Attraverso una scelta di schede illustrate il Dossier
prova a indagare particolari aspetti della storia
moderna e contemporanea. Le schede vengono
presentate secondo un criterio di successione cronologica e sono organizzate in cinque aree di approfondimento:
Schede di
storia settoriale
TECNOLOGIA
ECONOMIA
  9Le condizioni di vita
1Galileo Galilei e
la Rivoluzione scientifica
p. 328
ALIMENTAZIONE E MODA
p. 330
ECONOMIA
p. 332
ECONOMIA
p. 334
SOCIETÀ E CULTURA
Alimentazione e moda
5
6L’alimentazione
p. 338
TECNOLOGIA
p. 340
ECONOMIA
326 © Loescher Editore – Torino
p. 346
p. 348
12Il treno e la rivoluzione
dei trasporti
p. 350
13Con l’energia elettrica
Società e cultura
p. 352
TECNOLOGIA
14Charles Babbage
p. 354
MEDICINA
15 La rivoluzione
8Le città industriali
Economia
al cellulare
inventa l’antenato
del computer
7La macchina
e i villaggi operai
11Il telefono: da Meucci
inizia la cavalcata
del progresso
ALIMENTAZIONE E MODA
a vapore di Watt
nell’Ottocento
TECNOLOGIA
Teatri e balli nell’Ottocento p. 336
tra Sette e Ottocento
10La famiglia
TECNOLOGIA
4Lo sfruttamento
della schiavitù
p. 344
TECNOLOGIA
3Il «mercantilismo» e la nascita
dell’«economia-mondo»
Medicina
SOCIETÀ E CULTURA
2La diffusione dei cibi
«made in America»
cambia l’alimentazione
degli operai durante la
Rivoluzione industriale
p. 342
della medicina
nell’età moderna
p. 356
Tecnologia
© Loescher Editore – Torino
327
1
TECNOLOGIA
Galileo Galilei e la Rivoluzione scientifica
Il Cinquecento viene spesso associato alle guerre di religione, che causarono stragi e favorirono la diffusione in tutta Europa di ben nove pestilenze. Tuttavia, proprio in quest’epoca di violenza, paura e superstizione la scienza iniziò un percorso di eccezionale sviluppo: era l’avvio della «Rivoluzione scientifica».
G. Bezzuoli, Galileo dimostra la legge della caduta dei gravi, affresco, Firenze, Tribuna di Galileo, Museo della Specola.
Galileo Galilei a Venezia mentre dà una dimostrazione sul funzionamento del cannocchiale da lui realizzato, stampa a colori del XIX.
Il principale protagonista della cosiddetta «Rivoluzione scientifica» fu Galileo Galilei (1564-1642):
di lui il cardinale Franziskus Koenig, nominato da
Giovanni XXIII arcivescovo di Vienna, scrisse: «ha
aperto la strada alla ragione umana verso una
comprensione nuova della natura e del corpo,
che ha sostituito le concezioni ereditate dal mondo antico». Eppure, per le sue idee Galileo venne accusato di eresia dall’Inquisizione, perché le
sue teorie mettevano in dubbio alcuni passi delle
Sacre Scritture. Dopo essersi iscritto a Medicina
all’Università di Pisa, Galileo si sentì attratto dalla matematica, che secondo lui poteva risolvere
i problemi legati alla meccanica e alle tecniche
ingegneristiche. I suoi primi esperimenti si concentrarono sul campo della dinamica: facendo
rotolare una palla lungo un piano inclinato, registrandone il tempo con un orologio ad acqua e ripetendo più volte l’esperimento egli dimostrò che
la distanza percorsa era sempre proporzionale al
328 © Loescher Editore – Torino
quadrato del tempo. Questa relazione matematica fu il primo passo importante verso le leggi del
moto, formulate nella seconda metà del Seicento
da Isaac Newton. Insistendo con esperimenti e
prove pratiche, Galileo inventò la bilancia idrostatica (la «Bilancetta») e scoprì l’isocronismo del
pendolo. Si narra che l’ispirazione gli venne nel
1581 mentre si trovava nel Duomo di Pisa: osservando una lampada sospesa messasi a oscillare
a causa di un lieve terremoto, Galileo controllò il
periodo di oscillazione sui battiti del proprio polso
scoprendo che, indipendentemente dall’ampiezza
delle oscillazioni, la durata del periodo era sempre uguale. Nel 1595 volendo misurare la temperatura dell’aria Galilei costruì un termometro,
che consisteva in un piccolo recipiente dal collo
lungo e sottile, riempito di alcool, che veniva riscaldato tenendolo tra le mani. Dato che lo strumento non dava molto affidamento, tra XVII e XVIII
secolo venne perfezionato prima a Firenze da-
gli studiosi dell’Accademia del Cimento, fondata
dal granduca Leopoldo II, e successivamente da
scienziati come Guillaume Amontons e Daniel
Gabriel Fahrenheit, ottenendo la forma che ha ancora oggi. Il nome di Galileo viene comunemente
associato al cannocchiale, anche se il primo che
ebbe l’idea di accoppiare due lenti per avvicinare
oggetti lontani fu il letterato napoletano Giambattista Della Porta. Contemporaneamente in Olanda
vennero realizzati alcuni rudimentali strumenti
ottici, di cui giunse probabilmente notizia a Galileo: costui «per via di discorso», cioè senza aver
preso visione del modello originale, ma solo basandosi sui suoi ragionamenti e calcoli, costruì
un cannocchiale nel 1610. Con questo strumento
fece importanti osservazioni astronomiche aprendo una nuova era nello studio e nell’esplorazione
Schizzi di Galileo delle varie fasi della
luna, così come appaiono all’osservazione
del cannocchiale.
dell’universo. Tra le altre cose, dimostrò che la
Terra non è al centro dei moti celesti, come pretendeva l’antica dottrina tolemaica: in tal modo
confermò la teorie dell’astronomo polacco Niccolò
Copernico che per primo aveva sostenuto l’ipotesi
di un universo eliocentrico. L’esatta tesi di Galilei
che la Terra e gli altri pianeti girano intorno al Sole
fu giudicata eretica dalla Chiesa e lo scienziato
venne processato con l’accusa di eresia. Dichiarato colpevole, ritrattò e passò gli ultimi otto anni di
vita agli arresti domiciliari. Galileo viene comunemente considerato il «primo scienziato moderno»,
perché ha contribuito ad affermare la sperimentazione scientifica come metodo indipendente da
altre influenze, teoriche, politiche o religiose: per
questo «metodo galileiano» o «metodo scientifico
sperimentale» sono di fatto sinonimi.
Esperimento con trave e peso, illustrazione
di Galileo per i Discorsi intorno a due nuove
scienze, 1638.
Termometro dell’Accademia del Cimento,
incisione, XVII secolo.
© Loescher Editore – Torino
329
2
ALIMENTAZIONE E MODA
La diffusione dei cibi «made in America»
cambia l’alimentazione
L’ansia di scoperte e di nuove conoscenze che caratterizzò i secoli dal XV al XVII coinvolse anche la fantasia popolare: i sogni di abbondanza e del «paese della cuccagna» venivano infatti proiettati nelle terre
al di là dell’Oceano che si immaginavano ricche di infinite riserve di cibo. Gli esploratori portarono in
Europa nuovi alimenti come mais, patata, peperoncino e tacchino, che furono assorbiti nel sistema alimentare europeo con lentezza: solo quando il «Vecchio continente» venne sconvolto dalla peste e dalla
fame i cibi delle Americhe cambiarono le abitudini alimentari.
Il primo nuovo cibo a raggiungere le mense del
Nord Europa nel XVI secolo fu il riso, che era
stato introdotto nel Sud Italia dagli Arabi. Nello
stesso periodo conobbe un’ampia diffusione pure
il «grano saraceno», anch’esso proveniente dal
Medio Oriente; fu poi la volta del mais, che era
stato portato nella penisola iberica da Cristoforo
Colombo al rientro dalla sua prima spedizione.
Del resto gli esploratori e i mercanti non scambiavano solo merci ma anche idee e soprattutto
mode, usi e costumi, compresi i modi di cucinare:
essi viaggiavano per anni stando lontani da casa,
quindi portavano con sé servi e cuochi che al rientro a casa avevano appreso molte cose e ricette
viaggi. I sovrani e i nobili non si facevano mai mancare la cacciagione, e c’era una buona disponibilità di carne secca di bue: il numero di bestie uccise
e macellate era infatti molto alto visto la grande
domanda di cuoio con cui si producevano scarpe
e stivali, selle e finimenti per cavalli e muli, abiti, cinghie e borse. Nel 1497 i marinai di Giovanni
Caboto sulla rotta verso il Canada, all’altezza di
Terranova, avevano pescato un tipo di pesce sino
ad allora sconosciuto, il merluzzo, che venne presto apprezzato in tutta Europa per la sua saporita
carne bianca. In quei tempi le spezie erano assai
preziose non solo per condire i cibi ma anche perché si riteneva possedessero qualità terapeutiche
e digestive. I mercanti olandesi trovarono i chiodi di garofano nelle Molucche, isole dell’Oceano
Pacifico e per diversi anni cercarono di impedire
che degli esemplari venissero rubati dai loro concorrenti per essere poi trapiantati altrove. Olandesi, portoghesi e inglesi ingaggiarono violente
battaglie navali per ottenere il controllo dell’isola
di Ceylon dove cresceva la cannella; addirittura
il pepe era così ricercato in Europa che qualcuno avanzò la proposta di usarne i granelli come
moneta di scambio. Dalle Americhe giunse anche il tabacco, chiamato «erba nicotina» in onore
dell’ambasciatore francese Nicot che ne aveva regalato alcuni semi alla regina Caterina de’ Medici:
all’inizio era impiegato solo nella produzione di
unguenti e medicinali poi gli spagnoli si accorsero
P. Longhi, La cioccolata del mattino, 1770, Venezia, Ca’ Rezzonico.
che gli indigeni di Cuba preferivano farne seccare
le foglie e fumarle. Arrivarono pure le zucche, il
brodo di cacao, poi cioccolata, e i pomodori che
però divennero uno dei cibi preferiti dagli europei
solo nell’Ottocento quando furono inventati sistemi
per inscatolarne la salsa. Ancor più forte fu l’impatto dello zucchero non solo sull’alimentazione
europea ma sull’intera società mondiale, visto che
per coltivarlo nelle piantagioni americane vennero
impiegati schiavi catturati in Africa.
Insegna che reclamizza tabacco da fiuto e da fumare
proveniente dalla Virginia, Inghilterra, XVII secolo.
Dipinto di una cucina del XVIII secolo con in primo piano
cacciagione e verdure.
330 © Loescher Editore – Torino
nuove. Sin dall’antica Roma il cibo più diffuso era
il pane, spesso prodotto con farine poco pregiate
in modo da tenerne il prezzo alla portata di tutti.
Assai diffuse erano anche zuppe e paste di vario
tipo e per mangiarle nella Napoli del Cinquecento
venne inventata la forchetta che poi i mercanti fecero conoscere nel resto d’Europa. In mancanza di
efficaci sistemi di conservazione il formaggio era
un prodotto locale, in quanto andava consumato
fresco: le uniche eccezioni erano rappresentate
dal parmigiano italiano e dall’edam olandese che,
in quanto stagionati, potevano sopportare lunghi
Contadini al lavoro in una piantagione di canna da zucchero nelle isole Antille, stampa a colori, XVIII-XIX secolo.
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ECONOMIA
3
Il «mercantilismo» e la nascita
dell’«economia-mondo»
Con «globalizzazione» si indica la creazione di reti e scambi e la loro connessione reciproca: si tratta di
un concetto economico e sociale che attiene all’analisi del presente anche se in realtà il mondo «globale» non è sorto all’improvviso nel XX secolo, ma ha avuto radici più profonde. Già nel Seicento lo sviluppo
dei sistemi di trasporto e l’affermarsi di rapporti economici mondiali misero in contatto centri e civiltà
sino a quel momento molto distanti tra loro.
J. Van Ruisdael, Veduta di Amsterdam e dello Amstel, 1654 circa.
Il dipinto offre una sintesi delle ricchezze dei Paesi Bassi: il mulino
a vento, la città, la presenza di acqua, le barche e i campi ben coltivati.
Il Seicento fu lacerato tra sconforto e speranza, tra
passato e futuro, tra tradizione e novità: fu il secolo
della Rivoluzione scientifica e della nascita della
«filosofia civile», ma passò alla storia come il periodo in cui si verificò un profondo cambiamento nella
percezione della geografia e della scala del mondo. Si passò infatti da «un mondo chiuso» ed eurocentrico all’«universo infinito». Secondo lo storico
francese Fernand Braudel nel Seicento nacque il
sistema dell’«economia-mondo» grazie a nazioni
come la Spagna, l’Inghilterra, l’Olanda o la Repubblica di Venezia che, promuovendo la produzione
in larga scala di manufatti per l’esportazione, fecero a gara per conquistare nuovi mercati. Secondo lo schema dell’«economia-mondo» elaborato
da Braudel vi era un centro propulsore, sede delle
attività economiche, a cui erano collegati in forma
seguire fondò e amministrò un vero e proprio impero coloniale, distribuendo ai suoi azionisti grandi
profitti. La capitale olandese divenne il «magazzino del mondo» perché lì si vendevano all’ingrosso
prodotti provenienti da terre lontane e lì nel 1609
nacque la prima Borsa valori, dove ogni prodotto
giornalmente si vedeva attribuito un prezzo che
dipendeva dalla domanda, dall’offerta e dai rischi
che occorrevano per trasportarlo. Dopo la conclusione della Guerra dei Trent’Anni anche l’Inghilterra sviluppò la sua vocazione mercantilistica e, con
l’Atto di Navigazione del 1651, che prevedeva che
nessuna merce potesse essere importata o esportata in e dall’Inghilterra e dai suoi possedimenti
coloniali se non su navi inglesi, sfidò apertamente l’Olanda: nel corso del Seicento si verificarono
scontri e guerre di breve durata, mentre la flotta
inglese occupava sempre nuovi territori nell’America settentrionale e in India. Tra il XVII e il XVIII
secolo il mondo intero divenne teatro delle rivalità
tra le grandi potenze marittime.
fluiva dapprima nelle casse spagnole, quindi in
direzione di tutti coloro, europei o orientali, che intrattenevano rapporti commerciali con la Spagna.
Una rotta importante collegava il Messico e il Perù
con le Filippine, anch’esse colonizzate dai conquistadores, dove i galeoni trasportavano l’argento
che serviva ad acquistare le sete cinesi: per questo
si può affermare che i flussi di metalli
preziosi controllati dagli spagnoli furono i primi commerci davvero «globali»
visto che percorrevano tutta la circonferenza del globo. Mentre la «rivoluzione
della meccanica» metteva in grado gli
architetti e i tecnici olandesi di costruire imponenti dighe per strappare terre al mare, i mercanti realizzarono una
flotta di «fluyt» (velieri a tre alberi) che
ottenne il controllo del Mare del Nord
e successivamente dell’Oceano Pacifico. Nel 1602 varie imprese mercantili si
fusero ad Amsterdam nella Compagnia
Van De Velde Il Vecchio, Battaglia del Sont, 1665, Pitti, Galleria Palatina.
delle Indie Orientali che nei decenni a
Un raro documento che mostra gli unici scambi tra Oriente e Occidente:
una nave europea scarica le proprie merci in un porto giapponese.
Nelle miniere brasiliane gli schiavi addetti al lavaggio delle pietre
preziose venivano sorvegliati a vista da feitore armati di frusta,
XVIII secolo, Rio de Janeiro, Biblioteca Nazionale.
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economica subordinata nazioni e territori costretti
a fornire materie prime o semilavorate, come la
lana grezza ricavata dalla tosatura delle pecore.
Il centro era rappresentato appunto dalle nazioni
marittime europee che basavano la loro forza su
imponenti flotte di velieri in grado di solcare tutti i
mari ed equipaggiate con cannoni di varie dimensioni che li rendevano temibili macchine d’attacco.
La prima rete commerciale che trasformò davvero il mondo fu quella basata sull’argento estratto nelle miniere dell’America spagnola. L’argento
Il porto della East India Company of England a Bombay, India.
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ECONOMIA
4
Lo sfruttamento della schiavitù
Ogni estate i telegiornali ci mostrano le immagini di «carrette del mare» che trasportano centinaia di
stranieri dall’Africa verso le coste del Sud Italia: il carico umano è quasi sempre composto da giovani in
fuga dalla fame e dalle malattie, con la speranza di un futuro migliore. Essi pagano alte somme a trafficanti di esseri umani senza scrupoli che lavorano per le mafie internazionali. Eppure in passato erano le
più importanti imprese commerciali europee a gestire la «tratta degli schiavi», che consentì all’Europa
di ottenere il predominio economico mondiale tra il Quattrocento e l’Ottocento.
Quando parliamo di «globalizzazione» dobbiamo
pensare all’esistenza di reti di scambi, tra loro
interconnesse: nella storia recente una di queste
prime reti «globali» è stata quella rappresentata
dal traffico di esseri umani che iniziò intorno alla
fine del Cinquecento e si protrasse per tre secoli. I
primi a sfruttare la schiavitù in larga scala furono
i portoghesi, che nel tentativo di circumnavigare il
continente africano vennero in contatto con i mercanti arabi che commerciavano in uomini. Presto
vennero seguiti da mercanti olandesi e inglesi che
pagavano gli arabi con armi, mentre gli spagnoli
inizialmente impiegarono gli Indios come manodopera nelle miniere in America meridionale: visto
che questi però si ammalavano facilmente iniziarono a servirsi di schiavi africani, molto resistenti
e capaci di sopportare facilmente il clima tropicale. Incominciarono quindi i viaggi delle cosiddette
navi «negriere», vascelli le cui stive venivano riempite da esseri umani secondo un sistema messo a punto da mercanti e tecnici in base al quale i
corpi degli schiavi dovevano occupare ogni spazio
disponibile; i negrieri si avvalsero anche di medici
che calcolavano le razioni alimentari minime occorrenti a sostentare per tutto il viaggio i deportati. Tuttavia, le condizioni di «stivaggio» erano così
atroci che la percentuale di perdite per ogni viaggio variava dal 10 al 50%: ciò nonostante il guadagno netto per i mercanti poteva arrivare a 1800
volte la cifra iniziale investita. Tra 1450 e 1850 oltre
12 milioni di africani giunsero al di là dell’Atlantico, mentre le navi che li portavano rientravano in
F. Meynell, La stiva della nave negriera Albatros, 1846, Greenwich, National Maritime Museum.
Il dipinto riflette la tipica condizione inumana degli schiavi trasportati nelle stive.
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La tratta degli schiavi in un acquerello conservato
nel castello di Kranborg in Danimarca.
Europa cariche di cotone, tabacco e zucchero: per
questo si parla di un sistema di commercio «triangolare». Nel corso del Settecento le colonie inglesi
del Nord America divennero la principale destinazione delle navi «negriere», ma proprio l’abolizione della schiavitù fu una delle cause della guerra
di secessione tra 1861 e 1865. Tuttavia il concetto
di superiorità della razza bianca è rimasto a lungo nella mentalità occidentale, tanto che ancora
nella seconda metà del Novecento i neri americani erano costretti a vivere in ghetti, senza poter
frequentare i luoghi pubblici riservati ai bianchi.
Sebbene nel corso del Novecento la schiavitù sia
Bambini schiavi: un ragazzino di tredici anni al lavoro in una fabbrica
di vasi d’argento a Dhaka, capitale del Bangladesh.
stata condannata dagli ordinamenti giuridici della quasi totalità degli Stati, essa è sopravvissuta
e negli ultimi anni ha conosciuto una rinascita a
causa della crisi economica internazionale e delle
guerre. Secondo i dati in possesso dell’ONU oggi ci
sarebbero più di 200 milioni di schiavi, soprattutto
in Africa; ma anche in Italia è tornata la schiavitù
con il racket internazionale della prostituzione che
sfrutta giovani donne dell’Est Europeo o africane.
Invece in India, Pakistan e Nepal, dove non esiste
una legislazione sul lavoro, sono migliaia i bambini
costretti a lavorare nella produzione di tappeti o di
capi di abbigliamento.
Manifesto americano della seconda metà del XVIII secolo che pubblicizza la vendita di schiavi africani e un’asta di vendita.
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SOCIETÀ A CULTURA
Teatri e balli nell’Ottocento
Il teatro rivestì importanza fondamentale durante il Risorgimento visto che, insieme ai giornali, contribuì a diffondere nell’opinione pubblica della penisola italiana le tesi dei sostenitori dell’unità nazionale.
Attraverso la messa in scena era possibile assumere e vivere la questione dell’indipendenza nazionale
come una questione morale, prima ancora che come problema politico. Il teatro permise agli intellettuali
di rivolgersi a un gruppo eterogeneo, di trasferire nelle parole e nei gesti degli attori l’impegno e il coinvolgimento nella causa italiana.
L’interno del teatro alla Scala di Milano dopo la ristrutturazione del 1830,
Milano, Teatro alla Scala.
L’Ottocento riscoprì il teatro con forte passione.
In particolare, in tutte le principali città vennero
costruiti nuovi, imponenti teatri: segno di amore per l’arte, ma anche di orgoglio cittadino. La
disposizione degli spettatori nel teatro era suddivisa secondo rigide gerarchie sociali, così che
il possesso di un palco diventava simbolo della
superiorità sociale di una famiglia. Come genere musicale nel corso del XIX secolo si affermò
soprattutto l’opera lirica, composta quasi esclusivamente su libretti in italiano, ritenuta l’unica
lingua adatta a questo tipo di creazioni. Poiché
molti librettisti nei loro testi alludevano con frequenza alla situazione politica contemporanea,
la censura governativa interveniva con severità:
basti l’esempio di Giuseppe Verdi che nel 1848,
anno di rivoluzioni e sommosse in tutte le principali città europee, fu costretto a cambiare non
solo il titolo alla sua opera La battaglia di Legnano,
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che divenne L’assedio di Arlem (città
olandese), ma anche parte della trama, pena il divieto di rappresentazione
nel Lombardo-Veneto controllato dagli
austriaci. Eppure nonostante la celebre aria del Va, pensiero fosse cantata
dal coro degli ebrei costretti in schiavitù nell’antica Babilonia, in realtà era
evidente a tutti il riferimento ai patrioti costretti ad abbandonare propria la
Lombardia dopo la sconfitta nelle cosiddette «cinque giornate» di Milano. I
giornali del tempo segnalano più volte applausi a scena aperta o richieste
di bis da parte del pubblico dei teatri
italiani proprio sui cori e sui brani che
meglio si prestavano a essere riletti in
chiave patriottica. Inoltre, in alcuni teatri, come la Scala di Milano o il Regio
di Parma, durante il Risorgimento era
diffusa l’abitudine nel pubblico di indossare indumenti che richiamassero
l’azzurro dei Savoia o il tricolore, così da sventolarsi o mostrarli in faccia agli ufficiali austriaci
presenti agli spettacoli, durante l’esecuzione dei
cori o al termine delle opere. Un altro interesse
forte del periodo era il ballo: ballavano i contadini
sulle aie, i cortili delle grandi cascine, ballavano i
nobili nei veglioni e i borghesi nei loro circoli. Nei
primi decenni dell’Ottocento ebbe un vasto successo il valzer, che si diffuse in tutta Europa dopo
il Congresso di Vienna del 1815, tanto che nelle librerie si potevano acquistare manuali sul corretto
comportamento e sulla postura dei ballerini. Nella
seconda metà del XIX secolo invece gli emigranti che tornavano in patria dal Sud America fecero
conoscere un nuovo ballo nato nelle periferie di
Buenos Aires e di Montevideo: il tango. Quest’ultimo, per la sua sensualità e le arie musicali decisamente innovative, ebbe una vasta diffusione soprattutto tra le classi più povere e causò non poche
preoccupazioni alle gerarchie ecclesiastiche che lo
vedevano come un possibile fattore di corruzione
della morale. Addirittura nel 1914, mentre scoppiava la Prima guerra mondiale, il Vaticano in Italia fece stampare e distribuire nelle parrocchie un
opuscolo dal titolo esplicito: Il Tango e il suo fango.
Si trattava di un’anticipazione di una dura «battaglia» moralizzatrice che proseguì anche durante
Locandina per un opera con le musiche basate sul valzer
di Oscar Strauss, 1907.
La moda del tango in un manifesto dell’epoca.
Ballerini di tarantella, fine XIX secolo.
G. Boldini, ritratto di Giuseppe Verdi, Pistoia, Collezione Boldini.
l’epoca del regime fascista, del secondo conflitto
mondiale e dell’immediato secondo dopoguerra:
in questa lunga e dolorosa fase della storia italiana furono numerosi i vescovi e i sacerdoti che si
preoccuparono di denunciare come sconveniente e
poco decorosa la moda del ballo, senza comprendere la voglia di divertirsi di una popolazione uscita
da vent’anni di dittatura e di guerra.
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6
ALIMENTAZIONE E MODA
L’alimentazione tra Sette e Ottocento
Dopo la fase delle tre rivoluzioni – agraria, industriale e demografica – iniziata nel XVIII secolo, le condizioni di vita della popolazione europea migliorarono notevolmente grazie soprattutto alla nuova disponibilità di risorse alimentari, resa possibile dalle innovazioni tecnologiche e dalle migliorie apportate alle
attività agricole.
I prodotti agricoli importati dalle Americhe, come
il mais e la patata, si diffusero rapidamente modificando in maniera profonda il regime alimentare
degli europei: si trattava di cibi «poveri», poco costosi e di gran rendita, che potevano sfamare un
numero crescente di consumatori. Inoltre, grazie
alle scoperte in campo chimico che consentirono
una miglior conservazione dei prodotti alimentari, anche i ceti medio-bassi poterono iniziare a
consumare carne e verdura, riducendo la distanza, sino a quel momento notevole, tra la dieta dei
ricchi e quella dei poveri. Inizialmente si cercò di
utilizzare le patate per fare il pane, salvo poi consumarle bollite; invece nel Nord Italia venne inventato un modo diverso per impiegare in cucina
il mais: esso veniva macinato e consumato sotto
P. Longhi, La polenta, 1740, Venezia, Ca’ Rezzonico.
338 © Loescher Editore – Torino
forma di polenta, del tutto sconosciuta alle popolazioni dell’America centrale e meridionale. Questi nuovi cibi consentirono a migliaia di persone di
placare i morsi della fame, contribuendo così ad
attenuare le conseguenze più devastanti delle carestie; tuttavia causarono la diffusione della pellagra, una malattia dovuta alla carenza di vitamine B
che procurava la desquamazione della pelle, gravi
problemi intestinali e persino forti disturbi neurologici. Nel corso del Settecento la carne continuò
comunque ad essere considerata un prodotto di
lusso, destinata quasi esclusivamente ai banchetti
di corte o alle tavole dei nobili, gli unici che avevano il tempo di dedicarsi alla caccia non più considerata come una necessità, ma ormai sempre più
vista come un hobby o una pratica «sportiva» per
pochi. La situazione cambiò nel XIX secolo per due
motivi sostanziali: innanzitutto perché i progressi
della zootecnia (la disciplina che si occupa dell’allevamento degli animali domestici) resero possi-
E. Bird, Il ritorno di Mr Rickett dalla caccia, Bristol,
Bristol City Museum and Art Gallery.
C. Pittara, Ritorno alla stalla, 1866, Torino, GAM.
bile una miglior selezione dei capi di bestiame; in
secondo luogo perché il progresso tecnologico nei
metodi di conservazione e trasporto della carne
consentirono di allargare il mercato. Fondamentale per l’industria alimentare risultò lo sviluppo
della chimica: il biologo e chimico francese Louis
Pasteur, scopritore del vaccino contro la rabbia e
considerato il fondatore della moderna microbiologia, svelò le cause del processo di fermentazione
di molte sostanze e mise a punto un procedimento
per conservare prodotti alimentari (come il latte)
che, dal suo nome, fu chiamato pastorizzazione. Sino al XIX secolo i cibi venivano tenuti nelle
«conserve» cioè in pozzi o costruzioni sotterranee
dove si raccoglievano il ghiaccio e la neve durante
l’inverno. Nel 1851 James Harrison, un tipografo
scozzese emigrato in Australia, per caso scoprì le
qualità refrigeratrici dell’etere, un liquido, se portato allo stato gassoso. Ideò quindi un sistema per
refrigerare la birra e trent’anni dopo sperimentò
una rudimentale cella frigorifera per trasportare
via nave dall’Australia a Londra 40 tonnellate di
carne di manzo. La sua invenzione venne sfruttata da alcune industrie alimentari statunitensi che
iniziarono a mettere la carne in scatole di latta a
chiusura ermetica. Grazie a questi sistemi diverse
aziende agricole italiane avviarono l’esportazione
di pesche sciroppate, pomodori, fagioli e piselli in
scatola. Ormai anche i cibi più deperibili potevano
essere trasportati a grande distanza dai luoghi di
produzione; ciò significò l’apertura di nuovi mercati, la crescita esponenziale dei guadagni degli imprenditori, oltre a una maggior varietà di alimentazione, visto che frutta e verdura mediterranee
arrivarono sulle tavole dei paesi del Nord Europa.
Girarrosto settecentesco.
Dipinto che raffigura Louis Pasteur durante un esperimento
nel suo laboratorio.
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7
TECNOLOGIA
La macchina a vapore di Watt
La macchina a vapore inventata nel 1765 dall’ingegnere scozzese James Watt rappresentò il fattore
principale di quello sconvolgimento radicale, dal punto di vista sociale, economico e tecnologico, che è
stato chiamato «Rivoluzione industriale».
Macchina a vapore atmosferica di T. Newcomen, incisione del 1727.
Miniera di carbone a cielo aperto in Gran Bretagna, 1790 circa, Liverpool, Walker Art Gallery. È visibile la pompa a vapore inventata da Thomas Newcomen.
Il primo macchinario che sfruttava l’energia del
vapore venne costruito nel I secolo a.C. da Erone
di Alessandria: si trattava di un recipiente di acqua che, portata all’ebollizione, muoveva una rudimentale turbina. Tale invenzione restò a livello di
prototipo, dato che nel mondo antico l’energia più
impiegata era la forza-lavoro umana, e si dovette
attendere la «Rivoluzione scientifica», con Galileo
Galilei, perché fosse ripreso lo studio dell’energia
del vapore. Nel Seicento in Inghilterra si verificò
una forte crisi energetica causata dall’eccessivo consumo di legna come combustibile e per le
costruzioni. Di conseguenza il progressivo disboscamento spinse gli inglesi a scavare nelle visce340 © Loescher Editore – Torino
re della Terra per estrarre un altro combustibile,
il carbon fossile. Più le miniere scendevano in
profondità più diventava urgente risolvere il problema delle infiltrazioni d’acqua nelle gallerie.
Nello stesso tempo il settore agricolo, sfruttato
in maniera sempre più intensiva, necessitava di
strumenti per irrigare i campi. Lo studio per risolvere tali problemi appassionò scienziati e ingegneri, come il francese Denis Papin che progettò
una pompa a vapore e inventò pure la pentola a
pressione, o l’inglese Thomas Savery il quale sperimentò un sistema che sfruttava alternativamente la pressione del vapore e la depressione provocata dalla sua condensazione per aspirare l’acqua
La macchina a vapore di J. Watt.
dalle gallerie. Partendo dalla macchina di Savery,
società inglese: una sola macchina infatti era più
Thomas Newcomen ideò la pompa atmosferica
veloce e potente di un mulino e poteva far muoveche però consumava ancora troppo carbone; per
re contemporaneamente decine di telai. Nel 1801
evitare tale inconveniente James Watt, un tecnico
il motore di Watt venne applicato a una barca, la
del laboratorio dell’Università di Londra, si mise a
Charlotte Dundas, fatta costruire da lord Dundas e
studiare il marchingegno e dopo svariati esperida lui dedicata alla moglie, che in tal modo poteva
menti nel 1765 riuscì a realizzare un condensatore
trasportare chiatte cariche di carbone lungo il caseparato, per eliminare il gioco della pressione e
nale tra Forth e Clyde, in Scozia. Nel giro di pochi
sfruttare direttamente l’energia di espansione del
decenni i piroscafi a vapore soppiantarono le navi
vapore. Per questi studi e innovazioni Watt viene
a vela, utilizzando come propulsori grosse ruote a
considerato il creatore della prima macchina a
pale. Nel 1843 questo continuo processo di svilupvapore, dato che il suo brevetto diede avvio alla
po ebbe un’ulteriore svolta con il varo della Grevera e propria «era del vapore», che coincise con
at Britain, la prima nave costruita interamente in
la prima Rivoluzione industriale. Nel 1768 Watt riferro, che poteva trasportare 4000 passeggeri: una
uscì a vendere un esemplare della sua macchina
vera rivoluzione per il settore dei trasporti.
che servì a muovere i mantici di una
fonderia di ghisa; un altro venne invece installato in una miniera della Cornovaglia. Negli anni a seguire
l’ingegnere scozzese migliorò la sua
invenzione, applicandovi stantuffi,
rubinetti e valvole, e rendendolo così
applicabile a tutte le macchine impiegate nelle industrie del periodo: non
solo quindi miniere, ma anche stabilimenti tessili, cartiere e industrie
siderurgiche, dove il vapore serviva
a soffiare grandi quantità di aria negli altiforni per raggiungere le alte
temperature necessarie alla fusione
del composto ferroso estratto dalle
miniere per ottenere ghisa e acciaio.
L’applicazione della macchina a vapore si estese in breve tempo a macchia
Officina per la costruzione di macchine a vapore di Boulton e Watt a Soho, 1790 circa.
d’olio, trasformando l’economia e la
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ECONOMIA
8
Le città industriali e i villaggi operai
A partire dal Settecento la fisionomia delle principali città europee iniziò a cambiare come conseguenza
del nuovo ruolo che esse stavano acquistando. Sotto il profilo dello sviluppo urbanistico, fino ad allora i
centri abitati avevano mantenuto un forte legame di continuità con il passato medievale, ma le industrie
modificarono radicalmente i comportamenti e soprattutto i paesaggi.
Ancora nella prima metà del
XVIII secolo l’ambiente cittadino
rappresentava per la maggior
parte della popolazione europea l’eccezione, non la regola: in
città viveva appena il 10% della
popolazione totale, rappresentato soprattutto da impiegati
delle amministrazioni, mentre i
nobili e i sovrani risiedevano nelle loro tenute di campagna. Le
cose iniziarono a cambiare con il
progressivo insediamento delle
principali attività produttive nel
tessuto urbano: la conseguente
emigrazione in città di contadini
e braccianti destinati a diventare
Un quartiere operaio, stampa inglese del XVIII secolo.
la manodopera non specializzadelle grandi industrie manifatturiere, avvenuta a
ta delle nascenti fabbriche stimolò l’edificazione di
scapito di ampi spazi rurali. Questa prima fase di
nuovi quartieri «popolari» nelle periferie. In Inghilcrescita avvenne senza regole precise, se non il
terra la calce e i mattoni impiegati per costruire file
mantenimento di rigide divisioni di classe tra i nodi misere casette invasero campi e orti della cambili che andavano a risiedere in grandi palazzi del
pagna circostante. Si trattò di una vera e propria
centro e le classi più umili a cui venivano destinati
opera di «colonizzazione» del territorio da parte
i nuovi quartieri mal edificati e quindi già in partenza degradati. Le prime
linee architettoniche per un nuovo
sviluppo urbanistico comparvero soltanto nella seconda metà del XIX secolo durante la seconda Rivoluzione
industriale. Fondamentale fu il ruolo
dell’architetto George Eugene Haussmann che nel 1849 venne nominato
da Napoleone III prefetto di Parigi.
In quel periodo la capitale francese
era in rapido cambiamento, a causa
dell’emigrazione dalle campagne che
aveva fatto aumentare la sua popolazione da 700.000 a 1 milione e 200.000
abitanti. Per evitare le epidemie che
sarebbero potute scoppiare a causa
dell’accresciuta densità di popolazione, Haussmann avviò un progetLa città operaia di Mulhouse, concepita dall’architetto Émile Muller.
Incisione su legno di L. Sargent, 1860 circa.
to di massicce demolizioni dei vicoli
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C. Pissarro, Boulevard Montmartre a Parigi, 1897, Pietroburgo, Museo dell’Hermitage.
del centro cittadino al cui posto vennero costruiti
ampi viali alberati, i celebri boulevards larghi fino
a 30 metri. In Italia l’urbanizzazione fu più lenta e
meno radicale, vista l’origine medievale o rinascimentale di quasi tutti i centri storici cittadini. Solo
alcune città seguirono l’esempio parigino facendo
abbattere le antiche mura medievali e costruendo
al posto di quelle ampi viali di accesso. Inoltre una
caratteristica italiana fu il tentativo da parte di numerosi imprenditori di ideare soluzioni innovative
per organizzare le condizioni abitative dei loro operai e salariati. Preoccupati per la nascita dei primi
movimenti sindacali, alcuni proprietari di aziende
mossi da spirito paternalistico fecero costruire dei
veri e propri villaggi in prossimità dei loro stabilimenti. Il villaggio operaio più celebre è quello di
Crespi d’Adda, nei pressi di Bergamo, dove il castello del padrone eretto su una collina dominava
dall’alto le casette dei lavoratori. Il padrone come
un padre provvedeva ai bisogni degli operai e delle loro famiglie e i ritmi della cittadina si basavano sugli orari della fabbrica tessile; all’interno vi
erano un ambulatorio, una chiesa, i locali del dopolavoro, una piscina, uno spaccio dove comprare
i generi alimentari e persino il cimitero, come se il
padrone avesse potere sulla vita degli operai «dalla
culla alla tomba».
Crespi d’Adda: i capannoni dello stabilimento tessile, 1878-80.
Crespi d’Adda: vicino alle fabbriche gli imprenditori milanesi creatori
del centro industriale vollero un quartiere d’abitazione per gli operai.
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ECONOMIA
9
Le condizioni di vita degli operai
durante la Rivoluzione industriale
La Londra ottocentesca raccontata nei romanzi gialli con protagonista Sherlock Holmes era l’«ombelico
del mondo» di un pianeta già reso globale dai commerci e dai nuovi mezzi di trasporto. In lunghe file
di casette in mattoni vivevano migliaia di operai e di operaie che con il loro sudore garantivano la forza
lavoro alle industrie pesanti. In Italia situazioni di precarie condizioni di vita e di lavoro si protrassero a
lungo, almeno sino alla prima metà del Novecento.
Con i suoi 4 milioni di abitanti Londra era al centro
del movimento di persone, merci e risorse finanziarie: il «pozzo nero dell’inferno» come la definisce il dottor Watson, fido collaboratore del celebre
investigatore. Si trattava di una città dura e difficile dove la luce gialla dei lampioni a gas faticava a
contrastare una nebbia fitta causata dai fumi che
uscivano dalle decine di ciminiere delle fabbriche e
dai comignoli delle locomotive a vapore che trainavano i vagoni della metropolitana (inaugurata nel
1863). Scippi e criminalità erano assai diffusi, ed
elevato era il numero dei mendicanti che giravano per la vie del centro: dalla testimonianza dello
scienziato Charles Babbage si evince che i mendi-
canti più temuti e disprezzati per la loro pericolosità erano gli italiani che suonavano per strada gli
organetti. In questa metropoli vivevano migliaia di
ex contadini e braccianti che erano stati costretti
ad abbandonare le campagne per trasferirsi in città: per prima cosa avevano dovuto cambiare le loro
abitudini di vita, non potendo più far riferimento al
tempo scandito dai ritmi della natura e dal suono delle campane, ma dovendosi adeguare ai ritmi della fabbrica. Dopo 10-14 ore di duro lavoro
sulle macchine, rientravano nei sobborghi londinesi in casupole a due piani costruite in schiena,
l’una attaccata all’altra, per risparmiare i mattoni.
Lo scrittore Jack London ne Il popolo dell’abisso ha
G. Doré, Lavoro di immagazzinaggio nella City, incisione tratta dal
Viaggio a Londra, di G.Doré e B. Jerrold edito nel 1872.
ti violenti, essi erano spesso soggetti a infortuni.
Inoltre le pessime condizioni igieniche e il sovraffollamento nelle fabbriche e nei quartieri operai
favorivano il diffondersi di malattie epidemiche
come la tubercolosi, il tifo e il vaiolo. Anche in Italia
l’orario medio variava dalle 10 alle 16 ore giornaliere e la disciplina era mantenuta da ex militari ed
ex guardie carcerarie; i luoghi di lavoro erano costituiti da locali bassi, angusti, umidi e poco areati,
dotai di pochi servizi igienici del tutto insufficienti.
Molto diffuse erano le malattie broncopolmonari
provocate dai fumi o dalle polveri, come quella di
tabacco nei tabacchifici o di fosforo nelle fabbriche
dove si producevano fiammiferi. Il rumore provocato dai macchinari era assordante e per parlarsi
bisognava urlare. Finito il turno il ritorno a casa
per le donne non significava la fine delle fatiche:
le bambine infatti dovevano attendere ai lavori domestici, mentre le loro madri spesso lavoravano
come domestiche nelle case dei ricchi. Nel 1901
il 30% dei lavoratori nelle industrie italiane era
composto di donne, mentre i minorenni erano circa mezzo milione: i più venivano impiegati negli
stretti cunicoli delle miniere di zolfo del Sud, come
ha raccontato Giovanni Verga. La prima legge sul
lavoro minorile in Italia venne emanata nel 1886:
essa vietava il lavoro a tutti i minori di 10 anni e i
turni notturni ai minori di 12 anni; tuttavia, ancora
nel 1933 nell’industrializzata provincia di Varese i
minori sotto i 14 anni rappresentavano il 4% degli
addetti all’industria.
Incisione raffigurante il cotonificio William Darton Mill
a Holborn Hill nel 1820.
G. Cruikshank, Il freddo, la miseria e l’indigenza distruggono il loro figlio più piccolo, da The Bottle, 1847, Londra, Victoria and Albert Museum.
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descritto le piccole stanze sovraffollate delle case
operaie definendole «un orrore». Nelle filande lavorano anche molte donne e bambini, apprezzati
per l’agilità delle loro dita affusolate che si muovevano velocemente sui telai meccanici mossi dal vapore. Pagati pochissimo e costretti a lavorare con
poche e brevi pause sotto il controllo di sorveglian-
Field Lane, Londra 1840, incisione che illustra povera gente che vive
in condizioni spaventose.
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SOCIETÀ E CULTURA
La famiglia nell’Ottocento
Nel corso dei secoli la famiglia ha cambiato più volte forma e funzione, a seconda dei luoghi e delle
circostanze. Nel corso del XIX secolo l’affermazione del modello borghese ha comportato un radicale
cambiamento degli obiettivi della famiglia e la ridefinizione dei tradizionali spazi abitativi.
Serata musicale nel salotto di una casa borghese in Danimarca, Ottocento.
Disegno di esterno e interno di una tipica casa agricola
delle campagne milanesi tratta da L’agricoltura illustrata,
una pubblicazione del 1892.
In Europa dal Medioevo sino al XIX secolo il modello
più diffuso è stato quello della «famiglia rurale»,
dal momento che la maggioranza della popolazione era addetta all’agricoltura. Si trattava generalmente di famiglie numerose, data la necessità di
tante braccia per lavorare la terra, e «allargate»
nel senso che non erano composte esclusivamente dai genitori e dai figli ma comprendevano più figure, come i braccianti che venivano assunti nella
stagione della raccolta quando c’era grande abbondanza di lavoro. I membri della famiglia contadina
si fabbricavano da sé gli strumenti per lavorare i
campi e ne consumavano quasi interamente i frutti; tutte le decisioni più importanti venivano prese
dal padre (si parla quindi di sistema «patriarcale»), ma un ruolo significativo spettava anche alla
moglie del capofamiglia che, in collaborazione
con le nuore, doveva badare al governo della casa,
all’educazione dei figli, oltre che alla coltivazione
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F. Londonio, Interno di una stalla.
dell’orto e all’allevamento degli animali da cortile,
soprattutto cani, gatti e galline. Centro della vita
sociale era la stalla dove tutti i membri della famiglia si ritrovavano a trascorrere le serate e spesso
anche le nottate invernali a contatto con il calore
animale: le donne filavano o tessevano, gli uomini
discorrevano tra loro e gli anziani raccontavano ai
bambini storie e leggende. La Rivoluzione agricola e quella industriale, a cavallo tra Settecento e
Ottocento, mutarono notevolmente questo modello tradizionale, dal momento che l’introduzione di
criteri capitalistici nella gestione delle proprietà
agricole rese sempre più difficile il sostentamento
delle grandi famiglie di tipo rurale. L’agricoltura da
estensiva divenne intensiva, cioè volta ad aumentare la produttività dei suoli così da favorire il commercio dei prodotti dei campi; nello stesso tempo
iniziò un processo di creazione di grandi aziende
agricole che si ingrandirono costringendo i contadini a vendere i loro piccoli poderi e a emigrare.
Molti presero a vagare nelle campagne, facendosi
assumere nelle proprietà terriere durante la sta-
gione del raccolto, altri preferirono trasferirsi in
città dove trovarono occupazione come operai nelle fabbriche. Alla Rivoluzione industriale e al processo di urbanizzazione si accompagnò anche l’affermazione della borghesia, i cui membri vivevano
in spazi nettamente separati rispetto a quelli delle
famiglie operaie e contadine. In questo secondo
caso si parla di «famiglia borghese», che si differenziava da quella «rurale» per essere un nucleo
ridotto, formato solo dai genitori e dai figli. Mentre
i contadini vivevano nelle cascine, vicino alle stalle
e ai campi, per i borghesi divenne importante la distinzione tra la casa e il posto di lavoro: nel corso
dell’Ottocento si affermò l’idea dell’appartamento
«monofamiliare» che ancora oggi rappresenta la
condizione abitativa standard per la stragrande
maggioranza delle persone. La casa acquistò ca-
Un salotto parigino, 1887.
ratteristiche nuove, tendendo sempre più ad assomigliare ai grandi palazzi nobiliari suddivisi in tante stanze, ognuna destinata a una singola attività
(dormire, mangiare, ricevere gli ospiti, leggere,
ecc.); inoltre il suo centro si spostò dalla stalla o
dalla cucina (vero e proprio «focolare domestico»
per i contadini) al salotto che diventava il luogo di
rappresentanza, ove incontrare gli ospiti e mostrare loro il «buon gusto» e il livello di benessere della
famiglia. In questo periodo nacquero termini come
«decoro borghese» e privacy e cambiarono anche
le abitudini sessuali: venne limitata la promiscuità
tra uomini e donne che esisteva nelle cascine e anche la procreazione cominciò ad essere vista non
più solo come un evento naturale, ma come un atto
volontaristico, da regolare e controllare attraverso
il ricorso a metodi anticoncezionali.
Fotografia di famiglia borghese ottocentesca con otto figli.
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TECNOLOGIA
Il telefono: da Meucci al cellulare
La rete telefonica è la più grande «macchina» automatica del mondo, che può essere messa in funzione
semplicemente combinando alcune cifre su una tastiera. Essa avvolge come una ragnatela tutti i continenti e può mettere in contatto persone che si trovano a migliaia di chilometri di distanza.
Il nome «telefono» deriva dal greco teles (lontananza), e phonos (suono). La prima intuizione la
ebbe già nel Seicento l’inglese Robert Hooke, che
riuscì a trasmettere, attraverso un filo, delle onde
sonore parlando contro una membrana che provocava delle vibrazioni. Due secoli dopo l’idea venne ripresa dal fisico tedesco Johann Philipp Reis,
che tentò di trasmettere i suoni per via elettrica:
non ci riuscì ma disegnò comunque un prototipo a
cui diede il nome profetico di telefono. Nuovi esperimenti vennero condotti nella seconda metà del
XIX secolo da Antonio Meucci, un fiorentino emigrato a New York che nella sua casa-laboratorio,
dove in più occasioni ospitò Giuseppe Garibaldi,
costruì una rudimentale macchina per «telegrafare le parole», come lui stesso l’aveva definita.
Nel 1871 presentò una domanda di brevetto che
però, causa le sue precarie condizioni economiche, non fu in grado di rinnovare. Ne approfittarono due ingegneri statunitensi, Alexander Graham
Bell e Elisha Grey, che allo scadere dei diritti di
Meucci, il 24 febbraio 1876, ad appena due ore di
distanza l’uno dall’altro depositarono due domande di brevetto del «telefono». La spuntò Bell, il
cui prototipo si basava sul sistema utilizzato per
Un vecchio telefono, anni Venti.
Alexander Graham Bell con il suo prototipo di telefono.
Ritratto di Antonio Meucci, ideatore del telefono.
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il trasporto di suoni in correnti elettriche variabili: l’effetto era ottenuto mediante un’astina di
platino, posta in vibrazione dalla membrana del
telefono. La membrana pescava in una soluzione
elettrolitica, variando così la resistenza del circuito, alimentato da una pila. Ottenuta la paternità
dell’invenzione Bell iniziò a viaggiare negli Stati
Uniti e in Europa per promuoverla: il 14 gennaio 1878 venne ricevuto dalla regina d’Inghilterra,
Vittoria, che ne rimase talmente impressionata
da chiedere a Bell di installare dei telefoni nelle
residenze reali. La prima linea interurbana venne impiantata nel 1884 tra New York e Boston e
utilizzò non più fili di ferro ma di rame, che non
arrugginiva e lungo di esso il segnale poteva percorrere una distanza maggiore
prima di diventare troppo debole per
essere udito. Ben presto il telefono
cambiò il paesaggio: infatti le strade si riempirono di lunghe colonne di pali attraversate da fasci di
fili. Inizialmente ogni chiamata
doveva passare attraverso un centralino, poi nei primi anni del Novecento vennero
ideate le centrali automatiche, che collegavano
direttamente l’utente al numero chiamato. Il primo servizio internazionale fu quello tra Londra
e New York, inaugurato nel 1928: si poteva passare una sola conversazione alla volta e di conseguenza gli utenti si prenotavano con parecchie
ore d’anticipo per poterne usufruire. Solo intorno
al 1955 le grandi compagnie telefoniche incominciarono a stendere cavi sottomarini, in grado di gestire contemporaneamente centinaia, poi
migliaia di comunicazioni. Un’ulteriore svolta si
ebbe nel 1966 quando una società inglese propose l’adozione di fibre ottiche, cioè fili di vetro dello
spessore di un capello, più capienti ed economici
del rame. La nuova tecnologia risultò così vantaggiosa che una decina di anni dopo venne impiegata nei primi esperimenti di trasmissione di
segnali televisivi. I primi telefoni cellulari, cioè
apparecchi ricetrasmittenti collegati alla rete telefonica fissa tramite celle radio, furono inventati
da Martin Cooper, un ricercatore della Motorola, nel 1973: inizialmente erano molto pesanti e
costavano 4000 dollari. L’evoluzione è stata rapidissima sia nella tecnologia che nel design e ha
reso i telefoni mobili molto simili ai computer: nel
2009 il 61% della popolazione mondiale possedeva un cellulare.
Telefoni cellulari del 1991.
Enorme fascio con connessioni di fibre ottiche per telecomunicazioni.
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TECNOLOGIA
Il treno e la rivoluzione dei trasporti
Da quando nel 1803 per la prima volta l’ingegnere inglese Richard Trevithick sostituì la trazione a cavalli
con quella a vapore, applicando una caldaia a un carro, il treno si trasformò da un mezzo di trasporto
pensato per alleviare le fatiche dei minatori nello strumento di una rivoluzione sociale ed economica di
rilevanza mondiale.
L’idea di usare rotaie nacque già nel XVI secolo
nelle miniere britanniche, per trainare i carrelli
carichi di carbone: si trattava di due file parallele di
assi di legno, inchiodate a traversine che impedivano loro di andare fuori posto, che nel 1700 vennero
sostituite da rotaie di ferro che avevano il pregio di
consumarsi molto più lentamente. Convinto della
bontà della sue intuizione Trevithick progettò un
traino a vapore che sostituisse la forza motrice dei
cavalli e lo sperimentò nel 1804 nelle ferriere, cioè
miniere di ferro, di Pen-y-Darren nel Galles meridionale, trasportando dieci tonnellate di minerale
e una quindicina di passeggeri: tuttavia i 14 chilometri di rotaie furono distrutti dal peso eccessivo
del convoglio e l’esperimento fu abbandonato. Altri
ripresero l’idea della trazione a vapore su strada
ferrata, come l’ispettore minerario John Blekinsop che inventò la cremagliera, cioè una rotaia
dentata nella quale ingranava una ruota anch’essa
dentata della locomotiva, e l’impiegò nella miniera
di Middleton presso Leeds. Allo sfortunato tentativo di Trevithick aveva assistito il giovane operaio
George Stephenson il quale portò avanti la sperimentazione e nel 1814 costruì la sua prima
locomotiva, la Blucher, impiegandola in una
linea privata costruita in un’altra miniera di
carbone. Le sue capacità di progettista ma
soprattutto il suo entusiasmo coinvolsero
altre persone e gli consentirono di trovare fondi per i suoi progetti, tanto
Disegno che raffigura il Rocket di G. Stephenson, 1829.
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S. Fergola, L’apertura del primo tronco ferroviario Napoli-Portici (la prima ferrovia italiana), 1839.
Incisione raffigurante la dimostrazione a Londra del funzionamento del
Rocket, la prima locomotiva a vapore costruita da G. Stephenson nel 1829.
che nel 1821 gli fu assegnato l’incarico di costruire
una linea ferroviaria tra Stockton e Darlington.
Questi 17 chilometri, da principio pensati per trasportare il carbone al porto di Stockton on Tees,
divennero la prima linea ferroviaria a vapore e furono inaugurati il 27 settembre 1825 da un treno trainato dal Locomotion, il locomotore progettato
da George e dal figlio Robert. Visto
che il servizio per passeggeri poteva
rappresentare un nuovo vantaggioso mercato, un gruppo di imprenditori bandì un concorso per la miglior macchina da impiegare nella
linea che intendevano aprire
tra Liverpool e Manchester: gli
Stephenson presentarono otto
modelli e vinsero con il Rocket,
(«il razzo»), che raggiungeva i 50 chilometri orari,
circa il doppio della velocità delle rivali. La novità
rappresentata dal treno incuriosì i primi passeggeri che iniziarono ad assiepare i vagoni scoperti, ben
presto sostituiti da carrozze simili a diligenze, dotate di dure panche, ma prive di luce, riscaldamento e servizi igienici. Le signore che si affacciavano
dai finestrini venivano definite dalla gente delle
sconsiderate, ma quando nel 1842 la regina Vittoria salì su un vagone, la consacrazione del nuovo
mezzo di trasporto fu definitiva. Tre mesi dopo il
viaggio inaugurale del Rocket, nel 1830, a Charleston venne aperta la prima linea ferroviaria degli
Stati Uniti, pensata per portare grano e bestiame
G. Doré, incisione raffigurante una stazione di Londra con treno
a vapore e passeggeri di terza classe.
verso l’Ovest. Nel 1837 Ferdinando II, sovrano del
Regno delle Due Sicilie, commissionò alla ditta di
Stephenson la costruzione di due locomotive, ribattezzate Bayard e Vesuvio, grazie alle quali il 4
ottobre 1839 fu possibile inaugurare il primo tratto
su rotaie italiano, lungo otto chilometri tra Napoli
e Portici. Lo sviluppo delle linee ferroviarie comportò la progettazione di ponti, viadotti e gallerie,
richiese l’ideazione di segnali e di sistemi di sicurezza che furono adottati a livello internazionale e
favorì la costruzione di metropolitane nei grandi
centri industriali, per facilitare la mobilità dei lavoratori. La prima fu quella di Londra, aperta nel
gennaio 1863.
L’avvento della ferrovia e dell’illuminazione elettrica nell’album
del giubileo della regina Vittoria, 1867.
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TECNOLOGIA
Con l’energia elettrica inizia la cavalcata
del progresso
Galvani e Volta scoprono e imbrigliano l’elettricità; spariscono i lumi a petrolio e le candele e da
un filo pende la lampadina di Edison. Le fabbriche fanno muovere le macchine con quella nuova
«forza», fornita dai corsi d’acqua, che permette
anche di produrre acciaio e di realizzare nuovi
mezzi di comunicazione, come il telefono.
La parola «elettricità» deriva dal greco electron
che significa ambra: gli antichi greci per divertimento strofinavano l’ambra con la lana per attirare piume o frammenti di carta, poi sino alla metà
del Settecento questa strana energia venne pressoché dimenticata. Nel 1752 il giornalista statunitense Benjamin Franklin, appassionato di scienza,
volendo dimostrare che il fulmine era una scarica
elettrica a rischio della vita, fece volare durante
un temporale un aquilone ricoperto di metallo, da
cui pendeva una chiave appesa a un filo. Mentre i
lampi solcavano il cielo, Franklin avvicinò la mano
alla chiave e si mise a osservare le scintille che si
sprigionavano, dato che il filo bagnato aveva fatto da conduttore. In seguito fece installare aste
metalliche, i parafulmini, sui tetti di alcune case
di Filadelfia. Partendo dalle sue osservazioni, e
riprendendo anche alcuni esperimenti sulle rane
condotti dal medico bolognese Luigi Galvani, Alessandro Volta, professore di Fisica all’Università di
Pavia, nel 1800 costruì una pila elettrica, mettendo
uno sopra l’altro dei dischetti d’argento e di zinco,
con in mezzo del cartone imbevuto d’acqua e sale.
I due capi messi in contatto provocarono una scintilla. Tale esperimento ebbe vasta risonanza e Volta venne insignito del titolo di conte da Napoleone
Bonaparte: in seguito l’unità di forza elettromotrice venne chiamata in suo onore «volt». La sera del
24 giugno 1859, mentre le truppe francesi e piemontesi stavano sbaragliando l’esercito austriaco
a Solferino, un giovane volontario pisano, studente
di Fisica, con un ramoscello si mise a tracciare in
terra il progetto di una nuova macchina elettrica:
la dinamo. Si chiamava Antonio Pacinotti: nel 1865
si recò a Parigi per approfondire i suoi studi, ma
l’ingegnere belga Zenobe Gramme gli rubò l’idea
brevettandola. Ulteriori progressi derivarono dagli
studi sull’elettromagnetismo condotti al Politec-
Ritratto di Alessandro Volta con la sua pila.
Il telegrafo di Samuel Morse, 1850 circa.
E.S. Morgan, ritratto di Benjamin Franklin.
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Alessandro Volta presenta la sua pila a Napoleone Bonaparte,
da «Le petit Journal», 1901.
La posa del primo cavo telegrafico transoceanico in una pagina
di «Harper’s Weekly» dell’agosto 1865. A sinistra Benjamin Franklin;
a destra Samuel Morse.
Una veduta dei fievoli lampioni di Cannon Street in una notte di
nebbia, Bridge Row, Londra.
nico di Parigi dal professore Andrè-Marie Ampère che inventò l’elettrocalamita. Tuttavia il primo
a rischiarare la notte fu Thomas Edison. La sua
vita è spesso raccontata come un romanzo, come
la storia di un gran lavoratore che «si è fatto da
solo». In realtà le sue scoperte devono molto agli
esperimenti di Samuel Morse che nel 1837 inventò
un sistema di segnalazione basato sull’elettricità,
il telegrafo elettrico. Si trattava di un macchinario composto da un interruttore che consentiva
o interrompeva il passaggio di corrente elettrica
lungo un filo che collegava la stazione trasmittente a quella ricevente: qui vi era un’elettrocalamita
provvista di una punta scrivente che tracciava su
carta linee o punti, formando il cosiddetto «alfabeto Morse». Nel 1844 venne costruita la prima linea
telegrafica tra Washington e Baltimora, inaugurata
con l’invio di impulsi elettrici componenti la frase
biblica «Così ha permesso Dio». Edison si formò
proprio come tecnico addetto alla riparazione dei
primi apparati telegrafici, dotati di una scarsa autonomia. Affascinato dall’elettricità si dedicò a studiarne tutte le possibili applicazioni, inventando il
fonografo, antenato del giradischi, migliorò il telefono di Bell e brevettò più di mille piccole invenzioni legate alla quotidianità. Poi per 13 mesi, insieme
ai tecnici della sua azienda di apparecchi elettrici,
si mise al lavoro sino a che riuscì a far diventare
incandescente un filo di cotone carbonizzato all’interno di un bulbo di vetro: era una sera del 1879.
Nel giro di pochi anni le lampadine sostituirono i
lampioni a gas che dal 1807, a cominciare da Londra, illuminavano le città.
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TECNOLOGIA
Charles Babbage inventa l’antenato
del computer
Oggi tutti noi possediamo o siamo in grado di utilizzare un «cervello elettronico» la cui capacità di programmazione sempre più ampia ha trasformato la vita di tutti i giorni in modi che spesso passano inosservati: siamo infatti talmente abituati ad accendere un computer per lavorare, fare ricerche, ascoltare
musica, guardare un film, verificare il tragitto che dovremo percorrere in auto e tante altre funzioni, che
oramai consideriamo il nostro «calcolatore automatico» alla stregua di un comune e banale utensile.
Eppure le sue radici storiche affondano nel XIX secolo.
Generalmente si pensa che il calcolatore elettronico sia un’invenzione abbastanza recente e
si colloca la sua nascita nella seconda metà del
Novecento, anche se in realtà a partire dalla fine
del Settecento, in piena Rivoluzione industriale,
la necessità delle imprese commerciali e delle
banche di poter disporre di uno strumento in grado di effettuare calcoli in maniera rapida e sicura
aguzzò l’ingegno di alcuni scienziati. Tra loro vi fu
un docente dell’Università di Cambridge, Charles
Babbage, che intorno al 1830 si accorse che le ta-
S. Laurence, ritratto di Charles Babbage.
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vole esplicative delle rotte marittime internazionali pubblicate dall’Almanacco Nautico britannico, in
quei tempi una vera e propria «Bibbia» per i navigatori, contenevano numerosi errori di calcolo.
Secondo Babbage questi errori erano dovuti alla
stanchezza e alla noia dei «computers», nome con
cui allora venivano chiamati gli impiegati addetti
alle operazioni di calcolo: generalmente essi lavoravano in coppia, procedendo autonomamente in
parallelo e solo se al termine di una procedura di
calcolo ottenevano risultati eguali si prendeva per
Telaio Jacquard esposto al Museo della Tecnologia di Oslo.
L’enorme calcolatore ideato da Babbage e fedelmente
riprodotto al Science Museum di Londra.
buono il risultato; altrimenti era necessario ricominciare tutto daccapo. Per ridurre il margine di
errore Babbage provò a costruire una calcolatrice
in grado di elaborare i dati e per farlo sfruttò l’invenzione delle ruote a riporto automatico fatta da
Gottfried Leibniz alla fine del Seicento. Un’altra
fonte di ispirazione fu l’ideazione di un nuovo telaio
automatico fatta nel 1808 dal francese Joseph Marie Jacquard: la sua macchina eliminava i sistemi
sino a quel momento impiegati per l’alzata dei fili e
dava la possibilità di ripetere quante volte si voleva
il disegno sui tessuti, mediante una serie di cartoni
forati. Nel laboratorio di casa sua Babbage iniziò
a costruire due meccanismi fatti di ruote dentate di ferro assemblate in una struttura di legno,
che chiamò «Motore alle differenze» e «Macchina analitica»: quest’ultima era già dotata di due
elementi costitutivi essenziali anche nei computer
moderni, vale a dire l’unità di calcolo, detta mill,
e la memoria di deposito, lo store. Nei progetti di
Babbage tale macchina avrebbe dovuto disporre di
una «memoria» composta di 200 accumulatori di
25 ruote ciascuno, di un dispositivo aritmetico che
le avrebbe permesso di compiere le quattro operazioni e di un meccanismo di comando del programma formato da due serie di schede perforate: in tal
modo sarebbe stata in grado di eseguire sessanta
operazioni aritmetiche in un minuto. All’apparenza sembrava un progetto troppo avveniristico per
i tempi e in effetti Babbage non riuscì a ottenere i
finanziamenti dal governo inglese e dovette persino subire le prese in giro dei colleghi che lo consideravano un visionario: la sua «Macchina analitica» venne completata soltanto nel 1991 e oggi si
trova esposta al Science Museum di Londra. Tipico
esponente della «società dei Lumi» Babbage compì esperimenti e studi in varie discipline e viaggiò
molto, soprattutto nell’Italia del Risorgimento: la
sua macchina è infatti dedicata a Vittorio Emanuele II, futuro re d’Italia. Babbage è passato alla storia anche per aver inventato la tariffazione postale
unica e il «pilota», cioè la struttura metallica che
veniva attaccata di fronte alle locomotive a vapore
per spazzare gli ostacoli dai binari.
Locomotiva a vapore con il massiccio «pilota» anteriore, invenzione di Babbage.
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MEDICINA
15
La rivoluzione della medicina nell’età moderna
Fino al Cinquecento la medicina era rimasta ancorata a quelle che oggi potremmo definire semplici
superstizioni, che si rivelavano assolutamente inadeguate nel caso di gravi malattie e contagi di massa.
Fu solo l’influenza della «Rivoluzione scientifica», avviata da Galileo Galilei, che trasformò la medicina
in una disciplina scientifica, che conobbe dunque un importante sviluppo e si dotò di strumenti moderni
per contrastare le patologie più gravi.
Nel Cinquecento gli eserciti che marciavano in
un’Europa devastata da continue guerre furono i
vettori di epidemie e contagi che provocarono nel
complesso oltre 20 milioni di decessi. Influenzati
da Galileo Galilei, numerosi studiosi di medicina
avviarono una severa verifica dei classici grecoromani e ridiedero impulso a ricerche ed esperimenti pratici. Nonostante le severe condanne
imposte dalla Chiesa, nelle Università di Bologna
e Padova vennero effettuate le prime autopsie su
corpi umani: sino ad allora erano stati usati cadaveri di animali pensando che all’interno fossero simili a quelli umani. Un personaggio cruciale fu il
medico svizzero Philipp Baumbast, detto Paracelso, che fondò la disciplina della farmacia iniziando
ad adoperare non solo sostanze vegetali ma anche
composti chimici per la preparazione delle medicine. Nel Cinquecento il medico militare francese
Ambroise Paré invece fece compiere passi da gigante alla chirurgia: curando i feriti da archibugio
si accorse che gli amputati guarivano più facilmen-
Philipp Baumbast, detto Paracelso.
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te se le arterie e i vasi sanguigni venivano legati
e ricuciti, utilizzò le pinze e il laccio emostatico
e progettò vari congegni meccanici per sostituire
gli arti amputati. All’inizio del Seicento il medico
inglese William Harvey, docente all’Università di
Padova, descrisse il sistema della circolazione
sanguigna. La scienza medica compì un ulteriore
Strumenti chirurgici usati per l’autopsia dell’imperatore Napoleone I,
conservati nel Musée d’Histoire de la Medicine a Parigi, XIX secolo.
balzo in avanti nel Settecento durante l’epoca dei
Lumi: molte pagine dell’Encyclopédie di Diderot e
D’Alambert furono dedicate alle nuove tecniche
e scoperte scientifiche. L’inglese Edward Jenner
scoprì nel 1796 che una piccola quantità di germe
di vaiolo bovino trasferito e inoculato dall’animale all’uomo provocava in quest’ultimo una versione attenuata della malattia che impediva al vaiolo
umano di attecchire. A partire da quel momento
la vaccinazione rivoluzionò l’intera società mondiale. Nell’Ottocento nacque la biologia, a partire
dall’ospedale di Bamberg, in Germania, dove per
la prima volta fu scoperto il nesso tra le malattie
contagiose e i microrganismi parassiti. Nel 1815
il primario dell’ospedale Necker di Parigi, René
Laennec, costruì un tubo di legno capace di con-
J. Gondoin, Scuola di chirurgia, ora Facoltà di Medicina, a Parigi:
l’aula di anatomia, particolare, 1769-1775.
Edward Jenner vaccina un bambino contro il vaiolo.
Ignác Semmelweiss.
centrare i suoni prodotti dal respiro all’interno dei
polmoni e di trasmetterli all’orecchio. Chiamò la
sua invenzione stetoscopio, dal greco skopèo e
stethos («osservare il petto»): tale strumento, al
quale ovviamente è stata apportata una enorme
quantità di miglioramenti tecnici, è ancora oggi il
più diffuso e semplice per effettuare l’auscultazione del cuore e dei polmoni. Il dentista americano
William Morton nel 1846 usò l’etere come anestetico per addormentare il paziente; mentre l’inglese
James Simpson impiegò il cloroformio durante un
parto. Nonostante i grandi progressi, la percentuale dei decessi durante le operazioni chirurgiche rimaneva tuttavia ancora elevata. L’ungherese
Ignác Semmelweiss comprese allora l’importanza
fondamentale dell’igiene per il personale medico:
dottori e infermieri avrebbero dovuto lavarsi e disinfettarsi in modo particolarmente accurato per
evitare di contaminare il paziente. Queste conclusioni provocarono
proteste durissime
ed egli venne cacciato dall’università e rinchiuso in un
manicomio,
salvo
essere
riabilitato
dopo la morte. L’invenzione dell’aspirina da parte di Felix
Hoffmann, chimico
della tedesca Bayer,
nel 1897 chiuse l’Ottocento che è stato
definito «Il secolo
Pubblicità dell’Aspirina del 1917.
della medicina».
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