STUDI E RICERCHE Mario Pisani STUDI DI DIRITTO PREMIALE II EDIZIONE Pisani-458-0-fronte.indd 1 06/07/10 14.00 Premessa alla seconda edizione Esaurita la prima edizione, con qualche buona eco d’adesione e di gradimento, si è convenuto con l’Editore di dar corso ad una seconda edizione, accresciuta – non osiamo dire: arricchita – di qualche nuovo contributo ad ampio raggio. Si tratta, in particolare, di studi che, a differenza della gran parte delle non molte trattazioni, vecchie e nuove, in tema di premi e di premialità come argomenti di filosofia o di teoria generale del diritto, o di politica legislativa, con ambizioni in certo modo pionieristiche affrontano di nuovo la (trascurata) materia del diritto premiale nella concretezza propria di una disciplina di diritto positivo. Una disciplina – si vuol dire – ancora piuttosto dispersa, e in qualche misura almeno apparentemente eccentrica, che però sotto più profili è entrata a far parte integrante dell’ordinamento giuridico statale. La finale appendice normativa, sia pure limitata ad una elencazione delle più importanti leggi speciali in materia (elencazione che tra l’altro prescinde dal pur fervido terreno delle discipline militari), offre di per sé una panoramica significativa dell’ampiezza e dell’incidenza del diritto premiale a vari livelli della vita associata. M.P. Pavia, aprile 2010 9 INTRODUZIONE BREVE AL DIRITTO PREMIALE Sommario: 1. Le punizioni, le ricompense e il caso. – 2. Il giurista e la ricompensa. – 3. Premi e incentivi. – 4. Il diritto premiale e la Costituzione. – 5. Pene e premi: una simmetria di politica legislativa. – 6. Repressione-prevenzione/premiazione-incentivazione. – 7. Per una sistematica del diritto premiale. 1. – L’abate Mably – dobbiamo riportarci all’anno 1776 – fa dire al milord inglese che sta dialogando con un collega svedese, come lui «d’un mérite rare»: «Punizioni e ricompense, tutto è abbandonato al caso e senza distinzioni» 1. A distanza di oltre due secoli un tale discorso non sarebbe oggi più proponibile (o lo sarebbe se mai soltanto attraverso la reminiscenza e l’immagine di un’improbabile Babilonia) 2. Da allora, infatti, al caso – sempre che di questo si fosse trattato – ovvero all’arbitrio, si sono venuti sempre di più sostituendo la determinatezza della legge, la precisione della regola, il rigore dei canoni normativi. E ciò – si noti – è avvenuto non solo per quanto concerne (e del resto è ben noto) le pene, e dunque, in definitiva, la difesa dei primari interessi 1 G. Bonnot de Mably, De la legislation ou principes des loix, Amsterdam 1776, vol. II (l. III, cap. IV). Il passo è riportato nel quadro dell’ampia appendice (V.9) curata da F. Venturi per la sua nota edizione (Torino 1965) di Dei delitti e delle pene di C. Beccaria (p. 475). 2 Ed appunto a Babilonia – come ricorda F. D’Agostino, La sanzione nell’espe rienza giuridica, 5a ed., Torino 1999, p. 4 – ci rimanda lo scrittore J.L. Borges, Finzio ni, trad. it., Torino 1967, p. 4, il quale – possiamo aggiungere – propone una singolare assonanza espressiva con le parole usate da Mably. 11 Introduzione breve al diritto premiale collettivi e degli spazi di libertà delle persone, ma anche, sia pure con movenze e toni alquanto più lievi ed estemporanei, per quanto concerne l’opposto versante delle ricompense, o, detto altrimenti, dei premi. Ricompense e premi, nonostante la varietà estrema delle occasioni e degli scopi che li hanno ispirati, sono stati gradatamente acquisiti, anche nel nostro ordinamento, al mondo del diritto. Ne è nata una sorta di galassia di costellazioni, le quali – per chi le sappia scorgere – fanno avvertire la loro presenza, se non proprio la loro luminosità, lungo traiettorie ed itinerari molteplici. Ma essi tuttavia oggi ci consentono, a ragion veduta, di parlare – così come da secoli si parla di diritto penale e di sistema penale – di un diritto premiale, ed anche – correlativamente, e fatte le debite proporzioni – di un sistema premiale. Ripercorriamo alcuni di questi itinerari. 2. – «Più centinaia di volumi versano sui delitti e sulle pene; soltanto qualcuno sul merito e sulle ricompense». L’affermazione lapidaria con la quale si apre il trattato in due tomi, che, ben oltre un secolo fa, Melchiorre Gioia intitolava Del merito e delle ricompense, si può dire che sia ancora attuale, e che non è destinata, nel tempo, a sostanziali superamenti 3. Poche righe dopo, lo scrittore passa ad indicare, con cenni rapidi, i precedenti cultori della sua così trascurata materia: in primo luogo il partenopeo Giacinto Dragonetti, la cui monografia Delle virtù e de’ premi viene presentata come un «opuscolo di poche pagine», il quale è però «piuttosto un desiderio che un trattato» 4; il ben più celebre Diderot, del cui Essai sur 3 E Gioia – citiamo il passo dalla Prefazione al trattato, quale risulta dalla 3a edizione (Lugano 1832) – così continuava: «Forse di questo fenomeno sono tre le cause: 1° Gli uomini in generale sono più disposti a punire che a ricompensare: la pena è dimandata altamente dal sentimento della sicurezza, mentre alla ricompensa s’oppongono l’interesse e la vanità; 2° Gli scrittori dello scorso secolo si mostrarono più inclini a censurare le dannose operazioni de’ governi che ad encomiarne le utili; 3° Sapendo che il merito è sempre modesto, e che le ricompense sogliono essere carpite dai ciarlatani e leccazampe, forse i sullodati scrittori non sperarono gran vantaggio dalla discussione di questo argomento». Nella presentazione, per riassunto, ai lettori de «Il Conciliatore» (del 6 settembre 1818, n. 2), l’opera di Gioia, appena edita, sembrava al Pellico «degna di essere annoverata fra le piú filosofiche del secolo». 4 La 2a edizione, stampata a Modena, reca la data del 1768. Quanto alla paterni tà dell’opera cfr. – per uno spunto di replica a Croce – C. Magni, Profilo dragonettiano, Padova 1966, p. 82. 12 Introduzione breve al diritto premiale le mérite et la vertu Gioia si libera, senza tanti complimenti, parlandone come di un «guazzabuglio metafisico che non aggiunge alcun raggio di luce all’opuscolo dell’avvocato napoletano» 5; da ultimo, sotto la data del 1811, Geremia Bentham del quale, e della cui Teoria delle ricompense, con qualche ingenerosa precipitazione il nostro comincia col dire che, «seguendo ed ampliando le idee dello scrittore italiano, senza citarlo, lo scrittore inglese esaminò la trentesima parte dell’argomento, e vi innestò vari errori», ben meritevoli di analitica confutazione 6. E poiché siamo in sede di retrospettiva storica, e di diagnosi critica, sarà il caso qui di riprodurre l’interrogativo e la ragionata risposta che, 5 Il tema del merito e della ricompensa trova echi, di illuministico ottimismo, anche nell’Entretien d’un philosophe avec la Marechale de *** (1776): «Fate – scrive Diderot – che il bene dei singoli sia così strettamente legato col bene generale, che un cittadino quasi non possa nuocere alla società senza nuocere a se stesso; assicurate alla virtù la propria ricompensa, come avete assicurato alla malvagità il proprio castigo; che senza distinzione di culto, in qualunque condizione il merito si trovi, conduca alle grandi cariche dello Stato; e non farete più conto di altri malvagi che non siano un piccolo numero di uomini che una natura perversa che nulla può correggere porta verso il vizio». E ancora, quasi con un lamento e con un’invocazione: «Madame la marechale, la tentation est trop proche; et l’enfer est trop loin» (citiamo dal volume Le neveau de Rameau, et autres dialogues philosophiques, éd. par J. Varloot e N. Evrard, Paris 1972, p. 348). Ad un elogio delle «ricompense d’onore» Montaigne (nel 1579) aveva dedicato un capitolo (l. II, cap. VII) dei suoi Essais (vd. Paris 1950, «Bibl. de la Pléiade», p. 418 ss.), mentre più tardi Hobbes, nel descrivere – nel suo Leviathan (1651-1668) – il passaggio dallo stato di natura allo stato di società, dirà anche del superamento dell’orgoglio, perché il governo esercita un controllo rigoroso sulla distribuzione degli onori. In Hobbes, inoltre, è chiara la funzione sinergica della pena e della ricompensa, «che sono – scrive (vd. trad. di M. Vinciguerra, vol. I, Bari 1911, sub cap. XXVIII, pp. 261‑262; vd. anche cap. XXX, p. 288) – come i nervi e i tendini, che muovono le membra e le giunture dello Stato». Il tema non sfuggirà neanche all’analisi condotta nell’Esprit des Lois di Montesquieu (1748), laddove (l. V, cap. XVII: «Des récompenses que le souverain donne») l’Autore sviluppa la sua indagine comparata, distinguendo i governi dispotici – «sotto i quali non si è determinati ad agire se non per la speranza delle comodità della vita» – dalle monarchie – dove il principe ricompensa attraverso onori che portano alla ricchezza – e dalle repubbliche («[…] in una repubblica dove la virtù regna, lo Stato non ricompensa che attraverso attestazioni di questa virtù»: vd. Esprit des Lois, éd. par G. Truc, t. I, Paris 1949, p. 73). Sulla posizione di Beccaria, rimandiamo al nostro contributo Beccaria e il diritto premiale, in Attualità di Cesare Beccaria, Milano 1998, p. 43 ss., e in Rendiconti dell’Istituto Lombardo (Classe di Lettere e Scienze morali e storiche), vol. 131 (1997), fasc. 2, Milano 1999, p. 281 ss. 6 Faremo riferimento, nel corso della nostra esposizione, alla Theorie des récom penses, nella traduzione di Dumont e Laroche edita a Bruxelles nel 1829 (J. Bentham, Oeuvres, t. II), e riedita ad Aalen nel 1969. 13 Introduzione breve al diritto premiale qualche decennio più tardi, uno studioso di prima grandezza sottopone anche a noi, alla distanza di oltre un secolo: «Che cosa collega – scriveva Jhering nel cap. VII de Lo scopo del diritto – il giurista e la ricompensa? Al giorno d’oggi – questa la sua risposta, datata 1877 –, nulla. Oggi – proseguiva – gli è affidata soltanto la pena; oggi nessuno è competente per quanto concerne una pretesa giuridica alla ricompensa per meriti eccezionali e straordinari». Ne derivava, secondo Jhering, un grande divario, anzi un vero contrasto, tra il mondo romano e quello a lui contemporaneo: «[…] in Roma – scriveva – la ricompensa pubblica non aveva, come da noi, un significato puramente sociale, ma giuridico: al diritto penale corrispondeva, per così dire, un diritto premiale (concetto a noi sconosciuto) ed anzi non credo di eccedere se dico che, sino alla codificazione del diritto penale alla fine dell’epoca repubblicana, il diritto alla ricompensa fu caratterizzato da una precisione maggiore di quella propria del diritto penale». E continuava: «[…] se al generale vittorioso spettasse un trionfo od un’ovazione oppure se il soldato avesse diritto alla corona muralis, civica, castrensis o navalis (queste erano le decorazioni militari dei romani), tutto era minuziosamente previsto e poteva divenire persino oggetto di un processo» 7. Ponendosi poi l’interrogativo «se, nel corso del tempo, questa situazione muterà e se anche per il sistema della ricompensa statale si compirà quella trasformazione, che già da tempo si è verificata nel sistema della punizione statale (cioè la trasformazione dall’arbitrio soggettivo a regole ben precise, cioè al diritto, il che altro non è che un ritorno all’antico)», per parte sua Jhering rispondeva senza incertezze: «[…] io sono convinto che tale ritorno avrà luogo» 8. 7 R. von Jhering, Lo scopo nel diritto, trad. it. (a cura di Losano), Torino 1972, pp. 139‑140. L’argomento verrà ripreso, con supporti di altri testi romanistici, nel manuale di Diritto penale romano di C. Ferrini (Milano 1899). Partendo da un noto frammento di Ulpiano (bonos non solum metu poenarum, verum etiam praemiorum quoque exhortatione efficere cupientes: Dig. I 1), Ferrini dirà (p. 27) che, considerata «come correttivo sociale, la pena è nella sua funzione integrata dal premio», e documenterà poi (pp. 29‑30) che, nelle controversie in tema di attribuzione dei premi, «nascono qui, circa l’elemento oggettivo e soggettivo, questioni analoghe a quelle che sorgono pe’ giudizii penali». 8 Jhering, op. cit., pp. 140‑141. 14 Introduzione breve al diritto premiale 3. – Che quel ritorno abbia avuto luogo, oggi davvero non si direbbe; ma è almeno possibile rilevare che non pochi passi sono stati compiuti e che di altri si avvertono i segni premonitori. Per dire, dapprima, di questi ultimi, basterà pensare alla recente analisi da parte di Bobbio, a proposito della «funzione promozionale» del diritto, riferita al sistema giuridico nel suo complesso. Limitandosi ai contemporanei 9, Bobbio ricorda Kelsen, che qualificava come sanzioni sia la punizione che la ricompensa, riportando entrambe all’unitario principio della retribuzione (e salvo poi riconoscere alla ricompensa «una parte significativa soltanto nelle relazioni private degli individui» 10), e ricorda anche Carnelutti, che del pari indicava premio e castigo come due forme di sanzione in senso lato 11 ma che poi alla «sanzione premiale» riconosceva un «valore pratico» tanto limitato, da spiegare «se non proprio giustificare l’abitudine teorica, la quale, trascurando affatto il premio, risolve senz’altro la sanzione in un male inflitto a chi ha fatto del male». Inserendo questa tematica in un più ampio contesto anche di carattere storico, lo studioso torinese parla di «funzione promozionale del diritto» 12 nell’intento di cogliere e sottolineare – egli scrive – «uno degli aspetti più 9 Per la storia più remota della problematica premiale, dai «preludi» (con Hobbes e Spinoza) all’illuminismo giuridico italiano, attraverso la «piena esplicitazione» di Cumberland, vd. S. Armellini, Saggi sulla premialità del diritto nell’età moderna, Roma 1976. Quanto al pensiero di Cumberland, sembra il caso di segnalare anche un passo polemico di T. Natale, Riflessioni politiche intorno all’efficacia e necessità delle pene, ried. in «Il Tommaso Natale», 1973, p. 8. Per altre indicazioni di pensatori sensibili alla problematica in discorso vd. C. Gray, Per un diritto premiale, in «Riv. int. fil. dir.», 1959, p. 8, e, più in particolare, G. Del Vecchio, La giustizia, 4a ed., Roma 1951, p. 214, nota 34. 10 H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, trad. it. (a cura di S. Cotta e G. Treves), 2a ed., Milano 1954, pp. 15‑17. 11 «Sancire – scriveva (Teoria generale del diritto, 3a ed., Roma 1951, p. 27) – significa fondamentalmente, in latino, rendere inviolabile e perciò avvalorare qualche cosa». Come tipi di sanzioni premiali Carnelutti ricordava le promozioni per merito, le gratificazioni e in genere le ricompense e le decorazioni, e, inoltre, il «premio di salvataggio» del diritto della navigazione. 12 Il saggio Sulla funzione promozionale del diritto, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1969, p. 1312 ss., è stato riproposto nella raccolta di scritti intitolata Dal la struttura alla funzione, Milano 1977, p. 13 ss. Vd. anche ivi gli altri scritti, e in particolare Le sanzioni positive (p. 33 ss.); Verso una teoria funzionalistica del di ritto (p. 63 ss.). È da notare che l’impostazione di Bobbio è stata ampiamente e fedelmente recepita nel rapporto che il Consiglio Superiore della Magistratura ha pubblicato, nel 1971, sotto il titolo Società italiana e tutela giudiziaria dei cittadini 15 Introduzione breve al diritto premiale rilevanti, e ancor poco studiati proprio in sede di teoria generale del diritto, delle nuove tecniche di controllo sociale, che caratterizzano l’azione dello stato sociale dei nostri tempi e la distinguono profondamente da quella dello stato liberale classico: l’impiego sempre più diffuso delle tecniche di incoraggiamento in aggiunta a, o in sostituzione di, quelle tradizionali di scoraggiamento». All’interno di queste tecniche d’incoraggiamento, poi, Bobbio ha l’avvertenza di differenziare due diversi tipi di operazioni, cioè il premio (o ricompensa) dall’incentivo (o facilitazione): «[…] la sanzione propriamente detta, sotto forma di ricompensa, viene dopo, a comportamento compiuto; la facilitazione precede o accompagna il comportamento che si intende incoraggiare» 13. 4. – Tenute ferme le distinzioni concettuali, di teoria generale, spetta però allo studioso contemporaneo di diritto positivo il compito, di sapore pionieristico, d’individuare, in sede ricognitiva, e poi di tener distinti, i due settori dell’ordinamento giuridico che rispettivamente attengono alle sanzioni premiali, da un lato, e alle facilitazioni o incentivi (da ultimo anche su scala europea), dall’altro. Spetta allo studioso di diritto positivo il compito più particolare – per ciò che concerne il settore che ci sta a cuore – di dare evidenza alle componenti, al perimetro e alle linee evolutive di quello che, a tutte lettere, non solo Jhering, ma anche Enrico Ferri, Giuseppe Maggiore ed altri, hanno chiamato «diritto premiale» (pur senza impegnarsi nel lavoro di raccolta, di analisi normativa e di composizione sistematica) 14. (p. 8). Vd. anche l’analogo rapporto del 1976, intitolato L’adeguamento dell’ordina mento giudiziario ai principi costituzionali e alle esigenze della società (pp. 17‑19). 13 Bobbio, Dalla struttura cit., p. 29. Vd. anche infra, III.2. 14 E. Ferri (Sociologia criminale, 2a ed., vol. II, Torino 1930, p. 119) aveva in cidentalmente avanzato la previsione secondo cui la «sanzione remuneratrice o premiale» avrebbe per il futuro acquistato «sempre maggiore importanza, per quanto impallidirà – scriveva – l’attuale feticismo della pena» (vi fa eco R.A. Frosali, Sistema penale italiano, Torino 1958, vol. I, p. 57; vol. IV, p. 14). Vd., inoltre, per più ampi svolgimenti: R. de la Grasserie, Droit prémial et droit pénal, in «Scuola posit.», 1900, p. 385 ss.; G. Maggiore, Principi di diritto penale, vol. I, Bologna 1932, p. 347; A. De Mattia, Merito e ricompensa, in «Riv. int. fil. dir.», 1937, p. 608; V. Gianturco, Dei meriti e delle ricompense: variazioni sul tema della giustizia premiale, in «Riv. pen.», 1968, n. 1, p. 234. 16 Introduzione breve al diritto premiale Come meglio si vedrà in seguito, codesto «diritto premiale», non è frutto di una concessione preziosistica al gusto della teoria, o magari appena a un’estetica del diritto sensibile al fascino delle simmetrie, o addirittura di un cedimento alla logica precaria che può sorreggere una legislazione penale d’emergenza. Già s’è detto, per contro, del remoto affermarsi della categoria sul piano della storia delle idee. Va ora aggiunto che le sue radici affondano anche nella struttura del nostro vigente sistema normativo. E invero, così come si è ritenuto che, in genere, la «funzione promozionale» del diritto trovi una sua consacrazione sul piano dei principi costituzionali – in primis, nell’art. 3, comma 2°, della Costituzione; e poi negli artt. 4, comma 1°, 5, 9, comma 1°, 31, comma 1°, 35, comma 3°, 44, comma 2°, 45, comma 1°, 47, comma 1° e comma 2° 15 – è ben possibile individuare nello stesso testo significativi caposaldi che danno base e dignità al più specifico «diritto premiale». Si pensi all’art. 34, comma 3°, che riconosce ai «capaci e meritevoli» il «diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi»; all’art. 59, comma 2°, che prevede la nomina a senatori a vita per i cittadini «che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti»; all’art. 87, ultimo comma, che demanda al Presidente la funzione di conferimento delle «onorificenze della Repubblica»; ai «meriti insigni» che possono costituire titolo (art. 106, comma 3°) per l’accesso alla Cassazione (per non dire della III disposizione transitoria, la quale addirittura ribalta la pena in premio, prevedendo, per la prima composizione del Senato, la nomina a senatori dei deputati della Costituente che «hanno scontato la pena della reclusione non inferiore a cinque anni in seguito a condanna del tribunale speciale fascista per la difesa dello Stato»). 5. – Il diritto premiale – qualunque cosa ne potessero pensare una certa pubblicistica piuttosto grezza e disinvolta e i fiancheggiatori di alcuni imputati – non l’ha certo inventato il legislatore dell’anti‑terrorismo o dell’anti‑mafia. Se è vero che con la mano sinistra ha inasprito le sanzioni e con la mano destra ha elargito «premi», o sconti di pena, ai collaboratori della giustizia 16, il legislatore di questi ultimi anni trova però, come s’è 15 Bobbio, Dalla struttura cit., p. 25. 16 Per un ampio quadro della relativa problematica vd. Diritto premiale e siste ma penale (atti del VII Simposio di studi della Fondazione Luzzani), Milano 1983; La legislazione premiale (atti del XV Convegno De Nicola), Milano 1987. 17 Introduzione breve al diritto premiale visto, molti predecessori, dentro e fuori del sistema penale, e trova anche molti ispiratori, italiani e stranieri 17. Quanto poi al termine 18, esso, che può sembrare astruso perché non consueto, è in realtà omologo e simmetrico a quello di diritto penale. Ma la simmetria, prima ancora, sta nei concetti e nelle funzioni. Come attraverso la pena il legislatore minaccia un castigo a chi volesse accingersi ad una azione socialmente riprovevole, ovvero negativa (un omicidio, un furto, una truffa, ecc.), cosicché la pena svolge il ruolo di sanzione (negativa), che, oltre al castigo, mira anche a distogliere dal comportamento oggetto di disciplina, per contro, attraverso il premio (o sanzione positiva) il legislatore si propone di incentivare e di incoraggiare i comportamenti socialmente vantaggiosi 19. E da qui l’ampia gamma dei riconoscimenti al merito civile, al valor militare, al merito del lavoro, al merito della scuola, della cultura e dell’arte, al merito della sanità pubblica, al merito della redenzione sociale, al merito della Repubblica Italiana, e così via esemplificando. 17 Secondo la singolare teoria di Helvetius, tra i premi per le virtù ed il genio – come ricorda L. Gianformaggio, Diritto e felicità. La teoria del diritto in Helvetius, Milano 1979, p. 142 – andrebbero annoverate, «accanto ai titoli, agli onori, alle terre più fertili ed alle vivande più saporite, anche le donne più belle» (il che susciterà la scandalizzata reazione di Diderot, di Bentham e di Gioia). E il pensiero corre anche al Primo libro dei Re (17,23‑27), dove si menzionano i premi che il re degli Israeliti concederà a chi riuscirà ad uccidere il gigante Golia: «Ebbene, il re colmerà di grandi ricchezze chi lo abbatterà, gli darà la sua figlia e ne esenterà da qualsiasi tributo in Israele la casa paterna». 18 «Dal diritto – così T. De Mauro, La parola premiale, in «L’Espresso» del 13 aprile 1986 – in questi anni, ha fatto irruzione nel nostro comune discorrere l’aggettivo «premiale». La parola ha origini tardo‑latine, se ne serviva il santo delle Confessioni e della Città di Dio, Agostino, in chiave teologica. Forse non per caso ha cominciato a riapparire anni fa […] per indicare una legislazione capace di intervenire non soltanto penalmente, ma preventivamente e con incentivi positivi. La parola è stata poi prelevata per designare norme e provvedimenti che, forzando ed estendendo i meccanismi già previsti di attuazione della pena, premiano coloro che rompono con bande criminali organizzate». 19 La simmetria di politica legislativa era ben presente, a titolo d’esempio, alle riflessioni di Gramsci. Dopo aver scritto che il diritto «è l’aspetto repressivo e negativo di tutta l’attività positiva di incivilimento svolta dallo Stato», egli però subito aggiungeva: «Nella concezione del diritto dovrebbero essere incorporate anche le attività pre miatrici di individui, di gruppi, ecc.; si premia l’attività lodevole e meritoria come si punisce l’attività criminale» (Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Torino 1966, pp. 88-89). Sulla figura della sanzione positiva vd., per tutti, da ultimo, D’Agostino, op. cit., pp. 23 e 51 ss. 18 Introduzione breve al diritto premiale 6. – L’indicata simmetria con il diritto penale è di tipo antagonistico, e purtuttavia premi e castighi, come del resto in pedagogia (e così, in particolare, nella scuola 20) – ma aggiungiamo pure: nell’esercito e nelle carceri – svolgono funzioni alternative ma anche complementari e convergenti. Il parallelismo e la simmetria col diritto penale vengono in maggior evidenza se, inoltre, ci si colloca sul piano dei principi e delle finalità. Alla repressione e alla prevenzione del disvalore e del comportamento deviante, tipiche del diritto penale, fanno da correlativo e da contrappunto la premiazione del valore e l’incentivazione del comportamento eroico od encomiabile, congeniali al diritto premiale; la pena non si applica all’ignoto, né al defunto, né a una collettività o a un gruppo, mentre invece il premio, o l’encomio, lo si può concedere, e lo si concede, al l’ignoto, al defunto, ovverossia alla sua memoria, a una città, a un ente, a un intero battaglione; in diritto penale si applica di regola, in omaggio alle regole dell’oblio, la disciplina della prescrizione, mentre secondo i canoni del diritto premiale questa disciplina, tendenzialmente, non trova buona accoglienza; su un versante, il fatto che vi sia un concorso di più persone in un reato può comportare un aumento di pena, mentre, sul versante opposto, il concorso di più persone nell’azione encomiabile porta, correlativamente, ad una diminuzione del premio. 7. – Se la costruzione di una «sistematica» del diritto premiale è, per così dire, un problema di scienza pura (la cui soluzione, pertanto, contribuisce al progresso delle scienze), essa, però, si fa (e si farà) apprezzare anche e soprattutto nei suoi effetti pratici. Si vuol dire di quelli che possono e devono essere effetti di razionalizzazione, di coordinamento, e pertanto di diminuzione degli spazi di estemporaneità e di arbitrio, che a volte sembrano aprirsi nell’elargizione di posizioni vantaggiose, di onori e di ricompense. Anche questo, in definitiva, è un problema di buon governo. 20 Vd. già A. Gabelli, L’istruzione in Italia, vol. II, Bologna 1891, p. 270. 19 7. L’ORDINE «AL MERITO DELLA REPUBBLICA ITALIANA» Sommario: 1. Dall’«Ordine Civile di Savoia» all’«Ordine della Corona d’Italia». – 2. L’Ordine della «Stella della solidarietà italiana». – 3. «Al merito della Repubblica Italiana». – 4. La l. 3 marzo 1951, n. 178 (con le norme connesse e conseguenti): A) L’Ordine «Al merito della Repubblica Italiana» come fonte delle onorificenze; B) I destinatari delle onorificenze; C) L’articolazione dell’Ordine in cinque classi e la «gradualità necessaria»; D) Il contingentamento delle onorificenze; E) La struttura organizzativa dell’Ordine «Al merito della Repubblica Italiana»; F) Forme «ordinarie» e forme «particolari» di conferimento delle onorificenze; G) Ostacoli e rinunce nell’iter dei conferimenti; H) La revoca dell’onorificenza per indegnità. 1. – «L’esperienza degli antichi tempi, confermata da quella della moderna età, ha dimostrato in maniera indubitata, che le ricompense speciali stabilite per le diverse specie di merito, e distribuite con giustizia imparziale, contribuiscono potentemente, col mezzo dell’emulazione che eccitano, alla gloria e prosperità degli Stati, indirizzando verso tutto ciò che è utile, bello, e grande, ogni maniera di virtù e di talenti». Quanto abbiamo riferito rappresenta l’esordio, non poco solenne e significativo, del preambolo alle «Regie Patenti», datate 29 ottobre 1831, con le quali Carlo Alberto, «per grazia di Dio Re di Sardegna», istituiva l’«Ordine Civile di Savoia», e ne fissava le regole 1. Nell’esordio il Re passava poi a ricordare il predecessore Vittorio Emanuele, che nel 1815 aveva istituito l’«Ordine Militare di Savoia» 2, e così 1 Per uno sguardo retrospettivo vd. I. Porciani, La festa della nazione, Bologna 1997, p. 118. 2 Un secolo dopo, il d.l.vo 2 gennaio 1947, n. 4, del Capo provvisorio dello Stato ne muterà la denominazione in «Ordine Militare d’Italia». 145 Parte II. Le fattispecie proseguiva: «Noi abbiamo divisato di compiere e perfezionare l’opera di lui, privilegiando con contrassegni di onore quelli fra i nostri amatissimi sudditi, i quali dedicatisi ad altre professioni non meno utili che quella delle armi, sono diventati con profondi e lunghi studi l’ornamento del nostro Stato, ovvero hanno con le dotte loro fatiche giovato grandemente al servizio nostro ed al comun bene; fra i quali ci è caro di pregiare in guisa particolare coloro che hanno conseguito un nome glorioso nella carriera del pubblico insegnamento, tenuta da Noi in tanto maggior conto, in quanto che dalla buona educazione della gioventù dipende la felicità delle persone, delle famiglie, e dello Stato. Gli Ordini cavallereschi di già esistenti, e quell’altro che Noi abbiamo ora risoluto di fondare, Ci daranno in tal maniera il mezzo di palesare la stima di cui Noi siamo penetrati per tutte le classi dei nostri sudditi e per tutte le utili professioni». Carlo Alberto diceva poi del suo intendimento orientato nel senso che «le ricompense stabilite per onorare il merito civile» venissero concesse solo «dopo una disamina rigorosa delle ragioni degli aspiranti», e del conseguente proposito di «commettere questo esame» all’istituendo Ordine, ovvero «alle persone istesse che trovansi più impegnate a conservare l’instituzione in tutto il suo splendore». Seguivano le determinazioni di carattere normativo, ovvero le «regole». Nella prima di esse si sanciva l’istituzione e fondazione «in perpetuo» dell’«Ordine Civile di Savoia», del quale il Re si proclamava «Capo e Gran Mastro»; e ciò con l’aggiunta che tale «suprema dignità» dovesse passare, così da dar vita a un ordine dinastico, ai «successori ed eredi della Corona Reale». La seconda regola stabiliva che, a comporre il nuovo Ordine, fosse una sola «classe»: quella dei Cavalieri, i quali – si aggiungeva – debbono essere «nazionali», ovvero cittadini, «od avere acquistato nei nostri Stati ragione» per essere annoverati nell’Ordine. Mentre le regole n. 3 e n. 4 fissavano le precise caratteristiche delle insegne, o decorazioni, dei cavalieri, la regola n. 5 aveva cura di specificare la ristretta rosa delle «cinque categorie» di persone le quali potevano aspirare all’onorificenza 3. 3 «5. L’Ordine Civile di Savoia sarà conferito da Noi: 1.Ai primari Impiegati del nostro Governo che avranno eseguito qualche atto od opera di alta amministrazione. 2.Agli Scienziati, ai Letterati, ed agli Amministratori, i quali avranno composto e pubblicato con la stampa nei nostri Stati, o con nostro beneplacito fuori di essi, qualche opera importante. 146 7. L’Ordine «Al merito della Repubblica Italiana» Seguivano dettagliate previsioni circa l’itinerario procedimentale dei conferimenti: presentazione di una domanda, corredata dai titoli, da parte dell’aspirante; esame della domanda da parte di un Consiglio composto da sette cavalieri scelti dal Re nell’ambito dell’Ordine, con il compito di assumere informazioni sulla pertinenza dei titoli dell’aspirante, oltre che «sulle qualità sociali, e sui principii morali e politici di esse»; esame delle risultanze e formulazione di un «parere del Consiglio», con la verbalizzazione relativa anche alla ripartizione dei voti dei deliberanti; determinazione finale da parte del Re; stesura, per la firma reale, del diploma di nomina per le cure del primo segretario di Stato per gli Affari dell’Interno (indicato come competente per tutta la materia in discorso); ricezione, da parte di quest’ultimo, di un «solenne giuramento di fedeltà, di lealismo e di ortodossia, da prestarsi dal novello Cavaliere» 4. Il Sovrano, inoltre, attribuiva all’Ordine un totale di 40 pensioni, di varia entità (per un importo globale di L. 30.000). A distanza di oltre trent’anni faceva seguito – col regio decreto n. 4251, «dato in Firenze, addì 20 febbraio 1868», a firma di Vittorio Emanuele II Re d’Italia – l’«Istituzione di un Ordine Cavalleresco denominato Ordine della Corona d’Italia». Così prendeva inizio il relativo preambolo: «Essendosi non ha guari consolidata, mercè l’annessione della Venezia, la indipendenza e l’unità d’Italia, abbiamo determinato di conservare la memoria di quel gran fatto mercè l’istituzione di un nuovo Ordine Cavalleresco». E ciò con lo scopo di «rimunerare le benemerenze più segnalate, tanto degli Italiani che – si noti – degli stranieri, e specialmente quelle che riguardano direttamente gl’interessi della Nazione». Anche di tale Ordine il Sovrano, in virtù della «prerogativa» regia, si collocava al vertice, per sé e successori al trono (art. 1), in qualità di Gran 3.Agli Ingegneri, Architetti od Artisti che siansi renduti celebri con lavori di distinto merito. 4.Agli Autori e pubblicatori di qualche scoperta di gran conto e vantaggio, ed a coloro che avranno dato alle scoperte da altri fatte tale perfezionamento, che per l’utilità sua si accosti al merito della primitiva invenzione. 5.Ai Professori di scienze o lettere, ed ai Direttori di uno dei nostri Stabilimenti di educazione, che chiari per dottrina, ed avendo pubblicato qualche utile scrittura, abbiansi procacciata col loro magistero o governo della gioventù gloriosa fama». 4 «[… giuramento] di essere fedele a Noi, ed obbedienti alle nostre Leggi, di rispettare la decenza e i buoni costumi nelle sue opere, e di non professare alcuna massima contraria alla Fede Cattolica Romana, ed ai principii della nostra Monarchia». 147 Parte II. Le fattispecie Maestro, mentre in tema di conferimenti si faceva sintetico rinvio (art. 2) alla disciplina praticata per l’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, al contempo istituendo il primo segretario di quell’Ordine come cancelliere del nuovo Ordine. A parte la specificazione, assai minuziosa, delle caratteristiche delle «insegne», o decorazioni, (art. 3) ovvero della «divisa dell’Ordine», di quest’ultimo – a differenza dell’«Ordine Civile di Savoia» – si prevedeva una composizione plurima, articolata in ben cinque classi (art. 4), ma senza la previsione della concessione su domanda, e senza l’indicazione, come per il passato, della tipologia delle benemerenze idonee a far conseguire il riconoscimento onorifico. A comporre queste «classi» venivano designati, in ordine discendente, i «Gran Cordoni», i «Grandi Ufficiali», i «Commendatori», gli «Ufficiali» ed i semplici «Cavalieri». In linea differenziale rispetto all’«Ordine Civile di Savoia» vanno in particolare segnalati altri due profili: l’assenza di previsioni in tema di attribuzione di «pensioni», e, per converso, una concisa previsione sanzio natoria contenuta nell’art. 8: «Sarà privato della decorazione chiunque, per un fatto legalmente accertato, abbia mancato all’onore o propugnato interessi antinazionali». 2. – Il primo Ordine cavalleresco istituito dopo la fine della monarchia fu quello intestato alla «Stella della solidarietà italiana» 5. Su proposta del ministro degli Esteri (Nenni), il decreto 27 gennaio 1947, n. 703, recante la firma del Capo provvisorio dello Stato (De Nicola) istituiva particolari riconoscimenti a favore degli italiani all’estero o degli stranieri che avessero «specialmente contribuito alla ricostruzione dell’Italia». Il 22 dicembre dello stesso anno l’Assemblea costituente deliberava il testo della Costituzione repubblicana, il cui art. 87 attribuiva al nuovo «Capo dello Stato» il conferimento (ultimo comma) delle «onorificenze della Repubblica». Il d.l.vo 9 marzo 1948, n. 812, provvide quindi a rimodellare 5 Nella circolare 30 ottobre 2001 della presidenza del Consiglio dei Ministri – in Il sistema onorifico civile della Repubblica, a cura del Dipartimento del Cerimoniale di Stato, Roma 2002 – si ricorda (p. 9 ss.) che la Repubblica «premia le benemerenze individuali e collettive» con due diversi tipi di «distinzioni»: le «distinzioni cavalleresche (Ordini cavallereschi nazionali)» e le «distinzioni onorifiche (Decorazioni. Ricompen se. Medaglie)». L’Ordine della «Stella della solidarietà italiana» viene indicato nella serie degli «Ordini cavallereschi nazionali». 148 7. L’Ordine «Al merito della Repubblica Italiana» coerentemente le norme relative all’Ordine in discorso, la cui presidenza era affidata al ministro per gli Affari Esteri. Dopo la modifica introdotta dalla l. 30 dicembre 1965, n. 1476, era previsto che l’Ordine comprendesse tre classi, corrispondenti ai «titoli» di Grande Ufficiale, Commendatore e Cavaliere. A decorrere dal 1978 l’Ordine entrò peraltro in una specie di letargo, dal quale fu poi risollevato, su iniziativa del Presidente della Repubblica Ciampi, con una serie cospicua di nuove nomine, contestualmente con la nuova disciplina del regolamento attuativo (d.P.R. 21 settembre 2001, n. 385), col quale – su proposta del ministro degli Affari Esteri e del ministro per gli Italiani nel Mondo – si provvedeva ad una serie di modifiche delle «insegne» dell’Ordine. 3. – Ma per riprendere, al di là della prospettiva settoriale da ultimo e qui sopra descritta, il filo degli ordini cavallereschi – come giustamente s’è detto – «di carattere generale», occorre ora far convergere il discorso sulla istituzione dell’Ordine «Al merito della Repubblica Italiana», consacrata nella l. 3 marzo 1951, n. 178, con la quale (art. 9, comma 2°) veniva tra l’altro soppresso anche l’Ordine della Corona d’Italia. A tale proposito il 14 maggio 1949 era stato presentato a Palazzo Madama un disegno di legge (doc. 412), la cui rilevanza veniva sottolineata dal fatto che esso era accompagnato – circostanza parlamentare per davvero non consueta – da una relazione illustrativa a firma del presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi. Atteso che il disegno di legge si proponeva per il futuro, ma anche con riferimento al passaggio dall’ordinamento monarchico all’ordinamento repubblicano, di fare chiarezza e di dettare ex novo – il che risulterà anche dalla rubrica della legge – una più generale «disciplina del conferimento e dell’uso delle onorificenze», la relazione indugiava preliminarmente sull’inquadramento storico-istituzionale della materia, a muovere dalle prerogative regali fissate nello Statuto albertino (artt. 78 e 80), e si ancorava poi alla già richiamata disposizione finale dell’art. 87 della Costituzione, alla stregua della quale spetta al Presidente il conferimento delle «onorificenze della Repubblica». Di questa norma si diceva che comportasse «anzitutto la necessità di istituire un nuovo Ordine cavalleresco di carattere generale, destinato cioè a ricompensare cittadini e stranieri che abbiano comunque acquisito titoli di benemerenza verso la Nazione». 149 9. LE LAUREE «ad honorem» * 1. – Sia detto qui in apertura, a scanso di equivoci o di travisamenti: il tema prescelto, che non è certo tra i temi fondamentali per la storia della Repubblica, non presenta però caratteri di estemporaneità, o di occasionalità. Esso piuttosto si allinea lungo una traiettoria di ricerca – quella del diritto premiale – che chi vi parla, sia pure con preponderanti ma ragionate intermittenze, viene perseguendo da diverso tempo 1. 2. – Un servizio pubblicato su un noto quotidiano economico nell’aprile 2003 – titolo: Il laureato ad honorem dà lustro – così esordiva: «Cos’hanno in comune il Dalai Lama e Juan Carlos, madre Teresa di Calcutta, Riccardo Muti e Lucio Dalla?». Risposta: «Oltre a essere tutti e cinque – sia pure per motivi molto diversi – personaggi famosi, sono stati anche insigniti della laurea honoris causa dall’Università di Bologna» 2. Ma per cercare, se possibile, una qualche traccia di collegamento tra tali personaggi, ed ancor più per cercare di porre un po’ d’ordine in * Dai Rendiconti dell’Istituto Lombardo (Classe di Lettere e Scienze morali e storiche), vol. 142 (2008), Milano 2009, p. 41 ss. 1 E forse sarà consentito, a comprova e a tacer d’altro, il richiamo alla «Nota» dedicata, nella nostra adunanza del 30 ottobre 1997, al tema Beccaria e il diritto pre miale: vd. nei Rendiconti dell’Istituto Lombardo (Classe di Lettere e Scienze morali e storiche), vol. 131 (1997), cit., p. 281. 2 F. Micardi, Il laureato ad honorem dà lustro, in «Il Sole 24 Ore» del 7 aprile 2003, p. 19. 181 Parte II. Le fattispecie tutto il nostro sia pur breve discorso, sarà il caso di prospettare il quadro giuridico della materia. E ciò ad evitare che si pensi trattarsi di materia sottratta alle regole del diritto, e perciò sottoposta soltanto a beneplaciti, per non dir peggio, di tipo regale, secondo cui tempi addietro si andava dicendo che un sigaro e una croce di cavaliere non si negano a nessuno (beninteso: sempre che, a richiederli, si facesse o si faccia avanti qualcuno che meriti – si fa per dire – una qualche particolare considerazione). L’art. 169 del t.u. della nostra legislazione universitaria, datato 31 agosto 1933 (n. 1259), risulta composto di tre commi. Il primo di essi delinea la fattispecie per così dire sostanziale della laurea ad honorem. Essa – così si era stabilito (e si tratta di espressioni di spiccata caratterizzazione) – «può essere conferita soltanto a persone che, per opere compiute o per pubblicazioni fatte, siano venute in meritata fama di singolare perizia nelle discipline della Facoltà o Scuola per cui è concessa». (E dunque, tra l’altro, aumentando il numero, e non si dice la qualità, delle «discipline» – come molto più tardi è avvenuto – era già scritto che potessero allargarsi anche i campi e le possibilità delle lauree onorifiche). Il secondo comma dell’art. 169 delinea lo schema-base della procedura da adottare (anche i premi trovano la loro legittimazione attraverso le regole procedurali): «La deliberazione del consiglio della Facoltà o della Scuola, che conferisce la laurea ad honorem, deve essere presa con la maggioranza di due terzi dei voti ed approvata dal Ministro – si diceva allora – della Pubblica Istruzione». Dunque: maggioranza qualificata e previa approvazione ministeriale. E si è qui parlato di schema-base, in quanto, per ciò che concerne, invece, il conferimento delle lauree ad honorem a cittadini stranieri, una circolare ministeriale del 13 giugno 1962 (n. 2170) ricordava che sulle proposte di tal genere (e per ragioni ben intuibili) «viene richiesto sempre il parere del Ministero degli Affari Esteri, il quale a sua volta deve interpellare le competenti Rappresentanze diplomatiche italiane all’estero». E per dir sùbito dell’ordine di incidenza di quest’ultima tipologia, ricordiamo – riferendoci ad un periodo di tempo ravvicinato – che, solo nell’arco temporale 2000-2002, secondo dati ufficiali del Ministero del l’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, le lauree concesse agli stranieri sono ammontate al considerevole totale di 193 3, di contro al numero di 3 Per aggiungere un altro tocco realistico al quadro, ricordiamo anche quanto specifica la circolare di cui s’è fatta menzione: «[…] è stato rilevato che alcuni Atenei, 182 9. Le lauree «ad honorem» lauree dello stesso tipo concesse a cittadini italiani, assommanti al totale di 179. Ma anche il non-giurista si può, a questo punto, domandare che cosa avvenga allorquando le regole predette, dell’uno o dell’altro tipo (sostanziale o procedurale), non vengano osservate. Alla risposta provvede, in primo luogo, l’art. 1 di una legge del 1958, l. 13 marzo 1958, n. 262 (di una legge, dunque, che ha piuttosto tardato a venire …) – secondo la quale «Le qualifiche accademiche di dottore, comprese – si noti – quelle honoris causa», oltre a quelle «di carattere professionale» e «la qualifica di libero docente, possono essere conferite soltanto con le modalità e nei casi indicati dalla legge». E dunque, nella nostra ipotesi: indicati dall’art. 169 del citato t.u. La portata del «soltanto» che abbiamo rimarcato è poi resa esplicita, in secondo luogo, dal comma 2° della stessa legge del 1958, che non a caso delinea una specifica figura di delitto: «È vietato il conferimento delle qualifiche di cui all’articolo precedente da parte di privati, enti ed istituti, comunque denominati», i quali operino «in contrasto con quanto stabilito nello stesso articolo»: si vuol dire, con le regole che descrivono l’an e il quomodo del conferimento. Un tale «contrasto» è esplicitamente sanzionato con la pena della «reclusione da tre mesi ad un anno», oltre che con la multa, a suo tempo fissata nelle misure da lire 150.000 a lire 300.000. In forza, però, del principio di stretta legalità che domina la disciplina penalistica, è senz’altro da escludere che la configurazione normativa – la quale fa capo all’operare da parte di «privati, enti ed istituti comunque denominati», nel modo abusivo sottolineato dall’espressione forte: «in contrasto» – possa riferirsi anche all’operare di Facoltà o Scuole universitarie, che «privati» non sono, in difformità alle regole fissate nell’art. 169 del nostro t.u. subito dopo l’invio delle proposte e prima della loro approvazione da parte di questo Ministero ai sensi dell’art. 169 del t.u. 31 agosto 1933, n. 1259, ne informano ufficialmente gli interessati, fissando anche la data della cerimonia per le consegne del diploma di laurea. È evidente che, in casi del genere, si potranno verificare spiacevoli conseguenze, qualora fosse dato parere negativo». Il richiamo alle prassi eccentriche deprecate dalla circolare verosimilmente andava oltre la limitata fattispecie delle lauree per gli stranieri. E ad ogni modo, proprio di recente, si è verificato un caso di diniego, e di inadempienza al medesimo, che ha avuto una certa risonanza sulla stampa: vd. P. Griseri, Alla Ligresti niente laurea ad honorem, in «la Repubblica» del 25 luglio 2007, p. 31; P. Beltramin, Laurea alla Ligresti, scontro tra rettore e ministro, in «Corriere della Sera» del 26 luglio 2007, p. 23. 183 10 le chiamate accademiche «per chiara fama» * 1. – In Italia non abbiamo soltanto i senatori senza elezioni, nominati a vita, e i laureati senza esami, nominati honoris causa. Abbiamo anche il personale docente universitario nominato senza concorsi, ad personam, col sistema delle «chiamate dirette» 1. In tale più ampio contesto assume particolare risalto un capitolo, non nuovo e neanche troppo semplice, di diritto premiale: quello riguardante la chiamata diretta dei professori ordinari per «chiara fama». Prendiamo il discorso un po’ da lontano, e per così dire dall’alto. 2. – Con decreto vicereale 10 marzo 1808, veniva assegnata a Ugo Foscolo la cattedra di Eloquenza all’Università di Pavia: cattedra precedentemente occupata (dal 1802 al 1804) da un altro poeta, Vincenzo Monti. In appoggio a quella candidatura il ministro dell’Interno Luigi Di Breme scriveva che Foscolo è «giovane abbastanza noto nella repubblica letteraria per sommo e raro ingegno, di cui ha dato e dà tuttora luminosi argomenti colle sue produzioni in verso ed in prosa. Il pubblico – così continua il rapporto del ministro – ha giudicato abbastanza de’ suoi talenti e del suo merito in questa parte, per non abbisognare di prove ulteriori» 2. * Da «Soc. del dir.», 2009, n. 1, p. 195 ss. 1 Il reclutamento per concorso nei pubblici uffici, dirà Einaudi – in un messag gio al Parlamento del 1950: vd. Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Torino 1956, p. 210 – si caratterizza per la valutazione comparativa, «insieme col limite prestabilito del numero dei posti da conferirsi». 2 Il rapporto è riferito da Gianfranca Lavezzi, nell’Introduzione al Catalo go della mostra documentaria dedicata ai duecento anni dell’orazione foscoliana 191 Parte II. Le fattispecie 2.1. – Restiamo sempre nello stesso comparto, e, a distanza di mezzo secolo, percorriamo l’itinerario verso il conferimento della cattedra bolo gnese, questa volta in «eloquenza – per dire: letteratura – italiana», al venticinquenne Giosué Carducci. A proporvelo era stato Mamiani – il poeta filosofo delle «magnifiche sorti e progressive» – chiamato da Cavour, nel 1860, a ricoprire la carica di ministro dell’Istruzione. Scrivendone da Torino all’interessato, con lettera 18 agosto 1860, Terenzio Mamiani non nasconde che l’offerta di assegnazione della cattedra era stata in precedenza rivolta al poeta Giovanni Prati, ma che costui, «per ragioni al tutto speciali» aveva opposto atto di rinuncia 3. «Io mi terrei fortunato ed anche un poco superbo – continua quindi la lettera di proposta – se Ella, caro signore, mi concedesse di nominarla a quel posto» 4. E così avvenne, a breve distanza di tempo, in applicazione dell’art. 69 della legge «sarda» del 13 novembre 1859, n. 3725 (più nota come «legge Casati»), che però, per meglio dire – o, se si vuole, per onorare il Re – presentava la seguente formulazione: «Il Ministro [della Pubblica Istruzione] potrà proporre al Re per la nomina, prescindendo da ogni concorso, le persone che per opere, per iscoperte, o per insegnamenti dati, saranno venute in meritata fama di singolare perizia nelle materie cui dovrebbero professare». (26 gennaio - 18 febbraio 2009), intitolato: «Amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra nazione – Ugo Foscolo nell’Ateneo pavese», Pavia 2009, p. 17. Parlando del curriculum del professor Foscolo, la curatrice scrive che esso era del tutto «eccezionale, in quanto la cattedra gli viene conferita – diremmo oggi – per chiara fa ma: la fama però non è data dai titoli scientifici (quasi inesistenti) ma è tutta letteraria, e ad altissimo livello, dall’Ortis ai Sepolcri». 3 P. Bargellini, Giosué Carducci, 3a ed., Brescia 1941, che riporta il testo della lettera – nota 6 di p. 382 – scrive (p. 110) che «il poeta delle Passeggiate Solitarie non si sentiva di durar fatica che non fosse d’amore». E s’accontentava forse – aggiungiamo noi – che sui suoi «teneri versi» alcune creature sensibili, come le coetanee di nonna Speranza, sfogliassero piccole margherite campestri. 4 Il ministro così proseguiva: «Bologna non è certo Firenze, ma è grande città che porta molto meritatamente il titolo di dotta; e il popolo suo è affabile e cordialissimo; a Lei, ne sia sicuro, farebbe festa più assai che al Prati. Oltre l’emolumento di 3000 fr. avrebbe in corto tempo altri mille come Dottore di Collegio; e, ivi promulgata la legge sarda, Ella parteciperebbe alle iscrizioni e alle propine. Da ultimo, Le prometto che cessata la mezza autonomia toscana e cambiata in un largo sistema di libertà per tutti comune, se la Università di Firenze verrà dichiarata governativa, mi darò cura di restituirla alla sua diletta città. Mi dica dunque un bel sì, e mi scusi del ricusare che fo di scrivere al Ricasoli per la cattedra in un liceo fiorentino. Mi creda suo devotissimo T. Mamiani». Secondo quanto riferisce G. Contini, Letteratura dell’Italia unita (1861-1968), Milano 1994, p. 85, il Carducci «ebbe la cattedra di letteratura italiana a Bologna, dove visse fino alla morte, sopraggiunta dopo lunga infermità nel 1907». 192 10. Le chiamate accademiche «per chiara fama» In applicazione della stessa disciplina Giovanni Pascoli, che però aveva avuto esperienze precedenti di incarichi universitari, nel 1905 verrà chiamato a Bologna per coprire, come ordinario di Letteratura Italiana, la cattedra già onorata dall’insegnamento del maestro Carducci 5. La richiamata disciplina normativa del 1859 veniva rifusa, e testualmente riproposta, all’art. 24, comma 1°, nel r.d. 9 agosto 1910, n. 795, col quale si approvava il testo unico delle leggi sull’istruzione superiore. 2.2. – La materia delle nomine dirette senza concorso veniva anni dopo ripresa, e più attentamente disciplinata, nell’art. 17, comma 2°, del r.d. 30 settembre 1923, n. 2102, contenente «Disposizioni sull’ordinamento dell’istruzione superiore», che dava l’avvio alla famosa riforma che prese nome dal ministro Gentile. Si può provvedere alla nomina, prescindendo dalla procedura di cui al comma precedente – questo era il tenore premiale della norma, che sempre poneva l’accento sul prescindere dalle formalità del concorso – quando si tratti di persona non appartenente ai ruoli di professori di università o di istituti superiori, la quale per opere, scoperte e insegnamenti sia venuta – si noti – in sì alta fama di singolare perizia nella materia che dovrebbe professare, da essere considerata «maestro insigne della materia» medesima. Rispetto alle omologhe formulazioni del 1859 e del 1910 si passava, dunque, dalla «meritata fama» all’«alta fama» di «singolare perizia», ed al contempo si prefigurava anche il necessario grado di merito conseguente a quella elevatezza: quello che propriamente si addice a chi può per davvero essere «considerato maestro insigne della materia». Nello stesso comma 2° si aveva poi cura di specificare le modalità procedimentali dell’iter senza concorso accademico: • la «facoltà o scuola» formula la proposta, che «deve essere deliberata col voto favorevole di tre quarti almeno dei professori di ruolo che vi ap partengono e con motivata relazione»; • il ministro sottopone la proposta «al giudizio del Consiglio superiore» dell’Educazione, ed essa ha esito favorevole, con conseguente nomina della persona in discorso al posto vacante, se risulta il voto «di due terzi almeno» dei componenti del Consiglio 6. 5 A tale riguardo vd. Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Milano 1961, p. 803 ss. 6 Nella disciplina dell’istruzione superiore agraria e di medicina veterinaria at tuata col r.d. 30 novembre 1924, n. 2172, per la nomina extra-concorso della persona 193