Attraverso una scelta di schede illustrate il Dossier prova a indagare particolari aspetti della storia moderna e contemporanea. Le schede vengono presentate secondo un criterio di successione cronologica e sono organizzate in cinque aree di approfondimento: Schede di storia settoriale TECNOLOGIA ECONOMIA 9Le condizioni di vita 1Galileo Galilei e la Rivoluzione scientifica p. 328 ALIMENTAZIONE E MODA p. 330 ECONOMIA p. 332 ECONOMIA p. 334 SOCIETÀ E CULTURA Alimentazione e moda 5 6L’alimentazione p. 338 TECNOLOGIA p. 340 ECONOMIA 326 © Loescher Editore – Torino p. 346 p. 348 12Il treno e la rivoluzione dei trasporti p. 350 13Con l’energia elettrica Società e cultura p. 352 TECNOLOGIA 14Charles Babbage p. 354 MEDICINA 15 La rivoluzione 8Le città industriali Economia al cellulare inventa l’antenato del computer 7La macchina e i villaggi operai 11Il telefono: da Meucci inizia la cavalcata del progresso ALIMENTAZIONE E MODA a vapore di Watt nell’Ottocento TECNOLOGIA Teatri e balli nell’Ottocento p. 336 tra Sette e Ottocento 10La famiglia TECNOLOGIA 4Lo sfruttamento della schiavitù p. 344 TECNOLOGIA 3Il «mercantilismo» e la nascita dell’«economia-mondo» Medicina SOCIETÀ E CULTURA 2La diffusione dei cibi «made in America» cambia l’alimentazione degli operai durante la Rivoluzione industriale p. 342 della medicina nell’età moderna p. 356 Tecnologia © Loescher Editore – Torino 327 1 TECNOLOGIA Galileo Galilei e la Rivoluzione scientifica Il Cinquecento viene spesso associato alle guerre di religione, che causarono stragi e favorirono la diffusione in tutta Europa di ben nove pestilenze. Tuttavia, proprio in quest’epoca di violenza, paura e superstizione la scienza iniziò un percorso di eccezionale sviluppo: era l’avvio della «Rivoluzione scientifica». G. Bezzuoli, Galileo dimostra la legge della caduta dei gravi, affresco, Firenze, Tribuna di Galileo, Museo della Specola. Galileo Galilei a Venezia mentre dà una dimostrazione sul funzionamento del cannocchiale da lui realizzato, stampa a colori del XIX. Il principale protagonista della cosiddetta «Rivoluzione scientifica» fu Galileo Galilei (1564-1642): di lui il cardinale Franziskus Koenig, nominato da Giovanni XXIII arcivescovo di Vienna, scrisse: «ha aperto la strada alla ragione umana verso una comprensione nuova della natura e del corpo, che ha sostituito le concezioni ereditate dal mondo antico». Eppure, per le sue idee Galileo venne accusato di eresia dall’Inquisizione, perché le sue teorie mettevano in dubbio alcuni passi delle Sacre Scritture. Dopo essersi iscritto a Medicina all’Università di Pisa, Galileo si sentì attratto dalla matematica, che secondo lui poteva risolvere i problemi legati alla meccanica e alle tecniche ingegneristiche. I suoi primi esperimenti si concentrarono sul campo della dinamica: facendo rotolare una palla lungo un piano inclinato, registrandone il tempo con un orologio ad acqua e ripetendo più volte l’esperimento egli dimostrò che la distanza percorsa era sempre proporzionale al 328 © Loescher Editore – Torino quadrato del tempo. Questa relazione matematica fu il primo passo importante verso le leggi del moto, formulate nella seconda metà del Seicento da Isaac Newton. Insistendo con esperimenti e prove pratiche, Galileo inventò la bilancia idrostatica (la «Bilancetta») e scoprì l’isocronismo del pendolo. Si narra che l’ispirazione gli venne nel 1581 mentre si trovava nel Duomo di Pisa: osservando una lampada sospesa messasi a oscillare a causa di un lieve terremoto, Galileo controllò il periodo di oscillazione sui battiti del proprio polso scoprendo che, indipendentemente dall’ampiezza delle oscillazioni, la durata del periodo era sempre uguale. Nel 1595 volendo misurare la temperatura dell’aria Galilei costruì un termometro, che consisteva in un piccolo recipiente dal collo lungo e sottile, riempito di alcool, che veniva riscaldato tenendolo tra le mani. Dato che lo strumento non dava molto affidamento, tra XVII e XVIII secolo venne perfezionato prima a Firenze da- gli studiosi dell’Accademia del Cimento, fondata dal granduca Leopoldo II, e successivamente da scienziati come Guillaume Amontons e Daniel Gabriel Fahrenheit, ottenendo la forma che ha ancora oggi. Il nome di Galileo viene comunemente associato al cannocchiale, anche se il primo che ebbe l’idea di accoppiare due lenti per avvicinare oggetti lontani fu il letterato napoletano Giambattista Della Porta. Contemporaneamente in Olanda vennero realizzati alcuni rudimentali strumenti ottici, di cui giunse probabilmente notizia a Galileo: costui «per via di discorso», cioè senza aver preso visione del modello originale, ma solo basandosi sui suoi ragionamenti e calcoli, costruì un cannocchiale nel 1610. Con questo strumento fece importanti osservazioni astronomiche aprendo una nuova era nello studio e nell’esplorazione Schizzi di Galileo delle varie fasi della luna, così come appaiono all’osservazione del cannocchiale. dell’universo. Tra le altre cose, dimostrò che la Terra non è al centro dei moti celesti, come pretendeva l’antica dottrina tolemaica: in tal modo confermò la teorie dell’astronomo polacco Niccolò Copernico che per primo aveva sostenuto l’ipotesi di un universo eliocentrico. L’esatta tesi di Galilei che la Terra e gli altri pianeti girano intorno al Sole fu giudicata eretica dalla Chiesa e lo scienziato venne processato con l’accusa di eresia. Dichiarato colpevole, ritrattò e passò gli ultimi otto anni di vita agli arresti domiciliari. Galileo viene comunemente considerato il «primo scienziato moderno», perché ha contribuito ad affermare la sperimentazione scientifica come metodo indipendente da altre influenze, teoriche, politiche o religiose: per questo «metodo galileiano» o «metodo scientifico sperimentale» sono di fatto sinonimi. Esperimento con trave e peso, illustrazione di Galileo per i Discorsi intorno a due nuove scienze, 1638. Termometro dell’Accademia del Cimento, incisione, XVII secolo. © Loescher Editore – Torino 329 2 ALIMENTAZIONE E MODA La diffusione dei cibi «made in America» cambia l’alimentazione L’ansia di scoperte e di nuove conoscenze che caratterizzò i secoli dal XV al XVII coinvolse anche la fantasia popolare: i sogni di abbondanza e del «paese della cuccagna» venivano infatti proiettati nelle terre al di là dell’Oceano che si immaginavano ricche di infinite riserve di cibo. Gli esploratori portarono in Europa nuovi alimenti come mais, patata, peperoncino e tacchino, che furono assorbiti nel sistema alimentare europeo con lentezza: solo quando il «Vecchio continente» venne sconvolto dalla peste e dalla fame i cibi delle Americhe cambiarono le abitudini alimentari. Il primo nuovo cibo a raggiungere le mense del Nord Europa nel XVI secolo fu il riso, che era stato introdotto nel Sud Italia dagli Arabi. Nello stesso periodo conobbe un’ampia diffusione pure il «grano saraceno», anch’esso proveniente dal Medio Oriente; fu poi la volta del mais, che era stato portato nella penisola iberica da Cristoforo Colombo al rientro dalla sua prima spedizione. Del resto gli esploratori e i mercanti non scambiavano solo merci ma anche idee e soprattutto mode, usi e costumi, compresi i modi di cucinare: essi viaggiavano per anni stando lontani da casa, quindi portavano con sé servi e cuochi che al rientro a casa avevano appreso molte cose e ricette viaggi. I sovrani e i nobili non si facevano mai mancare la cacciagione, e c’era una buona disponibilità di carne secca di bue: il numero di bestie uccise e macellate era infatti molto alto visto la grande domanda di cuoio con cui si producevano scarpe e stivali, selle e finimenti per cavalli e muli, abiti, cinghie e borse. Nel 1497 i marinai di Giovanni Caboto sulla rotta verso il Canada, all’altezza di Terranova, avevano pescato un tipo di pesce sino ad allora sconosciuto, il merluzzo, che venne presto apprezzato in tutta Europa per la sua saporita carne bianca. In quei tempi le spezie erano assai preziose non solo per condire i cibi ma anche perché si riteneva possedessero qualità terapeutiche e digestive. I mercanti olandesi trovarono i chiodi di garofano nelle Molucche, isole dell’Oceano Pacifico e per diversi anni cercarono di impedire che degli esemplari venissero rubati dai loro concorrenti per essere poi trapiantati altrove. Olandesi, portoghesi e inglesi ingaggiarono violente battaglie navali per ottenere il controllo dell’isola di Ceylon dove cresceva la cannella; addirittura il pepe era così ricercato in Europa che qualcuno avanzò la proposta di usarne i granelli come moneta di scambio. Dalle Americhe giunse anche il tabacco, chiamato «erba nicotina» in onore dell’ambasciatore francese Nicot che ne aveva regalato alcuni semi alla regina Caterina de’ Medici: all’inizio era impiegato solo nella produzione di unguenti e medicinali poi gli spagnoli si accorsero P. Longhi, La cioccolata del mattino, 1770, Venezia, Ca’ Rezzonico. che gli indigeni di Cuba preferivano farne seccare le foglie e fumarle. Arrivarono pure le zucche, il brodo di cacao, poi cioccolata, e i pomodori che però divennero uno dei cibi preferiti dagli europei solo nell’Ottocento quando furono inventati sistemi per inscatolarne la salsa. Ancor più forte fu l’impatto dello zucchero non solo sull’alimentazione europea ma sull’intera società mondiale, visto che per coltivarlo nelle piantagioni americane vennero impiegati schiavi catturati in Africa. Insegna che reclamizza tabacco da fiuto e da fumare proveniente dalla Virginia, Inghilterra, XVII secolo. Dipinto di una cucina del XVIII secolo con in primo piano cacciagione e verdure. 330 © Loescher Editore – Torino nuove. Sin dall’antica Roma il cibo più diffuso era il pane, spesso prodotto con farine poco pregiate in modo da tenerne il prezzo alla portata di tutti. Assai diffuse erano anche zuppe e paste di vario tipo e per mangiarle nella Napoli del Cinquecento venne inventata la forchetta che poi i mercanti fecero conoscere nel resto d’Europa. In mancanza di efficaci sistemi di conservazione il formaggio era un prodotto locale, in quanto andava consumato fresco: le uniche eccezioni erano rappresentate dal parmigiano italiano e dall’edam olandese che, in quanto stagionati, potevano sopportare lunghi Contadini al lavoro in una piantagione di canna da zucchero nelle isole Antille, stampa a colori, XVIII-XIX secolo. © Loescher Editore – Torino 331 ECONOMIA 3 Il «mercantilismo» e la nascita dell’«economia-mondo» Con «globalizzazione» si indica la creazione di reti e scambi e la loro connessione reciproca: si tratta di un concetto economico e sociale che attiene all’analisi del presente anche se in realtà il mondo «globale» non è sorto all’improvviso nel XX secolo, ma ha avuto radici più profonde. Già nel Seicento lo sviluppo dei sistemi di trasporto e l’affermarsi di rapporti economici mondiali misero in contatto centri e civiltà sino a quel momento molto distanti tra loro. J. Van Ruisdael, Veduta di Amsterdam e dello Amstel, 1654 circa. Il dipinto offre una sintesi delle ricchezze dei Paesi Bassi: il mulino a vento, la città, la presenza di acqua, le barche e i campi ben coltivati. Il Seicento fu lacerato tra sconforto e speranza, tra passato e futuro, tra tradizione e novità: fu il secolo della Rivoluzione scientifica e della nascita della «filosofia civile», ma passò alla storia come il periodo in cui si verificò un profondo cambiamento nella percezione della geografia e della scala del mondo. Si passò infatti da «un mondo chiuso» ed eurocentrico all’«universo infinito». Secondo lo storico francese Fernand Braudel nel Seicento nacque il sistema dell’«economia-mondo» grazie a nazioni come la Spagna, l’Inghilterra, l’Olanda o la Repubblica di Venezia che, promuovendo la produzione in larga scala di manufatti per l’esportazione, fecero a gara per conquistare nuovi mercati. Secondo lo schema dell’«economia-mondo» elaborato da Braudel vi era un centro propulsore, sede delle attività economiche, a cui erano collegati in forma seguire fondò e amministrò un vero e proprio impero coloniale, distribuendo ai suoi azionisti grandi profitti. La capitale olandese divenne il «magazzino del mondo» perché lì si vendevano all’ingrosso prodotti provenienti da terre lontane e lì nel 1609 nacque la prima Borsa valori, dove ogni prodotto giornalmente si vedeva attribuito un prezzo che dipendeva dalla domanda, dall’offerta e dai rischi che occorrevano per trasportarlo. Dopo la conclusione della Guerra dei Trent’Anni anche l’Inghilterra sviluppò la sua vocazione mercantilistica e, con l’Atto di Navigazione del 1651, che prevedeva che nessuna merce potesse essere importata o esportata in e dall’Inghilterra e dai suoi possedimenti coloniali se non su navi inglesi, sfidò apertamente l’Olanda: nel corso del Seicento si verificarono scontri e guerre di breve durata, mentre la flotta inglese occupava sempre nuovi territori nell’America settentrionale e in India. Tra il XVII e il XVIII secolo il mondo intero divenne teatro delle rivalità tra le grandi potenze marittime. fluiva dapprima nelle casse spagnole, quindi in direzione di tutti coloro, europei o orientali, che intrattenevano rapporti commerciali con la Spagna. Una rotta importante collegava il Messico e il Perù con le Filippine, anch’esse colonizzate dai conquistadores, dove i galeoni trasportavano l’argento che serviva ad acquistare le sete cinesi: per questo si può affermare che i flussi di metalli preziosi controllati dagli spagnoli furono i primi commerci davvero «globali» visto che percorrevano tutta la circonferenza del globo. Mentre la «rivoluzione della meccanica» metteva in grado gli architetti e i tecnici olandesi di costruire imponenti dighe per strappare terre al mare, i mercanti realizzarono una flotta di «fluyt» (velieri a tre alberi) che ottenne il controllo del Mare del Nord e successivamente dell’Oceano Pacifico. Nel 1602 varie imprese mercantili si fusero ad Amsterdam nella Compagnia Van De Velde Il Vecchio, Battaglia del Sont, 1665, Pitti, Galleria Palatina. delle Indie Orientali che nei decenni a Un raro documento che mostra gli unici scambi tra Oriente e Occidente: una nave europea scarica le proprie merci in un porto giapponese. Nelle miniere brasiliane gli schiavi addetti al lavaggio delle pietre preziose venivano sorvegliati a vista da feitore armati di frusta, XVIII secolo, Rio de Janeiro, Biblioteca Nazionale. 332 © Loescher Editore – Torino economica subordinata nazioni e territori costretti a fornire materie prime o semilavorate, come la lana grezza ricavata dalla tosatura delle pecore. Il centro era rappresentato appunto dalle nazioni marittime europee che basavano la loro forza su imponenti flotte di velieri in grado di solcare tutti i mari ed equipaggiate con cannoni di varie dimensioni che li rendevano temibili macchine d’attacco. La prima rete commerciale che trasformò davvero il mondo fu quella basata sull’argento estratto nelle miniere dell’America spagnola. L’argento Il porto della East India Company of England a Bombay, India. © Loescher Editore – Torino 333 ECONOMIA 4 Lo sfruttamento della schiavitù Ogni estate i telegiornali ci mostrano le immagini di «carrette del mare» che trasportano centinaia di stranieri dall’Africa verso le coste del Sud Italia: il carico umano è quasi sempre composto da giovani in fuga dalla fame e dalle malattie, con la speranza di un futuro migliore. Essi pagano alte somme a trafficanti di esseri umani senza scrupoli che lavorano per le mafie internazionali. Eppure in passato erano le più importanti imprese commerciali europee a gestire la «tratta degli schiavi», che consentì all’Europa di ottenere il predominio economico mondiale tra il Quattrocento e l’Ottocento. Quando parliamo di «globalizzazione» dobbiamo pensare all’esistenza di reti di scambi, tra loro interconnesse: nella storia recente una di queste prime reti «globali» è stata quella rappresentata dal traffico di esseri umani che iniziò intorno alla fine del Cinquecento e si protrasse per tre secoli. I primi a sfruttare la schiavitù in larga scala furono i portoghesi, che nel tentativo di circumnavigare il continente africano vennero in contatto con i mercanti arabi che commerciavano in uomini. Presto vennero seguiti da mercanti olandesi e inglesi che pagavano gli arabi con armi, mentre gli spagnoli inizialmente impiegarono gli Indios come manodopera nelle miniere in America meridionale: visto che questi però si ammalavano facilmente iniziarono a servirsi di schiavi africani, molto resistenti e capaci di sopportare facilmente il clima tropicale. Incominciarono quindi i viaggi delle cosiddette navi «negriere», vascelli le cui stive venivano riempite da esseri umani secondo un sistema messo a punto da mercanti e tecnici in base al quale i corpi degli schiavi dovevano occupare ogni spazio disponibile; i negrieri si avvalsero anche di medici che calcolavano le razioni alimentari minime occorrenti a sostentare per tutto il viaggio i deportati. Tuttavia, le condizioni di «stivaggio» erano così atroci che la percentuale di perdite per ogni viaggio variava dal 10 al 50%: ciò nonostante il guadagno netto per i mercanti poteva arrivare a 1800 volte la cifra iniziale investita. Tra 1450 e 1850 oltre 12 milioni di africani giunsero al di là dell’Atlantico, mentre le navi che li portavano rientravano in F. Meynell, La stiva della nave negriera Albatros, 1846, Greenwich, National Maritime Museum. Il dipinto riflette la tipica condizione inumana degli schiavi trasportati nelle stive. 334 © Loescher Editore – Torino La tratta degli schiavi in un acquerello conservato nel castello di Kranborg in Danimarca. Europa cariche di cotone, tabacco e zucchero: per questo si parla di un sistema di commercio «triangolare». Nel corso del Settecento le colonie inglesi del Nord America divennero la principale destinazione delle navi «negriere», ma proprio l’abolizione della schiavitù fu una delle cause della guerra di secessione tra 1861 e 1865. Tuttavia il concetto di superiorità della razza bianca è rimasto a lungo nella mentalità occidentale, tanto che ancora nella seconda metà del Novecento i neri americani erano costretti a vivere in ghetti, senza poter frequentare i luoghi pubblici riservati ai bianchi. Sebbene nel corso del Novecento la schiavitù sia Bambini schiavi: un ragazzino di tredici anni al lavoro in una fabbrica di vasi d’argento a Dhaka, capitale del Bangladesh. stata condannata dagli ordinamenti giuridici della quasi totalità degli Stati, essa è sopravvissuta e negli ultimi anni ha conosciuto una rinascita a causa della crisi economica internazionale e delle guerre. Secondo i dati in possesso dell’ONU oggi ci sarebbero più di 200 milioni di schiavi, soprattutto in Africa; ma anche in Italia è tornata la schiavitù con il racket internazionale della prostituzione che sfrutta giovani donne dell’Est Europeo o africane. Invece in India, Pakistan e Nepal, dove non esiste una legislazione sul lavoro, sono migliaia i bambini costretti a lavorare nella produzione di tappeti o di capi di abbigliamento. Manifesto americano della seconda metà del XVIII secolo che pubblicizza la vendita di schiavi africani e un’asta di vendita. © Loescher Editore – Torino 335 5 SOCIETÀ A CULTURA Teatri e balli nell’Ottocento Il teatro rivestì importanza fondamentale durante il Risorgimento visto che, insieme ai giornali, contribuì a diffondere nell’opinione pubblica della penisola italiana le tesi dei sostenitori dell’unità nazionale. Attraverso la messa in scena era possibile assumere e vivere la questione dell’indipendenza nazionale come una questione morale, prima ancora che come problema politico. Il teatro permise agli intellettuali di rivolgersi a un gruppo eterogeneo, di trasferire nelle parole e nei gesti degli attori l’impegno e il coinvolgimento nella causa italiana. L’interno del teatro alla Scala di Milano dopo la ristrutturazione del 1830, Milano, Teatro alla Scala. L’Ottocento riscoprì il teatro con forte passione. In particolare, in tutte le principali città vennero costruiti nuovi, imponenti teatri: segno di amore per l’arte, ma anche di orgoglio cittadino. La disposizione degli spettatori nel teatro era suddivisa secondo rigide gerarchie sociali, così che il possesso di un palco diventava simbolo della superiorità sociale di una famiglia. Come genere musicale nel corso del XIX secolo si affermò soprattutto l’opera lirica, composta quasi esclusivamente su libretti in italiano, ritenuta l’unica lingua adatta a questo tipo di creazioni. Poiché molti librettisti nei loro testi alludevano con frequenza alla situazione politica contemporanea, la censura governativa interveniva con severità: basti l’esempio di Giuseppe Verdi che nel 1848, anno di rivoluzioni e sommosse in tutte le principali città europee, fu costretto a cambiare non solo il titolo alla sua opera La battaglia di Legnano, 336 © Loescher Editore – Torino che divenne L’assedio di Arlem (città olandese), ma anche parte della trama, pena il divieto di rappresentazione nel Lombardo-Veneto controllato dagli austriaci. Eppure nonostante la celebre aria del Va, pensiero fosse cantata dal coro degli ebrei costretti in schiavitù nell’antica Babilonia, in realtà era evidente a tutti il riferimento ai patrioti costretti ad abbandonare propria la Lombardia dopo la sconfitta nelle cosiddette «cinque giornate» di Milano. I giornali del tempo segnalano più volte applausi a scena aperta o richieste di bis da parte del pubblico dei teatri italiani proprio sui cori e sui brani che meglio si prestavano a essere riletti in chiave patriottica. Inoltre, in alcuni teatri, come la Scala di Milano o il Regio di Parma, durante il Risorgimento era diffusa l’abitudine nel pubblico di indossare indumenti che richiamassero l’azzurro dei Savoia o il tricolore, così da sventolarsi o mostrarli in faccia agli ufficiali austriaci presenti agli spettacoli, durante l’esecuzione dei cori o al termine delle opere. Un altro interesse forte del periodo era il ballo: ballavano i contadini sulle aie, i cortili delle grandi cascine, ballavano i nobili nei veglioni e i borghesi nei loro circoli. Nei primi decenni dell’Ottocento ebbe un vasto successo il valzer, che si diffuse in tutta Europa dopo il Congresso di Vienna del 1815, tanto che nelle librerie si potevano acquistare manuali sul corretto comportamento e sulla postura dei ballerini. Nella seconda metà del XIX secolo invece gli emigranti che tornavano in patria dal Sud America fecero conoscere un nuovo ballo nato nelle periferie di Buenos Aires e di Montevideo: il tango. Quest’ultimo, per la sua sensualità e le arie musicali decisamente innovative, ebbe una vasta diffusione soprattutto tra le classi più povere e causò non poche preoccupazioni alle gerarchie ecclesiastiche che lo vedevano come un possibile fattore di corruzione della morale. Addirittura nel 1914, mentre scoppiava la Prima guerra mondiale, il Vaticano in Italia fece stampare e distribuire nelle parrocchie un opuscolo dal titolo esplicito: Il Tango e il suo fango. Si trattava di un’anticipazione di una dura «battaglia» moralizzatrice che proseguì anche durante Locandina per un opera con le musiche basate sul valzer di Oscar Strauss, 1907. La moda del tango in un manifesto dell’epoca. Ballerini di tarantella, fine XIX secolo. G. Boldini, ritratto di Giuseppe Verdi, Pistoia, Collezione Boldini. l’epoca del regime fascista, del secondo conflitto mondiale e dell’immediato secondo dopoguerra: in questa lunga e dolorosa fase della storia italiana furono numerosi i vescovi e i sacerdoti che si preoccuparono di denunciare come sconveniente e poco decorosa la moda del ballo, senza comprendere la voglia di divertirsi di una popolazione uscita da vent’anni di dittatura e di guerra. © Loescher Editore – Torino 337 6 ALIMENTAZIONE E MODA L’alimentazione tra Sette e Ottocento Dopo la fase delle tre rivoluzioni – agraria, industriale e demografica – iniziata nel XVIII secolo, le condizioni di vita della popolazione europea migliorarono notevolmente grazie soprattutto alla nuova disponibilità di risorse alimentari, resa possibile dalle innovazioni tecnologiche e dalle migliorie apportate alle attività agricole. I prodotti agricoli importati dalle Americhe, come il mais e la patata, si diffusero rapidamente modificando in maniera profonda il regime alimentare degli europei: si trattava di cibi «poveri», poco costosi e di gran rendita, che potevano sfamare un numero crescente di consumatori. Inoltre, grazie alle scoperte in campo chimico che consentirono una miglior conservazione dei prodotti alimentari, anche i ceti medio-bassi poterono iniziare a consumare carne e verdura, riducendo la distanza, sino a quel momento notevole, tra la dieta dei ricchi e quella dei poveri. Inizialmente si cercò di utilizzare le patate per fare il pane, salvo poi consumarle bollite; invece nel Nord Italia venne inventato un modo diverso per impiegare in cucina il mais: esso veniva macinato e consumato sotto P. Longhi, La polenta, 1740, Venezia, Ca’ Rezzonico. 338 © Loescher Editore – Torino forma di polenta, del tutto sconosciuta alle popolazioni dell’America centrale e meridionale. Questi nuovi cibi consentirono a migliaia di persone di placare i morsi della fame, contribuendo così ad attenuare le conseguenze più devastanti delle carestie; tuttavia causarono la diffusione della pellagra, una malattia dovuta alla carenza di vitamine B che procurava la desquamazione della pelle, gravi problemi intestinali e persino forti disturbi neurologici. Nel corso del Settecento la carne continuò comunque ad essere considerata un prodotto di lusso, destinata quasi esclusivamente ai banchetti di corte o alle tavole dei nobili, gli unici che avevano il tempo di dedicarsi alla caccia non più considerata come una necessità, ma ormai sempre più vista come un hobby o una pratica «sportiva» per pochi. La situazione cambiò nel XIX secolo per due motivi sostanziali: innanzitutto perché i progressi della zootecnia (la disciplina che si occupa dell’allevamento degli animali domestici) resero possi- E. Bird, Il ritorno di Mr Rickett dalla caccia, Bristol, Bristol City Museum and Art Gallery. C. Pittara, Ritorno alla stalla, 1866, Torino, GAM. bile una miglior selezione dei capi di bestiame; in secondo luogo perché il progresso tecnologico nei metodi di conservazione e trasporto della carne consentirono di allargare il mercato. Fondamentale per l’industria alimentare risultò lo sviluppo della chimica: il biologo e chimico francese Louis Pasteur, scopritore del vaccino contro la rabbia e considerato il fondatore della moderna microbiologia, svelò le cause del processo di fermentazione di molte sostanze e mise a punto un procedimento per conservare prodotti alimentari (come il latte) che, dal suo nome, fu chiamato pastorizzazione. Sino al XIX secolo i cibi venivano tenuti nelle «conserve» cioè in pozzi o costruzioni sotterranee dove si raccoglievano il ghiaccio e la neve durante l’inverno. Nel 1851 James Harrison, un tipografo scozzese emigrato in Australia, per caso scoprì le qualità refrigeratrici dell’etere, un liquido, se portato allo stato gassoso. Ideò quindi un sistema per refrigerare la birra e trent’anni dopo sperimentò una rudimentale cella frigorifera per trasportare via nave dall’Australia a Londra 40 tonnellate di carne di manzo. La sua invenzione venne sfruttata da alcune industrie alimentari statunitensi che iniziarono a mettere la carne in scatole di latta a chiusura ermetica. Grazie a questi sistemi diverse aziende agricole italiane avviarono l’esportazione di pesche sciroppate, pomodori, fagioli e piselli in scatola. Ormai anche i cibi più deperibili potevano essere trasportati a grande distanza dai luoghi di produzione; ciò significò l’apertura di nuovi mercati, la crescita esponenziale dei guadagni degli imprenditori, oltre a una maggior varietà di alimentazione, visto che frutta e verdura mediterranee arrivarono sulle tavole dei paesi del Nord Europa. Girarrosto settecentesco. Dipinto che raffigura Louis Pasteur durante un esperimento nel suo laboratorio. © Loescher Editore – Torino 339 7 TECNOLOGIA La macchina a vapore di Watt La macchina a vapore inventata nel 1765 dall’ingegnere scozzese James Watt rappresentò il fattore principale di quello sconvolgimento radicale, dal punto di vista sociale, economico e tecnologico, che è stato chiamato «Rivoluzione industriale». Macchina a vapore atmosferica di T. Newcomen, incisione del 1727. Miniera di carbone a cielo aperto in Gran Bretagna, 1790 circa, Liverpool, Walker Art Gallery. È visibile la pompa a vapore inventata da Thomas Newcomen. Il primo macchinario che sfruttava l’energia del vapore venne costruito nel I secolo a.C. da Erone di Alessandria: si trattava di un recipiente di acqua che, portata all’ebollizione, muoveva una rudimentale turbina. Tale invenzione restò a livello di prototipo, dato che nel mondo antico l’energia più impiegata era la forza-lavoro umana, e si dovette attendere la «Rivoluzione scientifica», con Galileo Galilei, perché fosse ripreso lo studio dell’energia del vapore. Nel Seicento in Inghilterra si verificò una forte crisi energetica causata dall’eccessivo consumo di legna come combustibile e per le costruzioni. Di conseguenza il progressivo disboscamento spinse gli inglesi a scavare nelle visce340 © Loescher Editore – Torino re della Terra per estrarre un altro combustibile, il carbon fossile. Più le miniere scendevano in profondità più diventava urgente risolvere il problema delle infiltrazioni d’acqua nelle gallerie. Nello stesso tempo il settore agricolo, sfruttato in maniera sempre più intensiva, necessitava di strumenti per irrigare i campi. Lo studio per risolvere tali problemi appassionò scienziati e ingegneri, come il francese Denis Papin che progettò una pompa a vapore e inventò pure la pentola a pressione, o l’inglese Thomas Savery il quale sperimentò un sistema che sfruttava alternativamente la pressione del vapore e la depressione provocata dalla sua condensazione per aspirare l’acqua La macchina a vapore di J. Watt. dalle gallerie. Partendo dalla macchina di Savery, società inglese: una sola macchina infatti era più Thomas Newcomen ideò la pompa atmosferica veloce e potente di un mulino e poteva far muoveche però consumava ancora troppo carbone; per re contemporaneamente decine di telai. Nel 1801 evitare tale inconveniente James Watt, un tecnico il motore di Watt venne applicato a una barca, la del laboratorio dell’Università di Londra, si mise a Charlotte Dundas, fatta costruire da lord Dundas e studiare il marchingegno e dopo svariati esperida lui dedicata alla moglie, che in tal modo poteva menti nel 1765 riuscì a realizzare un condensatore trasportare chiatte cariche di carbone lungo il caseparato, per eliminare il gioco della pressione e nale tra Forth e Clyde, in Scozia. Nel giro di pochi sfruttare direttamente l’energia di espansione del decenni i piroscafi a vapore soppiantarono le navi vapore. Per questi studi e innovazioni Watt viene a vela, utilizzando come propulsori grosse ruote a considerato il creatore della prima macchina a pale. Nel 1843 questo continuo processo di svilupvapore, dato che il suo brevetto diede avvio alla po ebbe un’ulteriore svolta con il varo della Grevera e propria «era del vapore», che coincise con at Britain, la prima nave costruita interamente in la prima Rivoluzione industriale. Nel 1768 Watt riferro, che poteva trasportare 4000 passeggeri: una uscì a vendere un esemplare della sua macchina vera rivoluzione per il settore dei trasporti. che servì a muovere i mantici di una fonderia di ghisa; un altro venne invece installato in una miniera della Cornovaglia. Negli anni a seguire l’ingegnere scozzese migliorò la sua invenzione, applicandovi stantuffi, rubinetti e valvole, e rendendolo così applicabile a tutte le macchine impiegate nelle industrie del periodo: non solo quindi miniere, ma anche stabilimenti tessili, cartiere e industrie siderurgiche, dove il vapore serviva a soffiare grandi quantità di aria negli altiforni per raggiungere le alte temperature necessarie alla fusione del composto ferroso estratto dalle miniere per ottenere ghisa e acciaio. L’applicazione della macchina a vapore si estese in breve tempo a macchia Officina per la costruzione di macchine a vapore di Boulton e Watt a Soho, 1790 circa. d’olio, trasformando l’economia e la © Loescher Editore – Torino 341 ECONOMIA 8 Le città industriali e i villaggi operai A partire dal Settecento la fisionomia delle principali città europee iniziò a cambiare come conseguenza del nuovo ruolo che esse stavano acquistando. Sotto il profilo dello sviluppo urbanistico, fino ad allora i centri abitati avevano mantenuto un forte legame di continuità con il passato medievale, ma le industrie modificarono radicalmente i comportamenti e soprattutto i paesaggi. Ancora nella prima metà del XVIII secolo l’ambiente cittadino rappresentava per la maggior parte della popolazione europea l’eccezione, non la regola: in città viveva appena il 10% della popolazione totale, rappresentato soprattutto da impiegati delle amministrazioni, mentre i nobili e i sovrani risiedevano nelle loro tenute di campagna. Le cose iniziarono a cambiare con il progressivo insediamento delle principali attività produttive nel tessuto urbano: la conseguente emigrazione in città di contadini e braccianti destinati a diventare Un quartiere operaio, stampa inglese del XVIII secolo. la manodopera non specializzadelle grandi industrie manifatturiere, avvenuta a ta delle nascenti fabbriche stimolò l’edificazione di scapito di ampi spazi rurali. Questa prima fase di nuovi quartieri «popolari» nelle periferie. In Inghilcrescita avvenne senza regole precise, se non il terra la calce e i mattoni impiegati per costruire file mantenimento di rigide divisioni di classe tra i nodi misere casette invasero campi e orti della cambili che andavano a risiedere in grandi palazzi del pagna circostante. Si trattò di una vera e propria centro e le classi più umili a cui venivano destinati opera di «colonizzazione» del territorio da parte i nuovi quartieri mal edificati e quindi già in partenza degradati. Le prime linee architettoniche per un nuovo sviluppo urbanistico comparvero soltanto nella seconda metà del XIX secolo durante la seconda Rivoluzione industriale. Fondamentale fu il ruolo dell’architetto George Eugene Haussmann che nel 1849 venne nominato da Napoleone III prefetto di Parigi. In quel periodo la capitale francese era in rapido cambiamento, a causa dell’emigrazione dalle campagne che aveva fatto aumentare la sua popolazione da 700.000 a 1 milione e 200.000 abitanti. Per evitare le epidemie che sarebbero potute scoppiare a causa dell’accresciuta densità di popolazione, Haussmann avviò un progetLa città operaia di Mulhouse, concepita dall’architetto Émile Muller. Incisione su legno di L. Sargent, 1860 circa. to di massicce demolizioni dei vicoli 342 © Loescher Editore – Torino C. Pissarro, Boulevard Montmartre a Parigi, 1897, Pietroburgo, Museo dell’Hermitage. del centro cittadino al cui posto vennero costruiti ampi viali alberati, i celebri boulevards larghi fino a 30 metri. In Italia l’urbanizzazione fu più lenta e meno radicale, vista l’origine medievale o rinascimentale di quasi tutti i centri storici cittadini. Solo alcune città seguirono l’esempio parigino facendo abbattere le antiche mura medievali e costruendo al posto di quelle ampi viali di accesso. Inoltre una caratteristica italiana fu il tentativo da parte di numerosi imprenditori di ideare soluzioni innovative per organizzare le condizioni abitative dei loro operai e salariati. Preoccupati per la nascita dei primi movimenti sindacali, alcuni proprietari di aziende mossi da spirito paternalistico fecero costruire dei veri e propri villaggi in prossimità dei loro stabilimenti. Il villaggio operaio più celebre è quello di Crespi d’Adda, nei pressi di Bergamo, dove il castello del padrone eretto su una collina dominava dall’alto le casette dei lavoratori. Il padrone come un padre provvedeva ai bisogni degli operai e delle loro famiglie e i ritmi della cittadina si basavano sugli orari della fabbrica tessile; all’interno vi erano un ambulatorio, una chiesa, i locali del dopolavoro, una piscina, uno spaccio dove comprare i generi alimentari e persino il cimitero, come se il padrone avesse potere sulla vita degli operai «dalla culla alla tomba». Crespi d’Adda: i capannoni dello stabilimento tessile, 1878-80. Crespi d’Adda: vicino alle fabbriche gli imprenditori milanesi creatori del centro industriale vollero un quartiere d’abitazione per gli operai. © Loescher Editore – Torino 343 ECONOMIA 9 Le condizioni di vita degli operai durante la Rivoluzione industriale La Londra ottocentesca raccontata nei romanzi gialli con protagonista Sherlock Holmes era l’«ombelico del mondo» di un pianeta già reso globale dai commerci e dai nuovi mezzi di trasporto. In lunghe file di casette in mattoni vivevano migliaia di operai e di operaie che con il loro sudore garantivano la forza lavoro alle industrie pesanti. In Italia situazioni di precarie condizioni di vita e di lavoro si protrassero a lungo, almeno sino alla prima metà del Novecento. Con i suoi 4 milioni di abitanti Londra era al centro del movimento di persone, merci e risorse finanziarie: il «pozzo nero dell’inferno» come la definisce il dottor Watson, fido collaboratore del celebre investigatore. Si trattava di una città dura e difficile dove la luce gialla dei lampioni a gas faticava a contrastare una nebbia fitta causata dai fumi che uscivano dalle decine di ciminiere delle fabbriche e dai comignoli delle locomotive a vapore che trainavano i vagoni della metropolitana (inaugurata nel 1863). Scippi e criminalità erano assai diffusi, ed elevato era il numero dei mendicanti che giravano per la vie del centro: dalla testimonianza dello scienziato Charles Babbage si evince che i mendi- canti più temuti e disprezzati per la loro pericolosità erano gli italiani che suonavano per strada gli organetti. In questa metropoli vivevano migliaia di ex contadini e braccianti che erano stati costretti ad abbandonare le campagne per trasferirsi in città: per prima cosa avevano dovuto cambiare le loro abitudini di vita, non potendo più far riferimento al tempo scandito dai ritmi della natura e dal suono delle campane, ma dovendosi adeguare ai ritmi della fabbrica. Dopo 10-14 ore di duro lavoro sulle macchine, rientravano nei sobborghi londinesi in casupole a due piani costruite in schiena, l’una attaccata all’altra, per risparmiare i mattoni. Lo scrittore Jack London ne Il popolo dell’abisso ha G. Doré, Lavoro di immagazzinaggio nella City, incisione tratta dal Viaggio a Londra, di G.Doré e B. Jerrold edito nel 1872. ti violenti, essi erano spesso soggetti a infortuni. Inoltre le pessime condizioni igieniche e il sovraffollamento nelle fabbriche e nei quartieri operai favorivano il diffondersi di malattie epidemiche come la tubercolosi, il tifo e il vaiolo. Anche in Italia l’orario medio variava dalle 10 alle 16 ore giornaliere e la disciplina era mantenuta da ex militari ed ex guardie carcerarie; i luoghi di lavoro erano costituiti da locali bassi, angusti, umidi e poco areati, dotai di pochi servizi igienici del tutto insufficienti. Molto diffuse erano le malattie broncopolmonari provocate dai fumi o dalle polveri, come quella di tabacco nei tabacchifici o di fosforo nelle fabbriche dove si producevano fiammiferi. Il rumore provocato dai macchinari era assordante e per parlarsi bisognava urlare. Finito il turno il ritorno a casa per le donne non significava la fine delle fatiche: le bambine infatti dovevano attendere ai lavori domestici, mentre le loro madri spesso lavoravano come domestiche nelle case dei ricchi. Nel 1901 il 30% dei lavoratori nelle industrie italiane era composto di donne, mentre i minorenni erano circa mezzo milione: i più venivano impiegati negli stretti cunicoli delle miniere di zolfo del Sud, come ha raccontato Giovanni Verga. La prima legge sul lavoro minorile in Italia venne emanata nel 1886: essa vietava il lavoro a tutti i minori di 10 anni e i turni notturni ai minori di 12 anni; tuttavia, ancora nel 1933 nell’industrializzata provincia di Varese i minori sotto i 14 anni rappresentavano il 4% degli addetti all’industria. Incisione raffigurante il cotonificio William Darton Mill a Holborn Hill nel 1820. G. Cruikshank, Il freddo, la miseria e l’indigenza distruggono il loro figlio più piccolo, da The Bottle, 1847, Londra, Victoria and Albert Museum. 344 © Loescher Editore – Torino descritto le piccole stanze sovraffollate delle case operaie definendole «un orrore». Nelle filande lavorano anche molte donne e bambini, apprezzati per l’agilità delle loro dita affusolate che si muovevano velocemente sui telai meccanici mossi dal vapore. Pagati pochissimo e costretti a lavorare con poche e brevi pause sotto il controllo di sorveglian- Field Lane, Londra 1840, incisione che illustra povera gente che vive in condizioni spaventose. © Loescher Editore – Torino 345 10 SOCIETÀ E CULTURA La famiglia nell’Ottocento Nel corso dei secoli la famiglia ha cambiato più volte forma e funzione, a seconda dei luoghi e delle circostanze. Nel corso del XIX secolo l’affermazione del modello borghese ha comportato un radicale cambiamento degli obiettivi della famiglia e la ridefinizione dei tradizionali spazi abitativi. Serata musicale nel salotto di una casa borghese in Danimarca, Ottocento. Disegno di esterno e interno di una tipica casa agricola delle campagne milanesi tratta da L’agricoltura illustrata, una pubblicazione del 1892. In Europa dal Medioevo sino al XIX secolo il modello più diffuso è stato quello della «famiglia rurale», dal momento che la maggioranza della popolazione era addetta all’agricoltura. Si trattava generalmente di famiglie numerose, data la necessità di tante braccia per lavorare la terra, e «allargate» nel senso che non erano composte esclusivamente dai genitori e dai figli ma comprendevano più figure, come i braccianti che venivano assunti nella stagione della raccolta quando c’era grande abbondanza di lavoro. I membri della famiglia contadina si fabbricavano da sé gli strumenti per lavorare i campi e ne consumavano quasi interamente i frutti; tutte le decisioni più importanti venivano prese dal padre (si parla quindi di sistema «patriarcale»), ma un ruolo significativo spettava anche alla moglie del capofamiglia che, in collaborazione con le nuore, doveva badare al governo della casa, all’educazione dei figli, oltre che alla coltivazione 346 © Loescher Editore – Torino F. Londonio, Interno di una stalla. dell’orto e all’allevamento degli animali da cortile, soprattutto cani, gatti e galline. Centro della vita sociale era la stalla dove tutti i membri della famiglia si ritrovavano a trascorrere le serate e spesso anche le nottate invernali a contatto con il calore animale: le donne filavano o tessevano, gli uomini discorrevano tra loro e gli anziani raccontavano ai bambini storie e leggende. La Rivoluzione agricola e quella industriale, a cavallo tra Settecento e Ottocento, mutarono notevolmente questo modello tradizionale, dal momento che l’introduzione di criteri capitalistici nella gestione delle proprietà agricole rese sempre più difficile il sostentamento delle grandi famiglie di tipo rurale. L’agricoltura da estensiva divenne intensiva, cioè volta ad aumentare la produttività dei suoli così da favorire il commercio dei prodotti dei campi; nello stesso tempo iniziò un processo di creazione di grandi aziende agricole che si ingrandirono costringendo i contadini a vendere i loro piccoli poderi e a emigrare. Molti presero a vagare nelle campagne, facendosi assumere nelle proprietà terriere durante la sta- gione del raccolto, altri preferirono trasferirsi in città dove trovarono occupazione come operai nelle fabbriche. Alla Rivoluzione industriale e al processo di urbanizzazione si accompagnò anche l’affermazione della borghesia, i cui membri vivevano in spazi nettamente separati rispetto a quelli delle famiglie operaie e contadine. In questo secondo caso si parla di «famiglia borghese», che si differenziava da quella «rurale» per essere un nucleo ridotto, formato solo dai genitori e dai figli. Mentre i contadini vivevano nelle cascine, vicino alle stalle e ai campi, per i borghesi divenne importante la distinzione tra la casa e il posto di lavoro: nel corso dell’Ottocento si affermò l’idea dell’appartamento «monofamiliare» che ancora oggi rappresenta la condizione abitativa standard per la stragrande maggioranza delle persone. La casa acquistò ca- Un salotto parigino, 1887. ratteristiche nuove, tendendo sempre più ad assomigliare ai grandi palazzi nobiliari suddivisi in tante stanze, ognuna destinata a una singola attività (dormire, mangiare, ricevere gli ospiti, leggere, ecc.); inoltre il suo centro si spostò dalla stalla o dalla cucina (vero e proprio «focolare domestico» per i contadini) al salotto che diventava il luogo di rappresentanza, ove incontrare gli ospiti e mostrare loro il «buon gusto» e il livello di benessere della famiglia. In questo periodo nacquero termini come «decoro borghese» e privacy e cambiarono anche le abitudini sessuali: venne limitata la promiscuità tra uomini e donne che esisteva nelle cascine e anche la procreazione cominciò ad essere vista non più solo come un evento naturale, ma come un atto volontaristico, da regolare e controllare attraverso il ricorso a metodi anticoncezionali. Fotografia di famiglia borghese ottocentesca con otto figli. © Loescher Editore – Torino 347 11 TECNOLOGIA Il telefono: da Meucci al cellulare La rete telefonica è la più grande «macchina» automatica del mondo, che può essere messa in funzione semplicemente combinando alcune cifre su una tastiera. Essa avvolge come una ragnatela tutti i continenti e può mettere in contatto persone che si trovano a migliaia di chilometri di distanza. Il nome «telefono» deriva dal greco teles (lontananza), e phonos (suono). La prima intuizione la ebbe già nel Seicento l’inglese Robert Hooke, che riuscì a trasmettere, attraverso un filo, delle onde sonore parlando contro una membrana che provocava delle vibrazioni. Due secoli dopo l’idea venne ripresa dal fisico tedesco Johann Philipp Reis, che tentò di trasmettere i suoni per via elettrica: non ci riuscì ma disegnò comunque un prototipo a cui diede il nome profetico di telefono. Nuovi esperimenti vennero condotti nella seconda metà del XIX secolo da Antonio Meucci, un fiorentino emigrato a New York che nella sua casa-laboratorio, dove in più occasioni ospitò Giuseppe Garibaldi, costruì una rudimentale macchina per «telegrafare le parole», come lui stesso l’aveva definita. Nel 1871 presentò una domanda di brevetto che però, causa le sue precarie condizioni economiche, non fu in grado di rinnovare. Ne approfittarono due ingegneri statunitensi, Alexander Graham Bell e Elisha Grey, che allo scadere dei diritti di Meucci, il 24 febbraio 1876, ad appena due ore di distanza l’uno dall’altro depositarono due domande di brevetto del «telefono». La spuntò Bell, il cui prototipo si basava sul sistema utilizzato per Un vecchio telefono, anni Venti. Alexander Graham Bell con il suo prototipo di telefono. Ritratto di Antonio Meucci, ideatore del telefono. 348 © Loescher Editore – Torino il trasporto di suoni in correnti elettriche variabili: l’effetto era ottenuto mediante un’astina di platino, posta in vibrazione dalla membrana del telefono. La membrana pescava in una soluzione elettrolitica, variando così la resistenza del circuito, alimentato da una pila. Ottenuta la paternità dell’invenzione Bell iniziò a viaggiare negli Stati Uniti e in Europa per promuoverla: il 14 gennaio 1878 venne ricevuto dalla regina d’Inghilterra, Vittoria, che ne rimase talmente impressionata da chiedere a Bell di installare dei telefoni nelle residenze reali. La prima linea interurbana venne impiantata nel 1884 tra New York e Boston e utilizzò non più fili di ferro ma di rame, che non arrugginiva e lungo di esso il segnale poteva percorrere una distanza maggiore prima di diventare troppo debole per essere udito. Ben presto il telefono cambiò il paesaggio: infatti le strade si riempirono di lunghe colonne di pali attraversate da fasci di fili. Inizialmente ogni chiamata doveva passare attraverso un centralino, poi nei primi anni del Novecento vennero ideate le centrali automatiche, che collegavano direttamente l’utente al numero chiamato. Il primo servizio internazionale fu quello tra Londra e New York, inaugurato nel 1928: si poteva passare una sola conversazione alla volta e di conseguenza gli utenti si prenotavano con parecchie ore d’anticipo per poterne usufruire. Solo intorno al 1955 le grandi compagnie telefoniche incominciarono a stendere cavi sottomarini, in grado di gestire contemporaneamente centinaia, poi migliaia di comunicazioni. Un’ulteriore svolta si ebbe nel 1966 quando una società inglese propose l’adozione di fibre ottiche, cioè fili di vetro dello spessore di un capello, più capienti ed economici del rame. La nuova tecnologia risultò così vantaggiosa che una decina di anni dopo venne impiegata nei primi esperimenti di trasmissione di segnali televisivi. I primi telefoni cellulari, cioè apparecchi ricetrasmittenti collegati alla rete telefonica fissa tramite celle radio, furono inventati da Martin Cooper, un ricercatore della Motorola, nel 1973: inizialmente erano molto pesanti e costavano 4000 dollari. L’evoluzione è stata rapidissima sia nella tecnologia che nel design e ha reso i telefoni mobili molto simili ai computer: nel 2009 il 61% della popolazione mondiale possedeva un cellulare. Telefoni cellulari del 1991. Enorme fascio con connessioni di fibre ottiche per telecomunicazioni. © Loescher Editore – Torino 349 12 TECNOLOGIA Il treno e la rivoluzione dei trasporti Da quando nel 1803 per la prima volta l’ingegnere inglese Richard Trevithick sostituì la trazione a cavalli con quella a vapore, applicando una caldaia a un carro, il treno si trasformò da un mezzo di trasporto pensato per alleviare le fatiche dei minatori nello strumento di una rivoluzione sociale ed economica di rilevanza mondiale. L’idea di usare rotaie nacque già nel XVI secolo nelle miniere britanniche, per trainare i carrelli carichi di carbone: si trattava di due file parallele di assi di legno, inchiodate a traversine che impedivano loro di andare fuori posto, che nel 1700 vennero sostituite da rotaie di ferro che avevano il pregio di consumarsi molto più lentamente. Convinto della bontà della sue intuizione Trevithick progettò un traino a vapore che sostituisse la forza motrice dei cavalli e lo sperimentò nel 1804 nelle ferriere, cioè miniere di ferro, di Pen-y-Darren nel Galles meridionale, trasportando dieci tonnellate di minerale e una quindicina di passeggeri: tuttavia i 14 chilometri di rotaie furono distrutti dal peso eccessivo del convoglio e l’esperimento fu abbandonato. Altri ripresero l’idea della trazione a vapore su strada ferrata, come l’ispettore minerario John Blekinsop che inventò la cremagliera, cioè una rotaia dentata nella quale ingranava una ruota anch’essa dentata della locomotiva, e l’impiegò nella miniera di Middleton presso Leeds. Allo sfortunato tentativo di Trevithick aveva assistito il giovane operaio George Stephenson il quale portò avanti la sperimentazione e nel 1814 costruì la sua prima locomotiva, la Blucher, impiegandola in una linea privata costruita in un’altra miniera di carbone. Le sue capacità di progettista ma soprattutto il suo entusiasmo coinvolsero altre persone e gli consentirono di trovare fondi per i suoi progetti, tanto Disegno che raffigura il Rocket di G. Stephenson, 1829. 350 © Loescher Editore – Torino S. Fergola, L’apertura del primo tronco ferroviario Napoli-Portici (la prima ferrovia italiana), 1839. Incisione raffigurante la dimostrazione a Londra del funzionamento del Rocket, la prima locomotiva a vapore costruita da G. Stephenson nel 1829. che nel 1821 gli fu assegnato l’incarico di costruire una linea ferroviaria tra Stockton e Darlington. Questi 17 chilometri, da principio pensati per trasportare il carbone al porto di Stockton on Tees, divennero la prima linea ferroviaria a vapore e furono inaugurati il 27 settembre 1825 da un treno trainato dal Locomotion, il locomotore progettato da George e dal figlio Robert. Visto che il servizio per passeggeri poteva rappresentare un nuovo vantaggioso mercato, un gruppo di imprenditori bandì un concorso per la miglior macchina da impiegare nella linea che intendevano aprire tra Liverpool e Manchester: gli Stephenson presentarono otto modelli e vinsero con il Rocket, («il razzo»), che raggiungeva i 50 chilometri orari, circa il doppio della velocità delle rivali. La novità rappresentata dal treno incuriosì i primi passeggeri che iniziarono ad assiepare i vagoni scoperti, ben presto sostituiti da carrozze simili a diligenze, dotate di dure panche, ma prive di luce, riscaldamento e servizi igienici. Le signore che si affacciavano dai finestrini venivano definite dalla gente delle sconsiderate, ma quando nel 1842 la regina Vittoria salì su un vagone, la consacrazione del nuovo mezzo di trasporto fu definitiva. Tre mesi dopo il viaggio inaugurale del Rocket, nel 1830, a Charleston venne aperta la prima linea ferroviaria degli Stati Uniti, pensata per portare grano e bestiame G. Doré, incisione raffigurante una stazione di Londra con treno a vapore e passeggeri di terza classe. verso l’Ovest. Nel 1837 Ferdinando II, sovrano del Regno delle Due Sicilie, commissionò alla ditta di Stephenson la costruzione di due locomotive, ribattezzate Bayard e Vesuvio, grazie alle quali il 4 ottobre 1839 fu possibile inaugurare il primo tratto su rotaie italiano, lungo otto chilometri tra Napoli e Portici. Lo sviluppo delle linee ferroviarie comportò la progettazione di ponti, viadotti e gallerie, richiese l’ideazione di segnali e di sistemi di sicurezza che furono adottati a livello internazionale e favorì la costruzione di metropolitane nei grandi centri industriali, per facilitare la mobilità dei lavoratori. La prima fu quella di Londra, aperta nel gennaio 1863. L’avvento della ferrovia e dell’illuminazione elettrica nell’album del giubileo della regina Vittoria, 1867. © Loescher Editore – Torino 351 13 TECNOLOGIA Con l’energia elettrica inizia la cavalcata del progresso Galvani e Volta scoprono e imbrigliano l’elettricità; spariscono i lumi a petrolio e le candele e da un filo pende la lampadina di Edison. Le fabbriche fanno muovere le macchine con quella nuova «forza», fornita dai corsi d’acqua, che permette anche di produrre acciaio e di realizzare nuovi mezzi di comunicazione, come il telefono. La parola «elettricità» deriva dal greco electron che significa ambra: gli antichi greci per divertimento strofinavano l’ambra con la lana per attirare piume o frammenti di carta, poi sino alla metà del Settecento questa strana energia venne pressoché dimenticata. Nel 1752 il giornalista statunitense Benjamin Franklin, appassionato di scienza, volendo dimostrare che il fulmine era una scarica elettrica a rischio della vita, fece volare durante un temporale un aquilone ricoperto di metallo, da cui pendeva una chiave appesa a un filo. Mentre i lampi solcavano il cielo, Franklin avvicinò la mano alla chiave e si mise a osservare le scintille che si sprigionavano, dato che il filo bagnato aveva fatto da conduttore. In seguito fece installare aste metalliche, i parafulmini, sui tetti di alcune case di Filadelfia. Partendo dalle sue osservazioni, e riprendendo anche alcuni esperimenti sulle rane condotti dal medico bolognese Luigi Galvani, Alessandro Volta, professore di Fisica all’Università di Pavia, nel 1800 costruì una pila elettrica, mettendo uno sopra l’altro dei dischetti d’argento e di zinco, con in mezzo del cartone imbevuto d’acqua e sale. I due capi messi in contatto provocarono una scintilla. Tale esperimento ebbe vasta risonanza e Volta venne insignito del titolo di conte da Napoleone Bonaparte: in seguito l’unità di forza elettromotrice venne chiamata in suo onore «volt». La sera del 24 giugno 1859, mentre le truppe francesi e piemontesi stavano sbaragliando l’esercito austriaco a Solferino, un giovane volontario pisano, studente di Fisica, con un ramoscello si mise a tracciare in terra il progetto di una nuova macchina elettrica: la dinamo. Si chiamava Antonio Pacinotti: nel 1865 si recò a Parigi per approfondire i suoi studi, ma l’ingegnere belga Zenobe Gramme gli rubò l’idea brevettandola. Ulteriori progressi derivarono dagli studi sull’elettromagnetismo condotti al Politec- Ritratto di Alessandro Volta con la sua pila. Il telegrafo di Samuel Morse, 1850 circa. E.S. Morgan, ritratto di Benjamin Franklin. 352 © Loescher Editore – Torino Alessandro Volta presenta la sua pila a Napoleone Bonaparte, da «Le petit Journal», 1901. La posa del primo cavo telegrafico transoceanico in una pagina di «Harper’s Weekly» dell’agosto 1865. A sinistra Benjamin Franklin; a destra Samuel Morse. Una veduta dei fievoli lampioni di Cannon Street in una notte di nebbia, Bridge Row, Londra. nico di Parigi dal professore Andrè-Marie Ampère che inventò l’elettrocalamita. Tuttavia il primo a rischiarare la notte fu Thomas Edison. La sua vita è spesso raccontata come un romanzo, come la storia di un gran lavoratore che «si è fatto da solo». In realtà le sue scoperte devono molto agli esperimenti di Samuel Morse che nel 1837 inventò un sistema di segnalazione basato sull’elettricità, il telegrafo elettrico. Si trattava di un macchinario composto da un interruttore che consentiva o interrompeva il passaggio di corrente elettrica lungo un filo che collegava la stazione trasmittente a quella ricevente: qui vi era un’elettrocalamita provvista di una punta scrivente che tracciava su carta linee o punti, formando il cosiddetto «alfabeto Morse». Nel 1844 venne costruita la prima linea telegrafica tra Washington e Baltimora, inaugurata con l’invio di impulsi elettrici componenti la frase biblica «Così ha permesso Dio». Edison si formò proprio come tecnico addetto alla riparazione dei primi apparati telegrafici, dotati di una scarsa autonomia. Affascinato dall’elettricità si dedicò a studiarne tutte le possibili applicazioni, inventando il fonografo, antenato del giradischi, migliorò il telefono di Bell e brevettò più di mille piccole invenzioni legate alla quotidianità. Poi per 13 mesi, insieme ai tecnici della sua azienda di apparecchi elettrici, si mise al lavoro sino a che riuscì a far diventare incandescente un filo di cotone carbonizzato all’interno di un bulbo di vetro: era una sera del 1879. Nel giro di pochi anni le lampadine sostituirono i lampioni a gas che dal 1807, a cominciare da Londra, illuminavano le città. © Loescher Editore – Torino 353 14 TECNOLOGIA Charles Babbage inventa l’antenato del computer Oggi tutti noi possediamo o siamo in grado di utilizzare un «cervello elettronico» la cui capacità di programmazione sempre più ampia ha trasformato la vita di tutti i giorni in modi che spesso passano inosservati: siamo infatti talmente abituati ad accendere un computer per lavorare, fare ricerche, ascoltare musica, guardare un film, verificare il tragitto che dovremo percorrere in auto e tante altre funzioni, che oramai consideriamo il nostro «calcolatore automatico» alla stregua di un comune e banale utensile. Eppure le sue radici storiche affondano nel XIX secolo. Generalmente si pensa che il calcolatore elettronico sia un’invenzione abbastanza recente e si colloca la sua nascita nella seconda metà del Novecento, anche se in realtà a partire dalla fine del Settecento, in piena Rivoluzione industriale, la necessità delle imprese commerciali e delle banche di poter disporre di uno strumento in grado di effettuare calcoli in maniera rapida e sicura aguzzò l’ingegno di alcuni scienziati. Tra loro vi fu un docente dell’Università di Cambridge, Charles Babbage, che intorno al 1830 si accorse che le ta- S. Laurence, ritratto di Charles Babbage. 354 © Loescher Editore – Torino vole esplicative delle rotte marittime internazionali pubblicate dall’Almanacco Nautico britannico, in quei tempi una vera e propria «Bibbia» per i navigatori, contenevano numerosi errori di calcolo. Secondo Babbage questi errori erano dovuti alla stanchezza e alla noia dei «computers», nome con cui allora venivano chiamati gli impiegati addetti alle operazioni di calcolo: generalmente essi lavoravano in coppia, procedendo autonomamente in parallelo e solo se al termine di una procedura di calcolo ottenevano risultati eguali si prendeva per Telaio Jacquard esposto al Museo della Tecnologia di Oslo. L’enorme calcolatore ideato da Babbage e fedelmente riprodotto al Science Museum di Londra. buono il risultato; altrimenti era necessario ricominciare tutto daccapo. Per ridurre il margine di errore Babbage provò a costruire una calcolatrice in grado di elaborare i dati e per farlo sfruttò l’invenzione delle ruote a riporto automatico fatta da Gottfried Leibniz alla fine del Seicento. Un’altra fonte di ispirazione fu l’ideazione di un nuovo telaio automatico fatta nel 1808 dal francese Joseph Marie Jacquard: la sua macchina eliminava i sistemi sino a quel momento impiegati per l’alzata dei fili e dava la possibilità di ripetere quante volte si voleva il disegno sui tessuti, mediante una serie di cartoni forati. Nel laboratorio di casa sua Babbage iniziò a costruire due meccanismi fatti di ruote dentate di ferro assemblate in una struttura di legno, che chiamò «Motore alle differenze» e «Macchina analitica»: quest’ultima era già dotata di due elementi costitutivi essenziali anche nei computer moderni, vale a dire l’unità di calcolo, detta mill, e la memoria di deposito, lo store. Nei progetti di Babbage tale macchina avrebbe dovuto disporre di una «memoria» composta di 200 accumulatori di 25 ruote ciascuno, di un dispositivo aritmetico che le avrebbe permesso di compiere le quattro operazioni e di un meccanismo di comando del programma formato da due serie di schede perforate: in tal modo sarebbe stata in grado di eseguire sessanta operazioni aritmetiche in un minuto. All’apparenza sembrava un progetto troppo avveniristico per i tempi e in effetti Babbage non riuscì a ottenere i finanziamenti dal governo inglese e dovette persino subire le prese in giro dei colleghi che lo consideravano un visionario: la sua «Macchina analitica» venne completata soltanto nel 1991 e oggi si trova esposta al Science Museum di Londra. Tipico esponente della «società dei Lumi» Babbage compì esperimenti e studi in varie discipline e viaggiò molto, soprattutto nell’Italia del Risorgimento: la sua macchina è infatti dedicata a Vittorio Emanuele II, futuro re d’Italia. Babbage è passato alla storia anche per aver inventato la tariffazione postale unica e il «pilota», cioè la struttura metallica che veniva attaccata di fronte alle locomotive a vapore per spazzare gli ostacoli dai binari. Locomotiva a vapore con il massiccio «pilota» anteriore, invenzione di Babbage. © Loescher Editore – Torino 355 MEDICINA 15 La rivoluzione della medicina nell’età moderna Fino al Cinquecento la medicina era rimasta ancorata a quelle che oggi potremmo definire semplici superstizioni, che si rivelavano assolutamente inadeguate nel caso di gravi malattie e contagi di massa. Fu solo l’influenza della «Rivoluzione scientifica», avviata da Galileo Galilei, che trasformò la medicina in una disciplina scientifica, che conobbe dunque un importante sviluppo e si dotò di strumenti moderni per contrastare le patologie più gravi. Nel Cinquecento gli eserciti che marciavano in un’Europa devastata da continue guerre furono i vettori di epidemie e contagi che provocarono nel complesso oltre 20 milioni di decessi. Influenzati da Galileo Galilei, numerosi studiosi di medicina avviarono una severa verifica dei classici grecoromani e ridiedero impulso a ricerche ed esperimenti pratici. Nonostante le severe condanne imposte dalla Chiesa, nelle Università di Bologna e Padova vennero effettuate le prime autopsie su corpi umani: sino ad allora erano stati usati cadaveri di animali pensando che all’interno fossero simili a quelli umani. Un personaggio cruciale fu il medico svizzero Philipp Baumbast, detto Paracelso, che fondò la disciplina della farmacia iniziando ad adoperare non solo sostanze vegetali ma anche composti chimici per la preparazione delle medicine. Nel Cinquecento il medico militare francese Ambroise Paré invece fece compiere passi da gigante alla chirurgia: curando i feriti da archibugio si accorse che gli amputati guarivano più facilmen- Philipp Baumbast, detto Paracelso. 356 © Loescher Editore – Torino te se le arterie e i vasi sanguigni venivano legati e ricuciti, utilizzò le pinze e il laccio emostatico e progettò vari congegni meccanici per sostituire gli arti amputati. All’inizio del Seicento il medico inglese William Harvey, docente all’Università di Padova, descrisse il sistema della circolazione sanguigna. La scienza medica compì un ulteriore Strumenti chirurgici usati per l’autopsia dell’imperatore Napoleone I, conservati nel Musée d’Histoire de la Medicine a Parigi, XIX secolo. balzo in avanti nel Settecento durante l’epoca dei Lumi: molte pagine dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert furono dedicate alle nuove tecniche e scoperte scientifiche. L’inglese Edward Jenner scoprì nel 1796 che una piccola quantità di germe di vaiolo bovino trasferito e inoculato dall’animale all’uomo provocava in quest’ultimo una versione attenuata della malattia che impediva al vaiolo umano di attecchire. A partire da quel momento la vaccinazione rivoluzionò l’intera società mondiale. Nell’Ottocento nacque la biologia, a partire dall’ospedale di Bamberg, in Germania, dove per la prima volta fu scoperto il nesso tra le malattie contagiose e i microrganismi parassiti. Nel 1815 il primario dell’ospedale Necker di Parigi, René Laennec, costruì un tubo di legno capace di con- J. Gondoin, Scuola di chirurgia, ora Facoltà di Medicina, a Parigi: l’aula di anatomia, particolare, 1769-1775. Edward Jenner vaccina un bambino contro il vaiolo. Ignác Semmelweiss. centrare i suoni prodotti dal respiro all’interno dei polmoni e di trasmetterli all’orecchio. Chiamò la sua invenzione stetoscopio, dal greco skopèo e stethos («osservare il petto»): tale strumento, al quale ovviamente è stata apportata una enorme quantità di miglioramenti tecnici, è ancora oggi il più diffuso e semplice per effettuare l’auscultazione del cuore e dei polmoni. Il dentista americano William Morton nel 1846 usò l’etere come anestetico per addormentare il paziente; mentre l’inglese James Simpson impiegò il cloroformio durante un parto. Nonostante i grandi progressi, la percentuale dei decessi durante le operazioni chirurgiche rimaneva tuttavia ancora elevata. L’ungherese Ignác Semmelweiss comprese allora l’importanza fondamentale dell’igiene per il personale medico: dottori e infermieri avrebbero dovuto lavarsi e disinfettarsi in modo particolarmente accurato per evitare di contaminare il paziente. Queste conclusioni provocarono proteste durissime ed egli venne cacciato dall’università e rinchiuso in un manicomio, salvo essere riabilitato dopo la morte. L’invenzione dell’aspirina da parte di Felix Hoffmann, chimico della tedesca Bayer, nel 1897 chiuse l’Ottocento che è stato definito «Il secolo Pubblicità dell’Aspirina del 1917. della medicina». © Loescher Editore – Torino 357