dirige il comitato esercito-marina per
l’informazione alle truppe e, successivamente, viene invitato a riorganizzare le relazioni pubbliche
dell’esercito. È attivamente partecipe del progetto Manhattan (quello della bomba atomica) e nel 1945
scrive il testo con cui, alle 11 di mattina del 6 agosto, il presidente Harry Truman informa gli americani
che un aereo americano ha sganciato la prima bomba su Hiroshima. Alla fine degli anni Quaranta, lavora
a sostegno del piano Marshall approvato nel 1947, e nel 1949 organizza il Comitato nazionale per una
Europa libera (quello che dà vita a Radio Europa libera), ritenuto da molti un’organizzazione
anticomunista finanziata dalla CIA. Attaccato dalla stampa progressista, chiede una commissione di
inchiesta che lo libera da ogni accusa, ottenendo anche un appoggio esplicito dal generale Dwight D.
Eisenhower. Nel 1952 ricambia il favore ricevuto e sostiene con determinazione l’elezione di
Eisenhower alla Presidenza degli Stati Uniti.
I profili di questi due grandi protagonisti della storia delle relazioni pubbliche (Bernays e Page), così
simili nonostante le diversità ideologiche – democratico il primo, repubblicano il secondo – e culturali –
orientato soprattutto dalle scienze psico-sociologiche Bernays, immerso nella politica quotidiana e nel
giornalismo Page – segnalano la straordinaria contiguità delle relazioni pubbliche con la storia del XX
secolo.
2.3 Le origini della professione negli Stati Uniti
Scott M. Cutlip, il più importante storico delle relazioni pubbliche, ha pubblicato nel 1995 e con
parecchio scalpore un affascinante libro3 in cui fa risalire le origini delle relazioni pubbliche:
–
–
–
–
3
alle campagne di informazione realizzate da consorzi di investitori inglesi alla fine del Seicento
per convincere i britannici a diventare coloni e bonificare quelle paludi americane che sarebbero
poi diventati gli Stati della Georgia e della Carolina;
alla nascita e diffusione in tutto il mondo, che risale al Settecento, del mito dello scout Daniel
Boone, per attirare verso le terre dell’Ovest i coloni, delusi dalle paludi ma ormai impossibilitati
a rientrare nel Regno Unito;
alla “tematizzazione” della Dichiarazione di Indipendenza americana dall’Impero britannico
predisposta, alla fine del Settecento, da Samuel Adams e dai suoi seguaci indipendentisti per
attirare il consenso di un’opinione pubblica americana che non vedeva allora grandi ragioni per
staccarsi dal Regno Unito;
agli sforzi degli ultimi anni dell’Ottocento dei grandi capitalisti di impedire un eccessivo
controllo da parte di una stampa che, in quegli anni, iniziava a essere maggiormente
“indipendente” rispetto ai “padroni del vapore”.
Cutlip S. M., Public Relations History. From the 17th to the 20th Century. The Antecedents, 1995. Sulla storia delle relazioni
pubbliche, sempre dello stesso autore si segnala anche The Unseen Power. Public Relations. A History,1994.
Citiamo anche Cutlip, Center, Broom , Effective Public Relations, 1994; trad. it.: Nuovo manuale di relazioni pubbliche, a
cura di Roggero, 2002.
Sono tutti momenti storici in cui operatori di relazioni pubbliche hanno lavorato in modo consapevole e
sistematico per influenzare le opinioni e i comportamenti di altri, e l’interessante studio di Cutlip ne
analizza con meticolosità strategie, programmi e strumenti.
Più tradizionalmente, invece, la nascita delle relazioni pubbliche come professione4 viene
collocata ai primi del Novecento, quando a Boston (1900) nasce la prima società specializzata, la
Publicity Bureau, che esordisce sul mercato gestendo i rapporti con la stampa per conto di un cliente
assai prestigioso: l’Università di Harvard. Lo sviluppo delle relazioni pubbliche segue anche le
dinamiche della politica americana: l’assassinio nel 1900 del presidente William McKinley, legatissimo
al grande capitale monopolistico, porta alla Casa Bianca un Theodore Roosevelt assai più attento agli
umori dell’opinione pubblica. Il nuovo presidente attiva inchieste e indagini sui grandi monopoli privati,
in particolare quello delle ferrovie, che si devono anche difendere dai muckracker, come vengono
definiti quei giornalisti senza “peli sulla penna”, dai quali nasce il mito del giornalismo investigativo
anglosassone. I ricchi proprietari delle ferrovie (i Rockefeller, i Vanderbilt, i Morgan) non possono
accettare che, nel momento in cui invocano il cosiddetto “interesse pubblico” e chiedono soldi al
governo federale per costruire nuove infrastrutture, i giornali pubblichino inchieste in cui vengono
continuamente rivelate le loro malefatte. Nasce, quindi, a Washington nel 1902, la società dell’avvocato
William Wolff Smith, il primo lobbista ufficiale, cui viene affidato il compito di persuadere i politici ad
assicurare i finanziamenti ai proprietari delle ferrovie, indipendentemente da ciò che i giornali scrivono
su di loro. I rapporti con i giornali vengono invece gestiti, a New York, dalla Parker & Lee, nata nel
1904.
Lee, anzi Ivy Ledbetter Lee (1877-1934), è riconosciuto come il padre delle relazioni pubbliche,
anche perché è il primo a teorizzare che il potere economico deve accettare il principio secondo cui il
giornalista ha il diritto di sapere e, quindi, che sia meglio aiutarlo piuttosto che ostacolarlo.5
Particolarmente interessante, nella letteratura sulla storia delle relazioni pubbliche, un saggio di
Marvin Olasky6, in cui l’autore, un liberista “estremo”, sostiene con dovizia di documenti e citazioni che
lungo l’arco della storia americana del ventesimo secolo le relazioni pubbliche sono state una potente
arma di condizionamento dello sviluppo politico e sociale del Paese nelle mani della sinistra americana.
Dal momento in cui – scrive Olasky – alcuni “pseudo-imprenditori” come Morgan, Rockefeller e altri
hanno ritenuto di convincere il governo federale a fornire le risorse finanziarie per la costruzione delle
grandi infrastrutture (ferrovie, strade, ponti, miniere, grandi stabilimenti industriali) per l’unificazione
del Paese e lo sviluppo dell’occupazione, il potere economico si è trovato “obbligato” ad assoldare
operatori di relazioni pubbliche capaci di legittimare presso l’opinione pubblica proprio l’erogazione di
quei fondi in nome di un astratto concetto di “interesse pubblico”. Da qui, ha preso avvio una lunga
deriva (definita dall’autore come “il passaggio dalle relazioni private alle relazioni pubbliche”) che dura
ancora oggi e che vede larga parte dei responsabili delle relazioni pubbliche delle grandi imprese
investire tempo e risorse per legittimare il ruolo sociale del potere economico. Si tratta di attività,
conclude Olasky, del tutto inutili se il potere economico non fosse così inestricabilmente compromesso
con il potere politico e con quello dei media. E questo è avvenuto soprattutto grazie al lavoro degli
4
Anche James Grunig (1984) fa notare come esistessero una serie di attività riconducibili alla pratica delle relazioni
pubbliche che possono essere equiparate a delle pre-manifestazioni – seppur non consapevoli e programmate – della
professione. Sono quelle che lo studioso chiama “public relations-like activities”, identificandovi tutte le attività, a partire
dalla civiltà greca e romana, che miravano all’influenzamento delle opinioni altrui.
5
Riprendendo alcuni passi tratti dalla Dichiarazione dei principi di Ivy Lee: “Questo non è un ufficio segreto; tutto il nostro
lavoro è fatto alla luce del sole. […] I nostri contenuti sono precisi. Ulteriori dettagli su qualsiasi argomento trattato verranno
forniti prontamente e ogni giornalista verrà assistito nel verificare l'esatto stato dei fatti. […] Garantiamo piena informazione
a tutti, anche a coloro che lavorano per i giornali che ci hanno criticato. […] Noi diffondiamo informazioni di cui possiamo
verificare l’esattezza insieme con gli stessi giornalisti. […]”.
6
Olasky M. N., Corporate Public Relations. A New Historical Perspective, 1987.
operatori delle relazioni pubbliche definiti “quasi tutti ideologicamente legati alla sinistra americana”.
Un pamphlet sicuramente fazioso, ma attentamente redatto e ricco di suggestive informazioni.
Nel 1906, alcuni proprietari di miniere di antracite ingaggiano Ivy Lee, ex giornalista, per
stemperare e addolcire gli attacchi dei media contro l’ostilità padronale alle richieste dei minatori, volte
a ottenere salari migliori. Lee riesce a ridurre sensibilmente la tensione convincendo i proprietari a
rispondere, per la prima volta, alle domande della stampa. Nel 1912, lo stesso Lee passa a lavorare per le
ferrovie della Pennsylvania dove, fedele alle ragioni del suo successo, tiene un comportamento
considerato insolito: fornisce alla stampa ogni informazione relativa agli incidenti ferroviari, applicando
una politica informativa trasparente e aperta. Lee lavora quindi per i Rockefeller a partire dal 1917, per
la Croce Rossa durante la prima guerra mondiale, per l’associazione tedesca dei produttori chimici (I.G.
Farben) agli esordi del nazismo e per la Camera di commercio russa quando l’Urss cerca il
riconoscimento americano. Gli ultimi due clienti gli procureranno due diverse inchieste del Congresso
per attività antiamericane.
Negli anni compresi fra l’inizio del secolo scorso e la prima guerra mondiale, le relazioni
pubbliche sono soprattutto la risposta organizzata delle imprese alle critiche mosse dall’opinione
pubblica americana ai comportamenti del grande capitale considerato monopolistico e assoluto. Ai nuovi
professionisti della comunicazione, le aziende affidano l’incarico di elaborare e fornire ai giornalisti
argomenti, più o meno verosimili, che testimoniano la convergenza oggettiva tra gli interessi del sistema
delle imprese e l’interesse generale. Nel 1913, preoccupato di quella che allora poteva sembrare una
vera e propria offensiva delle relazioni pubbliche nella costruzione dell’opinione pubblica americana, il
Congresso vara una legge speciale che vincola a un’autorizzazione preventiva l’utilizzo di fondi
governativi per retribuire “esperti di relazioni pubbliche”. In particolare, la preoccupazione principale
riguarda allora le attività della Hamilton Wright, la prima società di relazioni pubbliche internazionali,
che rappresenta a Washington e con molta efficacia gli interessi economici, politici e culturali delle
Filippine.
Ma con l’arrivo della prima guerra mondiale è lo stesso grande capitale, mosso da inequivocabili
interessi economici, a offrire i suoi servizi di relazioni pubbliche al governo per convincere l’opinione
pubblica americana, tradizionalmente isolazionista, a inviare truppe sul fronte europeo. Una delle più
straordinarie esperienze di quegli anni, in parte organizzata anche da Ed Bernays, è rappresentata dai
fourminutemen7. In pratica e per un anno intero, migliaia di “moltiplicatori” volontari (liberi
professionisti, operatori economici, pensionati, insegnanti, impiegati e casalinghe) dislocati nei centri
abitati di tutto il vasto territorio americano, opportunamente addestrati e coordinati dalla già citata CPI,
pronunciano in continuazione discorsi spontanei, lunghi al massimo quattro minuti, per spiegare le
ragioni che richiedono la partecipazione americana alla prima guerra mondiale: nei cinema, nei bar, nei
mercati, nelle scuole, negli stadi… ovunque vi sia qualche assembramento. L’opinione pubblica
americana, grazie anche al lavoro di questi “fourminutemen”, finisce per appoggiare l’intervento in
Europa.
In proposito, risulta anche di fondamentale importanza il considerevole sforzo di comunicazione
realizzato dal governo britannico. Il primo atto concreto del governo britannico, allo scoppio della
guerra, è infatti quello di far saltare ogni cavo di comunicazione transatlantica fra la Germania e gli Stati
Uniti. Per molti mesi, approfittando anche della lingua comune, il Regno Unito diventa, in tutti gli Stati
Uniti, l’unica fonte diretta di informazioni dal teatro di battaglia. L’opinione pubblica americana viene
così investita da una potente macchina di informazione tutta tesa a dimostrare come la salvezza
dell’umanità dipenda dall’appoggio americano agli inglesi, contro i tedeschi. I tedeschi capiscono troppo
7
Citiamo tra gli altri, Fernando Fasce, La democrazia degli affari: comunicazione aziendale e discorso pubblico negli Stati
Uniti 1900-1940, 2000 e il già citato Stuart Ewen, PR! The Social History of Spin, 1996.
tardi il danno subito e contrattaccano con aggressività comunicativa, esponendosi oltre i limiti della
credibilità8.
Dopo l’armistizio del 1918, si riacutizza il conflitto sociale interno e le imprese affidano ai loro
esperti di relazioni pubbliche l’incarico di contribuire a forgiare quel sistema di valori americani che
pone in primissimo piano l’impresa privata, il mercato, il profitto e la concorrenza. Finita la grande crisi
del 1929, il presidente Franklin Delano Roosevelt lancia il New Deal, ed è, tra l’altro, il primo a intuire
l’importanza della “dimensione visiva” delle relazioni pubbliche affidando alla fotografia sociale il
compito di diffondere nel Paese il senso della rinascita degli Stati Uniti all’insegna di valori simbolo
come il lavoro, i grandi spazi, la terra, la famiglia. L’imponente rilevazione fotografica realizzata, su
disposizione di Roosevelt, dalla Farm Security Administration viene resa gratuitamente disponibile a
tutti i media e vede in campo i migliori fotografi sociali americani.
Nel 1938, anche a seguito delle polemiche sui presunti aiuti alla Germania nazista di operatori
come Ivy Lee e Ed Bernays e sulle attività di rappresentanza di Paesi terzi presso il Congresso da parte
di società come la Hamilton Wright, il Congresso americano approva il Foreign Agents Registration
Act, che obbliga chiunque svolga relazioni pubbliche per conto di un governo straniero a registrarsi
presso un apposito albo e a rendere conto delle sue attività. Qualche decennio dopo (negli anni Sessanta)
verrà istituita un’apposita commissione parlamentare presieduta dal senatore Fullbright, che, a seguito di
testimonianze rese da molti operatori, deciderà ulteriori restrizioni alle attività degli operatori di
relazioni pubbliche per conto di Paesi esteri. Da molti anni, le agenzie di relazioni pubbliche che
operano negli Stati Uniti sono obbligate a dichiarare presso un apposito registro, quali interessi stranieri
rappresentano, quali attività svolgono per conto di questi interessi e quale compenso percepiscono per
realizzarle. Si tratta di dichiarazioni pubbliche e obbligatorie, pena il divieto di esercitare. In una
newsletter settimanale, molto seguita dagli operatori, Jack O’Dwyer informa continuamente su questi
contratti9. Ma c’è di più: ogni lobbista americano è legittimato a svolgere la sua attività soltanto quando
abbia registrato, sempre presso il Congresso o il Senato, oppure presso il Congresso del singolo Stato
ove svolge l’attività, il proprio nome, l’identità dei suoi clienti, gli onorari percepiti e le spese effettuate.
Naturalmente questo non risolve le perplessità che le attività dei lobbisti sollevano in molti benpensanti
e, proprio negli Stati Uniti, le polemiche sono spesso feroci. In ogni caso, è però certo che la
regolamentazione americana impone un minimo di visibilità. In Italia, solo molto recentemente la
Regione Toscana ha approvato una legge che regolamenta i gruppi di interesse.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale impegna nuovamente le relazioni pubbliche a
sostegno della politica estera americana: lo stesso Roosevelt deve per prima cosa convincere gli
americani, come aveva già fatto Wilson alla vigilia del primo conflitto mondiale, delle ragioni del
conflitto e poi, a conflitto avviato verso la vittoria, riattivare le relazioni con le popolazioni dei territori
occupati.
Nel secondo dopoguerra, le grandi imprese americane affidano nuovamente alle relazioni
pubbliche il compito di riprendere il dialogo sociale con l’opinione pubblica. Nel 1945, la Standard Oil
incarica il grande regista cinematografico Robert Flaherty di produrre Louisiana Story, uno straordinario
documentario sulla vita nelle paludi alla ricerca del petrolio. È un trionfo mondiale. Qualche anno dopo,
gli esperti di relazioni pubbliche vengono anche utilizzati per ottenere il consenso del popolo americano
sul piano Marshall (1947) e in seguito per agevolarne l’attuazione in Europa, riducendo le critiche più
accese delle opposizioni politiche nei Paesi beneficiari. Negli anni Cinquanta, il maccartismo (termine
8
Un avvincente resoconto di questa “guerra di comunicazione” si può leggere – insieme a tanti altri casi relativi a conflitti
internazionali: dalla deposizione del presidente venezuelano ottenuta da Ed Bernays per conto della United Fruit, preoccupata
dell’esprorio di qualche piantagione di banane; alla guerra del Golfo del 1992 scatenatasi anche, se non soprattutto, per la
campagna condotta dalla Hill & Knowlton per conto del governo del Kuwait in esilio – nel saggio dello studioso tedesco
Michael Kunczik, Images of Nations and International Public Relations, 1996.
9
Per maggiori informazioni e curiosità: http://www.odwyerpr.com.
che deriva dal nome del senatore ultraconservatore Joseph McCarthy, il quale – a sostegno della
cosiddetta “vera America” e a guerra fredda appena avviata – sferra una durissima offensiva contro
liberali e progressisti accusati di essere al soldo del comunismo bolscevico), il boom economico, la
vittoriosa guerra di Corea guidata dal generale Douglas Mac Arthur e, soprattutto, l’arrivo della
televisione nelle famiglie americane….sono tutti fattori che inducono le aziende a trasformare i propri
apparati comunicativi, orientandoli maggiormente al mercato commerciale per spingere la crescita dei
consumi. È il trionfo della pubblicità, la televisione entra in tutte le case, esplode la comunicazione di
massa e le relazioni pubbliche si adeguano aprendo un nuovo fronte, quello del marketing public
relation ancora oggi largamente prevalente: iniziative che affiancano, per sostenerle, le grandi campagne
di marketing riguardanti i prodotti di largo consumo. La specializzazione delle marketing public
relations diviene rapidamente preponderante nei mercati anglosassoni e questo enorme successo offre
una motivazione economica ai migliori e più intraprendenti consulenti, fino ad allora di fatto liberi
professionisti, per dare vita alle prime grandi agenzie di relazioni pubbliche.
Nel 1954, un attore di secondo piano, Ronald Reagan, viene scritturato come portavoce prima
dalla General Electric e poi dalla National Manufacturers Association, la “Confindustria” americana.
Questa duplice esperienza lo vede percorrere tutti gli Stati per parlare ai lavoratori delle fabbriche e agli
operatori economici, spiegando le scelte di politica aziendale della General Electric oppure le
rivendicazioni della Confindustria americana. In tal modo Reagan si convince a “scendere in campo” e
intraprendere in prima persona quella carriera politica che lo porterà alla Casa Bianca. Nel 1955, Chester
Burger, un importante consulente, attivo fino a pochi anni fa, su incarico della AT&T scrive il primo
manuale, destinato a essere utilizzato internamente dal gruppo dirigente, su Come utilizzare bene la
televisione. È infatti iniziata l’era televisiva. Daniel Edelman (ancora oggi alla guida della Edelman
Public Relations, la maggiore società di relazioni pubbliche del mondo non quotata in Borsa e non
facente parte di un gruppo pubblicitario), per lanciare lo shampoo Toni negli anni Cinquanta, inventa le
Toni-Twins, due bellissime ragazze gemelle che diventano vere e proprie celebrità. Dagli anni Sessanta,
le relazioni pubbliche sono parte integrante della vita degli americani. Nascono e crescono le grandi
agenzie guidate da eccellenti professionisti come Carl Byor, consulente del presidente Wilson durante la
prima guerra mondiale, il già citato Daniel Edelman, David Finn, John Hill, fino a Harold Burson, a
Loet Voelmans (il primo europeo a occupare la posizione principale in una grande multinazionale delle
relazioni pubbliche, la Hill & Knowlton) e, più recentemente, Robert Dilenschneider (autore del famoso
Dartnell’s Public Relations Handbook10).
Con l’arrivo e la diffusione di Internet, nonché il forte impatto comunicativo dell’attacco dell’11
settembre, la centralità affidata alla comunicazione dalla presidenza Bush e la caduta verticale delle
Borse, causata dalle truffe dei dirigenti delle grandi imprese americane, cambiano paradigma e
panorama delle relazioni pubbliche americane.
Fra le tendenze più accentuate: un sensibile tentativo delle organizzazioni di sviluppare relazioni
dirette con i pubblici influenti e aggirare un sistema dei media considerato infido e comunque
scarsamente autorevole; una forte accelerazione verso l’accumulazione di competenze e di conoscenze
sistemiche e organizzative, nonché l’adozione di metodi di misurazione e valutazione dell’efficacia delle
relazioni pubbliche tali da legittimare l’affidamento ai relatori pubblici di ruoli strategici nelle
organizzazioni; la crescente consapevolezza, in una società sempre meno compatta e omogenea, del
valore delle diversità (di genere, religiosa, etnica, razziale, di preferenza sessuale) come nuovo
paradigma di relazioni pubbliche efficaci.
10
Robert Dilenschneider, già presidente e ceo Hill & Knowlton, oggi presidente di Dilenschneider Group. Tra le sue
pubblicazioni principali: Dartnell’s Public Relations Handbook, 1996; oltre che Power and Influence, A Briefing for Leaders,
Moses: CEO, e più recentemente 50 plus! Critical Career Decisions for the Rest of Your Life.
2.4
Italia: gli antecedenti
Le relazioni pubbliche, come attività distinte dalla propaganda e dalla pubblicità, arrivano in Italia
nell’estate del 1943, insieme alle truppe alleate che sbarcano in Sicilia. L’Italia è il primo Paese
dell’Asse a cedere agli Alleati e quindi costituisce un interessante terreno di sperimentazione per
identificare le modalità migliori per riannodare le relazioni con le comunità locali, dopo i tanti
bombardamenti e la violenta occupazione del territorio. Il comando alleato recluta al proprio interno
relatori pubblici di origine italiana, aggiungendo a questi anche un nucleo di italoamericani ad hoc,
esterni all’apparato militare e selezionati per l’occasione. La nostra pubblicistica e alcuni storici parlano
di “mafiosi italoamericani” inviati in Sicilia, al seguito delle truppe americane, per assicurare che le
amministrazioni locali non finiscano in mano ai comunisti quando gli alleati si avviano a risalire la
penisola. Si tratta di una tesi verosimile, anche se allora l’anticomunismo non costituiva la
preoccupazione principale degli americani. Così come è anche verosimile che qualche operatore di
relazioni pubbliche fosse mafioso e viceversa. In ogni caso, alcuni di questi operatori che operavano al
fianco degli Alleati durante la guerra, decidono di continuare a lavorare per il comando militare che
rimane in Italia anche dopo la fine del conflitto, oppure di passare al servizio delle prime multinazionali,
soprattutto petrolifere (Mobil, Shell, Esso), che -prevalentemente a Genova- riaprono i battenti nel
nostro Paese dopo gli anni di esilio obbligato causato dalla politica autarchica del regime fascista.
Anche in Italia, però, come negli Stati Uniti, si trovano esempi di attività di relazioni pubbliche
prima del secondo dopoguerra. Un bel libro dello storico Simona Colarizi11 racconta nei particolari i
“sistemi di ascolto” adottati dal regime fascista che fin dagli anni trenta adottano metodologie di
relazione molto sofisticate, che ancora oggi definiremmo avanzate. Una curiosità: gli informatori, a cui
le centrali di ascolto chiedevano in continuazione di fare anche previsioni, venivano allora in gergo un
po’ spregiativo chiamati “tarocchisti”. Ebbene, nei primi anni Ottanta, grazie all’ottimo analista e
consulente strategico inglese Geoffrey Morris cofondatore del gruppo Intermatrix, apparve nella tecnica
di costruzione degli scenari politici e socio-culturali una particolare e raffinata applicazione della
metodologia Delphi, dal nome Trend Analysis by Relative Opinion Testing, chiamata, in gergo, Tarot
(in italiano, tarocco). Delphi è una metodologia di ricerca qualitativa che normalmente si attiva per
analizzare in chiave predittiva le tendenze di un fenomeno socio-culturale, tecnologico, economico o
politico. In particolare, viene identificato un gruppo ristretto di dieci, massimo venti persone a diverso
titolo competenti del fenomeno da analizzare. Nessuno degli esperti conosce il nome degli altri. Il
coordinatore invia un primo documento a tesi e formula alcune (al massimo cinque) domande alle quali i
partecipanti sono tenuti a rispondere in modo articolato. Ricevute le risposte, il coordinatore isola le aree
di consenso e concentra un secondo giro di domande sulle posizioni diverse emerse dal primo giro.
Ricevute queste seconde risposte il coordinatore propone ai partecipanti una prima bozza di relazione,
chiedendo contributi ulteriori che vengono poi integrati in un rapporto finale. Il termine Delphi, come
spesso accade, è molto abusato anche fra gli addetti ai lavori. Si fanno tanti pseudo Delphi, non
predittivi, non scritti, con i partecipanti che conoscono gli altri e così via.
Un secondo e più specifico antecedente riguarda l’avventura italiana in Etiopia nel 1936:
intervento fortemente osteggiato dal governo britannico, alleato all’imperatore Hailè Selassiè. Nelle
settimane che precedono l’invio delle truppe d’invasione italiane, Mussolini è preoccupato che i
tradizionali legami di amicizia fra Regno Unito e Stati Uniti possano spingere gli americani ad
abbandonare la loro posizione di neutralità. In tale eventualità, il governo italiano sarebbe stato molto
probabilmente costretto a rivedere il suo programma. Il capo del governo invia quindi d’urgenza negli
Stati Uniti un alto funzionario del ministero della Propaganda, Bernardo Bergamaschi, affinché selezioni
un’agenzia di relazioni pubbliche americana per sviluppare una rapida azione di relazioni (lobby) con
11
Simona Colarizi, L’opinione degli Italiani sotto il Regime 1929-1943, Laterza Bari-Roma, 1991.
l’amministrazione americana capace di neutralizzare le pressioni britanniche. L’azione mobilita anche le
comunità italiane delle grandi aree urbane del continente nordamericano a sostegno delle mire coloniali
fasciste e raccoglie fondi sufficienti a pagare l’intera operazione senza gravare sui conti nazionali.
Sempre negli anni Trenta, la società Linoleum del gruppo Pirelli, sotto la guida di Giuseppe
Luraghi, manager illuminato che nel dopoguerra guiderà anche l’Alfa Romeo, affida la sue relazioni
pubbliche a due intellettuali di grido: Leonardo Sinisgalli e Alfonso Gatto. È il primo gruppo industriale
privato italiano a istituire un ufficio relazioni pubbliche (il primo ente pubblico sarà nel 1954 la
Provincia di Bologna).
Nel 1934, Dino Villani progetta e lancia per la Motta il Premio Notte di Natale. Si tratta di quello
stesso Villani che inventerà il concorso “Cinquemila lire per un sorriso” e, più avanti, “Miss Italia”.
Vero antesignano di quella che, mezzo secolo dopo, verrà definita “comunicazione integrata”, Villani
diventa nel dopoguerra, con Guido Mazzali e gli altri componenti della redazione del periodico Ufficio
moderno, il faro di attrazione milanese per una generazione di giovani intellettuali, attirati dalle lusinghe
dell’industria e della nascente comunicazione di massa.
2.5 Le macerie
Protagonisti della storia delle relazioni pubbliche italiane come Alvise Barison (che sarà cofondatore e,
per tanti anni, presidente onorario della FERPI), Vittorio Crainz (fondatore, insieme a Piero Arnaldi, della
prima società di consulenza in relazioni pubbliche, il Sipr, Studio italiano public relations), Guido de
Rossi del Lion Nero (ufficiale di collegamento dell’esercito italiano, imprenditore di relazioni pubbliche,
mentore e grande saggio della professione per molti decenni), Guido Lopez (prima alla J.W. Thompson
poi alla Mondadori) e Vittorio Gambaro (fondatore della Publirel di Milano), avviano la professione in
Italia nei primi anni Cinquanta. Qualche anno prima, nel 1947, è un operatore di relazioni pubbliche del
sindacato americano, Vanni Montana, il più attivo ispiratore oltre che protagonista della scissione
socialista di Palazzo Barberini: una scissione che cambierà il corso della politica italiana. Il partito
socialista aveva infatti ottenuto nel 1946 una strepitosa vittoria alle elezioni politiche, sorpassando il
partito comunista, al quale però lo lega un patto di unità di azione. Ed è proprio questo patto che
preoccupa la Casa Bianca e il sindacato degli Stati Uniti. Vanni Montana viene incaricato di agire per
convincere i socialisti non filocomunisti a separarsi dal Psi, allora guidato da Pietro Nenni e a unirsi in
un nuovo partito socialdemocratico diretto da Giuseppe Saragat (il quale diventerà più avanti presidente
della Repubblica), fortemente voluto e incoraggiato, anche finanziariamente, dagli americani. La
scissione di Palazzo Barberini rappresenta un successo non solo perché molti deputati vengono convinti
ad abbandonare il Psi, ma soprattutto perché questi stessi deputati possono farlo con il parziale consenso
dell’opinione pubblica, ottenuto attraverso un attento lavoro di gestione dei media e degli influenti
svolto dallo stesso Montana. Il resto, naturalmente, è dovuto al fatto che la Democrazia cristiana assicura
ai transfughi socialisti rilevanti incarichi in un nuovo governo e che il neonato partito socialdemocratico
trova le sue casse ben fornite dalle donazioni dei sindacati americani. Anche questi fattori vengono
coordinati, almeno in parte, da Montana.
Con le elezioni politiche del 1948, esce alla luce del sole – ma operava già, con maggiore
riservatezza, fin dal 1943 – l’USIS (United States Information Service), organismo del Dipartimento di
Stato Usa (Ministero degli Esteri) preposto a svolgere in Italia un’intensa attività di relazioni pubbliche,
che proseguirà per diversi decenni. All’USIS, infatti, si forma una parte importante della nuova
generazione dei relatori pubblici italiani. Rispetto a quella tornata elettorale così decisiva per il futuro
del Paese, l’USIS ha il compito di assistere e aiutare la campagna contro il Partito Comunista Italiano. Il
notiziario quotidiano USIS per la stampa, una sorta di “agenzia” che risale al 1943 e ricco di notizie e
informazioni sulla vita quotidiana negli Stati Uniti, diventa per la campagna del 1948 una vera e propria
“clava elettorale” che sottolinea quotidianamente gli aiuti economici americani all’Italia (cibo,
carburante, medicinali), senza omettere che quegli stessi aiuti cesserebbero immediatamente qualora i
comunisti vincessero le elezioni. Molti i resoconti e i servizi giornalistici che descrivono iniziative
spontanee di solidarietà e amicizia del popolo americano verso gli italiani, purché dichiaratamente
anticomunisti. Al notiziario viene allegato un bollettino che fornisce agli altri media informazioni
puntuali e precise su tutti gli aiuti distribuiti, indicando dettagliatamente i nomi delle navi, i porti di
sbarco, il tipo di carico e la data dell’arrivo avvenuto o imminente. La consegna degli aiuti viene
accompagnata da molteplici eventi pubblici. Ogni nave americana (le cosiddette “Liberty”) che sbarca in
un porto italiano prevede una cerimonia e un discorso dell’ambasciatore americano, largamente diffuso e
ripreso dai giornali italiani. A sua volta, il governo italiano stanzia ben 500 milioni di lire di allora per
stampare manifesti e realizzare cinegiornali dedicati all’aiuto americano, e altri 8 milioni per stampare
volantini. Il sindacato americano, nel frattempo, sostiene il dipartimento di Stato nell’attuazione del
piano Marshall e, successivamente, avvalora le minacce di sospensione degli aiuti in caso di vittoria
comunista. Nel gennaio del 1948 il notiziario riporta le affermazioni con cui il presidente del Committee
for Industrial Organization (CIO) avverte che, se l’Italia desidera ancora usufruire dei finanziamenti del
piano Marshall deve aderirvi senza riserve. Lo stesso Vanni Montana, tramite il notiziario e le
trasmissioni radiofoniche della Voice of America, fa arrivare ai lavoratori italiani il secco invito del
Dipartimento di Stato a non credere alle menzogne dei comunisti (Togliatti e Nenni), i quali sostengono
che, nel caso di vittoria comunista, non ci sarebbe alcun blocco agli aiuti americani. Sul notiziario
vengono anche pubblicate lettere scritte da cittadini americani ai loro parenti e amici in Italia, con inviti
espliciti a votare per De Gasperi. Segue, sempre sul notiziario, la minaccia di un imminente divieto agli
italiani emigrati in America di inviare soldi, doni e lettere ai familiari rimasti in Italia, nel caso si intende
di vittoria comunista alle elezioni.
Dopo la vittoria elettorale della Democrazia cristiana e la sconfitta del partito comunista, lo
sviluppo della guerra fredda fra Est e Ovest nonché il crescente ruolo strategico dell’Italia al centro del
Mediterraneo, inducono l’USIS a intensificare anche le sue attività culturali: traduzioni di libri, proiezioni
di film, contatti con il mondo economico, scientifico e culturale. Cresce, inoltre, il numero di operatori
italiani nelle molte sedi, anche periferiche, dell’USIS. Dal 1949, l’agenzia sviluppa una nuova attività di
scambi e visite fra i due Paesi cui partecipano studenti universitari, professori, laureati e professionisti
che intendono incrementare le loro conoscenze in differenti campi: scienze, tecnologia, sociologia e
comunicazione. Il notiziario pubblica articoli e documenti sulla vita nei Paesi dell’Est, sulle prese di
posizione sovietiche in politica internazionale, insieme a vignette, barzellette e storielle umoristiche che
si propongono di aiutare gli italiani a comprendere la realtà dei regimi comunisti. Tra il 1951 e il 1952,
vengono diffusi almeno nove milioni di copie di opuscoli anticomunisti. Lo scopo del notiziario non è
solo quello di denigrare l’Unione Sovietica, ma anche di diffondere notizie sul miracoloso sviluppo
economico italiano ottenuto grazie agli aiuti americani. Vengono diffusi dati sulle innovazioni, il
benessere, l’aumento di produttività e la modernizzazione dello Stato. Il notiziario si diffonde sui lavori
pubblici realizzati grazie al piano Marshall (ricostruzioni di strade, stazioni ferroviarie, reti di
telecomunicazione, acquedotti, impianti elettrici e abitazioni), informa sulle visite di tecnici italiani negli
Stati Uniti o sugli incontri con industriali americani in Italia. Con questi “scambi culturali” molti italiani
hanno la possibilità di accrescere la loro cultura in termini di organizzazione del lavoro, di direzione
aziendale, di tecniche di marketing e di comunicazione aziendale (public relations e human relations).
L’USIS viene anche incaricata di curare in Italia l’identità della NATO. Oltre mezzo milione di
materiali vengono stampati e distribuiti ogni mese in tutta Italia per spiegare il ruolo della nuova
alleanza militare: giornalini affissi nelle bacheche delle fabbriche, nelle trattorie e nelle rivendite di
alimentari. Il grande messaggio è che la NATO consente la speranza di una pace duratura e di un aumento
del tenore di vita. Gli articoli evidenziano gli scopi difensivi di un’adesione italiana al Patto atlantico, la
possibilità di ricostruzione e stabilità economica, oltre che il riconoscimento di una rilevante posizione
internazionale, perduta con la sconfitta del fascismo. Alla radio e alla stampa viene affidata la
“propaganda difensiva” immediata e continuativa, mentre libri, film, mostre, centri di informazione,
scambi di persone e programmi educativi si pongono invece obiettivi di lungo termine e, soprattutto,
intendono trasferire agli italiani la visione americana del progresso e della libertà, il senso di sicurezza.
Gli opuscoli, i volantini, i manifesti sono diretti e distribuiti prevalentemente ai lavoratori, fra i quali è
massiccio il voto comunista. Si tratta, in larga parte, di fumetti e fotoromanzi, con forte impatto visivo,
più semplici da leggere e facili da memorizzare. Tra i media tradizionali, il cinema è, forse, il più
importante. Cortometraggi e documentari vengono proiettati nei cinema cittadini prima dei film
commerciali in programmazione in tutto il Paese grazie all’uso di unità mobili. Gli automezzi
raggiungono paesi di montagna o di campagna. Mentre i film sono diretti al grande pubblico, altre
attività dei centri di informazione si rivolgono a un pubblico selezionato e colto. Le sedi USIS ospitano
biblioteche molto fornite, convegni, mostre e conferenze. Il programma più selettivo, ma anche di
maggiore efficacia, è lo scambio di persone: l’USIS seleziona studiosi, giornalisti, sindacalisti, studenti e
industriali influenti e offre loro l’opportunità di recarsi negli Stati Uniti per conoscere personalmente la
realtà americana, purché al rientro siano disponibili a raccontare l’esperienza in conferenze e dibattiti.
Quattro sono i centri che vedono nascere e crescere in Italia la professione delle relazioni
pubbliche: Genova, Trieste, Milano e Roma. A Genova hanno sede le multinazionali petrolifere Esso,
Mobil e Shell, ma anche l’Iri. A Trieste, con l’occupazione delle truppe alleate che durerà ancora per
molti anni, anche le compagine marittime e assicurative della città acquisiscono una cultura della
comunicazione. A Roma i primi liberi professionisti imparano il mestiere prestando servizio per l’USIS.
Milano, invece, è il centro finanziario dell’Italia durante la ricostruzione economica.
Il ruolo degli uffici di relazioni pubbliche delle multinazionali è fondamentale, perché essi
favoriscono lo sviluppo della comunicazione e dell’informazione in Italia e creano i primi professionisti
aziendali. Le grandi aziende americane basano, infatti, la loro politica comunicativa sulla cosiddetta
“trasparenza” e, a differenza della maggior parte delle imprese italiane di allora, desiderano che la
comunità conosca i loro progetti e i loro risultati. Per fare questo, utilizzano sia la stampa che la radio. I
relatori pubblici diventano così “l’occhio e l’orecchio” dell’impresa, fungendo da anello di congiunzione
fra l’azienda e la comunità. Il loro lavoro consiste nel captare e capire le aspettative e i bisogni della
comunità, riferire alla direzione aziendale le proprie impressioni e sensazioni e infine, trasmettere al
cittadino notizie, informazioni e politiche attuate dall’azienda.
Nel 1952, sorge a Milano l’IPR (Istituto per le relazioni pubbliche), un’associazione nata per
iniziativa di tecnici e studiosi e presieduta per molti anni dall’onorevole Roberto Tremelloni, autorevole
esponente di quel partito socialdemocratico di Saragat, fortemente legato, come abbiamo visto, alle
attività di Vanni Montana. Scopo fondamentale dell’IPR è quello di diffondere e promuovere la
conoscenza delle relazioni pubbliche nel mondo imprenditoriale italiano, privato e pubblico. Gli
obiettivi dell’associazione sono perseguiti attraverso pubblicazione di monografie, trasmissioni
radiofoniche e corsi informativi. Nasce in quel periodo, su iniziativa dell’IPR, l’Oscar di Bilancio, che
oggi viene gestito dalla FERPI ed è divenuto il più ambito premio in Europa di comunicazione
finanziaria. La prima azienda a ricevere l’Oscar è la Motta, con la motivazione che l’azienda dolciaria è
la prima a far conoscere il suo fatturato! Nel 1953, lo stesso IPR organizza il primo corso di Relazioni
pubbliche, seguito nel 1955 da un corso di perfezionamento per dirigenti di aziende, tenuto al
Politecnico di Milano. Dal 1955 al 1974, l’Istituto conferisce un premio annuale, il Premio Ezio Vanoni,
a persone che con la loro opera favoriranno lo sviluppo delle relazioni pubbliche.
Nel 1956, Vittorio Crainz e Piero Arnaldi costituiscono a Roma il primo studio professionale, la
SIPR, preceduta nel 1955, sempre per iniziativa dei due operatori, dalla nascita di una casa editrice, la
SEPA, che stampa riviste aziendali, in particolare per la STANIC, società petrolifera nata dalla fusione
dell’americana Standard Oil con l’italiana ANIC (del gruppo ENI), e per la Compagnia carrozze letti
(Wagon Lits).
2.6
La ricostruzione
Negli anni Cinquanta, il Paese avvia la ricostruzione. I gruppi economici più impegnati nelle attività di
relazioni pubbliche sono la Finmeccanica, con Leonardo Sinisgalli che a Roma dirige il mensile Civiltà
delle macchine; Franco Fedeli, che a Genova si occupa della comunicazione interna dell’Italsider e le
aziende petrolifere multinazionali (Lorenzo Cantini alla Esso, Francesco Vizioli alla Bp). Anche l’ENI di
Enrico Mattei, per approvvigionarsi direttamente di petrolio senza dover sempre passare attraverso le
“sette sorelle” (le grandi multinazionali che controllavano alla fonte l’estrazione del petrolio), consolida
le sue relazioni con i governanti dei Paesi del Nordafrica affidando ai giornalisti Italo Pietra e Mario
Pirani (oggi lucido e puntuale analista del quotidiano La Repubblica) l’incarico di gestire le relazioni
pubbliche del gruppo. L’ENI si distinguerà per tanti anni (e si distingue ancora oggi) per una intensa
attività di relazioni pubbliche internazionali, spesso in contrasto o, comunque, diversa e autonoma
rispetto a quella ufficiale del governo12. Rilevante, in quegli anni, è anche l’attività comunicativa della
FIAT, ma è soprattutto l’Olivetti, sotto la carismatica guida di Adriano Olivetti, ad attirare nella sede
decentrata di Ivrea – utilizzando come “irresistibile” attrazione il Movimento Comunità, una delle più
curiose esperienze politico-sociali del nostro Paese dal secondo dopoguerra – alcuni dei più brillanti
intellettuali italiani, da Ottiero Ottieri a Franco Momigliano, ad Antonio Saffi, da Libero Bigiaretti a
Giorgio Soavi. Sarà una stagione irripetibile, che durerà almeno un decennio oltre la morte di Adriano
Olivetti avvenuta nel 1960, e che darà origine al mito mondiale, ancora oggi assai diffuso, del marchio
Olivetti. In particolare, l’azione di Renzo Zorzi direttore della comunicazione Olivetti fino agli anni
Ottanta, poi segretario generale per lunghi anni della fondazione Cini, costituisce un mirabile esempio di
come un’organizzazione possa e debba integrarsi con le comunità in cui opera. Anche la Edison,
influenzata dal successo ottenuto a livello mondiale dalla Standard Oil con Louisiana Story di Robert
Flaherty, avvia un’intensa attività di produzione di documentari cinematografici, fra i quali si
distinguono le prime opere di Ermanno Olmi. Un’attività che sarà poi intensamente proseguita anche
dall’Enel, dopo la nazionalizzazione del 1963. Sempre sul fronte della cultura dell’immagine visiva, la
Ferrania, allora di proprietà dell’IFI, finanziaria della famiglia Agnelli e produttrice della omonima
pellicola film usata dalle produzioni italiane, affida all’intellettuale Guido Bezzola la pubblicità e le
relazioni pubbliche, comprendendo in queste ultime anche la direzione dell’omonimo mensile culturale,
ritrovo puntuale della nuova cultura cinematografica italiana del dopoguerra. Per molti aspetti, la
politica sociale delle imprese italiane (IRI e Olivetti in prima fila) e soprattutto il modo in cui queste
comunicano con i loro dipendenti fanno scuola, in quegli anni, nel resto d’Europa.
Nascono nel 1956 l’Associazione italiana per le relazioni pubbliche e il Sindacato nazionale
professionisti relazioni pubbliche. Le due associazioni, insieme, promuovono a Stresa, l’11 e il 12
ottobre dello stesso anno, la prima conferenza internazionale sulle relazioni pubbliche. Un’attenta lettura
degli atti della conferenza rivela, fra l’altro, una curiosità: Piero Arnaldi, uno dei padri fondatori delle rp
in Italia, viene redarguito dall’establishment della conferenza perché osa sollevare la questione della
necessità e possibilità di misurare i risultati delle relazioni pubbliche, questione che tornerà a essere
discussa alla fine degli anni Ottanta. Nel frattempo, la Pro Deo di Roma, istituzione educativa vaticana
diretta da Padre Morlion che successivamente si trasformerà nell’Università Luiss, avvia il primo corso
postlaurea di Relazioni pubbliche. Fra i docenti, si trovano Piero Arnaldi, Bartolo Ciccardini e Vitaliano
Rovigatti. Nel 1958, nasce l’UNERP (Unione nazionale degli esperti di relazioni pubbliche). Otto anni
12
Si veda al proposito il bel libro di Franco Briatico (già direttore relazioni esterne dell’ENI): Ascesa e declino del capitale
pubblico italiano, Il Mulino Bologna 2004.
dopo, nel 1966, con Alceo Moretti presidente l’associazione radicalizza i contrasti fra i due poli di Roma
e di Milano, incentrati soprattutto sul ruolo, sui criteri e sul tipo di rappresentatività delle associazioni.
Giovanni Terranova viene eletto presidente, ma molti soci, prevalentemente milanesi, abbandonano. Nel
1967, si costituisce a Milano la FIERP (Federazione italiana esperti di relazioni pubbliche)
rappresentativa soprattutto dei quadri aziendali. Viene subito avviato un lavoro volto a organizzare
strutture regionali e comitati, per garantire una più equilibrata rappresentanza e approfondire le diverse
tipologie di intervento proprie della libera professione. Viene anche affrontato il tema dei rapporti tra
relazioni pubbliche e giornalismo, definitie “due funzioni diverse ma interdipendenti”. Nel 1968
l’UNERP cambierà il suo nome in FIRP (Federazione italiana delle relazioni pubbliche) e Alvise Barison,
attivo professionalmente a Milano e responsabile del Centro commerciale americano, verrà eletto
presidente. Fra il 1968 e il 1969 i rapporti fra le due associazioni si intensificheranno fino alla
unificazione sancita il 17 marzo 1970 con l’assemblea costitutiva della FERPI, preceduta dalle assemblee
di scioglimento della FIRP e della FIERP.
In quegli anni, continuano in tutta Italia le attività dell’USIS. I suoi uffici sono ormai presenti
nelle principali città, dal Nord al Sud, ma il personale viene diminuito a causa della riduzione dei fondi
stanziati dal Congresso americano. Nonostante i tagli, le attività rimangono suddivise in quatto settori:
–
–
–
–
l’informazione, che utilizza come canali privilegiati la stampa, la radio e il cinema;
la cultura, promossa attraverso le biblioteche, gli scambi e i contatti tra americani e italiani;
i progetti speciali, finanziati direttamente dal presidente degli Stati Uniti (che era ancora Dwight
D. Eisenhower);
le funzioni di consulenza e supporto all’ambasciata e ai consolati.
I funzionari dell’USIS intrattengono frequenti relazioni con gli opinion leader che influiscono sugli
orientamenti dell’opinione pubblica. Il dipartimento di Stato infatti, è convinto che i messaggi, se
presentati da opinion leader italiani, risultano più efficaci. Per esempio, un ufficiale di collegamento
tiene costanti contatti con CISL, UIL e Confindustria, per ottenere da parte loro la distribuzione di
materiali favorevoli alla politica economica americana in cambio di informazioni, consulenze e servizi
offerti dallo stesso USIS. La funzione principale dell’ufficio stampa rimane quella di fornire notizie,
documentazioni, fotografie, testi di discorsi e procurare interviste con personaggi americani ai giornalisti
italiani. Il notiziario contiene sempre informazioni relative allo sviluppo economico stimolato dagli aiuti
americani, dalle loro consulenze tecniche e dai corsi di formazione del personale. Continua anche
l’offerta di viaggi e borse di studio. Viene data la possibilità di ricevere i libri, per posta, direttamente a
casa. Dal 1956, per facilitare ulteriormente la consultazione dei testi, sono pubblicate bibliografie su arte
e architettura, economia, letteratura, storia, sociologia e comunicazione. A Trieste, Milano, Firenze e
Roma vengono organizzate mostre per far conoscere e valorizzare la cultura americana. Presso la sede
milanese dell’USIS, viene offerta l’opportunità di tenere corsi di relazioni pubbliche agli imprenditori,
mentre, per quanto riguarda gli universitari, ciò è possibile presso l’Università internazionale per gli
studi sociali di Roma. Dal 1954 l’USIS pubblica anche un mensile, Mondo occidentale, che invita gli
italiani a comprendere la coincidenza fra gli obiettivi economico-politici e le tradizioni culturali dei due
Paesi, in quanto entrambi parte del “mondo occidentale”. La Voice of America prosegue le trasmissioni
anche in collaborazione con la Rai. La formula è sempre la stessa: notiziari, documentari radiofonici,
musica e attualità. Settimanalmente, le trasmissioni radio rispondono a migliaia di quesiti degli italiani
riguardo alla vita, l’arte e la cultura negli Stati Uniti. Nel 1955 si vendono in Italia ben 800 milioni di
biglietti d’ingresso al cinema: un vero e proprio boom. L’USIS partecipa a mostre sul cinema, proietta
pellicole a militari, studenti, gruppi di lavoratori, associazioni culturali, in occasione di fiere ed
esposizioni, collabora alla preparazione dei cinegiornali, produce documentari, doppia e distribuisce film
americani. In base a un accordo con il ministero dell’Istruzione, molti film USIS vengono proiettati nelle
scuole, raggiungendo 4 milioni di bambini all’anno. Nel 1955, le biblioteche USIS sono undici,
distribuite in tutta Italia, solitamente nel centro delle città. Gli utenti possono scegliere tra 59.000 libri in
inglese e 22.000 in italiano. La consultazione dei testi è libera. Nello stesso anno, gli Stati Uniti
partecipano ufficialmente per la prima volta alla Fiera campionaria di Milano.
Il padiglione dell’USIS ospita un Trade Information Center e una mostra intitolata “Main Street
Usa”. 13 Il Trade Information Center (Centro informazioni commerciali) viene realizzato da Alvise
Barison, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti e impiegato all’USIS di Trieste, il quale, dopo
aver lavorato a lungo nell’ufficio relazioni pubbliche dell’azienda tessile Marzotto di Valdagno, si
trasferisce a Milano per gestire il nuovo centro di relazioni pubbliche americano in Italia. Lavora con
Alvise Barison, e in seguito lo sostituisce, Gherarda Guastalla Lucchini, oggi attivissima imprenditrice
di relazioni pubbliche e vicepresidente vicario della FERPI, nonché segretario generale dell’Oscar di
bilancio. Scopo del Centro è quello di promuovere i rapporti commerciali tra Italia e Stati Uniti,
incoraggiare la conoscenza del mercato americano e illustrare le facilitazioni ottenibili tramite le
ambasciate e i consolati. Vengono messi a disposizione del pubblico elenchi di produttori e distributori
americani, dati di mercato, statistiche sulla produzione, sul consumo e sul commercio estero. “Main
Street Usa” si propone di presentare al pubblico l’autentica vita americana. La main street è infatti la via
centrale, l’arteria che attraversa ogni città americana e intorno alla quale si svolge la vita quotidiana
dell’americano medio. La mostra ricostruisce diversi ambienti modello: la casa, la scuola, la fattoria, la
fabbrica e il grande emporio.
2.7
Le riforme sociali e il centrosinistra
Con l’avvento del primo governo organico di centrosinistra (alla fine del 1963) cresce nelle imprese la
necessità di innovare il tradizionale dialogo con il sistema politico. Fino ad allora, infatti, il rapporto con
l’opposizione di sinistra era stato per lo più affidato alle relazioni sindacali, mentre quello con il governo
si limitava a un monologo con la Democrazia cristiana. La nazionalizzazione dell’energia elettrica –
prezzo pagato dai moderati ai socialisti per convincerli a entrare nella coalizione di governo – suscita la
forte opposizione della Confindustria creando anche al governo la necessità di avviare un rapporto
diverso con le imprese. Antonio Giolitti, ministro del Bilancio, e il suo giovane collaboratore, Giorgio
Ruffolo, segretario generale della programmazione, oggi esponente dei Democratici di sinistra e
commentatore del quotidiano la Repubblica, tematizzano nel Paese il concetto di programmazione
economica e riescono a inserirlo nell’agenda mediatica. Per incentivare gli investimenti nel
Mezzogiorno, presentano un apposito strumento operativo definito “contrattazione programmata”,
lanciandolo con un vero e proprio piano di relazioni pubbliche: un tentativo illuminato di orientare gli
investimenti industriali mediante lo strumento del negoziato e degli incentivi. Ma la Confindustria non
cede all’invito del tandem Giolitti-Ruffolo e invita i suoi associati a ignorare l’offerta di dialogo.
Soltanto alcune multinazionali illuminate approfittano dell’opportunità (come, per esempio, la 3M che
progetta e sviluppa un’unità produttiva a Caserta). Anche Roberto Tremelloni, ministro
socialdemocratico delle Finanze, fondatore e presidente dell’Istituto per le relazioni pubbliche, tenta uno
sfortunato ma nobile e articolato sforzo per avviare un dialogo interattivo e intelligente fra Fisco e
contribuente.
È interessante notare come, all’inizio del 1999, un’analoga esperienza del governo D’Alema,
coordinata da Carlo Azeglio Ciampi, allora ministro dell’Economia, e Antonio Bassolino, ministro del
13
Tutti i riferimenti sulle attività dell’USIS in questo capitolo sono una libera trasposizione di un ottimo lavoro di Valeria
Mainini per la sua tesi di laurea allo IULM di Milano del 2000 dal titolo Le relazioni pubbliche in Italia dal secondo
dopoguerra alla nascita della FERPI (1943-1970)”
Lavoro, per rilanciare gli investimenti privati inducendo negli operatori la fiducia in una
programmazione concertata degli investimenti pubblici, soprattutto nel Mezzogiorno, si sia
irrimediabilmente infranta contro l’opposizione delle Regioni, seccate per non essere state
sufficientemente coinvolte. Il principale comunicatore di questa operazione è stato Paolo Peluffo,
consulente di Ciampi e oggi al Quirinale insieme ad Arrigo Levi. È lo stesso Peluffo che negli anni
1996-97 coordinò, insieme a Ricardo Franco Levi, la campagna di comunicazione del governo Prodi per
l’ingresso nell’euro.
In quegli anni Sessanta, oltre alla Olivetti, suscita ammirazione l’esperienza della Pirelli, con i
Quaderni dedicati al dibattito e alla formazione manageriale e la rivista omonima che descrive e
interpreta la complessità della società industriale avanzata attraverso inchieste e saggi di ottimo livello,
accompagnati da servizi fotografici di grande qualità effettuati dalla nuova leva di fotografi sociali
italiani (Gabriele Basilico, Cesare Colombo, Gianni Berengo Gardin, Toni Nicolini).
Sul finire degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, quando, grazie al primo governo di
centrosinistra, il partito socialista entra nella coalizione di governo, le imprese tendono ad affidare le
loro relazioni pubbliche a intellettuali, quasi sempre progressisti, tentando in tal modo di colmare le forti
distanze socioculturali fra società civile e società imprenditoriale.
Dopo un’esperienza operativa alla Bassetti, nel 1961 apre a Milano l’agenzia di Aldo Chiappe,
uno dei protagonisti delle relazioni pubbliche italiane.
Nel 1963, alla vigilia delle elezioni politiche, la Democrazia cristiana chiama dagli Stati Uniti
Ernst Dichter, forse il più noto consulente di relazioni pubbliche del momento, per impostare temi e
messaggi della campagna elettorale. Dichter fa svolgere una ricerca e scopre che gli italiani, pur
disponibili a votare DC, ne hanno una percezione di vecchiezza. Il consulente suggerisce di ringiovanire
le liste e trasferire messaggi che proiettino un’identità più giovane. Questi consigli vengono
ingenuamente tradotti dai democristiani in un manifesto, affisso a ogni angolo di strada, che ritrae una
giovane bella e prosperosa con la headline “La DC ha vent’anni”. Si racconta che il leader del PCI,
Palmiro Togliatti, non appena visto il manifesto, abbia dato l’ordine ai militanti delle sezioni comuniste
disseminate in tutto il territorio nazionale di aggiungere al manifesto, a mano, il pay off “...ed è ora di
fotterla”. Per la DC è un grande tonfo elettorale.
Nella seconda metà degli anni Sessanta, le relazioni pubbliche della Ferrania, acquisita nel 1964
dall’americana 3M, si allargano dal cinema all’ambito più strettamente fotografico con l’intensa attività
del CIFE, circolo di cultura fotografica, che a Milano organizza mostre storiche, offre spazi espositivi,
tempi e occasioni di dibattito culturale alla nascente cultura italiana dell’immagine visiva. Nel mondo
della comunicazione professionale è assai vivace in quegli anni anche l’attività della YAYA (capitolo
italiano della Youth in Advertising Association), dove giovani comunicatori come Claudio Masi, Aldo
Chiappe, Giuseppe Berger e Lillo Perri danno vita a tematizzazioni e confronti con la comunità politica,
imprenditoriale e dell’informazione, affermando la presenza di una comunità della comunicazione
attiva, pensante e partecipe della classe dirigente del Paese.
2.8
La paralisi
Dalla fine degli anni Sessanta, il sistema politico si paralizza. Il partito comunista rimane forte, la
Democrazia cristiana è indisponibile al dialogo e il partito socialista non cresce. Si alimenta la tensione
sociale, e appena dopo l’esplosione del movimento studentesco, scoppiano le lotte sindacali
dell’“autunno caldo”. Dimentichi della tutela degli interessi generali e con la complicità di un sistema
dei media quasi interamente di proprietà di potenti forze economiche, i partiti di governo e il sistema
delle imprese trovano nella illegalità della corruzione un intenso terreno di scambio che la sola
opposizione comunista non riesce a ostacolare. Quest’ultima, peraltro, dopo qualche tentativo, smette
persino di provarci.
Nel 1974, anno del referendum del divorzio e della prima tv privata (TeleBiella di Enzo Tortora),
Emilio Renzi, in Olivetti come copywriter insieme a Irene Bignardi, scrive un bel saggio sulle abilità
comunicative di Marco Pannella, mentre la trimurti della FLM (Carniti, Mattina e Trentin) avvia i
lavoratori metalmeccanici a una estenuante lotta sindacale per strappare nel nuovo contratto
l’introduzione di una clausola che vincola le imprese a informare i consigli di fabbrica su strategie,
investimenti e programmi aziendali corredando le informazioni con analisi delle implicazioni sui livelli
occupazionali, delegando agli stessi consigli l’informazione ai lavoratori. Questa conquista si trasforma
per il mondo del lavoro in una vittoria di Pirro. La gran parte delle imprese, in una situazione economica
complessivamente difficile, è (irresponsabilmente) felice di interrompere ogni iniziativa di dialogo con i
lavoratori e di delegare il sindacato a farlo. Quest’ultimo, a sua volta, non disponendo di risorse
comunicative adeguate, diventa un vero e proprio ostacolo alla circolazione delle informazioni. Con il
risultato che ci vorranno molti anni (fino alla marcia dei 40.000 a Torino del 1981!), prima che le
imprese si convincano della necessità di riannodare relazioni decenti con i lavoratori.
In quei primi del decennio muove i primi passi (era nata nel 1970) la FERPI (federazione relazioni
pubbliche italiana) che riassume in sé due associazioni presistenti (Fierp e Fipr) nate nel 1956.
A trascinare la neonata federazione è soprattutto Attilio Consonni, dirigente della Coca Cola e
oggi presidente di Assobibe, insieme a Italo Capizzi e Federico Spantigati della Esso Italiana e a
Guglielmo Trillo, capo delle relazioni pubbliche di Finsider. Con loro, molto attivi sul fronte della
consulenza sono invece Guido De Rossi del Lion Nero, Lino Cardarelli e Aldo Chiappe. Quest’ultimo
consolida l’avviato studio professionale nato a Milano nel 1961, e alla metà degli anni settanta dà vita
all’Isforp, il primo istituto di educazione delle relazioni pubbliche, la cui esperienza viene prontamente
seguita nel 1976 dalla IULM di Baridon, Alberoni e Roggero.
Sempre nei primi anni Settanta, le relazioni fra impresa e società subirono una forte
accelerazione con l’approvazione da parte di Confindustria dello Statuto Pirelli: un documento che porta
la rappresentanza industriale fuori dalle secche corporative e della conservazione, consentendone la
crescita fino all’assunzione di un ruolo di protagonista, naturalmente di parte, dello sviluppo civile e
sociale del Paese. L’avvocato Agnelli assume la presidenza e protegge, fra il divertito e il complice, le
irruenti avances relazionali verso l’opposizione e il sindacato del vice presidente e capo dei giovani
industriali Piero Pozzoli. Curioso osservare il parallelismo dell’Avvocato allora “benignamente” in
movimento verso sinistra e oggi un altro avvocato, Luca di Montezemolo, suo erede anche in
Confindustria (oltre che in FIAT) che riapre il tavolo con le forze sociali dopo anni di appiattimento del
suo predecessore su Palazzo Chigi in una linea di contrapposizione che ha prodotto tanti danni.
Gli anni Settanta sono, per la neonata FERPI, anni di grande attività. Si tematizza nel Paese, per la
prima volta e in un clima culturale turbato dal forte conflitto sociale in corso, l’importanza e il ruolo
della comunicazione di impresa.
A Firenze, nel 1972 – presidente Lino Cardarelli, che poi è stato fra l’altro viceresponsabile della
ricostruzione della Repubblica Irakena – si svolge un convegno su “Immagine, pubblicità e
comunicazione globale” ove si sottolinea la crisi dell’informazione indipendente, politica prima ancora
che tecnica. La pubblicità viene vissuta dall’opinione pubblica come deviante, disinformativa, illusoria e
negativa. È necessaria, dice la FERPI, una diversa concezione della comunicazione d’impresa, una
grande alleanza di giornalisti, pubblicitari e operatori di relazioni pubbliche, responsabilmente uniti
contro le mistificazioni…
Nel 1974, a Milano, su iniziativa di Aldo Chiappe, la FERPI affronta per la prima volta in Italia la
questione del consumerismo, la difesa del consumatore e il suo impatto potenziale sulle relazioni
pubbliche.
Nel 1976, presidente Guglielmo Trillo, la FERPI promuove a Roma il convegno “Comunicazione,
partecipazione e opinione collettiva” nel quale si discute animatamente il concetto di opinione collettiva,
teorizzato da Italo Capizzi, come la nuova frontiera nella segmentazione trasversale dei pubblici dal
punto di vista degli interessi collettivi della società.
Nel 1978, a Genova, la stessa FERPI promuove in accordo con la Regione Liguria, per la prima
volta in Italia un confronto pubblico sul tema della comunicazione dell’amministrazione pubblica.
Nel 1975 le sinistre avevano conquistato i grandi comuni e, grazie anche alle risorse del settore
privato apportate dalla nascente pratica di sponsorizzazione culturale fortemente caldeggiata dai relatori
pubblici, si inaugura la stagione dei grandi eventi culturali. Gli assessori alla Cultura assumono un
rilievo pari a quelli all’Urbanistica: Franco Camarlinghi a Firenze, Renato Nicolini a Roma. Nella
seconda metà dell’anno Eugenio Scalfari, aiutato da un infaticabile Giampaolo Gironda, avvia il suo
Scalfagiro, un vero e proprio road show di venti tappe in altrettante città italiane per presentare il suo
progetto di La Repubblica. Un trionfo di pubblico e di critica, quasi (?) un nuovo partito politico.
Nel 1976, sulla prima pagina di una Repubblica da poche settimane in edicola, Giorgio Forattini
scandalizza i benpensanti disegnando un pacchetto di Marlboro come podio sul quale Riccardo Muti
dirige La Scala che in quei giorni avvia la tournee per il bicentenario americano grazie a una
sponsorizzazione, per l’appunto, della Philip Morris.
Sempre nel 1976, il deputato comunista Pietro Ichino – poi sostituito nella legislatura successiva
dal compagno di partito Elio Quercioli, e quindi dal socialista Aldo Aniasi – presenta una proposta di
legge per la regolamentazione delle attività lobbistiche e l’imposizione dell’obbligo di registrazione per
tutti coloro che professionalmente lavorano per influenzare il processo decisionale pubblico.
L’iniziativa, sostenuta dalla FERPI, è osteggiata dalla Confindustria perché una sua approvazione
comporterebbe la “registrazione” di molti funzionari di Confindustria e un ulteriore esempio di quelli
che l’allora presidente Guido Carli chiamava “lacci e lacciuoli’.
Vince, ovviamente, la Confindustria grazie anche a un violento articolo in prima pagina del
Corriere della Sera, a firma dell’allora direttore generale Paolo Annibaldi (poi direttore “relazioni
esterne” della FIAT, e oggi sempre consulente del gruppo torinese), fratello di Cesare, a sua volta per
lunghi anni direttore dei rapporti sindacali e poi culturali della FIAT.
L’agente di cambio Urbano Aletti, allora presidente della Borsa di Milano, futuro senatore
democristiano, affiancato da Furio Garbagnati, oggi CEO di Weber Shandwick, accoglie per la prima
volta la visita di una delegazione comunista guidata dal deputato Eugenio Peggio.
E sempre nello stesso anno, Franco Reviglio insieme ad Alberto Meomartini, Giulio Tremonti,
raggiunti poco dopo da Domenico Siniscalco, fonda e lancia il CESEC (Centro studi economici), prima
think tank moderata del partito socialista che perderà rovinosamente le elezioni provocando la congiura
del Midas e l’avvento alla segreteria di Bettino Craxi, sostenuto da un Claudio Martelli attento alla
comunicazione e alla modernizzazione del Paese.
Attento alla comunicazione era anche, sul fronte comunista, il giovanissimo Walter Veltroni,
frustrato da un clima caratterizzato dall’austerità pauperistica invocata da Enrico Berlinguer; dall’antiindustrialismo di una RAI monopolista e dalla esplosione del terrorismo che spinge il Paese a
sperimentare un governo di grande coalizione.
Tutti fattori che lasciano grandi spazi ai due amici “milanesi” Craxi e Berlusconi, che troveranno
piena espansione nel decennio successivo:
-
il primo raccoglie nel 1976 un partito socialista agonizzante e lo rilancia con temerarietà e
spregiudicatezza fino a conquistare per sé la presidenza del Consiglio e per i suoi compagni il
50% del potere del Paese a fronte di poco più e poco meno del 10% dei voti, grazie al suo
“potere coalittivo’, decisivo per consentire alla DC di restare al governo del Paese;
-
il secondo, imprenditore edile, fonda TeleMilano nel suo quartiere satellite di Milano Due e
punta tutte le sue carte sulla crescita della televisione privata.
Protetto soprattutto da Craxi, Berlusconi forza l’interpretazione della legge e alimenta la spinta del
mercato della pubblicità, fino a far saltare il monopolio RAI mettendo a disposizione dell’impresa privata
prima uno, poi due e infine tre canali privati commerciali di grande successo non solo dal punto di vista
della pubblicità – la quale soprattutto per questo esploderà negli anni Ottanta – ma anche dal punto di
vista dei valori e dei contenuti culturali trasmessi, omologhi allo sviluppo della società dei consumi di
massa.
Negli anni Ottanta, complici la cultura modernizzante di un partito socialista la cui forza è
sempre più sproporzionata rispetto al peso elettorale, e la cultura preindustriale dei due partiti maggiori
(DC e PCI), va in scena la cosiddetta cultura dell’immagine (oggi, si potrebbe definirla della “visibilità”):
non contano più le azioni e i fatti, credibilità e consenso si ottengono grazie ad articolate e sofisticate
manipolazioni comunicative.
Luca di Montezemolo guida le relazioni pubbliche della FIAT e tiene, insieme a Renzo Zorzi, il
discorso più rilevante al convegno sulla sponsorizzazione culturale (il primo di una serie interminabile di
ripetizioni che si susseguono tutt’oggi) che si tiene con Paolo Grassi alla Piccola Scala di Milano nel
1980.
Qualche anno dopo lo stesso Montezemolo fa sognare gli italiani con le imprese di Azzurra nella
Coppa America. È il primo esempio di un consorzio di grandi imprese costituito appositamente per una
iniziativa di relazioni pubbliche.
Nel 1981 nasce Assorel, associazione delle agenzie di relazioni pubbliche.
Assorel non si contrappone alla FERPI, cui riconosce il ruolo di Federazione di persone e di tutela
e promozione generale della professione, ma promuove una azione interna alla comunità delle agenzie
(contratto comune, criteri base per la definizione di una agenzia rispetto a una società di professionisti
ecc.) ed esterna (sviluppo della conoscenza fra le imprese di cosa siano e come operino le relazioni
pubbliche).
Nel 1982, il consiglio nazionale della FERPI approva un documento base sulle sponsorizzazioni
culturali che diviene in breve la piattaforma professionale per questa nascente applicazione delle
relazioni pubbliche. A Firenze, nello stesso anno, la FERPI tematizza in un convegno la figura del
difensore civico.
Nel frattempo, in Confindustria il neopresidente Vittorio Merloni inaugura a Genova e prosegue
a Firenze la serie dei grandi convegni mediatici che lanciano l’organizzazione imprenditoriale come una
stella del cinema, mentre il presidente della Montedison Mario Schimberni affida le relazioni pubbliche
a Carlo Bruno, ex dirigente editoriale di Rizzoli, oggi titolare dell’agenzia Bonaparte 48. Nasce il
progetto “Cultura”, coordinato da Pasquale Alferj, una esperienza temeraria e unica nel suo genere che
si propone di affermare l’identità di una Montedison (nei fatti, aggressiva e pigliatutto) come azienda
legata e intrecciata alla migliore cultura scientifica internazionale.
Sono anche gli anni del grande successo della moda italiana: Beppe Modenese, attivo fin dagli
anni Sessanta come esperto di relazioni pubbliche nel settore dell’abbigliamento, assume un ruolo di
primo piano, che mantiene tutt’oggi, e diventa il vero “primo ministro” della moda mondiale.
Le grandi imprese italiane (Alitalia, Montedison, Ferruzzi ecc.), fanno a gara per rifarsi il look (il
logo) e accaparrarsi i costosissimi servizi della Walter Landor, società di corporate identity di San
Francisco.
Per la prima volta, nella seconda metà degli anni Ottanta, le imprese investono di più per sapere
cosa i consumatori pensano della loro comunicazione che non dei loro prodotti.
Nel 1986 si svolge a Roma, per la prima volta in Italia e in Campidoglio, il congresso europeo
delle relazioni pubbliche sul tema: “Le relazioni pubbliche nella società europea che cambia”.
In quegli anni, la SCR, la maggiore società italiana di consulenza in relazioni pubbliche, produrrà
un considerevole sforzo di sintesi di riflessione teorica e operativa definendo la metodologia “gorel”
(governo delle relazioni) che consente, fra l’altro, di misurare i risultati di una attività non soltanto di
relazioni pubbliche, ma di comunicazione integrata.
Sempre nella seconda metà degli anni Ottanta, nonostante i continui richiami alla sobrietà e alla
moderazione lanciati mensilmente dalla newsletter Scrap, diretta da Antonio Pilati, poi autorevole
membro dell’Autorità per la Comunicazione e quindi dell’Antitrust, le relazioni pubbliche italiane
seguono, quando non alimentano, il cupio dissolvi dell’intreccio perverso della corruzione fra sistema
economico, sistema politico e sistema dell’informazione che, nel 1992 con l’arresto di Mario Chiesa,
verrà portato alla luce da “mani pulite”.
Nel 1989, per la prima volta il Corriere della Sera guidato da Giulio Anselmi dedica per due
giorni consecutivi quattro colonne dedicate alla comunicazione di impresa.
Le relazioni pubbliche delle aziende a partecipazione statale e quelle di una parte significativa
del settore privato, assumono i connotati di centri di potere, delegati a smistare i favori che,
reciprocamente e sulle spalle di un debito pubblico che aumenta a dismisura, si scambiano i tre sistemi
portanti della società italiana (dell’economia, della politica e dell’informazione).
Le eccezioni sono peraltro significative: mentre sul fronte dell’amministrazione pubblica,
Stefano Rolando, allora direttore del dipartimento Informazione e Editoria della presidenza del
Consiglio e oggi docente all’Università IULM, accelera verso metà decennio la sua lunga marcia verso
l’affermazione della identità dei comunicatori pubblici e fonderà nei primi anni Novanta l’Associazione
della Comunicazione Pubblica; sul fronte delle associazioni industriali, la Federchimica – diretta da
Guido Venturini (oggi direttore generale del Touring Club) e con l’attenta e sapiente regia comunicativa
di Paolo Rossi Doria – avvia l’esperienza di Fabbriche Aperte, una iniziativa che porta la società civile a
vedere come le industrie chimiche italiane si avviano verso modelli più sostenibili.
Sono anche molti gli imprenditori e i manager che, fortunatamente, resistono al degrado: e il
lavoro dei loro operatori di relazioni pubbliche impedisce la rovina definitiva della professione.
La svolta avviene dopo il ’92, con i processi di Tangentopoli che travolgono la prima repubblica
svelando il ruolo di intermediazione avuto nella corruzione da diversi operatori di relazioni pubbliche. Si
susseguono avvisi di garanzia e arresti di operatori di aziende e di società di consulenza.
L’associazione culturale Correnti, ispirata da Federico Spantigati, teorizza che la sola
comunicazione di impresa ormai credibile è quella che comunica i comportamenti reali e che, dopo tanti
anni di consociativismo nel suo senso deteriore, l’identità di una organizzazione è il frutto della
contrapposizione con le identità di altre organizzazioni.
Giuliano Bianucci affianca Mario Segni nella strepitosa vittoria del referendum elettorale e nella
elezione al Parlamento di oltre 150 deputati trasversali aderenti al “patto per la riforma elettorale”.
L’avvio del grande processo di privatizzazioni – mentre si prolunga la fase di transizione a una
seconda Repubblica fondata su una auspicata semplificazione del sistema partitico indotta da una legge
elettorale però solo tendenzialmente maggioritaria – offre alle relazioni pubbliche uno spazio insperato,
anche in termini di “governo” dell’intero processo di comunicazione integrata. Le agenzie di pubblicità
si trovano, nella maggior parte dei casi, a subire, per la prima volta in modo esplicito, il coordinamento
di operatori di relazioni pubbliche.
Anche il boom della new economy, con la nascita di decine e decine di nuove iniziative
economiche alla ricerca di fondi per decollare, tende a dare un ruolo centrale ai consulenti di relazioni
pubbliche rispetto alla agenzie di pubblicità. Ma è un fenomeno di breve durata (come peraltro anche
quello delle privatizzazioni) destinato a sgonfiarsi e che lascia migliaia di stock option senza alcun
valore in mano alle agenzie di relazioni pubbliche che avevano accettato di rischiare insieme ai loro
clienti.
Nel 1994, Berlusconi travolge tutti con una massiccia campagna di comunicazione “virale”
basata su migliaia di moltiplicatori e di testimoni e diventa primo ministro. L’esperienza dura poco e nel
1996 Romano Prodi, affiancato da Silvio Sircana (oggi direttore relazioni esterne delle FS), conquista
Palazzo Chigi per l’Ulivo, soltanto per venire a sua volta scalzato da un Massimo D’Alema affiancato da
Claudio Velardi e da Gianni Cuperlo.
A partire dal 1997, le imprese tradizionali riprendono in modo significativo gli investimenti in
relazioni pubbliche. Sul mercato che rinasce, la domanda diviene più competente e prende il
sopravvento sull’offerta che invece aveva dominato la situazione fino ad allora.
Prima della metà degli anni Novanta, il ministero del Tesoro, titolare delle azioni dei maggiori
gruppi economici messi sul mercato (ENI, ENEL, Telecom, INA, le grandi banche ecc.), è governato dai
cosiddetti “Ciampi boys”: da Mario Draghi a Fabrizio Barca, a Paolo Peluffo.
Sarà soprattutto quest’ultimo a supervisionare e a consentire la “presa del potere” delle relazioni
pubbliche nella appena nascente comunicazione finanziaria italiana, che esploderà a fine decennio con
l’OPA di Olivetti su Telecom Italia.
Si confrontano su questa opa due strutture italiane di relazioni pubbliche: la Barabino & Partners
di Luca Barabino per conto di Olivetti e la Massmedia & Partners di Andrea Garbarino per Telecom
Italia.
L’elezione di Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica, seguito dal portavoce
Peluffo, porta per la prima volta al Quirinale in forma ufficiale anche un “consulente” di relazioni
pubbliche: Arrigo Levi, noto fino ad allora soprattutto come giornalista e inviato, già direttore del TG1.
L’elezione di Prodi alla presidenza dell’Unione Europea trasferisce a Bruxelles, nella inedita veste
iniziale di responsabile della comunicazione della Commissione e non di semplice portavoce del
presidente, Ricardo Franco Levi, ex giornalista economico, poi fondatore e direttore del quotidiano
L’Indipendente, quindi portavoce dello stesso Prodi quando era a Palazzo Chigi.
Oggi il successore di Prodi, il portoghese Barroso ha addirittura elevato la funzione della
comunicazione al rango di Commissario affidandola alla svedese Wallstrom!
Nel 1999 le imprese italiane, al pari delle amministrazioni pubbliche e delle municipalizzate si
trovano per la prima volta insieme alle prese con il cosiddetto millennium bug, una emergenza planetaria
largamente anticipata che mette alla prova la capacità del Paese di “fare sistema” (come si direbbe oggi).
È un momento magico poiché, sotto la attenta e appassionata co-regia di Franco Bassanini e di Ernesto
Bettinelli per conto del governo, per la prima volta tecnici e comunicatori di tutte le organizzazioni
private, pubbliche e sociali sul territorio nazionale si incontrano, formulano e realizzano con modalità
coordinate e in pochi mesi programmi complessi di preparazione, di adeguamento e di comunicazione in
attesa del possibile black out di Capodanno. Un vero miracolo, una esperienza di condivisione e di coompetizione la cui eredità si è dissolta sia perché il baco del millennio non aveva prodotto danni, sia
perché i nuovi inquilini di palazzo chigi hanno preferito optare per una politica di contrapposizione.
Sempre nel 2000 il successo del Giubileo esalta il sindaco romano Francesco Rutelli, sostenuto
da tempo dalle abilità comunicative di Paolo Gentiloni, già direttore di Nuova Ecologia e poi redattore
dell’Espresso. Entrambi si lanceranno nell’avventura della sfida nazionale a Berlusconi e si faranno
aiutare inutilmente dal guru americano Greenberg. L’ultima volta che un politico italiano aveva
chiamato un comunicatore americano era stato nel 1962, quando la DC chiamò Ernst Dichter di cui
abbiamo già parlato.
Dal 2000 la comunicazione delle organizzazioni italiane avvia un forte balzo in avanti, grazie
alla coincidenza di molteplici fattori.
Sul fronte del settore pubblico, in esecuzione delle riforme Bassanini degli anni Novanta che
avevano accelerato la modernizzazione dello Stato, l’approvazione della legge 150/2000 che riconosce e
incardina il ruolo della comunicazione nell’amministrazione stimola e spinge i comunicatori pubblici
(stimati nel 2001 in 40.000 dal dipartimento della Funzione pubblica, oggi intorno ai 60.000 secondo le
stime dell’Associazione della comunicazione pubblica) a darsi una identità e a formare una comunità
professionale. I due annuali appuntamenti del Forum PA di maggio a Roma e del Compa di Novembre a
Bologna, sono opportunità ove i comunicatori pubblici si scambiano casi, esperienze e nuovi paradigmi.
La legge 150 è oggi ancora lontana da una sua piena applicazione, pur mostrando in bella vista le sue
storture e contraddizioni. Ciò nonostante la legge è stata una leva di consapevolezza importante e la
comunicazione pubblica ha rivelato impegni, dedizioni e talenti ragguardevoli, soprattutto a Torino ove
opera Anna Martina, a Bologna ove il neo sindaco Cofferati si fa ora aiutare da Alessandro Rovinetti, a
San Giorgio a Cremano ove Giancarlo Panico raccoglie crescenti consensi, a Roma ove Mariella
Gramaglia svolge con passione e competenza il suo ruolo di assessore alla Comunicazione e a Genova
ove l’assessore alla Comunicazione Anna Castellano raccoglie i frutti positivi di Genova 2004.
Sul fronte del settore non profit, l’improvvisa crescita del settore, la presenza di personalità di
spicco come Susanna Agnelli, Umberto Veronesi, Giovanni Moro, l’esperienza del settimanale Vita di
Riccardo Bonacina, di associazioni come Sodalitas e alcuni eccellenti comunicatori come Giangi Milesi
del CESVI, Carlo Barburini del Meyer e Alessandra Veronese della Banca degli Occhi, hanno dato ampia
dignità e qualità alla comunicazione del non profit.
Sul fronte della business and financial community, questi ultimi anni sono segnati da una stasi di
investimenti sul fronte della comunicazione esterna ma da una notevole presa di potere da parte dei
comunicatori nelle gerarchie dell’organizzazione. Si pensi solo che nel 2000, delle prime cento aziende
della classifica Mediobanca soltanto in 60 il direttore della comunicazione dipendeva dal vertice. Oggi
questo si riscontra in tutte e 100.
Una crescita di ruolo rapidissima che vede in posizioni di eccellenza professionale comunicatori
come Ludovico Passerin d’Entreves alle prese con il travaglio della FIAT; Gianluca Comin che è riuscito
a portato l’ENEL fuori dalle secche di una identità pubblica a una identità privata, socialmente
responsabile e fortemente attenta ai valori; Carlo Fornaro che dai ripetuti successi raccolti in una
Vodafone ricca di risorse si trova ora in una RCS, ricca di programmi ma ancora frastornata da azionisti
che stentano a trovare unità di intenti; Andrea Kerbaker, raffinato brand enricher di Telecom Italia che
prova a dare ordine a un progetto Italia in cui c’è dentro tutto il suo contrario; Andrea Prandi che ha dato
un forte contributo a fare di Merloni un nome di prestigio nei mercati del mondo e ora si trova a
governare i processi comunicativi di una Edison esposta alle inquiete folate di pacchetti di azioni che
passano da una mano all’altra. Né si può sottacere il cambiamento radicale in corse nella comunicazione
delle banche ove operano fior di professionisti come Pierluigi Celli (Unicredit), Stefano Lucchini
(Intesa) e Davide Cefis (BNL) e neppure il lavoro paziente, certosino, eccellente e integralmente
internazionale che Anna Adriani sviluppa da Trieste per una illycaffè multinazionale di nicchia, vero
gioiello dell’imprenditoria italiana nel mondo.
Sono solo alcuni nomi di professionisti stimati che oggi dirigono la comunicazione delle nostre
migliori organizzazioni.
Ma per capire meglio come sono cambiate le cose in questi trent’anni conviene raccontare la
metafora dell’Oscar di Bilancio che il 1 dicembre 2004 alla Borsa di Milano, con una prolusione del
Nobel Stiglitz, ha celebrato il suo cinquantesimo.
Nato nel 1954 su iniziativa dell’IPR di Roberto Tremelloni, poi andato in letargo negli anni
settanta, quindi riattivato da Gherarda Lucchini, sempre come IPR nei primi anni Ottanta, infine affidato
alle sapienti mani di Paolo Pasini negli anni Novanta quando fu la volta della FERPI ad andare in un
lungo letargo. Ecco che nel 2000 l’Oscar viene rilanciato alla grande dalla stessa FERPI, rinata grazie a
un sito popolare e interattivo (www.ferpi.it) che oggi riceve diverse migliaia di visite al giorno, e grazie
alla decisione di partecipare attivamente alla fondazione, ottenendone la prima presidenza, della Global
Alliance, organismo mondiale che raccoglie 65 associazioni nazionali.
Fino alla fine degli anni Ottanta, l’Oscar veniva consegnato soltanto alle imprese, poi vennero
istituiti premi speciali anche per le amministrazioni pubbliche e le organizzazioni non profit. Prima si
premiavano solo i bilanci economici-patrimoniali, poi progressivamente venivano dati premi speciali
anche ai bilanci sociali e a quelli ambientali, fino negli ultimi due anni a quelli di sostenibilità o di triple
bottom line.
Attivamente sostenuto da tutte le organizzazioni della business community (Borsa, Confindustria,
ABI, ANIA, dottori commercialisti, revisori, direttori finanziari, analisti), dell’amministrazione pubblica
(ANCI, UPI, Conferenza delle Regioni, Forum PA), della comunità non profit (Sodalitas, Vita, FIVOL,
Anima) e dalla presidenza della Repubblica, l’Oscar del cinquantesimo verrà assegnato, per la prima
volta, all’organizzazione (non più soltanto necessariamente impresa) che abbia rendicontato meglio le
sue performance economiche, ambientali e sociali.
E questo anche in omaggio a quella pratica crescente di politiche di responsabilità sociale delle
organizzazioni che in questi ultimi anni ha davvero rivalutato e rafforzato il ruolo del comunicatore.
Un bel passo avanti rispetto al primo premiato del 1954, la società Motta, con la motivazione che era la
prima azienda italiana a rendere pubblico il volume del suo fatturato!
Dunque ne ha fatti di passi la comunicazione delle organizzazioni.
La comunità professionale è oggi stimata in almeno 70.000 persone e, partendo dal presupposto
che si tratta di una attività labour e non capital intensive, un corretto approccio di valutazione porta a
stimare in 12 miliardi di euro l’indotto annuo nel nostro Paese delle relazioni pubbliche!
Nel bene e nel male, la comunicazione è divenuta la struttura stessa della nostra società e si
potrebbe anche aggiungere che fra le tante discontinuità forti della storia, quest’ultima della
globalizzazione è davvero la prima il cui centro propulsore, come dice Anthony Giddens, è proprio la
comunicazione. Vero o non vero che sia, non c’è dubbio che la nostra classe dirigente (privata, pubblica
e sociale) ne è pienamente convinta. Questo pone al comunicatore professionista una grande sfida di
responsabilità e di consapevolezza.
Da un lato, se tutti diventano comunicatori (fenomeno già in atto e in accelerazione) si corre il
rischio della irrilevanza e della “commodity” della professione; dall’altro è necessario che gli stessi
comunicatori si trasformino da tecnici in facilitatori aiutando le organizzazioni per le quali lavorano a
trasformarsi da comunicative (dove esiste una funzione efficace di comunicazione) in comunicanti (dove
tutte la struttura è abilitata comunicare).
Come uscire da questa apparente contraddizione? La consapevolezza del problema è già il primo
passo verso il suo superamento, quindi c’è un gran bisogno di studiare, di discutere di approfondire.
Esistono poi due questioni specifiche che sono al tempo stesso una grande opportunità e un grande
rischio.
La prima è che è sempre necessario, oggi più che mai, che la stampa sviluppi nei lettori una
visione “critica” della comunicazione delle organizzazioni, private, pubbliche e sociali. La fuffa, la
panna montata (avrebbe detto anni fa Eugenio Scalfari) salgono ogni giorno, le manipolazioni e le
mascalzonate crescono in maniera direttamente proporzionale ai costumi generali di un Paese che certo
non migliorano (vedere per credere l’ultima classifica di Transparency International sul tasso di
corruzione dei Paesi) e le persone prendono tante fregature grazie a una pervasiva e persuasiva
comunicazione che tende a passare grazie alle scorciatoie tipiche dell’aumma-aumma generale fra
sistema dei media, pubblicità, proprietà e organizzazioni.
La seconda è che i professionisti della comunicazione devono riuscire a impedire che la moda
imperante della responsabilità sociale di questi anni si trasformi in una semplice operazione di
immagine.
3. I contenuti delle relazioni pubbliche
Le relazioni pubbliche, lo si è già detto, sono quelle attività consapevoli che una qualsiasi
organizzazione attiva per creare, sviluppare o consolidare relazioni con i suoi pubblici influenti: quei
pubblici che la coalizione dominante1 ritiene possano agevolare oppure ostacolare il raggiungimento
degli obiettivi perseguiti.
Dopo averne esplorato alcune criticità strutturali e ripercorso le dinamiche storiche negli Stati
Uniti e in Italia, affrontiamo ora più in dettaglio alcuni aspetti legati alla loro operatività quotidiana.
3.1 A cosa servono
La funzione delle relazioni pubbliche è di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di una
organizzazione grazie ad una attività continuativa, consapevole e programmata di gestione e
coordinamento dei sistemi di relazione2 che si attivano fra l’organizzazione stessa e i segmenti di
pubblico per lei influenti. Sistemi di relazioni che, per essere efficaci, devono essere trasparenti, bidirezionali e tendenzialmente simmetrici.
Può apparire superfluo scrivere che le relazioni pubbliche contribuiscono al raggiungimento
degli obiettivi di un’organizzazione. Eppure, per molti anni è valso – ed è ancora oggi diffuso – lo
stereotipo per cui, in una organizzazione, le relazioni pubbliche rientrano fra le funzioni non
indispensabili. C’è di più: anche per reazione a questa connotazione riduttiva, fra gli stessi operatori
circola l’argomento che le relazioni pubbliche si debbano proporre obiettivi propri, autonomi,
istituzionali, quasi che la funzione fosse indipendente dalla specifica organizzazione e gli obiettivi
fossero dunque sempre gli stessi, in qualsiasi contesto o situazione: migliorare l’immagine, elevare la
visibilità del top management e così via. Qualcuno ha addirittura sostenuto che le relazioni pubbliche
svolgono, all’interno di un’organizzazione, una funzione di “rappresentanza” delle istanze degli
stakeholder, quasi si trattasse di un ombudsman degli stakeholder nel cuore dell’organizzazione. Si tratta
di interpretazioni estreme, difficilmente condivisibili e molto spesso fuorvianti.
Nel primo caso, alla funzione viene riconosciuto un ruolo nice to have (utile, ma non
strettamente necessario) poiché le si attribuisce la sola esecuzione operativa di eventi, programmi e
iniziative decise da altri (dal vertice o dalle altre funzioni aziendali, quali il commerciale, il marketing, il
1
James Grunig (1992) definisce la coalizione dominante come il gruppo di persone in una organizzazione che detiene il
potere di definire strutture e decidere strategie e programmi in un determinato periodo di tempo; la sua legittimazione deriva
da coloro verso i quali questo potere viene esercitato. È evidente che all’interno delle organizzazioni ci può essere notevole
differenza tra i vertici formali definiti dallo statuto o dalla legge e quelli sostanziali che esercitano effettivamente il potere: da
qui la considerazione che la coalizione dominante è situazionale, nel senso che può variare a seconda della questione in
oggetto.
2
I termiini comunicazione e relazione vengono usati in maniera confusa. È bene quindi distinguere la relazione, la cui
costruzione e gestione è il fine ultimo che le relazioni pubbliche si propongono, dalla comunicazione, che invece ne diventa
uno strumento attuativo.
personale o la produzione). Di qui la consuetudine di alcune organizzazioni di affidare in toto le loro
relazioni pubbliche all’esterno. Non ritenendola funzione essenziale, strategica, e neppure
necessariamente continuativa, è giocoforza -anzi “moderno”- applicare l’esternalizzazione
(outsourcing), una pratica normalmente consigliata per le funzioni tattiche che non fanno parte del core
business (il “nocciolo duro” dell’organizzazione, l’attività che la contraddistingue)3.
Nel secondo caso, alle relazioni pubbliche viene attribuito un ruolo generico e comunque adatto
per tutti gli usi. È assai vago infatti dire, come spesso fanno anche gli operatori, che l’obiettivo delle
relazioni pubbliche è quello di migliorare l’immagine di un’organizzazione.4
Nel terzo caso, alle relazioni pubbliche viene attribuito un ruolo di rappresentanza (similsindacale) degli stakeholder all’interno di un’organizzazione5, in una accezione che accentua fino a
stravolgerla la fase dell’ascolto, definita anche ‘riflettiva’, che invece, come vedremo più avanti,
rappresenta una delle diverse funzioni strategiche delle relazioni pubbliche. L’ascolto aiuta anche a
identificare, rispetto a un obiettivo determinato e noto, le variabili davvero prioritarie e gli influenti
effettivamente tali. La sua finalità è comprendere a fondo atteggiamenti, opinioni, valori e
comportamenti degli influenti, sia quelli sulle variabili sia quelli sui destinatari finali, per attivare con
loro iniziative di relazione capaci di facilitare, con risultati misurabili, il raggiungimento di quel
particolare obiettivo, tenendo comunque sempre presente la necessità (pena l’efficacia stessa della
relazione) di assicurare che gli stessi influenti ricavino un valore aggiunto percepito dalla loro relazione
con l’organizzazione.
Resta in ogni caso il fatto che attività di relazioni pubbliche non finalizzate al raggiungimento di
un obiettivo specifico di un’organizzazione sono del tutto inutili.
Nella definizione viene anche sottolineato che le relazioni pubbliche sono un’attività
consapevole e programmata.
Infatti, per il semplice motivo di esistere e di operare, ogni organizzazione anche se priva di una
funzione interna di relazioni pubbliche e/o di un servizio di consulenza esterno, sviluppa relazioni con
altri soggetti6 quali i collaboratori, i dirigenti, gli azionisti, i clienti, gli aderenti, i soci, gli elettori, le
istituzioni; e spesso si tratta di relazioni non consapevoli e non programmate. Intendiamoci, non
vogliamo affatto sostenere che questo sia di per sé negativo. Riflettendo sull’esperienza di vita
quotidiana è facile constatare come una parte significativa della nostra vita di relazione non sia
consapevole e neppure programmata. Vogliamo soltanto affermare che, in situazioni e condizioni
3
A proposito della differenza tra funzioni tattiche e strategiche rimandiamo al paragrafo 1.5 in cui si descrivono le funzioni
tattiche-operative e quelle strategiche delle relazioni pubbliche, anche con riferimento ai ruoli individuati dal Bled Manifesto.
4
Si assiste anche ad una generale confusione attorno ai concetti di identità, immagine e reputazione. Il termine identità indica
i valori alla base di una organizzazione veicolati con la comunicazione dei suoi comportamenti, mentre immagine fa
riferimento alla percezione dell’identità che ne hanno i pubblici influenti e che viene solitamente trasferita da una
comunicazione persuasiva. La reputazione, invece, si riferisce alla percezione dell’organizzazione che ne hanno i soggetti in
base alla loro esperienza nel tempo, diretta od indiretta. Alcuni relatori pubblici attribuiscono prevalenza alla reputazione: i
critici di questa scelta argomentano invece che la reputazione di per sé non implica, a differenza della relazione, strumenti di
governo poiché soggetta soprattutto a variabili non governabili (a differenza della relazione) e non permette misurazione né
valutazione: quindi non è una variabile manageriale.
5
È quella che viene definita “sindrome di Stoccolma”, ovvero la tendenza del relatore pubblico – fedele al suo ruolo
riflessivo di interprete delle aspettative degli stakeholder presso la coalizione dominante – di sovrastimare l’importanza dello
stakeholder presumendo che i suoi interlocutori interni la sottostimeranno, immaginando in tal modo di raggiungere un
equilibrio accettabile. Il relatore pubblico rischia così di perdere la sua credibilità presso il cliente/datore di lavoro
compromettendo così anche le stesse aspettative degli stakeholder e soprattutto l’efficacia del proprio lavoro.
6
Applicando alle organizzazioni la “teoria generale dei sistemi” del biologo austriaco Ludwig von Bertalanffy, è possibile
postulare una stretta interdipendenza e interazione fra queste e tutti gli elementi che fanno parte della realtà sociale,
economica e culturale nelle quali sono immerse. Attraverso tali interazioni ciascun attore influenza il comportamento degli
altri.
normali, gli obiettivi si conseguono con maggiore efficacia se le relazioni con chi ne può condizionare o
influenzare il raggiungimento sono gestite e coordinate in modo consapevole e programmato.
Un ulteriore concetto presente nella definizione è quello di “sistema di relazioni”, inteso come
insieme di rapporti fra un’organizzazione e altri soggetti. Possono essere singole persone, gruppi di
persone, imprese, associazioni, governi, enti locali, istituzioni che – sempre rispetto a uno specifico
obiettivo perseguito dall’organizzazione – sono accomunati da interessi, valori, convinzioni o
comportamenti omogenei, conflittuali o semplicemente condivisi.
Così, un’impresa che importa e commercializza modem sviluppa relazioni con i suoi azionisti, i
produttori internazionali di modem, i dipendenti, i distributori, i fornitori, i clienti finali, le banche. E
ancora: con l’amministrazione pubblica, i concorrenti, i produttori e distributori di hardware e di
software, la stampa tecnica e così via.
Un’organizzazione che persegua i suoi obiettivi in modo consapevole, cercherà di gestire e
coordinare i suoi numerosi sistemi di relazione in modo da facilitarne il raggiungimento. In proposito, si
può osservare come la scienza manageriale di oggi distingua un’organizzazione ben diretta da una meno
ben diretta anche in base al livello di consapevolezza con cui questa gestisce e coordina i suoi sistemi di
relazione con gli influenti.
Negli ultimi anni è stata attribuita un’importanza sempre più decisiva al concetto di “relazione”,
tanto che molti misurano il vero valore aggiunto di un’organizzazione in base al livello di
consapevolezza, di governo e di possesso (ownership) della relazione con gli stakeholder7.
Sotto quest’aspetto, appare paradossale che i relatori pubblici preferiscano chiamarsi
diversamente8 e siano così restii a capitalizzare, acquisendo nuove competenze e piena consapevolezza,
il fatto che il termine “relazione” sia parte integrante della definizione stessa del loro lavoro: un
vantaggio competitivo pressoché unico rispetto ad altri manager o consulenti di impresa.
Tornando alla definizione, quando si dice che le relazioni pubbliche coordinano e gestiscono i
sistemi di relazione di un’organizzazione si vuole soprattutto intendere che il coordinamento, a
differenza della gestione, riguarda quei sistemi di relazione normalmente intrattenuti dalle altre funzioni
manageriali.
Per continuare con l’esempio dell’azienda che commercializza i modem, non spetterà certo alle
relazioni pubbliche gestire i sistemi di relazione con la rete commerciale e neppure con i fornitori o le
banche. Questo compito spetterà, rispettivamente, al direttore commerciale, all’ufficio acquisti e alla
direzione finanziaria, così come competerà alla direzione risorse umane gestire le relazioni con i
dipendenti e con i sindacati, e alla direzione marketing le relazioni con il mercato.
La funzione delle relazioni pubbliche si eserciterà soprattutto nell’assicurare al vertice aziendale
che quei sistemi di relazione siano coerenti e finalizzati al raggiungimento di obiettivi sinergici e nel
“monitorare” che i messaggi chiave trasferiti siano efficaci e funzionali agli obiettivi perseguiti.
Vi sono però anche alcuni sistemi di relazione la cui effettiva gestione viene normalmente
delegata alle relazioni pubbliche. La situazione può variare secondo la specifica organizzazione, la sua
storia, la sua cultura e, più ancora, la leadership e l’autorevolezza di chi ricopre la funzione di relazioni
pubbliche. Tuttavia, in condizioni normali, questi sistemi di relazione comprendono le istituzioni e gli
7
Il benessere organizzativo è il risultato cumulato delle conseguenze che l’organizzazione produce sui pubblici influenti e
che questi ultimi producono sull’organizzazione. Interpretando la capacità di creare benessere (wealth) come fattore di
successo, sviluppare relazioni con gli stakeholder è un vantaggio che permette all’organizzazione di incrementare il suo
valore. (Post, Preston e Sachs, 2002)
8
Sovente la comunità professionale si trova a discutere se i suoi professionisti debbano essere definiti comunicatori o relatori
pubblici. Nel primo caso, la finalità del nostro lavoro è assistere le organizzazioni nel definire i contenuti, progettare e
distribuire strumenti oppure programmi per trasferirli ad altri. Nel secondo caso, invece, la finalità dei relatori pubblici è di
interpretare – ascoltandoli e dialogando con loro – i pubblici influenti, attivando e governando i relativi sistemi di relazione.
Questa sottolineatura evidenzia come il termine comunicatore sottenda prevalentemente un ruolo tattico e operativo, mentre
quello di relatore pubblico enfatizza il ruolo strategico e riflettivo, pur rimanendone l’operatività un elemento essenziale.
organismi della decisione pubblica, la stampa e i cosiddetti “leader di opinione”. Sono inclusi
frequentemente anche i dipendenti, i consumatori e gli azionisti ma, quando ciò accade, si tratta in molti
casi di una co-gestione, rispettivamente con la direzione delle risorse umane, con la direzione del
marketing e con la direzione finanziaria.
I sistemi di relazione efficaci, si è detto, sono trasparenti, bi-direzionali e tendenzialmente
simmetrici.
Prescindendo dagli aspetti squisitamente etici, che pure non vanno sottovalutati, è certo che nella
maggior parte dei casi, quando si ha a che fare con interlocutori con i quali l’organizzazione è
genuinamente interessata a stabilire relazioni positive e durature, la trasparenza, la bi-direzionalità e la
tendenziale simmetricità diventano condizioni di efficacia. Non si può infatti pensare di mantenere una
relazione duratura e positiva con soggetti ai quali vengano trasferiti, con modalità non trasparenti,
messaggi non corretti e ai quali non si assicuri la possibilità di dialogo e interazione. La questione etica
interviene semmai, e in modo significativo, nei casi in cui l’operatore decida consapevolmente di
avviare un’iniziativa non trasparente, unidirezionale o del tutto asimmetrica ritenendola più efficace. La
distinzione è rilevante, perché l’operatore che agisce sistematicamente in modo non trasparente,
unidirezionale e asimmetrico, prima ancora di violare l’etica professionale, è semplicemente un pessimo
operatore. Nel caso in cui, invece, l’etica venga consapevolmente violata perché l’operatore è davvero
convinto che, in quella determinata circostanza, la violazione consenta di ottenere un risultato più
efficace, egli si trova di fronte alla propria coscienza e al giudizio dei suoi colleghi, i soli deterrenti
realmente incisivi; sempre che non vengano violati i codici civili o penali, perché allora interviene lo
Stato.
Può darsi anche che un operatore decida di violare consapevolmente una norma deontologica
perché la ritiene superata, da cambiare, e crede di poterlo fare solo rendendo pubblica la violazione. Un
caso di questo genere è successo non molti anni fa in Italia in merito alla questione della correlazione,
sia pure parziale, fra retribuzione e risultati ottenuti da un’azione di relazioni pubbliche. La deontologia
infatti escludeva a priori tale correlazione, basandosi su un codice redatto quando l’unico modo per
garantire un risultato era quello di “corrompere” l’intermediario (giornalista, politico o funzionario
pubblico che fosse) e non tenendo conto dell’evoluzione tecnologica grazie alla quale è oggi possibile
misurare i risultati con criteri relativamente oggettivi e, quindi, collegare a essi una parte della
retribuzione. La polemica suscitata all’interno della professione dal caso accennato ha portato al
superamento della norma e attualmente è frequente il caso di operatori che collegano una parte della
propria retribuzione al raggiungimento di determinati risultati.
La questione dell’etica professionale – qui trattata solo nei suoi aspetti essenziali – è, per le
ragioni che abbiamo visto, centrale rispetto all’identità e alla percezione che nella società si ha delle
relazioni pubbliche9. I processi con cui si attuano, a differenza della pubblicità, sono invisibili al grande
pubblico e troppo poco noti perfino agli interlocutori più diretti, i cosiddetti “influenti” o “stakeholder”:
una carenza in larga parte voluta dagli stessi operatori, che non sempre considerano imperativo essere
trasparenti. Le cosiddette front organizations, per esempio, sono organizzazioni più o meno complesse,
e più o meno prestigiose, che appaiono indipendenti e, in quanto tali, presentano all’opinione pubblica e
al processo decisionale pubblico, con credibilità e autorevolezza (assai variabili a seconda dei casi),
opinioni, ricerche, documenti, che in realtà rappresentano (indirettamente) gruppi di interesse molto
specifici e non esplicitati. Molti operatori ritengono, e nella gran parte dei casi non a torto, che soltanto
se presentati come “indipendenti” queste opinioni, queste ricerche, questi documenti possono essere
9
La percezione miopica che si ha delle relazioni pubbliche dipende anche in larga parte della scarsa rappresentatività delle
associazioni professionali. In Italia, per esempio, su 70.000 operatori di relazioni pubbliche stimati, solo il 10% (6-7.000)
partecipa ad una delle diverse associazioni. Anche in una prospettiva globale si rileva all’incirca la stessa percentuale,
stimando che nel mondo vi siano circa tre milioni di persone che operano nelle relazioni pubbliche di cui solamente 300.000
appartenenti a una associazione professionale.
valutati dagli influenti per il loro valore, mentre se venissero direttamente attribuiti alle fonti primarie,
cioè ai gruppi di interesse che li hanno promossi e finanziati, la loro credibilità tenderebbe ad annullarsi,
o comunque diminuirebbe fortemente. È una questione assai controversa poiché si può anche dimostrare
che, in diversi casi, è proprio la trasparenza degli interessi rappresentati che attribuisce credibilità alle
opinioni espresse. Comunque, è indubbio che, per un operatore, la via della front organization è la più
usuale e, tutto sommato, la più semplice.
3.2 A chi si rivolgono
Le relazioni pubbliche si rivolgono, in linea generale, ai pubblici influenti di un’organizzazione: soggetti
dotati di poteri decisionali rilevanti per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti, oppure ritenuti
influenti su questi10. In particolare, un’organizzazione attiva relazioni con questi pubblici per indurre in
essi opinioni, atteggiamenti, comportamenti che consentano il raggiungimento degli obiettivi con il
migliore rapporto costi/benefici e che, allo stesso tempo, permettano a quei pubblici di ricavare un
qualche valore aggiunto dall’avere aiutato (o comunque non ostacolato) l’organizzazione nel
raggiungere tali obiettivi. In questo concetto risiede il principio della tendenziale simmetria fra le parti di
una relazione che presidia saldamente la descrizione di relazioni pubbliche efficaci. In sostanza i
pubblici influenti di una organizzazione trovano interesse a contribuire a ridurre gli ostacoli o addirittura
a favorirne gli obiettivi soltanto se pensano di ricavare un qualsivoglia ma misurabile valore aggiunto
dalla relazione che in tal modo attivano con l’organizzazione.
Per quanto riguarda il concetto di “stakeholder”, letteralmente, to hold a stake significa
possedere o portare un interesse, un titolo, inteso (quasi) nel senso di un “diritto”. In sostanza, lo
stakeholder è un soggetto (una persona, un’organizzazione o un gruppo di persone) che ritiene di sua
sponte – non perché riconosciuto dall’organizzazione – di detenere un titolo per entrare in relazione con
questa, un soggetto le cui opinioni o decisioni, i cui atteggiamenti o comportamenti possono
oggettivamente favorire oppure ostacolare il raggiungimento di un suo specifico obiettivo. Così, per
tornare ancora una volta all’esempio dell’impresa che importa modem, questa non riuscirà a raggiungere
i suoi obiettivi se si apre una fase di conflitto con i dipendenti, se le banche interrompono il credito, se i
distributori scelgono un prodotto concorrente, se la stampa tecnica non sostiene l’efficacia del prodotto,
se l’assistenza tecnica non funziona, se il ministero delle Finanze decide di imporre una tassa
sull’innovazione tecnologica e così via.
Ogni organizzazione ha stakeholder che possono più o meno variare rispetto agli obiettivi
perseguiti e più o meno distinguersi da quelli di un’organizzazione concorrente. I giornalisti che si
occupano di moda, per esempio, saranno stakeholder per tutti gli stilisti, ma ciascun stilista avrà
azionisti, clienti e distributori diversi. Così, anche per un produttore di profumi il giornalista che si
occupa di moda è importante ma, fra i tanti giornalisti, tenderà sicuramente a privilegiare l’esperto di
10
Riprendendo il dibattito sulla questione dei pubblici (si veda il paragrafo 1.2) è interessante citare i lavori di Joao Duarte,
giovane ricercatore portoghese, che interpreta i pubblici come gruppi di persone che interagiscono con le organizzazoni in via
continuativa, e non necessariamente su una questione specifica come argomentato da Grunig e Repper nella loro teoria
situazionale. Questa interpretazione è utile perché – collegata al concetto di diversità – appare rappresentare un possibile
nuovo paradigma per le relazioni pubbliche in quanto:
- da un lato osserviamo la maggior efficacia – assiomatica ma profondamente verosimile – della comunicazione onewith-one;
- dall’altro lato citiamo la constatazione – lapalissiana ma banalmente trascurata – che ogni essere umano é diverso
dall’altro.
Questa concezione estensiva di diversità (non associata cioè soltanto a questioni di genere, razza e cultura), incrociata con la
nuova definizione di pubblici, offre all’interazione quotidiana organizzazione-ambiente una nuova prospettiva di cui le
relazioni pubbliche devono prendere consapevolezza per operare in maniera socialmente responsabile.
bellezza. C’è poi un’ulteriore questione che, ai nostri fini, chiarisce meglio l’impiego del termine
“stakeholder” rispetto a quello, che peraltro molti utilizzano abitualmente come sinonimo, di “influente”
ed è la questione della fonte di legittimità. Il termine “influente”, infatti, implica che sia l’organizzazione
a ritenerlo tale, quindi la fonte di legittimazione è l’organizzazione stessa. Nel caso dello stakeholder,
invece, è egli stesso a ritenere di avere il titolo per rivendicare il diritto di interloquire, e non sempre
l’organizzazione gli riconosce questo titolo. Un esempio: negli anni Sessanta, i primi movimenti per la
protezione del consumatore sorti negli Stati Uniti non venivano riconosciuti dalle imprese, ci sono
volute mille battaglie prima che le aziende decidessero di prenderli in considerazione. Anche in Italia,
alla fine degli anni Settanta, nessuna impresa considerava legittima la rappresentanza degli interessi
generali rivendicata dall’allora nascente movimento ambientalista. Oggi, al contrario, nessuna azienda le
cui attività incidano sull’ambiente (e sono praticamente tutte) pensa che gli ambientalisti non siano
interlocutori rilevanti.
Dal punto di vista pratico, i due termini possono sembrare in prima analisi intercambiabili, ma è
bene essere consapevoli delle differenze. Esistono infatti tre diverse categorie:
–
influenti che si ritengono stakeholder, ovvero soggetti che l’organizzazione per prima ritiene
influenti e che però sono anche stakeholder, cioè consapevoli e interessati a una relazione;
–
influenti che non si ritengono stakeholder, ovvero soggetti che l’organizzazione ritiene influenti
ma che non si considerano tali;
–
stakeholder non ritenuti influenti dall’organizzazione, ovvero soggetti che si ritengono
stakeholder ma che non vengono considerati tali dall’organizzazione.
La distinzione è importante dal punto di vista operativo, perché per ogni specifico obiettivo perseguito
l’organizzazione deve in primo luogo decidere quali siano i suoi influenti e quindi individuare quali tra
questi sono effettivamente consapevoli di essere stakeholder e quali non lo sono, tenendo conto anche di
quegli stakeholder che l’organizzazione, per i motivi più diversi, non intende riconoscere come influenti.
Rispetto al primo gruppo, si può pensare che la relazione instaurata (o da instaurare) possa
effettivamente essere, come suggerisce Grunig (si veda il capitolo 5), a due vie e tendenzialmente
simmetrica, e che il modello comunicativo adottato possa essere diretto, sbrigativo, essenziale,
argomentativo, pull.
Rispetto al secondo gruppo, invece, l’organizzazione dovrà operare, in una prima fase, con
modalità push, persuasive e con argomenti tali da attirare la loro attenzione cercando poi di persuaderli a
diventare stakeholder, così da potere instaurare anche con loro una relazione interattiva e
tendenzialmente simmetrica. Ne consegue che, per l’interlocutore soltanto influente, l’organizzazione
dovrà adottare un diverso modello comunicativo, più indiretto, più attraente, e verosimilmente più
oneroso. Seppure a volte questo non sia possibile e in determinate situazioni possa essere persino non
auspicabile, in teoria un’organizzazione dovrebbe comunque tendere a trasformare i suoi influenti in
stakeholder e a dialogare, a due vie e in modo tendenzialmente simmetrico, anche con quegli
stakeholder che, a una prima analisi, non erano stati inclusi fra gli influenti.
Il concetto di “stakeholder” viene anche spesso contrapposto a quello di “shareholder”, cioè a
quello di “azionista”. Da anni, gli analisti dell’organizzazione e gli economisti d’impresa discutono se
l’impresa debba essere in prevalenza una share o una stakeholder company. È un dibattito di notevole
interesse che, in estrema sintesi, attribuisce al modello capitalistico anglosassone una prevalenza della
shareholder company, ovvero di un’azienda il cui interesse primario è soddisfare le aspettative degli
azionisti, e al modello capitalistico del continente europeo e del Giappone la prevalenza della
stakeholder company, il cui interesse primario è invece soddisfare le aspettative di tutti gli aventi titolo
(inclusi, ovviamente, gli azionisti).
Queste due diverse accezioni del ruolo dell’impresa nella società capitalistica accompagnano,
fino a farne ormai parte integrante, il dibattito intorno al welfare e al ruolo dello Stato nelle società
contemporanee. Pur trovando la discussione stimolante, è necessario, ai nostri fini, richiamare
l’attenzione su alcune mistificazioni che essa può nascondere. Se, per esempio, è vero che la stakeholder
company dovrebbe essere, almeno sulla carta, quella più sensibile alle attività di relazioni pubbliche, è
anche vero però che queste ultime nascono, crescono e maturano soprattutto sul mercato anglosassone,
terra d’elezione delle shareholder company.
Non solo: se consideriamo, come dovremmo, le imprese italiane come appartenenti al modello
stakeholder company, sarebbe assai arduo riconoscervi negli anni, il segnale di un genuino interesse del
management (fatte sempre le dovute eccezioni di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente
raccontando la storia delle relazioni pubbliche nell’Italia del dopoguerra) a soddisfare le aspettative di
tutti gli aventi titolo. Inoltre, la transizione in atto verso la nuova economia, con la fortissima
accelerazione dei processi di finanziarizzazione e globalizzazione delle imprese, tende inevitabilmente a
far prevalere, anche in Europa e in Giappone, il modello shareholder company, anche se non si può
negare che gli scandali finanziari degli ultimi anni, emersi nei Paesi di entrambi gli schieramenti, hanno
contribuito notevolmente a mettere all’ordine del giorno del dibattito economico e manageriale questioni
di corporate governance e responsabilità sociale11 delle organizzazioni, tipiche invece del modello
stakeholder company.
3.3 Il concetto di “comunicazione integrata”
Si è detto che le relazioni pubbliche sono soltanto una delle varie discipline della comunicazione di
impresa.
Tra le altre, la più nota è sicuramente la pubblicità, che si propone soprattutto di creare, rafforzare e
consolidare un’immagine di marca (le sue applicazioni sono l’annuncio, lo spot, il comunicato radio, il
manifesto, il banner ecc.).
Seguono la promozione – che ha lo scopo, prevalentemente, di vendere il prodotto e le cui
applicazioni sono l’offerta speciale, la vetrina sul punto di vendita, il concorso a premi – e il direct mail
o direct response o direct marketing – che ha l’obiettivo di stabilire una relazione diretta e di fedeltà con
il consumatore provocando un’azione di risposta, e le cui applicazioni sono il coupon di risposta e/o
l’iscrizione al club.
Si discute inoltre se le sponsorizzazioni debbano o possano essere considerate una disciplina
autonoma rispetto alle altre. La questione è controversa: le sponsorizzazioni, a seconda dell’accezione,
fanno parte delle relazioni pubbliche, della pubblicità e delle promozioni. Nel primo caso rientrano le
sponsorizzazioni classiche (culturali, sociali, ambientali), nel secondo quelle sportive e nel terzo le
cosiddette “trasmissioni televisive sponsorizzate”.
11
La responsabilità sociale delle organizzazioni (o CSR, Corporate Social Responsibility) si è insediata in maniera pervasiva
all’interno delle funzioni spettanti alle relazioni pubbliche. Anche la Global Alliance è impegnata dai primi mesi del 2004 in
un intenso e acceso dibatto sulla connessione tra responsabilità sociale e relazioni pubbliche. Tutte le ricerche fin qui
analizzate (per l’Italia segnaliamo il libro a cura di Nicoletta Cerana, Comunicare la responsabilità sociale, Franco Angeli,
2004) evidenziano la tendenza di assegnare alle relazioni pubbliche un ruolo importante nella gestione della CSR. Ciò
enfatizza la crescita del loro ruolo nella definizione delle scelte strategiche (e ciò rappresenta un enorme opportunità per la
nostra professione che va sostenuta). Al contempo, però, ciò comporta anche un paio di minacce:
1) si rafforza l’idea – sempre latente nei critici della CSR – che la responsabilità sociale sia solamente un’operazione di
rp, o ancor peggio di immagine;
2) l’organizzazione – affidandone la gestione alle relazioni pubbliche – perde l’opportunità di considerare la CSR come
occasione per la diffusione interna di una cultura organizzativa che ponga al centro dell’impresa i suoi sistemi di
relazione con l’ambiente esterno.
In gergo, mentre la pubblicità viene definita una disciplina “above the line”, sopra la riga, cioè
visibile, trasparente, quantificabile, esplicita, tutte le altre si definiscono invece “below the line”, sotto la
riga, cioè più difficilmente identificabili e quindi quantificabili. Ciascuna di questa discipline, nel tempo,
ha consolidato un proprio corpus di conoscenze e proprie regole. Questo comporta, per esempio, che non
si possano applicare alla promozione le stesse regole della pubblicità. L’efficacia dell’una o dell’altra
dipendono infatti da criteri e modalità operative diverse: la promozione, se ha successo, produce effetti
immediati (il concorso aiuta ad avvicinare il consumatore a un nuovo prodotto oppure a svuotare i
magazzini di prodotti noti), mentre la pubblicità si propone obiettivi più a medio termine (rafforzamento
dell’immagine di marca). Così, il direct marketing genera informazioni relative al singolo consumatore,
per sviluppare iniziative di database o relationship marketing, mentre le relazioni pubbliche, nel caso di
supporto a specifici obiettivi di marketing, organizzano eventi e sviluppano relazioni con i media per
ottenere approvazione e consenso da parte di opinion leader credibili e capaci di attirare l’attenzione dei
consumatori sul prodotto o servizio. È però anche vero che, per informare il consumatore dell’esistenza
di una promozione, è spesso necessario servirsi della pubblicità, del direct mail e delle relazioni
pubbliche. Così come, per parlare del sostegno a una politica riguardante l’ambiente, un classico
obiettivo delle relazioni pubbliche, è possibile che una campagna pubblicitaria sui quotidiani possa
essere molto utile per affermare verso gli influenti una posizione della Federchimica in merito a una
nuova legge sull’impatto ambientale.
Insomma, in funzione dell’obiettivo specifico perseguito dall’organizzazione, ciascuna disciplina
può essere usata come disciplina-guida che coordina le altre oppure come disciplina-supporto che viene,
a sua volta, coordinata da un’altra. Ecco allora cosa significa all’origine l’espressione “comunicazione
integrata”: l’uso integrato delle diverse discipline della comunicazione d’impresa, utilizzando le
specifiche caratteristiche di ciascuna per arrivare a sviluppare sinergie comunicative tali da raggiungere
il risultato più efficace con il miglior rapporto costi/benefici.
Tuttavia, in questi ultimi anni, l’espressione viene utilizzata anche in diverse altre accezioni.
La comunicazione si dice infatti “integrata” quando:
–
–
–
–
–
–
le organizzazioni si sforzano di rendere coerenti i messaggi rivolti all’esterno con quelli
inviati ai collaboratori interni (comunicazione esterna e interna);
le organizzazioni si sforzano di rendere coerenti i messaggi al mercato con quelli inviati agli
influenti (comunicazione di marketing e istituzionale o corporate);
la comunicazione online è coerente e sinergica con quella offline;
i componenti della funzione di comunicazione di un’organizzazione lavorano in forte
simbiosi e sinergia (oggi è possibile anche farlo online via Internet o Extranet) con i
comunicatori delle varie agenzie esterne di professionisti;
i componenti della funzione di comunicazione di un’organizzazione lavorano in forte
simbiosi e sinergia con le altre funzioni dell’azienda (risorse umane per la comunicazione
interna, finanza per la comunicazione finanziaria, marketing per la comunicazione al
mercato);
all’interno delle amministrazioni pubbliche, e per alcuni effetti perversi derivanti dalla legge
150 del maggio 2000, gli uffici del portavoce, gli uffici stampa e gli uffici relazioni con il
pubblico riescono a dialogare fra loro perseguendo obiettivi comuni o perlomeno coerenti.
È importante sottolineare la forte e visibile azione degli operatori più consapevoli, volta a rimediare con
lo studio, la sperimentazione, la verifica, l’ascolto delle esperienze di altri, quelle che sono oggi le aree
di maggiore criticità della comunicazione di impresa, che si presentano quando:
–
–
–
–
–
–
–
3.4
ogni disciplina viene usata da funzioni diverse per raggiungere obiettivi diversi con messaggi
diversi;
il comunicatore interno non sa quello che fa quello esterno e viceversa;
il comunicatore istituzionale va per la sua strada senza confrontarsi con quello che si occupa
di comunicazione al mercato e viceversa;
si va in Rete con un proprio sito senza preoccuparsi di dire cose coerenti con quelle che si
dicono sui canali classici della comunicazione;
i comunicatori aziendali e le agenzie esterne parlano linguaggi diversi e non si capiscono,
con il risultato che il prodotto non piace agli uni ma neppure alle altre;
i comunicatori in azienda si comportano come tecnici specialisti e, quindi, sono vissuti come
tali dagli altri dirigenti interni, venendo così meno al ruolo fondamentale di coordinamento e
gestione dei sistemi di relazione dell’organizzazione;
i comunicatori di una amministrazione pubblica vivono separati gli uni dagli altri, ignorando
le rispettive attività.
Come si attuano
Per ciascun specifico obiettivo perseguito dall’organizzazione, definito dopo l’ascolto attivo delle
aspettative degli stakeholder rispetto alle conseguenze indotte in loro dalle sue finalità, l’attività di
relazioni pubbliche si realizza innescando un flusso continuo e costante di azioni che:
–
–
–
–
–
–
inizia con l’identificazione delle variabili (esterne, interne) le cui dinamiche orientano
l’obiettivo definito;
prosegue con l’ascolto dei pubblici influenti sulle variabili identificate e dei pubblici influenti
sui destinatari finali;
continua con la definizione dei messaggi chiave;
applica un pretest che analizza i livelli di familiarità del contesto e del contenuto del
messaggio e di credibilità/autorevolezza percepita della/e fonte/i;
progetta specifiche iniziative di relazione realizzate con stumenti di comunicazione;
si conclude con un’ulteriore fase di ascolto che misura l’efficacia delle azioni realizzate,
facilitando così la progettazione e la realizzazione di nuove azioni.
L’espressione “flusso continuo di azioni” usata nella definizione iniziale sottolinea la funzione operativa
delle relazioni pubbliche. Troppo spesso infatti, in questi ultimi anni, gli operatori di relazioni pubbliche,
frustrati perché tendenzialmente utilizzati come “tattici”, hanno abusato del termine “strategico” quasi a
sottolineare la volontà di estraniarsi da una funzione operativa.
Se quanto affermato fin qui appare convincente, il ruolo strategico delle relazioni pubbliche
all’interno di una organizzazione appare evidente e non merita ulteriori sottolineature. Perché questo
ruolo venga riconosciuto anche dagli altri, è però indispensabile che la funzione dimostri, con criteri
misurabili e condivisi dal resto del management, la propria capacità di facilitare il raggiungimento degli
obiettivi dell’organizzazione.
Questo “flusso continuo” passa attraverso quattro macrofasi: ascolto iniziale, progettazione,
attuazione, ascolto.
La macrofase di ascolto iniziale è sostanzialmente una fase attiva sul campo, e che si realizza
solo in parte a tavolino. È, di per sé, un’intensa e importante fase relazionale che fornisce
all’organizzazione elementi utili per definire con chiarezza e consapevolezza le proprie finalità e i propri
obiettivi nonché per decidere le politiche comunicative, gli stessi messaggi, e le azioni da intraprendere
per diffonderli. Può anche succedere che, a seguito di un’attenta fase di ascolto cambino, talvolta anche
sostanzialmente, gli stessi obiettivi perseguiti.
Durante la macrofase della progettazione, in funzione di specifici e ben definiti obiettivi e in base
ai risultati dell’ascolto, viene progettata una strategia relazionale che, normalmente, si attua utilizzando
appositi strumenti di comunicazione e che, in funzione di parametri almeno parzialmente predeterminati
e condivisi, si ritiene possano, meglio di altri, essere efficaci.
La terza macrofase, quella dell’attuazione, esalta al tempo stesso la creatività e la capacità
comunicativa delle relazioni pubbliche. Essendo le risorse disponibili (umane e finanziarie) sempre
limitate, la sfida non consiste soltanto nel produrre iniziative che aiutino l’organizzazione a raggiungere
l’obiettivo perseguito, ma soprattutto nel realizzarle con il miglior rapporto costi/benefici.
La quarta macrofase, quella dell’ascolto, è cruciale.
Qui è però necessario intendersi: l’ascolto non è separato dalla comunicazione, ma ne costituisce
sempre una parte integrante.
Malgrado ciò, come per qualsiasi altra funzione di management anche le relazioni pubbliche
sono tenute a dimostrare di poter raggiungere risultati misurabili, valutando a seconda di ogni specifica
situazione i quattro indicatori classici:
–
–
–
–
output: la capacità dello strumeno di raggiungere l’interlocutore (quantitativa e misura
l’efficienza);
outtake: la ricezione da parte dell’interlocutore (quanti-qualitativa e misura sempre
l’efficienza);
outcome: la modifica effettiva del cambiamento nell’interlocutore (quali-quantitativa e
misura l’efficacia della singola azione);
outgrowth: la modifica effettiva del cambiamento della relazione fra le due parti (qualitativa
e misura l’efficacia del programma nel suo insieme)
Inoltre, avendo a che fare in prevalenza con sistemi di relazione le cui dinamiche sono per definizione
veloci, il riavvio del ciclo porta inevitabilmente a una revisione degli obiettivi, e quindi delle variabili,
degli stakeholder o degli influenti, della progettazione e, infine, dell’attuazione delle stesse o di altre
iniziative prevalentemente comunicative.
Le quattro macrofasi sopra descritte, sia pure a grandi linee, corrispondono alla migliore pratica
operativa delle relazioni pubbliche e trovano applicazione in ogni efficace piano di relazioni pubbliche.
4. Interlocutori e strumenti
4.1 Le relazioni con i giornalisti
Qualsiasi quotidiano, giornale radio o telegiornale è ricco di notizie le cui fonti sono sovente dirette e palesi al
pubblico: si tratta di dichiarazioni di protagonisti, comunicati di agenzie di stampa, interviste oppure inchieste,
resoconti e cronache puntuali di fatti, eventi o accadimenti vissuti in prima persona dal giornalista.
Molte però sono anche le fonti indirette, raramente palesi al lettore, che un giornalista adopera abitualmente per il
suo lavoro: comunicati delle organizzazioni, documenti finalizzati a dimostrare una tesi o una posizione,
conversazioni telefoniche, tematizzazioni suggerite da soggetti terzi autorevoli e credibili e tanti altri stimoli di
varia provenienza.
Del resto, se un giornalista dovesse citare nei suoi articoli ogni fonte -diretta e indiretta- da cui ha tratto spunto, il
giornale si trasformerebbe in un elenco telefonico, scoraggiando i già pochi lettori. A questo si aggiunga che
molte fonti, per le ragioni più diverse, si inaridirebbero immediatamente se il giornalista decidesse di rivelarle.
Rispetto a queste ultime fonti maggiormente “sensibili”, ovvero riservate e dunque di non libera verifica o
consultazione, va sottolineato che una parte sempre più rilevante è costituita da relatori pubblici. Nulla di male,
basta saperlo.
Molti studiosi oggi sostengono che la ragione di fondo per cui la stampa (e quindi il giornalismo) perde in modo
progressivo di credibilità agli occhi dei lettori è proprio il continuo moltiplicarsi di fonti non esplicite (o
esplicitabili), al punto che i lettori anziché sentirsi soggetti sociali attivi grazie anche alla funzione critica
esercitata dal giornalista che in qualche misura li rappresenta, si percepiscono sempre di più come oggetto passivo
degli eventi. Si sentono traditi.
Secondo il Bureau of Labor Statistics che adotta criteri definitori decisamente restrittivi, le relazioni pubbliche
rappresentavano solo quattro anni fa negli Stati Uniti la terza industria come velocità di crescita (la prima è
costituita dai servizi informatici e la seconda dai servizi per la salute). Per Glen Broom, professore all’Università
di San Diego, il settore delle relazioni pubbliche negli ultimi 15 anni è a dir poco raddoppiato. Negli Stati Uniti vi
sono assai più di 300 università che offrono lauree brevi o complete in relazioni pubbliche, e nel 70% dei casi a
terminare questi corsi sono le donne. Anche in Italia, le attività di relazioni pubbliche sono in forte espansione1.
Come spiegare una crescita così impetuosa?
1
In Italia nel 2001 venivano stimati circa 70 mila operatori di relazioni pubbliche (oggi dovrebbero essere intorno ai 90.000).
Fra questi circa 40 mila appartengono all’Amministrazione pubblica, 10 mila alle organizzazioni private, 5 mila al terzo
settore, 10 mila operano invece sul mercato come consulenti e liberi professionisti. Per misurare l’indotto dell’intero mercato
professionale non si può ricorrere - come è stato fatto fino ad oggi - agli stessi indicatori utilizzati per le attività capital
intensive come ad esempio la pubblicità: le relazioni pubbliche non acquistano spazi sui media e sono anzi una attività ad alta
intensità di lavoro (labour intensive). L’implicazione è che per valutare l’indotto occorre censire il numero dei professionisti,
attribuire loro un costo lordo unitario per le organizzazioni nelle (o per le) quali lavorano, moltiplicare quella cifra per 3
(come da parametri Ocse) per giustificarne la produttività. Applichando questa equazione al mercato italiano del 2001 e
calcolando un costo unitario lordo conservativo pari a 50 mila Euro moltiplicato per 3 si ottiene un valore complessivo di
circa 10,5 milardi di Euro. Una cifra ampliamente differente da quei 2,3 miliardi valutati per lo stesso periodo da
Upa/Intermatrix utilizzando indicatori capital intensive (in pratica è un panel di aziende che indica i budget assegnati alle
relazioni pubbliche e il dato viene dunque proiettato sull’universo).
Nel corso degli anni, la maggiore consapevolezza dell’importanza del sistema dei media ha spinto i protagonisti
della vita politica, economica, sociale e culturale a rivolgersi sempre più spesso agli operatori delle relazioni
pubbliche per ricevere supporto nella gestione dei rapporti con i mezzi d’informazione, per influenzarne e, in
qualche modo, condizionarne le attività. Ciò produce una crescente 'dipendenza' dei giornalisti dai relatori
pubblici, dipendenza quasi mai evidente al pubblico poiché si riferisce a relazioni quasi sempre “invisibili” (a
questo proposito si veda il Capitolo 1). Secondo Scott Cutlip, professore emerito dell’Università della Georgia e
fra i maggiori studiosi mondiali della materia, quasi il 50% delle informazioni presenti su un giornale è frutto di
una relazione del giornalista con una fonte professionale di relazioni pubbliche.2 Se a questo dato impressionante
aggiungiamo le attività meno visibili degli operatori, possiamo concludere che le relazioni pubbliche,
nell’insieme, rappresentano oggi la fonte primaria dell’informazione giornalistica e, quindi, della formazione
dell’opinione pubblica.
Una recente analisi di sociologi inglesi per conto dell'IPR (Institute of Public Relations) porta ormai la
percentuale all'80%! Bisogna infine tenere anche conto dei cosiddetti “redazionali”, articoli che a un lettore non
smaliziato appaiono liberamente scelti dalle testate, mentre in realtà sono frutto di un negoziato consapevole tra
l’editore e l’inserzionista pubblicitario. Si tratta di un fenomeno particolarmente diffuso in Italia, ma presente, sia
pure in forme meno esasperate, anche in altri Paesi. L’Ipra (International Public Relations Association) ha
lanciato qualche anno fa una campagna internazionale contro la “Zakazuka”, pratica russa ma non solo, in base
alla quale gli editori pretendono pagamenti diretti dalle organizzazioni, o dai loro consulenti, per pubblicare
notizie di interesse generale in cui esse sono citate.
Del resto, non si può negare che alcuni giornalisti si dichiarino disponibili ad affrontare o, fatto ancor più
inquietante, a non affrontare determinati argomenti su richiesta dei relatori pubblici, talvolta accompagnata da
favori, elargizioni di denaro, regali o collaborazioni lautamente retribuite. Si può dunque affermare, come
sostengono alcuni impietosi osservatori, che l’informazione e, di conseguenza, il dibattito politico, economico e
sociale, l’andamento dei consumi e dei mercati finanziari siano manipolati dalle relazioni pubbliche? La risposta è
negativa, anche se la pervasività delle relazioni pubbliche è tale da non potere eludere, senza discuterla, la
ricorrente accusa di manipolazione. Questa sicuramente avviene quando un operatore di relazioni pubbliche senza
scrupoli lavora per un’organizzazione altrettanto spregiudicata e insieme incontrano un giornalista di dubbia
moralità.
Ma siamo nella patologia: anche se è innegabile che in alcuni settori della vita associata e in alcuni momenti della
nostra storia recente, la patologia abbia largamente prevalso sulla fisiologia.
La relazione fra il giornalista e l’operatore di relazioni pubbliche è, in effetti, una relazione “sofferta”.
Mentre il primo si propone in primis di interpretare e raccontare avvenimenti e fatti che ritiene di interesse del suo
lettore, il secondo ha come scopo primario quello di assicurare che gli avvenimenti e i fatti interpretati e raccontati
dal giornalista aiutino il raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione per cui lavora. Se è chiara
l’interdipendenza fra le due professioni, altrettanto evidente è la molteplicità di occasioni di confronto e anche di
conflitto. E quando c’è conflitto, la relazione fra i due soggetti può risultare decisamente squilibrata. Da un lato,
infatti, l’operatore di relazioni pubbliche, correndo il rischio di non essere più ritenuto affidabile, può limitarsi ad
ostacolare il lavoro investigativo del giornalista e a “chiudere il rubinetto” dell’informazione, privilegiando, per
esempio, altri giornalisti oppure decretando il “silenzio stampa”3. Dall’altro il giornalista, con i suoi articoli, può
danneggiare l’interesse rappresentato dall’operatore di relazioni pubbliche, compromettendone l’attività. In più,
2
Una serie di studi condotti tra il 1963 ed il 1975 da Cutlip dimostrarono che circa il 45% delle notizie nei quotidiani ed il
15% di quelle diffuse da radio e televisione erano originate da una fonte di relazioni pubbliche (Scott M. Cutlip, “Public
Relations in the Government”, Public Relations Review 2, Summer 1976: 19-21). Anche una ricerca condotta da Hill &
Knowlton nel 1977 su un campione di giornalisti economico-finanziari evidenziò come i relatori pubblici fossero la fonte
primaria di informazioni (Lucien Toney File, “How Business editors View Public Relations”, Public Relations Journal, 34
(February 1978): 8-9).
3
Soprattutto negli Stati Uniti è in atto una forte tendenza dei relatori pubblici ad ostacolare l’accesso diretto dei giornalisti ai
datori di lavori o clienti e questo suscita reazioni negative nella comunità giornalistica. Forse così si spiega almeno in parte
perché le relazioni pubbliche hanno quasi sempre “cattiva stampa”.
come accade all’alcolista quando non riesce a capire di avere un problema, molti giornalisti sono troppo vicini alla
loro stessa patologia per rendersene conto e si autoingannano, ostentando verso le relazioni pubbliche un
atteggiamento pubblico arrogante e ostile. Non è un caso che le attività di relazioni pubbliche siano fra le più
“ridicolizzate” dalla stampa. Talvolta, tuttavia, l’operatore di relazioni pubbliche, anziché lavorare, come
dovrebbe, per facilitare il compito al giornalista, si trova effettivamente ad ostacolarlo:
– negandogli l’accesso diretto alla fonte primaria;
– fuorviandolo con informazioni parziali o solo verosimili;
– ritardando le notizie e, quindi, visti i tempi sempre più stretti di lavorazione delle testate, svuotandole di fatto
di valore;
– intervenendo sul diretto superiore oppure addirittura sull’editore per evitare l’uscita di un articolo o per
modificarne impostazione e contenuti.
Il giornalista da parte sua, in certi casi, pur scrivendo su argomenti che rientrano nella sfera d’azione del singolo
relatore pubblico decide di non interpellarlo, rivolgendosi solo ai concorrenti o ad altri soggetti ostili agli interessi
che rappresenta.
Ciò nonostante, le due professioni sono condannate a lavorare insieme, dipendono in larga parte l’una dall’altra e,
senza dubbio, quando la relazione funziona bene, il vero beneficio lo trae il lettore al quale arrivano notizie più
attendibili e complete.
Il relatore pubblico si trova spesso ad agire al centro di un triangolo dove, per raggiungere i rispettivi obiettivi,
interagiscono la comunità economica, la comunità politica e la comunità dell’informazione. Negli Stati Uniti di
fine Ottocento, quando le relazioni pubbliche sono nate come professione, “contavano” in effetti soltanto la
comunità economica e -seppure in subordine- quella politica. La stampa aveva scarsa autonomia, poco potere e
neppure ampia diffusione. Infatti, la rivoluzione industriale aveva fatto crescere il potere di alcuni grandi
imprenditori e banchieri (come i Morgan. i Vanderbilt e i Rockefeller), i quali per assicurare alle loro attività
economiche un quadro normativo e operativo favorevole, o comunque non ostile, interagivano direttamente con i
politici, gli amministratori e i funzionari pubblici, a livello sia federale che dei singoli Stati4. Le relazioni fra
imprenditori e politici erano quindi gestite normalmente in prima persona. Il sistema era più semplice di quello
attuale e imprenditori e politici avevano (o ritenevano di avere, che è quel che conta) scarso bisogno di interpreti o
di intermediari. L’avvento di una stampa relativamente più libera e indipendente (con la crescita professionale dei
cosiddetti “muckracker”, i pionieri del giornalismo investigativo, vicini al nascente movimento progressista
americano) si colloca tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Si tratta di una stampa critica verso i
comportamenti arroganti dei grandi monopolisti privati (ferrovie e miniere, energia e comunicazioni).
Si crea così la necessità per gli imprenditori di servirsi di nuovi professionisti capaci di orientare i resoconti
dei giornalisti che formavano quell’opinione pubblica la cui importanza lievitava, influenzando anche quello
stesso potere politico da cui le imprese attendevano l’erogazione di ingenti risorse per mantenere elevato il
proprio sviluppo. Il presidente Theodore Roosevelt entra in carica nel 1900 dopo l’assassinio del predecessore
McKinley (considerato grande amico dei monopolisti e fortemente criticato dai muckracker) e viene molto
influenzato dall’opinione pubblica. Pur repubblicano, avvia molteplici inchieste sulle “malefatte” di imprenditori
e banchieri e vara leggi che ne limitano il potere.
Le relazioni pubbliche, dunque, nascono soprattutto per gestire le relazioni con la stampa e non v’è alcun dubbio
che, ancora oggi, i giornalisti ne sono i principali interlocutori. Del resto, gli stessi quattro modelli di Grunig (si
veda il Capitolo 5) considerano il rapporto con i media sempre fondamentale per le relazioni pubbliche e,
addirittura, i primi due modelli (quello di Barnum definito “press agentry” e quello di Ivy Lee noto come “public
information”) considerano i giornalisti praticamente come gli unici interlocutori dei relatori pubblici.
4
È il periodo definito “the public be damned” (il pubblico sia dannato), frase pronunciata dal magnate Vanderbilt in una
famosa intervista al New York Times che testimonia la scarsa considerazione riposta nel pubblico in generale ad ulteriore
dimostrazione che soggetti influenti per le organizzazioni erano solo i giornalisti ed i politici.
I primi professionisti a definirsi relatori pubblici sono nel 1900 i fondatori della società Publicity Bureau di
Boston e pochi anni dopo, nel 1904, quelli della Parker & Lee di New York e della William Wolff di Washington.
Escludendo quest’ultima, specializzata in attività di lobby che si avvale di operatori di formazione giuridica, i
professionisti della altre due provengono dal giornalismo. Anche oggi un numero significativo di giornalisti che
collabora con agenzie, quotidiani, periodici, radio e televisioni passa regolarmente a svolgere attività di relazioni
pubbliche per conto di organizzazioni private, sociali e pubbliche di varia natura. Non v’è dubbio infatti che, per
svolgere in maniera ottimale le funzioni di relazioni con i media -a parità di altre importanti condizioni- la
conoscenza, la frequentazione e la pratica del giornalismo sono risorse importanti. C’è di più: in Italia esiste, a
differenza degli altri Paesi, un Ordine dei giornalisti regolato per legge dello Stato. L’Ordine ha da molti anni al
proprio interno un sottogruppo denominato Gus (Gruppo uffici stampa) che si è battuto con successo per imporre
con una legge (legge 150 del maggio 2000) a tutte le organizzazioni centrali e periferiche dello Stato l’obbligo di
assumere giornalisti iscritti all’Ordine nei rispettivi uffici stampa: quasi si trattasse di un’unica professione. In
realtà, si tratta di due attività diverse, come lo sono quella di avvocato e di giudice, oppure quella di internista e di
chirurgo.
Giornalisti e relatori pubblici si occupano di informazione e comunicazione così come avvocati e giudici si
occupano di legge, ma in entrambi i casi, siamo in presenza di mestieri diversi per finalità, valori, abilità e
competenze richieste. Infatti, la finalità del giornalista è di interpretare per il lettore gli avvenimenti che osserva e
analizza, mentre quella di un capo ufficio stampa è di sviluppare una relazione con il giornalista per trasferirgli,
con modalità credibili (qualità dei contenuti) e fiduciarie (qualità della fonte comunicante), informazioni
esplicitamente e sicuramente di parte. Inoltre, i valori primari del giornalista sono l’oggettività, l’autorevolezza
della fonte e, soprattutto, la comprensione delle attese e degli interessi del lettore; mentre quelli di un relatoe
pubblico che si occupi di media sono la comprensione delle aspettative e degli interessi del giornalista, la
tempestività e la chiarezza delle informazioni, il tutto esplicitamente in funzione degli interessi del suo datore di
lavoro. Infine, le abilità primarie del giornalista sono la rapidità di sintesi, la capacità di attrarre l’attenzione del
lettore e la comprensione delle interconnessioni fra le notizie, mentre quelle del media relator sono la capacità di
raccogliere notizie dalle fonti interne all’organizzazione, la comprensione piena degli obiettivi di questa,
l’assemblaggio e la capacità di attirare l’attenzione del giornalista prima ancora del lettore, il che implica una
notevole abilità relazionale, assai meno richiesta al giornalista.
È peraltro decisamente paradossale che, proprio mentre l’Amministrazione pubblica del nostro Paese, impegnata
in uno sforzo di modernizzazione per allineare la sua burocrazia a quella dei Paesi “più evoluti” necessita di
partecipazione, comprensione, collaborazione e consenso dell’opinione pubblica, il nostro Parlamento abbia
varato, unico al mondo, una legge che impone a Comuni, Regioni, Ministeri e altri Enti pubblici l’assunzione
esclusiva di giornalisti iscritti all’Albo per ricoprire il ruolo di ufficio stampa!
È paradossale soprattutto se si pensa che l’espressione “relazioni pubbliche” venne usata pubblicamente per la
prima volta a Yale nel 1882 (per la verità, abbiamo recentemente visto un documento autografo di Thomas
Jefferson del 1808 in cui l’espressione “state of thought”, usata nel senso di “politica”, viene corretta a penna
dallo stesso Jefferson in “public relations”) in occasione della cerimonia per la consegna dei diplomi di dottorato,
quando il giurista Norman Deaton disse che “per sostituire la corruzione delle clientele partitiche occorre
perseguire un sistema di civil service, una riforma dell’Amministrazione pubblica in senso meritocratico,
sviluppando rapporti orientati al pubblico bene: le relazioni pubbliche”.
Fra giornalista e operatore di relazioni pubbliche, come si è visto, esiste un rapporto che, per quanto difficile, è di
stretta interdipendenza.
Oggi con l'uso di Internet e la possibilità di sviluppare e mantenere, a costi contenuti, relazioni dirette e interattive
con ogni singolo componente di un pubblico influente, questa interdipendenza inizia ad allentarsi al punto che si
può prevedere per i media soprattutto una funzione di “autorevole conferma” alle notizie che gli interessati
riceveranno direttamente dalle organizzazioni. Questa tendenza avrà il duplice beneficio di accrescere
l’importanza e l’autorevolezza dei media (e quindi la responsabilità dei giornalisti) e di allentare la tensione
spasmodica che oggi caratterizza la relazione fra giornalista e operatore di relazioni pubbliche.
Per capire più in dettaglio gli strumenti e le modalità di relazione fra giornalisti e relatori pubblici ipotizziamo ora
il lavoro-tipo di un neoassunto capo ufficio stampa di un’università.
Il suo primo passo sarà di ascoltare e comprendere gli obiettivi dell’organizzazione per cui lavora e identificare
quali di questi possano essere facilitati da un buon sistema di relazioni con i giornalisti.
Il secondo sarà di informarsi sullo stato dei rapporti dell’università con i media: quali sono i giornalisti e le testate
che hanno scritto o parlato dell’università negli ultimi due anni, come ne hanno parlato, quali sono stati i temi
affrontati e in quali occasioni/ momenti. In sintesi, è la costruzione di una sorta di “fotografia” della situazione
esistente, identificandone i punti di forza e di debolezza (sempre in funzione degli obiettivi individuati al primo
passo).
A questo punto, egli avrà anche disegnato una sorta di “albero delle fonti”: quali sono le persone interne
all’organizzazione che detengono l’informazione base o che possono accedervi.
Nella prima fase, dunque, l’ipotetico neoassunto, che per semplicità chiameremo Giorgio Verdi, si è costruito una
fotografia dei rapporti con i media, ne ha identificato i punti di forza e di debolezza e ha costruito un proprio
albero delle fonti interne.
Sempre in funzione degli obiettivi perseguiti, Giorgio Verdi inizierà quindi a censire e a tenersi costantemente
aggiornato su ciò che i media dicono abitualmente su argomenti inerenti l’interesse rappresentato; su quali siano i
temi e i soggetti che concorrono a formare le opinioni dei lettori; su quali siano infine i giornalisti che si occupano
delle questioni rilevanti e le opinioni e le “posizioni” espresse.
Egli costruirà dunque un sistema di monitoraggio quotidiano dei media.
Il passo successivo sarà preparare una cartella stampa base che contenga, insieme a una descrizione
dell’organizzazione per cui lavora, anche approfondimenti specifici per ciascun tema che, sempre in base agli
obiettivi perseguiti, Verdi intende proporre ai giornalisti con un esauriente schema di domande e risposte,
cercando naturalmente di identificarsi con il singolo giornalista la cui attenzione si propone di attirare. Questi testi
dovranno necessariamente essere verificati e condivisi dai responsabili dell’organizzazione e dai principali
componenti dell’albero delle fonti interne.
A questo punto, è giunto il momento per Giorgio Verdi di fare il “giro delle sette chiese”: incontri personali e
diretti di autopresentazione con i giornalisti identificati, possibilmente presso le loro sedi redazionali (per capire e
conoscere il loro ambiente di lavoro). Ogni incontro, chiaramente ed esplicitamente non finalizzato ad ottenere la
pubblicazione di alcunché, si conclude con la consegna di una copia della cartella stampa che comprenderà anche
il nome, il numero di telefono, di cellulare e di fax di Giorgio Verdi nonché la sua e-mail e l’indirizzo del sito
Internet dell’università.
Il primo giro di incontri è importante perché, se ben condotto, darà a Verdi indicazioni precise in merito alle
aspettative, alle opportunità, ai temi ritenuti maggiormente attraenti per ciascun giornalista incontrato. Queste
informazioni andranno registrate in un apposito database, insieme a tutte le altre notizie raccolte sui singoli
giornalisti, l’indicazione delle loro testate e una copia degli articoli e delle notizie da loro pubblicate negli ultimi
due anni.
Integrando le informazioni ottenute dalle fonti interne, le aspettative e le disponibilità raccolte nel primo giro di
incontri con i giornalisti, Giorgio Verdi potrà iniziare, sempre in funzione degli obiettivi perseguiti, a
programmare la sua attività operativa. È opportuno sottolineare che un capo ufficio stampa che arrivi in una nuova
organizzazione e non svolga questi “compiti a casa” è un professionista di modesto valore.
In realtà, non succede mai che qualcuno si trovi ad assumere una nuova responsabilità senza essere
immediatamente operativo (un annuncio importante, una crisi, un grande evento, una scadenza importante), ma un
bravo professionista deve essere in grado di preparare il suo programma e contemporaneamente seguire gli
avvenimenti. Se non lo fa, è condannato (come in effetti sono condannati in molti) a seguire gli avvenimenti
decisi da altri e in funzione di obiettivi che non necessariamente coincidono con quelli per i quali era stato
assunto.
Per completare l’esempio, ecco la sintesi di alcune fondamentali attività di cui Giorgio Verdi si dovrà occupare: e
Un’attività di routine.
Nell’attività di Giorgio Verdi abitualmente rientrano:
– la rassegna stampa quotidiana e la sua diffusione presso i responsabili dell’organizzazione e i componenti
dell’albero delle fonti interne;
– il contatto periodico, almeno mensile, con la rosa ristretta dei giornalisti più sensibili e importanti;
– gli incontri frequenti con le fonti interne per aggiornamenti tematici;
– l’approntamento di materiali fotografici e grafici sull’organizzazione, i suoi prodotti/servizi e i suoi
protagonisti;
– la visualizzazione grafica dei temi più importanti;
– l’aggiornamento del sito Internet, almeno della parte dedicata alla stampa.
La predisposizione di un calendario.
Nel corso dell’anno vi sono diversi momenti canonici in cui, in ambito universitario, occorre essere proattivi con
la stampa: l’inaugurazione dell’anno accademico, le visite e le lezioni importanti in università, le riunioni rilevanti
del senato accademico e del consiglio di amministrazione, i resoconti economici periodici, l’arrivo di nuovi
docenti, i bandi e le assegnazioni di borse di studio, le esperienze di stage in aziende, le statistiche e i profili
demo-psicografici degli studenti, le campagne di orientamento professionale per i maturandi, le campagne di
reclutamento studenti dalle scuole superiori, le attività studentesche, gli eventi, le feste. Per ciascuno di questi
momenti, nel corso dell’anno, Giorgio Verdi valuterà come e se intervenire con uno o più dei vari strumenti a
disposizione di un ufficio stampa.
La preparazione e realizzazione di campagne.
Giorgio Verdi si propone anche di sviluppare iniziative ad hoc per attirare l’interesse dei giornalisti a tematizzare
gli obiettivi a suo tempo definiti come perseguibili. L’intensità e il peso di queste iniziative dipenderanno
ovviamente anche dalle risorse interne ed esterne, umane e finanziarie utilizzabili, ma è in questo frangente che,
soprattutto, si vede la creatività di un ufficio stampa. È assai facile infatti comprare una pagina sul Corriere della
Sera per 75 mila euro e riempirla dei contenuti desiderati. Ma come inventarsi un’iniziativa, una notizia, un
evento che richiami l’attenzione dello stesso quotidiano nel senso desiderato e con contenuti coerenti con gli
obiettivi perseguiti?
La prevenzione di possibili emergenze.
Diverse sono le situazioni di crisi che possono verificarsi in un’università e attirare inopinatamente l’interesse dei
giornalisti. In collaborazione con altri colleghi dell'ateneo, Verdi dovrà prevederle, misurarne la probabilità di
accadimento e decidere -in base a un equilibrato rapporto costi/benefici- per quali valga la pena di prepararsi ad
affrontare e raccogliere tutte le informazioni necessarie, pronto a utilizzarle al momento opportuno.
La verifica dei risultati.
Giorgio Verdi avrà provveduto a creare un sistema di monitoraggio, condiviso con i responsabili
dell’organizzazione, che gli consentirà di misurare i risultati del suo lavoro. Intanto i cosiddetti "output": il
numero di contatti, comunicati, relazioni a tu per tu, telefoniche e via internet intrattenute. Poi i cosiddetti "out
take": quanti cioè di questi contatti hanno prodotto un risultato concreto, non solamente in termini di
millimetri/colonna (o minuti radio/tv), ma soprattutto in termini di qualità. Nel suo giro periodico di incontri con i
giornalisti, egli sarà anche in grado di capire se le loro aspettative sono soddisfatte, se la qualità della relazione è
migliorata. Spesso, è più importante misurare quello che non viene pubblicato rispetto a quante volte vengono
ripresi i comunicati stampa emessi. Un passo successivo è quello di misurare gli "outcome": cioè, se i contenuti
delle informazioni pubblicate o trasmesse sono state recepite dal pubblico cui erano dirette e se hanno contribuito
o meno a modificarne opinioni, atteggiamenti, comportamenti o decisioni.
È fondamentale per Verdi verificare periodicamente il suo lavoro con il responsabile dell’organizzazione e con
l’insieme delle sue fonti interne.
Database.
Deve essere tenuto costantemente aggiornato un database che comprenda i nomi dei giornalisti ritenuti più
interessanti e interessati, i loro vari recapiti (e-mail, cellulare, fax, telefono, indirizzo di redazione e di casa), le
loro opinioni sui temi rilevanti per l’interesse rappresentato, i loro articoli già pubblicati sull’università, sui
soggetti concorrenti e su temi inerenti l’interesse rappresentato nonché qualche indicatore sullo “stato della
relazione”.
Rassegna stampa quotidiana.
La rassegna stampa quotidiana, dedicata ai temi “rilevanti”, deve includere le principali agenzie, testate
quotidiane, periodiche, specializzate, e-zines e radio-televisive.
La cartella stampa istituzionale.
Deve essere tenuta costantemente aggiornata una cartella stampa istituzionale (da mettere anche sul sito Internet)
con le informazioni e i dati sull’università.
I comunicati stampa.
I testi dei comunicati stampa devono essere di 1.000/1.200 battute pari ad una cartella di testo, in casi eccezionali
due cartelle, titolo e indicazioni delle fonti per ulteriori informazioni compresi. Il titolo va pensato soprattutto per
incuriosire il giornalista, e non il lettore. Quindi il titolo potrà/dovrà essere personalizzato in base alla conoscenza
che si ha del giornalista. Si tratta di testi ufficiali che devono sempre avere indicata in modo visibile e in testa al
foglio, una data, un’ora e un luogo di emissione. I comunicati stampa devono sempre contenere una “notizia”. Il
testo deve rispondere alle domande: chi, come, dove, quando e perché. Ogni paragrafo non deve superare le
cinque righe. Ogni periodo le tre righe. Il testo può anche talvolta contenere, in corsivo, la dichiarazione di un
esponente ufficiale dell’organizzazione. In coda al comunicato, va inserita la frase: “per ulteriori informazioni
rivolgersi a”, seguita da nome, cognome, telefono, cellulare, fax, e-mail della persona autorizzata a rispondere a
eventuali richieste di approfondimenti. Il testo di un comunicato stampa va diramato simultaneamente alle
agenzie, alle radio, alle tv, ai quotidiani, agli e-zines, ai blog dedicati, alle pubblicazioni specializzate e ai
periodici, tenendo conto che, seppure questi ultimi avranno poco interesse a diffondere una notizia già uscita sui
quotidiani o alla tv, è comunque importante che la ricevano per il loro archivio. Nei casi in cui il giorno di
pubblicazione della notizia non è rilevante, è utile concordarne la data di uscita con un periodico e diffonderla agli
altri media il giorno prima. Questo per ottenere un effetto cumulo fra i quotidiani e il periodico selezionato.
La conferenza stampa.
La conferenza stampa – normalmente registrata su nastro audio e talvolta anche su video – è, per
l’organizzazione, un momento ufficiale in cui viene data ai giornalisti interessati l’opportunità di ascoltare dal
vivo, e tutti nello stesso momento, una notizia che viene illustrata direttamente e personalmente da un esponente
ufficiale dell’organizzazione. È uno strumento molto delicato, da usare con estrema parsimonia e soltanto se
strettamente indispensabile. I giornalisti infatti, giustamente, non amano le conferenze stampa e, quando possono,
preferiscono evitarle. Per contro, promovendole, le organizzazioni si espongono anche a domande non previste o
imbarazzanti, alle quali è impossibile non dare de visu una risposta. In qualche caso, è vero, la conferenza stampa
è inevitabile, ma nove volte su dieci potrebbe essere evitata con dei buoni comunicati stampa, seguiti da visite e/o
telefonate.
Per quanto riguarda la scelta del luogo, non sempre è utile tenere la conferenza stampa nella sede
dell’organizzazione (specie se periferica, se c’è molto traffico, se la sede non è adatta), talvolta può essere
preferibile un albergo oppure un posto dove i giornalisti sono abituati ad andare. L'incontro va convocato un paio
di giorni prima, con un anticipo di mezz’ora rispetto al suo inizio effettivo (senza però dirlo esplicitamente), per
dare il tempo a tutti di arrivare. Sono invitati i giornalisti rilevanti di tutte le testate rilevanti. Amici e nemici,
interessanti e scocciatori. Mai dare a un giornalista il pretesto per dire di non essere stato invitato a una conferenza
stampa, al fine di evitare le sue domande cattive! Normalmente l’incontro si tiene al mattino, alle 11, alle 12 o alle
13. Deve essere escluso il pomeriggio, poiché i giornalisti lavorano in redazione alla produzione del giornale e,
salvo notizie di eccezionale importanza, le pagine dei quotidiani dell’edizione del giorno dopo sono già chiuse.
Una conferenza stampa non deve durare più di un’ora: mezz’ora (al massimo) per la presentazione della notizia e
mezz’ora per le domande e le risposte. All’ingresso, il giornalista viene invitato a riempire un modulo di
identificazione e gli viene consegnata la cartella stampa preparata per l’occasione (comunicato stampa, eventuale
materiale fotografico, grafico ed elettronico, testi di approfondimento, domande e risposte). Molti preferiscono
consegnare la cartella stampa all’uscita per paura che, ricevuta la cartella, il giornalista decida di lasciare il luogo
prima che la conferenza stampa inizi, oppure mentre è in corso. Se questo si verifica, è perché la conferenza
stampa è inutile e non dà valore aggiunto al giornalista. Bisogna sempre e comunque evitare di promettere, come
in certi casi si usa fare, che all’uscita verrà consegnato un “regalino”. Se la conferenza stampa è davvero utile, è
vantaggioso consegnare prima la cartella stampa, perché in questo modo il giornalista avrà la possibilità di porre
domande di approfondimento e chi risponde alle domande potrà semplificare le risposte richiamandosi ai
contenuti della cartella già consegnata.
Dopo un saluto veloce del capo dell’ufficio stampa, la parola passa all’esponente ufficiale dell’organizzazione (in
qualche caso potrà anche essere più di un esponente, purché l’insieme della presentazione non superi la
mezz’ora). Potranno essere proiettati anche filmati, lucidi, grafici elettronici, e presentati nuovi prodotti o servizi.
Terminata la presentazione della notizia, il capo ufficio stampa apre la sessione di domande e risposte, chiedendo
ai giornalisti di identificarsi per nome, cognome e testata rappresentata. Se, come spesso accade, invece di una
domanda il giornalista tende a esprimere un concetto o un’opinione, il moderatore potrà e con cortesia
interromperlo e chiedergli di sintetizzare la domanda, così da lasciare il tempo ai suoi colleghi di fare ulteriori
domande. In coda alla sessione di domande e risposte, il moderatore dichiarerà chiusa la conferenza stampa e, se
non è previsto un rinfresco, l’evento si chiude (è preferibile comunque offrire caffè, succo di arancia e brioche
all’inizio, per premiare i puntuali che dovranno comunque aspettare i soliti ritardatari). Certamente, però, la
conferenza stampa non è chiusa per il capo ufficio stampa, il quale dovrà immediatamente verificare quali
giornalisti abbiano partecipato e quali no. A questi ultimi dovrà immediatamente far recapitare la cartella stampa,
anticipandola con una telefonata e richiamando per verificarne l’avvenuto ricevimento. Inoltre sarà utile, verso la
metà del pomeriggio, telefonare ai giornalisti ritenuti più importanti che hanno partecipato alla conferenza stampa
per sentire se hanno bisogno di qualche ulteriore dettaglio informativo. In ogni caso, il capo ufficio stampa dovrà
essere sempre disponibile a rispondere a eventuali telefonate per tutto il pomeriggio e fino a sera inoltrata.
Il press brief.
Piuttosto che una conferenza stampa, con tutti i problemi e le procedure che questa comporta, talvolta è meglio
convocare un press brief: un incontro con alcuni (da tre a sei) giornalisti particolarmente interessati e rilevanti con
i quali l’organizzazione ritiene di intrattenere relazioni privilegiate e ai quali vuole fornire una “interpretazione
dietro le quinte” di un argomento o un tema di stretta attualità. È meglio che non vi sia una vera e propria notizia
da comunicare. Se c’è, sarà necessario simultaneamente -avvertendo però i giornalisti invitati al press briefprovvedere anche con un comunicato stampa da inviare a tutti i possibili interessati, chiedendo nel contempo ai
partecipanti al press brief l’embargo sull’avvenuto incontro. In questo caso, non si tratterebbe di una violazione
deontologica poiché il press brief è, per definizione, un evento informale, non ufficiale. Normalmente un press
brief è “off the record” cioè non viene registrato e ciascuno è (teoricamente) libero di dire ciò che vuole. Sarebbe
tuttavia ingenuo stupirsi se le proprie parole, magari non attribuite direttamente, appaiono sul giornale del giorno
seguente, o di qualche giorno dopo. I press brief si usano normalmente per i quotidiani e per i periodici,
comunque per approfondimenti tematici e non per notizie.
L’intervista.
Il media relator, sempre in funzione degli obiettivi perseguiti, valuterà di volta in volta l’opportunità di proporre al
giornalista l’intervista a un esponente dell’organizzazione oppure di accettare una simile iniziativa richiesta
direttamente dal giornalista. In entrambi i casi, deve essere chiaro che l’offerta è esclusiva. Se l’iniziativa è del
giornalista e Giorgio Verdi decide di accettarla, egli deve potere garantire che l’intervistato non concederà, prima
o in contemporanea, un’intervista analoga sullo stesso argomento ad un’altra testata. Così, nessuno impedisce a
Verdi di fare la stessa proposta a più giornalisti, ma se uno accetta, allora bisogna provvedere a ritirare l’offerta
presso gli altri. Normalmente, un giornalista chiede un’intervista alla vigilia di qualche avvenimento importante e
se ritiene il personaggio da intervistare sufficientemente importante. Da parte sua, il capo ufficio stampa propone
un’intervista se vuole aumentare la visibilità del personaggio oppure se vuole che un certo argomento venga
tematizzato. Fra queste due, spesso opposte esigenze di giornalista e relatore media si trova il giusto equilibrio e
spetterà a Giorgio Verdi il compito di governare, più che subire, la relazione con il giornalista sempre in funzione
degli obiettivi perseguiti, ma tenendo pienamente conto delle diverse esigenze del suo interlocutore. Si va
diffondendo (soprattutto in Italia) l’abitudine da parte dell’ufficio stampa di pretendere dal giornalista una lettura
(e una correzione) preventiva dell’intervista. È una pratica sconveniente, accettabile soltanto se il giornalista non
ha -caso raro- particolare urgenza e se gli interventi sul testo sono utili per correggere notizie errate e accogliere
informazioni aggiuntive rispetto a quelle pre-esistenti.
Il telefono.
Il telefono è uno strumento che ha notevolmente modificato il lavoro del giornalista. Un tempo i giornalisti erano
sempre 'sul campo' a cercare notizie, a contattare personalmente le fonti, a “investigare”. L’avvento del telefono, e
in particlare di quello mobile, ha sconvolto le loro abitudini. Oggi alcuni di loro sono più stanziali e al tempo
stesso più disponibili, anche se necessariamente più distratti dal crescente moltiplicarsi delle fonti; mentre altri
sono perennemente in movimento. Ci sono media relator che non ci pensano, che non sono mai stati in una
redazione e che addirittura non sono neppure in grado di descrivere l’aspetto fisico di un giornalista con cui hanno
parlato mille volte al telefono. Bisogna riconoscere che questa pessima abitudine, sempre più diffusa, potrebbe
giustificare che gli uffici stampa siano gestiti da soli giornalisti (però in questo caso professionisti, non
pubblicisti) i quali, perlomeno, dovrebbero conoscere i meccanismi di funzionamento di una redazione. In realtà,
il telefono e il fax sono strumenti utilissimi e indispensabili per creare, mantenere e sviluppare una buona
relazione con un giornalista. Ci si scambiano informazioni, si possono fare interviste, si controllano fonti, si
inviano documenti. Nulla però sostituisce la relazione diretta, il contatto personale, la conoscenza fisica dell’altro.
Internet
Quanto detto per il telefono vale ancor più per la Rete. Che si tratti di Internet, Intranet o Extranet, il nuovo
ambiente web è sicuramente, dopo la relazione interpersonale, lo strumento più importante e più utile per
consolidare un sistema di relazioni. Tratteremo l’argomento diffusamente più avanti. Qui è però importante
sottolineare quanto sia vitale per il media relator conoscere l’ambiente di lavoro, l’humus culturale, il modo di
operare del giornalista con cui deve intrattenere una buona relazione.
Educational- Junket.
È impensabile che un giornalista, pur specializzato, possa essere competente su tutti i temi che interessano
Giorgio Verdi e la sua organizzazione. Ne consegue la necessità di mettere il giornalista nelle condizioni di
comprendere e valutare l’importanza delle informazioni che gli vengono trasferite. Con questa motivazione –
giusta e legittima, anche se nella maggior parte dei casi, come vedremo, è solo un alibi – le organizzazioni sono
solite offrire ai giornalisti viaggi, che in gergo si chiamano “educational”. Così il giornalista viene invitato a
visitare una località turistica che si intende promuovere oppure, per tornare al caso dell’università, lo si porta a
vedere alcune importanti università americane per mostrargli come funziona lo schema del 3 più 2 (bachelor più
master). Più spesso, soprattutto fra i critici delle relazioni pubbliche, questi viaggi vengono chiamati “junket”
(viaggi spazzatura). Si tratta di occasioni in cui si parla, si mangia e si beve molto. Insomma: si fanno amicizie.
Sono occasioni in cui il giornalista si scioglie e cede alla relazione, tanto che alla fine funziona una sorta di
“sanzione dei pari” invertita: anziché criticare il giornalista che scrive un resoconto entusiastico e acritico di un
viaggio, si giudica male quello che non ne scrive o, peggio, che ne scrive con spirito critico.
Come per la conferenza stampa, è meglio evitare gli educational- junket se non sono strettamente indispensabili (e
qualche volta lo sono, non se ne può fare a meno). L’uso di questo strumento, infatti, porta a privilegiare (perché
più facile) l’interazione con giornalisti che, per quanto seri e capaci, sono di fatto condizionati (se scrivi quel che
ti chiedo ti invito al prossimo junket, altrimenti no). La questione, sia ben chiaro, non è “moralistica” ma di
efficacia: privilegiare la cerchia ristretta dei giornalisti più “disponibili” può essere sicuramente un modo efficace
per ottenere risultati a breve ma, come abbiamo visto, l’obiettivo delle relazioni pubbliche si sposta sempre più
dallo spazio di voce allo spazio di attenzione e, normalmente, l’attenzione viene garantita da una testata
autorevole e da un giornalista autorevole e stimato proprio perché esterno ai junket e ai giri stretti degli “amici
degli amici”. Occorre, quindi, pur non trascurando nessuno (tutti i giornalisti sono importanti: è un errore
privilegiare soltanto le grandi testate, in molti casi è molto più importante un giornale locale oppure uno
specializzato), tenere nella dovuta considerazione i giornalisti più critici e indipendenti.
Per concludere, proponiamo dieci consigli operativi per gestire i rapporti con i giornalisti:
1. paga essere onesti e non trovarsi mai costretti a dire una bugia. Non sempre è necessario dire tutta la verità,
ma mai dire una bugia. La credibilità dell’interesse rappresentato e, a seguire, del singolo professionista sono
i valori più importanti da salvaguardare;
2. date sempre al giornalista un valore aggiunto. Se non c’è valore aggiunto percepibile, non date nulla;
3. non pregate mai il giornalista di pubblicare o non pubblicare e non fate mai pressioni reali, velate o esplicite
sull’editore, il direttore o il capo della pubblicità della testata;
4. fate bene i “compiti a casa” e indirizzate l’informazione a chi è davvero interessato a riceverla;
5. nell’argomentare un tema che avete scelto, partite sempre dall’interesse del giornalista, seguito da quello del
lettore, mai da quello dell’organizzazione;
6. iniziate sempre con la notizia, mai lasciarla alla fine;
7. tenete conto delle specificità di ciascuna testata e dei tempi diversi di produzione di ciascun media;
8. ponetevi sempre l’obiettivo di ottenere un articolo corretto, non un articolo “favorevole”;
9. tenete sempre presente che siete solo una delle migliaia di fonti del giornalista e non quella privilegiata;
10. non fate menzione di una frase, un commento o una notizia -neppure in via confidenziale- se non desiderate
leggerla sul giornale.
4.2 Le relazioni con il processo decisionale pubblico
(la lobby)
La “patologia”, ovvero la manipolazione che avviene quando un operatore di relazioni pubbliche senza scrupoli
lavora per un’organizzazione altrettanto spregiudicata e, insieme, incontrano un decisore o un opinion maker di
dubbia moralità, non riguarda però soltanto la relazione fra operatori di relazioni pubbliche e dell’informazione
ma investe anche il rapporto dei primi con il processo decisionale pubblico. Del resto, se è vero che le relazioni
pubbliche nascono da ex giornalisti, è anche vero che fra i primissimi operatori si trova anche un avvocato:
William Wolff, titolare dell’omonima società di lobbisti, la prima sorta a Washington nel 1904.
È importante sottolineare che il primo emendamento della Costituzione americana del 1787 parla esplicitamente
del diritto del cittadino di rivolgersi ai decisori pubblici per tutelare i suoi interessi (“the right to petition the
government for a redress of grievances”), mentre è curioso notare che la prima volta che la Library of Congress
registra l’uso del termine “lobby” è il 14 marzo del 1794, quando viene richiesto ufficialmente lo sgombero dei
corridoi del Congresso “infestati da questuanti professionisti”.
In teoria, in una democrazia rappresentativa – l’ambiente istituzionale in cui le relazioni pubbliche esplicano al
meglio le loro potenzialità5 – ogni decisione pubblica viene assunta tenendo conto dell’interesse generale. Leggi,
regole e norme servono ad assicurare ai cittadini un ordinato svolgersi della vita associata: politica, economica e
sociale. Esistono soggetti specificamente incaricati di questo compito e sono gli amministratori della cosa
pubblica (alcuni eletti, altri di carriera, altri ancora designati dai primi). Rispetto a qualunque questione che meriti
di essere regolata da un potere pubblico, questi soggetti hanno il compito di analizzare le diverse soluzioni
possibili, tenendo conto di tutte le loro implicazioni, per scegliere quella che più delle altre tutela l’interesse
generale.
Ogni organizzazione complessa che operi nella società e sul mercato si trova a essere coinvolta in questo
processo. Da un lato, infatti, deve attentamente osservare le dinamiche del processo decisionale pubblico al fine di
prevedere tutte le possibili decisioni che potranno favorire od ostacolare il raggiungimento degli obiettivi
perseguiti. Dall’altro, deve attivare relazioni proattive con i diversi soggetti della decisione pubblica e con coloro
che ne influenzano opinioni, atteggiamenti e comportamenti, al fine di contribuire a orientare quella decisione in
una direzione favorevole a (o comunque non dannosa per) i suoi obiettivi.
In questi ultimi decenni, lo sviluppo dei “gruppi di pressione”, delle cosiddette “lobby”, avviatosi negli Stati
Uniti e progressivamente diffusosi anche negli altri Paesi, ha agitato i sonni di molti critici e osservatori sociali.
Per l’economista Mancur Olson, la salute della democrazia non viene per nulla garantita dalla vigorosa
competizione fra i gruppi di pressione contrapposti che, secondo altri renderebbe invece, almeno teoricamente,
Parlamenti e Governi arbitri equanimi dell’interesse generale. Così, anche Jonathan Rausch argomenta che il
decisore pubblico, assediato dai gruppi di interesse, si trova, proprio per questa ragione, impossibilitato a decidere
e, quando decide, tende a farlo non tanto nell’interesse generale, quanto nell’interesse di quel gruppo di pressione
che ha “pesato” di più. Il peso percepito di una lobby, tuttavia, non è sempre e necessariamente correlato alla sua
reale efficacia o efficienza. Succede infatti talvolta che lobby leggere, flessibili, veloci e creative (Legambiente,
per esempio, o Cittadinanzattiva sono sicuramente fra queste) riescano a spuntarla sui grandi centri di potere che
sono invece sovente lenti, con processi interni farraginosi e, tendenzialmente burocratici.
Naturalmente, se una lobby è al tempo stesso “importante”, leggera e creativa, può prevalere anche
indipendentemente dal fatto che le soluzioni proposte tutelino l’interesse generale. Per citare un altro esempio, il
Codacons è una lobby sicuramente molto potente che, normalmente, riesce a far prevalere interessi assai
particolari facendoli sapientemente apparire di carattere generale.
Anche in questo ambito, essendo i lobbisti dei professionisti, valgono le regole del mercato e si potrebbe dire che
ciascun interesse rappresentato ha i lobbisti che si merita.
La questione resta sicuramente aperta, anche se è indiscutibile che la presenza dei gruppi di pressione e delle
lobby – comprese, si intende, le associazioni che rappresentano interessi diffusi come il lavoro, l’ambiente, il non
profit, l’accademia o il consumo – assicura al decisore consapevole che vengano realmente affrontati tutti gli
5
Dejan Vercic, in un suo discorso all’assemblea generale dell’IPR inglese nel 2004, afferma che le relazioni pubbliche sono
una vecchia e nobile professione che può vivere solamente in presenza della democrazia poichè solo questa permette alle
persone di relazionarsi liberamente senza restrizioni di alcun tipo, fisiche o morali, e di utilizzare la ragione per comprendere
i diversi sistemi (politico, economico e dei media) che compongo la società. Secondo Vercic, nel cercare di preservare la
libertà dei singoli i relatori pubblici devono assumersi la responsabilità di favorire la diffusione della consapevolezza che esse
sono consustanziali alla democrazia. (per la versione completa del discorso di Vercic:
http://www.ipr.org.uk/news/speeches/AGM04_dejen_speech.pdf
aspetti relativi a un determinato argomento. A questo resta -per l'intera legislatura se è un decisore eletto- la
responsabilità di decidere, in base agli interessi che a suo insindacabile e legittimo giudizio rappresentano
maggiormente la collettività.
Tornando alla patologia, se ne può indicare un caso abbastanza recente: i verbali dei processi di Tangentopoli
dei primi anni novanta (per chi avesse dubbi stimolati dalla massiccia campagna di rivalutazione di quel periodo e
di criminalizzazione dell’operato della magistratura, anche se talvolta discutibile come qualsiasi altro corpo
sociale, il consiglio è di leggere i verbali dei processi) sono una vera e propria rappresentazione esplicita e
continuata di ripetute violazioni del codice penale e civile (molte delle quali avvenute grazie all’intermediazione o
alla guida di relatori pubblici) finalizzate ad ottenere benefici per i corruttori da parte di amministratori e uomini
politici corrotti. Comunque, tutti questi “eccessi”, pur innegabili, non sono di per sé attribuibili alle relazioni
pubbliche, così come non si può dire che i politici siano, per definizione, dei corrotti oppure gli imprenditori dei
corruttori, i giornalisti dei “venduti”, i magistrati dei persecutori e così via.
Sta di fatto che, con frequenza sempre maggiore, le organizzazioni private, le associazioni, le organizzazioni del
terzo settore e le stesse istituzioni pubbliche dedicano una parte crescente delle risorse umane e finanziarie per
influire sul processo decisionale pubblico in funzione degli obiettivi perseguiti. Cresce, in ogni organizzazione,
anche la consapevolezza che le attività di lobby non servono soltanto per obiettivi difensivi (impedire o ritardare
un danno potenziale o diminuirne uno reale) ma anche per obiettivi espansivi (creazione di nuovi mercati,
sviluppo di opportunità, commesse pubbliche…).
In linea generale, si può affermare che, a parità di condizioni, l’efficacia di un’azione di lobby è direttamente
proporzionale all’abilità con cui il lobbista riesce ad argomentare e convincere i suoi interlocutori che gli interessi
particolari rappresentati sono, in effetti, interessi generali.
Così, sempre a parità di altre condizioni, anche l’efficacia è direttamente proporzionale alla credibilità delle
informazioni che il lobbista trasferisce al decisore (purché rilevanti per quest’ultimo). E, a sua volta, la credibilità
del lobbista è strettamente correlata alla fiducia che il decisore ripone in lui e/o nell’interesse che egli rappresenta.
L’insieme di queste due “condizioni di successo” dell’attività di lobby (argomentare interessi generali e trasferire
informazioni credibili) è però direttamente condizionato da una tendenza che preoccupa sempre di più i lobbisti
consapevoli e che, in larga parte, dipende dallo sviluppo tecnologico. Infatti, rispetto alle dinamiche delle
tecnologie, appaiono troppo lenti i tempi intercorrenti all’interno di una organizzazione fra:
– il lavoro dei competenti della materia ai quali è richiesto di elaborare le 'posizioni' da assumere tenendo conto
di tutte le possibili implicazioni per l’organizzazione;
– la conseguente decisione da parte del vertice di procedere;
– la rappresentazione della posizione decisa presso i decisori da parte del lobbista.
Sovente si finisce addirittura per influire sulla produzione di regole e norme che, quando arrivano, sono già
obsolete, e questo non tanto per la tradizionale lentezza dei processi decisionali pubblici, quanto piuttosto proprio
per la lentezza dei processi interni alle organizzazioni. Si può affermare che, oggi, la principale complessità dei
processi lobbistici sia rappresentata dalla inadeguatezza e lentezza dei processi decisionali pubblici per cause sia
interne che esterne alle stesse organizzazioni interessate.Ciò spiega, in parte, la crescente tendenza alle deleghe
legislative agli Esecutivi e alle authority indipendenti, alle forme di devolution verso il basso (Regioni, Comuni,
Province) o verso l’alto (Ue, Wto, Onu).
Le organizzazioni, più o meno consapevolmente, reagiscono a queste variabili affidando ai processi lobbistici
una valenza sempre più manageriale, con un orientamento verso modelli organizzativi orizzontali che richiedono
l’integrazione di competenze diverse e specialistiche. In questo senso, nei processi di lobby, si possono
distinguere l’issue manager dall’account , e l’analista dall’advocate.
Al primo viene demandata la responsabilità di coordinare l’attuazione delle politiche pubbliche di
un’organizzazione su una determinata questione di rilevante interesse. Al secondo viene affidato l’incarico di
seguire e soddisfare tutte le esigenze e le aspettative del “cliente interno” che beneficerà o sarà penalizzato dal
risultato dell’azione di quelle politiche. L’analista è invece la persona che possiede competenze specifiche sul
tema e che analizza tutte le variabili che influiscono sul raggiungimento dell’obiettivo. Spetta, infine, all’advocate
rappresentare la posizione dell’organizzazione verso gli attori del processo decisionale pubblico.
Come si può facilmente intuire, ciascuna di queste figure professionali richiede abilità e competenze professionali
diverse. La capacità di relazione, per esempio, è vitale per l’account e l’advocate, mentre è secondaria per l’issue
manager o l’analista. La conoscenza approfondita delle procedure e delle tecniche inerenti ai processi decisionali
pubblici è, in primo luogo, un’abilità dell’advocate, ma non deve sfuggire all’analista, il quale sarà ovviamente,
insieme all’account, esperto della materia specifica. L’issue manager infine dovrà soprattutto saper produrre
risultati dal lavoro di gruppo (management). In ogni caso, tutte e quattro le figure dovranno avere competenze
specifiche nelle tecniche d’informazione, comunicazione, argomentazione, negoziazione e, si intende, nel lavoro
di gruppo.
La questione della crescente complessità dei processi decisionali pubblici si scontra anche con l'accelerazione
richiesta dalla competitività indotta dalla globalizzazione e che investe ogni organizzazione, privata, pubblica o
sociale. In una democrazia moderna questo potenziale (o reale) conflitto mette in discussione il ruolo storico della
cosiddetta 'democrazia rappresentativa' e induce alcuni gruppi di interesse a tematizzare scorciatoie tali da
metterla in pericolo. Ma, al contrario, molti analisti cominciano invece a ritenere che adottando processi
decisionali inclusivi degli stakeholder prima ancora che siano definiti gli obiettivi specifici, le organizzazioni
riescano ad accellerare i rispettivi processi decisionali e a produrre decisioni più efficaci. E' un processo
quest'ultimo che produce amplissimi spazi operativi e gestionali a coloro che sappiano governare con efficacia i
sistemi di relazione: in primis i relatori pubblici.
Rispetto poi alla possibilità per il lobbista di esercitare la propria funzione, da diversi decenni si discute se,
come e con quali obiettivi gli Stati debbano o possano regolarne le attività. Negli Stati Uniti esiste fin dagli anni
quaranta una legge (“The Lobbying Act”, 1946), più volte modificata, che nella sostanza, più ancora di
“moralizzare” le commistioni fra economia e politica, si propone di assicurare un minimo di trasparenza alle
azioni di chi svolge abitualmente attività di rappresentanza di interessi presso il processo decisionale pubblico: a
livello federale, ma anche a livello di singolo Stato e di singola Amministrazione. Il lobbista professionista si
registra in un elenco depositato presso l’organismo decisionale, dichiara la sua identità, quella (periodicamente
aggiornata) dell’interesse o degli interessi che rappresenta, gli obiettivi della sua azione e (periodicamente)
compila e deposita un modulo in cui sono indicate le risorse finanziarie investite nello svolgimento della sua
attività. In Europa, ogni Paese ha le sue modalità di regolazione ma non esiste ancora alcuna normativa
direttamente vincolante per il lobbista. Nel Regno Unito l'onere della prova viene invertito: è il parlamentare che
deve informare una apposita commissione etica della Camera dei Comuni di rapporti intrattenuti con
rappresentanti di interessi. In Italia, il partito politico attualmente di maggioranza relativa, Forza Italia, alle
elezioni politiche del 2002, ha indicato nel suo programma come rilevante la regolazione dei lobbisti, suggerendo
una soluzione analoga a quella statunitense, ma non ne ha ancora fatto nulla. Inoltre, nei primi mesi del 2002 la
Regione Toscana ha approvato, prima nel Paese, una legge che riconosce e regolamenta le attività dei gruppi di
interesse.
A sua volta, la Ferpi sostiene dal 1976 la necessità di una regolamentazione dell’attività lobbistica, sottolineando
anche l’esigenza che ciascun luogo della decisione pubblica assicuri al lobbista registrato un servizio di assistenza
e consulenza, affinché lobby forti e lobby deboli abbiano opportunità di accesso tendenzialmente simmetrico ai
decisori. In sostanza, secondo la Ferpi la regolazione delle attività dei lobbisti non può (e non deve) essere una
risposta al fenomeno della corruzione, ma deve assicurare che chiunque ne abbia “titolo” (decisori, giornalisti o
altri soggetti interessati) possa avere una corretta rappresentazione del processo decisionale pubblico, in termini di
soggetti attivi, interessi rappresentati e obiettivi perseguiti. Detto ciò, la visibilità dei processi decisionali potrebbe
anche essere, ma non è detto che lo sia, un antidoto della corruzione.
Sempre in Italia, l’avvio di un’articolata riforma dell’Amministrazione pubblica (con l’affermazione
legislativa dei principi di ascolto, di accesso, di informazione, di comunicazione e di partecipazione ai processi
decisionali pubblici), i processi di “devolution” e di “sussidiarietà" verso l’alto (Unione europea) e verso il basso
(Regioni e altri enti territoriali), il crescente interesse dei decisori (eletti, di carriera o nominati) nei confronti di
pratiche tendenti a garantire la continua visibilità personale attraverso il sistema dei media, la pervasività con cui
ormai qualsiasi organizzazione ritiene di dover autorappresentare i propri interessi sono tutte variabili rilevanti,
che hanno notevolmente modificato, e reso più complesso, il processo lobbistico nell’ultimo decennio,
integrandolo peraltro sempre di più con le attività di relazioni con i media e con quelle di organizzazioni di eventi.
Per tornare all’esempio di Giorgio Verdi, capo ufficio stampa di un’università, immaginiamo che egli venga
spostato al ruolo di responsabile dei rapporti con il processo decisionale pubblico e seguiamo le varie fasi del suo
insediamento (le ripetizioni rispetto a quanto detto a proposito dell’ufficio stampa servono a dimostrare la
presenza nelle diverse nicchie della professione di costanti operative, le quali richiedendo competenze di base
trasversali e rafforza l’argomento secondo cui il lavoro di ufficio stampa, contrariamente a quanto sostenuto da
alcuni giornalisti e legislatori, è in ogni senso parte assai rilevante delle relazioni pubbliche).
Il suo primo passo consiste nell’ascoltare e capire gli obiettivi dell’organizzazione per cui lavora e identificare
quali di questi obiettivi possano venire ostacolati o facilitati da un buon sistema di relazioni con il processo
decisionale pubblico, sia a livello locale (partendo dalla Circoscrizione per arrivare al Comune, poi alla Provincia,
quindi alla Regione) sia a livello nazionale e sovranazionale. Le questioni di cui si occupa un’organizzazione
universitaria correlate con il sistema decisionale pubblico sono tantissime, da quelle geografiche (localizzazioni,
ampliamenti, dislocazioni), a quelle sanitarie (rispetto delle norme di sicurezza, ambientali); da quelle inerenti le
normative sul lavoro a quelle più propriamente educative (riforma universitaria, diritto allo studio). Il secondo
passo consiste nell’informarsi sullo stato dei rapporti esistenti tra l’università e i vari soggetti della decisione
pubblica: quali sono i decisori pubblici eletti, nominati o di carriera che, negli ultimi due anni, si sono occupati
dell’università, come se ne sono occupati, quali i temi affrontati e abitualmente in quali momenti. Si tratta di
costruire una sorta di “fotografia” della situazione esistente, identificandone i punti di forza e di debolezza
(sempre in funzione degli obiettivi già identificati). A questo punto, egli avrà anche proceduto a tracciare una
sorta di “albero delle fonti” interne: quali sono le persone interne all’organizzazione che detengono
l’informazione base o possano avervi accesso. In questa prima fase, dunque, Giorgio Verdi elabora una
“fotografia” della situazione dei rapporti con il processo decisionale pubblico, ne ha identificato i punti di forza e
di debolezza e ha costruito un proprio albero delle fonti interne.
In funzione dei suoi obiettivi prioritari, Verdi inizierà a censire e a tenersi aggiornato sulle attività “normali”
dei soggetti pubblici rilevanti, su temi e soggetti che concorrono a formare le loro opinioni. Avrà dunque costruito
un sistema di monitoraggio permanente delle issue prioritarie. Il passo successivo è quello di preparare un
playbook, una cartella che contenga, insieme alla descrizione dell’organizzazione per cui lavora, anche
approfondimenti specifici per ciascuna issue da proporre, in quanto ritenuta prioritaria, sempre in base agli
obiettivi perseguiti, ai decisori e ai loro influenti, con un esauriente schema di “domande e risposte”, cercando,
anche in questo caso, di immedesimarsi con il decisore (o con il suo influente) di cui intende attirare l’attenzione.
Questi testi dovranno necessariamente essere verificati e condivisi dai responsabili dell’organizzazione e dai
componenti rilevanti dell’albero delle fonti interne.
Giunge quindi il momento per Giorgio Verdi di presentarsi personalmente e direttamente ai decisori e ai loro
influenti, possibilmente incontrandoli presso i loro uffici (per capire e conoscere l’ambiente in cui lavorano). Ogni
incontro, chiaramente non finalizzato a ottenere un risultato immediato, si conclude con la consegna di una copia
di quella parte del playbook dedicato alla issue di cui l’interlocutore si occupa o potrebbe occuparsi. Nella copia,
Giorgio Verdi deve indicare anche il suo nome, il numero di telefono, di cellulare e di fax, nonché la sua e-mail e
l’indirizzo del sito Internet dell’università. Questo primo giro di incontri è importante perché, se ben condotto,
darà a Verdi indicazioni precise in merito alle aspettative, alle opportunità, ai temi ritenuti più attraenti per
ciascun decisore o influente incontrato. Queste informazioni andranno registrate in un apposito database, insieme
alle notizie raccolte sulle persone e le loro organizzazioni e ad una copia dei documenti rilevanti raccolti.
Riunendo le informazioni ottenute dalle fonti interne, le aspettative e le disponibilità raccolte nel primo giro di
incontri, Giorgio Verdi potrà iniziare, sempre in funzione degli obiettivi perseguiti, a programmare la sua attività
operativa.
Ed ora presentiamo i punti in cui si articola l’attività di Giorgio Verdi e, più in generale, di chi gestisce i
rapporti con i decisori pubblici.
Una attività di routine.
L’attività di routine del responsabile dei rapporti con il processo decisionale pubblico consiste in:
– un monitoraggio continuo delle dinamiche delle issue prioritarie e un’attività di reporting ai responsabili
dell’organizzazione e ai componenti dell’albero delle fonti interne;
– un contatto periodico, almeno mensile, con la rosa ristretta dei decisori più importanti;
– incontri frequenti con le fonti interne per aggiornamenti tematici;
– un approntamento e aggiornamento di documenti riguardanti le posizioni della sua organizzazione sulle
singole issue rilevanti;
– una visualizzazione grafica dei temi più importanti;
– un aggiornamento del sito Internet, almeno della parte dedicata alle singole issue.
La predisposizione di un calendario.
A seguito del primo “giro di contatti”, Verdi si sarà fatto un’idea in merito alla compatibilità fra i tempi operativi
desiderati e quelli prevedibili, tenendo conto del calendario di lavoro dei diversi soggetti pubblici coinvolti in
ciascuna issue. In base a questa valutazione, sarà possibile creare un calendario verosimile delle varie questioni e
si potrà giudicare meglio quali di esse convenga provare ad anticipare o ritardare e quali semplicemente
accompagnare nel loro iter naturale. Verdi progetterà quindi azioni di relazione che possono assumere le forme
più diverse, in relazione all’obiettivo perseguito e alle risorse disponibili.
La prevenzione di possibili emergenze.
Diverse sono le situazioni di crisi che possono verificarsi in un’organizzazione e attirare inopinatamente
l’interesse dei decisori pubblici. Insieme agli altri colleghi, Verdi dovrà prevederle, misurare la probabilità che si
presentino, decidere, in base a un equilibrato rapporto costi/benefici, per quali di loro conviene prepararsi e
raccogliere tutte le informazioni necessarie, per poterle utilizzare al momento opportuno.
La verifica dei risultati.
Giorgio Verdi crea un sistema di monitoraggio, condiviso con i responsabili dell’organizzazione, che gli consente
di seguire periodicamente le dinamiche dei sistemi di relazione con i decisori pubblici. Per misurare i risultati di
un’azione di lobby non ci si può limitare a verificare se la decisione auspicata viene effettivamente assunta.
L’attività di relazione con la decisione pubblica, indipendentemente dalle decisioni prese, dipende infatti in gran
parte dal rapporto di fiducia fra i decisori, i loro influenti, il lobbista e l’organizzazione che egli rappresenta.
Inoltre, è sempre più frequente il caso di coalizioni di interesse che coinvolgono vari soggetti in un’azione
coordinata di lobby. È quindi necessario adottare parametri e indicatori che consentano di valutare opinioni,
atteggiamenti e comportamenti dei decisori pubblici.
La verifica interna.
È fondamentale, per Verdi, verificare periodicamente il suo lavoro con il responsabile dell’organizzazione e con
le sue fonti interne.
Il database.
Il database, che deve essere tenuto costantemente aggiornato, comprende, all’interno del contesto decisionale, i
singoli decision maker e i rispettivi influenti. Si tratta di un’analisi dettagliata che comprende atteggiamenti e
attività svolte, dichiarazioni, storia personale, rapporti e relazioni. A questo proposito, si pone una rilevante
questione riguardante la tutela della privacy. Bisogna sottolineare che tale questione riguarda anche il database dei
giornalisti o degli opinion leader. La normativa esistente nonché considerazioni di carattere etico vorrebbero che
chiunque detenga una banca dati informi le persone delle quali si detengono informazioni (e l’organo di vigilanza)
dell’esistenza del database, chiedendo loro se desiderino accedere ai dati personali per eventualmente eliminarli,
correggerli o integrarli. Per l’operatore di relazioni pubbliche consapevole, ciò rappresenta in realtà non tanto un
nuovo vincolo dovuto al rispetto della privacy, quanto una grande opportunità di relazione con il decisore e di
posizionamento professionale.
La mappa delle issue.
Tale mappa individua per ciascuna issue i gruppi di interesse attivi (di fatto o potenzialmente) e analizza il livello
del loro coinvolgimento, le loro capacità operative, la loro possibile influenza.
La issue analysis.
Per ciascuna questione selezionata, la issue analysis contiene una descrizione sintetica, indicazioni normative,
considerazioni circa gli sviluppi in corso e i loro possibili impatti sull’organizzazione. In essa, inoltre, vengono
individuati i possibili sostenitori e gli argomenti che si prevede essi utilizzeranno, i possibili oppositori e le loro
probabili argomentazioni, le eventuali alternative (non solo legislative, ma anche, per esempio, regolamentari).
Infine, si giunge alle opzioni possibili, le finalità perseguite, la decisione scelta e le motivazioni a supporto.
Il policy brief.
Si tratta di un documento sintetico a uso interno che fornisce una maggiore comprensione della issue specifica,
individuando le posizioni, le percezioni, il dibattito in corso e la sua possibile evoluzione. Si basa sull’analisi dei
media, degli atti legislativi, delle dichiarazioni rilasciate in occasione di convegni e altri eventi da parte dei
protagonisti del processo decisionale pubblico.
Il dossier.
Si tratta di un documento più approfondito rispetto al policy brief, sempre a uso interno, che analizza a fondo le
opinioni e gli atteggiamenti dei singoli decision maker e degli influenti su specifiche questioni, basandosi anche
sui risultati di ricerche ad hoc.
La ricerca.
In questa fase viene individuato il pubblico di riferimento e si sceglie se e in quali circostanze dichiarare il
soggetto committente. Si tratta di una questione delicata. Normalmente queste ricerche vengono condotte da
istituti specializzati, nei cui codici di comportamento è previsto l’obbligo di esplicitare il committente. Talvolta
però i veri committenti tendono a celarsi dietro centri studi, istituti universitari, centri culturali che si finanziano
svolgendo attività lobbistiche per conto di aziende, enti pubblici, associazioni varie. Si tratta delle cosiddette
“front organization”, che, nei Paesi anglosassoni, vengono rapidamente svelate dalla stampa investigativa.
Diversamente, nel nostro Paese è spesso sufficiente inserire nel comitato scientifico nomi di giornalisti e
accademici “autorevoli” per ottenere una patente di rispettabilità, tutto ciò con la connivenza degli istituti di
ricerca, i quali, pur consapevoli dei loro reali committenti, non li dichiarano agli intervistati. La trasparenza risulta
invece garantita nei casi in cui è l’organizzazione stessa a svolgere l’indagine. Alla luce di quanto sostenuto, è
evidente che la ricerca rischia di essere assai poco credibile e verosimile. Gli intervistati infatti risponderanno
aderendo pregiudizialmente agli interessi del committente dell’indagine oppure, al contrario, esplicitando
pregiudizialmente la propria contrarietà a quegli interessi. Una possibile soluzione consiste nel condurre
l’intervista cercando di affrontare gli argomenti in modo indiretto, inserendo domande di controllo, domande
“esca”, domande chiave, così da poter verificare, indipendentemente dal loro contenuto esplicito, la veridicità
delle risposte.
Il position paper.
Si tratta di un documento sintetico (due o tre cartelle, al massimo) a uso esterno, chiaro, adatto a un lettore non
esperto, che spiega la posizione dell’organizzazione su un tema specifico. Il position paper descrive brevemente il
tema, illustra la posizione dell’organizzazione, analizza l’impatto del provvedimento, confuta le argomentazioni
degli avversari. Può anche essere redatto con modalità modulari. È destinato direttamente ai decisori e ai loro
influenti. Talvolta può accadere che il documento, caduto nelle mani di qualche concorrente, venga pubblicato sui
giornali accompagnato da pesanti ironie. Anche per questa ragione, proprio per evitare di venire accusati di
disseminare lungo i percorsi decisionali pubblici documenti di fonti non trasparenti, è bene inserire nome e
cognome dell’estensore con relativo numero di cellulare e indirizzo di posta elettronica.
Gli studi e le ricerche.
Studi e ricerche forniscono dati ed elementi a sostegno delle argomentazioni contenute nel position paper. Si tratta
di documenti che devono essere attendibili e comunicabili. Talvolta conviene utilizzare questi studi per sostenere
le campagne sui media.
Gli eventi.
Gli eventi possono essere rivolti ai media (conferenze stampa, press brief, interviste, dichiarazioni) oppure
indirizzati a segmenti specifici di decisori o loro influenti (convegni, workshop, dibattiti, tavole rotonde). Essi
hanno l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico dei decisori e quello degli influenti. Inoltre, attirando l’attenzione
dei media, suscitano l’interesse dell’opinione pubblica in favore della posizione espressa (il famoso “interesse
generale”).
La redazione di testi tecnici.
I testi tecnici possono avere la forma di vere e proprie bozze di proposte di legge o di decreti (atti normativi), di
emendamenti da utilizzare in sede di discussione deliberante oppure di atti di sindacato ispettivo (interpellanze,
interrogazioni).
Le newsletter.
Le newsletter sono rivolte al decisore pubblico e ai suoi influenti e possono, talvolta, essere utili per mantenere il
contatto, continuando a veicolare informazioni e messaggi. Esse possono anche servire da “ringraziamento”
pubblico per l’interessamento dei decisori.
I pareri "pro veritate".
Si tratta di pareri realizzati da giuristi e costituzionalisti in merito a questioni che possono apparire dubbie sul
piano legale. Servono a confermare la fondatezza di una tesi e, talvolta, anche come supporto “autorevole” a una
argomentazione proposta sui media.
Le cause legali.
Visti i tempi storici della giustizia italiana, le cause legali servono soltanto per il loro “effetto annuncio”, a meno
che non si tratti di ricorsi al Tar, volti a ottenere la sospensiva di un provvedimento dell’Amministrazione
pubblica. In questo caso, l’effetto di “fermo” nell’applicazione del provvedimento è sovente assicurato. Talvolta è
utile anche il ricorso alla Corte di giustizia europea oppure alla stessa Commissione europea. I tempi sono lunghi,
ma l’effetto annuncio è sempre assicurato.
Le coalizioni.
Le coalizioni vengono sempre più frequentemente usate per allargare il fronte a sostegno di una determinata
posizione e possono risultare un’arma vincente. Infatti, l’azione di più soggetti coordinati fra loro permette di
rafforzare l’influenza sui decisori pubblici e attribuisce alla questione specifica un carattere più generale. Infine, si
tratta di un passo necessario per la realizzazione di quello che gli americani chiamano il “grass root lobbying” o
“lobbying dal basso”.
Il grass root lobbying.
Si tratta di una delle tecniche più diffuse per la sensibilizzazione della decisione pubblica. Affinché si realizzi, è
necessario che le persone mobilitabili abbiano più o meno la stessa opinione e che siano disponibili a manifestarla
(con una firma, una cartolina, una e-mail, una lettera, una manifestazione o un evento di altro genere). È una
tecnica di realizzazione complessa, poiché richiede una forte capacità di coordinamento di gruppi, individui e
organizzazioni non facili da gestire. In proposito, assume un forte rilievo la capacità di comunicazione interna,
che deve essere veloce e tempestiva (la rete Internet è naturalmente utilissima in questo senso). Occorre evitare
l’abuso di questo strumento per non rischiare di fargli perdere credibilità (si pensi ai referendum, per esempio).
Internet.
L’ambiente Internet ha profondamente modificato il modo di fare lobbying e permette lo sviluppo di azioni locali
in base a strategie globali, facilita la raccolta e la veicolazione di informazioni, supporta ogni azione di “grass
root”, può creare gruppi di interesse “virtuali” e gli investimenti richiesti sono normalmente modesti.
La pubblicità.
La pubblicità viene utilizzata sempre più di frequente per scopi di lobby. Si va dalla “lettera aperta” alla pressione
esplicita, alla pubblicità istituzionale orientata verso una issue specifica. Serve soprattutto per dare al decisore
pubblico la sensazione che l’organizzazione intende sensibilizzare l’opinione pubblica a sostegno delle proprie
argomentazioni. Qualche volta può essere controproducente, generando un effetto di “pressione indebita”.
L’audizione.
Si tratta di un mezzo assai utile per parlare senza mediazione ai più diretti interessati. Ricorrendo a tale modalità,
ci si espone ovviamente alle critiche e alle domande, anche a quelle degli avversari e dei concorrenti, e alle
osservazioni dei media. Per evitare equivoci e malintesi, è sempre consigliabile preparare una sintesi del proprio
intervento che non superi le due cartelle e consegnarlo in sala stampa e presso le redazioni prima dell’intervento
(ai partecipanti, a conclusione dello stesso).
I viaggi.
I viaggi di decisori o di loro influenti sono assai simili, come utilità e come criticità, ai junket di cui si è parlato a
proposito dei rapporti con la stampa.
Suggeriamo infine dieci consigli operativi per la gestione dei rapporti con il processo decisionale pubblico:
1. paga essere onesti e non trovarsi mai costretti a dire una bugia. Non sempre è necessario dire tutta la verità,
ma mai dire una bugia. La credibilità dell’interesse rappresentato e, a seguire, del singolo professionista sono
i valori più importanti da salvaguardare;
2. esplicitate sempre il vostro interesse, quello specificamente rappresentato insieme all’obiettivo perseguito;
3. date sempre al decisore pubblico un valore aggiunto. Se non c’è valore aggiunto percepibile, non date nulla;
4. fate bene i “compiti a casa” e indirizzate l’informazione a chi è davvero interessato a riceverla, senza mai
perdere di vista il vero decisore;
5. nell’argomentare un tema, partite sempre dall’interesse del decisore pubblico, seguito da quello del cittadino
qualsiasi, mai da quello dell’organizzazione;
6. iniziate sempre con i punti salienti della richiesta, mai lasciarli alla fine;
7. tenere conto delle specificità di ciascun decisore, del suo gruppo di appartenenza e dei tempi diversi di
ciascuna decisione;
8. ponetevi sempre l’obiettivo di ottenere dal decisore una posizione corretta, non “favorevole”;
9. tenete sempre presente che siete solo una delle migliaia di fonti del decisore e non quella privilegiata;
10. se non desiderate che una frase, un commento o una notizia vengano utilizzate impropriamente, non fatene
menzione, neppure in via confidenziale.
4.3 Gli eventi e gli pseudoeventi
Per evento si intende una iniziativa di comunicazione complessa, consapevole e circoscritta nel tempo, che
un’organizzazione (ente, impresa, associazione) promuove per “convocare” alcuni suoi stakeholder (soggetti
consapevoli di avere titolo e interessati a interloquire con la stessa organizzazione) e per “attirare l’attenzione” dei
suoi influenti (soggetti ritenuti dall’organizzazione tali per il raggiungimento dei suoi obiettivi), inducendo
entrambi a creare, sviluppare e consolidare relazioni interattive e tendenzialmente simmetriche fra di loro e con la
stessa organizzazione.
Strumento classico delle relazioni pubbliche che affianca e si intreccia alle relazioni con i media e alle attività
di lobbying, l’evento occupa con sempre maggiore intensità la nostra vita quotidiana. Secondo una stima
conservativa, si svolgono ogni giorno nel nostro Paese un migliaio di eventi, grandi e piccoli, che muovono
risorse economiche per oltre 10 miliardi di euro l’anno. Ciò nonostante, non esiste una definizione condivisa del
termine “evento”, così come non esiste fra i professionisti del settore una metodologia comune di approccio e
neppure uno strumento condiviso che permetta a chi vi partecipa, a chi lo organizza e a chi lo finanzia di
misurarne e valutarne l’efficacia. Si tratta di un settore che, sviluppatosi soprattutto in questi ultimi anni, ha
contribuito in modo sostanziale a modificare l’agenda sociale, politica ed economica del nostro Paese. Infatti, per
il sistema dei media una notizia non è tale se un evento non la rende pubblica e un’organizzazione, in molti casi,
viene considerata priva di identità se non si afferma tramite un evento. Viviamo, dunque, immersi nella cultura
dell’evento: conferenze stampa, presentazioni di prodotti e servizi, convegni, congressi, assemblee, mostre,
esposizioni, si susseguono sovente al solo scopo di occupare spazi mediatici, nella speranza di attirare l’attenzione
delle persone. Con sempre maggiore intensità ogni giorno che passa soggetti privati e pubblici, enti,
organizzazioni, associazioni reclamano ad alta voce il diritto di autorappresentarsi (o di visibilità) sui media, al
punto che quelli tra loro che non riescono a (o non cercano di) farsi notare scompaiono, non vengono considerati.
Nel nostro Paese, questa sindrome, sviluppatasi intorno alla metà degli anni Ottanta con l’affermarsi della "cultura
dell’immagine", ha subito una forte accelerazione negli ultimi anni. I professionisti più avvertiti si interrogano su
una deriva che pure hanno contribuito a determinare e si confrontano per trovare strumenti con cui verificare
l’efficacia reale di questi pseudoeventi. In particolare, alcuni tendono a distinguere fra evento -legato a una cultura
di tipo relazionale- e spettacolo, più propriamente riferito ai canoni tradizionali della comunicazione di massa. Lo
spettacolo rappresenta una risposta al continuo e crescente “affollamento” di comunicazione che inevitabilmente
aumenta l’intensità dell’impatto necessario per attirare attenzione. Secondo Chiara Anteri, tra spettacolo ed evento
vi è una differenza analoga a quella che separa l’andare a pesca gettando una mina in mare (di pesci se ne
prendono e come) e l’andare a pesca con mille diverse canne ed esche, conoscendone le tecniche, studiando i
pesci per capire come scovarli.
In effetti, viviamo il passaggio fra una cultura massmediatico-comunicativa che ha caratterizzato il secolo scorso,
e una più propriamente relazionale, la cui diffusione avviene anche, ma non solo, grazie alle applicazioni delle
nuove tecnologie. Dal punto di vista dell’evento, queste ultime hanno contribuito a trasformare il concetto
tradizionale di "territorialità", segnando il passaggio dalla dicotomia globale-locale alla nuova sintesi di
“glocalità”.
È importante anche sottolineare che il valore e l’efficacia di un evento sono direttamente proporzionali alla
qualità, all’intensità dei suoi contenuti visibili, oltre alla loro corrispondenza con le aspettative degli effettivi
fruitori.
Come ha affermato il sociologo Alberto Abruzzese, in occasione del convegno “La cultura dell’evento”, tenutosi
a Genova nel febbraio del 2001:
L’evento pone il problema di rivedere l’enfasi che ha polarizzato la nostra attenzione nei tempi passati sulle strategie
di visibilità e trasparenza e ripropone in modo un po’ imprevedibile la questione della sostanza […] la qualità
dell’evento è nella sua intensità e non nella sua estensione. L’evento non si riconosce dal suo programma, bensì dalla
sua potenza. La strategia dell’evento è nella sua profondità e non nella superficie.
Necessariamente un evento deve essere:
1) di breve durata. La breve durata ne determina la “notiziabilità”, ovvero la possibilità di occupare uno spazio
mediatico per “attirare l’attenzione” degli influenti, condizionata anche dai contenuti che si intendono veicolare.
Non si può dire tutto nello stesso momento: ogni interesse ha bisogno di tempo per essere veicolato. Se è vero che
determinati interessi sono sovrapponibili perché non si influenzano reciprocamente, altri invece devono seguire
una scaletta di tempi definita in un palinsesto meditato;
2) di interesse condiviso. Anche se a molti può talvolta apparire rivolto a un grande pubblico, l’evento deve
innanzitutto essere condiviso da un gruppo ristretto che vi ravvisi un forte interesse. Senza questo nucleo iniziale
(core) non si potrebbe raggiungere la somma di interessi condivisi che poi determinerà il successo di pubblico;
3) coerente con l’ambiente circostante. L’evento deve essere plasmato secondo le caratteristiche dell’ambiente in
cui opera. È necessario tenere sempre presente i conflitti delle diverse coalizioni (staff organizzativo, stampa,
istituzioni, sponsor, partecipanti) e ascoltare ed essere consapevoli di storia, tradizioni, stili di vita, usanze del
luogo in cui viene realizzato;
4) studiato nei minimi dettagli. I dettagli nell’evento non sono mai trascurabili, perché sostanziali espressioni
della comunicazione. Nulla è scontato, tutto deve essere calibrato, a partire dalla definizione degli obiettivi che
devono sempre essere coerenti con i diversi interessi che si intende rappresentare;
5) in continua evoluzione. L’evento non è mai statico ma un continuo mutare di azioni calibrate e rimodellate in
base alla situazione contingente. Nell’organizzare un evento non bisogna mai “innamorarsi” di una soluzione
convinti di avere trovato quella giusta. C’è e ci sarà sempre una soluzione migliore di quella appena trovata.
Bisogna essere mentalmente aperti a cambiare traiettoria e a strutturare soluzioni alternative;
6) parte di un piano. Per essere in linea con gli obiettivi dell’organizzazione, l’evento deve essere inserito in un
piano più ampio.
Ascoltando i diversi interessi rappresentati, l’evento vive e offre a ciascuno modalità variegate di espressione, nel
rispetto della pluralità degli interessi. La progettazione, che costituisce il cuore dell’evento, deve essere coerente
con gli obiettivi stabiliti da ciascuna organizzazione che vi partecipa. In tal senso, è fondamentale l’analisi
dell’ambiente, che permette di individuare l’interesse condiviso. L’evento scaturisce da una relazione fra soggetti
diversi e attivi, che danno e ricevono informazioni, dialogano, ascoltano e mutano comportamenti a seconda delle
reazioni che suscitano negli altri. Nella pluralità delle sue forme, l'evento è bilaterale perché implica un ricevere
nel dare e un dare nel ricevere e la sua qualità è determinata dallo studio dell’ambiente e dalla relazione prodotta
fra i soggetti coinvolti. La predisposizione all’ascolto è, quindi, alla base della progettazione e, soprattutto, della
definizione degli obiettivi dell’evento. Del resto, in un evento devono necessariamente interagire fra loro le
diverse strategie dei soggetti coinvolti e questo implica che il successo del promotore dipende soprattutto dalla
sua capacità di garantire in modo imparziale la qualità della relazione tra i vari soggetti, lo scambio reciproco e il
confronto.
4.4 Le marketing public relations
Nella maggior parte dei Paesi dove le relazioni pubbliche sono “mature”, le cosiddette “marketing pr”
costituiscono un segmento che assorbe più del 50% degli investimenti delle imprese (nel Regno Unito e negli
Stati Uniti, i due mercati più sviluppati, siamo intorno al 70%).
Per marketing pr si intende l’applicazione di metodi e strumenti di relazioni pubbliche che contribuiscono al
raggiungimento di specifici obiettivi di marketing di un’organizzazione, creando, sviluppando e mantenendo
relazioni, a due vie e tendenzialmente simmetriche, con tutti gli stakeholder attinenti alla filiera del mercato,
incluso il consumatore finale.
La situazione è diversa in Italia dove, se si considerano le financial pr separatamente, le marketing pr non
superano il 30% del mercato.
Per quanto riguarda le prime, si potrebbe però affermare che, almeno per una loro parte consistente -le attività
rivolte al mercato retail- si tratta di attività sempre più vicine alle marketing pr, mentre andrebbero nelle investor
pr le azioni financial rivolte ai diversi segmenti di investitori non retail, nelle regulatory pr le azioni financial
rivolte alle autorità e agli organi di controllo dei mercati finanziari e nelle media relations, le attività di rapporti
con la stampa finanziaria.
Ma quali sono le ragioni dello scarso sviluppo in Italia delle marketing public relations? Occorre ripensare a
come le relazioni pubbliche si sono sviluppate in Italia, rispetto ad altri Paesi. Se guardiamo agli Stati Uniti, il
mercato delle relazioni pubbliche ha assunto dimensioni significative negli anni Cinquanta, quando sono
aumentati vertiginosamente i consumi di massa e la televisione è entrata in tutte le case. È stato allora che i
consulenti di relazioni pubbliche si sono trasformati in vere e proprie agenzie a servizio completo, chiamate dalle
imprese a supportare le strategie di marketing, che trovavano, comunque, nella pubblicità il principale supporto
comunicativo. Le relazioni pubbliche, in quest’ottica molto operativa e sussidiaria, consistevano soprattutto nella
creazione e organizzazione di eventi (lancio e rivitalizzazione di nuovi prodotti, road show) volti ad attirare
l’attenzione dei media e di altri opinion leader intorno a un prodotto o servizio: anticipavano e affiancavano,
dunque, le grandi campagne pubblicitarie. Il modello applicato (si veda il Capitolo 5) era, nella migliore delle
ipotesi, quello di Edward Bernays (a due vie, asimmetrico e persuasivo) e, nel peggiore dei casi, quello di Phineas
T. Barnum (a una via e asimmetrico).
In Italia, invece, il mercato delle relazioni pubbliche a supporto delle strategie di marketing si è svelato
soltanto nella seconda metà degli anni Settanta: un periodo in cui, nel nostro Paese, i consumi di massa
rappresentavano un disvalore, sia culturalmente sia socialmente, e il più importante mezzo di comunicazione di
massa, la televisione, era dominato dall’ideologia pauperista e antindustriale dei tanti cattolici e marxisti che
popolavano il servizio pubblico. Del resto, gli investimenti delle imprese in pubblicità erano, in proporzione al
Pil, largamente inferiori al resto dell’Europa occidentale. Il management delle imprese era dunque poco orientato
al marketing in generale e, di conseguenza, anche poco preparato a utilizzare, per il marketing, i servizi delle
neonate agenzie di relazioni pubbliche. Come sovente accade quando si affermano nuovi servizi di consulenza per
effetto di “mode importate”, la domanda subì un’offerta orientata principalmente verso attività di carattere
istituzionale o corporate, soprattutto a causa della preferenza in tal senso da parte degli stessi relatori pubblici che,
in quegli anni, orientavano il mercato. Infatti, la forte politicizzazione del Paese, l’elevato livello del conflitto
sindacale, l’inquietudine dei giovani, fino all’esplodere del terrorismo, erano tutti fenomeni che inducevano le
imprese (soprattutto quelle internazionali, le principali clienti delle agenzie di relazioni pubbliche) a voler meglio
comprendere le dinamiche sociali, politiche e culturali, per acquisire legittimità nella comunità e interagire con un
ambiente per molti versi ostile. Così, le agenzie di rp riuscirono a proporsi con successo come interpreti delle
vicende socio-politiche e a facilitare la nascita e lo sviluppo di relazioni tra le imprese, il sindacato e il ceto
politico. Non stupisce che, in tale contesto, i relatori pubblici cercassero di affrancarsi dalla “tutela” della
pubblicità. In Italia, ciò è avvenuto soprattutto tramite l’offerta di servizi di consulenza di public affairs e di
analisi socio-culturale e politica, radicalmente diversa da quella delle agenzie di pubblicità, per la maggior parte
orientata a supportare le immagini di marca delle imprese commerciali.
Il mercato era in crescita e, salvo rare eccezioni, le relazioni pubbliche si svilupparono tralasciando quasi del tutto
le attività di supporto al marketing.
Quando, negli anni Ottanta, “esplodono” anche in Italia i consumi e le tv commerciali, la domanda, fino a quel
momento latente, di supporto al marketing delle imprese si orienta, oltre che verso le agenzie di pubblicità, verso
le società di promozione vendita. Questo perché le società di relazioni pubbliche sono, al tempo stesso, sature di
lavoro, poco stimolate e, soprattutto, non hanno le competenze necessarie per integrarsi utilmente nel marketing
mix. Le marketing pr, quindi, mutano la loro natura e diventano a tutti gli effetti promozione. Anche le (poche)
agenzie di relazioni pubbliche che si orientano alle marketing pr arrivano tardi e male, venendo quindi relegate in
larga parte allo svolgimento di attività di “product publicity”, che si traduce prevalentemente nella occupazione
di spazi redazionali sui media, in favore di prodotti e servizi: un’attività in gran parte mediata e facilitata, quando
non esplicitamente negoziata con gli editori (all’insaputa dei consumatori), dagli investimenti pubblicitari.
Nella prima metà degli anni Novanta, la crisi del mercato italiano delle relazioni pubbliche provocata soprattutto
dalla vicenda di Mani Pulite, induce le agenzie a tentare un riposizionamento verso il supporto al marketing.
L’operazione, in qualche misura riesce ma in ritardo e, a differenza di quanto avviene nel mondo anglosassone,
raramente il consulente di rp siede al tavolo in cui vengono decise le strategie di marketing. La questione è
rilevante non tanto perché sia gratificante sedersi intorno al tavolo dove si decidono le strategie di prodotto,
quanto perché le relazioni pubbliche possono dare un importantissimo contributo al marketing, e non soltanto sul
piano operativo. Oggi le imprese si chiedono come conquistare nuovi clienti, come mantenere i clienti acquisiti e,
in generale, come creare e consolidare nel tempo e sul rispettivo mercato un vantaggio competitivo, sostenibile e
differenziato. La risposta tradizionale si trova nel mix di pubblicità, promozione e qualità della forza vendita: una
risposta inadeguata, tanto che ci si orienta in misura crescente verso la comunicazione integrata (intesa come mix
fra pubblicità, relazioni pubbliche, promozione e direct response) e, più recentemente, la relazione col cliente e la
conquista della sua attenzione hanno assunto una maggiore importanza della comunicazione e della ricerca dello
spazio di voce in un sistema dei media sempre più affollato. Le ragioni sono molteplici. È un fatto, innanzitutto,
che il consumatore sia sommerso dal “diluvio informativo” e che solo una minima frazione dei messaggi che
riceve sono, in effetti, governabili dall’impresa: gestirli bene spesso segna la differenza. In questo senso, tende a
crescere l’attenzione delle imprese verso quell’area della comunicazione d’impresa below the line e che
comprende il direct response, la promozione vendite e le relazioni pubbliche: tutte attività che consentono
relazioni e messaggi personalizzati e orientati ad attirare l’attenzione del consumatore. L’area del below the line –
che ha superato ormai la soglia del 50% degli investimenti complessivi delle imprese – attira, ovviamente, sempre
più l’attenzione delle grandi agenzie di pubblicità, le quali temono di farsi sottrarre la parte più dinamica del
mercato. Da ciò deriva, da un lato, la tendenza alla concentrazione, per lo meno finanziaria, per quanto riguarda
l’offerta di servizi e consulenza; dall’altro e sul piano della domanda, la consapevolezza da parte delle imprese
che la pubblicità deve modificare i suoi paradigmi classici, centrati sulla comunicazione di massa erga omnes, per
orientarsi verso una crescente attività di ascolto del consumatore, che consenta una relazione interattiva e sempre
più simmetrica. Obiettivo classico che, come si è visto,è storicamente attribuito alle relazioni pubbliche, le quali
trovano oggi un terreno particolarmente favorevole per integrarsi nei piani di marketing. Ormai, viene infatti
attribuita un’importanza decisiva al fatto che le comunicazioni societarie (corporate) siano sinergiche e integrate
con quelle di marketing. Se è vero, poi, che queste ultime danno al consumatore la ragione di un comportamento
d’acquisto, le prime gliene danno la piena legittimità. Infine, tutte le ricerche indicano che l’informazione
proveniente dai giornalisti, o da altri “moltiplicatori-stakeholder”, viene normalmente ritenuta dal consumatore
più credibile e obiettiva della pubblicità vera e propria, ed è proprio nella credibilità percepita che si trova il vero
punto di forza delle relazioni pubbliche rispetto alle altre discipline della comunicazione d’impresa.
La pubblicità, solo per citare quella più nota, tende soprattutto a rafforzare un messaggio o l’immagine di una
marca, ma lo fa con benefici assai maggiori quando quel messaggio o quella marca sono stati favorevolmente
“testimoniati” da una fonte “terza” (è il fenomeno del “third party endorsement”). Se è vero che due terzi dei
direttori marketing delle prime 500 aziende presenti nella classifica del periodico Fortune ritiene che, rispetto alle
relazioni pubbliche, la pubblicità produce effetti uguali o superiori nel creare consapevolezza della marca (brand
awareness), ben quattro quinti di loro attribuisce invece alle relazioni pubbliche un’importanza molto superiore a
quella della pubblicità nel trasferire al consumatore la credibilità di una marca (brand credibility). Con l’Imc
(Integrated Marketing Communications) l’organizzazione governa quindi il maggior numero possibile di fonti cui
il consumatore viene esposto riguardo a uno specifico prodotto o servizio. Il risultato è rappresentato dal
trasferimento pluri-canale e pluri-fonte di un messaggio coerente e chiaro, capace di superare la barriera del
diluvio informativo (clutter), anche perché il messaggio incorpora sempre, esplicitamente, un agevole canale di
ritorno, che il destinatario può decidere di attivare (e viene stimolato, incentivato a farlo) per avviare una
relazione il più possibile simmetrica e interattiva con l’emittente, rafforzando in tal modo la fedeltà di marca.
Così, le relazioni pubbliche spesso assumono il ruolo di disciplina guida in una campagna di Imc, e non
soltanto nei segmenti del mercato in cui la qualità delle informazioni sul prodotto/servizio orienta in modo
decisivo la scelta del consumatore, come le tecnologie dell’informazione, la salute, il business to business e i
servizi finanziari; ma anche nei cosiddetti “Fmcg” (Fast Moving Consumer Goods) e nella grande distribuzione,
settori in cui gli operatori stanno compiendo uno sforzo senza precedenti per costruire relazioni dirette e a due vie
con gli interlocutori (obiettivo prioritario delle relazioni pubbliche).
Le relazioni pubbliche, oltre a collaborare per la definizione delle strategie di marketing, servono anche da
supporto operativo alla realizzazione di tali strategie e in modo particolare quando:
– si intende creare interesse sul mercato per nuovi prodotti prima del loro lancio pubblicitario. Si chiama “effetto
teaser”: l’attenzione della stampa e degli opinion leader viene attirata su temi, argomenti, questioni che,
successivamente, vengono ripresi dalla campagna pubblicitaria vera e propria, con un conseguente effetto
moltiplicatore dell’attenzione degli opinioni leader prima e della pubblicità poi. Si pensi, per esempio, al
grande successo che riscuote il buzz o viral marketing, una semplice applicazione delle marketing public
relations;
– si desidera creare interesse sul mercato per nuovi prodotti che non verranno promossi con una campagna
pubblicitaria. Non sempre un’organizzazione può permettersi una campagna pubblicitaria. Inoltre, i risultati
che si possono ottenere da una campagna di relazioni pubbliche -sussidiaria o sostitutiva di una campagna
pubblicitaria- sono talvolta, a parità di investimento, superiori;
– l’obiettivo è quello di rivitalizzare l’interesse sul mercato per prodotti esistenti. In questo caso sono talvolta
sufficienti iniziative volte ad attirare nuovamente l’attenzione verso la marca, verso un prodotto già conosciuto
sul mercato;
– si vuole contribuire a mantenere la leadership di una marca sul mercato. Normalmente si tratta di iniziative
tattiche che non giustificano un forte investimento in pubblicità;
– si intende creare interesse intorno alla pubblicità di una marca. In questo caso, assai frequente, si tratta di
fornire un supporto diretto alla pubblicità;
– l’obiettivo è quello di creare interesse intorno alla promozione o al packaging di una marca. Anche in questo
caso, si tratta di fornire un supporto diretto alla pubblicità.
Nelle situazioni descritte, le marketing pr mobilitano testimonial, eventi, opinion leader, l’attenzione dei media,
ma devono tenere sempre conto delle strategie, dei programmi, dei tempi e dei messaggi ed essere con questi
coerenti.
4.5 Le financial public relations
Per financial pr si intendono le attività di gestione e coordinamento dei sistemi di relazione che una
organizzazione intrattiene con i pubblici influenti capaci, attraverso opinioni, atteggiamenti, comportamenti e
decisioni, di influenzare sui mercati finanziari l’andamento di un titolo, quotato, non quotato o che sta per esserlo,
sui mercati finanziari.
Per pubblici influenti, nelle financial pr, solitamente si intendono:
– le istituzioni finanziarie, le autorità di regolazione del mercato finanziario (in Italia, la Consob) e, se esistono,
quelle del mercato in cui l’organizzazione opera (per Tiscali, per esempio, l’Autorità di garanzie delle
comunicazioni);
– i giornalisti e commentatori finanziari che operano nei media, sia in quelli tradizionali (agenzie, quotidiani,
periodici, radio e tv) che nei nuovi (Internet);
– gli investitori istituzionali (gestori di fondi, analisti, operatori, sim, banche);
– gli azionisti individuali;
– i dipendenti azionisti;
– gli azionisti clienti e fornitori;
– i manager che determinano le performance dell’organizzazione sui mercati di riferimento.
In Italia, le relazioni pubbliche finanziarie sono iniziate, di fatto, nella seconda metà degli anni Settanta con
l’istituzione per legge della Consob. Fino ad allora la sola attività di rilievo, in tal senso, era la diffusione
periodica ai giornali, da parte delle imprese quotate in Borsa, dei propri risultati economici.
In quei tempi l'informazione finanziaria viaggiava su due canali paralleli e distinti: da un lato, l’informazione
ufficiale sulle performance dei pochi titoli quotati in Borsa, che spostava poco o nulla sul mercato; dall’altro, i
canali informali (ci sono tuttora, si intende, anche se con maggiore cautela, essendo nel frattempo intervenute
sanzioni per chi ne faccia impropriamente uso) che animavano, queste sì!, le sedute di Borsa. Chi aveva
l’informazione comprava o vendeva titoli prima che apparisse sui media. Si tratta del cosiddetto “insider
trading”. Data le circostanze, non stupisce che la Borsa italiana fosse una delle più “asfittiche” d’Europa.
La piena efficienza ed efficacia della Consob, ancora oggi sempre in discussione, ha richiesto molti anni di
assestamento, ma la situazione si è andata gradualmente avvicinando a quella degli altri Paesi dotati di Borse più
“vivaci”. Le aziende quotate sono state presto obbligate all’“informazione dovuta”. All’inizio è stata resa
obbligatoria la pubblicazione del bilancio annuale (si pensi che nel lontano1954 la società Motta venne insignita
del primo Oscar di bilancio, poiché pubblicava un bilancio in cui includeva i dati del suo fatturato!), poi è
intervenuto anche l’obbligo di depositare relazioni semestrali sull’andamento aziendale. Oggi, la gran parte delle
aziende quotate (anche se non è ancora obbligatorio per legge in Italia) pubblica relazioni trimestrali.
Nella prima metà degli anni Ottanta, il mercato finanziario cresce con l’avvento dei primi fondi di investimento,
mentre la maggior parte delle banche avvia aggressive reti di vendita accompagnandone la penetrazione del
mercato con massicci investimenti nella comunicazione. Gli italiani cominciano ad avere maggiore fiducia e le
aziende, attirate dalla crescita degli investitori, cominciano ad avvicinarsi al mercato di borsa. La prima vera e
propria campagna di comunicazione finanziaria, a tutti gli effetti “integrata”, viene condotta nella seconda metà
degli anni Ottanta dalla San Paolo Invest, braccio commerciale del San Paolo di Torino. La campagna, con
investimenti in verità assai contenuti e comunque allineati a quelli concorrenti, fu talmente efficace e visibile da
creare seri problemi al suo ispiratore (l’allora amministratore delegato Sergio Pugliese), che dovette dimettersi
anche perché accusato di fare "troppa comunicazione”.
Con la crescita del mercato e la diversificazione degli operatori finanziari, nascono i primi analisti finanziari
(esperti che, per conto di banche e fondi, si specializzano e seguono l’andamento di comparti specifici, quali
l’automobile, la meccanica e così via) e viene costituita l’Aiaf (Associazione degli analisti finanziari). La stampa,
in larga parte posseduta da industriali o finanzieri anche loro protagonisti del mercato finanziario, “governa”
l’informazione anche, quando non soltanto, in funzione dei propri interessi. Alcuni giornalisti si adeguano e
preferiscono operare in Borsa da insider prima di dare le notizie che orienteranno i comportamenti dei piccoli
investitori. La presenza dei fondi e degli investitori istituzionali, soprattutto di provenienza internazionale,
comincia però a farsi sentire con l’avvio del processo di privatizzazione delle grandi banche nazionali e delle
aziende Iri nella prima metà degli anni Novanta.
Le società si trovano, in molti casi loro malgrado, costrette ad adeguarsi alle norme dei mercati più maturi e
seri. Si tratta di una grande opportunità per le relazioni pubbliche finanziarie. Il ministero del Tesoro (azionista di
Eni, Enel e poi anche di Iri, che a sua volta possedeva le grandi banche e Telecom) svolge, grazie a Giuliano
Amato e Carlo Azeglio Ciampi, quest’ultimo aiutato dal relatore pubblico Paolo Peluffo -ex giornalista del
Messaggero, oggi portavoce del Quirinale- un’opera importantissima, affidando alle relazioni pubbliche la
leadership per la comunicazione di tutte le principali privatizzazioni realizzate. Il modello applicato è quello
inglese, diverso da quello americano che affida alle relazioni pubbliche un ruolo sussidiario rispetto alle
operazione di finanza straordinaria delle imprese quotate in Borsa. La leggenda vuole che il modello venne scelto
dai governanti italiani sullo yacht Britannica, in navigazione nel Mediterraneo, ospiti del Governo inglese e della
società di pr inglese Dewe Rogerson, la quale, in effetti, otterrà la gestione delle prime privatizzazioni avviate sul
mercato italiano. È il boom: prospetti, relazioni di bilancio, campagne pubblicitarie, relazioni con la stampa
italiana e internazionale, road show vengono tutti usati con la regia di consulenti di relazioni pubbliche.
L’attività delle financial pr viene svolta principalmente attraverso i seguenti strumenti:
– informazione dovuta (relazioni di bilancio semestrali, comunicati obbligatori per legge);
– informazione volontaria (trimestrali, comunicati stampa, pubblicità, lettere agli azionisti, newsletter, pagine di
siti generalisti e siti dedicati);
–
relazioni con gli investitori (road show, incontri, presentazioni, uso di database e di siti dedicati o
Extranet).
Un'area che ha iniziato da poco ad espandersi sul modello francese è la comunicazione al mercato cosiddetto
'retail', ovvero singoli investitori al dettaglio. E' una attività che, a differenza delle altre qui sopra richiamate
che si rifanno al modello di comunicazione corporate, si ispira al marketing public relations.
Come per ogni area in cui operano le relazioni pubbliche, anche nella finanza è possibile distinguere l’attività
normale da quella straordinaria. Quest’ultima può essere proattiva (quotazione, Opa, Ops, Ipo, scissioni,
acquisizioni, aumenti di capitale) e reattiva (volta a difendersi da scalate e informazioni sbagliate o tendenziose).
Il sostanziale fermo delle privatizzazioni italiane – intervenuto dopo le polemiche sulla cosiddetta “svendita delle
telecomunicazioni” e a seguito del forte scontro sull’Opa ostile dell’Olivetti di Colaninno contro la Telecom
Italia– ha indotto una pausa nel mercato delle financial pr, ma non ha fatto diminuire il lavoro dei relatori pubblici
in questo settore, grazie anche alla “bolla” negli ultimi anni novanta della cosiddetta “new economy”. Oggi, però,
il proseguimento del blocco delle privatizzazioni e la caduta verticale dell’interesse del mercato verso le nuove
imprese legate a Internet hanno determinato una vera e propria crisi per molte società di consulenza e servizi di
relazioni pubbliche e le hanno spinte ad altre specializzazioni.
Le financial pr svolgono un ruolo importante anche per aziende non quotate in Borsa. Un’impresa, infatti, trae
comunque vantaggio da una comunicazione trasparente, continuativa e professionale delle proprie performance
economico-finanziarie, anche negative, in quanto tale comunicazione permette agli operatori di conoscerla
meglio. Nel caso di una banca o di un finanziatore esterno, per esempio, una maggiore conoscenza della società
da finanziare si può tramutare in una riduzione del rischio percepito e, conseguentemente, in una riduzione
dell’eventuale tasso di finanziamento, garantendo quindi un vantaggio economico misurabile: fatto tanto più vero
quanto più l’azienda costruirà una equity story chiara ed esaustiva.
Allo stesso modo, l’uso professionale di messaggi di natura economica e finanziaria può incidere positivamente
sulla credibilità e la reputazione dell’impresa tra gli stakeholder interni ed esterni (per esempio, sindacati, reti di
vendita, azionisti, fornitori, finanziatori, pubblica amministrazione, operatori economici e sistema dei media).
L’uso strategico della comunicazione finanziaria, associata alle altre attività di relazioni pubbliche e di
comunicazione, può inoltre favorire eventuali operazioni di natura straordinaria, come le cessioni, le fusioni, gli
aumenti di capitale. A questo proposito, non è un caso che negli Stati Uniti la funzione dell’investor relator sia
presente anche nelle società non quotate o “quotande”.
4.6 Con Internet cambia il paradigma
Si è più volte accennato al fatto che l’arrivo di Internet abbia cambiato il paradigma delle relazioni pubbliche.
Un paradigma presente da oltre un secolo e fondato sulla convinzione che, per una organizzazione, sia possibile anzi, utile e necessario- facilitare il raggiungimento dei propri obiettivi negoziando l’approvazione e il consenso
di stakeholder e influenti attentamente preidentificati con apposite iniziative relazionali e comunicative. Si è visto,
inoltre, come si vada diffondendo un modello operativo a due vie e tendenzialmente simmetrico, in cui sia
esplicito il “valore aggiunto relazionale”, non solo per l’organizzazione, ma anche per stakeholder e influenti.
La crescita del mercato delle relazioni pubbliche, molto determinata dalle relazioni con i media, è stata però anche
legata alla organizzazione di eventi e alla lobby, attività per nulla banali e sempre più sofisticate e complesse,
considerando che è assai meno oneroso dialogare con gli opinion leader e affidarsi al loro potere di diffusione e
moltiplicazione di opinioni, atteggiamenti e comportamenti, che non avviare un dialogo diretto e personale con i
singoli consumatori o utenti attraverso un’azione che deve necessariamente tradursi in pubblicità sui mass media,
sempre più costosa e dai risultati sempre più incerti.
Prima di affrontare più diffusamente l’impatto specifico di Internet sulle relazioni pubbliche, bisogna sottolineare
che questa tecnologia ha cambiato molti paradigmi, e, presumibilmente, molti altri ne cambierà. Difficilmente si
può individuare una dimensione della nostra quotidianità che non sia stata modificata (oppure che non possa
esserlo) da una sempre più pervasiva applicazione di Internet.
Le relazioni pubbliche, si è affermato, aiutano un’organizzazione complessa a raggiungere gli obiettivi
perseguiti tramite l’attivazione, il consolidamento, lo sviluppo e il coordinamento dei sistemi di relazione con i
suoi pubblici influenti. Si tratta dunque, soprattutto, di comunicazione a due vie, di dialogo e di relazione: questo,
si ribadisce, è lo specifico delle relazioni pubbliche rispetto alle altre discipline della comunicazione d’impresa.
Abbiamo anche più volte sottolineato che le relazioni pubbliche si differenziano dalle altre discipline perché sono
indirizzate prevalentemente agli influenti e non genericamente ai consumatori o comunque alle grandi masse. Ciò
comporta che debba essere prestata una particolare attenzione alla natura e all’intensità della relazione fra
l’organizzazione e i suoi stakeholder/influenti.
La crescente complessità sociale, economica e culturale e la pervasività della comunicazione richiedono oggi
alle relazioni pubbliche un orientamento sempre più accentuato verso la “segmentazione” degli
stakeholder/influenti di un’organizzazione fino alla loro identificazione unitaria che consenta il trasferimento di
messaggi specifici e rilevanti per chi li riceve, capaci di stimolare nei destinatari una reazione, in particolare, un
desiderio di relazione interpersonale e interattiva6. La complessità che tale operazione, se venisse applicata
trasversalmente ai sistemi di relazione di un’organizzazione, comporterebbe per la progettazione dell’albero
relazionale scoraggia, anche dal punto di vista dell’impegno di risorse dedicate, un’applicazione diffusa delle
metodologie effettivamente disponibili (per esempio, il Gorel che esamineremo nel Capitolo 6), seppure ciò vada
a scapito dei risultati. Di fatto, nell’esercizio quotidiano delle relazioni pubbliche, si tende molto a “tirar via”, a
6
C’è da stigmatizzare il grado in cui i comunicatori contribuiscono all’ulteriore aggravamento dell’inquinamento
comunicativo riscontrabile nell’ambiente (reale e virtuale). Tale contribuzione è legata alla tradizionale modalità persuasiva,
unidirezionale e asimmetrica della comunicazione: ciò ha favorito - e continua ad incrementare - lo spamming generalizzato
di messaggi (on/ off line) che crea un affollamento di media e di messaggi in cui è difficile per un’organizzazione emergere
anche investendo considerevoli risorse. La responsabilità del comunicatore sta proprio nell’assunzione di piena
consapevolezza e nel conseguente impegno ad operare un progressivo disinquinamento comunicativo attraverso la
migrazione verso modalità di comunicazione maggiormente interattive e simmetriche.
realizzare iniziative di comunicazione valide per tutti, senza prestare eccessiva attenzione alla segmentazione e
prestandone ancor meno al one-with-one7.
L’avvento e la diffusione negli anni Ottanta del personal computer ha determinato una forte accelerazione
nelle applicazioni del database marketing, inteso come raccolta e utilizzo di informazioni (prevalentemente) sui
clienti, grazie alla sensibile e progressiva riduzione del costo e dei tempi di trattamento di tali informazioni. Si
sono quindi crescentemente diffuse, inizialmente tra le aziende di servizi finanziari (per esempio, le carte di
credito) e di B2B, ma negli anni Novanta anche tra quelle produttrici di beni di largo consumo e nella
distribuzione, le iniziative di marketing di relazione (relationship marketing), orientate prevalentemente alla
fidelizzazione del cliente.
In sintesi:
– il database marketing consente - applicando alle informazioni ricavate da azioni di direct response (o
acquistabili sul mercato) criteri psicografici di segmentazione del consumatore - di identificare valori, simboli
e contenuti, anche informativi, da attribuire al prodotto/servizio offerto per attirare nuovi consumatori. Per
esempio, se studiando con attenzione i clienti attuali scopro che il mio prodotto/servizio attira soprattutto
giovani ragazzi che amano la discomusic, tenderò a diffondere comunicazione sul mio prodotto nelle
discoteche o sui media dedicati a tale genere musicale;
– il relationship marketing consente di comprendere quali sistemi di relazione avviare con il cliente per impedire
che egli passi al prodotto/servizio concorrente e farlo restare fedele, convinto e moltiplicatore. In proposito, è
stato dimostrato che l’acquisizione di un nuovo cliente ha un costo unitario più alto che non una buona
manutenzione della relazione con un cliente esistente. Inoltre, se il cliente esistente riesce a essere attivato,
attraverso i canali di relazione più vari, fino a farlo diventare “evangelista” del prodotto, il valore aggiunto
ricavato dal cliente fedele e convinto sarà infinitamente superiore a quello di un cliente nuovo.
Verso la metà degli anni Novanta, alcuni studiosi e operatori italiani (Carlo Alberto Pratesi, Jerry Iasevoli,
Giorgio Eminente) hanno percepito la portata potenziale di un’applicazione del relationship marketing allo
specifico delle relazioni pubbliche. Le nuove tecnologie consentono infatti, a costi contenuti e comunque
decrescenti, di raccogliere, trattenere, organizzare e rendere immediatamente disponibili e utilizzabili
ragguardevoli quantità di informazioni, continuamente aggiornate, non solo sui consumatori ma anche sui
cosiddetti pubblici influenti, sulla loro identità e sulle loro opinioni, i loro atteggiamenti, i loro comportamenti e
decisioni relative a questioni di specifico interesse per un’organizzazione. In questo modo, prescindendo dalle
rilevanti questioni che si aprono in merito al rispetto e alla tutela della privacy, si moltiplica il valore aggiunto di
almeno due delle quattro macrofasi del flusso delle relazioni pubbliche:
– l’ascolto iniziale, per decidere come avviare la relazione e cosa comunicare affinché la relazione diventi
interattiva;
– l’ascolto successivo al trasferimento dei messaggi, per verificare se la comunicazione ha raggiunto i suoi
obiettivi, nonché per rimettere a punto e riavviare il ciclo.
Abbiamo fin qui descritto l’impatto delle nuove tecnologie dell’informazione sulle relazioni pubbliche in un
periodo che arriva alla metà degli anni Novanta, non considerando, per il momento, le conseguenze prodotte
dall’applicazione di Internet.
Non cambiano, in questo lasso di tempo, la seconda e la terza macrofase del flusso delle relazioni pubbliche:
quella della progettazione e quella del trasferimento dei messaggi.
7
La “comunicazione a” (one-to-one) enfatizza il ruolo dei media ritenuti - oggi più che mai in passato - potenti e influenti
canali di trasmissione dei messaggi ai pubblici influenti. La “comunicazione con” (one-with-one), viceversa, pone l’accento
su modalità di relazione quasi-diretta con i singoli pubblici influenti, riflesso del processo di disintermediazione delle
relazioni pubbliche dalla comunicazione di massa.
Il “rumore di fondo” dei media, il “diluvio informativo”, l’esplosione della cultura dell’immagine negli anni
Ottanta e della comunicazione apparente negli anni Novanta, la pervasività crescente della comunicazione di
massa hanno finito per determinare nei destinatari una sorta di “mitridatizzazione” e di assuefazione. I livelli di
saturazione hanno raggiunto picchi sempre più elevati, al punto che, come si è visto, la questione di fondo per le
organizzazioni si è ormai spostata dalla conquista dello share of voice a quella dello share of mind. Il perdurare e
il crescere di questo fenomeno hanno causato problemi sostanziali alla comunicazione organizzativa nel suo
insieme, oltre che alle relazioni pubbliche. Infatti, “catturare” l’attenzione dello stakeholder-influente, per sua
natura più esposto di una persona comune ai messaggi delle organizzazioni, è diventato un esercizio sempre più
complicato, che richiede risorse creative ed economiche crescenti rispetto a una offerta, almeno dal punto di vista
della creatività, per lo meno stabile, quando non in calo.
Sempre più frequentemente le aziende - ma ormai non esiste organizzazione complessa (ente, associazione,
circolo, gruppo di pressione) che non si affanni ad alzare il volume della comunicazione con i suoi interlocutori hanno ceduto alla tentazione di passare (per usare una terminologia appropriata, parlando di Internet) da
metodologie pull (ascolto e dialogo) a metodologie push (pressione unidirezionale). Con il risultato di complicare
ulteriormente la situazione, elevare la soglia minima di credibilità dei messaggi, allargare la distanza fra i soggetti,
rendendo sempre più difficile, quando non impossibile, lo sviluppo di una relazione a due vie, che, come abbiamo
visto, rimane comunque la caratteristica specifica delle relazioni pubbliche. È a questo punto che arriva Internet.
Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con le sue applicazioni, sia reali sia potenziali, può facilmente
comprendere che Internet consente alle relazioni pubbliche di saldare le quattro macrofasi. Vediamo come.
È verosimile che gli stakeholder possano essere utenti di Internet e quindi possano decidere di collegarsi in
Rete con l’organizzazione. Sicuramente in Internet è possibile la identificazione fino al limite di consentire,
tramite password differenziate, a ogni singola persona un accesso del tutto personalizzato ed esclusivo a
informazioni mirate, stabilendo con essa una interazione one-with-one. Resta saldo il principio base secondo cui è
lo stakeholder ad avere (o a ritenere di avere) il titolo, a determinate condizioni, per interloquire con
l’organizzazione e, quindi, verosimilmente l’interesse e il desiderio di farlo. Il pieno e integrale utilizzo
dell’ambiente Internet consente quindi ad ogni organizzazione, con investimenti relativamente contenuti, la
possibilità di attivare, consolidare, sviluppare e coordinare i sistemi di relazione con gli stakeholder per facilitare
il raggiungimento dei suoi obiettivi. Non è un caso, peraltro, che l’utilizzo più comune di Intranet nelle
organizzazioni complesse sia oggi orientato a facilitare le relazioni all’interno dei e fra i diversi segmenti di
persone che fanno parte di una azienda.
Le implicazioni operative di una tale fattibilità sono moltissime. Per esempio, in una situazione del genere è
implicito che l’obiettivo primario della funzione di relazioni pubbliche di un’organizzazione diventa quello di
riuscire a negoziare con gli influenti il loro volontario trasferimento al ruolo di stakeholder. Un ruolo che
garantisce, attraverso una semplice password, la possibilità di esercitare il proprio titolo e accedere ad un
ambiente virtuale, interattivo e personalizzato, di dialogo e relazione con l’organizzazione. Questo ragionamento,
si intende, nulla dice su come si riesca a negoziare con l’influente il suo volontario passaggio al ruolo di
stakeholder, ma permette facilmente di comprendere come l’impatto sulle modalità e sulle tecniche tradizionali
delle relazioni pubbliche sia fortissimo8.
In primo luogo, l’operatore utilizzerà per gli stakeholder tecniche, moduli, toni, contenuti e messaggi diversi
da quelli adottati con gli influenti. Mentre, infatti, con i primi potrà affrontare direttamente le questioni che lo
interessano, contando sull’attenzione già acquisita, ai secondi dovrà trasferire messaggi “rilevanti per loro”,
cercando di catturarne l’interesse. Idealmente, le quattro macrofasi delle relazioni pubbliche e l’intero ciclo delle
8
Tramite un intelligente utilizzo di Internet è possibile integrare efficacemente gli sforzi nell'ambiente reale ed in quello
virtuale per:
- continuare ad utilizzare la comunicazione asimmetrica ed unilaterale (one-to-one) verso i destinatari finali;
- favorire una comunicazione persuasiva e multilaterale (one-with-few) con coloro che influiscono sulle variabili e sui
destinatari finali;
- sostenere e incoraggiare una comunicazione pienamente simmetrica e bidirezionale (one-with-one) con gli stakeholder
attivi.
microfasi del Gorel (si veda il Capitolo 6) nello spazio virtuale di Internet trovano una piena e armonica
composizione. Verosimilmente, non si arriverà mai a questi estremi e la fredda meccanicità dell’insieme non
rende in alcun modo auspicabile che ciò avvenga. Quando si parla di “relazione”, infatti, bisogna sempre tenere
presente che la più efficace è quella diretta, personale e face to face. Reale, dunque, non virtuale. Quest’ultima, in
molti casi, serve solo come supporto. Nonostante ciò, le implicazioni sono rilevanti. Si pensi soltanto che, per
esempio, se le relazioni con i media servissero realmente alle relazioni pubbliche soprattutto per informare e
orientare, tramite i giornalisti, gli influenti e se fosse vero che trasformando gli influenti in stakeholder questi si
convincerebbero a integrarsi in una rete virtuale con l’organizzazione che avvia il dialogo, le stesse relazioni con
la stampa perderebbero una parte considerevole della loro importanza attuale (reale o percepita…), assumendo un
ruolo di semplice, ma autorevole, conferma di ciò che gli stakeholder hanno già saputo direttamente
dall’organizzazione, con tutte le implicazioni che questo comporterebbe.
Ma, come ormai è accertato, l’arrivo di Internet non determina la sostituzione delle normali attività di relazioni
pubbliche, allo stesso modo in cui non sostituisce il giornale o il negozio sotto casa.
Tuttavia, adottando un approccio minimalista, anche per evitare gli strali dei tanti luddisti9 che operano nelle
relazioni pubbliche, nello stesso modo in cui i giornali e il negozio sotto casa devono ormai considerare come
variabile prioritaria le applicazioni di Internet, che decidano o meno di adottarle, anche gli operatori delle
relazioni pubbliche devono prendere atto che con Internet è intervenuta una forte “discontinuità” metodologica e
che le implicazioni, anche operative, di questa discontinuità sono di grande portata.
Di seguito, verranno indicati sinteticamente alcuni aspetti rilevanti che caratterizzano il rapporto tra Internet e
l’attività di relazioni pubbliche.
1) Per molti operatori delle relazioni pubbliche, Internet oggi è:
– una vetrina must (come non essere in Internet?);
– un “altro” canale di comunicazione per fare arrivare informazioni senza particolari costi di stampa e di
distribuzione a tante persone.
2) Per coloro che, invece, hanno assimilato la visione delle relazioni pubbliche come governo delle relazioni,
simmetriche e a due vie fra una organizzazione e i suoi pubblici influenti, Internet rappresenta un ambiente
relazionale completamente nuovo, con regole nuove (ancora da esplorare e definire), che offre al relatore
pubblico straordinarie opportunità operative.
3) Per iniziare a capire e applicare questa opportunità operativa con efficacia è però necessario:
– riconoscere che il potenziale di Internet per le relazioni pubbliche è ancora da esplorare;
– esplorare e imparare a fondo le tante applicazioni di Internet già disponibili;
– conoscere il concetto e la pratica della comunicazione integrata (in tutte le sue accezioni).
A che punto è oggi l’applicazione di Internet alle relazioni pubbliche? Sicuramente ci troviamo ancora in una fase
iniziale, di scarso utilizzo. Solo eccezionalmente Internet viene sfruttato per:
– prevenire e/o gestire una crisi;
– identificare e/o monitorare le dinamiche di una issue rilevante;
– comunicare interattivamente attraverso specifiche “e-lettere” inviate a pubblici specifici;
– inserirsi, monitorare e/o intervenire nei gruppi di conversazione rilevanti;
9
Luddismo indica la tendenza (in molti casi evidente anche in operatori di relazioni pubbliche) ad osteggiare le nuove
tecnologie e tutto ciò che comporta dei rischi per il normale evolversi della natura. Il termine deriva da Ned Ludd (la cui
identità è però incerta): da lui la pratica di violenze e distruzione contro gli impianti industriali che si diffuse in Gran
Bretagna nei prime due decenni dell’Ottocento.
– comunicare, anche “uno-con-uno”, attraverso Intranet o Extranet.
La regola è costituita ancora dalla comunicazione a una via e asimmetrica. Il fatto di utilizzare, almeno
inizialmente, una nuova piattaforma tecnologica per fare, in modo diverso, le stesse cose che già si facevano
prima rientra comunque nella norma e non deve quindi stupire.
L’applicazione più comune di Internet, dopo la posta elettronica, è il sito istituzionale di una organizzazione:
“Ma come… non sei in Internet?”. Raramente però in un’organizzazione il sito Internet rappresenta un’iniziativa
delle relazioni pubbliche. All’inizio, la creazione del sito veniva promossa soprattutto dai sistemi informativi, poi
dal marketing, infine dal top management. E ultime le rp, alle quali viene normalmente demandato il compito di
assicurare la messa in rete dei discorsi dei manager e dei comunicati alla stampa. L’interattività (quando possibile)
si attua solo via e-mail ed è raramente affidata alle rp, con risposte quasi sempre tardive. L’impostazione più
frequente è di tipo comunicativo, non relazionale, a una via e asimmetrica. L’efficacia viene misurata, se viene
misurata, sulla base degli Hits (eufemisticamente: How Idiots Track Success). Così, non si conosce l’identità di
chi accede al sito, non si sa se quello che ha trovato è soddisfacente e neppure cosa stesse cercando. Una
situazione che deve necessariamente essere modificata. In Italia, ormai molti milioni di persone frequentano la
Rete e interagiscono con le organizzazioni, quando vogliono e come vogliono, anche quando queste non ci sono.
Infatti, in Internet ciascuno può essere editore o giornalista. Ogni persona può influenzarne altre su idee, servizi e
prodotti, senza alcun intervento dell’organizzazione (nei blog, nei gruppi di conversazione, nei siti dei fan club).
Tutti possono organizzare, aderire o promuovere boicottaggi, e raccontare in Rete notizie false, essendo creduti
(almeno da qualcuno!).
La comunicazione è cambiata per sempre, e occorre prenderne atto interagendo con Internet in modo
pienamente consapevole.
L’integrazione fra tutte le possibili applicazioni di Internet – e quelle che verranno, poiché non abbiamo ancora
visto nulla – in una visione generale della Rete come ambiente relazionale, e non come media o strumento,
insieme a un’interpretazione del ruolo delle relazioni pubbliche nel senso suggerito dal quarto modello di Grunig
(si veda il Capitolo 5) consentono di prevedere un grande futuro per il mestiere più bistrattato e, forse anche per
questo, più stimolante e intrigante che esista.
5. I quattro modelli delle relazioni pubbliche
5.1 Il modello di Barnum (o della propaganda)
James Grunig, docente presso l’Università del Maryland ha, fra gli altri, il grande merito di avere
identificato quattro diversi “modelli” di pratica delle relazioni pubbliche. Si tratta di modelli suggestivi
che ancora oggi convivono all’interno di un’unica organizzazione e che aiutano anche a ripercorrere e
comprendere le principali dinamiche attraverso cui si sono sviluppate le relazioni pubbliche nel corso
del XX secolo1.
Il primo modello è quello della press agentry o publicity, largamente presente nella pratica
odierna, proposto nella seconda metà dell’Ottocento da Phineas T. Barnum, un imprenditore dello
spettacolo – proprietario di circo – famoso per la creatività con cui inventava storie sui suoi animali e
sulle sue creature2 che faceva pervenire ai giornali locali qualche giorno prima del suo arrivo in città al
fine di attirare curiosità e attenzione. Oggi, non c’è attore, sportivo, cantante, imprenditore “di grido”,
politico, che non abbia un press agent o “portavoce”. Una legge dello Stato, la 150/2000 ne codifica
addirittura la funzione nell’ambito della amministrazione pubblica.
Questo modello fa leva sulla fantasia, la creatività e, soprattutto, sulla relazione del press agent
con il “giornalista”, per “occupare” spazi sui media e, indirettamente, attirare l’attenzione del pubblico
senza necessariamente porsi l’obiettivo del consenso o della comprensione. Pur esaltando il ruolo dei
media, il modello testimonia una considerazione limitata dell’autonomia professionale del giornalista e
della sua funzione di “quarto potere” a tutela dell’integrità del lettore in una moderna democrazia
rappresentativa. Si pensi per esempio alla cosiddetta “politica dell’annuncio”, che ancor oggi prevale in
molte organizzazioni, società finanziarie e, soprattutto, forze politiche e di governo. Secondo questa
politica, per diffondere una notizia non è necessario che sia vera, cioè effettivamente accaduta.
L’importante è che sia verosimile. Infatti, anche se la notizia in un secondo momento si rivelasse falsa,
difficilmente un giornale la recupera per avvertire i lettori dell’errore commesso e, nei pochi casi in cui
lo fa (per legge o per convinzione), in genere ciò avviene dopo molto tempo e, comunque, lo spazio
dedicato alla rettifica è minimo.
Si tratta evidentemente di un modello a una via3 (l’informazione viaggia dal press agent al
giornalista) e asimmetrico4 (il giornalista dipende, sotto molti aspetti, dal press agent). Si consideri il
1
In realtà, sebbene i 4 modelli di Grunig siano del 1984, i primi pioneristici tentativi di razionalizzazione delle relazioni
pubbliche appaiono già nel 1948 a opera dello storico Goldman il quale contrappone due periodi differenti: l’era di “the
public be fooled” corrispondente all’incirca con il modello di Barnum e l’era di “the public be informed” corrispondente
grosso modo al modello di Lee.
2
Si devono alla creatività di Barnum: la “donna cannone”, Jumbo l’elefante, i “gemelli siamesi” e altre caratterizzazioni.
3
Anche la semplice differenza tra comunicazione a una e a due vie è stata elaborata in testi precedenti, come quello di Cutlip
e Center (1952)
4
La distinzione tra uni/bidirezionalità e asimmetria/simmetria indica rispettivamente la direzione della comunicazione e il
suo fine. La comunicazione a una via trasferisce informazioni (monologo), mentre quella a due vie le scambia (dialogo). La
comunicazione asimmetrica è sbilanciata in favore di uno dei soggetti e si propone di modificare opinioni, atteggiamenti,
comportamenti e decisioni con attività anche retoriche persuasive, mentre la comunicazione simmetrica, poggiandosi su di
una relazione più equilibrata e tendenzialmente simmetrica, si propone la comprensione reciproca delle aspettative dei
successo crescente dei media del “pettegolezzo”: settimanali dedicati, ma anche rubriche di notizie
mondane su periodici, quotidiani, radio e TV – ormai stabilmente presidiate dalle gesta di politici,
imprenditori e finanzieri equiparati alle celebrities dello spettacolo – riportano informazioni verosimili
intorno ad amori, ambizioni, risultati, progetti, alleanze dei protagonisti delle cronache, basandosi nel
90% dei casi almeno, su fonti costruite proprio dai press agent. Chiunque frequenti gli ambienti da cui
quelle notizie, dichiarate certe e (quasi) mai smentite, provengono sa bene che sono per lo più
inattendibili.
Ma la maggior parte dei lettori non frequenta quegli ambienti e quindi non sa se ritenere quelle
notizie attendibili (le ricerche sociali indicano una caduta tendenziale della credibilità dell’informazione
giornalistica). Inoltre, per il semplice fatto di essere pubblicate in un certo modo piuttosto che in un
altro, svolgono sovente la funzione di segnali di fumo, sotterranei e segreti decifrabili soltanto da
raffinati esegeti o dagli stessi protagonisti. In sostanza, il giornalista che pubblica quasi esclusivamente
informazioni riferite dai press agent si presta a una sorta di gioco “occulto” (talvolta ne è invece
pienamente consapevole e complice, quando non autore) che si propone di spostare e modificare
equilibri di potere, contratti, azioni di Borsa o, più semplicemente, giochi di coppia più o meno arditi.
Fino ai primi anni Ottanta, questo esercizio riguardava soprattutto cantanti, attori e autori, poiché
imprenditori, finanzieri, prelati, accademici, politici lo ritenevano abbastanza disdicevole e, salvo
eccezioni, tendevano a “stare lontano dai riflettori dell’opinione pubblica”. Alcuni evitavano i giornalisti
per continuare a gestire i propri affari senza dover rispondere a troppe domande, altri invece li
schivavano solo per una legittima questione di pudore e di educazione, oppure perché ritenevano di non
custodire alcunché di interesse pubblico.
Negli anni Ottanta si inseguirono la crescita vertiginosa del sistema dei media (soprattutto della
televisione commerciale), i consumi di massa, l’esaltazione acritica dei “capitani di ventura” del
capitalismo e della politica nazionale, la crescita degli scambi azionari in Borsa, l’inevitabile influenza
proveniente dai mercati internazionali; il tutto integrato con la diffusa volontà nella nostra classe
dirigente di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dall’inarrestabile crescita del debito pubblico
dovuta a forme deteriori di consociativismo tollerate per nascondere quanto sarebbe poi emerso dai
successivi processi dell’inchiesta “mani pulite”. In tale clima si era sviluppata quella che, in termini
clinici, si chiama “sindrome della visibilità”, ancora oggi (più che mai!) largamente diffusa: il
protagonista esiste in quanto è visibile sul sistema dei media, se non è sui giornali non esiste.
È l’apoteosi del modello di Barnum, della “comunicazione apparente”, secondo una definizione
coniata dall’associazione culturale romana Correnti (stimolante palestra intellettuale per molti giovani
relatori pubblici).
In tutto il mondo questo è il modello di press agentry che, nell’immaginario collettivo, viene più
comunemente associato alle relazioni pubbliche e che lo stesso Grunig, pur avendolo razionalizzato,
considera il “frutto avvelenato” che gli Stati Uniti, attraverso il dominio economico e politico del mondo
negli ultimi cinquant’anni e più recentemente attraverso la globalizzazione, hanno esportato ovunque
contribuendo ad attribuire alla professione un’identità discutibile e ambigua.
5.2
Il modello di Lee (o dell’informazione)
Il secondo modello è quello che sempre Grunig definisce della “public information”, avviato agli esordi
del XX secolo da Ivy Ledbetter Lee, uno dei padri fondatori delle relazioni pubbliche. Anche in tale
modello, la funzione del relatore pubblico è quella di produrre informazioni e diffonderle ai giornalisti.
soggetti della relazione con la negoziazione di obiettivi operativi realisticamente perseguibili. Entrambi sono importantissime
per le relazioni pubbliche.
In questo caso, però, le informazioni riguardano fatti realmente accaduti e verificabili dal giornalista al
quale viene riconosciuto il diritto “di sapere”, in quanto rappresentante dell’opinione pubblica.
Si tratta di una parziale vittoria dei “muckracker” (giornalisti progressisti che nei primi anni del
Novecento attaccano i grandi capitalisti e banchieri), di un modello che tende ad affermarsi anche grazie
alla crescente influenza dei giornali sulle decisioni politiche. Lee sostiene, ovviamente, che le
informazioni trasferite al giornalista devono anche essere esplicitamente e consapevolmente orientate a
influenzare l’opinione pubblica a favore degli obiettivi dell’organizzazione committente. Se, per
esempio, un relatore pubblico è disposto a comunicare al giornalista quanti siano i morti effettivi di un
incidente sul lavoro poiché il pubblico ha il diritto di sapere, egli deve far sì che l’informazione sia
costruita e trasferita in modo da sottolineare gli sforzi compiuti dall’impresa committente per evitare
l’incidente, indicare le eventuali carenze legislative se ci sono, ed evitare accuratamente – informando
che è stata messa a disposizione una somma di denaro per andare incontro alle prime esigenze dei
parenti delle vittime – di fare pensare che l’impresa si ritenga responsabile dell’incidente. Attualmente il
modello di Lee è diffuso prevalentemente nella parte più avanzata del settore pubblico e delle istituzioni,
oltre che fra gli operatori economici e finanziari più avveduti.
Il ruolo del giornalista, in questo caso, è di chiedere e ricevere informazioni il più dettagliate
possibile, valutarle, interpretarle e decidere se, e come, renderle note ai suoi lettori, nel rispetto di
determinate regole condivise. Fra il relatore pubblico e il giornalista si stabilisce in questo caso una
relazione di fiducia e interdipendenza che si interrompe quando:
–
–
il relatore pubblico fornisce al giornalista informazioni non fondate, confidando nel fatto che,
anche grazie alla fiducia precedentemente conquistata, questi non compia ulteriori verifiche;
il giornalista, in modo improprio, pubblica informazioni riservate oppure, senza
autorizzazione, le attribuisce esplicitamente alla fonte.
Anche quello di Lee è un modello a una via (chi comunica persegue soltanto il suo obiettivo e si
preoccupa di soddisfare le supposte aspettative del giornalista), ma è assai meno asimmetrico del primo.
Infatti, il giornalista non è soltanto uno strumento nelle mani della fonte che controlla la relazione,
poiché gli viene riconosciuto un ruolo di tutela dell’interesse dei suoi lettori.
5.3
Il modello di Bernays ( della persuasione scientifica)
Il terzo modello, impersonato – per gran parte del secolo scorso – da Edward Bernays ancora oggi
prevale nelle grandi imprese internazionali e, da qualche tempo, anche in quelle italiane: è un modello
maggiormente orientato alla relazione a due vie, è però ancora piuttosto asimmetrico. Questo modello
assume integralmente i parametri delle discipline psicologiche e sociologiche e si propone la
“persuasione scientifica” di determinati segmenti di pubblici influenti, in funzione degli obiettivi
dell’organizzazione. A differenza dei precedenti, quindi, non si rivolge solo ai giornalisti, ma anche agli
opinion leader e perfino ai consumatori finali.
Alla base delle elaborazioni di Bernays sono, soprattutto, le opere di suo zio Sigmund Freud, di
Walter Lippman e di Gustave Le Bon. Il modello proposto prevede un intenso uso delle ricerche sociali
(sondaggi di opinione e focus group) e, in tal senso, si può considerare un modello a due vie:
l’interlocutore viene infatti effettivamente “ascoltato”. Tuttavia, si tratta di un modello ancora
asimmetrico, poiché l’ascolto viene valutato esclusivamente come informazione che permette di ottenere
una persuasione scientifica, in funzione di obiettivi unilateralmente decisi e non negoziati
preventivamente con l’interlocutore, del quale il relatore pubblico presume di conoscere il “bene”. Il
modello di Bernays assume un carattere quasi ideologico nella misura in cui teorizza che le relazioni
pubbliche, per il fatto di essere tali, rappresentano comunque un bene per la società e per i pubblici
influenti. Per la prima volta, si sostiene che le relazioni pubbliche non devono essere rivolte
esclusivamente ai giornalisti o ai decisori pubblici (lobby) e si riconosce infatti che il pubblico viene
influenzato anche dai gruppi di pressione e, soprattutto, dagli opinion leader.
Ottimo scrittore e divulgatore, ma soprattutto abilissimo professionista e straordinario creativo,
Bernays investe una larga parte della sua vita (ha vissuto per 103 anni e, fino all’ultimo, è stato
consulente di relazioni pubbliche per una tariffa di 1.000 dollari l’ora!) nel tentativo di capire come
identificare i moltiplicatori, gli opinion leader e persuaderli ad esprimere comportamenti e opinioni volti
a influenzare l’opinione pubblica attraverso i media, ma anche attraverso i grandi eventi e
l’orientamento del processo decisionale pubblico. Egli inventa e, con enorme successo, diffonde in tutto
il mondo quelle marketing public relations che tanto impatto hanno avuto sull’evoluzione dei consumi e
dei comportamenti del consumatore.
Bernays non solo ha reso il lavoro del relatore pubblico più complesso ed efficace, allargando la
rosa dei suoi interlocutori anche agli opinion leader, ma ha elaborato e fornito metodi, strumenti e
numerosi esempi operativi che consentono di identificare ed entrare in relazione con gli opinion leader,
per influenzarli a orientare le scelte del consumatore finale, e raggiungere quindi, con il minor sforzo
possibile, gli obiettivi perseguiti dall’organizzazione.
5.4
Il modello di Grunig (o della negoziazione)
Il quarto modello, detto di Grunig, dal nome dell’accademico americano che lo ha razionalizzato, è un
modello a due vie come quello di Bernays, ma tendenzialmente più simmetrico. È un modello che
postula l’importanza preventiva dell’ascolto per le organizzazioni, da realizzare prevalentemente tramite
la ricerca sociale e l’attenta analisi e identificazione dei soggetti influenti, definiti publics. Si tratta di un
ascolto non orientato solamente alla costruzione di messaggi efficaci da trasferire in funzione di obiettivi
specifici dell’organizzazione, come era nel caso di Bernays, ma anche e soprattutto volto ad aiutare
l’organizzazione stessa ad ottenere un posizionamento dinamico dei suoi sistemi di relazione con gli
stakeholder o gli influenti, perseguendo fini che tengano anche conto dei loro interessi e valori,
incorporandoli nei propri.
Il professionista delle relazioni pubbliche assume così anche il ruolo di “interprete attivo”, sia
pure sempre ed esplicitamente di parte, dei pubblici influenti dell’organizzazione per la quale agisce e
opera al fine di attivare e sviluppare quel dialogo, quella reciproca comprensione, che consente
all’organizzazione di raggiungere più agevolmente i suoi obiettivi, proprio perché permette ai pubblici
influenti di ricavarne un percepibile ed effettivo valore aggiunto. Per qualsiasi organizzazione, infatti, si
apre una “questione” di relazioni pubbliche quando si ritiene che una sua decisione possa produrre
conseguenze su altri soggetti (interni o esterni) oppure che, viceversa, il comportamento di altri soggetti
(interni o esterni) possa produrre conseguenze sulle modalità con cui l’organizzazione opera. Le
relazioni pubbliche, dunque, intervengono in relazione a eventuali conseguenze che possono derivare sia
dai comportamenti dei pubblici influenti sia dai comportamenti dell’organizzazione stessa.
Secondo il modello di Grunig, le relazioni pubbliche contribuiscono a rendere più efficaci le
attività di una organizzazione soltanto se, e quando, permettono di conciliare le sue finalità con le
aspettative (anche latenti) dei suoi pubblici influenti, costruendo con loro sistemi di relazione di qualità e
a lungo termine.
Infatti, sostiene Grunig, fiducia e credibilità dei pubblici influenti sono le caratteristiche
fondamentali che permettono all’organizzazione di esistere. È quindi la relazione (e non la
comunicazione in quanto tale) che diventa l’aspetto chiave di relazioni pubbliche efficaci; una relazione
che può essere misurata ricorrendo a indicatori attinenti al processo e, soprattutto, riguardanti i risultati.
Da soli, infatti, i primi sono poco rilevanti, seppure comunque utili a monitorare l’eventuale
raggiungimento dei risultati desiderati. Per quanto riguarda la misurazione di questi ultimi, invece, ci si è
finora basati soprattutto su tecniche quanti-qualitative di esposizione ai messaggi dei pubblici influenti e
quindi sui mutamenti che intervengono nella loro conoscenza, nelle loro attitudini e nei loro
comportamenti. Se però, come sostiene Grunig, è vero che le relazioni pubbliche di successo
costruiscono relazioni a due vie e tendenzialmente simmetriche, occorre anche essere in grado di
accertare se una relazione permette di realizzare cambiamenti anche all’interno dell’organizzazione, e
non solo nei suoi pubblici influenti.5
Alla luce di queste considerazioni, si può affermare che una organizzazione efficace comprende
tra le proprie finalità (missione, visione, valori guida e strategia) anche i valori di almeno alcuni suoi
pubblici influenti, tenendo ovviamente conto del fatto che organizzazioni differenti hanno pubblici
influenti differenti, i quali a loro volta esprimono valori diversi.
L’organizzazione efficace persegue dunque il tragitto dalla missione (ciò che è e che fa) alla
visione (ciò che vuole diventare), sviluppando una strategia capace di integrare i propri valori con quelli
dei suoi pubblici influenti.
Fin qui, Grunig.
Ma – proseguiamo noi – i pubblici influenti di un’organizzazione si articolano in stakeholder
(soggetti consapevoli di avere un titolo a interessati a interloquire) e influenti (soggetti ritenuti strategici
dall’organizzazione, ma non consapevoli e neppure particolarmente interessati al ruolo di stakeholder).
Con i primi, l’organizzazione sviluppa relazioni dirette, a due vie e simmetriche, tenendo conto che si
tratta di soggetti consapevoli di avere titolo e, quindi, prevedibilmente interessati a una relazione non
effimera, imperniata, in molti casi, sulla tematizzazione di argomenti direttamente attinenti alla fonte
emittente. Rispetto agli influenti, invece, l’organizzazione si propone di tematizzare questioni a loro
attinenti e per loro rilevanti (ovviamente rilevanti anche per l’emittente), così da convincerli
progressivamente a “migrare” verso la categoria degli stakeholder e verso una relazione simmetrica a
due vie.
L’implicazione operativa, estremamente importante, di questo ragionamento è che, nello
svolgimento delle sue attività, il relatore pubblico dovrà tenere conto non solo del fatto che ciascun
obiettivo perseguito è influenzato da pubblici diversi, ma anche che per ogni obiettivo va realizzata una
segmentazione trasversale del pubblico rilevante, ovvero distinguere gli stakeholder dagli influenti, per
sviluppare con ciascun segmento argomentazioni diverse. Si tratta della base teorica dello stakeholder
relationship management.
5
Criteri generalmente condivisi per la misurazione e la valutazione di una relazione (Y.H. Huang, 1997) sono:
- control mutuality: il livello di governo sulla relazione che i partecipanti alla stessa sono reciprocamente disposti a cedersi;
- trust: il livello di fiducia che i partecipanti ripongono nella relazione stessa;
- commitment: il livello di impegno e di responsabilità che le parti sono disposti ad investire nella relazione;
- satisfaction: il livello di soddisfazione che le parti hanno nella relazione;
Tali criteri sono stati ripresi anche dallo stesso Grunig per una possibile misurazione e valutazione dei sistemi relazionali sia
con metodi quantitativi (Grunig e Hon, Guidelines for Measuring Relationships in Public Relations, 1999) che qualitativi
(Grunig, Qualitative Methods for Assessing Relationships between an Organizations and its Publics, 2000). Sulla base anche
di questi lavori la Edelman worldwide ha realizzato nel 2003 un Relationship Index per valutare la qualità della relazione tra
organizzazioni e stakeholder e per misurare l’efficacia dei programmi di relazioni pubbliche.
6. Il governo delle relazioni (stakeholder relationship management)
6.1 Una metodologia operativa
Il ruolo delle relazioni pubbliche risulta essenziale anche, quando non soprattutto, nel coordinamento
dell’insieme dei sistemi di relazione di un’organizzazione. In questo senso, una delle funzioni svolte dal
relatore pubblico è quella di “quadrante”, di indicatore dinamico, capace di assicurare un governo
coerente delle relazioni di un’organizzazione con gli stakeholder.
In particolare, per un’organizzazione, i ruoli più rilevanti delle relazioni pubbliche sono quelli di:
–
–
“monitorare” attivamente, con modalità coerenti e condivise dalla “coalizione dominante”, le
dinamiche dei sistemi di relazione tra l’organizzazione e i suoi stakeholder, adottando
strumenti di rilevazione costante capaci di segnalare, attraverso indicatori preconcordati, le
performance relazionali rispetto alle finalità e agli obiettivi perseguiti;
assistere le altre funzioni di direzione nello sviluppo di modalità di interlocuzione, di
trasferimento dei messaggi, di verifica e valutazione dei loro sistemi di relazione con i
rispettivi stakeholder.
Si tratta, rispettivamente, del ruolo “riflessivo” e di quello “educativo”, così come sono stati
recentemente descritti da Van Ruler e Vercic nel Bled Manifesto o, se si preferisce, del duplice volto di
quel ruolo “strategico” di cui parla Grunig.
La metodologia di base che presentiamo investe frontalmente e integra due ulteriori ruoli più
tradizionali, suggeriti dagli autori del Manifesto e da Grunig, quello “manageriale” e quello “operativo”,
e si richiama, coerentemente, alle quattro macrofasi operative delle relazioni pubbliche già descritte in
precedenza, integrando anche quel poco che ancora si può dire della integrazione delle relazioni sia
nell’ambiente reale che in quello virtuale di Internet.
Ed è per questo che si chiama Gorel (governo delle relazioni, in inglese relationship
management), una sorta di “canovaccio base”, che consente di affrontare e razionalizzare le diverse fasi
in cui si attuano le attività di relazioni pubbliche. Un canovaccio che, per definizione, è in divenire e che
ciascun operatore deve di volta in volta adattare alle specifiche circostanze in cui agisce.
Così, per esempio, se su una determinata questione di relazioni pubbliche si intende applicare il
modello interattivo e tendenzialmente simmetrico di Grunig, sarà indispensabile avviare il percorso con
modalità diverse rispetto a quelle adottate in una situazione in cui, per svariate ragioni, si decide di
applicare il modello delle persuasione scientifica di Bernays. Grunig, infatti, prevede che
un’organizzazione ascolti i propri stakeholder rilevanti anche prima di definire gli obiettivi specifici da
perseguire. Per Bernays invece, così come per il marketing in generale, la fase di ascolto degli influenti
si realizza dopo la definizione degli obiettivi perseguiti. Bisogna inoltre tenere conto del fatto che né
l’uno né l’altro, come avviene invece per il Gorel, distinguono fra influenti (sulle variabili e sui
destinatari) e stakeholder (attivi e potenziali).
La differenza fra questi approcci è rilevante ed ha molto a che vedere con la natura stessa della
situazione in cui le relazioni pubbliche sono chiamate a intervenire. Secondo una distinzione di carattere
molto generale, si può affermare che sia preferibile applicare il modello di Bernays per affrontare le
problematiche attinenti specificamente a situazioni di mercato, soprattutto (ma non solo) per i beni di
largo consumo e per le relazioni con i consumatori a diretto supporto di attività di marketing. Le
problematiche più corporate o istituzionali, invece, vanno preferibilmente affrontate applicando il
modello di Grunig.
6.2 Il visioning
La prima fase del Gorel consiste nell’identificazione delle finalità che sono alla base della stessa
esistenza di una organizzazione:
• la missione (chi siamo oggi, cosa facciamo);
• la visione (dove vogliamo essere fra tre-cinque anni);
• la strategia (come intendiamo passare dalla missione alla visione);
• i valori guida (quali regole condivise intendiamo applicare nell’attuazione della strategia).
La responsabilità dell’attività di “envisioning”, come viene definita in gergo manageriale questa fase, è
solitamente affidata al vertice dell’organizzazione e frequentemente rappresenta il prodotto di un lavoro
collettivo di tutti i responsabili delle funzioni chiave (coalizione dominante).
Il coordinamento può essere di volta in volta avocato dal responsabile esecutivo, da quello
operativo, dalle relazioni pubbliche o, infine, dalle risorse umane o dal marketing. Molto dipende dalla
specifica cultura dell’organizzazione.
È comunque fondamentale che il responsabile delle relazioni pubbliche sia parte integrante di
questa fase iniziale, per ragioni che verranno chiarite nel prosieguo della trattazione.
6.3
Gli stakeholder
Se il risultato raggiunto nella prima fase del Gorel (envisioning) viene condiviso all’interno della
coalizione dominante, ha inizio la seconda fase, che consiste nell’identificare e ascoltare gli stakeholder
più importanti, quei soggetti consapevoli di avere titolo per interloquire e che sono interessati a farlo,
ovvero i soggetti i cui comportamenti, opinioni e decisioni possono accelerare o ritardare l’attuazione
della strategia nel passaggio dalla missione alla visione.
Normalmente, questi stakeholder “attivi” sono i dirigenti, i dipendenti, gli azionisti, i principali
fornitori, gli alleati, le istituzioni, alcuni media, i distributori, i sindacati, le organizzazioni della società
civile rilevanti (consumo, ambiente, salute, territorio), e anche gli antagonisti.
Insomma, tutti coloro che contribuiscono a legittimare socialmente1 l’organizzazione e
provvedono ad attribuirle, o a contestarle, quella che si potrebbe definire “licenza di operare” nella
società.
Ciascuna organizzazione, tenendo conto della prima fase, individuerà stakeholder
verosimilmente diversi.
1
La legittimazione sociale di qualsiasi organizzazione è subordinata alla sua capacità di soddisfare le aspettative dei pubblici
influenti rispetto alle sue finalità istituzionali, dopo averli ascoltati in maniera preventiva e avere incluso – se ritenute
accettabili – tali aspettative nel processo di definizione dei suoi obiettivi operativi.
Il loro ascolto potrà avvenire “a tavolino” (analisi dei documenti rilevanti, dei comportamenti
pregressi ecc.) oppure con modalità “attive” (interviste o ricerche condotte con modalità informali o
formali: focus group, panel ecc.). In sostanza se è vero che nel perseguire le sue finalità l’organizzazione
produce conseguenze sui suoi stakeholder, è altrettanto vero che questi ultimi producono conseguenze
sull’organizzazione.
L’obiettivo di questa prima fase di ascolto è di conoscere nello specifico esigenze e aspettative
degli stakeholder riferite direttamente o indirettamente alle finalità dell’organizzazione. Esigenze e
aspettative di cui comunque si dovrà tenere conto, sia integrandole nella fase successiva e, almeno in
parte, appropriandosene; oppure decidendo di non integrarle, con la consapevolezza però, che quelle
aspettative o esigenze in ogni caso emergeranno nella fase di attuazione della strategia definita, creando
anche – in casi estremi ma non troppo remoti – potenziali occasioni di conflitto e di crisi.
Si può facilmente comprendere come queste attività di ascolto attivo degli stakeholder debbano
essere svolte con continuità, tenendo conto di tutte le dinamiche, man mano che si producono.
6.4 L’obiettivo perseguito
La terza fase del Gorel (ma diventa la prima nel caso in cui si adotti il modello di Bernays) consiste nella
identificazione degli obiettivi specifici dell’organizzazione, quelli che, una volta raggiunti, consentono
all’organizzazione di dire: “ho realizzato le mie finalità”. Un esempio può aiutare a chiarire: l’idea di
fondo non deve essere “per aumentare la mia quota di mercato penso che sia una buona idea andare sui
giornali e influire sui comportamenti dei consumatori”, ma piuttosto: “per far crescere l’azienda devo
aumentare la mia quota di mercato”. Succede spesso che i vertici delle organizzazioni e i relatori
pubblici stessi dimentichino di chiarire questo aspetto. L’attenzione viene purtroppo quasi sempre
rivolta agli obiettivi di comunicazione, che invece vengono “a valle” (come vedremo in seguito):
un’abitudine che provoca frequentemente confusione comunicativa.
Inoltre, gli obiettivi di un’organizzazione non vengono sovente scritti e resi noti a coloro ai quali
si richiede di contribuire a raggiungerli. Risulta allora essenziale che il relatore pubblico, prima di
avviare la sua attività relazionale e comunicativa, rediga una breve nota in cui indica gli obiettivi così
come li ha percepiti, chiedendone condivisione e conferma alla coalizione dominante. Naturalmente,
egli deve fare ciò tenendo conto delle aspettative o esigenze degli stakeholder ascoltati nella fase
precedente qualora il perseguimento di un obiettivo possa sortire “conseguenze” per loro.
È fondamentale che il testo sia scritto, perché in questo modo è possibile per il vertice inserire
eventuali precisazioni, aggiunte, tagli o aggiustamenti. Le sfumature, infatti, risultano spesso di
importanza cruciale.
In base agli obiettivi definiti, il relatore pubblico potrà individuare anche altre categorie di stakeholder
“potenziali”: gruppi che sarebbero interessati a una relazione con l’organizzazione, e quindi rientrare
tout court fra gli stakeholder attivi, se soltanto fossero consapevoli delle sue finalità e obiettivi. Per fare
un esempio: se la finalità di una organizzazione è la produzione di energia elettrica in una determinata
quantità in un determinato periodo e fra gli obiettivi perseguiti ci fosse quello di costruire una centrale in
un determinato territorio, è verosimile che istituzioni, opinion leader e residenti di quel territorio, se ne
fossero consapevoli, sarebbero bene interessati ad una relazione con l’organizzazione. Ma non ne sono
ancora consapevoli e il relatore pubblico dovrà valutare con molta attenzione la convenienza o meno di
una informazione precoce per capire se e quanto sia utile tenere conto anche delle loro aspettative.
Mentre con gli stakeholder attivi la relazione potrà essere avviata subito, senza grandi investimenti e con
modalità dirette – magari anche attraverso il collegamento protetto da passsword a un sito Internet – ,
con gli stakeholder potenziali sarà necessario per prima cosa inviare loro (dopo averli attentamente
identificati) un messaggio calibrato sui loro interessi e al tempo stesso familiare nei contenuti e credibile
come fonte per attirare la loro attenzione. Quindi, ottenuto questo risultato, ci si potrà comportare
esattamente come con gli stakeholder attivi.
6.5
Le variabili
La quarta fase del Gorel prevede l’identificazione e l’analisi di variabili sociali, politiche, economiche,
tecnologiche o di altra natura che si ritiene possano influenzare il raggiungimento del singolo obiettivo
perseguito.
Solo alcune di queste verranno indicate come prioritarie e queste, a loro volta, non potranno tutte essere
ugualmente influenzate da un’attività di relazioni pubbliche consapevole e programmata. Un esempio:
per un’azienda come l’Eni il rapporto dollaro/barile di petrolio così come la motivazione dei dipendenti
rappresentano entrambi variabili essenziali al successo, tuttavia è difficile immaginare che un’attività di
comunicazione consapevole e programmata possa influenzare in modo importante il rapporto
dollaro/barile di petrolio, mentre è verosimile che possa incidere sulla motivazione dei dipendenti.
La complessità, la durata e le modalità attuative di questa fase analitica dipendono molto dal tipo di
organizzazione, dalla sua dimensione e dalle risorse disponibili. È però una fase essenziale poiché
nessun sistema di relazioni può vivere “sotto vuoto spinto” o in “laboratorio”. Le relazioni pubbliche
sono strettamente interrelate alle variabili socio-economiche, socio-politiche e socio-culturali ed è
indispensabile che l’organizzazione possa beneficiare di sistemi di monitoraggio, di allerta e di allarme
che ne tengano debitamente conto. È la fase del cosiddetto issue management, al quale concorrono,
sempre a seconda della complessità dell’organizzazione, diverse figure professionali quali l’issue
manager, l’account, l’analista e l’advocate: ciascuno con le sue competenze e funzione (si veda il
capitolo 4).
6.6 Gli influenti
Nella quinta fase del Gorel vengono selezionati – per ciascuna variabile ritenuta al contempo rilevante e
orientabile in funzione di ogni obiettivo – i “soggetti influenti”, che non sono necessariamente
consapevoli e neppure verosimilmente interessati a interloquire con l’organizzazione, che tuttavia
quest’ultima ritiene possano influire sulle dinamiche di quelle variabili.
Le diverse categorie di influenti tenderanno inevitabilmente a sovrapporsi in riferimento ai
diversi obiettivi dell’organizzazione, anche se per ogni obiettivo e per ciascuna variabile vi saranno
influenti specifici con pesi diversi. Un esempio: se l’obiettivo di uno stilista fosse “voglio che le sfilate
di Milano decretino un grande successo alla mia collezione”, allora tra i giornalisti -che in questo caso
sono sicuramente soggetti influenti- avrebbero importanza primaria quelli che si occupano di moda,
mentre ne avrebbero assai meno quelli interessati all’economia e alla finanza. Il contrario accadrebbe
invece se il suo obiettivo fosse “voglio trovare un partner finanziario”.
Analogo approccio nell’individuare gli “opinion leader”, coloro cioè che – siano o meno
influenti sulle variabili – possono invece contribuire con opinioni, comportamenti e atteggiamenti
contribuire ad influenzare i destinatari finali (il consumatore, il cittadino, l’utente, il lettore o lo
spettatore, a seconda dell’obiettivo perseguito e della natura dell’organizzazione).
La distinzione dei pubblici influenti fra stakeholder attivi, stakeholder potenziali, influenti sulle
variabili e opinion leader sui destinatari, inevitabilmente comporterà larghe sovrapposizioni ma
contribuirà enormemente a una migliore e più puntuale identificazione degli interlocutori rendendo così
più efficace (nel senso di un migliore rapporto costi/benefici) il lavoro del relatore pubblico2.
In sintesi, quindi, le prime fasi del Gorel (che rientrano nella prima macrofase “dell’ascolto”)
consentono al relatore pubblico di conoscere:
–
–
–
–
le finalità dell’organizzazione;
le aspettative o esigenze degli stakeholder prioritari (attivi, ma anche potenziali);
l’obiettivo specifico perseguito;
le variabili prioritarie che le influenzano il raggiungimento.
Inoltre, per ciascuno degli ambiti indicati, le prime cinque fasi del Gorel permettono di individuare i
soggetti influenti che ne orientano le dinamiche, agevolandole o ostacolandole.
L’esempio riportato di seguito permette di chiarire meglio quanto sinora argomentato.
Insegno e desidero, anche tramite l’insegnamento, contribuire allo sviluppo di un modo corretto
di intendere e applicare le relazioni pubbliche (finalità). I miei stakeholder prioritari sono gli studenti,
gli altri docenti, i miei colleghi professionisti che operano sul mercato (stakeholder attivi). Le loro
aspettative o esigenze sono che io riesca a creare, fra gli studenti, dei giovani consapevoli e
professionalmente competenti e il mio obiettivo specifico è quello di spiegare come funziona il Gorel.
Fra le diverse variabili influenti e rilevanti per raggiungere quest’obiettivo si trovano anche:
–
–
–
l’attenzione personale di ogni studente;
la chiarezza con cui espongo le diverse fasi del Gorel;
il tempo e gli strumenti disponibili.
Rispetto a ciascuna di queste variabili cambiano i soggetti influenti. Infatti, per la prima variabile
(l’attenzione personale di ogni studente), un soggetto fortemente influente è rappresentato dal suo vicino
di banco. Per la seconda variabile (la chiarezza con cui espongo le diverse fasi del Gorel) un soggetto
fortemente influente è quella ragazza in terza fila che mi distrae e turba la mia capacità di controllo su
ciò che dico. Per la terza variabile (il tempo e gli strumenti disponibili) i soggetti influenti sono il
collega che mi ha costretto a ritardare l’inizio della lezione di oggi e il tecnico che non ha controllato a
sufficienza la qualità della proiezione.
L’esempio è banalissimo, ma può servire a capire la situazione nel suo insieme, tenendo conto
del fatto che i relatori pubblici tendono spesso a occuparsi subito degli influenti, indipendentemente
dagli obiettivi specifici perseguiti e dalle variabili esterne che ne condizionano il raggiungimento.
Normalmente, un operatore immagina per prima cosa un evento oppure un comunicato stampa.
Raramente si chiede quale sia il vero obiettivo del suo committente, oppure che cosa debba succedere
nell’ambiente esterno affinché quell’obiettivo possa essere raggiunto. Se lo facesse, non saremmo
sommersi di eventi inutili, quando non dannosi, e di comunicati stampa che infestano le caselle postali
dei giornalisti, destinati a essere cestinati o, peggio ancora, a venire pubblicati per distrazione del
redattore, contribuendo in tal modo al diluvio informativo di cui, come relatori pubblici, siamo complici
e, come cittadini, vittime.
6.7 I messaggi chiave
2
Per una analisi delle modalità di relazione con gli stakeholder attivi/potenziali, con gli influenti sulle variabili/opinion leader
e con i destinatari finali, anche con riferimento all’utilizzo di Internet: Muzi Falconi e Ventoruzzo,“Integrating Real and
Virtual Environments in Stakeholder Relationship Management”, paper presentato in occasione di BledCom 2004
(scaricabile da: http://www.bledcom.com).
La sesta fase del Gorel consiste nella definizione dei messaggi chiave. In questa fase, il relatore pubblico
cerca di immedesimarsi nel soggetto influente che ha già identificato e con il quale desidera avviare una
relazione. In tal senso, l’operatore deve porsi la seguente domanda: “Quale può essere il messaggio
chiave che, se fosse saldamente insediato nella sua mente, potrebbe facilitare il raggiungimento
dell’obiettivo da me perseguito?”.
Proseguendo l’esempio dell’insegnante, proposto nel paragrafo precedente, è chiaro che la variabile
cambierebbe di segno rispetto al mio obiettivo se:
–
–
il tecnico fosse convinto che la qualità della proiezione è essenziale non tanto per l’efficacia
della mia lezione, quanto per il suo prossimo passaggio di categoria;
il collega che mi ha fatto ritardare le lezioni avesse chiaro che quel favore che mi ha chiesto
glielo farò solo se la prossima volta non mi farà uno scherzo del genere.
Dunque, rispetto ai due soggetti influenti identificati per la variabile “obiettivo specifico perseguito”, i
messaggi potrebbero essere:
–
–
per il tecnico: la qualità della proiezione è importante per il professore al punto che, se gliela
assicuro, posso contare sul suo aiuto per la mia richiesta di passaggio di categoria;
per il collega: ho capito che il collega ci tiene a iniziare le lezioni in orario, al punto che mi
farà quel favore solo se non lo ostacolo e, anzi, lo favorisco in questo suo desiderio.
Attenzione, però: affinché il messaggio risulti efficace, è necessario che sia (possibilmente) già familiare
per chi lo riceve e che (comunque) la fonte risulti credibile. Così, è possibile che il primo messaggio al
tecnico non sia efficace perché egli sa bene che nessun mio intervento potrà essergli di aiuto nella
richiesta di passaggio di categoria. Qualsiasi sforzo io faccia per convincerlo del contrario è quindi
destinato all’insuccesso. A questi due indicatori (familiarità del messaggio e credibilità della fonte) se ne
potranno aggiungere altri, di volta in volta. In ogni caso, un messaggio poco familiare difficilmente
riesce ad attirare l’attenzione (anche se talvolta può succedere), come pure un messaggio la cui fonte
non viene ritenuta credibile difficilmente viene recepito (anche se talvolta può succedere). I due
indicatori citati, peraltro, offrono una visione forse eccessivamente “confermativa” (riferita alla
familiarità del messaggio) e “affermativa” (riferita alla credibilità della fonte) del lavoro del relatore
pubblico. Infatti, non succede spesso che il messaggio sia familiare e, al tempo stesso, la fonte credibile:
l’abilità dell’operatore consisterà del dosare il mix fonte-messaggio così da assicurare sia l’attenzione
sia la risposta dell’influente.
Nelle organizzazioni, ai processi di stesura e governo dei messaggi chiave che, se fossero
chiaramente presenti all’influente, renderebbero più veloce e meno oneroso il raggiungimento di un
obiettivo, nonostante la loro rilevanza, è dedicata assai poca attenzione. Si tratta di una pratica che, in
quanto derivata da una metodologia usata in pubblicità, solleva apprensioni e scetticismo negli operatori.
Inoltre, da un punto di vista strettamente “teorico”, qualcuno potrebbe obiettare che tanta attenzione alla
definizione dei messaggi chiave potrebbe connotare le relazioni pubbliche come una disciplina assai più
comunicazionale che relazionale.
Si tratta di una critica plausibile, ma tant’è: le relazioni pubbliche solo recentemente si evolvono
dalla comunicazione per assumere una valenza relazionale e gli studi su quest’ultima sono ancora
relativamente pochi.
Di certo, con le applicazioni di Internet3 e tramite strumenti di verifica e controllo quali il
cruscotto predisposto dallo svizzero Gherard Butschi di Digital Management4, il software predisposto
dallo sloveno Dejan Vercic insieme all’inglese Jon White5, l’applicazione a ogni issue e a ogni segmento
di pubblici influenti del modello di Erika6 è possibile affermare che in questi ultimi anni e soprattutto in
Europa sono stati compiuti sostanziosi passi avanti per la messa a punto di un sistema efficace di
stakeholder relationship management.
6.8
Il pretest
La settima fase del Gorel prevede il pretest dei messaggi chiave. Si tratta di una fase decisiva,
soprattutto, perché consente di definire obiettivi quanti-qualitativi, specifici all’attività di
comunicazione. Adattando le tradizionali metodologie di ricerca (sociale e di mercato), è possibile
sondare campioni rappresentativi di influenti e rilevare i livelli di conoscenza pregressa e credibilità
attribuita a contenuti e fonti di ciascun messaggio chiave.
Tralasciamo per il momento gli aspetti tecnico-operativi di questa fase, per non distogliere
l’attenzione dal Gorel nel suo complesso. È sufficiente, per ora, sapere che il risultato di questa fase
permette al relatore pubblico di conoscere i livelli di notorietà e credibilità di ciascun messaggio e fonte,
mettendolo nella condizione di aggiustare opportunamente gli stessi messaggi, prima di trasferirli
all’universo degli influenti, ma anche di fissare obiettivi specifici, quanti-qualitativi, e
-come vedremo- misurabili di comunicazione, oltre che di “negoziarli” con la coalizione dominante in
funzione del suo sistema premiante.
6.9 La strategia operativa
Arrivati a questo punto, restano da decidere le risorse disponibili, le modalità, i canali, i tempi e gli
strumenti necessari per trasferire il messaggio (i messaggi) agli influenti. Si tratta dell’ottava fase del
Gorel, quella della strategia operativa. Nelle organizzazioni, l’attività di relazioni pubbliche in alcuni
casi inizia proprio da qui, poiché le prime sei fasi sono sovente riassunte in quello che, in gergo, si
chiama “brief” e la settima (quella del pretest) viene saltata. È una scorciatoia non raccomandabile,
soprattutto per chi lavora dentro all’organizzazione, per chi fa parte del gruppo dirigente e intenda
3
Muzi Falconi e Ventoruzzo, 2004. L’utilizzo di Internet e la sua auspicabile integrazione con gli sforzi di
relazione/comunicazione nell’ambiente reale evita dispersioni e/o duplicazioni di messaggi incrementando l’efficacia
relazional/comunicativa, contribuendo al disinquinamento comunicativo e conducendo a una riduzione degli investimenti in
comunicazione da parte delle organizzazioni.
4
È un software professionale di straordinario interesse, indescrivibile in poche parole, ma che consente alla direzione della
comunicazione di una organizzazione complessa di pianificare, progettare, implementare, controllare, valutare e rendicontare
tutte
le
sue
attività
in
qualsiasi
località
si
realizzino.
Si
consiglia
il
collegamento
a
http://www.digitalmgmt.com/htm/demo/dmsUserWeb dove è possibile testare le potenzialità del software in una versione
demo.
5
Clarity è un software esclusivo che permette di mappare i diversi stakeholder di un’organizzazione in relazione a una
questione specifica. Il posizionamento degli stakeholder all’interno della mappa avviene con riferimento a tre indicatori:
grado di influenza sull’organizzazione, attitudine verso l’organizzazione e importanza.
6
Il modello di Erika è stato elaborato da Erika Mallarini, una giovane ricercatrice SDA Bocconi, che – dopo aver individuato
quattro livelli di relazione (assente, informativa, interattiva, partenariale) e quattro livelli di fiducia (assente, calcolativa,
conoscitiva, valoriale) – ha costruito una matrice in cui incrociare questi quattro livelli. Procedendo con il posizionamento di
ciascuno strumento di relazione/comunicazione nella tabella corrispondente al livello di fiducia e di relazione con riferimento
a un specifico gruppo di stakeholder, è possibile ottenere una mappa che consente poi di definire obiettivi di
relazione/comunicazione e di miglioramento molto precisi. (in: N. Cerana, 2004, p. 66)
svolgervi un ruolo strategico. Altrimenti, a che serve lamentarsi, come fanno in troppi, di venire
utilizzati soltanto in fase operativa?
Certamente, infatti, la qualità di un intervento di relazioni pubbliche si misura soprattutto dalla
cura posta nell’analisi dell’organizzazione, nell’ascolto degli stakeholder, nella comprensione
dell’obiettivo perseguito, nell’approfondimento con cui si analizzano le variabili influenti, nella
precisione con cui si identificano i soggetti influenti e nell’essenzialità e sintesi con cui si formulano e si
testano i messaggi chiave.
La strategia operativa, in pratica, consiste nell’insieme delle modalità con cui l’organizzazione
decide di relazionarsi con i suoi influenti, in funzione del singolo obiettivo che intende perseguire. Di
norma, ci si trova di fronte a differenti ipotesi strategiche, ognuna delle quali presenta punti di forza e di
debolezza, che vanno analizzati con particolare cura e attenzione. Questo esercizio, in gergo, si chiama
“swot analysis” (strength, weakness, opportunity, threat, ovvero punti di forza, punti di debolezza,
opportunità e minacce). La sola cosa da non fare è sviluppare contemporaneamente più strategie: crea
confusione e complicazioni operative controproducenti. È necessario scegliere una sola strategia, magari
tenendone una seconda di riserva per essere pronti a sostituire la prima qualora insorgano dei problemi.
6.10 Il trasferimento
Una volta fissati gli obiettivi specifici dell’azione di comunicazione e definita la sua strategia operativa,
inizia la nona fase del Gorel, che consiste nel trasferire i messaggi agli influenti. Questa fase,
assolutamente centrale del processo, è stata già ampiamente descritta quando sono stati affrontati i
diversi segmenti e strumenti operativi delle relazioni pubbliche. Del resto, è praticamente infinita la
gamma di iniziative possibili volte a tematizzare un messaggio, ad attirare l’attenzione di un influente, a
rafforzare una sua convinzione o a modificare una sua opinione o comportamento. I soli vincoli sono
rappresentati dalla strategia operativa stabilita nella fase precedente che, a sua volta, è condizionata dalle
risorse, umane e finanziarie, dai tempi disponibili, dai canali utilizzabili e dalla complessità dei
messaggi da trasferire. In termini generali, è possibile confermare che le relazioni pubbliche si
realizzano trasversalmente attraverso l’ideazione e l’organizzazione di attività che consentano di entrare
in relazione con:
–
–
–
gli influenti;
i media, per ottenere una moltiplicazione dei messaggi chiave;
il processo decisionale pubblico, per orientare decisioni favorevoli.
Inoltre, le RP includono, verticalmente, diverse subdiscipline riferite ai segmenti di influenti cui sono
rivolte:
–
corporate PR, che si rivolgono all’insieme degli stakeholder-influenti di una organizzazione;
–
marketing PR, che si rivolgono al complesso dei soggetti attori della fase di
commercializzazione (reti, distributori, consumatori e relativi influenti);
–
financial PR, che si rivolgono ad azionisti, investitori, regolatori, operatori del mercato
finanziario;
–
industrial PR, che si rivolgono a sindacati, associazioni di categoria;
–
internal PR, che si rivolgono a dipendenti, collaboratori, fornitori;
–
public affairs o lobby, che si rivolgono a istituzioni pubbliche, nazionali e locali, processi e
protagonisti degli organi legislativi e regolatori;
–
international affairs, che si rivolgono a organismi, istituzioni e soggetti nazionali,
sovranazionali e internazionali.
Alle subdiscipline sopra indicate, se ne possono aggiungere altre che possono variare a seconda della
cultura della singola organizzazione.
Nelle relazioni pubbliche, esistono anche diverse funzioni specialistiche di natura trasversale, per
esempio quelle di:
–
–
–
–
–
–
analisi, studio, pianificazione e controllo. Si tratta della banca dati, il “think tank” centrale
che raccoglie, ascolta e organizza l’informazione rilevante a disposizione. È il luogo di
progettazione che garantisce coerenza al tutto, dell’amministrazione che assicura una
programmata distribuzione delle risorse, della certificazione che misura e valuta i risultati;
relazioni con i media. Prepara, distribuisce e si relaziona con tutti i media interessati a, e
interessanti per, l’organizzazione;
pubblicazioni, editoria on e offline. Progetta, produce e distribuisce ogni tipo di
pubblicazione su carta o su altro supporto, anche telematico, rivolta a un segmento di
stakeholder/influenti: interni, esterni o di confine;
eventi e mostre. Progetta e assicura la migliore organizzazione possibile per eventi, convegni,
workshop, stand per fiera o mostra, promossi dall’organizzazione;
cerimoniale. Assicura il rispetto delle regole e dei vincoli formali, riceve le personalità,
organizza le visite, accompagna i vertici nelle occasioni formali;
account. Si tratta della persona a stretto contatto con il committente, interno o esterno, di cui
ascolta le esigenze e interpreta le aspettative, trasferendole ai colleghi che collaborano al
progetto. Assicura che la relazione si sviluppi positivamente, coordinandola e tenendola ben
“oliata”. Riferisce sui risultati e sull’eventuale opportunità di effettuare cambiamenti
imprevisti.
Come già osservato, ogni organizzazione ha esigenze specifiche, pertanto, non esiste un unico modello
di relazioni pubbliche, valido per qualsiasi situazione. Chiunque operi nelle relazioni pubbliche di
un’organizzazione sviluppa proprie iniziative di relazione con gli influenti, sempre però in base a
programmi determinati e in funzione di obiettivi pre identificati.
6.11 L’ascolto e la misurazione
L’ultima fase del Gorel, la decima, chiude e, insieme, riapre il ciclo. Si tratta della fase di ascolto e di
misurazione dei risultati.
Nella settima fase, come ricorderete, avevamo pretestato i messaggi chiave e, per ciascun messaggio,
avevamo identificato il livello di familiarità del contesto e del contenuto insieme quello di credibilità
della fonte. Inoltre, in base a queste informazioni, avevamo potuto decidere gli obiettivi specifici
dell’azione di comunicazione. Un esempio di ciò si può trovare nella seguente dichiarazione: “Se oggi il
messaggio x ha notorietà cinque e credibilità quattro, considero realistico e fattibile in y tempo e con z
risorse l’obiettivo di raggiungere notorietà sette e credibilità sei”.
Nell’ultima fase del Gorel (ma in realtà non è l’ultima, dato che riavvia il ciclo) posso verificare
se l’obiettivo è stato raggiunto, realizzando una seconda ricerca su un campione rappresentativo di
influenti. Le modalità di svolgimento possono variare rispetto a quelle seguite per la prima ricerca, ma
devono comunque risultare coerenti con esse. Per esempio, si può pensare che la realizzazione stessa
della prima ricerca abbia prodotto un impatto proprio sul campione di influenti intervistati, impatto di
cui, invece, non hanno risentito gli influenti non intervistati. In questo caso conviene, anche per
verificare l’effettivo impatto della prima ricerca, servirsi di un campione composto per il 50% da
influenti già intervistati e per il restante 50% da influenti non ancora intervistati. La ricerca di verifica,
inoltre, può fornire elementi utili per rivisitare, aggiornare, mettere a punto il ciclo (dal visioning
all’ascolto degli stakeholder, per poi passare alla definizione dell’obiettivo, all’analisi delle variabili,
l’identificazione degli influenti, la stesura dei messaggi chiave, il pretest dei messaggi, la definizione
della strategia operativa, il trasferimento dei messaggi, l’ascolto e così via). Infatti, essendo le relazioni
pubbliche strettamente correlate alle dinamiche sociali, economiche e politiche dell’ambiente in cui si
realizzano, è assai verosimile che rispetto al momento in cui è stata effettuata la prima ricerca, siano
cambiate le condizioni di contorno.
Il Gorel non è una “formula” e sicuramente presenta ancora diversi punti deboli e carenze
concettuali. Il suo senso è, però, quello di offrire una “matrice di riferimento”, una metodologia
generale, secondo un approccio ispirato alla disciplina del management, e il suo valore si trova nel
suggerire un criterio verosimile di misurazione e valutazione dei risultati: esattamente come lo sono i
criteri che si utilizzano per misuraree valutare i risultati di ogni altra azione di direzione di una
organizzazione.
ACCOUNT
Inteso come ruolo professionale, è la persona che - dall'interno di un ufficio, reparto,
dipartimento, società di consulenza o specifico programma - facilita, coordina e filtra le
relazioni fra il cliente (interno/esterno) e i vari servizi interni/esterni.
Un account può essere: junior, executive, manager, senior, director a seconda dei livelli di
responsabilità e della peculiare cultura organizzativa in cui opera.
Le competenze richieste a un account sono:
- la capacità di ascolto e di relazione;
- la rapidità con cui assorbe e interpreta le aspettative del committente, conciliandole con
la possibilità effettiva di una loro soddisfazione da parte dei servizi della struttura per cui
lavora;
- la chiarezza, esaustività e tempestività nel reporting e nel monitoraggio delle dinamiche
amministrative e finanziarie della relazione.
Account viene talvolta usato anche come sinonimo di cliente. Il termine nasce nell’ambito
della revisione contabile e poi si estende alle grandi agenzie di pubblicità per raggiungere,
gradualmente, anche le agenzie di relazioni pubbliche, le società di consulenza e infine le
stesse organizzazioni clienti, man mano che si strutturano internamente.
ACCOUNTABILITY
Essere accountable implica un insieme di rendicontazione, responsabilità e affidabilità.
Con un solo termine, la lingua inglese riassume l'essenza di una buona relazione.
Una persona o una organizzazione sono accountable verso un’altra persona o
organizzazione.
Essere percepiti accountable è obiettivo fondamentale di una qualsiasi attività di relazioni
pubbliche.
Peraltro (e per molti aspetti paradossalmente) una delle tante aspettative ancora inevase
da parte degli stakeholder [vedi anche] delle relazioni pubbliche sta proprio nella piena
accountability percepita della stessa professione. In effetti, criteri condivisi dalla comunità
professionale che investano le attività di reporting, di procurement, di misurazione di
efficienza [v. measurement], di valutazione di efficacia [v. evaluation] sono stati ad oggi
soltanto abbozzati e solo parzialmente applicati.
ADHOCRACY
È il contrario della programmazione e della pianificazione. Nelle relazioni pubbliche
accentra l'attenzione su una specifica questione o un obiettivo o un programma.
Una organizzazione è adhocratic se la sua visione è proiettata verso il breve periodo, un
obiettivo a termine oppure caratterizzata dalla improvvisazione, anche se talvolta geniale
[v. lateral thinking] ed efficace.
ADVERTORIAL
È uno spazio/tempo di un medium [v. media], di opinione redazionale ma esplicitamente
acquistato da una organizzazione.
È uno spazio dal quale il soggetto esprime la sua opinione oppure una posizione su
questione ritenuta - sì - di interesse pubblico ma che produce anche conseguenze [v.
consequence] sull’emittente.
Da non confondere con gli op-ed [vedi anche] che sono invece opinioni scritte in forma di
editoriali che il medium, di sua sponte e non a fronte di un pagamento, ritiene di pubblicare
pur se firmate da un rappresentante diretto dell' interesse tutelato, da un suo portavoce o
testimone.
La tecnica dell'advertorial viene lanciata da Herb Schmertz nei primi anni ottanta quando,
come direttore delle relazioni pubbliche della Mobil, ogni mercoledì sulle pagine degli
editoriali del New York Times, in un apposito spazio esplicitamente pubblicitario, appariva
una opinione firmata dall'azienda su questioni di interesse pubblico.
ADVOCACY
È un termine rilevante nel dibattito culturale sulle relazioni pubbliche. Il leader della scuola
“retorica” Robert Heath [v. rhetoric school], definisce come advocacy l'atto retorico
dell'argomentare [v. argumentation] una questione.
La Prsa (Public Relations Society of America) usa addirittura il termine come sostitutivo di
lobby [vedi anche] e, paradossalmente, sceglie un termine proprio della professione legale
(to advocate, an advocate) per differenziare i relatori pubblici dai legali!
Nell’issue management [vedi anche] l'advocate indica la persona cui spetta argomentare
ad altri in modo convincente una questione che sta a cuore del soggetto committente.
Advocacy di una issue nel tempo è anche tematizzazione, mentre advocacy su una issue
a breve è anche agenda setting [vedi anche].
AGENDA SETTING
Sta per decidere l'agenda. Il termine deriva dalla sociologia per indicare l'intreccio costante
di influenze reciproche fra soggetti privati, pubblici e sociali che porta alla decisione sui
temi prioritari affrontati dal governo.
I relatori pubblici hanno un ruolo importante, in alcuni casi determinante, nella definizione
dei contenuti delle agende delle rispettive leadership organizzative. E questo non solo
perché il relatore pubblico si trova sovente a svolgere un ruolo di “segreteria” del consiglio
di amministrazione, comitato di direzione, consiglio direttivo o coalizione dominante (in
questo ultimo caso, si limiterebbe a registrarne le volontà..), ma anche perché gli viene
talvolta riconosciuto un ruolo di interprete delle aspettative degli stakeholder [vedi anche]:
quel ruolo riflettivo [v. reflective role] studiato dalla scuola europea (Vercic, Van Ruler,
Holstromm). In tal caso, rispetto ai ruoli classici della letteratura manageriale
nordamericana: tecnico [v. operational role], manageriale [v. managerial] e strategico [v.
strategy], si può considerare una ulteriore declinazione del ruolo strategico, insieme
all'altra funzione “educativa” [v. educational role].
ANALYSIS
Qualità e intensità dell'analisi di una questione [v. issue] determinano l'efficacia [v.
effective] di qualsiasi azione di relazioni pubbliche. L'assunto è che non ci si deve fidare
delle apparenze, delle prime risultanze, neppure del sentito dire, delle opinioni degli amici,
degli stereotipi… Occorre incessantemente indagare, leggere, parlare con, verificare,
curiosare, consultare, ricercare… Insomma, malgrado la prassi e le pressioni stimolino i
relatori pubblici ad agire immediatamente, l'ascolto costituisce una fase fondamentale
delle relazioni pubbliche ed è importante, prima ancora dei nostri interlocutori, convincere
gli stessi operatori che è parte integrante (consustanziale) della stessa azione relazionale
e comunicativa, al punto che sovente avviene proprio in questa fase che le relazioni
interattive e simmetriche [v. symmetric] sviluppino la loro maggiore efficacia.
Il rischio più elevato di una eccessiva attenzione all'analisi è la ‘paralysis by analysis':
quando non si agisce perché bloccati da fonti e interpretazioni divergenti.
Ed è proprio per questo che assume importanza per il relatore pubblico, cui viene
riconosciuta una funzione strategica [v. strategy], essere anche un ottimo manager [v.
managerial role] (capace di organizzare l'ascolto con modalità compatibili con i tempi
dell'azione) e un ottimo tecnico [v. operational role] (disporre degli strumenti più adeguati
per cogliere e interpretare le aspettative degli stakeholder [vedi anche]).
ARGUMENTATION
Argomentazione: è il cuore delle relazioni pubbliche.
A differenza di altre discipline della comunicazione come la pubblicità e le promozioni che
“affermano”, le relazioni pubbliche “argomentano”. Di qui, la loro maggiore complessità
relazionale e la tendenza degli studi più recenti a valorizzare gli aspetti “negoziali” [v.
anche Grunig, negotiative, systemic school] delle relazioni pubbliche (per esempio negli
ultimi studi di Grunig e un forte richiamo lo si trova nel call for papers [vedi anche] di Bled
2004 scritto dallo sloveno Vercic) rispetto a quelli “persuasivi” (che hanno storicamente
fatto la fortuna delle relazioni pubbliche fin dai primi anni venti del 900, quando Edward
Bernays, incrociando le nascenti discipline della sociologia e della psicologia, sviluppò le
tecniche di persuasione scientifica).
ASYMMETRIC
Il principio della asimmetria o simmetria [v. symmetric] della relazione [v. relationship] (o
della comunicazione) è da anni al centro degli studi teorici delle relazioni pubbliche ed è
anche una delle due dimensioni (assieme a uni/bidirezionalità) utilizzate da Grunig [vedi
anche] per descrivere i modelli di pratica delle relazioni pubbliche. Una relazione è sempre
asimmetrica in natura (c'è sempre un soggetto dotato di più peso) e lo è a maggior ragione
quando ad avviarla è una organizzazione che, suo tramite, intende accelerare il
raggiungimento degli obiettivi perseguiti: che poi è la ragione stessa delle relazioni
pubbliche.
In particolare la relazione/comunicazione asimmetrica è sbilanciata a favore
dell’organizzazione avendo come unico fine la persuasione: il cambiamento, cioè, delle
opinioni, dei comportamenti e degli atteggiamenti degli influenti al fine di raggiungere gli
obiettivi stabiliti dall’organizzazione in maniera autonoma, unilaterale e non negoziale.
La tesi oggi prevalente degli studiosi (Grunig, Hunt, Vercic, Sriramesh...) è tuttavia che
l'efficacia [v. effective] di una relazione - oggi e in questo ciclo economico, storico e sociale
- è inversamente proporzionale alla sua asimmetria percepita: quanto più un soggetto
percepisce di avere con un altro soggetto una relazione simmetrica, tanto più è possibile
che l'uno tenga conto delle argomentazioni e aspettative dell'altro, che il negoziato giunga
ad un risultato positivo per le due parti, e che si possa dunque definire efficace quella
relazione.
AUDIT
Il termine, come anche quello già visto di account [vedi anche], deriva dalla tradizione
contabile (gli auditor sono i revisori dei conti) e indica la verifica di una situazione
determinata in un certo momento ad opera di una parte terza, presumibilmente
indipendente, competente e interessata ad una valutazione oggettiva. Insomma, una
certificazione.
In relazioni pubbliche, una organizzazione affida a un consulente o a una società di
consulenza [vedi consultancy] un audit delle sue politiche e dei suoi programmi di
comunicazione.
Normalmente questo si verifica quando:
a) l'organizzazione si appresta a grandi cambiamenti, sa che dovrà cambiare, ma non è
sicura dove e come;
b) è arrivato un nuovo responsabile che vuole capire meglio cosa continuare e dove
innovare;
c) si profila l'ipotesi di cambiare società di consulenza e si desidera una opinione esterna
sull'operato di quella in corso.
In quest'ultimo caso, perché l'incarico abbia senso è necessario escludere a priori che la
società che compie l'audit possa poi candidarsi a sostituire il concorrente…altrimenti
l'indipendenza e l'oggettività vanno a farsi benedire. Un po’ come succede con le società
di revisione che fanno i consulenti delle società di cui certificano i bilanci, o con le banche
di investimento che, retribuite ad hoc, consigliano di acquistare azioni in loro possesso.
Un'altra accezione di audit viene adottata dalle stesse società di consulenza che lo usano
per indicare la fase analitica di un qualsiasi incarico ricevuto, a maggior ragione se, come
sovente avviene, di contenuto generico (del tipo... “lei venga qui, dia una occhiata in giro e
poi vediamo cosa fare…”).
BACKGROUNDER
È un documento di base, parte di un “pacchetto” informativo predisposto dal relatore
pubblico, su una questione specifica [v. issue] che va poi argomentata [v. argumentation].
Contiene in forma narrativa, ma anche in forma sintetica e per punti sequenziali [v. anche
fact sheet]., la storia della questione
La sua finalità è consentire al destinatario di apprendere e comprendere la dinamica e
l'evoluzione della questione fino al momento in cui interviene quella discontinuità che, per
conto del suo committente, il relatore pubblico vorrebbe introdurre e che, tuttavia, viene
illustrata in un'altra parte del pacchetto [v. position paper].
Il backgrounder è anche il documento che il relatore pubblico consegna al committente
alla vigilia di un incontro o di un viaggio importante nel quale sono sintetizzate informazioni
sulle persone e sulle questioni che in quell'incontro o in quel viaggio verranno affrontate.
BALLON D’ESSAI
Detta anche notizia civetta. Il termine è francese ma usato anche in altre lingue. E’ una
notizia verosimile fatta filtrare per verificare la reazione dei mass media e dell'opinione
pubblica [v. public opinion] oppure di uno specifico soggetto di fronte ad un
provvedimento, una decisione, una ipotesi di soluzione.
BARKER
Un imbonitore, tradizionalmente la persona che davanti ad un negozio o una mostra
incoraggia a voce i passanti ad entrare.
Nel gergo dei relatori pubblici inglesi (ma anche americani) è quel professionista il quale
adotta prevalentemente tecniche urlate per attirare l'attenzione dei pubblici. “To bark”,
letteralmente vuol dire “abbaiare”.
[v. anche hype, sexing up, spin]
BARTER
Indica uno scambio in natura e senza passaggio di denaro fra soggetti che comunicano e
soggetti che possiedono direttamente i canali di comunicazione o ne sono i concessionari.
È entrato nell'uso comune dei comunicatori in Italia soprattutto con l'ingresso delle
televisioni private che spesso offrono spazi gratuiti in
cambio di beni e servizi.
Il primo esempio fu quello dello stesso Silvio Berlusconi, famoso per concedere spazi
gratuiti a imprese in cambio di azioni delle stesse.
È stato poi ampiamente utilizzato dalla seconda metà degli anni Ottanta nel caso delle
cosiddette sponsorizzazioni televisive: interi programmi realizzati per favorire prodotti o
servizi di imprese in cambio merci (o, ancora, di azioni), fino a divenire, come testimoniano
atti giudiziari e confessioni di imputati e testimoni, strumento preferenziale per l'evasione
fiscale nel caso di abbinamenti sportivi e coinvolgenti personalità dello spettacolo e della
televisione.
BELOW THE LINE
Comprese nella comunicazione d'impresa sono quattro discipline: la pubblicità, le relazioni
pubbliche, le promozioni e il direct marketing/response [vedi anche].
La sponsorizzazione, in effetti, non è disciplina autonoma poiché rientra se è sportiva nella
pubblicità, se è televisiva nelle promozioni, se è culturale o sociale nelle relazioni
pubbliche.
Si usa il termine “below the line” per indicare le ultime tre in contrapposizione alla
pubblicità indicata come “above the line”. In sostanza, mentre quest'ultima è sempre
palese e visibilmente pagata con l’acquisto di spazi su media erga omnes, le altre tre sono
o dirette alla persona o a pochi, oppure non pagate e comunque non sempre visibili erga
omnes.
BLED MANIFESTO (on Public Relations)
Presentato a Bled (Slovenia) nel luglio 2002 è uno scritto a quattro mani di Betteke van
Ruler e Dejan Vercic sullo stato dell’arte delle relazioni pubbliche in Europa. Tra gli scopi
che si proponeva lo studio – punta dell’iceberg del progetto EBOK (European Body of
Knowledge) di Euprera (European Public Relations Education and Research Association) , tra gli altri, quello di evidenziare (se presenti) alcune specificità “europee” diverse dalle
tradizionale matrice anglo-americana. Una delle stimolanti prospettive uscite da quello
sforzo fu di prefigurare tre (quattro) ruoli che i relatori pubblici possono assumere
all’interno delle organizzazioni per le/nelle quali si trovano ad operare [v. educational role,
managerial role, operational role, reflective role,]. Da notare che questi profili non sono
auto-escludenti, anzi: ciascuna attività tradizionale e non di rp [v. anche lobby, media
relations, event] può prevedere - e in parte lo reclama - la compresenza di ruoli
BLUE SKY
Espressione usata nelle relazioni pubbliche per indicare il discutibile ma frequente metodo
con cui un evento [v. event], un prodotto/servizio, una persona vengono montati ad arte
dal professionista e poi, al momento della massima attenzione, si verifica un flop perché
l'evento fallisce, il prodotto/servizio non arriva sul mercato o la celebrità si ammala o
comunque non viene apprezzata.
BOUNDARY SPANNING
Molti ricercatori (Heath, Grunig, Dozier...) usano questo termine per indicare quella
“giuntura” fra l'attività di ascolto, quella di analisi e la successiva fase comunicativa.
È uno dei diversi ruoli “strategici” del relatore pubblico [v. strategy].
In sostanza, individuato l'obiettivo, il relatore pubblico analizza le variabili interne ed
esterne, sociali, economiche, tecnologiche, ambientali [v. issue, variable] le cui dinamiche
ne influenzano il raggiungimento e - dopo avere selezionato fra le prioritarie quelle
variabili che, al contrario di altre, possono venire influenzate da una consapevole e
programmata azione di relazioni pubbliche - identifica [v. segmentation] i soggetti influenti
[v. influential, influencer] con i quali avviare attività di relazione.
“Spanning” sta per sondare, studiare, rovistare una questione, non necessariamente con
modalità scientifiche (i tempi e le risorse solitamente disponibili raramente lo consentono),
mentre “boundary” indica limite, confine: in pratica, uscire dal proprio ristretto seminato di
conoscenze per apprendere e interpretare dinamiche ambientali rilevanti atte ad essere
utilizzate per predisporre messaggi [v. message], eventi [v. event], azioni
relazional/comunicative utili al raggiungimento dell'obiettivo perseguito.
BRAINWRITING
È una variante del brainstorming [v. anche] che si svolge con modalità scritta anziché
orale, da preferirsi quando il gruppo dei partecipanti si mostra inibito nel proporre ad alta
voce il proprio pensiero.
Il brainwriting ha due forme di applicazione: può servire alla produzione di idee
esattamente come nel brainstorming, oppure per raccogliere criticità (i vari rumor [vedi
anche] interni di un'organizzazione) nel caso di indagini di clima.
La forma di erogazione è la stessa in entrambi i casi: cambiano solo le domande.
Poniamo che il conduttore ponga al gruppo la domanda:"Cosa vi infastidisce
maggiormente nel vostro lavoro quotidiano?". I presenti scrivono di getto i loro pensieri su
fogli bianchi (anonimi) che vengono fatti velocemente girare tra i presenti, in modo che
ognuno debba scrivere la dichiarazione sul nuovo foglio che gli viene consegnato, senza
troppo tempo per riflettere e senza conoscere l'autore della frase precedente. Il
brainwriting, grazie all'anonimato, non richiede al partecipante di esporsi psicologicamente
nei confronti del gruppo con dichiarazioni verbali e rappresenta quindi uno sfogo liberatorio
di grande utilità. Deve essere però garantito in anticipo, dal facilitatore che gestisce la
seduta, che le doglianze raccolte, oltre a rappresentare una testimonianza di ascolto e
quindi di interesse per i problemi dei partecipanti, saranno fedelmente trascritte e riportate
in videoscrittura allo scopo di rendere anonime le proposte. I fogli originali vanno poi
truciolati per garantire l'anonimato.
BRAINSTORMING
È un termine assai abusato per indicare genericamente la fase
di raccolta di idee (normalmente una riunione) sulla soluzione
comunicativa da adottare per affrontare con efficacia una
determinata questione. Abusato perché in effetti il
brainstorming non è una semplice riunione, ma uno strumento
specifico del processo creativo e del lavoro di gruppo. La sua
efficacia dipende dalla professionalità di chi lo convoca, di chi
lo conduce e di chi vi partecipa.
Normalmente un brainstorming non deve avere più di 6, massimo 8 partecipanti
e mai durare più di 30/40 minuti.
I partecipanti vengono selezionati dal convocatore (il quale non partecipa attivamente),
tenendo conto della massima diversità delle esperienze personali, punti
di vista, competenze professionali.
Il convocatore deve essere
un soggetto riconosciuto come autorevole sulla questione e
distribuire in anticipo (24 ore) una nota di una cartella
(massimo 1800 battute) in cui sono illustrati l'obiettivo
specifico della riunione e gli elementi oggettivi noti che ritiene
debbano essere patrimonio comune di conoscenza prima che i
partecipanti si incontrino. È importante assicurare che i
posti intorno al tavolo siano assegnati evitando di mettere a
fianco persone che si presume la pensino allo stesso
modo.
Il moderatore deve essere riconosciuto dai
partecipanti come esperto della gestione di gruppi e non come
esperto della materia. All'avvio della riunione il
moderatore riassume la pagina di brief già inviata ai
partecipanti, invita alla massima casualità e libertà di
espressione e ricorda la fondamentale regola per cui nessun
intervento deve durare più di due minuti e, ancora più
importante, essere valutativo di un intervento
precedente. Normalmente in piedi vicino a un flip chart (in
italiano: lavagna a fogli mobili) e dotato di pennarelli di diversi
colori, il moderatore si limita a riportare sui fogli mobili, senza
indicare volta per volta il nome di chi interviene, la sintesi di
quanto viene detto.
Se il dibattito si smorza, il moderatore
interverrà proponendo qualche simulazione creativa o qualche
gioco fra i tanti che avrà nel proprio bagaglio
professionale.
Chi interviene ha facoltà di richiedere
modifiche puntuali a quanto viene riportato sul foglio mobile
relativo al proprio intervento.In conclusione il moderatore
riassume le cose dette rileggendo le annotazioni dai fogli mobili
(normalmente un brainstorming non dovrebbe riempirne più di
quattro). Spetterà poi al moderatore predisporre una
sintesi scritta del lavoro fatto da far pervenire al convocatore.
BRIEF
È un documento (brief) oppure una riunione (riunione di
briefing... che prevede comunque la consegna di un
documento scritto) in cui il soggetto committente descrive al
(ai) proponente (i) appositamente convocato (i):- le
caratteristiche della questione che intende consegnare al (ai)
proponente (i) da affrontare con un programma di relazioni
pubbliche;
- le modalità e i tempi di consegna delle
proposte;
- le risorse che il committente è disposto ad
investire su quel programma.
Non sempre il brief implica competitività fra proponenti diversi e il
termine viene utilizzato sia per una organizzazione quando
ha bisogno di proposte di più soggetti esterni, sia quando
l'organizzazione presenta la questione a soggetti interni
preposti ad affrontarla con azioni di relazioni pubbliche. Il
termine deriva dal linguaggio della pubblicità.
Se il brief si propone di essere la base di partenza di un processo creativo
[v. brainstorming] la sua lunghezza non può superare la
cartella (1.800 battute). Se invece si propone di stimolare e
ricevere proposte di programmi di relazioni pubbliche atti ad
affrontare una questione specifica, può consistere anche in un
articolato pacchetto informativo.
CALL FOR... PAPERS / PROPOSALS / PROJECTS
In italiano 'chiamata’ o ‘bando per....'. Quando una
organizzazione invita i suoi interlocutori a proporre testi per un
congresso o una pubblicazione, proposte di iniziative e
di progetti di relazioni pubbliche. Perché la chiamata sia
efficace è necessario che contenga sinteticamente le
informazioni necessarie a chi partecipa per calibrare la sua
proposta.
CAPITAL INTENSIVE
Espressione utilizzata per indicare una professione/attività ad alta intensità di capitali
investiti. Per antonomasia, un’attività capital intensive è la pubblicità che si basa
sull’acquisizione (tramite investimento di risorse consistenti) di spazi nei diversi canali di
comunicazione [v. media]. Per valutare il valore di mercato basta poi sommare i capitali
investiti dalle imprese private sui diversi media. Fino ad oggi anche il comparto delle
relazioni pubbliche è stato valutato con gli stessi criteri utilizzati per la pubblicità e il
riferimento più comune è quello alla indagine annuale Upa /Intermatrix che da venti anni
consente di seguire le dinamiche degli investimenti esterni delle imprese private in
comunicazione. Secondo l’ultima edizione della ricerca l’investimento annuale delle
imprese private in relazioni pubbliche è di 2.3 miliardi di euro.
Le relazioni pubbliche, tuttavia non acquistano spazi sui media e quindi le loro attività non
possono essere considerate capital intensive, ma bensì labour intensive [vedi anche], ela
cosa implica criteri di misurazione dell’indotto completamente differenti.
CAUSE RELATED MARKETING
Si intende quella tecnica di relazioni pubbliche/marketing che vede una
organizzazione - normalmente una impresa di beni o di servizi - che
invita i suoi consumatori ad acquistare un prodotto o
utilizzare un servizio destinando una somma fissa o in
percentuale ad una ‘buona causa’ normalmente promossa da
una associazione non profit.
Ad avviare questa tecnica fu l'American Express negli anni 70 negli Stati Uniti a livello
locale, quando si era trovata in difficoltà con i ristoratori che
tendevano a rifiutare la carta Amex a causa
delle commissioni più elevate rispetto alla concorrenza.
Ottenuto un forte successo a livello locale, nei primi anni
ottanta e prima di decidersi a sperimentare una campagna
nazionale, chiese alla consociata italiana di provarci.
La campagna fu realizzata nel 1984 insieme al WWF Italia per la
salvaguardia delle coste Italiane in collaborazione con l'editore
Rizzoli/Corriere della Sera. Il successo fu travolgente
(+40% nell’uso della carta!) e convinse la casa madre a lanciare la prima
campagna nazionale americana per il restauro della Statua
della Libertà, campagna che diede notorietà internazionale al
cause related marketing.
Oggi, grazie alla sua tematizzazione diffusa [v. advocacy], qualcuno inserisce il cause
related
marketing fra gli strumenti della corporate social responsibility (CSR).
CELEBRITY PUBLIC RELATIONS
Il termine celebrity si riferiva una volta solo a personalità
dello spettacolo e dello sport e le rp correlate erano integrate
nel modello operativo definito ‘press agentry’ [v. Grunig] ((gli altri tre sono
public information, scientific persuasion e two-way symmetric)).
Oggi - anche in virtù di un libro del celebre Kotler, autorevole studioso di marketing,
tradotto in italiano da Isedi nel 1990 col titolo: Alta Visibilità: marketing della celebrità - nei
mercati anglosassoni, celebrity sono anche il leader aziendale, sociale, politico e culturale.
Da qui l'abitudine ormai consolidata di considerare le celebrity public relations come
una delle specializzazioni più diffuse della professione, al punto che il progetto XPRL [vedi
anche] le considera uno dei rami più importanti delle rp.
Le qualità e competenze richieste implicano per il professionista:
°discrezione assoluta sulle debolezze e criticità della celebrity con la quale il relatore
pubblico finisce inevitabilmente per vivere a stretto contatto;
°fedeltà assoluta… questione assai complicata per il relatore pubblico
sul piano deontologico quando il suo stipendio/onorario
proviene dall'organizzazione e non dalla persona e, come
assai spesso avviene, gli interessi entrano in conflitto;
°creatività, fantasia e una buona dose di spregiudicatezza, accompagnate ad una
dettagliata e sempre aggiornata conoscenza delle regole dello ‘star system’ e dei
suoi sottosistemi di giornalisti, press agent, veline e stelline. Ci riferiamo a organizzatori di
eventi, associazioni imprenditoriali, culturali, circoli , salotti e think
tanks - per la maggior parte front organisation [vedi anche] disponibili a
sostenere la celebrity a determinate condizioni
CLASS ACTION
Un incubo ricorrente per le organizzazioni che erogano servizi
o prodotti a molti (largo consumo): si verifica quando un insieme di
persone che si ritengono danneggiate da un prodotto/servizio
decidono di rivalersi come soggetto collettivo in sede di risarcimento danni.
Da molti anni applicato negli Stati Uniti (e)
soprattutto da quando avvocati - che in quel Paese sono anche retribuiti in percentuale
sull'ammontare dei risarcimenti decisi dai tribunali - hanno
iniziato a reclutare utenti/consumatori insoddisfatti disponibili, alleandosi
anche con associazioni e coalizioni esistenti.
Ora si tenta di estendere la class action anche nel sistema
giuridico italiano. Recentemente se ne è parlato nel corso
della vicenda della RC Auto e, ancora più recentemente, nella
vicenda Parmalat. Per il relatore pubblico esperto in
litigation public relations [vedi anche], la presenza nel sistema giuridico della class action
modifica
sostanzialmente il modus operandi.
CLUSTER
In relazioni pubbliche è una aggregazione omogenea di
soggetti che fanno parte di un pubblico specifico (stakeholder [vedi anche],
influenti [v. influential, influencer] o destinatari [v. end recipient]). Il termine viene dal
marketing ove la
‘cluster analysis’ si propone di individuare gruppi
omogenei con lo scopo di identificare le persone o le
variabili simili fra loro in base a criteri prefissati.
Si ottengono così gruppi coerenti al proprio interno ma differenti fra di loro.
I cluster vengono anche impiegati anche in psicografia per fornire utili indicazioni sugli stili
di vita dei consumatori in termini di opinioni, azioni, interessi.
COACHING
È una relazione professionale che si instaura tra una persona qualificata (coach) ed una
singola persona (coachee) e che si propone di assistere quest’ultimo nello sviluppo di
strategie relazionali e gestionali finalizzate alla attuazione di cambiamenti, as
raggiungimento di successi o comunque alla realizzazione di obiettivi specifici e personali.
COLOPHON
Colonna normalmente posta all'inizio o alla fine di un mezzo [v. media] di
informazione stampato in cui vengono riportate informazioni di
servizio quali: il direttore responsabile, il direttore editoriale, il
capo redattore, l'editore, la sede dell'amministrazione e della
redazione, i responsabili dei vari servizi redazionali, i
collaboratori, il costo dell'abbonamento, il costo della
testata, il costo dei numeri arretrati….
COMMUNICATIONAL BEHAVIOUR
È il comportamento comunicante delle organizzazioni come identificato dallo sloveno
Vercic: l’organizzazione interagisce con i propri pubblici affidando alle relazioni pubbliche il
governo dei sistemi di relazione con i pubblici influenti [v. Gorel o Relma]. Le relazioni
pubbliche diventano allora funzione trasversale e strategica nel suo ruolo riflettivo [v.
reflective role] ed educativo [v. educational role] individuati dalla scuola europea (Vercic,
Van Ruler, Holstromm…) [v. Bled manifesto].
L’organizzazione comunicante attribuisce grande importanza alla comunicazione con i
pubblici influenti e ne affida l'attuazione operativa a tutte le direzioni, con il coordinamento
di una direzione dedicata.
[v. anche comunicative behaviour]
COMMUNICATION SOCIAL RESPONSIBILITY
È la responsabilità sociale dei comunicatori. Risiede nell'assunzione di piena
consapevolezza e nel conseguente impegno ad operare un progressivo disinquinamento
comunicativo [v. info-communicative overload]. Questo impegno implica una migrazione
delle pratiche quotidiane verso una ‘comunicazione con’ i pubblici di riferimento, dove
l’ascolto è consustanziale al dialogo e all’interazione. Ciò favorisce, oltre al
disinquinamento comunicativo, anche un sensibile miglioramento della qualità della
comunicazione potendo disporre di modalità relazionali dirette e one-with-one, quelle
ritenute maggiormente efficaci.
COMUNICATIVE BEHAVIOUR
È una variante del comportamento di una organizzazione individuate da Vercic [v. anche
comunicational behaviour]. In questa dimensione le relazioni pubbliche sono intese come
strumento operativo, verticale e push volto (quasi) esclusivamente alla produzione e
diffusione di messaggi, con netta prevalenza del ruolo tecnico e manageriale [v.
managerial role, operational role]. L’organizzazione comunicativa attribuisce grande
importanza alla comunicazione ai pubblici influenti tramite i media e ne affida l'attuazione
operativa ad una direzione dedicata.
COMMUNITY RELATIONS
Una delle più importanti e tradizionali specializzazioni delle
relazioni pubbliche legate soprattutto al settore manufatturiero che
ha a che fare con i programmi di iniziative e di relazioni che
una organizzazione sviluppa e attua al fine di
ottenere/rinnovare /rinforzare quella ‘license-to-operate’ cosi
importante per attirare le migliori risorse, ottenere la legittimazione sociale, la
benevolenza e l'alleanza delle istituzioni locali, ridurre il rischio
in caso di situazioni di crisi [v. crisis communication, crisis management]. L'attenzione
delle organizzazioni
verso le community relations, forte negli anni sessanta e
settanta, ma poi caduta nei decenni
successivi, è molto cresciuta negli ultimi anni con la
tematizzazione pervasiva della CSR.
CONCEPT
In relazioni pubbliche è il 'cuore’, o il 'core’ (nel senso
romanesco del termine), la struttura, il senso autentico, la ragione,
la 'ciccia’ di un progetto, di una iniziativa, di un programma di relazioni pubbliche.
CONSENT (Consensus)
La pubblicazione nel 1956 di ‘The Engineering of Consent’(ingegneria del consenso),
fondamentale saggio di Edward
Bernays, ha avviato una sterminata produzione di lavori sui
rapporti fra consenso e persuasione, comunicazione,
relazioni pubbliche, fiducia, reputazione, immagine, identità; concetti
quasi sempre erroneamente usati con significati
equivalenti. Nel suo libro Bernays teorizza che
informando il pubblico in positivo è possibile raccogliere il
necessario supporto a una causa, a un candidato, a una organizzazione.
La ricerca, l'acquisizione, la manutenzione del
consenso è in cima ai desideri dei vertici di ogni
organizzazione e, più o meno esplicitamente, questo compito
viene assegnato ai relatori pubblici.
CONSEQUENCE
Gli studiosi delle relazioni pubbliche usano il termine per
indicare gli effetti che una organizzazione induce sui pubblici
influenti. Per James Grunig, sostenitore della tendenziale simmetria [v. symmetric]
relazionale per rendere più efficace l’organizzazione, è anche importante che il relatore
pubblico, nel suo ruolo strategico/riflettivo, si preoccupi di analizzare e
interpretare per la coalizione dominante anche le conseguenze che i
pubblici influenti producono sulla organizzazione [v. reflective role].
CONSULTANCY
Quando si parla di ‘public relations industry’ ci si riferisce
solitamente all'insieme dei servizi di consulenza offerti alle
organizzazioni da ‘solo consultants' ( i liberi
professionisti), consulenti associati, imprese di consulenza
locali, nazionali, regionali o globali.
Poiché lo sviluppo delle relazioni pubbliche negli Stati Uniti e nel Regno Unito è
sempre stato fortemente legato al settore privato dell'economia, si è indotta (in tutto il
mondo...) una forte identificazione della professione con la consulenza, e la sua
economia è assimilata alla somma dei budget investiti dalle imprese.
Questa abitudine ‘distratta’ ha fortemente contribuito a ridurre
la percezione reale del settore (in Europa, più legata al
settore pubblico e sociale che non al privato) e della sua stessa
economia.
In Italia, su 70 mila relatori pubblici censiti nel 2001, ben 40 mila operavano nel settore
pubblico, 15 mila in quello privato e 5 mila in quello sociale. Solo 10 mila erano i
consulenti.
Quanto poi a valutare l'economia complessiva del comparto, a fronte dei 2.5 miliardi
di euro annui attribuiti alle relazioni pubbliche dall'Upa (che le considera capital intensive
[vedi anche] come la pubblicità e stima i soli investimenti delle imprese private), la Ferpi
calcola che il valore economico reale supera in realtà i 14 miliardi di euro l'anno. Questo
perché considera le relazioni pubbliche come attività labour intensive [vedi anche],
e per stimarne il valore, parte dal numero dei relatori pubblici
(70 mila), definisce un costo medio lordo annuo di ciascuno (70 mila euro), e moltiplica
questo valore per 3 considerando questa la soglia minima della produttività, arrivando
quindi alla cifra sopra indicata.
CONSUMERISM
È diverso da consumismo e indica il fenomeno della protezione del consumatore. Negli
Stati Uniti degli anni settanta, ancora prima degli ambientalisti,
gruppi di consumatori consapevoli e organizzati (il primo leader
fu Ralph Nader nella sua campagna contro i giganti dell'auto),
hanno cominciato a dare grattacapi alle grandi imprese,
accusate di non preoccuparsi abbastanza della sicurezza e
della bontà dei prodotti/servizi.
Anche in Italia il fenomeno si avviò nella seconda metà degli anni settanta grazie all'azione
di Anna Bartolini, oggi la più autorevole e conosciuta rappresentante
dei consumatori e di Gustavo Ghidini, antesignano del
movimento e oggi autorevole giurista, accademico e
commentatore del Corriere della Sera.
La prima azienda italiana a prendere sul serio il movimento dei consumatori fu la Fiat che,
alla fine degli anni settanta, commissionò a una società di consulenza inglese
(Intermatrix), un primo rapporto sulla questione.
Poi, seguirono le altre imprese di beni di largo consumo e di servizi. Oggi, il fenomeno si è
istituzionalizzato e la gran parte delle associazioni sono scarsamente rappresentative e
trasparenti.
CONTENT ANALYSIS
In relazioni pubbliche è l'analisi di contenuto di come il
sistema dei media [vedi anche] tratta una determinata questione, una
organizzazione, un prodotto o un servizio.
Mentre in altri mercati più evoluti le società di servizio che forniscono questa
analisi risalgono ai primi anni settanta, in Italia il primo a
fornirla fu Nicola Bovoli alla metà degli anni ottanta su esplicita
richiesta della Montedison, il cui direttore delle relazioni
esterne era allora Carlo Bruno, oggi presidente di Bonaparte
48, agenzia di relazioni pubbliche.
Negli anni novanta sono fiorite sia a Roma che a Milano società di servizi che
forniscono analisi quali/quantitative sui contenuti dei media [v. evaluation, measurement]
ma
siamo ancora anni luce indietro rispetto ai mercati anglosassoni ove tutto ciò viene fornito
al cliente in tempo reale, via Internet e con livelli assai sofisticati.
[v. anche output]
COOLING-OFF PERIOD
È il periodo, cosiddetto ‘di ripensamento’, che consente
all'acquirente di restituire un servizio o un prodotto acquistato
al venditore senza aggravio di costi. In relazioni pubbliche
è il tempo che si dà ad un interlocutore per valutare se
utilizzare o meno (in esclusiva) le informazioni ricevute. In caso
contrario, si intende che l'interlocutore accetta di non usare
quelle informazioni prima che lo abbia fatto un altro soggetto
interpellato per la stessa ragione e che abbia deciso di accettare.
CO-OMPETITION
Quando soggetti diversi che normalmente competono si alleano per
cooperare e affrontare una criticità comune pur restando concorrenti. In questi frangenti le
relazioni pubbliche acquistano un rilievo di eccezionale rilevanza.
CO-ORIENTATION
È una tecnica usata nelle relazioni pubbliche quando si
mettono a confronto le opinioni di due soggetti rispetto ad una
questione utilizzando anche le opinioni che ciascun soggetto
esprime sulle opinioni dell'altro. È assai utile nei processi
di negoziazione [v. negotiative] o di mediazione fra l'organizzazione e i suoi
pubblici influenti.
COPY
Il termine viene dalla pubblicità e anche in relazioni pubbliche indica un testo. ‘Copywriter’
è chi scrive il testo, mentre ‘copy clearance’ è il suo processo di supervisione e
autorizzazione.
CORPORATE (Communication, Identity, Image, Social Responsibility…)
Il riferimento è quasi sempre alle imprese private, ma si tratta di un
errore. Corporate deriva dal latino ‘corpus’ che indica una
organizzazione, indipendentemente dalla sua natura privata,
pubblica o sociale.
COVERAGE
Si intende la ‘copertura’ che una azione di relazioni
pubbliche ottiene sui media [v. media, measurement, evaluation].
CRISIS COMMUNICATION, CRISIS MANAGEMENT
Il crisis management è una funzione strutturale del
processo di direzione di una organizzazione (pubblica, privata,
sociale) che analizza, predispone e coordina la gestione di
situazioni di crisi prevedibili (intese come avvenimenti non
attesi interni o esterni, che coinvolgono persone, processi,
prodotti, attività finanziarie, commerciali o comunicative e che
determinano - o potrebbero determinare - una soluzione
di continuità critica alla identità, l’immagine o la reputazione
dell'organizzazione stessa, andando ad incrinare i suoi sistemi
di relazione con uno o più pubblici influenti).
La crisis communication è invece l'insieme delle attività di
comunicazione di una organizzazione al momento in cui la crisi
si manifesta.
Nelle organizzazioni più consapevoli la seconda è compresa nella prima e la funzione del
relatore pubblico è di gestirne i processi comunicativi.
Nella gran parte delle organizzazioni si tende invece a pensare che,
affidando il crisis management alla comunicazione, la prima sia
compresa nella seconda: e questa è la ragione per cui la gran
parte delle volte che scoppia una crisi e dall'esterno si osserva
con attenzione come viene gestita, ci si mette le mani nei
capelli.
CRITICAL SCHOOL
Insieme alla sistemica [v. systemic school] e alla retorica [v. rhetoric school], è la terza
scuola teorico-scientifica alla base del pensiero contemporaneo delle
relazioni pubbliche.
Per i 'critici' come Stuart Ewen, Jacquie L'Etang e Marvin Olasky nessuna teoria potrà mai
impedire ai poteri 'forti' di piegare e di manipolare le coscienze delle persone e, nella
società contemporanea, le relazioni pubbliche rappresentano la massima espressione di
questo esercizio.
DATABASE
Unità informative archiviate e accessibili via computer. In
relazioni pubbliche viene usato per indicare un archivio
dinamico, usato spesso e continuamente aggiornato.
DAYBOOK
È il diario degli eventi della giornata, aggiornato a scadenze
fisse del giorno, con cui normalmente le agenzie di stampa
aprono i loro servizi.
DEADLINE
È la scadenza, il tempo limite di un lavoro. Nelle relazioni con i
media [v. media relations] indica l'ora entro cui un comunicato [v. news release] o una
notizia
devono arrivare al destinatario con qualche speranza che
venga ripreso il giorno dopo.
DEBRIEFING
Dopo una campagna, una iniziativa, un evento o un incontro
importante i realizzatori si riuniscono per scambiarsi opinioni e
suggestioni al fine di individuare le criticità incontrate ed evitare o ridurre
la possibilità di una loro ripetizione. [v. brief]
DECOY
È un nome ‘civetta’ inserito in un elenco di destinatari per controllare
che il messaggio giunga effettivamente a destinazione.
DEEP THROAT
Gola Profonda: è una fonte riservata e non citabile. Termine molto usato nel resoconto
del caso Watergate per indicare la fonte anonima che
informava Bob Woodward e Carl Bernstein, i due giornalisti del
Washington Post che avevano fatto scoppiare lo scandalo.
L'origine del termine viene dalla pornostar Linda Lovelace che negli anni ottanta si faceva
chiamare così per la sua abilità di succhiare il membro maschile fin dentro la gola.
DELPHI
Indica una metodologia di ricerca cui sovente ricorrono i
relatori pubblici quando devono ascoltare le variabili prioritarie [v. issue]
e soprattutto si propongono di prevederne le dinamiche.
Tecnicamente il metodo Delphi implica un gruppo ristretto di partecipanti
(massimo 20), a vario titolo esperti della materia, o comunque ritenuti dal conduttore
utili a gettare luce sul futuro. Sono persone che lavorano a distanza (uno sa
chi sono gli altri, ma solo alla fine) e, in tempi ravvicinati (massimo
due mesi), interagendo da due a tre volte e commentando i commenti degli altri. Il
conduttore scrive una pagina di descrizione del tema e la accompagna con quattro/sei
domande chiave. I partecipanti rispondono alle domande. Il conduttore raccoglie il
consenso e isola le questioni su cui vi sono dissensi. Ripropone ai partecipanti soltanto le
versioni estreme dei dissensi emersi chiedendo un secondo intervento
ai partecipanti. Raccoglie nuovamente le aree di consenso emerse e ripropone una terza
(e ultima) volta le questioni ove vi siano ulteriori dissensi. I partecipanti rispondono e il
conduttore tira le somme, scrive le conclusioni inviandole ai partecipanti i quali però non
hanno facoltà di ulteriori interventi correttivi.
Una variante del Delphi è il Tarot (Trend Analysis by Relative Opinion Testing) creato nei
primi anni 80 dall'inglese Geoffrey Morris di Intermatrix appositamente da applicare alla
metodologia dell'issue management [vedi anche]. Definita una issue prioritaria, si
identificano da
20 a 30 esperti della issue e li si vincola ad una sorta di Delphi permanente senza mai dire
loro chi siano gli altri partecipanti. Il Tarot consente al conduttore un monitoraggio
continuativo dell'evoluzione della issue.
DEMARKETING
Quando si ritarda la consegna di un prodotto/servizio
per ridurre una domanda eccessiva rispetto alla capacità di
produzione o di distribuzione.
DESK RESEARCH
È l’attività costante del relatore pubblico di analisi, lettura e
interpretazione delle variabili esterne che influenzano il raggiungimento dell'obiettivo
perseguito.
DIRECT MARKETING / RESPONSE
È una delle quattro discipline della comunicazione di impresa [v. corporate
communication],
insieme alla pubblicità, alle relazioni pubbliche e alle
promozioni. Si tratta di una tecnica ‘below the line’ [vedi anche] che consente
a un'organizzazione di aprire con i consumatori o pubblici
influenti una relazione a due vie attraverso il canale postale o,
più recentemente, Internet.
Normalmente l'obiettivo perseguito è la generazione di contatti, il rafforzamento delle
caratteristiche di un prodotto/servizio/idea nel destinatario e la raccolta di reazioni e
feedback [vedi anche].
È una tecnica che tende a fidelizzare l'interlocutore, sviluppa i suoi effetti a medio termine
e rafforza l'identità di marca.
Il termine ‘marketing’ viene usato
quando la singola operazione è commerciale, il termine ‘response’ - più sofisticato - venne
introdotto alla fine degli anni settanta dalla Ogilvy & Mather per valorizzare l'aspetto
interattivo della relazione.
DISCLAIMER
È una dichiarazione preventiva di chi avvia un processo
comunicativo per avvertire gli altri soggetti della relazione di
alcune precauzioni inerenti, per esempio, alla privacy o alla
responsabilità dei contenuti della comunicazione.
DIVERSITY
E’ il nuovo paradigma delle relazioni pubbliche del ventunesimo secolo.
Il presupposto è che la più efficace delle comunicazioni è quella one-with-one e one-withfew (in italiano uno-con-uno e uno-con-pochi, non uno-a-uno e uno-a-pochi) e che, oggi
più che mai, le tecnologie e le conoscenze consentono alle organizzazioni di perseguire
questo modello, quando si tratta di comunicare con i loro pubblici influenti.
Se tutto questo è vero, così come è vero che ogni persona è diversa dall’altra e che è
proprio la diversità nelle sue espressioni più varie (culturale, linguistica, di genere, di etnia,
di religione, di abilità, di preferenza sessuale…) a determinare le dinamiche dell’ambiente
in cui le organizzazioni operano, ne consegue che il governo della diversità equivale al
governo dei sistemi di relazione [v. Gorel o Relma] con i pubblici influenti: cioè, alle
relazioni pubbliche.
DOGOODISM
Indica una tendenza a fare sempre del bene in qualsiasi
circostanza. In Italiano è simile al cosiddetto ‘buonismo’. In
relazioni pubbliche è una tendenza da evitare, poiché finisce per minare la
stessa credibilità dei soggetti.
DOOR OPENER
Un qualsiasi incentivo offerto all'interlocutore per attirarne
l'attenzione e creare un atmosfera di dialogo.
DOWNPLAY
Una attività che sminuisce l'importanza di una questione, di
una notizia, di un comportamento.
EDIT
Scrivere un testo o un articolo, oppure rivedere il testo di
un altro autore per renderlo adatto alla pubblicazione.
EDITOR
Non è, come molti pensano un editore, bensì un giornalista semplice oppure
responsabile di una pagina o di una rubrica o di un giornale (in
questo caso ‘managing editor’).
EDITORIAL - LEADER
È un testo che appare come opinione del giornale o,
se firmato, del firmatario. Si chiama anche leader.
EDUCATIONAL ROLE
Fra i diversi ruoli strategici [v. strategy] del relatore pubblico in una
organizzazione è anche quello educativo.
Partendo dalla premessa che tutte le funzioni direttive di una organizzazione
gestiscono i rispettivi sistemi di relazione in base a linee condivise e verso
obiettivi concordati e che le competenze comunicative siano
diffuse attraverso l'organizzazione, il relatore pubblico assicura
la coerenza dei comportamenti relazionali e comunicativi della
coalizione dominante e sovraintende al trasferimento delle
competenze comunicative nell'organizzazione, monitorandone costantemente le
dinamiche.
L'altra dimensione di ruolo strategico del relatore pubblico è quella riflettiva [v. reflective
role].
[v. anche Bled manifesto]
EFFECTIVE
Efficace, diverso da efficient (efficiente).
In relazioni pubbliche, il primo si riferisce all'outcome [vedi anche] (ma le
opinioni o i comportamenti sono cambiati?), il secondo all'output [vedi anche]
(ma quanti hanno ripreso quel comunicato o partecipato a
quell'evento che fa parte del progetto che dovrebbe
cambiare opinioni o comportamenti?).
[v. anche evaluation, measurement]
EFFECTIVE AUDIENCE
Il pubblico potenzialmente esposto a un articolo.
“EIGHTY / TWENTY” PRINCIPLE
L'opinione diffusa che il 20% dei
consumatori acquista l'80% di un prodotto o
servizio.
E-LETTER
Lettera elettronica, anzi newsletter elettronica: utile
ed efficace strumento di relazione con stakeholder [vedi anche] e pubblici
influenti purché siano rigorosamente rispettate le norme più
restrittive sul diritto alla privacy.
EMBARGO
Nelle relazioni con i media [v. media relations] è la data su un comunicato
stampa [v. news release] che ne autorizza la pubblicazione.
EMPOWERMENT
È quell'azione consapevole per cui, in una
organizzazione, un soggetto responsabile di una azione, un
programma, un progetto coinvolge altri soggetti,
indipendentemente dalla linea gerarchica, e attribuisce loro
una parte (o tutto) della responsabilità e del potere per poter
realizzare quell'azione, quel progetto, quel programma.
END RECIPIENT (END USER)
È il destinatario finale. Tra i pubblici influenti (coloro cioè che possono agevolare od
ostacolare il raggiungimento degli obiettivi organizzativi – e quindi il passaggio dalla
mission [vedi anche] alla vision [vedi anche]) sono quelli che subiscono le conseguenze,
dirette e/o indirette, delle attività dell’organizzazione.
Con i destinatari finali l’organizzazione utilizzerà strumenti di comunicazione erga omnes
[v. comunicative behaviour] integrando le relazioni pubbliche con la pubblicità, il direct
response [v. anche] e le altre attività below-the-line [vedi anche] e incentivando, in ogni
caso la possibilità di feedback [vedi anche] immediato da parte dei destinatari (coupon,
etc.).
ENDORSEMENT
È l'avvallo, la certificazione, il sostegno a un evento [v. event], una
idea, un programma, un prodotto, un servizio.
Mentre lo sponsor è chi sostiene finanziariamente un evento, una
personalità, un prodotto, un servizio; l'endorser è proprio
l'evento, la personalità, il prodotto, il servizio sponsorizzato.
In relazioni pubbliche sfugge spesso che il maggior beneficiario
della relazione sponsor-endorser non è il secondo ma il
primo.
ENGINEERING PERCEPTION
Concetto formulato da Leonard Saffir che, a differenza della
semplice persuasione, implica la creazione o la modifica del contesto in cui si formano le
percezioni e si prendono le decisioni.
ENVIRONMENTAL ANALYSIS / MONITORING
Non è come molti pensano una analisi ambientale nel
senso della qualità dell'aria o dell'acqua, ma una analisi o un
monitoraggio del contesto storico, politico, sociale, tecnologico,
economico e culturale in cui una organizzazione opera. [v. anche boundary spanning]
ENVISIONING
La riflessione di una organizzazione che definisce,
aggiorna e rivede la propria missione (cosa sono e cosa faccio
oggi) [v. mission], visione (cosa voglio essere e cosa voglio fare fra cinque
anni) [v. vision], strategia (come intendo transitare dalla missione alla
visione) [v. strategy] e valori guida [v. guiding principles] che devono orientare l'attuazione
della
strategia.
EQUITY
In relazioni pubbliche è il valore attribuito ai sistemi di
relazione e all'identità di un organizzazione, di un suo prodotto,
servizio o idea.
Come scrivono già nel 1994 Norton e Kaplan (The balanced scorecard, Harvard University
Press) ‘You cannot manage what you cannot measure, and you
cannot measure what you cannot describe’, in italiano: ‘non puoi gestire
quel che non puoi misurare e non puoi misurare quel che non
puoi descrivere.’
ERGONOMICS
La scienza che studia le relazioni fra chi lavora e il suo
ambiente di lavoro.
ETHICAL RELATIVISM
Il concetto che i comportamenti etici siano diversi in
contesti sociali diversi.
EVALUATION
La fase di lavoro spesso più importante del relatore
pubblico quando, dopo avere realizzato una determinata iniziativa o campagna,
valuta sul piano qualitativo - generalmente tramite comparazione con predefiniti obiettivi
organizzativi – il valore dell’intervento comunicativo analizzando gli effettivi
comportamenti, le
opinioni e le decisioni dei pubblici influenti orientati da quella iniziativa [v. outcome]. È un
processo che sottende grande capacità di interpretazione ed è naturalmente
tendenzialmente soggettivo.
È diversa, quindi dalla misurazione [v. measurement] che invece si occupa di attribuire
valori soprattutto quantitativi - è quindi maggiormente oggettiva - agli spazi effettivamente
conquistati da
un comunicato o da una conferenza stampa, oppure - se si
tratta di un evento - al numero di partecipanti a un evento[v. output, outtake], a
prescindere se quella notizia o quell'evento potranno effettivamente
modificare le opinioni, i comportamenti o le decisioni dei lettori
o dei partecipanti.
EVENT
Daniel Boorstin, storico contemporaneo e autore nel 1962
del pamphlet ‘The Image: or what's happenened to the
american dream?’ dice che un evento è una guerra o un
terremoto mentre tutti gli altri eventi creati artificialmente per attirare l'attenzione di un
pubblico su una idea, un prodotto, un servizio oppure una organizzazione, sono in realtà
pseudo-eventi.
In relazioni pubbliche gli eventi sono episodi di convocazione di pubblici specifici per
tematizzare una questione che interessa a chi promuove, sponsorizza, finanzia.
Naturalmente l'evento avrà successo se e quando la questione interessa anche gli invitati.
Da qui l'importanza di pensare con attenzione a come articolare l'evento, dialogando con
gli stakeholder [vedi anche], creando coalizioni di interessi con tutti gli aventi
causa e tenendo in conto le aspettative e le attese dei pubblici che si vuole attirare.
EXIT INTERVIEW
È l'intervista che normalmente viene fatta al collaboratore che esce da
una organizzazione, o lascia un prodotto o un servizio, per capire a fondo le ragioni dell’
abbandono ed evitare così che casi analoghi si ripetano.
EXPATRIATE
È il cittadino del Paese ove una organizzazione ha la sua
sede centrale, espatriato ad operare per l'organizzazione in un altro Paese.
EXPOSURE
È il valore di esposizione di un pubblico ad un messaggio.
Non implica né che il pubblico l'abbia in realtà visto o letto,
tanto meno meditato o assorbito. Ma è un valore statisticamente importante nella fase di
misurazione. Un’altra accezione riguarda l’esposizione di un soggetto al sistema dei
media. [v. anche effective audience]
EXTROSPECTIVE RESEARCH
È l'analisi delle variabili esterne che possono esercitare
influenza su un gruppo di persone o una organizzazione.
EYE CONTACT
Quando si guarda direttamente negli occhi
dell'interlocutore. In alcuni Paesi è considerata una tecnica di
relazione aggressiva e può essere controproducente, In altri è
il contrario. In televisione è quando si guarda in macchina.
FACT SHEET
Letteralmente un unico foglio contenente i dati indispensabili
per conoscere una questione.
[v. anche backgrounder, position paper]
FAIR USE
La quantità di testo che, eccezionalmente, è consentito citare
di un autore senza pagare il diritto d’autore e senza chiedere il premesso.
[v. anche disclaimer]
FAMILIARITY
Un messaggio [v. message] è efficace [v. effective] quando chi lo riceve ha familiarità con
il contesto. Non è necessario che conosca già il messaggio
specifico, ma che almeno una parte del messaggio suoni familiare.
FARM OUT
Distribuire all'esterno dell'organizzazione una parte del lavoro
da fare. Sinonimo di ‘outsourcing’.
FAST TRACK
Corsia preferenziale o privilegiata.
FEE
È il compenso/onorario professionale puro, escluse le spese
del consulente (o singolo professionista) e degli
eventuali fornitori. Può trattarsi, indifferentemente, di un
compenso forfettario riferito ad uno specifico progetto o
iniziativa/evento o campagna, oppure di un compenso
periodico a fronte di una prestazione continuativa per un tempo determinato.
FEEDBACK
È il processo di raccolta di dati, opinioni, giudizi di uno o più
soggetti su una specifica iniziativa per valutarne l'esito e
correggerne gli errori.
FIELD REPORT RESEARCH
L'attività di reporting dalle fonti che sono sul ‘campo operativo’ (territorio,
organizzazioni…).
FINANCIAL RELATIONS
L'insieme delle relazioni che una impresa ha con il mercato
finanziario da cui trae le risorse economiche necessarie alla crescita.
Normalmente rientrano sotto la responsabilità della direzione
finanziaria che, a sua volta, può gestirle in cooperazione con la
direzione comunicazione e con la funzione investor relations
che, ancora, può essere interna alla direzione finanziaria,
interna alla direzione comunicazione oppure riferire
direttamente al vertice dell'organizzazione.
“FIVE P's and W's”
Le prime si riferiscono alla cinque ‘P’ di Kotler e riguardano le
variabili del marketing: price (prezzo), packaging (confezione),
product (prodotto), place (luogo), promotion (promozione).
Importante ricordare che, in un momento successivo, Kotler ha
anche aggiunto una sesta ‘P’ che sta per PR (Public
Relations) o Power.
Le seconde si riferiscono alle cinque ‘W’ del
buon giornalista: who (chi), what (cosa), when (quando), where
(dove), why (perchè). Anche in questo caso è buona prassi
aggiungere una ‘H’, che sta per how (come).
FLACK
Termine con cui i media [vedi anche] ‘antipatizzanti‘ solitamente definiscono
con intenzioni spregevoli i relatori pubblici. Il senso è quello
della vacuità, della inconsistenza, della pura apparenza e
anche di una certa volgarità.
FLOW CHART
Una visualizzazione grafica che descrive le fasi successive di
un percorso operativo.
FLYER
È il nostro tradizionale volantino, buono per tutti gli usi. High Flyer è
invece una persona che ‘vola alto’.
FOCUS (group)
L'obiettivo centrale.
Usato insieme a group implica una tecnica di ascolto per raccogliere informazioni
qualitative e approfondite su una questione di interesse da un gruppo di
individui attentamente selezionati e coordinati da un facilitatore.
FOLLOW UP
È quello che si fa dopo un evento [v. event], la distribuzione di un
comunicato [v. news release] o la fine di una iniziativa. Normalmente
coinvolge attività di relazioni ex-post di ringraziamento, di
verifica di gradimento e di interesse, e di rilancio per ulteriori
relazioni.
FORENSIC PUBLIC RELATIONS
Vedere legal o litigation public relations
FOUR-MINUTE-MEN
Così sono chiamati quei volontari della società civile americana’ che alla vigilia
dell'entrata nella prima guerra mondiale furono decisivi nel convincere l'opinione pubblica
[v. public opinion] americana all'intervento. Ciascuno, più volte al giorno e in qualsiasi
situazione relazionale si trovasse (in famiglia, al cinema, al bar,
al lavoro…) si alzava in piedi, chiedeva la parola e in quattro
minuti illustrava le ragioni che spingevano gli Stati Uniti ad
entrare in guerra. L'intera operazione, guidata direttamente dal
Presidente Wilson, è stata condotta dal CPI (Committee for
Public Information) coordinata da Gorge Creel, in
collaborazione fra gli altri, con Carl Byor e Edward Bernays.
FRAMEWORK
È la cornice di una situazione.
FREELANCE
Un professionista che opera in proprio al servizio di
organizzazioni diverse e che, normalmente, si specializza in
un'area di competenza (media relations, event management, public affairs,
financial o marketing communication…[vedi anche]) oppure in un settore specifico
(farmaceutica, chimica, elettronica…).
FREEBIE
Un gadget gratuito offerto da una organizzazione a chi
partecipa a un evento [v. event] o una iniziativa.
FRONT ORGANISATION
Si usa questo termine per definire una organizzazione
apparentemente autonoma e indipendente che si presta a
compiere e a diffondere, assumendosene la paternità,
argomenti, interpretazioni e dati che servono a sostenere gli
interessi impliciti di altre organizzazioni che non vengono
esplicitamente nominate come committenti, sponsor o partner.
FULL SERVICE AGENCY
Una organizzazione dell'offerta che propone al mercato un
servizio completo di comunicazione (pubblicità, relazioni
pubbliche, promozione, direct marketing…).
FUNDRAISING
Sta per raccolta fondi. E’ importante sottolineare che la
progressiva integrazione fra organizzazioni non profit e
organizzazioni donatrici non solo apre nuovi spazi operativi per
funzioni di intermediazione relazionale ma incentiva anche lo
spostamento del contenuto della raccolta non solo ai fondi ma
anche al tempo volontario delle persone dell'organizzazione
donatrice e di altri servizi/prodotti di queste.
GATEKEEPER
Chi tiene le chiavi del cancello. In relazioni pubbliche il
gatekeeper è sicuramente un interlocutore rilevante. Talvolta è
stakeholder [vedi anche] (consapevole e interessato alla relazione con
l'organizzazione); altre volte è influente [v. influential, influencer] (non necessariamente
consapevole e neppure interessato all'organizzazione ma rilevante per lei
perché influente sulle variabili e/o sui
destinatari); altre ancora è tutte e due le cose (sia possessore di titolo a
interloquire sia rilevante per l'organizzazione).
L'identificazione dei gatekeeper è una delle fasi più delicate
delle relazioni pubbliche e richiede un attento lavoro di
analisi delle variabili [v. issue, boundary spanning, environmental scanning] che possono
orientare il
raggiungimento di uno specifico obiettivo perseguito
dall'organizzazione. Se questo lavoro non viene fatto, alla fine…
quando gli obiettivi perseguiti non sono chiari, specifici e
dettagliati, tutti sono gatekeeper (come tutti sono stakeholder o
influenti) e quindi non serve a nulla identificarli e si finisce per comunicare con tutti
sbagliando i messaggi e investendo risorse inutili.
GHOST WRITER
È una funzione classica del relatore pubblico e si realizza
quando si è chiamati a predisporre un discorso, una dichiarazione, un testo o un
documento per un'altra persona, normalmente un
datore di lavoro o un cliente. La qualità e la capacità di scrittura
sono di certo importanti, ma meno della empatia del relatore
pubblico con la persona che poi userà il suo lavoro. Scrivere
un discorso per chi non si conosce, o si conosce poco, è quasi
tempo perso.
GLOBAL PRINCIPLES
Negli studi di Grunig si parla spesso di ‘global principles
and specific applications'. Nella sua teoria globale delle
relazioni pubbliche (ancora di fase di elaborazione), per global principles si intendono quei
principi generali delle relazioni pubbliche che vanno poi
applicati e adattati tenendo conto delle specificità culturali,
economiche, religiose e professionali adatte allo specifico
territorio in cui si applicano. La Global Alliance ha adottato
questo concetto nella redazione del suo protocollo etico e nel suo programma
strategico 2004-2009.
[v. anche specific applications]
GLOBALISATION
Nel contesto delle relazioni pubbliche è particolarmente suggestiva l’argomentazione del
sociologo inglese Anthony Giddens il quale sostiene
che:
°la globalizzazione ha esaltato assai più le diversità [v. diversity] e
le differenze che non l'omologazione delle culture, dei valori e
dei comportamenti [v. anche glocal];
°delle grandi rivoluzioni che hanno investito il genere umano, la globalizzazione è la prima
che vede la comunicazione, da sempre alla perenne conquista del tempo e dello spazio,
come motore principale.
GLOCAL
Una crasi fra global e local. Termine coniato ai primissimi
anni novanta per indicare sia l'accezione di Giddens [v.
globalisation] sia quella di Grunig [v. global principles].
GOODWILL
Letteralmente, buona volontà. In relazioni pubbliche può
essere interpretato come la disponibilità ‘al buio’ di un
interlocutore, l'apertura di fiducia verso l'organizzazione prima del dialogo,
perfino la reputazione [v. reputation], purché prima di un intervento
consapevolmente orientato a influenzarla.
Altrimenti, nella valutazione di una impresa, è il valore del patrimonio
Intangibile [v. invisibile assets], ma si usa sempre meno man mano che gli
intangibili trovano propri e condivisi sistemi specifici di valutazione.
GOREL (Governo delle Relazioni) or RELMA (Relationship Management)
Acronimo formulato alla metà degli
anni ottanta dalla SCR Associati, allora società leader del mercato italiano delle
relazioni pubbliche, nello sviluppo di un ‘canovaccio’ di
riferimento per procedere all'attuazione e per misurare i risultati
di una attività di relazioni pubbliche. Oggi, il termine di relationship management è
largamente diffuso in tutto il mondo [v. anche relationship, systemic school].
In Italia, il metodo Gorel è in continua rivisitazione. Quel metodo, con una ampia
flessibilità,
viene oggi adottato da molte organizzazioni anche
internazionali e da diversi professionisti. Il termine
‘governo’ è alternativo a quello di ‘gestione’
(management) poiché una relazione, se è interattiva e tendenzialmente
simmetrica [v. symmetric], non può e comunque non deve essere gestita, ma
‘governata’ nel senso di governance [vedi anche].
GOVERNANCE
Non esiste un termine italiano condiviso. Potrebbe essere
‘governò’, ma è troppo stretta la sua identificazione con il governo di uno
Stato (tanto che in inglese si dice governance e non
Government…).
Viene usato con diverse accezioni:
°si parla di governance per indicare il sistema di regole che
assicura una corretta gestione delle organizzazioni;
°se ne parla anche come applicazione di processi partecipati e
inclusivi per arrivare ad assumere e implementare decisioni che
producono o possono produrre conseguenze su
altri.
Tutte le accezioni hanno comunque in comune
l'inclusione di nuovi soggetti nei processi decisionali delle organizzazioni private, pubbliche
e sociali.
GRASS-ROOT
Letteralmente: radice erborea. In relazioni pubbliche
implica una qualsiasi azione ‘dal basso’ con il quale il relatore
pubblico si trova a confrontarsi con un pubblico. Con particolare riferimento all’attività di
lobbying [vedi anche], ‘grass-root lobbying’ indica la mobilitazione civile (tramite
manifestazioni, invio di lettere, scioperi…) per cercare di influire sui Processi Decisionali
Pubblici (PDP).
GROSS IMPRESSION
Nei sistemi di misurazione quantitativa delle relazioni
pubbliche [v. measurement, output] è l'indice delle uscite sui media [vedi anche]
moltiplicate per i
lettori potenziali [v. effective audience, exposure]. Il termine gross sta per lordo, nel senso
che
non potrò mai sapere quanti abbiano davvero letto
quell'articolo, ascoltato o visto quel programma o quella notizia.
Ma posso sapere potenzialmente quanti lo avrebbero potuto fare.
GROSS RATING POINT (GRP)
Nei sistemi di misurazione quantitativa della pubblicità è
l'indice che misura la pressione sui media di una campagna. Si
calcola moltiplicando l'audience per la frequenza di uscita.
GRUNIG (models of PR)
Felice elaborazione dello studioso americano James Grunig per
sintetizzare quattro diversi approcci alle relazioni pubbliche che
corrispondono anche ad altrettanti fasi storiche della
professione, pur essendo oggi tutti e quattro i modelli adottati,
e sovente anche nella stessa organizzazione.
Eccoli:
1) Press Agentry:
le relazioni pubbliche hanno un solo
interlocutore prevalente che è il giornalista, al quale si
forniscono notizie anche fantasiose purché creative e capaci di
fare vendere più copie. Si viene così a creare un sorta di
‘dipendenza’ del giornalista dal relatore pubblico. Il modello è
unilaterale e completamente asimmetrico [v. asymmetric] (nasce a fine 800 e
Grunig cita come caso esemplare quello del proprietario di circo P.T.
Barnum)
2) Public Information:
le relazioni pubbliche hanno sempre lo stesso interlocutore prevalente
(il giornalista) ma l’organizzazione gli riconosce il diritto ad una
informazione veritiera anche se parziale, e all’accesso alla
fonte per ulteriori approfondimenti. È sempre un modello
unilaterale ma leggermente più simmetrico [v. symmetric]. Grunig attribuisce
questo modello a Ivy Lee nei primi anni del
novecento [v. anche muckracker].
3) Scientific Persuasion (Two-Way Asymmetric):
le relazioni pubbliche ascoltano i destinatari (consumatori, elettori, utenti, beneficiari) per
capire chi sono i loro opinion leader [vedi anche] e per verificare l’efficacia [v. evaluation]
dei
messaggi [v. message] predisposti prima di trasferirli erga omnes. È un
modello che anticipa il marketing, bi-laterale e assai più
simmetrico. Grunig fa risalire il modello ai primi anni venti con
l'attività di Edward Bernays.
4) Negotiation (Two-Way Symmetric):
le relazioni pubbliche aiutano le organizzazioni a raggiungere le finalità perseguite
ascoltando le aspettative dei - e sviluppando sistemi di relazione interattivi
e simmetrici con - i pubblici influenti prima di decidere gli
obiettivi specifici, tenendo conto delle loro esigenze quando
non siano in conflitto con le finalità [v. envisioning], così da ridurre le resistenze
al raggiungimento degli obiettivi così definiti. Il modello è
interamente bidirezionale e tendenzialmente simmetrico, e la sua elaborazione è
attribuita allo stesso Grunig.
GUIDING PRINCIPLES
Principi guida. Nel processo di envisioning [vedi anche] di una
organizzazione è la fase successiva alla definizione della
missione [v. mission] e della visione [v. vision] e precede quella della strategia [v.
strategy].
È la declinazione dei principi generali di comportamento che l'organizzazione si impegna a
rispettare nell'attuazione della strategia.
HIDDEN PERSUADERS
“Persuasori occulti” è il titolo di un libro scritto nel 1957 da Vance Packard (edito in Italia
da Einaudi) in cui l’autore con straordinaria brillantezza porta alla ribalta dell’opinione
pubblica [v. public opinion] la questione dell’uso delle tecniche di persuasione [v.anche
Grunig] per veicolare un prodotto o un messaggio [v. message].
Se è fuor di dubbio che il concetto di “persuasori occulti” era stato originariamente coniato
per indicare i pubblicitari e non i relatori pubblici, è pur vero che ancora oggi, a tanti anni di
distanza, rimane uno stereotipo urticante con cui prima o poi finiscono per fare i conti tutti i
relatori pubblici: trovandosi ad operare nell’incrocio tra i sistemi di relazione di società
politica, dell’informazione ed economico-sociale possono dar luogo a percezione di attività
opacamente (…il contrario di trasparente) manipolative e persuasive.
HOSPITALITY
Termine assai usato in relazioni pubbliche, tradendo così la
natura originaria di una professione un cui strumento chiave è appunto
l'ospitalità di interlocutori attentamente selezionati perché
ritenuti influenti sull'obiettivo perseguito: giornalisti, politici,
opinion leader, grandi clienti, medici, fornitori, azionisti, distributori…
Da qualche anno e in qualche paese giornalisti, politici e analisti finanziari
tendono a non accettare l'ospitalità e partecipano ad eventi ritenuti interessati a proprie
spese.
HOUSE AGENCY
Agenzia di servizi interna all'organizzazione. Ciclicamente nascono e
altrettanto ciclicamente defungono, a seconda della congiuntura economica.
Nei periodi in cui le organizzazioni si trovano a ridimensionare le rispettive strutture
interne di comunicazione, l'house agency evita il brusco
licenziamento e dà tempo alle persone di verificare se sono in grado di farcela da sole.
Normalmente vengono fatte in accordo con agenzie esterne che poi assorbono il
personale.
HOUSE ORGAN
Strumento fra i più classici e più diffusi delle relazioni
pubbliche. È il giornale interno dell'organizzazione [v. internal relations], talvolta
diffuso anche ad alcuni pubblici esterni.
HYPE, to
Gonfiare, esagerare, sopravvalutare...attribuito sovente come
caratteristica delle relazioni pubbliche, come anche l'altro
termine spin [vedi anche].
[vedi anche sexing up]
IMPACT
È l'impatto di un evento [v. event], di una notizia, di una circostanza, di
una campagna rispetto all'obiettivo perseguito. I parametri di
valutazione e/o misurazione possono essere quantitativi o
qualitativi [v. evaluation, measurement, output, outtake, outcome, outgrowth].
INFLUENCE
È, da sempre, uno degli obiettivi strutturali delle relazioni
pubbliche.Per la verità, fino alla metà degli anni Ottanta,
questo obiettivo veniva interpretato dai relatori pubblici in
senso ‘push’ (l'organizzazione si propone di influenzare i pubblici tramite le relazioni
pubbliche).
Oggi è interpretato in senso maggiormente bilaterale: anche i pubblici influenzano
l'organizzazione e, attraverso il reciproco ascolto e una relazione tendenzialmente
simmetrica [v. symmetric], si affrontano le issue [vedi anche] a beneficio di entrambi.
INFLUENTIAL, INFLUENCER
È un soggetto, non necessariamente consapevole e neppure particolarmente
interessato alla relazione con l'organizzazione, che questa ritiene influente sul
raggiungimento dei propri obiettivi, sia perché capace di orientarne le variabili [v. issue],
sia perché capace di orientare le opinioni [v. opinion leader] dei destinatari finali [v. end
recipient].
È diverso dallo stakeholder [vedi anche] (anche se spesso lo è anche) che invece è
soggetto consapevole e interessato alla relazione con l'organizzazione.Normalmente lo
stakeholder (che è a sua volta quasi sempre influente) viene ascoltato, con l’impiego di
metodi pull e tendenzialmente simmetrici [v. symmetric], prima della definizione degli
obiettivi.
L'influente invece viene ascoltato dopo la definizione degli obiettivi con metodi push-pull,
retorici e meno simmetrici.
Da una accurata selezione di stakeholder e influenti dipende in larga parte la capacità del
relatore pubblico di ridurre l'inquinamento comunicativo [v. info-communicative overload] e
le risorse economiche
da investire nella comunicazione.
INFO-COMMUNICATIVE OVERLOAD
È il sovraccarico che deriva dal crescente e incontrastato flusso di informazionecomunicazione che viene rilevato nell’ambiente esterno.
Alcuni ricercatori dell’Università di Berkeley registrano ogni anno la quantità di byte inforelazionali che vengono immessi nell’ambiente (How Much Info?): nel 2003 ciascun essere
vivente ha ricevuto/ritrasmesso 800 milioni di byte (sic), con un incremento costante annuo
(dal 2001) del 30%. Fonti importanti anche pratiche di relazioni pubbliche sovente poco
professionali mascherate dall’alibi di ‘insopprimibili’ esigenze dei nostri clienti/datori di
lavoro (ad esempio, il virus da visibilità che li affligge… da quando però noi per primi li
stimoliamo ad apparire, scatenandone - da veri e propri pusher - le loro crisi da astinenza).
Per contrastare questo fenomeno si impone a tutte le organizzazioni, a tutti i relatori
pubblici - e alla loro comunità professionale – di assumere piena consapevolezza di
questo tipo di inquinamento, della sua scarsa efficacia e dei suoi danni certi e,
conseguentemente, adottare pratiche comunicative maggiormente sostenibili e
rendicontabili [v. Communication Social Responsibility].
INFOMERCIAL
È una categoria mista di comunicazione a cavallo fra una
notizia e una pubblicità pagata. In italiano, sono i cosiddetti
publiredazionali.
INSIDER
Da insider trading, la pratica vietata in molti mercati finanziari di
utilizzare informazioni sensibili (‘price sensitive’) riferite ad una società quotata in
borsa per speculare sul titolo. I relatori pubblici, alla pari delle altre funzioni dirigenziali
delle imprese quotate e dei loro consulenti più vicini, sono spesso in condizioni di farlo.
INTERNAL RELATIONS
I sistemi di relazione interni all'organizzazione hanno oggi in
molti casi un peso superiore a quelli esterni. Tradizionalmente
e fino alla metà degli anni Settanta la cosiddetta
‘comunicazione interna’ era dominio incontrastato delle direzioni
del personale.
L'esperienza di alcune imprese italiane (Iri, Italsider, Olivetti, Pirelli) e fino ai
primi anni Settanta, è celebrata come una delle più innovative
e interessanti del mondo intero. Nel contesto sfavorevole di una cultura imprenditoriale
fortemente paternalistica e autoritaria, queste aziende hanno saputo acquisire
quell'autorevolezza e quel consenso (che oggi tutti dichiarano e si sforzano di perseguire),
anticipando con modalità proprie e diverse l'una dall'altra, quella che poi sarà la
‘mitbestimmung’ tedesca o, fra gli economisti, la ‘stakeholder society’.
Negli anni Settanta, esasperati dalla situazione sociale, gli imprenditori (Confindustria e
Fiat in prima linea) hanno colpevolmente lasciato la comunicazione interna, e per
contratto (quello dei metalmeccanici del 76 sulla informazione
dovuta), nelle mani del sindacato riducendo la funzione del direttore del personale a quella
di controllore.Si è dovuto attendere fino alla marcia torinese dei 40 mila dei primi
anni Ottanta, per assistere al rilancio della comunicazione interna con il risultato di
riposizionare la funzione in direzione delle risorse umane, per poi passare in molti casi nel
decennio successivo alla direzione comunicazione.
È una vecchia questione: da chi deve dipendere la comunicazione interna?
Non esiste un soluzione certa e buona per tutte. Se è la direzione risorse umane ad
applicare all'interno dell'organizzazione le politiche aziendali, le spetta governare i
processi di comunicazione servendosi delle competenze comunicative della direzione
competente alla quale, a sua volta, spetta garantire la coerenza e il governo dei processi
relazionali e comunicativi con tutti gli stakeholder [vedi anche] dipendenti inclusi.
INTERNATIONAL RELATIONS
Si discute se le relazioni internazionali siano parte delle
relazioni pubbliche. E in tal caso, se i corpi diplomatici degli
Stati non siano in realtà da sempre anche una espressione professionale
delle relazioni pubbliche (public diplomacy).
Dal punto di vista delle organizzazioni, non v'è dubbio che la globalizzazione [v.
globalisation] abbia
esaltato e reso pervasivo la questione delle relazioni internazionali. Un recente e ottimo
volume (Global PR Handbook di Vercic e Shiramesh del 2003) parte dal
presupposto che nel mondo di oggi sia impossibile esercitare
la professione delle relazioni pubbliche in una ottica
locale. I modelli di relazioni pubbliche internazionali sono
molteplici e in continua evoluzione e tengono conto delle
diversità di cultura organizzativa e di cultura dei diversi Paesi.
[v. anche diversity, glocal, global principles]
INVISIBILE / INTANGIBILE ASSETS
Da diversi anni economisti di impresa sviluppano metodi e
parametri per quantificare e misurare le attività soft delle organizzazioni quali la
reputazione, l'immagine, l'identità e i sistemi di relazione.
ISSUE (Management)
Questione, variabile, fattore, problema.
È la materia grezza di cui si occupano le relazioni pubbliche. Si crea una issue, si
risponde a una issue, ci si confronta con una issue, ci si sforza
di orientare, governare, gestire una issue.
Alla fine degli anni Settanta in alcune multinazionali come Ibm e Philip Morris, e poi
negli anni Ottanta con modalità pervasive da società di
consulenza beniamine della comunità manageriale internazionale come
Intermatrix o Burson Marsteller, si diffuse l'issue management
inteso come orientamento dell'organizzazione al governo delle
issue… Un po’ come oggi inizia a succedere con lo Stakeholder
Relationship Management [vedi anche]. Nel Gorel [vedi anche] l'issue management
è integrato nella fase di analisi delle variabili (interne/esterne)
che influenzano il raggiungimento degli obiettivi
dell'organizzazione, mentre lo Stakeholder Relationship
Management è compreso nella fase (precedente) di ascolto
delle aspettative degli stakeholder prima della definizione degli
obiettivi e si sviluppa tramite l’integrazione verticale dei diversi sistemi di relazione con i
vari segmenti di pubblici influenti.
JUNK MAIL
È la posta spazzatura, quella che noi relatori pubblici
diffondiamo a piene mani quando non stiamo attenti alla
individuazione preventiva degli interlocutori rilevanti.
JUNKET O JUNK TRIP
Il termine junk sta per ‘spazzatura’, ‘robaccia’, ‘schifezza’,
‘ferrovecchio’. In relazioni pubbliche un ‘junket’ oppure un
‘junk trip’ indica quel viaggio di gruppo che si offrono a giornalisti o altri
segmenti di opinion leader [vedi anche] in luoghi
esotici o comunque attraenti per presentare un prodotto, un
servizio o un'idea che potrebbero benissimo essere presentati
in luoghi meno ameni e costosi.
L’obiettivo del junket è di ‘catturare’ quei giornalisti o opinion leader
per qualche giorno e fargli un bel lavaggio del cervello passando insieme a loro
ore serene e allegre - alimentate normalmente da consumi e
divertimenti insoliti e di lusso - per sviluppare o rafforzare relazioni personali.
Il termine junk è però spregiativo e viene usato
da quei giornalisti, sempre più numerosi, che rifiutano di
partecipare a queste ‘scampagnate’.
JUST-IN-TIME
Il riferimento è al noto sistema produttivo
introdotto dai giapponesi alla fine degli anni Ottanta, oggi assai
applicato anche in Europa e nelle Americhe. In relazioni
pubbliche il riferimento è ironico, paradossale e concerne la
classica reazione pavloviana per cui molti relatori pubblici,
qualsiasi sia la natura della questione affrontata, reagiscono
sempre allo stesso modo: facciamo una conferenza stampa [v. news conference]
oppure facciamo un evento [v. event], o infine, facciamo una conferenza
stampa che si trasformi anche in un evento.
KEY PERFORMANCE INDICATOR (KPI)
Nella più ampia tematica della valutazione e della misurazione
delle relazioni pubbliche [v. evaluation, measurement], per KPI si intendono gli indicatori
prescelti prima dell’avvio di un progetto che saranno poi
adottati per misurarne l’efficacia o l’efficienza.
KEYNOTE
È l’intervento chiave, centrale di un convegno o un
congresso. Il keynoter è una personalità specializzatasi nel fare
interventi keynote. Il ‘ghost keynoter’ è chi si scrive i discorsi dei
keynoter [v. ghost writer].
LABOUR INTENSIVE
Le relazioni pubbliche, a differenza della pubblicità, sono una
attività ad alta intensità di lavoro e a (relativamente) bassa intensità di capitale [v. capital
intensive].
L'implicazione è rilevante quando ci si accinge a valutare l'indotto economico
delle due attività.
Mentre infatti ha senso misurare l'indotto della pubblicità
sommando gli investimenti delle organizzazioni sui diversi
media (vedi il Sic - sistema integrato della comunicazione introdotto dal Parlamento con la recente legge Gasparri,
oppure l'annuale ricerca Upa/Intermatrix sugli investimenti in
pubblicità), non ha invece senso alcuno utilizzare quegli stessi indicatori per
le relazioni pubbliche le quali, come è noto, non acquistano
spazi o tempi sui diversi media.
Così, per valutare le relazioni pubbliche ha molto più senso censire il numero degli
operatori, attribuire loro un costo lordo medio per l'organizzazione nella
quale o per la quale lavorano, moltiplicare per tre questa
somma in virtù di una sia pur modesta ma indispensabile
produttività e si ottiene l'indotto complessivo.
Così in Italia, nel 2001 erano 70 mila (di cui 40 mila nelle amministrazioni pubbliche), i
relatori pubblici con un costo lordo annuo
medio di 50 mila euro. Moltiplicando questa cifra per tre nel presupposto che la produttività
di un quadro stia nella sua capacità minima di produrre costi esterni almeno tripli rispetto
al proprio, si
arriva a superare i 10 miliardi di euro l'anno.
LABOR RELATIONS
Relazioni con il sindacato dei lavoratori. Normalmente sono
delegate alla direzione risorse umane (o personale), ma in
situazioni di emergenza o in casi di negoziati particolarmente
rilevanti si rende necessario anche l'intervento del relatore
pubblico, quasi sempre per questioni attinenti i rapporti con la
stampa, ma talvolta anche per i rapporti diretti con il sindacato
oppure con altri soggetti istituzionali ritenuti rilevanti per
il raggiungimento dell'obiettivo perseguito.
LATERAL THINKING
È il cosiddetto pensiero laterale, la capacità di affrontare
creativamente più questioni diverse fra loro in contemporanea e anche di
trovare collegamenti fra loro.
Essenziale per chi fa relazioni pubbliche, soprattutto (ma non solo) se lavora in
consulenza.
[v. anche brainstorming]
LEAFLET
È il classico depliant (peraltro termine di origine francese), una
rappresentazione stampata, non minima come un volantino né
massima come una brochure (altro termine francese), in cui
viene presentato un prodotto, un servizio, una idea o una organizzazione.
Il leaflet va in distribuzione ai pubblici influenti oppure anche ai destinatari finali [v. end
recipient].
LEAK
Letteralmente… una ‘perdita’ di acqua o di benzina o altro
liquido da un contenitore apposito. Figurativamente e in relazioni pubbliche, la
fuoriuscita di notizie, di informazioni o di dati riservati malgrado le intenzioni (talvolta
soltanto a quelle ufficiali ) dell’organizzazione.
Il compito viene solitamente affidato al relatore pubblico al quale
si chiede di 'spifferare’ l’informazione riservata assicurandosi
che non venga rivelata la fonte. È una prassi assai diffusa ma
esplicitamente condannata da tutti i codici etici della
professione, poiché il relatore pubblico è sempre obbligato a citare la
fonte delle informazioni che trasferisce.
LEARNING CURVE
La curva di apprendimento. In relazioni pubbliche più che una
curva, di questi tempi, è una linea sempre in salita poiché la
professione cambia con la velocità della luce e quei
professionisti che non dedicano una parte consistente del loro
tempo all’aggiornamento permanente, vengono inevitabilmente
tagliati fuori dal mercato.
LEGAL PUBLIC RELATIONS
Da molti anni in Usa e da una decina di anni in Italia è quella
specializzazione del relatore pubblico che svolge la sua attività per conto
degli studi legali o di loro clienti.
LEGITIMACY
Legittimazione sociale di una organizzazione [v. license to operate].
La legittimità sociale di qualsiasi tipo di organizzazione (privata, pubblica, sociale) dipende
dalla capacità di soddisfare le aspettative dei suoi pubblici influenti dando luogo a processi
inclusivi nella fase di definizione degli obiettivi.
Sul concetto di legittimazione ha scritto
parecchie cose interessanti la studiosa Susanne Holstrom nell'ambito della sua
teorizzazione del modello riflettivo [v.reflective role] delle relazioni pubbliche.
LIABILITY
Obbligo di responsabilità. Si usa anche per indicare il livello di
rischio rispetto ad una determinata questione.
LIAISE
Dal francese ‘liaison’, legame, relazione, rapporto. To
liaise… Legare o relazionarsi con…
LIBEL
Diffamazione, causa per….
LICENSE TO OPERATE
Licenza di operare: un modo di dire per rappresentare il desiderio
di una qualsiasi organizzazione a godere di una legittimità sociale [v. legitimacy]. In effetti
è una licenza
che non viene concessa da una normativa o da una camera di
commercio, ma dai pubblici influenti consapevoli [v. stakeholder], sui quali le attività di
quella organizzazione produce conseguenze.
È una vera e propria legittimazione sociale dell'organizzazione, molto importante
soprattutto quando scoppia una crisi e i pubblici influenti, se la licenza ad operare
è stata ‘concessa’, fanno quadrato e sostengono l'organizzazione o comunque tendono ad
essere indulgenti.
LINE EXTENSION
Un nuovo prodotto o servizio che estende una linea esistente
di prodotti o servizi.
LIST BROKER
Un fornitore di servizio che propone al relatore pubblico liste di
nominativi di persone con le quali avviare relazioni rilevanti.
LITIGATION PUBLIC RELATIONS
Da molti anni in Usa, e da una decina di anni in Italia, è quella attività specialistica di un
relatore pubblico che, in stretta collaborazione con i legali e talvolta anche coordinandone
le attività, assiste il datore di
lavoro/cliente nel tutelarne la reputazione presso il cosiddetto tribunale dell’opinione
pubblica.
[v. anche legal public relations]
LOBBY (Lobbying)
È l'attività pubblica e trasparente [v. transparency] di chi opera per influire sugli esiti di un
Processo Decisionale Pubblico (PDP, in inglese PPP: Public Policy Process).
Il termine deriva da corridoio o anticamera, ove staziona chi non ha diritto ad entrare nei
luoghi della decisione pubblica e per rappresentare le proprie argomentazioni ferma i
decisori che vi si recano.
In alcun Paesi (Stati Uniti, 1946 con il Lobbying Act) l'attività dei lobbisti è regolata fin dal
secondo dopoguerra: sostanzialmente il professionista ha obbligo di registrarsi in un
elenco accessibile al pubblico in cui indica gli interessi che rappresenta e di consegnare
periodicamente alla istituzione presso la quale è registrato una relazione in cui illustra
l'attività svolta e le spese sostenute.
In Italia, la regione Toscana ha regolato le attività dei gruppi di interesse e la regione
Calabria discute una analoga proposta legislativa.
In Inghilterra l’obbligo di trasparenza spetta non ai lobbisti ma ai “lobati”. E’ il parlamentare
della Camera dei Comuni, il Lord della Camera Alta o il Consigliere Comunale che ha
l’obbligo di registrare una dichiarazione ad una apposita commissione ogni volta che
viene coinvolto da un lobbista in una iniziativa tesa a influenzare il processo decisionale
pubblico.
Da non confondere con le attività più generali di Public Affairs [vedi anche] di una
organizzazione di cui la lobby è soltanto parte.
LOCATION
E’ il luogo, accuratamente selezionato dal relatore pubblico, ove si svolge un evento [v.
event].
[v. anche venue]
LOW KEY / PROFILE
Una campagna o una iniziativa low key o low profile è di basso profilo, di tono moderato.
Quando l'obiettivo perseguito non è tanto la visibilità, quanto l'efficacia [v. effective] della
relazione.
MAILING LIST
Termine usato anche in Italiano (anche solo come mailing) per indicare un
elenco di persone da invitare ad un evento [v. event] o di giornalisti cui
inviare una informazione. Impropriamente viene considerato come uno dei maggiori valori
patrimoniali di un professionista delle relazioni pubbliche. Impropriamente poiché oggi la
mailing list è una vera e propria commodity (un bene di uso comune privo di valore
rilevante). Il valore patrimoniale sta semmai nei sistemi di relazione che il professionista è
in grado di trasferire alla causa del suo cliente/datore di lavoro.
MANAGEMENT
Gruppo dirigente di una organizzazione. Top management è il vertice. Dominant coalition
è il termine usato dalla scuola sistemica [v. systemic school] per indicare il
gruppo di potere reale di una organizzazione che non coincide
necessariamente, in una determinata situazione o in uno
specifico momento, con il vertice formale.
MANAGERIAL ROLE
È il relatore pubblico che sviluppa i programmi già definiti, gestisce le risorse tecnico
operative e mantiene le relazioni con i pubblici influenti al fine di guadagnarne la
comprensione reciproca. È il ruolo dalle competenze gestionali che, oltre a possedere
quelle tecniche accennate in precedenza, prevede una buona capacità di coordinamento
delle risorse a disposizione.
[v. anche Bled manifesto]
MARKETING
Disciplina manageriale, tipica delle organizzazioni che operano
sul mercato, con la quale si pianificano e si sviluppano le attività
di sviluppo, di promozione, di distribuzione e di commercializzazione di un prodotto o
servizio.
Tradizionalmente adottata dalle imprese e in particolare quelle
di largo consumo, oggi si va diffondendo anche nelle imprese
industriali e nelle organizzazioni pubbliche e sociali.
MARKETING COMMUNICATION
È una delle componenti (leva) fondamentali del marketing. Non si
può sviluppare, progettare, distribuire e vendere un prodotto o servizio se il cliente
potenziale non sa che esiste. La competizione per
l'occupazione degli spazi sui media [vedi anche] e per attirare e mantenere l'attenzione del
cliente
potenziale è la finalità del marketing communication.
Attenzione: nella lingua inglese communication senza la s,
anche al plurale, indica la comunicazione come la intendiamo
noi, mentre con la s, anche al singolare, indica la
comunicazione come la intendono gli operatori delle
telecomunicazioni.
MARKETING PUBLIC RELATIONS
È la specializzazione delle relazioni pubbliche quando operano
a supporto del marketing. Fin dagli anni Sessanta nel mondo
anglosassone, il ‘Marketing PR’ rappresenta la parte preponderante della
professione in termini sia di investimenti che di persone
impegnate. In Italia questo è forse vero oggi, ma non lo è stato
per tanti anni. Infatti le attività di marketing public relations
(con la sola eccezione della product publicity -intesa come
informazione di prodotto- che viene da sempre attribuita alle relazioni
pubbliche) sono da noi in larga parte realizzate dalle
società di promozione e questo è dovuto al fatto che quando la
comunicazione di marketing ha cominciato a diffondersi in Italia
(nei primi anni ottanta) i relatori pubblici erano troppo impegnati
in attività di public affairs [vedi anche] per interessarsi di marketing.
MARKETING TERRITORIALE
Molto di moda in questi ultimi anni in Italia con uno sviluppo direttamente proporzionale
alla caduta libera degli investimenti. Mentre in altri Paesi come l’Irlanda, il Galles, la
Francia, la Spagna e il Portogallo, per non parlare degli Stati Uniti si sono avviate intense
e consapevoli attività di marketing territoriale fin dalla fine degli settanta prevedendo in
anticipo la feroce competizione che si sarebbe scatenata nei Paesi occidentali per
mantenere nel proprio territorio gli investimenti delle imprese, nel nostro Paese queste
attività si sono avviate con modalità sistematiche soltanto a partire dal 2000. Si tratta
prevalentemente di progetti integrati di sviluppo e comunicazione per attirare su un
determinato territorio gli investimenti di imprese. Gli argomenti di attrazione si sono
progressivamente spostati dalla messa in opera di infrastrutture pesanti e di incentivi
economici allettanti alla predisposizione di condizioni di vita competitive. Il riferimento è
soprattutto alle tre ‘T’ del consulente americano Richard Florida: Tecnologie (della
comunicazione), Talenti (università e sistema educativo complessivo), Tolleranza
(esaltazione della diversità come elemento di attrazione). Le relazioni pubbliche sono
molto impegnate in queste attività anche e soprattutto perché solitamente gli investimenti
in marketing territoriale vengono erogati da soggetti misti pubblico/privato (comuni, camere
di commercio, associazioni industriali…) sovente messi insieme e coordinati da relatori
pubblici.
MASS
In comunicazione (nel senso di comunicazione di massa) è un concetto molto cambiato in
questi anni. C’è perfino chi dubita che possa ancora venire utilmente adoperato. I
mutamenti - rispetto a 30/40 anni fa nel mondo
anglosassone, a 30/20 anni fa in Italia - sono soprattutto indotti
dalla crescente segmentazione e clusterizzazione [v. cluster] degli stili di
vita del pubblico e dei suoi diversi media [vedi anche](incluse perfino le televisioni
generaliste,
grazie ad un sapiente utilizzo delle fasce orarie), fino ad arrivare, con Internet, ad un
medium individuale, contrapponibile a quelli di massa (anche se
alcuni sostengono che anche Internet sia un mass medium…).
In relazioni pubbliche, ora che le tecnologie e lo sviluppo delle conoscenze consentono
una sempre più precisa identificazione dei singoli interlocutori importanti per il
raggiungimento degli obiettivi perseguiti da una organizzazione, è in atto la tendenza a
passare dal tradizionale concetto di target o di massa, connaturati ad una comunicazione
tipicamente a, unidirezionale e erga omnes, al concetto di influenti [v. influential,
influencer], stakeholder [vedi anche] o leader di opinioni [v. opinion leader], più consoni ad
una comunicazione verso, maggiormente bidirezionale e tendenzialmente simmetrica [v.
symmetric], fino ad arrivare al concetto di persona, tipico invece di una comunicazione
con, del tutto bidirezionale e simmetrica, a testimonianza del rilievo che la diversità [v.
diversity], basata sul principio che ogni persona è diversa da un’altra, ha per una
concezione contemporanea e piena del valore delle relazioni pubbliche per una
organizzazione.
MEASUREMENT
Da qualche tempo è l’Araba Fenice delle relazioni pubbliche: tutti ne parlano ma nessuno
sa dov’è (o cos’è).
Storicamente restii per motivazioni etiche (all'inizio le
relazioni pubbliche erano solo media relations [vedi anche] e lobby [vedi anche], quindi
se posso impegnarmi a fare uscire un articolo oppure a fare
approvare un emendamento, eventi non controllabili, vuol dire
che mi sono impegnato a pagare per avere l'uno e/o l'altro), poi
per pigrizia e per prendere le distanze dai cugini pubblicitari.
Oggi - con il continuo aumento degli investimenti in relazioni
pubbliche - i professionisti subiscono pressioni crescenti
perché l'efficacia [v. effective] delle loro attività siano misurate alla stregua
di qualsiasi altra attività manageriale.
I presupposti della questione sono:
°non puoi gestire quel che non sai misurare e non puoi misurare quel che non sai definire,
così nel 1994 Norton e Kaplan nel loro Balanced Scorecard (Harvard Business Press). Se
allora le relazioni pubbliche sono parte del management di una organizzazione va da sé
che devono essere misurabili;
°ogni forma di misurazione è possibile soltanto se i criteri sono definiti in partenza [v. key
performance indicator]. L’implicazione è che l’organizzazione deve, prima di avviare una
azione di relazioni pubbliche, definire con chiarezza gli obiettivi perseguiti e i criteri che
adotterà per misurarne il raggiungimento. In assenza di questo, non sarà possibile
misurare alcunché;
°la misurazione è una cosa e la valutazione è un’altra [v. evaluation]. Misurare vuol dire
attribuire dei valori quantitativi alle relazioni pubbliche: parliamo di output [vedi anche] e, in
parte, di outtake [vedi anche] (per esempio gli spazi effettivamente conquistati da
un comunicato o da una conferenza stampa, oppure -se si
tratta di un evento- il numero di partecipanti a un evento, a
prescindere se quella notizia o quell'evento potranno effettivamente
modificare le opinioni, i comportamenti o le decisioni dei lettori
o dei partecipanti). Si tratta di un processo di natura oggettiva, in quanto non implica
interpretazioni personali o inferenze di nessun tipo. Valutare implica invece attribuire valori
qualitativi, introducendo interpretazioni maggiormente soggettive: parliamo dunque di
outcome [vedi anche] e di outgrowth [vedi anche] (valutare cioè se quella determinata
iniziativa ha contribuito a modificare le opinioni, i comportamenti o le decisioni dei lettori o
dei partecipanti e se, e quanto, ha contribuito a rafforzare la relazione con loro).
MEDIA
È innanzitutto importante sottolineare che il termine deriva dal
latino e quindi va pronunciato media e non ‘midia’. Al singolare si dice dunque medium. Un
errore
che facciamo in tanti e che segnala una eccessiva e inconsapevole dipendenza
dalla lingua inglese (da qui l’idea di questo dizionario). Il medium è un canale (fisico come
un
giornale, etereo come una frequenza televisiva, virtuale come
uno scambio di bit) che unisce l'emittente al ricevente e, nei
casi di interattività, anche viceversa.
MEDIA ACCESS
Si intende il livello di accesso (basso, medio, alto; oppure
cattivo, mediocre, ottimo) che un individuo, un'organizzazione
o una popolazione hanno al sistema dei media (inteso come
insieme dei media in un determinato Paese).
[v. anche media]
MEDIA BLITZ
Una elevata concentrazione di uso dei media [vedi anche] da parte di una
organizzazione o di un individuo per trasferire un messaggio in
un breve periodo.
MEDIA COVERAGE
La 'copertura’che il sistema dei media [vedi anche] concede a una notizia,
una questione, una iniziativa.
MEDIA LIST
Ha lo stesso significato di mailing list, solo che si riferisce
esclusivamente ai media [v. media, media relations] e ai loro giornalisti.
MEDIA RELATIONS
La funzione delle relazioni con i media [vedi anche]. In Italia si usa più
frequentemente, ma impropriamente, relazioni con la stampa o
addirittura ufficio stampa. Quest'ultimo è errato poiché dire
ufficio stampa implica una quasi passività/neutralità della
funzione, quando invece il suo compito prevalente è di creare,
sviluppare e consolidare relazioni con i giornalisti per conto
di un ben specifico interesse; mentre relazioni con la stampa
(letteralmente) è in effetti esclusivo di radio, televisione e
internet.
MERCHANDISING
L'insieme di iniziative, strumenti e canali below the line [vedi anche] utilizzati
da una organizzazione per supportare la vendita di un
determinato prodotto/servizio.
MESSAGE
Significa il senso generale e il contenuto specifico di una
parte del processo comunicativo.Il senso generale si
determina quando, ad esempio nelle diverse sequenze del
gorel [vedi anche], il messaggio - pur attentamente costruito in base a quello
che l'emittente vorrebbe fosse nella testa del ricevente - assume
il significato di un riferimento, di un contesto comune [v. familiarity],
cui attingono le varie funzioni dell'organizzazione che poi lo
declinano come meglio ritengono e attraverso tutti i canali
disponibili. Il contenuto specifico è quando il messaggio
viene trasferito esattamente come è stato costruito (ad
esempio nella pubblicità, ove l'emittente, acquistando lo spazio,
controlla il contenuto testuale del messaggio).
METOOISM (“me-tooism”)
È la sindrome del ‘vengo anch'io’, dell'imitazione.
Quando un fenomeno, una espressione, una tendenza si diffondono
rapidamente per cui un gran numero di persone (o anche di
organizzazioni), pur se prive di consapevolezza specifica,
fanno la stessa cosa o compiono le stesse scelte. Per esempio,
è successo recentemente in Italia con la responsabilità sociale
delle imprese. Succede anche quando qualche leader di
opinione [v. opinion leader] esprime una opinione che, solo perché espressa da
lui/lei, viene di per sé condivisa indipendentemente o quasi dai contenuti.
MISSION
Sta per ‘missione’ e in gergo organizzativo è la prima fase del
cosiddetto processo di envisioning [vedi anche] organizzativo che
comprende, oltre alla missione, anche la visione [v. vision], i valori guida [v. guiding
principles]
e, in qualche occasione, la strategia [v. strategy].
La missione di una organizzazione si riferisce al suo presente: cosa
è, cosa fa.
[v. anche gorel]
MONITORING
Osservazione consapevole e costante di una variabile [v. issue] le
cui dinamiche accelerano o ritardano il raggiungimento di un
obiettivo perseguito. Oppure, osservazione continua di attività
legislative su questioni di interesse [v. lobby, public affairs] o dei comportamenti
editoriali e redazionali dei media [v. media, media relations].
MUCKRACKER
Così furono definiti quei giornalisti progressisti a cavallo fra il
19esimo e il 20esimo secolo che provocarono la nascita dei
professionisti delle relazioni pubbliche [v. anche Grunig].
‘Muck’ sta per immondizia, sterco e ‘racker’ per raccoglitore:
quindi (mestatore) grattatore, raccoglitore di immondizie.
I grandi capitalisti e banchieri americani di quel tempo si trovarono inaspettatamente sotto
il tiro di continue inchieste giornalistiche definite muckracker che
denunciavano le nefandezze nella conduzione dei loro affari
(da qui si forma lo stereotipo del giornalismo investigativo
anglosassone). Preoccupati che gli attacchi
creassero difficoltà alle ulteriori concessioni federali di fondi per
completare le grandi infrastrutture che stavano costruendo
(telecomunicazioni, ferrovie, strade, elettricità) i capitalisti e
banchieri assoldarono giornalisti perché passassero dall’altra
parte per difenderli. Nascono nel 1900 a Boston la Publicity
Bureau, prima agenzia di relazioni pubbliche e nel 1904 a
Washington, la William Wolff , prima agenzia di lobby [vedi anche] creata da
un ex avvocato
MULTINATIONAL
Termine che indica una impresa che opera in più Paesi.
In effetti vi sono diversi modi per definirla:
-International (sede centrale e decisionale nel
Paese di origine con terminali all’estero prevalentemente
distributivi e commerciali)
-Transnational (sede centrale e decisionale nel Paese di origine con attività
anche produttive in un numero limitato di Paesi normalmente confinanti o vicini)
-Multinational (sede centrale nel Paese di origine ma con processi decisionali assai
decentrati e attività produttive e commerciali in molti Paesi e in diversi continenti)
-Global (sede centrale nel Paese di origine, con processi decisionali più accentrati che
nelle multinazionali, con sedi produttive quasi sempre delocalizzate in Paesi a minore
costo di mano d’opera e politiche commerciali interamente focalizzate sull’affermazione
di marche globali).
NEGOTIATIVE
Per alcuni l'approccio negoziale alle relazioni pubbliche è
alternativo a quello persuasivo e sostanzialmente si
ispira al quarto modello di Grunig [vedi anche]. Per altri invece
non è un approccio alternativo ma complementare e si applica
soprattutto alle relazioni con gli stakeholder [vedi anche], intesi come
soggetti consapevoli e interessati ad una relazione con
l'organizzazione che ne ascolta le aspettative prima di
decidere gli obiettivi specifici da perseguire. Secondo questa
interpretazione [v. anche stakeholder relationship management] l'approccio persuasivo
alla Bernays [v. Grunig] si
applica invece agli altri pubblici influenti (stakeholder potenziali,
influenti sulle variabili e/o sui destinatari [v. influential, influencer, opinion leader], oppure
agli stessi
destinatari [v. end recipient]) che non hanno necessariamente né
consapevolezza né interesse alla relazione con
l'organizzazione, ma ai quali quest’ultima attribuisce il potere di
ritardare o accelerare il raggiungimento dei suoi specifici
obiettivi.
Nell'approccio negoziale la relazione è pull,
diretta, interattiva, tendenzialmente simmetrica [v. symmetric] e labour intensive [vedi
anche] ma non capital
intensive [vedi anche]. Nell'approccio persuasivo la relazione è invece
pull-push, meno interattiva, meno simmetrica e maggiormente
capital intensive.
NETWORK ANALYSIS
È lo studio dei reticoli sociali inteso come analisi sistematica delle reti di relazioni informali
e delle conseguenti mappe di flussi comunicativi. La metodologia della network analysis
ereditando e ampliando le intuizioni della sociometria di Jakob Moreno e Kurt Lewin e
della scuola di Harvard di Elton Mayo, costituisce oggi un approccio pienamente maturo
nel panorama delle scienze sociali, grazie alla sua capacità di operare una sintesi tra
aspetti qualitativi e quantitativi, individuali e strutturali delle relazioni che si stabiliscono tra
individui e gruppi di individui.
È una tecnica di indagine basata su un questionario strutturato
rivolto a un campione rappresentativo di un pubblico influente
per rilevare nodi, flussi, contenuti e frequenza della rete
relazionale, per scovarne interruzioni e disfunzioni insieme alle
cause che le originano.Gli intervistati segnalano le
intensità relazionali con i diversi interlocutori su una lista di
item. Con l'impiego di tecniche statistiche computerizzate viene
ricostruita la rete dei flussi relazionali e i ruoli di ciascuno,
evidenziando con appositi grafici punti di forza e debolezza. I
risultati vengono utilizzati per progettare interventi migliorativi.
NETWORKING
La traduzione italiana più vicina a networking è ‘fare rete’, ‘fare
sistema’. Una organizzazione fa sistema quando si
relaziona con altre organizzazioni con modalità co-ompetitive [v. co-ompetion], sinergiche
e complementari
al fine di perseguire in comune specifici obiettivi condivisi.
NEWS AGENCY / WIRE SERVICE
‘Wire service’ sta per agenzia di stampa e oggi anche per ‘news
agency’. All'inizio del ventesimo secolo invece si definiva news
o press agency una attività di ufficio stampa, tanto che il primo
modello di Grunig [vedi anche] a la P.T. Barnum, si chiama
‘press agentry'.
NEWS CONFERENCE / PRESS CONFERENCE / MEDIA CONFERENCE
Conferenza stampa. Fino agli anni ottanta nella vita di una
organizzazione era un evento raro che vedeva i suoi vertici
incontrare i giornalisti [v. media relations] per esporsi alle loro domande, e si
giustificava soltanto in presenza di avvenimenti e notizie
ritenute così rilevanti per l'opinione pubblica [v. public opinion] da richiedere un
annuncio pubblico simultaneo con i vertici disponibili a
rispondere alle domande in diretta e di persona.
La preparazione richiedeva giorni e giorni.
Oggi le conferenze stampa sono routine, al punto che
una notizia non è una notizia se non comunicata in conferenze
stampa del tutto inutili alle quali peraltro partecipano
prevalentemente giornalisti free lance [vedi anche] e di service in
rappresentanza di testate con perenni problemi di organico.
Le domande non ci sono quasi più: si arriva, si prende la cartella
stampa e si scappa alla prossima.
NEWS RELEASE / PRESS RELEASE
Comunicato stampa redatto da una organizzazione e distribuito
simultaneamente per la pubblicazione ai giornalisti interessati.
Normalmente non supera le 20 righe di testo (1500 battute)
anche se può essere corredato da appendici, note aggiuntive,
immagini grafiche e fotografiche. Titolo e sommario sono
in genere orientati ad attirare l'attenzione del singolo
giornalista, e quindi possono variare, ma il corpo del testo è
ufficiale e uguale per tutti i destinatari e risponde alle cinque ‘W’ [v. Five P's and W's] :
who (chi), when (quando), what (cosa), where (dove), why
(perché) e, dove possibile, con l’aggiunta della ‘H’ (how).
Ogni comunicato (compresi i fogli aggiuntivi, le
tabelle,le didascalie dei grafici e delle foto) deve contenere
data di rilascio, indicazione inequivocabile della fonte e nome,
indirizzo, telefono, e-mail di chi è in grado di fornire
informazioni più approfondite.
[v. anche media relations]
NEWSLETTER
Lettera di notizie. Non esiste espressione italiana se non,
impropriamente, quella di ‘agenzia’ o, meglio, di ‘notiziario’. È
uno strumento normalmente periodico di comunicazione (quotidiano,
settimanale, mensile) con veste grafica dimessa, da consumo
veloce, indirizzato ad un pubblico di esperti, appassionati o
addetti ai lavori di una qualsiasi tematica. Qualche volta è a
pagamento, sovente gratuita e esplicitamente redatta a cura di
qualche organizzazione. Può essere anche una e-letter, cioè
veicolata via Internet, list server a/o posta elettronica.
NEWSWORTHY (-iness)
Con orrendo neologismo: notiziabilità di una informazione.
Una informazione è newsworthy (notiziabile) quando si ritiene possa interessare ai
media [v. media relations].
NICHE
Dalla lingua francese, indica nicchia e viene usato così anche
in inglese.
NIMBY
‘Not in my back yard’ (non vicino a casa mia, non nel mio
giardino…). Espressione che indica la più classica delle
reazioni di un gruppo di persone o di organizzazioni quando,
pur riconoscendo necessario un intervento pubblico che
modifica consolidati ma non più sostenibili comportamenti,
difendono il diritto di non accettare quell'intervento nel loro
territorio. Banalizzando il concetto potrebbe essere considerato una forma di ‘ecologismo
da pianerottolo’.
NUMBERS IN PR
Tema controverso, sia per quanto attiene al numero di relatori
pubblici effettivamente operativi sul mercato, sia per quanto
attiene al valore economico delle relazioni pubbliche che
della professione [v. capital intensive, labour intensive].
Rispetto al numero degli operatori, una interpretazione estensiva (relazioni pubbliche
come attività delle organizzazioni per sviluppare
consapevolmente sistemi di relazione con i loro pubblici
influenti) porta a valutarli in 3 milioni nel mondo, 400 mila nella
vecchia Europa e 70 mila in Italia (dati 2003).
Una interpretazione ristretta (relazioni pubbliche come apporto
strategico e non operativo alle organizzazioni per il governo
delle relazioni con i pubblici influenti) riduce verosimilmente
questi numeri a 1 milione nel mondo, 150 mila nella vecchia
Europa e 30 mila in Italia.
Rispetto al valore economico delle relazioni pubbliche la questione è di forte
attualità da quando le organizzazioni, investendo somme
crescenti, chiedono agli operatori una maggiore attenzione alla
rendicontazione [v. accountability] e alla valutazione/misurazione [v. evaluation,
measurement] dell'efficacia
delle loro attività.
Rispetto infine al valore economico della professione, la controversia riguarda se la
professione sia da valutare come capital o labour intensive.
Nel primo caso, ad esempio in Italia, nel 2003 l'indotto è valutabile
in 3,5 - 4 miliardi di euro.
Nel secondo caso in 10,5 - 12 miliardi di euro.
Se capital intensive, si chiede ad un campione di organizzazioni quanto investono in
relazioni pubbliche senza contare i costi lordi delle persone ma soltanto
gli investimenti esterni, e si applica il risultato all'universo delle organizzazioni.
Se labour intensive, si censisce il numero presunto degli operatori, si calcola un costo
medio lordo annuo del singolo operatore per l'organizzazione, si moltiplica quel costo per
tre come indicatore minimo di produttività e si tirano le somme.
OP-ED (Opinion Editorial)
Con questo termine si intende un testo scritto da un non
giornalista, solitamente il rappresentante di un interesse, una azienda
o un gruppo di pressione, che il giornale pubblica (nella
pagina degli editoriali e/o dei commenti) perché il suo direttore ritiene sufficientemente
interessante. Non è un publi-redazionale [v. infomercial] né comporta da parte dell'autore
o dell'interesse che lo sostiene una qualsiasi contropartita monetaria [v. advertorial].
In relazioni pubbliche, è uno strumento applicato soprattutto quando si sviluppa una
campagna di tematizzazione [v. advocacy]. Talvolta gli autori non sono neppure
direttamente
rappresentanti dell'azienda o del gruppo di interesse che lancia
il tema, ma persone note e stimate per altre ragioni che
esprimono una loro opinione sul tema [v. opinion leader], non troppo
discordante da quella sostenuta dall'azienda o dal gruppo di
interesse che gli chiede l’articolo e che poi si
preoccupa di trovare il giornale disponibile a pubblicarlo.
Alternativamente, prima si concorda l’uscita con il giornale
purché l'articolo sia di una firma ritenuta appetibile dal
direttore, poi si contattano le firme prescelte e si chiede loro se
hanno interesse a fare uscire un editoriale a loro firma su una
determinata testata.
Naturalmente sarà necessario per il relatore pubblico far pervenire a chi accetta, un
dossier di informazioni cui ispirarsi e magari anche qualche pezzo
parzialmente confezionato per risparmiare fatica al testimone
evitando così anche sempre possibili brutte figure nei
contenuti...
OPERATIONAL ROLE
È il relatore pubblico che si occupa della ‘messa in opera’ delle azioni di rp. Questo profilo
è legato all’esecuzione dei programmi di comunicazione sviluppati da altri. È, in altre
parole, il tecnico che si occupa dell’ascolto, della progettazione, della formulazione e del
trasferimento dei messaggi, della misurazione del loro impatto.
[v. Bled manifesto]
OPINION LEADER
I leader di opinione sono soggetti cui l'organizzazione riconosce la capacità di orientare [v.
influential, influencer] opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni dei destinatari
finali [v. end recipient] dell'organizzazioni (normalmente i consumatori o gli utenti o gli
elettori o i clienti..). Con questi leader di opinione l'organizzazione si relaziona dopo avere
definito gli obiettivi, selezionato le variabili prioritarie e definito i messaggi [v. message]
chiave destinati ad attirare la loro attenzione per stimolarli (offrendo loro anche opportunità
e canali di diffusione) ad influenzare i destinatari finali nel senso favorevole all'obiettivo
dell'organizzazione.
OPINION POLL
Sondaggio di opinione.
In relazioni pubbliche lo strumento è utilizzato da decenni,
anche se i non addetti ai lavori non se ne rendono conto.
Molti dei sondaggi di opinione pubblicati dai media [vedi anche] o che
rappresentano pretesti per convegni, tavole rotonde e dibattiti
sono commissionati, e purtroppo non sempre con modalità
trasparenti, da interessi ben precisi che intendono avvalersi dei
risultati del sondaggio per influenzare [v. influential, influencer] le opinioni di altri, quasi
sempre tramite i media.
È ampiamente dimostrato che molti lettori e
telespettatori sono facilmente influenzati dai risultati di un
sondaggio di opinione: ‘se la maggioranza la pensa in un
determinato modo allora vuol dire che deve essere così e
anch'io allora la penso in quel modo…’
Naturalmente pochi sanno che in un sondaggio la
formulazione della domanda può determinare il risultato e che basta
modificarne una parola che cambia il senso del risultato (un esempio: se chiedo quanti
sono favorevoli alla legalizzazione delle droghe trovo una minoranza; se chiedo quanti
sono favorevoli ad una regolazione delle droghe trovo una maggioranza. Ma la domanda è
la stessa…).
Relatori pubblici e, ancora di più, sondaggisti e
ricercatori sono responsabili di non poche manipolazioni assai
discutibili. D'altro canto è anche vero che a
stimolare questo modo approssimativo di fare
comunicazione sono gli stessi media i quali, con modalità
solitamente acritiche e pur di occupare spazio, sono ben felici
di pubblicare articoli preconfezionati con tabelle improbabili e
comunque non trasparenti che si riferiscono a sondaggi di
opinione sulle materie più strampalate e sugli argomenti più
frivoli.In alcuni casi invece il sondaggio di opinione
è davvero utile per sapere come qualche segmento di pubblico
la pensa su una determinata questione, ma si tratta di una
minoranza e normalmente non serve alla pubblicazione..
OUTCOME
All’interno del processo di misurazione e di valutazione [v. evaluation, measurement] è il
cambiamento osservato nelle opinioni, nelle abitudini e nei comportamenti di coloro verso i
quali è stato indirizzato uno sforzo consapevole e programmato di relazioni pubbliche.
OUTGROWTH
È l’ultimo livello di valutazione [v. evaluation] e rappresenta il risultato ultimo che le
relazioni pubbliche si prefiggono. Esistono a tal proposito due filoni di studio che danno
una significazione diversa al concetto di outgrowth:
- c’è chi propende per la prospettiva relazionale e quindi tende a valutare le modifiche
nelle diverse dinamiche relazionali [v. relationship];
- c’è invece chi enfatizza il ruolo delle relazioni pubbliche nel supportare - da qui
l’importanza di una sua valutazione - la reputazione di una organizzazione [v. reputation].
Ben lungi dall’entrare in un discorso teorico, quello che preme sottolineare è l’importanza
della definizione dell’oggetto della valutazione…anche per permettere alle rp di diventare
attività maggiormente rendicontabile [v. accountability].
OUTPUT
È il risultato immediato [v. measurement] di una qualsiasi attività di relazioni pubbliche.
Classici criteri per la misurazione di tali output sono la copertura che i media [v. media
coverage] danno alla notizia oppure all’evento [v. event], oppure il monitoraggio [v.
monitoring] dei contenuti dei materiali pubblicati. In altre parole è una prima ed immediata
misurazione del modo in cui un’organizzazione viene rappresentata esternamente.
OUTTAKE
È la misurazione [v. measurement] del grado in cui il destinatario di un messaggio lo
riceve, gli presta attenzione, lo comprende, lo detiene nella sua mente..ed è in grado di
richiamarlo all’occorrenza.
PEER-to-PEER
Letteralmente pari a pari. Il termine deriva dal linguaggio di
Internet e, in relazioni pubbliche, implica una tendenziale simmetria [v. symmetric]
fra i partecipanti a una relazione.
PEER PRESSURE
E’ quella forma di pressione, talvolta inconsapevole, che un gruppo di persone esercita su
un componente del gruppo affinché adotti comportamenti omogenei e coerenti con quelli
del gruppo. Quando è consapevole è normalmente frutto di una azione di relazioni
pubbliche. Può assumere una connotazione regressiva laddove sia tale il comportamento
invocato dal dissenziente e progressiva quando succede l’inverso.
POSITION PAPER
È un documento redatto dal relatore pubblico che serve a chiarire la posizione di una
organizzazione con riferimento ad una particolare questione [v. issue].
Può essere redatto in maniera autonoma oppure può essere parte integrante di un intero
“pacchetto” informativo più ampio e comprendente anche un documento riepilogativo delle
dinamiche dell’intera questione [v. anche backgrounder, fact sheet].
Talvolta si usa anche il termine quali position statement
POWERPOINT (Syndrome)
È il pane quotidiano di molti - se non quasi tutti - i comunicatori che utilizzano
questo programma, anche quando non serve.
Ormai molti brief [vedi anche] basano la loro efficacia sulla presentazione in
powerpoint dei materiali. Questo (ab)uso di una presentazione standardizzata è
pericolosa: induce a seguire un percorso predefinito, ad annoiare gli interlocutori e
porta i partecipanti al brief a ragionare e comprendere i messaggi esclusivamente in
forma schematico/classificatoria.
È la cosiddetta “sindrome di powerpoint”, un virus poco considerato, ma
abbastanza ben diagnosticato, non solo da brillanti autori satirici, ma anche da
puntuali analisi di efficienza organizzativa e di qualità della comunicazione. C’è chi
lo definisce disinfotainment, tout court. C’è chi afferma anche che il “modello
powerpoint” ha gravemente impoverito la comunicazione interna nelle imprese. E
c’è addirittura chi ne ha disincentivato – per non dire proibito – l’uso interno/esterno.
Un corretto processo di trasferimento dei messaggi [v. message] presuppone
lavoro, attenzione, competenza, prove e verifiche, ricerca dei modi espressivi più
adatti, coerenza rigorosa e attenta fra i concetti.
Si osserva talvolta un presentatore, prigioniero di un formato prestabilito, cadere in
imbarazzo davanti alla più semplice delle domande, perché è addestrato a ripetere
la presentazione realizzata da qualcun altro. O perché, in preda a smania
espositiva/oratoria, perde di vista l’argomento originario, a scapito dell’efficacia del
processo comunicativo.
Lungi dall’invocare sentimenti luddisti, ciò che preme sottolineare è l’importanza di
un’ottimizzazione/razionalizzazione delle presentazioni in powerpoint a vantaggio
dell’intero processo comunicativo.
PRESS AGENTRY
È il primo dei quattro modelli di Grunig [vedi anche].
Press agent è quel professionista che per conto di una organizzazione, un
interesse, una persona, si propone di attirare l'interesse del giornalista [v. media relations]
e lo spazio/tempo del suo medium verso il suo cliente/datore di lavoro.
Il press agent, perlomeno nell'immaginario collettivo, poco si preoccupa che le
informazioni pubblicate siano vere o false, positive, neutrali e
negative.
L'importante è occupare lo spazio per impedire che lo
occupino altri. È un modello asimmetrico [v. asymmetric] che vede la fonte in
posizione dominante e unidirezionale.
PRESS RELEASE
Comunicato stampa [v. news release]
PROACTIVE
Assumere l'iniziativa, essere proattivi: il contrario di reactive,
che sta per essere reattivi.
PROPAGANDA
La parola deriva dal latino ed era utilizzata dalla Chiesa per indicare gli sforzi dei
missionari che cercavano di diffondere idee religiose.
Il termine viene spesso utilizzato – con connotazioni negative- anche in relazioni pubbliche
per definire tutte quelle attività di comunicazione consapevoli, unidirezionali e push rivolte
all’opinione pubblica [v. public opinion] allo scopo unico di diffondere determinate idee e/o
influenzare opinioni, comportamenti ed atteggiamenti. E’ anche il titolo del primo e forse
più bel libro di Edward Bernays, un libro del 1928 da poco ripubblicato in Usa presso
l’editore Ig Publishing.
PROTOCOL PUBLIC RELATIONS
È la declinazione cerimoniale e protocollare delle relazioni pubbliche.
Lungi dall'essere superato, il protocollo assume una sempre
maggiore rilevanza non solo nelle relazioni internazionali [v. international relations], ma
anche nelle normali relazioni quotidiane fra soggetti diversi.
È un aspetto della professione che il relatore pubblico
consapevole non può non ritenere rilevante.
PUBLIC AFFAIRS
È una delle attività tradizionali della professione e consiste nel governo dei sistemi di
relazioni - e nella comunicazione trasparente [v. transparency]– con autorità locali, governi
e parlamenti, comunità internazionali, organizzazioni sociali e culturali, associazioni
d’impresa e sindacali,a associazioni di categoria, gruppi di interesse…
L’obiettivo delle relazioni istituzionali (nella sua traduzione italiana) consiste nell’informare i
legislatori o decisori su specifici problemi ed interessi e coinvolgere su questi anche
l’opinione pubblica.
Tra le varie attività che i public affairs prevedono, quella che occupa una posizione di
maggior rilevanza – tanto da venir solitamente confusa con public affairs – è l’attività di
lobbying [v. lobby].
PUBLIC INFORMATION
È il secondo dei quattro modelli di Grunig [vedi anche] e si riferisce
all'informazione oggettiva, quella dovuta, quella che magari
non dice proprio tutto, ma quel che dice è fondato. Si tratta di
una evoluzione del modello press agentry [vedi anche] che riconosce al giornalista
il diritto di sapere. È un modello meno asimmetrico [v. asymmetric] e più
bidirezionale.
PUBLIC INTEREST
Interesse pubblico. È il grande dilemma etico dei relatori
pubblici. Come ci si deve comportare quando l'interesse che si
rappresenta è in conflitto con un qualche interesse pubblico? Il
protocollo etico della Global Alliance, ultimo in ordine di tempo e il più importante
dei documenti etici delle relazioni pubbliche, è molto chiaro: si
deve privilegiare l'interesse pubblico. Già, ma cosa è l'interesse
pubblico? Il relatore pubblico può rappresentare un
interesse pubblico che è in conflitto con un altro interesse
pubblico, oppure un interesse privato o sociale che può essere coerente
con un certo interesse pubblico e incoerente con un altro?
La questione è tutt'altro che semplice… ma già l'affermare che di
fronte a un conflitto potenziale che si palesa il relatore pubblico
deve privilegiare l'interesse pubblico, per quanto affermazione carica
di ambiguità, lo costringe comunque a trovare e razionalizzare
altri interessi pubblici coerenti con l'interesse rappresentato: e questo non è l'ultimo
dei vantaggi argomentativi, dialettici e retorici che un relatore
pubblico possa desiderare.
In ogni caso e alla fine, il vero interesse pubblico è quello, fra i tanti possibili, che il
decisore pubblico decide di privilegiare quando assume una
decisione. Ed è per questo che è così importante per un
qualsiasi soggetto partecipare attivamente al
processo decisionale pubblico: è l'unica garanzia che si ha che
il decisore pubblico possa prendere in considerazione anche la
nostra posizione. Se non la esprimiamo non possiamo
pretendere che ne tenga conto.
PUBLIC OPINION
Termine coniato nei primi anni venti dal sociologo, giornalista e
opinionista Walter Lippmann per declinare i compiti del
giornalista: interpretare gli avvenimenti tenendo conto delle
aspettative dell'opinione pubblica.
È un concetto, oggi, carico di ambiguità.
Rappresenta l'opinione della maggioranza? Viene indicata dai risultati dei sondaggi di
opinione? È l'opinione espressa dai media più rappresentativi?
E chi forma l'opinione pubblica? La classe dirigente? Sono i
media? E, se è così, contribuisce di più la stampa o la
televisione a formare l'opinione pubblica?
Sono tutte domande che trovano mille e più risposte, diverse fra loro nella copiosa
e spesso inutile letteratura.
Per il relatore pubblico conviene aggirare la mal posta questione e
preoccuparsi soprattutto di identificare i pubblici influenti e gli
interlocutori primari dell'organizzazione, ascoltarli, tenere conto
ove opportuno delle loro opinioni e basare le proprie iniziative
su queste.
PUBLIC RELATOR
Il termine non è molto popolare ma comincia a crescere il suo
uso. Relatore pubblico è il professionista che si occupa di
relazioni pubbliche. Chi preferisce questo a comunicatore lo fa
perché privilegia l'aspetto relazionale della professione a quello
comunicativo e considera la comunicazione come strumento
della relazione.
PUBLIC RESPONSIBILITY
È la responsabilità di una organizzazione e di una persona
verso l'interesse pubblico o il pubblico o, come dice il sociologo tedesco Jurgen
Habermas, la ‘sfera pubblica’ [v. public sphere].
In relazioni pubbliche rappresenta le modalità con cui una organizzazione
si rende consapevole delle conseguenze [v. consequence] che le sue attività
hanno sugli altri e si sforza di minimizzare quelle negative e
massimizzare quelle positive ricevendo in cambio una più forte
'licenza ad operare’ [v. license to operate, legitimacy].
PUBLIC SPHERE
La sfera pubblica, teorizzata nel secondo dopoguerra dal sociologo tedesco Jurgen
Habermas, alla base della
cosiddetta visione 'europea’ delle relazioni pubbliche,
contrapposta dai suoi teorizzatori [v. Bled Manifesto] a quella americana. In sostanza,
mentre negli
Stati Uniti le relazioni pubbliche implicano soprattutto relazioni con i diversi
pubblici di una organizzazione, prevalentemente privata; in
Europa le relazioni pubbliche operano maggiormente all'interno
della sfera pubblica (in tedesco, relazioni pubbliche si
traducono in ‘offentlichkeitsarbeit’: lavorare in pubblico, con il
pubblico, per il pubblico).
PUBLICITY
Attenzione: il termine publicity significa due cose diverse a
seconda se chi lo usa è americano o inglese. Se inglese,
publicity è sinonimo di pubblicità. Se invece chi lo usa è
americano, publicity è sinonimo di ufficio stampa [v. media relations]. Il termine
advertising, per intendere pubblicità viene comunemente
usato anche in Inghilterra, ma publicity è considerato più
raffinato e maggiormente ‘british’.
QUALITATIVE / QUANTITATIVE
Al di là del suo senso più evidente, è importante sottolineare
che in relazioni pubbliche non sempre il secondo
termine, come molti pensano, è più importante del primo.
Se ad esempio ci si riferisce all'efficienza anziché all'efficacia [v. effective],
oppure se si misurano gli output e gli outtake anziché gli outcome o gli outgrowths [vedi
anche], il quantitative può essere più importante del qualitative.
QUESTIONS AND ANSWERS (“Q & A’s”)
Di fronte a qualsiasi questione [v. issue] emergente, il
relatore pubblico accorto predisporrà un ‘Q & A’: un documento mai superiore alle due
cartelle in
cui sono elencate le domande più difficili e sotto ciascuna di
queste le risposte più opportune.
Nella cultura di Internet sono indicate come FAQ (Frequently Asked Questions), con la
differenza che nel caso delle ‘Q & A’s’ si parla di ‘relevant’ (importanti) e non di ‘frequent
question’ .
RELATIONSHIP
Il termine è di quelli centrali per una corretta e
completa comprensione delle relazioni pubbliche intese come relazioni con i pubblici
influenti sugli obiettivi perseguiti da una organizzazione. La
sola raccomandazione è di leggere il libro ‘Public
Relations as Relation Management. A relational (ship) Approach
to the study and practice of Public Relations (2000), a cura di
John A. Ledingham e Stephen D. Bruning e pubblicato da Lawrence Erlbaum Association
(LEA).
REPUTATION
Anche in questo caso la sola raccomandazione è di visitare il sito del Institute for
Reputation (http://www.reputationinstitute.com) e di leggere le opere di Charles Fombrun,
fondatore
dell'istituto stesso. Esiste una rilevante distanza fra la scuola relazionale (Grunig) e la
scuola reputazionale (Fombrun). In realtà questa distanza non ha molta ragione di essere
poiché la prima è una teoria generale che comprende e comunque non è in contraddizione
con la seconda.
REFLECTIVE ROLE
Così come evidenziato dalla scuola europea, all’interno del ruolo strategico [v. strategy] è
il relatore pubblico che, utilizzando un’attenta attività di ascolto e di auditing [v. audit],
‘riflette’ le aspettative dei pubblici influenti all’interno dell’organizzazione (leggasi
coalizione dominante) e ‘fa riflettere’ l’organizzazione sulle proprie dinamiche relazionali e
sui rispettivi modelli. È colui che si occupa della ‘coerenza’ esterna/interna degli obiettivi
dell’organizzazione.
[v. anche Bled manifesto]
RESPONSIBILITY
Il termine è molto di moda e si applica a parecchi aspetti delle
relazioni pubbliche. Si parla di responsabilità sociale
riferita alle organizzazioni (corporate), ma anche riferita
alla professione [v. communication social responsibility].
Nella seconda accezione il riferimento è al
contributo che le relazioni pubbliche danno o non danno
all'interesse pubblico e al consolidamento o meno della
democrazia.
Le opinioni sono assai controverse.
RHETORICAL SCHOOL
Una delle tre scuole classiche delle relazioni pubbliche [v. anche critical school, systemic
school]. Il suo studioso più
conosciuto è Robert Heath per il quale la
'rappresentazione di un argomento’ [v. advocacy] da
parte di una organizzazione è parte necessaria della
stessa creazione di senso e della conoscenza, ha
a che fare sia con i processi che con i contenuti del
‘discorso pubblico’ attribuendo voce paritaria a tutti
i partecipanti con interesse al dialogo. Un dialogo imperniato
su fatti (epistemologia), valutazioni (assiologia) e scelte
politiche, di prodotti e di servizi (ontologia).
ROI (Return on Investment)
In relazioni pubbliche negli ultimi anni si parla molto (ma... si scrive assai meno) se
le relazioni pubbliche possano essere misurate in termini di rientro dell'investimento.
Su questa questione, l'ultima autorevole ricerca è quella realizzata dall'IPR inglese
(Institute of Public Relations, http://www.ipr.uk.org), ma anche l'IPR americano (Institute
for Public Relations, http://www.instituteforpr.com) ci sta lavorando da anni.
La conclusione - per ora - di Anne Gregory, presidente dell'IPR
inglese, è che non di ROI si deve parlare ma di valore generale
delle RP sia in termini di valore aggiunto misurabile caso
per caso, sia in termini di danni evitati, ovviamente
meno misurabili ma pur sempre stimabili con gli stessi criteri e
parametri usati dalle assicurazioni…
RUMOR
Il pettegolezzo, la voce, le rumeur (in francese).
Le relazioni pubbliche sono sovente coinvolte e sia direttamente che indirettamente
protagoniste ma anche vittime di un rumor.
Uno dei più celebri sociologi francesi Jean Louis Kapferer ha dedicato un intero
volume ai rumeurs, come crearli e come spegnerli.
SEGMENTATION
Il processo identificazione dei pubblici. Più ancora che
nella pubblicità e nel marketing la segmentazione - in questo
caso intesa come individuazione di ciascun pubblico influente
con il quale l'organizzazione desidera/deve sviluppare una
relazione - è la fase di gran lunga più importante delle relazioni
pubbliche. Infatti una segmentazione attenta diventa
essenziale per l'efficacia e l'efficienza di una azione di relazioni
pubbliche quando riesce a distinguere fra:
- pubblici comunque consapevoli e interessati ad una relazione con
l'organizzazione in questione [v. stakeholder],
- pubblici che sarebbero certamente interessati ad una
relazione con l'organizzazione se fossero consapevoli della
conseguenze che le sue attività possono avere o hanno su di
loro (stakeholder potenziali)
- pubblici che pur se non consapevoli né interessati, l'organizzazione ritiene
comunque influenti sulle variabili che determinano il
raggiungimento dell'obiettivo perseguito [v. influential, influencer],
°pubblici che pur se non consapevoli né
interessati l'organizzazione ritiene influenti sui destinatari finali
della sua offerta [v. opinion leader];
°destinatari finali [v. end recipient] della offerta dell'organizzazione.
SEXING UP
Rendere qualcosa più attraente. Non dissimile da spin [v.spin, hype], si attua quando si
aggiunge, si manipola, si ricostruisce una informazione, un argomento, una questione
tenendo soprattutto conto del suo effetto persuasivo.
Il più recente e più famoso dei casi di spin/sexing up è
quello di Alistair Campbell già portavoce del governo laburista inglese,
accusato di avere manipolato le informazioni [v. sexing up] in merito alle armi
di distruzioni di massa irakene. La sua decisione di
inserire nelle notizie da diffondere quella che Saddam aveva
armi che avrebbero potuto distruggere l'Inghilterra in poche
decine di ore, fu il frutto di un lungo negoziato e di pesanti
pressioni che lo stesso Campbell esercitò sui servizi segreti
inglesi affinché inserissero quella notizia in modo
inequivocabile nei loro rapporti. Giustamente, egli
riteneva che quella informazione, sicuramente
gonfiata [v. hype, to],avrebbe portato l'opinione pubblica inglese, fino
ad allora ostile, ad appoggiare la decisione di Blair di entrare in
guerra a fianco degli americani.
SHARE-of-MIND
Spazio di attenzione (letteralmente ‘quota della mente’).
La saturazione mediatica, il sovraffollamento dei
messaggi e l'inquinamento comunicativo [v. info-communicative overload] spingono le
organizzazioni a preoccuparsi assai più di conquistare lo
spazio di attenzione dei pubblici piuttosto che di quello di voce
(‘share of voice’).
Le modalità sono tante: da quelle 'lecite’ come
il marketing virale [v. viral marketing] e la spinta all'emozione creativa, a quelle
meno 'lecite’ come la pubblicità subliminale e l'uso improprio
delle relazioni pubbliche a fini di manipolazione e persuasione
non trasparente.
SHAREHOLDER / INVESTOR RELATIONS
Le relazioni che una organizzazione, normalmente quotata in
borsa, intrattiene con i suoi azionisti, con il mercato finanziario
e con la comunità finanziaria in senso lato (autorità, investitori
istituzionali, fondi di investimento, operatori del mercato).
SYMMETRIC
Assieme all’asimmetria [v. asymmetric] è una delle dimensioni di una relazione. Se è
(almeno tendenzialmente) simmetrica, gli obiettivi dell’organizzazione sono definiti in
maniera negoziale dopo aver preventivamente ascoltato ed interpretato le aspettative degli
stakeholder [vedi anche].
Compito del relatore pubblico è di identificare con attenzione i pubblici influenti su una
determinata questione per la quale opera [v. issue] con i quali creare, consolidare e
sviluppare relazioni adoperando strumenti di comunicazione e canali relazionali che
consentano l’ascolto delle loro aspettative, di interpretarle presso i componenti della
coalizione dominante della organizzazione [v. management] e, infine, di
argomentare con gli stessi pubblici influenti le posizioni definite in un flusso continuo di
dialogo [v. negotiative] che consenta a entrambi (organizzazione e pubblico influente) di
ricavare un valore aggiunto dalla relazione.
Non esiste in natura una relazione completamente simmetrica, anche se
la scuola sistemica di Grunig [v. systemic school] sostiene che l'efficacia cresce
man mano che si raggiunge una simmetria nelle relazioni con
gli stakeholder principali.
Questa è una delle distinzioni
fondamentali tra relazioni pubbliche e pubblicità. Le
prime tendono alla simmetria, le seconde sono portatrici
mediamente di messaggi unidirezionali e, proprio per
questo, asimmetrici.
[v. anche Grunig]
SOCIAL REPORT
Sta per bilancio sociale di una organizzazione e si affianca a
quello economico e quello ambientale. I tre integrati
fanno il bilancio Triple Bottom Line (tbl), focalizzati cioè sull'ultima
riga - bottom line, appunto - dei tre bilanci: quella che
solitamente indica i profitti o le perdite.
Il recente interesse delle relazioni pubbliche per i bilanci delle organizzazioni indica una
progressiva migrazione professionale dalla cultura
dell'annuncio e delle intenzioni (necessariamente retorica,
unidirezionale, push, asimmetrica, persuasiva) a una cultura
della rendicontazione (dei comportamenti, negoziale,
argomentativa, bidirezionale, pull e tendenzialmente simmetrica).
SPECIFIC APPLICATIONS
È la parte 'locale’ della teoria globale [v. globalisation, glocal] delle relazioni pubbliche.
Infatti Jim Grunig [vedi anche] parla di generic principles [vedi anche] (ma generic nel
senso dei medicinali..) e di specific applications.
Anche la Global Alliance ha adottato la stessa
terminologia.
SPIN
‘To spin’: attribuire un effetto. ‘A spin ball’: nel baseball,
lanciare una palla ad effetto. ‘A spin doctor’: in relazioni
pubbliche, un esperto nel manipolare l'informazione. Fedele al detto inglese
‘if you can't beat them, join them’ (se non puoi battere
l'avversario ti conviene unirti a lui), il leggendario Lord Tim Bell
ebbe a dire: non mi dà fastidio quando mi danno dello 'spin
doctor' poiché già quel 'doctor' è un segnale di attenzione che
prima non mi veniva neppure attribuito....
Battuta non dissimile da quella di Jacques Seguela (creativo francese) che disse: ‘non
dite a mia madre che faccio il pubblicitario. Lei mi crede pianista in
un bordello’.
Che il relatore pubblico abbia anche il compito di presentare l'informazione perché venga
percepita dai
pubblici influenti nella maniera più favorevole al
raggiungimento dell'obiettivo perseguito da un cliente o da un datore di lavoro non può
esservi dubbio alcuno [v. anche sexing up].
Se anche questa premessa venisse negata,
allora verrebbe meno la stessa funzione delle relazioni
pubbliche.
Naturalmente la questione non è bianca o nera: nella storia dell'uomo l'informazione è
sempre stata manipolata e aggiustata in funzione degli obiettivi di
qualcuno. Così hanno fatto (e fanno) gli storici; così hanno fatto
(e fanno) i giornalisti; cosi hanno fatto (e fanno) gli avvocati, i contabili e i relatori pubblici.
Importante semmai è la differenza: gli storici
compiono la loro manipolazione ex post, parecchio tempo dopo
gli eventi narrati e tendono a basarsi su fonti terze e documenti; i
giornalisti la compiono invece durante e immediatamente dopo
l'evento narrato e tendono a basarsi su fonti dirette, verbali e quindi interessate; i relatori
pubblici la compiono invece quasi sempre prima e durante
l'evento narrato e sono essi stessi fonti importanti.
Non è un caso che le tre figure professionali si sovrappongano
Pericolosamente quando gli storici si fanno troppo
contemporanei, quando i giornalisti si fanno troppo indovini, o
quando i relatori pubblici si fanno anche giornalisti o storici.
Le relazioni pubbliche sono una professione ambigua, proprio perché
operano in quella terra di nessuno ove la comunità politica,
quella economica e quella dell’informazione si relazionano di continuo.
La sola uscita dall'ambiguità sta nell'etica professionale e nel
rispetto primario dell'interesse pubblico rispetto a quello del
datore di lavoro/cliente [v. public interest]. Detto questo, anche la interpretazione
di quale sia e dove risieda l'interesse pubblico, in assenza di
leggi,spetta al professionista e qui sta uno dei
suoi principali valori aggiunti.
SPONSOR / SPONSORSHIP
Dal latino spondeo: prestare una sponda, sostenere, aiutare,
attribuire il proprio buon nome ad una causa che ne ha
bisogno. In relazioni pubbliche, la cosiddetta attività di
sponsorizzazione è molto diffusa. Esiste la sponsorizzazione culturale (una
organizzazione sponsorizza una
mostra, un libro, un film, un concerto..), quella
sportiva (quando si sponsorizza un atleta, una gara,
una squadra, una partita), quella sociale (una causa,
una iniziativa benefica, una raccolta fondi..), quella
ambientale (la goletta verde..), quella televisiva
(un programma...) e così via. In tutti i casi,
l'organizzazione si impegna a versare fondi e/o servizi in
cambio della presenza del suo nome in ogni momento di
visibilità pubblica dell'evento [v. event] o della iniziativa sponsorizzata.
STAFF
Può indicare la posizione gerarchica - in termini di responsabilità operative e decisionali di una funzione organizzativa. Spesso le relazioni
pubbliche e la comunicazione sono funzioni in staff al vertice
aziendale. In questo caso il termine staff si contrappone a
quello di line, attribuito alle funzioni più propriamente operative
di una organizzazione come le vendite o la produzione.
L'altra accezione di staff è invece riferita a un gruppo di
persone a supporto di un leader: Così, lo staff del presidente,
oppure lo staff del candidato o infine lo staff del senatore. In
ogni staff che si rispetti c'è chi è responsabile delle relazioni
pubbliche.
STAKEHOLDER
‘To hold a stake’: detenere (to hold) un titolo (a stake) in (di) una
organizzazione. E’ diverso da shareholder (azionista).
Stakeholder è divenuto un termine buono per tutti
gli usi. Oggi stakeholder sono azionisti, clienti, dipendenti,
fornitori,cittadini..insomma tutti. Lo dicono fior di
studiosi, economisti, consulenti aziendali, studiosi
dell'organizzazione....
Quando un termine viene
così abusato ci si chiede a cosa serva continuare ad usarlo.
In effetti, ‘to hold a stake’ implica che non sia
l'organizzazione a riconoscere quel ruolo ad un soggetto, ma
che sia quest'ultimo ad averlo e ad esercitarlo. A sua
volta questo implica che lo stakeholder sia consapevole di
esserlo e che abbia l'interesse a sviluppare una relazione
(positiva, negativa, neutrale) con l'organizzazione sulla quale
produce (o dalla quale subisce) conseguenze [v. consequence].
In senso stretto quindi, gli stakeholder di una organizzazione sono
pochi e facilmente identificabili. E questo è molto utile per una
migliore economia della comunicazione.
Volendo allargare, si può anche ritenere utile aggiungere una categoria
di stakeholder potenziali (e allora ai primi andrebbe aggiunto il termine di attivi): coloro
cioè che se solo fossero informati dell'organizzazione e delle sue
attività (e quindi resi consapevoli) avrebbero interesse
ad una relazione con l'organizzazione perché le attività di
quest'ultima produce conseguenze su di loro e/o viceversa.
Ma è chiaro che, a differenza del primo caso, in quest'ultimo è
l'organizzazione stessa a decidere chi sono gli
stakeholder potenziali. E questo, a sua volta, implica che la
relazione con loro va avviata dall'organizzazione con un
messaggio di natura persuasiva, atta cioè ad attirare la loro
attenzione, mentre nel primo caso, quello degli stakeholder
attivi, la relazione è facilitata dall'esplicito interesse di entrambi
alla relazione.
STAKEHOLDER RELATIONSHIP MANAGEMENT (SRM)
È il processo manageriale con il quale un’organizzazione complessa - se fortemente
orientata allo sviluppo di relazioni pull, simmetriche ed interattive con i suoi pubblici
influenti - integra i propri sistemi relazionali con tutti i segmenti di pubblici influenti,
sforzandosi di monitorarne e governarne le dinamiche per raggiungere con efficacia gli
obiettivi definiti dopo aver ascoltato le aspettative degli stakeholder attivi [vedi anche].
È il governo delle relazioni con gli stakeholder [vedi anche]
(attivi e potenziali) o, volendo essere un pochino più ampi
senza però cadere nella inutilità delle eccessive
generalizzazioni, con i pubblici influenti (compresi quindi anche
gli influenti [v. influential, influencer] sulle variabili chiave [v. issue],
e gli opinion leader [vedi anche] sui destinatari finali [v. end recipient]).
In sostanza è il cosiddetto gorel [vedi anche], quando
il relatore pubblico svolge un ruolo strategico [v. strategic role]
ascoltando le aspettative dei pubblici influenti e interpretandole
alla coalizione dominante [v. management] prima della definizione degli obiettivi
da perseguire [v. reflective role] e aiutando i direttori delle altre
funzioni a sviluppare i rispettivi sistemi di relazione con gli
stakeholder con modalità coerenti e coordinate [v. educational role].
In una prospettiva di SRM è evidente che le organizzazioni fortemente orientate all’utilizzo
di Internet come ambiente di relazione possono attuare e governare modalità relazionali
più efficaci e rendicontabili favorendo l’integrazione tra strumenti relazionali reali e virtuali.
Da qui la variante di Integrating Stakeholder Relationship Management (ISRM).
STRATEGY / STRATEGIC ROLE
In relazioni pubbliche, il termine strategia (o
strategico) viene usato come 'un attimino’...tanto
frequentemente quanto minore in una
organizzazione è la funzione effettivamente strategica delle relazioni
pubbliche.
In effetti quello di svolgere un ruolo 'strategico’
è
l'aspirazione di ogni relatore pubblico che si rispetti.
Ma cosa vuol dire strategico? La letteratura è sterminata, ma in
relazioni pubbliche gli studiosi concordano su due ruoli
strategici:
-quello riflettivo [v. reflective role]: la coalizione
dominante di una organizzazione riconosce al relatore pubblico
il ruolo di ascolto e di interpretazione delle aspettative dei
pubblici influenti prima, durante e dopo le
decisioni;
-quello educativo [v. educational role]: la coalizione dominante [v. management]
riconosce al relatore pubblico il ruolo di coordinamento dei
sistemi di relazione dell'organizzazione con i pubblici influenti e
del trasferimento trasversale alle funzioni di direzione di
competenze relazionali e comunicative adeguate per
governare direttamente quegli stessi sistemi di
relazione.
[v. anche Bled manifesto]
SUSTAINABILITY
Sostenibilità, nel senso prevalente di durata nel tempo.
Una attività insostenibile è quella che non può durare. Termine di
uso comune che deriva soprattutto dall'ambientalismo e si
applica ai diritti umani e allo sviluppo economico.
SWOT ANALYSIS
Swot sta per strength (forza), weakness (debolezza), opportunity
(opportunità), threat (minaccia).
In pratica, è uno strumento di analisi di una situazione della
quale si identificano le caratteristiche in base a ciascuna
delle quattro famiglie indicate, per averne un quadro il più
possibile chiaro prima di procedere ad un piano di azione.
È un metodo semplice e molto (ab)usato in
relazioni pubbliche, ma utile, se non altro per riflettere.
SYSTEMIC SCHOOL
È la teoria di James Grunig [vedi anche] per il quale ogni
organizzazione, per avere successo deve integrarsi
armonicamente nell'ambiente circostante e per fare questo con
efficacia deve conoscere e interpretare i valori e le aspettative
dei suoi pubblici influenti (stakeholder attivi) prima
ancora di definire i traguardi specifici dell'organizzazione, così
da selezionare obiettivi effettivamente raggiungibili.
In un saggio del 2002 Grunig, accogliendo le osservazioni critiche dei suoi colleghi 'retori'
e 'critici' [v. critical school, rhetorical school], arriva a sostenere che il cuore delle relazioni
pubbliche è nella 'relazione’ [v. relationship] (dando grande soddisfazione ai 'retori') e che
la 'simmetria’ [v. symmetric] (la condizione che a suo avviso rende
davvero efficaci le relazioni pubbliche) si ottiene soltanto quando l'operatore di relazioni
pubbliche esercita in egual misura le sue abilità persuasive nel convincere la coalizione
dominante interna dell'organizzazione ad adeguarsi alle aspettative dei pubblici influenti
come nel convincere i pubblici influenti ad adeguarsi alle aspettative della coalizione
dominante [v. management] interna (dando così soddisfazione ai seguaci
dell'approccio 'critico’).
In questi ultimi anni si potrebbe dire che la scuola sistemica si è diffusa fino a diventare
prevalente fra gli studiosi e nella comunità professionale più consapevole, mentre la
scuola critica si è diffusa fino a diventare prevalente nei media e nei gruppi attivisti, al
punto che recentemente Kenny Ausubel, fondatore di Bioneers, un network di visionari
ambientalisti ha scritto: ‘di tutte le orrificanti tecnologie distruttive del 20esimo secolo, la
più pericolosa è costituita ragionevolmente dalle relazioni pubbliche !!!’.. (tratto da
http://www.holmesreport.com).
TABLOID
È un formato, normalmente più grande di un settimanale e più
piccolo di un quotidiano. In relazioni pubbliche una
iniziativa ‘tabloid' implica un po’ di esagerazione, di iperbole, di
sottolineatura, a ‘grandi titoli' e al tempo stesso poca o
comunque insufficiente e non completa informazione.
[v. anche hype, sexing up, spin]
TAKEOVER
È una acquisizione - amichevole (friendly) o anche ostile
(hostile) - di una organizzazione da parte di un’altra.
Per le relazioni pubbliche è un momento topico e delicato di
auto rappresentazione dell’organizzazione acquirente e/o
acquisita. Vi sono società di relazioni pubbliche specializzate
proprio in questa attività.
TALK SHOW
E un formato televisivo divenuto anche di uso comune in
assemblee ed eventi ad hoc. Un facilitatore sollecita
protagonisti a dire la loro su una o più questioni specifiche
cercando di avviare tra i partecipanti un dibattito interessante
per il pubblico presente e/o televisivo. Gli organizzatori di
eventi [v. event] hanno raffinato il modello ed esistono oggi diversi modelli di
talk show in funzione della serietà del tema trattato, dei
protagonisti coinvolti, del facilitatore.
TARGET
È un termine che nella
comunicazione d'impresa [v. corporate communication] ha due accezioni.
La prima indica una meta da conseguire (spesso è usato nelle vendite per indicare
l'obiettivo quantitativo del fatturato oppure l’obiettivo di
comunicazione da perseguire, in modo unidirezionale e
asimmetrico [v. asymmetric]. Ma indica anche - quando è usato come scorretta ma
usatissima contrazione del termine target group - il pubblico di
riferimento: un termine che non ha nulla a che fare con il cuore delle relazioni
pubbliche, sostanzialmente a due vie e, almeno
tendenzialmente, simmetriche [v. symmetric]. Un termine che sollecita la
‘comunicazione a’, anziché la ‘comunicazione con’.
TAXONOMY
È quello che manca nelle relazioni pubbliche: un insieme
condiviso di definizioni dei termini più usati, a partire dallo
stesso termine di relazioni pubbliche. È possibile che questa
anomalia stia per essere superata grazie alle nuove tecnologie.
Infatti è in realizzazione, a cura della comunità professionale e,
in particolare alla Global Alliance e di un gruppo di associazioni
nazionali e di professionisti dedicati, un software universale di
relazioni pubbliche che parte proprio da una tassonomia
condivisa. È l’XPRL [vedi anche]
TEASER
‘To tease’ vuol dire prendere in giro, scherzare.
In pubblicità una campagna teaser è quando si attira l'attenzione
del consumatore senza indicare direttamente e subito la
soluzione che poi verrà invece annunciata con un
richiamo al teaser, soltanto dopo che l'attenzione sarà stata
attirata.
In relazioni pubbliche le iniziative teaser sono
molto discutibili ed hanno parecchio a che fare con la
percezione di opacità dei processi professionali. Ma non se
usate per annunciare eventi [v. event] intorno ai quali si desidera attirare
attenzione.
TELECONFERENCE
È la classica conferenza telefonica con la partecipazione dal
vivo e contemporanea di più soggetti da luoghi diversi. Se ben
condotta consente di risparmiare parecchio tempo e denaro e
può essere visivamente integrata da immagini e grafici via
internet.
TESTIMONIAL
Anche in italiano si usa il termine inglese ed è normalmente la
celebrità che, in cambio di un compenso, si presta a parlare
bene di un prodotto o a farsi ritrarre sorridente a fianco ad esso.
In relazioni pubbliche il testimonial è anche la persona
che si presta gratuitamente o dietro compenso simbolico o in
natura, a sostenere pubblicamente una causa, a firmare un
appello pubblico, a prestare il suo nome per una giusta causa
nella speranza che il suo nome riesca a stimolare adesione, emulazione
e partecipazione di altri.
TIE-IN
È un accordo, un legame che si instaura fra due o più soggetti
intorno ad una questione specifica [v. issue]. In relazioni pubbliche e in
pubblicità viene anche usato come sinonimo di co-marketing.
TOP-of-MIND
È un ricordo immediato. Non debbo andare a ricercare il
ricordo. Mi viene spontaneo. In ricerca si chiama ricordo
spontaneo, quello che viene in mente subito dopo la domanda
del ricercatore. A caldo, si potrebbe dire.
TRACK RECORD
È l'esperienza passata. Cosa ho fatto su una determinata questione. E’ importante
perché:‘l’esperienza non è ciò che ci succede, ma è quel che si fa con quel che succede’.
TRACKING STUDY
Uno studio continuativo che assicura il monitoraggio costante
di un determinato fenomeno che si vuole studiare.
TRANSPARENCY
È la trasparenza nelle relazioni. In linguaggio informatico un oggetto è trasparente quando
l’utente non se ne accorge neppure.
Certo non è questa l’accezione che del termine ne fanno i comunicatori, le autorità, le
organizzazioni quando la invocano per i consumatori, gli elettori, gli utenti dei servizi
pubblici o gli investitori. È difficilmente negabile che l’opacità (cioè, il contrario della
trasparenza) può essere assai utile in molte circostanze. Così come nessuno può impedire
a organizzazioni, note per la loro ritrosia alla trasparenza, di avere reputazioni forti e
consolidate, è anche chiaro che una politica spinta di trasparenza costringe
l’organizzazione a rivelare informazioni che possono nuocere alla sua reputazione.
Insomma, non è tutto oro quel che luccica e sarebbe bene che i relatori pubblici fossero
consapevoli che ‘omaggiare’ troppo la trasparenza delle organizzazioni con le quali
lavorano rischia anche di elevare a livelli insostenibili le aspettative degli stakeholder [vedi
anche].
Il termine trasparenza con lo stakeholder può essere utilizzato, senza rendersi ridicoli,
soltanto in presenza di alcuni passaggi comunicativi obbligati:
a) dichiarare sempre la propria identità;
b) dichiarare sempre il soggetto che si rappresenta (questo non vale solo per i
consulenti…)
c) dichiarare qual è l’obiettivo che si intende perseguire nella creazione, sviluppo o
consolidamento della relazione con l’interlocutore.
Questi sono i tre passi essenziali.
Poi ce n’è un quarto che può essere applicato in tutti quei casi in cui non esiste il rischio di
divulgare segreti utili alla concorrenza: come intendo perseguire quell’obiettivo nella mia
relazione con te e gli altri.
Il contenuto della informazione deve ovviamente essere tempestivo, veritiero e seguire le
norme di legge. Ma, attenzione, queste ultime tre variabili non hanno a che vedere con la
trasparenza ma con le altre caratteristiche della comunicazione.
Attribuire tutto al concetto di trasparenza vuol dire annacquarlo.
UNILATERAL
Un messaggio o azione proveniente da una parte
sola, unilaterale. Il riferimento più abituale è alla pubblicità.
UNIQUE SELLING PROPOSITION (USP)
La peculiarità, la caratteristica unica di un prodotto, servizio,
idea che si vuole comunicare. Letteralmente: la proposta di
vendita unica.
UNIVERSE
In ricerca, è il totale dei soggetti da cui viene estratto un
campione rappresentativo secondo specifiche modalità. Più è
piccolo l'universo più è grande in proporzione il campione
rappresentativo.
UNOBTRUSIVE RESEARCH
È una tecnica di ricerca non invadente, non
aggressiva, che si basa sul consenso prioritario quando non
sul volontariato attivo del soggetto.
VALUE
Valore. Le organizzazioni che creano maggior valore per gli
stakeholder [vedi anche] sono quelle che adottano e applicano modelli
avanzati di relazioni pubbliche basati sul governo dei sistemi di
relazione [v. stakeholder relationship management, Gorel] con gli stakeholder e sulla
formulazione di politiche e
comunicazione di comportamenti di responsabilità sociale.
È il risultato di una immensa ricerca condotta per 17 anni su 327
organizzazioni Inglesi, Canadesi e Americane condotta dal
Prof. James Grunig [vedi anche] dell'Università del Maryland.
La squadra di Grunig avviò i lavori nel 1985 per concluderli nell'estate del
2002. Tre libri (pubblicati dalla Lawrence Erlbaum Associate) sono il frutto
di questo lavoro:
°il primo Excellence in Public Relations and Communication Management (1992) presenta
una estesa illustrazione della letteratura insieme ai risultati di
una ricerca quantitativa delle 327 organizzazioni che include
questionari completati di 407 direttori della comunicazione, 292
leader di organizzazione e 4.361 dipendenti. La ricerca misura
i diversi indicatori di successo per le relazioni
pubbliche;
°il secondo Manager's Guide to Excellence in Public Relations and Communication
Management (1995), presenta approfondite descrizioni della
ricerca qualitativa sulle 25 organizzazioni che hanno registrato
i punteggi più alti e più bassi nella fase
quantitativa;
°il terzo, Excellent Public Relations and Effettive Organizations (2002) presenta i risultati
completi e integrati delle due ricerche.
VALUE ADDED
Valore aggiunto.
Se ne parla molto anche in relazioni
pubbliche ma pochi sanno definirlo con precisione.
Il valore aggiunto di una organizzazione è la ricchezza prodotta nel
corso di un esercizio (un anno). Per una impresa lo si individua
nella differenza fra la produzione lorda e il consumo dei beni e
dei servizi. Nel caso del valore aggiunto apportato
ad una organizzazione dalle sue attività
di relazioni pubbliche siamo nel più ampio tema dei
cosiddetti beni immateriali o intangibili. Tutti concordano ormai
da diversi anni che questi ultimi costituiscono ormai la
parte più importante del valore aggiunto di una organizzazione.
Sono poi sempre in numero maggiore gli esperti che
sostanziano questo ragionamento con l'argomento che il valore
maggiore di una organizzazione è costituito dalla somma dei
valori dei suoi sistemi di relazione con i pubblici influenti.
Essendo le relazioni pubbliche quella disciplina del
management che aiuta le organizzazioni a governare i sistemi
di relazione con i suoi pubblici influenti, ecco la stretta
correlazione fra relazioni pubbliche e produzione di ricchezza.
VARIABLE
Variabile. In relazioni pubbliche, e in particolare nel Gorel [vedi anche],
variabile è usato come sinonimo di issue [vedi anche] o di questione.
La gestione delle variabili equivale quindi all'issue management.
Nel Gorel l'identificazione delle variabili che influenzano il
raggiungimento dell'obiettivo di una organizzazione avviene
subito prima della identificazione degli influenti [v. influential, influencer] e dopo quella
degli obiettivi. In effetti non si possono sviluppare relazioni
efficaci con gli influenti in ‘laboratorio’, prescindendo cioè dalle
dinamiche sociali, politiche, economiche, tecnologiche o
culturali.
VENUE
Luogo, località. In relazioni pubbliche si riferisce quasi sempre
al luogo di un evento [v. event], a dove si svolge. In diverse
organizzazioni esiste il venue manager, la persona esperta
nelle località, sempre aggiornata sulle novità e le
attrazioni.
[v. anche location]
VESTED INTEREST
Interesse di parte. È un concetto fondamentale delle
relazioni pubbliche. Per chiunque lavori e qualsiasi cosa faccia,
il relatore pubblico per definizione rappresenta sempre un
interesse di parte e questo, ad esempio, dovrebbe impedirgli
deontologicamente di:
- essere pagato anche da altre parti per lo stesso lavoro (commissioni da fornitori,
coinvolgimento di altri partner...)
- non palesare all'interlocutore della relazione la propria identità
e quella dell'interesse rappresentato
- rappresentare più interessi in conflitto anche potenziale, indipendentemente
dall'opinione del cliente in proposito.
VIDEO CONFERENCE
Tutti oggi sanno cosa è una video conference, da non
confondere (come spesso accade) con la teleconference [vedi anche].
Alla fine degli anni settanta era girata la
leggenda metropolitana che l'industria dei viaggi sarebbe
crollata a causa dell'imminente avvento della
videoconferenze. Poi se ne è parlato poco negli anni ottanta,
mentre la stessa leggenda è nuovamente riemersa negli anni
novanta. Oggi, 2005, le videoconferenze sono assai più
utilizzate di vent'anni fa, ma non ancora realmente scalfito
l'industria dei viaggi, a dimostrazione che tutto si crea e nulla si
distrugge.
VIDEO NEWS RELEASE
VNR (pronunciato ‘viiennar’): un comunicato
video per la tv.
In auge nei mercati più avanzati dai primi anni
Settanta - adoperato per la prima volta con successo in Italia nel
1979 per presentare alle tante televisioni private di allora una
particolare sigaretta (si chiamava Muratti Ariston) che
consentiva al fumatore, con l'auto regolazione del filtro della
sigaretta predisposto su tre diverse posizioni, di aumentare o
diminuire il passaggio del fumo e delle sue sostanze - il Video
News Release, anziché come un comunicato stampa [v. news release] che aiuta il
giornalista a scrivere il suo pezzo, è stato interpretato in questi
ultimi anni da Palazzo Chigi come materiale video che il
sistema televisivo avrebbe dovuto usare così come predisposto
dall'ufficio stampa, e questo ha provocato numerose reazioni
negative da parte dei giornalisti.
Più recentemente il Ministero
della Salute statunitense è stato formalmente criticato dalla
Corte dei Conti americana per avere investito dei soldi con la
Ketchum (una delle maggiori agenzie internazionali di relazioni
pubbliche) per la produzione e diffusione di una batteria di
Video News Release che illustrano la riforma del sistema
sanitario nazionale di quel Paese. La critica
segnalava che una legge del 1913 ancora vigente impedisce
all'amministrazione pubblica di investire soldi pubblici in attività
di relazioni pubbliche. Ma lo stesso episodio ha invece prodotto
un vero e proprio scandalo sulla stampa statunitense poiché le stazioni
televisive che hanno accettato di mettere in onda la serie l'ha
fatto senza alcuna modifica addirittura facendo passare
l'annunciatrice, una professionista di relazioni pubbliche, come
fosse la cronista da Washington. Lo scandalo è stato tale che
la PRSA (Public Relations Society of America) è stata costretta a
convocare il suo collegio dei probiviri ed emettere un editto
sulla materia di VNR.
VIRAL MARKETING
Sta per marketing virale, va molto di moda oggi ma altro non è
che quel che da sempre fanno i migliori operatori di marketing
public relations [vedi anche]. In sostanza, rispetto ad un determinato
pubblico cui si desidera far conoscere e provare un nuovo
prodotto o servizio, si mette in moto un nucleo di ‘moltiplicatori' [v. anche four-minute-men]
o leader di opinione [v. opinion leader]…(ovviamente dove per opinione si intende
quella del pubblico specifico con il quale si intende
comunicare) che adottano il prodotto-servizio pubblicamente, e
invitano altri a fare altrettanto.
Secondo Al Ries, iniziatore del concetto di posizionamento e autore del libro ‘The rise of
PR
and the fall of Advertising', la maggior parte dei nuovi prodotti e
servizi di successo presentati sul mercato negli anni novanta
hanno fatto leva su questa tecnica in fase di lancio per poi
sostenerla in un secondo momento attraverso l'investimento pubblicitario, che sarebbe
l'iter contrario a quello classico: prima la pubblicità poi le
relazioni pubbliche a supporto.
In Italia uno dei primi esempi
conosciuti di viral marketing risale ai primissimi anni ottanta
quando la Polaroid introdusse un nuovo apparecchio
coinvolgendo in una famosa ‘caccia al tesoro’ estiva realizzata
con la nuova Polaroid, tutti i giovani rampolli della migliore
imprenditoria italiana e montandoci su una bagarre sui giornali
estivi
VISION
Visione, la descrizione sintetica e condivisa di quello
che l'organizzazione intende diventare in un tempo definito (3-5
anni). Nel processo di envisioning [vedi anche] – il primo passo del Gorel [vedi anche]
adattato alla teoria sistemica di Grunig [v. systemic school] - la visione viene subito
dopo la missione [v. mission], l' istantanea
dell'organizzazione come è, e subito prima i valori
guida [v. guiding principles] che guideranno l'organizzazione nel percorso dalla
missione alla visione, rappresentato dalla strategia,
ultima fase dell' envisioning.
WALK THE TALK (and/or TALK THE WALK)
‘Camminare il parlato’: nota espressione americana per dire che un’organizzazione deve
uniformare i suoi comportamenti alla autorappresentazione retorica della sua identita.
È indubitabile che la franchezza nell’esporre ragionevolmente anche i punti di debolezza
dell’organizzazione contribuisce largamente allo sviluppo di una relazione di fiducia fra
un’organizzazione e i suoi stakeholder [vedi anche]. Se vogliamo è una buona
‘comunicazione con’.
Esiste poi il contrario di ‘walk the talk’ che è ‘talk the walk’ (‘parlare il camminato’), che in
pratica chiede al comunicatore di non rappresentare quel che l’organizzazione non ha
agito, non ha fatto: è la comunicazione dei comportamenti, appunto.
Non esiste una modalità applicabile e replicabile a tutte le organizzazioni anche se le
stesse non possono esimersi dal ‘walk the talk’ e dal ‘talk the walk’: e farlo bene richiede
tanta tecnica e tanta competenza.
XPRL (Extensible Public Relations Language)
XPRL è un progetto internazionale che si prefigge come obiettivo la costruzione di un
linguaggio informatico condiviso per migliorare l’efficacia e l’efficienza nello scambio di
informazioni e nella pratica quotidiana delle relazioni pubbliche. Lo scopo di tale progetto è
la condivisione di linguaggi delle relazioni pubbliche.
‘Language’ sottende la capacità di essere compatibile con tutti i computer: gli strumenti
sviluppati con XPRL sono comprensibili su scala globale.
‘Public relations’ indica la partecipazione di esperti di rp nella progettazione di uno
strumento per le rp.
‘Extensible’ perche permette – e anzi incoraggia – un aggiornamento continuo e condiviso
da parte di ogni singolo utente per incontrare le mutevoli esigenze della professione e dei
suoi operatori.
Questo glossario nasce, come in origine anche il testo cui è collegato, da una continuata
interazione fra l’autore e i visitatori del sito www.ferpi.it Settimana per settimana, cinque
voci alla volta e in ordine alfabetico, i visitatori hanno potuto segnalare errori, opinioni,
aggiustamenti e fornire suggerimenti. Come per il libro, sono stati quasi una cinquantina gli
interventi. L’autore ringrazia Michael Lahey, docente all’Università di Udine a Goriza, per
lo spunto e qualche saggio consiglio. Lahey è autore di un ottimo Dictionary of Public
Relations in lingua inglese pubblicatonel 2003 dall’editore Forum du Udine
(www.forumeditrice.it).
Account inteso come ruolo professionale, è la persona che – dall’interno di un ufficio, reparto,
dipartimento, società di consulenza o specifico programma – facilita, coordina e filtra le relazioni
fra il cliente (interno/esterno) e i vari servizi interni/esterni. Un account può essere: junior,
executive, manager, senior, director a seconda dei livelli di responsabilità e della peculiare cultura
organizzativa in cui opera. Le competenze richieste a un account sono:
- la capacità di ascolto e di relazione;
- la rapidità con cui assorbe e interpreta le aspettative del committente, conciliandole con la
possibilità effettiva di una loro soddisfazione da parte dei servizi della struttura per cui lavora;
- la chiarezza, esaustività e tempestività nel reporting e nel monitoraggio delle dinamiche
amministrative e finanziarie della relazione.
“Account” viene talvolta usato anche come sinonimo di cliente. Il termine nasce nell’ambito della
revisione contabile e poi si estende alle grandi agenzie di pubblicità per raggiungere, gradualmente,
anche le agenzie di relazioni pubbliche, le società di consulenza e infine le stesse organizzazioni
clienti, man mano che si strutturano internamente.
Accountability essere accountable implica un insieme di rendicontazione, responsabilità e
affidabilità. Con un solo termine, la lingua inglese riassume l’essenza di una buona relazione. Una
persona o un’organizzazione sono accountable verso un’altra persona o organizzazione. Essere
percepiti accountable è obiettivo fondamentale di una qualsiasi attività di relazioni pubbliche.
Peraltro (e per molti aspetti paradossalmente) una delle tante aspettative ancora inevase da parte
degli → stakeholder delle relazioni pubbliche sta proprio nella piena accountability percepita della
stessa professione. In effetti, criteri condivisi dalla comunità professionale che investano le attività
di reporting, di procurement, di misurazione di efficienza (→ measurement), di valutazione di
efficacia (→ evaluation) sono stati ad oggi soltanto abbozzati e solo parzialmente applicati.
Adhocracy è il contrario della programmazione e della pianificazione. Nelle relazioni pubbliche
accentra l’attenzione su una specifica questione o un obiettivo o un programma. Un’organizzazione
è adhocratic se la sua visione è proiettata verso il breve periodo, un obiettivo a termine oppure
caratterizzata dalla improvvisazione, anche se talvolta geniale (→ lateral thinking) ed efficace.
Advertorial è uno spazio/tempo di un medium (→ media), di opinione redazionale ma
esplicitamente acquistato da un’organizzazione. È uno spazio dal quale il soggetto esprime la sua
opinione oppure una posizione su questione ritenuta di interesse pubblico, ma che produce anche
conseguenze (→ consequence) sull’emittente. Da non confondere con gli → op-ed che sono invece
opinioni scritte in forma di editoriali che il medium, di sua sponte e non a fronte di un pagamento,
ritiene di pubblicare pur se firmate da un rappresentante diretto dell’ interesse tutelato, da un suo
portavoce o testimone. La tecnica dell’advertorial viene lanciata da Herb Schmertz nei primi anni
Ottanta quando, come direttore delle relazioni pubbliche della Mobil, ogni mercoledì sulle pagine
degli editoriali del New York Times, in un apposito spazio esplicitamente pubblicitario, appariva una
opinione firmata dall’azienda su questioni di interesse pubblico.
Advocacy è un termine rilevante nel dibattito culturale sulle relazioni pubbliche. Il leader della
scuola “retorica” Robert Heath (→ rhetoric school), definisce come advocacy l’atto retorico
dell’argomentare (→ argumentation) una questione. La PRSA (Public Relations Society of America)
usa addirittura il termine come sostitutivo di → lobby e, paradossalmente, sceglie un termine
proprio della professione legale (“to advocate”, “an advocate”) per differenziare i relatori pubblici
dai legali! Nell’ → issue management l’advocate indica la persona cui spetta argomentare ad altri in
modo convincente una questione che sta a cuore del soggetto committente. “Advocacy” di una
“issue” nel tempo è anche tematizzazione, mentre “advocacy” su una “issue” a breve è anche →
agenda setting.
Agenda setting sta per decidere l’agenda. Il termine deriva dalla sociologia per indicare l’intreccio
costante di influenze reciproche fra soggetti privati, pubblici e sociali che porta alla decisione sui
temi prioritari affrontati dal governo. I relatori pubblici hanno un ruolo importante, in alcuni casi
determinante, nella definizione dei contenuti delle agende delle rispettive leadership organizzative.
E questo non solo perché il relatore pubblico si trova sovente a svolgere un ruolo di “segreteria” del
consiglio di amministrazione, comitato di direzione, consiglio direttivo o coalizione dominante (in
questo ultimo caso, si limiterebbe a registrarne le volontà), ma anche perché gli viene talvolta
riconosciuto un ruolo di interprete delle aspettative degli → stakeholder: quel ruolo riflettivo (→
reflective role) studiato dalla scuola europea (Vercic, Van Ruler, Holstromm). In tal caso, rispetto ai
ruoli classici della letteratura manageriale nordamericana: tecnico (→ operational role),
manageriale (→ managerial) e strategico (→ strategy), si può considerare una ulteriore
declinazione del ruolo strategico, insieme all’altra funzione “educativa” (→ educational role).
Analysis qualità e intensità dell’analisi di una questione (→ issue) determinano l’efficacia (→
effective) di qualsiasi azione di relazioni pubbliche. L’assunto è che non ci si deve fidare delle
apparenze, delle prime risultanze, neppure del sentito dire, delle opinioni degli amici, degli
stereotipi ecc. Occorre incessantemente indagare, leggere, parlare con, verificare, curiosare,
consultare, ricercare. Insomma, malgrado la prassi e le pressioni stimolino i relatori pubblici ad
agire immediatamente, l’ascolto costituisce una fase fondamentale delle relazioni pubbliche ed è
importante, prima ancora dei nostri interlocutori, convincere gli stessi operatori che è parte
integrante (consustanziale) della stessa azione relazionale e comunicativa, al punto che sovente
avviene proprio in questa fase che le relazioni interattive e simmetriche (→ symmetric) sviluppino
la loro maggiore efficacia. Il rischio più elevato di una eccessiva attenzione all’analisi è la
“paralysis by analysis”: quando non si agisce perché bloccati da fonti e interpretazioni divergenti.
Ed è proprio per questo che assume importanza per il relatore pubblico, cui viene riconosciuta una
funzione strategica (→ strategy), essere anche un ottimo manager (→ managerial role) (capace di
organizzare l’ascolto con modalità compatibili con i tempi dell’azione) e un ottimo tecnico (→
operational role) (disporre degli strumenti più adeguati per cogliere e interpretare le aspettative
degli → stakeholder.
Argumentation “argomentazione”: è il cuore delle relazioni pubbliche. A differenza di altre
discipline della comunicazione come la pubblicità e le promozioni che “affermano”, le relazioni
pubbliche “argomentano”. Di qui, la loro maggiore complessità relazionale e la tendenza degli studi
più recenti a valorizzare gli aspetti “negoziali” (→ Grunig; negotiative; systemic school) delle
relazioni pubbliche (per esempio negli ultimi studi di Grunig e un forte richiamo lo si trova nel →
call for papers di Bled 2004 scritto dallo sloveno Vercic) rispetto a quelli “persuasivi” (che hanno
storicamente fatto la fortuna delle relazioni pubbliche fin dai primi anni venti del Novecento,
quando Edward Bernays, incrociando le nascenti discipline della sociologia e della psicologia,
sviluppò le tecniche di persuasione scientifica).
Asymmetric il principio della asimmetria o simmetria (→ symmetric) della relazione (→
relationship), o della comunicazione, è da anni al centro degli studi teorici delle relazioni pubbliche
ed è anche una delle due dimensioni (assieme a uni/bidirezionalità) utilizzate da → Grunig per
descrivere i modelli di pratica delle relazioni pubbliche. Una relazione è sempre asimmetrica in
natura (c’è sempre un soggetto dotato di più peso) e lo è a maggior ragione quando ad avviarla è
un’organizzazione che, suo tramite, intende accelerare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti:
che poi è la ragione stessa delle relazioni pubbliche. In particolare la relazione/comunicazione
asimmetrica è sbilanciata a favore dell’organizzazione avendo come unico fine la persuasione: il
cambiamento, cioè, delle opinioni, dei comportamenti e degli atteggiamenti degli influenti al fine di
raggiungere gli obiettivi stabiliti dall’organizzazione in maniera autonoma, unilaterale e non
negoziale. La tesi oggi prevalente degli studiosi (Grunig, Hunt, Vercic, Sriramesh e altri) è tuttavia
che l’efficacia (→ effective) di una relazione – oggi e in questo ciclo economico, storico e sociale –
è inversamente proporzionale alla sua asimmetria percepita: quanto più un soggetto percepisce di
avere con un altro soggetto una relazione simmetrica, tanto più è possibile che l’uno tenga conto
delle argomentazioni e aspettative dell’altro, che il negoziato giunga a un risultato positivo per le
due parti, e che si possa dunque definire efficace quella relazione.
Audit il termine, come anche quello già visto di → account, deriva dalla tradizione contabile (gli
auditor sono i revisori dei conti) e indica la verifica di una situazione determinata in un certo
momento a opera di una parte terza, presumibilmente indipendente, competente e interessata a una
valutazione oggettiva. Insomma, una certificazione. In relazioni pubbliche, un’organizzazione
affida a un consulente o a una società di consulenza (→ consultancy) un audit delle sue politiche e
dei suoi programmi di comunicazione. Normalmente questo si verifica quando:
a) l’organizzazione si appresta a grandi cambiamenti, sa che dovrà cambiare, ma non è sicura dove
e come;
b) è arrivato un nuovo responsabile che vuole capire meglio cosa continuare e dove innovare;
c) si profila l’ipotesi di cambiare società di consulenza e si desidera una opinione esterna
sull’operato di quella in corso.
In quest’ultimo caso, perché l’incarico abbia senso è necessario escludere a priori che la società che
compie l’“audit” possa poi candidarsi a sostituire il concorrente, altrimenti l’indipendenza e
l’oggettività vanno a farsi benedire. Un po’ come succede con le società di revisione che fanno i
consulenti delle società di cui certificano i bilanci, o con le banche di investimento che, retribuite ad
hoc, consigliano di acquistare azioni in loro possesso. Un’altra accezione di “audit” viene adottata
dalle stesse società di consulenza che lo usano per indicare la fase analitica di un qualsiasi incarico
ricevuto, a maggior ragione se, come sovente avviene, di contenuto generico (del tipo “lei venga
qui, dia una occhiata in giro e poi vediamo cosa fare”).
Backgrounder è un documento di base, parte di un “pacchetto” informativo predisposto dal
relatore pubblico, su una questione specifica (→ issue) che va poi argomentata (→ argumentation).
Contiene in forma narrativa, ma anche in forma sintetica e per punti sequenziali (→ fact sheet), la
storia della questione. La sua finalità è consentire al destinatario di apprendere e comprendere la
dinamica e l’evoluzione della questione fino al momento in cui interviene quella discontinuità che,
per conto del suo committente, il relatore pubblico vorrebbe introdurre e che, tuttavia, viene
illustrata in un’altra parte del pacchetto (→ position paper). Il backgrounder è anche il documento
che il relatore pubblico consegna al committente alla vigilia di un incontro o di un viaggio
importante nel quale sono sintetizzate informazioni sulle persone e sulle questioni che in
quell’incontro o in quel viaggio verranno affrontate.
Ballon d’essai detta anche “notizia civetta”. Il termine è francese ma usato anche in altre lingue. È
una notizia verosimile fatta filtrare per verificare la reazione dei mass media e dell’opinione
pubblica (→ public opinion) oppure di uno specifico soggetto di fronte a un provvedimento, una
decisione, una ipotesi di soluzione.
Barker un imbonitore, tradizionalmente la persona che davanti a un negozio o una mostra
incoraggia a voce i passanti a entrare. Nel gergo dei relatori pubblici inglesi (ma anche americani) è
quel professionista il quale adotta prevalentemente tecniche urlate per attirare l’attenzione dei
pubblici. To bark, letteralmente vuol dire “abbaiare”.
(→ hype, sexing up, spin)
Barter indica uno scambio in natura e senza passaggio di denaro fra soggetti che comunicano e
soggetti che possiedono direttamente i canali di comunicazione o ne sono i concessionari. È entrato
nell’uso comune dei comunicatori in Italia soprattutto con l’ingresso delle televisioni private che
spesso offrono spazi gratuiti incambio di beni e servizi. Il primo esempio fu quello dello stesso
Silvio Berlusconi, famoso per concedere spazi gratuiti a imprese in cambio di azioni delle stesse. È
stato poi ampiamente utilizzato dalla seconda metà degli anni Ottanta nel caso delle cosiddette
sponsorizzazioni televisive: interi programmi realizzati per favorire prodotti o servizi di imprese in
cambio merci (o, ancora, di azioni), fino a divenire, come testimoniano atti giudiziari e confessioni
di imputati e testimoni, strumento preferenziale per l’evasione fiscale nel caso di abbinamenti
sportivi e coinvolgenti personalità dello spettacolo e della televisione.
Below the line comprese nella comunicazione d’impresa sono quattro discipline: la pubblicità, le
relazioni pubbliche, le promozioni e il → direct marketing/response. La sponsorizzazione, in
effetti, non è disciplina autonoma poiché rientra se è sportiva nella pubblicità, se è televisiva nelle
promozioni, se è culturale o sociale nelle relazioni pubbliche. Si usa il termine “below the line” per
indicare le ultime tre in contrapposizione alla pubblicità indicata come “above the line”. In sostanza,
mentre quest’ultima è sempre palese e visibilmente pagata con l’acquisto di spazi su media erga
omnes, le altre tre sono o dirette alla persona o a pochi, oppure non pagate e comunque non sempre
visibili erga omnes.
Bled manifesto (on public relations) presentato a Bled (Slovenia) nel luglio 2002 è uno scritto a
quattro mani di Betteke van Ruler e Dejan Vercic sullo stato dell’arte delle relazioni pubbliche in
Europa. Tra gli scopi che si proponeva lo studio – punta dell’iceberg del progetto EBOC (European
Body of Knowledge) di EUPRERA (European Public Relations Education and Research Association)
–, quello di evidenziare (se presenti) alcune specificità “europee” diverse dalle tradizionale matrice
angloamericana. Una delle stimolanti prospettive uscite da quello sforzo fu di prefigurare tre
(quattro) ruoli che i relatori pubblici possono assumere all’interno delle organizzazioni per le/nelle
quali si trovano a operare (→ educational role; managerial role; operational role; reflective role).
Da notare che questi profili non sono autoescludenti, anzi: ciascuna attività tradizionale e non di RP
(→ anche lobby; media relations; event) può prevedere – e in parte lo reclama – la compresenza di
ruoli.
Blue sky espressione usata nelle relazioni pubbliche per indicare il discutibile ma frequente metodo
con cui un evento (→ event), un prodotto/servizio, una persona vengono montati ad arte dal
professionista e poi, al momento della massima attenzione, si verifica un flop perché l’evento
fallisce, il prodotto/servizio non arriva sul mercato o la celebrità si ammala o comunque non viene
apprezzata.
Boundary spanning molti ricercatori (Heath, Grunig, Dozier e altri) usano questo termine per
indicare quella “giuntura” fra l’attività di ascolto, quella di analisi e la successiva fase
comunicativa. È uno dei diversi ruoli “strategici” del relatore pubblico (→ strategy). In sostanza,
individuato l’obiettivo, il relatore pubblico analizza le variabili interne ed esterne, sociali,
economiche, tecnologiche, ambientali (→ issue; variable) le cui dinamiche ne influenzano il
raggiungimento e – dopo avere selezionato fra le prioritarie quelle variabili che, al contrario di altre,
possono venire influenzate da una consapevole e programmata azione di relazioni pubbliche –
identifica (→ segmentation) i soggetti influenti (→ influential; influencer) con i quali avviare
attività di relazione. “Spanning” sta per sondare, studiare, rovistare una questione, non
necessariamente con modalità scientifiche (i tempi e le risorse solitamente disponibili raramente lo
consentono), mentre “boundary” indica limite, confine: in pratica, uscire dal proprio ristretto
seminato di conoscenze per apprendere e interpretare dinamiche ambientali rilevanti atte a essere
utilizzate per predisporre messaggi (→ message), eventi (→ event), azioni relazional/comunicative
utili al raggiungimento dell’obiettivo perseguito.
Brainwriting è una variante del → brainstorming che si svolge con modalità scritta anziché orale,
da preferirsi quando il gruppo dei partecipanti si mostra inibito nel proporre ad alta voce il proprio
pensiero. Il brainwriting ha due forme di applicazione: può servire alla produzione di idee
esattamente come nel brainstorming, oppure per raccogliere criticità (i vari → rumor interni di
un’organizzazione) nel caso di indagini di clima.La forma di erogazione è la stessa in entrambi i
casi: cambiano solo le domande. Poniamo che il conduttore ponga al gruppo la domanda: “Cosa vi
infastidisce maggiormente nel vostro lavoro quotidiano?”. I presenti scrivono di getto i loro pensieri
su fogli bianchi (anonimi) che vengono fatti velocemente girare tra i presenti, in modo che ognuno
debba scrivere la dichiarazione sul nuovo foglio che gli viene consegnato, senza troppo tempo per
riflettere e senza conoscere l’autore della frase precedente. Il brainwriting, grazie all’anonimato,
non richiede al partecipante di esporsi psicologicamente nei confronti del gruppo con dichiarazioni
verbali e rappresenta quindi uno sfogo liberatorio di grande utilità. Deve essere però garantito in
anticipo, dal facilitatore che gestisce la seduta, che le doglianze raccolte, oltre a rappresentare una
testimonianza di ascolto e quindi di interesse per i problemi dei partecipanti, saranno fedelmente
trascritte e riportate in videoscrittura allo scopo di rendere anonime le proposte. I fogli originali
vanno poi truciolati per garantire l’anonimato.
Brainstorming è un termine assai abusato per indicare genericamente la fase di raccolta di idee
(normalmente una riunione) sulla soluzione comunicativa da adottare per affrontare con efficacia
una determinata questione. Abusato perché in effetti il brainstorming non è una semplice riunione,
ma uno strumento specifico del processo creativo e del lavoro di gruppo. La sua efficacia dipende
dalla professionalità di chi lo convoca, di chi lo conduce e di chi vi partecipa. Normalmente un
brainstorming non deve avere più di 6, massimo 8 partecipanti e mai durare più di 30/40 minuti. I
partecipanti vengono selezionati dal convocatore (il quale non partecipa attivamente), tenendo conto
della massima diversità delle esperienze personali, punti di vista, competenze professionali. Il
convocatore deve essere un soggetto riconosciuto come autorevole sulla questione e distribuire in
anticipo (24 ore) una nota di una cartella (massimo 1800 battute) in cui sono illustrati l’obiettivo
specifico della riunione e gli elementi oggettivi noti che ritiene debbano essere patrimonio comune
di conoscenza prima che i partecipanti si incontrino. È importante assicurare che i posti intorno al
tavolo siano assegnati evitando di mettere a fianco persone che si presume la pensino allo stesso
modo. Il moderatore deve essere riconosciuto dai partecipanti come esperto della gestione di gruppi
e non come esperto della materia. All’avvio della riunione il moderatore riassume la pagina di brief
già inviata ai partecipanti, invita alla massima casualità e libertà di espressione e ricorda la
fondamentale regola per cui nessun intervento deve durare più di due minuti e, ancora più
importante, essere valutativo di un intervento precedente. Normalmente in piedi vicino a un flip
chart (in italiano “lavagna a fogli mobili”) e dotato di pennarelli di diversi colori, il moderatore si
limita a riportare sui fogli mobili, senza indicare volta per volta il nome di chi interviene, la sintesi
di quanto viene detto. Se il dibattito si smorza, il moderatore interverrà proponendo qualche
simulazione creativa o qualche gioco fra i tanti che avrà nel proprio bagaglio professionale. Chi
interviene ha facoltà di richiedere modifiche puntuali a quanto viene riportato sul foglio mobile
relativo al proprio intervento.In conclusione il moderatore riassume le cose dette rileggendo le
annotazioni dai fogli mobili (normalmente un brainstorming non dovrebbe riempirne più di
quattro). Spetterà poi al moderatore predisporre una sintesi scritta del lavoro fatto da far pervenire al
convocatore.
Brief è un documento (brief), oppure una riunione (riunione di briefing) che prevede comunque la
consegna di un documento scritto) in cui il soggetto committente descrive al/ai proponente/i
appositamente convocato/i:
-
le caratteristiche della questione che intende consegnare al/ai proponente/i da affrontare con
un programma di relazioni pubbliche;
- le modalità e i tempi di consegna delle proposte;
- le risorse che il committente è disposto ad investire su quel programma.
Non sempre il brief implica competitività fra proponenti diversi e il termine viene utilizzato sia per
un’organizzazione quando ha bisogno di proposte di più soggetti esterni, sia quando
l’organizzazione presenta la questione a soggetti interni preposti ad affrontarla con azioni di
relazioni pubbliche. Il termine deriva dal linguaggio della pubblicità. Se il brief si propone di essere
la base di partenza di un processo creativo (→ brainstorming) la sua lunghezza non può superare la
cartella (1.800 battute). Se invece si propone di stimolare e ricevere proposte di programmi di
relazioni pubbliche atti ad affrontare una questione specifica, può consistere anche in un articolato
pacchetto informativo.
Call for (papers/proposals/projects) in italiano, “chiamata” o “bando per…”. Quando
un’organizzazione invita i suoi interlocutori a proporre testi per un congresso o una pubblicazione,
proposte di iniziative e di progetti di relazioni pubbliche. Perché la chiamata sia efficace è
necessario che contenga sinteticamente le informazioni necessarie a chi partecipa per calibrare la
sua proposta.
Capital intensive espressione utilizzata per indicare una professione/attività ad alta intensità di
capitali investiti. Per antonomasia, un’attività capital intensive è la pubblicità che si basa
sull’acquisizione (tramite investimento di risorse consistenti) di spazi nei diversi canali di
comunicazione (→ media). Per valutare il valore di mercato basta poi sommare i capitali investiti
dalle imprese private sui diversi media. Fino ad oggi anche il comparto delle relazioni pubbliche è
stato valutato con gli stessi criteri utilizzati per la pubblicità e il riferimento più comune è quello
alla indagine annuale UPA/Intermatrix che da vent’anni consente di seguire le dinamiche degli
investimenti esterni delle imprese private in comunicazione. Secondo l’ultima edizione della ricerca
l’investimento annuale delle imprese private in relazioni pubbliche è di 2,3 miliardi di euro. Le
relazioni pubbliche, tuttavia non acquistano spazi sui media e quindi le loro attività non possono
essere considerate capital intensive, bensì → labour intensive, e la cosa implica criteri di
misurazione dell’indotto completamente differenti.
Cause related marketing si intende quella tecnica di relazioni pubbliche/marketing che vede
un’organizzazione – normalmente una impresa di beni o di servizi – che invita i suoi consumatori
ad acquistare un prodotto o utilizzare un servizio destinando una somma fissa o in percentuale a una
“buona causa” normalmente promossa da una associazione non profit. Ad avviare questa tecnica fu
l’American Express negli anni Settanta negli Stati Uniti a livello locale, quando si era trovata in
difficoltà con i ristoratori che tendevano a rifiutare la carta American Express a causa delle
commissioni più elevate rispetto alla concorrenza. Ottenuto un forte successo a livello locale, nei
primi anni Ottanta e prima di decidersi a sperimentare una campagna nazionale, chiese alla
consociata italiana di provarci. La campagna fu realizzata nel 1984 insieme al WWF Italia per la
salvaguardia delle coste italiane in collaborazione con l’editore Rizzoli/Corriere della Sera. Il
successo fu travolgente (+40% nell’uso della carta!) e convinse la casa madre a lanciare la prima
campagna nazionale americana per il restauro della statua della Libertà, campagna che diede
notorietà internazionale al cause related marketing. Oggi, grazie alla sua tematizzazione diffusa (→
advocacy), qualcuno inserisce il cause related marketing fra gli strumenti della corporate social
responsibility (CSR).
Celebrity public relations il termine “celebrity” si riferiva una volta solo a personalità dello
spettacolo e dello sport e le RP correlate erano integrate nel modello operativo definito → press
agentry (→ Grunig) (gli altri tre sono → public information, scientific persuasion e two-way
symmetric). Oggi – anche in virtù di un libro del celebre Kotler, autorevole studioso di marketing,
tradotto in italiano da ISEDI nel 1990 col titolo: Alta visibilità: marketing della celebrità – nei
mercati anglosassoni, celebrity sono anche il leader aziendale, sociale, politico e culturale. Da qui
l’abitudine ormai consolidata di considerare le celebrity public relations come una delle
specializzazioni più diffuse della professione, al punto che il progetto → XPRL le considera uno dei
rami più importanti delle RP. Le qualità e competenze richieste implicano per il professionista:
• discrezione assoluta sulle debolezze e criticità della celebrity con la quale il relatore
pubblico finisce inevitabilmente per vivere a stretto contatto;
• fedeltà assoluta, questione assai complicata per il relatore pubblico sul piano deontologico
quando il suo stipendio/onorario proviene dall’organizzazione e non dalla persona e, come
assai spesso avviene, gli interessi entrano in conflitto;
• creatività, fantasia e una buona dose di spregiudicatezza, accompagnate a una dettagliata e
sempre aggiornata conoscenza delle regole dello star system e dei suoi sottosistemi di
giornalisti, press agent, veline e stelline. Ci riferiamo a organizzatori di eventi, associazioni
imprenditoriali, culturali, circoli, salotti e think tanks – per la maggior parte → front
organisation disponibili a sostenere la celebrity a determinate condizioni
Class action un incubo ricorrente per le organizzazioni che erogano servizi o prodotti a molti (largo
consumo): si verifica quando un insieme di persone che si ritengono danneggiate da un
prodotto/servizio decidono di rivalersi come soggetto collettivo in sede di risarcimento danni. Da
molti anni applicato negli Stati Uniti, soprattutto da quando gli avvocati – che in quel Paese sono
anche retribuiti in percentuale sull’ammontare dei risarcimenti decisi dai tribunali – hanno iniziato a
reclutare utenti/consumatori insoddisfatti disponibili, alleandosi anche con associazioni e coalizioni
esistenti. Ora si tenta di estendere la class action anche nel sistema giuridico italiano. Recentemente
se ne è parlato nel corso della vicenda della RC Auto e, ancora più recentemente, nella vicenda
Parmalat. Per il relatore pubblico esperto in → litigation public relations, la presenza nel sistema
giuridico della class action modifica sostanzialmente il modus operandi.
Cluster in relazioni pubbliche è un’aggregazione omogenea di soggetti che fanno parte di un
pubblico specifico (→ stakeholder), influenti (→ influential; influencer) o destinatari (→ end
recipient). Il termine viene dal marketing ove la cluster analysis si propone di individuare gruppi
omogenei con lo scopo di identificare le persone o le variabili simili fra loro in base a criteri
prefissati. Si ottengono così gruppi coerenti al proprio interno ma differenti fra di loro. I cluster
vengono anche impiegati anche in psicografia per fornire utili indicazioni sugli stili di vita dei
consumatori in termini di opinioni, azioni, interessi.
Coaching è una relazione professionale che si instaura tra una persona qualificata (coach) e una
singola persona (coachee) e che si propone di assistere quest’ultimo nello sviluppo di strategie
relazionali e gestionali finalizzate alla attuazione di cambiamenti, al raggiungimento di successi o
comunque alla realizzazione di obiettivi specifici e personali.
Colophon colonna normalmente posta all’inizio o alla fine di un mezzo (→ media) di informazione
stampato in cui vengono riportate informazioni di servizio quali: il direttore responsabile, il
direttore editoriale, il capo redattore, l’editore, la sede dell’amministrazione e della redazione, i
responsabili dei vari servizi redazionali, i collaboratori, il costo dell’abbonamento, il costo della
testata, il costo dei numeri arretrati.
Communicational behaviour è il comportamento comunicante delle organizzazioni come
identificato dallo sloveno Vercic: l’organizzazione interagisce con i propri pubblici affidando alle
relazioni pubbliche il governo dei sistemi di relazione con i pubblici influenti (→ Gorel o Relma).
Le relazioni pubbliche diventano allora funzione trasversale e strategica nel suo ruolo riflettivo (→
reflective role) e educativo (→ educational role) individuati dalla scuola europea (Vercic, Van
Ruler, Holstromm ecc.) (→ Bled manifesto). L’organizzazione comunicante attribuisce grande
importanza alla comunicazione con i pubblici influenti e ne affida l’attuazione operativa a tutte le
direzioni, con il coordinamento di una direzione dedicata. (→ comunicative behaviour)
Communication social responsibility è la responsabilità sociale dei comunicatori. Risiede
nell’assunzione di piena consapevolezza e nel conseguente impegno a operare un progressivo
disinquinamento comunicativo (→ info-communicative overload). Questo impegno implica una
migrazione delle pratiche quotidiane verso una “comunicazione con” i pubblici di riferimento, dove
l’ascolto è consustanziale al dialogo e all’interazione. Ciò favorisce, oltre al disinquinamento
comunicativo, anche un sensibile miglioramento della qualità della comunicazione potendo disporre
di modalità relazionali dirette e one-with-one, quelle ritenute maggiormente efficaci.
Comunicative behaviour è una variante del comportamento di un’organizzazione individuate da
Vercic (→ anche comunicational behaviour). In questa dimensione le relazioni pubbliche sono
intese come strumento operativo, verticale e push volto (quasi) esclusivamente alla produzione e
diffusione di messaggi, con netta prevalenza del ruolo tecnico e manageriale (→ managerial role;
operational role). L’organizzazione comunicativa attribuisce grande importanza alla comunicazione
ai pubblici influenti tramite i media e ne affida l’attuazione operativa a una direzione dedicata.
Community relations una delle più importanti e tradizionali specializzazioni delle relazioni
pubbliche legate soprattutto al settore manufatturiero che ha a che fare con i programmi di iniziative
e di relazioni che un’organizzazione sviluppa e attua al fine di ottenere, rinnovare e rinforzare
quella “license-to-operate” così importante per attirare le migliori risorse, ottenere la legittimazione
sociale, la benevolenza e l’alleanza delle istituzioni locali, ridurre il rischio in caso di situazioni di
crisi (→ crisis communication, crisis management). L’attenzione delle organizzazioni verso le
community relations, forte negli anni Sessanta e Settanta, ma poi caduta nei decenni successivi, è
molto cresciuta negli ultimi anni con la tematizzazione pervasiva della CSR.
Concept in relazioni pubbliche è il “cuore”, o il core (nel senso romanesco del termine), la
struttura, il senso autentico, la ragione di un progetto, di un’iniziativa, di un programma di relazioni
pubbliche.
Consent (consensus) sul concetto di “consenso” – e sul rapporto fra consenso e persuasione,
comunicazione, relazioni pubbliche, fiducia, reputazione, immagine, identità (concetti quasi sempre
erroneamente usati con significati equivalenti) – la pubblicazione nel 1956 di The Engineering of
Consent (“Ingegneria del consenso”), fondamentale saggio di Edward Bernays, ha avviato una
sterminata produzione di studi e lavori. Bernays teorizza che informando il pubblico in positivo è
possibile raccogliere il necessario supporto a una causa, a un candidato, a un’organizzazione. La
ricerca, l’acquisizione, la manutenzione del consenso è in cima ai desideri dei vertici di ogni
organizzazione e, più o meno esplicitamente, questo compito viene assegnato ai relatori pubblici.
Consequence termine usato dagli studiosi delle relazioni pubbliche per indicare gli effetti che
un’organizzazione induce sui pubblici influenti. Per James Grunig, sostenitore della tendenziale
simmetria (→ symmetric) relazionale per rendere più efficace l’organizzazione, è anche importante
che il relatore pubblico, nel suo ruolo strategico/riflettivo, si preoccupi di analizzare e interpretare
per la coalizione dominante anche le conseguenze che i pubblici influenti producono sulla
organizzazione (→ reflective role).
Consultancy quando si parla di public relations industry ci si riferisce solitamente all’insieme dei
servizi di consulenza offerti alle organizzazioni da solo consultants (i liberi professionisti),
consulenti associati, imprese di consulenza locali, nazionali, regionali o globali. Poiché lo sviluppo
delle relazioni pubbliche negli Stati Uniti e nel Regno Unito è sempre stato fortemente legato al
settore privato dell’economia, si è indotta (in tutto il mondo) una forte identificazione della
professione con la consulenza, e la sua economia è assimilata alla somma dei budget investiti dalle
imprese. Questa distratta abitudine ha fortemente contribuito a ridurre la percezione reale del settore
(in Europa, più legata al settore pubblico e sociale che non al privato) e della sua stessa economia.
In Italia, su 70.000 relatori pubblici censiti nel 2001, ben 40.000 operavano nel settore pubblico,
15.000 in quello privato e 5.000 in quello sociale. Solo 10.000 erano i consulenti. Quanto poi a
valutare l’economia complessiva del comparto, a fronte dei 2,5 miliardi di euro annui attribuiti alle
relazioni pubbliche dall’UPA (che le considera → capital intensive come la pubblicità e stima i soli
investimenti delle imprese private), la FERPI calcola che il valore economico reale supera in realtà i
14 miliardi di euro l’anno. Questo perché considera le relazioni pubbliche come attività → labour
intensive, e per stimarne il valore, parte dal numero dei relatori pubblici (70.000), definisce un costo
medio lordo annuo di ciascuno (70.000 euro), e moltiplica questo valore per tre considerando questa
la soglia minima della produttività, arrivando quindi alla cifra sopra indicata.
Consumerismo il termine, da non confondersi con “consumismo”, indica il fenomeno della
protezione del consumatore. Negli Stati Uniti degli anni Settanta, ancora prima degli ambientalisti,
gruppi di consumatori consapevoli e organizzati (il primo leader fu Ralph Nader nella sua
campagna contro i giganti dell’auto), hanno cominciato a dare grattacapi alle grandi imprese,
accusate di non preoccuparsi abbastanza della sicurezza e della bontà dei prodotti/servizi. Anche in
Italia il fenomeno si avviò nella seconda metà degli anni Settanta grazie all’azione di Anna
Bartolini, oggi la più autorevole e conosciuta rappresentante dei consumatori e di Gustavo Ghidini,
antesignano del movimento e oggi autorevole giurista, accademico e commentatore del Corriere
della Sera. La prima azienda italiana a prendere sul serio il movimento dei consumatori fu la Fiat
che, alla fine degli anni Settanta, commissionò a una società di consulenza inglese (Intermatrix), un
primo rapporto sulla questione. Poi, seguirono le altre imprese di beni di largo consumo e di servizi.
Oggi, il fenomeno si è istituzionalizzato e la gran parte delle associazioni sono scarsamente
rappresentative e trasparenti.
Content analysis in relazioni pubbliche è l’analisi di contenuto di come il sistema dei → media
tratta una determinata questione, un’organizzazione, un prodotto o un servizio. Mentre in altri
mercati più evoluti le società di servizio che forniscono questa analisi risalgono ai primi anni
Settanta, in Italia il primo a fornirla fu Nicola Bovoli alla metà degli anni Ottanta su esplicita
richiesta della Montedison, il cui direttore delle relazioni esterne era allora Carlo Bruno, oggi
presidente di Bonaparte 48, agenzia di relazioni pubbliche. Negli anni Novanta sono fiorite sia a
Roma che a Milano società di servizi che forniscono analisi quali/quantitative sui contenuti dei
media (→ evaluation, measurement) ma siamo ancora anni luce indietro rispetto ai mercati
anglosassoni ove tutto ciò viene fornito al cliente in tempo reale, via Internet e con livelli assai
sofisticati. (→ anche output)
Cooling-off period è il periodo, cosiddetto “di ripensamento”, che consente all’acquirente di
restituire un servizio o un prodotto acquistato al venditore senza aggravio di costi. In relazioni
pubbliche è il tempo che si dà a un interlocutore per valutare se utilizzare o meno (in esclusiva) le
informazioni ricevute. In caso contrario, si intende che l’interlocutore accetta di non usare quelle
informazioni prima che lo abbia fatto un altro soggetto interpellato per la stessa ragione e che abbia
deciso di accettare.
Co-ompetition condizione che si verfica quando soggetti diversi che normalmente competono si
alleano per cooperare e affrontare una criticità comune pur restando concorrenti. In questi frangenti
le relazioni pubbliche acquistano un rilievo di eccezionale rilevanza.
Co-orientation è una tecnica usata nelle relazioni pubbliche quando si mettono a confronto le
opinioni di due soggetti rispetto a una questione utilizzando anche le opinioni che ciascun soggetto
esprime sulle opinioni dell’altro. È assai utile nei processi di negoziazione (→ negotiative) o di
mediazione fra l’organizzazione e i suoi pubblici influenti.
Copy il termine è mutuato dalla pubblicità per indicare un testo. Copywriter è chi scrive il testo,
mentre copy clearance è il suo processo di supervisione e autorizzazione.
Corporate il termine si riferisce quasi sempre alle imprese private, ma si tratta di un errore, poiché
corporate deriva dal latino corpus, che indica un’organizzazione, indipendentemente dalla sua
natura privata, pubblica o sociale.
Coverage si intende la “copertura” che un’azione di relazioni pubbliche ottiene sui media (→
media, measurement, evaluation).
Crisis communication → crisis management.
Crisis management è una funzione strutturale del processo di direzione di un’organizzazione
(pubblica, privata, sociale) che analizza, predispone e coordina la gestione di situazioni di crisi
prevedibili (intese come avvenimenti non attesi interni o esterni, che coinvolgono persone, processi,
prodotti, attività finanziarie, commerciali o comunicative e che determinano – o potrebbero
determinare – una soluzione di continuità critica alla identità, l’immagine o la reputazione
dell’organizzazione stessa, andando a incrinare i suoi sistemi di relazione con uno o più pubblici
influenti). La crisis communication è invece l’insieme delle attività di comunicazione di
un’organizzazione al momento in cui la crisi si manifesta. Nelle organizzazioni più consapevoli la
seconda è compresa nella prima e la funzione del relatore pubblico è di gestirne i processi
comunicativi. Nella gran parte delle organizzazioni si tende invece a pensare che, affidando il crisis
management alla comunicazione, la prima sia compresa nella seconda: e questa è la ragione per cui
la gran parte delle volte che scoppia una crisi e dall’esterno si osserva con attenzione come viene
gestita, ci si mette le mani nei capelli.
Critical school insieme alla sistemica (→ systemic school) e alla retorica (→ rhetoric school), è la
terza scuola teorico-scientifica alla base del pensiero contemporaneo delle relazioni pubbliche. Per i
“critici” come Stuart Ewen, Jacquie L’Etang e Marvin Olasky nessuna teoria potrà mai impedire ai
poteri “forti” di piegare e di manipolare le coscienze delle persone e, nella società contemporanea,
le relazioni pubbliche rappresentano la massima espressione di questo esercizio.
Database unità informative archiviate e accessibili via computer. In relazioni pubbliche viene usato
per indicare un archivio dinamico, usato spesso e continuamente aggiornato.
Daybook è il diario degli eventi della giornata, aggiornato a scadenze fisse del giorno, con cui
normalmente le agenzie di stampa aprono i loro servizi.
Deadline è la scadenza, il tempo limite di un lavoro. Nelle relazioni con i media (→ media
relations) indica l’ora entro cui un comunicato (→ news release) o una notizia devono arrivare al
destinatario con qualche speranza che venga ripreso il giorno dopo.
Debriefing riunione nel corso del quale, generalmente dopo una campagna, un’iniziativa, un evento
o un incontro importante, i realizzatori si scambiano opinioni e suggestioni al fine di individuare le
criticità incontrate ed evitare o ridurre la possibilità di una loro ripetizione. (→ brief)
Decoy è un nome “civetta” inserito in un elenco di destinatari per controllare che il messaggio
giunga effettivamente a destinazione.
Deep throat “gola profonda”: è una fonte riservata e non citabile. Termine molto usato nel
resoconto del caso Watergate per indicare la fonte anonima che informava Bob Woodward e Carl
Bernstein, i due giornalisti del Washington Post che avevano fatto scoppiare lo scandalo. L’origine
del termine viene dal soprannome della pornostar Linda Lovelace, famosa negli anni Ottanta.
Delphi indica una metodologia di ricerca cui sovente ricorrono i relatori pubblici quando devono
ascoltare le variabili prioritarie (→ issue) e soprattutto si propongono di prevederne le dinamiche.
Tecnicamente il “metodo Delphi” implica un gruppo ristretto di partecipanti (massimo 20), a vario
titolo esperti della materia, o comunque ritenuti dal conduttore utili a gettare luce sul futuro. Sono
persone che lavorano a distanza (uno sa chi sono gli altri, ma solo alla fine) e, in tempi ravvicinati
(massimo due mesi), interagendo da due a tre volte e commentando i commenti degli altri. Il
conduttore scrive una pagina di descrizione del tema e la accompagna con quattro/sei domande
chiave. I partecipanti rispondono alle domande. Il conduttore raccoglie il consenso e isola le
questioni su cui vi sono dissensi. Ripropone ai partecipanti soltanto le versioni estreme dei dissensi
emersi chiedendo un secondo intervento ai partecipanti. Raccoglie nuovamente le aree di consenso
emerse e ripropone una terza (e ultima) volta le questioni ove vi siano ulteriori dissensi. I
partecipanti rispondono e il conduttore tira le somme, scrive le conclusioni inviandole ai
partecipanti i quali però non hanno facoltà di ulteriori interventi correttivi. Una variante del Delphi
è il TAROT (trend analysis by relative opinion testing) creato nei primi anni Ottanta dall’inglese
Geoffrey Morris di Intermatrix appositamente da applicare alla metodologia dell’→ issue
management. Definita una issue prioritaria, si identificano da 20 a 30 esperti della issue e li si
vincola a una sorta di Delphi permanente senza mai dire loro chi siano gli altri partecipanti. Il Tarot
consente al conduttore un monitoraggio continuativo dell’evoluzione della issue.
Demarketing indica una strategia che consiste nel ritardare la consegna di un prodotto/servizio per
ridurre una domanda eccessiva rispetto alla capacità di produzione o di distribuzione.
Desk research è l’attività costante del relatore pubblico di analisi, lettura e interpretazione delle
variabili esterne che influenzano il raggiungimento dell’obiettivo perseguito.
Direct marketing/response è una delle quattro discipline della comunicazione di impresa (→
corporate communication), insieme alla pubblicità, alle relazioni pubbliche e alle promozioni. Si
tratta di una tecnica → “below the line” che consente a un’organizzazione di aprire con i
consumatori o pubblici influenti una relazione a due vie attraverso il canale postale o, più
recentemente, Internet. Normalmente l’obiettivo perseguito è la generazione di contatti, il
rafforzamento delle caratteristiche di un prodotto/servizio/idea nel destinatario e la raccolta di
reazioni e → feedback. È una tecnica che tende a fidelizzare l’interlocutore, sviluppa i suoi effetti a
medio termine e rafforza l’identità di marca. Il termine marketing viene usato quando la singola
operazione è commerciale, il termine response – più sofisticato – venne introdotto alla fine degli
anni Settanta dalla Ogilvy & Mather per valorizzare l’aspetto interattivo della relazione.
Disclaimer è una dichiarazione preventiva di chi avvia un processo comunicativo per avvertire gli
altri soggetti della relazione di alcune precauzioni inerenti, per esempio, alla privacy o alla
responsabilità dei contenuti della comunicazione.
Diversity è il nuovo paradigma delle relazioni pubbliche del XXI secolo. Il presupposto è che la più
efficace delle comunicazioni è quella one-with-one e one-with-few (in italiano “uno-con-uno” e
“uno-con-pochi”, non “uno-a-uno” e “uno-a-pochi”) e che, oggi più che mai, le tecnologie e le
conoscenze consentono alle organizzazioni di perseguire questo modello, quando si tratta di
comunicare con i loro pubblici influenti. Se tutto questo è vero, così come è vero che ogni persona è
diversa dall’altra e che è proprio la diversità nelle sue espressioni più varie (culturale, linguistica, di
genere, di etnia, di religione, di abilità, di preferenza sessuale ecc.) a determinare le dinamiche
dell’ambiente in cui le organizzazioni operano, ne consegue che il governo della diversità equivale
al governo dei sistemi di relazione (→ Gorel o Relma) con i pubblici influenti, cioè, alle relazioni
pubbliche.
Dogoodism indica una tendenza a fare sempre del bene in qualsiasi circostanza. In Italiano è simile
al cosiddetto “buonismo”. In relazioni pubbliche è una tendenza da evitare, poiché finisce per
minare la stessa credibilità dei soggetti.
Door opener un qualsiasi incentivo offerto all’interlocutore per attirarne l’attenzione e creare un
atmosfera di dialogo.
Downplay attività che sminuisce l’importanza di una questione, di una notizia, di un
comportamento.
Editing scrittura di un testo o un articolo, oppure revisione del testo di un altro autore per renderlo
adatto alla pubblicazione.
Editor non è, come molti pensano un editore, bensì un giornalista semplice oppure responsabile di
una pagina o di una rubrica o di un giornale (in questo caso managing editor).
Editorial-leader è un testo che appare come opinione del giornale o, se firmato, del firmatario. Si
chiama anche leader.
Educational role fra i diversi ruoli strategici (→ strategy) del relatore pubblico in
un’organizzazione è anche quello educativo. Partendo dalla premessa che tutte le funzioni direttive
di un’organizzazione gestiscono i rispettivi sistemi di relazione in base a linee condivise e verso
obiettivi concordati e che le competenze comunicative siano diffuse attraverso l”organizzazione, il
relatore pubblico assicura la coerenza dei comportamenti relazionali e comunicativi della coalizione
dominante e sovraintende al trasferimento delle competenze comunicative nell’organizzazione,
monitorandone costantemente le dinamiche. L’altra dimensione di ruolo strategico del relatore
pubblico è quella riflettiva (→ reflective role).
(→ Bled manifesto)
Effective “efficace”, diverso da efficient (“efficiente”). In relazioni pubbliche, il primo si riferisce
all’→ outcome (ma le opinioni o i comportamenti sono cambiati?), il secondo all’→ output (ma
quanti hanno ripreso quel comunicato o partecipato a quell’evento che fa parte del progetto che
dovrebbe cambiare opinioni o comportamenti?).
(→ evaluation, measurement)
Effective audience il pubblico potenzialmente esposto a un articolo.
“Eighty/twenty” principle l’opinione diffusa che il 20% dei consumatori acquista l’80% di un
prodotto o servizio.
E-letter lettera elettronica, anzi newsletter elettronica: utile ed efficace strumento di relazione con
→ stakeholder e pubblici influenti purché siano rigorosamente rispettate le norme più restrittive sul
diritto alla privacy.
Embargo nelle relazioni con i media (→ media relations) è la data su un comunicato stampa (→
news release) che ne autorizza la pubblicazione.
Empowerment è quell’azione consapevole per cui, in un’organizzazione, un soggetto responsabile
di un’azione, un programma, un progetto coinvolge altri soggetti, indipendentemente dalla linea
gerarchica, e attribuisce loro una parte (o tutto) della responsabilità e del potere per poter realizzare
quell’azione, quel progetto, quel programma.
End user, o end recipient, è il destinatario finale. Tra i pubblici influenti (coloro cioè che possono
agevolare o ostacolare il raggiungimento degli obiettivi organizzativi – e quindi il passaggio dalla
→ mission alla → vision) sono quelli che subiscono le conseguenze, dirette e/o indirette, delle
attività dell’organizzazione. Con i destinatari finali l’organizzazione utilizzerà strumenti di
comunicazione erga omnes (→ comunicative behaviour) integrando le relazioni pubbliche con la
pubblicità, il → direct response e le altre attività → below-the-line e incentivando, in ogni caso la
possibilità di → feedback immediato da parte dei destinatari (coupon ecc.).
Endorsement è l’avvallo, la certificazione, il sostegno a un evento (→ event), un’idea, un
programma, un prodotto, un servizio. Mentre lo sponsor è chi sostiene finanziariamente un evento,
una personalità, un prodotto, un servizio; l’endorser è proprio l’evento, la personalità, il prodotto, il
servizio sponsorizzato. In relazioni pubbliche sfugge spesso che il maggior beneficiario della
relazione “sponsor-endorser” non è il secondo ma il primo.
Engineering perception concetto formulato da Leonard Saffir che, a differenza della semplice
persuasione, implica la creazione o la modifica del contesto in cui si formano le percezioni e si
prendono le decisioni.
Environmental analysis/monitoring non è come molti pensano una analisi ambientale nel senso
della qualità dell’aria o dell’acqua, ma un’analisi o un monitoraggio del contesto storico, politico,
sociale, tecnologico, economico e culturale in cui un’organizzazione opera. (→ boundary spanning)
Envisioning la riflessione di un’organizzazione che definisce, aggiorna e rivede la propria missione
(cosa sono e cosa faccio oggi) (→ mission), visione (cosa voglio essere e cosa voglio fare fra
cinque anni) (→ vision), strategia (come intendo transitare dalla missione alla visione) (→ strategy)
e valori guida (→ guiding principles) che devono orientare l’attuazione della strategia.
Equity in relazioni pubbliche è il valore attribuito ai sistemi di relazione e all’identità di un
organizzazione, di un suo prodotto, servizio o idea. Come scrivono già nel 1994 Norton e Kaplan
(The balanced scorecard, Harvard University Press): “You cannot manage what you cannot
measure, and you cannot measure what you cannot describe” (non puoi gestire quel che non puoi
misurare e non puoi misurare quel che non puoi descrivere).
Ergonomics la scienza che studia le relazioni fra chi lavora e il suo ambiente di lavoro.
Ethical relativism il concetto che i comportamenti etici siano diversi in contesti sociali diversi.
Evaluation la fase di lavoro spesso più importante del relatore pubblico quando, dopo avere
realizzato una determinata iniziativa o campagna, valuta sul piano qualitativo – generalmente
tramite comparazione con predefiniti obiettivi organizzativi – il valore dell’intervento comunicativo
analizzando gli effettivi comportamenti, le opinioni e le decisioni dei pubblici influenti orientati da
quella iniziativa (→ outcome). È un processo che sottende grande capacità di interpretazione ed è
naturalmente tendenzialmente soggettivo. È diversa, quindi dalla misurazione (→ measurement)
che invece si occupa di attribuire valori soprattutto quantitativi – è quindi maggiormente oggettiva –
agli spazi effettivamente conquistati da un comunicato o da una conferenza stampa, oppure – se si
tratta di un evento – al numero di partecipanti a un evento (→ output; outtake), a prescindere se
quella notizia o quell’evento potranno effettivamente modificare le opinioni, i comportamenti o le
decisioni dei lettori o dei partecipanti.
Event Daniel Boorstin, storico contemporaneo e autore nel 1962 del pamphlet The Image: or
what’s happenened to the american dream? scrive che un evento è una guerra o un terremoto
mentre tutti gli altri eventi creati artificialmente per attirare l’attenzione di un pubblico su una idea,
un prodotto, un servizio oppure un’organizzazione, sono in realtà “pseudo-eventi”. In relazioni
pubbliche gli eventi sono episodi di convocazione di pubblici specifici per tematizzare una
questione che interessa a chi promuove, sponsorizza, finanzia. Naturalmente l’evento avrà successo
se e quando la questione interessa anche gli invitati. Da qui l’importanza di pensare con attenzione a
come articolare l’evento, dialogando con gli → stakeholder, creando coalizioni di interessi con tutti
gli aventi causa e tenendo in conto le aspettative e le attese dei pubblici che si vuole attirare.
Exit interview è l’intervista che normalmente viene fatta al collaboratore che esce da
un’organizzazione, o lascia un prodotto o un servizio, per capire a fondo le ragioni dell’abbandono
ed evitare così che casi analoghi si ripetano.
Expatriate è il cittadino del Paese ove un’organizzazione ha la sua sede centrale, espatriato a
operare per l’organizzazione in un altro Paese.
Exposure è il valore di esposizione di un pubblico a un messaggio. Non implica né che il pubblico
l’abbia in realtà visto o letto, tanto meno meditato o assorbito. Ma è un valore statisticamente
importante nella fase di misurazione. Un’altra accezione riguarda l’esposizione di un soggetto al
sistema dei media. (→ effective audience)
Extrospective research è l’analisi delle variabili esterne che possono esercitare influenza su un
gruppo di persone o un’organizzazione.
Eye contact quando si guarda direttamente negli occhi dell’interlocutore. In alcuni Paesi è
considerata una tecnica di relazione aggressiva e può essere controproducente, In altri è il contrario.
In televisione è quando si guarda in macchina.
Fact sheet letteralmente un unico foglio contenente i dati indispensabili per conoscere una
questione. (→ backgrounder; position paper)
Fair use la quantità di testo che, eccezionalmente, è consentito citare di un autore senza pagare il
diritto d’autore e senza chiedere il premesso. (→ disclaimer)
Familiarity un messaggio (→ message) è efficace (→ effective) quando chi lo riceve ha familiarità
con il contesto. Non è necessario che conosca già il messaggio specifico, ma che almeno una parte
del messaggio suoni familiare.
Farm out distribuire all’esterno dell’organizzazione una parte del lavoro da fare; sinonimo di
outsourcing.
Fast track corsia preferenziale o privilegiata.
Fee è il compenso/onorario professionale puro, escluse le spese del consulente (o singolo
professionista) e degli eventuali fornitori. Può trattarsi, indifferentemente, di un compenso
forfettario riferito a uno specifico progetto o iniziativa/evento o campagna, oppure di un compenso
periodico a fronte di una prestazione continuativa per un tempo determinato.
feedback è il processo di raccolta di dati, opinioni, giudizi di uno o più soggetti su una specifica
iniziativa per valutarne l’esito e correggerne gli errori.
field report research l’attività di reporting dalle fonti che sono sul “campo operativo” (territorio,
organizzazioni).
financial relations l’insieme delle relazioni che una impresa ha con il mercato finanziario da cui
trae le risorse economiche necessarie alla crescita. Normalmente rientrano sotto la responsabilità
della direzione finanziaria che, a sua volta, può gestirle in cooperazione con la direzione
comunicazione e con la funzione investor relations che, ancora, può essere interna alla direzione
finanziaria, interna alla direzione comunicazione oppure riferire direttamente al vertice
dell’organizzazione.
Five P’s and W’s le prime si riferiscono alla cinque “P” di Kotler e riguardano le variabili del
marketing: price (prezzo), packaging (confezione), product (prodotto), place (luogo), promotion
(promozione). Importante ricordare che, in un momento successivo, Kotler ha anche aggiunto una
sesta “P” che sta per PR (public relations) o power. Le seconde si riferiscono alle cinque “W” del
buon giornalista: who (chi), what (cosa), when (quando), where (dove), why (perché). Anche in
questo caso è buona prassi aggiungere una “H”, che sta per how (come).
Flack termine con cui i → media “antipatizzanti” solitamente definiscono con intenzioni spregevoli
i relatori pubblici. Il senso è quello della vacuità, della inconsistenza, della pura apparenza e anche
di una certa volgarità.
Flow chart una visualizzazione grafica che descrive le fasi successive di un percorso operativo.
Flyer è il nostro tradizionale volantino, buono per tutti gli usi; high flyer è invece una persona che
“vola alto”.
Focus l’obiettivo centrale; nell’espressione focus group, implica una tecnica di ascolto per
raccogliere informazioni qualitative e approfondite su una questione di interesse da un gruppo di
individui attentamente selezionati e coordinati da un facilitatore.
Follow up ciò che segue un evento (→ event), la distribuzione di un comunicato (→ news release)
o la conclusione di un’iniziativa. Normalmente riguarda le attività di relazioni ex post di
ringraziamento, di verifica di gradimento e di interesse, e di rilancio per ulteriori relazioni.
Forensic public relations → legal public relations; litigation public relations.
Four-minute-men così sono chiamati quei volontari della società civile americana che alla vigilia
dell’entrata nella prima guerra mondiale furono decisivi nel convincere l’opinione pubblica
americana all’intervento (→ public opinion). Ciascuno, più volte al giorno e in qualsiasi situazione
relazionale si trovasse (in famiglia, al cinema, al bar, al lavoro) si alzava in piedi, chiedeva la parola
e in quattro minuti illustrava le ragioni che spingevano gli Stati Uniti ad entrare in guerra. L’intera
operazione, guidata direttamente dal Presidente Wilson, è stata condotta dal CPI (Committee for
Public Information) coordinata da Gorge Creel, in collaborazione fra gli altri, con Carl Byor e
Edward Bernays.
Framework è la cornice di una situazione.
Freelance professionista che opera in proprio al servizio di organizzazioni diverse e che,
normalmente, si specializza in un’area di competenza (→ media relations; event; management;
public affairs; financial communication; marketing communication) oppure in un settore specifico
(farmaceutica, chimica, elettronica ecc.).
Freebie gadget gratuito offerto da un’organizzazione a chi partecipa a un evento (→ event) o una
iniziativa.
Front organisation termine usato per definire un’organizzazione apparentemente autonoma e
indipendente che si presta a compiere e a diffondere, assumendosene la paternità, argomenti,
interpretazioni e dati che servono a sostenere gli interessi impliciti di altre organizzazioni che non
vengono esplicitamente nominate come committenti, sponsor o partner.
Full service agency un’organizzazione dell’offerta che propone al mercato un servizio completo di
comunicazione (pubblicità, relazioni pubbliche, promozione, direct marketing).
Fundraising sta per “raccolta fondi”. È importante sottolineare che la progressiva integrazione fra
organizzazioni non profit e organizzazioni donatrici non solo apre nuovi spazi operativi per funzioni
di intermediazione relazionale ma incentiva anche lo spostamento del contenuto della raccolta non
solo ai fondi ma anche al tempo volontario delle persone dell’organizzazione donatrice e di altri
servizi/prodotti di queste.
Gatekeeper chi tiene le chiavi del cancello. In relazioni pubbliche il gatekeeper è sicuramente un
interlocutore rilevante. Talvolta è → stakeholder (consapevole e interessato alla relazione con
l’organizzazione); altre volte è influente (→ influential, influencer) (non necessariamente
consapevole e neppure interessato all’organizzazione ma rilevante per lei perché influente sulle
variabili e/o sui destinatari); altre ancora è tutte e due le cose (sia possessore di titolo a interloquire
sia rilevante per l’organizzazione). L’identificazione dei gatekeeper è una delle fasi più delicate
delle relazioni pubbliche e richiede un attento lavoro di analisi delle variabili (→ issue; boundary
spanning; environmental scanning) che possono orientare il raggiungimento di uno specifico
obiettivo perseguito dall’organizzazione. Se questo lavoro non viene fatto, quando gli obiettivi
perseguiti non sono chiari, specifici e dettagliati, tutti sono gatekeeper (come tutti sono stakeholder
o influenti) e quindi non serve a nulla identificarli e si finisce per comunicare con tutti sbagliando i
messaggi e investendo risorse inutili.
Ghost writer è uno dei tanti compiti che vengono normalmente assegnati al relatore pubblico e si
realizza quando si è chiamati a predisporre un discorso, una dichiarazione, un testo o un documento
per un’altra persona, normalmente un datore di lavoro o un cliente. La qualità e la capacità di
scrittura sono di certo importanti, ma meno dell’empatia del relatore pubblico con la persona che
poi userà il suo lavoro. Scrivere un discorso per chi non si conosce, o si conosce poco, è quasi
tempo perso.
Global principles concetto introdotto da James → Grunig, che nei suoi studi parla spesso di
“global principles and specific applications”. Nella sua teoria globale delle relazioni pubbliche
(ancora di fase di elaborazione), per global principles si intendono quei principi generali delle
relazioni pubbliche che vanno poi applicati e adattati tenendo conto delle specificità culturali,
economiche, religiose e professionali adatte allo specifico territorio in cui si applicano. La Global
Alliance ha adottato questo concetto nella redazione del suo protocollo etico e nel suo programma
strategico 2004-2009. (→ specific applications)
Globalisation in riferimento specifico alle relazioni pubbliche è suggestiva l’argomentazione del
sociologo inglese Anthony Giddens iche:
- la globalizzazione ha esaltato assai più le diversità (→ diversity) e le differenze che non
l’omologazione delle culture, dei valori e dei comportamenti (→ glocal);
-
delle grandi rivoluzioni che hanno investito il genere umano, la globalizzazione è la prima
che vede la comunicazione, da sempre alla perenne conquista del tempo e dello spazio, in
veste di suo motore principale.
Glocal crasi fra global e local; termine coniato nei primissimi anni Novanta in riferimento sia alla
→ globalisation (Giddens) sia ai → global principles (Grunig).
Goodwill letteralmente, “buona volontà”. In relazioni pubbliche può essere interpretato come la
disponibilità “al buio” di un interlocutore, l’apertura di fiducia verso l’organizzazione prima del
dialogo, perfino la reputazione (→ reputation), purché prima di un intervento consapevolmente
orientato a influenzarla. Altrimenti, nella valutazione di una impresa, è il valore del patrimonio
Intangibile (→ invisibile assets), ma si usa sempre meno man mano che gli intangibili trovano
propri e condivisi sistemi specifici di valutazione.
Gorel (governo delle relazioni), o Relma (relationship management), acronimo formulato alla
metà degli anni Ottanta dalla SCR Associati, allora società leader del mercato italiano delle relazioni
pubbliche, nello sviluppo di un “canovaccio” di riferimento per procedere all’attuazione e per
misurare i risultati di una attività di relazioni pubbliche. Oggi, il termine di relationship
management è largamente diffuso in tutto il mondo (→ relationship; systemic school). In Italia, il
metodo Gorel è in continua rivisitazione. Quel metodo, con una ampia flessibilità, viene oggi
adottato da molte organizzazioni anche internazionali e da diversi professionisti. Il termine
“governo” è alternativo a quello di “gestione” (management) poiché una relazione, se è interattiva e
tendenzialmente simmetrica (→ symmetric), non può e comunque non deve essere gestita, ma
“governata” nel senso di → governance.
Governance non esiste un termine italiano condiviso; potrebbe essere “governo”, ma è troppo
stretta la sua identificazione con il governo di uno Stato (tanto che in inglese si dice governance e
non government). Viene usato con diverse accezioni:
• si parla di governance per indicare il sistema di regole che assicura una corretta gestione
delle organizzazioni;
• se ne parla anche come applicazione di processi partecipati e inclusivi per arrivare ad
assumere e implementare decisioni che producono o possono produrre conseguenze su altri.
Tutte le accezioni hanno comunque in comune l’inclusione di nuovi soggetti nei processi
decisionali delle organizzazioni private, pubbliche e sociali.
Grass-root letteralmente, “radice erborea”; in relazioni pubbliche implica una qualsiasi azione “dal
basso” con il quale il relatore pubblico si trova a confrontarsi con un pubblico. Con particolare
riferimento all’attività di → lobbying, grass-root lobbying indica la mobilitazione civile (tramite
manifestazioni, invio di lettere, scioperi) per cercare di influire sui processi decisionali pubblici
(PDP).
Gross impression nei sistemi di misurazione quantitativa delle relazioni pubbliche (→
measurement; output) è l’indice delle uscite sui → media moltiplicate per i lettori potenziali (→
effective audience; exposure). Il termine gross sta per lordo, nel senso che non potrò mai sapere
quanti abbiano davvero letto quell’articolo, ascoltato o visto quel programma o quella notizia. Ma
posso sapere potenzialmente quanti lo avrebbero potuto fare.
Gross rating point (GRP) nei sistemi di misurazione quantitativa della pubblicità è l’indice che
misura la pressione sui media di una campagna. Si calcola moltiplicando l’audience per la
frequenza di uscita.
Grunig (models of PR) felice elaborazione dello studioso americano James Grunig per sintetizzare
quattro diversi approcci alle relazioni pubbliche che corrispondono anche ad altrettanti fasi storiche
della professione, pur essendo oggi tutti e quattro i modelli adottati, e sovente anche nella stessa
organizzazione. Eccoli:
1) → press agentry: le relazioni pubbliche hanno un solo interlocutore prevalente che è il
giornalista, al quale si forniscono notizie anche fantasiose purché creative e capaci di fare
vendere più copie. Si viene così a creare un sorta di “dipendenza” del giornalista dal relatore
pubblico. Il modello è unilaterale e completamente asimmetrico (→ asymmetric) (nasce a
fine Ottocento e Grunig cita come caso esemplare quello del proprietario di circo P.T.
Barnum);
2) → public information: le relazioni pubbliche hanno sempre lo stesso interlocutore
prevalente (il giornalista) ma l’organizzazione gli riconosce il diritto a una informazione
veritiera anche se parziale, e all’accesso alla fonte per ulteriori approfondimenti. È sempre
un modello unilaterale ma leggermente più simmetrico (→ symmetric). Grunig attribuisce
questo modello a Ivy Lee nei primi anni del novecento (→ muckracker);
3) scientific persuasion (two-way asymmetric): le relazioni pubbliche ascoltano i destinatari
(consumatori, elettori, utenti, beneficiari) per capire chi sono i loro → opinion leader e per
verificare l’efficacia (→ evaluation) dei messaggi (→ message) predisposti prima di
trasferirli erga omnes. È un modello bilaterale e assai più simmetrico del precedente e che
anticipa il marketing. Grunig fa risalire il modello ai primi anni Venti con l’attività di
Edward Bernays;
4) negotiation (two-way symmetric): le relazioni pubbliche aiutano le organizzazioni a
raggiungere le finalità perseguite ascoltando le aspettative dei – e sviluppando sistemi di
relazione interattivi e simmetrici con – i pubblici influenti prima di decidere gli obiettivi
specifici, tenendo conto delle loro esigenze quando non siano in conflitto con le finalità (→
envisioning), così da ridurre le resistenze al raggiungimento degli obiettivi così definiti. Il
modello è interamente bidirezionale e tendenzialmente simmetrico, e la sua elaborazione è
attribuita allo stesso Grunig.
Guiding principles “principi guida”. Nel processo di → envisioning di un’organizzazione è la fase
successiva alla definizione della missione (→ mission) e della visione (→ vision) e precede quella
della strategia (→ strategy). È la declinazione dei principi generali di comportamento che
l’organizzazione si impegna a rispettare nell’attuazione della strategia.
Hidden persuaders l’espressione è mutuata dal titolo di un libro scritto nel 1957 da Vance Packard
(Persuasori occulti, edito in Italia da Einaudi) in cui l’autore, con straordinaria brillantezza, porta
alla ribalta dell’opinione pubblica (→ public opinion) la questione dell’uso delle tecniche di
persuasione (→ Grunig) per veicolare un prodotto o un messaggio (→ message). Se è fuor di
dubbio che il concetto di “persuasori occulti” era stato originariamente coniato per indicare i
pubblicitari e non i relatori pubblici, è pur vero che ancora oggi, a tanti anni di distanza, rimane uno
stereotipo urticante con cui prima o poi finiscono per fare i conti tutti i relatori pubblici: trovandosi
a operare nell’incrocio tra i sistemi di relazione di società politica, dell’informazione ed economicosociale possono dar luogo a percezione di attività opacamente (il contrario di trasparente)
manipolative e persuasive.
Hospitality termine assai usato in relazioni pubbliche, tradendo così la natura originaria di una
professione un cui strumento chiave è appunto l’ospitalità di interlocutori attentamente selezionati
perché ritenuti influenti sull’obiettivo perseguito: giornalisti, politici, opinion leader, grandi clienti,
medici, fornitori, azionisti, distributori. Da qualche anno e in qualche paese giornalisti, politici e
analisti finanziari tendono a non accettare l’ospitalità e partecipano a eventi ritenuti interessati a
proprie spese.
House agency agenzia di servizi interna all’organizzazione. Ciclicamente nascono e altrettanto
ciclicamente defungono, a seconda della congiuntura economica. Nei periodi in cui le
organizzazioni si trovano a ridimensionare le rispettive strutture interne di comunicazione, l’house
agency evita il brusco licenziamento e dà tempo alle persone di verificare se sono in grado di
farcela da sole. Normalmente vengono fatte in accordo con agenzie esterne che poi assorbono il
personale.
House organ strumento fra i più classici e più diffusi delle relazioni pubbliche. È il giornale interno
dell’organizzazione (→ internal relations), talvolta diffuso anche ad alcuni pubblici esterni.
Hype, to gonfiare, esagerare, sopravvalutare...attribuito sovente come caratteristica delle relazioni
pubbliche, come anche l’altro termine → spin. (→ sexing up)
Impact è l’impatto di un evento (→ event), di una notizia, di una circostanza, di una campagna
rispetto all’obiettivo perseguito. I parametri di valutazione e/o misurazione possono essere
quantitativi o qualitativi (→ evaluation; measurement; output; outtake; outcome; outgrowth).
Influence è, da sempre, uno degli obiettivi strutturali delle relazioni pubbliche. Per la verità, fino
alla metà degli anni Ottanta, questo obiettivo veniva interpretato dai relatori pubblici in senso
“push” (l’organizzazione si propone di influenzare i pubblici tramite le relazioni pubbliche). Oggi è
interpretato in senso maggiormente bilaterale: anche i pubblici influenzano l’organizzazione e,
attraverso il reciproco ascolto e una relazione tendenzialmente simmetrica (→ symmetric), si
affrontano le → issue a beneficio di entrambi.
Influential, influencer è un soggetto, non necessariamente consapevole e neppure particolarmente
interessato alla relazione con l’organizzazione, che questa ritiene influente sul raggiungimento dei
propri obiettivi, sia perché capace di orientarne le variabili (→ issue), sia perché capace di orientare
le opinioni (→ opinion leader) dei destinatari finali (→ end recipient). È diverso dallo →
stakeholder (anche se spesso lo è anche) che invece è soggetto consapevole e interessato alla
relazione con l’organizzazione. Normalmente lo stakeholder (che è a sua volta quasi sempre
influente) viene ascoltato, con l’impiego di metodi pull e tendenzialmente simmetrici (→
symmetric), prima della definizione degli obiettivi. L’influente invece viene ascoltato dopo la
definizione degli obiettivi con metodi push-pull, retorici e meno simmetrici. Da una accurata
selezione di stakeholder e influenti dipende in larga parte la capacità del relatore pubblico di ridurre
l’inquinamento comunicativo (→ info-communicative overload) e le risorse economiche da
investire nella comunicazione.
Info-communicative overload è il sovraccarico che deriva dal crescente e incontrastato flusso di
informazione-comunicazione che viene rilevato nell’ambiente esterno. Alcuni ricercatori
dell’Università di Berkeley registrano ogni anno la quantità di byte info-relazionali che vengono
immessi nell’ambiente (How Much Info?): nel 2003 ciascun essere vivente ha ricevuto/ritrasmesso
800 milioni di byte (sic), con un incremento costante annuo (dal 2001) del 30%. Fonti importanti
anche pratiche di relazioni pubbliche sovente poco professionali mascherate dall’alibi di
“insopprimibili” esigenze dei nostri clienti/datori di lavoro (per esempio, il virus da visibilità che li
affligge, da quando però noi per primi li stimoliamo ad apparire, scatenandone – da veri e propri
pusher – le loro crisi da astinenza). Per contrastare questo fenomeno si impone a tutte le
organizzazioni, a tutti i relatori pubblici – e alla loro comunità professionale – di assumere piena
consapevolezza di questo tipo di inquinamento, della sua scarsa efficacia e dei suoi danni certi e,
conseguentemente, adottare pratiche comunicative maggiormente sostenibili e rendicontabili (→
communication social responsibility).
Infomercial è una categoria mista di comunicazione a cavallo fra una notizia e una pubblicità
pagata. In italiano, sono i cosiddetti publiredazionali.
Insider (da insider trading) pratica vietata in molti mercati finanziari di utilizzare informazioni
sensibili (price sensitive) riferite a una società quotata in borsa per speculare sul titolo. I relatori
pubblici, alla pari delle altre funzioni dirigenziali delle imprese quotate e dei loro consulenti più
vicini, sono spesso in condizioni di farlo.
Internal relations i sistemi di relazione interni all’organizzazione, che hanno oggi in molti casi un
peso superiore a quelli esterni. Tradizionalmente e fino alla metà degli anni Settanta la cosiddetta
“comunicazione interna” era dominio incontrastato delle direzioni del personale. L’esperienza di
alcune imprese italiane (IRI, Italsider, Olivetti, Pirelli) e fino ai primi anni Settanta, è celebrata come
una delle più innovative e interessanti del mondo intero. Nel contesto sfavorevole di una cultura
imprenditoriale fortemente paternalistica e autoritaria, queste aziende hanno saputo acquisire
quell’autorevolezza e quel consenso (che oggi tutti dichiarano e si sforzano di perseguire),
anticipando con modalità proprie e diverse l’una dall’altra, quella che poi sarà la “mitbestimmung”
tedesca o, fra gli economisti, la stakeholder society. Negli anni Settanta, esasperati dalla situazione
sociale, gli imprenditori (Confindustria e Fiat in prima linea) hanno colpevolmente lasciato la
comunicazione interna, e per contratto (quello dei metalmeccanici del 1976 sulla informazione
dovuta), nelle mani del sindacato riducendo la funzione del direttore del personale a quella di
controllore. Si è dovuto attendere fino alla marcia torinese dei 40.000 dei primi anni Ottanta, per
assistere al rilancio della comunicazione interna con il risultato di riposizionare la funzione in
direzione delle risorse umane, per poi passare in molti casi nel decennio successivo alla direzione
comunicazione. È una vecchia questione: da chi deve dipendere la comunicazione interna? Non
esiste un soluzione certa e buona per tutte. Se è la direzione risorse umane ad applicare all’interno
dell’organizzazione le politiche aziendali, le spetta governare i processi di comunicazione
servendosi delle competenze comunicative della direzione competente alla quale, a sua volta, spetta
garantire la coerenza e il governo dei processi relazionali e comunicativi con tutti gli →
stakeholder, dipendenti inclusi.
International relations è aperta e vivace il dibattito se le relazioni internazionali siano parte delle
relazioni pubbliche. In una interpretazione estensiva, anche i corpi diplomatici degli Stati sono in
realtà una espressione professionale delle relazioni pubbliche (public diplomacy). Dal punto di vista
delle organizzazioni, non v’è dubbio che la globalizzazione (→ globalisation) abbia esaltato e reso
pervasivo la questione delle relazioni internazionali. Un recente e ottimo volume (Vercic e
Shiramesh, Global PR Handbook, 2003) parte dal presupposto che nel mondo di oggi sia
impossibile esercitare la professione delle relazioni pubbliche in una ottica locale. I modelli di
relazioni pubbliche internazionali sono molteplici e in continua evoluzione e tengono conto delle
diversità di cultura organizzativa e di cultura dei diversi Paesi. (→ diversity; glocal; global
principles)
Investor relations → shareholder relations.
Invisibile/intangibile assets da diversi anni economisti di impresa, analisti e sociologi sviluppano
metodi e parametri per quantificare e misurare le attività soft delle organizzazioni quali la
reputazione, l’immagine, l’identità e i sistemi di relazione. Man mano che crescono gli investimenti
soft delle organizzazioni si moltiplicano gli sforzi per valutarne l’efficacia.
Issue management questione, variabile, fattore, problema. È la materia grezza di cui si occupano le
relazioni pubbliche. Si crea una issue, si risponde a una issue, ci si confronta con una issue, ci si
sforza di orientare, governare, gestire una issue. Alla fine degli anni Settanta in alcune
multinazionali come Ibm e Philip Morris, e poi negli anni Ottanta con modalità pervasive da società
di consulenza beniamine della comunità manageriale internazionale come Intermatrix o Burson
Marsteller, si diffuse l’issue management inteso come orientamento dell’organizzazione al governo
delle issue. Un po’ come oggi inizia a succedere con lo → stakeholder relationship management.
Nel → Gorel l’issue management è integrato nella fase di analisi delle variabili (interne/esterne)
che influenzano il raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione, mentre lo stakeholder
relationship management è compreso nella fase (precedente) di ascolto delle aspettative degli
stakeholder prima della definizione degli obiettivi e si sviluppa tramite l’integrazione verticale dei
diversi sistemi di relazione con i vari segmenti di pubblici influenti.
Junk mail è la posta spazzatura, quella che noi relatori pubblici diffondiamo a piene mani quando
non stiamo attenti alla individuazione preventiva degli interlocutori rilevanti.
Junket, o junk trip in relazioni pubbliche, viaggio di gruppo che si offre a giornalisti o altri
segmenti di → opinion leader in luoghi esotici o comunque attraenti per presentare un prodotto, un
servizio o un’idea che potrebbero benissimo essere presentati in luoghi meno ameni e costosi.
L’obiettivo del junket è di “catturare” quei giornalisti o opinion leader per qualche giorno e fargli un
bel lavaggio del cervello passando insieme a loro ore serene e allegre – alimentate normalmente da
consumi e divertimenti insoliti e di lusso – per sviluppare o rafforzare relazioni personali. Il termine
junk (che sta per “spazzatura”, “robaccia”, “schifezza”, “ferrovecchio”) è però spregiativo e viene
usato da quei giornalisti, sempre più numerosi, che rifiutano di partecipare a queste “scampagnate”.
Just-in-time (JIT) con riferimento al noto sistema produttivo introdotto dai giapponesi alla fine
degli anni Ottanta (oggi assai applicato anche in Europa e nelle Americhe), in relazioni pubbliche il
termine è usato in termini ironici e paradossali per definire la classica reazione pavloviana con cui
molti relatori pubblici, qualsiasi sia la natura della questione affrontata, reagiscono sempre allo
stesso modo: facciamo una conferenza stampa (→ news conference) oppure facciamo un evento (→
event), o infine, facciamo una conferenza stampa che si trasformi anche in un evento.
Key performance indicator (KPI) nella più ampia tematica della valutazione e della misurazione
delle relazioni pubbliche (→ evaluation, measurement), per KPI si intendono gli indicatori prescelti
prima dell’avvio di un progetto che saranno poi adottati per misurarne l’efficacia o l’efficienza.
Keynote è l’intervento chiave, centrale di un convegno o un congresso. Il keynoter è una
personalità specializzatasi nel fare interventi keynote. Il ghost keynoter è chi si scrive i discorsi dei
keynoter (→ ghost writer).
Labour intensive espressione impiegata per definire la qualità delle relazioni pubbliche, che a
differenza della pubblicità sono una attività ad alta intensità di lavoro e a (relativamente) bassa
intensità di capitale (→ capital intensive). L’implicazione è rilevante quando ci si accinge a
valutare l’indotto economico delle due attività. Mentre infatti ha senso misurare l’indotto della
pubblicità sommando gli investimenti delle organizzazioni sui diversi media (vedi il SIC – sistema
integrato della comunicazione – introdotto dal Parlamento con la recente legge Gasparri, oppure
l’annuale ricerca UPA/Intermatrix sugli investimenti in pubblicità), non ha invece senso alcuno
utilizzare quegli stessi indicatori per le relazioni pubbliche le quali, come è noto, non acquistano
spazi o tempi sui diversi media. Così, per valutare le relazioni pubbliche ha molto più senso censire
il numero degli operatori, attribuire loro un costo lordo medio per l’organizzazione nella quale o per
la quale lavorano, moltiplicare per tre questa somma in virtù di una sia pur modesta ma
indispensabile produttività e si ottiene l’indotto complessivo. Così in Italia, nel 2001 erano 70.000
(di cui 40.000 nelle amministrazioni pubbliche), i relatori pubblici con un costo lordo annuo medio
di 50.000 euro. Moltiplicando questa cifra per tre nel presupposto che la produttività di un quadro
stia nella sua capacità minima di produrre costi esterni almeno tripli rispetto al proprio, si arriva a
superare i 10 miliardi di euro l’anno.
Labor relations relazioni con il sindacato dei lavoratori. Normalmente sono delegate alla direzione
risorse umane (o personale), ma in situazioni di emergenza o in casi di negoziati particolarmente
rilevanti si rende necessario anche l’intervento del relatore pubblico, quasi sempre per questioni
attinenti i rapporti con la stampa, ma talvolta anche per i rapporti diretti con il sindacato oppure con
altri soggetti istituzionali ritenuti rilevanti per il raggiungimento dell’obiettivo perseguito.
Lateral thinking è il cosiddetto pensiero laterale, la capacità di affrontare creativamente più
questioni diverse fra loro in contemporanea e anche di trovare collegamenti fra loro. Essenziale per
chi fa relazioni pubbliche, soprattutto (ma non solo) se lavora in consulenza. (→ brainstorming)
Leaflet è il classico depliant (peraltro termine di origine francese), una rappresentazione stampata,
non minima come un volantino né massima come una brochure (altro termine francese), in cui
viene presentato un prodotto, un servizio, una idea o un’organizzazione. Il leaflet va in distribuzione
ai pubblici influenti oppure anche ai destinatari finali (→ end recipient).
Leak letteralmente, una “perdita” di acqua o di benzina o altro liquido da un contenitore apposito;
figurativamente, e in relazioni pubbliche, la fuoriuscita di notizie, di informazioni o di dati riservati
malgrado le intenzioni (talvolta soltanto a quelle ufficiali) dell’organizzazione. Il compito viene
solitamente affidato al relatore pubblico al quale si chiede di “spifferare” l’informazione riservata
assicurandosi che non venga rivelata la fonte. È una prassi assai diffusa ma esplicitamente
condannata da tutti i codici etici della professione, poiché il relatore pubblico è sempre obbligato a
citare la fonte delle informazioni che trasferisce.
Learning curve la “curva di apprendimento”; in relazioni pubbliche più che una curva, di questi
tempi, è una linea sempre in salita poiché la professione cambia con la velocità della luce e quei
professionisti che non dedicano una parte consistente del loro tempo all’aggiornamento permanente,
vengono inevitabilmente tagliati fuori dal mercato.
Legal public relations da molti anni in Usa e da una decina di anni in Italia è quella
specializzazione del relatore pubblico che svolge la sua attività per conto degli studi legali o di loro
clienti.
Legitimacy legittimazione sociale di un’organizzazione (→ license to operate). La legittimità
sociale di qualsiasi tipo di organizzazione (privata, pubblica, sociale) dipende dalla capacità di
soddisfare le aspettative dei suoi pubblici influenti dando luogo a processi inclusivi nella fase di
definizione degli obiettivi. Sul concetto di legittimazione ha scritto parecchie cose interessanti la
studiosa Susanne Holstrom nell’ambito della sua teorizzazione del modello riflettivo (→ reflective
role) delle relazioni pubbliche.
Liability obbligo di responsabilità. Si usa anche per indicare il livello di rischio rispetto a una
determinata questione.
Liaise dal francese liaison, legame, relazione, rapporto. Da cui anche il verbo to liaise, legare o
relazionarsi con qualcuno o qualcosa.
Libel diffamazione, connota e normalmente si riferisce ad una causa per diffamazione.
License to operate letteralemente “licenza di operare”, definisce il desiderio di una qualsiasi
organizzazione di godere di una legittimità sociale (→ legitimacy). In effetti è una licenza che non
viene concessa da una normativa o da una camera di commercio, ma dai pubblici influenti
consapevoli (→ stakeholder), sui quali le attività di quella organizzazione produce conseguenze. È
una vera e propria legittimazione sociale dell’organizzazione, molto importante soprattutto quando
scoppia una crisi e i pubblici influenti, se la licenza a operare è stata “concessa”, fanno quadrato e
sostengono l’organizzazione o comunque tendono a essere indulgenti.
Line extension un nuovo prodotto o servizio che estende una linea esistente di prodotti o servizi.
List broker un fornitore di servizio che propone al relatore pubblico liste di nominativi di persone
con le quali avviare relazioni rilevanti.
Litigation public relations da molti anni in USA, e da una decina di anni in Italia, è quella attività
specialistica di un relatore pubblico che, in stretta collaborazione con i legali e talvolta anche
coordinandone le attività, assiste il datore di lavoro/cliente nel tutelarne la reputazione presso il
cosiddetto tribunale dell’opinione pubblica. (→ legal public relations)
Lobby (lobbying) è l’attività pubblica e trasparente (→ transparency) di chi opera per influire
sugli esiti di un “processo decisionale pubblico” (PDP; in inglese PPP, public policy process). Il
termine deriva da corridoio o anticamera, ove staziona chi non ha diritto a entrare nei luoghi della
decisione pubblica e per rappresentare le proprie argomentazioni ferma i decisori che vi si recano.
In alcun Paesi l’attività dei lobbisti è regolata fin dal secondo dopoguerra (negli Stati Uniti, per
esempio, dal 1946 con il Lobbying Act): sostanzialmente il professionista ha obbligo di registrarsi
in un elenco accessibile al pubblico in cui indica gli interessi che rappresenta e di consegnare
periodicamente alla istituzione presso la quale è registrato una relazione in cui illustra l’attività
svolta e le spese sostenute. In Italia, la regione Toscana ha regolato le attività dei gruppi di interesse
e la regione Calabria discute una analoga proposta legislativa. In Inghilterra l’obbligo di trasparenza
spetta non ai lobbisti ma ai “lobati”. È il parlamentare della Camera dei Comuni, il lord della
Camera alta o il consigliere comunale che ha l’obbligo di registrare una dichiarazione a una
apposita commissione ogni volta che viene coinvolto da un lobbista in una iniziativa tesa a
influenzare il processo decisionale pubblico. Da non confondere con le attività più generali di →
public affairs di un’organizzazione di cui la lobby è soltanto parte.
Location è il luogo, accuratamente selezionato dal relatore pubblico, ove si svolge un evento (→
event). (→ venue)
Low key/profile si dice di campagna o un’iniziativa di basso profilo, di tono moderato; quando
l’obiettivo perseguito non è tanto la visibilità, quanto l’efficacia (→ effective) della relazione.
Mailing list, o anche solo mailing, termine usato anche in italiano per indicare un elenco di persone
da invitare a un evento (→ event) o di giornalisti cui inviare una informazione. Impropriamente
viene considerato come uno dei maggiori valori patrimoniali di un professionista delle relazioni
pubbliche. Impropriamente poiché oggi la mailing list è una vera e propria commodity (un bene di
uso comune privo di valore rilevante). Il valore patrimoniale sta semmai nei sistemi di relazione che
il professionista è in grado di trasferire alla causa del suo cliente/datore di lavoro.
Management gruppo dirigente di un’organizzazione. Top management è il vertice. Dominant
coalition è il termine usato dalla scuola sistemica (→ systemic school) per indicare il gruppo di
potere reale di un’organizzazione che non coincide necessariamente, in una determinata situazione
o in uno specifico momento, con il vertice formale.
Managerial role è il relatore pubblico che sviluppa i programmi già definiti, gestisce le risorse
tecnico operative e mantiene le relazioni con i pubblici influenti al fine di guadagnarne la
comprensione reciproca. È il ruolo dalle competenze gestionali che, oltre a possedere quelle
tecniche accennate in precedenza, prevede una buona capacità di coordinamento delle risorse a
disposizione. (→ Bled manifesto)
Marketing disciplina manageriale, tipica delle organizzazioni che operano sul mercato, con la
quale si pianificano e si sviluppano le attività di sviluppo, di promozione, di distribuzione e di
commercializzazione di un prodotto o servizio. Tradizionalmente adottata dalle imprese e in
particolare quelle di largo consumo, oggi si va diffondendo anche nelle imprese industriali e nelle
organizzazioni pubbliche e sociali.
Marketing communication è una delle componenti (leva) fondamentali del marketing. Non si può
sviluppare, progettare, distribuire e vendere un prodotto o servizio se il cliente potenziale non sa che
esiste. La competizione per l’occupazione degli spazi sui → media e per attirare e mantenere
l’attenzione del cliente potenziale è la finalità del marketing communication. Attenzione: nella
lingua inglese “communication” senza la “s”, anche al plurale, indica la comunicazione come la
intendiamo noi, mentre con la “s”, anche al singolare, indica la comunicazione come la intendono
gli operatori delle telecomunicazioni.
Marketing public relations è la specializzazione delle relazioni pubbliche che operano a supporto
del marketing. Fin dagli anni Sessanta nel mondo anglosassone, il marketing PR rappresenta la parte
preponderante della professione in termini sia di investimenti che di persone impegnate. In Italia
questo è forse vero oggi, ma non lo è stato per tanti anni. Infatti le attività di marketing public
relations (con la sola eccezione della product publicity – intesa come informazione di prodotto –
che viene da sempre attribuita alle relazioni pubbliche) sono da noi in larga parte realizzate dalle
società di promozione e questo è dovuto al fatto che quando la comunicazione di marketing ha
cominciato a diffondersi in Italia (nei primi anni Ottanta) i relatori pubblici erano troppo impegnati
in attività di → public affairs per interessarsi di marketing.
Marketing territoriale molto di moda in questi anni in Italia, con una accentuazione parallela al
crollo degli investimenti sul territorio. Mentre in altri Paesi come l’Irlanda, il Galles, la Francia, la
Spagna e il Portogallo, per non parlare degli Stati Uniti, si sono avviate intense e consapevoli
attività di marketing territoriale fin dalla fine degli Settanta, prevedendo in anticipo la feroce
competizione che si sarebbe scatenata nei Paesi occidentali per mantenere nel proprio territorio gli
investimenti delle imprese, nel nostro Paese queste attività si sono avviate con modalità
sistematiche soltanto a partire dal 2000. Si tratta prevalentemente di progetti integrati di sviluppo e
comunicazione per attirare su un determinato territorio gli investimenti di imprese. Gli argomenti di
attrazione si sono progressivamente spostati dalla messa in opera di infrastrutture pesanti e di
incentivi economici allettanti alla predisposizione di condizioni di vita competitive. Il riferimento è
soprattutto alle tre “T” del consulente americano Richard Florida: tecnologie (della comunicazione),
talenti (università e sistema educativo complessivo), tolleranza (esaltazione della diversità come
elemento di attrazione). Le relazioni pubbliche sono molto impegnate in queste attività anche e
soprattutto perché solitamente gli investimenti in marketing territoriale vengono erogati da soggetti
misti pubblico/privato (comuni, camere di commercio, associazioni industriali) sovente messi
insieme e coordinati da relatori pubblici.
Mass in comunicazione, nel senso di “comunicazione di massa”, è un concetto molto cambiato in
questi anni. C’è perfino chi dubita che possa ancora venire utilmente adoperato. I mutamenti –
rispetto a trenta-quaranta anni fa nel mondo anglosassone, e a venti-trenta anni fa in Italia – sono
soprattutto indotti dalla crescente segmentazione e “clusterizzazione” (→ cluster) degli stili di vita
del pubblico e dei suoi diversi → media (incluse perfino le televisioni generaliste, grazie a un
sapiente utilizzo delle fasce orarie), fino ad arrivare, con Internet, a un medium individuale,
contrapponibile a quelli di massa (anche se alcuni sostengono che anche Internet sia un mass
medium). In relazioni pubbliche, ora che le tecnologie e lo sviluppo delle conoscenze consentono
una sempre più precisa identificazione dei singoli interlocutori importanti per il raggiungimento
degli obiettivi perseguiti da un’organizzazione, è in atto la tendenza a passare dal tradizionale
concetto di target o di massa, connaturati a una comunicazione tipicamente “a”, unidirezionale e
erga omnes, al concetto di influenti (→ influential; influencer), → stakeholder o leader di opinioni
(→ opinion leader), più consoni a una comunicazione “verso”, maggiormente bidirezionale e
tendenzialmente simmetrica (→ symmetric), fino ad arrivare al concetto di persona, tipico invece di
una comunicazione “con”, del tutto bidirezionale e simmetrica, a testimonianza del rilievo che la
diversità (→ diversity), basata sul principio che ogni persona è diversa da un’altra, ha per una
concezione contemporanea e piena del valore delle relazioni pubbliche per un’organizzazione.
Measurement da qualche tempo è l’“araba fenice” delle relazioni pubbliche: tutti ne parlano ma
nessuno sa dov’è (o cos’è). Storicamente restii per motivazioni etiche (all’inizio le relazioni
pubbliche erano solo → media relations e → lobby), quindi se posso impegnarmi a fare uscire un
articolo oppure a fare approvare un emendamento, eventi non controllabili, vuol dire che mi sono
impegnato a pagare per avere l’uno e/o l’altro), poi per pigrizia e per prendere le distanze dai cugini
pubblicitari. Oggi – con il continuo aumento degli investimenti in relazioni pubbliche – i
professionisti subiscono pressioni crescenti perché l’efficacia (→ effective) delle loro attività siano
misurate alla stregua di qualsiasi altra attività manageriale. I presupposti della questione sono:
• non si può gestire quel che non si sa misurare e non si può misurare quel che non si sa
definire – così nel 1994 Norton e Kaplan nel loro Balanced Scorecard (Harvard Business
Press). Se allora le relazioni pubbliche sono parte del management di un’organizzazione va
da sé che devono essere misurabili;
• ogni forma di misurazione è possibile soltanto se i criteri sono definiti in partenza (→ key
performance indicator). L’implicazione è che l’organizzazione deve, prima di avviare una
azione di relazioni pubbliche, definire con chiarezza gli obiettivi perseguiti e i criteri che
adotterà per misurarne il raggiungimento. In assenza di questo, non sarà possibile misurare
alcunché;
• la misurazione è una cosa e la valutazione è un’altra (→ evaluation). Misurare vuol dire
attribuire dei valori quantitativi alle relazioni pubbliche: parliamo di → output) e, in parte,
di → outtake) (per esempio gli spazi effettivamente conquistati da un comunicato o da una
conferenza stampa, oppure – se si tratta di un evento – il numero di partecipanti a un evento,
a prescindere se quella notizia o quell’evento potranno effettivamente modificare le
opinioni, i comportamenti o le decisioni dei lettori o dei partecipanti). Si tratta di un
processo di natura oggettiva, in quanto non implica interpretazioni personali o inferenze di
nessun tipo. Valutare implica invece attribuire valori qualitativi, introducendo
interpretazioni maggiormente soggettive: parliamo dunque di → outcome e di → outgrowth
(valutare cioè se quella determinata iniziativa ha contribuito a modificare le opinioni, i
comportamenti o le decisioni dei lettori o dei partecipanti e se, e quanto, ha contribuito a
rafforzare la relazione con loro).
Media medium, al singolare, è un canale (fisico come un giornale, etereo come una frequenza
televisiva, virtuale come uno scambio di bit) che unisce l’emittente al ricevente e, nei casi di
interattività, anche viceversa. È importante sottolineare che il termine deriva dal latino e quindi va
pronunciato “media” e non “midia” – un errore che facciamo in tanti e che segnala una eccessiva e
inconsapevole dipendenza dalla lingua inglese (da qui l’idea di questo dizionario).
Media access si intende il livello di accesso (basso, medio, alto; oppure cattivo, mediocre, ottimo)
che un individuo, un’organizzazione o una popolazione hanno al sistema dei media (inteso come
insieme dei media in un determinato Paese). (→ media)
Media blitz una elevata concentrazione di uso dei → media da parte di un’organizzazione o di un
individuo per trasferire un messaggio in un breve periodo.
Media conference → news conference.
Media coverage la “copertura” che il sistema dei → media concede a una notizia, una questione,
un’iniziativa.
Media list ha lo stesso significato di → mailing list, solo che si riferisce esclusivamente ai media
(→ media; media relations) e ai loro giornalisti.
Media relations la funzione delle relazioni con i → media. In Italia si usa più frequentemente, ma
impropriamente, relazioni con la stampa o addirittura ufficio stampa. Quest’ultimo è errato poiché
dire ufficio stampa implica una quasi passività/neutralità della funzione, quando invece il suo
compito prevalente è di creare, sviluppare e consolidare relazioni con i giornalisti per conto di un
ben specifico interesse; mentre relazioni con la stampa (letteralmente) è in effetti esclusivo di radio,
televisione e internet.
Merchandising l’insieme di iniziative, strumenti e canali → below the line utilizzati da
un’organizzazione per supportare la vendita di un determinato prodotto/servizio.
Message significa il senso generale e il contenuto specifico di una parte del processo comunicativo.
Il senso generale si determina quando, per esempio nelle diverse sequenze del → gorel, il
messaggio – pur attentamente costruito in base a quello che l’emittente vorrebbe fosse nella testa
del ricevente – assume il significato di un riferimento, di un contesto comune (→ familiarity), cui
attingono le varie funzioni dell’organizzazione che poi lo declinano come meglio ritengono e
attraverso tutti i canali disponibili. Il contenuto specifico è quando il messaggio viene trasferito
esattamente come è stato costruito (per esempio nella pubblicità, ove l’emittente, acquistando lo
spazio, controlla il contenuto testuale del messaggio).
Metooism (“me-tooism”) è la sindrome del “vengo anch’io”, dell’imitazione. Quando un fenomeno,
una espressione, una tendenza si diffondono rapidamente per cui un gran numero di persone (o
anche di organizzazioni), pur se prive di consapevolezza specifica, fanno la stessa cosa o compiono
le stesse scelte. Per esempio, è successo recentemente in Italia con la responsabilità sociale delle
imprese. Succede anche quando qualche leader di opinione (→ opinion leader) esprime una
opinione che, solo perché espressa da lui/lei, viene di per sé condivisa indipendentemente o quasi
dai contenuti.
Mission sta per “missione” e in gergo organizzativo è la prima fase del cosiddetto processo di →
envisioning organizzativo che comprende, oltre alla missione, anche la visione (→ vision), i valori
guida (→ guiding principles) e, in qualche occasione, la strategia (→ strategy). La missione di
un’organizzazione si riferisce al suo presente: cosa è, cosa fa. (→ Gorel)
Monitoring osservazione consapevole e costante di una variabile (→ issue) le cui dinamiche
accelerano o ritardano il raggiungimento di un obiettivo perseguito. Oppure, osservazione continua
di attività legislative su questioni di interesse (→ lobby, public affairs) o dei comportamenti
editoriali e redazionali dei media (→ media, media relations).
Muckracker muck sta per immondizia, sterco, e racker per raccoglitore: quindi “raccoglitore di
immondizie”, in senso figurato “mestatore”. Così furono definiti quei giornalisti progressisti a
cavallo fra il XIX e il XX secolo che provocarono la nascita dei professionisti delle relazioni
pubbliche (→ Grunig). I grandi capitalisti e banchieri americani di quel tempo si trovarono
inaspettatamente sotto il tiro di continue inchieste giornalistiche definite muckracker che
denunciavano le nefandezze nella conduzione dei loro affari (da qui si forma lo stereotipo del
giornalismo investigativo anglosassone). Preoccupati che gli attacchi creassero difficoltà alle
ulteriori concessioni federali di fondi per completare le grandi infrastrutture che stavano costruendo
(telecomunicazioni, ferrovie, strade, elettricità) i capitalisti e banchieri assoldarono giornalisti
perché passassero dall’altra parte per difenderli. Nascono nel 1900 a Boston la Publicity Bureau,
prima agenzia di relazioni pubbliche e nel 1904 a Washington, la William Wolff, prima agenzia di
→ lobby creata da un ex avvocato.
Multinational termine che indica un’impresa che opera in più Paesi. In effetti vi sono diversi modi
per definirla: international (sede centrale e decisionale nel Paese di origine con terminali all’estero
prevalentemente distributivi e commerciali); transnational (sede centrale e decisionale nel Paese di
origine con attività anche produttive in un numero limitato di Paesi normalmente confinanti o
vicini); multinational (sede centrale nel Paese di origine ma con processi decisionali assai decentrati
e attività produttive e commerciali in molti Paesi e in diversi continenti); global (sede centrale nel
Paese di origine, con processi decisionali più accentrati che nelle multinazionali, con sedi produttive
quasi sempre delocalizzate in Paesi a minore costo di mano d’opera e politiche commerciali
interamente focalizzate sull’affermazione di marche globali).
Negotiative per alcuni l’approccio negoziale alle relazioni pubbliche è alternativo a quello
persuasivo e sostanzialmente si ispira al quarto modello di → Grunig. Per altri invece non è un
approccio alternativo ma complementare e si applica soprattutto alle relazioni con gli →
stakeholder, intesi come soggetti consapevoli e interessati a una relazione con l’organizzazione che
ne ascolta le aspettative prima di decidere gli obiettivi specifici da perseguire. Secondo questa
interpretazione (→ stakeholder relationship management) l’approccio persuasivo alla Bernays (→
Grunig) si applica invece agli altri pubblici influenti (stakeholder potenziali, influenti sulle variabili
e/o sui destinatari (→ influential; influencer; opinion leader), oppure agli stessi destinatari (→ end
recipient) che non hanno necessariamente né consapevolezza né interesse alla relazione con
l’organizzazione, ma ai quali quest’ultima attribuisce il potere di ritardare o accelerare il
raggiungimento dei suoi specifici obiettivi. Nell’approccio negoziale la relazione è pull, diretta,
interattiva, tendenzialmente simmetrica (→ symmetric) e → labour intensive ma non → capital
intensive. Nell’approccio persuasivo la relazione è invece pull-push, meno interattiva, meno
simmetrica e maggiormente capital intensive.
Network analysis è lo studio dei reticoli sociali inteso come analisi sistematica delle reti di
relazioni informali e delle conseguenti mappe di flussi comunicativi. La metodologia della network
analysis ereditando e ampliando le intuizioni della sociometria di Jakob Moreno e Kurt Lewin e
della scuola di Harvard di Elton Mayo, costituisce oggi un approccio pienamente maturo nel
panorama delle scienze sociali, grazie alla sua capacità di operare una sintesi tra aspetti qualitativi e
quantitativi, individuali e strutturali delle relazioni che si stabiliscono tra individui e gruppi di
individui. È una tecnica di indagine basata su un questionario strutturato rivolto a un campione
rappresentativo di un pubblico influente per rilevare nodi, flussi, contenuti e frequenza della rete
relazionale, per scovarne interruzioni e disfunzioni insieme alle cause che le originano.Gli
intervistati segnalano le intensità relazionali con i diversi interlocutori su una lista di item. Con
l’impiego di tecniche statistiche computerizzate viene ricostruita la rete dei flussi relazionali e i
ruoli di ciascuno, evidenziando con appositi grafici punti di forza e debolezza. I risultati vengono
utilizzati per progettare interventi migliorativi.
Networking la traduzione italiana più vicina a networking è “fare rete”, “fare sistema”.
Un’organizzazione fa sistema quando si relaziona con altre organizzazioni con modalità coompetitive (→ co-ompetion), sinergiche e complementari al fine di perseguire in comune specifici
obiettivi condivisi.
News agency → wire service.
News conference, o press conference, media conference, “conferenza stampa”. Fino agli anni
Ottanta nella vita di un’organizzazione era un evento raro che vedeva i suoi vertici incontrare i
giornalisti (→ media relations) per esporsi alle loro domande, e si giustificava soltanto in presenza
di avvenimenti e notizie ritenute così rilevanti per l’opinione pubblica (→ public opinion) da
richiedere un annuncio pubblico simultaneo con i vertici disponibili a rispondere alle domande in
diretta e di persona. La preparazione richiedeva giorni e giorni. Oggi le conferenze stampa sono
routine, al punto che una notizia non è una notizia se non comunicata in conferenze stampa del tutto
inutili alle quali peraltro partecipano prevalentemente giornalisti → free lance e di service in
rappresentanza di testate con perenni problemi di organico. Le domande non ci sono quasi più: si
arriva, si prende la cartella stampa e si scappa alla prossima.
News release, o press release, comunicato stampa redatto da un’organizzazione e distribuito
simultaneamente per la pubblicazione ai giornalisti interessati. Normalmente non supera le venti
righe di testo (1.500 battute) anche se può essere corredato da appendici, note aggiuntive, immagini
grafiche e fotografiche. Titolo e sommario sono in genere orientati ad attirare l’attenzione del
singolo giornalista, e quindi possono variare, ma il corpo del testo è ufficiale e uguale per tutti i
destinatari e risponde alle cinque “W” (→ Five P’s and W’s) : who (chi), when (quando), what
(cosa), where (dove), why (perché) e, dove possibile, con l’aggiunta della “H” (how). Ogni
comunicato (compresi i fogli aggiuntivi, le tabelle,le didascalie dei grafici e delle foto) deve
contenere data di rilascio, indicazione inequivocabile della fonte e nome, indirizzo, telefono, e-mail
di chi è in grado di fornire informazioni più approfondite. (→ media relations)
Newsletter non esiste espressione italiana se non, impropriamente, quella di “agenzia” o, meglio, di
“notiziario”. È uno strumento normalmente periodico di comunicazione (quotidiano, settimanale,
mensile) con veste grafica dimessa, da consumo veloce, indirizzato a un pubblico di esperti,
appassionati o addetti ai lavori di una qualsiasi tematica. Qualche volta è a pagamento, sovente
gratuita e esplicitamente redatta a cura di qualche organizzazione. Può essere anche una e-letter,
cioè veicolata via Internet, list server a/o posta elettronica.
Newsworthy (-iness) un’informazione è newsworthy (con infelice neologismo, “notiziabile”)
quando si ritiene possa interessare ai media (→ media relations).
Niche dal francese, “nicchia”, ed è usato così anche in inglese.
Nimby acrostico di “not in my back yard” (non vicino a casa mia, non nel mio giardino);
espressione che indica la più classica delle reazioni di un gruppo di persone o di organizzazioni
quando, pur riconoscendo necessario un intervento pubblico che modifica consolidati ma non più
sostenibili comportamenti, difendono il diritto di non accettare quell’intervento nel loro territorio.
Banalizzando il concetto potrebbe essere considerato una forma di “ecologismo da pianerottolo”.
Numbers in PR, è un tema controverso, per quanto sia attiene al numero di relatori pubblici
effettivamente operativi sul mercato, sia al valore economico delle relazioni pubbliche e della
professione (→ capital intensive; labour intensive). Rispetto al numero degli operatori, una
interpretazione estensiva (relazioni pubbliche come attività delle organizzazioni per sviluppare
consapevolmente sistemi di relazione con i loro pubblici influenti) porta a valutarli in 3 milioni nel
mondo, 400.000 nella vecchia Europa e 70.000 in Italia (dati 2003). Un’interpretazione ristretta
(relazioni pubbliche come apporto strategico e non operativo alle organizzazioni per il governo
delle relazioni con i pubblici influenti) riduce verosimilmente questi numeri a 1 milione nel mondo,
150.000 nella vecchia Europa e 30.000 in Italia. Rispetto al valore economico delle relazioni
pubbliche la questione è di forte attualità da quando le organizzazioni, investendo somme crescenti,
chiedono agli operatori una maggiore attenzione alla rendicontazione (→ accountability) e alla
valutazione/misurazione (→ evaluation, measurement) dell’efficacia delle loro attività. Rispetto
infine al valore economico della professione, la controversia riguarda se la professione sia da
valutare come capital o labour intensive. Nel primo caso, per esempio in Italia, nel 2003 l’indotto è
valutabile in 3,5-4 miliardi di euro. Nel secondo caso in 10,5-12 miliardi di euro. Se capital
intensive, si chiede a un campione di organizzazioni quanto investono in relazioni pubbliche senza
contare i costi lordi delle persone ma soltanto gli investimenti esterni, e si applica il risultato
all’universo delle organizzazioni. Se labour intensive, si censisce il numero presunto degli
operatori, si calcola un costo medio lordo annuo del singolo operatore per l’organizzazione, si
moltiplica quel costo per tre come indicatore minimo di produttività e si tirano le somme.
Op-ed (opinion editorial) con questo termine si intende un testo scritto da un non giornalista,
solitamente il rappresentante di un interesse, una azienda o un gruppo di pressione, che il giornale
pubblica (nella pagina degli editoriali e/o dei commenti) perché il suo direttore ritiene
sufficientemente interessante. Non è un publi-redazionale (→ infomercial) né comporta da parte
dell’autore o dell’interesse che lo sostiene una qualsiasi contropartita monetaria (→ advertorial). In
relazioni pubbliche, è uno strumento applicato soprattutto quando si sviluppa una campagna di
tematizzazione (→ advocacy). Talvolta gli autori non sono neppure direttamente rappresentanti
dell’azienda o del gruppo di interesse che lancia il tema, ma persone note e stimate per altre ragioni
che esprimono una loro opinione sul tema (→ opinion leader), non troppo discordante da quella
sostenuta dall’azienda o dal gruppo di interesse che gli chiede l’articolo e che poi si preoccupa di
trovare il giornale disponibile a pubblicarlo. Alternativamente, prima si concorda l’uscita con il
giornale purché l’articolo sia di una firma ritenuta appetibile dal direttore, poi si contattano le firme
prescelte e si chiede loro se hanno interesse a fare uscire un editoriale a loro firma su una
determinata testata. Naturalmente sarà necessario per il relatore pubblico far pervenire a chi accetta,
un dossier di informazioni cui ispirarsi e magari anche qualche pezzo parzialmente confezionato per
risparmiare fatica al testimone evitando così anche sempre possibili brutte figure nei contenuti.
Operational role è il relatore pubblico che si occupa della “messa in opera” delle azioni di RP.
Questo profilo è legato all’esecuzione dei programmi di comunicazione sviluppati da altri. È, in
altre parole, il tecnico che si occupa dell’ascolto, della progettazione, della formulazione e del
trasferimento dei messaggi, della misurazione del loro impatto. (→ Bled manifesto)
Opinion editorial → op-ed.
Opinion leader i leader di opinione sono soggetti cui l’organizzazione riconosce la capacità di
orientare (→ influential, influencer) opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni dei
destinatari finali (→ end recipient) dell’organizzazioni (normalmente i consumatori o gli utenti o
gli elettori o i clienti). Con questi leader di opinione l’organizzazione si relaziona dopo avere
definito gli obiettivi, selezionato le variabili prioritarie e definito i messaggi (→ message) chiave
destinati ad attirare la loro attenzione per stimolarli (offrendo loro anche opportunità e canali di
diffusione) a influenzare i destinatari finali nel senso favorevole all’obiettivo dell’organizzazione.
Opinion poll “sondaggio di opinione”. In relazioni pubbliche lo strumento è utilizzato da decenni,
anche se i non addetti ai lavori non se ne rendono conto. Molti dei sondaggi di opinione pubblicati
dai → media o che rappresentano pretesti per convegni, tavole rotonde e dibattiti sono
commissionati, e purtroppo non sempre con modalità trasparenti, da interessi ben precisi che
intendono avvalersi dei risultati del sondaggio per influenzare (→ influential, influencer) le
opinioni di altri, quasi sempre tramite i media. È ampiamente dimostrato che molti lettori e
telespettatori sono facilmente influenzati dai risultati di un sondaggio di opinione (“se la
maggioranza la pensa in un determinato modo allora vuol dire che deve essere così e anch’io allora
la penso in quel modo”). Naturalmente pochi sanno che in un sondaggio la formulazione della
domanda può determinare il risultato e che basta modificarne una parola che cambia il senso del
risultato. (Per esempio, se chiedo quanti sono favorevoli alla legalizzazione delle droghe trovo una
minoranza; se chiedo quanti sono favorevoli a una regolazione delle droghe trovo una maggioranza;
ma la domanda è la stessa.) Relatori pubblici e, ancora di più, sondaggisti e ricercatori sono
responsabili di non poche manipolazioni assai discutibili. D’altro canto è anche vero che a stimolare
questo modo approssimativo di fare comunicazione sono gli stessi media i quali, con modalità
solitamente acritiche e pur di occupare spazio, sono ben felici di pubblicare articoli preconfezionati
con tabelle improbabili e comunque non trasparenti che si riferiscono a sondaggi di opinione sulle
materie più strampalate e sugli argomenti più frivoli.In alcuni casi invece il sondaggio di opinione è
davvero utile per sapere come qualche segmento di pubblico la pensa su una determinata questione,
ma si tratta di una minoranza e normalmente non serve alla pubblicazione.
Outcome all’interno del processo di misurazione e di valutazione (→ evaluation, measurement), è
il cambiamento osservato nelle opinioni, nelle abitudini e nei comportamenti di coloro verso i quali
è stato indirizzato uno sforzo consapevole e programmato di relazioni pubbliche.
Outgrowth è l’ultimo livello di valutazione (→ evaluation) e rappresenta il risultato ultimo che le
relazioni pubbliche si prefiggono. Esistono a tal proposito due filoni di studio che danno una
significazione diversa al concetto di outgrowth: c’è chi propende per la prospettiva relazionale e
quindi tende a valutare le modifiche nelle diverse dinamiche relazionali (→ relationship); e c’è
invece chi enfatizza il ruolo delle relazioni pubbliche nel supportare – da qui l’importanza di una
sua valutazione – la reputazione di un’organizzazione (→ reputation). Ben lungi dall’entrare in un
discorso teorico, quello che preme sottolineare è l’importanza della definizione dell’oggetto della
valutazione, anche per permettere alle RP di diventare attività maggiormente rendicontabile (→
accountability).
Output è il risultato immediato (→ measurement) di qualsiasi attività di relazioni pubbliche.
Classici criteri per la misurazione di tali output sono la copertura che i media (→ media coverage)
danno alla notizia oppure all’evento (→ event), oppure il monitoraggio (→ monitoring) dei
contenuti dei materiali pubblicati. In altre parole è una prima e immediata misurazione del modo in
cui un’organizzazione viene rappresentata esternamente.
Outtake è la misurazione (→ measurement) del grado in cui il destinatario di un messaggio lo
riceve, gli presta attenzione, lo comprende, lo detiene nella sua mente, ed è in grado di richiamarlo
all’occorrenza.
Peer-to-peer letteralmente, “pari a pari”. Il termine deriva dal linguaggio di Internet e, in relazioni
pubbliche, implica una tendenziale simmetria (→ symmetric) fra i partecipanti a una relazione.
Peer pressure è una forma di pressione, talvolta inconsapevole, che un gruppo di persone esercita
su un componente del gruppo affinché adotti comportamenti omogenei e coerenti con quelli del
gruppo. Quando è consapevole è normalmente frutto di una azione di relazioni pubbliche. Può
assumere una connotazione regressiva laddove sia tale il comportamento invocato dal dissenziente e
progressiva quando succede l’inverso.
Position paper è un documento redatto dal relatore pubblico che serve a chiarire la posizione di
un’organizzazione con riferimento a una particolare questione (→ issue). Può essere redatto in
maniera autonoma oppure può essere parte integrante di un intero “pacchetto” informativo più
ampio e comprendente anche un documento riepilogativo delle dinamiche dell’intera questione (→
anche backgrounder, fact sheet). Talvolta si usa anche il termine quali position statement.
Powerpoint syndrome è la cosiddetta “sindrome di Powerpoint”, e indica l’attitudine di
molti (se non quasi tutti) i comunicatori a basarsi sulla presentazione dei materiali in
Powerpoint, anche quando non serve, per dare efficacia ai loro → brief. Questo (ab)uso di
una presentazione standardizzata è pericoloso: induce a seguire un percorso predefinito,
annoia gli interlocutori e porta i partecipanti al brief a ragionare e comprendere i messaggi
esclusivamente in forma schematico/classificatoria. La “sindrome di Powerpoint” è un virus
poco considerato e tuttavia abbastanza ben diagnosticato non solo da brillanti autori satirici,
ma anche da puntuali analisi di efficienza organizzativa e di qualità della comunicazione.
C’è chi lo definisce disinfotainment, tout court. C’è chi afferma anche che il “modello
Powerpoint” ha gravemente impoverito la comunicazione interna nelle imprese. E c’è
addirittura chi ne ha disincentivato – per non dire proibito – l’uso interno/esterno. Un
corretto processo di trasferimento dei messaggi (→
message) presuppone lavoro,
attenzione, competenza, prove e verifiche, ricerca dei modi espressivi più adatti, coerenza
rigorosa e attenta fra i concetti. Si osserva talvolta un relatore, prigioniero di un formato
prestabilito, cadere in imbarazzo davanti alla più semplice delle domande, perché è
addestrato a ripetere la presentazione realizzata da qualcun altro; o, in preda a smania
espositiva/oratoria, perde di vista l’argomento originario. Lungi dall’invocare sentimenti
luddisti, ciò che preme sottolineare è l’importanza di un’ottimizzazione/razionalizzazione
delle presentazioni in Powerpoint a vantaggio dell’intero processo comunicativo.
Press agentry è il primo dei quattro modelli di → Grunig. Press agent è quel professionista che per
conto di un’organizzazione, un interesse, una persona, si propone di attirare l’interesse del
giornalista (→ media relations) e lo spazio/tempo del suo medium verso il suo cliente/datore di
lavoro. Il press agent, perlomeno nell’immaginario collettivo, poco si preoccupa che le informazioni
pubblicate siano vere o false, positive, neutrali e negative. L’importante è occupare lo spazio per
impedire che lo occupino altri. È un modello asimmetrico (→ asymmetric) che vede la fonte in
posizione dominante e unidirezionale.
Press conference → news conference.
Press release → news release.
Proactive indica la capacità di assumere l’iniziativa, di essere proattivi; è il contrario di reactive,
che indica invece reattività.
Propaganda in relazioni pubbliche, oggi il termine è spesso utilizzato con connotazione negativa
per definire tutte quelle attività di comunicazione consapevoli, unidirezionali e push rivolte
all’opinione pubblica (→ public opinion) allo scopo unico di diffondere determinate idee e/o
influenzare opinioni, comportamenti ed atteggiamenti. È anche il titolo del primo e forse più bel
libro di Edward Bernays, un libro del 1928 da poco ripubblicato negli Stati Uniti (Ig Publishing).
Protocol public relations è la declinazione cerimoniale e protocollare delle relazioni pubbliche.
Lungi dall’essere superato, il protocollo assume una sempre maggiore rilevanza non solo nelle
relazioni internazionali (→ international relations), ma anche nelle normali relazioni quotidiane fra
soggetti diversi. È un aspetto della professione che il relatore pubblico consapevole non può non
ritenere rilevante.
Public affairs è una delle attività tradizionali della professione e consiste nel governo dei sistemi di
relazioni, e nella comunicazione trasparente (→ transparency), con autorità locali, governi e
parlamenti, comunità internazionali, organizzazioni sociali e culturali, associazioni d’impresa e
sindacali,a associazioni di categoria, gruppi di interesse ecc. L’obiettivo delle relazioni istituzionali
(nella sua traduzione italiana) consiste nell’informare i legislatori o decisori su specifici problemi ed
interessi e coinvolgere su questi anche l’opinione pubblica. Tra le varie attività che i public affairs
prevedono, quella che occupa una posizione di maggior rilevanza – tanto da venir solitamente
confusa con public affairs – è l’attività di lobbying (→ lobby).
Public information è il secondo dei quattro modelli di → Grunig e si riferisce all’informazione
oggettiva, quella dovuta, quella che magari non dice proprio tutto, ma quel che dice è fondato. Si
tratta di una evoluzione del modello → press agentry che riconosce al giornalista il diritto di sapere.
È un modello meno asimmetrico (→ asymmetric) e più bidirezionale.
Public interest “interesse pubblico”. È il grande dilemma etico dei relatori pubblici. Come ci si
deve comportare quando l’interesse che si rappresenta è in conflitto con un qualche interesse
pubblico? Il protocollo etico della Global Alliance, ultimo in ordine di tempo e il più importante dei
documenti etici delle relazioni pubbliche, è molto chiaro: si deve privilegiare l’interesse pubblico.
Già, ma cosa è l’interesse pubblico? Il relatore pubblico può rappresentare un interesse pubblico che
è in conflitto con un altro interesse pubblico, oppure un interesse privato o sociale che può essere
coerente con un certo interesse pubblico e incoerente con un altro? La questione è tutt’altro che
semplice… ma già l’affermare che di fronte a un conflitto potenziale che si palesa il relatore
pubblico deve privilegiare l’interesse pubblico, per quanto affermazione carica di ambiguità, lo
costringe comunque a trovare e razionalizzare altri interessi pubblici coerenti con l’interesse
rappresentato: e questo non è l’ultimo dei vantaggi argomentativi, dialettici e retorici che un relatore
pubblico possa desiderare. In ogni caso e alla fine, il vero interesse pubblico è quello, fra i tanti
possibili, che il decisore pubblico decide di privilegiare quando assume una decisione. Ed è per
questo che è così importante per un qualsiasi soggetto partecipare attivamente al processo
decisionale pubblico: è l’unica garanzia che si ha che il decisore pubblico possa prendere in
considerazione anche la nostra posizione. Se non la esprimiamo non possiamo pretendere che ne
tenga conto.
Public opinion termine coniato nei primi anni Venti dal sociologo, giornalista e opinionista Walter
Lippmann per declinare i compiti del giornalista: interpretare gli avvenimenti tenendo conto delle
aspettative dell’opinione pubblica. È un concetto, oggi, carico di ambiguità. Rappresenta l’opinione
della maggioranza? Viene indicata dai risultati dei sondaggi di opinione? È l’opinione espressa dai
media più rappresentativi? E chi forma l’opinione pubblica? La classe dirigente? Sono i media? E,
se è così, contribuisce di più la stampa o la televisione a formare l’opinione pubblica? Sono tutte
domande che trovano mille e più risposte, diverse fra loro nella copiosa e spesso inutile letteratura.
Per il relatore pubblico conviene aggirare la mal posta questione e preoccuparsi soprattutto di
identificare i pubblici influenti e gli interlocutori primari dell’organizzazione, ascoltarli, tenere
conto ove opportuno delle loro opinioni e basare le proprie iniziative su queste.
Public relator “relatore pubblico” è il professionista che si occupa di relazioni pubbliche. Il
termine non è molto popolare ma comincia a crescere il suo uso; chi lo preferisce a “comunicatore”
privilegia l’aspetto relazionale della professione a quello comunicativo e considera la
comunicazione come strumento della relazione.
Public responsibility è la responsabilità di un’organizzazione e di una persona verso l’interesse
pubblico o il pubblico o, come dice il sociologo tedesco Jurgen Habermas, la “sfera pubblica” (→
public sphere). In relazioni pubbliche rappresenta le modalità con cui un’organizzazione si rende
consapevole delle conseguenze (→ consequence) che le sue attività hanno sugli altri e si sforza di
minimizzare quelle negative e massimizzare quelle positive ricevendo in cambio una più forte
“licenza a operare” (→ license to operate, legitimacy).
Public sphere “sfera pubblica”, concetto teorizzato nel secondo dopoguerra dal sociologo tedesco
Jürgen Habermas alla base della visione cosiddetta “europea” delle relazioni pubbliche,
contrapposta dai suoi teorizzatori (→ Bled Manifesto) a quella “americana”. In sostanza, mentre
negli Stati Uniti le relazioni pubbliche implicano soprattutto relazioni con i diversi pubblici di
un’organizzazione, prevalentemente privata; in Europa le relazioni pubbliche operano
maggiormente all’interno della sfera pubblica (in tedesco, “relazioni pubbliche” si traduce con
Offentlichkeitsarbeit, lavorare in pubblico, con il pubblico, per il pubblico).
Publicity attenzione: in inglese, publicity è sinonimo di “pubblicità”; in americano, publicity è
sinonimo di “ufficio stampa” (→ media relations). Il termine advertising (pubblicità) è
comunemente usato anche in Inghilterra, ma publicity è considerato più raffinato e maggiormente
“british”.
Qualitative/quantitative al di là del suo senso più evidente, è importante sottolineare che in
relazioni pubbliche non sempre il secondo termine, come molti pensano, è più importante del
primo. Se per esempio ci si riferisce all’efficienza anziché all’efficacia (→ effective), oppure se si
misurano gli output e gli outtake anziché gli → outcome o gli → outgrowths, il quantitative può
essere più importante del qualitative.
Questions and answers (Q & A’s) posto di fronte a qualsiasi questione (→ issue) emergente, il
relatore pubblico accorto predisporrà un “Q & A”: un documento mai superiore alle due cartelle in
cui sono elencate le domande più difficili e sotto ciascuna di queste le risposte più opportune. Nella
cultura di Internet sono indicate come FAQ (frequently asked questions), con la differenza che nel
caso delle “Q & A’s” si parla di relevant (importanti) e non di frequent question.
Reflective role così come evidenziato dalla scuola europea, all’interno del ruolo strategico (→
strategy) è il relatore pubblico che, utilizzando un’attenta attività di ascolto e di auditing (→ audit),
“riflette” le aspettative dei pubblici influenti all’interno dell’organizzazione (leggasi coalizione
dominante) e “fa riflettere” l’organizzazione sulle proprie dinamiche relazionali e sui rispettivi
modelli. È colui che si occupa della “coerenza” esterna/interna degli obiettivi dell’organizzazione.
(→ Bled manifesto)
Relationship termine centrale per una corretta e completa comprensione delle relazioni pubbliche
intese come relazioni con i pubblici influenti sugli obiettivi perseguiti da un’organizzazione. La sola
raccomandazione è quella di leggere Public Relations as Relation Management. A relational (ship)
Approach to the study and practice of Public Relations, a cura di John A. Ledingham e Stephen D.
Bruning (Lawrence Erlbaum Association - LEA, 2000).
Relma (relationship management) → Gorel (governo delle relazioni).
Reputation anche in questo caso la sola raccomandazione è di visitare il sito del Institute for
Reputation (http://www.reputationinstitute.com) e di leggere le opere di Charles Fombrun,
fondatore del medesimo istituto. Anche se fra la “scuola relazionale” (Grunig) e la “scuola
reputazionale” (Fombrun) si può rilevare una distanza rilevante, tale distanza non ha tuttavia molta
ragione d’essere, poiché la prima è una teoria generale che comprende e, dunque, non è in
contraddizione con la seconda.
Responsibility il termine è molto di moda e si applica a molti aspetti delle relazioni pubbliche. Si
parla di responsabilità sociale riferita alle organizzazioni (corporate), ma anche riferita alla
professione (→ communication social responsibility). Nella seconda accezione il riferimento è al
contributo che le relazioni pubbliche danno o non danno all’interesse pubblico e al consolidamento
o meno della democrazia. Le opinioni sono assai controverse.
Rhetorical school una delle tre scuole classiche delle relazioni pubbliche (→ critical school,
systemic school). Teorico riconosciuto è Robert Heath, per il quale la “rappresentazione di un
argomento” (→ advocacy) da parte di un’organizzazione è parte necessaria della stessa creazione di
senso e della conoscenza, ha a che fare sia con i processi sia con i contenuti del “discorso pubblico”,
attribuendo voce paritaria a tutti i partecipanti con interesse al dialogo. Un dialogo imperniato su
fatti (epistemologia), valutazioni (assiologia) e scelte politiche, di prodotti e di servizi (ontologia).
ROI (return on investment) in relazioni pubbliche negli ultimi anni si discute molto (ma si scrive
assai meno) se le relazioni pubbliche possano essere misurate in termini di rientro
dell’investimento. Su questa questione, l’ultima autorevole ricerca è quella realizzata dall’IPR
inglese (Institute of Public Relations, http://www.ipr.uk.org), ma anche l’IPR americano (Institute
for Public Relations, http://www.instituteforpr.com) ci sta lavorando da anni. La conclusione – per
ora – di Anne Gregory, presidente dell’IPR inglese, è che non di ROI si deve parlare ma di valore
generale delle RP sia in termini di valore aggiunto misurabile caso per caso, sia in termini di danni
evitati, ovviamente meno misurabili ma pur sempre stimabili con gli stessi criteri e parametri usati
dalle assicurazioni.
Rumor il pettegolezzo, la voce, rumeur (in francese). Le relazioni pubbliche sono sovente
coinvolte e sia direttamente che indirettamente protagoniste ma anche vittime di un rumor. Uno dei
più celebri sociologi francesi Jean Louis Kapferer ha dedicato un intero volume a questo genere di
fenomeni, al modo in cui crearli e in cui spegnerli.
Segmentation segmentazione di un pubblico in fasce determinate in base ai processi identificativi.
Più ancora che nella pubblicità e nel marketing, la segmentazione – intesa come individuazione di
ciascun pubblico influente con il quale l’organizzazione desidera/deve sviluppare una relazione – è
la fase di gran lunga più importante delle relazioni pubbliche. Infatti una segmentazione attenta
diventa essenziale per l’efficacia e l’efficienza di una azione di relazioni pubbliche quando riesce a
distinguere fra:
- pubblici comunque consapevoli e interessati a una relazione con l’organizzazione in
questione (→ stakeholder);
- pubblici che sarebbero certamente interessati a una relazione con l’organizzazione se fossero
consapevoli della conseguenze che le sue attività possono avere o hanno su di loro
(stakeholder potenziali);
- pubblici che pur se non consapevoli né interessati, l’organizzazione ritiene comunque
influenti sulle variabili che determinano il raggiungimento dell’obiettivo perseguito (→
influential; influencer);
-
pubblici che pur se non consapevoli né interessati l’organizzazione ritiene influenti sui
destinatari finali della sua offerta (→ opinion leader);
destinatari finali (→ end recipient) della offerta dell’organizzazione.
Sexing up l’azione di rendere qualcosa più attraente. Non dissimile da → spin, si attua quando si
aggiunge, si manipola, si ricostruisce un’informazione, un argomento, una questione tenendo
soprattutto conto del suo effetto persuasivo. Il caso più recente e famoso di sexing up è quello di
Alistair Campbell, già portavoce del governo laburista inglese, accusato di avere manipolato le
informazioni in merito alle armi di distruzioni di massa irachene. La sua decisione di diffondere la
notizia che Saddam aveva armi che avrebbero potuto distruggere l’Inghilterra in poche decine di ore
fu il frutto di un lungo negoziato e di pesanti pressioni che lo stesso Campbell esercitò sui servizi
segreti inglesi affinché inserissero quella notizia in modo inequivocabile nei loro rapporti.
Giustamente, egli riteneva che quell’informazione, sicuramente gonfiata (→ hype), avrebbe portato
l’opinione pubblica inglese, fino ad allora ostile, ad appoggiare la decisione di Blair di entrare in
guerra a fianco degli americani.
Share-of-mind spazio di attenzione (letteralmente, “quota della mente”). La saturazione mediatica,
il sovraffollamento dei messaggi e l’inquinamento comunicativo (→ info-communicative overload)
spingono le organizzazioni a preoccuparsi assai più di conquistare lo spazio di attenzione dei
pubblici piuttosto che di quello di voce (share of voice). Le modalità sono tante: da quelle “lecite”
come il marketing virale (→ viral marketing) e la spinta all’emozione creativa, a quelle meno
“lecite” come la pubblicità subliminale e l’uso improprio delle relazioni pubbliche a fini di
manipolazione e persuasione non trasparente.
Shareholder relations, o investor relations, le relazioni che un’organizzazione, normalmente
quotata in borsa, intrattiene con i suoi azionisti, con il mercato finanziario e con la comunità
finanziaria in senso lato (autorità, investitori istituzionali, fondi di investimento, operatori del
mercato).
Symmetric è una delle dimensioni di una relazione (→ asymmetric). Se tale relazione è (almeno
tendenzialmente) simmetrica, gli obiettivi dell’organizzazione sono definiti in maniera negoziale
dopo aver preventivamente ascoltato e interpretato le aspettative degli → stakeholder. Compito del
relatore pubblico è di identificare con attenzione i pubblici influenti su una determinata questione
per la quale opera (→ issue) con i quali creare, consolidare e sviluppare relazioni adoperando
strumenti di comunicazione e canali relazionali che consentano l’ascolto delle loro aspettative, di
interpretarle presso i componenti della coalizione dominante della organizzazione (→ management)
e, infine, di argomentare con gli stessi pubblici influenti le posizioni definite in un flusso continuo
di dialogo (→ negotiative) che consenta a entrambi (organizzazione e pubblico influente) di
ricavare un valore aggiunto dalla relazione. Non esiste in natura una relazione completamente
simmetrica, anche se la scuola sistemica di Grunig (→ systemic school) sostiene che l’efficacia
cresce man mano che si raggiunge una simmetria nelle relazioni con gli stakeholder principali.
Questa è una delle distinzioni fondamentali tra relazioni pubbliche e pubblicità. Le prime tendono
alla simmetria, le seconde sono portatrici mediamente di messaggi unidirezionali e, proprio per
questo, asimmetrici. (→ Grunig)
Social report sta per bilancio sociale di un’organizzazione, e si affianca a quello economico e
quello ambientale. I tre integrati fanno il bilancio triple bottom line (TBL), focalizzati cioè
sull’ultima riga (bottom line) dei tre bilanci: quella che solitamente indica i profitti o le perdite. Il
recente interesse delle relazioni pubbliche per i bilanci delle organizzazioni indica una progressiva
migrazione professionale dalla cultura dell’annuncio e delle intenzioni (necessariamente retorica,
unidirezionale, push, asimmetrica, persuasiva) a una cultura della rendicontazione (dei
comportamenti, negoziale, argomentativa, bidirezionale, pull e tendenzialmente simmetrica).
Specific applications ciò che riguarda gli interventi “locali” della teoria globale (→ globalisation;
glocal) delle relazioni pubbliche. Infatti Jim → Grunig parla di → generic principles (qui “generic”
nel senso dei medicinali) e di specific applications. Anche la Global Alliance ha adottato la stessa
terminologia.
Spin il verbo to spin significa “attribuire un effetto”; a spin ball, nel baseball, è una palla a effetto;
a spin doctor, in relazioni pubbliche, un esperto nel manipolare l’informazione. Fedele al detto
inglese “if you can’t beat them, join them” (se non puoi battere l’avversario ti conviene unirti a lui),
il leggendario Lord Tim Bell ebbe a dire: “Non mi dà fastidio quando mi danno dello ‘spin doctor’
poiché già quel ‘doctor’ è un segnale di attenzione che prima non mi veniva neppure attribuito”.
Battuta non dissimile da quella di Jacques Seguela (creativo francese) che disse: “Non dite a mia
madre che faccio il pubblicitario. Lei mi crede pianista in un bordello”. Che il relatore pubblico
abbia anche il compito di presentare l’informazione perché venga percepita dai pubblici influenti
nella maniera più favorevole al raggiungimento dell’obiettivo perseguito da un cliente o da un
datore di lavoro non può esservi dubbio alcuno (→ sexing up). Se anche questa premessa venisse
negata, allora verrebbe meno la stessa funzione delle relazioni pubbliche. Naturalmente la questione
non è bianca o nera: nella storia dell’uomo l’informazione è sempre stata manipolata e aggiustata in
funzione degli obiettivi di qualcuno. Così hanno fatto (e fanno) gli storici; così hanno fatto (e fanno)
i giornalisti; cosi hanno fatto (e fanno) gli avvocati, i contabili e i relatori pubblici. Importante
semmai è la differenza: gli storici compiono la loro manipolazione ex post, parecchio tempo dopo
gli eventi narrati e tendono a basarsi su fonti terze e documenti; i giornalisti la compiono invece
durante e immediatamente dopo l’evento narrato e tendono a basarsi su fonti dirette, verbali e
quindi interessate; i relatori pubblici la compiono invece quasi sempre prima e durante l’evento
narrato e sono essi stessi fonti importanti. Non è un caso che le tre figure professionali si
sovrappongano Pericolosamente quando gli storici si fanno troppo contemporanei, quando i
giornalisti si fanno troppo indovini, o quando i relatori pubblici si fanno anche giornalisti o storici.
Le relazioni pubbliche sono una professione ambigua, proprio perché operano in quella terra di
nessuno ove la comunità politica, quella economica e quella dell’informazione si relazionano di
continuo. La sola uscita dall’ambiguità sta nell’etica professionale e nel rispetto primario
dell’interesse pubblico rispetto a quello del datore di lavoro/cliente (→ public interest). Detto
questo, anche la interpretazione di quale sia e dove risieda l’interesse pubblico, in assenza di
leggi,spetta al professionista e qui sta uno dei suoi principali valori aggiunti.
Sponsorship (dal verbo latino spondeo: prestare una sponda, sostenere, aiutare, attribuire il proprio
buon nome a una causa che ne ha bisogno) in relazioni pubbliche, l’attività di sponsorizzazione,
oggi molto diffusa. Esiste la sponsorizzazione culturale (un’organizzazione sponsorizza una mostra,
un libro, un film, un concerto), quella sportiva (quando si sponsorizza un atleta, una gara, una
squadra, una partita), quella sociale (una causa, una iniziativa benefica, una raccolta fondi), quella
ambientale (la Goletta verde), quella televisiva (un programma) e così via. In tutti i casi,
l’organizzazione si impegna a versare fondi e/o servizi in cambio della presenza del suo nome in
ogni momento di visibilità pubblica dell’evento (→ event) o dell’iniziativa sponsorizzata.
Staff può indicare la posizione gerarchic, in termini di responsabilità operative e decisional, di una
funzione organizzativa. Spesso le relazioni pubbliche e la comunicazione sono funzioni in staff al
vertice aziendale. In questo caso il termine staff si contrappone a quello di line, attribuito alle
funzioni più propriamente operative di un’organizzazione come le vendite o la produzione. L’altra
accezione di staff è invece riferita a un gruppo di persone a supporto di un leader: Così, lo staff del
presidente, oppure lo staff del candidato o infine lo staff del senatore. In ogni staff che si rispetti c’è
chi è responsabile delle relazioni pubbliche.
Stakeholder (to hold a stake, detenere un titolo in/di un’organizzazione) diverso da shareholder
(azionista), stakeholder è divenuto un termine buono per tutti gli usi: oggi stakeholder sono
azionisti, clienti, dipendenti, fornitori, cittadini, insomma tutti. Lo dicono fior di studiosi,
economisti, consulenti aziendali, studiosi dell’organizzazione. Quando un termine viene così
abusato ci si chiede a cosa serva continuare a usarlo. In effetti, “to hold a stake” implica che non sia
l’organizzazione a riconoscere quel ruolo a un soggetto, ma che sia quest’ultimo ad averlo e a
esercitarlo. A sua volta questo implica che lo stakeholder sia consapevole di esserlo e che abbia
l’interesse a sviluppare una relazione (positiva, negativa, neutrale) con l’organizzazione sulla quale
produce (o dalla quale subisce) conseguenze (→ consequence). In senso stretto quindi, gli
stakeholder di un’organizzazione sono pochi e facilmente identificabili. E questo è molto utile per
una migliore economia della comunicazione. Volendo allargare, si può anche ritenere utile
aggiungere una categoria di stakeholder potenziali (e allora ai primi andrebbe aggiunto il termine di
attivi): coloro cioè che se solo fossero informati dell’organizzazione e delle sue attività (e quindi
resi consapevoli) avrebbero interesse a una relazione con l’organizzazione perché le attività di
quest’ultima produce conseguenze su di loro e/o viceversa. Ma è chiaro che, a differenza del primo
caso, in quest’ultimo è l’organizzazione stessa a decidere chi sono gli stakeholder potenziali. E
questo, a sua volta, implica che la relazione con loro va avviata dall’organizzazione con un
messaggio di natura persuasiva, atta cioè ad attirare la loro attenzione, mentre nel primo caso,
quello degli stakeholder attivi, la relazione è facilitata dall’esplicito interesse di entrambi alla
relazione.
Stakeholder relationship management (SRM) è il processo manageriale con il quale
un’organizzazione complessa – se fortemente orientata allo sviluppo di relazioni pull, simmetriche
ed interattive con i suoi pubblici influenti – integra i propri sistemi relazionali con tutti i segmenti di
pubblici influenti, sforzandosi di monitorarne e governarne le dinamiche per raggiungere con
efficacia gli obiettivi definiti dopo aver ascoltato le aspettative degli → stakeholder attivi. È il
governo delle relazioni con gli stakeholder (attivi e potenziali) o, volendo essere un pochino più
ampi senza però cadere nella inutilità delle eccessive generalizzazioni, con i pubblici influenti –
compresi quindi anche gli influenti (→ influential; influencer) sulle variabili chiave (→ issue), e gli
→ opinion leader sui destinatari finali (→ end recipient). In sostanza, è il cosiddetto → Gorel, in
cui il relatore pubblico svolge un ruolo strategico (→ strategic role) ascoltando le aspettative dei
pubblici influenti e traducendole alla coalizione dominante (→ management) prima della
definizione degli obiettivi da perseguire (→ reflective role) e aiutando i direttori delle altre funzioni
a sviluppare i rispettivi sistemi di relazione con gli stakeholder con modalità coerenti e coordinate
(→ educational role). In una prospettiva di SRM è evidente che le organizzazioni fortemente
orientate all’utilizzo di Internet come ambiente di relazione possono attuare e governare modalità
relazionali più efficaci e rendicontabili favorendo l’integrazione tra strumenti relazionali reali e
virtuali. Da qui la variante di integrating stakeholder relationship management (ISRM).
Strategic role → strategy.
Strategy in relazioni pubbliche, il termine “strategia” viene tanto più usato quanto minore, in
un’organizzazione, è la funzione effettivamente strategica delle relazioni pubbliche. In effetti
svolgere un ruolo strategico è l’aspirazione di ogni relatore pubblico che si rispetti. Ma cosa vuol
dire “strategico”? La letteratura è sterminata, ma in relazioni pubbliche gli studiosi concordano su
due ruoli strategici: quello riflettivo (→ reflective role), in cui la coalizione dominante di
un’organizzazione riconosce al relatore pubblico il ruolo di ascolto e di interpretazione delle
aspettative dei pubblici influenti prima, durante e dopo le decisioni; quello educativo (→
educational role), in cui la coalizione dominante (→ management) riconosce al relatore pubblico il
ruolo di coordinamento dei sistemi di relazione dell’organizzazione con i pubblici influenti e del
trasferimento trasversale alle funzioni di direzione di competenze relazionali e comunicative
adeguate per governare direttamente quegli stessi sistemi di relazione. (→ Bled manifesto)
Sustainability sostenibilità, nel senso prevalente di durata nel tempo. Una attività insostenibile è
quella che non può durare. Termine di uso comune che deriva soprattutto dall’ambientalismo e si
applica ai diritti umani e allo sviluppo economico.
SWOT analysis (SWOT sta strength, “forza”, weakness, “debolezza”, opportunity “opportunità” e
threat, “minaccia”) si tratta di uno strumento di analisi di una situazione nella quale si identificano
le caratteristiche in base a ciascuna delle quattro famiglie SWOT (strength, weakness, opportunity,
threat) per averne un quadro il più possibile chiaro prima di procedere a un piano di azione. È un
metodo semplice e molto (ab)usato in relazioni pubbliche, ma utile, se non altro per riflettere.
Systemic school è la teoria di James → Grunig per il quale ogni organizzazione, per avere successo
deve integrarsi armonicamente nell’ambiente circostante e per fare questo con efficacia deve
conoscere e interpretare i valori e le aspettative dei suoi pubblici influenti (→ stakeholder attivi)
prima ancora di definire i traguardi specifici dell’organizzazione, così da selezionare obiettivi
effettivamente raggiungibili. In un saggio del 2002, Grunig, accogliendo le osservazioni critiche dei
suoi colleghi “retori” e “critici” (→ critical school, rhetorical school), arriva a sostenere che il
cuore delle relazioni pubbliche è nella “relazione” (→ relationship) (dando grande soddisfazione ai
“retori”) e che la “simmetria” (→ symmetric), la condizione che a suo avviso rende davvero efficaci
le relazioni pubbliche, si ottiene soltanto quando l’operatore di relazioni pubbliche esercita in egual
misura le sue abilità persuasive nel convincere la coalizione dominante interna dell’organizzazione
a adeguarsi alle aspettative dei pubblici influenti come nel convincere i pubblici influenti a
adeguarsi alle aspettative della coalizione dominante (→ management) interna (dando così
soddisfazione ai seguaci dell’approccio “critico”). In questi ultimi anni si potrebbe dire che la
scuola sistemica si è diffusa fino a diventare prevalente fra gli studiosi e nella comunità
professionale più consapevole, mentre la scuola critica si è diffusa fino a diventare prevalente nei
media e nei gruppi attivisti, al punto che recentemente Kenny Ausubel, fondatore di Bioneers, un
network di visionari ambientalisti ha scritto: “Di tutte le orrificanti tecnologie distruttive del XX
secolo, la più pericolosa è costituita ragionevolmente dalle relazioni pubbliche”
(www.holmesreport.com).
Tabloid è un formato di stampa, normalmente più grande di un settimanale e più piccolo di un
quotidiano; in relazioni pubbliche, un’iniziativa tabloid implica un po’ di esagerazione, di iperbole,
di sottolineatura a “grandi titoli” e al tempo stesso poca o comunque insufficiente e non completa
informazione. (→ hype; sexing up; spin)
Takeover è una acquisizione, amichevole (friendly) o anche ostile (hostile), di un’organizzazione
da parte di un’altra.
Nelle relazioni pubbliche, è un momento topico e delicato di
autorappresentazione dell’organizzazione acquirente e/o acquisita. Vi sono società di relazioni
pubbliche specializzate proprio in questa attività.
Talk the walk → walk the talk.
Talk show formato televisivo divenuto di uso comune anche in assemblee ed eventi ad hoc. Di
solito, un facilitatore sollecita protagonisti a dire la loro su una o più questioni specifiche cercando
di avviare tra i partecipanti un dibattito interessante per il pubblico presente e/o televisivo. Gli
organizzatori di eventi (→ event) hanno raffinato il modello ed esistono oggi diversi modelli di talk
show in funzione della serietà del tema trattato, dei protagonisti coinvolti, del facilitatore.
Target nella comunicazione d’impresa (→ corporate communication), il termine ha due accezioni:
una meta da conseguire (spesso è usato nelle vendite per indicare l’obiettivo quantitativo del
fatturato oppure l’obiettivo di comunicazione da perseguire, in modo unidirezionale e asimmetrico;
→ asymmetric); oppure come scorretta ma usatissima contrazione del termine target group
(pubblico di riferimento), ciò che non ha nulla a che fare con il cuore delle relazioni pubbliche,
sostanzialmente a due vie e, almeno tendenzialmente, simmetriche (→ symmetric). Un termine che
sollecita la “comunicazione a”, anziché la “comunicazione con”.
TAROT (trend analysis by relative opinion testing) → Delphi.
Taxonomy un insieme condiviso di definizioni dei termini più usati – ciò che esattamente manca
nelle relazioni pubbliche. È possibile che questa anomalia stia per essere superata grazie alle nuove
tecnologie. Infatti è in realizzazione, a cura della comunità professionale e, in particolare alla
Global Alliance e di un gruppo di associazioni nazionali e di professionisti dedicati, un software
universale di relazioni pubbliche che parte proprio da una tassonomia condivisa. È l’→ XPRL
Teaser (to tease, prendere in giro, scherzare) in pubblicità si dice di una campagna quando si attira
l’attenzione del consumatore senza indicare direttamente e subito la soluzione – soluzione che verrà
annunciata con un esplicito richiamo al teaser, soltanto dopo aver attirato l’attenzione. In relazioni
pubbliche, le iniziative teaser sono molto discutibili e hanno parecchio a che fare con la percezione
di opacità dei processi professionali. Ma non se usate per annunciare eventi (→ event) intorno ai
quali si desidera attirare attenzione.
Teleconference conferenza telefonica con la partecipazione dal vivo e contemporanea di più
soggetti da luoghi diversi. Se ben condotta, consente di risparmiare parecchio tempo e denaro, e può
essere visivamente integrata da immagini e grafici via internet.
Testimonial normalmente la celebrità che, in cambio di un compenso, si presta a parlare bene di un
prodotto o a farsi ritrarre sorridente a fianco ad esso. Termine di uso ormai corrente in italiano, in
relazioni pubbliche il testimonial è anche la persona che si presta gratuitamente o dietro compenso
simbolico o in natura, a sostenere pubblicamente una causa, a firmare un appello pubblico, a
prestare il suo nome per una giusta causa nella speranza che il suo nome riesca a stimolare adesione,
emulazione e partecipazione di altri.
Tie-in è un accordo, un legame che si instaura fra due o più soggetti intorno a una questione
specifica (→ issue). In relazioni pubbliche e in pubblicità viene usato anche come sinonimo di comarketing.
Top-of-mind è un ricordo immediato, un ricordo che deve essere ricercato; in ricerca si chiama
“ricordo spontaneo”, quello che viene in mente subito dopo la domanda del ricercatore. “A caldo”,
si potrebbe dire.
Track record è l’esperienza passata (cosa ho fatto, come ho agito rispetto a una determinata
questione). È importante perché “l’esperienza non è ciò che ci succede, ma è quel che si fa con quel
che succede”.
Tracking study uno studio continuativo che assicura il monitoraggio costante di un determinato
fenomeno che si vuole studiare.
Transparency è la trasparenza (nelle relazioni). In linguaggio informatico un oggetto è trasparente
quando l’utente non se ne accorge neppure. Certo non è questa l’accezione che del termine ne fanno
i comunicatori, le autorità, le organizzazioni quando la invocano per i consumatori, gli elettori, gli
utenti dei servizi pubblici o gli investitori. È difficilmente negabile che l’opacità (cioè, il contrario
della trasparenza) può essere assai utile in molte circostanze. Così come nessuno può impedire a
organizzazioni, note per la loro ritrosia alla trasparenza, di avere reputazioni forti e consolidate, è
anche chiaro che una politica spinta di trasparenza costringe l’organizzazione a rivelare
informazioni che possono nuocere alla sua reputazione. Insomma, non è tutto oro quel che luccica e
sarebbe bene che i relatori pubblici fossero consapevoli che “omaggiare” troppo la trasparenza delle
organizzazioni con le quali lavorano rischia anche di elevare a livelli insostenibili le aspettative
degli → stakeholder. Il termine trasparenza con lo stakeholder può essere utilizzato, senza rendersi
ridicoli, soltanto in presenza di alcuni passaggi comunicativi obbligati:
a) dichiarare sempre la propria identità;
b) dichiarare sempre il soggetto che si rappresenta (questo non vale solo per i consulenti);
c) dichiarare qual è l’obiettivo che si intende perseguire nella creazione, sviluppo o
consolidamento della relazione con l’interlocutore.
Questi sono i tre passi essenziali. Poi ce n’è un quarto che può essere applicato in tutti quei casi in
cui non esiste il rischio di divulgare segreti utili alla concorrenza: come intendo perseguire
quell’obiettivo nella mia relazione con te e gli altri. Il contenuto della informazione deve
ovviamente essere tempestivo, veritiero e seguire le norme di legge. Ma, attenzione, queste ultime
tre variabili non hanno a che vedere con la trasparenza ma con le altre caratteristiche della
comunicazione. Attribuire tutto al concetto di trasparenza vuol dire annacquarlo.
Unilateral messaggio o azione proveniente da una parte sola, unilaterale. Il riferimento più abituale
è alla pubblicità.
Unique selling proposition (USP) letteralmente, “proposta di vendita unica”; nello specifico, la
peculiarità, la caratteristica unica di un prodotto, un servizio, un’idea che si vuole comunicare.
Universe in ricerca, è il totale dei soggetti da cui viene estratto un campione rappresentativo
secondo specifiche modalità. Più è piccolo l’universo più è grande in proporzione il campione
rappresentativo.
Unobtrusive research è una tecnica di ricerca non invadente, non aggressiva, che si basa sul
consenso prioritario quando non sul volontariato attivo del soggetto.
Value valore. Le organizzazioni che creano maggior valore per gli → stakeholder sono quelle che
adottano e applicano modelli avanzati di relazioni pubbliche basati sul governo dei sistemi di
relazione (→ stakeholder relationship management; Gorel) con gli stakeholder e sulla formulazione
di politiche e comunicazione di comportamenti di responsabilità sociale. È il risultato di una
immensa ricerca condotta per 17 anni su 327 organizzazioni Inglesi, Canadesi e Americane
condotta dal Prof. James → Grunig dell’Università del Maryland. La squadra di Grunig avviò i
lavori nel 1985 per concluderli nell’estate del 2002. Tre volumi (pubblicati dalla Lawrence Erlbaum
Associate) sono il frutto di questo lavoro:
1) Excellence in Public Relations and Communication Management (1992), che presenta
un’estesa illustrazione della letteratura esistente e, a fianco dei risultati di una ricerca
quantitativa delle 327 organizzazioni (che include questionari completati di 407 direttori
della comunicazione, 292 leader di organizzazione e 4.361 dipendenti), misura i diversi
indicatori di successo per le relazioni pubbliche;
2) Manager’s Guide to Excellence in Public Relations and Communication Management
(1995), che presenta approfondite descrizioni della ricerca qualitativa sulle 25
organizzazioni che hanno registrato i punteggi più alti e più bassi nella fase quantitativa;
3) Excellent Public Relations and Effettive Organizations (2002), che presenta i risultati
completi e integrati delle due ricerche.
Value added valore aggiunto. In relazioni pubbliche, il valore aggiunto di un’organizzazione è la
ricchezza prodotta nel corso di un esercizio (un anno). Per un’impresa lo si individua nella
differenza fra la produzione lorda e il consumo dei beni e dei servizi. Nel caso del valore aggiunto
apportato a un’organizzazione dalle sue attività di relazioni pubbliche siamo nel più ampio tema dei
cosiddetti beni immateriali o intangibili. Tutti concordano ormai da diversi anni che questi ultimi
costituiscono ormai la parte più importante del valore aggiunto di un’organizzazione. Sono poi
sempre in numero maggiore gli esperti che sostanziano questo ragionamento con l’argomento che il
valore maggiore di un’organizzazione è costituito dalla somma dei valori dei suoi sistemi di
relazione con i pubblici influenti. Essendo le relazioni pubbliche quella disciplina del management
che aiuta le organizzazioni a governare i sistemi di relazione con i suoi pubblici influenti, ecco la
stretta correlazione fra relazioni pubbliche e produzione di ricchezza.
Variable variabile. In relazioni pubbliche, e in particolare nel → Gorel, variabile è usato come
sinonimo di → issue, o di questione. La gestione delle variabili equivale quindi all’issue
management. Nel Gorel l’identificazione delle variabili che influenzano il raggiungimento
dell’obiettivo di un’organizzazione avviene subito prima della identificazione degli influenti (→
influential; influencer) e dopo quella degli obiettivi. In effetti non si possono sviluppare relazioni
efficaci con gli influenti in “laboratorio”, prescindendo cioè dalle dinamiche sociali, politiche,
economiche, tecnologiche o culturali.
Venue luogo, località. In relazioni pubbliche si riferisce in genere al luogo di un evento (→ event),
a dove si svolge. In diverse organizzazioni esiste il venue manager, la persona esperta nelle località,
sempre aggiornata sulle novità e le attrazioni. (→ anche location)
Vested interest interesse di parte. È un concetto fondamentale dellerelazioni pubbliche. Per
chiunque lavori e qualsiasi cosa faccia, il relatore pubblico per definizione rappresenta sempre un
interesse di parte e questo, per esempio, dovrebbe impedirgli deontologicamente di essere pagato
anche da altre parti per lo stesso lavoro (commissioni da fornitori, coinvolgimento di altri
partner...); di non palesare all’interlocutore della relazione la propria identità e quella dell’interesse
rappresentato, di rappresentare più interessi in conflitto anche potenziale, indipendentemente
dall’opinione del cliente in proposito.
Videoconference tutti oggi sanno cosa è una videoconference, da non confondere (come spesso
accade) con la → teleconference. Alla fine degli anni Settanta era girata la leggenda metropolitana
che l’industria dei viaggi sarebbe crollata a causa dell’imminente avvento della videoconferenze.
Poi se ne è parlato poco negli anni Ottanta, mentre la stessa leggenda è nuovamente riemersa negli
anni Novanta. Oggi le videoconferenze sono assai più utilizzate di vent’anni fa, ma non ancora
realmente scalfito l’industria dei viaggi, a dimostrazione che tutto si crea e nulla si distrugge.
Video news release (VNR; pronunciato “viiennar”) un comunicato video per la TV. In auge nei
mercati più avanzati dai primi anni Settanta – adoperato per la prima volta con successo in Italia nel
1979 per presentare alle tante televisioni private di allora una particolare sigaretta (si chiamava
Muratti Ariston) che consentiva al fumatore, con l’auto regolazione del filtro della sigaretta
predisposto su tre diverse posizioni, di aumentare o diminuire il passaggio del fumo e delle sue
sostanze – il video news release, anziché come un comunicato stampa (→ news release) che aiuta il
giornalista a scrivere il suo pezzo, è stato interpretato in questi ultimi anni da Palazzo Chigi come
materiale video che il sistema televisivo avrebbe dovuto usare così come predisposto dall’ufficio
stampa, e questo ha provocato numerose reazioni negative da parte dei giornalisti. Più
recentemente il Ministero della Salute statunitense è stato formalmente criticato dalla Corte dei
Conti americana per avere investito dei soldi con la Ketchum (una delle maggiori agenzie
internazionali di relazioni pubbliche) per la produzione e diffusione di una batteria di video news
release che illustrano la riforma del sistema sanitario nazionale di quel Paese. La critica segnalava
che una legge del 1913 ancora vigente impedisce all’amministrazione pubblica di investire soldi
pubblici in attività di relazioni pubbliche. Ma lo stesso episodio ha invece prodotto un vero e
proprio scandalo sulla stampa statunitense poiché le stazioni televisive che hanno accettato di
mettere in onda la serie l’ha fatto senza alcuna modifica addirittura facendo passare l’annunciatrice,
una professionista di relazioni pubbliche, come fosse la cronista da Washington. Lo scandalo è stato
tale che la PRSA (Public Relations Society of America) è stata costretta a convocare il suo collegio
dei probiviri ed emettere un editto sulla materia di VNR.
Viral marketing sta per “marketing virale”, oggi molto di moda anche se altro non è che quel che
da sempre fanno i migliori operatori di → marketing public relations. In sostanza, rispetto a un
determinato pubblico cui si desidera far conoscere e provare un nuovo prodotto o servizio, si mette
in moto un nucleo di “moltiplicatori” (→ four-minute-men) o leader di opinione (→ opinion leader)
– ovviamente dove per opinione si intende quella del pubblico specifico con il quale si intende
comunicare – che adottano il prodotto-servizio pubblicamente, e invitano altri a fare altrettanto.
Secondo Al Ries, iniziatore del concetto di posizionamento e autore del libro The rise of PR and the
fall of Advertising, la maggior parte dei nuovi prodotti e servizi di successo presentati sul mercato
negli anni Novanta hanno fatto leva su questa tecnica in fase di lancio per poi sostenerla in un
secondo momento attraverso l’investimento pubblicitario, che sarebbe l’iter contrario a quello
classico: prima la pubblicità poi le relazioni pubbliche a supporto. In Italia uno dei primi esempi
conosciuti di viral marketing risale ai primissimi anni Ottanta quando la Polaroid introdusse un
nuovo apparecchio coinvolgendo in una famosa “caccia al tesoro” estiva realizzata con la nuova
Polaroid, tutti i giovani rampolli della migliore imprenditoria italiana e montandoci su una bagarre
sui giornali estivi
Vision visione, la descrizione sintetica e condivisa di quello che l’organizzazione intende diventare
in un tempo definito (3-5 anni). Nel processo di → envisioning – il primo passo del → Gorel
adattato alla teoria sistemica di Grunig (→ systemic school) – la visione viene subito dopo la
missione (→ mission), l’istantanea dell’organizzazione come è, e subito prima i valori guida (→
guiding principles) che guideranno l’organizzazione nel percorso dalla missione alla visione,
rappresentato dalla strategia, ultima fase dell’envisioning.
Walk the talk, e/o talk the walk (letteralmente, “camminare il parlato”) nota espressione americana
per dire che un’organizzazione deve uniformare i suoi comportamenti all’autorappresentazione
retorica della sua identita. È indubitabile che la franchezza nell’esporre ragionevolmente anche i
punti di debolezza dell’organizzazione contribuisce largamente allo sviluppo di una relazione di
fiducia fra un’organizzazione e i suoi → stakeholder. Se vogliamo è una buona “comunicazione
con”. Esiste poi il contrario di “walk the talk” che è “talk the walk” (“parlare il camminato”), che in
pratica chiede al comunicatore di non rappresentare quel che l’organizzazione non ha agito, non ha
fatto: è la comunicazione dei comportamenti, appunto. Non esiste una modalità applicabile e
replicabile a tutte le organizzazioni anche se le stesse non possono esimersi dal “walk the talk” e dal
“talk the walk”: e farlo bene richiede tanta tecnica e tanta competenza.
Wire service sta per “agenzia di stampa” e oggi anche per news agency. All’inizio del XX secolo,
invece, si definiva news o press agency una attività di ufficio stampa, tanto che il primo modello di
→ Grunig, “à la” P.T. Barnum, si chiama → press agentry.
XPRL (extensible public relations language) XPRL è un progetto internazionale che si prefigge
come obiettivo la costruzione di un linguaggio informatico condiviso per migliorare l’efficacia e
l’efficienza nello scambio di informazioni e nella pratica quotidiana delle relazioni pubbliche. Lo
scopo di tale progetto è la condivisione di linguaggi delle relazioni pubbliche. “Language” sottende
la capacità di essere compatibile con tutti i computer: gli strumenti sviluppati con XPRL sono
comprensibili su scala globale. “Public relations” indica la partecipazione di esperti di rp nella
progettazione di uno strumento per le RP. È “extensible” perché permette – e anzi incoraggia – un
aggiornamento continuo e condiviso da parte di ogni singolo utente per incontrare le mutevoli
esigenze della professione e dei suoi operatori.
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(Fondazione indipendente focalizzata su ricerca ed education)
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(Sito tematico gestito dalla Colorado University)
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(Per la misurazione dei risultati delle attività di rp on line)
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PR Museum
(Museo on line di New York sui professionisti storici delle rp)
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(Le interviste con i protagonisti delle rp)
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(Sito dedicato al reputation management)
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Shel Holtz
(Internet PR)
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The PR Academy
(Formazione on line nelle discipline delle rp)
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(Pensieri sulla rete e sulla comunicazione)
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MicroPersuasion
(Riflessioni sull’influenza dei blog e del giornalismo partecipativo sulla pratica delle rp)
http://steverubel.typepad.com/micropersuasion
Global PR Blog Week 1.0
(Discussione-evento on line sul fenomeno blog)
http://www.globalprblogweek.com
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