SOCCORSO
VIOLENZA SESSUALE
Corso di formazione
per operatrici - operatori
addetti al soccorso della donna
vittima di violenza
ATTI
Torino, 25 gennaio 2005
Centro Congressi Villa Gualino
Viale Settimio Severo, 63 – Torino
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Indice
INDICE
PRESENTAZIONE
LA VISITA GINECOLOGICA DOPO VIOLENZA SESSUALE
S. DONADIO- S. ARDUINO
BANDE PERIURETRALI: BANDERELLE CHE CONNETTONO TESSUTI PERIURETRALI AL VESTIBOLO
CICATRICE: TESSUTO FIBROSO NON VASCOLARIZZATO CHE SOSTITUISCE IL NORMALE TESSUTO DOPO LA
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GUARIGIONE DI UNA FERITA
MODELLO ORGANIZZATIVO DEL CENTRO SOCCORSO VIOLENZA SESSUALE E INTEGRAZIONE CON GLI ALTRI SERVIZI
OSPEDALIERI E TERRITORIALI.
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GIOVANNA PASTORE,
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IL RUOLO DELL’OSTETRICA NEL CENTRO SVS
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OSTETRICA DANIELA TESTA
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LA SUPERVISIONE AL SOCCORSO VIOLENZA SESSUALE: IDENTIFICAZIONE, IDENTIFICAZIONE PROIETTIVA E IL MITO
DI NEMESI
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ALVISE ORLANDINI
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“LA PSICOTERAPIA CON LA DONNA VITTIMA DI VIOLENZA SESSUALE. DALLA VIOLENZA ALLA VITA: UNA
TRASFORMAZIONE POSSIBILE”
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SARA RANDACCIO
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LA CONSULTAZIONE CON DONNE VITTIME DI VIOLENZA SESSUALE: L’ESPERIENZA NEL CENTRO SVS
DELL’OSPEDALE S. ANNA, TORINO.
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ALESSANDRA SENA,
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BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
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IL LAVORO SOCIALE IN UN’OTTICA DI RETE
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MICHELA CALABRIA
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ASSISTENZA LEGALE IN CASO DI VIOLENZA: QUALCHE BREVE RIFLESSIONE SULLA LEGGE 66/1996.
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ANNA C. RONFANI,
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“AMBULATORIO DEDICATO” ALL’ABUSO E MALTRATTAMENTO AI MINORI: RIFLESSIONI SU DUE ANNI DI
LAVORO
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FULVIA NEGRO – GEMMA ISAIA
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Presentazione
Il Progetto Obiettivo materno-infantile, relativo al Piano Sanitario Nazionale per il Triennio 19982000, pubblicato con Decreto del Ministero della Sanità del 24 Aprile 2000 e confermato dal Piano
Sanitario Nazionale 2003-2005, prevede le azioni dirette alla Tutela della salute della donna, in tutte
le fasi della vita, secondo principi di “promozione e tutela, appropriatezza ed efficacia, qualità e
sicurezza”. Relativamente alle tematiche della violenza, abusi e maltrattamenti sulle donne, si
prevede l’obiettivo di “prevenire gli episodi di violenza contro le donne e migliorare l’assistenza
alle donne che hanno subito violenza” con le azioni di:
a) Formazione del personale di pronto soccorso e offerta attiva di assistenza
b) Favorire l’emersione del sommerso del fenomeno della violenza.
L’ASO Materno-Infantile O.I.R.M. – S.ANNA ha sviluppato nell’anno 2001 un progetto formativo
di Azione Positiva finanziato dal Ministero del Lavoro ai sensi della L.10/4/91 n° 125, su proposta
del Comitato per le Pari Opportunità, per l’assistenza di donne violate e minori abusati, attraverso
un’organizzazione di servizi in rete.
Nel mese di Maggio 2003 è stato attivato il Centro Soccorso Violenza Sessuale (S.V.S.)
dell’Ospedale S. Anna che costituisce un modello innovativo di organizzazione per garantire
un’appropriata assistenza alle donne vittime di violenza sessuale, fornendo risposte tecnicoprofessionali e relazionali sul piano psico-socio-sanitario, nella fase di emergenza/pronto soccorso e
negli interventi di continuità assistenziale tra ospedale e territorio.
Il valore aggiunto del progetto “soccorso violenza sessuale” è rappresentato dalla cooperazione di
istituzioni pubbliche e private no profit, che “fanno sistema” con l’obiettivo di tutelare la salute
della donna in tutte le fasi della vita, prevedendo sinergie con l’Assessorato alla Sanità,
l’Assessorato alle Politiche Sociali della Regione Piemonte, l’Università degli Studi di Torino, le
ASL, il Comune e la Provincia di Torino, le Associazioni di volontariato, i Comitati Pari
Opportunità, la rete Health Promoting Hospital e la Magistratura.
Il Convegno odierno rappresenta l’innovativa esperienza di integrazione fra diverse professionalità,
per il raggiungimento di un obiettivo di salute, trasferibile ad altre realtà come “best practice”.
Torino, 25 Gennaio 2005
Il Direttore Sanitario
Presidio S.ANNA
(Dott.ssa Grace RABACCHI).
Il Direttore Sanitario
ASO O.I.R.M.- S.ANNA
(Dott. Vito PLASTINO)
IL Direttore Generale
ASO O.I.R.M. –S.ANNA
(Dott.Gianluigi BOVERI)
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La visita ginecologica dopo violenza sessuale
S. Donadio- S. Arduino
Centro SVS Torino
La visita ginecologica dopo una delle esperienze più devastanti e mortificanti che possano capitare ad una donna ha
evidentemente degli aspetti peculiari.
Innanzitutto, a differenza di altre visite, ci troviamo spesso di fronte una donna che non vuol essere visitata e che si
presenta a noi perché accompagnata dalle forze dell’ordine o da conoscenti, perché preoccupata dalle conseguenze e per
svariati altri motivi.
E’ importante quindi capire cosa ha spinto la donna a presentarsi a noi, e da lì partire per rispondere ai suoi bisogni,
cercando di creare un clima che faciliti l’affidamento e spiegandole intanto che faremo altre cose oltre a quelle che lei
chiede, che forse in questo momento possono risultare noiose, ma in futuro possono essere utili. Infatti il nostro
compito è innanzitutto di cura, ma anche di raccolta di prove che possano servire in un eventuale iter giudiziario.
Si compila, scrivendo nel modo più chiaro possibile, una scheda clinica (di cui verrà data copia firmata alla donna).
La scheda deve comprendere le generalità della donna e dei suoi accompagnatori, il nome dell’operatore/i, la data e
l’ora in cui la donna si presenta alla visita.
Si procede quindi a raccogliere il racconto, facendo attenzione a come è accaduta la violenza, se c’è stata penetrazione,
se c’è stato uso di preservativi, se si è lavata successivamente alla violenza, se ha cambiato gli indumenti.
Dopo il racconto si passa al momento delicato della visita. Se ne spiegano tutte le fasi nel modo più chiaro possibile e
dando il tempo alla donna di comprendere affinché possa dare il suo consenso verbale (sia perché è sempre d’obbligo,
sia perché la donna abusata possa ritrovare la sensazione del controllo sul proprio corpo).
Va esaminato tutto il corpo per evidenziare lesioni extragenitali; se si ritiene opportuno si fotografano le lesioni per
avere una ulteriore prova da utilizzare in caso di denuncia.
Mentre la donna si spoglia si deve fare molta attenzione a non perdere eventuali reperti tipo peli, capelli dell’aggressore
o eventuali detriti, foglie, ecc.(se il fatto è avvenuto all’esterno); si può usare a questo scopo un grande foglio di carta
bianca su cui far spogliare la donna.
L’esame ginecologico può essere fatto ad occhio nudo o con colposcopio, con particolare attenzione all’imene e all’ano
(vanno descritte eventuali ferite, presenza di sangue o liquido seminale, ecchimosi, ematomi, fissurazioni, cicatrici);
anche in questa fase si possono fare foto, se significative, ponendo un’etichetta identificativa con il numero della
cartella a fianco alla zona interessata.
Si effettuano poi gli esami per la ricerca spermatozoi ed eventuale tipizzazione DNA; le sedi di prelievo vanno valutate
in base al racconto. Si usano 2 batuffoli per sede: 1 verrà strisciato su 2 vetrini, che verranno poi fissati e mandati nel
nostro laboratorio per la ricerca spermatozoi e batteriologico morfologico(una sorta di pap test); l’altro verrà usato per
strisciare 2 vetrini non fissati da inviare all’istituto di medicina legale.
I batuffoli e i vetrini non fissati dovranno essere asciugati all’aria per almeno 1/2 ora, in seguito verranno messi nelle
apposite provette, etichettati, imbustati in carta e conservati in frigo. Lo stesso dicasi per macchie di saliva, liquido
seminale o sangue sulla cute (in questo caso il batuffolo verrà inumidito con soluzione fisiologica).
Se la donna riferisce di essersi difesa con le unghie, si può procedere allo scraping subungueale, per cui si usano
stuzzicadenti imbustati singolarmente.
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Importante è la catena di custodia dei referti: vengono prelevati (ben conservati ed etichettati) dal Servizio di Medicina
Legale e tenuti per un anno a disposizione della Magistratura, che se riterrà opportuno darà l’incarico ai periti di
estrarre il DNA e confrontarlo con quello dei sospetti.
Se si ritiene opportuno si somministra la contraccezione post-coitale.
In accordo con la paziente si effettuano gli esami infettivologici (batteriologico vaginale e sierologici per lue, epatiti,
HIV, chlamydia).
Importante e tranquillizzante per la donna è la somministrazione della profilassi antibiotica, (per esempio ceftriazione
250 mg i.m. e azitromicina 1g per os in unica somministrazione).
In rari casi, se dal racconto o dalla situazione clinica ci sembra che la donna possa essere stata narcotizzata si eseguono
gli esami tossicologici su sangue e urine ( in doppio, in modo che una delle provette possa essere tenuta a disposizione
della Magistratura).
Se si valuta come ad alto rischio per HIV ( aggressore sieropositivo o appartenente a gruppi a rischio per
sieropositività), si informa la donna della possibilità di eseguire una profilassi post-esposizione, da iniziare entro 72 ore
e da continuare per 4 settimane, molto impegnativa dal punto di vista degli effetti collaterali e di cui i pochi dati
esistenti non possono garantire l’efficacia. Si discute comunque con la donna il problema, facendole leggere e firmare
un foglio di informazioni e consenso / rifiuto.
Si dà poi un appuntamento alla donna per il ritiro esami e per un eventuale colloquio con la psicologa o assistente
sociale. Prima di dimettere la donna si ha cura di verificare l’idoneità della sua situazione abitativa (se è a rischio, se
non ha una dimora…); in casi particolari si può ricorrere al ricovero (esiste un DRG per la violenza sessuale).
Alla fine dell’intervento in emergenza ci si occupa dell’eventuale denuncia all’Autorità giudiziaria.
La denuncia dal centro SVS viene inviata direttamente tramite fax alla Procura (Gruppo Fasce Deboli) e alla Questura
di Torino - Sezione Reati sessuali.
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MODALITA’ OPERATIVE
Donna che si presenta
al medico dopo violenza sessuale
Anamnesi:
-circostanze dell’ aggressione
-modalità della violenza
-cosa è successo dal momento della
violenza alla visita attuale (cambio
indumenti, lavaggi…)
:
Esame obiettivo generale
-Stato di coscienza
-Condizioni fisiche
-Condizioni psichiche
-Descrizione lesioni
-Eventuali foto
Repertazione:
-slip
-vestiti se macchiati
-capelli e peli
-detriti, foglie…
*in base al racconto della donna
ACCOGLIENZA
Esami da effettuare
Visita medica
Esame obiettivo ginecologico:
-grandi e piccole labbra
-perineo
-forchetta
-imene (forma, margini, sangue
ed ecchimosi)
-vagina
-collo
-utero ed annessi
-ano (aspetto bordi , fissurazioni,
sangue, ecchimosi, tono sfintere)
Prelievi per ricerca spermatozoi
e DNA:
-cute
-genitali esterni
-fornici vaginali
-canale cervicale
-ano
-cavo orale
-scraping subungueale
Batteriologico
vaginale
Eseguire profilassi MST(Unica dose):
Es: -Ceftriazone 250 mg (i.m.)
-Azitromicina 1 gr (per os)
EVENTUALE DENUNCIA ALL’ AUTORITA’
GIUDIZIARIA
Ev. Profilassi post
esposizione da HIV
Prelievi ematici:
-Lue
-HbsAg
-HCV
-HIV
-Ab anti Clamidia
Esami tossicologici:
-Urine
-Sangue
-Capelli
Test di gravidanza
Eventuale
contraccezione post
coitale
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Repertazione di materiale biologico
1) Tampone cutaneo (per saliva e sperma) - se non si è lavata
Un tampone inumidito con soluzione fisiologica strisciato sulla cute della regione di contatto segnalata dalla
vittima; poi un altro tampone asciutto strisciato sulla stessa area
2) “Pubic hair combing”
Con pettine pulito pettinare più volte cosi’ da far cadere i peli su carta pulita
3) Tampone genitali esterni – se non si è lavata
2 tamponi strisciati su grandi e piccole labbra
4) Tampone vaginale – entro 10 giorni
2 tamponi strisciati a livello dei fornici
5) Tampone cervicale – entro 10 giorni – solo se riferisce penetrazione vaginale e se ha già avuto rapporti -2 tamponi
nel c.c.
6) Tampone anale – entro 5 giorni
2 tamponi esterni (cute perianale)
2 tamponi interni
7) Tampone orale - entro 24 ore
1 tampone arcata superiore (spazi interdentali)
1 tampone arcata inferiore
8) Unghie – se riferisce di aver graffiato l’aggressore
Scraping subungueale con stuzzicadenti imbustati singolarmente: uno per la
mano sinistra, uno per la mano destra, ognuno in provetta
9) Prelievi di urine e sangue (ev. ciocca di capelli) per determinazioni tossicologiche – se c’è il dubbio che siano state
usate sostanze narcotizzanti per lo stupro.
S
Se si inviano anche in laboratorio: prelievo doppio per la Medicina legale
PROCEDIMENTO
- Con 1 cottonfioc si preleva e si striscia su 2 vetrini: uno va fissato con Citofix e uno va essiccato all’aria; col
secondo cottonfioc si preleva e si fa essiccare.
Il vetrino non fissato e il cotton fioc essiccato saranno da inviare alla Medicina legale per la eventuale tipizzazione
genica.
Il vetrino fissato è destinato al laboratorio dell’ospedale per la ricerca spermatozoi e batteriologico morfologico.
-
I prelievi per la tipizzazione genica vanno eseguiti con guanti sterili e possibilmente mascherina.
-
I reperti per le indagini di Medicina Legale vanno tenuti in frigorifero.
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Sui vetrini si scrive il nome della donna e la sede del prelievo
-
Sui batuffoli e sulla provetta corrispondente va apposta etichetta con nome della donna e sede del prelievo
-
Tutto il restante materiale per la Medicina Legale va imbustato in buste di carta (non plastica) ed etichettato.
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Glossario
Appiattimento delle pliche anali: riduzione o assenza delle pliche anali quando lo sfintere esterno è rilassato
Arrossamento: iperemia locale più o meno associata ad edema
Attenuazione dell’imene: riduzione significativa dell’altezza imenale
Bande periuretrali: banderelle che connettono tessuti periuretrali al vestibolo
Bande perimenali: banderelle che connettono l’imene alla parete vestibolare
Cicatrice: tessuto fibroso non vascolarizzato che sostituisce il normale tessuto dopo la guarigione di una ferita
Discromia: variazione circoscritta di di pigmentazione
Dilatazione anale: apertura degli sfinteri esterno ed interno con minima trazione dei glutei in decubito laterale o genupettorale, che compaia entro 30 secondi, in assenza di feci visibili in ampolla
Ecchimosi: soffusione emorragica sottoepiteliale
Escoriazione: perdita di sostanza superficiale dell’epitelio
Friabilità della forchetta: particolare sottigliezza della cute che determina una estrema facilità alla lacerazione nelle
comuni manovre di trazione
Funneling del canale anale: rilasciamento dello sfintere interno
Ipervascolarizzazione: chiara evidenza della trama vascolare per aumento del numero e/o dilatazione dei vasi
Incisure imenali:
- indentature a forma di “U” (notches) oppure a forma di “V” (clefts)
- incisure che raggiungono la base di impianto dell’imene (transections)
-elevazione di tessuto sul margine imenale (convessità) + largo che lungo
(bump o mound)
-appendice del tessuto imenale/anale più lungo che largo (tags)
Sinechie: adesione tra superfici mucose ed epiteliali
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Modello organizzativo del Centro Soccorso Violenza Sessuale e
integrazione con gli altri servizi ospedalieri e territoriali.
Giovanna Pastore,
Ginecologa consultoriale ASL 3, Torino.
Il Servizio Soccorso Violenza Sessuale (SVS), nato a Torino presso l’Ospedale Sant’Anna il 1° maggio 2003 grazie alla
collaborazione fra ospedale stesso e territorio, ha come obbiettivo principe quello di accogliere, curare e, ove
necessario, prendere in carico la donna vittima di violenza sessuale.
Le peculiarità del centro, rispetto alle modalità di assistenza prestata alla donna violentata in qualsiasi altro servizio di
pronto soccorso, sono molteplici e lo rendono particolarmente adatto sia alla accoglienza sia alla cura successiva della
paziente.
Il personale é adeguatamente formato grazie ad un corso multidisciplinare : è composto da 30 ginecologhe, che
svolgono il lavoro definito di emergenza con reperibilità 24 ore su 24 tutti i giorni dell’anno, e da un team rappresentato
da una psicologa, un’ostetrica, un’assistente sociale e una volontaria del servizio civile che svolgono il servizio
ambulatoriale con ampio orario di apertura . Collaborano con il centro SVS i medici legali della ASL 1, il servizio di
psicologia e le assistenti sociali dell’ospedale Sant’Anna .All’interno del servizio i contatti sono costanti e la
formazione è continua anche grazie alla preziosa collaborazione di uno psichiatra che da anni lavora in questo campo e
che garantisce una supervisione mensile dell’attività del gruppo.
L’assistenza alla donna, sia essa accolta in emergenza sia in ambulatorio, avviene in un piccolo locale adibito
unicamente al servizio SVS dove è possibile dedicarle tutto il tempo di cui ha bisogno senza
dovere inserire
l’intervento fra l’accettazione delle partorienti e delle donne con emergenze ginecologiche di altro tipo.
La raccolta delle informazioni e dei dati relativi alla violenza nonché del materiale biologico viene svolta secondo un
preciso protocollo, stilato con la collaborazione dei medici legali, degli anatomo-patologi e dei biologi, allo scopo di
potere raggiungere, per ogni singolo caso, il miglior risultato possibile sia per la salute della paziente sia per
l’identificazione dell’aggressore.
Il lavoro del gruppo non si limita a soddisfare le necessità di cura e di accoglienza della donna al momento
dell’aggressione ma prosegue in tempi successivi con il personale ambulatoriale, che si occupa sia di valutare e
consegnare gli esami , affiancato ove ce ne sia bisogno dalla ginecologa di turno, sia di individuare l’opportunità caso
per caso di un supporto psicologico e/o sociale. Sono ben poche infatti le donne in cui la violenza subita non comporti
successive implicazioni morali e psicologiche e ancora più rare sono quelle che si sentono in grado di superarle da sole
o con il solo supporto di parenti ed amici. In molti casi al contrario la violenza sessuale non rappresenta altro che la
punta dell’iceberg di situazioni familiari, sociali e comportamentali ad alto rischio, che vanno, ovviamente, valutate in
tutta la loro complessità.
Nella casistica raccolta da maggio 2003 a novembre 2004 , 30 donne sulle 97 accolte dal servizio SVS risultavano già in
carico presso altri servizi ( SER T, Centri di salute mentale, Neuropsichiatria infantile, Servizio di psicologia e
psicoterapia territoriale , Servizio sociale territoriale, Associazioni di volontariato, Ufficio stranieri, Comunità). Questo
dato estremamente significativo sta ad indicare che le donne che subiscono violenza sessuale sono molto spesso
“vittime designate”.
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Fra le 67 utenti rimaste 38, che fino a quel momento non risultavano in carico ad altri servizi, hanno richiesto o hanno
accettato l’aiuto del team di supporto e sono attualmente seguite dal personale ambulatoriale del servizio SVS in
collaborazione con le psicologhe e le assistenti sociali dell’ospedale : rappresentano le nostre “cartelle aperte” .
Altre 16 sono state inviate alle omologhe strutture ambulatoriali di territorio in quanto la complessità e soprattutto la
multifattorialità delle problematiche richiedevano un intervento a lungo termine integrato fra più servizi insostenibile in
ambito ospedaliero.
Le restanti 11 donne (circa il 10%) non sono attualmente più in carico al servizio e non se ne hanno più tracce, ma la
maggior parte di queste non si è presentata ai successivi appuntamenti più per problemi legati alla illegalità della
propria situazione o al timore di implicazioni legali che non per effettiva autonomia emozionale.
Risulta evidente da quanto esposto fino ad ora che le possibilità di funzionamento appropriato del servizio SVS
dipendono strettamente dalle possibilità di stabilire una rete di collaborazione che preveda un corretto invio in andata e
in ritorno della vittima di violenza in quanto il numero di donne che esaurisce il proprio bisogno nell’ambito dell’
intervento in emergenza e cioè nell’immediatezza dell’episodio violento è molto esigua. Questa constatazione deve far
pensare a quanto inadeguato sia limitare il soccorso alla mera cura del danno fisico, come peraltro si è sempre fatto
sino a maggio 2003 anche nella nostra città, salvo illuminate eccezioni.
Le donne vengono inviate al centro SVS attraverso le modalità più disparate: in emergenza giungono per lo più inviate
da altri pronto soccorsi della città o della cintura o scortate dalle forze dell’ordine, mentre in ambulatorio si presentano
in genere accompagnate da familiari, amici o compagni di scuola: alcune arrivano sole. In molti casi si sono già lavate e
cambiate eliminando quindi molte tracce utili alla identificazione degli aggressori : purtroppo è impensabile riuscire
ad impedirlo perché uno dei sentimenti comuni di queste persone è proprio il desiderio di cancellare dal proprio corpo i
segni dell’aggressione: molte continuano a dire di sentirsi sporche e non c’è sapone, spugna o profumo sufficiente a
farle sentire meglio . A volte però il problema nasce proprio nelle altre strutture ospedaliere dove le donne vengono
visitate e trattate impropriamente rendendo poi difficile se non impossibile, una volta giunte presso il nostro servizio,
una corretta applicazione del protocollo dei prelievi biologici . E’ sicuramente possibile evitare questi disguidi sia
inviando subito la vittima di violenza presso il centro SVS senza sottoporla ad alcun accertamento, sia , ove la paziente
non possa o non voglia venire trasferita altrove, applicando il più fedelmente possibile la procedura corretta che il
servizio ha già da tempo provveduto ad inviare presso le sedi di tutti i pronto soccorsi cittadini e della cintura. Nei
piccoli centri o nei momenti di grande afflusso è sicuramente difficile compiere correttamente tutta la procedura, che,
come si è detto richiede tempo e accuratezza, ma in realtà sarebbe sufficiente eseguire alcuni prelievi ematologici e
vaginali nei punti indicati e conservarli in frigorifero con i dati della donna e l’indicazione del tipo di materiale
prelevato. Quanto raccolto potrà poi con tutta calma essere inviato al centro SVS innescando la corretta catena di
custodia. E’ probabile che alcuni colleghi si siano ingiustificatamente spaventati di fronte al protocollo previsto il
quale, in realtà, dovrebbe essere di facile esecuzione per un ginecologo, così come la somministrazione della terapia
antibiotica adeguata e della contraccezione post-coitale. E’ auspicabile che la necessità di collaborare attivamente con
il servizio SVS sia recepita dai colleghi delle altre strutture come il sistema più valido per aiutare la donna violentata
mentre spesso l’iniziativa personale, sia pur dettata dalla pietà e dal desiderio di alleviare il disagio, può al contrario
arrecarle danno.
Altrettanto importante è la possibilità di stabilire una rete “in uscita” verso il territorio di appartenenza della vittima sia
con le strutture pubbliche sia con le associazioni di volontariato ( SERT, NPI, servizi psichiatrici, comunità, assistenti
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sociali, servizi legali, etc.) su percorsi prestabiliti e di rapida utilizzazione al fine di garantire una presa in carico a
lungo termine in continuità con il lavoro iniziato presso il servizio ambulatoriale del centro SVS e dell’ospedale.
Questo passaggio è molto semplice quando la donna era già seguita sul territorio prima dell’episodio di violenza
sessuale, ma diventa complicato e soprattutto gravato da lunghi tempi di attesa quando deve essere iniziato ex novo. C’
è bisogno quindi di creare delle vie preferenziali che garantiscano la continuità terapeutica altrimenti si rischia di
vanificare il lavoro già fatto e di perdere “l’aggancio”, spesso faticosamente ottenuto, con le vittime. E’ proprio
l’emergenza infatti che crea nella donna il bisogno e quindi la disponibilità ad essere seguita ed aiutata, ma
successivamente mille elementi (la vergogna, la paura delle conseguenze, il desiderio di dimenticare, le pressioni
familiari ed amicali) la possono indurre ad abbandonare tutto,e questo accade tanto più quanto più la violenza si è
sviluppata in un ambiente familiare o sociale a rischio.
La nostra speranza è che le strutture cittadine che hanno voluto la nascita di questo centro continuino ad appoggiarlo in
modo che possa diventare a tutti gli effetti un servizio dotato di personale stabile e solidamente integrato con gli altri
ospedali e con il territorio.
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Il ruolo dell’ostetrica nel centro svs
Ostetrica Daniela Testa
Aso Oirm-S. Anna
Proviamo solo per un attimo ad immaginare lo stato d’animo di una donna che ha subito violenza sessuale:
sentimento di rabbia, impotenza, dolore, paura, sfiducia verso gli altri.
Da qui comprendiamo l’importanza di un’assistenza adeguata dal punto di vista ostetrico-ginecologico, psicologico e
sociale.
Analizziamo brevemente quali sono le reali richieste delle donne per poter così meglio comprendere qual è il
nostro ruolo.
Prima di tutto per la donna vittima di abuso sessuale è molto importante che tutto ciò che viene detto tra lei e l’operatore
sia confidenziale. Giunta in un luogo dedicato, che trasmetta sicurezza, desidera essere accolta e valutata da uno staff
specifico per l’argomento, appositamente formato.
E non meno importante delle altre, la donna richiede flessibilità e collaborazione tra i diversi dipartimenti ospedalieri e i
servizi territoriali, questo per evitare inutili ripetizioni. In ultimo, è molto importante per la donna che le informazioni
inerenti al caso passino tra gli operatori stessi del Centro.
A fronte di queste richieste, adotteremo determinate procedure, partendo dall’accoglienza, momento
fondamentale di tutta la presa in carico.
Innanzitutto l’accoglienza deve essere svolta in un ambiente dedicato, confortevole, che faccia sentire la donna protetta.
Il personale che accoglie la donna sarà specifico, appositamente formato, attento all’ascolto, lontano da ogni tipo di
pregiudizio, che lasci i propri spazi alla donna, al suo racconto, al pianto, al silenzio.
Durante l’accoglienza, la comunicazione dovrà avere dei caratteri ben precisi. È molto importante in tale sede
invogliare la donna al dialogo, enfatizzando il suo coraggio ad averne parlato. Occorre accettare il racconto della
vicenda rispettando i tempi della donna, senza fretta, senza pregiudizi, perché basterebbe una minima smorfia per
interrompere il dialogo e far sentire la donna giudicata. È altrettanto importante informarla che lo shock, l’ansia, la
paura e i sentimenti che si scatenano in lei sono aspetti normali derivanti da un episodio di tale gravità. Quindi ribadire
alla donna che ciò che le è accaduto è molto grave e doloroso, ma lei ha avuto un enorme coraggio a parlarne e a farsi
aiutare.
Quello che uno staff multidisciplinare presente in un Centro SVS può dare è un aiuto dal punto di vista sanitario, ma
anche psicologico e sociale, che permette alla donna di riappropriarsi del proprio corpo già toccato ed invaso contro la
propria volontà. Proprio per questo motivo è estremamente importante informarla affinché possa dare consenso verbale
circa tutte le pratiche sanitarie e non, spiegandole in tutte le fasi.
Rispetto alle donne straniere che giungono al Centro, per far sì che le informazioni arrivino chiare e semplici sulle
procedure attuate, si sta lavorando, con l’aiuto delle mediatrici culturali del Presidio Ospedaliero OIRM-Sant’Anna ,
alla stesura di un opuscolo informativo sul Centro in diverse lingue.
Passiamo ora agli interventi a lungo termine (follow-up), momenti, questi ultimi, durante i quali la donna
partecipa al counselling, alla terapia medica e ai controlli sierologici, oltre che ai colloqui psicologici e sociali.
Fondamentale assicurarsi che abbia i riferimenti opportuni a cui rivolgersi.
Durante questi incontri, l’ostetrica spesso diviene figura di riferimento perché già conosciuta in occasione
dell’accoglienza o in precedenti appuntamenti, rispetto alla turnazione delle ginecologhe.
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Questi spazi diventano a volte occasioni per riportare dubbi, problemi, curiosità soprattutto da parte delle adolescenti.
All’interno del Centro S.V.S. di Torino, dove ruotano circa 30 ginecologhe reperibili 24 h su 24, l’ostetrica fa da tramite
rispetto alla presa in carico della donna. Trasmette quindi le informazioni da un controllo all’altro, alle ginecologhe che
di volta in volta vedono la donna.
Il ruolo dell’ostetrica in un Centro SVS non è uguale in altre parti d’Europa e nel Mondo. In America, per
supportare le sempre più numerose donne vittime di violenza sessuale, si è assistito intorno agli anni ’90 a cambiamenti
rivoluzionari rispetto all’accoglienza e alle cure delle vittime.
Innanzitutto si è abbandonato un approccio “tradizionale” effettuato al Pronto Soccorso, consistente in una rapida
intervista medica e un esame pelvico effettuato attraverso una grossolana ispezione visiva dei traumi genitali e non.
Un secondo aspetto è la multidisciplinarietà: la donna non è accolta dal medico di turno in accettazione, ma da un vero e
proprio team di approccio alla violenza sessuale.
Una figura che emerge è quella della SANE (sexual assault nurse examiners): è un’infermiera specializzata in medicina
legale (le ostetriche non sono distribuite in maniera omogenea sul territorio!).
Il suo ruolo:
• essere comprensiva, obiettiva nell’esame fisico sul corpo della donna e nella raccolta di tutte le prove appropriate;
• documentare in modo succinto ma completo tutti i ritrovamenti fisici in una forma medico-legale;
• assicurare che la donna effettui adeguati follow-up;
• possedere i necessari requisiti e le conoscenze per fornire la propria testimonianza in aula di tribunale, se chiamata
a deporre;
• stendere un’eventuale denuncia d’ufficio, laddove sussistano i termini.
Se volessimo traslare la realtà americana con quella del nostro Paese, si potrebbe pensare ad una formazione delle
ostetriche fin dal Corso di Laurea in Ostetricia sulla tematica dell’abuso sessuale. L’ostetrica attraverso le sue
competenze e i mezzi disponibili è in grado di valutare e individuare le condizioni della persona assistita, quindi
effettuare gli esami, raccogliere materiale biologico e analizzare la situazione dal punto di vista forense.
Il personale clinico molto spesso può sentirsi frustrato e inadeguato nel trattare le donne vittime di abusi, quindi è
estremamente fondamentale la creazione di una rete di assistenza composta da personale qualificato e preparato con
corsi di formazione specifici.
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La supervisione al Soccorso Violenza Sessuale: Identificazione,
identificazione proiettiva e il mito di Nemesi
Alvise Orlandini
Medico psichiatra, Milano
Introduzione - abstract
Lo scopo della supervisione in un Soccorso Violenza Sessuale è quello di permettere una adeguata comprensione delle
emozioni della paziente e dell’impatto emotivo, a volte traumatico, di queste sulla ginecologa al fine di stabilire una
alleanza terapeutica. Questa comprensione avviene attraverso l’affinamento della capacità di identificazione nella
vittima. Nel presente lavoro viene affrontato il rapporto tra identificazione e violenza sessuale in tre livelli successivi di
relazione: 1. L’abusatore e la vittima 2. La vittima e la ginecologa 3. La ginecologa e il gruppo di Supervisione. Inoltre,
per approfondire la nostra comprensione farò riferimento ad un mito riguardante uno stupro: quello di Zeus e Nemesi.
La supervisione
Le finalità della supervisione sono: 1. Aumentare la comprensione delle emozioni della paziente; 2. Aumentare la
comprensione delle reazioni emotive della ginecologa; 3. Offrire uno spazio di elaborazione per la traumatizzazione
secondaria. Date queste caratteristiche una supervisione è indicata in tutte quelle relazioni terapeutiche dove il/la
paziente manifesta delle emozioni di particolari intensità e drammaticità. Quindi può essere utile in un Soccorso
Violenza Sessuale ma anche in un reparto di pazienti con patologie particolarmente gravi che conseguentemente
inducono un potente coinvolgimento emotivo. Concretamente una supervisione è composta da un supervisore con una
formazione psicodinamica e da un gruppo: i membri del gruppo espongono a turno un caso clinico e le difficoltà nella
relazione con la paziente. È importante ricordare che l’esposizione del caso clinico è anche una esposizione molto
personale della ginecologa che presenta sia le difficoltà contingenti, che quelle eventualmente riattivate dalla violenza.
Il risultato finale da conseguire è una buona alleanza terapeutica, o almeno, la migliore possibile in quelle circostanze,
affinché la paziente possa fiduciosamente esporsi e possa altrettanto fiduciosamente accettare il progetto terapeutico che
le viene offerto. Questo è possibile affinando la capacità di entrare in una relazione empatica, di identificarsi o in parole
povere di mettersi nei panni della vittima di violenza. E’ una prospettiva non facile e poco attraente, quella di entrare in
panni lacerati o insanguinati con ancora tracce di una intimità non cercata.
Cos’è dunque l’identificazione?
Il concetto di identificazione
Il concetto di identificazione può essere considerato un elemento chiave per la comprensione dell’abuso sessuale. Come
affermava Freud (1921) l’identificazione è la prima manifestazione di una relazione affettiva dove il soggetto, il
bambino, desidera essere simile ad un modello idealizzato, il padre. Può essere il sostituto regressivo di una relazione
con un oggetto investito libidicamente e può anche riguardare aspetti parziali dell’oggetto. Freud distingueva tra
un’identificazione primaria, intesa come una condizione che preesiste la creazione di uno stabile confine tra il Sé e le
rappresentazioni dell’oggetto, e un’identificazione secondaria, nella quale il confine tra le rappresentazioni non è perso
ma il soggetto incorpora nella rappresentazione del Sé attributi (reali o fantasticati) dell’oggetto (Sandler e Perlow,
1987). In questo lavoro non considererò l’identificazione nel suo significato evolutivo riferito al rapporto tra un
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bambino e il genitore, quanto piuttosto come un fenomeno tra un soggetto ed un oggetto, cioè tra la ginecologa o
l’assistente sociale e la vittima, fenomeno in grado di diminuire la distanza. Secondo questo prospettiva mi rifaccio a
Greenson (1974 p.306) che considera l’identificazione come l’elemento centrale dell’empatia che significa condividere
e sentire la qualità ma non l’intensità delle emozioni e dell’esperienza di un altro essere umano. È un fenomeno
preconscio, parziale e temporaneo che può essere attivato o fermato consciamente. La finalità dell’empatia e
dell’identificazione è raggiungere una intima e profonda comprensione da dentro anche ad un livello preverbale.
L’origine dell’identificazione è nel rapporto madre – bambino ed è stato descritto nei termini di “holding” (Winnicott,
1975, p.181) e “reverie” (Bion, 1970, p.178). La possibilità di raggiungere una vera identificazione è il primo e
imprescindibile passo verso un’alleanza terapeutica ed una relazione terapeutica. Quello che interferisce ed ostacola
l’identificazione produce distanza dal paziente: questo è precisamente l’oggetto del presente lavoro. Secondo Wilson e
Lindy (1994) ci sono due modalità estreme di reazione nella reazione con una vittima di violenza: l’evitamento o
l’iperidentificazione. Prima di vedere all’opera questi due meccanismi è interessante notare come nella violenza
sessuale ci sia una totale assenza di identificazione nell’altro.
I livello: l’abusatore e la vittima: la violenza sessuale come assenza di identificazione.
L’analisi dei diversi tipi di relazioni di abuso è al di là dello scopo del presente lavoro. Considererò solo un aspetto
fondamentale: la qualità narcisistica dell’abuso sessuale. Come emerge in molti studi, una delle dinamiche centrali è la
mancanza di identificazione, empatia e considerazione tra l’abusatore e la vittima. Quando, ad esempio, l’abusatore è un
adulto sostiene con convinzione che l’abuso non sua dannoso, che il bambino partecipa volentieri a certi giochi sessuali
perché sono solo un modo innocente di divertirsi o di scambiare effusioni. Molti abusatori adulti sostengono che se il
bambino non avesse voluto quei rapporti sessuali avrebbe potuto semplicemente dire “no”, proiettando sul bambino una
assertività matura. Spesso, solo chiare espressioni di dolore da parte del bambino sono in grado di fermare l’adulto.
Quando invece non c’è seduzione ma violenza e crudeltà come nei pazienti perversi sadomasochisti, l’assenza di
identificazione è ancora più estrema: l’abusatore trae piacere nel ridurre l’altro alla condizione di “oggetto sé”
funzionale esclusivamente ai suoi piaceri. La vittima cade sotto il controllo onnipotente dell’abusatore e i suoi desideri
e sentimenti sono negati. Il verificare nello sguardo della vittima il terrore e la paura di morire diventano l’eccitante
conferma del potere di vita e di morte dell’abusatore sulla vittima. La vittima viene sedotta o costretta nella mortificante
condizione di oggetto sé dell’altro, diventando una cosa non umana in balia del gioco privato dell’abusatore.
II livello: le difficoltà di identificazione nella relazione medico-paziente.
La capacità di raggiungere una profonda identificazione è un obiettivo fondamentale in qualsiasi tipo di relazione
medico paziente ma in certe condizioni estreme può diventare molto difficile e la supervisione offre un aiuto
fondamentale. All’SVS arrivano molti casi la cui violenza, crudeltà o perversione supera di molto quello a cui siamo
abituati nei nostri studi privati di psicoterapeuti. Per creare la miglior relazione possibile con il paziente, il medico
dovrebbe essere in grado di svuotare la sua mente per raggiungere la condizione ideale di “senza memoria e senza
desiderio”, come descritta da Bion (1967), per dare spazio al paziente e questo compito può essere molto difficile
specialmente nell’arco di pochi incontri. Quando ci imbattiamo nell’abuso sessuale gli aspetti inconsci sono
estremamente potenti e possono interferire con lo sforzo di raggiungere una buona identificazione con la vittima.
II a L’identificazione come comprensione dei bisogni del paziente: la difficoltà di avvicinarsi (o reazione di
evitamento)
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Un’immagine comune della vittima di abuso sessuale è quella, ad esempio, di una donna normale che cammina per la
strada di giorno e viene improvvisamente aggredita e violentata da un criminale sconosciuto. Quest’immagine può
essere un luogo comune tra non esperti e può soddisfare il bisogno di creare una chiara distinzione tra una donna, con
relazioni mature e gratificanti, un oggetto buono interno, e un sufficiente livello di autostima da un lato, e un criminale
dall’altro. In questo caso ci aspettiamo che la vittima possa accettare tutti i tipi di aiuto che possiamo offrire: aiuto
medico, ginecologico, psicoterapia a breve o lungo termine, aiuto legale e così via o che la vittima esprima solo alcune
emozioni come dolore, rabbia, disperazione, ecc., ma non altre.
Ma sappiamo che quello che succede è molto diverso: le statistiche dimostrano che circa il 60% degli abusatori
era conosciuto e che di fronte agli abusatori sconosciuti le vittime mostravano una grave incapacità a riconoscere il
pericolo a causa di trascuratezza o abuso nel passato. Questo significa che il loro mondo interno è molto diverso come
pure la capacità di ricevere oggetti buoni. Perciò quando incontriamo una vittima di abuso dobbiamo aspettarci di
provare per la paziente sentimenti negativi ed inattesi. Ecco un esempio.
Una ginecologa era stata molto colpita da una ragazza di 15 anni che era stata violentata e picchiata da un
uomo di 55 anni. Si conoscevano da mesi. La ragazza aveva raccontato di averlo conosciuto davanti ad un negozio:
l’uomo le aveva detto di essere un pittore e le aveva chiesto se voleva fare da modella. Lei aveva accettato ma ben
presto la relazione si è trasformata in una specie di prostituzione: la ragazza veniva pagata per masturbarlo o praticare
sesso orale. Un giorno lui aveva preteso di avere dei rapporti per strada in modo da essere visti dai passanti ma lei si era
rifiutata. Lui si era arrabbiato e alla fine l’ha violentata. La ginecologa si era impressionata perché la ragazza non aveva
assolutamente bisogno di denaro né provava alcun sentimento per lui e, soprattutto, parlava di sesso in un modo molto
concreto, freddo, senza emozioni: “lo prendo solo in bocca per cinquantamila lire”. La ginecologa si era sentita a
disagio e distante dalla paziente ed era preoccupata e spaventata per il suo futuro. Si era resa conto che questi sentimenti
negativi frenavano il suo sforzo di aiutare la paziente. Essere stata violentata non sembrava il suo problema principale:
quello che era sconcertante era come questa quindicenne cercasse attivamente la conferma del suo potere di sedurre
attraverso la prostituzione.
II b Identificazione come “potrebbe succedere anche a me” la paura di avvicinarsi troppo: iniziale
iperidentificazione e poi evitamento.
Le reazioni emotive degli operatori di fronte alla violenza sessuale possono essere molto diverse e possono essere
grossolanamente immaginate come un continuum tra due polarità estreme. Ad un estremo c’è la reazione di orrore per
la crudeltà , la perversione della violenza che tuttavia può essere attenuato dalla percezione degli aspetti masochistici
che hanno portato la paziente ad esporsi alla violenza. Questa percezione può essere inconsciamente cercata e
diminuisce l’ansia perché protegge da una disturbante identificazione come a dire “questa donna, abusata nella sua
infanzia, ha inconsciamente cercato il pericolo o non lo ha riconosciuto comportandosi perciò diversamente da come
farei io o mia figlia: noi non cammineremmo mai in quella strada di notte”. All’altro estremo la violenza induce una
forte reazione emotiva a causa dell’intensa identificazione della ginecologa (o di sua figlia ad esempio) con la vittima.
Questo si verifica quando la vittima è un bersaglio assolutamente casuale, il che è abbastanza infrequente. In questa
condizione il ruolo terapeutico è improvvisamente disturbato e l’identificazione diminuisce per la repentina e
angosciante percezione di poter essere una vittima potenziale che vive nella stessa città, commina o guida di giorno o di
notte in luoghi non così pericolosi proprio come ha fatto la vittima
L’esempio che segue descrive il cambiamento emotivo del gruppo durante la discussione di un caso clinico.
L’assistente sociale racconta la storia di una ragazza di 27 anni che era andata in discoteca con un’amica per festeggiare
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il suo nuovo lavoro che aspettava da tempo e che avrebbe cominciato pochi giorni dopo. Fuori dalla discoteca dei
ragazzi in un’auto le avevano chiesto delle indicazioni stradali. La ragazza si era avvicinata alla macchina e
improvvisamente è stata strattonata dentro la macchina, rapita e violentata da due dei ragazzi. Dopo lo stupro l’hanno
lasciata nuda in una strada lontana e periferica; successivamente un passante in macchina l’ha riportata a casa. La
reazione emotiva del gruppo era stata attivata sia dalla violenza e dalla crudeltà contro la vittima, ma anche dal fatto che
sembrava una circostanza assolutamente normale che sarebbe potuta capitare praticamente a chiunque. Questo ha
provocato una reazione del tipo “ma allora siamo tutte circondate dal pericolo!”. Ulteriori informazioni sulla dinamica
dello stupro hanno modificato il clima emotivo: verso le due di notte l’amica aveva deciso di tornare a casa e la ragazza
era rimasta sola in discoteca fino alle quattro del mattino bevendo molto. Questa discoteca non è un luogo pericoloso
ma è abbastanza periferica e la strada è malfamata. Inoltre la ragazza si era esposta al pericolo molte altre volte: aveva
girato l’Europa facendo l’autostop anche di notte accettando passaggi anche da camionisti, sempre convinta che sarebbe
stata in grado di gestire la situazione e tenere il pericolo sotto controllo. Queste ulteriori informazioni hanno modificato
l’immagine della ragazza nel gruppo. Da vittima assolutamente casuale di criminali era diventata una vittima che si era
inconsciamente esposta al pericolo pensando di controllarlo, diversamente da come altre donne si sarebbero comportate.
Questo “diversamente” aveva prodotto una diminuzione dell’angoscia ma anche dell’identificazione con la vittima.
II c Identificazione e colpa: il rischio della proiezione o l’iperidentificazione
Succede molto frequentemente che vittime adolescenti o adulte esprimano vergogna e colpa per essere state violentate.
Spesso dicono “è colpa mia! Avrei dovuto saperlo … come ho potuto essere così stupida”. Agli occhi della ginecologa
o dell’assistente sociale è abbastanza evidente che non c’è nessuna colpa e che la responsabilità è totalmente
dell’abusatore. Nel tentativo di offrire sollievo al dolore da una condanna morale e auto accusa, la ginecologa potrebbe
dire: “non è colpa tua: sei solo la vittima di un criminale”. Anche se detto con la migliore delle intenzioni, questa
affermazione potrebbe esprimere la proiezione di un pensiero del medico che potrebbe essere “sono sicura che non hai
fatto assolutamente niente perché questo accadesse” con l’aspettativa che la paziente abbia lo stesso funzionamento
psicologico maturo. In questo caso non c’è identificazione ma proiezione che potrebbe portare la paziente a sentire
inconsciamente che la ginecologa si prenderebbe cura di lei solo se lei non avesse avuto alcuna responsabilità nello
stupro, altrimenti la ginecologa potrebbe ritrarsi dalla relazione condannando la paziente. Inoltre la percezione di un
ruolo attivo può essere molto utile perché la vittima può rendersi conto che avrebbe potuto comportarsi diversamente
per proteggersi, come riconoscere i segnali di pericolo. È molto difficile evitare giudizi e anche dire “sei innocente” può
limitare la relazione. Un atteggiamento non giudicante potrebbe essere “in questo momento non importa se hai avuto
una qualche responsabilità; potrebbe anche essere – e purtroppo a volte succede – ma in ogni caso desidero aiutarti e
prendermi cura di te e del tuo corpo”.
II d Assenza di identificazione e presenza di identificazione proiettiva.
Il bisogno narcisistico e sadomasochistico di esercitare potere e controllo sulla vittima mediante lo stupro deriva da
inconsci sentimenti di impotenza e svalutazione, da un senso di vuoto o di morte. Come sostiene De Masi (1999).
“Anche se l’ambito delle azioni nella perversione si limita alla sfera della sessualità, l’eccitamento non deriva da una
forma primitiva di sessualità, ma piuttosto dall’idea del potere senza la quale non verrebbe mai mobilitata alcuna
sessualità perversa” (p.128) che conduce ad una forma di “orgasmo mentale” (p.159).
Risulta chiaro dunque che non c’è se non in minima parte un intento sessuale , mentre è determinante il
bisogno di dominio e di potere che può essere raggiunto attraverso la deumanizzazione della vittima, trasformandola in
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un oggetto senza significato. Molto spesso questo impulso distruttivo deriva da un clima di freddezza, indifferenza e
trascuratezza. Lo stupro può essere una modalità concreta di agire la scarica di questi sentimenti inaccettabili e
intollerabili in modo da garantire un folle e crudele equilibrio nel violentatore. Un modello utile per capire l’esperienza
di essere violentate può essere il seguente: la vittima diventa il contenitore dei sentimenti negativi di cui il violentatore
deve disfarsi attraverso una drammatica “infezione psichica”. Nella relazione con la ginecologa o l’assistente sociale è
la paziente che comunica quest’atmosfera deumanizzata di assenza di significato derivante dallo stupro. L’esposizione
protratta a questi sentimenti di impotenza, deumanizzazione e indifferenza può “intossicare” il medico e causare col
tempo una sindrome da burn-out o traumatizzazione vicaria. Un modello utile per capire questa dinamica è il concetto
di identificazione proiettiva, come descritta da Bion (1970) con un ulteriore e specifico aspetto. In questo contesto
l’introduzione di parti inaccettabili e non elaborate avviene in modo concreto attraverso la penetrazione. Possiamo
ipotizzare che questi sentimenti di impotenza e di vuoto sono simili agli elementi beta (secondo la terminologia di Bion)
nella psiche del violentatore, un prodotto grezzo e non elaborato che deve essere scaricato nella vittima attraverso una
penetrazione concreta. Questi elementi beta agiscono nella psiche della vittima come un virus molto disturbante che
interferisce con il funzionamento mentale. Il violentatore spesso tiene la vittima prigioniera dominandola e
controllandola proprio come nell’identificazione proiettiva il soggetto controlla inconsciamente l’oggetto, che diventa il
depositario della proiezione. Sappiamo come è difficile offrire un adeguato contenimento all’esperienza di essere
violentate, che speso porta al suicidio, e di quanti possano essere distruttivi i danni alla psiche. Questi sono sentimenti
che la ginecologa e l’assistente sociale spesso incontrano e da cui sono contaminate. Portano questi sentimenti nel
gruppo chiedendo aiuto e comprensione.
III livello: l’identificazione tra la ginecologa e il gruppo della Supervsione.
L’identificazione è ancora una volta l’elemento terapeutico da parte del gruppo per l’operatrice disorientata. Come detto
prima, vengono effettuati solo pochi incontri con la vittima e in condizioni particolarmente stressanti ben lontane dal
nostro comodo setting analitico: di giorno o di notte, con parenti angosciati o poliziotti incombenti, ecc. Dopo turni
gravosi molte ginecologhe hanno fatto commenti come “perché devo passare le mie notti in questo modo anziché
pensare a rilassarmi? Voglio comprarmi qualcosa di lussuoso o andare al mare e dimenticare tutto”. Bisogna occuparsi
di molte problemi diversi: cercare di essere una ginecologa o assistente sociale competente, cercare di avere una buona
comprensione psicologica, effettuare la denuncia d’ufficio nei casi richiesti, verificare che l’ambiente di provenienza
della vittima sia sufficientemente sicuro e così via. Succede spesso che l’operatrice non sia soddisfatta di come sono
andate le cose e il ruolo del gruppo nelle riunioni settimanali o nelle supervisioni mensili è di fondamentale importanza.
Il più delle volte il gruppo ha un atteggiamento molto caldo, supportivo e rispettoso cercando di comprendere al meglio;
non giudica ma offre utili indicazioni e suggerimenti. È importante che l’operatrice non si senta freddamente criticata
ma che invece possa sperimentare che fa parte di un gruppo di pari altamente motivato.
Ecco un esempio. Una ginecologa si era sentita a disagio nel rapporto con un giovane ventenne omosessuale che
era stato violentato da un uomo conosciuto in un club gay. Inizialmente il paziente aveva molto apprezzato essere
visitato con un’attenzione così rispettosa, gratificato dagli aspetti passivi della visita medica. Successivamente la
ginecologa aveva posto il problema della denuncia d’ufficio: il paziente aveva reagito in un modo aggressivo e
svalutante: “Non riesci proprio a capirmi! Sai cosa vuol dire essere violentati! Non sorprenderti se mi succede qualcosa
di brutto”. Dopo questo colloquio la ginecologa aveva pensato: “non voglio più vederlo … anzi, farò di meglio,
smetterò di lavorare qui!”. Il gruppo si era reso conto di quanto era difficile la relazione con questo giovane e aveva
condiviso il disagio e la rabbia. In supervisione sono state analizzate le dinamiche masochistiche e narcisistiche del
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paziente e questo ha permesso alla ginecologa di sentirsi meno isolata e meno lontana da quello che una collega esperta
e idealizzata avrebbe fatto, e disse “che strano! Ora ho un’immagine diversa e sentimenti diversi per lui: ora vorrei
vederlo e sapere come sta”. Le difficoltà sperimentate nella relazione non hanno creato una distanza superegoica tra la
ginecologa ed un gruppo critico ma sono il più delle volte utilizzate come opportunità per tutte per imparare e
migliorare. Come la paziente si sente meglio grazie all’identificazione della ginecologa, così la ginecologa si sente
meglio attraverso l’identificazione del gruppo. È solo attraverso la condivisione delle difficoltà nel gruppo che le
ginecologhe e le assistenti sociali possono continuare a lavorare con i casi più difficili.
Il mito di Nemesi
Nemesi è la dea della giustizia riparatrice. Punisce coloro che commettono il peccato di “hubris”, la pretesa grandiosa di
essere come un dio, violando l’ordine della natura e perciò offendendo Themis, dea dell’ordine dei sessi, che regola le
relazioni e l’amore tra gli esseri umani (Kerényi, 1962). Nemesi è una delle figlie di Notte ma è la sola ad essere bella
con i suoi capelli meravigliosi e la sua veste bianca. Sappiamo molto poco di lei tranne che un evento cruciale: lo stupro
di Zeus.
Narra Esiodo: “Nemesi dalla chioma fluente (…) si era unita in amore con Zeus, il re degli dei con crudele
violenza. E Nemesi aveva cercato di sfuggirgli e non voleva giacere con suo padre Zeus, il figlio di Crono; e la
vergogna e l’indignazione le straziavano il cuore: perciò gli sfuggì volando sopra la terra e le scure acque senza frutti.
Ma Zeus la inseguì e desiderava nel suo cuore di raggiungerla. Ora prendeva la forma di un pesce e schizzava tra le
onde del mare fragoroso, e ora sulla corrente di Oceano verso i più remoti confini della Terra, e ora volava veloce
sulla terra arata, trasformandosi di continuo in creature così terribili che la terra arida nutre, confidando di potergli
sfuggire” (Esiodo, Cypria).
Ma come Zeus sedusse Nemesi? Zeus chiese aiuto ad Afrodite che suggerì questa messinscena: Afrodite nelle
sembianze di un’aquila avrebbe inseguito Zeus trasformato in un cigno. Nemesi, che stava celebrando un sacrificio,
vide un meraviglioso cigno e dietro un’aquila che lo inseguiva. Il cigno spaventato si avvicinava a Nemesi che lo
accolse tra le gambe. Nemesi si addormentò e finalmente Zeus “si unì a lei a causa della potente necessità ” (Cypria)
mentre lei era “straziata nell’animo per la vergogna e giusta indignazione”. Nemesi concepì un uovo da cui nacque
Elena di Troia. La drammaticità di un simile concepimento verrà rivelata dalla vita di Elena, fatta di bellezza e di
guerra.
Ora, accostiamoci al mito come ad un oracolo le cui parole ci suggeriscono immagini e sentimenti allo scopo di
capire qualcosa di più su un drammatico rito dell’umanità: lo stupro. Innanzitutto: perché Zeus? Zeus è il dio più
potente, dio delle divinità olimpiche che sconfisse Crono. Secondo Apollonio Rodio, Zeus “non si occupava di altre
imprese se non di andare a letto sia con le immortali che con le mortali”. Essendo Zeus il violentatore non proviamo un
così forte senso di condanna contro di lui perché è al di sopra di tutto e di tutti; i nostri sentimenti sarebbero diversi per
uno stupro tra un uomo ed una donna che consideriamo pari nella nostra cultura. Questa è la prima cosa che impariamo
e sentiamo dal mito più che da molti termini tecnici: mentre violenta, l’uomo raggiunge un eccitante sentimento di
onnipotenza. Ma comprendiamo meglio anche il terrore paralizzante della vittima che diventa inaspettatamente
incapace di reagire, come se fosse davanti a qualcosa di ancora peggiore di un uomo aggressivo: è davanti alla folgore
devastante di Zeus. “Non potevo nemmeno gridare; ero pietrificata con il terrore che avrebbe potuto uccidermi”. Lo
stupro non ha niente a che fare con l’amore. È un atto pseudo sessuale causato da ostilità, rabbia e controllo piuttosto
che dalla passione e dalla sessualità; c’è molto poco piacere sessuale (Groth and Birnbaum, 1980). “Il sadomasochista
deve distruggere l’umanità dell’oggetto e asservirlo per poterne godere. La deumanizzazione è conseguenza del
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principio di potere; l’oggetto, per essere fruibile, deve diventare una cosa”” (De Masi, 1999, p.38). Perciò, attraverso
lo stupro, il violentatore aumenta la distanza tra sè e la vittima raggiungendo l’eccitante potere olimpico da cui domina
e controlla l’oggetto sottomesso. Questa può essere una delle suggestive prospettive di come e perché viene commesso
lo stupro: il bisogno di sfuggire da sentimenti mortiferi e depressivi e imitare Zeus. Secondo Calasso (1988), anche
Zeus aveva commesso il suo primo stupro, quello di Rea sua madre nelle sembianze di Demetra, perché Zeus era
gravato dalla nostalgia per il suo passato. Ho detto prima “aumentare la distanza” perché nell’abuso e nella violenza
sessuale c’è sempre qualcuno più forte e qualcuno più debole: un padre, un suo sostituto o un parente adulto, e una
bambina piccola; un uomo più forte fisicamente e una donna; un gruppo di uomini, come una gang o dei soldati, e una
donna da sola.
Questa pretesa di essere come un dio è hubris. Nemesi è attratta dalla hubris, “l’arrogante violazione dei limiti
posti dalle divinità o dalla società umana” (North, 1966:6), rompendo “l’equilibrio divino tra il divino, l’uomo e la
natura” (Ronfeldt, p1). “n altre parole, hubris è il peccato capitale di orgoglio e perciò l’antitesi di due valori etici tenuti
in massima considerazione dai greci: aidos (l’umile rispetto per la legge) e sophrosyne (il ritegno, il senso dei propri
limiti)” (Ronfeldt, 1944, p2). Possiamo riassumere tutto ciò ricorrendo al concetto psicoanalitico di sé grandioso e di
mancanza di empatia, che sono aspetti centrali del narcisismo. Ma, sorprendentemente, c’è anche un legame mitologico
tra Nemesi e Narciso. “Questo giovane – Narciso – era così inebriato d’amore per la sua bellezza, pieno di un “orgoglio
così spietato”(Ovidio, Metamorfosi) che, in preda all’hubris, disdegna le avance delle ammiratrici, particolarmente
della ninfa Eco. E invocata dalle disdegnate ninfe, Nemesi discende spinge Narciso a fissare la sua immagine riflessa in
uno stagno, che lo induce a sfiorire e morire” (Ronfeldt, 1994 p20-21).
Tenendo in mente l’identificazione come un concetto chiave, Zeus prende le sembianza di un animale, un cigno, con cui
Nemesi, trasformata in oca – può facilmente e senza timori identificarsi. Questa trasformazione riduce le distanze come
succede con adulti seduttivi quando attraversano i confini del loro ruolo e diventano abusanti.
Ora concentriamoci su Nemesi. Nemesi ci richiama alla mente Chirone, il guaritore ferito che portava dentro di sé sia il
danno che la cura: lei era stata violentata e perciò era la divinità che puniva la hubris. Il concetto di giustizia riparatrice,
di vendetta e castigo, che sono centrali in Nemesi, sono in relazione e opposti allo stupro. Possiamo considerare
separatamente due aspetti fondamentali di Nemesi: 1. La punizione di chi commette hubris e 2. La riparazione e lo
ristabilire un ordine. Il primo ha preso oggigiorno la forma della legge. Può essere estremamente importante per la
vittima sapere che tutta la comunità, attraverso l’applicazione della legge, condanna lo stupro perché questo significa
che per l’ambiente sociale la vittima non è un oggetto non umano. La denuncia può costare uno sforzo tremendo ma è
importantissimo superare la svalutazione dello stigma sociale di “violentata” e sentire che le persone attorno sono dalla
parte della vittima.
Il secondo aspetto è quello più significativo per noi che vorremmo aiutare e curare. In quanto strumento di
piacere di Zeus, l’identità, la dignità di essere umano è stata abbassata ad una forma inferiore di esistenza diventando un
oggetto. Ancora più importante della denuncia è la possibilità di uscire dalla condizione di “oggetto” per tornare ad
essere un essere umano con un mondo interno ed uno specifico sé. Sappiamo molto bene che i bambini abusati sono
estremamente a rischio di successivi abusi nel corso della loro vita. Possiamo spiegare questo rifacendoci alla teoria
delle relazioni oggettuali considerando l’introiezione di un tipo particolare di relazione composta da un dominatore e da
un dominato, una relazione non c’è nessuna identificazione tra i due ruoli. Al dominato non è permesso di esprimere la
sua volontà al punto da poter pensare di non avere una volontà propria o non sente il diritto di considerare i propri
bisogni o scelte. Il primo tipo di giustizia riparatrice consiste nel superare questa condizione riducendo la distanza tra un
Super-io sadico, un introietto parentale svalutante, e il sé svalutato all’interno della vittima. In altre parole, la giustizia
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riparatrice e il ripristino dell’ordine ha a che fare sia con il livello interpersonale, sociale che con il mondo intrapsichico
del paziente. È molto importante diventare consapevoli di Nemesi e di dare la giusta direzione alla sua aggressività
rivolgendola verso sia il violentatore che, se presente, verso il Super-io sadico, altrimenti la sua punizione può colpire il
Sé attraverso la svalutazione, scarsa autostima, auto distruttività o addirittura il suicidio. Solo allora ci può essere
sollievo e si supera il sentimento di impotenza.
Conclusioni
In conclusione, ho cercato di descrivere come lo sforzo di raggiungere una buona alleanza terapeutica possa essere
disturbato da sentimenti inaspettati, come sia difficile raggiungere un’adeguata sintonia con la paziente in quel
particolare momento. Dobbiamo tenere a mente che stiamo parlando di pazienti in un pronto soccorso che spesso non
pensano nemmeno ad un aiuto psicologico perché sono troppo piene di vergogna oppure negano qualsiasi dolore
interno. Lo sforzo di entrare in contatto con quel particolare bisogno che la paziente esprime spesso in modo oscuro, che
a volte può essere molto concreto e semplice, come un test di gravidanza, un test per l’HIV, antibiotici, anticoncezionali
o solo un po’ di soldi. Il desiderio di aiutare è frequentemente messo a dura prova e l’operatore deve spesso rassegnarsi
di fronte impossibilità di indurre alcun cambiamento. Questo desiderio spesso nasconde l’intenzione onnipotente da
salvare tutti e le gravi difficoltà sono vissute come insopportabili ferite narcisistiche. Il rischio è quello di offrire quello
che non viene richiesto o non può essere accettato poiché, come sappiamo, un contenuto necessita di un contenitore.
Perciò consideriamo quei pochi incontri come positivi se la vittima può sperimentare e depositare nella sua memoria
una relazione nella quale è stata ascoltata rispettosamente e ha ricevuto quello che chiedeva senza essere forzata a
soddisfare i bisogni di qualcun altro. Questa è una relazione positiva che si contrappone ad altre relazioni traumatiche.
Se consideriamo lo stupro coma una drammatica mancanza di identificazione, la possibilità di restituire
l’identificazione è il primo passo del processo terapeutico. Se la vittima è trasformata in un oggetto, allora creare una
relazione con una profonda identificazione permette di ritrasformare un oggetto in un essere umano, una bambola in una
donna. Questo è quello che ci chiede Nemesi: superare l’effetto di hubris.
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Bibliografia
APOLLONIO RODIO, Argonautiche, IV, 794-795
BION, W.R. (1967) Notes on memory and desire. The Psycho-Analytical foru m, II, 3.
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WINNICOTT, D.W. (1975) Dalla pediatria alla Psicoanalisi. Martinelli, Firenze.
22
“La psicoterapia con la donna vittima di violenza sessuale. Dalla
violenza alla vita: una trasformazione possibile”
Sara Randaccio
SS Psicologia Clinica, Ospedale S.Anna
Come affrontare il trauma psichico, le ferite emotive che conseguono alla violenza sessuale?
Freud e Breuer (1895) asseriscono che “qualsiasi esperienza che susciti una situazione penosa quale la paura, l’ansia, la
vergogna o il dolore fisico, può agire da trauma” e ancora definiscono il trauma psichico come “emozione violenta in
risposta a situazioni traumatiche che incidono negativamente ed in modo significativo sul processo di sviluppo della
personalità”. Possono la fiducia in sè stesse, negli altri, la gioia, la vitalità, riprendere, dopo che sono stati violati il
corpo a la vita stessa? Quali le possibilità di rinascita, di trasformazione e che cosa la psicoterapia può offrire?
Nelle Metamorfosi di Ovidio viene narrata la tragedia di Filòmela, stuprata dal barbaro Re Tereo. La stessa storia
compare in un lavoro teatrale di Sofocle, viene ripreso in seguito da T.S. Elliot e compare in un bellissimo articolo “La
voce della spoletta è nostra”, pubblicato nel libro “Rape and Rappresentation” edito da Columbia University Press nel
1991.
Nella leggenda si racconta che Tereo, per impedire a Filòmela di raccontare la sua storia e gridare il suo dolore, le taglia
la lingua. Filòmela inizia a tessere un arazzo destinato alle altre donne ove tesserà la sua storia. Viene intravisto in
questa leggenda il significato della tessitura come lavoro che permette di comunicare, che dà voce alle donne e le
riunisce, anche quando la possibilità di parlare è mutilata. Nel poema di Ovidio viene messo in luce come la violenza
possa generare pazzia e violenza, e come solo la comunicazione e l’ascolto possano rappresentare un modo per
rinascere, un’occasione di cambiamento.
Incontrare la violenza, nel senso di riconoscerla, darle un nome, esplorarla, ascoltarla e capirla nell’esperienza
raccontata dalle vittime che l’hanno subita, significa incontrare e vedere aspetti difficili, complessi e dolorosi del
tortuoso animo umano. Significa incontrarsi con il male “gratuito”, senza spiegazione e senso, con una violenza che
spaventa chiunque ne accolga il racconto.
Come psicoterapeuta donna l’incontro con un essere umano violato sul piano dell’esperienza fisica e psicologica
rappresenta uno dei compiti sul versante emotivo, più difficili e delicati. Parlare della violenza significa lasciar parlare e
dar voce ad aspetti che per la loro primitività e brutalità ciascuno di noi vorrebbe relegare, non vedendoli, in angoli
nascosti della propria mente.
Parlare della violenza significa parlare dell’odio, dell’invidia, del disprezzo, dell’attacco distruttivo alla vita, di
sentimenti arcaici e primitivi che fanno parte della storia dell’uomo. Significa parlare di impotenza e desiderio
onnipotente, di fragilità, di “potere” e “forza”, di annientamento e dominio assoluto, di colpa, vergogna e umiliazione.
Significa altresì parlare del tentativo di dominio dell’odio e del disprezzo sull’amore, della morte sulla vita. Con vita
intendiamo la vitalità, la gioia di vivere, l’amore ed il rispetto per la propria persona, il sentimento di integrità e di
potenziale inviolabilità che ci consente di crescere stabilendo buone relazioni con gli altri. Con morte si intende la morte
della speranza, della vitalità, della fiducia in buoni oggetti interni, indispensabile all’equilibrio psichico.
“Al centro dello specifico umano metto la sua intersoggettività, il bisogno primario e la capacità di mettersi in relazione
… di creare legami tra sé e altri, in un lavoro di tessitura mentale continua che dà significato a sé e al mondo, e a sé nel
mondo … il principio della distruzione di ogni legame ci porta in un “aldilà” inaccessibile alla comprensione” (Maiello,
23
1997). Questa citazione ci permette di cogliere come nella violenza rintracciamo un aspetto terribile che è quello di
attaccare il legame: “Dall’odio verso la vita emotiva all’odio per la vita stessa il passo è breve” (Bion, 1959).
È proprio l’importanza di poter dar voce, essere ascoltate da menti attente, capaci di accogliere e capire, il punto
centrale dell’aiuto che come psicoterapeuti possiamo dare alle donne vittime di violenza. L’attenzione e l’ascolto
dovranno essere rivolti non solo ed unicamente all’ascolto dell’esperienza reale, ma al dolore ed alle ferite riportate
nell’esperienza psicologica e mentale. La violenza viola il corpo e i confini del sé, lo mortifica ferendolo nelle aree
solitamente deputate al piacere, alla sessualità, agli affetti, all’amore. È una violazione del privato, della libertà e scelta
individuale, della sicurezza, del patto sociale che ci permette di avere relazioni normali con altri esseri umani.
“Lo stupratore viola questo patto sociale. La sua maturazione emotiva è lacunosa e danneggiata. La sua adesione intima
e profonda alle regole del vivere associato non è elaborata in modo sufficiente, il rispetto dell’altro non si è costituito
come limite insuperabile; nel suo mondo interno rimangono forti rivendicazioni e molta aggressività … è uno incapace
del minimo riconoscimento dell’altro (vittima) come essere umano” (Forti, 2000).
Non sarà certo nostro compito quello di comprendere la personalità dello stupratore, ma quello di poter dare un senso
alla terribile e traumatica esperienza vissuta, a qualcosa che in quanto “insensato”, alcun senso pare avere.
Dovremo avere orecchi e spazio mentale per accogliere i sentimenti di colpa, di impotenza, di rabbia, di dolore, di
vendetta. Dovremo ascoltare la vergogna, l’umiliazione, lasciando il tempo affinché da quell’equilibrio traumaticamente
interrotto possano lentamente emergere forza e fiducia. Senza giudizio né desiderio di sapere la realtà dovremo essere
attenti all’esperienza psichica ed al trauma profondo, difficilmente sanabile, presente in chi è stato oggetto di violenza.
(In collaborazione con le Dott.sse Monica De Padova, Domenica Berta, Roberta Giannotta, Francesca Pastore)
BIBLIOGRAFIA
Bion W R (1959) Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico. Trad. it Armando Editore, 1979
Breuer J, Freud S (1895) Studi sull’isteria. In: Freud S Opere vol 1. Boringhieri, Torino
Forti P (2000) L’esperienza dell’abuso nel mondo interno della donna che lo ha subito e degli operatori che la
accolgono. Atti del Corso di formazione per operatrici/operatori addette/i all’assistenza di donne violate attraverso
un’organizzazione di Servizi “in rete”. Anno 2000-2001
Maiello S (1997) L’attacco al legame come matrice della violenza. Atti del Congresso “Le vittime e gli attori della
violenza”. Torino, 7-8 novembre 1997
Terr L (1996) Il pozzo della memoria. Garzanti Editore, Milano
24
Progne e Filòmela Da OVIDIO (43 a.C-15 d.C),
“LE METAMORFOSI”, Libro VI
E’ una leggenda cupa ed atroce, ben diversa dalla maggior parte di quelle tramandateci
dalla mitologia greca.
Dall’unione del re di Atene, Erittonio, con la ninfa Prassitea nacque Pandione che, alla
morte del padre, salì sul trono dell’Attica.
Quando le città vicine mossero guerra ad Atene, Pandione si trovò in condizioni molto
sfavorevoli per intraprendere una guerra, ma Tereo, re della Tracia, venne in suo aiuto,
e così Pandione ottenne la vittoria su tutti nemici. Allora, per compensare l’alleato, gli
diede in moglie la sua primogenita, Progne. Costei, nella reggia dei Traci, visse un po’
di tempo felice col marito e col figlioletto nato dal matrimonio: Iti. Ben presto, però,
Tereo si rivelò un uomo crudele, diffidente e maligno, ma Progne lo amava ugualmente
e sperava che, col passare del tempo, la loro unione si sarebbe rafforzata.
Per quanto amasse molto il marito ed il figlio, spesso la giovane sposa sentiva la
nostalgia del padre e della sorella, e perciò un giorno pregò Tereo di andare ad Atene e
chiedere a Pandione il permesso di condurre con sé in Tracia Filòmela.
Tereo si recò ad Atene e, come vide la cognata, colpito dalla sua bellezza, se ne invaghì.
Egli cercò di dissimulare la sua passione e riferì al suocero il desiderio di Progne di
rivedere la sorella.Ottenutone il consenso, s’imbarcò con Filòmela alla volta della Tracia
ma, appena sbarcati, s’impadronì con la forza della cognata, la nascose in un rifugio
sicuro e, temendo che Filòmela rivelasse quanto era accaduto, le tagliò la lingua. Si
presentò poi alla moglie, che si aspettava di veder giungere assieme al marito anche la
sorella e che, stupita, gliene chiese notizie; questi mentì dicendole che era morta.
Filòmela, intanto, aveva ricamato la sua triste vicenda su una tela, che riuscì ad inviare a
Progne.
Solo in questo modo l’infelice fanciulla riuscì a far sapere alla sorella il misfatto
compiuto da Tereo, e Progne poté scoprire dove la giovane fosse stata nascosta.Lo
sdegno delle due sorelle non tardò a tramutarsi in odio e a far perdere ad entrambe il
senno, a tal punto da concepire un delitto terribile: decisero di vendicarsi di Tereo
servendosi del suo innocente figlioletto.
Con una crudeltà attribuibile solo alla pazzia, Progne uccise suo figlio Iti, e poi le due
sorelle, insieme, cossero le membra del fanciullo e le servirono in tavola a Tereo.
La moglie assistette in silenzio al pasto del marito; quando egli ebbe finito chiese che
gli fosse condotto il figlio, al che Progne rispose: Tuo figlio è già in te.Tereo, sbalordito,
cercava il bambino, perché non aveva ancora afferrato il senso terribile delle parole, ma
ecco giungere Filòmela e gettare al cognato la testa insanguinata di Iti.
Quando, infine, comprese la tremenda verità, Tereo impazzì, balzò in piedi, impugnò la
spada e si avventò contro Progne e Filòmela per ucciderle.
La reggia si riempì di urla, di imprecazioni, di gemiti, ma prima che il re furente
raggiungesse le due donne, intervennero gli dei, che tramutarono Progne in rondine e
Filòmela in usignolo. I due uccelli spiccarono il volo dinanzi agli occhi di Tereo
esterrefatto, che ebbe appena il tempo di vederle involarsi nell’aria perché subito dopo
anch’egli subì una trasformazione, divenendo la lugubre upupa che nei silenzi notturni
fa sentire il suo gemito opprimente e doloroso.
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La consultazione con donne vittime di violenza sessuale: l’esperienza
nel Centro SVS dell’ospedale S. Anna, Torino.
Alessandra Sena,
psicologa borsista centro SVS
La creazione di un rapporto di fiducia con la ginecologa e l’ostetrica, presenti in accoglienza nel Centro SVS, in un
ambiente protetto e competente, consente spesso alla donna vittima di violenza sessuale di rispondere al bisogno
primario di prendersi cura del proprio corpo.
In questa circostanza si cerca di prestare estrema attenzione ai bisogni della donna per capire il tipo di aiuto (medico,
sociale, psicologico) che la vittima richiede e che è in grado di ricevere; a volte l’esperienza di un ascolto rispettoso e
una prima importante interazione positiva permettono alla persona di occuparsi successivamente anche della propria
mente, accentando così la proposta di un aiuto psicologico.
La consultazione offre uno spazio di ascolto e contenimento per le donne che hanno subito una forte esperienza
traumatica quale la violenza sessuale. L’intervento breve che proponiamo è coerente con le esigenze logistiche di un
centro di Soccorso Violenza Sessuale in una struttura ospedaliera, con spazi e risorse limitati, ma non solo. Alcune
donne che si rivolgono al Centro SVS sono in grado di ripristinare le loro capacità di affrontare la situazione posttraumatica con un intervento limitato nel tempo, grazie alla mobilitazione di proprie risorse interne, altre invece dotate
di minori risorse esterne e interne, necessitano di essere aiutate più a lungo. In questi casi si cerca di attivare un lavoro,
complesso e a volte difficile, di rete con il territorio per una presa in carico differente.
La consultazione non supera i dieci-dodici colloqui ma nella maggior parte dei casi le donne che si sono rivolte al
Centro SVS hanno usufruito di un numero inferiore di colloqui, spesso perché già seguite da un punto di vista
psicologico dai Servizi Territoriali (CSM, SERT, NPI…) per altre problematiche preesistenti. In questi casi, molto
frequenti, si prova durante i colloqui a verificare insieme alla donna, e poi con i Servizi, il progetto terapeutico già in
atto, per comprendere se e quale ulteriore aiuto offrire. Per l’utenza del centro SVS la violenza sessuale è infatti sovente
solo la punta di un iceberg di situazioni complesse e multiproblematiche, di storie travagliate iniziate molto prima. A
volte purtroppo non si riesce a trovare quella parte della persona con la quale allearsi per avviare un percorso
terapeutico seppur breve e ciò che è offerto può cadere nel vuoto. Questo può essere molto frustrante in particolare di
fronte a situazioni davvero drammatiche.
Se si riesce invece a stabilire un buon contatto con la paziente la consultazione è già un intervento terapeutico di primo
livello nel quale la donna può vivere l’esperienza di essere compresa, cioè una buona esperienza di condivisione e
contenimento, che aiuta a trasformare qualcosa di insopportabile in qualcosa che può iniziare ad essere pensato.
La “sfida” è risvegliare nella persona la capacità di riflettere e pensare in modo che essa possa poi ritrovare il piacere di
occuparsi di se stessa, seppure a partire proprio dalla propria sofferenza. Presumiamo infatti che esista una base emotiva
umana comune che rende possibile la condivisione anche dei vissuti più drammatici. La paziente quando finisce il
colloquio rimane sola con il suo dramma, ma forse non completamente sola; sa che qualcuno sa e non si tratta di un
sapere solo conoscitivo ma emotivo.
Un evento sconvolgente e intenso quale la violenza sessuale, seppur con le differenze dovute anche alle diverse
modalità con cui è avvenuto, è difficile da gestire a livello psichico; urta contro l’organizzazione mentale e non può
essere contenuto nella mente attraverso il pensiero nel modo consueto. Spesso se non si riceve un aiuto la psiche si sente
invasa da un materiale caotico, “non digeribile”, “non pensabile”, che spesso è all’origine di alcuni di quelli che
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vengono definiti sintomi post traumatici tra cui incubi ripetitivi, flashback, pensieri intrusivi, paure, ansia, disturbi
somatici, difficoltà relazionali. La mente tenta di evacuare e espellere questo materiale; in consultazione spesso si
sentono affermazioni quali “non voglio pensarci più”, “voglio dimenticare”.
A volte questo si traduce nel tentativo concreto di evitare posti o situazioni associati al trauma; comportamenti che
vengono alimentati anche da uno stato di continua allerta che fa sentire la donna minacciata da potenziali pericoli, che
portano a percepire il mondo stesso come potenzialmente pericoloso. Si concretizzano fantasmi persecutori, che non
fanno più distinguere la fantasia dalla realtà.
I comportamenti di evitamento messi in atto e i sintomi post traumatici riportano continuamente la vittima al trauma,
anche se la stessa vorrebbe poter dimenticare, vorrebbe confinare l’esperienza in qualche luogo della mente non più
accessibile. “Questo è precisamente il trauma. Ciò che non passa. Un ostruzione che impedisce la costruzione”
sottolinea Pelizzari.
La persona si rende conto di non potere controllare né i propri comportamenti, né le proprie emozioni che spesso non
riconosce più come propri, sono elementi “alieni”; c’è quindi una sorta di perdita del senso di controllo. Queste
difficoltà possono portare dei cambiamenti concreti nella vita e nelle abitudini della persona, degli agiti che a volte
implicano stravolgimenti importanti quali trasferimenti, cambiamenti di casa, perdita del lavoro, interruzioni di
relazioni.
All’inizio della consultazione è la violenza, l’evento esterno che di solito viene portato dalla paziente; si dedica del
tempo a parlare e a pensare in particolare all’evento in sé. La persona ha bisogno di un aiuto per iniziare e a pensare a
cosa le è accaduto ed elaborare anche una sorta di lutto e perdita, nell’abbandonare il proprio desiderio di sentirsi come
se l’evento non fosse mai accaduto, di essere come prima.
Il processo che si inizia è un processo faticoso perché implica una prima rielaborazione dell’esperienza traumatica con
tutto l’impatto emotivo del riconoscere ed entrare in contatto con sentimenti quali vergogna, senso di colpa, paura,
rabbia…
Le vittime infatti nella fase immediatamente successiva alla violenza possono reagire in modi differenti, a volte
diametralmente opposti, con reazioni emotive molto marcate o anestesia emotiva. Una paziente in un primo colloquio
di consultazione si era definita un “frigo”, esprimendo molto bene la sua difficoltà di contatto con le proprie emozioni
quasi congelate.
Si delinea così l’importanza nella consultazione di accogliere e provare a dare un nome a sentimenti ed emozioni, a
volte pesanti e difficili da “maneggiare” come il senso di colpa che sollecita in noi spesso il desiderio di discolpare
precocemente la vittima senza darle tempo e modo di esprimere invece ciò che prova.
La rabbia stessa, se riconosciuta ed interiorizzata dalla persona, riesce ad essere un’alleata della capacità di azione che
permette di ricostruire la propria vita dopo che è avvenuto qualcosa di devastante.
La consultazione non si focalizza comunque solo sull’evento traumatico ma viene seguito ciò che emerge e ciò che è
portato dalla paziente, cercando di comprendere come la violenza subita si inserisca nella vita delle persona e che senso
abbia per lei in base alla sua storia personale e familiare, anche in base ad eventuali traumi pregressi, che spesso sono
riattivati dalla violenza attuale.
L’analisi delle risorse della persona è un altro passo importante nella consultazione, perché queste inevitabilmente
determinano una differente reazione al trauma. Obiettivi della consultazione sono infatti anche la mobilitazione e il
rafforzamento delle risorse personali in modo che la persona possa progressivamente riacquisire il controllo della
propria vita e attivare una rete di sostegno utile per affrontare il trauma ed accettare il cambiamento, recuperare il
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propria senso di autoefficacia. Per favorire il ristabilirsi di una rete di connessioni in alcuni casi sono condotti anche
alcuni colloqui con familiari delle vittime, coinvolti nella situazione.
Quindi la consultazione è un intervento che è parte di un progetto terapeutico, in cui se possibile, la persona è presa in
carico nella sua globalità ed interezza, psiche e corpo insieme.
Infine mi sembra importante sottolineare come l’ascoltare una persona vittima di violenza possa essere molto
angosciante; il rischio è di essere travolti dall’intensità dell’esperienza della vittima, non potendo offrire così un reale
ascolto e contenimento indispensabile nel processo terapeutico. In tal senso sono fondamentali gli spazi di supervisione
e i momenti di confronto con gli altri operatori che si occupano della presa in carico delle vittime, che consentono una
reale condivisione delle difficoltà che si presentano in un lavoro così impegnativo. A volte si ha la sensazione di
“arrangiarsi con quello che c’è”, bisogna saper tollerare di fare quello che si può anziché quello che si vorrebbe fare; ma
è forse anche questo che crea lo spazio al fare esperienza e ad apprendere creativamente da essa.
Bibliografia di riferimento
W. R. Bion, “Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico”, Armando Editore, Roma, 1970.
G. O. Gabbard, “Psichiatria Psicodinamica”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995.
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G. Pellizzari “L’apprendista terapeuta. Riflessioni sul mestiere della psicoterapia”, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.
C. Ventimiglia, “La fiducia tradita”, Franco Angeli, Milano, 2002.
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Il lavoro sociale in un’ottica di rete
Michela Calabria
Assistente SocialeASO OIRM S. ANNA Torino
Per mettermi davvero in relazione con gli altri
…devo innanzitutto riconoscere
che esistono indipendentemente da me.
Poi devo accettare di guardare e ascoltare
A. Melucci, Passaggio D’epoca.
Da circa sette anni lavoro presso il Servizio Sociale dell’Ospedale S.Anna di Torino e dal maggio ‘2003, collaboro con
gli operatori del Centro SVS.
L’attenzione per la donna vittima di violenza sessuale è un argomento che in questi ultimi anni ha suscitato interesse da
parte degli operatori. Inizialmente l’interesse è stato di tipo medico per poi coinvolgere il piano sociale e psicologico. Il
modello medico, afferma lo stesso Fabio Folgheraiter, codirigente del Centro Studi Erickson e docente presso
l’Università di Trento, non è sufficiente a fronteggiare efficacemente i problemi non strettamente sanitari.
La realtà della violenza sessuale, e la nostra esperienza lo dimostra, è costituita dalle conseguenze psicologiche e
relazionali che il trauma provoca nelle vittime, dai contesti familiari e di vita talvolta disagiati, in cui vivono le donne
(immigrazione clandestina, prostituzione, abuso di sostanze, pregressi episodi di violenze sessuali in famiglia..).
Il lavoro con la donna vittima di violenza sessuale coinvolge contemporaneamente diverse risorse e servizi, i quali
devono operare in collaborazione tra loro integrando i propri interventi in un’ottica di lavoro di rete: l’assistente sociale
proprio per la peculiarità formativa della professione, appare la figura professionale più competente, a svolgere un ruolo
d’attivatore di risorse e reti.
In questi primi due anni di sperimentazione gli operatori del Centro si sono più volte confrontati riguardo all’esigenza di
lavorare in rete. La nozione del lavoro di rete, proprio del lavoro sociale è l’insieme degli interventi, dei collegamenti
tra risorse e delle strategie tese a produrre relazioni efficaci finalizzate al miglioramento del livello di benessere della
persona e della collettività: nel caso specifico la costruzione di un tessuto relazionale capace di agire in sinergia nelle
azioni di lotta verso la violenza alle donne.
A tale proposito voglio ricordare due esperienze: la prima riferita al Coordinamento Cittadino Contro la Violenza alle
Donne, istituito e sostenuto dal Comune di Torino, che è una presenza organizzata sul territorio ed ha l’obiettivo di
favorire il lavoro di rete per migliorare gli interventi e nel contempo promuovere un maggior senso di condivisione e
solidarietà in tutta la collettività; la seconda relativa al progetto ricerca “Rete antiviolenza tra le città Urban” realizzata
nel quartiere Mirafiori Nord di Torino, che ha lo scopo di individuare le dimensioni del fenomeno della violenza e le
realtà istituzionali e non, che possono diventare “nodi” della rete.
L’obiettivo condiviso dall’ èquipe del Centro SVS e connesso al fatto di non considerare il Centro solo come una
risorsa istituzionale formale, isolata dalle reti primarie e dalla comunità, ma bensì uno dei tanti “nodi” che costituiscono
la rete. Nel tentativo di fronteggiare nel migliore dei modi possibili, i singoli casi di violenza sessuale che accogliamo e
prendiamo in carico, è fondamentale realizzare una costruttiva collaborazione tra le risorse, per creare reti stabili in un
lungo periodo.
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INSIEME PER……………………
Chi cammina da solo può partire oggi,
ma chi viaggia in compagnia
deve attendere finché l’altro non sia pronto
Henry David Thoreau
Alla luce di quanto sinora affermato, vorrei focalizzare l’attenzione sull’attività del lavoro sociale che è offerto alle
donne vittime di violenza sessuale, indispensabile per favorire un percorso di possibile uscita dal trauma.
La donna arriva al centro in un momento di particolare stress, trauma, confusione cognitiva, rilevante è la qualità
dell’accoglienza, come già evidenziato nelle relazioni precedenti, che si basa su atteggiamenti empatici, è bene evitare
comunicazioni squalificanti
(disattenzione, richieste di ripetizioni) o giudizi. Anche il luogo in cui si riceve è importante,una stanza disordinata, uno
spazio non riservato, le interruzioni telefoniche, lanciano messaggi di squalifica alla persona , mentre si trova in un
momento così delicato.
La donna deve avere uno spazio in cui esprimersi liberamente e manifestare le proprie emozioni e reazioni, per
riprendersi; successivamente e con gradualità verrà aiutata a rivedere i fatti per ridefinire la situazione e lavorare sul
progetto.
L’assistente sociale assieme alla donna individua e favorisce l’attuazione di un possibile progetto sia nell’immediato
che nel tempo successivo. Fin dall’inizio è importante confrontarsi con l’intento della persona, con ciò che questa
desidera fare rispetto alla situazione presentata, riconosciuta e condivisa nella sua problematicità.
L’assistente sociale deve creare con la vittima di violenza una relazione che si fonda su una fiducia reciproca, sulla
chiarezza e trasparenza. L’operatore si deve adeguare ai tempi della persona, al suo livello di emotività, alle risorse
espressive e cognitive, per poter effettuare una serie di interventi articolati e complessi quali:
™
effettua colloqui di conoscenza con la donna e raccoglie notizie socio-anamnestiche, per individuare le
possibili risorse di rete familiari e amicali che possono essere sostenute, rinforzate e migliorate. L’operatore deve
comprendere gli nodi relazionali all’interno dei quali la persona sviluppa la sua vita.
™
coinvolge i familiari della vittima, sia per accompagnarli nel percorso di rielaborazione dell’evento, sia per
offrire loro suggerimenti rispetto alle modalità mediante le quali approcciarsi alla stessa e gestire in modo opportuno i
sentimenti di rabbia, insicurezza e paura che emergono in seguito al trauma subito;
™
prende contatti con gli eventuali servizi che già conoscono o hanno in carico la donna: servizio sociale
territoriale, comunità, centri di salute mentale…;
™
individua le necessità prioritarie che porta la donna es: mancanza di un luogo dove ritornare o addirittura
impossibilità di un rientro a casa perché a rischio;
™
reperisce le eventuali comunità di pronta accoglienza;
™
sollecita l’intervento di altri servizi istituzionali presenti sul territorio quali l’Ufficio Stranieri, ISI,
Associazioni di Volontariato;
™
prende contatti con le Forze dell’Ordine e la Magistratura.
30
L’assistente sociale svolge inoltre funzioni di:
™
informazione: la donna vittima di violenza, ha diritto alla riservatezza e quindi al controllo delle
informazioni che la riguardano; ma allo stesso tempo deve essere a conoscenza sugli obblighi di legge a cui gi
operatori del Centro vanno incontro nei casi in cui si ravvisi la procedibilità d’ufficio;
™
sostegno e aiuto alla donna nel percorso di adempimento del progetto, funge da orientamento, supporto e
richiamo agli impegni assunti;
™
stimolo e accompagnamento della vittima di violenza sessuale alla fine del percorso, per rivedere e
ricostruire che cosa ha fatto, i passi intrapresi e le difficoltà incontrate.
La metodologia del lavoro integrato e gli interventi ed i progetti offerti per ogni singolo caso, richiedono spazi e tempi
di riflessione che vengono affrontati nelle riunioni quindicinali con l’èquipe alle presenza del supervisore.
Vorrei ora presentare alcuni dati relativi all’attività del centro dall’inizio dell’apertura sino al 31 dicembre 2004. Il
lavoro non ha la pretesa di essere una ricerca dettagliata, ma una occasione di “lettura “ sul fenomeno della donna
vittima di violenza sessuale.
Sono giunte al nostro centro 100 donne di cui 67 di nazionalità italiana e 33 di nazionalità straniera. E’ possibile
ipotizzare che molte donne straniere non accedano al servizio, perché si trovino in una situazione di clandestinità ed
hanno paura per eventuali conseguenze relative al loro stato, per esempio, denunciano la violenza, con il rischio di
essere espulse perché non in regola con il permesso di soggiorno.
Riguardo la fascia d’età, 87 donne sono maggiorenni (fascia d’età compresa tra i 18 e 35 anni) e 13 minorenni (fascia
d’età compresa tra i 14 e 17 anni), si può evincere che afferiscono soprattutto persone adulte come si era ipotizzato sin
dall’inizio. Per quanto attiene alle minori, le violenze subite non si collocano all’interno della rete familiare e /o
parentale, ma piuttosto amicale.
Rispetto il tempo trascorso dalla violenza, 55 donne sono giunte entro le 24 ore dall’evento, questo permette di agire
tempestivamente soprattutto per la raccolta del materiale biologico, in modo da poter raggiungere, per ogni singolo
caso, il miglior risultato sia per la salute della donna, sia per l’identificazione dell’aggressore.
E’ interessante, a mio parere il dato relativo alla conoscenza degli aggressori, 54 sono persone già conosciute dalla
vittima. Questo conferma che i casi di violenza sessuale sembrano consumarsi all’interno di relazioni parentali
(partner,coniugi), amicali e di conoscenti.
Sempre riguardo gli aggressori, su 100, 44 sono di nazionalità italiana, di 19 non è stato possibile capire la
provenienza, gli altri 37 sono stranieri. E’ utile riflettere sugli stereotipi che spesso si hanno, riguardo alle persone
straniere, quali portatrici di soli disagi.
La modalità dell’aggressione per 87 casi è avvenuta da parte di un unico aggressore e 13 come violenze sessuali di
gruppo.
Delle 100 donne giunte presso il Centro SVS, 25 di esse sono state accompagnate dai familiari (padre, madre, zie) e 9
dal coniuge e/o fidanzato, 16 portate da amici o conoscenti e altrettante dalle forze dell’ordine. Questi dati indicano che
le persone sono inserite in un sistema di relazioni di cui è necessario valutare le risorse ed i sostegni che si possono
sviluppare o i conflitti e vincoli che si vengono a creare.
Un altro dato riguarda l’inviante, ovvero chi ha indicato alle donne di rivolgersi al nostro Centro. Le forze
dell’Ordine ed i Presidi Ospedalieri, sono i servizi che hanno messo in atto maggiori invii, questo fa presupporre che si
è creata una buona rete di collaborazione.
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Nella casistica, su 100 donne accolte dal Centro SVS, 30 risultavano già in carico presso altri servizi ( Ser.T, CSM ,
Servizio Sociale territoriale). Questo dato molto significativo, indica che la violenza rappresenta solo uno degli
innumerevoli traumi presenti nella vita della donna, ma è positivo pensare che” l’aggancio” con i Servizi esiste ed è
presente, per cui resta da rinforzare tale legame.
Su 100 donne solo 16 sono state inviate ai Servizi presenti sul territorio, è possibile ipotizzare che il tentativo di
aggancio con il territorio sia stato difficile per diversi motivi: la donna ha rifiutato ogni contatto, per evitare di pensare
e riflettere sull’evento traumatico che ha subito, “preferisco dimenticare e far finta che non sia successo nulla, così
riesco ad uscire prima da questo incubo”, oppure la difficoltà di riconoscere i servizi come risorsa , piuttosto vi è
sfiducia e paura per la possibilità che la situazione di “violenza subita” sia considerata negativa per la crescita dei figli
“ non vorrei che fossero allontanati me” in ultimo la difficoltà da parte dei servizi stessi di “prendere subito in carico”
la donna vittima di violenza.
Ultimo dato, ma non per questo meno importante è il ritorno delle donne al Follow UP che ha delle cadenze ben
precise (15 giorni dall’evento, 3 e 6 mesi) Su 100 donne 67 sono tornate, per cui è possibile pensare che il servizio
offerto dal nostro Centro ha avuto una ricaduta positiva per la donna dove si è sentita accolta e non giudicata.
Dall’apertura del Centro sino ad oggi, gli operatori sono giunti ad alcune riflessioni che vorremmo condividere con tutti
gli attori presenti in campo, consapevoli, tuttavia dei reali limiti imposti dalla giovane età del servizio, ancora da
“costruire e consolidare “ e dal continuo turn over di operatori, soprattutto assistenti sociali.
Si rende necessario concorrere alla formazione di un linguaggio comune e linee operative condivise per consolidare la
rete, attraverso la diffusione di diversi livelli di formazione, non solo rivolti alla popolazione ma soprattutto agli
operatori.
E’ forte l’esigenza di formulare protocolli d’intesa con i servizi territoriali per definire le modalità di presa in carico
della donna vittima di violenza, per ridurre i tempi di attesa e non lasciare in stand –by la situazione . E’ possibile
pensare che per ogni ASL si crei un pool di operatori con diverse figure professionali che si occupino delle donne
vittime di violenza, in analogia a quanto sta avvenendo sui minori abusati e maltrattati.
Esiste la difficoltà di reperire in fase di emergenza, luoghi di accoglienza per le donne (case rifugio) che subiscono
violenza, che non sia la pensione, il dormitorio o le Comunità madre/bambino,ma spazi dove qualcuno si prenda cura
di chi ha subito un trauma così violento e lacerante.
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Assistenza legale in caso di violenza: qualche breve riflessione sulla
legge 66/1996.
Anna C. Ronfani,
avvocato penalista, Foro di Torino
Qual è il migliore dei processi possibili per una vittima di abuso sessuale?
L’attuale legislazione si è posto questo interrogativo, e ha risposto in modo soddisfacente? E come vengono applicate le
leggi esistenti? Come viene tutelata la vittima? Che garanzie ci sono sull’esito del processo?
Queste sono invariabilmente le prime domande che vengono poste all’avvocato difensore della persona offesa, sia nei
casi in cui deve ancora essere assunta la decisione di presentare denuncia-querela, sia quando il procedimento è iniziato
a prescindere dalla volontà di procedere della vittima o di chi la rappresenta, in tutti i casi in cui il fatto di reato é
procedibile d’ufficio.
Rinuncio a un intervento rigorosamente tecnico, e provo invece, sinteticamente e per accenni, a toccare alcuni temi
nevralgici del rapporto tra la vittima adulta di reati sessuali e il processo.
Non parlerò quindi, anche per limiti di tempo, nè delle specificità processuali relative alle vittime minorenni, né
dell’attività difensiva in senso stretto, che è peraltro comune a tutte le categorie di reati (per esempio la possibilità per
l’avvocato di svolgere indagini difensive; l’ opposizione alla eventuale richiesta di archiviazione; la partecipazione alle
udienze; la discussione della causa; la costituzione di parte civile come strumento per chiedere al giudice la condanna
penale e quella civile al risarcimento del danno causato dal reato; il ricorso al patrocinio a spese dello stato per le
vittime non abbienti etc. etc.).
Cercherò invece di indicarvi alcuni nodi cruciali dei processi per questo tipo di reati.
La sinergia tra norme sostanziali riformate (legge n. 66/1996 sulla violenza sessuale, legge 269/1998 in materia di
sfruttamento della prostituzione, pornografia e turismo sessuale in danno di minori) e nuove norme processuali (vari
istituti dell’attuale codice di procedura penale) ha indubbiamente contribuito ad avvicinare il processo attuale ad un
modello teorico che, pur senza essere perfetto, è certo più apprezzabile del precedente.
Questo purtroppo non significa che si sia potuto salutare l’avvento, nella prassi giudiziaria, di un processo sempre
automaticamente rispettoso della fatica e dei disagi connessi alla specifica condizione di vittima di reati sessuali.
Probabilmente nessuna persona offesa di qualunque altro reato sente più gravoso l’onere di fornire il proprio essenziale
contributo all’accertamento in sede giudiziaria dei fatti; la sedia del testimone è scomoda, e spuntano ripetutamente i
soliti chiodi laceranti (la vergogna, il pudore, l’indicibilità, il senso di colpa, la rottura di falsi equilibri quando l’autore
è persona nota o addirittura vicina, i segreti violenti).
In verità è difficile fare valutazioni sulla legge sostanziale che disciplina i reati sessuali, scindendola dalla sua
applicazione nel processo: e il processo è notoriamente condizionato da variabili anche stravaganti. E così si torna al
punto di partenza, immodificato dalla riforma e forse immodificabile per legge: il percorso verso la giustizia continua a
far paura alla vittima del reato, anche e specialmente perché appare un meccanismo ignoto e scarsamente prevedibile.
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Il “fattore umano” però può incidere significativamente: fermi restando i problemi di fondo, la difficoltà probatoria,
l’incertezza dell’esito, la differenza tra un processo che rappresenti una rinnovazione o addirittura una recrudescenza
della vittimizzazione ed uno che invece, pur nell’amarezza, costituisca una fisiologica, sana ed accettabile reazione alla
patologia del delitto pare poter essere proprio generata dall’empatia istituzionale, e dal rispetto, in ogni luogo e in ogni
momento, dell’individuo.
Questi obiettivi sono da perseguire con costanza in ambito giudiziario, sociale e sanitario, tanto quanto la ricerca della
verità. Questo chiedono le vittime in via prioritaria, anche al loro avvocato, quando ne hanno uno, e questo si aspettano
comunque di ricevere dalle istituzioni.
In tale contesto si inserisce allora il ruolo fondamentale a cui é chiamato l’avvocato: fare da tramite con il processo,
rendendolo comprensibile e conoscibile, sollecitare l’applicazione di tutti gli istituti a favore della persona offesa,
valorizzare al massimo grado il suo apporto probatorio, risparmiarle inutili fatiche, fungere da vero e proprio interprete
della sua posizione processuale.
Il raggiungimento di questi obiettivi dovrebbe essere il frutto maturo di processi culturali, prima ancora che il risultato
dell’applicazione della norma. Intendo con ciò dire che se la miglior legge possibile (ammesso che fosse una realtà) è
applicata con trascuratezza, ritardo e indifferenza, il risultato sarà sconfortante come se la norma non esistesse.
Non sarà mai indolore, per la vittima, partecipare a ciò che chiamiamo processo, ma che più correttamente dovremmo
chiamare “procedimento”, intendendo l’insieme di tutte le attività giudiziarie che preludono o conseguono al giudizio
vero e proprio. Ma è anche il procedimento, ancora oggi, a non aiutarla appieno, perché non è mai rapido (e il problema
della lunghezza dei tempi processuali é effettivamente gravissimo), può essere scostante e ostile, quasi sempre
misterioso, persino nell’esito. Si pensi ad una sintomatica criticità, che colpisce sempre molto gli utenti della giustizia:
la persona offesa che non nomina un proprio avvocato difensore e non si costituisce parte civile, e non diventa
all’interno del processo penale l’interprete di una richiesta risarcitoria di contenuto patrimoniale, ma sceglie di esistere
nel giudizio come semplice ed essenziale testimone/vittima della violazione della legge (ritenendo magari eticamente
intollerabile l’abbinamento reato/denaro) non ha diritto a ricevere con notifica informazioni sull’esito del primo grado
di giudizio, nè sul fatto che l’imputato eventualmente condannato abbia impugnato o no la sentenza, nemmeno di sapere
quando il processo d’appello e quello eventuale in corte di cassazione si celebreranno. Men che meno ha diritto di
avere notizie sulla eventuale detenzione preventiva, la cd. custodia cautelare, e sull’espiazione della eventuale
condanna definitiva. Quindi non sa “come é andata a finire”. Se ha la sfortuna (o la normalità) di essere una persona
non avvezza alla frequentazione di uffici giudiziari, o anziana, o malata, o anche solo dimorante in un’altra città, non
saprà mai che cosa “il popolo italiano” (in nome del quale la sentenza viene pronunciata) avrà deciso della sua vicenda,
e rimarrà a chiedersi come mai nessuno gliel’ha poi comunicato. Verrà sentita in itinere come testimone, magari prima
dalla Polizia giudiziaria, poi dal Tribunale in dibattimento, ma se non ha un proprio osservatore tecnico all’interno della
procedura potrà perdere completamente il contatto con l’intera vicenda, non essendo prevista, da un certo punto in poi
(ben prima della sentenza di primo grado) alcuna forma di comunicazione diretta tra il processo e la vittima priva di
avvocato.
Il rammarico per una impostazione legislativa siffatta
investe le vittime di qualsiasi reato; le persone offese di reati
sessuali hanno qualche ragione in più per dolersene, perché più di altre vorrebbero trovare nel processo il senso
dell’accoglienza, della comprensione, della tutela.
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E le condanne, nel caso della dimostrata responsabilità, vengono eseguite? E dove, e da quando, e fino a quando, e
come? Una raffica di domande, normalmente senza risposta per la vittima. Qui letteralmente si spalanca la voragine
dell’ignoto, persino per chi nel processo era assistito da difesa tecnica e costituito parte civile, ma che non riceve, in
base alla procedura, alcuna informazione in merito. Eppure non pare affatto esigenza di secondo momento, per la
vittima, conoscere la sorte concreta del colpevole. La sanzione non è questione che riguardi solo il condannato, per
convincersene (senza scomodare la teoria del principio retributivo) basterebbe pensare anche solo alla paura che
invariabilmente accompagna la vittima: paura della vendetta, paura della reiterazione del reato. E paradossalmente, più
la condanna è stata, o potrà essere, severa, più la paura può aumentare.
Questa sgradevole compagna l’ho vista vicina alle vittime almeno quanto il desiderio e l’esigenza di giustizia, se non di
più; specialmente se il reato é commesso da ignoti, e una sentenza di condanna non verrà mai pronunciata.
Ed è anche difficile per la vittima accettare che non possa esistere, nemmeno in caso di accertata responsabilità, una
modalità di presa in carico del condannato contemporaneamente idonea a promuovere più efficacemente il futuro
controllo sociale e a sollevare la vittima dal terrore che in realtà non sia affatto “tutto finito”. E’ il tema delicatissimo
delle vie terapeutiche, ignorato dal legislatore, complicato dalla diffusa convinzione, in campo clinico, della sostanziale
intrattabilità dei soggetti autori di crimini sessuali, specialmente senza una loro specifica consapevole richiesta ed
adesione: sembra di dover constatare una singolare accettazione della presunzione di incurabilità, dato davvero non
comune in campo medico.
Il problema, peraltro, sembra essere
rappresentato anche dal fatto che, se pur i condannati e particolarmente i
detenuti lo richiedessero, le risorse utilizzabili in modo sistematico e pianificato sarebbero scarsissime o nulle, il che
non può non avere effetto paralizzante dell’espressione di magari vaghe e confuse propensioni alla psicoterapia.
Eppure per la vittima (e anche per la collettività) sarebbe un sollievo poter pensare ad un’evoluzione non solo
punitiva.
Oggi la vittima in genere dopo la denuncia lamenta di essere lasciata a se stessa, sola di fronte ad un fatto che può
averle stravolto la vita.
Nell’attuale silenzio della normativa riformata, e così come già accade per i minori ai sensi dell’art. 609 decies c.p.,
sarebbe il benvenuto anche per le vittime adulte un servizio di specifico supporto che con riservatezza e delicatezza le
prenda in carico e le segua nel difficile percorso del processo, indipendentemente dalle scelte giudiziarie che in futuro
decideranno di assumere. Sostenere la vittima subito dopo la denuncia, ed anche a distanza di tempo: accompagnarla
nel percorso degli esami clinici periodici per le patologie sessualmente trasmissibili, favorendo l’accesso alla assistenza
psicologica, e non solo nell’immediatezza dei fatti.
A proposito di accertamenti medici, a cui com’é noto ripetutamente deve sottoporsi la persona offesa, va osservato che
non é particolarmente conosciuta né utilizzata la norma di cui all’art. 16 L. 66/96, che stabilisce che l’imputato di reati
sessuali sia sottoposto, con le forme della perizia, ad accertamenti per l’individuazione di patologie sessualmente
trasmissibili, qualora le modalità del fatto possano prospettare un rischio di trasmissione delle patologie medesime.
Va peraltro sottolineato che questa norma, che nell’intenzione del progetto di legge iniziale prevedeva l’obbligatorietà
dell’adesione dell’imputato all’accertamento, deve essere interpretata, coerentemente con i principi costituzionali, nel
senso che a questi accertamenti si possa procedere solo con il consenso dell’imputato.
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Doppio sbarramento, quindi: da una parte la necessità del consenso, dall’altra il fatto che la qualità di imputato si
assume generalmente solo molti mesi dopo la data di consumazione del reato, quando il PM, dichiarate concluse le
indagini preliminari, esercita l’azione penale nei confronti dell’indagato.
E’ comunque un dato di fatto che il difensore della persona offesa può sollecitare il PM affinché provi a raccogliere il
consenso del presunto responsabile del reato anche prima che questi abbia assunto la qualità processuale di imputato,
per procedere all’indagine medica con il cosiddetto incidente probatorio o, in alternativa,
con
il cosiddetto
accertamento tecnico irripetibile. Con l’innegabile, conseguente vantaggio, se l’indagato accetta di sottoporsi all’esame,
di avere più tempestivamente notizie sulle condizioni di salute del presunto responsabile, e sul rischio di contagi.
Altro tema cruciale, costantemente oggetto di richieste di rassicurazioni da parte delle persone offese: la tutela della
loro riservatezza.
In merito esistono più livelli di protezione, accettabilmente funzionanti. La persona offesa ha diritto che si proceda a
porte chiuse, a sua semplice richiesta, al dibattimento in Tribunale. Il processo che si celebri con il rito abbreviato é già
di per sé inaccessibile al pubblico. Estremamente opportuna è stata poi l’innovazione legislativa del divieto, sanzionato
penalmente, di divulgare anche attraverso mezzi di comunicazione di massa le generalità o l’immagine dell’adulto
persona offesa di reati sessuali senza il suo consenso, ad integrazione della analoga norma già esistente per i minorenni
vittime di qualunque reato. Gli atti delle indagini preliminari sono coperti dal segreto istruttorio e sono colpiti da una
serie di divieti assoluti e relativi di pubblicazione.
Un cenno, in conclusione, alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, solo per dire che che oltre a pronunciarsi
anche contraddittoriamente con discutibili e a volte un po’ ridicoli principi di diritto in tema di definizione del concetto
di abuso sessuale nei casi meno gravi, ha recentemente superato propri pronunciamenti che avevano scandalizzato (un
esempio per tutti, la sconcertante affermazione della pretesa “illogicità” del fatto che una donna potesse subire
passivamente uno stupro per timore di conseguenze peggiori) con l’assunzione di posizioni più ragionevoli e realistiche
(ammettendo la paura come giustificazione anche di un contributo fattuale al rapporto sessuale). E ciò é utile, anche per
aiutare a pacificarsi tutte quelle - tante - vittime che si colpevolizzano per non essere state capaci di fare abbastanza
per evitare la violenza.
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“AMBULATORIO DEDICATO” all’abuso e maltrattamento ai minori:
riflessioni su due anni di lavoro
Fulvia Negro – Gemma Isaia
Gruppo Abusi e Maltrattamento su minore OIRM
F. Negro O.I.R.M. Piazza Polonia 94-10126 To –
Tel. 0113135832- Fax: 0113135214e-mail: [email protected] –
“Si parla di abuso sessuale su minore quando un bambino è coinvolto in attività sessuali che non può
comprendere, per le quali è psicologicamente impreparato e per le quali non può dare il proprio consenso e/o che
violano le leggi o i tabù sessuali” -American Academy PediatricsL’abuso sessuale su minore include uno spettro di attività molto ampio che comportano sia un contatto sessuale diretto
sia situazioni in cui non esiste alcun contatto fisico: lo stupro, lo sfruttamento sessuale, la pornografia ma anche attività,
apparentemente non intrusive come “toccamenti”, carezze, pratiche genitali inconsuete ed abuso sessuale assistito.
L’abuso sessuale su minore è un fenomeno sicuramente diffuso ma di difficile definizione poiché tuttora: “sommerso”.
Le rilevazioni effettuate su casi in atto, soprattutto se si basano sulle situazioni denunciate, forniscono dati
numericamente molto inferiori a quelli registrati con le inchieste retrospettive: un’indagine retrospettiva eseguita in
USA nel 1996 rivelava una percentuale di abusi subiti del 31% da uomini e del 62% su donne a fronte di 3% e del 6%
di casi denunciati.
In Italia gli unici dati disponibili sulla frequenza, sono quelli ASPER del 2001 secondo i quali i bambini abusati sono
4/000 con un incremento annuo dello 0.8%.
L’80- 90 % degli abusi sessuali su minore è intrafamiliare ed è generalmente un rapporto “in divenire” sempre più
intrusivo, cronico, senza forza o violenza manifesta, senza segni eclatanti. L’abusatore è una persona conosciuta e
amata dal bambino: il padre, il patrigno, il nonno, la madre, il fratello, il fratellastro, lo zio....quello che autori
anglosassoni chiamano, con macabra ironia, “l’abusatore gentile”. Questo tipo di abuso lascia spesso “segni fisici
labili” e talvolta “nessun segno fisico”.
La maggior parte dei bambini che sono stati abusati sessualmente hanno reperti normali o non specifici a livello genitale
o anale: E’ IMPORTANTE RICORDARE CHE L’ASSENZA DI LESIONI….NON E’ CLINICAMENTE
INDICATIVA DI “NON ABUSO”.
La rilevazione, la diagnosi, la presa in carico ed il trattamento dell’abuso sessuale e del maltrattamento ai minori
costituiscono problemi complessi in cui si intrecciano aspetti medici, psicologici, sociali e giuridici; ciò rende
indispensabile il coinvolgimento di più figure professionali e quindi l’unico strumento possibile e idoneo per affrontarlo
è il lavoro di equipe: la diagnosi di abuso è una diagnosi multidisciplinare
L’operatore deve quindi essere preparato ed in grado di rilevare ogni più piccolo particolare ed inserirlo in un quadro il
più possibile complesso e completo
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Nella nostra azienda nell’anno 2000-01, sostenuto da un progetto finanziato di Azione Positiva del Ministero del Lavoro
e del Comitato Nazionale di Pari Opportunità, si è tenuto il “Corso di formazione per operatori/operatrici addetti/e
all’assistenza di minori abusati attraverso un’organizzazione di lavoro in rete”. In seguito si è costituito, su motivazione
spontanea, un Gruppo di Lavoro multidisciplinare (NPI, Pediatra, Psicologo, Chirurghi pediatrici, Infermieri
professionali e pediatrici, Assistente sociale) per il rilevamento e l’iniziale presa in carico dei casi di abuso e
maltrattamento su minore. “Il Gruppo di Lavoro su abuso e maltrattamento ai minori” dell’O.I.R.M. ha ottenuto il
riconoscimento da parte della Regione Piemonte ed istituzionalizzato come equipe multidisciplinare con compiti
specifici rispetto alle equipe territoriali.
Nel 2002, in base alle indicazioni emerse dall’analisi dell’attività si è reso necessario attivare uno specifico ambulatorio,
adeguatamente attrezzato e “pensato”, cui fare riferimento con disponibilità di risorse umane e materiali.
Il nostro“Ambulatorio Dedicato” (Ambulatorio Pediatria Specialistica) offre al bambino/a ed a chi lo accompagna
pediatra e capo sala “dedicate” ed ha lo scopo di poter dare tutta l’attenzione ed il tempo necessario a raccogliere il
racconto dell’accompagnatore/bambino e soprattutto
permettere al bambino di “poter fidarsi” degli operatori ed
accettare la visita.
Dopo la visita vengono effettuati, in altra sede, i necessari colloqui dei genitori/bambino con la neuropsichiatria
infantile, psicologa, assistente sociale.
In caso si valuti la necessità vengono attivate le varie consulenze specialistiche (dermatologo, endocrinologo….)
Il principio su cui si fonda l’”Ambulatorio Dedicato” vuole essere quello di ridare ad un bambino, che è stato violato nel
corpo e nello spirito, la considerazione come “persona” e la rassicurazione sul suo stato di salute fisico.
Dal giugno 2002 al settembre 2004 sono afferiti all’ambulatorio, inviati dall’interno dell’ospedale (DEA, Ambulatori,
reparti) e dai servizi esterni (medici di base, consultori, servizi sociali, comunità, altri ospedali,, scuole e forze
dell’ordine..):
•
2002: 22 prime visite di cui 18 femmine
•
2003: 39 prime visite di cui 34 femmine
•
2004: 43 prime visite di 43 femmine
Età rappresentata: 2.5 anni – 13 anni con età media di 5 anni.
Ricordiamo che una diagnosi corretta e precoce tutela il minore e consente un intervento di cura che salvaguarda il
minore dalle significative e note conseguenze psicopatologiche (disfunzioni sessuali, disturbi psicosomatici, disturbi di
personalità, comportamento antisociale, abuso di sostanze…) e dalla possibilità della trasmissione transgenerazionale.
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PRIMA E DOPO IL REFERTO: IL RUOLO DEL MAGISTRATO
Pietro Forno – Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Torino
Prima della segnalazione
Poiché il percorso terapeutico, quello processuale penale ed eventualmente anche quello minorile sono destinati ad
intersecarsi necessariamente, non c’è atto clinico che non abbia riflessi giudiziari come ogni atto del processo penale
può avere delle importanti ricadute sui percorsi clinici della parte lesa.
I principali incroci sono rappresentati dalla visita della parte lesa, dalla segnalazione, dall’acquisizione della cartella
clinica e dalla testimonianza del medico. Sembra pertanto opportuno che il magistrato penale possa fornire alcune
indicazioni che, pur nel pieno rispetto della totale autonomia del sanitario nell’effettuazione di atti che restano
esclusivamente medici, riguardano attività di estremo interesse da un punto di vista processuale.
1) La raccolta anamnestica, per quanto concerne le vittime di violenza sessuale, non può prescindere dal
racconto del fatto. Non è infatti infrequente che la prima persona che riceve la rivelazione di uno stupro sia
proprio il medico che effettua la visita, specialmente quando si tratta di vittime adulte. Non va peraltro
dimenticato che molte di queste vittime,specie quando il fatto è recentissimo, versano in una sindrome acuta
post-traumatica, il che può condizionare anche in misura accentuata la credibilità del racconto. In taluni casi
potrebbe essere utile affiancare al medico, a seconda dei casi, uno psichiatra o uno psicologo che sia in grado
eventualmente di rilevare e documentare tali aspetti post-traumatici.
2) A tal proposito non va trascurata la reazione che taluni parti lese, specialmente se prepuberi, possono avere se
a visitarle è persona dello stesso sesso dell’abusante, come accade quando una bambina abusata da soggetto di
sesso maschile viene visitata da un ginecologo. Se non sarà possibile trovare un medico di sesso femminile
occorrerà comunque adattare il “setting” alle esigenze della piccola paziente, anche a costo di rinviare la visita
per darle il tempo di accettarla.
3) Sempre a proposito della visita dei minori prepuberi, vittime di abuso, non è infrequente che al momento della
visita essi non abbiano ancora fatto rivelazioni e che queste possano avvenire solo in un secondo tempo, dopo
un adeguato percorso terapeutico. E’ quindi necessario, da un punto di vista giudiziario, evitare che la raccolta
anamnestica possa avvenire tramite domande tanto dirette quanto suggestive (ad esempio: “la mamma mi
ha detto che il papà ti ha toccato la farfallina; è vero?”) domande che possono determinare danni irreparabili
alla genuinità del racconto del minore in sede processuale.
4) La visita deve essere il più completa possibile e come tale deve essere documentata. Dal punto di vista
processuale possono interessare non soltanto le obiettività fisiche (ordinariamente prese in considerazione nei
protocolli internazionali) ma anche le rilevazioni psicologiche relative alle reazioni del paziente, quali ad
esempio le reazioni di panico alla visita o, per quanto concerne i minori prepuberi, gli atteggiamenti
erotizzati che si possano manifestare nel corso della visita e sulla cui rilevanza vanno menzionati gli studi
della Friedrich.
5) La visita deve essere effettuata con i metodi più accurati non solo per rilevare le benchè minime tracce ma
anche per documentarle; in genere viene raccomandato l’uso del colposcopio che consente anche
l’applicazione di una macchina fotografica, possibilmente digitale, la effettuazione di tamponi alla ricerca di
sperma ed altre tracce organiche nonché infine l’effettuazione di prelievi al fine di accertare la presenza di
patologie a trasmissione sessuale.
6) Va rammentato a tal proposito che un’accurata documentazione fotografica sia della regione ano-genitale
della parte lesa sia delle zone corporee oggetto di lesioni o percosse consente di effettuare, in un secondo
tempo, approfondimenti “sulle carte” e cioè senza dover nuovamente visitare la parte lesa. Ciò da un punto
di vista processuale presenta notevoli vantaggi per la parte lesa ( a cui vengono risparmiati atti sicuramente
invasivi) per il Pubblico Ministero e per l’indagato (che possono disporre una consulenza tecnica nelle forme
dell’atto ripetibile).
7) In tema di visita ginecologica occorre estendere l’osservazione, quando ve ne è la necessità, alla zona anale.
Non tutti i ginecologi effettuano tale genere di indagine che è peraltro di primaria importanza; in tal caso sarà
opportuno che si facciano affiancare da un medico-legale o da un proctologo.
8) Se la visita evidenzia obbiettività di natura patologica o correlabili a fatti di natura traumatica è doveroso che
la cartella clinica ne dia atto attraverso giudizi di natura diagnostica e prognostica; pertanto anche nel caso
di tracce di lesioni è opportuno che, come avviene regolarmente nelle certificazioni del Pronto Soccorso, venga
specificata la durata presunta della malattia che ne è derivata.
9) Quando il giudizio diagnostico evidenzia un quadro di compatibilità fra le tracce rilevate e le informazioni
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10)
11)
12)
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anamnestiche è importante che il medico sia in grado di affrontare problematiche di diagnosi differenziale
quali ad esempio:
- quella fra incisure imenali di natura congenita e quelle di origine traumatica nonché quelle relativa
alle diverse conformazioni degli imeni;
- quella fra i postumi di lesioni “da abuso” e quelli provocati da atti di autoerotismo;
- quella fra le cicatrici di natura post-traumatici e quelle derivanti da stipsi severa o lesioni
accidentali; a tal proposito è opportuno che la raccolta di informazioni anamnestiche sia sul punto
accurata e preceda la visita ad evitare possibili “adattamenti a posteriori” da parte dei vari famigliari
di parte lesa ed indagato.
- quella fra trasmissione di patologie per via sessuale ( e quindi correlabile al trauma) e trasmissioni
di altro tipo;
In tema di segni di lesioni recenti ( ematomi, ecchimosi, segni di bruciature, abrasioni, escoriazioni etc.)
ovvero di postumi è importante valutare la compatibilità degli stessi con le indicazioni temporali raccolte in
sede anamnestica.
L’analisi del materiale prelevato potrà avvenire in ambito esclusivamente medico, anche per consentire
l’istaurazione, nel caso di presenza di patologie, di corrette terapie. Sarà comunque importante che il materiale
non venga alterato o distrutto al fine di eventuali approfondimenti di natura peritale, quale quello finalizzato
agli accertamenti sul DNA dell’indagato e della vittima.
I giudizi diagnostici possono anche essere formulati in caso di assenza di obbiettività, specificando se tale
assenza sia o meno compatibile con le informazioni anamnestiche raccolte.
Nel corso della visita medica, quando ha ad oggetto un soggetto minorenne, possono evidenziarsi situazioni di
grave pericolo per la sua incolumità in caso di immediata dimissione; a prescindere dai poteri del medico di
disporre o meno tale atto in relazione alle esigenze cliniche, quando questi, come si dirà, riveste la qualifica di
pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, rientra fra i destinatari dell’art. 403 cod. civ.:”Quando il
minore è moralmente o materialmente abbandonato o è allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da
persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi incapaci di provvedere alla educazione di lui,
la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo sicuro, sino a quando
si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione”.In altre parole il sanitario può disporne
l’allontanamento o tramite inserimento in comunità oppure trattenendo il minore in ospedale.
La segnalazione:referto o denuncia ?
A norma dell’art. 331 c.p.p. “…i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio che, nell’esercizio o a causa delle
loro funzioni o del loro servizio, hanno notizia di un reato perseguibile d’ufficio, devono farne denuncia per iscritto,
anche quando non sia individuata la persona alla quale il reato è attribuito”.
In termini analoghi si configura l’obbligo di referto che riguarda chiunque “ avendo nell’esercizio di una professione
sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si
debba procedere d’ufficio…” (art. 365 1° comma c.p.).
Alla categoria degli esercenti una professione sanitaria appartengono anche psichiatri, psicoterapeuti e psicologi clinici
e che, in particolare la legge 18.2.1989 n. 56 ( cd. legge Ossicini) istitutiva dell’ordine professionale degli psicologici,
attribuendo loro, fra l’altro, funzioni diagnostiche (art. 1) e terapeutiche (art. 3) li equipara, di fatto, agli esercenti una
professione sanitaria.
Secondo l’insegnamento della Suprema Corte, sono pubblici ufficiali, fra gli altri:
- il medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale (Cass. Pen. Sez. V 24.6.92 n. 7241; Cass.
Pen. Sez. VI 7.4.94 n. 4072);
- il medico che presta opera libero-professionale in virtù di un rapporto di natura privatistica per una
casa di cura convenzionata con il servizio sanitario nazionale (Cass. pen. Sez. Unite 11.76.1992 n.
7958) ;
- i componenti del consiglio di amministrazione di un ente ospedaliero (Cass. Pen. Sez. VI 15.12.1997
n. 11462);
- il medico primario di una casa di cura appartenente ad un ente religioso quando detta casa di cura sia
classificata come ospedale ed inserita nel servizio sanitario nazionale (Cass. Pen. Sez. VI 13.11.2000
n. 11611);
- il medico di guardia addetto ad un ambulatorio U.S.L. (Cass. Pen. Sez. V 13.9.1990 n. 12333);
- l’ostetrica che risulti abilitata ad esprimere la volontà dell’ente ospedaliero nella procedura di I.V.G.
(Cass. Pen. VI 18.9.96 n.8508);
E’ invece incaricato di pubblico servizio:
- il medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale nelle attività prodromiche alla attività
certificativa (Cass.pen. sez. III 21.2.2000 n. 1913);
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-
il medico di fiducia che partecipa ad un’interruzione volontaria di gravidanza (Cass. pen. Sez. III
30.6.94 n.1408);
- il farmacista titolare di farmacia (Cass. pen. Sez. V 24.4.91 n. 4525)
Secondo la dottrina prevalente (Erra, Denuncia penale (omessa), in Enciclopedia del diritto p. 205; Pannain, Referto in:
Novissimo Digesto pg. 1118), quando la notizia di reato emerge nel corso di attività svolte da operatori pubblici
dell’area psico-socio-sanitaria, costoro in qualità di pubblici ufficiali ovvero di incaricati di pubblico servizio
hanno l’obbligo di denuncia, ai sensi dell’art. 331 c.p.p. dei reati procedibili d’ufficio, anche in deroga ad eventuali
ragioni di segreto d’ufficio e tale obbligo è sanzionato penalmente (artt. 361 e 362 c.p.).
La differenza fondamentale fra denuncia e referto è data dal disposto dell’art. 365 2° comma c.p. secondo cui la
disposizione che punisce il delitto di omissione di referto “non si applica quando il referto esporrebbe la persona
assistita a procedimento penale”.
Va comunque rilevato che, anche ove si accolga l’opposta tesi, le differenze dal punto di vista pratico, almeno nel
campo delle visite ginecologiche, sono modeste in quanto la scriminante prevista dall’art. 365 2° comma c.p.:
- concerne solo il caso di referto nei confronti dell’assistito e non di altri (ad esempio, il genitore della
minore visitata dal ginecologo);
- non riguarda i casi in cui il referto costituisce causa mediata di procedimento penale (come nei casi
in cui non si affermare con certezza che le lesioni riscontrate su una persona siano le conseguenze di
un conflitto a fuoco a cui questa ha preso parte attiva; analoga situazione si presenta rispetto alla
donna extracomunitaria priva di domicilio in Italia:poiché la clandestinità non è di per sé stessa un
reato e comunque non può essere accertata dal medico, questi non può esimersi dall’inoltrare referto);
- non preclude al sanitario la possibilità di presentare ugualmente referto, non costituendo tale atto
violazione del segreto professionale.
La “notizia criminis”
La nozione di notizia di reato non richiede la certezza (che non esiste quasi mai) né sulla sua sussistenza né tanto
meno sull’identificazione del suo autore; secondo l’ insegnamento della Corte di Cassazione, è sufficiente il cd.
“fumus” ovvero, come è stato affermato in dottrina, la conoscenza di un fatto che “in via di prima approssimazione,
corrisponde al modello di una norma incriminatrice”, situazione ben diversa da quella di mero sospetto soggettivo;
quest’ultimo, nel campo dell’abuso sessuale offre una ricca casistica: disturbi del sonno, dell’alimentazione, del
comportamento (fughe, atti autolesivi, uso di sostanze, condotte erotizzate) sono considerati indicatori aspecifici e non
possono costituire, di per sé stessi ed in assenza di un racconto del soggetto, una notizia di reato, anche se possono
evidenziare una situazione di pregiudizio del minore e giustificare pertanto una segnalazione ai Servizi Sociali ed al
Tribunale per i Minorenni.
Analoghe considerazioni valgono per le obiettività fisiche, tematica particolarmente delicata in quanto è oggetto di
continue oscillazioni da parte della letteratura scientifica: se è fuori discussione che le obiettività patognomoniche
(gravidanza, sperma in regione ano-genitale, malattie a trasmissione esclusivamente sessuale) consentono affermazioni
in termini di certezza circa la loro origine traumatica o comunque illecita (quando si tratta di minori degli anni 14) e
quindi determinano un obbligo di denuncia/referto, negli altri casi diventa decisivo il racconto della vittima; va
pertanto ricordato a tutti i sanitari che anche in presenza di obiettività assenti o dubbie scatta l’obbligo di
denuncia/referto quando la parte lesa o altra persona riferiscano fatti che, se veri, integrano gli estremi di reato
perseguibile d’ufficio e che non è compito degli operatori, almeno ai fini della denuncia/referto, effettuare vagli
preventivi concernenti l’attendibilità della parte lesa, l’esistenza di riscontri , la sussistenza di condizioni di
procedibilità o di punibilità o di cause estintive del reato (morte del reo, amnistia, remissione della querela, prescrizione
etc.) aspetti tutti di esclusiva competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria.
Resta un’ampia “zona grigia” costituita da un lato da quadri fisici e/o comportamentali dubbi, in assenza di racconti
precisi e dall’altro di racconti confusi quali quelli che caratterizzano la cd. rivelazione mascherata. Questa ricorre con
una certa frequenza (inversamente proporzionale all’età e alla normalità psichica del soggetto) ed è caratterizzata da
impressionanti mescolanze di fantasia e realtà ovvero da descrizioni di difficile interpretazione.
In casi del genere, come più in generale, nelle non poche situazioni dubbie, può essere utile che gli operatori
interpellino lo scrivente quale coordinatore del gruppo “Fasce Deboli” ovvero il sostituto procuratore di turno.
Detta consultazione consentirebbe anche di chiarire eventuali problematiche relative alla nozione di reato
procedibile d’ufficio.
Infatti, ai sensi dell’art. 609 septies c.p, oltre ai casi relativamente semplici di reato in danno di minore degli anni 10,
ovvero di minore degli anni 14 in una delle ipotesi previste dall’art. 609 bis c.p. (violenza sessuale), ovvero ancora di
fatto commesso dal genitore, dal convivente di questi, dal tutore, dall’affidatario del minore ovvero da pubblico
ufficiale o incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle proprie funzioni, diventano procedibili d’ufficio tutti i casi
in cui i fatti di violenza sessuale (art. 609 bis e 609 ter c.p.) o di atti sessuali con minorenne (art. 609 quater c.p.) sono
connessi “con altro delitto per il quale si debba procedere d’ufficio”, nozione questa di non facile interpretazione da
parte degli operatori non giudiziari.
Nella categoria dei reati connessi rientrano fra l’altro:
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le ipotesi di maltrattamento (art. 572 c.p.) che, secondo un orientamento peraltro non costante della
Cassazione, possono consistere anche nel solo abuso sessuale reiterato per un tempo apprezzabile; in
ogni caso costituiscono maltrattamento oltre che le ripetute violenze fisiche anche le vessazioni
psicologiche che rappresentano un corollario quasi necessario dell’abuso (ricatti, inviti al silenzio,
sottoposizione di materiale pornografico, inversione dei ruoli educativi all’interno della famiglia etc.);
la violenza privata (art. 610 c.p.) che sussiste, ad esempio quando l’invito al silenzio è accompagnato
da percosse o minacce;
la violenza o minaccia per costringere a commettere un reato (art. 611 c.p.) come nei casi in cui le
violenze e le minacce sono finalizzate alla ritrattazione e cioè alla commissione di reati quali le false
dichiarazioni al Pubblico Ministero (art. 371 bis c.p.), la falsa testimonianza (art. 372 c.p.),
l’autocalunnia (art. 369 c.p.) ed il favoreggiamento personale (art. 378 c.p.);
le minacce gravi (art.612 2° comma c.p. ) che sussistono in tutti i casi in cui la parte lesa subisce
minacce di morte, ovvero con armi (anche improprie) ovvero da più persone riunite (ne bastano due);
lo stato di incapacità procurato mediante violenza (art. 613 c.p.) che ricorre anche nei casi in cui la
vittima viene posta in stato di incapacità di intendere e volere mediante somministrazione di sostanze;
le lesioni personali (artt.582 e segg. c.p.) che possono essere procedibili d’ufficio anche quando
determinano una malattia guaribile entro i 20 gg., nei casi previsti dagli artt. 583 c.p. (lesioni gravi e
gravissime) e 585 c.p., come nei casi in cui la lesione è commesso con arma, anche impropria, ovvero
è finalizzata a commettere un altro reato, fra cui la stessa violenza sessuale;
gli atti osceni in luogo pubblico o aperto al pubblico (ad esempio locali pubblici, aule scolastiche,
carceri, luoghi di lavoro, spazi condominiali, scompartimenti ferroviari etc.) o esposto al pubblico
(autovetture ferme in luogo pubblico, locali visibili dalla strada etc.) come previsto dall’art. 527 c.p.;
l’abbandono di minori o incapaci ( art. 591 c.p.),che ricorre in tutti i casi in cui sussiste un rischio
per l’incolumità della parte lesa;
il sequestro di persona ( art.605 c.p. ) che sussiste quando la parte lesa viene privata per un tempo
apprezzabile della libertà persona, ad esempio viene chiusa a chiave in un appartamento oppure
nell’abitacolo di un’autovettura senza una concreta possibilità di fuggire o di invocare aiuto;
la violazione di domicilio aggravata dalla violenza sulle persone (quando la violenza sessuale viene
commessa da persona che entra o si trattiene nell’abitazione della vittima contro la volontà di
quest’ultima), dalla violenza sulle cose ovvero con armi (art. 614 ultimo comma c.p.);
l’induzione, il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione, (artt. 3 e 4 L.75/58), il
delitto di prostituzione minorile che sussiste anche nella condotta di chiunque compia atti sessuali
con un minore di età fra i 14 e i 16 anni “in cambio di di denaro o altra utilità economica” (art. 600 bis
2° comma c.p.), la pornografia minorile (artt. 600 ter e 600 quater c.p.), che sussiste non solo
quando viene detenuto ovvero divulgato materiale pedopornografico ma anche nei casi in cui taluno
“sfrutta un minore degli anni 18 al fine di effettuare esibizioni pornografiche” (art. 600 ter 1° comma
c.p.) ovvero “distribuisce o divulga notizie o informazioni finalizzate all’adescamento o allo
sfruttamento sessuale di minori degli anni 18…” (art. 600 ter 2° comma c.p.), il delitto di turismo
sessuale (art. 600 quinquies) oltre che la nuova ipotesi di riduzione o mantenimento in schiavitù
(art. 600 c.p.) introdotta dalla L. 11.8.2003 n. 228;
la violenza di gruppo (art. 609 octies c.p.) e la corruzione di minorenni, che consiste nel compiere
atti sessuali in presenza di un minore di anni 14 al fine di farlo assistere (art. 609 quinquies c.p.);
ogni ipotesi di violenza sessuale e di atto sessuale con minore quando in essa è concorrente, anche
soltanto sotto il profilo omissivo (art. 40 cpv.c.p.) un soggetto per cui è prevista la procedibilità
d’ufficio, come nel caso in cui i fatti sono commessi da una persona estranea alla famiglia, mentre il
genitore della vittima, avendo l’obbligo di impedire l’evento omette di intervenire;
il porto e la detenzione di armi (artt. 10, 12 e14 L. 14.10.1974) specialmente nel caso in cui dette
armi siano utilizzate per intimidire la vittima.
Le modalità di presentazione del referto/denuncia
E’ assolutamente indispensabile che la segnalazione sia tempestiva (l’art. 331 c.p.p. afferma che la denuncia va
presentata “senza ritardo” mentre l’art. 334 c.p.p. prescrive che il referto venga trasmesso “entro 48 ore o, se vi è
pericolo nel ritardo, immediatamente…”) e possibilmente avvenga in un momento in cui il potenziale indagato non ne
sia a conoscenza; occorre pertanto contrastare con decisione ogni prassi locale che preveda vagli preventivi,
sprovvedute attività di indagine degli operatori con mezzi rudimentali, attese inutili nel trasmettere la notizia di
reato, specie quando queste sono condizionate da pregiudizi sull’attendibilità delle parti lese o peggio ancora
sull’utilità del processo penale.
Se, in via generale, appare opportuno che l’operatore informi la parte lesa circa l’esistenza di tale obbligo istituzionale,
la contraria volontà di tale persona (spesso determinata dai meccanismi psicologici tipici dell’abuso e della violenza)
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non può essere un elemento che blocca o ritarda la denuncia stessa.
Gli operatori non hanno da temere denunce per calunnia da parte della persona sospettata,quando si limitino a
riferire quanto caduto sotto la loro diretta osservazione (ad esempio comportamenti erotizzati ed altri segni, a livello
fisico o psichico, di tipo post-traumatico) e quanto appreso dalla parte lesa o da altre persone a conoscenza dei fatti,
evitando comunque di appesantire pericolosamente la segnalazione con inutili valutazioni specie quando queste
potrebbero essere lette come conseguenza di una “alleanza terapeutica”.
E’ altresì loro dovere denunciare anche eventuali aggressioni o minacce da essi stessi subite ad opera di persone di
cui si occupano per motivi professionali; si tratta, specialmente nel caso in cui il medico operi in una struttura pubblica,
di reati procedibili d’ufficio quali quelli previsti dagli artt. 336, 337, 610, 612 2°comma c.p. (violenza, minaccia o
resistenza a pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, violenza privata, minaccia aggravata etc.) così come è
preciso dovere della Procura e della polizia giudiziaria adottare tutte le misure idonee a tutelarli.
Tutti gli operatori devono poi garantire alla parte lesa la segretezza della denuncia, ciò al fine di eliminare in radice una
delle principali remore alla denuncia stessa e cioè il timore di finire sui giornali; sarà poi compito del P.M. vigilare “con
ferocia” perché ciò si realizzi a tutti i livelli, con direttive estremamente rigorose alla P.G..; se può essere opportuno
che, a tempo debito, vengano date notizie in ordine ad alcune vicende processuali (anche per finalità di prevenzione
generale) ciò non deve avvenire a scapito della riservatezza e della tutela delle persone, indagato compreso.
Alla stessa stregua gli operatori devono evitare ogni attività che comporti la divulgazione della notizia nell’ambito
della famiglia della parte lesa (specie se minore, quando si tratta di abuso intrafamigliare) fatto questo che porta, nella
maggioranza dei casi, l’indagato ad una precoce ed inopportuna conoscenza della rivelazione con conseguente
possibilità di esercitare pressioni illecite sulla parte lesa, di metterne a rischio l’incolumità fisica e di vanificare le
indagini in corso.
Dopo la segnalazione
Con particolare riferimento alla tematica della violenza e dell’abuso sessuale è importante che venga acquisita, con
decreto di esibizione, copia della cartella clinica relativa alla visita medica e alle attività ad essa connesse; si tratta
infatti, dal punto di vista processuale, di una prova documentale, come tale acquisibile senza limiti non solo al fascicolo
del P.M. ma anche a quello del dibattimento.
La cartella clinica, le cui caratteristiche peculiari sono la veridicità, la completezza e la chiarezza, deve essere quanto
più dettagliata possibile e fornire a chi la legge la ricostruzione dell’iter seguito nei vari momenti, dall’anamnesi alla
osservazione, dalla diagnosi alla prognosi fino alla terapia.
In molti casi se la visita è stata condotta in modo adeguato la cartella clinica, che è un atto pubblico, può essere ritenuta
sufficiente dal punto di vista probatorio, eventualmente integrato dall’audizione processuale dei sanitari in qualità di
testimoni tecnici.
Ciò consente di evitare alla parte lesa una seconda visita: come accade anche sul fronte degli accertamenti psicologici,
la perizia abbonda quando difetta la clinica.
Occorre rammentare al riguardo che il testimone tecnico ha pieno diritto di esprimere delle valutazioni quando
queste sono inerenti al suo pregresso operato; potrà pertanto dar contezza dei giudizi diagnostici e prognostici operati
effettuando, come qualsiasi clinico, ogni necessaria diagnosi differenziale.
Il suo ruolo si differenzia da quello del perito solo con riguardo a fatti diversi da quelli osservati o non rientranti nella
sua competenza. Nel caso in cui una visita ginecologica successiva evidenzi incisure imenali prima non osservate non
sarà consentito chiedergli un’opinione sulla loro eziologia; analogamente non potrà essere chiesto al teste se la parte
lesa gli sia sembrata credibile.
Il segreto professionale ed il segreto d’ufficio sono riconosciuti agli artt. 200 e 201 c.p.p. rispettivamente ad ogni
esercente una professione sanitaria e ad ogni pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio nei termini seguenti:
“Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio...ufficio o professione… i
medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche ed ogni altro esercente una professione sanitaria…. salvi i casi in cui
hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria” (art. 200 1° comma c.p.p.); “salvi i casi in cui hanno l’obbligo di
riferirne all’autorità giudiziaria, i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di pubblico servizio hanno
l’obbligo di asternersi dal deporre sui fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio che devono rimanere segreti” (art. 201
1° comma c.p.p.).
In altre parole il sanitario, sia che operi in una struttura pubblica sia che svolga
privatamente attività professionale, non può astenersi dal deporre quando ha l’obbligo
di referto o di denuncia, con la sola eccezione stabilita dall’art. 120 del D.P.R. 309/90 per i dipendenti del servizio
pubblico per le tossicodipendenze, ai quali si estendono …le garanzie stabilite dall’art. 103 c.p.p. per ispezioni o
perquisizioni disposte dall’A.G. nei loro uffici, di modo che il contenuto degli atti da loro conservati viene garantito da
un tendenziale segreto.
Questi principi sono ribaditi anche dal Codice deontologico degli psicologi italiani, approvato dal Consiglio Nazionale
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dell’Ordine nell’adunanza del 27-28 giugno 1997 che stabilisce che “nel caso di obbligo di referto o di obbligo di
denuncia, lo psicologo limita allo stretto necessario il riferimento di quanto appreso...” (art. 13 1° comma)
Nei casi invece in cui il sanitario non è tenuto né a referto né a denuncia, le citate norme relative al segreto
professionale e al segreto d’ufficio acquistano piena applicazione.
Anche nei casi di denuncia e referto è comunque ovvio che oggetto dell’obbligo è costituito dai fatti di rilevanza penale
e non anche gli aspetti della vita intima del paziente ovvero dei suoi percorsi terapeutici; questo potrà consentire di
mantenere inalterato il rapporto terapeutico fra medico e paziente ed evitare altresì che il processo penale si trasformi in
processo alla vittima.
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Atti - CISI