Istituzioni di filosofia 1
a.a. 2010-11
primo semestre
Richard Davies
Indicazioni di lettura
per frequentanti
e per non-frequentanti
Indice
Introduzione
Obblighi per frequentanti e non-frequentanti
(1) Obblighi comuni
(2) Obblighi e modalità d’esame per i frequentanti
(3) Obblighi e modalità d’esame per i non-frequantanti
Programma delle lezioni
4
4
4
4
4
5
Testi (in ordine cronologico)
Autore
testo e parte
genere letterario
Platone di Atene
Eutrifrone, 2-9
dialogo aporetico
Fedro, 274-8
dialogo socratico
Gorgia, 482
declamazione
Teeteto, 169-72
dialogo indiretto
Aristotele di Stagira Sull’interpretazione, ix
trattato di logica
Metafisica, IV, iii-iv (part)
dimostrazione elenchtica
Metafisica, V, xxx
lessico
Etica nicomachea, I, v
raccolta delle cose dette
Etica nicomachea, V, i e vii lezione pubblica
T. Lucrezio Caro
La natura delle cose, II, 218-91 poema didattico
Diogene Laerzio
Vite dei filosofi, VII, 36-48
dossografia
Giamblico
Vita pitagorica, I, xii,
biografia esemplare
Sant’Agostino
Confessioni, XI, 12-8
confessione spirituale
Boezio
Consolazione, V, iii
dialogo consolatorio
Sant’Anselmo
Proslogion, Proemio e I, 2-5 dialogo teocentrico
Eadmero di Bec
Vita di Sant’Anselmo, I 25-6 agiografia
San Tommaso
Sulla Verità, qu 2, art xii
quæstio disputata
Renato Cartesio
Meditazioni, Sinossi, I e II
monologo paranoico
Immanuel Kant
‘Nota sul genio’
appunti per lezione universitaria
Friedrich Nietzsche ‘Verità e bugie…’
saggio provocatorio
Casimir Lewy
Significato e modalità, 2
trattato accademico (‘analitico’)
Massimo Cacciari
‘L’invenzione dell’individuo’ articolo di rivista intellettuale
(‘continentale’)
8
15
20
23
26
29
32
33
34
37
39
42
43
47
50
53
55
62
73
74
83
Letture autonome
Percorsi di approfondimento per i non-frequentanti
Strumenti di consultazione
Introduzioni generali alla filosofia
‘Parafilosofia’
92
92
93
94
94
2
89
Prontuario per la stesura di una tesina
Valore
Presentazione
Conteggio delle parole
Originalità
Citazioni
Note
Bibliografia
96
96
96
96
96
97
98
99
3
Introduzione
Obblighi per frequentanti e non-frequentanti
(1) Obblighi comuni, sia per i frequentanti che per i non-frequentanti (5 crediti formativi
[CFU])
Tutti gli studenti del corso sono tenuti a familiarizzarsi con:
(i)
R. Popkin e A. Stroll, Filosofia per tutti, Net, Milano, 2003 ‘Introduzione’ e
capp. 3-5 (pp. 13-20 e 139-308)
(ii)
Julian Baggini Il maiale che vuole essere mangiato, Cairo Editore, Milano,
2006, §§ 1-4, 6, 9, 11, 13, 19, 21, 24-5, 28, 30-2, 38-41, 46, 51, 54, 59, 62-3,
68-9, 72-3, 76, 81, 88, 90, 93, 98 (150 pp circa)
(iii) i testi contenuti in questa dispensa a pp. 8-91
(2) Obblighi e modalità di esame per i frequentanti (5 CFU)
Per la frequenza effettiva si intende la presenza ad almeno due terzi delle lezioni del modulo.
L’esame orale verterà sugli argomenti discussi in aula e sui testi di cui sopra (‘Obblighi
comuni’).
In aggiunta all’esame orale previsto dalla legge, gli studenti hanno l’opzione di due altre
modalità di verifica, che possono concorrere alla valutazione finale.
La prima è un paper scritto a fine modulo. Questo è della durata di due ore e consiste in
una scelta di tre domande delle sei proposte concernente il contenuto delle lezioni. Si
presuppone una conoscenza della lettura delle parti indicate di Popkin e Stroll, e di Baggini,
ma questi testi non sono oggetto dell’esame.
La seconda modalità alternativa a disposizione dei frequentanti è l’elaborazione di una
tesina in 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di
una tesina’, pp. 96-101). Gli studenti possono scegliere uno degli argomenti proposti per i
non-frequentanti (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 92-3) o proporre un percorso personale
inerente ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle
letture e sul titolo con il docente del corso. Una tesina vale 5 CFU.
(3) Obblighi e modalità di esame per i non-frequentanti (5 CFU)
I non-frequentanti devono preparare i testi di cui sopra (‘Obblighi comuni’) e preparare uno
degli approfondimenti proposti più sotto (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 92-3). Per la
‘preparazione’ si intende una lettura accurata e riflessiva, mirata a sostenere un’interrogazione
orale sia sull’argomento scelto sia sui testi di base.
Come preparazione all’esame orale previsto dalla legge, i non-frequentanti possono
elaborare una tesina di 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per
la stesura di una tesina’ pp. 96-101) o su uno degli argomenti proposti (‘Percorsi di
approfondimento’, pp. 92-3) o proponendo un percorso personale inerente ai temi del corso; in
questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle letture e sul titolo con uno
dei docenti del corso. Una tesina vale 5 CFU.
4
Programma delle lezioni
N°
lezione
Argomento trattato
Testo di riferimento
1
Materiali e modalità del corso
2
Il nome ‘filosofia’ e la figura del filosofo
– le tre vite
– l’uovo filosofico e le sue parti
3
Come si citano i classici: Platone e Aristotele nella
tradizione testuale
– edizioni, traduzioni e commentari
– libri persi e non-scritti
La ricostruzione di un ragionamento a partire da
testimonianze
– sulla necessità di filosofare (il ‘Protrettico’
di Aristotele)
– l’improponibilità del contrario
L’ironia di Socrate:
– la dichiarazione della propria ignoranza
– l’avvio all’interrogazione
La richiesta di una definizione
– l’offerta di esempi
– le condizioni necessarie e sufficienti
Concetti ‘spessi’ e difficili da tradurre (cos’è la
miasma?)
– perché la seconda definizione di Eutifrone è
quella giusta
– la ‘pietà’ non è una virtù
Il ridicolo della filosofia
– termini tecnici e sofismi
– un passatempo adatto ai giovani
Perché i filosofi sono imprigionati dal passato della
loro disciplina
– lo storicismo italiano negli studi umanistici
La varietà di rapporti esterni della filosofia
– con la ‘cultura’ (anche popolare) e con la
letteratura
– con le religioni e con le scienze
– con la vita pubblica e con quella quotidiana
4
5
6
7
8
9
10
5
Giamblico, Vita
Aristotele, Etica, I
Diogene, Vite
Platone, Eutifrone, 2-4
Platone, Eutifrone, 5-8
Aristotele, Etica, V
Platone, Eutifrone, 5-8
Platone, Gorgia
Diogene, Vite
Kant, ‘Nota sul genio’
16
La formazione di ‘scuole’ filosofiche
– concorrenza tra le sette: la figura di Socrate
nell’Atene ellenistica
– ‘analitici’ vs ‘continentali’ e il problema
della comunicazione
I linguaggi della filosofia e la questione della
citazione ‘in originale’
– i presunti vantaggi di certe lingue naturali
– i presunti vantaggi di certi formalismi
I privilegi del dialogo come genere letterario
filosofico
– la possibilità di una saggezza scritta o nonscritta
Filosofie, sistemi, atmosfere e metafore
– un ruolo per la ‘dimostrazione’ nella
discussione filosofica?
La spinta relativista
– la verità come ‘un esercito di metafore’
– ‘non ci sono fatti, ma solo interpretazioni’
Gradi e forme di relativizzazione
17
L’autoconfutazione del relativismo di Protagora
Platone, Teeteto
18
La difesa ‘elenchtica’ della Legge di
Contraddizione
La spinta scettica
– annientacredenze e mangiannientatori
– i poteri del genio maligno
La negazione della propria esistenza
– il cogito come ‘ciò che ognuno che può fare
per se stesso ma mai per un altro’
La reductio ad absurdum come arma potente in
matematica (e altrove)
– una definizione di Dio
– la dimenticabilità dell’illuminazione
Varietà di prova ontologica
– l’esistenza non è un genere/un predicato
La conoscenza di Dio e del tempo creato
Aristotele, Metaf. IV
Preconoscenza divina e fatalismo
– un punto di vista atemporale sul tempo
– la libertà umana di scegliere il futuro
Il Principio di Bivalenza e i contingenti futuri
Boezio, Consolazione
San Tommaso, Sulla verità
11
12
13
14
15
19
20
21
22
23
24
25
6
Cacciari, Invenzione
Lewy, Significato
Platone, Fedro
Nietzsche, ‘Verità e bugie’
Cartesio, Meditazioni I
Cartesio, Meditazioni II
Sant’Anselmo, Proslogion
Eadmero, Vita
Sant’Agostino,
Confessioni
Aristotele, Sull’
Interpretazione
26
27
28
29
30
L’ossimoro di ‘legge di natura’
– ‘nomos’ e ‘physis’
– ‘leggere il libro della natura’
Eventi senza causa: la deriva atomica
– perché il casuale non libera
Eventi con molte cause: coincidenze
– incidenti ed esiti fortunati
– ‘come se fossero’ intenzionali
Eventi con cause sovrannaturali
– varietà di miracoli, nascosti e palesi
– miracoli come messaggi
Sinossi delle tappe percorse
7
Platone, Gorgia
Aristotele, Etica V
Lucrezio, Sulla natura
Aristotele, Metaf. V
Platone di Atene (427-347 a.C.)
Eutifrone
lingua originale: greco
edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra 1578
tr. it. G. Reale, Bompiani, Milano, 2001
tema: la definizione
genere letterario: dialogo aporetico
[Stephanus, vol. I, pag. 2]
Incontro di Socrate con Eutifrone davanti al tribunale1
EUTIFRONE: Che c’è di nuovo, Socrate, che hai lasciato i trattenimenti del Liceo per venire
oggi a trattenerti qui intorno al Portico del arconte re? Non credo che anche tu abbia,
come ho io, una causa davanti al re.
SOCRATE. Veramente, Eutifrone, questa mia gli Ateniesi non la chiamano una causa, ma
un’accusa.
EU Che dici? Qualcuno dunque ha sporto un’accusa contro di te? Perché non ti farò il torto di
supporre che tu accusi un altro.
SO No, di certo.
EU Ma un altro te?
SO Precisamente.
EU E chi è costui?
SO In coscienza, Eutifrone, neppur io so bene chi egli sia. Deve però essere giovane ed ignoto.
Lo chiamano, se non erro, Meleto, ed è del demo di Pittos. Non hai tu per caso in mente
un Meleto Pitteo, con zazzera, poca barba e naso aquilino?
EU Non credo di conoscerlo, Socrate. Ma, insomma, di che ti accusa?
L’accusa di empietà e di corruzione dei giovani
SO Di che? D’un’accusa che rivela un uomo non comune, mi sembra. Perché, così giovane,
intendersi d’una faccenda così grave, non è affare da nulla. Egli difatti, a quanto afferma,
sa in che modo si corrompano i giovani e chi siano quelli che li corrompono. E dev’essere
un sapiente; s’è accorto della mia ignoranza, ha visto che corrompo i suoi coetanei, e
viene ad accusarmi alla città, come ad una madre comune, mi pare, il solo dei nostri
uomini di Stato che cominci bene, giacché è cominciar bene il prendersi cura prima di
tutto dei giovani, in modo che riescano ottimi, come il dovere d’un buon agricoltore è aver
cura prima delle tenere piante e poi delle altre. E perciò forse anche Meleto [pag. 3]
monda il terreno innanzi tutto di noi che corrompiamo, a suo dire, i germogli dei giovani;
e in seguito, quando si sarà messo a curare i più anziani, procaccerà evidentemente
moltissimi e grandissimi beni alla città, come c’è da aspettarselo da chi comincia a questo
modo.
1
I titoletti in neretto sono indicazioni suggerite dal traduttore delle fasi del ragionamento,e non si trovano nel
testo platonico (nota di Davies).
8
Platone, Eutifrone
EU Così fosse, Socrate! Eppure temo assai che non avvenga il contrario. Giacché mi pare che
egli cominci a nuocere alla città dal focolare, quando cerca di far male a te. E, di grazia,
che cosa fai, secondo lui, per corrompere i giovani?
SO Delle cose enormi, al primo udirle, mio impareggiabile amico. Egli afferma ch’io sono un
facitore di dèi; e perché, com’egli pretende, faccio nuovi dèi e non riconosco gli antichi,
per questo mi ha accusato.
EU Capisco, Socrate; perché tu dici d’avvertire di tratto in tratto quel tal segno demonico. Egli
dunque immaginandosi che tu voglia introdurre delle nuove credenze religiose, perciò ha
sporto contro te quest’accusa. E viene in tribunale a calunniarti, perché sa che accuse
simili fanno presa facilmente sul volgo. Anche di me, quando nell’assemblea parlo di
religione e predico il futuro, anche di me si ride come d’un pazzo; e sebbene io non abbia
mai detto nulla di men che vero nelle mie predizioni, tuttavia il volgo è invidioso degli
uomini del nostro stampo. Per altro, del volgo non bisogna darsi pensiero, ma affrontarlo
animosamente.
SO Mio caro Eutifrone, se non si trattasse che d’esser deriso, sarebbe cosa da nulla. Agli
Ateniesi, secondo me, non importa gran fatto se pensano che qualcuno sia un dotto,
purché non si eriga a maestro della propria sapienza. Ma quando sospettano che uno
voglia comunicarla agli altri, oh! allora montano in collera, o per invidia, come tu dici, o
per qualche altro motivo.
EU Quanto a codesto non desidero per niente sperimentare che cosa essi pensino di me.
SO Perché forse tu ti metti, mi pare, di rado in evidenza e sei restio ad insegnare la tua
sapienza. Io invece temo di sembrar loro di volere, per la mia grande socievolezza,
prodigare a tutti quel che ho in mente, non solo senza compenso, ma anche rimettendoci
del mio, ove qualcuno provi gusto ad ascoltarmi. E però se, ripeto, si contentassero di
rider di me, come tu dicevi di te, non mi rincrescerebbe affatto passar qualche ora in
tribunale, a scherzare e a ridere. Ma se la piglieranno sul serio, nessuno può prevedere
come andrà a finire, fuorché voi altri indovini.
EU Probabilmente, Socrate, non avverrà nulla di male; e tu verrai a capo del tuo processo
secondo il tuo desiderio, come io, penso, del mio.
L’accusa di omicidio rivolta da Eutifrone contro il padre
SO E così, che specie di causa, Eutifrone, è la tua? Ti difendi o persegui?
EU Perseguo.
SO E chi? [pag. 4]
EU Uno che, a perseguirlo, devo sembrarti impazzito.
SO Oh, che! persegui forse uno che vola?
EU Ma che volare! E’ un vecchio decrepito.
SO E chi è?
EU Mio padre.
SO Tuo padre, mio eccellente amico?
EU Mio padre, appunto.
SO E che cosa gli rimproveri e di che lo accusi?
EU D’omicidio, Socrate.
SO Oh, Eracles! la gente, Eutifrone, certo ignora come ciò sia ben fatto, perché non è, credo,
da tutti regolarsi così in un caso simile, ma da uomo assai provetto in fatto di sapienza.
EU Sicuro, per Zeus, assai provetto, Socrate.
9
Platone, Eutifrone
SO E sarà senza dubbio uno dei tuoi familiari la vittima di tuo padre, non è vero? Giacché per
un estraneo, penso, non lo accuseresti d’omicidio.
EU E’ ridicolo, Socrate, il credere da parte tua che faccia qualche differenza se il morto sia un
estraneo o un familiare, e che non si debba tener conto unicamente di questo: se chi ha
ucciso ha ucciso giustamente o no; e se giustamente, lasciarlo andare; se no, dargli
addosso, quand’anche l’uccisore viva sotto il tuo tetto e mangi alla tua mensa. Perché il
contagio ti s’attacca egualmente, ove tu, sapendolo, viva con un uomo siffatto e non
purifichi te e lui, perseguendolo in giudizio. Il morto non era che un mio colono; e poiché
possedevamo delle terre a Nasso, serviva lì da noi dietro compenso. Un giorno, preso dal
vino e montato in collera contro uno dei nostri servi, lo ammazza; sicché mio padre,
fattolo legare mani e piedi e gettatolo in una fossa, manda qui uno a sentire dall’esegeta
che cosa ne dovesse fare. Nell’attesa, egli di quell’uomo in ceppi non si curava né punto
né poco, come d’un omicida, quasi non importasse nulla se anche moriva. E questo difatti
avvenne; che per la fame, per il freddo e per le catene, morì prima che il messo tornasse
dall’esegeta. Ed ora perciò mio padre e gli altri di casa ce l’hanno con me, perché per un
omicida sporgo querela d’omicidio contro mio padre, che, dicono, non l’uccise, e perché,
quand’anche l’avesse ucciso, dal momento che il morto era un omicida, non bisognava
darsi pena per lui. E sentenziano che è un’empietà da parte d’un figlio sporgere contro il
padre una querela d’omicidio, perché, Socrate, non hanno un’idea precisa di quel che,
secondo il diritto divino è santo o empio.
SO Sicché tu, Eutifrone, in nome di Zeus, credi di vederci così chiaro nei giudizi divini, circa
quello che è santo o empio, da non temere che, stando i fatti come tu li hai narrati, con
l’accusa contro tuo padre tu non commetta per caso un’azione empia?
EU Non varrei nulla, Socrate, [pag. 5] né Eutifrone sarebbe dappiù del volgo, s’io non sapessi
a fondo tutte queste cose.
Posizione del problema del dialogo: che cos’è il santo?
SO Per me dunque, mirabile Eutifrone, il meglio è farmi tuo scolaro, e prima che s’inizi il
dibattimento, invitare Meleto ad un’intesa stragiudiziale. Io gli direi che anche per il
passato tenevo in gran conto la conoscenza delle cose divine, e che ora, dal momento
ch’egli m’accusa d’errare in fatto di religione, perché improvviso e introduco delle
credenze nuove, mi son fatto tuo discepolo. E: ‘Se tu’, direi, ‘Meleto, riconosci che
Eutifrone è sapiente in questo campo, devi pur credere che anch’io penso rettamente e non
chiamarmi in giudizio; se no, intenta un processo a questo maestro prima che a me, come
ad uno che corrompa i vecchi, me e il proprio padre, me con gl’insegnamenti e il padre
con le ammonizioni e col castigo’; e ov’egli non mi dia retta e non rinunzi alla sua azione,
o non quereli te in vece mia, ripeterei davanti al tribunale quelle medesime cose su cui
l’avevo già invitato ad una intesa preliminare.
EU Ah! per Zeus, Socrate, se provasse ad accusarmi, saprei ben io, credo, trovare il suo lato
debole, e, assai più che di me, in tribunale si parlerebbe di lui.
SO Ed è questa la ragione per cui, mio caro amico, desidero di farmi tuo discepolo, giacché
vedo che mentre di te né altri né questo Meleto mostrano d’accorgersi, quanto a me egli
m’ha scorto così addentro e così facilmente da accusarmi d’empietà. Or dunque, in nome
di Zeus, dimmi ciò che asserivi di saper tanto bene: che cosa sia, secondo te, pio, e che
cosa empio, così in fatto d’omicidio, come in qualsiasi altro caso. O in ogni atto ciò che è
santo non è sempre identico a se stesso, e ciò che invece non santo contrario di tutto ciò
10
Platone, Eutifrone
che è santo ma sempre però identico a sé, ed informato, quanto alla non santità, ad
un’unica idea di tutto quello che sia per essere non santo?
EU Certamente, Socrate.
Prima definizione: Santo è ciò che Eutifrone sta facendo, accusando il padre
SO Su, dunque, rispondimi: come definisci ciò che è santo e ciò che non è santo?
EU Ebbene, io dico che la santità è fare quel che io faccio ora: perseguire chi, sia padre sia
madre sia un altro qualunque, operi ingiustamente, commettendo o un omicidio o un furto
sacrilego o qualche altra azione colpevole; l’empietà invece nel non perseguirlo. Poiché,
vedi, Socrate, che prova decisiva ti addurrò che la legge è questa; prova già da me addotta
anche ad altri per dimostrare che si fa bene a far così, a non avere alcuna indulgenza per
l’empio, chiunque egli sia. Quegli stessi infatti, che tengono Zeus per il migliore e il più
giusto tra gli dèi, [pag. 6] ammettono che anch’egli incatenasse il proprio padre perché
divorava ingiustamente i figlioli, e che quello a sua volta avesse mutilato suo padre per
colpe simili; e s’adirano poi con me, perché chiamo in giudizio mio padre, che ha
commesso un reato. E così sono in contradizione con se stessi nel giudicare gli dèi e me.
SO Ah! Eutifrone, che la ragione per cui mi son tirato addosso quest’accusa, sia appunto
perché, quando degli dèi si contano delle storie siffatte, io non posso udirle senza
sdegnarmene? E perciò, probabilmente, c’è chi dirà ch’io pecco. Ma ora, poiché ci credi
anche tu, che di queste cose t’intendi assai bene, dovremo per forza, mi pare, convenirne
anche noi. Che potremo infatti opporre noi che siamo i primi a confessare di non
intendercene affatto? Ma dimmi, in nome di Zeus protettore dell’amicizia: pensi tu
davvero che quei fatti siano andati proprio a quel modo?
EU Anzi ce n’è anche di più sorprendenti che la gente non sospetta nemmeno.
SO Sicché tu ritieni che ci siano realmente tra gli dèi e guerre intestine e inimicizie terribili e
battaglie e tante altre cose dello stesso genere, che ci si raccontano dai poeti e di cui sono
adorni per mano dei nostri migliori artisti molti luoghi e oggetti sacri, come, in
particolare, di ricamate immagini è pieno quel peplo che nelle grandi Panatenee si porta su
nell’Acropoli? Diremo che questi fatti son veri, Eutifrone?
EU E non solo codesti, Socrate, ma, come dicevo or ora, degli dèi, se vuoi, ti racconterò tante
altre storie, che a udirle ne rimarrai, lo so bene, addirittura stupito.
Critica metodologica della prima definizione data da Eutifrone
SO Non ne dubito, ma queste me le racconterai un’altra volta. Per ora provati a spiegarmi più
chiaramente quel che ti chiedevo prima. Io t’avevo domandato che cosa mai fosse la
santità; tu, amico, non m’hai insegnato a dovere, ma mi hai detto che santo è suppergiù
quel che fai ora, perseguendo d’omicidio tuo padre.
EU E ho detto la verità, Socrate.
SO Forse. Tuttavia, Eutifrone, d sono molti altri atti che tu chiami santi.
EU Ci sono di certo.
SO Ebbene, ti ricorderai ch’io t’avevo pregato d’indicarmi, non uno o due di quei tanti atti che
tu chiami santi, ma precisamente quell’idea per cui tutto ciò che è santo è santo. Tu devi
infatti avermi detto che in forza d’un’unica idea tutti gli atti empi sono empi e i santi santi.
O non te ne rammenti?
EU Io, sicuro.
11
Platone, Eutifrone
SO Dunque, insegnami precisamente qual è codesta idea, affinché, mirando ad essa e
servendomene come d’un esemplare, io dica santo quello che le somigli tra gli atti che tu
o altri faccia, ed empio quello che non le somigli.
Seconda definizione: Santo è ciò che è caro agli dèi
EU Ma se desideri così, Socrate, ti risponderò anche così.
SO Ma lo desidero certo.
EU Ebbene, quello che è caro agli dèi è santo, [pag. 7] quello che ad essi non è caro, empio.
SO Egregiamente, Eutifrone; ora mi hai risposto proprio così come ti pregavo di rispondermi.
Se per altro m’hai risposto in modo conforme al vero, non lo so ancora. Ma tu senza
dubbio mi dimostrerai per giunta che quel che dici è vero.
EU Indiscutibilmente.
SO Orsù, vediamo un po’ che cosa diciamo. Ciò che è caro agli dèi e l’uomo caro agli dèi, è
santo; ciò invece che è odioso agli dèi e l’uomo odioso ad essi, empio. E non sono la
stessa cosa; ma il santo è il puro contrario dell’empio. Non è così?
EU Appunto.
SO E ti pare che si sia detto bene?
EU Mi pare Socrate.
Prima critica alla seconda definizione
SO Però, Eutifrone, s’è anche detto che gli dèi non sono d’accordo, che dissentono gli uni
dagli altri, che c’è dell’inimicizia tra loro?
EU Difatti s’è detto.
SO Orbene, mio eccellente amico, inimicizia ed ire sono l’effetto d’un dissenso su che cosa?
Esaminiamo così: se io e tu dissentiamo su un numero, quale dei due sia maggiore, questo
dissenso potrebbe mai renderci nemici e metterci in collera l’uno contro l’altro? O, fatto il
conto, ci troveremmo su un punto simile immediatamente d’accordo?
EU Sicuro.
SO E così pure, se si dissentisse su una grandezza maggiore o minore, basterebbe misurare per
mettere immediatamente da parte qualunque dissenso?
EU. E’ vero.
SO E ci basterebbe, credo, pesare per decidere se qualche cosa è più pesante o più leggera?
EU E come no?
SO Ma quali sono allora gli argomenti, per i quali, in mancanza d’un criterio sicuro,
diverremmo nemici tra noi e monteremmo in collera? Forse non hai subito la risposta. Ma
guarda se non siano questi che dico io: il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto, il buono e
il cattivo. Non son forse questi gli argomenti, su cui in caso di dissenso, ove non si possa
ricorrere a un mezzo di giudizio incontestabile, diventiamo tra noi nemici, quando lo
diventiamo, e io e tu e tutti gli altri uomini?
EU Ma sì, Socrate, è appunto qui il dissenso e su questi argomenti.
SO E gli dèi, Eutifrone? Se dissentono, non dissentono forse per queste medesime ragioni?
EU Necessariamente.
SO E così, nobile Eutifrone, anche gli dèi, stando alle tue parole, non tutti stimano le stesse
cose o giuste o belle o brutte o buone o cattive. Perché forse non litigherebbero tra loro, se
non dissentissero intorno a questi argomenti. O no?
EU Hai ragione.
12
Platone, Eutifrone
SO E però quelle cose che ciascun di loro stima buone e giuste, sono appunto quelle che ama,
laddove odia le cose contrarie ad esse?
EU Certo.
SO Sono dunque le stesse cose, come tu dici, quelle che alcuni stimano giuste, [pag. 8] altri
ingiuste; e poiché intorno ad esse non sono d’accordo, vengono a liti e a guerre gli uni con
gli altri. Non è così?
EU Proprio così.
SO Sicché, le stesse cose, pare, sono odiate e amate dagli dèi, e sarebbero perciò odiose e care
agli dèi.
EU Parrebbe.
SO E per conseguenza, Eutifrone, secondo questo ragionamento, sarebbero sante ed empie ad
un tempo.
EU Probabilmente.
Ulteriori critiche alla seconda definizione
SO Dunque, meraviglioso amico, tu non hai risposto a ciò che ti chiedevo. Giacché non ti
chiedevo che sia mai quello che è insieme santo ed empio, poiché, come pare, quel che è
caro agli dèi è anche odioso ad essi. Sicché, Eutifrone, non ci sarebbe affatto da stupirsi se
col fare quel che ora fai, provocando una pena contro tuo padre, tu facessi cosa cara a
Zeus, ma odiosa a Crono e ad Urano, o cara ad Efesto, ma odiosa ad Era, e che, se ci sono
altri dèi che su questo punto dissentano tra loro, avvenisse lo stesso anche con essi.
EU Ma, Socrate, su questo punto: che chi ha ucciso ingiustamente qualcuno debba pagarne la
pena, nessuno, credo, tra gli dèi la penserà diversamente da un altro.
SO E come, Eutifrone? Degli uomini né hai mai udito qualcuno mettere in dubbio che chi ha
ucciso ingiustamente o ha commesso qualche altro atto ingiusto non debba pagarne la
pena?
EU Veramente è quello che non cessano di mettere in dubbio dappertutto e specie nei
tribunali. E mentre commettono ogni sorta d’ingiustizie, fanno e dicono qualunque cosa
per sottrarsi alla pena.
SO Ma, Eutifrone, confessano forse d’esser colpevoli e, pur confessandolo, sostengono di non
doverne pagare la pena?
EU Oh! questo no, davvero.
SO Dunque, non è esatto che dicano e facciano qualunque cosa, giacché, se non m’inganno,
non hanno il coraggio di dire o mettere in dubbio questo: che, avendo commesso
un’ingiustizia, non debbano pagarne la pena. Ma dicono, credo, di non aver commesso
nessuna ingiustizia. Non è così?
EU E’ vero.
SO E quindi non mettono in dubbio che il colpevole debba pagarne la pena; ma piuttosto
questo: chi sia il colpevole e di che e in quali circostanze.
EU E’ vero.
SO E altrettanto non si verifica forse anche tra gli dèi, se litigano del giusto e dell’ingiusto,
secondo il tuo discorso; e gli uni affermano degli altri che hanno colpa, e gli altri lo
negano? Poiché questo, mirabile amico, nessuno né tra gli dèi né tra gli uomini oserebbe
sostenerlo: che il colpevole non debba esser punito.
EU Sì, Socrate, quel che dici è vero, almeno in generale.
13
Platone, Eutifrone
SO Ma, Eutifrone, quelli che disputano, siano uomini o dèi, posto che gli dèi disputino, non
disputano, mi pare, se non di singoli atti. E, dissentendo su qualche atto, gli uni affermano
che è giusto, gli altri che è ingiusto. Non è così?
EU Certo. [pag. 9]
Applicazione delle critiche all’azione giudiziaria di Eutifrone
SO Orsù, caro Eutifrone, insegna anche a me, affinché io divenga più sapiente, che prova hai
tu per credere che tutti gli dèi stimino ingiusta la morte di quel mercenario che, divenuto
omicida e messo in ceppi dal padrone dell’ucciso, sia morto a causa dei ceppi, prima che
colui che ve lo aveva gettato potesse sapere dagli esegeti che cosa dovesse farne; e che in
difesa d’un tale uomo sia ben fatto per un figlio d’accusare e querelare d’omicidio il
proprio padre? Via, procura di mostrarmi chiaramente come senza alcun dubbio tutti gli
dèi tengano per giusta una tale azione. Quando me l’avrai dimostrato in modo esauriente,
non cesserò di predicare le lodi della tua sapienza.
EU Forse l’impresa non è facile, Socrate; tuttavia potrei dimostrartelo sino all’evidenza.
SO Capisco; io devo sembrarti più ottuso dei giudici, poiché a questi tu dimostrerai
chiaramente che l’atto di tuo padre è ingiusto e tutti gli dèi lo trovano odioso.
EU Chiarissimamente, Socrate, purché mi stiano a sentire.
14
Platone di Atene (427-347 a.C.)
Fedro
lingua originale: greco
edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra 1578
tr. it. G. Reale, Platone: Tutti gli scritti, Rusconi, Milano,
tema: il non-scritto in filosofia
genere letterario: dialogo ‘socratico’
[Stephanus, vol III, pag. 274]
La scrittura non accresce né la sapienza né la memoria degli uomini1
SOCRATE - Resta ora da parlare della convenienza dello scritto e della non convenienza,
quando esso vada bene e quando sia invece non conveniente. O no?
FEDRO - Sì.
SO - Ora sai in quale modo, per quanto concerne i discorsi, si può massimamente piacere a
dio, facendoli oppure parlando di essi?
FE - Proprio no. E tu?
SO - Io posso narrarti una storia tramandataci dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo
trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini?
FE - La tua domanda è ridicola! Ma narrami questa storia che hai udito.
SO - Ho udito, dunque, narrare che presso Naucrati d’Egitto c’era uno degli antichi dèi di quel
luogo, al quale era sacro l’uccello che chiamano Ibis, e il nome di questo dio era Theuth.
Dicono che per primo egli abbia scoperto i numeri, il calcolo, la geometria e l’astronomia e
poi il gioco del tavoliere e dei dadi e, infine, anche la scrittura. Re di tutto quanto l’Egitto a
quel tempo era Thamus e abitava nella grande città dell’Alto Nilo. Gli Elleni la chiamano
Tebe Egizia, mentre chiamano Ammone il suo dio. E Theuth andò da Thamus, gli mostrò
queste arti e gli disse che bisognava insegnarle a tutti gli Egizi. E il re gli domandò quale
fosse l’utilità di ciascuna di quelle arti, e, mentre il dio gliela spiegava, a seconda che gli
sembrasse che dicesse bene o non bene, disapprovava oppure lodava. A quel che si narra,
molte furono le cose che, su ciascun’arte, Thamus disse a Theuth in biasimo o in lode, e per
esporle sarebbe necessario un lungo discorso.
Ma quando si giunse alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli
Egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della
memoria e della sapienza».
E il re rispose: «O ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece
capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le
adopereranno.
[pag 275] Ora tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto pro prio il contrario di
quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la
dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si
abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se
medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla
memoria.
1
I titoletti in neretto sono indicazioni suggerite dal traduttore delle fasi del ragionamento, e non si trovano nel
testo platonico (nota di Davies).
15
Platone, Fedro
«Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità: infatti essi,
divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere
conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà
ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che
sapienti» .
FE - O Socrate, ti è facile narrare racconti egiziani, o di quale altro paese tu vuoi!
SO - Ma se ci sono stati alcuni, mio caro, che hanno creduto che i primi vaticini di Zeus
Dodoneo venissero dai discorsi di una quercia! Gli uomini di allora, dato che non erano
sapienti come voi giovani, nella loro semplicità, si accontentavano di ascoltare «una quercia
o una rupe», purché dicessero la vec rità; ma per te, forse, fa differenza chi parla e di dove
è; infatti, tu non guardi solamente a questo, se le cose stanno come egli dice oppure se
stanno diversamente.
FE - Hai colpito giusto: anche a me pare che, riguardo alla scrittura, le cose stiano come dice il
re cebano.
SO - E allora, chi ritenesse di poter tramandare un’arte con la scrittura, e chi la ricevesse
convinto che da quei segni scritti potrà trarre qualcosa di chiaro e saldo, dovrebbe essere
colmo di grande ingenuità e dovrebbe ignorare veramente il vaticinio di Ammone, se ritiene
che i discorsi messi per iscritto siano qualcosa di più di un mezzo per richiamare alla
memoria di chi sa le cose su cui verte lo scritto.
FE - Giustissimo.
Lo scritto non sa aiutarsi e ha bisogno del soccorso del suo autore
SO - Perché, o Fedro, questo ha di terribile la scrittura, simile, per la verità, alla pittura: infatti,
le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se domandi loro
qualcosa, se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio; e così fanno anche i discorsi. Tu
crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma se, volendo capire bene, domandi
loro qualcosa di quello che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosa. E
una volta che un discorso sia scritto, rotola da per tutto, nelle mani di coloro che se ne
intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali non importa nulla, e non sa a chi deve
parlare e a chi no. E se gli recano offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno
dell’aiuto del padre, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo.
FE - Anche questo che hai detto è giustissimo.
Le ragioni della superiorità dell’oralità sulla scrittura
SO – [pag. 276] E allora? Vogliamo considerare ora un altro di A scorso, fratello legittimo di
questo? E vogliamo vedere in quale modo nasca, e, per sua natura, quanto sia migliore e più
potente di questo?
FE - Qual è questo discorso, e in quale modo tu dici che nasca?
SO - E il discorso che viene scritto, mediante la scienza, nell’anima di chi impara, e che è
capace di difendersi da sé e sa con chi deve parlare e con chi deve tacere.
FE - Intendi dire il discorso di colui che sa, il discorso vivente e animato, del quale il discorso
scritto può dirsi, a buona ragione, un’immagine?
Lo scritto come forma di gioco e la serietà dell’oralità
SO - Sì, appunto. Ora, dimmi un po’ questo: l’agricoltoB re che ha senno, farà sul serio
seminando d’estate nei «giardini di Adone» i semi che gli stanno a cuore e dai quali vuole
16
Platone, Fedro
che nascano frutti, e si rallegrerà nel vederli crescere belli in otto giorni, o lo farà per gioco
e a motivo della festa, se pure lo farà? Invece, i semi dei quali si preoccupa sul serio li
seminerà in luogo adatto, seguendo tutte le regole dell’arte dell’agricoltura, contento che
quanti ne ha seminati giungano al loro termine in otto mesi?
FE - Così farà, o Socrate, in quest’ultimo caso seriamente, nell’altro non seriamente, come tu
dici.
SO - E chi ha la scienza del giusto, del bello e del buono, dovremo dire che abbia meno senno
di un agricoltore per le sue sementi?
FE - No, assolutamente.
SO - E allora, se vorrà fare sul serio, non le scriverà sull’acqua nera, seminandole mediante la
cannuccia da scrivere, facendo discorsi che non sono capaci di difendersi da soli col
ragionamento, e che non sono nemmeno capaci di insegnare la verità in modo adeguato .
FE - No, almeno non è verosimile.
SO - No, infatti. Ma i giardini di scritture li seminerà e li scriverà per gioco , quando li
scriverà, accumulando materiale per richiamare alla memoria se medesimo, per quando
giunga alla vecchiaia che porta all’oblio, se mai giunga, e per chiunque segua la medesima
traccia, e gioirà di vederli crescere freschi. E quando gli altri si dedicheranno ad altri giochi,
passando il loro tempo nei simposi, o in altri piaceri simili a questi, egli allora, come
sembra, invece che in quelli passerà la sua vita dilettandosi nelle cose che io dico.
FE - Ed è un gioco molto bello, o Socrate, in confronto dell’altro che non vale nulla, questo di
chi è capace di dilettarsi con i discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di
cui parli.
SO - Così è in effetti, o caro Fedro, ma molto più bello diventa l’impegno su queste cose,
credo, quando si faccia uso dell’arte dialettica e con essa, prendendo un’anima adatta, si
piantino e si seminino discorsi con conoscenza, che siano capaci [pag. 277] di venire in
soccorso a sé e a chi li ha piantati, che non restino A privi di frutto, ma portino seme, dal
quale nascano anche in altri uomini altri discorsi, che siano capaci di rendere questo seme
immortale e che facciano felice chi lo possiede, nella misura più grande che all’uomo sia
possibile.
FE - Molto più bello è questo che dici.
Chiarezza e compiutezza sono proprie dell’oralità e non dello scritto
SO - E una volta d’accordo su questo, siamo ora in grado di giudicare, o Fedro, le questioni di
prima.
FE - Quali?
SO - Quelle che volevamo chiarire e per cui siamo giunti a questo punto, ossia di esaminare il
rimprovero fatto a Lisia circa lo scrivere discorsi, e di esaminare i discorsi medesimi, quali
fossero scritti a norma d’arte e quali fossero invece scritti senza arte. Quanto a ciò che sia a
norma d’arte e quanto a ciò che non lo sia, mi pare che lo abbiamo chiarito in maniera
conveniente.
FE - Sì, mi è parso. Ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto.
SO - Prima bisogna che uno sappia il vero su ciascuna delle cose sulle quali parla o scrive, e
sia in grado di definire ogni cosa in se stessa, e, una volta definita, sappia dividerla nelle
sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più ulteriormente divisibile; e dopo essere
penetrato nella natura dell’anima, ritrovando allo stesso modo la specie adatta per ciascuna
natura, bisogna che costruisca e ordini il suo discorso in modo corrispondente, dando ad
17
Platone, Fedro
un’anima complessa discorsi complessi e comprendenti tutte le armonie, e ad un’anima
semplice discorsi semplici. Prima di questo non sarà possibile che si tratti con arte, nella
misura in cui convenga per natura, il genere dei discorsi, né per insegnare, né per
persuadere, come tutto ciò che si è detto in precedenza ci ha ricordato.
FE - Su questo punto proprio questo risulta.
SO - E poi, sulla questione se è bello o brutto pronunciare e scrivere discorsi e quando il
biasimo sia fatto a ragione e quando a torto, non ce l’ha forse chiarito il discorso che
abbiamo fatto poco fa?
FE Che cosa abbiamo detto?
SO Che se Lisia, o chiunque altro, ha scritto o scriverà su cose di interesse privato o di
interesse pubblico, proponendo leggi, scrivendo opere politiche, nella convinzione che in
queste opere scritte vi sia una grande stabilità e chiarezza, allora questo, per chi scrive, sarà
di grande vergogna, sia che qualcuno lo dica sia che non lo dica. Infatti, il non distinguere
la veglia dal sonno per quanto concerne il giusto e l’ingiusto, il male e il be- E ne, la cosa
non può non essere, per davvero, vergognosissima, quand’anche la moltitudine lo lodi.
FE Non può di certo.
SO Invece, chi ritiene che in un discorso scritto, qualunque sia l’argomento su cui verte, vi sia
necessariamente molta parte di gioco, e che nessun discorso sia mai stato scritto in versi o
in prosa con molta serietà (e nemmeno sia mai stato recitato, come i discorsi che vengono
recitati dai rapsodi, che senza possibilità di esame e senza nulla insegnare mirano solamente
a persuadere), ma che, [pag. 278] veramente, i migliori di essi non sono altro A che mezzi
per aiutare la memoria di coloro che già sanno; e ritiene che solamente nei discorsi detti nel
contesto dell’insegnamento e allo scopo di fare imparare, ossia nei discorsi scritti realmente
nell’anima intorno al giusto e al bello e al bene, ci sia chiarezza e compiutezza e serietà; e
inoltre ritiene che discorsi di questo genere debbano essere detti suoi, come se fossero dei
figli legittimi, e prima di tutto il discorso che egli reca in se stesso, se mai lo abbia trovato,
e poi quelli che, o figli o fratelli .a seconda del loro valore, e saluta tutti gli altri e li manda
a spasso; ebbene, o Fedro, appunto un uomo di questo genere è probabile che sia quello che
tu ed io ci augureremmo di diventare.
FE Lo voglio davvero, e mi auguro quel che dici.
Il filosofo non affida le cose di maggior valore alla scrittura ma all’oralità
SO E per quanto riguarda i discorsi, abbiamo scherzato abbastanza. Ma tu va’ da Lisia e digli
che noi due, discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe, abbiamo ascoltato dei discorsi che
ci ordinavano di dire a Lisia e a chiunque altro componga discorsi, e ad Omero e a
chiunque altro abbia composto poesia senza musica o con musica, e, in terzo luogo, a
Solone e a chiunque in discorsi politici, che chiama leggi, ha composto opere scritte, che se
ha composto queste opere sapendo come sta il vero, ed è in grado di soccorrerle quando
viene a difendere le cose che ha scritto, e quando parla sia in grado di dimostrare la
debolezza degli scritti, ebbene, un uomo del genere va chiamato non col nome che quelli
hanno, ma con un nome derivato da ciò cui egli si è dedicato con verità.
FE E quale è questo nome che tu gli dai?
SO Chiamarlo sapiente, o Fedro, mi pare troppo, e che tale nome convenga solamente a un
dio; ma chiamarlo filosofo, ossia amante di sapienza, o con qualche altro nome di questo
tipo, gli si adatterebbe meglio e sarebbe più adeguato.
FE - E non sarebbe per nulla fuori luogo.
18
Platone, Fedro
SO - Invece, colui che non possiede cose che siano di maggior valore rispetto a quelle che ha
composto o scritto, rivoltandole in su e in giù per molto tempo, incollando una parte con
l’altra o togliendo, non lo chiamerai, a giusta ragione, poeta, E o compositore di discorsi, o
scrittore di leggi?
FE - E come no?
SO - Dì, allora, queste cose al tuo amico!
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Platone di Atene (427-347 a.C.)
Gorgia
lingua originale: greco
edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra 1578
tr. it. D. Fusaro (in rete)
tema: natura e convenzione
genere letterario: declamazione
(Socrate ha appena estorto dai suoi altri interlocutori le ammisioni: (i) da Gorgia, che la
retorica non serva a niente; e (ii) da Polo, che sia meglio subire malvagità che commetterla;
Callicle, che è stato presente al dialogo, irrompe sulla scena)
[Stephanus Vol I, pag. 482]
CALLICLE: O Socrate, sembri svolgere i tuoi ragionamenti con giovanile baldanza, come un
vero oratore popolare. E anche in questa occasione parli come un oratore popolare, visto che a
Polo accade la stessa cosa che egli accusava Gorgia di subire nei tuoi confronti. Egli diceva,
infatti, che Gorgia, alla tua domanda se, quando venisse alla sua scuola uno che volesse
imparare la retorica senza conoscere la giustizia, Gorgia gliela avrebbe insegnata, egli si
vergognò e disse che gliela avrebbe insegnata, solo in considerazione dell’usanza che vige fra
gli uomini, di sdegnarsi se uno rifiutasse di farlo. Ebbene, secondo Polo, fu questa sua
ammissione che portò Gorgia a contraddirsi e questo ti riempì di soddisfazione. E allora Polo
si fece beffe di te, e con ragione, secondo me.
Ma ora la stessa cosa accade proprio a lui. E per questa ragione io non ammiro Polo, ossia
per avere ammesso davanti a te che il commettere ingiustizia è più brutto che subirla: infatti,
in seguito a questa sua ammissione, impastoiato nei tuoi ragionamenti, si è trovato
imbavagliato, vergognandosi di dire ciò che pensava.
E questo perché tu, o Socrate, mentre sostieni di cercare la verità, in realtà porti gli altri a
fare affermazioni di questo genere, grossolane e volgari, che non sono belle rispetto alla
natura, ma rispetto alla legge. E queste, vale a dire la natura e la legge, sono nella maggior
parte dei casi opposte. Dunque, quando uno si vergogna e non osa dire le cose che pensa,
finisce necessariamente per contraddirsi. [pag. 483] E tu, imparata questa astuzia, tendi
tranelli nei tuoi ragionamenti, riferendo le tue domande alla natura, quando uno parla
riferendosi alla legge, e facendo riferimento alla legge, quando uno si riferisce alla natura. E
questo è quello che hai appena fatto a proposito del commettere e del subire ingiustizia:
mentre Polo si riferiva a ciò che è più brutto secondo la legge, tu svolgevi il tuo ragionamento
facendo riferimento alla natura.
Secondo natura, infatti, è più brutto tutto ciò che è anche peggiore, vale a dire il subire
ingiustizia; secondo la legge, invece, è più brutto il commettere ingiustizia. Infatti questa
condizione, ossia quella di essere vittima di ingiustizia, non è degna di un uomo, bensì di uno
schiavo qualsiasi, per il quale è meglio essere morto che vivere, e che, quando è vittima di
ingiustizia e viene oltraggiato, non è in grado di portare aiuto a se stesso, né ad altri di cui si
prenda cura.
Ma io credo che ad istituire le leggi siano stati uomini deboli e del volgo. Dunque, per sé e
nel proprio interesse costoro istituiscono leggi, fanno elogi e muovono rimproveri. E per
spaventare gli uomini più forti e capaci dì prevaricare, affinché non abbiano più di loro,
dicono che è brutto e ingiusto prevaricare, e che proprio in questo consiste il commettere
20
Platone, Gorgia
ingiustizia, vale a dire nel cercare di avere più degli altri. Io credo, in effetti, che costoro siano
contenti quando abbiano l’uguaglianza, perché sono meno capaci degli altri. Per queste
ragioni, dunque, per legge si dice che è brutto e ingiusto il cercare di avere più degli altri, ed è
questo ciò che essi chiamano ‘commettere ingiustizia’. Invece, mi pare che la natura stessa
mostri questo, vale a dire che è giusto che chi è migliore abbia più dì chi è peggiore, e chi è
più capace abbia più di chi è meno capace. E che le cose stanno così, lo dimostra in molti casi,
sia nelle altre specie animali, sia in tutte le città e stirpi umane, cioè che il diritto si giudica con
questo criterio: che il più forte comandi sul più debole ed abbia più di lui.
Del resto, avvalendosi di quale diritto Serse mosse guerra alla Grecia, o suo padre agli
Sciti? E si potrebbero citare altri innumerevoli casi di questo genere! Ma io penso che costoro
agiscano così secondo il diritto della natura, e, per Zeus, anche secondo la legge, almeno
quella di natura, e tuttavia, probabilmente, non secondo quella legge che noi istituiamo.
Per plasmare i migliori e i più forti di noi, prendendoli da giovani come si fa con i leoni,
incantandoli e seducendoli, li sottomettiamo, [pag. 484] dicendo loro che bisogna ottenere
l’uguaglianza e che in questo consiste il bello e il giusto. Ma io penso che, se solo nascesse un
uomo dotato di una natura che ne fosse all’altezza, costui, scrollatosi di dosso, fatte a pezzi e
sfuggito a tutte queste cose, calpestati i nostri scritti, incantesimi, sortilegi e leggi, che sono
tutte contro natura, così ribellatosi, il nostro schiavo si rivelerebbe nostro padrone, ed allora
splenderebbe il diritto di natura.
E mi pare che anche Pindaro esprima le stesse cose che io esprimo, in quel carme dove
dice: ‘la legge di tutti regina mortali e immortali...’; ebbene, questa, lui dice, ‘guida,
giustificando l’azione più violenta, con mano potente: lo deduco dalle imprese di Eracle,
poiché ... senza averle comprate...’; dice press’a poco così , perché non so il carme a
memoria. In ogni modo, dice che, senza averle comprate e senza che Gerione gliele avesse
donate, Eracle portò via le vacche, convinto che questo fosse per natura suo diritto, e che tanto
le vacche quanto le altre cose che sono in mano ai peggiori e ai più deboli appartengono tutte
al migliore e al più forte.
E che la verità sia questa, potresti capirlo se, lasciata ormai perdere la filosofia, tu venissi a
cose più grandi. Certo, Socrate, la filosofia è un’amabile cosa, purché uno vi si dedichi, con
misura, in giovane età; ma se uno vi passi più tempo del dovuto, allora essa diventa rovina
degli uomini. Infatti, per quanto uno sia ben provvisto di doti naturali, qualora si attardasse a
filosofare anche quando fosse ormai avanti negli anni, per forza di cose egli diventerebbe
inesperto di tutte quelle cose di cui deve avere esperienza chi intende essere uomo per bene e
onorato.
Infatti, costoro diventano inesperti delle leggi che riguardano la città, di quei discorsi di cui
ci si deve servire quando si hanno faccende da sbrigare con altri uomini, in privato e in
pubblico, dei piaceri e dei desideri umani, e, in generale, diventano del tutto inesperti dei
costumi degli uomini. Quando poi si dedichino a qualche affare, privato o pubblico, si rendono
ridicoli, allo stesso modo in cui, credo, si rendono ridicoli i politici quando si intromettano
nelle vostre dispute e nei vostri ragionamenti. Accade infatti quanto dice Euripide, ‘che
ciascuno brilla in una data cosa, e a questa si sente attratto, dedicando ad essa la maggior parte
del giorno perché lì gli accade di superare se stesso’.
Quella cosa, invece, [pag. 485] in cui uno si ritrovi mediocre, la evita e ne parla male, e
loda l’altra per amor proprio, pensando di lodare in questo modo se stesso. Ma io penso che la
cosa più giusta sia partecipare dell’una e dell’altra cosa: è bello partecipare alla filosofia nella
misura in cui è utile all’educazione spirituale, e non è brutto filosofare finché si è giovani; ma
21
Platone, Gorgia
quando si attardi a filosofare un uomo ormai avanti negli anni, la cosa, o Socrate, si fa ridicola,
ed io provo nei confronti di coloro che fanno i filosofi un sentimento identico a quello che
provo nei confronti di coloro che balbettano e giocano.
Infatti, quando mi capita di vedere un fanciullo, a cui ancora si addice l’esprimersi in
questo modo, cioè balbettando e giocando, ne gioisco e mi pare grazioso, spontaneo, e
confacente alla sua età. Quando invece mi capita di sentire un fanciullo esprimersi con
chiarezza, mi dà l’impressione di essere una cosa acerba, mi infastidisce le orecchie, e mi pare
un modo di fare servile. Se poi ci accade di sentire un uomo balbettare o di vederlo giocare, ci
appare cosa ridicola e poco virile, e pensiamo che meriti di essere preso a botte. Ebbene, lo
stesso sentimento lo provo nei confronti di coloro che fanno i filosofi. Infatti, provo gusto a
vedere la filosofia sulla bocca di un giovane, e mi sembra che gli si addica e penso che costui
sia un uomo libero, mentre considero uomo non libero colui che non coltiva la filosofia, e
penso che non sarà mai all’altezza di cose belle e nobili. Ma quando vedo un uomo già avanti
negli anni che ancora coltivi la filosofia e non sappia separarsene, mi sembra, o Socrate, che
costui abbia bisogno dì essere preso a botte. Infatti, come dicevo poco fa, a quest’uomo, per
quanto sia ben provvisto di doti naturali, toccherà diventare un ignavo, fuggendo il centro
della città e le piazze, dove, come dice il poeta, gli uomini si affermano, e passare il resto
della vita rintanato in un angolo a borbottare con tre o quattro giovanotti, senza mai fare un
discorso degno di uomo libero, elevato e valido.
Ma io, Socrate, nutro per te vera amicizia: rischio di provare nei tuoi confronti quel
sentimento che lo Zeto di Euripide provava nei confronti di Anfione, che ho già menzionato.
Anche a me, infatti, viene di dirti le stesse cose che costui disse al fratello: ‘Tu trascuri,
Socrate, le cose di cui dovresti occuparti, e travesti di una forma puerile la natura così nobile
della tua anima; né ai processi sapresti portare un discorso che regge, né sapresti prendere la
parola in modo da essere ragionevole e persuasivo, né sapresti prendere un consiglio ardito in
favore dì altri’.
Ebbene, caro Socrate, e non prendertela con me, perché io parlo per il tuo bene, non ti pare
che sia sconveniente per te trovarti in questa situazione, in cui io credo che vi troviate tu e gli
altri che si addentrano sempre più avanti nella filosofia? Infatti, supponiamo che ora uno,
arrestato te o un altro qualsiasi di quelli che sono come te, ti trascinasse in carcere dicendo che
tu hai commesso un delitto, benché tu sia innocente: sai bene che tu non sapresti che fare di te,
ma resteresti smarrito e a bocca aperta, non sapendo che dire; e che, una volta messo piede in
tribunale, anche se ti capitasse un accusatore buono a niente e incompetente, potresti morire,
se costui volesse chiedere per te la pena di morte.
Ebbene, o Socrate, come può essere saggia quell’arte che, preso sotto le sue cure un uomo
di buone speranze, lo renda peggiore, e incapace di aiutare se stesso e di salvare dai più grandi
pericoli se stesso o qualsiasi altro uomo, e che lo lasci in balia dei suoi nemici, perché lo
spoglino di ogni suo avere, e lo faccia vivere privato di ogni diritto nella sua città? Un uomo
del genere, anche se l’espressione è piuttosto rozza, si può prendere a schiaffi impunemente!
Ma amico mio, dammi retta, smettila di confutare, e coltiva invece la buona musa delle cose
pratiche, dedicati a quelle cose, grazie alle quali ti farai la reputazione di essere uomo di buon
senso, lasciando ad altri queste sottigliezze, chiacchiere o fandonie che si debbano chiamare,
con le quali finirai per abitare in vuote dimore, ed emulando non gli uomini che stanno a
confutare queste piccolezze, ma coloro che possiedono averi, fama e molti altri beni.
22
Platone di Atene (427-347 a.C.)
Teeteto
lingua originale: greco
edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra, 1578
tr. it. G. Giardini, Bompiani, Milano, 2001
tema: l’autoconfutazione del relativismo
genere letterario: dialogo indiretto
(Socrate sta discutendo con Teodoro la natura della scienza e prende in esame la dottrina di
Protagora secondo cui ‘l’uomo è misura di tutte le cose’)
[Stephanus, vol. I, p. 169]
La dottrina di Protagora1
SOCRATE: Per prima cosa, dunque, riesaminiamo il problema allo stesso punto di prima e
consideriamo se eravamo malcontenti, a ragione o a torto, biasimando il ragionamento che
presupponeva che ciascuno è autosufficiente a se stesso rispetto alla conoscenza. Ma
Protagora non convenne con noi che quanto alla conoscenza del meglio e del peggio alcuni
si distinguono di gran lunga e questi proprio sono i sapienti. Non è così?
TEODORO: Sì.
SO: Se dunque egli, essendo presente, ce lo avesse concesso, e non avessimo invece dovuto
ammetterlo noi, prendendo la sua difesa, non ci sarebbe affatto bisogno di riprendere la
questione per renderla consolidata. Ora, forse, qualcuno potrebbe giudicarci senza diritto di
fare questa ammissione in vece sua. Per questo motivo è cosa migliore concordare in
maniera più chiara su questo stesso problema. Infatti non è che cambi poco se a cosa sta
così o in maniera diversa.
TEO: È vero.
SO: Dunque [pag. 170] non con il concorso di altri, ma del suo ragionamento, nel modo più
breve, cerchiamo di comprendere quello che è il suo assenso.
TEO: Come?
SO: Così: dice egli che quel che pare a ciascuno questo anche è per colui al quale pare?
TEO: Lo dice, sì.
L’apparente esclusione dell’opinione falsa
SO: E dunque, Protagora, anche noi manifestiamo il pensiero di un uomo, o meglio di tutti gli
uomini, quando affermiamo che per certe questioni non c’è nessuno che non consideri se
stesso più sapiente degli altri, per altre questioni invece non stimi gli altri migliori di sé, e
che in mezzo a grandissimi pericoli, come quando sono esposti a guerre e malattie, al mare
in tempesta, come a degli dèi si tengono vicini a quelli che in ciascuna di queste circostanze
hanno il potere, perché sembrano loro dei salvatori, mentre non sono diversi in altro da
loro, se non per il sapere. E ogni condizione umana è piena di persone alla ricerca dei
maestri e comandanti o per sé o per altri esseri viventi, o per iniziative che intendono
1
I titoletti in neretto sono indicazioni suggerite dal traduttore delle fasi del ragionamento, e non si trovano nel
testo platonico (nota di Davies).
23
Platone, Teeteto
compiere, ma lo è di individui che ritengono di essere capaci di insegnare e di esserlo
altrettanto a comandare. E in questi atteggiamenti cosa diremo, se non che gli stessi uomini
pensano che esista, in loro, sapienza e ignoranza?
TEO: Niente altro.
SO: Gli uomini dunque non considerano la sapienza vero pensiero e l’ignoranza opinione
falsa?
TEO: Ebbene?
Può Protagora contraddire qualcuno che lo contraddice?
SO: Dunque, Protagora, che ne faremo del tuo ragionamento? Diciamo dunque che gli uomini
nutrono talvolta opinioni vere e talvolta opinioni false? Da ambedue le ipotesi ne viene che
non sempre gli uomini nutrono opinioni vere, ma vere e false. Considera infatti tu stesso,
Teodoro, se qualcuno dei seguaci di Protagora, o tu stesso, volessi affermare con forza che
nessuno considera un altro ignorante e nutre pure false opinioni?
TEO: Ma è incredibile, Socrate.
SO: Ma giunge a tal punto di necessità chi sostiene che l’uomo è misura di tutte le cose.
TEO: E come?
SO: Ma quando tu dai un giudizio di per te stesso su una cosa, e poi manifesti a me su quella
stessa cosa il tuo parere, questo per te, secondo il ragionamento di Protagora, sarà vero, ma
per noi e tutti gli altri non è forse possibile divenire giudici, o dobbiamo sempre giudicare
che tu hai opinioni vere? Oppure sono una infinità gli uomini che ogni volta si contrastano
pensandola all’opposto, ritenendo che tu giudichi e pensi il falso.
TEO: Ma, per Zeus, Socrate, sono ‘migliaia di migliaia’ gli uomini, come dice Omero, che mi
cagionano ogni sorta di difficoltà.
SO: E dunque, vuoi che diciamo che allora tu per te stesso, hai opinioni vere, ma false per tutte
queste migliaia di uomini?
TEO: Pare sia necessario a seguito di questo ragionamento.
SO: E cosa ne è per Protagora in persona? Se neppure Protagora avesse mai creduto che
l’uomo è misura di tutte le cose, né la maggioranza degli uomini, come del resto non la
pensano neppure, non sarebbe forse necessario che quella “verità” [pag. 171] che egli
delineò non esistesse per nessuno? Se invece egli la credette realmente, ma la maggioranza
degli uomini non la crede, sai bene che quanto più numerosi sono quelli a cui pare rispetto
a quelli cui non pare, tanto più che essa non è rispetto a quelìa che è.
TEO: È giocoforza se essa sarà a seconda di ciascuna opinione o non sarà.
La verità per il relativista della tesi anti-relativista
SO: C’è poi questo secondo punto che è ancor più simpatico: egli, Protagora, rispetto alla sua
opinione siccome ammette come vere anche tutte quelle che pensano gli uomini, riconosce
che sia vera l’opinione di quelli che la pensano in modo opposto al suo e per il quale
pensano che egli abbia affermato il falso.
TEO: Proprio così.
SO: E non concederà dunque che sia falsa la propria opinione, dal momento che riconosce
come vera quella di coloro che pensano che egli abbia sostenuto il falso?
TEO: Necessariamente.
SO: Ma questi altri non ammettono certo con se stessi di nutrire false opinioni.
TEO: Certamente no.
24
Platone, Teeteto
SO: Egli invece Protagora dal canto suo riconosce che sia vera anche questa opinione in
conseguenza di ciò che ha scritto.
TEO: Pare.
SO: Cominciando da tutti questi, dunque, fin dallo stesso Protagora, ci sarà un dilemma:
ancora più quando egli ammette, che chi va predicando il contrario di lui, questo può
nutrire una opinione vera, allora lo stesso Protagora dovrà concedere che né un cane, né il
primo uomo che capita, sia misura neppure di una sola cosa che non abbia imparato. Non è
così?
TEO: È così.
SO: Dunque, siccome ci si trova a dubitare da parte di tutti, per nessuno la verità di Protagora
può essere vera, né per alcun altro, né per lui stesso.
TEO: Socrate, noi incalziamo anche troppo l’amico mio.
Conseguenze etico-politiche della dottrina di Protagora
SO: Forse, mio caro, ma non è chiaro se lo incalziamo correttamente. è probabile però, che lui,
dato che è più vecchio, sia anche più saggio di noi. E se di qui, all’improvviso, balzasse
fuori fino al collo, è molto probabile che molte cose avrebbe da dire contro di me che vado
disseminando frottole e contro di te che le accetti, poi, calandosi giù di nuovo, se ne
andrebbe via a gambe levate. Ma per noi, è necessario, io penso, servirci di noi stessi, così
come siamo e ribattere il nostro modo di pensare, sempre alla stessa maniera. E, anche ora,
cos’altro possiamo dire che chiunque riconosce questo, cioè che uno è più sapiente di un
altro, e un altro più ignorante?
TEO: A me pare così.
SO: E possiamo affermare anche che il ragionamento poggia soprattutto su questo punto che
noi abbozzammo, correndo in aiuto a Protagora, che la maggior parte delle cose, le calde, le
aride, le dolci e tutte le altre di questa sorta, quali sembrano, tali sono anche per ciascuno.
Ma se poi si conviene che in certe cose vi è una certa qual differenza tra l’una e l’altra,
come quello che è salutare e nocivo al nostro corpo, Protagora dovrà pur concedere che non
ogni donnetta, o ragazzotto, o animale sono in grado di curare se stessi, conoscendo bene
ciò che è giovevole alla loro salute, ma proprio in queste faccende, se pure in altre mai, c’è
differenza tra l’uno e l’altro.
TEO: A me pare così. [pag. 172]
SO: Parimenti nella sfera politica il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, il santo e il non
santo, sono quali in ogni città, pensando che siano, pone nelle proprie leggi a suo beneficio;
ed in queste nessuno è più sapiente di un altro, né privato cittadino di cittadino, né città di
città. Ma nel porre una città provvedimenti di legge utili o non utili, in questo caso
Protagora, se in altri mai, concederà ancora una volta che esiste diversità tra consigliere e
consigliere, tra una città e l’altra nella loro valutazione del vero e non avrà certo il coraggio
di sostenere che quei provvedimenti che una città vara, ritenendoli utili a sé, questi lo
dovranno essere a tutti i costi. Ma a proposito di quello di cui parlavo, del giusto e
dell’ingiusto, del santo e del non santo, chi segue Protagora si ostina ad affermare che non
c’è in natura nessuna di queste cose che abbia una sua essenza, ma che la valutazione che si
dà in comune diventa essa appunto vera, proprio allora mentre pare valida e per tutto il
tempo in cui lo pare. E quanti non abbiano in maniera assoluta il ragionamento di
Protagora, orientano la propria sapienza un presso a poco così. Ma da un ragionamento,
Teodoro, ci sopravviene un altro ragionamento e, da uno più piccolo, un altro più grande.
25
Aristotele di Stagira (384-22 a.C)
Sull’interpretazione
lingua originale: greco
edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.
tr. it. G. Colli, in Aristotele: Opere, Laterza, Bari-Roma, 1973
tema: il futuro indeterminato
genere letterario: trattato di logica
Capitolo ix [Bekker pagina 18a]
Rispetto agli oggetti che sono e a quelli che sono stati, è dunque necessario che tra
l’affermazione e la negazione una risulti vera e l’altra invece falsa: si avrà sempre un giudizio
vero contrapposto ad un giudizio falso, sia riguardo agli oggetti universali, presentati in forma
universale, sia riguardo agli oggetti singolari, come già si è detto.
Riguardo invece agli oggetti universali, che non sono espressi in forma universale, ciò non
risulta necessario, ed in proposito si è pure parlato. D’altro canto, rispetto agli oggetti singolari
che saranno, le cose si presentano diversamente. In effetti, se tra affermazione e negazione, in
ogni caso, una dev’essere vera e l’altra invece falsa, risulta altresì necessario che ogni
determinazione appartenga oppure non appartenga ad un oggetto; di conseguenza, quando una
persona affermi che un oggetto sarà qualcosa ed un’altra neghi questa stessa attribuzione, è
chiaro che una delle due persone deve necessariamente dire la verità, se si ammette che ogni
affermazione sia vera oppure falsa. Entrambe le determinazioni non potranno infatti
appartenere simultaneamente a tali oggetti.
In realtà, se è vero [pag. 18b] dire che un oggetto è bianco, oppure che non è bianco, esso
sarà necessariamente bianco, oppure non sarà bianco, e d’altra parte, se un oggetto è bianco,
oppure non è bianco, era vero affermare oppure negare la cosa. Del pari, se la determinazione
non appartiene all’oggetto, chi l’attribuisce a questo dice il falso, e d’altro canto, se chi
attribuisce la determinazione all’oggetto dice il falso, la determinazione non appartiene
all’oggetto. In tal caso è dunque necessario che tra l’affermazione e la negazione una risulti
vera e l’altra invece falsa. Ed allora, nulla è né diviene per caso, o secondo due possibilità
indifferenti, e nulla potrà essere o non essere; tutte le cose risultano piuttosto determinate per
necessità, e non sussiste alcuna indifferenza tra due possibilità (in effetti, la verità è detta o da
chi afferma o da chi nega), poiché altrimenti qualcosa potrebbe indifferentemente prodursi
oppure non prodursi: ciò che può accadere in due modi indifferenti non è infatti, né sarà, in
una certa situazione piuttosto che nella situazione contrapposta.
Oltre a ciò, se qualcosa è adesso bianco, era vero in precedenza dire che sarebbe poi stato
bianco; di conseguenza, è sempre stato vero dire rispetto a qualsivoglia oggetto prodottosi, che
sarebbe poi stato. E così, se è sempre stato vero dire che un oggetto era o sarebbe poi stato,
non è possibile che questo non fosse o che non fosse poi stato. Ciò che non è possibile, d’altro
canto, che non si sia prodotto, è impossibile che non si sia prodotto; inoltre, ciò che è
impossibile che non si sia prodotto, è necessario che si sia prodotto. Per tutti gli oggetti che
sarebbero poi stati, è dunque necessario che si siano prodotti. Di conseguenza, nulla potrà
essere secondo due possibilità indifferenti, o per caso: se un qualcosa avvenisse infatti per
caso, non sarebbe più determinato per necessità. Neppure certo si può dire che vera non è né
l’affermazione né la negazione, sostenendo ad esempio che un qualcosa né sarà né non sarà. In
26
Aristotele, Sull’interpretazione
tal caso risulterebbe anzitutto necessario che la negazione non sia vera, quando l’affermazione
è falsa, e che l’affeimazione non sia vera, quando la negazione è falsa.
Oltre a ciò, se risulta vero il dire che un oggetto è bianco e grande, è allora necessario che
entrambe le determinazioni appartengano all’oggetto, e se d’altro canto è vero il dire che tali
determinazioni apparterranno domani all’oggetto, esse vi apparterranno domani
necessariamente. Se per contro domani un qualcosa né sarà né non sarà, ciò che può accadere
in due modi indifferenti – ad esempio una battaglia navale – non potrà realizzarsi: si dovrebbe
dire, in effetti, che la battaglia navale né si verifica né non si verifica.
Alle suddette conclusioni assurde, e ad altre consimili, si giunge dunque, se davvero si vuol
sostenere, a proposito di ogni affermazione e di ogni negazione – si riferiscano poi queste ad
oggetti universali, presentati in forma universale, oppure ad oggetti singolari –, che uno dei
due giudizi contrapposti è necessariamente vero, mentre l’altro è falso, e se si vuoi dire che
nulla tra ciò che diviene può sussistere in due modi indifferenti, ma che piuttosto tutte le cose
sono e divengono per necessità. In tal modo, non occorrerebbe più che noi prendessimo delle
decisioni, né che ci sforzassimo laboriosamente, con la convinzione che compiendo una
determinata azione si verificherà un determinato fatto, e che non compiendo invece una
determinata azione non si verificherà un determinato fatto.
Nulla impedisce, in effetti, che un uomo predica anche di diecimila anni la realtà di un
fatto, e che un altro uomo neghi tale affermazione; di conseguenza, si verificherà
necessariamente quella delle due cose, non importa quale, che già all’atto della predizione era
vero dire. Né certo ha alcuna importanza, che delle persone abbiano pronunciato o meno due
giudizi contraddittori: in realtà, è evidente che i fatti sono quelli che sono, anche se un uomo
non ha affermato qualcosa ed un altro uomo non l’ha negato. Non è infatti per la circostanza di
essere stato negato, oppure affermato, [pag. 19a] che un qualcosa sarà o non sarà, e che un
avvenimento si verificherà dopo diecimila anni, piuttosto che non in qualsiasi altro momento
di tempo.
Di conseguenza, se in ogni tempo la situazione delle cose ha fatto sì che fosse allora vero
esprimere l’affermazione oppure la negazione, era così già necessario che questo fatto si sia
prodotto, e tutto ciò che si è prodotto sia sempre in una situazione tale da prodursi per
necessità. Ciò infatti, di cui si è detto secondo verità che sarà, non è possibile che non si
produca; del pari, rispetto a ciò che si produce, è sempre stato vero dire che sarà.
Senza dubbio, bisogna ammettere che queste asserzioni risultano impossibili. Noi vediamo
infatti che gli eventi futuri prendono principio dalle deliberazioni e dalle azioni, e che in linea
generale agli oggetti che non sempre sono in atto tocca indifferentemente il potere di essere o
di non essere; per tali oggetti entrambe le cose sono possibili, sia l’essere che il non essere,
cosicché risultano possibili sia il divenire che il non divenire. E molti oggetti si comportano
evidentemente a questo modo; ad esempio, un determinato mantello ha la possibilità di venir
tagliato in due, eppure non sarà tagliato, ma si logorerà prima di allora. Per tale mantello
sussiste poi ugualmente la possibilità di non venir tagliato in due, dato che esso non
risulterebbe consunto in precedenza, se non fosse davvero in grado di non essere tagliato in
due. Di conseguenza, ciò si dirà pure di tutti gli altri aspetti del divenire, cui va attribuito un
cosiffatto potere.
E dunque evidente che non tutti gli oggetti sono o divengono per necessità; si deve dire,
piuttosto, che alcuni oggetti possono accadere indifferentemente in due modi, caso in cui
l’affermazione non risulta affatto più vera della negazione, e che a riguardo di altri oggetti una
27
Aristotele, Sull’interpretazione
delle due possibilità è preminente e si verifica con maggior frequenza, nonostante che anche la
seconda possibilità possa presentarsi, e non si verifichi allora la prima.
Che ciò che è sia, quando è, e che ciò che non è non sia, quando non è, risulta certo
necessario; non è però necessario che tutto ciò che è sia, né che tutto ciò che non è non sia. In
effetti, l’essere per necessità di tutto ciò che è, quando è, non equivale all’essere per necessità,
assolutamente, di tutto ciò che è. Similmente si dica per ciò che non è. Del pari, lo stesso
discorso vale per i giudizi contraddittori in proposito. Certo, per necessità ogni oggetto è o non
è, come pure, sarà o non sarà, ma non è davvero necessario dire una delle due cose, separata
dall’altra. Con ciò intendo dire, ad esempio, che necessariamente domani vi sarà una battaglia
navale, oppure non vi sarà, ma che non è tuttavia necessario che domani vi sia una battaglia
navale, né d’altra parte è necessario che domani non vi sia una battaglia navale. Ciò che invece
risulta necessario, è che domani avvenga o non avvenga una battaglia navale.
Di conseguenza, dal momento che i discorsi sono veri analogamente a come lo sono gli
oggetti, è chiaro che a proposito di tutti gli oggetti, costituiti così da accadere
indifferentemente in due modi, secondo delle possibilità contrarie, anche la contraddizione si
comporterà necessariamente in maniera simile. E appunto ciò che avviene riguardo agli
oggetti che non sono sempre, oppure a quelli che non sempre non sono. In tali casi è infatti
necessario che una delle due parti della contraddizione sia vera e l’altra invece falsa, ma non è
tuttavia necessario che una determinata parte sia vera oppure falsa; sussiste piuttosto
un’indifferenza tra due possibilità, e quand’anche uno dei due casi risulti più vero, la verità e
la falsità non saranno tuttavia già decise sin da principio. Risulta chiaro, di conseguenza, che
non sempre [pag. 19b], riguardo ad un’affermazione e ad una negazione contrapposte, sarà
necessario che una di esse sia vera e l’altra invece falsa: in effetti, ciò che vale per gli oggetti
che sono non vale allo stesso modo per quelli che non sono ed hanno la possibilità di essere o
di non essere. Le cose stanno piuttosto come si è detto.
28
Aristotele di Stagira (384-22 a.C)
Metafisica
lingua originale: greco
edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.
tr. it. G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1993
tema: la legge di contraddizione
genere letterario: dimostrazione elenctica
Libro IV (Γ), capitolo iii [Bekker pag. 1005a]
[Alla scienza dell’essere compete anche lo studio degli assiomi e in primo luogo del
principio di non-contraddizione]
Dobbiamo dire, ora, se sia compito di un’unica scienza, oppure di scienze differenti, studiare
quelli che in matematica sono detti «assiomi» e anche la sostanza. Orbene, è evidente che
l’indagine di questi «assiomi» rientra nell’ambito di quell’unica scienza, cioè della scienza del
filosofo. Infatti essi valgono per tutti quanti gli esseri, e non sono proprietà peculiari di
qualche genere particolare di essere, ad esclusione degli altri. E tutti quanti si servono di questi
assiomi, perché essi sono propri dell’essere in quanto essere, e ogni genere di realtà è essere.
Ciascuno, però, si serve di essi nella misura in cui gli conviene, ossia nella misura in cui si
estende il genere intorno al quale vertono le sue dimostrazioni. Di conseguenza, poiché è
evidente che gli assiomi appartengono a tutte le cose in quanto tutte sono esseri (l’essere è,
infatti, ciò che è comune a tutto), competerà a colui che studia l’essere in quanto essere anche
lo studio di questi assiomi.
Per questa ragione, nessuno di coloro che si limitano all’indagine di una parte dell’essere, si
preoccupa di dire qualcosa intorno agli assiomi, se siano veri o no: non il geometra e non il
matematico. Ne parlarono, invece, alcuni fisici, ma ne parlarono a ragione: infatti, essi
ritenevano di essere i soli a fare indagine di tutta quanta la realtà e dell’essere.
D’altra parte, poiché c’è qualcuno che è ancora al di sopra del fisico (infatti la natura è
solamente un genere dell’essere), ebbene, a costui che studia l’universale e la sostanza prima,
competerà anche lo studio degli assiomi. [pag. 1005b] La fisica è, sì, una sapienza, ma non è
la prima sapienza.
Per quanto riguarda, poi, i tentativi, fatti da alcuni di coloro che trattano della verità, di
determinare a quale condizione si debba accogliere qualcosa come vero, bisogna dire che essi
nascono dall’ignoranza degli Analitici; perciò, occorre che i miei uditori abbiano una
preliminare conoscenza delle cose dette negli Analitici, e non che le ricerchino mentre
ascoltano queste lezioni.
È evidente, dunque, che è compito del filosofo e di colui che specula intorno alla sostanza
tutta e alla natura di essa, far indagine anche intorno ai principi dei sillogismi. Colui che, in
qualsiasi genere di cose, possiede la conoscenza più elevata, deve essere in grado di dire quali
sono i principi più sicuri dell’oggetto di cui fa indagine; di conseguenza, anche colui che
possiede la conoscenza degli esseri in quanto esseri, deve poter dire quali sono i principi più
sicuri di tutti gli esseri. Costui è il filosofo. E il principio più sicuro di tutti è quello intorno al
quale è impossibile cadere in errore: questo principio deve essere il principio più noto (infatti,
tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un principio non ipotetico.
Infatti, quel principio che di necessità deve possedere colui che voglia conoscere qualsivoglia
cosa non può essere una pura ipotesi, e ciò che necessariamente deve conoscere chi voglia
29
Aristotele, Metafisica, IV, ii-iv
conoscere qualsivoglia cosa deve già essere posseduto prima che si apprenda qualsiasi cosa. E
evidente, dunque, che questo principio è il più sicuro di tutti.
Dopo quanto si è detto, dobbiamo precisare quale esso sia. È impossibile che la stessa cosa,
ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto (e
si aggiungano pure anche tutte le altre determinazioni che si possono aggiungere, al fine di
evitare difficoltà di indole dialettica). E questo il più sicuro di tutti i princìpi: esso, infatti,
possiede quei caratteri sopra precisati. Infatti, è impossibile a chicchessia di credere che una
stessa cosa sia e non sia, come, secondo alcuni, avrebbe detto Eraclito. In effetti, non è
necessario che uno ammetta veramente tutto ciò che dice. E se non è possibile che i contrari
sussistano insieme in un identico soggetto (e si aggiungano a questa premessa le precisazioni
solite), e se un’opinione che è in contraddizione con un’altra è il contrario di questa, è evidente
che è impossibile, ad un tempo, che la stessa persona ammetta veramente che una stessa cosa
esista e, anche, che non esista: infatti, chi si ingannasse su questo punto, avrebbe ad un tempo
opinioni contraddittorie. Pertanto, tutti coloro che dimostrano qualcosa si rifanno a questa
nozione ultima, perché essa, per sua natura, costituisce il principio di tutti gli altri assiomi.
.
Capitolo iv (solo inizio: l’elenchos continua fino alla fine del libro [pag. 1012b31])
[Dimostrazione per via di confutazione del principio di non-contraddizione]
Ci sono alcuni, come abbiamo detto, i quali affermano che la stessa cosa può essere e non
essere, e, anche, che in questo modo si può pensare. [pag. 1006a] Ragionano in tale modo
anche molti dei filosofi naturalisti. Noi, invece, abbiamo stabilito che è impossibile che una
cosa, nello stesso tempo, sia e non sia; e, in base a questa impossibilità, abbiamo mostrato che
questo è il più sicuro di tutti i principi.
Ora, alcuni ritengono, per ignoranza, che anche questo principio debba essere dimostrato:
infatti, è ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali,
invece, non si debba ricercare. Infatti, in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di
tutto: in tal caso si procederebbe all’infinito, e in questo modo, per conseguenza, non ci
sarebbe affatto dimostrazione. Se, dunque, di alcune cose non si deve ricercare una
dimostrazione, essi non potrebbero, certo, indicare altro principio che più di questo non abbia
bisogno di dimostrazione.
Tuttavia, anche per questo principio, si può dimostrare l’impossibilità in parola, per via dí
confutazione (elenchos): a patto, però, che l’avversario dica qualcosa. Se, invece, l’avversario
non dice nulla, allora è ridicolo cercare una argomentazione da opporre contro chi non dice
nulla, in quanto, appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile ad un vegetale.
E la differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione vera e propria
consiste in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione di
principio; invece, se causa di questo fosse un altro, allora si tratterebbe di confutazione e non
di dimostrazione.
Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell’esigere che l’avversario dica che
qualcosa o è, oppure che non è (egli, infatti, potrebbe subito obiettare che questo è già un
ammettere ciò che si vuol provare) ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e
per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo,
costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né con altri; se, invece,
l’avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà
già qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di principio non sarà colui che
30
Aristotele, Metafisica, IV, ii-iv
dimostra, ma colui che provoca la dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il
ragionamento, quegli si avvale di un ragionamento.
Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c’è qualcosa di vero anche
indipendentemente dalla dimostrazione.
31
Aristotele di Stagira (384-22 a.C)
Metafisica
lingua originale: greco
edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.
tr. it. G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1993
tema: la nozione di contingenza
genere letterario: lessico
Libro V (D) capitolo xxx [Bekker pagina 1025a]
Si dice «accidente » ciò che appartiene ad un oggetto e che viene attribuito a questo in modo
conforme a verità, ma, tuttavia, non per necessità né per lo più, come, ad esempio, nel caso
che un uomo, mentre sta scavando una fossa per piantarvi un albero, vi trovi un tesoro.
Trovare il tesoro è un fatto accidentale per colui che scava la fossa, giacché una cosa non
deriva necessariamente dall’altra né è necessariamente posteriore ad essa, né si verifica che chi
sta piantando trovi il più delle volte un tesoro. E anche un musico può essere bianco; ma,
poiché ciò non accade né di necessità né per lo più, noi questo fatto lo chiamiamo accidente.
Di conseguenza, poiché c’è qualcosa che è anche proprietà. di un’altra e poiché alcune di
queste proprietà sono presenti soltanto in un certo luogo e in un certo tempo, si chiamerà
accidente qualsiasi proprietà che sia presente in un oggetto, senza che, però, la sua presenza
faccia in modo che l’oggetto o il tempo o il luogo siano quello che sono ciascuno nella loro
essenza. D’altra parte, l’accidente non ha una causa determinata, ma ha come causa il fortuito,
ossia l’indeterminato. E stato per accidente che un tale è giunto ad Egina, qualora egli vi sia
giunto non perché avesse l’intenzione di giungervi, ma perché è stato spinto da una tempesta o
catturato dai pirati. L’accidente si produce ed esiste, ma non in virtù di se stesso, bensì in virtù
di un’altra cosa: difatti è stata la tempesta a provocare l’arrivo in un luogo verso cui quel tale
non si stava dirigendo [cioè verso Egina].
Ma si usa il termine «accidente » anche in una diversa accezione, cioè per indicare, ad
esempio, le proprietà che una cosa ha di per sé, ma che non rientrano nella sua essenza, come
è proprietà del triangolo avere la somma degli angoli uguale a due angoli retti. E gli accidenti
di questo genere possono essere eterni, ma nessuno degli altri accidenti può esserlo. Ma di ciò
si è discusso in altra sede.
32
Aristotele di Stagira (384-22 a.C)
Etica nicomachea
lingua originale: greco
edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.
tr. it. A. Plebe in Aristotele: Opere, Laterza, Bari-Roma, 1973
tema: le cose desiderate per se stesse
genere letterario: raccolta della cose dette (endoxa)
Libro I capitolo v [Bekker pag. 1095b]
Discutiamo dunque la questione donde siamo partiti. Non a torto gli uomini sembrano
concepire il bene e la felicità a seconda del loro genere di vita. La massa e le persone più rozze
li trovano nel piacere: perciò essi prediligono una vita di godimento.
Tre infatti sono i generi di vita più notevoli: quello suddetto, quello che mira alla vita
politica, infine quello contemplativo. I più evidentemente appaiono simili agli schiavi,
scegliendosi un’esistenza degna delle bestie, e trovano una giustificazione nel fatto che molte
persone potenti hanno gli stessi gusti di un Sardanapalo.
Le persone evolute e attive ripongono invece il bene nell’onore. Questo infatti è all’incirca
il fine della vita politica. Ma questo fine sembra esser cosa più superficiale di quel che
cerchiamo. Esso infatti sembra dipendere più da chi conferisce l’onore che da chi è onorato:
noi invece riteniamo che il bene sia qualcosa di individuale e di inalienabile. Inoltre gli uomini
sembrano ricercare l’onore per convincersi di essere buoni: essi infatti aspirano a essere
onorati da chi è assennato, e da chi li conosce, e riguardo alla loro virtù; è evidente dunque
che, almeno di fronte a queste persone, la virtù è un bene superiore. Senz’altro si potrebbe
dunque ritenere che essa sia il fine della vita politica. Ma anch’essa risulta insufficiente:
sembra infatti potersi dare il caso che uno, pur possedendo la virtù, dorma e resti inattivo nel
corso della a sua vita, [pag. 1096a] e che inoltre sopporti nella più gran misura mali e
sfortune; ma una persona che vive in tal maniera, nessuno la riterrebbe felice, se non per
amore di tesi. E intorno a quest’argomento basti ciò (infatti a sufficienza parlai di queste cose
nei libri per il grande pubblico).
Il terzo genere di vita è quello contemplativo, intorno al quale dirigeremo la nostra indagine
nelle pagine seguenti. La vita invece dedita al commercio è qualcosa di contro natura, ed è
evidente che la ricchezza non è il bene che ricerchiamo; infatti essa è solo in vista del
guadagno ed è un mezzo per qualcosa d altro. Tanto più dunque si dovrebbero preferire i fini
prima elencati: essi infatti sono desiderati di per se stessi. Ma o è evidente che neppure quelli
son sufficienti: benché molte teorie sian già state esposte su di essi.
33
Aristotele di Stagira (384-22 a.C)
Etica nicomachea
lingua originale: greco
edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.
tr. it. A. Plebe in Aristotele: Opere, Laterza, Bari-Roma, 1973
tema: la definizione e le varietà della giustizia
genere letterario: lezione pubblica
Libro V capitolo i [Bekker pag. 1129a]
Dobbiamo ora indagare intorno alla giustizia e all’ingiustizia, determinando con quali azioni
esse si trovano ad essere in rapporto, quale medietà sia la giustizia, e di quali estremi il giusto
sia il mezzo. La nostra indagine si svolgerà secondo lo stesso metodo delle parti precedenti.
Vediamo dunque che tutti vogliono chiamare giustizia quella disposizione di animo, per la
quale gli uomini sono inclini a compiere cose giuste e per la quale operano giustamente e
vogliono le cose giuste: altrettanto è dell’ingiustizia, per la quale gli uomini commettono
ingiustizie e vogliono le cose ingiuste. Perciò questa definizione anzitutto valga per noi come
abbozzo generale. Vi è al proposito differenza tra le scienze e le facoltà da un lato, e le
disposizioni dall’altro. Mentre infatti sembra che vi possano essere una stessa scienza e una
stessa facoltà di cose contrarie, invece di cose contrarie la disposizione contraria non è la
stessa: ad esempio dalla salute non possono derivare gli effetti contrari, bensì solo quelli
relativi alla salute; e diciamo infatti che uno cammina in modo sano, quando cammina come
chi è sano. Spesso invero si conosce la disposizione contraria dal suo contrario, e spesso le
disposizioni opposte derivano dalle loro condizioni implicite: così da un lato, se è noto qual è
la buona costituzione fisica, ne diventa nota anche la cattiva, dall’altro la buona costituzione
fisica appare dalle condizioni della salute e queste appaiono da quella.
Ne consegue per lo più che, se di una delle due disposizioni si può parlare in molti sensi,
anche dell’altra si potrà parlare in molti sensi: ad esempio se si parla in molti sensi del giusto,
altrettanto sarà anche per l’ingiusto e l’ingiustizia. Sembra appunto che della giustizia e
dell’ingiustizia si parli in molti sensi, ma essendo questi sensi assai vicini tra loro a causa della
loro omonimia, essi sfuggono e non sono evidenti come invece accade nelle cose lontane tra
loro. La differenza infatti è grande quando riguarda l’idea: ad esempio in greco si chiama
egualmente ‘chiave’ sia la clavicola degli animali sia la chiave con cui si chiudono le porte.
Vediamo dunque in quanti sensi si dice che uno è ingìusto. Sembra che ingiusto sia tanto il
trasgressore della legge, quanto chi vuole avvantaggiarsi, quanto l’iniquo, per cui è evidente
che anche il giusto sarà sia il rispettoso della legge sia l’equo. Perciò ciò che è giusto sarà quel
ch’è legale e quel ch’è imparziale, ciò che è ingiusto sarà quel ch’è illegale e quel ch’è iniquo.
[pag. 1129b] E poiché l’ingiusto è anche uomo che vuol avvantaggiarsi, si mostrerà tale
intorno ai beni, ma non intorno a tutti, bensì intorno a quelli in cui v’è buona e cattiva fortuna,
i quali in genere sono sempre beni, ma per qualcuno non lo sono sempre. Gli uomini li
desiderano e li inseguono; però non bisogna fare così, bensì bisogna desiderare che quelli che
sono beni in senso assoluto divengano beni anche per noi stessi e scegliere solo quelli che
sono beni per noi. L’uomo ingiusto poi non sceglie sempre ciò ch’è più del dovuto, bensì
sceglie anche il meno nel caso dei mali in genere: però, poiché sembra che anche il minor
male sia in certo modo un bene, e la prepotente avidità concerne il bene, per questo egli
34
Aristotele, Etica nicomachea, V, i & vii
sembra esser uomo che vuole avvantaggiarsi. Ed è anche iniquo: questo concetto poi abbraccia
tutto ciò ed è quindi comune.
Poiché dunque, come s’è detto, il trasgressore della legge è ingiusto, mentre il rispettoso
della legge è giusto, è evidente che tutte le cose legali sono in certo modo giuste: infattì le cose
stabilite dal potere legislativo sono legali, e noi diciamo che ciascuna di esse è giusta. Le leggi
poi si pronunziano su ogni cosa, mirando o all’utilità comune a tutti o a quella di chi
primeggia o per virtù, o in qualche altro modo simile; perciò con una sola espressione
definiamo cose giuste quelle cose che procurano o salvaguardano la felicità o parti di essa alla
comunità civile. La legge poi comanda anche di operare da uomo coraggioso, ad esempio di
non abbandonare le file, di non fuggire e di non gettare lo scudo; e da uomo moderato, ad
esempio di non compiere adulterio e oltraggio; e da uomo mansueto, ad esempio di non
percuotere e di non far maldicenza; e parimenti secondo le altre virtù e colpe, prescrivendo
alcune cose e vietandone altre. È retta poi la legge stabilita rettamente, peggiore quella
improvvisata.
Questa giustizia è dunque una virtù perfetta, ma non di per sé, bensì in relazione ad altro. E
per questo spesso la giustizia sembra essere la più importante delle virtù, e che né la stella
della sera né quella del mattino siano cosi ammirabili; e, nel proverbio, diciamo:
Nella giustizia è insieme compresa ogni virtù.
Essa è una virtù sommamente perfetta, perché il suo uso è quello di una virtù perfetta; cíoè è
perfetta, perché chi la possiede può servirsi di questa virtù anche nei riguardi di un altro e non
solo di se stesso; infatti molti nelle proprie cose possono servirsi della virtù, ma non possono
servirsene nelle cose che concernono altri. [pag. 1130a] E per questo sembra esser giusto il
detto di Biante che ‘è la carica che fa conoscere l’uomo’: infatti chi esercita una carica è già
in rapporto con altri e partecipa alla società. Proprio per questo poi la giustizia è la sola delle
virtù che sembra essere un bene altrui, in quanto riguarda gli altri: essa infatti compie ciò che è
utile ad altri, sia ai capi, sia alla società. È dunque l’uomo peggiore colui che diventa reo verso
se stesso e verso gli amici; mentre il migliore non è chi fa uso della virtù riguardo a se stesso,
bensi riguardo ad altri: e questo è opera difficile.
Questa giustizia dunque non è una virtù parziale, bensi è virtù completa, e l’ingiustizia che
le si oppone non è un vizio parziale, ma è vizio completo. (In che cosa differisce poi la virtù
da questa giustizia, è chiaro da ciò che s’è detto: entrambe infatti coincidono, ma la loro
essenza non è la stessa, bensì in quanto essa riguarda gli altri è giustizìa, in quanto invece è
una tal disposizione, in sé, è virtù.)
-–ooOoo–tr. it. C. Mazzarelli, Bompiani, Milano, 2001
Capitolo vii [Bekker pag. 1134b]
Del giusto in senso politico, poi, ci sono due specie, quella naturale e quella legale: è naturale
il giusto che ha dovunque la stessa validità, e non dipende dal fatto che venga o non venga
riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che sia in un
modo piuttosto che in un altro, ma che non è indifferente una volta che sia stato stabilito. Per
esempio, che il riscatto di un prigioniero sia di una mina, che si deve sacrificare una capra e
35
Aristotele, Etica nicomachea, V, i & vii
non due pecore, e inoltre tutto quello che viene stabilito per legge per i casi particolari, per
esempio, il sacrificio in onore di Brasida, e le norme derivate da decreti popolari.
Alcuni ritengono che tutte le norme appartengano a questo secondo tipo di giustizia, perché
ciò che è per natura è immutabile ed ha dovunque la stessa validità (per esempio, il fuoco
brucia qui da noi come in Persia), mentre essi vedono che le norme di giustizia sono mutevoli.
Ma questo non è vero in senso assoluto, bensì solo in un certo senso: anzi, almeno tra li dèi,
certamente, non è affatto vero, mentre tra noi uomini c'è una specie di giusto per natura,
benché sia tutto mutevole; pur tuttavia, c'è un tipo di giusto che si fonda sulla natura ed uno
che non si fonda sulla natura. Ora, tra le norme che possono essere anche diverse, è chiaro
quale sia per natura e quale non sia per natura ma per legge, cioè per convenzione, se è vero
che sia la natura sia la legge sono mutevoli. La medesima distinzione è adatta anche negli altri
casi: per natura, infatti, la mano destra è più forte, eppure è possibile per chiunque diventare
ambidestro.
Le norme di giustizia stabilite per convenzione e per fini utili [pag. 1135a] sono simili alle
misure: infatti, le misure per il vino e per il grano non sono uguali dappertutto, ma dove si
compra all'ingrosso sono più grandi, dove si rivende sono più piccole. Parimenti, anche le
norme di giustizia che non derivano dalla natura ma dall'uomo non sono le stesse dappertutto,
perché non sono le stesse le costituzioni, ma una soltanto è dappertutto la migliore per natura.
Ciascun tipo di norma giuridica, cioè di legge, è come l'universale nei riguardi del
particolare; le azioni compiute, infatti, sono molte, ma ciascuna delle norme è una: la norma è
un universale. C'è differenza, poi, tra atto e cosa ingiusta e atto e cosa giusta: giacché una cosa
è ingiusta o per natura o per una prescrizione di legge. Questa stessa cosa, quando è stata
tradotta in azione, è un atto ingiusto, ma, prima di essere compiuta, non è ancora un atto
ingiusto, bensì una cosa ingiusta. Lo stesso vale anche per l'atto di giustizia: in senso generale
si chiama piuttosto "azione giusta", mentre "atto di giustizia" si chiama l'atto che corregge un
atto di ingiustizia. Ma su ciascun tipo di legge, sulla natura e sul numero delle loro forme e
sulla natura dei loro oggetti si dovrà indagare in seguito.
36
Tito Lucrezio Caro (c. 98-c. 54 a.C.)
Sulla natura delle cose
lingua originale: latino
edizione di riferimento: M.F. Smith, Cambridge Ma., 1975.
tr. it. F. Giancotti, Garzanti, Milano, 1994
tema: la deriva atomica
genere letterario: poema didattico
Libro II
216
220
.
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240
245
250
A tale proposito desideriamo che tu conosca anche questo:
che i corpi primi, quando in linea retta per il vuoto son tratti
in basso dal proprio peso, in un momento affatto indeterminato
e in un luogo indeterminato, deviano un po' dal loro cammino:
giusto quel tanto che puoi chiamare modifica del movimento.
Ma, se non solessero declinare, tutti cadrebbero verso il basso,
come gocce di pioggia, per il vuoto profondo,
ne sarebbe nata collisione, ne urto si sarebbe prodotto
tra i primi principi: così la natura non avrebbe creato mai nulla:
Ma, se per caso qualcuno crede che i corpi più pesanti;
I più celermente movendosi in linea retta per il vuoto,
cadano dall'alto sui più leggeri e così producano urti
capaci di provocare movimenti generatori,
forviato si discosta lontano dalla verità.
Difatti tutte le cose che cadono per le acque e l'aria sottile,
esse, sì, bisogna che accelerino le cadute in proporzione dei pesi,
perché il corpo dell'acqua e la tenue natura dell'aria
non possono egualmente ritardare ogni cosa,
ma più celermente cedono se son vinti da cose più pesanti.
Per contrario, da nessuna parte e in nessun tempo.
lo spazio vuoto può sussistere quale base sotto alcuna cosa,
senza continuare a cedere, come esige la sua natura:
perciò attraverso l'inerte vuoto tutte le cose devono muoversi
con eguale velocità, quantunque siano di pesi non eguali.
Giammai, dunque, le più pesanti potranno cadere dall'alto
sulle più leggere, ne potranno per se stesse generare urti
che mutino i movimenti con cui la natura compie le sue operazioni.
Perciò, ancora e ancora, occorre che i corpi primi declinino
un poco; ma non più del minimo possibile, perché non sembri
che immaginiamo movimenti obliqui: cosa che la realtà confuterebbe.
Infatti ciò vediamo che e alla portata di tutti e manifesto:
e che i corpi pesanti, per quanto e in loro,
non possono muoversi obliquamente,
quando precipitano dall'alto, almeno fin dove e dato scorgere.
Ma, che essi non declinino assolutamente dalla linea retta
nella loro caduta, chi c'e che possa scorgerlo?
37
Lucrezio Sulla natura delle cose, II
Infine, se sempre ogni movimento e concatenato
e sempre il nuovo nasce dal precedente con ordine certo,
255 né i primi principi deviando producono qualche inizio
di movimento che rompa i decreti del fato,
sì che causa non segua causa da tempo infinito,
donde proviene ai viventi sulla terra questa libera volontà,
donde deriva, dico, questa volontà strappata ai fati,
260 per cui procediamo dove il piacere guida ognuno di noi
e parimenti deviamo i nostri movimenti, non in un tempo determinato,
ne in un determinato punto dello spazio,
ma quando la mente di per sé ci ha spinti?
265 Difatti senza dubbio in ognuno dà principio a tali azioni
la sua propria volontà, e di qui i movimenti si diramano per le membra.
Non vedi anche come, nell'attimo in cui i cancelli del circo
sono aperti, non possa tuttavia la bramosa forza dei cavalli
270 prorompere così di colpo come la mente stessa desidera?
Tutta infatti, per l’intero corpo, la massa della materia
deve animarsi, sì che, una volta animata, per tutte le membra
segua con unanime sforzo il desiderio della mente.
Quindi puoi vedere che l'inizio del movimento si crea dal cuore,
2 7 5 e dalla volontà dell'animo esso procede primamente,
e di là si propaga poi per tutto il corpo e gli arti.
Né ciò e simile a quel che accade quando procediamo spinti da un urto
per la forza possente e la possente costrizione di un altro.
Infatti allora è evidente che tutta la materia dell'intero corpo
si muove ed e trascinata contro il nostro volere,
finché non l'abbia raffrenata per le membra la volontà.
Non vedi dunque ora che, sebbene spesso una forza esterna
molti spinga e costringa a procedere senza che lo vogliano,
e a lasciarsi trascinare a precipizio, tuttavia c'è nel nostro petto
280 qualcosa che può lottar contro ed opporsi?
E pure a suo arbitrio che la massa della materia
è costretta talora a piegarsi per le membra, per gli arti,
e nel suo slancio è raffrenata, e torna indietro a star ferma.
Perciò anche negli atomi occorre che tu ammetta la stessa cosa,
285 cioè che, oltre agli urti e ai pesi, c'e un'altra causa
dei movimenti, donde proviene a noi questo innato potere,
giacché vediamo che nulla può nascere dal nulla.
Il peso infatti impedisce che tutte le cose avvengano per gli urti,
quasi per una forza esterna. Ma, che la mente stessa,
290 non abbia una necessità interiore nel fare ogni cosa,
né, come debellata, sia costretta a sopportare e a patire,
ciò lo consegue un'esigua declinazione dei primi principi,
in un punto non determinato dello spazio e in un tempo non determinato.
38
Diogene Laerzio (prima metà III sec. d.C.)
Le vite dei filosofi
lingua originale: greco
edizione di riferimento: H. Frobenius, Basilea, 1533
tr. it. M. Gigante, TEA, Milano, 1991
tema: le suddivisioni della filosofia
genere letterario: dossografia
Libro VII
[36] Dei molti discepoli di Zenone uno dei più famosi fu Perseo figlio di Demetrio nato a
Cizio, che secondo alcuni fu alunno ed amico, secondo altri uno dei domestici mandatigli da
Antigono per il servizio bibliografico: egli era stato istruttore di Alcioneo, figlio di Antigono.
Una volta Antigono volle metterlo alla prova e gli fece annunziare la falsa notizia che i suoi
campi erano stati saccheggiati dai nemici. Perseo divenne scuro in volto e Antigono: «Vedi ?
La ricchezza non è cosa indifferente».
Gli si attribuiscono le seguenti opere: Del regno, La costituzione degli Spartani, Delle
nozze, Dell’empietà, Tieste, Degli amori, Protrettici, Diatribe <in quattro libri>, Aneddoti, in
quattro libri; Commentari, Sulle « Leggi» di Platone, in sette libri.
[37] Altri discepoli illustri furono: Aristone figlio di Milziade, nato a Chio, che introdusse
la dottrina dell’indifferenza. Erillo di Calcedonia che definì fine la scienza. Dionisio detto
l’Apostata che si fece sostenitore della teoria edonistica, perché per la sua grave malattia agli
occhi non ebbe più la forza di affermare che il dolore è cosa indifferente. Dionisio era nato ad
Eraclea. Sfero del Bosforo. Cleante figlio di Fania nato ad Asso che fu successore nello
scolarcato. Zenone era solito paragonarlo a quelle tavolette spalmate di dura cera su cui è
faticoso scrivere, ma che conservano a lungo quel che v’è stato scritto. Sfero fu poi alunno di
Cleante, dopo la morte di Zenone; e di lui parleremo nella seguente Vita di Cleante.
[38] Ippoboto cataloga fra i suoi alunni anche Filonide di Tebe Callippo di Corinto,
Posidonio di Alessandria, Atenodoro di Soli, Zenone di Sidone.
In questa Vita di Zenone mi è parso opportuno dare un resoconto generale di tutta insieme
la dottrina stoica, per il fatto che Zenone fu il fondatore della scuola stoica. Abbiamo già dato
la lista dei suoi numerosi scritti, in cui parlò come nessun altro stoico. Le opinioni comuni a
tutti gli Stoici sono queste: esponiamole sommariamente, attuando il medesimo solito criterio
che abbiamo applicato agli altri filosofi. Gli Stoici dividono la filosofia in tre parti: Fisica,
Etica, Logica.
[39] Questa distinzione fece per primo Zenone di Cizio nel libro Sulla Logica, poi Crisippo
nel primo libro Sulla Logica e nel primo libro Sulla Fisica e Apollodoro l’Efelo nel primo
libro dell’Introduzione alla dottrina ed Eudromo nell’Esposizione dei principi elementari di
Etica e Diogene di Babilonia e Posidonio.
Queste parti Apollodoro chiama luoghi, Crisippo ed Eudromo specie, altri chiamano generi.
[40] Gli Stoici paragonano la filosofia ad un essere vivente: alle ossa ed ai nervi
corrisponde la Logica, alle parti carnose l’Etica, all’anima la Fisica. Oppure la paragonano ad
un uovo: la parte esterna, il guscio, è la Logica, la parte seguente, il bianco, è l’Etica, la parte
più interna, il tórlo, è la Fisica. Oppure la paragonano ad un fertile campo: la siepe esterna è la
Logica, il frutto è l’Etica, la terra o gli alberi la Fisica. Oppure la paragonano ad una città ben
munita di mura e razionalmente amministrata. E nessuna parte è separata dall’altra, come pur
dicono alcuni Stoici, ma sono tutte piuttosto strettamente congiunte fra loro. Anche
39
Diogene Laerzio, Vita di Zenone di Cizio
l’insegnamento veniva trasmesso congiuntamente e non separatamente. Altri danno il primo
posto alla Logica, il secondo alla Fisica, il terzo all’Etica: tra costoro è Zenone nel libro Sulla
Logica, oltre a Crisippo, Archedemo ed Eudromo.
[41] Diogene di Tolemaide a sua volta comincia dall’Etica, Apollodoro pone al secondo
posto l’Etica, Panezio e Posidonio cominciano dalla Fisica, come afferma Fania, discepolo di
Posidono, nel primo libro delle Lezioni di Posidonio. Cleante poi distingue sei parti:
Dialettica, Retorica, Etica, Politica, Fisica, Teologia. Altri riferiscono questa partizione non
alla Logica, ma alla stessa filosofia. Così per esempio Zenone di Tarso. Alcuni distinguono la
parte logica del sistema in due scienze: Retorica e Dialettica; altri le attribuiscono l’ufficio di
definire e di fornire canoni e criteri ; altri tuttavia le eliminano l’officio della definizione.
[42] Si servono dei canoni e criteri per trovare la verità perché in essa stabiliscono le regole
per la distinzione delle rappresentazioni, ed analogamente si servono delle definizioni per
riconoscere la verità, perché la realtà si apprende per mezzo di concetti. Definiscono la
Retorica la scienza di dire bene su argomenti pianamente ed unitariamente esposti, e la
Dialettica la scienza di discutere rettamente su argomenti per domanda e risposta. Perciò
danno anche quest’altra definizione: la scienza di ciò che è vero e di ciò che è falso, e di ciò
che non è né vero né falso.
Dividono la Retorica in tre parti: deliberativa, forense, encomiastica
[43] La Retorica è costituita dai seguenti elementi: invenzione degli argomenti, loro
espressione in parole, loro disposizione e viva rappresentazione. Costituiscono il discorso
retorico le seguenti parti: il proemio, la narrazione dei fatti, la confutazione della parte avversa
e l’epilogo.
La Dialettica abbraccia due campi: l’uno delle cose significate e l’altro dell’espressione o
parola.
Il campo delle cose significate comprende da una parte la dottrina della loro viva
rappresentazione e dall’altra la dottrina degli elementi che la costituiscono, proposizioni
enunciate sia indipendenti sia semplici predicati, e termini simili attivi o passivi, generi e
specie, e così pure parole, tropi, sillogismi e sofismi determinati dal linguaggio o
dall’argomento.
[44] Le varie specie di sofismi sono: il mentitore, il veritiero, il negante, il sorite e simili a
questo, il mancante, l’insolubile, il concludente, il velato, il cornuto, l’utide (il nessuno), il
mietitore.
Abbiamo or ora detto che l’altro particolare campo della Dialettica riguarda la dottrina
della lingua stessa. Questa dottrina si occupa della parola rappresentata in lettere, studia quali
siano le parti del discorso e tratta del solecismo, del barbarismo, della dizione poetica, delle
anfibolie, dell’eufonia e della musica e, secondo alcuni, anche delle definizioni, delle divisioni
e degli stili.
[45] Gli Stoici affermano che è straordinariamente utile lo studio della teoria dei sillogismi.
Questa insegna il metodo dimostrativo, che molto contribuisce alla formulazione corretta dei
giudizi, alla loro disposizione e al loro ricordo, ed insegna altresì a possedere con salda
sicurezza le cognizioni scientifiche.
Il ragionamento stesso consiste di premesse e conclusione: il sillogismo è un ragionamento
conclusivo fondato su questi elementi. La dimostrazione è un ragionamento che per mezzo di
nozioni più chiare spiega nozioni meno chiare su ogni argomento.
40
Diogene Laerzio, Vita di Zenone di Cizio
La rappresentazione è un’impressione nell’anima: è qui adottato in senso traslato un
termine proprio in quanto propriamente l’impressione è l’effetto delle impronte che l’anello
col sigillo imprime nella cera.
[46] Di rappresentazioni ve ne sono due: l’una (comprensiva) che coglie immediatamente la
realtà, l’altra (non comprensiva) che coglie la realtà con scarsa o nessuna distinzione. La
prima, che essi definiscono criterio della realtà, è determinata dall’esistente , conforme
all’esistente stesso ed è impressa e stampata nell’anima. L’altra non è determinata
dall’esistente oppure se procede dall’esistente non è determinata conforme all’esistente stesso:
non è quindi né chiara né distinta.
Essi dicono che la Dialettica stessa è necessaria ed è una virtù che abbraccia altre virtù
speciali o particolari: la tempestività ci insegna con scientifica sicurezza il momento in cui
dobbiamo dare o negare il nostro assenso; la cautela è la forza della ragione contro la semplice
verisimiglianza, così da non cedere ad essa; [47] l’inconfutabilità è il vigore nel ragionamento
così da non lasciarci trarre da esso al contrario; la serietà o assenza di leggerezza è la capacità
di riportare le rappresentazioni alla retta ragione.
La stessa scienza essi definiscono o una comprensione sicura (apprensione) oppure una
facoltà di ricevere le rappresentazioni, che non può essere scossa dalla ragione. Solo con lo
studio della Dialettica il sapiente potrà ragionare senza cadere in errore: infatti per mezzo della
Dialettica si distingue il vero dal falso e si discerne ciò che è persuasivo da ciò che è espresso
ambiguamente. Inoltre senza la Dialettica non è possibile interrogare e rispondere
metodicamente.
[48] La precipitosa temerità nelle affermazioni estende il suo effetto anche su ciò che
accade nella realtà , sì che coloro che non hanno rappresentazioni bene disciplinate cadono nel
disordine e nell’irriflessione. Non altrimenti il sapiente apparirà acuto e perspicace e
soprattutto abile nelle argomentazioni. Ché è proprio del sapiente rettamente parlare e
rettamente pensare, discutere le questioni proposte e rispondere alle domande: tutti questi
requisiti possiede chi è scaltrito nella Dialettica.
Questi sommariamente esposti sono i princìpi fondamentali della logica stoica.
41
Giamblico (c. 240-325 d.C.)
La vita pitagorica
lingua originale: greco
edizione di riferimento: L. Deubner, U. Klein, Lipsia, 1937
tr. it. M. Giangiulio, Rizzoli, Milano, 1991
tema: le ‘tre vite’ e la figura del filosofo
genere letterario: biografia esemplare
Capitolo XII
Si racconta che Pitagora sia stato il primo a dare a se stesso il nome di «filosofo». Ma non
soltanto adottò un nuovo nome; in più fornì preventivamente utili spiegazioni circa il
contenuto della nozione, che era a lui peculiare. A suo dire gli uomini arrivano alla vita allo
stesso modo in cui la folla va alle solenni riunioni festive. Infatti lì si recano persone di ogni
genere, ognuna con un diverso scopo: uno per vendere la propria merce e guadagnar denaro,
un altro a far mostra del suo vigore fisico, in cerca di gloria; c’è poi un terzo genere di
persone, che è il più nobile di tutti, che si raduna in quelle occasioni per vedere i luoghi, le
belle opere, i detti e gli atti eccellenti che nelle riunioni festive è consuetudine vengano
mostrati, Ebbene, allo stesso modo anche nella vita. le persone dalle più diverse aspirazioni si
radunano nello stesso luogo: alcuni sono presi dalla brama di denaro e di lussuosa mollezza,
altri sono dominati dal desiderio di potere e di comando, nonché da folli ambizioni di gloria.
Mentre il tipo d’uomo più puro è quello che ha scelto la contemplazione delle cose più nobili:
è quest’uomo che Pitagora chiamava filosofo. Bello è contemplare l’intera volta celeste e bello
riconoscere l’ordine degli astri che si muovono in essa; ciò deriva dal fatto che il mondo
partecipa del Primo, che è anche l’Intelligibile. E il Primo, per lui, era la natura del numero e
della proporzione, che pervade tutte le cose e secondo la quale l’universo è armonicamente
composto e convenientemente ordinato. E la sapienza era un reale sapere concernente il Bello,
il Primo, il Divino e ciò che è esente da mistione e sempre identico a se stesso: di tutto questo
ogni altra cosa che può dirsi bella è partecipe. Mentre la filosofia era per lui la ricerca di tal
genere di contemplazione. Era dunque nobile anche questo sforzo di formazione spirituale, che
contribuiva, insieme al suo operato, al miglioramento del genere umano.
42
Sant’Agostino di Ippona (354-430)
Confessioni (396-8)
lingua originale: latino
edizione di riferimento: i padri Maurini, Parigi, 1679-1700
tr. it. C. Vitali, Rizzoli, Milano, 1999
tema: il rapporto tra Dio e il tempo
genere letterario: confessione spirituale
Libro XI
Capitolo xii: IDDIO PRIMA DELLA CREAZIONE
Ed eccomi a rispondere a chi domanda: «Che cosa faceva Iddio prima di creare il cielo e la
terra?». Non darò la risposta di quel tale che, per eludere con un motto di spirito la difficoltà
della domanda, disse: «Preparava l’inferno per coloro che vogliono scrutare il cielo».
Altra cosa è comprendere, altra cosa scherzare. Non è dunque quella la mia risposta.
Preferirei dire: «Non so», se non so, al cavarmela con un motto che metta in ridicolo chi fa una
domanda profonda e dia lode a chi dà una risposta sbagliata.
Invece, affermo che Tu, o nostro Iddio, sei il creatore di tutta quanta la creazione: e se con
le parole cielo e terra si intende tutto ciò che è stato creato, affermo francamente: «Prima di
creare il cielo e la terra, Iddio non faceva nulla». Se avesse fatto qualche cosa, che cosa poteva
essere se non una creatura? E almeno avessi io la stessa certezza delle altre nozioni che sarei
contento di conoscere, come ho la certezza che prima della creazione non esisteva alcuna
creatura!
Capitolo xiii: IL TEMPO È NELL’ORDINE DELLE COSE CREATE
Se poi qualcuno, leggiero di mente, vuol risalire a ritroso le immagini dei tempi, e si
maraviglia che Tu, Dio onnipotente, onnicreante, onnireggente, artefice del cielo e della terra,
ti sii astenuto per secoli innumerevoli dal por mano ad un’opera così grandiosa, apra bene gli
occhi e si convinca che la sua maraviglia manca di base.
Donde avrebbero potuto incominciare a scorrere quegli innumerevoli secoli, che Tu non
avresti fatto, Tu, autore e principio di tutti i secoli? Potevan forse esistere tempi non creati da
Te? Come avrebbero potuto passare se non erano mai esistiti?
Se dunque sei Tu l’artefice di tutti i tempi, se esistettero tempi prima della creazione del
cielo e della terra, come sí può dire che eri inoperoso? Proprio quei tempi Tu li avevi creati, né
potevano passare tempi prima che Tu li avessi fatti. Se poi prima del cielo e della terra il
tempo non esisteva, a qual titolo si domanda che cosa facevi allora? Non esistendo il tempo,
non esisteva nemmeno un «allora».
E nemmeno si può dire che Tu precedi i tempi nel tempo: ché non avresti preceduto tutti i
tempi. Invece, precedi tutto il passato nell’immensità della eternità sempre presente, domini
tutto il futuro, il quale appunto perché futuro, appena arrivato, sarà passato: ma «Tu rimani lo
stesso, i tuoi anni non avranno fine». Essi non vanno, non vengono: questi nostri vanno e
vengono, perché vengano tutti. Gli anni tuoi sono tutti in un punto perché immobili, né quelli
che passano sono spinti via dai sopravvenienti, perché non passano: i nostri saranno tutti
quando non saranno più. Gli anni tuoi sono un giorno solo, e il tuo giorno non è l’ogni giorno,
ma l’oggi, perché il tuo oggi non si annulla nel domani, come non succede ad un ieri. Il tuo
oggi è l’eternità, e quindi coeterno generasti colui a cui hai detto: «Io ti ho generato oggi». Tu
hai creato tutti i tempi e tutti li precedi: non si può parlare di tempo quando il tempo non
43
Sant’Agostino, Confessioni
esisteva.
Capitolo xiv: NATURA DEL TEMPO
Non si può dunque parlare di un tempo in cui Tu sia rimasto inoperoso, perché il tempo l’hai
creato Tu: e non si può parlare di tempi coeterni con Te, perché Tu permani, ed essi, se
permanessero, non sarebbero più tempi. Che cosa è infatti il tempo? Chi potrebbe darne una
breve e facile definizione? Chi ne capirà tanto, almeno con il pensiero, da poterne poi far
parola? Ed invece, vi ha una nozione più familiare, più nota, nel parlare comune, del tempo?
Certo, quando ne parliamo, sappiamo che cosa intendiamo, e lo sappiamo anche quando ne
sentiamo parlare gli altri.
Che cosa è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me
ne chiede, non lo so: eppure posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla passasse, non
esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro: se nulla esistesse,
non vi sarebbe un presente.
Passato e futuro: ma codesti due tempi in che senso esistono, dal momento che il passato
non esiste più, che il futuro non esiste ancora? E il presente, alla sua volta, se rimanesse
sempre presente e non tramontasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il
presente, perché sia tempo, deve tramontare nel passato, in che senso si può dire che esiste, se
sua condizione all’esistenza è quella di cessare dall’esistere; se cioè non possiamo dire che in
tanto il tempo esiste in quanto tende a non esistere?
Capitolo xv: MISURAZIONE DEL TEMPO
Con tutto ciò, noi parliamo di tempo lungo e di tempo breve, ma sempre riguardo al passato e
al futuro. Così, per esempio, diciamo lungo un tempo passato da cento anni; come diciamo
lungo un tempo futuro che sarà fra cento anni: breve tempo passato, diremo, quello di dieci
giorni fa, e così per il futuro. Ma come può essere lungo o breve quello che non è? Il passato
non è più, il futuro non è ancora. Non si dica più dunque: «È lungo»; ma si dica: «Fu lungo»,
per il passato, e: «Sarà lungo», per il futuro.
O mio Signore e mia luce, anche qui, forse, la tua verità si fa beffe dell’uomo? Un tempo
passato, che diciamo lungo, fu lungo quando era già passato o quando era ancora presente?
perché non poteva essere lungo se non in quanto esisteva qualche cosa che potesse essere
lunga: ma il passato, come tale, non esisteva; non poteva dunque essere lungo.
Non è, quindi, esatto dire: «Quel tempo passato fu lungo», non trovandosi in esso niente
che fosse suscettibile di essere lungo. Una volta passato, non è più. Dovremmo dire invece:
«fu lungo quel tempo presente», poiché era lungo solo in quanto presente. Non era ancora
passato al non essere; c’era possibilità che fosse lungo: ma una volta passato, cessò di essere
lungo, avendo cessato di esistere.
Vediamo un po’ ora, o anima umana, se possa essere lungo il tempo presente; hai ricevuto
infatti il potere di sentire e di misurare la durata. Che cosa mi risponderai? Cento anni presenti
son forse un tempo lungo? Esamina prima se possano essere presenti cento anni. Se sta
passando il primo di essi, questo è presente, ma gli altri novantanove sono futuri, dunque non
esistono ancora; se si tratta dell’anno numero due, uno è passato, il secondo è presente, tutti gli
altri futuri. Così è per tutti gli anni intermedi; qualunque tu prenda, da una parte stanno quelli
passati, dall’altra i futuri. Dunque cento anni non possono essere presenti.
Vedi un po’ se almeno dell’anno in corso si possa dire che è presente. Se siamo nel primo
mese, tutti gli altri sono futuri; se nel secondo, il primo è nel passato, tutti gli altri nel futuro.
44
Sant’Agostino, Confessioni
Neanche dell’anno che sta passando si può dire che è tutto presente: se non è presente tutto,
l’anno non è presente. I suoi mesi sono dodici, e ciascuno di essi mentre è in corso è presente;
gli altri sono passati o futuri.
Del resto, nemmeno quando sta passando, si può dire di un mese che è presente: presente è
un giorno; se è il primo, futuri gli altri, se l’ultimo, passati gli altri; se intermedio, tra passati e
futuri.
Ed ecco: quel tempo presente, il solo a cui possa convenire il termine di «lungo», è ridotto
alla durata di una sola giornata. Ma sottoponiamo ad esame anche questa, perché neanche di
un giorno si può dire’ che sia presente tutto. Esso è formato, tra giorno e notte, di ventiquattro
ore: per la prima tutte le altre sono future, per l’ultima tutte le altre sono passate, per
l’intermedia un po’ sono passate, un po’ future. Ed anche l’ora si svolge in istanti fuggitivi;
quello volato via è passato, quello che gli resta è futuro. Se possiamo farci un’idea del tempo,
quel solo punto si può chiamare presente che non si può più suddividere in particelle, per
quanto piccolissime: ma anche quel punto trasvola così rapido dal futuro al passato, da non
avere estensione alcuna di durata. Ché, se l’avesse, sarebbe divisibile in passato e in futuro: il
presente invece non ammette estensione.
Dove è, allora, un tempo che si possa chiamare lungo? Il futuro, forse? Ma per esso noi
usiamo tale espressione, perché non esiste ancora ciò che può essere lungo: diciamo, invece:
«Sarà lungo». Quando sarà lungo? Quando sarà ancora futuro? No, perché non esiste ancora
quello che dovrebbe essere «lungo». O quando dal futuro — che non è ancora — ha
incominciato e sia diventato presente? Da quanto si è detto sopra, il presente proclama di non
poter essere un tempo lungo.
Capitolo xvi: SI PUÒ MISURARE SOLTANTO IL PRESENTE
Eppure, Signore, noi possiamo distinguere gli intervalli dei tempi e paragonarli tra loro; e
diciamo che alcuni sono più lunghi, altri più brevi. Misuriamo pure quanto questo o quel
tempo sia più lungo o più breve: e rispondiamo che quello è il doppio o il triplo, questo
semplice o tanto quanto quello. Ma noi possiamo misurare il tempo che passa, e lo misuriamo
per la percezione che ne abbiamo. Ora, chi può misurare il passato, che non esiste più, o il
futuro che non esiste ancora? A meno che uno osi affermare che si può percepire e misurare il
non esistente. Dunque si può aver la percezione e misurare il tempo quando sta passando, ma
quando è passato non è possibile, perché non esiste.
Capitolo xvii: PASSATO E FUTURO ESISTONO
Ed ora, qui, o Padre, non affermo, vado cercando:, o mio Dio, assistimi, sorreggimi.
C’è chi voglia dimostrarmi che non esistono tre forme del tempo, come abbiamo imparato
da fanciulli e come abbiamo insegnato ai fanciulli, e cioè il passato, il presente, il futuro, ma
che solo il presente sia tempo, poiché gli altri due non esistono? O forse esistono anch’essi, e
il tempo, quando da futuro diventa presente esce da qualche occulto recesso, per ritirarsi in
qualche occulto recesso quando da presente diventa passato? E quelli che hanno preannunziato
avvenimenti futuri dove li videro se non esistevano ancora? Quello che non c’è, non si può
certo vedere. E quelli che narrano avvenimenti passati non racconterebbero cose vere, se non
le vedessero con la loro mente: e non potrebbero assolutamente essere viste, se non
esistessero.
Esistono dunque anche il passato e il futuro.
45
Sant’Agostino, Confessioni
Capitolo xviii: CONOSCENZA DEL PASSATO E DEL FUTURO
Permettimi di approfondire alquanto le mie ricerche, o Signore, mia speranza; fa’ che in
questo mio proposito io non mi lasci sviare.
Se futuro e passato esistono, vorrei sapere dove hanno sede. Se per ora non ci riesco, so
però che, dovunque siano, non vi sono come futuro e passato, ma come presente; perché se
anche là sono come futuro o come passato, o non vi sono ancora o non vi sono più. Quindi,
dovunque siano, comunque siano non vi sono che in forma di presente. Però, quando si
raccontano avvenimenti passati veri, non si tiran fuori dalla memoria gli avvenimenti in se
stessi, ma espressioni formate dalle loro immagini che si sono impresse a guisa di orme
nell’animo per mezzo dei sensi. Così, la mia fanciullezza non esiste più se non in un tempo
passato, che non esiste più; ma, quando la rievoco e ne parlo, io ne vedo l’immagine nel
presente, perché essa è ancora nella mia memoria.
Devo invece confessare, o mio Dio, che proprio non so se nella predizione del futuro, il
fenomeno si svolga nello stesso modo; se, cioè, le immagini delle cose non ancora esistenti
siano presentate come già tali. So tuttavia che noi di solito pensiamo prima a nostre azioni
future; che codesta anticipazione di pensiero è presente, mentre l’azione premeditata non
esiste ancora, perché futura: quando invece vi ci saremo applicati e realizzeremo quanto
avevamo pensato, quell’azione non sarà più futura, allora, ma presente.
In qualunque modo avvenga codesto arcano presentimento del futuro, è certo che non si
può vedere se non quello che esiste. Ma ciò che esiste è il presente, non il futuro. Perciò
quando si dice che si vede il futuro, non si vede il futuro in se stesso, che non esiste ancora,
ma si vedono forse cause o indizi suoi, già esistenti; non il futuro, dunque, ma il presente
appare alla nostra vista, e grazie ad esso possono venire preannunziate cose future, concepite
con lo spirito: forme concepite che già esistono, e chi predice il futuro le intravede come
presenti.
Mi aiuterò con un esempio, scelto fra i tanti.
Io vedo l’aurora: preannuncio il levar del sole: ciò che vedo è presente, ciò che preannuncio
è futuro; non il sole è futuro: esso esiste già; ma il suo sorgere, che è futuro; sorgere però che
io, se non ne avessi l’immagine nell’animo, non potrei certo predire. Ma nemmeno l’aurora
che vedo in cielo è il sorgere del sole, quantunque lo preceda, e nemmeno lo è l’immagine del
mio animo: ambedue sono visti nel presente perché si possa preannunciare, il futuro. Il futuro
dunque non c’è ancora; se non c’è ancora, non esiste; se non esiste, non si può assolutamente
vedere; ma si può preannunciarlo dai segni presenti che già esistono e si possono vedere.
46
Anicio Manlio Severino Boezio (475-524)
La consolazione della filosofia (524)
lingua originale: latino
edizione di riferimento: L. Bieler, Turnhout, 1967
tr. it. O. Dallera, Rizzoli, Milano, 1977
tema: la prescienza divina
genere letterario: dialogo consolatorio
Libro V, capitolo iii
Allora io: ‘Ecco – dissi – mi sento di nuovo confondere da una perplessità ancora più
tormentosa.
E qual’è mai – chiese lei1 – codesta tua perplessità? Ma immagino già da quali idee tu sia
turbato.
Mi sembra – dissi – che ci sia un’insanabile contraddizione nell’affermazione che, da una
parte, Dio conosce in anticipo tutte le cose e che, dall’altra, per la nostra libertà sussiste una
qualche possibilità di scelta. Infatti, se Dio vede in anticipo tutte le cose e in nessun modo può
sbagliare, è inevitabile che si verifichi quello che la divina provvidenza ha previsto che debba
verificarsi. Di conseguenza, se preconosce dall’eternità non soltanto le azioni umane, ma
anche i disegni e i voleri, non vi sarà libertà di decisione; perché non può esistere alcun altro
fatto o volere, quale che sia, se non quello di cui la provvidenza divina, immune da errori,
abbia già avuto in anticipo conoscenza. Se, infatti, le cose possono orientarsi diversamente da
come sono state previste, non ci sarà una sicura prescienza del futuro, ma piuttosto
un’opinione incerta, cosa, questa, che ritengo empio credere nei confronti di Dio.
E non posso poi approvare quel ragionamento per mezzo del quale certuni credono di poter
risolvere il nodo della questione. Dicono infatti che non già una cosa si verifica per il fatto che
la provvidenza ha previsto che essa si verificherà, ma, al contrario piuttosto, per il fatto che
una cosa avverrà non può sfuggire alla provvidenza divina; in tal modo la necessità andrebbe a
ricadere sulla parte opposta. Secondo costoro, dunque, non è fatale che accadano quelle cose
che sono previste, ma è fatale che siano previste quelle cose che devono succedere; quasi che
il problema tormentoso fosse, a questo punto, di sapere quai sia il rapporto delle cause: se cioè
la prescienza sia la causa. della necessità delle cose future, o se la necessità delle cose future
sia la causa della prescienza; e non ci sforzassimo invece di far luce su quest’altro punto, e
cioè che, in qualunque rapporto stiano tra di loro le cause, è fatale che si verifichino le cose
previste, anche se la prescienza non sembra imporre alle cose future la necessità di avverarsi.
E infatti, posto che qualcuno stia seduto, è logico che sia vera l’opinione per la quale si
ritiene che egli sta seduto e, reciprocamente, posto che sia vera l’opinione secondo cui uno sta
seduto, è logico che egli stia davvero seduto. In ambedue i casi, dunque, c’è necessità logica;
in quest’ultimo: dello star seduto, nel primo caso: della verità. Ora, non è che uno stia seduto
per il fatto che è vera l’opinione al proposito, ma, piuttosto, questa è vera perché è stata
preceduta dal fatto che quello stesse seduto. Così, per quanto la causa della verità derivi da
questa seconda parte, c’è tuttavia in ambedue una medesima necessità. È chiaro che gli stessi
ragionamenti si possono fare a proposito della provvidenza e delle cose future; infatti, anche
se esse sono previste per il fatto che devono accadere e non si verificano invece per il semplice
1
L’interlocutrice del narratore è la personficazione della Filosofia [nota di Davies]
47
Boezio, Consolazione
fatto di essere previste, non è meno logico, tuttavia, che da Dio siano previste le cose che
avverranno, e che le cose previste avvengano in quanto previste, il che, da solo, è sufficiente a
sopprimere completamente ogni libértà di determinazione. Giacché, quale controsenso logico
sarebbe mai il dire che l’avverarsi delle cose temporali è causa dell’eterna prescienza! E che
differenza c’è mai tra il credere che Dio preveda le cose future per il fatto che accadranno e il
pensare che le cose già accadute nel passato siano causa di quella somma preveggenza?
Inoltre, allo stesso modo che, quando so che una cosa è, risulta logico che quella cosa sia, così,
quando conosco che una cosa avverrà, è fatale che quella cosa avvenga; ne deriva, dunque, che
non si possa evitare l’avverarsi di una cosa prevista.
Infine, se qualcuno ritiene che qualcosa stia diversamente da come sta in realtà, questo
pregiudizio non solo non è scienza, ma è opinione fallace e ben diversa dalla verità della
scienza. Perciò, se qualcosa potrà avverarsi in modo tale che il suo avverarsi non sia certo e
necessario, come si potrà conoscere in anticipo che quella cosa avverrà? Come, infatti, la
scienza, in sé, non contiene nessun elemento di falsità, così ciò che da essa è concepito non
può essere diverso da come è concepito. La causa, appunto, per cui la scienza è immune da
errore consiste nel fatto che ogni cosa, per logica necessità, sta in quel modo in cui la scienza
conosce che essa sta. E dunque? In che modo Dio conosce in anticipo questi futuri incerti? Se,
infatti, ritiene che inevitabilmente avverranno cose che possono anche non avvenire, si
sbaglia, cosa, questa, che è sacrilego non soltanto pensare, ma anche solo enunciare. Ma se le
cose, così come sono, egli le vede proiettate nel futuro, in modo, cioè, da conoscere che esse
possono indifferentemente avverarsi o non avverarsi, che tipo di prescienza sarebbe mai
questa che non racchiude nulla di sicuro, nulla di determinato? E in che cosa differisce tutto
questo da quel ridicolo vaticinio di Tiresia
Tutto quel che io dico, o avverrà o non avverrà?2
E in che cosa la prescienza divina sarebbe superiore al modo di pensare umano, se, come
gli uomini, giudica incerte quelle cose il cui avverarsi è incerto? Ma se presso quella fonte
certissima di tutte le cose non ci può essere nulla di incerto, risulta allora certo l’avverarsi di
quelle cose di cui ha decisamente previsto che accadranno. Non sussiste perciò libertà alcuna
per le decisioni e le azioni umane, poiché la divina mente, tutto prevedendo senza possibilità
d’errore, le vincola e circoscrive a un ben preciso risultato.
Una volta accettata questa conclusione, ogni valore umano è evidentemente destinato a
eclissarsi. E privo di senso, infatti, fissare premi o castighi per buoni e cattivi, quando
nessun’attività libera e volontaria dello spirito li ha meritati. E apparirebbe iniqua al massimo
grado quell’esigenza che ora è sentita come giustissima, cioè che i malvagi siano puniti e gli
onesti rimunerati, mentre a orientarli nell’uno o nell’altro senso non è la loro personale
volontà, ma vi sono costretti dalla forza necessitante che determina il futuro. E non ci
sarebbero più, per nessun verso, vizi e virtù, ma piuttosto una inestricabile, disordinata
confusione di valori e, cosa di cui nulla si può immaginare di più empio, avverrebbe che,
derivando l’intero ordine universale dalla provvidenza e nulla essendo consentito alla
decisione umana, anche i nostri vizi si dovrebbero attribuire all’autore di tutti i beni. A questo
punto non ha più nessun senso sperare o pregare; cosa mai, infatti, uno dovrebbe sperare o
pregare, quando le cose• su cui si può esercitare il desiderio risultano concatenate tra li loro
secondo una successione rigorosa? Verrà, dunque, eliminato quell’unico rapporto possibile tra
2
La fonte è il poeta latino Orazio (Sermones, II, 5) [nota di Davies]
48
Boezio, Consolazione
uomini e Dio, che consiste appunto nello sperare e nel pregare, se è vero che noi, in premio di
un doveroso riconoscimento della nostra bassezza, meritiamo l’inestimabile contraccambio
della grazia divina, che è la sola via per cui sembra che gli uomini possano entrare in colloquio
con Dio e congiungersi con quella inaccessibile luce, grazie all’atto stesso della preghiera,
prima ancora di essere stati esauditi. Ora, se, ammesso il carattere necessitante del futuro, tutto
questo appare privo di efficacia, a quale altro mezzo ricorreremo per poterci congiungere e
restare uniti al supremo signore delle cose? Sarà perciò inevitabile che il genere umano, come
poco fa dicevi tu nei tuoi versi, sradicato e dissociato dalla sua fonte, sprofondi nel nulla.
49
Sant’Anselmo (1033-1109)
Proslogion (1077-8)
lingua originale. latino
edizione di riferimento: F.S. Schmitt, Seckau, 1938
tr. it. I. Sciuto, Rusconi, Milano, 2001
tema: la dimostrazione dell’esistenza di Dio
genere letterario: dialogo teocentrico
Proemio
Dopo aver pubblicato, per le pressanti preghiere di alcuni confratelli, un opuscolo’ come
esempio di meditazione sulla razionalità della fede, mettendomi nella posizione di chi,
ragionando silenziosamente dentro di sé, ricerca ciò che non conosce, considerando che
quell’opuscolo era costruito con la concatenazione di molti argomenti, ho cominciato a
chiedermi se per caso fosse possibile trovare un argomento unico, tale che per essere
dimostrato non avesse bisogno di altro, ma solo di se stesse e che fosse da solo sufficiente a
stabilire che Dio esiste veramente, che è il sommo bene di nessun altro bisognoso e di cui tutte
le cose hanno bisogno per essere e per ben-essere, e tutto ciò che crediamo della divina
sostanza.
Rivolgevo spesso e con impegno il mio pensiero su questo punto e talvolta mi sembrava di
poter già afferrare quanto cercavo, talvolta invece sfuggiva del tutto all’acume della mia
mente; alla fine, privo di speranza, volli cessare la ricerca di una cosa che sembrava
impossibile trovare. Ma quando volevo escludere completamente da me quel pensiero,
affinché non impedisse alla mia mente, occupandola inutilmente, di impegnarsi in altri
pensieri nei quali potessi fare progressi, proprio allora quel pensiero cominciò sempre più ad
imporsi, con una certa importunità, a me che non lo volevo e lo respingevo. Mentre dunque,
un giorno, fortemente mi affaticavo nel resistere alla sua insistenza, nel conflitto stesso dei
pensieri mi si presentò ciò di cui avevo disperato, sì da farmi applicare con passione a quel
pensiero che mi ero preoccupato di respingere.
Ritenendo poi che quanto gioivo di avere trovato, se fosse stato scritto, sarebbe piaciuto a
qualche lettore, su questo e su altri argomenti ho scritto il seguente opuscolo, mettendomi
nella posizione di chi tenta di innalzare la sua mente a contemplare Dio e cerca di
comprendere ciò che crede. E poiché giudicavo che né questo opuscolo né quello che sopra ho
ricordato fossero degni del nome di libro o di portare il nome dell’autore, ma pensavo tuttavia
che non si dovessero pubblicare senza un titolo qualsiasi col quale invitassero alla lettura, in
qualche modo, colui nelle cui mani fossero pervenuti, diedi a ciascuno il suo titolo, chiamando
il primo Esempio di meditazione sulla ragione della fede e il successivo La fede che cerca
l’intelletto.
Ma quando l’uno e l’altro erano già stati trascritti da molti con questi titoli, molti mi
sollecitarono (specialmente il reverendo arcivescovo di Lione, di nome Ugo, legato apostolico
in Gallia, che me l’ordinò con autorità apostolica) a scrivere il mio nome su di essi. Per fare
ciò più adeguatamente, ho dunque intitolato il primo opuscolo Monologion, cioè soliloquio, e
questo invece Proslogion, cioè colloquio.
Parte prima: DIMOSTRAZIONE DELL’ESISTENZA DI DIO
-–ooOoo–50
Sant’Anselmo, Proslogion
2. Dio esiste veramente.
Dunque, o Signore, tu che dai l’intelligenza alla fede, concedimi di comprendere, per quanto
sai che mi possa giovare, che tu esisti come crediamo e che sei quello che noi crediamo.
E davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande.
O forse non vi è una tale natura, perché «disse l’insipiente in cuor suo: Dio non esiste»? Ma
certamente quel medesimo insipiente, quando ascolta ciò che dico, cioè «qualcosa di cui non si
può pensare nulla di più grande», comprende ciò che ode; e ciò che comprende è nel suo
intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro, infatti, è che una cosa sia
nell’intelletto, e altro è intendere che quella cosa esista. Quando il pittore, infatti, prima pensa
a ciò che sta per fare, ha certamente nell’intelletto ciò che ancora non ha fatto, ma non intende
ancora che questo esista. Quando invece lo ha già dipinto, non solo ha nell’intelletto ciò che ha
già fatto, ma intende anche che esso esista. Anche l’insipiente, dunque, deve convenire che,
almeno nell’intelletto, vi sia qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande, perché
quando sente questa espressione la intende, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto.
Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande non può essere nel
solo intelletto. Se infatti è almeno nel solo intelletto, si può pensare che esista anche nella
realtà, il che è maggiore. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore è nel solo
intelletto, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il
maggiore. Ma evidentemente questo non può essere. Dunque ciò di cui non si può pensare il
maggiore esiste, senza dubbio, sia nell’intelletto sia nella realtà.
3. Non si può pensare che Dio non esista.
Tutto ciò è talmente vero, che non si può neppure pensare che Dio non esista. Infatti si può
pensare che vi sia qualcosa di cui non si possa pensare che non esiste; e questo è maggiore di
ciò che si può pensare non esistente. Quindi, se ciò di cui non si può pensare il maggiore può
essere pensato non esistente, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore non è ciò di
cui non si può pensare il maggiore; ma questo è contraddittorion. Dunque ciò di cui non si può
pensare il maggiore esiste così veramente che non si può neppure pensare non esistente.
E questo sei tu, Signore Dio nostro. Dunque tu esisti così veramente, Signore Dio mio, che
non puoi neppure essere pensato non esistente. E giustamente. Se infatti una qualche mente
potesse pensare qualcosa migliore di te, la creatura si eleverebbe al di sopra del Creatore e
sarebbe giudice del Creatore; il che sarebbe grandemente assurdo. In verità, di tutto ciò che è,
all’infuori di te solo, si può pensare che non sia. Tu solo dunque hai l’essere nel modo più
vero, e perciò massimo, rispetto a tutte le cose, perché qualsiasi altra cosa non è in modo così
vero e, quindi, ha un essere minore. Perché dunque «l’insipiente ha detto in cuor suo: Dio non
esiste», quando è così evidente ad una mente razionale che tu sei più di tutte le cose? Per quale
motivo, se non perché è stolto e insipiente?
4. In che modo l’insipiente ha detto in cuor suo ciò che non si può pensare.
Ma in quale modo l’insipiente ha detto in cuor suo ciò che non ha potuto pensare, o in che
modo non ha potuto pensare ciò che ha detto in cuor suo, dato che è la stessa cosa dire nel
cuore e pensare? Se poi veramente, anzi poiché veramente sia lo pensò perché lo disse in cuor
suo, sia non lo disse in cuor suo perché non poteva pensarlo, non in un modo soltanto si dice
nel cuore o si pensa qualcosa. In un modo, infatti, una cosa è pensata quando si pensa la parola
che la significa; in un altro modo, quando si comprende ciò che la cosa è. Nel primo modo,
pertanto, si può pensare che Dio non sia, ma nel secondo assolutamente no. Perciò nessuno, il
51
Sant’Anselmo, Proslogion
quale comprenda ciò che Dio è, può pensare che Dio non esista, sebbene dica in cuor suo
queste parole, non dando loro alcun significato o dandogliene uno estraneo. Dio, infatti, è ciò
di cui non si può pensare il maggiore. Chi comprende bene questo, comprende certamente che
egli esiste in modo tale che neppure nel pensiero può non essere. Chi dunque comprende che
Dio è così, non può pensare che egli non esista.
Ti ringrazio, buon Signore, ti ringrazio perché ciò che prima ho creduto per un tuo dono,
ora per la tua illuminazione lo comprendo in modo tale che, se non volessi credere che tu
esisti, non potrei non comprenderlo.
52
Eadmero di Bec (1060-c.1124)
Vita di Anselmo (inizio XII sec.)
lingua originale. latino
edizione di riferimento: R.W. Southern, Oxford, 1972
tr. it. I. Biffi, Jaca Book, Milano, 1987
tema: la scoperta (e scampata perdita) di un ragionamento
genere letterario: agiografia
Libro I
25. In questo periodo1, scrisse tre trattati, il De veritate, il De libertate arbitrii e il De casu
diaboli; da essi appare chiaramente dove fissasse la sua attenzione benché nel trattare tali
argomenti non esulasse affatto da quelli di interesse generale. Ne scrisse anche un quarto che
intitolò De grammatico; è un’opera sottoforma di dialogo tra lui ed un discepolo a cui
propone, risolvendole, molte questioni dialettiche e gli dà ragguagli ed anche istruzioni sul
modo in cui debbano essere considerate le sostanze e gli accidenti.
Compose pure una breve dissertazione a cui diede il titolo di Monologion perché in essa si
rivolge solo a se stesso e, senza mai rifarsi all’autorità della Sacra Scrittura, ma indagando con
la sola forza della ragione, scoprì quale fosse la natura di Dio e fornì prove ed argomentazioni
inconfutabili sul fatto che ciò che la fede autentica sente riguardo a Dio non può essere che
verità.
26. In seguito gli venne in mente di cercare se fosse possibile dimostrare con un’unica breve
trattazione, quello che si crede e si predica a proposito di Dio, cioè che è eterno, immutabile,
onnipotente, onnipresente in tutte le cose, incomprensibile, giusto, pio, misericordioso, verace,
verità, bontà, giustizia e così via e come il tutto sia in Lui una cosa sola.
Secondo quanto riferiva, questo intento gli procurava qualche disagio. Il riflettervi gli
toglieva infatti da un lato la voglia di mangiare, di bere e di dormire, dall’altro, ed era la sua
angustia maggiore, gli turbava la concentrazione che avrebbe dovuto prestare al Mattutino ed
agli altri uffici divini. Quando se ne accorse ed ancora non riusciva a comprendere pienamente
quello che cercava, si convinse che quei pensieri fossero una tentazione del diavolo e si sforzò
di allontanarli dalla sua mente. Ma per quanto si affannasse, essi lo perseguitavano con
insistenza sempre maggiore. Ma ecco che una notte, durante una veglia di preghiera, la grazia
di Dio illuminò il suo cuore e l’intera questione apparve chiara al suo intelletto riempiendogli
di gioia e di esultanza ogni intimo recesso dell’anima. Considerando poi fra sé che anche altre
persone avrebbero potuto apprezzare la sua conclusione, se ne fossero state messe a
conoscenza, senza provare alcuna forma d’invidia la trascrisse immediatamente sopra delle
tavolette cerate e le affidò ad uno dei confratelli del monastero perché le custodisse con ogni
riguardo.
Dopo alcuni giorni richiese le tavolette a chi le aveva in consegna. Furono cercate nel luogo
in cui erano state riposte ma non si trovarono. Si domandò ai monaci se per caso qualcuno le
avesse prese, ma invano. E finora non è venuto fuori nessuno che abbia ammesso di saperne
qualcosa. Anselmo riprodusse un ulteriore scritto sullo stesso tema sopra altre tavolette e le
consegnò al medesimo monaco con l’impegno di una salvaguardia più scrupolosa. Costui le
1
Gli anni 1080-5 [nota di Davies]
53
Eadmero, Vita di Anselmo
sistemò nell’angolo più segreto del suo letto ed il giorno dopo, senza avere il sospetto di alcun
misfatto, le ritrovò sparse sul pavimento davanti al letto con i pezzi di cera che le ricoprivano
sparpagliati qua e là. Si raccolsero le tavolette, la cera fu ripresa e portarono le une e l’altra ad
Anselmo. Egli giustappose i pezzetti di cera e, con una certa fatica, recuperò la scrittura. Ma
nel timore che per qualche negligenza queste andassero definitivamente perdute, nel nome di
Dio ordinò che venissero ricopiate su della pergamena.
Compose poi un volume di modeste proporzioni ma di rilevante consistenza per le
proposizioni espresse e la finezza speculativa, e lo intitolò Proslogion. In quest’opera si
rivolge ora a se stesso ora a Dio. Essa venne nelle mani di un tale che, non essendosi trovato
molto d’accordo con una delle argomentazioni, aveva pensato che fosse insostenibile e
nell’intenzione di confutarla compose una replica in opposizione e la sistemò in appendice a
quel medesimo testo. Quando uno dei suoi amici gliela fece recapitare ed Anselmo la vide, ne
fu felice, espresse il proprio ringraziamento a chi gli aveva mosso quelle critiche e gli inviò la
sua risposta in merito scrivendola in fondo all’opuscolo che gli era stato mandato; poi lo
ritornò all’amico che gliel’aveva fatto pervenire. Aveva agito così nel desiderio che altre
persone oltre a quella, meritevoli di avere quell’operetta, la richiedessero a lui perché alla fine
vi aggiungesse la critica alla sua argomentazione e la sua risposta alla critica.
54
San Tommaso d’Aquino (1224/5-1274)
Sulla Verità (1256-9)
lingua originale. latino
edizione di riferimento: S.E. Fretté, M.Maré Vivès (et al.),
Polyglot, Vaticano (1882 ecc., ‘edizione Leonina’), vol XXII
tr. it. F. Fiorentino, Bompiani, Milano, 2005
tema: Dio e i futuri contingenti
genere letterario: quæstio disputata
Questione 2: La conoscenza di Dio
Articolo 12: Se Dio conosca i futuri contingenti
OBIEZIONI
1. Per dodicesimo ci si chiede se Dio conosca i futuri contingenti singolari. E sembra di no.
Infatti, si può conoscere solo il vero, com’è detto nel libro I degli Analitici Posteriori; ora, nei
singolari contingenti e futuri non c’è una determinata verità, com’è detto nel libro Della
interpretazione; dunque, Dio non ha scienza dei singolari futuri e contingenti.
2. Inoltre. Ciò cui segue l’impossibile è impossibile; ora, al fatto che Dio conosca il singolare
contingente e futuro segue l’impossibile, ossia che la scienza di Dio sia fallibile; dunque, è
impossibile che [Dio] conosca il singolare futuro contingente. Prova della minore:
ammettiamo per ipotesi che Dio conosca un certo futuro contingente singolare, per es. che
Socrate siede. Ora, o è possibile che Socrate non sieda oppure è impossibile. Se non è
possibile che Socrate non sieda, dunque, è impossibile che Socrate non sieda; dunque, è
necessario che Socrate sieda; ma era stato ammesso per ipotesi che [ciò] fosse contingente.
Invece, se è possibile che non sieda, ciò ammesso, non deve seguire nulla di sconveniente,
però segue che la scienza di Dio sia fallibile; dunque, non sarà impossibile che la scienza di
Dio sia fallibile.
3. Ma diceva che il contingente, in quanto esiste in Dio, è necessario. IN CONTRARIO. Ciò
che è in sé contingente non è necessario in rapporto a Dio, se non secondo che esiste in lui; ma
secondo che esiste in lui, non è distinto da lui; dunque, se non è conosciuto da Dio se non
secondo che è necessario, esso non sarà conosciuto da lui secondo che è costituito nella
propria natura, secondo la qual cosa è distinto da Dio.
4. Inoltre. Secondo [quanto dice] il Filosofo nel libro I degli Analitici primi, da una premessa
maggiore [la cui predicazione è] necessaria e da una premessa minore [la cui predicazione è]
d’inerenza segue una conclusione necessaria; ora, questa proposizione: Ogni cosa conosciuta
da Dio è necessario che esista, è vera; infatti, se non esistesse ciò che Dio sa che esiste, la sua
scienza sarebbe fallibile; dunque, se qualche essere è conosciuto da Dio, è necessario che esso
esista. Ora, nessun contingente è necessario che esista; dunque, Dio non conosce nessun
contingente.
5. Ma diceva che quando si dice: Ogni cosa conosciuta da Dio è necessario che esista, non si
introduce una necessità dal lato della creatura, ma solo dal lato di Dio che conosce. IN
CONTRARIO. Quando si dice: Ogni cosa conosciuta da Dio è necessario che esista, la
necessità è attribuita al soggetto della proposizione; ora, il soggetto della proposizione è Ciò
che è conosciuto da Dio, non lo stesso Dio che conosce; dunque, non si introduce con ciò la
necessità se non dal lato della cosa conosciuta.
6. Inoltre. Quanto più una conoscenza, in noi, è certa tanto meno essa può riguardare le cose
contingenti: infatti, la scienza non è che delle cose necessarie, poiché è più certa dell’opinione
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San Tommaso, Sulla verità
che può riguardare le cose contingenti; ora, la scienza di Dio è certissima; dunque, non può
essere se non di cose necessarie.
7. Inoltre. In ogni condizionale vera, se l’antecedente è assolutamente necessario, anche il
conseguente sarà assolutamente necessario; ora, questa condizione è vera: Se una cosa è stata
conosciuta da Dio, essa esisterà. Dunque, poiché questo antecedente: Questa cosa è stata
conosciuta da Dio è assolutamente necessario, anche il conseguente sarà assolutamente
necessario; dunque, tutto ciò che è conosciuto da Dio è assolutamente necessario che esista.
Ora, che [l’enunciato] Questa cosa è stata conosciuta da Dio è assolutamente necessario, lo
provava così: questo è un enunciato che riguarda il passato; ora, ogni enunciato riguardante il
passato, se è vero, è necessario, poiché ciò che è stato è impossibile che non sia stato; dunque,
esso è assolutamente necessario. Inoltre, ogni realtà eterna è necessaria; ora, tutto ciò che Dio
ha conosciuto, lo ha conosciuto sin dall’eternità; dunque, che egli abbia conosciuto è cosa
assolutamente necessaria.
8. Inoltre. Ogni cosa come si rapporta all’essere così si rapporta al vero; ora, i futuri
contingenti non hanno l’essere; dunque, neppure la verità; dunque, non ci può essere scienza
di essi.
9. Inoltre. Secondo [quanto dice] il Filosofo nel libro IV della Metafisica, chi non conosce una
cosa determinata non conosce nulla; ora, il futuro contingente, soprattutto se è in potenza a
due alternative contrarie, non è in nessun modo determinato né in se stesso né nella sua causa;
dunque, in nessun modo ci può essere scienza di esso.
10. Inoltre. Ugo di S. Vittore, nel libro Sui sacramenti, dice che «Dio, che ha tutto dentro di
sé, non conosce nulla al di fuori di sé»; ora, nulla è contingente se non [ciò che esiste] al di
fuori di lui: infatti, in lui non c’è niente di potenziale; dunque, egli in nessun modo conosce il
futuro contingente.
11. Inoltre. Tramite il medio necessario non si può conoscere qualcosa di contingente, poiché,
se il medio è necessario, anche la conclusione [è] necessaria; ora, Dio conosce tutte le cose
tramite il medio, che è la sua essenza; dunque, poiché tale medio è necessario, sembra che non
possa conoscere qualcosa di contingente.
IN CONTRARIO
1. C’è che nei Salmi è detto: «Chi plasmò uno ad uno i loro cuori vede in tutte le loro opere»;
ora, le opere degli uomini sono contingenti, poiché dipendono dal libero arbitrio; dunque, Dio
conosce i futuri contingenti.
2. Inoltre. Ogni cosa necessaria è conosciuta da Dio; ora, ogni contingente, secondo che si
riferisce alla conoscenza divina, è necessario, come dice Boezio nel libro V della
Consolazione della filosofia; dunque, ogni contingente è conosciuto da Dio.
3. Agostino, nel libro VI della Trinità, dice che Dio conosce immutabilmente le cose mutevoli;
ora, una cosa è contingente per il fatto che è mutevole, in quanto si dice contingente ciò che
può essere e non essere; dunque, Dio conosce le cose contingenti in modo immutabile.
4. Inoltre. Dio conosce le cose in quanto ne è causa; ora, Dio non solo è causa delle cose
necessarie, ma anche di quelle contingenti; dunque, egli conosce tanto le cose necessarie
quanto quelle contingenti.
5. Inoltre. Dio in tanto conosce le cose, in quanto c’è in lui l’esemplare di tutte le cose; ora,
l’esemplare divino delle cose contingenti e mutevoli può essere immutabile, come anche
l’esemplare delle cose materiali è immateriale e delle cose composte è semplice; dunque,
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San Tommaso, Sulla verità
sembra che, come Dio conosce le cose composte e materiali, pur essendo immateriale e
semplice, così conosce le cose contingenti, anche se in lui non c’è contingenza.
6. Inoltre. Avere scienza è conoscere la causa di una cosa; ora, Dio conosce la causa di tutte le
cose contingenti: infatti, egli conosce se stesso, che è causa di tutto; dunque, egli conosce le
cose contingenti.
RISPONDO,
dicendo che riguardo alla presente questione si sono commessi diversi errori. Infatti, alcuni,
volendo giudicare la scienza divina alla stregua della nostra scienza, dissero che Dio non
conosce i futuri contingenti: ma questo è impossibile, poiché, se fosse vero, [Dio] non
potrebbe provvedere alle vicende umane, che accadono in maniera contingente. Perciò altri
dissero che Dio ha scienza di tutte le cose future, che però accadono tutte in maniera
necessaria, altrimenti la scienza di Dio riguardo ad esse sarebbe fallibile. Ma anche questo è
impossibile, poiché, se fosse vero, verrebbe meno il libero arbitrio, non sarebbe necessario
consigliarsi e non sarebbe neanche giusto infliggere delle pene o premiare per dei meriti,
poiché tutto sarebbe compiuto per necessità. Perciò bisogna dire che Dio conosce tutte le cose
future e che questa conoscenza non impedisce che alcune cose accadano in maniera
contingente.
Perché ciò sia evidente bisogna sapere che in noi ci sono alcune potenze e [alcuni] abiti
conoscitivi in cui non ci può mai essere la falsità, quali il senso, la scienza e l’intelligenza dei
primi princìpi; invece, [ce ne sono altre] in cui ci può essere il falso, come l’immaginazione,
l’opinione e il giudizio. Ora, c’è falsità in qualche conoscenza per il fatto che le cose non
stanno in realtà così come [le] si conoscono. Perciò, se c’è una potenza conoscitiva tale che in
essa non ci sia mai la falsità, occorre che il suo oggetto di conoscenza non venga mai meno da
ciò che di esso il soggetto conoscente apprende. Ora, non si può impedire che il necessario
esista, neanche prima di prodursi, giacché le sue cause sono immutabilmente ordinate alla sua
produzione, cosicché per mezzo di tali abiti, che sono sempre veri, si possono conoscere le
cose necessarie anche quando sono future, come conosciamo un’eclissi futura o il sorgere del
sole con scienza vera. Invece, il contingente può essere impedito prima che sia prodotto
nell’essere, poiché in questo caso esiste solo nelle sue cause, alle quali può sopraggiungere un
impedimento che non le fa pervenire al [proprio] effetto. Ma dopo che il contingente è stato
ormai prodotto nell’essere, non [lo] si può più impedire e quindi riguardo al contingente,
secondo che esiste al presente, ci può essere un giudizio di quella potenza o abito, nella quale
non si trova mai la falsità, come il senso [il quale] giudica che Socrate sta seduto, quando sta
seduto. Da ciò è evidente che il contingente, in quanto è futuro, non può essere conosciuto per
mezzo di nessuna conoscenza, che non possa andar soggetta alla falsità. Perciò, dato che la
scienza divina non è soggetta alla falsità né può andarvi soggetta, sarebbe impossibile che Dio
avesse scienza dei futuri contingenti se li conoscesse come futuri.
Pertanto, una cosa è conosciuta in quanto futura allorquando tra la conoscenza di chi
conosce e l’accadere della cosa si riscontra un ordine del passato al futuro; ora, non si può
riscontrare quest’ordine tra la conoscenza divina e qualsiasi cosa contingente, ma l’ordine
della conoscenza divina ad una qualsiasi cosa è come l’ordine del presente al presente, cosa
che si può certamente intendere nel modo che segue. Se uno vedesse molte persone passare
per una sola via l’una dopo l’altra e per un certo tempo, nei singoli intervalli di tempo
vedrebbe come presenti alcuni di quelli che passano, di modo che in tutto il tempo della sua
visione vedrebbe come presenti tutti quelli che passano. Però non li vedrebbe tutti insieme
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San Tommaso, Sulla verità
come presenti, poiché il tempo della sua visione non è tutto simultaneo. Invece, se la sua
visione potesse avvenire tutta nello stesso tempo, [li] vedrebbe come presenti tutti insieme,
anche se non passano tutti insieme al presente. Perciò, dato che la visione della scienza divina
è misurata dall’eternità, la quale è tutta insieme e comunque include tutto il tempo e non è
assente in nessuna parte del tempo, segue che essa vedrebbe non come futuro ma come
presente qualsiasi cosa si compia nel tempo. Infatti, ciò che è visto da Dio è certamente futuro
per quella cosa, alla quale succede nel tempo, ma per la visione divina, che non è nel tempo
ma al di fuori del tempo, non è futuro, bensì presente. Così, dunque, noi vediamo il futuro
come futuro, poiché è futuro per la nostra visione, dato che la nostra visione è misurata dal
tempo, ma non è futuro per la visione divina, che è al di fuori del tempo, come anche colui che
fosse nella fila di coloro che passano vedrebbe coloro che passano ordinatamente in un modo cioè non vedrebbe se non quelli che sono davanti a lui - mentre chi fosse al di fuori della fila
di coloro che passano li vedrebbe in un altro modo - cioè vedrebbe tutti insieme quelli che
passano.
Dunque, come la nostra vista non s’inganna mai quando vede le cose contingenti nel
momento in cui sono presenti e comunque ciò non esclude che queste cose avvenganoin modo
contingente, così Dio vede in maniera infallibile tutte le cose contingenti sia quelle che, per
noi, sono presenti sia quelle che sono passate sia quelle che sono future, poiché per lui non
sono future ma le vede esistere allorquando esistono, cosicché ciò non esclude che esse
accadano in maniera contingente. In queste cose la difficoltà sorge a causa del fatto che non
possiamo parlare della conoscenza divina se non secondo il modo della nostra conoscenza,
ossia esplicitando contemporaneamente le differenze dei tempi. Infatti, se parlassimo della
scienza di Dio così com’essa è, dovremmo dire che Dio sa che questa cosa esiste invece di
dire che Dio sa che [questa cosa] esisterà, poiché per lui le cose non sono mai future, ma
sempre presenti. Perciò, come dice anche Boezio nel libro V della Consolazione, la sua
conoscenza riguardante le cose future «è più propriamente detta provvidenza che previdenza,
poiché le vede stando lontano sulla vedetta dell’eternità». Tuttavia la si può chiamare anche
previdenza per l’ordine che ciò che da lui è conosciuto ha con le altre cose per le quali esso è
futuro.
RISPOSTE ALLE OBIEZIONI
1. Alla prima, dunque, bisogna rispondere che, benché il contingente non sia determinato per
tutto il tempo in cui è futuro, tuttavia dal momento in cui è stato realizzato nella natura ha una
determinata verità ed è in questo modo che la visione della conoscenza divina si porta su di
esso.
2. Alla seconda bisogna rispondere che, com’è stato detto, il contingente si rapporta alla
conoscenza divina nella misura in cui si pone che esiste nella natura; ora, sin dal momento in
cui esso esiste, non può non esistere nel tempo in cui esiste, poiché «ciò che è, è necessario
che sia quando è», com’è detto nel libro I Della interpretazione; tuttavia, non segue che sia, in
assoluto, necessario, né che la scienza di Dio sia fallibile, così come anche la mia vista non è
fallibile, quando vedo che Socrate sta seduto, benché ciò sia contingente.
3. Alla terza bisogna rispondere che in tanto si dice che il contingente è necessario in quanto è
conosciuto da Dio, poiché da Dio è conosciuto in quanto è già presente; tuttavia, in quanto è
futuro, non deriva da questo fatto una certa necessità a tal punto che si possa dire che accade
necessariamente: l’accadere, infatti, appartiene solo a ciò che è futuro, poiché ciò che già è
non può ancora accadere; tuttavia è vero che esso è accaduto e che è accaduto è necessario.
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San Tommaso, Sulla verità
4. Alla quarta bisogna rispondere che quando si dice che Tutto ciò che Dio conosce è
necessario, questa proposizione ha un duplice significato, in quanto può riguardare o
l’enunciato o la cosa. Se riguarda l’enunciato, in tal caso la proposizione è composta ed è vera
e il [suo] senso è il seguente: l’enunciato [nel quale si dice che] Ogni cosa che Dio conosce
esiste è necessario, poiché è impossibile che Dio conosca che qualcosa esiste e che esso non
esista. Se riguarda la cosa, allora [la proposizione] è divisa e falsa e il [suo] senso è il
seguente: ciò che è conosciuto da Dio è necessario che esista. Infatti, le cose conosciute da Dio
non per questo accadono necessariamente, com’è evidente dalla cose dette. E se si obietta che
questa distinzione ha luogo solo nelle forme, che possono avvicendarsi in un soggetto, come la
forma del bianco o la forma del nero, e che invece non può accadere che qualcosa sia
conosciuto da Dio e poi non [più] conosciuto - e in tal caso la distinzione predetta qui non ha
luogo - bisogna dire che, quantunque la scienza di Dio sia invariabile ed è sempre nello stesso
modo, tuttavia la disposizione secondo la quale la cosa si rapporta alla conoscenza di Dio non
si rapporta ad essa sempre nello stesso modo: infatti, la cosa si rapporta alla conoscenza di Dio
secondo che essa esiste al presente; ora, l’esistenza al presente della cosa non sempre conviene
ad essa; per conseguenza la cosa può essere assunta con tale disposizione oppure senza di essa
e così, per conseguenza, può essere assunta nel modo in cui si rapporta alla conoscenza di Dio
oppure in altro modo e, in base a ciò, ha luogo la predetta distinzione.
5. Alla quinta bisogna rispondere che, se la predetta proposizione riguarda la cosa, è vero che
la necessità è posta nei riguardi di ciò che è conosciuto da Dio; ma se riguarda l’enunciato, la
necessità non è posta nei riguardi della cosa stessa, ma nei riguardi dell’ordine della scienza
alla cosa conosciuta.
6. Alla sesta bisogna rispondere che come la nostra scienza non può riguardare i futuri
contingenti, così neppure la scienza di Dio e ancor meno se li conoscesse come futuri; invece
li conosce come presenti per lui, però come futuri per gli altri e quindi l’argomentazione non
conclude.
7. Alla settima bisogna rispondere che riguardo a ciò ci sono opinioni diverse. Infatti, alcuni
dicono che questo antecedente: Questa cosa è stata conosciuta da Dio è contingente, per il
fatto che, pur riferendosi al passato, comporta tuttavia un ordine al futuro e quindi non è
necessario, nello stesso modo in cui si dice: Questa cosa stava per accadere: questa cosa
passata non è necessaria, poiché ciò che stava per accadere poteva non accadere, com’è detto
nel libro II Della Generazione: «Chi sta per camminare potrebbe non camminare». Ma ciò
poco importa, poiché, quando si dice: Questa cosa sta per accadere oppure [Questa cosa]
stava per accadere, si designa l’ordine che esiste nelle cause di questa cosa, per la sua
produzione. Ora, benché le cause che sono ordinate ad un certo effetto potrebbero [anche]
essere impedite, di modo che l’effetto non consegua da esse, tuttavia non si può impedire che
un tempo siano state ad esso ordinate; per conseguenza, quantunque ciò che sta per accadere
potrebbe non accadere, tuttavia è impossibile che ciò non sia stato per accadere.
E quindi altri dicono che questo antecedente è contingente, poiché e composto di necessario
e di contingente. Infatti, la scienza di Dio è necessaria, ma ciò che egli conosce è contingente
cd entrambe le cose sono incluse nel predetto antecedente, L otn’é contingente anche questo
enunciato: Socrate è un uomo bianco oppure Socrate è un animale e corre. Ma, ancora una
volta, anche questo poco importa, poiché la verità della proposizione non cambia per il fatto
che la necessità e la contingenza sono incluse materialmente nell’enunciato, ma soltanto per la
congiunzione principale, su cui si fonda la verità della proposizione, cosicché in entrambe
queste proposizioni: Penso che l’uomo è un animale e Penso che Socrate corre c’è la stessa
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San Tommaso, Sulla verità
ragione di necessita e di contingenza. E quindi, poiché l’atto principale, espresso in questo
antecedente: Dio sa che Socrate corre, è necessario, quantunque ciò che e materialmente
affermato sia contingente, con ciò non si impedisce che il predetto antecedente sia necessario.
E perciò altri ammettono semplicemente che sia necessario, però sostengono che da un
antecedente assolutamente necessario non occorre che segua un conseguente assolutamente
necessario, se non quando l’antecedente è causa prossima del conseguente: infatti, se la causa
fosse remota, la necessità dell’effetto potrebbe essere impedita dalla contingenza della causa
prossima, nello stesso modo in cui, benché il sole sia causa necessaria, tuttavia la fioritura
dell’albero, che è il suo effetto, è contingente, poiché la sua causa prossima, vale a dire la
forza germinativa della piante, e mutevole. Ma anche questa tesi non sembra sufficiente,
poiché non è per la natura della causa e del causato che dall’antecedente necessario segue un
conseguente necessario, ma piuttosto per l’ordine del conseguente all’antecedente, poiché il
contrario dell’antecedente non è in nessun modo compatibile con l’antecedente, cosa che
accadiebbe se da un antecedente necessario potesse seguire un conseguente contingente:
cosicché ciò è necessario che accada in qualsiasi proposizione condizionale, se essa e vera, sia
che l’antecedente sia effetto e sia che sia causa prossima o remota: e se ciò non fosse
riscontrabile nella proposizione condizionale, in nessun modo sarà vera. Perciò anche questa
condizionale è falsa: Se il sole si muove, l’albero fiorirà.
E quindi bisogna dire altrimenti: [cioè] che l’antecedente è, in assoluto, necessario e che il
conseguente è assolutamente necessario nel modo in cui segue all’antecedente. Infatti, un
conto sono quelle cose che si attribuiscono di per sé ad una cosa, un altro conto sono quelle
che ad essa si attribuiscono secondo che è conosciuta. Infatti, quele cose che si attribuiscono
ad essa di per sé ad essa convengono secndo il suo modo [di essere], nvece quelle che si
attribuiscono ad essa, o che ad essa conseguono in quanto è conosciuta, sono secondo il modo
[di essere] del soggetto conoscente. Perciò, se nell’antecedente è espresso qualcosa ch
dovrebbe appartenere alla conoscenza, occorre che il conseguente sia assunto secondo il modo
[di essere] del soggetto conoscente e non secondo il modo della cosa conosciuta. Per es., se
dicessi Se cnosco qualcosa, questo qualcosa è immateriale, non occorre che ciò che è
conosciuto sia immateriale, se non nella misura in cui è conosciuto. E similmente, quando dico
Se Dio conosce qualcosa, questo qualcosa sarà, il conseguente deve essere intesto non
secondo la disposizione della cosa in se stessa, ma secondo il modo [di essere] del soggetto
conoscente, ora benché la cosa in se stessa sia futura, tuttavia secondo il modo di chi conosce
è presente. E quindi bisogna dire: Se Dio conosce qualcosa, questo qualcosa è, piuttosto che
[Se Dio conosce qualcosa,] questo qualcosa sarà. Perciò, il giudizio Se Dio conosce qualcosa,
questo qualcosa sarà è uguale a questo Se vedo Socrate correre, Socrate corre: entrambi sono
necessari nel momento in cui si verificano.
8. All’ottava bisogna rispondere che, quantunque il contingente, nel momento in cui è futuro,
non abbia [ancora] l’essere, tuttavia a partire dal momento in cui è presente ha l’essere e la
verità e quindi soggiace alla visione divina, benché dio conosca l’ordine di una cosa ad
un’altra e, quindi, conosca che una cosa è futura rispetto ad un’altra; ma se è così, non è
sconveniente ritenere che Dio conosca che qualcosa futura non accadrà, in quanto cioè sa che
alcune cause sono inclini ad un certo effetto, che non si produrrà; infatti, ora non stiamo
parlando della conoscenza del futuro, in quanto è visto da Dio nelle sue cause, ma in quanto è
conosciuto in se stesso; in questo modo è conosciuto, infatti, come presente.
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San Tommaso, Sulla verità
9. Alla nona bisogna rispondere che in quanto il futuro è conosciuto da Dio, esso è presente e
quindi è determinato ad un’alternativa, quantunque, finché resta futuro, si rapporti a entrambe
le alltrnative.
10. Alla decima bisogna rispondere che Dio non conosce nulla al di fuori di sé, se l’espresione
al di fuori si riferisce a ciò con cui conosce; invece, consosce qualcosa al di fuori di sé se si
riferisce a ciò che conosce e di ciò sid è discusso sopra.
11. All’undicesima bisogna rispondere che duplice è il medio di conoscenza: uno, che è il
medio della dimostrazione e questo deve essere proporzionato alla conclusione, di modo che,
una volta che questo sia stato posto, è posta [anche] la conclusione – e Dio non è un medio di
conoscenza del genere rispetto alle cose contingenti; l’altro medio della conoscenza è la
somiglianza della cosa conosciuta e l’essenza divina è un tale mdeio della conoscenza, [che]
tuttavia non [è] adeguato ad alcunché, pur essendo appropriato alle cose singole, come sopra è
stato detto.
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Renato Cartesio (1596-1650)
Meditazioni di prima filosofia (1641)
lingua originale: latino
edizione di riferimento: C. Adam e P. Tannery, (1910 ecc.)
Œuvres de Descartes, (13 voll.) ed. riveduta, Vrin, Parigi, 1964-74
tr. it. A. Tilgher, Laterza, Bari-Roma, 1912-3
tema: verità chiare e distinte
genere letterario: monologo paranoico
SINOSSI
DELLE SEI MEDITAZIONI CHE SEGUONO
Nella prima, espongo le ragioni per le quali possiamo dubitare generalmente di tutte le cose, e
particolarmente delle cose materiali, almeno fino a che non avremo altri fondamenti nelle
scienze, che quelli che abbiamo avuti fin qui. Ora, l’utilità di un dubbio così generale, benché
non appaia manifesta a prima vista, tuttavia è grandissima in questo, che quel dubbio ci libera
da ogni sorta di pregiudizi, e ci prepara un cammino facilissimo per assuefare il nostro spirito
a distaccarsi dai sensi; ed infine, grazie ad esso, non potremo più avere alcun altro dubbio su
quel che scopriremo in appresso esser vero.
Nella seconda, lo spirito che, usando della sua propria libertà, suppone che tutte le
cose, della cui esistenza è possibile anche il minimo dubbio, non esistano, riconosce
essere assolutamente impossibile che, frattanto, non esista egli stesso. Ed anche ciò è di
una grandissima utilità, poiché per questo mezzo egli distingue facilmente le cose che
appartengono a lui, cioè alla natura intellettuale, e quelle che appartengono al corpo. Ma
poiché può accadere che alcuni attendano da me in quel luogo delle ragioni per provare
l’immortalità dell’anima, io credo doverli adesso avvertire che, avendo cercato di non
scrivere niente in questo trattato, di cui non avessi delle dimostrazioni esattissime, mi
sono visto obbligato a seguire un ordine simile a quello di cui si servono i geometri, e
cioè a premettere tutte le cose, dalle quali dipende la proposizione che si cerca, prima di
concluder qualcosa. Ora, la prima e principale cosa che si richiede per conoscere
l’immortalità dell’anima, è di formarne un concetto chiaro e lucido, e interamente
distinto da tutti i concetti che si possono avere del corpo: il che è stato fatto in quel
luogo. Ho richiesto, oltre ciò, di sapere che tutte le cose che noi concepiamo chiaramente
e distintamente sono vere, secondo che noi le concepiamo: e questo non ha potuto essere
provato prima della quarta Meditazione. Di più, bisogna avere un concetto distinto della
natura corporea, il quale si forma in parte nella seconda, in parte nella quinta e sesta
Meditazione. Ed infine si deve concludere da tutto.ciò, che le cose che concepiamo
chiaramente e distintamente come sostanze differenti, quali lo spirito e il corpo, sono in
effetti delle sostanze diverse, e realmente distinte le une dalle altre: e questo si conclude
nella sesta Meditazione. Ed in questa stessa Meditazione ciò si conferma anche per il
fatto che noi non concepiamo nessun corpo se non come divisibile, mentre lo spirito, o
l’anima dell’uomo, non si può concepire che come indivisibile: ed in effetti non
possiamo concepire la metà di nessun’anima, come invece possiamo fare del più piccolo
di tutti i corpi, sì che le loro nature: non sono solamente riconosciute come diverse, ma
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Cartesio, Meditazioni
anche, in certo modo, come contrarie. Ora è necessario si sappia che io non mi sono
impegnato a dirne di più nel presente trattato, sia perché ciò basta a mostrare
chiaramente che dalla corruzione del corpo non segue la morte dell’anima, e così a dare
agli uomini la speranza di una seconda vita dopo la morte; sia anche perché le premesse,
dalle quali si può concludere l’immortalità dell’anima, dipendono dalla spiegazione di
tutta la Fisica. In primo luogo, per sapere che generalmente tutte le sostanze, cioè tutte le
cose che non possono esistere senza essere create da Dio, sono di loro natura
incorruttibili, e non possono mai cessare di essere, se non sono ridotte a niente da quello
stesso Dio, che voglia negare loro il suo concorso ordinario. Ed in séguito, affinché si
noti che il corpo, preso in generale, è una sostanza, e per questa ragione anch’esso non
perisce; ma che il corpo umano, in quanto differisce dagli altri corpi, non è formato e
composto che da una configurazione di membra e di altri simili accidenti, e l’anima
umana, al contrario, non è composta di nessun accidente, ma è una pura sostanza. Poiché,
sebbene tutti i suoi accidenti si cangino, e, per esempio, essa concepisca certe cose, ne
voglia altre, ne senta altre ecc. è sempre tuttavia la medesima anima: mentre il corpo
umano non è più lo stesso, per ciò solo che la figura di alcune delle sue parti si trova
cambiata. Dal che segue che il corpo umano può facilmente perire, ma che lo spirito, o
l’anima dell’uomo (cose che io non distinguo), è immortale di sua natura.
Nella terza Meditazione, mi sembra di avere spiegato abbastanza lungamente il
principale argomento di cui mi servo per provare l’esistenza di Dio. Tuttavia, affinché lo
spirito del lettore si potesse più facilmente astrarre dai sensi, non ho voluto servirmi in
quel luogo di nessuna comparazione tratta dalle cose corporee, sì che forse vi sono
rimaste molte oscurità, le quali, come spero, saranno interamente spiegate nelle risposte
da me fatte alle obbiezioni, che poi mi sono state proposte. Così, per esempio, è assai
difficile intendere come l’idea di un essere sovranamente perfetto, la quale si trova in
noi, contenga tanta realtà oggettiva, cioè partecipi per rappresentazione a tanti gradi di
essere e di perfezione da dover necessariamente venire da una causa sovranamente
perfetta. Ma io l’ho spiegato in quelle risposte con la comparazione di una macchina
assai ingegnosa, l’idea della quale si trovi nello spirito di qualche operaio; poiché, come
l’artificio oggettivo di questa idea deve avere qualche causa, e cioè la scienza
dell’operaio o di qualche altro dal quale egli l’abbia appresa, è egualmente impossibile
che l’idea di Dio, che è in noi, non abbia per causa Dio stesso.
Nella quarta, è provato che le cose che noi concepiamo chiaramente e distintamente
sono tutte vere; ed insieme è spiegato in che consista la ragione dell’errore o falsità: ciò
che deve necessariamente essere saputo, tanto per confermare le verità precedenti,
quanto per meglio intendere quelle che seguono. Ma tuttavia è d’uopo notare che in quel
luogo io non tratto in niun modo del peccato, e cioè dell’errore che si commette nella ricerca
del bene e del male, ma solo di quello che si produce nel giudizio e nel discernimento del vero
e del falso; e che non intendo parlare delle cose che appartengono alla fede, o alla condotta
della vita, ma solo di quelle che riguardano le verità speculative, conosciute con l’aiuto del
solo lume naturale.
Nella quinta, oltre ad essere spiegata la natura corporea presa in generale, l’esistenza di Dio
è ancora dimostrata da nuove ragioni, nelle quali tuttavia si possono trovare alcune difficoltà,
che saranno risolte nelle risposte alle obbiezioni che mi sono state fatte; e così si scopre in
qual modo è vero che la certezza stessa delle dimostrazioni geometriche dipende dalla
conoscenza di un Dio.
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Cartesio, Meditazioni
Infine, nella sesta, distinguo l’azione dell’intelletto da quella dell’immaginazione e
descrivo i caratteri di questa distinzione. Mostro che l’anima dell’uomo è realmente distinta
dal corpo, e tuttavia gli è così strettamente congiunta ed unita, che quasi compone una sola
cosa con lui. Tutti gli errori che procedono dai sensi sono esposti, con i mezzi di evitarli. Ed
infine porto tutte le ragioni, dalle quali si può concludere l’esistenza delle cose materiali: non
che io le giudichi molto utili per provare ciò che esse provano, cioè che vi è un mondo, che gli
uomini hanno dei corpi, ed altre cose simili, che non sono mai state messe in dubbio da nessun
uomo di buon senso; ma perché considerandole da vicino, si viene a conoscere che esse non
sono così ferme, né così evidenti come quelle che ci conducono alla conoscenza di Dio e della
nostra anima; di guisa che queste sono le più certe e le più evidenti che possano cadere sotto la
conoscenza dello spirito umano. Ed è tutto quello che ho voluto provare in queste sei
meditazioni, il che è causa che io ometta qui molte altre questioni, di cui ho anche parlato
occasionalmente in questo trattato.
PRIMA MEDITAZIONE
DELLE COSE CHE SI POSSONO REVOCARE IN DUBBIO
Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo accolto come vere
una quantità di false opinioni, onde ciò che in appresso ho fondato sopra princìpi così mal
sicuri, non poteva essere che assai dubbio ed incerto; di guisa che m’era d’uopo prendere
seriamente una volta in vita mia a disfarmi di tutte le opinioni ricevute fino allora in mia
credenza, per cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se volevo stabilire qualche cosa di
fermo e di durevole nelle scienze. Ma poiché quest’impresa mi sembrava grandissima, ho
atteso di aver raggiunto un’età così matura, che non potessi sperarne dopo di essa un’altra più
adatta; il che mi ha fatto rimandare così a lungo, che, ormai, crederei di commettere un errore,
se impiegassi ancora a deliberare il tempo che mi resta per agire.
Ora, dunque, che il mio spirito, è libero da ogni cura, e che mi son procurato un riposo
sicuro in una pacifica solitudine, mi applicherò seriamente e con libertà a una distruzione
generale di tutte le mie antiche opinioni. E non sarà necessario, per arrivare a questo, provare
che esse sono tutte false, della qual cosa, forse, non verrei mai a capo; ma in quanto la ragione
mi persuade già che io non debbo meno accuratamente trattenermi dal prestar fede alle cose
che non sono interamente certe e indubitabili, che a quelle le quali ci appaiono manifestamente
false, il menomo motivo di dubbio che troverò basterà per farmele tutte rifiutare. E perciò non
v’è bisogno che io le esamini ognuna in particolare, il che richiederebbe un lavoro infinito;
ma, poiché la ruina delle fondamenta trascina necessariamente con sé il resto dell’edificio, io
attaccherò dapprima i princìpi sui quali tutte le mie antiche opinioni erano poggiate.
Tutto ciò che ho ammesso fino ad ora come il sapere più vero e sicuro, l’ho appreso dai
sensi, o per mezzo dei sensi: ora, ho qualche volta provato che questi sensi erano ingannatori,
ed è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati.
Ma, benché i sensi c’ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto
lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare,
benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io son qui, seduto accanto al
fuoco, vestito d’una veste da carnera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa
natura. E come potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei, a meno che, forse,
non mi paragoni a quegl’insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri
vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di
essere vestiti d’oro e di porpora, mentre son nudi affatto; o s’immaginano di essere delle
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Cartesio, Meditazioni
brocche, o d’avere un corpo di vetro. Ma costoro son pazzi; ed io non sarei da meno, se mi
regolassi sul loro esempio.
Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e che per conseguenza, ho l’abitudine di
dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte delle meno verosimili
ancora, che quegl’insensati quando vegliano. Quante volte m’è accaduto di sognare, la notte,
che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato
dentro il mio letto? È vero che ora mi sembra che non è con occhi addormentati che io guardo
questa carta, che questa testa che io muovo non è punto assopita, che consapevolmente di
deliberato proposito io stendo questa mano e la sento: ciò che accade nel sonno non sembra
certo chiaro e distinto come tutto questo. Ma, pensandoci accuratamente, mi ricordo d’essere
stato spesso ingannato, mentre dormivo, da simili illusioni. E arrestandomi su questo pensiero,
vedo così manifestamente che non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui
sia possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno, che ne sono tutto stupito; ed il mio
stupore è tale da esser quasi capace di persuadermi che io dormo.
Supponiamo, dunque, ora, che noi siamo addormentati, e che tutte queste particolarità, cioè
che apriamo gli occhi, moviamo la testa, stendiamo le mani, e simili, non siano se non delle
false illusioni; e pensiamo che forse le nostre mani e tutto il nostro corpo non siano quali noi li
vediamo. Tuttavia bisogna almeno confessare che le cose, le quali ci sono rappresentate nel
sonno, sono come dei quadri e delle pitture, che non possono essere formate se non a
somiglianza di qualche cosa di reale e di vero; e che così, almeno, queste cose generali, cioè
degli occhi, una testa, delle mani, e tutto il resto del corpo, non sono cose immaginarie, ma
vere ed esistenti. E, a dir vero, gli stessi pittori, anche quando si sforzano con il maggior
artificio di rappresentare Sirene e Satiri in forme bizzarre e straordinarie, non possono tuttavia
attribuire loro forme e nature interamente nuove, ma fanno soltanto una certa mescolanza e
composizione delle membra di diversi animali; ovvero, se per avventura la loro
immaginazione è abbastanza stravagante da inventare qualche cosa di così nuovo, che mai noi
non abbiamo visto niente di simile, in modo tale che la loro opera ci rappresenti una cosa
puramente finta ed assolutamente falsa, certo almeno i colori di cui la compongono debbono,
essi, essere veri.
E per la stessa ragione, benché queste cose generali, cioè degli occhi, una testa, delle mani,
e simili, possano essere immaginarie, bisogna tuttavia confessare che vi sono cose ancora più
semplici e più universali, le quali sono vere ed esistenti; dalla mescolanza delle quali, né più
né meno che dalla mescolanza di alcuni colori veri, tutte queste immagini delle cose, che
risiedono nel nostro pensiero, siano esse vere e reali, siano finte e fantastiche, sono formate.
Di questo genere di cose è la natura corporea in generale e la sua estensione; e così pure la
figura delle cose estese, la loro quantità o grandezza, e il loro numero; come anche il luogo
dove esse sono, il tempo che misura la loro durata, e simili.
Per questo, forse, noi non concluderemo male, se diremo che la fisica, l’astronomia, la
medicina e tutte le altre scienze, che dipendono dalla considerazione delle cose composte,
sono assai dubbie ed incerte; ma che l’aritmetica, la geometria e le altre scienze di questo tipo,
le quali non trattano se non di cose semplicissime e generalissime, senza darsi troppo pensiero
se esistano o meno in natura, contengono qualche cosa di certo e d’indubitabile. Perché, sia
che io vegli o che dorma, due e tre uniti insieme formeranno sempre il numero cinque, ed il
quadrato non avrà mai più di quattro lati; e non sembra possibile che delle verità così
manifeste possano essere sospettate di falsità o d’incertezza.
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Cartesio, Meditazioni
Tuttavia è da lungo tempo che ho nel mio spirito una certa opinione, secondo la quale vi è
un Dio che può tutto, e da cui io sono stato creato e prodotto così come sono. Ora, chi può
assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia niuna terra, niun cielo, niun
corpo esteso, niuna figura, niuna grandezza, niun luogo, e che, tuttavia, io senta tutte queste
cose, e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come lo vedo? Ed inoltre, come io
giudico qualche volta che gli altri s’ingannino anche nelle cose che credono di sapere con la
maggior certezza, può essere che Egli abbia voluto che io m’inganni tutte le volte che fo
l’addizione di due e di tre, o che enumero i lati di un quadrato, o che giudico di qualche altra
cosa ancora più facile, se può immaginarsi cosa più facile di questa. Ma forse Dio non ha
voluto che io fossi ingannato in tal guisa, perché di lui si dice che è sovranamente buono.
Tuttavia, se repugna alla sua bontà l’avermi fatto tale che io m’inganni sempre, sembrerebbe
esserle contrario anche il permettere che io m’inganni qualche volta; e tuttavia io non posso
mettere in dubbio che egli lo permetta.
Vi saranno forse qui delle persone, che preferirebbero negare l’esistenza di un Dio così
potente, piuttosto che credere incerte tutte le altre cose. Ma per adesso non resistiamo loro, e
supponiamo, in loro favore, che tutto ciò che è detto qui di Dio sia una favola. Tuttavia, in
qualunque maniera essi suppongano che io sia pervenuto allo stato e all’essere che possiedo,
sia che l’attribuiscano a qualche destino o fatalità, sia che lo riferiscano al caso, sia che
sostengano che ciò accade per un continuo concatenamento e legame delle cose, è certo che,
poiché errare ed ingannarsi è una specie d’imperfezione, quanto meno potente sarà l’autore
che essi attribuiranno alla mia origine, tanto più probabile sarà che io sia talmente imperfetto
da ingannarmi sempre. Alle quali ragioni io non ho certo nulla da rispondere, ma sono
costretto a confessare che, di tutte le opinioni che avevo altra volta accolte come vere, non ve
n’è una della quale non possa ora dubitare, non già per inconsideratezza o leggerezza, ma per
ragioni fortissime e maturamente considerate: di guisa che è necessario che io arresti e
sospenda oramai il mio giudizio su questi pensieri, e che non dia loro più credito di quel che
darei a cose, che mi paressero evidentemente false, se desidero di trovare alcunché di costante
e di sicuro nelle scienze.
Ma non basta aver fatto queste osservazioni, bisogna che io prenda anche cura di
ricordarmene; perché quelle antiche e ordinarie opinioni mi ritornano ancora spesso nel
pensiero, poiché il lungo e familiare uso dà loro il diritto di occupare il mio spirito contro il
mio volere, e di rendersi quasi padrone della mia credenza. Ed io non mi disabituerò mai di
aderire loro e di aver confidenza in esse, finché le considererò quali sono in effetti, cioè in
qualche modo dubbie, come testé ho mostrato, e tuttavia probabilissime, di guisa che si ha
molto più ragione di credervi che di negarle. Ecco perché io penso di farne un uso più
prudente, se, prendendo un partito contrario, impiego tutte le mie cure ad ingannare me stesso,
fingendo che tutti questi pensieri siano falsi e immaginari; finché, avendo talmente posto in.
equilibrio i miei pregiudizi, che essi non possano fare inclinare il mio parere più da un lato che
da un altro, il mio giudizio non sia più oramai dominato da cattivi usi e distolto dal retto
camtnino che può condurlo alla conoscenza della verità. Io sono sicuro, infatti, che non può
esserci pericolo né errore in questa via, e che non saprei oggi conceder troppo alla mia
diffidenza, poiché ora non si tratta d’agire, ma solo di meditare e di conoscere.
Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di verità, ma un
certo cattivo genio [genium aliquem malignum], non meno astuto e ingannatore che possente,
che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l’aria, la terra,
i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni,
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Cartesio, Meditazioni
di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto
di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente
di aver tutte queste cose. Io resterò ostinatamente attaccato a questo pensiero; se, con questo
mezzo, non è in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio
potere di sospendere il mio giudizio. Ecco perché baderò accuratamente a non accogliere
alcuna falsità, e preparerò così bene il mio spirito a tutte le astuzie di questo grande
ingannatore, che, per potente ed astuto ch’egli sia, non mi potrà mai imporre nulla.
Ma questo disegno è penoso e laborioso, ed una certa pigrizia mi riporta insensibilmente
nel corso della mia vita ordinaria. E a quel modo che uno schiavo, il quale godeva in sogno
d’una libertà immaginaria, quando comincia a sospettare che la sua libertà non è che un sogno,
teme d’essere risvegliato, e cospira con quelle illusioni piacevoli, per esserne più lungamente
ingannato, così io ricado insensibilmente da me stesso nelle mie antiche opinioni, ed ho paura
di risvegliarmi da quest’assopimento, per tema che le veglie laboriose che succederebbero alla
tranquillità di questo riposo, invece di portarmi qualche luce e qualche rischiaramento nella
conoscenza della verità, non abbiano ad essere insufficienti per illuminare le tenebre delle
difficoltà che sono state agitate testé.
SECONDA MEDITAZIONE
DELLA NATURA DELLO SPIRITO UMANO E CHE QUESTO È PIÙ FACILE A
CONOSCERSI CHE IL CORPO
La meditazione che feci ieri m’ha riempito lo spirito di tanti dubbi, che, oramai, non è più in
mio potere dimenticarli. E tuttavia non vedo in qual maniera potrò risolverli; come se tutt’a un
tratto fossi caduto in un’acqua profondissima, sono talmente sorpreso, che non posso né
poggiare i piedi sul fondo, né nuotare per sostenermi alla superficie. Nondimeno io mi
sforzerò, e seguirò da capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da tutto quello
in cui potrò immaginare il menomo dubbio, proprio come farei se lo riconoscessi
assolutamente falso; e continuerò sempre per questo cammino, fino a che non abbia incontrato
qualche cosa di certo, o almeno, se altro non m’è possibile, fino a che abbia appreso con tutta
certezza che al mondo non v’è nulla di certo.
Archimede, per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo altrove, domandava
un sol punto fisso ed immobile. Così io avrò diritto di concepire alte speranze, se sarò
abbastanza fortunato da trovare solo una cosa, che sia certa e indubitabile.
Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo siano false; mi pongo bene in mente che
nulla c’è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, mi rappresenta;
penso di non aver senso alcuno; credo che il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il
luogo non siano che finzioni del mio spirito [chimerae]. Che cosa, dunque, potrà essere
reputato vero? Forse niente altro, se non che non v’è nulla al mondo di certo.
Ma che ne so io se non vi sia qualche altra cosa, oltre quelle che testé ho giudicato incerte,
della quale non si possa avere il menomo dubbio? Non v’è forse qualche Dio, o qualche altra
potenza, che mi mette nello spirito questi pensieri? Ciò non è necessario, perché forse io sono
capace di produrli da me. Ed io stesso, almeno, sono forse qualche cosa? Ma ho già negato di
avere alcun senso ed alcun corpo. Esito, tuttavia; che cosa, infatti, segue di là? Sono io
talmente dipendente dal corpo e dai sensi, da non poter esistere senza di essi? Ma mi sono
convinto che non vi era proprio niente nel mondo, che non vi era né cielo, né terra, né spiriti,
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Cartesio, Meditazioni
né corpi; non mi sono, dunque, io, in pari tempo, persuaso che non esistevo? No, certo; io
esistevo senza dubbio, se mi sono convinto di qualcosa, o se solamente ho pensato qualcosa.
Ma vi è un non so quale ingannatore potentissimo e astutissimo, che impiega ogni suo sforzo
nell’ingannarmi sempre. Non v’è dunque dubbio che io esisto, s’egli m’inganna; e m’inganni
fin che vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche
cosa. Di modo che, dopo avervi ben pensato, ed avere accuratamente esaminato tutto, bisogna
infine concludere, e tener fermo, che questa proposizione: Io sono, io esisto, è necessariamente
vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito.
Ma io non conosco ancora abbastanza chiaramente ciò che sono, io che son certo di essere;
di guisa che, oramai, bisogna che badi con la massima accuratezza a non prendere
imprudentemente qualche altra cosa per me, e così a non ingannarmi in questa conoscenza che
io sostengo essere più certa e più evidente di tutte quelle che ho avuto per lo innanzi.
Ecco perché io considererò da capo ciò che credevo che esistesse prima che entrassi in
questi ultimi pensieri; e dalle mie antiche opinioni toglierò tutto quel che può essere
combattuto con le ragioni da me sopra allegate, sì che resti solo ciò che è intieramente
indubitabile. Che cosa, dunque, ho io creduto dapprima di essere? Senza difficoltà, ho pensato
di essere un uomo. Ma che cosa è un uomo? Dirò che è un animale ragionevole? No di certo:
perché bisognerebbe, dopo, ricercare che cosa è animale, e che cosa è ragionevole, e così, da
una sola questione, cadremmo insensibilmente in un’infinità di altre più difficili ed
avviluppate, ed io non vorrei abusare del poco tempo ed agio che mi resta, impiegandolo a
sbrogliare simili sottigliezze. Ma mi arresterò piuttosto a considerare qui i pensieri, che
nascevan prima da se stessi nel mio spirito, e che non mi erano ispirati che dalla mia sola
natura, quando mi consacravo alla considerazione del mio essere. Io mi consideravo dapprima
come avente un viso, delle mani, delle braccia, e tutta questa macchina composta d’ossa e di
carne, così come essa appare in un cadavere: macchina che io designavo con il nome di corpo.
Io consideravo, oltre a ciò, che mi nutrivo, che camminavo, che sentivo e che pensavo: e
riportavo tutte queste azioni all’anima; ma non mi fermavo a pensare che cosa fosse
quest’anima, oppure, se mi ci fermavo, immaginavo che essa fosse qualcosa di estremamente
rado e sottile, come un vento, una fiamma, o un’aria delicatissima, insinuata e diffusa nelle
parti più grossolane di me. Per ciò che riguardava il corpo, non dubitavo per nulla della sua
natura; perché pensavo di conoscerla molto distintamente, e, se avessi voluto spiegarla
secondo le nozioni che ne avevo, l’avrei descritta in questa maniera: per corpo intendo tutto
ciò che può esser determinato in qualche figura; che può essere compreso in qualche luogo, e
riempire uno spazio in maniera tale, che ogni altro corpo ne sia escluso; che può essere sentito
o col tatto, o con la vista, o con l’udito, o col gusto, o con l’odorato; che può essere mosso in
più maniere, non da se stesso, ma da qualcosa di estraneo, da cui sia toccato e di cui riceva
l’impressione. Poiché non credevo in alcun modo che si dovesse attribuire alla natura corporea
il privilegio d’avere in sé la potenza di muoversi, di sentire e di pensare; al contrario, mi
stupivo piuttosto di vedere che simili facoltà si trovassero in certi corpi.
Ma io, chi sono io, ora che suppongo che vi è qualcuno, che è estremamente potente e, se
oso dirlo, malizioso e astuto, che impiega tutte le sue forze e tutta la sua abilità ad ingannarmi?
Posso io esser sicuro di avere la più piccola di tutte le cose, che sopra ho attribuito alla natura
corporea? Io mi fermo a pensarvi con attenzione, percorro e ripercorro tutte queste cose nel
mio spirito, e non ne incontro alcuna, che possa dire essere in me. Non v’è bisogno che mi
fermi ad enumerarle. Passiamo, dunque, agli attributi dell’anima, e vediamo se ve ne sono
alcuni, che siano in me. I primi sono di nutrirmi e camminare; ma se è vero che io non ho
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Cartesio, Meditazioni
corpo, è vero anche che non posso camminare né nutrirmi. Un altro attributo è il sentire; ma,
egualmente, non si può sentire senza il corpo: senza contare che ho creduto talvolta di sentire
parecchie cose durante il sonno, che al mio risveglio ho riconosciuto non aver sentito di fatto.
Un altro è il pensare; ed io trovo qui che il pensiero è attributo che m’appartiene: esso solo non
può essere distaccato da me. Io sono, io esisto: questo è certo; ma per quanto tempo ? Invero,
per tanto tempo per quanto penso; perché forse mi potrebbe accadere, se cessassi di pensare, di
cessare in pari tempo d’essere o d’esistere. Io non ammetto adesso nulla che non sia
necessariamente vero: io non sono, dunque, per parlar con precisione, se non una cosa che
pensa, e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione, i quali sono termini il cui significato
m’era per lo innanzi ignoto. Ora, io sono una cosa vera, e veramente esistente; ma quale cosa ?
L’ho detto: una cosa che pensa. E che altro? Ecciterò ancora la mia immaginazione per
ricercare se non sia qualcosa di più. Io non sono quest’unione di membra che si chiama il
corpo umano; io non sono un’aria sottile e penetrante, diffusa in tutte queste membra; io non
sono un vento, un soffio, un vapore, e nulla di tutto ciò che posso fingere e immaginare,
poiché ho supposto che tutto ciò non fosse niente; eppure, senza cambiare questa
supposizione, io continuo ad essere certo che sono qualcosa.
Ma egualmente può accadere che queste stesse cose, che io suppongo non esistere, poiché
mi sono sconosciute, non siano di fatto differenti da quel me, che io conosco. Io non ne so
niente; per ora non discuto di ciò; io non posso dare il mio giudizio che sulle cose che mi son
note: io ho riconosciuto di esistere, e ricerco chi sono io, io che ho riconosciuto di esistere. Ora
è certissimo che questa nozione e conoscenza di me stesso, così precisamente presa, non
dipende dalle cose, l’esistenza delle quali non mi è ancora nota, né, per conseguenza, ed a più
forte ragione, da alcuna di quelle: che sono finte ed inventate dall’immaginazione. Ed anche
questi termini di fingere ed immaginare mi avvertono del mio errore: io fingerei in effetti, se
immaginassi di essere qualcosa, poiché immaginare non è se non contemplare la figura o
l’immagine d’una cosa corporea. Ora io so con certezza di esistere, e, a un tempo, che tutte
quelle immagini, ed in generale tutte le cose che si riferiscono alla natura del corpo, possono
non essere altro che sogni o chimere. In conseguenza di che, vedo chiaramente che avrei tanto
poco ragione dicendo: “io ecciterò la mia immaginazione” per conoscere più distintamente chi
sono, che se dicessi: “io sono adesso sveglio, e percepisco qualcosa di reale e di vero; ma,
poiché non la percepisco ancora abbastanza nettamente, m’addormenterò a bella posta,
affinché i miei sogni mi rappresentino quella stessa cosa con maggior verità ed evidenza”. E,
così riconosco con certezza, che nulla di tutto ciò che posso comprendere per mezzo
dell’immaginazione appartiene a quella conoscenza che ho di me stesso, e che è necessario
richiamare e distogliere il proprio spirito da questa maniera di concepire, affinché possa esso
stesso riconoscere con la massima distinzione la sua natura.
Ma che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. E che cos’è una cosa che pensa? È una
cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che
immagina anche, e che sente. Certo non è poco, se tutte queste cose appartengono alla mia
natura. Ma perché non vi apparterrebbero esse? Non sono io ancora quel medesimo, che
dubito quasi di tutto, che, nondimeno, intendo e concepisco certe cose, che assicuro ed
affermo quelle sole esser vere, che nego tutte le altre, che voglio e desidero conoscerne di più,
che non voglio essere ingannato, che immagino molte cose, qualche volta anche contro la mia
volontà; che molte cose sento come se mi venissero attraverso gli organi del corpo? V’è
qualcosa in tutto ciò che non sia tanto vero, quanto è certo che io sono ed esisto, quand’anche
dormissi sempre, e colui che m’ha dato l’essere si servisse di tutte le sue forze per
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Cartesio, Meditazioni
ingannarmi? V’è anche alcuno di questi attributi, che possa essere distinto dal mio pensiero, o
del quale si possa dire ch’esso è separato da me stesso? Poiché è di per sé così evidente che
sono io che dubito, che intendo e che desidero, che non v’è qui bisogno di aggiunger nulla per
spiegarlo. E con eguale certezza io ho la facoltà d’immaginare; poiché sebbene possa accadere
(come ho supposto per lo innanzi) che le cose che immagino non siano vere, tuttavia questa
facoltà d’immaginare non cessa d’essere realmente in me, e fa parte del mio pensiero. Infine io
sono lo stesso che sente, cioè che riceve e conosce le cose come per mezzo degli organi dei
sensi, poiché di fatto vedo la luce, odo il rumore, sento il calore. Ma mi si dirà che queste
apparenze sono false e che io dormo. Sia pure; tuttavia è certissimo almeno che mi sembra di
vedere, di udire, di scaldarmi; e questo è propriamente quel che in me si chiama sentire, e che,
preso così precisamente, non è null’altro che pensare. Da tutto ciò comincio a conoscere chi
sono, con un po’ più di luce e di distinzione.
Ma non posso trattenermi dal credere che le cose corporee, le immagini delle quali si
formano per mezzo del mio pensiero, e che cadono sotto i sensi, non siano conosciute più
distintamente di quella non so qual parte di me stesso, che non cade sotto l’immaginazione:
benché, in effetti, sia una cosa molto strana che cose che io trovo dubbie e lontane, siano più
chiaramente e più facilmente conosciute da me di quelle che sono vere e certe, e che
appartengono alla mia propria natura. Ma io vedo bene di che si tratta: il mio spirito si
compiace di smarrirsi, e non può contenersi ancora nei giusti limiti della verità.
Abbandoniamogli, dunque, ancora una volta le briglie, affinché, venendo dopo a ritrargliele
dolcemente ed a proposito, possiamo più facilmente regolarlo e condurlo.
Cominciamo dalla considerazione delle cose più comuni, e che noi crediamo di
comprendere nel modo più distinto, cioè i corpi che tocchiamo e vediamo. Io non intendo
parlare dei corpi in generale, perché queste nozioni generali sono d’ordinario più confuse, ma
di qualche corpo in particolare. Prendiamo, per esempio, questo pezzo di cera, che è stato
proprio ora estratto dall’alveare: esso non ha perduto ancora la dolcezza del miele che
conteneva, serba ancora qualcosa dell’odore dei fiori, dai quali è stato raccolto; il suo colore,
la sua figura, la sua grandezza sono manifesti; è duro, è freddo, lo si tocca, e, se lo colpite,
darà qualche suono. Infine, tutte le cose che possono distintamente far conoscere un corpo,
s’incontrano in questo.
Ma ecco che, mentre io parlo, lo si avvicina al fuoco: quel che vi restava di sapore esala,
l’odore svanisce, il colore si cangia, la figura si perde, la grandezza aumenta, divien liquido, si
riscalda, a mala pena si può toccarlo, e benché lo si batta, non renderà più alcun suono. Ma la
cera stessa resta dopo questo cambiamento? Bisogna confessare ch’essa resta; e nessuno può
negarlo. Che cosa è, dunque, ciò che si conosceva con tanta distinzione in questo pezzo di
cera? Certo non può esser niente di quel che vi ho notato per mezzo dei sensi, poiché tutte le
cose che cadevano sotto il gusto o l’odorato o la vista o il tatto o l’udito si trovan cambiate, e
tuttavia la cera stessa resta. Forse era ciò che io penso ora: la cera cioè non era né quella
dolcezza del miele, né quel piacevole odore dei fiori, né quella bianchezza, né quella figura, né
quel suono, ma solamente un corpo, che poco prima mi appariva sotto queste forme, e che
adesso si presenta sotto altre. Ma, parlando con precisione, che cosa è ciò che immagino,
quando la concepisco in questa maniera? Consideriamolo attentamente, e, allontanando tutte le
cose che non appartengono alla cera, vediamo quanto resta. Certo non resta altro che qualcosa
di esteso, di flessibile, di mutevole. Ora, che cosa vuol dire: flessibile e mutevole? Non
significa forse che io immagino che questa cera, essendo rotonda, è capace di divenir quadrata,
e di passare dal quadrato in una figura triangolare? No di certo, non è questo, poiché io la
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Cartesio, Meditazioni
concepisco capace di ricevere un’infinità di simili cangiamenti, e non saprei, tuttavia,
percorrere quest’infinità con la mia immaginazione; e, per conseguenza, questo concetto che
ho della cera non si ottiene per mezzo della facoltà d’immaginare.
Ma che cos’è questa estensione? Non è, essa pure, sconosciuta, poiché nella cera che si
fonde aumenta, e si trova ad essere ancora più grande quando è intieramente fusa, e molto più
grande ancora, quando il calore aumenta di più? Né io concepirei chiaramente e secondo verità
che cosa è la cera, sé non pensassi ch’essa è capace di ricevere maggior numero di variazioni,
secondo l’estensione, di quel che io non abbia mai immaginato. Bisogna, dunque, che ammetta
che con l’immaginazione non saprei concepire che cosa sia questa cera, e che non v’è se non il
mio intelletto che la concepisca: io dico questo pezzo di cera in particolare, poiché, per la cera
in generale, la cosa è ancor più evidente. Ora, qual’è questa cera, che non può essere concepita
se non dall’intelletto o dallo spirito? Certo è la stessa che io vedo, tocco, immagino, e la stessa
che conoscevo fin da principio. Ma, e questo è da notare, la percezione, o l’azione per mezzo
della quale la si percepisce, non è una visione, né un contatto, né un’immaginazione, e non è
mai stata tale, benché per lo innanzi così sembrasse, ma solamente una visione della mente
[solius mentis inspectio], la quale può esser imperfetta e confusa, come era prima, oppure
chiara e distinta, com’è adesso, secondo che la mia attenzione si porti più o meno verso le cose
che sono in essa, e di cui essa è composta.
Tuttavia non saprei troppo meravigliarmi, quando considero quanto il mio spirito sia debole
ed incline a scivolare insensibilmente nell’errore. Poiché, sebbene senza parlare io consideri
tutto ciò in me stesso, le parole, tuttavia, m’arrestano, e sono quasi ingannato dai termini del
linguaggio ordinario; noi diciamo infatti di vedere proprio la cera, se ci è presentata, e non già
di giudicare che essa c’è, inferendolo dal colore e dalla figura: donde quasi concluderei che si
conosce la cera per mezzo della visione degli occhi, e non per la sola ispezione dello spirito, se
per caso non guardassi da una finestra degli uomini che passano nella strada, alla vista dei
quali non manco di dire che vedo degli uomini, proprio come dico di veder della cera. E,
tuttavia, che vedo io da questa finestra, se non dei cappelli e dei mantelli, che potrebbero
coprir degli automi? Ma io giudico che sono veri uomini, e così comprendo per mezzo della
sola facoltà di giudicare, che risiede nel mio spirito, ciò che credevo di vedere con i miei
occhi.
Un uomo che cerca di elevare la sua conoscenza al di là del comune, deve aver vergogna di
trarre delle occasioni di dubbio dalle forme e dai termini di parlare del volgo; io preferisco
passar oltre, e considerare se concepivo con maggior evidenza e perfezione la cera, quando
l’ho dapprima percepita ed ho creduto conoscerla per mezzo dei sensi esteriori, o almeno del
senso comune, come lo chiamano, e cioè della facoltà immaginativa, di quel che non la
concepisca adesso, dopo avere più esattamente esaminato ciò che essa è, ed in quale maniera
può essere conosciuta. Certo, sarebbe ridicolo mettere ciò in dubbio. Poiché che cosa vi era in
quella prima percezione, che fosse distinto ed evidente, e che non potesse cadere in egual
guisa sotto il senso del più piccolo fra gli animali? Ma quand’io distinguo la cera dalle sue
forme esteriori, e, come se le avessi tolto i suoi vestimenti, la considero tutta nuda, certo,
benché si possa ancora incontrare qualche errore nel mio giudizio, non la posso concepire in
questa maniera se non con mente umana.
Ma, infine, che dire di questa mente, e cioè di me stesso?
Poiché fin qui non ammetto in me altra cosa che uno spirito. Che pronunzierò io, dico, di
me, che sembro concepire con tanta distinzione questo pezzo di cera? Non conosco io me
stesso, non solamente con molto maggior verità e certezza, ma ancora con molto maggior
71
Cartesio, Meditazioni
distinzione e nettezza? Poiché, se io giudico che la cera è, o esiste, dal fatto ch’io la vedo,
certo dal fatto ch’io la vedo segue molto più evidentemente ch’io sono, o che esisto io stesso.
Poiché può essere che ciò ch’io vedo non sia in effetti cera; può anche accadere ch’io non
abbia neppure degli occhi per vedere alcuna cosa; ma non è possibile che, quando io vedo, o
(ciò che non distinguo più) quando penso di vedere, io che penso non sia qualche cosa.
Egualmente, se io giudico che la cera esiste dal fatto che la tocco, ne seguirà ancora la stessa
cosa, e cioè che io sono; e se io traggo quel giudizio dal fatto che la mia immaginazione me ne
persuade, o da qualunque altra causa, concluderò sempre la stessa cosa. E ciò che ho notato
qui della cera, si può applicare a tutte le altre cose che mi sono esteriori, e che si trovano fuori
di me.
Ora, se la nozione e la conoscenza della cera sembra essere più netta e più distinta, dopo
che essa è stata scoperta non solamente dalla vista o dal tatto, ma anche da molte altre cause,
con quanto maggior evidenza, distinzione e nettezza non debbo io conoscere me stesso, poiché
tutte le ragioni che servono a conoscere ed a concepire la natura della cera, o di qualche altro
corpo, provano molto più facilmente ed evidentemente la natura del mio spirito? E nello
spirito stesso si trovano ancora tante altre cose, capaci di contribuire a spiegarne la natura, che
quelle dipendenti dal corpo, non meritano quasi d’essere enumerate.
Ma, infine, eccomi insensibilmente ritornato dove volevo; poiché, siccome adesso conosco
che, a parlar propriamente, noi non concepiamo i corpi se non per mezzo della facoltà
d’intendere che è in noi, e non per l’immaginazione, né per i sensi; e che non li conosciamo
pel fatto che li vediamo o li tocchiamo, ma solamente pel fatto che li concepiamo per mezzo
del pensiero, io conosco evidentemente che non v’è nulla che mi sia più facile a conoscere del
mio spirito. Ma, poiché è quasi impossibile disfarsi così prontamente di un’antica opinione,
sarà bene che mi fermi un poco su questo punto, affinché, con la lunghezza della mia
meditazione, imprima più profondamente nella mia memoria questa nuova conoscenza.
72
Immanuel Kant (1724-1804)
Enciclopedia filosofica (1767-82)
lingua originale: tedesco
edizione di riferimento: Edizione della Reale Accademia Prussica (e successori),
de Gruyter, Berlino, 1900 (ecc.: ancora in corso)
tr. it. L. Balbiani, Bompiani, Milano, 2003
tema: la natura della filosofia
genere letterario: appunto per lezione universitaria
Nota sul genio
Genio e talento sono due cose distinte. Talvolta si definisce il talento genio a causa della sua
somiglianza al genio. Il genio è il talento originario di molti: è il talento scevro di finalità.
Il talento di cui necessita la filosofia è diverso da quello necessario per la matematica, come
si è detto in precedenza. Il matematico è un grande architetto. Attraverso l’ordine egli può
essere molto utile alla filosofia, ma non l’arricchirà di nuovi concetti: Quanto bisogna
costruire un concetto, il matematico può fare meraviglie, ma con i concetti discorsivi non
cmbinerà neull, a meno che non abbia anche una mente filosofica. – Del talento filosofico
sono propri l’arguzia e la facoltà di considerare sia il generale nel concreto sia il particolare
nell’astratto.
Si può imparare la filosofia? A questa domanda si è già risposto prima. – Bisogna però
imparare a filosofare? – Ciò che ha un’utilità così grande come la filosofia non ha bisogno di
essere raccomandata; le lodi sono superflue quando i vantaggi saltano all’occhio in modo così
evidente.
Carattere della filosofia. Filosofico significa:
1. libero dall’imitazione
2. libero dall’affezione.
La filosofia fa entrambe le cose. Il molto sapere rende tronfi, la filosofia invece modera la
superbia ed è l’unica cura contro di essa. Quando giunge fin dove è possibile agli uomini, là la
filosofia fissa i confini e mostra la scarsa utilità di molte conoscenze. La filosofia dovrebbe
servire a riconoscere qualcosa come buono in sé e non perché lo vogliono gli altri o perché
esse viene richiesto. Bisogna cercare di essere saggi e non di accumulare soltanto conoscenze
speculative, perché il sapere lascia un grande vuoto.
73
Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900)
‘Su verità e menzogna in senso extramorale’ (1873)
lingua originale: tedesco
edizione di riferimento: G. Colli, M. Montinari, Sämtliche Werke,
Taschenbuch Verlag, Monaco di Baviera, 1988
tr. it. G. Colli, Adelphi, Milano, 1970
tema: gli autoinganni del desiderio di conoscenza
genere letterario: saggio provocatorio
1
In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era
una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più
tracotante e più menzognero della «storia del mondo»: ma tutto ciò durò soltanto un minuto.
Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. –
Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a
illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il
comportamento dell’intelletto umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non
esisteva; quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole. Per
quell’intelletto, difatti, non esiste una missione ulteriore che conduca al di là della vita umana.
Esso piuttosto è umano, e soltanto chi lo possiede e lo produce può considerarlo tanto
pateticamente, come se i cardini del mondo ruotassero su di lui. Se noi riuscissimo a intenderci
con la zanzara, apprenderemmo che anch’essa nuota attraverso l’aria con questo pathos e si
sente il centro – che vola – di questo mondo. Non vi è nulla di abbastanza spregevole e
scadente nella natura, che con un piccolo e leggero alito di quella forza del conoscere non si
gonfi senz’altro come un otre. E come ogni facchino vuole avere i suoi ammiratori, così il più
orgoglioso fra gli uomini, il filosofo, crede che da tutti i lati gli occhi dell’universo siano
rivolti telescopicamente sul suo agire e sul suo pensare.
È degno di nota che tutto ciò sia prodotto dall’intelletto, il quale è concesso – unicamente
come aiuto –agli esseri più infelici, più delicati e più transitori, allo scopo di trattenerli per un
minuto nell’esistenza, onde essi altrimenti, senza quell’aggiunta, avrebbero ogni motivo di
sfuggire tanto rapidamente quanto il figlio di Lessing. Quell’alterigia connessa col conoscere e
col sentire, sospesa come nebbia abbagliante dinanzi agli occhi e ai sensi degli uomini, li
inganna dunque sul valore dell’esistenza, portando in sé la più lusinghevole valutazione
riguardo al conoscere. Il suo effetto più universale è l’inganno, ma anche gli effetti più
particolari portano in sé qualcosa del medesimo carattere.
L’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella
finzione. Questa infatti è il mezzo con cui gli individui più deboli e meno robusti si
conservano, in quanto a essi è preclusa una lotta per l’esistenza da condursi con le corna o con
gli aspri morsi degli animali feroci. Nell’uomo quest’arte della finzione raggiunge il suo
culmine: qui l’illudere, l’adulare, il mentire e l’ingannare, il parlar male di qualcuno in sua
assenza, il rappresentare, il vivere in uno splendore preso a prestito, il mascherarsi, le
convenzioni che nascondono, il far la commedia dinanzi agli altri e a se stessi, in breve il
continuo svolazzare attorno alla fiamma della vanità costituisce a tal punto la regola e la legge,
che nulla, si può dire, è più incomprensibile del fatto che fra gli uomini possa sorgere un
74
Nietzsche ‘Verità e bugie…’
impulso onesto e puro verso la verità. Essi sono profondamente immersi nelle illusioni e nelle
immagini del sogno, il loro occhio scivola sulla superficie delle cose, vedendo «forme», il loro
sentimento non conduce mai alla verità, ma si accontenta di ricevere stimoli e, per così dire, di
accarezzare con un giuoco tattile il dorso delle cose. Oltre a ciò, di notte l’uomo si lascia
ingannare nel sogno, per tutta la vita, senza che il suo sentimento morale cerchi mai di
impedire ciò; devono invece esistere uomini che con la forza di volontà hanno eliminato il
russare. In senso proprio, che cosa sa l’uomo su se stesso? Forse che, una volta tanto, egli
sarebbe capace di percepire compiutamente se stesso, quasi si trovasse posto in una vetrina
illuminata? Forse che la natura non gli nasconde quasi tutto, persino riguardo al suo corpo, per
confinarlo e racchiuderlo in un’orgogliosa e fantasmagorica coscienza, lontano dall’intreccio
delle sue viscere, dal rapido flusso del suo sangue, dai complicati fremiti delle sue fibre? La
natura ha gettato via la chiave, e guai alla fatale curiosità che una volta riesca a guardare
attraverso una fessura dalla cella della coscienza, in fuori e in basso, e che un giorno abbia il
presentimento che l’uomo sta sospeso nei suoi sogni su qualcosa di spietato, avido, insaziabile
e, per così dire, sul dorso di una tigre. In una tale costellazione, da quale parte del mondo
sorgerà mai l’impulso verso la verità?
In quanto l’individuo, di fronte ad altri individui, vuole conservarsi, esso utilizza per lo più
l’intelletto, in uno stato naturale delle cose, soltanto per la finzione: ma poiché al tempo stesso
l’uomo, per bisogno o per noia, vuole esistere socialmente come in un gregge, egli è spinto a
concludere la pace, e tende a far scomparire dal suo mondo almeno il più rozzo bellum
omnium contra omnes1. Questo trattato di pace porta in sé qualcosa che si presenta come il
primo passo per raggiungere quell’enigmatico impulso alla verità. A questo punto viene
fissato ciò che in seguito dovrà essere la «verità»; in altre parole, viene scoperta una
designazione delle cose uniformemente valida e vincolante, e la legislazione del linguaggio
fornisce altresì le prime leggi della verità. Sorge qui infatti, per la prima volta, il contrasto tra
verità e menzogna. Il mentitore adopera le designazioni valide, le parole, per fare apparire
come reale ciò che non è reale. Egli dice per esempio: «io sono ricco», mentre per il suo stato
la designazione esatta sarebbe proprio «povero». Egli fa cattivo uso delle salde convenzioni,
scambiando arbitrariamente, o addirittura invertendo i nomi. Quando egli fa questo in modo
egoistico, che può d’altronde recare danno, la società non si fiderà più di lui e così lo escluderà
da sé. Nel far ciò gli uomini cercano di evitare, non tanto l’essere ingannati, quanto l’essere
danneggiati dall’inganno: anche su questo piano essi in fondo non odiano l’inganno, bensì le
conseguenze brutte e ostili di certe specie di inganni. In tale senso limitato, l’uomo vuole
soltanto la verità: egli desidera le conseguenze piacevoli – che preservano la vita – della verità,
è indifferente di fronte alla conoscenza pura, priva di conseguenze, mentre è disposto
addirittura ostilmente verso le verità forse dannose e distruttive. Oltre a ciò come stanno le
cose rispetto alle suddette convenzioni del linguaggio? Sono forse prodotti della conoscenza,
del senso della verità, forse che le designazioni e le cose si sovrappongono? Il linguaggio è
dunque l’espressione adeguata di tutte le realtà?
Solo attraverso l’oblio l’uomo può giungere a credere di possedere una «verità» nel grado
sopra designato. Quando egli non si accontenta della verità in forma di tautologia, ossia non si
appaga di gusci vuoti, baratterà sempre verità e illusioni. Che cos’è una parola? Il riflesso in
suoni di uno stimolo nervoso. Ma il concludere da uno stimolo nervoso a una causa fuori di
noi è già il risultato di una applicazione falsa e ingiustificata del principio di ragione. Se nella
1
Il rimando è al tredicesimo capitolo del Leviatano di Hobbes [nota di Davies]
75
Nietzsche ‘Verità e bugie…’
genesi del linguaggio la verità fosse risultata decisiva, se nelle designazioni fosse stato
decisivo unicamente il punto di vista della certezza, come potremmo ancora dire: la pietra è
dura, quasi che «duro» ci fosse noto anche altrimenti, e non soltanto come uno stimolo del
tutto soggettivo? Noi dividiamo le cose in generi, designiamo l’albero come maschile e la
pianta come femminile: quali trasposizioni arbitrarie! Che distacco dal canone della certezza!
Noi parliamo di un «serpente»: la designazione non riguarda altro se non la tortuosità, e
potrebbe quindi spettare altresì al verme. Quali delimitazioni arbitrarie, quali preferenze
unilaterali, accordate ora all’una ora all’altra proprietà di una cosa! Le diverse lingue, poste
l’una accanto all’altra, mostrano che nelle parole non ha mai importanza la verità, né
un’espressione adeguata. In caso contrario non esisterebbero infatti così tante lingue. La «cosa
in sé» (la verità pura e priva di conseguenze consisterebbe appunto in ciò) è d’altronde del
tutto inafferrabile per colui che costruisce il linguaggio, e non è affatto degna per lui di essere
ricercata. Egli designa soltanto le relazioni delle cose con gli uomini e ricorre all’aiuto delle
più ardite metafore per esprimere tali relazioni. Uno stimolo nervoso, trasferito anzitutto in
un’immagine: prima metafora. L’immagine è poi plasmata in un suono: seconda metafora.
Ogni volta si ha un cambiamento completo della sfera, un passaggio a una sfera del tutto
differente e nuova. Si può immaginare un uomo che sia completamente sordo e non abbia mai
avuto una sensazione del suono e della musica: allo stesso modo che costui, per esempio, si
meraviglia di fronte alle figure acustiche di Chladni, disegnate sulla sabbia, trova le loro cause
nelle vibrazioni della corda ed è disposto a giurare di sapere ormai che cosa sia ciò che gli
uomini chiamano «suono», così avviene a tutti noi riguardo al linguaggio. Noi crediamo di
sapere qualcosa sulle cose stesse, quando parliamo di alberi, di colori, di neve e di fiori,
eppure non possediamo nulla se non metafore delle cose che non corrispondono affatto alle
essenze originarie. Come il suono si presenta in quanto figura nella sabbia, così l’enigmatico x
della cosa in sé ora si presenta come stimolo nervoso, ora come immagine, ora infine come
suono. In ogni caso il sorgere della lingua non segue un procedimento logico, e l’intero
materiale su cui e con cui più tardi lavorerà e costruirà l’uomo della verità, l’indagatore, il
filosofo, proviene, se non da una Nefelococcigia, certo però non dall’essenza delle cose.
Soffermiamoci ancora particolarmente sulla formazione dei concetti. Ogni parola diventa
senz’altro un concetto, per il fatto che essa non è destinata a servire eventualmente per
ricordare l’esperienza primitiva, non ripetuta e perfettamente individualizzata, ma deve
adattarsi al tempo stesso a innumerevoli casi più o meno simili, cioè – a rigore – mai uguali, e
quindi a casi semplicemente disuguali. Ogni concetto sorge con l’equiparazione di ciò che non
è uguale. Se è certo che una foglia non è mai perfettamente uguale a un’altra, altrettanto certo
è che il concetto di foglia si forma mediante un arbitrario lasciar cadere queste differenze
individuali, mediante un dimenticare l’elemento discriminante, e suscita poi la
rappresentazione che nella natura, all’infuori delle foglie, esiste un qualcosa che è «foglia»,
quasi una forma primordiale, sul modello della quale sarebbero tessute, disegnate, circoscritte,
colorate, increspate, dipinte – ma da mani maldestre – tutte le foglie, in modo tale che nessun
esemplare risulterebbe corretto e attendibile in quanto copia fedele della forma originale. Noi
chiamiamo un uomo «onesto». Perché costui si è comportato oggi così onestamente? –
domandiamo. La nostra risposta è di solito: a causa della sua onestà. L’onestà! Ciò significa
nuovamente: la foglia è la causa delle foglie. Non sappiamo assolutamente nulla di una qualità
essenziale che si chiami l’onestà; e conosciamo invece numerose azioni individuali, e quindi
disuguali, che noi equipariamo tra loro, lasciando cadere ciò che vi è di disuguale, e che allora
76
Nietzsche ‘Verità e bugie…’
designiamo come azioni oneste. Partendo da esse formuliamo infine una qualitas occulta, con
il nome: l’onestà.
Il trascurare ciò che vi è di individuale e di reale ci fornisce il concetto, allo stesso modo
che ci fornisce la forma, mentre la natura non conosce invece nessuna forma e nessun
concetto, e quindi neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile.
Altresì la nostra antitesi tra individuo e genere è infatti antropomorfica e non sgorga
dall’essenza delle cose, anche se non osiamo dire che tale antitesi non corrisponde a tale
essenza. Questa sarebbe infatti un’asserzione dogmatica, e come tale altrettanto indimostrabile
quanto la sua contraria.
Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi,
in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e
retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un
popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura
illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono
monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come
metallo, non più come monete. Sinora noi non sappiamo onde derivi l’impulso verso la verità;
sinora infatti abbiamo inteso parlare soltanto dell’obbligo imposto dalla società per la sua
esistenza: essere veritieri, cioè servirsi delle metafore usuali. L’espressione morale di ciò è
dunque la seguente: sinora abbiamo inteso parlare soltanto dell’obbligo di mentire secondo
una salda convenzione, ossia di mentire come si conviene a una moltitudine, in uno stile
vincolante per tutti. Senza dubbio l’uomo si dimentica che le cose stanno a questo modo; egli
mente dunque nella maniera suddetta, incoscientemente e per una abitudine secolare,
giungendo al sentimento della verità proprio attraverso questa incoscienza, proprio attraverso
questo oblio. Con il sentimento di essere obbligati a designare una cosa come rossa, un’altra
come fredda, una terza come muta, si risveglia un sentimento morale riferentesi alla verità.
Fondandosi sul contrasto dell’uomo menzognero, di cui nessuno si fida e che tutti evitano,
l’uomo dimostra a se stesso che la verità è degna di rispetto e di fiducia, e altresì utile. Come
essere razionale, egli pone ora il suo agire sotto il controllo delle astrazioni; non ammette più
di essere trascinato dalle impressioni istantanee e dalle intuizioni, generalizza tutte queste
impressioni, traendone concetti scoloriti e tiepidi, per aggiogare a essi il carro della sua vita e
della sua azione. Tutto ciò che distingue l’uomo dall’animale dipende da questa capacità di
sminuire le metafore intuitive in schemi, cioè di risolvere un’immagine in un concetto. Nel
campo di quegli schemi è possibile cioè qualcosa che non potrebbe mai riuscire sotto il
dominio delle prime impressioni intuitive: costruire un ordine piramidale, suddiviso secondo
caste e gradi, creare un nuovo mondo di leggi, di privilegi, di subordinazioni, di delimitazioni,
che si contrapponga ormai all’altro mondo intuitivo delle prime impressioni come qualcosa di
più solido, di più generale, di più noto, di più umano, e quindi come l’elemento regolatore e
imperativo. Mentre ogni metafora intuitiva è individuale e risulta senza pari, sapendo perciò
sempre sfuggire a ogni registrazione, la grande costruzione dei concetti mostra invece la rigida
regolarità di un colombario romano e manifesta nella logica quel rigore e quella freddezza che
sono propri della matematica. Chi è ispirato da questa freddezza difficilmente crederà che il
concetto – osseo come un dado, spostabile e munito di otto vertici come questo – sussista
unicamente come il residuo di una metafora, e che l’illusione del trasferimento artistico di uno
stimolo nervoso in immagini, se non è la madre, sia tuttavia l’antenata di ogni concetto. In
questo concettuale giuoco di dadi si chiama peraltro «verità» il servirsi di ogni dado secondo
la sua designazione, il contare con esattezza i punti segnati su ogni faccia, il costruire rubriche
77
Nietzsche ‘Verità e bugie…’
giuste e il non turbare mai l’ordinamento di caste e la serie gerarchica delle classi. Come i
Romani e gli Etruschi dividevano il cielo con rigide linee matematiche e in ciascuna di queste
caselle, come in un templum, relegavano un dio, così ogni popolo trova sopra di sé un siffatto
ciclo concettuale suddiviso matematicamente, e per esigenze della verità intende il ricercare
ogni dio concettuale unicamente nella sua sfera. Senza dubbio si può a questo proposito
ammirare l’uomo come un potente genio costruttivo, che riesce – su mobili fondamenta, e per
così dire, sull’acqua corrente – a elevare una cupola concettuale infinitamente complicata;
certo, per raggiungere una stabilità su siffatte fondamenta, occorrerà una costruzione fatta di
ragnatele, tanto tenue da non essere trascinata via dalle onde e tanto solida da non essere
spazzata via al soffiare di ogni vento. Come genio costruttivo, l’uomo si innalza a questo
modo al di sopra delle api: queste costruiscono con la cera che raccolgono ricavandola dalla
natura, mentre l’uomo costruisce con la materia assai più tenue dei concetti che egli deve
fabbricarsi da sé. In ciò egli è degno di grande ammirazione, non già tuttavia a causa del suo
impulso verso la verità e la conoscenza pura delle cose. Se qualcuno nasconde qualcosa dietro
un cespuglio, se lo ricerca nuovamente là e ve lo ritrova, in questa ricerca e in questa scoperta
non vi è molto da lodare: eppure le cose stanno a questo modo riguardo alla ricerca e alla
scoperta della «verità», entro il territorio della ragione. Se io formulo la definizione del
mammifero, e in seguito, vedendo un cammello, dichiaro: «ecco un mammifero», in tal caso
viene portata alla luce senza dubbio una verità, ma quest’ultima ha un valore limitato, a mio
avviso; è completamente antropomorfica e non contiene neppure un solo elemento che sia
«vero in sé», reale e universalmente valido, a prescindere dall’uomo. L’indagatore di queste
verità in fondo cerca soltanto la metamorfosi del mondo nell’uomo, si sforza di comprendere il
mondo come una cosa umana e nel caso migliore riesce a raggiungere il sentimento di una
assimilazione. Allo stesso modo in cui l’astrologo considerava le stelle al servizio degli
uomini e in collegamento con la loro felicità e con i loro dolori, così un tale indagatore
considera il mondo intero come connesso con l’uomo, come l’eco infinitamente ripercossa di
un suono originario, cioè dell’uomo, come il riflesso moltiplicato di un’immagine primordiale,
cioè dell’uomo. Il suo metodo considera l’uomo come misura di tutte le cose: nel far ciò
tuttavia egli parte da un errore iniziale, credere cioè che egli abbia queste cose
immediatamente dinanzi a sé, come oggetti puri. Egli dimentica così che le metafore originarie
dell’intuizione sono pur sempre metafore, e le prende per le cose stesse.
Solo quando l’uomo dimentica quel primitivo mondo di metafore, solo quando la massa
originaria di immagini – che sgorgano con ardente fluidità dalla primordiale facoltà della
fantasia umana – si indurisce e irrigidisce, solo quando si crede, con una fede invincibile, che
questo sole, questa finestra, questo tavolo siano verità in sé: in breve, solo quando l’uomo
dimentica se stesso in quanto soggetto, e precisamente in quanto soggetto artisticamente
creativo, solo allora egli può vivere con una certa calma, sicurezza e coerenza. Se egli potesse
uscire soltanto per un attimo dalle mura segregatrici di questa fede, la sua «autocoscienza» si
dissolverebbe allora d’un tratto. Già gli costa molta fatica l’ammettere che l’insetto o l’uccello
percepiscono un mondo del tutto differente da quello umano, e che la questione di determinare
quale delle due percezioni del mondo sia la più giusta è del tutto priva di senso, poiché una
misura in proposito dovrebbe essere stabilita in base al criterio della percezione esatta, cioè in
base a un criterio che non esiste. In generale poi la percezione esatta – il che significherebbe
l’espressione adeguata di un oggetto nel soggetto – mi sembra un’assurdità contraddittoria: in
effetti tra due sfere assolutamente diverse, quali sono il soggetto e l’oggetto, non esiste alcuna
causalità, alcuna esattezza, alcuna espressione, ma tutt’al più un rapporto estetico, intendo dire
78
Nietzsche ‘Verità e bugie…’
una trasposizione allusiva, una traduzione balbettata in una lingua del tutto straniera, il che
richiederebbe in ogni caso una sfera intermedia e una capacità intermedia che fossero capaci di
poetare e di inventare liberamente. La parola apparenza contiene molte tentazioni, e perciò la
evito per quanto è possibile: non è infatti vero che l’essenza delle cose appaia nel mondo
empirico. Un pittore, cui manchino le mani e che voglia esprimere con il canto l’immagine che
gli sta di fronte, lascerà indovinare, con questo scambio di sfere, più di quanto il mondo
empirico non lasci indovinare riguardo all’essenza delle cose. Persino il rapporto tra uno
stimolo nervoso e l’immagine prodotta non è in sé affatto necessario: ma quando la medesima
immagine viene prodotta milioni di volte e viene trasmessa ereditariamente attraverso molte
generazioni umane, apparendo infine a tutta quanta l’umanità ogni volta come conseguenza
della medesima occasione, essa in conclusione acquista per l’uomo il medesimo significato
che le spetterebbe se fosse l’unica immagine necessaria, e se quel rapporto fra l’originario
stimolo nervoso e l’immagine prodotta fosse un rigido rapporto di causalità. Allo stesso modo
un sogno, eternamente ripetuto, sarebbe sentito e giudicato interamente come realtà. Ma
l’indurirsi e, l’irrigidirsi di una metafora non offre assolutamente alcuna garanzia per la
necessità e per l’autorità esclusiva di questa metafora.
Ogni uomo cui tali considerazioni siano familiari ha senza dubbio sentito una profonda
diffidenza verso ogni idealismo cosiffatto, ogni volta che egli si sia convinto con grande
chiarezza dell’eterno rigore, dell’onnipresenza e dell’infallibilità delle leggi naturali. Egli è
giunto alla seguente conclusione: in questo campo – sin dove possiamo giungere, verso
l’altezza del mondo telescopico e verso la profondità del mondo microscopico – tutto è sicuro,
costruito, infinito, conforme a leggi e senza lacune; la scienza potrà eternamente scavare
questi pozzi con successo, e tutto ciò che sarà trovato risulterà concordante e non
contraddittorio. Tutto ciò assomiglia davvero poco a un prodotto della fantasia: se tale fosse il
caso, difatti, da qualche parte dovrebbe trasparire l’illusione e l’irrealtà. Invece occorre dire: se
ciascuno di noi, per sé, avesse una differente sensazione, se noi stessi potessimo percepire ora
come uccelli, ora come vermi, ora come piante, oppure se uno di noi vedesse il medesimo
stimolo come rosso e un altro lo vedesse come azzurro, se un terzo udisse addirittura tale
stimolo come suono, nessuno potrebbe allora parlare di una tale regolarità della natura, ma la
intenderebbe unicamente come una creazione estremamente soggettiva. Oltre a ciò, che cos’è
per noi, in generale, una legge della natura? Essa ci è nota non già in sé, bensì soltanto nei suoi
effetti, cioè nelle sue relazioni con altre leggi naturali, che a loro volta ci sono note soltanto
come somme di relazioni. Tutte queste relazioni rimandano perciò sempre l’una all’altra, e
nella loro essenza risultano per noi perfettamente incomprensibili: in tutto ciò ci è realmente
noto soltanto quello che noi stessi aggiungiamo, il tempo, lo spazio, ossia rapporti di
successione e numeri. Peraltro l’intero elemento miracoloso –proprio quello che ammiriamo
nelle leggi naturali –che esige una nostra spiegazione e potrebbe indurci a diffidare
dell’idealismo consiste proprio unicamente nel rigore matematico e nell’inviolabilità delle
rappresentazioni di tempo e spazio. Queste, tuttavia, noi le produciamo in noi, traendole da noi
stessi con quella necessità con cui il ragno tesse la sua tela ; se siamo costretti a comprendere
tutte le cose unicamente in base a queste forme, non c’è allora più da meravigliarci che in tutte
le cose noi possiamo appunto comprendere, propriamente, soltanto queste forme: tutte quante
debbono infatti portare in sé le leggi del numero e il numero è appunto l’elemento più
stupefacente che esista nelle cose. Ogni conformità a leggi, la quale ci fa talmente impressione
nel corso degli astri e nei processi chimici, coincide in fondo con quelle proprietà che noi
stessi introduciamo nelle cose, cosicché siamo noi che facciamo impressione a noi stessi. Da
79
Nietzsche ‘Verità e bugie…’
ciò risulta senza dubbio che quella formazione artistica di metafore, con cui comincia in noi
ogni sensazione, presuppone già quelle forme, ossia viene compiuta in esse; è soltanto la salda
permanenza di- queste forme originarie, che può spiegare la possibilità della susseguente
costituzione, in base alle metafore stesse, dell’edificio dei concetti. Tale edificio è infatti
un’imitazione dei rapporti temporali, spaziali e numerici sul terreno delle metafore.
2
Alla costruzione dei concetti lavora originariamente, come abbiamo visto, il linguaggio, e in
epoche posteriori la scienza. Come l’ape costruisce le sue celle e al tempo stesso le riempie di
miele, così la scienza lavora incessantemente a quel grande colombario dei concetti – cimitero
delle intuizioni – costruisce in quell’edificio piani nuovi e più alti, consolida, ripulisce,
rinnova le antiche celle, e soprattutto si sforza di riempire quella costruzione a scomparti,
innalzata a un livello eccelso, e di ordinarvi l’intero mondo empirico, ossia il mondo
antropomorfico. Se già l’uomo di azione lega la sua vita alla ragione e ai concetti razionali, per
non essere trascinato via dalla corrente e per non perdersi, all’indagatore poi spetta addirittura
di costruire la sua capanna a ridosso della torre della scienza, per poter contribuire alla sua
edificazione e per poter trovare egli stesso un riparo ai piedi del baluardo già costruito. E di
protezione egli ha bisogno, poiché esistono forze terribili che premono continuamente su di
lui, contrapponendo alla «verità» scientifica altre «verità» di natura del tutto diversa e munite
dei più svariati stemmi.
Quell’impulso a formare metafore, quell’impulso fondamentale dell’uomo da cui non si
può prescindere neppure per un istante, poiché in tal mòdo si prescinderebbe dall’uomo stesso,
risulta in verità non già represso, ma a stento ammansito, dal fatto che con i suoi prodotti
evanescenti, i concetti, sia stato costruito per lui un nuovo mondo, regolare e rigido, come
roccaforte. Tale impulso si cerca allora un nuovo campo di azione, un altro alveo per la sua
corrente, e trova tutto ciò nel mito, e in generale nell’arte. Confonde continuamente le rubriche
e gli scomparti dei concetti, presentando nuove trasposizioni, metafore, metonimie;
continuamente svela il desiderio di dare al mondo sussistente dell’uomo desto una figura così
variopinta, irregolare, priva di conseguenze, incoerente, eccitante ed eternamente nuova, quale
è data dal mondo del sogno. In sé, anzi, l’uomo desto trae una chiara convinzione di essere
sveglio unicamente dalla rigida e regolare ragnatela dei concetti, e talvolta è portato a credere
di sognare, appunto perché quella ragnatela concettuale in certe occasioni viene strappata
dall’arte. Pascal ha ragione quando sostiene che, se ogni notte ci si presentasse il medesimo
sogno, noi ci occuperemmo altrettanto di esso quanto delle cose che vediamo ogni-giorno: «se
un artigiano fosse sicuro di sognare ogni notte, per dodici ore filate, di essere re, io credo
allora» dice Pascal «che egli sarebbe altrettanto felice quanto un re che sognasse tutte le notti,
per dodici ore, di essere un artigiano». La veglia di un popolo — per esempio degli antichi
Greci — ispirato miticamente risulta, a causa dei miracoli continuamente operanti quali sono
accolti dal mito, realmente più simile al sogno che non alla veglia del pensatore
scientificamente disincantato. Quando ogni albero può avere l’occasione di parlare,
nascondendo una ninfa, quando sotto la figura di un toro un dio può trascinar via le vergini,
quando la stessa dea Atena viene vista improvvisamente, su un bel cocchio, attraversare le
piazze di Atene in compagnia di Pisistrato — e tutto ciò è creduto dai buoni Ateniesi – allora
in ogni momento tutto è possibile, come nel sogno, e tutta la natura si agita attorno all’uomo,
80
Nietzsche ‘Verità e bugie…’
quasi fosse unicamente una mascherata degli dèi, contenti di fare uno scherzo all’uomo con
ogni specie di metamorfosi ingannevoli.
L’uomo stesso peraltro ha un’invincibile tendenza a lasciarsi ingannare ed è come incantato
di felicità, quando il rapsodo gli racconta come vere delle favole epiche, o quando nel dramma
l’attore fa la parte del re in modo ancora più regale di quanto sia mostrato dalla realtà.
L’intelletto, maestro di finzione, è libero e sottratto al suo normale servizio da schiavo,
sintanto che può ingannare senza recare danno, e celebra allora i suoi Saturnali. In nessun’altra
occasione esso è più esuberante, più ricco, più orgoglioso, più abile e più audace: con gusto
creativo mescola le metafore e sposta i confini dell’astrazione, cosicché per esempio designa il
fiume come la mobile strada che porta l’uomo là dove di solito egli giunge camminando. Esso
ha ormai gettato via da sé il segno della soggezione: un tempo preoccupato, con triste
operosità, di mostrare la via e gli strumenti a un povero individuo che ha un ardente desiderio
di vivere, un tempo pronto a rapinare e a predare come lo è un servo per il suo padrone, ora
invece è divenuto padrone e può cancellare dal suo volto l’espressione della miseria. Tutto ciò
che fa adesso, a confronto con le sue azioni precedenti, porta in sé il segno della finzione, così
come ciò che aveva fatto in precedenza portava in sé il segno della caricatura.
Ora copia la vita umana, ma la prende come una cosa buona e sembra davvero contentarsi
di essa. Quella enorme impalcatura e travatura di concetti, aggrappandosi alla quale il misero
uomo riesce a salvarsi lungo la sua vita, costituisce, per l’intelletto divenuto libero, soltanto
un’armatura e un trastullo per i suoi audaci artifici. E se manda in frantumi tutto ciò, se lo
mescola, lo ricompone ironicamente, accoppiando le cose più estranee e separando le cose più
affini, con ciò esso fa vedere di non aver bisogno di quei ripieghi della miseria e di essere
ormai guidato, non già da concetti, bensì da intuizioni. Non esiste una strada regolare, che
partendo da queste intuizioni conduca nella terra degli schemi spettrali, delle astrazioni: la
parola non è fatta per le intuizioni, e l’uomo ammutolisce quando si trova dinanzi a esse,
oppure parla unicamente con metafore proibite e con inauditi accozzamenti di concetti, per
adeguarsi creativamente – almeno con la distruzione e la derisione delle vecchie barriere
concettuali – all’impressione della possente intuizione attuale.
Vi sono epoche in cui l’uomo razionale e l’uomo intuitivo stanno l’uno accanto all’altro, il
primo con la paura dell’intuizione, il secondo con il disprezzo per l’astrazione. Quest’ultimo è
altrettanto non razionale, quanto il primo è non artistico. Entrambi desiderano di dominare
sulla vita: l’uomo razionale, in quanto sa affrontare i più importanti e i più impellenti bisogni
con la previdenza, la prudenza e la regolarità; l’uomo intuitivo, in quanto non vede – come
«eroe supremamente giocondo» – quei bisogni e considera come reale soltanto la vita
trasformata dalla finzione in parvenza e in bellezza. Se l’uomo intuitivo – come è avvenuto
nell’antica Grecia – sa usare le sue armi più vittoriosamente e più potentemente
dell’avversario, può configurarsi, in caso favorevole, una civiltà e può fondarsi il dominio
dell’arte sulla vita: quella finzione, quel rinnegamento della miseria, quello splendore delle
intuizioni metaforiche, e in generale quell’immediatezza dell’inganno accompagnano tutte le
manifestazioni di una siffatta vita. Né l’abitazione, né l’andatura, né l’abbigliamento, né
l’orcio d’argilla lasciano scorgere di essere stati inventati da un bisogno impellente. Sembra
quasi che attraverso tutte queste cose debba esprimersi una sublime felicità, una serenità
olimpica, e per così dire un giocare con ciò che è serio. Mentre l’uomo guidato dai concetti e
dalle astrazioni non riesce per mezzo loro che a respingere l’infelicità, senza riuscire egli
stesso a procurarsi la felicità dalle sue astrazioni, mentre cioè egli si sforza per quanto è
possibile di liberarsi dal dolore, l’uomo intuitivo invece, ergendosi in mezzo a una civiltà,
81
Nietzsche ‘Verità e bugie…’
raccoglie dalle sue intuizioni, oltre che una difesa dal male, un’illuminazione, un
rasserenamento, una redenzione, che affluiscono incessantemente. Senza dubbio egli soffre
più violentemente, quando soffre: egli soffre anzi più spesso, poiché non sa imparare
dall’esperienza e cade sempre di nuovo nel medesimo pozzo in cui era caduto una volta. Nel
dolore poi è tanto irrazionale quanto nella felicità: egli grida forte e non trova consolazione.
Quanto diverso è il comportamento, di fronte a un’eguale sventura, dell’uomo stoico,
ammaestrato dall’esperienza, il quale si domina con l’aiuto dei concetti! Lui, che altrimenti
cerca soltanto la rettitudine, la verità, la libertà dagli inganni e la difesa dalle sorprese
seducenti, ora invece, nella sventura, mette in mostra il capolavoro della dissimulazione, come
quell’altro aveva fatto nella felicità: egli non rivela un volto umano mobile e vibrante, ma per
cosa dire una maschera, con un dignitoso equilibrio nei tratti; egli non grida e non cambia
nemmeno la sua voce. Se un nuvolone temporalesco si rovescia su di lui, egli si avvolge nel
suo mantello e se ne va a lento passo sotto il temporale.
82
Casimir Lewy (1919-90)
Significato e modalità (1976)
lingua originale: inglese
edizione originale:Cambridge University Press, Cambridge
tr. it. R. Davies
tema: verità e significato
genere letterario: trattato accademico (‘analitico’)
Capitolo 2: Proposizioni e verità
Nel capitolo precedente ho distinto tra proposizioni della forma:
(A)
La proposizione che … è vera
e proposizioni della forma:
(B)
La proposizione espressa dalla frase “…” è vera
E ho fatto notare che proposizioni della forma (A) non implicano, e non vengono implicate da,
le corrispettive proposizioni della forma (B)1.
Orbene, spesso si dice che la verità presuppone significato; e adesso siamo nelle condizioni
di spiegare il senso in cui questo è vero e il senso in cui è falso. È vero se significa che
proposizioni della forma (B) implicano le proposizioni corrispettive della forma:
(C)
La frase “…” è significativa (vale a dire, esprime una proposizione)
È falso se significa che proposizioni della forma (A) implicano le corrispettive proposizioni
della forma (C).
Inoltre, si dice, come ha detto ad esempio F.P. Ramsey, che la nozione di verità è
ridondante (o superflua) per il fatto che “p è vero” significa la stessa identica cosa di “p”.2
Siamo anche nelle condizioni di spiegare il senso in cui questo è vero e il senso in cui è
falso. È vero se significa che proposizioni della forma (A) sono equivalenti a proposizioni
della forma.
(D)
…,
dove la stessa frase viene sostiuita per “…” in (D) come in (A).
Ma la tesi di Ramsey è falsa se significa che proposizioni della forma (B) sono logicamente
equivalenti alle corrispettive proposizioni della forma (D).
La distinzione tra le proposizioni della forma (A) e le proposizioni della forma (B) è assai
fondamentale, e la sua mancata osservanza ha portato a errori gravi.
Procedo a discutere alcune delle conseguenze di questa distinzione. Facendo così
discuteremo in effetti un numero di problemi che sono in se stessi di una certa importanza.
Nella sua Introduzione alla semantica, Carnap dice:
Si aggiunga un commento riguardo al modo di usare il termine ‘vero’ in queste
discussioni… Qui noi usiamo il termine in tal senso che asserire che una frase è vera
significa la stessa identica cosa che asserire la frase stessa; ad esempio, i due enunciati
1
Ma vedi la nota precedente [non inclusa nella dispensa: aggiunta di Davies].
F.P. Ramsey, “Facts and Propositions”, Aristotelian Soc. Suppl. Vol., 7 (1927), ristampato in F.P. Ramsey, The
Foundations of Mathematics and Other Logical Essays (Londra, 1931), pp. 142-3.
2
83
Lewy, Significato e modalità
“La frase ‘La luna è sferica’ è vera” e “La luna è sferica” non sono altro che due
formulazioni della stessa asserzione.3
Un po’ più avanti nella stessa pagina Carnap afferma che naturalmente questo non
costituisce una definizione del termine “vero”, bensì un criterio con il quale giudichiamo
l’adeguatezza di una definizione di verità, vale a dire se essa si accorda o meno con le nostre
intenzioni. E egli procede a dire che, se una definizione di un predicato Pri viene proposta
come una definizione di verità, noi la accetteremo come una definizione adeguata se e solo se,
in base a questa definizione, Pri soddisfa la summenzionata condizione, vale a dire che essa
produce frasi come ““La luna è sferica” è … se e solo se la luna è sferica’, dove Pri (ad
esempio “vero”) viene messo al posto di “…”.4
Risulta dunque chiaro che Carnap interpreta il “se e solo se” della condizione di
adeguatezza di Tarski nel senso almeno di “strettamente implica ed è strettamente implicato
da”. In realtà lo interpreta in un senso ancora più forte, quello in cui le proposizioni:
La frase “La luna è sferica” è vera
e:
La luna è sferica
sono identiche. Ma io non prendo atto di questo e lo interpreterò nel senso dell’interpretazione
meno impegnativa indicata sopra.5
Implicitamente Quine adotta la stessa identica interpretazione nella sua recensione nel
Journal of Symbolic Logic a un articolo di E.J. Nelson.6 Quine dice:
In esordio a questo intervento, ho dimostrato che non è necessario permettere l’inferenza a
‘a esiste’ a partire da ‘fa’ e da ‘~fa’. Ci risulta una direzione di pensiero, alquanto curiosa e
tangenziale a questo punto, che merita di essere menzionata in conclusione. È la seguente:
anche se non si può desumere ‘a esiste’ a partire da ‘fa’ e da ‘~fa’, si può desumere ‘‘a’ è
significativo’, e non è che questo risuscita il problema originale sotto un’altra forma?7 Una
risposta possibile è che ‘‘a’ è significativo’, se vero, è analitico, in modo tale che ‘fa’ e
‘~fa’ possono coumnque essere contraddittori; ma prima di accontentarmi di una risposta
simile avrei voluto un’analisi soddisfacente della significatività. Una risposta alternativa è
quella secondo cui non si può desumere ‘‘a’ è significativo’ a partire da ‘fa’, ma solo a
partire da ‘‘fa’ è significativo’. Ma rimane la contro-risposta che ‘‘fa’ è significativo’
consegue da ‘‘fa’ è vero’, e ‘‘fa’ è vero’ consegue da ‘fa’. Paradossi che sorgono intorno
alla parola ‘vero’ non sono, però, una novità.
Per chiarire meglio questa vicenda, prendiamo un esempio specifico.
3
R. Carnap, Introduction to Semantics (Cambridge, Mass., 1942), p. 26.
Chiamerò questa condizione ‘la condizione di adeguatezza per una definizione di verità di Tarksi’ o, per
brevità, ‘la condizione di adeguatezza di Tarksi’.
5
Discuteremo più avanti la tesi di Tractatus-Carnap secondo cui equivalenza stretta è una condizione sufficiente
(oltre che necessaria) per l’identità di proposizioni.
6
W.V.O. Quine, Review of E.J. Nelson, “Contradiction and the Presupposition of Existence”, Journal of
Symbolic Logic, vol. 12 (1947), . 55.
7
Il ‘problema orginale’, che non discuteremo, verteva sulla questione se ‘fa’ e ‘~fa’ siano contraddittori o meno.
Langford ha affermato che non lo sono adducendo il fatto che entrambi implicano “(Åx). fx ⁄ ~fx” e “a esiste”,
che non sono necessari.
4
84
Lewy, Significato e modalità
Consideriamo:
(1) La luna è sferica
(2) La parola “sferica” è significativa
(3) La frase “La luna è sferica” è significativa
(4) “La luna è sferica” è vera
Il paradosso di Quine è dunque il seguente:
(A)
(1) → (4);8
(B)
(4) → (3);
(C)
(3) → (2).
Per la transitività di →, dunque,
(D)
(1) → (2)
Ma (D) è paradossale. Naturalmente, come faccio spesso anche io, Quine usa “paradossale”
in questo contesto nel senso di “in conflitto con le intuizioni”. (Questo è un uso comune,
legittimo e persino importante della parola “paradossale”. Naturalmente a coloro ai quali
mancano di intuizioni filosofiche, non piace usare la parola in questo senso.)
In un articolo pubblicato sulla rivista Analysis,9 ho sostenuto che ci sono due interpretazioni
(o sensi) della frase (4). Nello specfico, c’è un senso in cui (A) è vero ma (B) è falso, e un
senso in cui (B) è vero ma (A) è falso. Non c’è però un senso di (4) in cui sia (A) che (B) sono
veri. Perciò, ho concluso che il paradosso di Quine è risolto.
Per esprimerlo in modo più completo
Senso 1
Senso 2
(A)
(1) → (4)
(A)
(1) ∉ (4)
(B)
(4) ∉ (3)10
(B)
(4) → (3)
(C)
(3) → (2)
(C)
(3) → (2)
(Do per scontato che (C) sia vero.)
Ora, nella raccolta dei suoi articoli Da un punto di vista logico,11 Quine si riferisce al mio
articolo e, in effetti, concede che non ci sia paradosso qui e che egli si sia sbagliato (pp. 137n.,
164). Non si esprime in modo molto chiaro in proposito, e io proporrò la sua opinione con
parole mie. Ma se ho capito bene, adesso ritira (A) e adotta quella che ho chiamato la seconda
interpretazione (o senso) di (4): Vale a dire, egli rinuncia al passo secondo cui (1) → (4), ma
maintiene il passo secondo cui (4) → (3).
8
[Lewy usa un segno grafico, noto come “lenza di pesce” e qui reso (per comodità dei font) con “→”, per
“implicazione stretta”, che si definisce “necessariamente non (p e non q)” o “se p allora, necessariamente, q”. Il
dibattito sull’analisi dei periodi condizionali è un topos della logica sin dalla Grecia antica che a tutt’oggi sembra
non trovare consenso. I curiosi possono consultare R. Davies, Gli oggetti della logica, Mimesis, Milano, 2009,
cap. 11. Nota di Davies]
9
C. Lewy, “Truth and Signification”, Analysis vol. 8 (1947). In realtà, l’esempio usato è diverso, ma non tanto
da influire sul punto centrale.
10
“∉” significa “non implica strettamente” [Lewy usa il segno grafico di una lenza di pesce con cancellatura].
11
W.V.O. Quine, From a Logical Point of View (Cambridge, Mass., 1953; 2a edizione rivista, New York e
Evanston, 1961).
85
Lewy, Significato e modalità
In altre parole, egli ammette che il “se e solo se” della condizione di adeguatezza di Tarski
non va interpretato nel modo in cui lui stesso e Carnap l’hanno interpretato. In effetti, egli dice
“non è necessario affermare” che enunciati della forma:
“––” è vero-in-L se e solo se ––,
dove un unico enunciato qualunque viene scritto al posto dei trattini, sono analitici (p. 137n).
Ma non dice che una volta egli stesso ha affermato tanto!12
Ciononostante, Quine sembra rimanere restio nell’accettare la mia prima interpretazione di
(4). E così sembra indicare che, nell’affermare (A) ha semplicemente commesso un errore. Io
penso che, in questo, manca di giustizia nei suoi propri confronti, e forse anche nei confronti
del mio articolo su Analysis.
Per vedere perché le cose stanno così, ci chiediamo: Come va interpretato il “se e solo se”
nella condizione di adeguatezza di Tarski? Tarksi,13 e adesso anche Quine, lo interpreta nel
senso dell’equivalenza materiale (ossia della bicondizionale verofunzionale). Ne discutiamo.
Prendiamo la seguente proposizione:
(α) La proposizione espressa dalla frase italiana “La neve è bianca” è vera ≡ la neve è
bianca14
Ho fomulato (α) usando la formula “la proposizione espressa dalla frase italiana “…”” anziché
la formula “la frase italiana “…””. Ho fatto così in parte perché mi sembra questa la
formulazione più giusta, e anche in parte perché voglio evitare l’obiezione – che non è
pertinente in questa sede – che è improprio parlare di frasi come vere o false. Chi, d’altro
canto, preferisce parlare di frasi come vere o false rimane libero di riformulare (α) di
conseguenza.
A me sembra chiaro che (α) sia vera; ma in che cosa consiste la sua verità? O, per metterla
in termini più generali, perché la condizione di Tarksi (interpretando il “se e solo se” come ≡)
è un criterio per l’adeguatezza di qualsiasi definizione di verità? Sicuramente, la condizione
non va considerata come arbitraria!
Per discutere di questo, consideriamo le seguenti proposizioni:
(1)
La proposizione espressa dalla frase italiana “La neve è bianca” è la
proposizione che la neve è bianca;
(2)
La proposizione che la neve è bianca è vera;
(3)
La proposizione espressa dalla frase italiana “La neve è bianca” è vera;
12
In comune con molti altri, Quine usa “analitico” qui (e nella sua recensione originale) per significare
“logicamente necessario”. Tornermo più avanti a discutere il rapporto tra queste due nozioni.
13
Cr. A. Tarski, “The Semantic Conception of Truth”, Philosophy and Phenomenological Research, vol. 4
(1944). La definizione di verità per i linguaggi formalizzati viene proposta in A. Tarksi Pojecie Prawdy w
Jezykach Nauk Dedukcyjnich (Varsavia, 1933). Traduzione tedesca (con nuova Nachwort) in Studia
Philosophica, vol. 1 (1936). Traduzione inglese (basata sul testo tedesco) in A. Tarksi, Logic, Semantics,
Metamathematics (Oxford, 1956). Niente di quanto detto in questo capitolo va interpretato come volto a sminuire
l’importanza della monografia di Tarksi come contributo alla logica pura. Mi sembra giusto affermare questo a
chiare lettere.
14
Uso “≡” per l’equivalenza materiale, “⊃” per implicazione materiale, “&” per la congiunzione e “∨” per la
disgiunzione [Per i simboli, cfr. Gli oggetti della logica, cit., cap. 7. Ovviamente, quando la traduzione parla della
lingua italiana, l’originale parla dell’inglese. Chiarimento di Davies].
86
Lewy, Significato e modalità
(4)
Dunque
La neve è bianca.15
(A)
[(1) & (2)] → (3);
(B)
[(1) & (3)] → (2);
(C)
Se (A), allora (1) → [(2) ⊃ (3)];
(D)
Se (B), allora (1) → [(3) ⊃ (2)]16
Da (A), (B), (C) e (D), arriviamo a
(E)
(1) → [(3) ≡ (2)]
Ma (1) è vero; e da (1) e (E), arriviamo a
(F)
(2) ≡ (3)
(F) è ovviamente equivalente a
(3) ≡ (2)
a cui applico, per motivi che si chiariranno tra poco, l’etichetta (γ).
Se posso permettermi una nota a margine, si noti che il fatto che non è vero che (3) ↔ (2)
dimostra definitivamente che (1) non è logicamente necessario. Se (1) fosse logicamente
necessario, sarebbe vero che (3) ↔ (2). Questo perché, ovviamente
{[(P & Q) → R] & ~◊~P} ⊃ (Q → R)17
E questo è un’ovvietà lampante se la mettiamo nella forma equivalente;
{[(P → (Q ⊃ R] & ~◊~P} ⊃ (Q → R).
Poiché è ovvio che qualunque cosa strettamente implicata da una proposizione necessaria è
essa stessa necessaria. Quindi, opinione assurda di A.R: White, B.H. Meldin e J.J.C. Smart,
secondo cui proposizioni come (1) sono logicamente necessaria, può essere definitivamente
scartata.
Torniamo al filo del ragionamento.
Si noti che (γ) non è ancora ciò che (α) – che non è altro che un esempio specifico della
condizione di adeguatezza di Tarksi – afferma. Ciò che (α) afferma è che (3) ≡ (4). Come
arriviamo a (α) a partire da (γ)? Ovviamente, dobbiamo aggiungere
(β)
(2) ≡ (4)
In altre parole:
15
Chi lo preferisce può rifomulare (1)-(3) come segue:
(1´)
La frase italiana “La neve è bianca” significa che la neve è bianca (e nient’altro);
(2´)
Che la neve è bianca è vero;
(3´)
La frase italiana “La neve è bianca” è vera.
16
(C) e (D) si basano naturalmente sul principio modale secondo cui se (P & Q) → R, allora P → (Q É R).
17
[Lewy usa il simbolo “◊” per “è possibile che”; quindi la formula “~◊~P” è da intendersi come “non è
possibile che non-P”, che è equivalente a “è necessario che P”. Per i simboli, cfr. Gli oggetti della logica, cit.,
cap. 10. Nota di Davies.]
87
Lewy, Significato e modalità
(γ)
(3) ≡ (2)
(β)
(2) ≡ (4)
quindi
(α)
(3) ≡ (4)
Vale a dire,
[(γ) & (β)] → (α);
quindi
(β) → [(γ) ⊃ (α)]
Orbene, se (β) non fosse logiamente necessario sarebbe vero solo che
(γ) ⊃ (α)
mentre è chiaramente vero anche che
(γ) → (α)
Quindi (β) è logicamente necessario.
In altre parole, la proposizione seguente è anche vera:
(β´)
(2) ↔ (4)
Ed è questo che Quine aveva intravvisto quando ha detto che ““fa” è vero” consegue da
“fa”, vale a dire quando ha affermato ciò che, nel mio esempio, è la premessa (A) del presunto
paradosso. Se non fosse che egli non accetta questo, e quindi non accetta la mia prima
interpretazion della frase ““La luna è sferica” è vera”, poiché questo lo impegnerebbe a
distinguere tra il significato della frase “la proposizione che …” e il significato della frase “la
proposizione espressa dalla frase “…””.
Quali sono le conseguenze di tutto ciò? Penso che le principali consequenze sono come
segue.
1. La concezione “semantica” di verità presuppone una concezione “non-semantica” di verità
– una concezione di verità, cioè, in cui “vera” si applica direttamente alle proposizioni e non
alle frasi. In altri termini, dobbiamo distinguere tra “la proposizione che … è vera” e “la
proposizione espressa dalla fase “…” è vera”.
2. Di conseguenza, dobbiamo riconoscere la distinzione tra il significato della frase:
La proposizione che …
e il significato della frase:
La proposizione espressa dalla frase “…”.
3. È chiaramente la proposizione necessaria (β) che costituisce la condizione di adeguatezza
per quella che Tarksi chiama la concezione “classica” (ossia di corrispondenza) di verità, e
non la proposizione contingente (α).
4. Nozioni modali sono chiamate in causa dal paradosso di Quine, e vanno riconosciute come
tali, nonostante le proteste di Quine.
88
Massimo Cacciari (1944-)
‘L’invenzione dell’individuo’ (1996)
lingua: italiano
edizione originale: nella rivista Micro-Mega, poi ristampato in Dialogo sulla solidarietà
con il cardinale C.M. Martini, Edizioni Lavoro, Roma, 1997
tema: l’appartenenza ad un’unità sociale
genere letterario: saggio di rivista intellettuale (‘continentale’)
Enseña el Cristo: a tu prójimo
amarás como a ti mismo,
mas nunca olvides que es otro1
Antonio Machado
Ricordiamo, per iniziare, alcune utili banalità. Essere politai nella polis non ha nulla a che fare
con l’essere cives nella civitas; essere cittadini di un moderno Stato non ha nulla a che vedere
con le due forme precedenti, e si potrebbe discutere se le diverse forme di dominio nelle quali
si esprime la moderna forma-Stato non producano, a loro volta, forme completamente distinte
di cittadinanza. Credo, inoltre, che la critica delle «soggettività forti», delle declinazioni
«totalitarie» della soggettività politica, potrà portare ormai ben poco lontano. Siamo usciti
dolorosamente dalla colpevole illusione che fossero i «grandi conglomerati tirannici» a
produrre guerra, intolleranza, inimicizia, aggressività, e che una volta, appunto, dissolti,
sarebbe stato finalmente possibile inaugurare un’epoca di pace, di convivenza, di reciproca
comprensione.
Per pensare il termine «comunità», in modo storicamente determinato, al di fuori di vuoti
dover-essere, sarà necessario ripartire dalla considerazione dell’individuo, più precisamente:
dall’invenzione dell’individualità contemporanea, intorno a cui ruota ogni contemporaneo
rapporto di dominio, inteso (e così dev’essere, simmelianamente, inteso) come scambio,
interazione (anche quando appare come pura sopraffazione del dominante sul soggetto
dominato).
Questa «invenzione» è stata spietatamente analizzata da Tocqueville, ed è a lui che è
necessario sempre fare ritorno per ogni discorso realistico, disincantato sulla democrazia.
Una «specie umana del tutto nuova» s’impone sulla scena europea. Essa è sì l’irresistibile
prodotto dell’intera storia dello spirito europeo, eppure, nello stesso tempo, ne è anche
l’oltrepassamento; ne costituisce l’inveramento e il compimento. Si tratta dell’homo
democraticus. Intollerante di ogni dipendenza, dogmaticamente certo della «naturale bontà»
dei propri appetiti (come la «scienza» economica gli certifica), egli è però anche, in uno,
costantemente bisognoso di protezione, incapace di vera solitudine, pronto perciò, non appena
i suoi «diritti» gli appaiano minacciati, a trasformarsi in massa. La sua pretesa di integrale
«libertà», che significa volontà di porre il proprio particolare interesse immediatamente come
l’universale, conduce necessariamente all’organizzazione di tali interessi, alla «palude delle
consorterie», che affermano legittimo soltanto quel potere che immediatamente li rappresenta
– e che conducono perciò alla distruzione dell’idea stessa di rappresentanza. Ma poiché una
1
[Nonostante la pletora di parole straniere – greche, latine, francesi e tedesche – contenute nel saggio, Cacciari
offre una traduzione di questo facilissimo testo spagnolo (che, peraltro nella ristampa contempla un’errore
tipografico) Nota di Davies].
89
Cacciari, ‘L’invenzione dell’individuo’
democrazia diretta, prodotto di una disgregazione individualistica, è impossibile, ovvero
conduce alla catastrofe dello stesso interesse individuale, ecco che l’homo democraticus
richiederà allora difesa, protezione, tutela con la stessa inarrestabile forza con cui rivendicava
la propria individua («empia» la chiama Tocqueville) libertà, e in termini perfettamente
indifferenti alla forma del regime politico.
L’homo democraticus di Tocqueville – affine, per tanti aspetti, all’«ultimo uomo» di
Nietzsche, e, per altri, all’«uomo del sottosuolo» dostoevskijano – rimane il grande assente nel
dibattito politico e politologico attuale. Se ne ignorano, o se ne «epochizzano», i tratti, e «si
rimuove» così il fatto che tutti i sistemi di potere contemporanei si fondano sull’
«interazione», sullo «scambio» con questa figura – che tutti i «condottieri» contemporanei
sono stati anche «condotti» dal suo inarrestabile («terrificante» per Tocqueville) avanzare.
Tocqueville riteneva che soltanto l’assuefazione ad abitudini, costumi, «sentimenti» di
giustizia e amicizia potesse bilanciarne gli effetti o, almeno, ritardarli, potesse cioè
«trattenere» il dilagare planetario di questa «specie», che percepisce tutti i propri diritti come
assoluti e che perciò, per implacabile eterogenesi dei fini, è sempre anche disponibile ad esiti
totalitari.
Ma l’appello a questi «valori», la riaffermazione di «collanti» etici o etico-religiosi, anche
quando non si mistifichino in reazionarie ideologie aristocratiche, che cosa possono nei
confronti dell’individuo estraneo in sé ad ogni foedus, che non sia visto in funzione della
gelosa tutela della propria stessa individualità? Quale patto fondamentale, quale «giuramento»
può valere per l’individuo disposto a misurarne l’efficacia esclusivamente sul metro della
indifferibilità del proprio scopo? E la democrazia contemporanea neppure sarebbe concepibile
senza l’«invenzione» di tale individuo... Da qui le aporie in cui è sempre di nuovo coinvolto il
discorso democratico; da qui il fatto stesso che le proposte di modifica o di riforma dei suoi
ordinamenti (e la democrazia è comunque processo, mai sistema) appaiono «meccanismi di
contenimento» rispetto ad una «energia» destinata sempre a trascenderli. Da qui i balbettanti
tentativi di «validazione assiologica» (Sartori) di cui essa è in grado di disporre.
(Si noti come queste aporie non si risolverebbero neppure presupponendo, fantasticamente,
una perfetta competenza-razionalità da parte dell’homo democraticus. Egli infatti potrebbe
esser convinto al differimento delle sue «spettanze» soltanto sulla solida base della fede in
programmi che ne prevedano la massimizzazione. Soltanto la fede che l’illimitato progredire
tecnologico garantirà comunque il soddisfacimento dei propri interessi potrebbe spingere, ad
esempio, l’homo democraticus ad «astenersi» dall’esponenziale crescita del suo consumo di
risorse non rinnovabili).
All’individuo contemporaneo – idiotes, e perciò stesso comune, e perciò stesso formante
sempre una «massa» di individui «uguali» – non è forse oggi possibile contrapporre
configurazioni pratico-politiche. Il «contraccolpo» alla sua storia non appare «progettabile».
Se è vero che essa è figura del compimento, necessariamente non potrà essere «superata» da
altre potenze a tale storia immanenti. E questa la fatale contraddizione di tutte le ideologie
rivoluzionarie del «secolo breve»: pretendere di «oltrepassare» l’homo democraticus
attingendo sostanzialmente a dinamiche, energie, idee che appartengono al suo stesso destino.
Tantomeno potremmo contrapporgli nostalgie regressive per «comunità organiche» – che in
tanto avrebbero senso, in quanto affermassero il primato dell’ethos-daimon (la divinità
dell’ethos) rispetto al «carattere» dell’individuo. Le idee contemporanee di «comunità» si
reggono invece sulla stessa antropologia positiva che fonda l’individualismo corporato attuale,
e perciò contrastano violentemente con quelle classiche della polis.
90
Cacciari, ‘L’invenzione dell’individuo’
Non può esservi continuità dialettica tra individuo contemporaneo e il pensiero del suo
«oltre»; intorno a tale consapevolezza andrebbe fatta ruotare una «giusta» interpretazione
dello stesso rapporto tra «ultimo uomo» e Über-mensch in Nietzsche, inquanto figura della
dépense radicale (contraccolpo della volontà di potenza, giunta al suo culmine, su se stessa;
figura della Gelassenheit) – o anche della relazione tra etico e religioso in Kierkegaard. Ma è
certo che tali figure, pur trascurando le loro interne aporie, non permettono di pensare ad
alcuna «comunità». Esse esprimono, per così dire, singolarità assolute. Da qui l’ulteriore
difficoltà: proprio quelle idee che sembrano aver più profondamente affrontato e criticato
l’homo democraticus appaiono le più indisponibili ad esser trattate politicamentepraticamente. Lo sguardo più dissacrante sull’idolatria dell’individuo non ha affatto come
scopo la costruzione né di respublicae, né di civitates, né di poleis, né di Gemeinschaften ma
piuttosto l’elaborazione di una «teoria critica» di queste stesse forme politiche. Da tale opera
di dissoluzione critica sembrano potersi «salvare» soltanto declinazioni dichiaratamente
«deboli», artificiali, convenzionalistiche dell’idea di «comunità».
91
Letture autonome
Nota: nella misura del possibile, tutti i libri e articoli segnalati sono a disposizione o nella
biblioteca di Facoltà in Sant’Agostino o presso la Biblioteca Civica «Angelo Maj» in Piazza
Vecchia. In caso di difficoltà, si contatti il docente.
Percorsi di approfondimento per i non-frequentanti
Oltre ai testi indicati nell’‘Introduzione’ sotto la voce ‘Obblighi comuni’ (p. 4), ai nonfrequentanti è richiesto l’approfondimento di un tema a scelta inerente ai testi di base. In
questa sezione, indichiamo alcune letture pertinenti ad alcuni degli argomenti appropriati a
tale scopo. Per quanto riguarda i temi più storici sono indicate delle letture dette ‘primarie’,
che richiedono attento e dettagliato scrutinio, e su cui quelle ‘secondarie’ offrono commento e
inquadramento.
Studenti intenzionati a proporre un percorso personale devono comunque leggere il
materiale di obbligo comune e, in base ad esso, consultare con il docente del corso prima di
procedere all’elaborazione della loro alternativa.
1. Il problema della conoscenza e la natura dello scetticismo
(a) Lo scetticismo antico (che cos’è un ‘tropo’ e come produce sospensione del giudizio?)
Testo primario: Sesto Empirico Schizzi pirroniani, libro I, capitoli i–xiii (= §§1-35) (qualsiasi
edizione o traduzione)
Testi secondari:
M. L. Chiesara, Storia dello scetticismo greco, Einaudi, Torino, 2003, pp. vii-xii e 159-201;
E. Spinelli, ‘L’antico intrecciarsi degli scetticismi’ in M. De Caro, E. Spinelli (a cura di)
Scetticismo, Carocci, Roma, 2007, pp. 17-38.
(b) Lo scetticismo nel mondo moderno (possiamo dubitare l’esistenza del mondo fisico?)
Testo primario: Renato Cartesio (René Descartes) Meditazioni metafisiche, I (testo nella
dispensa)
Testi secondari:
R. Popkin, Storia dello scetticismo, (1960), Il mulino, Bologna, 1995 cap. II e IX-X;
E. Scribano, Guida alla lettura delle Meditazioni metafisiche di Descartes, Laterza BariRoma, 1997, pp. 3-58.
Anche pertinenti:
R. Nozick, Spiegazioni filosofiche, (1981), Il saggiatore, Milano 1987, cap. 3, § II;
H. Putnam, Ragione, Verità e Storia (1981), Il saggiatore, Milano, 1985, cap. 1.
2. Lo statuto delle affermazioni filosofiche
(a) Le dottrine non scritte di Platone (è possibile trasmettere la saggezza attraverso i libri?)
Testo primario: il brano tratto dal Fedro di Platone (testo nella dispensa)
Testi secondari:
J.N. Findlay, Platone, le dottrine scritte e non scritte, (1974) Vita e pensiero, Milano, 1994,
pp. 27-70;
92
Letture autonome
G. Reale, Platone, Verso una nuova interpretazione, Vita e pensiero, Milano 1997 (20a
edizione) cap. IV (la paginazione varia a seconda dell’edizione);
M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino, 2003, pp. 53-65.
(b) La legge di contraddizione (si può fondare la nozione stessa di verità?)
Testo primario: il testo tratto dal libro IV della Metafisica di Aristotele (testo nella dispensa)
Testi secondari:
T.H. Irwin, I princìpi primi di Aristotele, (1988), Vita e pensiero, Milano, 1988, pp. 225-47;
P.G: Odifreddi, Il diavolo in cattedra, Einaudi, Torino, 2003, pp. 60-71;
F: Berto, Teorie dell’assurdo, Carocci, Roma, 2006, pp. 21-46.
(c) L’attrattiva del relativismo (può tutto essere relativo?)
Testi primari: il brano dal Teeteto di Platone nella dispensa
il brano di Nietzsche nella dispensa
Testi secondari:
A. Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione, (1830/1), Adelphi, Milano, 1991, pp. 13-71;
G: Romeyer Dherbey, I sofisti, (1995), Xenia, Milano, 2000, pp. 5-23;
J.R. Searle, Occidente e multiculturalismo (1995), Sole24Ore, Milano, 2008, pp. 21-77.
3. Tempo e causalità
(a) La realtà del tempo (può il tempo essere solo un’apparenza?)
J. E. McTaggart, ‘L’irrealtà del tempo’ (1908) e cap. xxxiii della Natura dell’esistenza (1927)
nel suo (a cura di L. Cimmino) L’irrealtà del tempo, Rizzoli, Milano, 2006, pp. 121-42 e
187-213;
M. Dummett, ‘Una difesa della prova di McTaggart’ (1960) nel suo Verità e altri enigmi
(1978) Il saggiatore, Milano, 1996;
R. Campaner, ‘Tempo e serie temporali: il dibattito analitico contemporaneo sulla filosofia del
tempo, Rivista di filosofia, 95 (2004)
(b) Il tempo in rapporto al fatalismo (se il futuro è fisso dall’eternità, che scelta ho?)
I testi primari presenti nella dispensa sono: il capitolo dal Sull’interpretazione di Aristotele e
le discussioni di Sant’Agostino, di Boezio e di San Tommaso.
Testi secondari:
G. Ryle, Dilemmi, (1954) Ubaldini, Roma 1986, lezione II;
M. De Caro, Il libero arbitrio, Laterza, Bari-Roma, 2004, pp. 3-86 (discute sia determinismo
che fatalismo)
Film utili per l’esemplificazione del fatalismo.
The Butterfly Effect, regia di P. Howitt, (1997)
Final Destination, regia di J. Wong (2000)
Sliding Doors, regia di E. Bress e J.M. Gruber (2004);
Donnie Darko, regia di R. Kelly (2004)
Strumenti di consultazione (anche per la stesura di una tesina)
Il materiale indicato in questa sezione non è obbligatorio per gli scopi del corso, ma può essere
utile per chi voglia orientarsi nella filosofia e costruirsi un percorso proprio.
93
Letture autonome
Gli studenti che hanno fatto filosofia alle superiori avranno studiato un manuale che può,
nei migliori dei casi (e quindi non tutti), offrire spunti bibliografici per approfondimento. Tra
questi possiamo segnalare:
N. Abbagnano, G. Fornero, Itinerari di filosofia: protagonisti, testi, temi e laboratori, Paravia,
Torino, 2002 (e poi rielaborato quasi annualmente per motivi grettamente economici).
Anche dello stesso Abbagnano sono:
Storia della filosofia, (8 voll) iniziata nel 1946 e ripubblicata dalla TEA, Torino, in edizione
economica nel 1995;
e il suo dizionario dei concetti filosofici esposti nel loro sviluppo storico:
Dizionario di filosofia (1960), UTET, Torino, 1993.
Fornero, in collaborazione con Salvatore Tassinari ed altri, ha aggiornato gli ultimi volumi
della Storia fondata da Abbagnano e ha prodotto
Le filosofie del novecento (2 voll.), Mondadori, Milano, 2002, in edizione economica dal
2004.
Altri dizionari, quali
Dizionario di filosofia (2° ed. 1993) a cura di G. Vattimo (et al.), Garzanti, Milano, 1999; e
Dizionario di filosofia, (1960) a cura di D.G. Runes, Mondadori, Milano, 1972,
forniscono informazioni anche su individui, scuole e movimenti oltre a definizioni di termini
tecnici. Per notizie su singole opere, con un breve riassunto e indicazioni sulla disponibilità di
versioni italiane, vedi
Dizionario delle opere filosofiche, (1988) a cura di F. Volpi, Mondadori, Milano, 2000.
Va notato che l’uso esteso di materiale desunto/copiato da queste fonti è facilmente
riscontrabile, e conta come plagio (vedi sotto ‘Originalità’ nel ‘Prontuario’ a p. 132).
Introduzioni generali alla filosofia
A differenza dei manuali italiani, che privilegiano lo sviluppo storico (o dossografico) della
disciplina, esiste un approccio alternativo, e dominante nel mondo anglofono, che inizia con ‘i
problemi’. Tra questi a disposizione in italiano, segnaliamo:
B. Russell, I problemi della filosofia, (1912), Feltrinelli, Milano, 1959 (un – forse il – classico
del genere);
S. Law e D. Postgate, Filosofia per tutti, (2000) Fabbri, Milano, 2001 (un libro che si
pubblicizza come ‘per tutte le età’, perché illustrato con vignette)
S. Blackburn, Pensa, (1999), Il Saggiatore, Milano, 2001;
N. Warburton, Il primo libro di filosofia, (1991), Einaudi Torino, 1998; e
T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, Il saggiatore, Milano 1996
Dello stesso Nagel sono i saggi un po’ più impegnativi, ma altrettanto stimolanti raccolti in,
T. Nagel, Questioni mortali, (1979), Il Saggiatore, Milano, 1986.
‘Parafilosofia’
Con la non-parola ‘parafilosofia’ s’intendono testi in due categorie.
In primo luogo, ci sono quelli che parlano sì di filosofi e delle loro dottrine, ma cercando di
evitare la pesantezza del discorso scolastico/accademico. Forse l’esempio più di successo di
questo genere è il romanzo:
J. Gaarder, Il mondo di Sofia, (1990), Bompiani, Milano, 1993,
che introduce la protagonista (per l’appunto una ragazza di nome Sofia) ai vari momenti della
storia della filosofia come incontri personali, e che poi fornisce il punto di partenza per il
94
Letture autonome
carteggio (genuino, a quanto pare) tra una ragazza undicenne e un professore universitario di
filosofia:
Nora K. e V. Hösle, Aristotele e il dinosauro (1996), Einaudi, Torino, 1999.
Un percorso simile viene tracciato in modi diversi (motivo per cui riportiamo i rispettivi
sottotitoli) da
W. Weischedel, La filosofia dalla scala di servizio: i grandi filosofi tra pensiero e vita
quotidiana, (1966), Cortina, Milano, 1996; e
E. Bencivenga, Platone, amico mio: i filosofi rispondono alle grandi domande della nostra
vita, Mondadori, Milano, 1997.
Dello stesso Bencivenga possiamo anche segnalare:
La filosofia in trentadue favole, Mondadori, Milano, 1991.
Negli ultimi anni sono apparsi diversi libri che adottano un formato simile a quello della
favola, in cui si passa velocemente da un argomento filosofico all’altro tramite l’uso di casi
immaginari o di attualità, cercando di esplicitare il loro contenuto concettuale. Esempi di
questo genere, oltre al libro di Baggini adottato per il corso, sono:
R. Casati, A. Varzi, Le semplicità insormontabili: 39 storie filosofiche, Laterza, Bari-Roma,
2004;
A. Massarenti, Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima (2006), ripubblicato da Il
Sole 24 Ore, Milano, 2007.
Il che ci porta alla seconda categoria di ‘parafilosofia’, costituita da scritti la cui ispirazione
deriva da temi o problemi filosofici, ma che li presenta in modi più o meno stravagante. Di
questo genere sono senz’altro i classici I viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift e
Candido (1759) di Voltaire. I testi Alice nel paese delle meraviglie (1865) e Alice attraverso lo
specchio (1872) di Lewis Carroll. Mentre gli scritti di Lewis Carroll (pseudonimo di un
matematico di professione) sono prevalentemente imperniati su paradossi logici, tanti dei
racconti del Padre Brown di G. K. Chesterton vertono sulle varie forme di fraintendimento e di
fragilità umana.
Il grande argentino Jorge Luis Borges scrisse molte parabole che illustrano tematiche
metafisiche, logiche e morali con un tocco sempre leggero ed icastico (perché, diceva, era
troppo pigro per scrivere romanzi), e che sono disponbili in varie traduzioni e collezioni
italiane. Anche divertenti sono i racconti di Achille Campanile e i saggi brevi (spesso redatti in
un primo momento per la rubrica ‘La bustina di Minerva’ sull’Espresso e poi ripubblicati in
vari volumi editi da Bompiani) di Umberto Eco.
Accanto alla ‘parafilosofia’ si collocano opere con intenti quasi puramente di divertimento,
giocando su concetti filosofici, di cui una in forma romanzesca:
D. Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, (1980), Mondadori, Milano, 1996,
che, dopo un inizio un po’ lento e macchinoso, sviluppa un’esilarante serie di gag spaziali su i
temi dello spazio e del tempo; di questo è apparso anche un film nel 2005. Segnaliamo infine
due libri americani di battute:
J.A. Paulos, Penso, dunque rido: l’altra faccia della filosofia, (2000) Feltrinelli, Milano, 2004
T. Cathcart e D. Klein, Platone e l’ornitorinco: le barzellette che spiegano la filosofia (2006),
Rizzoli, Milano, 2007.
95
Prontuario per la stesura di una tesina
Valore
Una tesina vale 5 crediti formativi universitari (CFU).
Presentazione
La tesina va redatta dallo studente stesso in lingua italiana in unica copia dattiloscritta e
consegnata con almeno quindici giorni di anticipo rispetto alla data dell’appello in cui si vuole
sostenere l’esame relativo al corso.
La rilegatura della tesina è a scelta dello studente: qualsiasi metodo (dal graffetto alla
rilegatura come brossura) è accettato purché assicuri l’integrità del testo.
La pagina di copertina, che non conta come pagina del lavoro, deve contenere le seguenti
informazioni:
cognome e nome dello studente;
numero di matricola;
titolo del lavoro;
il titolo del modulo per cui viene presentato (con codice);
numero arrotondato delle parole; e
data prevista della sessione di esame.
Se la tesina è articolata in paragrafi o sezioni, un sommario o indice può apparire insieme al
materiale di titolo e non venir contato nel totale del lavoro.
Conteggio delle parole
L’indicazione (p. 4 sopra) di lunghezza di ‘5-10 pagine’ si traduce nella realtà come segue.
Una pagina è un foglio di carta A4. Il testo va stampato in spazio 1,5 o 2 in un font
leggibile di almeno 12 pt con margini di intorno ai 2,5 centimetri in alto e basso e su entrambi
i lati (di più a sinistra se richiesto dalla rilegatura).
Con queste dimensioni, il numero delle battute a pagine è approssimativamente 2,000, e il
numero delle parole intorno alle 400. Quindi, il totale dello scritto va dalle 10,000 battute
(2,000 parole) alle 20,000 battute (4,000 parole); ogni programma di word processing ha la
capacità di contare i caratteri e le parole; chi redige il lavoro con una macchina da scrivere
manuale può stimare il totale in base ad una campione del testo.
Come già detto, la pagina di copertina è esclusa dal conteggio. In modo simile, la lista di
letture e altri rimandi, che si trova in fonda al testo, non va contato. Tuttavia, le note sono
incluse.
Originalità
Come insieme, il testo esprime il pensiero del suo autore e non va copiato o parafrasato da
qualsiasi altra fonte senza le dovute indicazioni, pena il reato (non solo accademico e morale,
ma anche legale) di plagio.
La punizione accademica per plagio varia dall’insufficienza in caso di una tesina molto
vicina a un testo pubblicato alla riduzione del voto nonostante la sua apparente qualità. Lo
studente è sempre libero di contestare un’accusa di plagio, così come il docente è libero di
sostenerla. Se lo studente non è disposto ad accettare la valutazione del docente, può sostenere
l’esame con un altro membro della commissione d’esame.
96
Prontuario per la tesina
Citazioni
La parafrasi è lecita quando chi scrive estrae il succo o la parte pertinente di un altro testo e dà
un’indicazione del punto da dove viene. La citazione è la prassi di prendere in prestito le
parole esatte di un altro testo e di riconoscerne la proprietà.
Esempio di parafasi1:
Nel capitolo XXVII del suo libro, Beccaria osserva come la pena di morte non sia efficace
come deterrente. Questo ragionamento dipende ...
Il rimando è sufficientemente preciso per gli scopi: la deterrenza è oggetto del intero
capitolo in questione e sappiamo che il libro è Dei delitti e delle pene. La parafrasi non riporta
le parole esatte del testo originale: la parola ‘efficace’ appare nel capitolo citato; la parola
‘deterrente’ non ci appare, ma è utile come riassunto.
Esempio di citazione:
Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno
scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di
servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte
contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende ...
Notiamo una serie di aspetti di questa operazione.
Primo, le parole citate vanno messe tra virgolette; queste possono essere singole (‘...’),
doppie (“...”) o a lisca di pesce («...»).
Secondo, sono le parole esatte così come appaiono nel libro da cui si cita. L’iniziale ‘n’
nella citazione corrisponde all’inizio di una frase e quindi, nell’originale è in maiuscolo. Ma,
nella citazione, appare in mezzo a una frase; quindi l’ingerenza tipografica va segnalata con
parentesi, preferibilmente, per distinguerli da parentesi già presenti nel testo, quelle quadre ([ e
]) o increspate ({ e }); se una parte della frase beccariana, ad esempio da ‘divenuto’ a ‘che è il
freno’, è da tralasciare, inseriamo tre punti di sospensione tra parentesi quadre (o increspate)
per indicare l’omissione ([…] o {…}). Se vogliamo enfatizzare una parola o una frase, si usa
corsivo (sottolineatura per chi non dispone di una stampante a getto d’inchiostro o laser) e si
aggiunge in nota ‘corsivo nostro’; qualora il testo citato contenga un’enfasi, si aggiunge
‘corsivo originale’.
Terzo, questo è un brano relativamente lungo e, di solito, quelli di oltre 30 parole vanno
messi con un rientro al margine sinistro con una riga bianca prima e dopo e senza virgolette.
Quindi, se si tolgono le parole come sopra, il risultato sarebbe:
Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno
scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che [...] è il freno più
forte contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende...
Mentre, con testo intero, si ha:
1
Gli esempi vengono presentati attorniati da una ‘scatola’ allo scopo di distinguerli dai commenti che se ne
fanno. Questa prassi NON è da copiare nella stesura della tesina.
97
Prontuario per la tesina
Beccaria osserva come,
[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e
stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa
colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti15.
Questo ragionamento dipende...
Quarto, c’è un rimando ad una nota (‘15’). Tutti i programmi di word processing sono in
grado di generare automaticamente note a piè di pagina; chi non dispone di tali attrezzature
può raccogliere le note in fondo al testo, numerate in sequenza.
Note
Le note a piè di pagine raccolgono i dati bibliografici e di solito appaiono (automaticamente)
in un corpo due punti più piccolo di quello del testo. Si scoraggia l’uso delle note per
commenti ulteriori: o la controversia è rilevante e deve trovare il suo posto nello sviluppo del
ragionamento all’interno del testo, o non è rilevante e va soppressa.
I dati bibliografici si presentano, nei limiti del possibile, uniformamente. Per gli scopi del
corso, ci sono tre categorie di materiale a stampa da prendere in considerazione: (i) testi
primari (ii) altri libri; e (iii) articoli da riviste e miscellanee (volumi che raccolgono scritti di
più autori). Siti internet vengono citati riportando l’URL.
(i) Per la maggior parte dei testi classici esiste già un sistema di riferimento standardizzato.
Ad esempio, la paginazione, con quadrante o colonna pagine, più le righe, di Platone risale
all’edizione dello Stephanus (Henri Estienne) in tre volumi del 1578, e di Aristotele a quella di
Bekker del 1831-6. Questi sistemi, consolidati e utilizzati da tutti commentatori, vengono
riportati in quasi tutte le edizioni e traduzioni moderne, e sono da privilegiare rispetto alla
numerazione delle pagine del testo che si ha in mano. Testi, come L’etica di Spinoza, che sono
suddivisi in piccole sezioni, o, come il Sulla natura delle cose di Lucrezio, che sono articolati
in libri e hanno righe numerate, possono essere citati con i numeri forniti nel testo. È
comunque da segnalare quale edizione o traduzione è stata adottata.
(ii) I rimandi a libri vanno organizzati nell’ordine:
autore;
titolo in corsivo;
nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;
nel caso, nome/i del/i curatore/traduttore/i;
casa editrice;
città di pubblicazione;
anno di pubblicazione; e
pagina/e.
Per la nota alla citazione fatta sopra, questo risulta come segue:
15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965,
pp. 63-4.
98
Prontuario per la tesina
Se la successiva citazione è alla stessa opera, il rimando può prendere la forma o
16 Beccaria, op. cit., p. 64.
togliendo l’iniziale dell’autore già citato (‘op. cit.’ significa ‘opera citata’) o
16 Op. cit., p. 64.
Se due citazioni di seguito fanno riferimento alla stessa pagina, possono apparire così:
8 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, p.
62.
9 Loc. cit..
oppure
9 Ibid..
(dove ‘loc. cit.’ significa ‘luogo citato’ e ‘ibid.’ [o l’italiano ‘ivi’] significa ‘lo stesso posto nel
testo’). Talvolta si usa ‘ivi’ al posto di ‘ibid.’. Se, dopo aver citato un’altra fonte, si ritorna a
un testo già citato, si può avere una sequenza di questo genere:
15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965,
pp. 63-4.
16 C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, Sansoni, Firenze, 1862, p. 12.
17 Beccaria, op. cit., p. 65.
O, invece di ‘op. cit.’, un titolo abbreviato (‘Dei delitti’) può servire come indicazione utile a
chi legge.
(iii) I rimandi ad articoli vanno organizzati nell’ordine:
autore;
titolo del articolo tra virgolette;
nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;
titolo della rivista o miscellanea in corsivo (o tra virgolette a lisca di pesce: questa
forma è normale solo in Italia);
nel caso di una miscellanea, nome del curatore;
nel caso di una miscellanea, casa editrice;
nel caso di una miscellanea, città di pubblicazione;
nel caso di una rivista, l’anno e il numero;
anno di pubblicazione (nel caso di una rivista, messo tra parentesi); e
99
Prontuario per la tesina
pagina/e.
Esempio di un rimando in nota ad un articolo di rivista:
2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, Rivista di Storia della Filosofia,
XLI, (1986), p. 14.
che era poi ripubblicato in una collezione degli interventi della stessa studiosa:
2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), nel suo Filosofia e scienza
nel pensiero ellenistico, Bibliopolis, Napoli, 1991, p. 153.
Supponiamo anche (in questo caso, fantasiosamente) che, come un ‘pezzo da antologia’, lo
stesso saggio viene raccolto in una miscellanea; in quel caso il rimando avrebbe la seguente
forma:
2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), in Logica ellenistica, a cura
di A.M. Ioppolo, Laterza, Bari-Roma, 2010, p. 97.
Per un articolo pubblicato per la prima volta in una miscellanea, in questo caso gli atti di un
convegno, si ha:
3 C. Natali, ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele:
Perché la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp.
190-1.
Bibliografia
In fondo alla tesina, cominciando su una nuova pagina, va messa una lista dei testi citati e
effettivamente consultati. Oltre alle letture indicate (ai frequentanti) o obbligatorie (per i nonfrequentanti), tutto l’altro materiale utilizzato nella stesura della tesina va elencato: ricerche
bibliografiche intraprendenti sono viste di buon occhio. Come già detto, l’elenco bibliografico
è escluso dal conteggio delle parole.
L’ordine della lista è quello alfabetico per l’iniziale del cognome dell’autore. E il formato
corrisponde a quello delle note con poche varianti:
(i) nel caso di un testo che ha il proprio sistema di rimandi, come Platone e Aristotele,
l’edizione o traduzione usata va citata con indicazioni del tipo di pubblicazione; se si citano
più di un testo, tutti vanno elencati;
(ii) il cognome dell’autore viene prima del nome o iniziale per osservare l’ordine alfabetico;
(iii) non si ripete il nome dello stesso autore che viene citato più di una volta, ma per il
secondo testo si mette un trattino sulla nuova riga;
(iv) nel caso di un’opera in più volumi, si indica il numero di volumi tra parentesi prima della
casa editrice;
(v) nel caso di un articolo, le pagine di inizio e di fine;
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Prontuario per la tesina
(vi) per motivi puramente estetici, si mette un rientro (di mezzo centimetro = 18pt) sulle righe
successive se il rimando si estende su più di una riga.
Così, abbiamo, ad esempio,
Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. con testo greco a fronte, a cura di G. Reale, Rusconi,
Milano, 1992.
–– Etica Nicomachea, trad. it. A. Plebe in vol. III di Opere, a cura di G. Giannantoni, (4
volumi), Laterza, Bari-Roma, 1973.
–– Metafisica, trad. it. con testo greco a fronte, a cura di G. Reale, (3 volumi), Vita e pensiero,
Milano, 1993.
Berti, E., Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari-Roma, 1992.
Jaeger, W., ‘Genesi e ricorso dell’ideale filosofico della vita’, (1928), appendice al suo
Aristotele, (1923) trad. it. A. Calogero, Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 557-617.
Natali, C., ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele:
Perché la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp.
187-214.
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